Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbandonata

Numero di risultati: 148 in 3 pagine

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LA SCAPIGLIATURA MILANESE - FRAMMENTI

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Arrighi, Cletto 1 occorrenze

Io credo che non v'abbia scena o capitolo di dramma e di romanzo che possa agir con tanta potenza sull' immaginazione di un uomo di cuore come queste poche e ghiacciate parole, lette forse nel Nuovo Emporio o nei Faits divers d'un giornale Parigino: "Jeri una povera fanciulla di diciott'anni abbandonata dall'amante s'è asfissiata col carbone nella sua soffitta." A chiunque non sia un rettile privo di sentimento balenerà attraverso la fantasia un poema di dolore e di amore tradito nella vita di quella povera creatura stroncata al primo aprirsi ai raggi del sole. Quante notti di pianto, ruggito colla faccia prona sui guanciali del povero lettuccio, prima che la tremenda determinazione le si sia impiantata nell'anima riluttante! Che uragano implacabile fra l'ultima speranza perduta e la completa disperazione! Ma quando lo sventurato tu lo conosci, quando poche ore prima gli hai stretto la destra con un: a rivederci, pregno di simpatia reciproca e forte, quando credi che, giovane qual è, sano, agiato, pieno di talento e di avvenire egli sia felice ..... Dio mio! che tremendo mistero di dolore nascosto nel più profondo del cuore deve essere stato quello che lo spinse all'atto disperato! Giunto a capo della via, vidi da lontano un crocchio di gente; ma non era sotto il balcone di Temistocle; sperai, e rallentai la corsa; sentivo nel cuore uno sgomento indicibile. Arrivai al crocchio. - Dov'è quel meschino? - chiesi a un operajo che andava sciamando: La provvidenza! Un giovane di quella fatta! E dicono che c'è la provvidenza!! - L'hanno trasportato in quella bottega - mi rispose. Vi andai, e passando quella soglia credetti di cadere d' emozione. Un cadavere sanguinoso e sconciato stava disteso su una tavola .... me gli appressai, guatandolo al lume incerto d'una candela di sego. Era Temistocle.

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IL MAESTRO DI SETTICLAVIO

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Boito, Camillo 1 occorrenze

Noi siamo oggi i due ultimi rappresentanti di una scuola di lettura, che non uscì mai da Venezia, nemmeno ai tempi del Fur- lanetto, e che è stata abbandonata anche qui da vent'anni, a dir po- co. Perché si deve credere che nella musica il mondo sia imbecil- lito, che nessuno capisca più nulla?". "Non è vero, maestro, che oggi il setticlavio sia disconosciuto" e perché lo Zen alzava la voce, il vecchio gli accennò di moderarsi, dando un'occhiata all'uscio che menava verso la stanza di Nene. "Il setticlavio anzi è in onore. Ella sa, per esempio, che la città di Arezzo deliberò di alzare, col mezzo di una colletta europea, un monumento a Guido Monaco. Quale fu la gloriosa invenzione del- l'aretino? Il solfeggio o, per dirlo con un'altra parola, il setticlavio. È vero o non è vero?". "Si può solfeggiare senza setticlavio, mio caro". "Senza setticlavio si suonerà il pianoforte, perché le note vi stan- no belle e preparate, e basta pestare sui tasti. I suonatori di piano- forte sono appunto quelli che hanno barbaramente manomesso le ragioni del canto; ma l'ugola è il solo strumento creato diretta- mente da Dio, quindi il solo davvero divino, quello che deve im- porre la regola a tutti gli altri inventati dall'uomo. Legga, maestro, questo avviso pubblicato l'altra settimana a Napoli" e di nuovo ti- rava fuori dal pingue portafogli un'ampia carta stampata. "E l'invito al congresso italiano. Veda, al proposito dei quesiti sulla musica, è proposta la riforma della scuola di canto, poiché più d'ogni altro ramo dell'arte il canto giace in umili ed abiette condizioni È scritto proprio così. Ora, come si possono mai rial- zare le sorti del canto se non si principia dalla lettura?". "Non nego che la lettura abbia la sua importanza; ma qui s'inten- de altra cosa: s'intende la purezza dell'intonazione, il modo di emettere la voce, la delicatezza del fraseggiare, l'agilità, la grazia". Maria, socchiudendo l'uscio, mostrò il suo viso stravolto. Voleva chiamare il padrone, che non la vide; e non ebbe l'animo di scuo- terlo in quel momento di distrazione e di calma. "È l'ultimo forse!" pensò la serva, tornando a chiudere l'uscio. "Ma l'avviso di Napoli ha torto" continuava il vecchio. "Il canto è quale la musica lo vuole e lo fa. Passa il tempo dei gorgheggi; entriamo nell'età della passione e del dramma. Quel giovine, che tu detesti, autore dell'Ernani e del Rigo- letto.". "Ha corrotto il canto". "Come vuoi che abbia corrotto il canto se ha dato un nuovo im- pulso alla musica? Tutto muta quaggiù. Tu sei vecchio e caparbio; ma quando diventerai ancora più vecchio, quando giungerai alla mia età, in cui ci si distacca dal mondo, allora l'animo imparziale ti lascerà vedere le virtù del presente come gli errori del passato. Io temo, a dirtela schietta" proseguiva il maestro con accento dol- ce e insinuante "temo che uno dei miei peccati sia stato il setticla- vio. La logica è talvolta un inganno; e per amore della semplicità teorica si casca nella pratica in tali complicazioni da rendere vano ogni ragionamento e ogni sforzo. Non ostinarti; accetta il posto di Milano; continua ad essere utile alla gioventù, sacrificandole un vecchiume, forse un pregiudizio". Mentre il Chisiola parlava, l'al- tro mutava aspetto. Un grande scoramento s'impadroniva di lui; era come se la molla, che lo reggeva in piedi, si fosse spezzata d'un tratto. Gli caddero le braccia, ed il volto andava perdendo la sua vivace espressione. "Anche lei, maestro, è contro di me" mormorava "anche lei mi abbandona. Non mi resta più nulla, nulla, nemmeno la mia cara idea, per la quale avrei saputo morire!". Si udì un grido acuto, straziante. Il vecchio aprì l'uscio, precipitò nella stanza vicina, traversò l'altra correndo, entrò nella camera di Nene, che era morta, guardò il viso bianco e cadde a terra privo di sensi. Era il tocco dopo la mezzanotte quando lo Zen, che aveva vagato per le vie senza saper dove andasse, giunse, guidato dall'abitudine, al Caffè della Gloria A un tavolino quattro sensali giuoca- vano alle carte. Uno di essi, appena vide lo Zen, gli gridò: "Ehi, maestro, l'abbiamo fatta grossa questa volta. È stato qui dal padrone" e il padrone russava dietro il banco "l'usciere del tribu- nale, l'amico Toni, per intimarle di comparire domattina innanzi al giudice. Due truffe alla volta, niente di meno, maestro". Lo Zen sbarrò gli occhi; avrebbe voluto capire. Il sensale conti- nuò: "Non mi faccia lo scemo adesso. C'è di mezzo un pianoforte non suo, venduto ad un Tizio. E l'altra truffa che cosa è? Non me ne rammento". Il caffettiere, svegliatosi allora allora, intervenne, sbadigliando: "Si tratta di un libro, una strenna, credo, che questo buon galan- tuomo doveva far stampare; e si mangiò il danaro. Ma dove dia- volo li caccia i quattrini, che non ha mai un soldo per isfamarsi?". "Le donnette, le donnette" vociavano i sensali, sganasciandosi dalle risa. "E noi, che davamo da mangiare a questo bel mobile!". Lo Zen era già scappato lontano. Aveva un incendio nella testa: sentiva dentro nel cervello le fiamme che guizzavano, le case che rovinavano, i pompieri che distruggevano ogni cosa con i loro enormi picconi. Acqua ci voleva, acqua. Si gettò a capo fitto in un canale. Non poté annegare; aveva fatto una giravolta, e s'era tro- vato in piedi sul fondo, col capo fuori. Non gridava, non si curava di accostarsi alla riva; anzi il fresco dell'acqua doveva essergli gradito. All'alba due muratori, che passavano in un battello, l'alza- rono su e lo condussero all'ospedale, ove fu posto nella sale d'os- servazione. Due giorni appresso, chiuso nella camicia di forza, fu condotto al manicomio nell'isola di San Servilio. Lì a poco a poco riacquistò le maniere schiette di prima, il suo buon umore e la vecchia pas- sione del setticlavio. Era incanutito, ma ingrassava. I medici e gli infermieri gli volevano bene; le suore ne' giorni di magro gli face- vano preparare, arrostita sulla gratella, un'aringa salata, e gli dava- no un bicchiere di vin buono. Aveva scelto fra i suoi compagni, tutti tranquilli, i meno malinconici, e s'affaccendava nell'insegnar loro a solfeggiare e a cantare. Le sale, i corridoi e il giardino echeggiavano spesso di voci, che ripetevano per ore ed ore: Do Re, Do Mi, Do Fa, Do Sol, Do La, Do Si Il maestro con lo scartafaccio del suo Trattato sul setticlavio batteva il tempo; e ne- gli urli dei nuovi scolari udiva le più soavi armonie, i più stupendi cori, le più perfette fughe, una musica da paradiso. Non c'era uo- mo più felice di lui.

Senso

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Boito, Camillo 1 occorrenze

Allora, abbandonata, povera, gettata in una società piena di seduzioni e di corruzioni, cascai nella finzione dell'amore. Ma la finzione dell'amore, non è amore, è odio; è l'odio anzi più vile, abbietto, pauroso, straziante che si possa provare. Quest'odio m'uccide. Il cuore intanto arde, e cerca da molti anni invano il refrigerio di un affetto violento e sincero. Ho bisogno dell'amore che brucia. Il prete, afferrando con un supremo sforzo di volontà i pensieri, che svanivano dalla sua testa, mormorò: - Calmatevi, poverina, mettete in pace la fantasia eccitata dalle sventure e dalle colpe della vostra vita. Fate di desiderare una sola cosa, il bene. Uscite da queste sozzure d'inganni e di vizii, in cui si trascina e imbratta la vostra esistenza. Tornate sola e povera, ma pentita e buona. Allora tutti vi dovranno amare, perché, amando voi, ameranno la virtù. - Anche voi, Don Giuseppe, mi amerete anche voi? E gli prese la mano, e la strinse, e il prete s'avvicinò. La donna continuava sommessamente: - Don Giuseppe, guidatemi. Insegnatemi la via, conducetemi dove vi piace. Sarò la vostra schiava. Sarò, se vorrete, la vostra santa. Il vostro cuore dev'essere grande e nobile, deve specchiare il cielo, come i vostri occhi. Mi piacete perché siete bello, perché siete candido, perché indovino che non avete mai amato, perché voglio essere il vostro primo peccato, il vostro primo rimorso. Datemi il vostro amore, Don Giuseppe, il vostro amore. La donna, arrovesciata sul sofà, teneva sempre con le due mani la mano del prete, il quale tremava dalla testa ai piedi. Il sole era tramontato; la camera diventava buia. Ma, mentre la femmina ripeteva le ultime parole, sembrò al curato che d'improvviso un soffio fresco gli passasse sul fronte; e di repente gli comparve davanti la figura tetra e sanguinosa del suo Cristo dell'inginocchiatoio, solo che il volto, anziché piegato e morto, era vivo e guardava minaccioso e fierissimo. Il prete scattò e, prima che la donna potesse pronunziare una sillaba, era uscito dalla stanza. Quando il servo con la livrea turchina e con le mostre cremisi vide scappare il prete dalla villa, quasi correndo, senza voltarsi, come se dietro le spalle lo minacciasse il demonio, sorrise maliziosamente, ponendosi l'indice della mano destra sulla punta del naso.

IL RACCONTAFIABE - Seguito al "C'era una volta …"

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

La notte, sentiva un lamento: - Ah, Reuccio, Reuccio, come m'hai abbandonata! Saltava da letto, credendo che Trottolina fosse già diventata persona viva: andava a guardarla; niente. Trottolina era tuttora di legno e stava appoggiata contro il muro in quell'angolo dove l'aveva buttata. Ogni notte però quel lamento: - Ah, Reuccio, Reuccio, come m'hai abbandonata! Il Reuccio non poteva più dormire. Ordinò che gliela levassero di camera e la portassero in cantina. Non valse. Tutte le notti, dalla cantina sentiva fino in camera sua quel lamentio. - Non vuoi chetarti? Aspetta: ti concio io! Scese in cantina con un'accetta, per fare in pezzi trottola e Trottolina; ma alla vista di lei, che era così bella e graziosa, sentì intenerirsi il cuore. Era cresciuta tanto che pareva una bella ragazza di diciotto anni; e ora, per far girare la trottola ci voleva molta forza. Non si trattava più d'una Trottolina, ma d'un trottolone, e invece d'un laccetto, occorreva proprio una fune. I genitori del Reuccio erano morti; il Re era lui. Mancava la Regina; e i Ministri gli dissero: - Maestà, il matrimonio con Trottolina non regge: sposate una donna vera. Il Re si lasciò persuadere e risolvette di sposare la Reginotta di Spagna. Il giorno delle nozze, la Reginotta di Spagna si sentì male tutt'a un tratto e in poco d'ora morì. Il Re se n'accorò. La notte, il solito lamentìo: - Ah, Reuccio, Reuccio, come m'hai abbandonata! - Non sono più Reuccio. Aspetta: ti concio io! Scese in cantina, prese delle fascine, le messe torno torno alla trottola e a Trottolina e vi appiccò il fuoco. Una vampata; ma la trottola in fiamme cominciò a girare a girare, mettendo fuoco a ogni cosa. Saliva le scale, correva per tutte le stanze del palazzo reale, e dove passava attaccava il fuoco. In un attimo il palazzo fu in fiamme. La trottola girava e Trottolina parlava: - Buon giorno, Maestà! Buona notte, Maestà! Il Re le correva dietro, tentando di spegnere le fiamme: - Fermati, Trottolina! Ma si bruciacchiava le mani inutilmente: Trottolina non si fermava; e sembrava lo canzonasse col suo: - Buon giorno, Maestà! Buona notte, Maestà! Attorno al palazzo c'era una gran folla, accorsa per spegnere l'incendio. Chi attingeva acqua, chi portava le secchie, chi le vuotava; fatica sprecata: più acqua buttavano e più le fiamme prendevano forza; salivano fino al cielo. Dal gran fumo non ci si vedeva. E tutti piangevano il Re che doveva essere carbonizzato a quell'ora, insieme coi Ministri e le persone di corte. Quando fu giorno, invece che si vide? Nel luogo del palazzo reale c'era un magnifico giardino, e più in là un altro palazzo reale, al cui confronto quello bruciato sarebbe parso una bicocca. E pei viali del giardino il Re e Trottolina, diventata persona viva, di carne e d'ossa, che presi per mano passeggiavano come se nulla fosse stato. Trottolina diceva scherzando al Re: - Buon giorno, Maestà! Buona notte, Maestà! Ma non girava più; non aveva più la trottola sotto i piedi. Ora che Trottolina non era di legno, il Re la sposò per davvero. E furono marito e moglie; A loro il frutto, e a noi le foglie.

EH!La vita...(Novelle)

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Capuana, Luigi 2 occorrenze
  • 1913
  • Tipografia agraria
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Aveva abbandonato, l'avevano abbandonata, brutalmente. Con certe dorme noi non ci crediamo obbligati neppure ad essere persone educate, non dico indulgenti. La colpa era stata un po' sua; molto di altri che l'avevano stimata cosa, non creatura umana. Così la perversione si era insinuata nel suo cuore, nel suo carattere. Credevo di essere arrivato a scancellarne ogni traccia. Eh, sì! La donna è un abisso senza fondo. " Non ne potevo più. Il sospetto finalmente era diventato certezza! Eppure osavo ancora di lusingarmi. "Ho pensato sempre che la donna che tradisce è un rettile sozzo - anche l'uomo, s'intende; non voglio accordarmi privilegi. Bisogna schiacciarli col piede. Ma quando si ama! Il terribile è appunto questo: quando si ama!... " Lidia doveva credersi sicura di non poter essere non che scoperta, sospettata. Era allegra; canticchiava, diceva cose buffe delle quali rideva anche prima di metterle fuori; non si accorgeva del mutamento avvenuto in me, da qualche giorno. Che significava? Che non glie ne importava niente. "Ieri le dissi a bruciapelo: " - Tu mi tradisci! " - Ti tradisco? - rispose. - Faccio quel che mi pare. Non sono una schiava. " E siccome io le sbarravo gli occhi in viso, quasi atterrito di tanta spudoratezza, soggiunse: " - Perché sono la tua amante? Anche tu hai goduto di avermi indotta a tradire un altro. Vuol dire che è lecito, che è permesso. Non fare il ragazzo. " - Lidia! - le gridai. - Lidia! " Riprese a canticchiare, come se il mio grido di suprema angoscia non le fosse penetrato negli orecchi, non fosse arrivato al suo cuore! "Il momento era quello: un lampo mi aveva attraversata la mente e fatto fremere da capo a piedi; le mie dita si erano contratte come artigli che si apprestavano ad afferrare, a stringere, a dilaniare... Non avrei dovuto lasciar trascorrere quel momento di bestiale ferocia; e a quest'ora!.... Si vede che, fin nelle più grandi crisi della nostra intelligenza, veglia, potentissimo, l'istinto della personale conservazione. Mi vidi arrestato, condannato.... ". - Qui ci sono otto righi scancellati in maniera da non potersi affatto leggere. - Non importa; prosegui - disse Borelli. Insomma, l'ha ammazzata? Non l'ha ammazzata? - Ho letto soltanto fino a questa quinta cartella. Ha mutato penna e inchiostro. Qui si parla dei preparativi; mette i brividi addosso per la freddezza con cui scrive: " No; deve accorgersi che sconta una colpa; deve vedersi morire e sapere perché. Desdemona, avete detto le vostre orazioni? Lidia forse non ha pregato mai. Forse nessuno le ha mai fatto comprendere che si possa, che si debba pregare. Meglio così. Non ci saranno indugi. La giovinezza? Ci son donne invecchiate senza aver mai provato nè goduto la più piccola parte di quel che ha goduto e provato costei; donne oneste, donne buone che invece hanno sofferto, hanno pianto... Lidia, avete detto le vostre orazioni? Le parrà una parodia, e sarà una tragica verità. Perché queste parole dello Shakespeare mi tornano insistentemente alla memoria? Non morrà soffocata come Desdemona, tra due guanciali; sarebbe troppo onore per lei far la fine della buona moglie del Moro di Venezia... Morrà annegata, precipitata tra gli scogli... Ho visitato questa mattina la località.... ". " Signor Procuratore del Re... ". - Ecco disse Coraldi. - Arrivato fin qui non ho avuto coraggio di andare avanti, anche perché ieri sera ho letto nel giornale il rinvenimento del cadavere di una bella giovane annegata non si sa ancora se per suicidio o per delitto. . - La povera Lidia?.... Leggi, leggi! - fece Borelli. : Coraldi aperse la penultima cartella, scritta su mezzo foglio di carta protocollo. Gli tremavano le mani nel tenerla spiegata: "Signor Procuratore del Re. Giustizia è stata fatta! - come si diceva una volta. " - Che bel chiaro di luna! - ella esclamò. " - È l'ultimo che tu vedi! " - Perché l'ultimo? " - Perché devi morire! Non tradirai più nessun altro!... " Eravamo in cima agli scogli: la spiaggia era deserta. Il mare un po' agitato, pareva assalisse gli scogli con ondate di spuma. " Dalla cupezza della mia voce, dal mio viso sconvolto, ella ha capito che non si trattava di una stupida finzione. " Si è afferrata al mio braccio, ha tentato di tornare indietro, di sfuggirmi.... Una vigorosa spinta... Stetti a guardarla, quasi non fosse la creatura che ho più amata in vita mia: mi pareva di assistere ad uno spettacolo, a una finzione d'arte. Le ondate la sballottavano, l'avvolgevano, la sopraffacevano. Due o tre volte mi chiamò per nome; poi si abbandonò, affondò lentamente, non ricomparve più!... Giustizia era stata fatta! "Era bruna di capelli, ma aveva voluto ridursi bionda... Il sale marino forse corroderà la tintura; l'avverto di questo, signor Procuratore del Re, pel riconoscimento del cadavere, se mai dovesse accadere! ". Coradi era così commosso da non aver coraggio di continuare la lettura. - E il cadavere trovato è di una bionda? - No; di una bruna - rispose Coraldi. - Ma costui è pazzo! - esclamò Borelli. - Ragiona troppo freddamente. C'è la sua firma in fondo? - No. - Finisci di leggere. Coraldi prese in mano l'ultima cartella, mezzo foglietto di carta da lettera: " Signor Procuratore del Re Re"Le ho descritto l'annegamento... come, secondo il mio progetto, avrebbe dovuto accadere. Per fortuna mia, della sciagurata, e un po' anche di lei, magistrato, che così non avrà noie per cagion mia, durante la nottata ho lungamente riflettuto. Mi son detto: - Non ti basta di sentirla morta nel tuo cuore? Dovrebbe bastarti! " Mi sembra di essere diventato un altro, un uomo, mi sembra.... Sono quarantotto ore che non prendo cibo.... Vado alla trattoria...". - L'ha fatta finire così? Brava, Lidia! Non ti meritava! Borelli era indignato. Coraldi non rinveniva dallo stupore. - Atterrito tanto! Conciato dalla pioggia! - pensava con rabbia. - E se ne va alla trattoria! Non sapeva darsene pace!

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E restò là a guardare il Crocifisso tutto piagato, tutto insanguinato, con la testa coronata di spine abbandonata su la spalla destra, quasi attendesse da esso una parola, un cenno di risposta, che lo assicurasse: Ci penserò io! Si riscosse tutt'a un tratto, maravigliato di non essersi accorto che la messa era terminata e che il sagrestano aveva già spento i ceri dell'altare. Ah! fu certo un' ispirazione di Gesù crocifisso quella che lo spinse ad entrare nella stalla dalla porta interna. Dié un urlo alla vista, del nipote che penzolava dalla corda legata a una trave, dando gli ultimi tratti agitando le gambe e le braccia. Montare su lo sgabello rovesciato per terra, cavar dì tasca il coltello, tagliar la fune e cascar giù assieme col disgraziato fu l'affar di un momento. - Chi mi dié la forza di liberarmi del suo peso - raccontava Sanguedolce, poco dopo, alla gente accorsa ai suoi gridi - e di slegargli il nodo della corda attorno al collo? Non osava di rimproverare il nipote che, steso sul letto, respirava ancora affannosamente. Poi, quando lo vide in piedi, con le lagrime agli occhi pel dispetto di essere stato salvato, gli disse soltanto: - Non dubitare. Vado ora stesso da Lagnu- Lagnu-sazzu e torno sùbito con la risposta. E andò difilato, quasi di corsa. - È vero? - gli domandò Lagnusazzu. Lagnusazzu.- Verissimo. Voi.... che ne dite? Gli tremava la voce, aveva gli occhi smarriti. - Per me.... - Acconsentite dunque?... Con la coscienza tranquilla? - Se Tana dice di sì.... - Lo sapete bene che dice di sì!... Parlo per voi.... - Io?... Li benedico con tutte e due le mani. E anche sua matrigna.... E se volete far presto, tanto piacere. - Dice che siete voi che non volete - intervenne la seconda moglie di Lagnusazzu. Lagnusazzu.- Giacché vostro marito... ha la coscienza tranquilla.... - Ma che discorso è questo? - fece Lagnu- Lagnu-sazzu - spiegatevi.... - Niente. Lo avete visto: è mancato poco che mio nipote non si ammazzasse. Vuol dire.... che c'è la volontà di Dio! E portò la lieta risposta. Da quel giorno in poi però Sanguedolce parve diventato un altro. Aveva detto al nipote: - Non voglio mescolarmi di niente; fa tu, a modo tuo, disponi tu. Tu sei padrone del tuo e del mio. Da oggi in poi, per questi ultimi pochi mesi, non voglio più essere tutore. Alle faccende di campagna baderò io. Tu fa lo zitu (1). Luciano era così felice che non si accorgeva della grande amarezza che c'era nelle parole e nel tono della voce di suo zio. Non si accorgeva dell'aria trasognata del povero vecchio, che gesticolava e borbottava senza far capire che cosa gli passasse pel capo; e pareva che cascasse dalle nuvole se qualcuno gli domandava: - Che avete, zi' Sanguedolce? Sanguedolce?- Che volete che abbia? La vecchiaia che trascino. Infatti pareva invecchiato tutt'a una volta. Pri-ma, aveva il motto allegro, la barzelletta pronta. Durante la mietitura o l'abbacchiatura delle olive, durante la vendemmia, zi' Sanguedolce rallegrava gli uomini e le raccoglitrici con certe sue storielle maliziose che facevano sbellicar dalle risa. Ora, o stava muto, con gli occhi fissi, sbalorditi, quasi vedesse chi sa che brutte cose, o scoteva il capo e borbottava parole inintelligibili di risposta a qualcuno che lo interrogasse non visto. Si cominciò a spargere la voce che a zi' Sangue- Sangue-dolce avesse dato volta il cervello. Il canonico Spano, incontrato Luciano gli disse: - Tu hai la testa alla zita, e non ti curi di tuo zio. È venuto da me questa mattina. Mi ha fatto pietà. - Che abbiamo, compare Sanguedolce? Non vi dispiaccia se vi chiamo così. - Abbiamo... che quando c'è la volontà di Dio è inutile opporsi; avviene quel che deve avvenire... È vero, signor canonico? - Certamente, compare. - Anche nelle cose storte, è vero, signor canonico? - Non sono storte, se Dio le permette; sembrano storte a noi. - Sarà!... Sarà!... Ma io dico che sono storte. Stiamo a vedere, fino all'ultimo.... Ci penserà lui a rimediare.... Ero venuto per confessarmi. Stiamo a vedere... - A vedere che cosa? - Parlava come se le parole gli uscissero di bocca senza che egli comprendesse quel che diceva. Mi ha fatto pietà. - Che posso farci, signor canonico? È l'età, forse... E poi ce l'ha con me per via del mio matrimonio. Perché? Mi ci perdo. Ho fin sospettato... Quando si è vecchi.... Avrebbe voluto sposarla lui? Il canonico lo fissò, colpito. - Tutto può darsi... Mi ha fatto pena, ti dico! Vedendo che lo zio non gli accennava più alle nozze imminenti, Luciano, quasi per provarlo, gli annunziava: - Oggi siamo stati al Municipio per la richiesta. (i) Zitu fidanzato e anche sposo novello. - Quando c'è la volontà.... di Dio!.. - Oggi se n'è detto in chiesa la seconda volta... - Quando c'è.... la volontà di Dio! Rispondeva con una specie di ringhio, alzando le spalle. - Ah, zio! Mi fate il malaugurio! - gli disse Luciano col pianto nella gola. - Ci sposiamo domani I Quella sera, tardi, il canonico Spano che diceva in camera l'uffizio - ed era in maniche di camicia con lo zucchetto in testa, dal gran scirocco - vide arrivare lo zi' Sanguedolce, torbido in viso, che gli si buttò in ginocchio dal lato del seggiolone a bracciuoli. - Voglio confessarmi!... - Tanta fretta? - Confiteo Dio onnipotente.... - Chiudete almeno quell'uscio.... - Non importa. Dunque... sigillo di confessione. Prima fu mio fratello che mi disse: - Questo figlio mi è cascato dal cielo! - Non ne sapeva niente, poveretto!... Voleva fare, voleva dire.... Ammazzare, squartare.... Fu prudente: - e il dolore gli fece groppo allo stomaco: ne morì. - Lasciamo andare - lo interruppe il canonico. - Veniamo ai vostri peccati. - Poi - continuò Sanguedolce, con la voce che gli tremava - fu lei, sua moglie, due mesi dopo, in punto di morte: - Badate, cognato! Luciano è figlio di.... Lagnusazzu. Badate, cognato!... Peccato grande! L'ho scontato. - Ecco perché!... Ecco perché!... E scattò in piedi, guardandosi attorno, atterrito che qualcuno avesse potuto udirlo.... - Non c'è più dunque Gesù Cristo lassù? No, non c'è più? - Non bestemmiate!... Il canonico non sapeva che credere. Quel pazzo diceva la verità o ripeteva una orrenda fissazione? Tentò di calmarlo, di convincerlo che s'ingannava. Ma Sanguedolce rispose soltanto: - Glielo dica lei, nella messa, a Gesù Cristo. Che ci fa dunque là, in croce, su l'altare? - Non bestemmiate! Il vecchio era scappato via, barcollante, senza neppur salutarlo. - Che misera cosa è la nostra mente! - esclamò il canonico Spano, rinvenendo dallo stupore. E riaperse il breviario. Gli sposi, i parenti e il corteo degli amici, in attesa che il parroco uscisse di sacrestia, si comunicarono sottovoce, meravigliati: - C'è zi' Sanguedolce! C'è zi' Sanguedolce! Sanguedolce!Lo avevano scoperto, rannicchiato dietro una colonna. Luciano, commosso, andò a prenderlo per una mano, dicendogli: - Grazie, zio! Gli amici lo circondarono, Lagnusazzu, col pancione sporgente dalla giacca nuova di panno bleu, bleu,lo invitò a sedersi accanto a lui, ripetendogli: Bravo! Bravo! - soddisfattissimo. Sanguedolce agitava lentamente la testa, senza dire una sola parola, come se avesse un meccanismo nel collo. E si lasciò condurre a braccetto in casa della sposa. Tutti mangiavano dolci, càlia (2), bevevano vino di Vittoria, facevano brindisi: lui, zitto, con gli sguardi fìssi su gli sposi quasi ne sorvegliasse ogni movimento. Quando però vide Luciano che, abbracciata la sposa stava per baciarla al cospetto di tutti, scattò come una belva e si slanciò su la giovine, urlando: No! No! È sacrilegio!... Dio non vuole! Nella gran confusione, credettero che Tana fosse svenuta dallo spavento.... Un fiotto di sangue le usciva dalla gola squarciata. Sanguedolce aveva buttato via il coltello e gridava a Lagnusazzu. Lagnusazzu.- Infame! Tu lo sapevi, tu lo sapevi!.... Fratello e sorella! E li hai fatti sposare! E sùbito si batteva violentemente con una mano su la bocca, imprecando a se stesso: - Ah! Doveva cascarmi la lingua, doveva! (2) Càlia,ceci abbrustoliti.

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GIACINTA

662518
Capuana, Luigi 5 occorrenze

La sua fanciullezza abbandonata le si aggravava sul cuore terribilmente, coi piú vivi particolari, rimescolandola tutta. E quando le passava dinanzi agli occhi l'immagine di Beppe, con quel testone nero e quelle pupille nere che l'avevano tenuta cosí sottomessa, sentiva vibrare per tutto il corpo una sensazione strana, d'inesplicabile tenerezza verso quell'unico amico della sua infanzia che l'aveva tanto divertita e le aveva voluto un po' di bene! E i baci di quelle labbra carnose le rifiorivano, caldi, per un istante, sulle gote insieme colle carezze delle ruvide mani di lui. Cosí le si accresceva la smania di rivedere i luoghi dov'era trascorsa la sua fanciullezza, cari luoghi che dopo cinque anni di lontananza già prendevano nella sua immaginazione proporzioni grandiose, splendori abbaglianti. Che altro le avrebbero rammentato quel ripostiglio, quegli alberi, quei viali, quel chiosco del giardino di cui le pareva di poter contare ancora sulle piante rampichine, i viticci spenzolanti e le foglie ad una ad una? Ma l'assaliva lo sgomento: - Ah! ... La sua mamma non le voleva bene! Pensando a questo, subito le si gonfiavano gli occhi di lagrime. - Perché non le voleva bene? Perché? E dal dispetto, sentiva seccarsi il pianto. - Sarebbe arrivata a odiar la mamma? E tremava.

Son cresciuta fin oggi quasi abbandonata a me stessa; lasciami continuare cosí. Non dubitare, non avrai noie per cagion mia. Le mie idee non sono assurde, vedrai ... Ma lasciami libera, assolutamente, te ne prego! ... In ogni caso, dovrò prendermela soltanto con me. Aveva parlato a scatti, quasi facesse uno sforzo per frenar le parole, tenendo bassa la testa, con gli occhi fissi al pavimento, stirando qua e là convulsamente le pieghe sul davanti del vestito; e la signora Marulli seguiva macchinalmente con lo sguardo quel significativo arrabbattarsi delle mani di sua figlia, intanto che ogni parola di essa le martellava sul cuore; poi si rizzò, dominandosi a stento. - Per ora in casa comando io! - disse con la voce turbata - Che t'immagini? ... Che ti si è dato a intendere? ... Son forse queste le lezioni apprese in collegio? - Il collegio ci rende quali ci ricevette! - rispose Giacinta. - Sei un'ingrataccia! - No, mamma. - Un'ingrataccia! ... - replicò la signora Teresa. - Ma, bada, ve'! È bene che tu lo sappia: a me i romanzetti non garbano punto. So come troncarli: tientelo per detto. - Se tu credi che io abbia dei romanzetti pel capo! - Che significa dunque quel: lasciami libera? - Te lo spiegherei se tu fossi piú calma. - Sono calma, calmissima; ci vuol altro per agitarmi. Che significa dunque? ... E aspettava la risposta mordendosi il mignolo, col gomito appoggiato sull'altro braccio piegato sotto il seno, scotendo irrequietamente un piede ... Giacinta esitava. - Significa - poi disse - che l'avvenire è ancora lontano ... ; che, per ora, né io né te dobbiamo ... legarci le mani. Credimi, ho in orrore la società, benché la conosca assai poco ... Non darti pensiero di me ... Se dovrò prender marito, non prenderò che una persona di mia scelta, risolutamente ... a costo di farti dispiacere ... Ma non lo prenderò, mamma ... Ho un presentimento ... Che so? ... Ecco ... non riesco a spiegarmi ... Non darti piú pensiero del mio avvenire ... Non ci penserò nemmeno io ... Qualcosa nascerà ... vedrai ... Però, te lo ripeto, non avrai noie per cagion mia ... Lasciami fare ... anche una sciocchezza! Che te ne importa? ... La signora Teresa non aspettò che terminasse; le voltò le spalle, sbatacchiando l'uscio con violenza. E Giacinta ricadde abbandonatamente sulla seggiola, sfinita dallo sforzo fatto e quasi sgomenta della piena coscienza di sé stessa acquistata in quel punto.

Elvira, sopraffatta da un repentino nodo di tosse, diventata livida in viso, s'era abbandonata sul canapè, portando il fazzoletto alla bocca. - Non è nulla, - si affrettò a dire, rimettendosi quasi subito. - È passato: non è nulla. Ma non poté nascondere il fazzoletto senza che Andrea non si accorgesse della macchia rossa rimastavi impressa. La signora Emilia era scappata via per non farsi vedere dalla figlia con le lagrime agli occhi. Andrea posò le carte sul tavolino: - Si riguardi; continui la cura ... - Non prenda ora questa scusa ... - È impossibile; non saprei piú far nulla. Rimandiamo il miracolo a un'altra volta. Ma si riguardi, si riguardi!

Giacinta trovavasi nel suo salottino, abbandonata sulla poltrona, in uno di quei deliziosi abbattimenti che le montavano all'improvviso dalle viscere agitate. Vedendo entrare sua madre come un colpo di vento, lasciò cascare il libro di mano; e il braccio le spenzolava fino a terra, mollemente. - Ma, dunque, hai perduto la testa? La signora Teresa le si era piantata dinanzi, con le braccia in croce, ancora pallida dalla rabbia. Giacinta la guardava, sollevandosi a poco a poco sulla vita, già indovinando: ma rispose: - Perché? - Me lo dimandi? ... Gerace ha rinunziato al suo impiego ... E il tono della voce lasciava capire: e siete stati d'accordo! - Fa quel che gli pare e piace. - È un miserabile, se si rassegna ... a lasciarsi mantenere da te! La signora Marulli alzava la voce, minacciava con la mano. - Mentono! - disse Giacinta. Aveva bisogno di negare, per contenersi, per farsi forza. Sugli occhi le passavano larghe ondate di nebbia; alla gola aveva un nodo. E si contorceva sulla poltrona, si mordeva a sangue le labbra per impedire che la piena di terribili rimproveri, gonfiatasi a un tratto nel suo cuore, non irrompesse, insultando. - Mentono? - replicava la signora Teresa con feroce ironia. - Mentono? ... Tanto meglio. Conviene smentirli. - Certe calunnie non le raccatto. Egli, forse le ignora. - Sarà bene che tu l'avverta. - No. Varrebbe come dirgli: allontanatevi di casa mia. Non voglio abbassarmi fino a questo; farei troppo piacere a taluni. E una smentita che non fosse spontanea non avrebbe, in questa circostanza, nessun valore per me. La signora Teresa era ammutolita: - Come? Non rispondeva altro? Alzava le spalle? - E se colui - riprese a dire, tornando ad alterarsi - insiste nella sua rinunzia! ... Oh, insisterà! ... Insisterà! Poiché tu lo mantieni! Glielo buttava in faccia con tutto il disprezzo della sua collera, come una lordura, mentre sua figlia, a mani giunte, cogli occhi desolati, balbettando, la supplicava di tacere. - Poiché tu lo mantieni - ella replicava, calcando la voce. - Dovrei, forse ... farmi mantenere da lui? - Oh! ... La signora Teresa s'era sentita colpire al petto, a bruciapelo; e barcollò, brancolando per trovare una seggiola. - Mamma! Mamma! Giacinta, che s'era slanciata a sorreggerla, l'aiutava a sedersi. Avrebbe voluto mozzarsi la lingua, avrebbe voluto scancellare perfino dall'aria l'insulto sfuggitele di bocca: - Mamma! Mamma! Ma la signora Teresa, respingendola, si voltava dall'altra parte per evitarne gli sguardi. Non poteva parlare; era la prima volta che si sentiva addirittura vinta, calpestata; e le pareva di morire. - Mamma, mamma, perdona! - singhiozzava Giacinta, inginocchiata ai suoi piedi. - Un sorso d'acqua! - disse la signora Teresa. E mentre quella correva di là, per servirla con le proprie mani ed evitare le indiscrezioni delle persone di servizio, ella s'andava tastando la testa, come se vi sentisse il dolore di un colpo di mazza piombatovi su. Giacinta le accostò, trepidamente, il bicchiere alle labbra; poi, intinta nell'acqua la punta d'un fazzoletto, le bagnava la fronte e le tempie. Sua madre la lasciava fare, ad occhi chiusi, concentrata, rimproverandola soltanto con lunghi tentennamenti di testa. - No! Sta' zitta! - le ripeteva Giacinta. - Ne riparleremo. Non devi pensarci ... Perdona! - È finita! - rispondeva la signora Teresa svincolandosi dalle mani che tentavano di trattenerla ancora. - Questo è un colpo che mi uccide! Lo sento qui, nel cuore! Fa', fa' pure a tuo modo! - aggiungeva quasi calma, ma piena di durezza. - Non posso impedirtelo ... È già un pezzo che non mi dài retta. Te n'avvedrai appresso, povera illusa, tu che ti fidi dell'amore d'uomo come quello! Oh, fa' pure! ... Non ti dirò una sola parola: aspetterò. Quando avrai finito di trascinare nel fango il tuo nome, il tuo onore, la tua fortuna, per metterli sotto i piedi di quel miserabile ... sí, miserabile! Vedi? lo dico senza sdegno ... - Zitta, mamma! ... Zitta! - Quando i nostri nemici, t'avran vista arrivare dove neppure il loro odio avrebbe creduto possibile che tu arrivassi; quando la passione, che ora ti accieca ... Ma allora ... allora, forse, non sarò piú qui, per poterti rinfacciare; sarò morta! ... Non vorrà dire; te lo rinfaccerai da te stessa: La mamma aveva ragione! ... E tutte queste parole, che ora disprezzi ... e non han servito che a farmi insultare, tutte, sillaba per sillaba, ti verranno in viso ... Vedrai! Giacinta stette un momento ad ascoltarla a capo chino, atterrita alla voce lenta e cupa che pareva gittasse un infame maleficio sull'avvenire di lei, con quelle esclamazioni ripetute come rintocchi d'una campana d'agonia; poi scattò, con tutte le forze del suo sangue, delle sue fibbre, dei suoi nervi ... - L'amo! ... intendi? L'amo! ... Che m'importa di voialtri? ... Resterà!

Giacinta sguizzava leggera fra le coppie che ballavano confusamente, abbandonata al suo ballerino che, guidandola, le domandava: - Si sente stanca? - No, punto. E giravano, giravano, sguizzavano; Andrea Gerace un po' serio, ella sorridente, da persona già come abituata, quantunque fosse quello il suo primo ballo. - Lei balla come una meridionale - le disse Gerace in un momento di sosta. - È la prima volta che io non rimpiango le feste di Napoli. - Son lieta - rispose - di rammentarle in qualche modo le signorine di laggiú. - Me le fa dimenticare. - ... Che caldo! Si soffoca. Si soffocava infatti; ed era un continuo agitar di ventagli ora che l'orchestra si riposava. Gli uomini si facevano vento coi cappelli a molla schiacciati. - Gerace, una canzonetta delle vostre! ... La signora Villa gliel'aveva detto con quella smanceria di voce e di atteggiamento bambinesco ch'ella soleva affettare per far piú colpo. - Sí, sí! La signora Rossi, la Mazzi, il Porati, il Gessi e gli altri ch'eran lí appresso approvarono. - La Carmenella! Mastro Raffaele! suggerirono ad una volta Merli e Ratti. Anzi il Ratti andò a prenderlo addirittura pel braccio, e facendogli delle moine come una signorina, fra le risate che scoppiavano da ogni parte della sala, lo conduceva al pianoforte dove già preludiava il Porati. - Che simpatico giovane! Giacinta si limitò ad accennare col capo che era della stessa opinione della Gina. Non voleva perdere una nota. Quella melodia, improntata di una gaiezza mesta, si dondolava col suo ritmo, mollemente, e faceva dondolare, per consenso, tutte le teste: poi, all'ardito strappo di voce che riprendeva la frase allegra del ritornello, correva attorno un mormorio di entusiasmo represso. Gina, presa la mano di Giacinta, gliela stringeva forte nei passaggi piú belli, quasi stesse per isvenirsi. - Canta meglio del solito questa sera! - le diceva sotto voce. Quella sera Gerace aveva anche una singolare maniera di lanciar le note verso Giacinta; ed essa, che se n'era accorta, se le sentiva aggirare attorno alla persona, posar sulla fronte, strisciar lievemente sulle guance e sul collo, solleticanti; e aggrottava le sopracciglia, e si chinava inavvertitamente verso di lui, attratta da quella strana sensazione cosí nuova per lei. Quando alla fine scoppiaron gli applausi, le parve di destarsi da un sogno. - Quella musica era durata un'eternità? ... Un minuto secondo? Non sapeva rendersene conto. Gerace le si era avvicinato per ringraziarla degli applausi. - Son io che debbo ringraziar lei - rispose. - Che musica! Mi è parso quasi di veder Napoli e il suo golfo, che, forse, in realtà non vedrò mai. - Ti diverti dunque, malatina? - venne a dirle Mochi in quel punto. La sorvegliava, inquieto, da un pezzo; e le porse il braccio, mentre Giacinta rispondeva: - Non è difficile, a quel che pare. Vedendoli passare tra la folla degli invitati, la Maiocchi ammiccò alla signora Villa seduta dirimpetto. L'assiduità del Mochi attorno di Giacinta cominciava a dar nell'occhio: - Quel vecchio dissoluto era capace di tutto! La signora Maiocchi notò che Giacinta, tornando in sala sempre al braccio del Mochi, era un po' rannuvolata. Infatti non ballò piú. - Grazie - disse al Ratti che la invitava ad una polka. - Sono stanca. Ho ballato anche troppo; son convalescente. Mi scusi.

PROFUMO

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Capuana, Luigi 2 occorrenze

Ma le figure delle due persone sedu- te là dentro, una dirimpetto all'altra - la vecchia col viso sconvolto e gli occhi smarriti, abbandonata da un lato; il dotto- re, curvo, quasi ripiegato per lo scarso spazio, con tra le mani i polsi di quella - ora, ricordando o sognando (non lo ca- piva bene), le si confondevano nell'immaginazione con la figura del Cristo morto, steso su la barella dorata, dietro i lar- ghi cristalli circondati dai fanaletti accesi; e le poche parole scambiate a voce bassa tra il dottore, Patrizio, lei, Ruggero e i portatori, le si mutavano a poco a poco in quel mormorio tumultuoso della folla, in quel grido straziante: "Misericor- dia, Signore! Pietà, Signore!" che quella sera fatale l'aveva sbalordita! Ahimè, non era un brutto sogno! Poteva non credere ai propri occhi vedendo giacente nel letto il corpo mal vivo che guardava fisso? Poteva mai dubitare udendo la desolata, insistente domanda: "Mamma, mi senti? Mamma, mi senti?". Il dottor Mola quella sera aveva detto subito a Patrizio: "Bisognerebbe allontanare di qui la vostra signora. Ho paura di una ricaduta." "Allontanarla? ... In che maniera?" aveva egli risposto come un sonnambulo. "Glielo dica lei; lo ascolta. Io non ho testa!" Ma Eugenia s'era indignata: "Abbandonar Patrizio in questi momenti? Oh! ..." E aveva voluto vegliare assieme con lui, ostinata, irremovibile, senza lasciarlo solo neppure un minuto la prima not- te e gran parte del giorno appresso. Sostenuta dal suo stesso sbalordimento, eccitata dalla pietà dell'immenso dolore di lui, dimenticando i torti della suocera, aveva fin vinta la gran ripugnanza che quel corpo inerte le ispirava; ed era accor- sa premurosamente ogni volta che era stato necessario sollevarla sui guanciali, o mutarla di fianco, per impedire che al- tre mani la toccassero all'infuori delle sue e di quelle di Patrizio. Incontrandosi negli sguardi fissi e duri dell'inferma, che le sembrava volesse farle male anche allora, li aveva sempre evitati. Per istintiva delicatezza di sentimento, aveva cercato di non farsi scorgere nemmeno compiendo la sua umile opera d'infermiera con l'applicare i senapismi, col rinnovare le pezzette delle bagnature diacce alla fronte. E nelle lun- ghe ore di fallace speranza in una benigna risoluzione della crisi, quando nel silenzio della camera si sentiva soltanto il respiro affannato dell'inferma, e in quel volto emaciato dagli anni e dai patimenti, ora immobilizzato dalla paralisi, gli occhi si muovevano lenti per figgersi su qualcuno, quasi cercassero chi potesse intendere il loro muto linguaggio, Euge- nia si teneva un po' indietro su la seggiola dappiè del letto, spinta da inconsapevole suggerimento del suo buon cuore. Perciò si sentì offesa, non appena le parve di comprendere bene l'intenzione di Patrizio e i di lui pretesti per tenerla discosta, per celarne la presenza alla mamma a fine di risparmiarle in quello stato una sensazione spiacevole. Benedetta e Giulia, arrivate poco dopo assieme col fratello, la trovarono piangente, sola sola, nella sua camera. "La signora sta peggio?" domandò Benedetta. "Sempre lo stesso" ella rispose con voce cupa. "Non pianga!" disse Giulia, abbracciandola e asciugandole gli occhi col fazzoletto prèsole di mano. "Si faccia co- raggio." "Povero Agente! Vuol tanto bene alla mamma e n'era voluto tanto bene!" soggiunse Benedetta. "So io come parlava del figliuolo! Bisognava sentirla!" "Il dottore che ne dice?" domandò Ruggero a Eugenia. "Dice che è gravissima." "L'età della povera signora complica il male" riprese Benedetta, scrollando la testa, atteggiando le labbra a compas- sione. "Non riesce a parlare affatto affatto? Che tormento dev'essere non poter dire, in fin di vita, una sola parola al pro- prio figliuolo!" Eugenia portò il fazzoletto agli occhi. Quella pietà la irritava. Tutti compiangevano la vecchia che il gastigo di Dio aveva colpita, sì, il gastigo di Dio, (Eugenia in quel momento n'era proprio convinta!) Nessuno compiangeva lei. Ma la sua liberazione era prossima. Avrebbe respirato, finalmente! Finalmente avrebbe potuto amare ed essere amata senza che quel fantasma si presentasse improvviso a interrompere i baci, a disturbare le carezze di Patrizio e di lei! Ondate di fiele le allagavano il cuore come non le era mai accaduto fin allora. Tutte le sue amarezze vi si rimescolavano, vi veni- vano a galla: e quelle ondate, che le fiottavano dentro con rapide pulsazioni, montavano su, su, fino ad attossicarle la bocca. Più Benedetta si diffondeva a compatire l'inferma, anzi a farne l'elogio quasi fosse già morta, e più Eugenia sen- tiva accrescere la sua spietata soddisfazione. Quando Ruggero, per interrompere la sorella, disse: "Eh via! Non muore poi nel fior degli anni!". Eugenia lo guardò riconoscente; per poco non sorrise. "Così malaticcia e sofferente come dite sia stata sempre" continuò Ruggero "forse non le dispiace morire. Che si fa a questo mondo quando la vita è una pena? Si soffre e si fa soffrire." Egli parlava rivolto a Eugenia, ritorcendo fra l'indice e il pollice d'una mano le punte dei baffettini, con lo sguardo fissato negli occhi di lei, rossi di pianto, quasi vi leggesse nettamente quel ch'ella pensava in quel punto e le desse ra- gione e l'approvasse. "Si soffre e si fa soffrire!" Oh, se l'aveva fatta soffrire colei! Imbarazzata però dallo sguardo di Ruggero, Eugenia sentiva rapidamente racchetare il violento impeto di odio che le aveva attossicato anche la bocca. Da lì a poco - e se ne stupiva ella stessa - presso al letto dell'inferma che rantolava ce- rea in volto, con gli occhi serrati, le occhiaie livide e la bocca un tantino contorta dal lato sinistro, da lì a poco ne prova- va anche e vergogna e rimorso. Patrizio, in piedi, strizzandosi le mani, intento su l'addormentata, il cui magrissimo corpo quasi spariva sotto la co- perta, resisteva alle calde preghiere del dottore che avrebbe voluto pietosamente allontanarlo di là. Pareva non udisse o non comprendesse. Eugenia gli si accostò e lo prese per una mano. "Patrizio! ... Patrizio! ... Fatti animo! ... Non essere un bambino! ..." gli andava dicendo, tra- scinandolo via dolcemente nella loro camera, passandogli un braccio attorno il corpo quasi a sospingerlo. "Patrizio, scuotiti! ... Mi fai paura! ... Non essere un bambino! ... Riposati! Riposati almeno pochi minuti! ... Patrizio!" I singhiozzi le impedivano la parola, le lagrime le inondavano il viso, intanto che egli, aiutato da Ruggero, si lascia- va cascare sul letto come corpo morto, bocconi, singhiozzando alla sua volta: "Mamma! Mamma mia cara! Povera mamma!" "Sì, sì, piangi. Da' sfogo al dolore! ... Sarà bene!" Non sapeva in che modo farsi perdonare la cattiveria di poc'anzi; e gli accarezzava la testa, gli stringeva fortemente la mano che egli le aveva abbandonata. Se fosse stato possibile, in quel punto Eugenia avrebbe sacrificato metà della sua vita per salvare la mamma morente (diceva proprio: "La mamma" nel suo pensiero!) - e così sollevar Patrizio da quell'abbattimento angoscioso, da quella ineffabile tortura. "È sua madre! È sua madre!" si ripeteva da sè, per convincersi meglio della ragionevolezza della sua compassione, per fortificare il suo povero cuore vacillante, sbattuto tra gli opposti sentimenti che vi scoppiavano da due giorni in tu- multo, lottanti tra loro e racchetandosi e riprendendo vigore, eccitandola con fulminei sbuffi di malvagi rancori e op- primendola tosto con lunghi pentimenti e rimorsi. "È sua madre! È sua madre!" ella rispose a Ruggero, che tentava anche lui di consolare Patrizio. E glielo disse con tal accento che quegli si allontanò riputando importuna l'opera sua. "Benedetta e io restiamo qui" gli sussurrò Giulia in un orecchio, rientrando dalla camera dell'inferma. "È già ago- nizzante. Può spirare da un momento all'altro!" Il dottore, dati alcuni ordini al Padreterno, si apprestava ad andar via. "È morta?" venne a domandargli Ruggero sottovoce. "No. Ma è inutile che io stia ancora qui. Ho mandato a chiamare un prete, per le preghiere dei moribondi soltanto. La catastrofe è sopraggiunta più presto che non credevo. Povero Agente! Fa pietà." Eugenia, dall'aria di Giulia, dall'accorrere di Ruggero nell'altra stanza, aveva subito indovinato quello che stava per accadere, e portò le mani alla testa affondando le dita tra i capelli: "Oh Dio! Oh Dio!" cominciò a balbettare sommessamente. Giulia le fe' segno di frenarsi, accennando a Patrizio che pareva addormentato. Tutt'a un tratto lo videro balzar su, con gli occhi sbarrati, pallidissimo, gridando: "Muore! ... Muore! ..." Gli era parso, tra sonno e veglia, di sentirsi chiamare due volte dalla fioca voce della moribonda! E prima che potes- sero pensare a trattenerlo, era già sull'uscio, dove il dottore e Ruggero gli sbarrarono il passo: "Fate la volontà di Dio! ..." gli diceva il dottore. "Non le turbate l'estremo passaggio!" Patrizio strinse i denti, die' una scossa con tutta la persona" quasi a comprimere l'ambascia che lo faceva contorcere come un serpe; e promettendo, più che con le parole coi gesti, di far ogni sforzo per contenersi, supplicava desolatamen- te che lo lasciassero entrare. Supina, col petto che si sollevava e si abbassava pel respiro affannato, con gli occhi intorbidati, spalancati e fissi nel vuoto, il viso disfatto, il naso filiginoso, l'inferma rantolava stancamente a intervalli, che di mano in mano diventavano più lunghi e più strazianti. Nella camera, silenzio profondo. Patrizio era caduto in ginocchio davanti al letto, inebetito, con le mani giunte in atto di preghiera; e a quella vista si erano inginocchiati anche gli altri, tranne Eugenia e Giulia che la sosteneva da un lato. Eugenia si sentiva trattenuta in piedi dal fascino delle torbide pupille della morente che le parevano fissate intensa- mente su lei, piene del loro ultimo cruccio, quasi maledicenti insieme con quel rantolo che le sembrava parola. "No! No! ... Perché? ... Mamma, perché?" avrebbe voluto gridarle. Ma la sua lingua era legata. Sopraffatta da un orrore nuovo, Eugenia sentiva in tutto il corpo il rapido ridestarsi del suo male, creduto domato; e tremava, tremava senza poter distogliere lo sguardo dalle torbide pupille che lo evocavano su, con terribile malia, da tutte le parti del suo corpo, dove la cura del dottor Mola lo aveva già ricacciato. "No! No! Oh, mamma! ... Perché? Perché?" Portò le mani alla gola per tentar di sciogliere il nodo da cui si sentiva soffocata, e si rovesciò indietro con un ranto- lo che si confuse con l'ultimo fioco rantolo della morente. Patrizio non sentì niente, nè vide Giulia e Ruggero portar via la povera Eugenia che si agitava violentemente. I suoi sguardi eran rimasti inchiodati sul volto, immobile e senza vita neppure negli occhi, di colei che era stata la prima, la più grande, l'unica adorazione del suo cuore. Non poteva affatto persuadersi che già fosse cadavere; e gli pare- va impossibile che, dopo così terribile scena, egli potesse ancora continuare a vivere e a pensare! Non piangeva, non diceva nulla, restava là in ginocchio, con le mani giunte, opponendo tutta la inerzia del suo corpo affranto al dottore, a Zuccaro e a Griffo che volevano portarlo via. E rifletteva, come in vaneggiamento muto: "Morta! Morta senza potermi dire una sola parola! Morta, forse, senza aver sentito la mia voce! Morta in questo mo- do, quasi abbia voluto andarsene per sempre col broncio, con la collera che mi ha mostrato fino a pochi giorni fa, ineso- rabile, implacabile! Che orrore!" "Rassegnatevi! Fate la volontà di Dio!" gli ripetè il dottor Mola prendendolo per le braccia. Il pianto gli scattò dal cuore tutt'a un tratto, e singhiozzando "Mamma! Mamma!" si rizzò per coprire di baci e ba- gnare di lacrime la squallida faccia della venerata sua morta.

Patrizio, che aveva già chiusi gli scuri della finestra, non sapeva staccar gli occhi da Eugenia, distesa abbandonata- mente sul letto, nell'abbattimento che segue le crisi nervose. "Animo tranquillo, soprattutto" soggiunse il dottore, tirandolo dolcemente fuori della camera. "Dicevate che questa è la prima volta che le accade e per un dispiacere insignificante. Può anche darsi che sia sintomo ..." Patrizio rispose di no con lieve cenno della testa. "Vedremo" riprese il dottore, contraendo te labbra a un sorriso. "Tornerò questa sera, per precauzione. Siamo vici- ni." Eppure Patrizio avrebbe voluto trarlo in un angolo, fargli una lunga confidenza e consultarlo su molti punti scabrosi. Quel vecchietto (di semplicità affatto antica, di cultura poco ordinaria per medico di paesetto), conosciuto nell'occasione d'una delle solite ricadute della signora Geltrude, poco dopo il loro arrivo a Marzallo, e poi riveduto per la stessa ragio- ne parecchie altre volte, era arrivato a ispirargli fiducia. Patrizio sentiva già rimorso di avergli detto che l'accesso nervo- so di Eugenia era stato cagionato da un dispiacere insignificante. Pure, anche sollecitato da questo pungolo, non riusciva a pronunziare la parola: Senta! che gli si agitava su la punta della lingua da un quarto d'ora. Era sopraffatto dal pudico ritegno di svelare a un altro, quantunque fosse un dottore, quasi un confessore, i più intimi segreti dell'anima sua, cosa sacra! Intanto il pensiero del risveglio di Eugenia lo rendeva ansiosissimo. Ella avrebbe ricominciato! Gli pareva che con quella crisi nervosa si fosse chiuso il felice ma troppo breve intervallo della sua pace domestica, e iniziato un avvenire di lotte intestine fra tre esseri che avrebbero dovuto amarsi, anzi adorarsi mutuamente nella dolce solitudine che li acco- glieva. Ah! Quel cattivo presentimento non lo aveva ingannato. Lo scongiuro col prezioso vasetto arabo non era giovato a niente! Diede qualche indicazione ai commessi e rientrò presso Eugenia in punta di piedi. Ella riposava tuttavia. Davanti al- la giacente, abbattuta dalla crisi che l'aveva scossa come vento furioso i rami di un alberetto, Patrizio si sentì risalire dal fondo del cuore la viva indignazione prodottagli dalle dure parole di sua madre. Che? Alla vista di quella povera creatura, le viscere non le si erano mosse a pietà, se non per lei, almeno per lui che le gridava soccorso? Dunque, la odiava davvero! E perché mai? Se lo domandava, come la povera creatura che poc'anzi ne aveva pianto. Che terribile crollo! E assieme con la sua pace, sentiva già crollare quella ch'era stata la colonna maestra della sua vita: la gran riverenza per la madre! Quando sua madre gli aveva fatto sorda opposizione perché non prendesse moglie; quando si era mostrata prima fredda, poi ostile alla persona che pure avrebbe dovuto esserle cara perché carissima a lui, egli aveva trovato una ragione: la cecità dell'amor materno! Ma questa volta l'istinto materno gli pareva proprio brutale; ben più che brutale, spietato. Al cospetto di una creatura che soffre, al cospetto del proprio figlio che invoca soccorso per lei, arrestarsi e poter dire freddamente: "Vedi! Non m'ingannavo!" passava il segno. Il suo cuore si ribellava. Occor- reva intendersi, e subito; stabilire un modus vivendi da rendere possibile la loro esistenza. Egli avrebbe avuto il coraggio di provocare una spiegazione, e affrontarla, rispettosamente, sì, ma con forza, senza mezzi termini. Era suo dovere di figlio e di marito. Se si fosse risoluto prima, forse quel che accadeva sarebbe stato evitato. Debole, per rispet- to filiale, ora non voleva essere più tale. "Forse è bene che le cose siano state spinte all'estremo. Si eviteranno nuovi equivoci." Passeggiava affrettatamente per la camera, volgendosi spesso dalla parte del letto, passandosi la mano tra i capelli, tirandosi la punta della barba, arrestandosi a un tratto, quasi per domandarsi se tutto quell'orrore non fosse poi maligno prodotto della sua immaginazione alterata. Era realtà! Guardava attorno per la cella bianca, semplicemente arredata; e il silenzio, nella penombra, gli faceva sinistra im- pressione. A intervalli gli arrivavano, a traverso gli usci non ben chiusi, gli scoppi di risa dei commessi, o il rumore d'una lor breve disputa, che lo respingeva, quasi con un urto, alla coscienza della propria condizione di funzionario, ai minuti par- ticolari delle cose di ufficio: un lavoro da sollecitare, la Commissione per la ricchezza mobile da convocare, un'ispezio- ne da intraprendere; lampi che gli guizzavano nel cervello e si estinguevano subito, per abbandonarlo alla ruota di tortu- ra che forse non si sarebbe arrestata più mai! Già ripensava alla madre, che frattanto se ne stava di là, in camera sua, so- la sola, ruminando livore contro la nuora; probabilmente anche irritata contro di lui per quel: "Mamma!" strappatogli dalla indignazione nel terribile momento. "Ha torto. Glielo dirò in viso!" esclamò, accompagnando allo scatto della voce un vigoroso gesto della mano. Avea preso una risoluzione. E picchiò all'uscio. Al cospetto della madre, emaciata, più che dagli anni, dalle sventure patite; che era stata bella, ma che della bellezza serbava traccia soltanto nella severità dei lineamenti, accresciuta dallo squallore della carnagione e dalle rughe, tristi impronte lasciatevi dalla cattiva sorte, Patrizio comprese d'un tratto che avrebbe avuto torto lui, se avesse parlato come si era proposto. La signora Geltrude, che non aveva mai smesso il lutto, raggrinzita in quel punto su la vecchia poltrona testimone di tutti i suoi dolori e di tutti i suoi pianti inconsolati, aveva appena voltato la testa e appena appena levato verso di lui gli occhi socchiusi, con mossa interrogativa, diffidente; e questo gli spense ogni sdegno, gli aggelò la parola nelle fauci, gli fece abbassare la fronte come a un colpevole. "Mamma!" egli disse, accostandosele a mani giunte. "Perdonami!" Ella brontolò a mezza voce parole inintelligibili, aprendo gli occhi per guardarlo in viso. Parve si attendesse qualcos'altro. Vedendo che suo figlio continuava a tacere, abbandonò di nuovo il capo su la spal- liera e tornò a socchiudere gli occhi. Patrizio era meravigliato e deluso di non sentirsi domandare: Come sta Eugenia? o tua moglie, colei, in qualunque modo ella avesse voluto chiamarla! "Non mi hai perdonato! Non vuoi perdonarmi!" scoppiò a dire. "Oh, mamma! E non ti accorgi che così mi fai patire pene d'inferno?" Ella si rizzò lentamente su la vita, appoggiò le mani alle ginocchia, inarcando le braccia, e, con labbra tremanti, ri- spose: "E le mie sono forse pene da nulla? Ti sei lasciato stregare! ... Sei tutto suo! Io non conto più niente per te!" "Come puoi immaginarlo, mamma?" "Non lo immagino, lo vedo. Avete dei segreti, ve li andate susurrando all'orecchio qua e là, evitando la mia presen- za, cogliendo ogni più lieve pretesto per evitarla. Sono di troppo - l'ho capito - non per te, no, per colei. Ma non posso andarmene via, per farle largo. Il Signore non mi vuole; mi lascia qui, in castigo de' miei peccati, forse; forse, pe' suoi disegni che non possiamo sapere. Dovrete sopportarmi ancora un po'. Poi sarete liberi; sarete pur liberati di questa in- cresciosa!" "Che mai dici, cara mamma!" "La verità, l'evangelo. E non me ne curerei, se si trattasse di me soltanto. Sono cosa inutile oramai, spazzatura da buttare in un canto!" "Che mai dici, mamma! Che mai dici!" replicava Patrizio, cacciandosi le mani tra i capelli, inorridito di sentirla par- lare a quel modo. "Ma penso a te! Penso a te!" ella continuava imperterrita, scrollando il capo. "Tu non ti guardi allo specchio, o ti guardi così di sfuggita da non poter accorgerti quanto sei mutato e invecchiato da sei mesi! Non potresti riconoscerti. Lei se lo beve il tuo sangue! Lei se l'assorbisce la tua carne, il midollo delle tue ossa, la tua vita! ... Io sono impo- tente a lottare con lei. È giovane, è bella, è amata. Ti ha stregato! Che posso più fare io? Ti avvertii in tempo; ti ho av- vertito dopo; ti ho sempre ripetuto: "Bada! Bada!". Non mi hai dato mai retta; hai fatto sempre a modo suo. Che preten- de, più di quel che ha ottenuto? Vorrebbe forse che io le dicessi: "Mi hai tolto il figliuolo; grazie! Mi divori il figliuolo; grazie! grazie!". Tu intanto, non che essermi grato, mi credi esaltata - l'hai detto una volta! - e prendi parte in favore del vampiro che ti succhia il sangue! E vieni qui ..." "Zitta! Zitta, mamma, per carità!" gridò Patrizio. "Mi sento impazzire." Si teneva strette le tempie tra le mani, quasi a impedire che gli scoppiassero. Aveva avuto in vita sua molte tremende giornate. Si era visto più volte l'abisso della miseria spalancato sotto i piedi, pronto a inghiottire sua madre, lui, la sua giovinezza, il suo avvenire, e quando più gli era parso che una buona speran- za, dopo mille sacrifizi e mille stenti, fosse sul punto di realizzarsi. Il dolore del disinganno e il terrore del presente gli avevano atterrata ogni forza vitale, quasi spezzata la intelligenza; e gliene sovveniva spesso il ricordo, dopo che la pro- tezione d'un vecchio amico del padre, fedele anche nella sventura, gli aveva inaspettatamente tesa quella tavola di sal- vezza del posto di Agente delle tasse, traendolo fuori della tempesta, fuori d'ogni angustia giornaliera. Ma cercava inva- no nei ricordi una terribile giornata come quella, uno scoppio così improvviso di circostanze da nulla, da cui veniva prodotta tale rovina, che egli si sentiva soccombere sotto le macerie, senza speranza di aiuto. E tornava a premersi le tempie, ripetendo: "Mi sento impazzire!" Stette così qualche istante, poi lasciò cadere le braccia, desolatamente; e buttandosi ginocchioni davanti a la mam- ma, le prese le mani e cominciò a baciargliele, dicendo con voce interrotta: "Abbiamo torto tutti e tre! Non c'intendiamo! Non ci siamo mai spiegati! Ne riparleremo più tardi. Intanto, lasciamo che gli animi si calmino. E allora tu, mamma, vecchierella mia, santa mia, ti avvedrai che non solo non hai quasi perdu- to il figlio, come ti figuri, ma ne possiedi due, che ti vogliono bene egualmente ... due, due! Te ne avvedrai! ..." Nè si voltò indietro, per non veder il crollar continuo di quella grigia testa, che gli rispondeva ostinatamente: No! Noi No! Eugenia riposava ancora. Dorata, la vecchia serva, era venuta a sedersi a piè del letto, con le mani incrociate sul seno, la testa moresca, coi ca- pelli arruffati, un po' abbandonata su la spalla, con le labbra aggrinzite ancora dallo stupore di quel che aveva visto e che non sapeva spiegarsi. Vedendo entrare il padrone non si mosse. Si era già abituata a non parlare senza essere interrogata; e al cenno di Pa- trizio si levò dalla seggiola e uscì nel corridoio. Patrizio, per non far rumore, prese il posto di lei, accavalciò una gamba su l'altra, stese un braccio lungo la sponda del letto, e stette ad attendere che Eugenia si destasse. Il terrore di quel risveglio gli faceva strizzare gli occhi di tanto in tanto. "Che cosa dirle? Come farle intendere la strana gelosia della mamma? ... Ah, mamma! Ah, mamma!" E poc'anzi gli era sembrato di essere tanto forte da poter ribellarsi a quel giogo che lo avea domato e lo riduceva un fanciullo. Si era rallegrato innanzi tempo. Un senso di compassione e d'intenerimento per lei già gli s'insinuava nel cuo- re. "Povera mamma! È vissuta tutta per me! Non sa rassegnarsi a spartire con un'altra l'affetto dell'unico figlio! ... Fissazione! Debolezza! Come fargliene una colpa?" E si accusava: "Sono stato egoista! Avrei dovuto sacrificarmi a lei, far tacere ogni mio sentimento; ubbidire a occhi chiusi. Avrei sofferto io soltanto. A quest'ora, probabilmente, non soffrirei più ... Signore Iddio! È così difficile la vita?" Cominciava a comprendere che l'isolamento, le sventure, fin gli studi, fuori d'ogni personale esperienza, eran serviti a falsargli la prospettiva della realtà, a renderlo impotente a qualsiasi lotta. La fragile creatura stesa là, prostrata dalla crisi nervosa, ne sapeva più di lui; vedeva chiaro, vedeva giusto; possedeva il senso pratico della vita, che a lui mancava affatto. E perciò s'era rivoltata, proclamando il suo diritto: "Ora sei mio! Ora sei mio!". Si ingannava però, rimprove- randogli: "Picchio, e non mi senti! Chiamo, e non mi rispondi!". Se la sentiva! Se gli affluivano pronte alle labbra le af- fettuose risposte a quegli appelli! Forse egli aveva preso troppo alla lettera le parole del medico, consultato avanti il ma- trimonio, intorno al temperamento di lei, allorché la mamma gli aveva detto: "Cieco! Cieco! Non t'accorgi ch'ella è un viluppo di nervi?". Il medico aveva sorriso, alzando le spalle: "Chi non è nervoso a questi lumi di luna? Le donne poi, caro signore, son diventate oggetti fragilissimi, da maneggiare con cautela, se non vogliamo vederceli rompere fra le dita!". Egli s'era contenuto e si conteneva per questo! Ed ecco le belle conseguenze! Ogni istante che passava accresceva il suo turbamento. I tocchi delle ore, che la soneria guasta dell'orologio del campanile ripeteva affrettatamente, due, tre volte di seguito, lo facevano sobbalzare, quasi gli martellassero dentro il cervello. "E se la crisi nervosa si rinnova? Se è segnale di terribile malattia! ... Se la mamma ha ragione? ... No: il male non avrebbe atteso sei mesi prima di manifestarsi." E si consolava osservando che il volto di Eugenia aveva ripreso l'aspetto ordinario. La respirazione era placidissima; il sonno le coloriva i pomelli delle guance con lieve tinta incarnatina; le labbra sembrava sorridessero a qualche dolce fantasia che le appariva in sogno. La mano posata sull'orlo del guanciale, presso la faccia, era un atto di carezza. "Buona creatura! Le devo tanto! Mi son sentito così felice nel legarmi a lei per tutta la vita! Bisognerà però affrettar- si a consultare il dottor Mola, e dirgli tutto, tutto! senza sciocchi ritegni." Eugenia aperse gli occhi. Pareva stupita di trovarsi mezza discinta sul letto; e, rizzàtasi sopra un gomito, guardava attorno confusa e vergo- gnosa, cercando di raccapezzarsi, di rammentare. "Che è stato? Mi è venuto male?" "Oh, cosa da niente!" s'affrettò a dire Patrizio. Le accarezzava il viso, le ravviava i capelli, domandandole: "Come ti senti?" "Fiaccata, con le ossa rotte! ... Apri gli scuri ... Ah!" Ricordava. Patrizio, tornando presso il letto, la trovò col viso nascosto fra le mani, singhiozzante. "Eugenia!" "Lasciami! ... Lasciami stare!" "Vuoi proprio ammalarti?" "Che cosa posso farci? Non so resistere!" ella rispose, asciugandosi gli occhi e ricacciando indietro le ciocche dei capelli in disordine. "Non pensarci, divagati!" cercava di persuaderla Patrizio. "Ne ragioneremo dopo, quando sarai tranquilla. Allora soltanto potrai comprendere ... Riderai di te stessa, come ne rido io, vedi? Ne rideremo insieme." "La mamma?" ella domandò, esitante, avendola cercata invano con lo sguardo. "È in camera sua. Non sta bene, al solito ... Manderò a chiamare il dottor Mola ... Sentendo che t'era ve- nuto male, ella accorse qui ... subito! ... Fu tutt'a un tratto. Non hai dovuto avvedertene. La commozione, l'agitazione ... E sei caduta fuori di sensi tra le mie braccia! ... Anche per debolezza, dice il dottore ... Che? ... Non ti sei neppure avveduta del dottore un'ora fa? Sai? ... Egli sospetta ... Fosse vero! ... Non alzarti da letto, riposati ancora un pochino. Dovresti prendere una buona tazza di brodo. È pronto. Ti farà bene. Più tardi? ... Quando tu vorrai." Parlava affrettatamente, per sviare il discorso e non darle tempo di scorgere l'imbarazzo prodottogli dalla sua con- traddizione a proposito del dottore. "Temo" egli continuava "che tu non soffra, sopra tutto, per la solitudine in cui viviamo." Eugenia fece un cenno negativo con la testa: "Ero abituata così a casa mia. Uscivamo raramente; la domenica soltanto, per la messa. Tu lo sai: visite poche, pas- seggiate pochissime, appena tre o quattro, d'estate, nelle sere più calde." "Avevi però le tue sorelle, così allegre e chiassone!" "Non mi divertivo a quel chiasso loro." "E qui sei sola affatto." "Se la mamma si mostrasse un po' più buona!" rispose Eugenia dopo breve pausa. "Non badare a lei, te ne prego! È buona a modo suo. Prendila com'è." "Questo volevo fare! È stato impossibile. Anche tu ..." Al gesto d'impazienza sfuggito a Patrizio, che alzò gli occhi alla volta reale della cella, Eugenia si levò rapidamente, si mise a sedere sul letto; e posate le mani su le spalle del marito, lo guardò fisso in faccia, con aria d'affettuoso rimpro- vero: "Ascoltami, non sdegnarti! ..." Ma egli la interruppe; e, presàla pei polsi, portò le care mani alle labbra: "Sono diacce!" "Ascoltami" ripetè Eugenia, senza tentare di ritrarle. "Quando tu, col viso di chi dà una cattiva notizia, venisti a dirmi: "Ufficio e alloggio sono in un convento!" te ne ricordi? io ne fui così contenta, che tu mi guardasti stupito. Non ti ho mai spiegato il perché di quella mia contentezza. Voglio dirtelo ora. Pensai subito: "In un convento saremo più liberi che non nella piccola casa di Castroreale, o in qualunque altra". E di mano in mano che tu me lo descrivevi, immagina- vo le nostre future scappate pei corridoi, per la selva, per la terrazza, senza la continua sorveglianza della mamma, che mi pareva inceppasse ogni tuo movimento e metteva in disagio anche me ... Nelle prime settimane fu proprio così. Avevo fin dimenticato le cattive impressioni di Castroreale. Ma la mamma non tardò molto a riprendere il suo primo contegno. Qui, in un edifizio così vasto, doveva apparirmi più chiara l'avversione di lei, perché qui si vedeva benissimo ch'ella faceva ogni cosa a posta, per farmi dispetto, per farmi capire ..." "No! No!" disse Patrizio, baciandole ripetutamente le mani. "Che guardi?" domandò Eugenia, vedendolo fermare all'improvviso. "È strano ..." egli rispose. "Si direbbe che tu te le sia stropicciate con la zagara ... Ma non è la stagione. Hai forse un profumo di fiori d'arancio?" "Lasciami sentire ..." Ella voltava e rivoltava le mani, odorandone la pelle come un fiore. "È vero: pare che io abbia toccato della zagara e che me ne sia rimasto l'odore ... Si avverte appena però ..." "Anzi, al contrario! Senti? ... Anche ai polsi ..." soggiunse Patrizio ... E tirò in su, curiosamente, una manica di lei fio al gomito. "Pure al braccio!" esclamò, meravigliato. "Senti, senti!" Eugenia si strinse nelle spalle: "Sarà stata la lavandaia, che avrà voluto profumarmi la biancheria ..." "Può darsi." "Dunque, come ti dicevo ..." ella cercò di riprendere. Patrizio portò rapidamente l'indice della mano destra alle labbra per significarle: Silenzio! "Animo tranquillo e buon brodo, ha raccomandato il dottore!" E affacciatosi all'uscio che dava sul corridoio, chiamò: "Dorata! Dorata!" Eugenia persisteva nella sua idea. Finito di sorbire la tazza di brodo recata dalla donna, messasi a sedere su la sponda del letto, ravviata la veste e pas- sàtesi le mani sul volto, attirò Patrizio tra le ginocchia, cingendogli le braccia attorno il collo. "Bada!" gli disse. "Io non cedo. Non ho ceduto ai miei, quando mi agitavano dinanzi a gli occhi lo spauracchio di una vita randagia, senza nessuna sicurezza per l'avvenire; non cederò, mettitelo in mente, nemmeno con tua madre!" "In che cosa dovresti cedere? ..." Egli affettava un tono di gentile canzonatura, per mascherare l'agitazione che le parole di lei gli producevano. "Intendo" riprese Eugenia seria seria "intendo: che voglio esser libera, con libertà santa e giusta, si capisce! Intendo che ti voglio sincero con me, come da un pezzo non sei più, sì, come da un pezzo non sei più! Mi credi tanto stupida da non capirlo?" E all'improvviso gli si abbandonò con la fronte sul petto, mormorandogli quasi in tono di preghiera: "Pensa che ora non ho altri che te! Pensa che tu sei tutto per questa povera creatura che ti vuol bene! Oh Patrizio! Il mio cuore è uno specchio così limpido che neppure il fiato l'appanna ... Puoi mirarviti quando tu vuoi! Sul tuo cuore, invece, c'è spesse volte un velo grigio, che m'impedisce di vedervi bene quando più avrei bisogno di vedervi be- ne. Non ce lo voglio! Strappalo! Che cosa chiedo infine? Se io ti sentissi sincero, non mi curerei di nient'altro! Hai forse qualche doloroso segreto? ... Mettimene a parte; voglio soffrire assieme a te!" "Vedi come ti ecciti? ... Come esageri? ..." E sollevandole la testa, soggiunse: "Dammi una prova del tuo amore, Eugenia; te ne scongiuro, non tornare su questo soggetto, almeno per ora! Ti fa male; fa male anche a me ..." "Non ne parlerò ... Ma ... sarai tu sincero da oggi in poi?" "Sì, sì, come sempre! ..." "Proprio sincero? ..." "Sì!" "Ebbene ... allora ..." ella riprese lentamente, fissandolo, "allora dimmi ... perché ... la mam- ma ... No, non voglio saperlo! Me lo dirai quando ti parrà!" E gli si avvinse di nuovo al collo, arrossendo di essersi così presto contraddetta, e ripetendo con voce soffocata: "Non voglio saperlo! Non voglio saperlo!"

Racconti 1

662663
Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1877
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
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Al tocco dopo la mezzanotte Alberto era ancora al club disteso sul canapè, con le gambe allungate, con le braccia incrociate sullo stomaco e la testa abbandonata sulla spalliera. - Un poema, caro amico! - gli diceva sotto voce il Cardini. - Un vero poema! È arrivata in casa mia alle tre e mezzo, inaspettata, come un'apparizione ... - Cardini parlava da una mezz'ora, profondendosi in esclamazioni, perdendosi in un lirismo di frasi e di gesti da far comprendere, povero diavolo! che aveva bisogno di uno sfogo perché la sua felicità non lo uccidesse ... Ma appena aveva inteso pronunziare il nome della signora Moroni, Alberto si era inabissato in una rêverie cosí profonda da non sentire una sola parola delle confidenze del suo amico. Milano, 15@ 15 dicembre 1877@. 1877.

Racconti 2

662724
Capuana, Luigi 2 occorrenze
  • 1894
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
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Aldo avea cinto col braccio la vita di Elvia, ed ella si era abbandonata carezzevolmente col capo su la spalla di lui. Tutt'a un tratto, ella trasalí. - Che cosa è stato? - Niente ... Non so! - Intanto spalancava gli occhi spauriti, voltandosi a guardare nella stanza già invasa dall'oscurità. - Insomma? ... - fece Aldo. - Un brivido per tutta la persona, come se qualcuno mi avesse posato una mano diaccia su la spalla. - Chi sa che cosa fantasticavi! - Non pensavo niente, guardavo fuori. - Facciamo accendere i lumi -. Tutta la gran luce che due lumi diffusero poco dopo nel salotto non valse però a rassicurarla pienamente. Avevano ripreso la continuazione della lettura interrotta. Aldo leggeva ad alta voce, alzando, di tratto in tratto, gli occhi in viso a Elvia, che coi gomiti appoggiati sul piano del tavolino e col mento sul dorso delle mani congiunte, stava ad ascoltare. Evidentemente era un po' distratta. Due o tre volte, Aldo aveva notato che ella, pur restando immobile, girava le pupille attorno, con aria di diffide nte paura; e credette opportuno di sgridarla con dolce severità. - Non sei una bambina! ... Eh via! ... O ti senti male? - Sarei proprio imbarazzata - rispose Elvia - se dovessi spiegarti quel che provo ... Ora voglio dirtelo - soggiunse: - Ho provato qualcosa di simile sin dalla prima sera che arrivammo qui, nell'intervallo che tu, sceso a parlare col mezzadro, dovesti lasciarmi sola per qualche istante. - Che cosa provasti? - Un senso di freddo, come al contatto di persona disaggradevole ... invisibile. - Oh! ... - Sarà una ridicolaggine ... che vuoi che ti dica? ... Anche tu? ... - esclamò Elvia, vedendo diventare serio serio il marito e prendere l'atteggiamento di chi sta in osservazione di qualcosa d'insolito. Aldo tardò a rispondere. - Anche tu? - ella replicò afferrandolo, atterrita, per una mano. - Volevo spiegarmi - disse Aldo con qualche imbarazzo - che cosa può mai averti prodotto tale strana suggestione in questo salotto. La vecchia consolle? Lo specchio? Quei quadri anneriti e dai quali non si è potuto togliere la polvere resa aderente dal tempo e dall'umido? Il soffitto troppo alto? La tappezzeria nova delle pareti? I nervi di una giovine signora sono impressionabilissimi, la immaginazione troppo facile ad essere eccitata ... - Ma, cosí parlando, Aldo nascondeva a stento che aveva in quell'istante anche lui un'indefinibile sensazione di malessere, precisamente come pel contatto di persona disaggradevole, invisibile. Chiuse il libro, si alzò da sedere, e sforzandosi di sorridere, disse a Elvia: - Non piove piú! - E aperse la finestra. Il cielo era sereno. Le nuvole si addensavano sui monti in fondo all'orizzonte, e la luna inondava con la sua luce argentea la campagna, che esalava l'odore speciale dei terreni bagnati da pioggia recente. Richiusa l'imposta, egli prese Elvia sottobraccio, e la condusse nella sala da pranzo. La tavola era già apparecchiata per la cena. - Com'è curiosa questa villa, di sera! - esclamò Nannina, la donna di servizio, portando in tavola. - Perché dite cosí? - domandò Elvia. - Mah! ... - fece Nannina. - Anche lei? - pensò Aldo. Egli si era rammentato di un libro inglese letto anni addietro, col quale si pretendeva di dare una prova scientifica dell'immortalità dell'anima e dell'esistenza di Dio. L'autore, o gli autori - erano due, se mal non ricordava - credevano di aver dimostrato che fin i piú impercettibili movimenti del nostro pensiero, non che gli atti e le parole, vengono registrati e fissati nell'universa materia cosmica come sur una lastra fotografica, anzi meglio che su una lastra fotografica. E da questa nozione rimastag li chiara nella mente, rannicchiato nel suo cantuccio di letto e fingendo di dormire, egli era venuto fantasticando, durante la nottata, una probabile spiegazione di quel fenomeno ormai innegabile perché avvertito contemporaneamente da tre persone. Le pareti di quella casa dovevano essere certamente sature di misteriosi fluidi, di pensieri e di atti là registrati, e con tale forza da produrre terrificanti sensazioni rivelatrici. Gli erano rivenute alla memoria le notizie del mezzadro intorno all'abbandono i n cui i padroni lasciavano quella villa da anni ed anni, senza mai venire a darvi una fuggevole occhiata. Ora gli sembrava di non aver notato allora certe esitanze nelle risposte del mezzadro e della sua moglie, e si proponeva di interrogarli quella mattina, prima che Elvia si alzasse da letto. E durante la lunga nottata insonne non gli era anche parso di sentire una specie di formicolio dappertutto, nelle pareti, nella volta, dietro gli usci, nelle stanze accanto; un formicolio sordo sordo, che l'orecchio non percepiva ma che intanto non gli sembrava meno reale, quantunque percepito dai nervi di tutto il suo organismo quasi per immediato contatto? Egli s'interessava molto, da un anno in qua, di certi fenomeni di cui soltanto da poco tempo alcuni scienziati osavano spregiudicatamente di occuparsi, e cominciava a sospettare di trovarsi di fronte a qualcuno di tali fenomeni; giacché non poteva credere di essersi lasciato vincere dalla nervosità di Elvia e della donna di servizio per suggestione di seconda mano. - Hai dormito bene? - gli domandò Elvia vedendolo saltar giú dal letto. - Ho fatto tutt'un sonno. E tu? - Io non ho chiuso occhio. C'è mancato poco che non ti svegliassi. - Perché? - Non sgridarmi; avevo paura. - Ancora? - egli esclamò, fingendo di mostrarsi un po' in collera per questa debolezza femminile. - Intanto che tu ti vesti - poi soggiunse - scendo a fumar un sigaro all'aria aperta. Ti mando Nannina -. Non aveva potuto cavar nulla di bocca ai mezzadri. Quando essi avevano preso quella mezzadria, la villa stava chiusa e abbandonata da un pezzo. - Giacché i padroni non se ne curano, perché non abitate le stanze superiori? - Queste a terreno, capisce, sono piú comode per noi. - E dite, prima di me e della mia signora, nessun altro ha preso in affitto la villa? - Sí, quattro anni addietro, due forestieri, un vecchio con la figlia, bellissima creatura, che volle andar via dopo una settimana. - Perché? - Lo dissero forse; ma chi li capiva? Scapparono quasi, brontolando, facendo certi gesti! Già quel vecchio doveva essere mezzo matto. Andava attorno da mattina a sera, raccogliendo erbacce, riportandone a casa mazzi, fasci interi. La figlia dipingeva -. La giornata passò tranquilla. Elvia ed egli avevano quasi dimenticato le tristi impressioni della sera avanti, perché le stanze illuminate dal sole, assumevano durante il giorno aspetto gaio. Ma la sera, dopo il tramonto, sembrava si trasfigurassero; e non valeva l'accendere molti lumi. Qualcosa d'indefinibile, d'inesplicabile vibrava dalle pareti, dagli oggetti; si sarebbe detto anche dall'aria che vi circolava. Elvia, per vergogna di apparire bambinescamente paurosa, non osava di manifestare ad Aldo l'opprimente sensazione che la invadeva; ed Aldo si guardava bene dal confessarle la repugnanza che gli ispirava, di sera, tutta la casa, in qualunque stanza essi si intrattenessero fino all'ora di cenare e di andare a letto. Elvia si stringeva a lui, voleva esser presa tra le braccia, quasi per trovarvi un rifugio; ed egli era contento di tenerla cosí, di accarezzarla, di baciarla, di mormorarle dolci parole a interva lli ... Giacché, a mano a mano che la sera piú s'inoltrava, essi si sentivano costretti a restare silenziosi; e avevano ancora - pensavano - tante dolci cose da dirsi in quelle ore di raccoglimento, in mezzo alla gran pace della vasta campagna! Aldo non poteva piú dubitare che si trattasse di sensazioni reali. Elvia era un organismo solido, ricco di salute, come lui. Egli, è vero, si era occupato di fenomeni anormali, ma solamente leggendo quel che ne scrivevano, pro e contro, scienziati d'alto valore. Non si era mai provato a osservare direttamente, quantunque spesso invitato da persone che volevano iniziarlo ai misteri del magnetismo e dello spiritismo. Elvia lo aveva qualche volta graziosamente punzecchiato per questi suoi studi, mostrandosi pi uttosto incredula che no. Egli non poteva per ciò supporre che quel che essi e Nannina sentivano nella villa provenisse da eccessiva nervosità o da preconcetti capaci di alterare le ordinarie funzioni dei loro sensi. Avevano trascorso la intera giornata vagando per la campagna. Fatto colazione in una vaccheria, si erano inoltrati per sentieri e sentieroli verso le colline, cogliendo bellissimi fiori selvatici, fermandosi, per riposarsi, nelle case dei contadini incontrate qua e là, prendendo istantanee coi loro Kodak, fotografando ognuno un punto di vista diverso per sfida di vedere chi di loro due avrebbe saputo scegliere il paesaggio piú artistico; ed erano tornati tardi alla villa, un po' stanchi ma contentissimi del la bella escursione, e leticando allegramente intorno ai resultati delle pellicole dei rispettivi Kodak. Peccato che bisognasse attendere il ritorno a Roma per svilupparle! Intanto si erano seduti a tavola con grand'appetito, quantunque la cena non fosse ancora pronta. - Hai sonno? - domandò Aldo, scorgendo che sua moglie stentava a tener aperte le palpebre. - Elvia! ... Elvia! ... - egli gridò vedendole travolgere gli occhi fino al bianco. Ella non rispondeva. Rigida, eretta sul busto, con gli occhi chiusi e le sopracciglia corrugate, sembrava guardasse attentamente e vedesse a occhi chiusi. Aldo capí subito che si trattava d'un caso di catalessia spontanea e ne fu atterrito, non potendosi render conto della cagione da cui veniva prodotto, né delle conseguenze che avrebbero potuto seguirne. E continuava a chiamare, scotendola pel braccio: - Elvia! Elvia! - osservando ansiosamente gli atteggiamenti ch'ella prendeva quasi assistesse a uno spettacolo che la faceva inorridire. Poi le labbra di lei si agitarono; suoni inarticolati le uscirono di bocca. In piedi, con le mani sporte in avanti, ella indietreggiava, voltando il capo da una parte come per evitar di vedere. Diè un grido, cadde tra le braccia di Aldo che furon pronte a riceverla ... E riaperse gli occhi. - Perché? - domandò, stupita. - Ti sei lasciata sorprendere dal sonno - balbettò Aldo per non spaventarla. - Volevo metterti a giacere sul canapè -. Elvia non si rammentava di niente. Che cosa avea visto? Aldo non glielo domandò. Ma egli era ormai certo che in quella villa era dovuto accadere qualche terribile tragedia rimasta ignorata. Le pareti vibravano terrore. Si sentiva sopraffare anche lui dalla misteriosa forza ogni giorno piú. Sarebbe soggiaciuto alla catalessi pure lui? Con sua grande meraviglia, quella sera Elvia fu tranquillissima. Non mostrò di sentire nessuna impressione di paura durante la cena né dopo. Fu anzi piú allegra del solito; se non che, tutt'a un tratto, nell'alzarsi da tavola domandò - Dimmi: dove ho letto o dove ho veduto rappresentare ... - Che cosa? - È strano! - ella esclamò dopo breve pausa. - Mi torna in mente una scena di non so piú qual dramma, di non so piú qual capitolo di romanzo ... Come mai mi ritorna in mente cosí viva, cosí fresca, quasi l'avessi letta recentemente o veduta rappresentare? - Quale scena? - Mah! ... È strano! Mi sfugge ... Di quel marito che ordina alla moglie creduta colpevole: "Punisciti da te stessa!" E lei non vuol morire di veleno né di pugnale ... E vorrebbe gridare, chiamare aiuto; e urta agli usci chiusi a chiave, e picchia alle imposte delle finestre inchiodate ... e perde la parola e muor di terrore davanti all'inesorabile marito, che l'ha condotta in una villa lontana! ... Dove ho letto questo? O dove l'ho veduto rappresentare? ... È strano! È strano! - Lascia andare! - la interruppe Aldo. - Dimmi piuttosto un'altra cosa: Non ti sei già annoiata di star qui? - No. E tu? - Quell'inatteso fenomeno di serenità mise in maggior sospetto Aldo Sàmara. Gli parve di vedere la sua Elvia in balía delle misteriose forze spadroneggianti nelle stanze superiori della villa abbandonata, e volle sottrarla e sottrar se stesso al loro occulto potere. Tornati a Roma, egli soffrí per qualche tempo l'irragionevole ossessione di una malefica influenza che avrebbe nociuto a tutti e due; ma, dopo alcuni mesi di chiusa ansietà, ebbe a convincersi perfettamente che si era ingannato. - Soltanto, accadde - due o tre volte, a lunghi intervalli - che Elvia ripetesse, come quella sera: - Dimmi: Dove ho letto ... O dove ho visto rappresentare? ... È strano! È strano! - Da allora in poi, Aldo Sàmara ha riletto piú volte il libro di quei due scienziati inglesi, e metterebbe la mano sul fuoco per attestare che essi hanno ragione.

Allora egli si lasciava cascare, sfinito, sul vecchio canapè addossato al muro, con le braccia rotte da inesplicabile stanchezza, la testa abbandonata sul petto, e non osava di guardare la maledetta figura che si contorceva, appena abbozzata, col fiero gesto di tirar violentemente in su la massa spiovente dei capelli. E come quella figura ancora informe sembrava soffrisse orrendamente per l'inane sforzo contro la inesorabile fatalità che la teneva impigliata nell'umido blocco di creta dove si disegnavano ap pena le curve del seno, del ventre e delle anche, cosí egli sentiva, ora, di soffrire quanto non aveva mai sofferto, quasi pure il suo spirito si dibattesse impacciato da nodi interiori e non potesse liberamente trasfondersi in quell'opera, che ormai aveva il fascino delle cose vietate o stimate impossibili a esser raggiunte e, ciò non ostante, desiderate e rincorse con indomabile ardore. Immenso fu poi il suo stupore la mattina in cui si accorse che il sentimento di profonda tristezza dal quale veniva torturato da una settimana, non riguardasse se stesso e la inettitudine di raggiungere la giusta forma della sua opera d'arte, ma fosse invece vivissima partecipazione al disperato dolore di quella figura che cominciava a sembrargli persona viva, forse - egli aveva voluto darsi una spiegazione del fenomeno - per l'intensa e lunga contemplazione che gli faceva scorgere nell'opera non finita di abbozzare l'espressione che gli stava in mente e che avrebbe dovuto animarla se egli fosse riuscito a modellarla fortemente. - Ma non riuscirò! - sospirava. Gli sembrava anzi di aver già commesso un delitto, condannando la bellissima creatura - Dove l'aveva vista? Come l'aveva conosciuta? - all'ineffabile tortura di quell'atteggiamento da cui egli piú non si sentiva capace di liberarla. E quest'idea, dapprima parsagli sciocca o pazza, lo penetrava ogni giorno piú, gli dava un senso di rimorso, che però non era senza mistura di compiacimento, giacché non a tutti poteva accadere un caso uguale; ed esso indicava una forza, un potere intelligentissimo in colui che era arrivato, sia pure inconsapevolmente, a quel tentativo. E per ciò egli tornava tuttavia a chiudersi nello studio di buon'ora e ne usciva a sera tarda. Ma chi avesse potuto osservarlo ritto davanti al bozzetto, con gli occhi fissi in esso, e che guardavano e non vedevano, distratti da qualche oscuro fascino dal quale veniva interrotta la corrente di impressioni tra i sensi e lo spirito; chi avesse potuto osservarlo, specie in quegli ultimi giorni, quando stesa la mano verso la figura con un briciolo di creta su la punta dell'indice, egli si arrestava esitante con un tremito nel braccio, quasi temesse di compire una profanazione posando quel briciolo sul nudo corpo della formosissima donna, quantunque la modellatura ne fosse rimasta piú accennata che sviluppata; chi lo avesse, finalmente, osservato nei lunghi intervalli di sosta, buttato sul canapè, col viso contratto, con le mani brancicanti la stoffa di esso in atto di strapparla, non avrebbe mai immaginato che il giovane artista avesse perduto la giocondità di spirito, con cui riusciva gratissimo nei ritrovi e ne lle relazioni sociali, unicamente perché la mancata creazione artistica gli dava la pazza convinzione che una creatura umana soffrisse nell'opera sua. - Dove l'aveva vista? ... Come l'aveva conosciuta? - se lo domandava spesso e inutilmente. Quella mattina, avviatosi per lo studio, aveva indugiato davanti a una vetrina di acqueforti moderne e di riproduzioni fotografiche di capilavori di pittura. - Ah! ... Sei vivo? - E sentí afferrarsi un braccio dalla poderosa mano dell'amico che lo apostrofava con quelle parole. - Che fai? Lavori almeno, o ti sei perduto anche tu dietro qualche gonna, come l'imbecille di Dorini? - Lasciami stare! - rispose Vittorio D'Arèba. - Scoraggiamenti dunque? Tanto meglio. Soltanto gli sciocchi sono contenti di loro stessi. - Se tu sapessi quel che mi accade! - Quel che accade a tutti e che ognuno di noi suppone caso speciale, eccezionale ... Sentiamo! - Giulio Nolli soleva parlare cosí, con aria tra autorevole e beffarda, che lasciava incerti coloro che non ne conoscevano la vasta cultura e il fine ingegno di critico d'arte, s'egli fosse un gran pedante o un pallone gonfiato di vento. Vittorio D'Arèba, che ne apprezzava moltissimo i giudizi e i consigli, a quel "Sentiamo!" si scosse, pentito di essersi lasciato scappar di bocca un principio di confidenza che sarebbe stato assai scortese interrompere. - Può darsi - rispose. - Tu forse non lo crederai, tu che non stimi, come tanti altri, che la facilità d'esecuzione sia tra le qualità inferiori dell'ingegno artistico (e spesso ti sei compiaciuto di rallegrartene con me) tu non crederai che io stenti da un mese e mezzo a tirar innanzi ... una cosina da niente ... una figura di donna in vigoroso atteggiamento. Mi è apparsa cosí davanti agli occhi, mi sta fissa cosí davanti agli occhi, meglio di un modello reale ... e intanto ... - Chi sa che concetto, chi sa che simbolo ti sei messo in testa di esprimere! Giacché ormai anche voialtri scultori volete contribuire al benessere sociale, alla civiltà, all'emancipazione delle plebi ... ! E, col pretesto del concetto e del simbolo, fate brutte statue inguardabili o non riuscite a farne neppure brutte. - Niente affatto, caro mio. Ho veduto, meglio, ho fantasticato, o, meglio ancora, mi si è presentata improvvisamente all'immaginazione questa figura che ... che non so dirti che cosa voglia esprimere con quel suo doloroso atteggiamento; e mi son messo subito ansiosamente a ritrarla, a eseguirla. Credevo di sbrigarmene in due o tre giorni; e son là, da un mese e mezzo, non sapendo come finir di abbozzarla, di abbozzarla soltanto! Questo stranissimo fatto mi ha talmente impressionato, che in certi momenti - non stralunare gli occhi! - mi par d'impazzire. - Eh! Eh! - Perché l'immaginazione mi fa vedere tanta vita in quella figura di donna, da darmi un pungentissimo senso di pena, quasi ... - non stralunare gli occhi! - quasi io non mi trovi davanti a un'incompiuta opera d'arte, ma assista, impotente di soccorrerla, al martirio di una creatura umana attratta in un agguato per colpa mia. - Eh! Eh! Bisogna vedere questo miracolo! - Quest'infamia, dovresti dire. Mi vergogno di me. Sono incretinito? ... Sto per smarrire la ragione? - Il primo caso è piú probabile -. Ma un'affettuosa stretta di mano fece capire a Vittorio D'Arèba che il suo amico scherzava. Il giovane scultore si schermí un pezzo contro le insistenze del critico d'arte che voleva accompagnarlo a ogni costo allo studio; alla fine si arrese. - Mi saprai consigliare. - Non occorrerà. - Giulio Nolli si arrestò, increspando le sopracciglia, alla vista del bozzetto e, con grande stupore dell'artista, rimase lungamente assorto a contemplarlo da tutti i lati, senza punto curarsi dell'ansietà con cui quegli doveva attendere il responso di lui. - Oh! È un portento! - esclamò all'ultimo il Nolli. - Hai fatto il tuo capolavoro. Non farai niente di meglio in avvenire, te lo dico io. - Ti beffi di me? - E sei davvero incretinito, se non comprendi il valore di quest'opera, che ha un solo irrimediabile difetto - soggiunse il Nolli non ancora sazio di ammirare: - dovrà rimanere quel che è, un bozzetto. Nessuna abilità di esecutore potrà tradurlo in marmo conservandone la freschezza del tocco, l'incompleto. Non ardire di lavorarvi piú; sciuperesti questa terribilità di espressione che risulta appunto da quel che il tuo istinto d'artista ti ha preservato di alterare dando maggiore finitezza alla modellatura - . Vittorio D'Arèba era commosso, con gli occhi pieni di lagrime che gli velavano l'opera sua. Intanto il critico, continuato a profondersi in elogi, a sviluppare ampiamente il concetto risultante da quella tormentata figura, domandava all'artista: - Tu dunque non hai pensato niente di tutto questo? - Niente! - Benissimo. Le vive forze della natura creano cosí, con misteriosa inconsapevolezza; e l'ingegno artistico, che è una delle tante forze naturali, non può agire altrimenti. Fa' formare subito e poi fondere in bronzo il tuo bozzetto. Sentirai che scoppio alla prossima esposizione! - Mah ... ? - fece il D'Arèba con trepidante gesto interrogativo. - Come battezzarlo? Ecco: Dolore senza nome ! - Grazie! ... È proprio cosí! - balbettò lo scultore -. E sentiva dentro di sé tutta l'angoscia di quel dolore senza nome , che intanto gli si trasformava - prodigio dell'arte! - in infinita dolcezza.

Racconti 3

662750
Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1905
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Se ci fossimo sposati, come due o tre volte, nei giorni piú felici, io le avevo proposto, a quest'ora ella non sarebbe chi sa dove, abbandonata a chi sa quale destino, né io qui solo, con uno sgomento nel cuore che mi dà la sensazione della inutilità della mia vita. L'ultima volta che io le ripetei, insistendo, quella proposta, ella rispose: - Che temi? Non dobbiamo essere piú orgogliosi di sentirci legati spontaneamente, invece di saperci legati quasi per forza dal giuramento civile e religioso? - E nota ch'ella si sdegnava quando sentiva parlare di divorzio. Ella pensava che la gran virtú del matrimonio insolubile consiste appunto nel salvarci, nostro malgrado, dalle viltà e dalle aberrazioni prodotte da passeggere circostanze che poi si lasciano dietro grandi rimpianti. Ella pensava anche che il matrimonio civile è incompleto se non va accompagnato al religioso; e non era fervida praticante. Soltanto ora comprendo la immensità del suo sacrifizio. Ella ha voluto che io fossi libero di dividermi da lei il giorno in cui mi fossi accorto di non poter piú vivere insieme, il giorno in cui ella avrebbe potuto essere un ostacolo, un impaccio, una gravezza con qualche ragione e anche senza nessuna ragione. La colpa è stata di tutti e due, piú mia che sua però. Giacché io ho dovuto essere un enimma per lei, che non è mai riuscita a penetrare se i miei atti e le mie parole fossero in contraddizione coi miei sentimenti, coi miei pensieri. E lei si è quindi sforzata di parere un enimma anche a me imitandomi in tutto, quasi per mettersi all'unisono con me, quando avrebbe dovuto, invece, lasciar trasparire la discordanza e mostrarsi proprio quale era. Cinque anni di stupida finzione da l'una parte e dall'altra; cinque anni di balorda commedia divenuta a poco a poco abitudine da non permetterci piú di riconoscere se quella nostra vita fosse una finzione o una realtà, e se noi non ci esaurissimo con quel cattivo gioco di cui ci compiacevamo come di un necessario elemento di felicità. E ci siamo esauriti, fino a non riconoscerci piú, fino a credere che oramai non avevamo piú niente da dirci, né da sentire insieme, e che era inutile e sciocco il continuare la prova. Ed io - la prima parola di accenno è venuta da lei - ho potuto sospettare ch'ella si fosse stancata o che qualche altro avesse preso il mio posto nel suo cuore! Ho avuto la spudoratezza di scrivertelo in questa stessa lettera quantunque fossi già convinto dal contrario, tanto l'abitudine di fingere e di mentire, per vanità di apparire affatto diversi dagli altri, superiori agli altri ed emancipati da qualunque pretesa convenzione sociale, persiste in noi anche nei momenti, come questi, che avrei dovuto essere sincerissimo. Ero risoluto di esser tale, per soddisfare un impeto del mio povero cuore, e intanto - hai visto? - ho cominciato la lettera lasciando parlare il finto me, il mentitore me, quello che tu chiami lo scettico e che è invece il miserabile vanitoso che pretende di apparir superuomo! Oh! Ci sarebbe un rimedio a tanto disastro: richiamare telegraficamente Teresa, ricominciare da capo, svelarle il segreto della mia miseria spirituale ... Ma chi le assicurerebbe che io non mentisco ora come ho saputo mentire per cinque anni? ... E chi mi assicura - caro Poldo, compiangimi, sono arrivato fino a questo! - chi mi assicura che questa resipiscenza, questo scoppio di sincerità non sia un inganno di quella stessa vanità che mi ha ridotto qual sono? E gli intimi «io» multipli mi si accapigliano dentro come i sette spiriti di quel tale e parlano tutti a una volta. E uno mi dice: - Lascia andare! Meglio cosí! - E un altro mi dice: - Troppo tardi ti sei accorto del tuo grand'amore per Teresa! Ormai! Ormai! - E un altro mi suggerisce: - Niente è perduto! Ella ti ama troppo da non essere felice di ricominciare da capo! - E un altro: - Non far ridere la gente della tua debolezza di spirito. La vita è una commedia; rappresentala bene fino all'ultima scena! - Ed è quel che piú s'impone a me, quantunque il suo suggerimento sia quello che mi fa piú soffrire e che non cesserà di farmi soffrire! Ho tralasciato di scrivere e mi sono aggirato, come uno sperduto, per queste stanze dove è rimasta la impronta del suo cuore, del suo spirito con la suprema eleganza della disposizione dei mobili, dei quadri, delle stampe, dei ninnoli, e direi quasi della luce e dei colori, perché tutto è opera di lei. L'unica trasformazione da lei voluta fare una settimana prima di partire è stata quella del suo salottino, ora mezzo vuoto, con un'espressione di tristezza, come di luogo saccheggiato da violenza sacrilega. Ed io non l'ho impedita! Ed io l'ho compiacentemente aiutata con inconsapevolezza che ha dovuto essere ineffabile strazio per lei! Ed ho potuto telegrafarti i saluti di Teresa e soggiungere: Incipit vita nova! No, continua e continuerà la misera vita bugiarda! E mi durerà questo sgomento, giusto castigo dell'aver falsato violentemente in me la natura umana per vanità, per orgoglio di esser stimato un ribelle, un vincitore su tutte le leggi sociali! Ed ero un vinto! Debbo riconoscerlo ... 2@ 2 pomeridiane. Ho riletto questa lettera. È assurda! Spero che tu non la giudicherai sincera ... Ho esitato a spedirtela ... e la spedirò ... La commedia continua! Applaudisci o fischia: non me ne importa niente. Ci rivedremo presto. Tuo aff.mo CESARE

DISPERATAMENTE GIULIA

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Casati, Sveva 1 occorrenze

Giulia evitò di guardare il Cristo dal quale si sentiva ingiustamente abbandonata. Si vestì velocemente. Nell'ingresso infilò un vecchio cappotto di montone e uscì. Attraversò la via Tiepolo facendo lo slalom tra pozzanghere e auto, incurante della pioggia che continuava a cadere. Entrò in un bar tabacchi con l'insegna del telefono pubblico. Un marocchino armato di zelo e di uno straccio sudicio affrontava coraggiosamente un pavimento maltrattato da centinaia di scarpe, ma sembrava destinato a una clamorosa sconfitta. Giulia si avvicinò alla cassa dietro la quale troneggiava una giovane donna che aveva tutta l'aria di essere lì per sbaglio, mentre avrebbe dovuto trovarsi su un aereo per le Maldive. Era di cattivo umore e si vedeva. « Dica », l'aggredì la tabaccala guardando la cliente infreddolita come se fosse una chiazza d'unto sul suo vestito migliore. Un gettone », disse Giulia impaziente allungando duecento lire. « Fuori servizio », sentenziò la tabaccala alludendo al telefono pubblico. « Ma io devo assolutamente telefonare », insistè Giulia sull'orlo della disperazione. « Fuori servizio », ripetè fredda e spieiata come un cobra; quindi si rivolse a un paio di clienti che erano entrati e chiedevano un cappuccino. « Non potrebbe farmi usare il suo? » domandò supplichevole. « Quello lì », soggiunse indicando l'apparecchio accanto alla cassa. « Privato », la gelò senza guardarla, continuando a scambiare sigarette e caffè con danaro contante. « Tabaccala di schifo », scattò Giulia, « città di schifo, gente di schifo, mondo di schifo », gridò coinvolgendo irrazionalmente l'universo intero. Riattraversò il locale sotto gli occhi sbigottiti dei clienti, il silenzioso stupore della tabaccala, l'ingenuo sorriso solidale del marocchino. SÌ diresse quasi di corsa verso il bar latteria di piazza Novelli dove Giorgio e i suoi amici dissipavano la paghetta settimanale in merendine, Coca-Cola e juke-box. Il telefono c'era e funzionava. Giulia compose il numero del tecnico che conosceva a memoria. « Sono Giulia de Blasco », fece appena in tempo a dire all'addetto che aveva risposto all'altro capo del filo. Poi scoppiò in lacrime. Seminascosta fra cassette di birra, Coca-Cola e uno scaffale pieno di pasta e biscotti, nell'odore dolciastro di segatura bagnata, stringendo la cornetta lercia di un telefono pubblico, Giulia pianse senza ritegno. Pianse sulla sua vita sbagliata, sul suo matrimonio fallito, pianse perché anche suo figlio l'aveva lasciata sola, perché quel giorno doveva assistere all'esumazione delle reliquie del nonno Ubaldo. Pianse perché aveva la casa gelida, perché il telefono non funzionava, pianse perché a quarant'anni s'era innamorata come una ragazzina, ma soprattutto pianse perché lei stessa era andata in tilt. Qualcosa nella mirabile costellazione del suo organismo si era inceppato. Le cellule di un nodulo al seno prelevato un mese prima non erano del tipo regolamentare. Erano di quelle che continuano a ripetersi senza fermarsi mai. Come un interruttore che si accende e non si spegne più. Quel giorno accidioso di dicembre Giulia piangeva per molte cose, ma soprattutto perché aveva un cancro.

ARABELLA

663072
De Marchi, Emilio 1 occorrenze

Il fermarsi improvviso che fece la carrozza scosse Arabella da quello stato di assopimento in cui s'era abbandonata nell'appoggiare la testa alla parete del legno, nel chiudere gli occhi, nel lasciarsi cullare e stordire dal rumoreggiare delle ruote. Saltò in terra, mise nelle mani del cocchiere il prezzo della corsa, e, senza dire una parola, sparve nell'andito oscuro della porticina, e al buio, cercando a tastoni una scaluccia, giunse sopra un ballatoio che dava verso il cortile. Un sogno non avrebbe potuto essere più sogno di questa lugubre realtà di trovarsi a nove ore di sera sopra il ballatoio di una povera casa, in luogo sconosciuto, esposta al vento e alla pioggia, che strepitava in un cieco cortile, dove certe piantone nere si agitavano e stormivano nell'ombra. La casa pareva deserta. Solamente un quadretto di luce, sfuggendo da una finestra, andava a sbattere sul fondo verdone di un castagno amaro, che riempiva de' suoi rami l'angolo del cortile. Arabella, camminando rasente il muro, lungo il ballatoio per non essere battuta dalla pioggia, picchiò leggermente nella finestra illuminata. La Colomba, col capo ravvolto in un fazzoletto di cotone, dall'orlo del quale uscivano alcuni pizzi di capelli bianchi, cogli occhiali sul viso, aprì la finestra, e sollevando la lampadina a petrolio che impallidì al soffio dell'aria, domandò: "Chi è?" "Sono io, Colomba." "Chi?" chiese un'altra volta la donna, mettendo fuori il capo. "Sono l'Arabella." "O santa Maria Maddalena!" "Aprite l'uscio." "Passi di là. Vengo subito. O santa Madonna del Rosario!" E corse ad aprire la finestra ad uscio, che dava direttamente sul ballatoio. "Lei? ma è proprio lei? con questo tempo? cari angeli, ci porta qualche buona notizia?" "Lasciatemi sedere." "Cara vita mia, è tutta un'acqua. Da dove viene? Aspetti che ora faccio un po' di fuoco. Si sente male?" "No, abbiate pazienza. Lasciatemi tranquilla un momento. Ora vi dirò tutto." "Qualche altra disgrazia? si segga, riposi: già, non mi aspetto più nulla di bene." "Ferruccio?" "Hanno voluto quasi ammazzarlo. L'hanno buttato in terra, percosso alla testa, peggio degli assassini di strada. Poi dette fuori la febbre, il delirio, la congestione che ha tenuto sospeso il dottore fino a stamattina. Oggi s'è un poco risvegliato; ma pareva diventato matto quando la febbre me lo bruciava vivo. Se non divento matta anch'io, è perché il Signore vuole che io rimanga a soffrire per me e per gli altri, per i vivi e per i morti. Si asciughi i piedi. Da dove viene con questo tempo?" "Son venuta a cercarvi una carità. Lasciatemi qui fino a domattina." "Io usare una carità a lei?" "Vengo qui dopo aver schiaffeggiata una donna. Sentite, tremo tutta." "O santa pazienza, che cosa mi dite?" "Non vi ha mai detto Ferruccio che mio marito manteneva un'amante?" "O poverina, capisco che abbia a tremare. Come l'ha saputo? e ha avuto il coraggio? oh quanti mali ci sono nel mondo, vero, pover'anima? Adesso si calmi; taccia, riposi. Le farò scaldare una goccia di caffè. L'ha presa a schiaffi? capisco, ci son certe cose... Non parli adesso. Lasci quietare il cuore. Vado un momento a veder quel figliuolo... Intanto prenda. Questa è una corona benedetta al santuario di Caravaggio. Se anche non si sente di pregare, se la tenga nelle mani. In certi momenti le nostre forze non bastano e bisogna attaccarsi a qualche cosa di più forte. Del resto, viva la sua faccia! se l'ha presa a schiaffi..." In queste parole la Colomba gironzava per la cucina, mettendo le mani sulle cose senza concluder nulla. Finalmente si ricordò d'aver promessa una goccia di caffè e accostò un bricco nero e affumicato al fuoco. Poi andò nello stanzino a vedere Ferruccio, che giaceva assopito colla testa avvolta in pezze ghiacciate. La zia Nunziadina, seduta ai piedi del letto nell'ombra oscura del paralume, faceva la calza. Dopo la benedizione che la povera nanina aveva fatta dare a sue spese a San Barnaba, Ferruccio cominciò subito a migliorare: perciò il cuore della zia aveva qualche ragione d'essere più contento e di sperare. "Chi è venuto?" chiese sottovoce alla Colomba. "È la sora Arabella, ma non disturbarla: va in letto a riposare, che resto io." "Ha aperto due volte gli occhi." "Ha cercato da bere?" "Gli ho dato due cucchiai di acqua e zucchero." Il vento e l'acqua infuriavano sui tetti. "Par la fine del mondo" mormorò la zia Colomba. Arabella, cogli occhi fissi alla lingua di fuoco che serpeggiava nel vano nero del caminetto, si abbandonò col pensiero e si lasciò assorbire nella sua stanchezza dai bagliori della fiamma. Si dimenticò, pesando col corpo sulla povera scranna di paglia, come chi sta per addormentarsi dopo un lungo e faticoso cammino. Anima e corpo sospiravano un minuto di riposo, dopo la gran corsa attraverso alle strade e alle persecuzioni umane. Il volto, fatto più acceso dall'affanno e dai riverberi del fuoco, splendeva d'una bellezza più asciutta e più vigorosa, in cui gli occhi neri, forti e risoluti, mandavano dei lampi insoliti. Il piccolo berretto o tòcco di astrakan, che le copriva a stento la cornice dei capelli, dava alla fuggitiva un carattere ardito di viaggiatrice, un'aria straniera al suo carattere, un non so che di avventuroso, che sarebbe molto dispiaciuto alle buone madri canossiane. "È un tempo indiavolato!" disse la Colomba, rientrando e mettendosi in ginocchio davanti al fuoco. Le due donne rimasero così un po' di tempo in silenzio, mentre il bricco cominciava a fremere nella brace e a mandar bollicine dal becchetto. Ravviato il fuoco, la Colomba tolse dalla dispensa una bella chicchera dall'orlo rosso e servì il caffè. "Si scaldi lo stomaco, poveretta: il caffè rianima. Io non vorrò niente altro in punto di morte. Possiamo farci compagnia, mentre quel povero ragazzo è quieto. Lei dunque ha saputo, e ha dato un paio di schiaffi a quella... E ora non vuol tornare a casa?" "No." "Andrà a casa, dalla sua mamma?" "Non so." "Non sa, cara pazienza? Se io avessi un palazzo a mia disposizione, sarei così contenta di offrirglielo." "Povera Colomba…" "Povera, sì, povera, in tutti i sensi, il mio bene. Eran più di vent'anni che vivevo tranquilla, come se il Signore mi avesse perduta di vista. Non si fa male a nessuno, veramente: e quel poco di bene che si può fare non ci rincresce. Bastò una parola per renderci i più disgraziati del mondo: l'uno è in prigione, l'altro in punto di morte, Nunziadina è convulsa per lo spavento, e io non so se sono di questo o di quell'altro mondo. Vede dunque che tutti abbiamo le nostre tribolazioni e forse le più grosse non sono ancora quelle che si possono contare." La pioggia verso mezzanotte cominciò a calare, e prese più fiato il vento che scendeva a mugolare nella canna del camino. Le due donne rimasero un pezzo in segreti discorsi nella luce del fuoco. Arabella contò le sue passioni, colla confidenza che ispirano le anime semplici, provando nel togliere i pesi dal cuore un primo sollievo. "Vorrei scrivere una lettera a mio zio Demetrio." "Sulla scrivania di Ferruccio c'è carta e penna. Venga con me." Passarono insieme nello stanzino sulla punta dei piedi, e si accostarono al letto. Arabella pose una mano sulla mano dell'infermo assopito e stette un minuto ad ascoltare il battito dei polsi. Ferruccio aperse un pochino gli occhi. Siccome veniva fuori da una selva di sogni fitti, di vaneggiamenti e di stravaganti deliri, stentò a ritrovarsi, a ricordare, a distinguere il vero dalle ombre. Nel pesante sopore in cui più d'una volta vide suo padre accapigliarsi col sor Tognino, gli era parso di udire la voce della zia Colomba mescolata ad altri rumori che lo menavano lontano, ai giorni della sua fanciullezza, tra i compagni di stamperia, tra i chierici del seminario, tra le più remote e abbandonate sensazioni della sua vita oscura o modesta. "Ho sete" balbettò sbarrando gli occhi. Non ben desto gli parve di vedere la signora Arabella attingere dell'acqua a una fontana che scaturiva lì presso, nella luce abbagliante d'una lucerna, e curvarsi verso di lui a refrigerargli la bocca e la fronte abbruciata. Capì ch'eran sogni di febbre e voltò il capo con espressione dolente, chiudendo di nuovo gli occhi. "È meno arso di stamattina" disse sottovoce la donna. "L'occhio lo trovo limpido." "Ora non delira più, ma ieri faceva pietà. Ha nominato anche lei." "Povero giovane!" "Vuol scrivere? sul tavolino c'è tutto. Non guardi il disordine. Sono i libri di questo figliuolo che, quando può, ama leggere e scrivere. Fa qualche volta anche dei sonetti che il padre Barca trova mica male. Io mi accomodo nella stretta e appoggio un poco la testa ai piedi del letto." La Colomba collocò la lucernetta sulla scrivania, tirò davanti un vecchio paravento per togliere la luce dagli occhi del malato e andò a sedersi su un cuscino in terra per poter appoggiare la testa piena di sonno e di dolori al materasso. Arabella, segregata tra le finestra e il muro, si tolse il mantello dalle spalle, collocò il berretto sul tavolino, e scelto un foglio tra quelli ch'erano sparsi tra i libri, cominciò a scrivere d'impeto: "Caro zio Demetrio, la sua povera Arabella, dopo aver inutilmente sperato nell'aiuto di Dio, non ha altri a chi ricorrere che al suo buon zio, che fu sempre per lei come un padre. Immagini in quale abisso io son caduta da queste parole: ho abbandonata stasera la casa di mio marito, disposta a morir di fame piuttosto che ritornarvi. Ho schiaffeggiata una donna... O mio caro zio, lei conosce quasi giorno per giorno la mia vita, i miei sentimenti, la mia religione, la mia forza di resistenza al male e all'ingiustizia: quindi non ho bisogno di dimostrarle che se ho potuto venire a questa risoluzione, è proprio perché non ne posso più, non ne posso più. Avrei a scrivere troppo se soltanto accennassi alle vicende dolorose che mi hanno condotta a poco a poco a questo passo. Mi hanno strappato alla mia vocazione, hanno fatto di me una specie di cambiale che doveva riparare a un disastro di famiglia: mi hanno circondata di un fasto senza amore; e quando cominciavo a vivere de' miei affetti di madre, hanno insultato me e la mia creatura per odio al nome che porto; ora che mi pareva di aver tutto perdonato mi insultano nella più sacra mia dignità di donna, mescolandomi ad avventure di trivio... "Io mi domando se non ho insultato anch'io al mio dovere, credendo che il dovere di una donna onesta possa arrivare fin qui. Questa non è vita, è una condanna che sento di non meritare. Dovessi lavorare venti ore al giorno, logorarmi gli occhi e le mani per un boccon di pane, sarà sempre una condizione più degna di questa quiescenza e quasi complicità a un sistema di cose che viola ogni legge di onestà, di delicatezza, di rispetto. "Immagino il suo stupore, povero zio, nel leggere queste parole. Ella chiederà se io impazzisca; non crederà possibile che la sua Arabella osi scrivere a questo modo. Si meraviglierà anche perché io non le ho scritto mai nulla di questo stato di cose e che aspetti a gridare aiuto quando l'acqua mi arriva alla gola. Sì, è vero: non ho osato prima di quest'oggi dolermi con nessuno e invocare l'aiuto di nessuno, perché ho sempre creduto che avrei vinta da sola l'iniquità della mia sorte; perché non volevo coi miei lamenti accusare la buona fede di nessuno; perché speravo ancora nell'aiuto di Dio e, superba come sono, speravo nella forza del bene. Dio forse mi punisce, o almeno mi abbandona. Il male è più forte del bene nel mondo, dove, per un cuore che si sacrifica in olocausto sull'altare della virtù, cento egoismi vigliacchi e potenti trionfano incoronati della loro sfrontatezza. Il bene è un sole luminoso ma troppo in alto, mentre di male è seminata la terra che non dà altro frutto e di questo bisogna mangiare per vivere. Mentre scrivo colla febbre indosso, mi pare che anche l'inchiostro abbia color di fango. Zio, o io sono per impazzire o sono molto malata. Non frapponga indugio: venga, non mi lasci naufragare in quest'oceano di amarezze... intendo di chiedere la separazione legale, subito, senza esitazioni, senza restrizioni. Intendo restituire a quella gente tutto ciò che potrò restituire e di partirmene più povera di prima. Nessuno compenserà il male che questa gente mi ha fatto, ma io perdonerò tutto, se ciò può muovere la misericordia di Dio ad aver compassione di me. La fede non basta, lei forse lo sa, che ha sofferto anche lei la sua parte nel mondo. Sopraggiungono pensieri che per poco non spingono alla disperazione. Venga subito a Milano, mio buon zio, e faccia valere per partir subito, la ragione che una sua povera nipote è sull'orlo del sepolcro. Più malata di me non si può essere e la morte dev'essere una cosa ben terribile, se per morire si deve soffrire di più. Mi telegrafi il suo arrivo qui a Milano in casa..." La mano fu arrestata nella ricerca d'un indirizzo. Arabella alzò la testa, come se si svegliasse da un lungo sonno, si guardò intorno con occhio smarrito, impaurendosi di trovarsi a un tratto sola, in casa altrui, di notte, ospite di gente quasi sconosciuta. Che cosa era venuta a fare in questa casa non sua? La Colomba, rotta dalla fatica, s'era addormentata col capo appoggiato al letto. Il suo respiro lungo e oppresso era l'unico rumore che rompesse il gelido silenzio della stanza, mentre di fuori la furia d'un vento primaverile faceva stormir la pianta. Qualche stella scintillava sul nero sfondo dei vetri. Sentì sonare alcune ore che il vento portò via senza lasciarle contare. Coi gomiti appoggiati al tavolino, reggendo la testa coi palmi, rabbrividendo ai soffi freddi che entravan per le fessure, Arabella si abbandonò alla vertigine de' suoi pensieri, che la travolsero di ombra in ombra fino all'orlo di un assopimento che ha del sonno tutti i fantasmi ma non l'oblio. E poiché tutti i dolori si conoscono tra loro, il suo patimento presente la menò a risentire le angoscie provate al letto del povero Bertino, a confondere nel rilassamento delle sensazioni se stessa col povero piccino agonizzante, a compassionare se stessa in lui, a combattere confusamente contro la morte, che voleva portarsi via il caro biondino. Rivide lo squallore delle Cascine, lo smarrimento della sua povera mamma divenuta vecchia vecchia. E allora cercava di dimostrarle che il malato non era il bimbo, ma un'altra creatura, che perdeva la vita col sangue negli spasimi mortali di un aborto: finché sopraggiungeva anche lo zio Demetrio a fare un discorso lungo e confuso sul conto del signor Tognino... Si risvegliò a una voce che chiamava lì presso. In principio credette che fosse ancora lo zio Demetrio, ma quando riconobbe il luogo, la scrivania, la lettera rimasta tronca, capì che aveva fatto un sogno. "Ho sete..." ripeté ancora la voce di poco prima, La Colomba dormiva pesantemente sdraiata sul tappetino. Arabella, riconosciuta la voce del malato, si alzò, pose la lucernetta sul cassettone e si mosse a dargli da bere. Ferruccio s'era un poco levato sul cuscino per togliersi il sacchetto del ghiaccio, che gli scivolava dietro il collo. Vedendo venire verso di lui la signora Arabella, socchiuse gli occhi e dondolò un poco la testa, come chi si accorge di vaneggiare sempre e mostra di compiangere se stesso. Arabella versò dell'acqua nella tazza e l'accostò alla bocca del malato, che riaprì gli occhi e bevette quasi fino al fondo. "Come si sente?" Il giovine fissò gli occhi in faccia alla sua visione e interrogò ancora una volta colla pupilla immobile: "È proprio lei?" balbettò. "Vuol bere ancora?" "No, no..." disse Ferruccio, senza mai distaccare gli occhi dalla sua visione. "Vuol ancora il ghiaccio sulla testa?" "No, no..." e allungò la mano per prendere quella del suo fantasma. Sentì veramente una mano viva e calda. E, come se da quel calore irradiasse la vita, la faccia dell'infermo arrossì, la pupilla si illuminò, e dopo aver chiusi gli occhi per sottrarsi a un acuto tormento, li riaprì velati di lagrime. "Perché è qui?" interrogò sommessamente. "Lo saprà: ora stia tranquillo e lasci riposare la povera zia." Ferruccio si tirò sotto obbediente. Non era ben sicuro che non fosse un sogno. Cominciò ad albeggiare. Il cielo prese a schiarirsi dietro i ricami del castagno amaro, in cui svegliavasi il bisbiglio degli uccelli. La lucernetta non avendo più olio, Arabella la portò in cucina e la spense: poi ritornò nello stanzino, coprì le spalle col dolman, si rannicchiò di nuovo davanti alla scrivania, la faccia nelle mani, tutta raccapricciante nei brividi mattutini, mezza istupidita dal sonno e dalle emozioni. A San Barnaba suonò l'avemaria, e ad ogni rintocco della campanella il cielo seguitò a schiarirsi, come se obbedisse ad un comando, finché una pennellata di carminio venne ad illuminare i comignoli e le gronde dei tetti. Il vento, spazzate le nuvole, aveva preparata una splendida giornata alle miserie umane. Ferruccio raccolse l'armonia di quel risveglio e cercò inutilmente intorno a sé la dolce immagine, che era venuta a porgere ristoro alle sue fauci infocate. Vide invece la zia Colomba, che, riscossa dal suono della campana, saltava in piedi tutta agitata. "Hai dormito?" "Sì." "Tu sei più fresco, mio cuore. Ho dormito anch'io un pezzo." Ferruccio si persuase ch'egli aveva proprio sognata la dolce consolatrice e sospirò. La zia Colomba nel suo dormire fitto e pesante aveva dimenticata interamente la povera creatura che era venuta a cercare ospitalità in casa sua e fu per trasalire di paura, quando vide un corpo mezzo abbandonato sul tavolino nella luce crepuscolare. Si accostò, posò la mano sulla testina fredda, e presa da quell'impeto di carità umana, che nel cuore della povera gente non è ancora guasto dalle definizioni, si abbassò su quel corpo irrigidito, strinse la testina nelle mani, vi accostò il viso per riscaldarla e seguendo i suggerimenti della buona madre natura, prese a dire sommessamente: "O la mia povera figliuola, o il mio caro angelo, che ho abbandonato qui solo a patire. O il mio povero faccino freddo, le mie povere manine... Il sonno ha tradito anche me..." A questa voce che la compassionava, come se in lei si spezzasse un edificio di ghiaccio che l'aveva sorretta nella sua rigida lotta contro gli uomini, nella debolezza in cui è sempre la coscienza mescolata alle ombre dei sogni, Arabella fu presa da un tal delirio di pianto, che una bambina schiacciata dalle ruote di un carro non avrebbe potuto gridare di più. Quel gran mucchio di mali, che da otto mesi era andato accumulandosi a fuscellini, divampava in una fiammata. Oh avete un bel dire che la donna è nata pel sacrificio, che può colla grazia e colla sua forza morale vincere e abbellire la tristezza d'ogni destino, assurgere al disopra del fango che la circonda, compiere anche in mezzo alle abbiezioni la sua missione d'amore e di pazienza! Avete un bel dire che a lei la fede è sostegno incrollabile: non è vero. La donna ha bisogno d'amare e d'essere amata, come il fiore ha bisogno d'aria e di luce. Quando la violenza delle cose, la debolezza dei giusti, la tirannia dei tristi costringono una debole creatura a respirare aria corrotta, e voi non date a una povera donna che amarezze, oltraggi e fango, null'altro che fango, lasciate almeno che essa gridi del male che le fate... Coi pugni dentro i capelli scarmigliati dalla veglia, Arabella Pianelli gridava veramente in un pianto lamentoso senza lagrime, dilaniata dalla coscienza del suo stato, avvilita dopo una notte di falsa e morbosa resistenza, assiderata dal freddo della febbre e della notte. "Non così, non così la mia creatura...." prese a dirle all'orecchio la Colomba, serrandola alla vita colle braccia e posando la sua testa grigia sui capelli morbidi e biondi della tribolata. "Non così, per amor di Dio. Ciò può far male anche a questo figliuolo malato. Crede che non ci sia un Signore anche per noi? Io capisco e compatisco, angeli custodi, ma non bisogna mai disperare della Provvidenza. Questo è un piangere che rompe il cuore e del nostro cuore dobbiamo rendere conto come di un vasetto d'oro che Dio ci ha dato in custodia. Ti hanno maltrattata, il mio angelo; ti hanno venduto, avvilito, insultato nel tuo sentimento di sposa e di madre, e so che certi mali fan perdere la testa. Tu non hai meritato questi castighi, è vero; ma sappiamo noi se non soffriamo per il bene di qualcuno? Nostro Signore aveva meritata la sua passione? E tante povere mamme che non han da dare da mangiare ai loro figliuoli, meritano di soffrir tanto? Noi non sappiamo nulla dei misteri del mondo, cara Arabella; ma dobbiamo tener dacconto il nostro cuore, perché gli è come il tabernacolo del Santissimo. Se non ci vorranno bene gli uomini, ci vorranno bene gli angeli, ma noi dobbiamo aver sempre pronto il cuore a ricevere il bene che ci vorranno dare o presto o tardi. Su dunque, alza la testa, mio caro angiolo, e vieni fuori con me, un momento. C'è qui la chiesa vicina: noi abbiamo bisogno di essere aiutate a patire..." La Colomba ricondusse la figliuola di nuovo nell'altra stanza. Le ravviò un poco le vesti; fece un po' di fuoco ancora e versò quel resto di caffè che era rimasto in fondo al bricco. La persuase a non mandare per ora la lettera allo zio Demetrio e a cercar invece di quella sua amica di collegio, l'Arundelli, a cui poteva confidare il suo segreto. Meglio di tutto poi sarebbe stato di andare alle Cascine in cerca della mamma. La mamma è il miglior dottore per certi mali...

LE DUE MARIANNE - I CONIUGI SPAZZOLETTI

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De Marchi, Emilio 2 occorrenze

il pensiero dello spavento che essa avrebbe provato, vedendosi a un tratto abbandonata, l'interpretazione che un tale abbandono poteva ricevere dopo le aspre parole barattate in vagone, tutto ciò, misto a un inconsulto sentimento di rabbia, di gelosia, di compassione, lo cacciarono a corsa per un cinquanta passi sulla via ferrata, al chiaro di luna; ma la ragione gli dimostrò subito come fosse sciocco quel correre alla ventura e ritornò in stazione, che, quella notte, rappresentava un punto importante nella geografia della sua vita. Fra gli altri pensieri il più pungente era che Margherita avesse fatto apposta per dargli una lezione. Ma se per lo Spazzoletti era un'agonia, per la sora Ballanzini, quando rinvenne, l'idea che il suo Claudio viaggiava solo solo con quella bella signora, che sarebbe giunto con lei a Musocco, che l'avrebbe per necessità, per pietà, per cortesia, ricevuta in casa a passare la notte, che... che... quest'idea era la morte addirittura. Ricuperate le gambe, voleva ad ogni costo che le si procurasse una carrozza; ma nessuno si mosse, e le fu dimostrato che nessuno avrebbe voluto scomodarsi in quell'ora, che le strade erano cattive, piene di pericoli: che non valeva il conto per poche ore di differenza d'intraprendere un disastroso viaggio nel pieno della notte, mentre all'alba sarebbe passato il treno di Arona. Volere o no, dovette rassegnarsi anch'essa. Tornarono a guardarsi in viso. La luna nella sua stupida placidezza pareva che ridesse sgangherando la bocca. La strada ferrata si prolungava deserta e luccicante a destra e a sinistro in una lontananza piena di ombra e di misteri. Per tutto era un gran silenzio e una grande solitudine. Entrambi sentirono riempirsi gli occhi di lagrime e una cosa alla gola che minacciava di strozzarli. Il Caldara, che, non vedendoli uscire, era venuto a cercarli, dopo aver riso dell'avventura, invitò gentilmente anche la signora in casa sua, molto più che i Ballanzini di Musocco non erano persone sconosciute a Parabiago, anzi... Stavano quasi per avviarsi verso la carrozza, quando il capostazione gridò: - Signori, è annunciato un telegramma da Musocco. Fu come se sparasse una fucilata. Il cavaliere Spazzoletti e la sora Ballanzini accorsero con tanta trepidazione, con tanta indiscrezione, che a stento il capostazione poté persuaderli a non toccare la macchinetta, e a sedersi, e a star zitti e quieti. - Il telegrafo non è una campana - brontolò quel buon uomo del Capo. Si rassegnarono ad aspettare con pazienza. La punta dell'ago cominciò a picchettare la striscetta mobile di carta con un movimento nervoso e balzano, come il polso dei nostri due disgraziati. La stanza era illuminata da una lucerna posta sulla tavola telegrafica, coperta da un paralume che lasciava nell'ombra il soffitto e le pareti. Il tic-tac della macchinetta non era accompagnato che da un grave e lento toc-toc d'un grande orologio a muro rincantucciato dietro uno scaffale. Quando la punta dell'ago cessò di scrivere, il Capo trasse dall'astuccio gli occhiali, li inforcò sulla punta d'un naso che pareva l'insegna del vin buono, e aggrottando due folti sopraccigli bianchi e due baffi irti come due fascetti di fieno, si accostò alla lucerna. I nostri viaggiatori naturalmente gli si misero alle costole. - Ma che stagano al loro posto, benedetta pazienza! - esclamò il pover'uomo fuori di sé. - Già loro non ghe capiscono un'acca allo stesso. Dunque el dice: " Musocco, ecc. Strada libera, spedite vino... " Io credo che i due vedovi sarebbero rimasti stupefatti cent'anni a guardarsi in faccia, se il Capo non soggiungeva: - Ho capito. Questo viene a noi, e riguarda un carico di vino che abbiamo in magazzino; ma che sentano... Infatti il campanello annunciava che un altro telegramma urgente era in viaggio da Musocco. Questa volta diceva: " Cambiata moglie, dormiremo a Musocco, venite prima corsa ". Lungo sarebbe descrivere tutti i vari sentimenti che queste parole destarono nel cuore del cavaliere Spazzoletti e della sua dolce compagna: più a lungo ancora il descrivere l'accoglienza che le sorelle e la moglie del Caldara fecero alla sora Ballanzini e a' suoi papaveri. Dirò solo che l'amico per festeggiare gli sposi aveva fatto preparare il the, dolci e vin bianco, e una stanza imbiancata apposta con un letto di piume d'oca. Ma nessuno poté chiudere occhio per tutta la notte. Chi pianse, chi rise e chi pianse per troppo ridere. Spazzoletti si sdraiò vestito sopra un canapè e divorò un mezzo cuscino per la rabbia. Il cuscino gli fe' passare il pappagallo.

BALLANZINI: Anche mi me chiamo Marianna, Marianna Ballanzini, moglie a quel brutto mostro di Narciso Ballanzini che mi ha abbandonata sul lastrico. Se resti vedova on altra volta, prima de sposà on uomo ingrato, ti sposi ti el me pover gattin. LUIGI: Non arriva qualche altro telegramma? CAPO: Ne arriva uno dalla Bullona. BALLANZINI: Citto, sta volta l'è propi lu... CAPO: Ha capito de stare indietro, benedeta dona. BALLANZINI: L'è el me marì che parla, donca gh'ò diritto. cAPo: Lei mi guasterà la macchina e allora addio dispaccio. LUIGI: Abbia pazienza, signora Ballanzini... CAPO: " Avvertire signor Spazzoletti moglie fermarsi Bullona casa Ballanzini in attesa prima corsa di domani " LUIGI: Meno male... BALLANZINI: Come meno male? LUIGI: A Milano mia moglie non conosce nessuno... e son contento che passi la notte in una casa ospitale. BALLANZINI: Niente affatto: ghel manda subit indree: moglie Ballanzini niente voler in casa bella sciorina: venire con manico scopa. LUIGI: Signora Ballanzini lei fa torto a me, a mia moglie, a suo marito e anche un poco a lei stessa. È meglio pigliar la cosa allegramente, cercar di passar la notte meno male in questo paese, e domani colla prima corsa andremo tutti quanti a far colazione in casa Ballanzini, se lei c'invita. BALLANZINI: Poiché lei mi pare un uomo abbastanza sicuro del fatto suo, se el voeur accompagnare coll'ombrella el presentaroo in casa Riboldi dove la sora Paolina la podarà damm de dormì a tutti e due. L'è ona brava sciora e anche el sor Riboldi l'è on bon ometto. Ghe vendiamo le gallette tutti gli anni. Ghe rincress no a portaa el miscino? Paese che vai, dice el proverbio toscano, donna che trovi... Son minga giovina come la sua sposina, ma Narciso el dice che valgo ancora i miei cinque soldi, quand son on poco rangiata su.

La Colonia felice: utopia lirica (terza edizione)

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Dossi, Carlo 1 occorrenze
  • 1879
  • Stab. Tip. Italiano DIRETTO A L. PERELLI - Ditta Libraria di NATALE BATTEZZATI
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Il raggio lunare vi si versava senza risparmio, e nel pallor di quel raggio, parve che il càndido volto di Forestina imperlasse ognor più, abbandonata, com'era, sulla spalla di Mario, le molli braccia fluenti. Mario ne sobbalzò. Egli temette che il sonno non si dovesse più distaccare da lei. E corse, con la svenuta, alla soglia di una vicina spelonca, un de' suòi luoghi di posa, ve l'adagiò sopra un tàlamo d'erba, e a lato le si fe' ginocchioni, sentèndosi sciorre la rabbia in pietà e la pietà mutarsi in disperazione. Ma già la fanciulla avèa riacceso i grand'occhi, e con un filo di voce, che parèa un sospiro: che ti ho fatto? - chiedèa. Brillò la trèmula voce nelle ìntime fibre di lui, e le tenne, finchè ci svanì, oppresse. Mario il capo abbassò, abbassò le pupille, avrebbe voluto inabissarsi tutto. Ma, cessata la voce, ecco tornargli, da ogni banda, la rabbia, come il mar rifluente che anela riassoggettarsi la spiaggia. - Che hai fatto? - ei gridò, scattando in pie' minaccioso - hai fatto di un leone una lepre, di un uomo un pupazzo. Vedi, a che mi avvilisti in cinque anni! ... Io, fuori da quello sciame di servi che ha nome umanità, senza desìo di amici, nè di nemici paura, senza il puerile bisogno di fabbricarmi menzogne per crederle, vivevo in una eròica quiete, in una divina apatìa; vivevo, legge a mè stesso, fruendo, indiviso e purìssimo, il più prezioso dei doni, la libertà. E tu ... tu me l'hai tolto. Tu mi adescasti, o maliarda, a sospirar la catena, me l'apprendesti a portare, mi hai piegato a baciarla. Per tè, conobbi il sapor del mio pianto, il suono del rìder mio. Da tè, quell'amore che mi facèa vilmente desiderare un'offesa per perdonarla, e quell'odio da avvelenar, coi voti, il creato. Da tè gli entusiasmi, gli abbattimenti da tè. E, più che altro, tu sei giunta, tu sola, a quanto gli uòmini con la loro artefatta giustizia non sarèbber mai giunti, a innestarmi il rimorso, l'inuccidìbile tarlo, la pena di tutte le pene ... Ma io mi riconquisterò - aggiunse, e già l'estro omicida gli balenava nelle pupille - ma io ti sacrificherò, o intrusa, all'amante che mi obbligasti a tradire. Morte a quelli occhi che affascinàrono i mièi! ... morte a quella gloria di chiome, che mi allacciò, capello a capello! ... morte a quelle labbra bugiarde, di cui ero affamato! Io sazierò l'arsura della vendetta nel tuo sangue ... di rosa. Tutta, tutta, io ti voglio annientata, tu che nascesti sì bella per viemeglio ingannare; tutta, o sole che m'incendiasti! assassina della mia pace! - Die' la fanciulla un lamento, e disse: continua e mi hai morta. - Una morte è poca - ei ritorse. - Risparmia almeno l'attesa! - supplicò Forestina. Ma, con lentezza, colùi: - Teco, l'èsser pietoso, è delitto. Tu dovrài prima penare un ben altro morire. Nostra verissima morte è quella dei nostri amati: io spegnerò, prima, il tuo ... - Ah no! - sclamò la fanciulla. - Lo spegnerò, sì - iterò inferocito il Nebbioso. - E, quella morte, egli la patirà goccia a goccia, e tu insieme. Tu lo vedrài perirti dinanzi, senza ch'egli ti vegga; tu lo udrài invocare il tuo nome, senza che tu gli possa rispòndere. Nè un ferro solo rosseggerà di tè e di lui, nè il sepolcro medèsimo vi accoglierà in un ùnico amplesso. E tu allora ... oh allora soltanto! sarài tutta mia, eternamente mia. - Perdono! - labreggiò la smarrita, giungendo palma con palma. - Mai! - ruggì egli in pieno delirio. - Io lo ucciderò, quel tuo amante, fosse il mio amico ... fosse il fratello ... Ma, alla parola fratello Mario ammutì, indietreggiò, fisi gli occhi, stravolto l'aspetto, qual cui appare un fantasma. Piangèvano freddo sudore le pareti dell'antro, come le tempia di lui, e il vasto silenzio ingigantiva l'orrore ... Ma, repente, ei si scosse. Gaudio selvaggio lo illuminava. - Sia! - sclamò. Sangue per sangue. Ànima offesa, bevi! - e, strappata di tasca una breve pistola, se la volse alla faccia. La giovinetta alzò un grido straziante: - T'amo! - fu il grido. Sparò la pistola e cadde. Senonchè, la mano di lui, alla voce, avèa dato uno scatto, e si perdèa la palla nei labirinti della caverna, svegliando gli echi degli echi, da sècoli addormentati.

Versione elettronica di testi relativi al periodo 800 - 900 Donna Folgore

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Faldella, Giovanni 1 occorrenze

Ed egli fu un provvido raccoglitore dell'infanzia abbandonata. Applicò eziandio alla beneficenza infantile la varietà policromatica. Servì da agenzia di collocamento europeo e specialmente italiano per i piccoli selvaggi di colore, che egli raccattava dalla Società di Propaganda Fide, e da altri ordini di Missionarii in Africa, Asia e Papuasia. Se certi nobili ricchi potevano ostentare moretti o valetti bronzini o di verderame in livrea dietro le loro carrozze, lo dovevano al Canonico Giunipero. Ma oltre al salvare i virgulti umani, un giorno egli pensò ai rami e ai tronchi abbattuti, dispersi o putrescenti. Visitando una fabbrica a Cossila biellese, vide che di stracci abbominevoli raccattati dai bassifondi di Napoli, dalle cantine di Londra e persino dagli immondezzai di America si formava una virginea bambagia e si filavano tappeti da rallegrare l'immaginazione dell'Oriente. E così non si potrà pure fare del ciarpame umano? Come di cavalieri macchiati e d'avventurieri scampaforche si formano terribili legioni straniere in sussidio degli eserciti europei, così la civiltà religiosa potrebbe redimere i caduti ostaggi del vizio. Ma all'alta impresa occorre il nerbo di ogni guerra: il denaro. Il denaro, osservava il canonico Puerperio pieno di riconoscenza mortificata conversando con Suora Crocifissa, il denaro non manca mai alla virtù redentrice, profluendo eziandio dalle sorgenti del vizio pentito. Senza peccati non vi sarebbero pentimenti, senza pentimenti non vi sarebbero riparazioni. Da una parte generali o presidenti acciaccati, che nella loro irreflessiva gioventù tradirono a diecine serve e padrone, crestaie e signorine, dall'altra parte venerande patrizie o banchiere, la cui focosa inesperienza puerile fu forse abbassata da palafrenieri, e la cui pompa matronale ebbe un dizionario biografico di amanti, tutte le peccatrici e tutti i peccatori di alto bordo cercano di mettere in pace la loro garrula coscienza, facendo cospicue elargizioni alle opere pie. Per cui la generosità femminile ( generosità nel senso dell'on. Morelli) non serve soltanto ad ottenere impieghi, secondo lo scherzo della burocrazia pontificia: Mater dat, filia dat, uxor dat, soror dat; propterea quod ille missus est in Datem (nella Dateria apostolica). Ma la generosità femminile serve pure ad innalzare pie opere di virtù. Ah! (con un profondo sospiro soggiungeva il canonico Puerperio). Noi ci siamo consacrati alla Purità ... E dobbiamo domandare l'obolo ... come sapone di chi sa quante macchie ... Via! Mettiamoci in campagna. * Sette ! * le rispose con un monastico pattone sulla schiena Suora Crocifissa, arrubinando il bell'ovale del virginio pallore. E si misero ambidue in campagna. Sulla sepoltura di una città, che nei tempi etruschi e romani si meritò il nome di Industris, si screpola un gramo inoperoso villaggio, che con il nome di Passabiago scivola dai margini collinosi del Basso Monferrato alla sponda destra del Po. In una valletta storta e profonda, quasi inesplorata come una foresta vergine, esisteva un rudere preziosissimo di antichità cristiana; un tempietto, la cui costruzione si fa risalire a trecento anni dalla natività di Gesù Cristo. Lo si dice fondato da San Mauro. Subì incursioni di saraceni. Un mozzicone di iscrizione scalfita nella vecchia pietra " XI Kal. Nov. Rolandus" , ed una vaga tradizione lasciano supporre una visita di Orlando innamorato, che poscia ritornò furioso a ricuperarvi il senno smarrito. Napoleone I vi sorprese una lauta badia di Cistercensi, che facevano bollire i capponi nel vino bianco, e mandavano i vitelli a tuffare un istante nel Po per ripescarli e mangiarseli nei giorni di magro come pesci. L'imperatore còrso abolì la badia, disperse i padri badiali, e ne donò terreno e fabbricati a un brioso maresciallo Bonnelane, che li giocò e perdette a tarocchi. Nella restaurazione politica, si restituì il convento in più modesti costumi. Il ministro Urbano Rattazzi, coul Rataz, fieul d'Cain, fratel d'Caiffas, sulle zucche incapucciate a l'a dait un famos crep *; onde il padre guardiano poté intonare, secondo la lepida canzone piemontese del Brofferio: * Bruta neuva * orate frates * Bruta neuva per dabon. * Babilonys impii patres * portu 'l Diau an procession . In quella nuova soppressione di Conventi venne pure colpito il Convento di Sant'Oblito a Passabiago, Sant'Oblito, forse un santo inesistente, in cui si personificò per eufemismo o trapasso popolare l'originale Sant'Oblio. I fabbricati e i terreni vennero comperati all'asta pubblica dalla solerte ditta Israelitica Salomon Todros e Segre, felice acquisitrice di beni ecclesiastici in blocco, e rivenditrice al minuto. Ma la Ditta trovò insolite difficoltà a disfarsi di quei beni, anche offrendoli spezzati in piccoli lotti con dilazioni straordinarie al pagamento. Tanta era la diserzione e l'apatia dei capitali, che regnava loro intorno. La mania litigiosa, l'afflizione della crittogama e della peronospera, la testarderia del così faceva mio padre e il conseguente assoluto misoneismo avevano congiurato per formare un presente contradditorio, quasi ingiurioso all'antica nomea di Industris. La moderna Passabiago pareva la mummia di un rospo. Uno sparpaglio di case scrostate o screpolate o non finite; poggiuoli, che aspettano da anni ed anni la ringhiera; modiglioni, che si protendono inutili per ricevere la pietra di un balcone, che mai non viene. Ignorati o respinti i concimi artificiali; * una voluttà di andare a dormire, rimandando ogni cosa al Die Domani; una assoluta mancanza di volontà, niuna prontezza, fuorché nel litigare. In fondo della valletta giaceva quasi sepolta dai rovi e dalle rose canine la gemma della chiesetta. Ai due lati si ergevano in secolare contrasto storico e tellurico i due poggi dominati dalle rispettive famiglie Rotellana e Pressendina, che dalle spaccature e feritoie delle loro bicocche diroccate ancora si lanciavano freccie di cartabollata. Oramai alle due famiglie di litiganti cronici non rimanevano più che queste due risorse; * per l'una, la Rotellana, pattuire la conversione dei numerosi componenti al protestantesimo, con una sfondolata società di propaganda londinese, che pagava le conversioni in contanti. Per l'altra famiglia, la Pressendina, rimaneva il rinfranco di spazzare il sepolcreto avito nel Cimitero di Torino delle ossa dei Maggiori, ammucchiandole in un angolo chiuso della cripta, e vendere il restante spazio a un milionario costruttore di strade ferrate. Si aggiunse la complicazione di un amore improvviso in tanto odio secolare. L'unico figlio dei Pressendina, l'avvocatino Oreste si innamorò perdutamente di Onorina, la primogenita dei Rotellana, che perdutamente gli corrispose; onde era minacciata una nuova tragedia di Giulietta e Romeo. Invece il dramma ebbe lieto fine come negli amanti di Castello e Cascina di Roberto Sacchetti. Un santone, dei soppressi Tornaboni, padre Funari, venuto in concetto di santità per le sue reliquie (fra cui due capelli della Madonna) per le sue astinenze e per il suo moto perpetuo, era una grande provvidenza per tutti, e un grande specialista nel ricondurre le mogli fuggitive ai mariti spasimanti e maritare i rampolli di famiglie discordissime. L'avvocatino Pressendina e tota Rotellana si erano rivolti a lui taumaturgo; ed egli per maggiore sicurezza aveva richiesto il superiore intervento del Canonico Giunipero e di Suora Crocifissa. La signorina si era inginocchiata davanti al Canonico, l'avvocatino davanti alla Suora. E canonico, suora, e taumaturgo avevano combinato un miracoloso sopralluogo. * Iesus! * esclamarono in un duo la suora e il Canonico, quando mirarono sotto i rovi e le rose canine la facciata della Chiesa di Sant'Oblito. * Iesus! * tenne bordone padre Funari, completando il trio. * Questa facciata pare un incastro per un rivo di devozione, che conduce al Paradiso * osservò Suor Crocifissa. * Dovrebbe essere dichiarato monumento Nazionale! * asseverò il canonico. * Me ne occuperò io, * promise padre Funari * parlandone al commendatore Itaglia, Ministro dell'Istruzione Pubblica, e a un mio amico usciere omnipotente al Ministero dell'Interno. Fecero un viaggio e due servizii. Non solo combinarono il pateracchio tra l'avvocatino Pressendina e tota Rotellana, ma gittarono le basi della florida Casa del Sant'Oblio. Comperarono a buon prezzo dalla Ditta Israelitica quella gemma di antichità cristiana, e i circostanti terreni. Tacitando e mandando a spasso i creditori delle oberate famiglie Pressendina e Rotellana, i quali non isperavano oramai più niente dai giudizii di graduatoria, si impossessarono dei due poggi laterali coi relativi versanti, si può dire per un tozzo di pane. Di vero non vi era mai stato un candidato così ambizioso, così chimerico e così scemo di piattaforme elettorali, che avesse proposto un tracciato ferroviario per quella valletta abbandonata dagli uomini e da Dio. L'avvocato Pressendina si ebbe una cattedra di diritti civili in un istituto tecnico di Torino, donde, come è noto, salì al Consiglio di Stato. La famiglia Rotellana inoculata di nuove cognizioni rimase preposta all'agenzia agraria della rinnovata Casa del Santo Oblio. La Chiesa ebbe un generoso restauratore in un patrizio eccellente architetto archeologo. La facciata splendette come una paratoia di rivo conducente al Paradiso; nell'interno le gemine colonne apparveno gambe di santi onestate di brache luminose. La vasta possidenza venne circondata da un muraglione rivestito di edera, lungo come una cinta daziaria, destinato, come una muraglia della Cina a separare il Santo Oblio dal bulicame del mondo restante. Per evitare gli incameramenti di Rattazzi e dei ministri suoi successori la proprietà venne acquistata privatamente in testa del Canonico Giunipero. Sovventori furono principi plebiscitarii e pretendenti a ristorazione reazionaria, squarquoie arricchitesi nel commercio della carne umana e candide colombe della nobiltà e dell'alta borghesia. Avevano largamente concorso il comm. Vispi droghiere emerito, l'emerito macellaio Baciccia Calzaretta, il marchese Stefanina, i conti De Ritz padre e figlio, e il barone Rollone Svolazzini, non senza ragione di imbeccata personale. Il Canonico Giunipero nell'estasi della riuscita impresa, ebbe un'ossessione immaginosa, come la visita tentatrice del Diavolo. * Sta bene! * egli immaginò! * Sta bene in fondo alla valletta attaccato alla Chiesa il nido del Santo Oblio per le spericolate e le pericolanti salve dai morsi e dai rimorsi del mondo. * Ma là in alto sui due poggi vorrei giganti fronteggianti due ganglii virili. Sopra l'uno vorrei raccogliere uomini maturi, vecchi cadenti, sbattuti e rialzati per la Santa Fede; sopra l'altro vorrei raccogliere un reggimento di giovani operosi devoti alla santa forza! Ora che la soppressione degli ordini religiosi necessita il rifarsi, rinverginarsi del monachismo insito perpetuamente alla natura e ai destini dell'umanità, vorrei risuscitare i frati gramieri avamposti dell'agricoltura intensiva, vorrei risuscitare gli Umiliati pionieri dell'industria tessile e tintoria. * Vorrei in più, * e qui l'immaginazione vinceva le redini al canonico ... * Vorrei stazioni taurine di eccellenti riproduttori. Come se il diavolo gli ridesse sfolgorando in faccia, egli fantasticava: * L'imbecille civiltà ha creduto distruggere un'impostura nociva, abolendo dei conventi; invece ha distrutto utili verità, che fruttificavano sotto l'ipocrisia apparente ... Oh! la bella popolazione, che cresceva intorno ai conventi! Alla mia Laghetto da Po si ammiravano ninfe delle risaie, che le migliori non avevano potuto dipingere i classici pittori della Grecia, e ciò perché v'erano fratacchioni ben pasciuti di corpo e di spirito a benedire con il loro amore le contadine: essi nel bacio recavano non solo un vitale nutrimento, ma portavano un soffio di canti, studî e sogni sublimi, come un intreccio raffaellesco di arcangeli e madonne. * Erano depositi di stalloni umani per una razionale stirpicoltura e col celibato religioso offrivano una buona soluzione al problema di Malthus pauroso, che le popolazioni aumentino in proporzione geometrica, mentre i mezzi di sussistenza crescono soltanto in ragione aritmetica. * Invece, ora, aboliti i conventi, lasciata la procreazione rurale soltanto ai mal nutriti fisicamente e intellettualmente, sparvero le ninfe delle risaie; e loro sottentrarono femmine verdognole dalle bocche di lucertola e di rana, facile preda, gaglioffe e terribili alleate dei galeotti sfruttatori ed impresarii del socialismo professionale. In quel punto entrò Suor Crocifissa solenne, pallida e pura, al pari di Santa Clara. Il canonico, come se avesse esposto a lei il discorso diabolico, le domandò: * Non è la mia una concezione dantesca? Suor Crocifissa, che mangiava poco o nulla di Dante ed adorava soltanto l'Immacolata Concezione, fece un viso di voluta ignoranza e rimprovero. Allora il canonico Puerperio, cioè Giunipero, si sentì calare le ali diaboliche dell'orgoglio e del rigoglio virile, e domandò a Dio perdono dei suoi peccati di immaginazione. Egli allora si dedicò unicamente alla nuova fondazione femminea del Santo Oblio. Le prime reclute furono una dozzina come gli apostoli, e primario agente di arruolamento fu il padre Funari. Passato il cancello, in cui i ghirigori del ferro battuto delineano curve di nuvole a bambagia d'angioli, si vede spaziare un prato, intersecato da redole di ghiaia minuta, che partono dal piedestallo di una Madonna Stellata, come raggi da una stella. La statua della Vergine Madre Divina lucente di ceramica bianca, ha sulla fronte una stella metallica di doratura raggiante. Porta due iscrizioni sui quadri del basamento. L'una: Ave, Maris Stella è il saluto dei naufraghi della vita, che si salvano in quella casa del Sant'Oblio. L'altra: Hujus domus regina significa quale sovrana devesi riconoscere dalle casigliane e dai visitatori. Personificazione viva della statua è la superiora Suor Crocifissa. Il suo ideale vivente ed attuoso appare più fulgido e più alto della stessa statua. Dal beato Calasanzio al Pretore Martini è provato che l'abilità di consolare ed avvincere beneficamente gli afflitti ed i derelitti è una prerogativa personale straordinaria; non si può insegnare con regole; perché varia secondo l'infinita varietà delle afflizioni e degli abbandoni. Unica efficacia è l'asseveranza di una irradiazione d'amore. * Tu orfanella, adunghiata, sputacchiata dalla matrigna, derubata dai costei drudi, non hai mai avuto un bacio rispettoso. Ed io ti bacio nel Divino Amore. * Bella sartina, tradita dal sottotenente, a cui credevi dedicare il cuore e la vita, mentre egli ti ha presa come un'appendice di camera mobiliata, come il sopracaffè del mattino, * vieni qui; ché la Madonna ti assegna nella sua casa un posto di eguaglianza umana e di fedeltà nell'amore Divino. * Zitelle e dame gonfie dal livore e corrose dalla gelosia, che è il reagente più torbido e più corrosivo della chimica psicologica, venite qua dentro; e troverete nelle pieghe del Manto di Maria Immacolata la più olezzante fiducia in Dio, che fa sperdere persino la memoria dei terribili sospetti, per cui afferravate come documenti di tradito amore finanche le carte destinate a fetidi recessi. Oh! ben lo disse il canonico Puerperio, cioè Giunipero. Anche nella mitologia vi erano simboli di verità, che qui si realizzano. * Qui in quel Rio "Lavatojo" abbiamo realmente il fiume Lete, che travolge, sperde la memoria di ogni male; e in quell'altro rivo "Ortolano" abbiamo realmente il fiume Eunoè che coltiva ed accresce la memoria di ogni bene. La immagine matura di Suor Crocifissa in mezzo al prato dirimpetto al cancello raffigura quella di una cruda bambina che erige una pertica invitando a posarvisi le libellule: "Signorine e signorone! Venite sul mio bastone" . Ma la bambina acchiappa le libellule per infilzare crudelmente una pagliuzza nella loro coda. Invece Suora Crocifissa offre a tutte le ferite, a tutte le offese del devoto femmineo sesso il balsamo, pregustazione del Paradiso. Ai disordini della materia umana niun riparo più sicuro, che un ordine spirituale, in cui si riflette umanamente un raggio di ordine divino. La creatura bersagliata dal delitto altrui o dalla propria passione ha perduto il contatto benefico con l'Universo creato. Può riacquistarlo in una comunità religiosa. Questo è il vero socialismo ideale, per cui con gli altri vantaggi sociali si moltiplica il tempo. Come è difficile per un individuo ed anche per una privata famiglia il fissare e mantenere un orario! La mancanza di zuccaro nel caffè o il male di denti d'una sorella possono assorbire o fare cadere nel nulla, come per un giuoco di mattoni, tutte le ore della mattinata preziosa al lavoro. Invece in una comunità governa inamovibile l'orologio di precisione. Quanto possa fare uno studioso libero dalle cure domestiche, lo riconobbe il Taine deplorando lo strazio e lo sperpero delle corporazioni religiose fatto dalla Rivoluzione francese. Simile beneficio si può riconoscere per qualsiasi lavoro. Alle cinque del mattino la campanella sveglia per la preghiera. Il cronometro distribuisce il tempo esatto per la religione, lo studio, il lavoro, e la ricreazione; dalla Santa Messa, alla grammatica, all'aritmetica, alla inaffiatura dei fiori, alla potatura, all'innesto, alla composizione italiana, al saggio di lingue straniere, alle refezioni, alla raccolta dei frutti, alla macchina da cucire, al telaio Iacquart, al lawn tennis e al missisippì ecc. ecc. Nel nitore di un paesaggio romito ed aprico, tra Terra e Cielo, Dio e Natura, studio, lavoro, ed Amore Divino danno unicamente la pace umana. Questa sentirono, dopo l'abbraccio e il bacio di Suor Crocifissa le prime ricoverate, che non sospettarono neppure di essere recluse. Una figliastra ritrovò la madre ideale; una tradita ritrovò fedeltà d'amor celeste, nove altre vittime di gelosie o martiri di persecuzioni entrarono in quel porto della rassegnazione generosa e persuasiva, persuadendosi che la partecipazione accresce l'amore e la vera contentezza risiede nel volere di Dio. Notevoli tra le prime reclute le soprannominate Bimblana e Gibigianna. Bimblana nata ottava da una famiglia di schiavandari ad Ypsilon Novarese era stata battezzata coi nomi di Ottavia Rosa Antonia. Era cresciuta come un rosolaccio; di bella presenza, era mandata a servire in città, essendo già superflua la precedente figliuolanza per la schiavenza in campagna. Aggirandosi nel mercato degli erbaggi veniva ammirata ed amata per le sue forme slanciate e scultorie e per il suo andamento di maternità anticipata, che ai bambini e alle bambine la faceva parere una superiora amorevolissima. Suo gesto favorito era un ritmico allargare di braccia e scotimento di mani, con cui si direbbe avesse voluto raccogliere e sollevare in Paradiso un asilo infantile. Per quella sua andatura ondeggiante, quasi cascante di noncuranza estatica, aveva avuto il nomignolo popolare di Bimblana. Un ardito scultore l'aveva voluta per sua modella. Una guardia carceraria le diede prigioniero il suo cuore. Ma essa, senza riuscire ad amare nessuno, si lasciava amare quasi da tutti. La sua letteratura erano le avventure di Ol Carlin e la so dona a Milan , anche tradotte dal dialetto milanese al piemontese. Ma essa orgogliosa di aver appreso il meneghino, in modo da non disimpararlo più, realizzava pur troppo il distico originale: Te pacjria tuta * E mi me lassi pacià . Piegava la testa pudibonda, e lasciava fare e si lasciava baciare. Ottavia Rosa Antonia era on tocc da marcantoni da bon , che tirava i baci stagn . Non di rado aveva verificato nella vita i dialoghi del suo libro galeotto: * Sa gh'avii Carlin! * Sont scia ch'a va mangi coi eucc. A sii na gran bella forlana vidii ... ! Sanforment! * Lassem no Carlin! ... lassem no! Salveves mia col ... sentimento ... Essa aveva più docilità muta, che espressione di sentimento. Vittima dei capricci di fantasia, da cui sperava forse qualche tesoro del Caso era caduta d'una in altra disgrazia, fino a parere una bella e grossa mela fracida da buttare sul letamaio. Una notte la folata di giovani briganti esteti, che terrorizzano quella cittadina rurale, rimanendo impuniti, perché figli di avvocati o nipoti di canonici, con cui il deputato non vuole assolutamente disgustarsi, dopo avere ubbriacandosi fraternizzato con i garzoni da caffè e rotto il naso al busto del generale Garibaldi nei giardini pubblici, avevano attirato Bimblana sulla panca più scura del viale per godere in combutta il distico: * Bimblana! a va paci da sbalz ... mi * E vu paciem ... * E mi va paci * E mi me lassi pacià ... traduzione bestiale, note alla Spirito Losati, traduzione bestiale dell'angelico invito pronunziato dagli inquilini danteschi nella Stella Venere: Tutti sem presti al tuo piacer, perché di noi ti gioi. La lasciarono con le vesti oscenamente stracciate. Così turpemente abbandonata essa pianse a dirotto ... In quello stato miserabile non osava più presentarsi ai padroni e ai genitori. Voleva gettarsi nel Canale. Ma un filo di luce la salvò: la fama dei capelli della madonna, posseduti dal Santone padre Funari. Fece otto miglia a piedi per portarsi da lui; e fu condotta alla Casa del Santo Oblio. Vi era allora in visita apostolica il canonico Giunipero, il quale, veduta la rifugiata e sentitine i casi, appartossi nella libreria, si fregò gli occhi, come per un'aspra visione ed esclamò in un soliloquio silenzioso, che sarebbe stato forte, se pronunziato in un teatro filodrammatico di venerando seminario: * Manzoni! Manzoni! Dove hai conosciuto la tua immacolata ingenua Lucia Mondella? ... Oh! tipi di campagnuole oneste ed istruite offerte ad imitazione da Cesare Cantù e Felice Garelli! ... Perché, perché la verità è così diversa? Soltanto la musa stenografica, fotografica porca villana o villana sporca è la sincera interprete dell'anima femminile popolare, se non la salva, se non la purifica Religione. Con questa esclamazione in pectore Egli si curvò sull'inginocchiatojo a pregare per la salvezza dell'eterno femminino popolare. Nei primi giorni del suo ricovero Bimblana si sentì non solo salva, ma felice. Ravvisando un godimento senza peccato, sentendosi amata, senza essere goduta, né sprezzata né vituperata, confessò ingenuamente: * Non sono mai stata così bene a questo mondo. Mi pare di essere in un paradiso terrestre. Di meno facile contentatura si palesò Gibigianna, che irruppe nel Santo Oblio come una meteora annunziatoria di fulmine maggiore. Intanto dessa la bella Gibigianna faceva notevole riscontro alla bella Bimblana. Questa purificava le sue meneghinate; quella guardando nella lampada della chiesa rattizzava il fuoco errante dei suoi occhi e lo splendore vago dei suoi capelli, che le avevano fruttato il nomignolo fin da bambina. Come un raggio riflesso da un piccolo specchio, che si muova o si rompa, coagula sopra una volta grummi di luce, che vanno e vengono con l'agitazione di uno staccio o setaccio, fenomeno, dai toscani detto occhibagliolo, la vegia dai piemontesi, e dai lombardi gibigianna , così era la biondezza di Lia Lei, una biondezza da traveggole. Si conformava a tale biondezza la grazia mobile del capo chino arieggiante alla filigrana pendula di argento dorato, che adorna la testa alle fattoresse lomelline. La piccola Gibigianna sarebbe riuscita una Vespina, una svelta ed onesta cameriera da commedia di Tommaso Gherardi Del Testa, se il padre non l'avesse menata agli stravizii. Il padre suo, Teodoro, tramviere, dopo parecchi mestieri ed uffici abbandonati, aveva fatto girare la testa alla maravigliosa signorina figliuola di un causidico da mandamento rurale, e se l'era sposata o piuttosto rubata. Con una faccia innamorativa da impostore aveva fatto sognare castelli in aria alla sposa; e l'aveva condotta in una soffitta. Ma egli si ripagava delle strettezze domestiche nei pubblici esercizii. Questi gli parevano la vendetta sociale dei proletarii, che nei caffè e nelle trattorie si trovavano eguagliati da una illusione di Corte, facendosi servire da camerieri in coda di rondine come diplomatici. Teodoro aveva educato, addomesticato all'ubbriacatura dei pubblici esercizii non solo la moglie maravigliosa, ma altresì la piccola innocente Gibigianna. Gli esercenti, anche socialisti, non sono gratuiti; e adottano il cartello dei vecchi osti: oggi non si fa credito, domani sì. Teodoro il tramviere , con quel bel titolo e con la posa attraente da teatro diurno, aveva sempre difficile il quarto d'ora di Rabelais, cioè quello di pagare il conto; ma riusciva a superare le difficoltà, facendo la corte alla padrona con occhi lampeggianti, o chiudendo un occhio, se il padrone faceva la corte alla maravigliosa di lui metà . Ognora egli aveva dimenticato il borsellino a casa; o non aveva voluto uscire con un biglietto di grosso taglio; ed ordinava che si registrasse il suo debito. Ma una sera, in cui Teodoro accompagnato dalla inseparabile mogliera e figliuola dopo avere preso il caffè e sopracaffè, aveva ordinato una bottiglia di barolo, e poi ancora il ponce, il trattore del Cannon d'oro dichiarò a se stesso: basta!; e poi venne a proclamarlo davanti alla triade, che si indugiava a libare nei lieti calici, mentre gli altri avventori avevano già lasciato l'esercizio. L'esercente del Cannon d'oro si era offeso, accorgendosi, che Teodoro in una momentanea uscita gli aveva abbracciata l'aurea moglie intronizzata al banco. Della moglie di Teodoro egli non sapeva che farne, egli che possedeva una cannonessa d'oro. Quindi: * Alle strette! Teodoro, sono stanco di riempire il mio gran libro dei tuoi puffi . Stassera, o mi paghi; o ti rinchiudo in questa stanza, e faccio chiamare le guardie vicine, perché arrestino te come un gargagnan e tua moglie come una Venere Vagabonda. * E la piccina? * domandò Teodoro. * La piccina * rispose il trattore, sarà condotta dalla Questura in qualche ospizio, dove starà meglio che a casa tua. Teodoro si era rivolto indarno a fiammeggiare uno sguardo per implorare la padrona che non si lasciava vedere. * Discese invano uno sguardo sulla propria moglie per illustrarne le offerentisi bellezze. Addolcito dal vino, egli aveva più che le prepotenze e le viltà del gargagnan , l'amenità del brillo. * O cannon d'oro! Che credi di guadagnarci? Io non ho in tasca un cito . I gioielli, che porta mia moglie, sono di princisbecco. Il trattore del Cannon d'oro con uno sguardo d'acciaio da banchiere crudele aveva avvistato che non erano di princisbecco gli orecchini di Gibigianna. * E questi qui? * Questi sono un regalo del nonno procuratore, che sarebbe capace di mandarti in galera, se tu li toccassi. * Non temo la galera. Dammi alla buona in pegno questi orecchini. Ed io, anziché molestarti e minacciarti, faccio portare due altre bottiglie di barolo stravecchio ch'a rangiu lo stomi e per addolcirti ancora più la bocca alla fine ti darò un passito di Caluso, che non hanno i Cardinali ... E berremo anche in compagnia della mia signora moglie, che farò venire per te ... Vieni qua, Madama, Madamona Catlonessa! Fu la stessa Cannonessa d'oro , che tolse gli orecchini del nonno a Gibigianna, dei quali padre e madre non furono inconsolabili; Gibigianna sì. La fanciulla, dopo una notte fremente, ebbe alla mattina da una compagna di scuola un filo di salvezza; andò in una sacrestia, si confessò a un prete; e venne anch'essa destinata al Sant'Oblio con il consenso dei genitori, ai quali venne regalata una cesta di bottiglie. Onde lo spensierato Teodoro, quando gli domandavano della figlia scomparsa, rispondeva: * Sta bene al caldo! Me la sono bevuta. * * * Qualche volta il protettore canonico Giunipero e la superiora Suora Crocifissa, contemplando quell'onda di vivezza giovanile, che corrispondeva ai raggi del sole, sentivano il rammarico di imprigionarla là dentro fuori della vita mondana. Ma loro si affacciavano i fantasmi dei persecutori dell'innocenza: faccie torbide, ferine, culari e patibolari. Via da loro gli angeli della terra. Bisogna sottrarre dall'empietà, salvare gli angeli della terra. Gli è vero, che bisognava ripulire le ali di questi angeli da molte brutture. * Bisogna convenirne, mia cara, mia santa Suor Crocifissa. Un presidente nord-americano ci chiamerebbe muck rakers , frugatori di fango. Però anche il fimo giova alla buona semente, che per noi è la Parola di Dio. Proseguiamo senza ribrezzo nell'opera buona e necessaria. Il materialismo moderno troppo sequestra l'Umanità dalle speranze celesti, fondandosi sull'ignoranza precisa dei Cieli, che pure indubbiamente esistono. Noi purghiamo le anime avvelenate, noi preserviamo le creature vergini, pascendole del più puro azzurro. I nostri sono serbatoi e traiettorie, che mantengono il contatto, sia pure forzato, dell'Umano con il Divino. Il Canonico Giunipero e Suora Crocifissa intrecciando le mani alzate come in una figura di ballo celestiale, formavano un arco mistico, sotto cui invitavano a passare tutte le minacciate od offese da brutali persecutori, tutte le guaste dalla corruzione, tutte le tocche dalla follia contemporanea. * Venite, passate alla salvezza del regno di Dio e della Madre Divina. Vieni Regina delle Gambe, rappresentante delle Risaie, ai tempi delle laute abbazie. Vieni Fiorina Lucy, vieni Tilde, vieni Maria, vieni Eugenia, vieni bastarda, vieni, purissima. Vieni anche tu, conferenziera socialista, anarchica, Solima Del Lago, che i curati e i sacrestani chiamano limo del lago. Vieni a zampillare fresca, purgata dalla contemplazione delle verità divine. E vieni nell'abbraccio della Croce, o Gilda, nell'abbraccio della più bella croce, che possa piallare, intarsiare e scolpire il buono e curvo Simone tuo padre. Non aveva costato molto al prefetto emerito barone Rollone Svolazzini il sequestrare babbo Simone e relativa figlia, a fine di preservare il proprio Svembaldo allontanato. Il falegname Simone era un'anima di vassallaggio medievale; aveva insita nel sangue la fedeltà alla Chiesa e all'Impero rappresentato dal nobile barone. Era pure medievale nella sua abilità tecnica. Invece del macchinario a vapore per l'impazienza moderna, egli aveva la curosa lentezza della commettitura e dell'intarsio manuale. Pella concorrenza del giorno e dell'ora egli sarebbe rimasto senza ordinatori; sarebbe languito nell'abbandono ad intagliarsi la cassa da morto. Di questa prospettiva si rese presto capace l'angusta e rispettosa mentalità dello stipettajo rurale, a cui parve una Terra promessa dalla Sacra Bibbia la dimora e la pensione vitalizia al Santo Oblio. Con la minuzia consentita dalla massima larghezza del tempo, senza disturbo di sollecitazioni, egli finirebbe armadii di sacrestia, cassepanche da sancta sanctorum , stalli da coro, cofani da Suore; incrosterebbe di fiori lignei, sottili come carta, la nicchia della Madonna ... Oh se potesse lui fabbricare la custodia per le ali dell'Angelo Custode! Intanto egli era relativamente felice, perché la sua Gilda sotto i suoi occhi paterni sarebbe custodita, sarebbe riparata dalle insidie, dalle seduzioni e dalle pretese sproporzionate del mondo. Gilda si mostrò restia dinnanzi alla facile contentatura del papà; oppose lacrime e lacrime; ed entrò al Sant'Oblio irrorata di lacrime, come un passerotto bagnato dalla pioggia, il quale si rincantucciasse sprofondandosi sotto una gronda. Volgeva gli occhi spauriti, come se spiasse tra i fili della gabbia un'evasione. Suora Crocifissa sentiva difficoltà ad ammansarla, asciugarla, e intepidirla del suo fuoco sacro. E temeva, che l'operazione del prosciugamento venisse compita invece da un terribile vento, che pur si aspettava. Il vento della Contessa De Ritz ... Sorridendo con ironia celeste il canonico Giunipero aveva notato, che la Contessa De Ritz era destinata al Santo Oblio dal Clericalismo e dalla Massoneria. Ma pigliarla quella contessa! Qui stava il busillis ... Si erano tese le ragne in Europa e nell'Asia Minore. Fino allora era stato come tendere la rete per acchiappare un vento. Le informazioni secrete dei gesuiti e della Massoneria recavano avventure strabilianti. C'erano di mezzo corone di re e corone da rosario, scimitarre, pugnali e bisturì. Le informazioni massoniche facevano capo principalmente al conte De Ritz; e le informazioni gesuitiche al Comm. Vispi padre della Contessa. Ma gli stimoli e i reagenti, e le direttive, e le curve strategiche si intrecciavano, quando non si intralciavano. Ostinate forze congiuravano ad attrappare finalmente quell'indomita potenza della bellezza e del capriccio femminile. * Ci riusciranno? Ci riusciremo? * si domandavano il canonico Giunipero e Suor Crocifissa; e le loro stesse persone diventavano due punti interrogativi ripiegati tra il desiderio e il terrore. Che beneficio sarebbe salvare quell'anima: un beneficio grande per l'anima da salvarsi, e un beneficio ancora più grande per le innumerevoli vittime, di cui è ancora capace quella furia allettatrice di pervertimenti! Ma che pericolo per il Santo Oblio! Alle reminiscenze classiche del Canonico Giunipero pareva, che neppure Eolo sarebbe capace di incarcerare quel vento di lussuria. E con un videmibus infra si chiudeva la longanime aspettativa del Santo Oblio.

Clelia: il governo dei preti: romanzo storico politico

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Garibaldi, Giuseppe 4 occorrenze
  • 1870
  • Fratelli Rechiedei
  • prosa letteraria
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Dopo essersi abbandonata all’irrefrenabile ilarità ella chiamò un domestico e col suo aiuto pervenne a collocare gli amici in situazione più conveniente. La Clelia lottò ancora tutta la notte colla tempesta e ben le valsero le superiori sue qualità marine per non essere soperchiata e non le valse meno l’intrepidezza del suo coraggioso equipaggio. All’alba il temporale rallentò alquanto del suo furore ed avendo il vento girato all’ostrolibeccio si pensò di far correre

Il brigante quando sentì la tempesta venire sulle sue traccie aveva abbandonata la preda, mettendosi in salvo fuggendo. Il vittorioso campione, ricaricata la carabina, disse a Manlio di armarsi: le armi che restavano sul suolo e sui cadaveri depose nella carrozza, raccogliendo i cavalli occupati a pascolare, ad onta del freno, sull’orlo della strada. La comitiva ammirava stupefatta il coraggioso liberatore mentre egli, come assorto in contemplazione di cosa che stesse sopra gli oggetti materiali presenti, pareva col pensiero lontano da quella scena di sangue. Una delle più belle qualità della donna è l’apprezzamento squisito del bello e dell’eroico. Siate pulito, valoroso, sprezzatore della morte, generoso, e certo avrete non solo il plauso, ma l’affetto della bellezza! Io non dubito che questa simpatia del bel sesso non sia il principale motore dell’incivilimento umano. L’uomo si fa pulito, elegante, cortese per piacere alla donna. Egli ha lo stesso incentivo nel suo slancio verso le grandi azioni. In generosità, in coraggio, in eroismo quindi si può considerar la donna vera educatrice dell’uomo, prima agente del creatore, per migliorare questa razza burbera e di testa dura. Le donne dunque volgevano il loro sguardo sul brigante (mi ripugna di dargli questo titolo ma pure era così chiamato dai preti e per loro era un vero brigante) e curiosamente lo fermavano su quel corpo così ben fatto, su quella capigliatura d’ebano, su quella fronte spaziosa così graziosamente ornata da un... da un buco tondo tondo, che il piombo straniero vi aveva forato. Pareva non potessero distogliere gli occhi da quella persona, vero modello della forza e del coraggio. Il difetto dell’occhio spento era, oppure sembrava, in quell’istante quasi impercettibile. Bisogna confessarlo, in quel momento i nostri cari, non men belli e non men coraggiosi, Attilio e Muzio, furono dimenticati dalle nostre eroine. Così è più forte di noi questa nostra debole natura umana. Lo stupore dei viaggiatori si accrebbe ancora quando il brigante uscito dalla sua posizione contemplativa, si avanzò graziosamente verso Silvia, le prese la mano, gliela baciò commosso, lasciandovi cadere sopra una lagrima. «Voi non mi riconoscete, Madonna? - egli le disse. - Guardate un poco questo mio occhio sinistro che per cura vostra gentile e materna non mi costò la vita!». «Orazio! Orazio! - gridò la matrona abbracciandolo e spargendo un torrente di lagrime. - Orazio! mio figlio, figlio della migliore amica mia!. «Sì, Orazio! che voi raccoglieste morente, che curaste con affetto di madre, ed a cui porgeste un pane nella sventura quando fu orfano!» soggiungeva egli, e la buona Silvia, quasi fuori de’ sensi, si abbandonava nelle braccia del suo robusto antico protetto. «Qui non v’è tempo da perdere - disse finalmente Orazio, rivolgendosi a Manlio, con cui aveva pur ricambiato mille segni di reminiscenza e di gratitudine. - Questo luogo è pieno zeppo di malviventi e quel fuggito potrebbe ricondurre una banda più numerosa». Pigliando dunque i cavalli per i morsi invitò la comitiva a rimontare in carrozza e mettendosi egli stesso al posto del cocchiere, s’incamminò velocemente verso la marina secondo i voti dei viaggiatori. Giunti alla spiaggia, l’aria balsamica del Mediterraneo sembrò ravvivare i nostri stanchi amici, e l’effetto apparve sorprendente sulla bella Giulia. Figlia della regina del mare ella, come tutti coloro che nascono sulle sue sponde, ne era innamorata. Lontani lo sospirano, al rivederlo, par loro rivedere una persona amata. L’effetto prodotto sui dieci mila Greci di Senofonte al rivedere il mare dopo lungo e pericoloso viaggio pedestre a traverso la Persia, si comprende facilmente. E le grida di gioia e l’inginocchiarsi a salutare Anfitrite liberatrice, come il mare fosse la patria loro, non hanno d’uopo di spiegazioni.

Questi, lasciata andare per terra la sua preziosa carabina, che non avrebbe abbandonata per tutto l’oro del mondo in altra circostanza, correndo e saltando, in un istante raggiunse Giulia, le prese la mano, la coprì di baci e lagrime di gioia si videro sgorgare dai suoi occhi. Poverino! In quella carissima donna si riassumevano per lui mille affetti e ricordi di famiglia, d’amici e di patria! Giulia amorevolmente baciò in fronte il giovane inglese, poi Clelia e Silvia l’abbracciarono con singolare espansione, e la presentarono ad Irene di cui Giulia non ignorava la romantica storia e tanto desiderava di conoscerne l’eroina. I prodi militi della libertà di Roma, obbliando un momento la disciplina, si affollarono intorno alla bellissima figlia d’Albione e se non la coprirono di carezze almeno poterono bearsi nella sua contemplazione.

«Che fortuna è la mia di possedervi un istante sotto questo tetto, in questa stanza istessa che fu abbellita una volta dalla vostra presenza e mi sembra deserta da che la vostra preziosa persona l’ha abbandonata». «Quanta galanteria sfoggia questa serpe» pensò fra sé la nostra Giulia, mentre che ascoltava il grandiloquente sermone del cicisbeo, e sedutasi, con poche cerimonie, rispondeva «Gentile e graziosa è l’E. V. e io le ne sono grata. Una volta io veniva qui più spesso per copiare i capi d’opera di cui va adorno questo palazzo, ma già da alcun tempo ho terminate le mie copie ed oggimai qui non saprei quello che dovrei venirci a fare». «Non ci sapreste più che fare?! oh! questa poi è una dichiarazione poco galante da parte vostra, signora Giulia! qui come ovunque voi avrete un culto, bellissima fanciulla!». Biascicando queste e simili frasi melate, Don Procopio cercava di avvicinare frattanto la sua poltrona a quella di lei ma ella ritirava la propria d’altrettanto dimodoché le due poltrone avevano l’aria di onde agitate che si perseguono sempre, e non si raggiungono mai. Stanco di perseguitare la giovine straniera a corso di poltrona, il prelato si alzò e risolutamente mosse verso di lei. «Ma sedete, od io parto!» esclamò Giulia alzandosi e mettendo la poltrona tra lei e l’indecente Cardinale mentre gli figgeva due occhi in volto che lo atterrarono. Il prete si lasciava andare sulla seggiola come colpito dal fulmine e Giulia sedutasi pure cominciò: «La mia visita non è senza grave motivo, già lo sapete che per vedervi non ci verrei. Io son qui a chiedervi notizie d’una famiglia che m’interessa: della famiglia dello scultore Manlio». «Fu qui è vero, ma se n’è andata» rispose Procopio, rinvenuto dal primo stupore. «È molto tempo che se n’è andata?» chiese Giulia, con accento da cui trapelava la sua incredulità. «Sono pochi momenti che le donne lasciarono queste stanze» fu la risposta di Don Procopio. «Saranno dunque a quest’ora fuori del palazzo», ripigliava la straniera. Ed il prete: «lo saranno», rispose colla certezza di mentire. Giulia con un gesto d’incredulità troncava il dialogo e maestosamente ripigliava la sua via, appena salutando con un cenno del capo l’eminente canaglia. Ha pure i suoi vizi i suoi difetti la razza britannica. E cosa v’è di perfetto nell’umana famiglia? Ma se v’è popolo ch’io mi compiaccia a paragonare ai nostri antichi padri di Roma, è certamente l’inglese. Egoista e conquistatore come quelli, la sua storia rigurgita di delitti; delitti commessi nel suo seno e nel seno delle altre nazioni. Molti sono i popoli che egli ravvolse e ravvolge nelle sue spire di ferro per contentare l’insaziabile sua sete d’oro e di predominio. Pur non si può negare che egli non abbia immensamente contribuito al progresso umano e gettato la base di quella dignità individuale che presenta l’uomo diritto, inflessibile, maestoso, davanti alle esigenze dispotiche che padroneggiano l’uman genere. A forza di costanza e di coraggio egli ha saputo conciliare l’ordine governativo colle libertà adeguate ad un popolo padrone di sé stesso. L’isola sua divenne il santuario e l’asilo inviolabile di tutte le sventure, il despota, come il proscritto dal despota, vivono insieme su quella terra ospitale, colla sola condizione di essere uomini. Egli ha proclamato l’emancipazione dei negri oggi felicemente conseguita dalla lotta gigantesca della sua stessa razza sul nuovo continente; a lui infine deve l’Italia in parte la propria ricostituzione, grazie alla maschia sua voce di non intervento da lui fatta risuonare nello stretto di Messina nel 1860. Alla Francia come all’Inghilterra molto deve l’Italia. Alla Francia molto deve l’umanità per la propaganda de’ principi filosofici, per l’affermazione dei diritti dell’uomo. Alla Francia si deve l’annientamento della schiavitù barbaresca nel Mediterraneo. La Francia seppe mettersi alla testa della civiltà umana ma non lo è più. Oggi strisciando davanti al simulacro d’una grandezza fittizia essa distrugge l’opera grandiosa del suo passato. Un giorno la Francia proclamava e propagava la libertà nel mondo, oggi è dessa che cerca distruggerla dovunque. La Dea ragione, quel parto straordinario dell’intelligenza emancipata, essa oggi la rinnega ed i suoi soldati fanno il gendarme al Sacerdote dell’oscurantismo. Speriamo per il bene dell’umanità veder presto le due grandi Nazioni rimettersi insieme all’avanguardia dell’umano progresso.

ABRAKADABRA STORIA DELL'AVVENIRE

676001
Ghislanzoni, Antonio 2 occorrenze
  • 1884
  • Prima edizione completa di A. BRIGOLA e C. EDITORI
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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In paese correva voce che il signore fosse malato di cervello per eccessiva applicazione agli studi, e avesse appunto abbandonata la città per ritemprarsi nella buon'aria dei monti. In fatti, dopo un mese di vita campestre, a dire dei paesani, il signore aveva fatto una ciera più lustra I suoi denti di alabastro brillavano più spesso nel sorriso dell'amorevolezza che non in quello della ironia mefistofelica. Usciva più sovente al passeggio. Si intratteneva sulla piazzetta a udire i colloqui dei contadini, a veder giuocare i fanciulli. Riceveva qualche visita alla sera. Il curato, il sindaco ed il farmacista erano divenuti assidui nella sua sala, ed egli stava le lunghe ore ad ascoltare le loro polemiche religiose e politiche. Il curato, il sindaco e il farmacista di C... per lui rappresentavano i tre partiti, la eterna invariabile trinità del pensiero umano, che a suo credere, era cominciata nella mente dei tre primi abitatori dell'universo. Il curato rappresentava il non possumus la forza reazionaria; Il sindaco il liberale moderato o moderatore Il farmacista l'uomo del progresso ad ogni costo, l'utopista rivoluzionario, che non ammette intervallo tra il pensiero e l'azione. Questi tre principii, come ognuno può immaginare, si detestavano cordialmente; e il loro attrito era scabro e sfavillante come quello dell'acciaio colla pietra. Ciò nullameno, il curato, il sindaco e il farmacista venivano ogni sera ad occupare nella sala del signore tre lati di un tavolo coperto di ricco tappeto. Nel centro di quel tavolo, quegli spiriti eterogenei, intolleranti, irreconciliabili, avevano trovato un punto di coincidenza simpatica. Era un'immane bottiglia, un'anfora imponente e generosa, il cui sugo inesauribile produceva nei tre antagonisti il doppio effetto di rifiammare gli ardori politici e di ammorbidire le gole. Il curato, il sindaco e il farmacista pigliavano un gusto matto a bisticciarsi e a contraddirsi in quel tiepido ambiente dove la più gustosa delle bevande era sempre là per estinguere ogni ardore di sete e di entusiasmo. Essi amavano il buon vino con esemplare concordia; e siccome il buon vino non corre le bettole e le cantine del volgo, così la loro ripulsione politica si era mutata in attrazione pel fascino di un barolo squisito. Il curato si scusava: - Forse che alla chiesa non conveniamo tutti, uomini dabbene e peccatori, papisti e scomunicati, intorno all'altare del Dio uno e vero? E il farmacista rifletteva: - Dinanzi alla malattia non conosco avversarii politici; io prodigo i miei medicinali anche ai vili moderati che vorrei avvelenare di arsenico. La malattia e la sete stanno al di sopra di ogni rancore di partito. Il sindaco, nella sua qualità di moderato, credeva dar prova di sublime tolleranza, trincando coi due partiti estremi. Di qual modo si erano introdotti nella casa dell'eccentrico signore tre individui di opinioni così avverse? Il signore li aveva conquistati nei primi tempi del suo soggiorno in paese. Ciascuno alla sua volta, il curato, il sindaco e il farmacista, avevano ricevuto dal forestiere una carta di visita ed un autografo accompagnato da un biglietto a stampa di effetto miracoloso. Sulle carte di visita era impresso uno stemma gentilizio sovrapposto ad una parola enigmatica, che i tre sapienti del villaggio non avevano osato interpretare: Abrakadabra. I biglietti a stampa erano altrettanti boni della banca nazionale del valore di cinquecento franchi cadauno. Le tre lettere determinavano lo scopo e l'indirizzo dell'oblazione. La prima, al curato, per l'obolo di San Pietro La seconda, al sindaco, pel monumento a Vittorio Emanuele; La terza, al farmacista, da suddividersi fra le due collette promosse da Garibaldi e da Mazzini pel milione di fucili ... e pel soccorso alla libera stampa Il curato, il sindaco e il farmacista, nell'aprire quell'inatteso dispaccio, nel constatare le intenzioni del generoso oblatore, si erano fregati le mani a versarne sangue, esclamando con enfasi da partigiani: il signore è dei nostri! Ed ecco per quale impulso i tre avversari politici del paesello si erano recati a visitare il signore, coincidendo intorno alla grossa bottiglia, che poi doveva riavvicinarli quotidianamente a discutere i grandi problemi lulla politica mondiale. Durante la polemica, il contegno del signore era sempre enigmatico. Taceva con disperante costanza. La sua fronte spaziosa a volte si corrugava: i suoi occhi profondi vibravano lampi; le labbra tumide e sorridenti si contraevano, e i denti si serravano con sinistro cigolio. Pareva ch'egli facesse uno sforzo violento contro gli impeti della propria volontà, per reprimere un torrente di idee e di parole che tentavano prorompere. Quelle crisi erano passeggiere, ma atterrivano gli oratori, e imponevano agli entusiasmi della loro facondia. Un silenzio solenne regnava per qualche tempo nella sala. «Che razza d'uomo! - pensava il curato - credo ch'egli abbia il diavolo in corpo!» E gli occhi dei tre antagonisti si incontravano nell'espressione di un sentimento comune; vattel'a pesca come la pensi costui! Queste pause della politica erano ordinariamente impiegate nelle libazioni più generose. Tutti vuotavano il bicchiere, e si affrettavano a riempirlo come soldati che si preparino a nuovi attacchi. Brevi uragani. Si scioglievano senza rumore e senza danno. La fronte del signore riprendeva la sua calma severa - l'occhio si dileguava nelle palpebre folte, e il labbro si ricomponeva al più mite sorriso, nell'articolazione di una parola misteriosa: Abrakadabra. Quella parola era il terrore del curato, il quale la riteneva diabolica. Il farmacista, cui le spiegazioni del dizionario di scienze mediche l'avevano resa incomprensibile, sorrideva con aria sapiente e faceva lo sbadato. Qualche volta, per soccorrere alla intelligenza dei suoi ospiti, il signore traduceva l'Abrakadabra nel motto latino: ibis, redibis Poi accennava ad essi di ripigliare la discussione - e in mezzo al frastuono delle voci mormorava fra i denti un fiat lux che pareva il gemito di un Epulone assetato di luce» Abrakadabra, che non cessava di essere un enigma per tutti, era divenuto dopo alcuni mesi il soprannome del signore.

Ad un cenno del Virey, i due praticanti magnetisti abbassarono le braccia, e la testa del malato, abbandonata dal fluido possente, ricadde assopita sui guanciali. Il Virey rivolse la parola al fratello Consolatore. - Credo esser nel vero affermando che l'illustre infermo rappresenta una delle tante vittime dello spiritualismo esagerato dell'epoca nostro. Porgetemi la biografia di questo sventurato ... Fratello Consolatore si fece innanzi e consegnò il manoscritto al Primate. - Le alterazioni del sistema arterioso - riprese quest'ultimo con calma solenne - derivano da grandi sofferenze morali accoppiate ad una violenta attività del cervello. Questa attività ha potuto assorbire, distraendola dal cuore, una delle grandi cause efficienti della malattia. Senza questa circostanza, l'aneurisma avrebbe già prodotto le sue conseguenze mortali. Ma la biografia del malato chiarirà meglio la mia diagnosi. Potete voi giurare, o fratello Levita, che in queste pagine non vi abbia parola la quale non sia ispirata dalla verità?. Fratello Consolatore portò la mano al petto e rispose: - Pel corso di cinque anni ho diviso tutte le angosce dell'uomo che ci sta dinanzi: la sua anima si è completamente rivelata alla mia e voi la vedrete riflessa in quelle carte ... - Voi fortunati! - esclamò il Virey con un sorriso di sdegnosa ironia - voi che avete il privilegio di scorgere l'anima attraverso le molecole organiche dalle quali risulta la vitalità ... La scienza di noi profani non giunge a tanto. Vedete voi la vostra anima, fratello Levita? - Non la vedo, ma la sento - rispose fratello Consolatore con umile voce. - E siete proprio persuaso che il battito delle arterie, il respiro dei polmoni, la facoltà di pensare e di agire dipendano da una potenza misteriosa che non ha da fare colla materia? - Il giorno in cui in me cessasse una tale convinzione, arrossirei di esser uomo e invocherei di morire. - Mentre io mi occuperò a leggere queste note biografiche - disse il Virey allontanandosi - voi potrete, o fratello, esercitare le vostre pratiche salutari sull'anima dell'infermo. Più tardi, se i vostri rimedi non avranno giovato, io mi permetterò di tentare qualche prova sulla massa corporea. Vi prometto che il vostro metodo di cura non ne rimarrà pregiudicato. Così parlando, il Virey si ritirò nel vicino gabinetto. Fratello Consolatore cadde in ginocchio presso il letto dell'infermo mormorando una preghiera. Trascorsa un'ora, il Primate di medicina rientrò nella stanza. Ai due praticanti magnetisti che lo accompagnavano si era aggiunto un numeroso drappello di giovani studenti, intervenuti spontaneamente al consulto per erudirsi nella dotta e faconda parola dell'illustre scienziato. Il Virey da più mesi non era venuto a Milano; tutti si attendevano che al letto degli infermi egli avrebbe solennemente proclamate e spiegate le sue grandi teorie innovatrici. L'aspettativa non fu delusa. I giovani si schierarono silenziosi intorno al letto, e il Primate con accento solenne prese a parlare: «L'esplorazione magnetica non mi aveva ingannato; la biografia dell'infermo, e più che altro la storia delle sue ultime peripezie ha confermato i miei criterii sulla natura del male che reclama i nostri soccorsi. «La scienza medica ha fatto, nella prima metà del corrente secolo, dei progressi meravigliosi. Oggimai non vi è legge dell'organismo umano che a noi sia ignota, non vi è forza della natura che abbia potuto sottrarsi alle nostre investigazioni ed al dominio delle nostre esperienze. Ogni mistero si è rivelato; l'organismo umano non ha più segreti per noi; la chimica ha messo a nostra disposizione tutte le sostanze vitali disperse negli elementi, tutti i reagenti salutari che rispondono alle umane fralezze. «Possiamo noi inorgoglirci degli stupendi risultati? «Possiamo noi esultare dei nostri trionfi, mentre gettando uno sguardo sulla umanità ci è forza di constatare il suo incessante deperimento? «I nostri legislatori si mostrano sgomentati della frequenza, per verità spaventevole, dei suicidii individuali; eppure - strano a pensarsi - assistono spettatori indifferenti ed improvvidi al suicidio di tutta la specie umana! «Se fosse lecito dubitare della perfezione matematica dell'universo, che implica necessariamente la perfezione dei singoli elementi cosmici, in verità noi dovremmo chiamare assurda ed improvvida questa grande sproporzione che si manifesta tra la facoltà immaginativa e la forza puramente meccanica dell'uomo. Tutte le malattie, tutte le passioni e le ansie che ci contristano la vita ripetono la loro origine e la loro causa efficiente da questo fenomeno implacabile. Il progressivo sviluppo e la conseguente attività delle forze morali segna nell'organismo dell'uomo le fasi del deperimento che conduce alla morte. Questo attrito incessante fra l'uomo intelligente e l'uomo bruto risponderebbe per avventura ad una misteriosa esigenza dell'ordine universale? Questa legge, così assurda nelle apparenze, costituirebbe forse il principio demolitore, o meglio, la potenza trasformatrice della umanità? La razza umana sarebbe mai destinata a scomparire dopo un lasso di secoli, per vivere e riprendere sotto nuovi aspetti la sua attività cooperativa in un mondo ringiovanito? Ammessa una tale ipotesi, per la quale verrebbero ad eliminarsi molti assurdi concetti, volgendo uno sguardo alle condizioni attuali della umanità, ed ai gravissimi indizi di prostrazione che in ogni parte si manifestano, non possiamo astenerci dall'emettere un grido di allarme - l'agonia della nostra specie è cominciata. Il fuoco della nostra intelligenza ha raggiunto il massimo grado della incandescenza; questo fuoco sta per estinguersi. «Noi siamo all'ultimo atto della grande tragedia umana. Il Titano intelligente si elevò ad una altezza non mai raggiunta, ma la sua caduta sarà irreparabile. «Abbiamo spogliate le foreste, abbiamo traforate e abbattute le montagne, abbiamo aperte delle voragini per rapire alla terra le materie combustibili e gazose; abbiamo deviate le correnti elettriche; dapertutto la mano dell'uomo ha portato lo scompiglio e lo sfacelo. «Che più ci resta a tentare? Dopo aver dominato la terra e le acque, ecco le nostre locomotive ci sollevano ai cieli ... Non basta? Fourrier, coll'innesto delle ali, ci comunica una nuova facoltà, ci promette una trasformazione ... «Affrettiamoci, signori! Ciò che abbiamo fatto per suicidarci è poca cosa ... Voliamo alle regioni dove spaziano le aquile! ... Voliamo colà dove per l'uomo si respira la morte ... «E i sintomi mortali si scorgono dapertutto. L'attività febbrile che nello scorso decennio ha operato dei prodigi, oggi accenna ad estenuarsi; la luce della intelligenza umana è quella del lucignolo prossimo a spegnersi. «E frattanto, qual forza ci soccorre? La terra, nostra madre, e nudrice, è ormai stanca delle nostre violenze. Essa comincia a ribellarsi. I cereali intisichiscono, la vite non dà più grappoli; gli animali che più abbondante e vigoroso ci fornivano l'alimento, si ammorbano e periscono sui pascoli insteriliti. «E già i governi mandano un grido di allarme; e il diritto alla esistenza sancito dalle nuove leggi diverrà fra poco una derisione ... Ma a ciò provveda chi deve. «Il nostro compito, o signori, è quello di affermare, per quanto è da noi, la vita individuale, mentre le masse precipitano nella morte. «L'umanità è colpita là dove ha molto peccato. La prevalenza del succo nerveo ha paralizzato le forze del sangue; l'equilibrio degli elementi vitali è cessato; l'uomo vegetale, l'uomo bruto fu invaso dell'uomo pensante. «Dalle cattedre, dai libri, dai giornali noi abbiamo reagito costantemente contro l'invadenza di uno spiritualismo micidiale. Ma la superbia umana ha sordo l'orecchio alle verità che la umiliano. «La religione riformata, accarezzando l'orgoglio dell'uomo e l'idealismo irrazionale della donna, ha messo il colino alla esaltazione. In ogni paese, in ogni tempo, l'ascetismo fu nemico della nostra scienza; ma a nessuna epoca mai come alla nostra, il prete ed il poeta, questi eterni falsarii della legge naturale, questi allucinati o coscienti mistificatori delle plebi umane, esercitarono più micidiale il loro predominio. I fanatici del nuovo culto impazziscono a migliaia. Parigi, la superba città che era nello scorso secolo denominata il cervello del mondo Parigi non rappresenta oggigiorno che un vasto manicomio. «Ma questi signori vi diranno: ciò che a noi importa è la salute delle anime! Orbene! (e così parlando il Virey si volse a fratello Consolatore) non vi par tempo che noi interveniamo? «Vorrete poi permetterci di tentare qualche esperienza profana sugli atomi vitali che per avventura serpeggiano tuttavia in questo corpo estenuato? ... » Fratello Consolatore non rispose e chinò la testa mestamente. Il Virey, per un istante disarmato dall'umile atteggiamento del Levita, riprese la parola con intonazione più dimessa: «La malattia che ha colpito quest'uomo è una delle più comuni oggidì: la lassitudine nervosa complicata e aggravata da un chiodo fantastico «Lo sfinimento dell'apparato nervoso ripete la sua origine da troppo intense e prolungate esercitazioni della macchina cerebrale; il chiodo fantastico è frutto di una troppo costante e inesaudita surreccitazione dei globuli simpatici. Il bagno fosforico e le fasciature elettro-magnetiche applicate con prudente moderazione potrebbero in breve tempo rinvigorire il sistema pregiudicato; ma un tal metodo di cura aggraverebbe la crisi dell'organo più compromesso. «Signori! ... occhio al cervello! ... occhio al padrone, al governatore, al tiranno della casa vitale! Abbiate per fermo che nessuna malattia è mortale quando l'organo tiranno che siede là dentro conservi piena ed intatta la sua forza di volere. «Affrettiamoci dunque! Il nostro primo compito sia quello di ristabilire l'equilibrio fra i globi cerebrali. Ottenuto l'equilibrio, quando il malato sarà in grado di pensare e di volere, in pochi giorni la resurrezione delle fibre sarà completa. «Riassumiamoci. La biografia del paziente ci ha rivelato che un intenso desiderio di possessione riportato sovra una donna fu causa della anomalia. L'idealismo! sempre l'idealismo! fomite di ogni follia, di ogni disordine, per non dire di ogni umana scelleratezza. Questo uomo, credendo di amare ha fatto violenza alle leggi della natura e si è reso impotente. Io vorrei bene, o signori (e qui la parola del medico riprese una intonazione più vibrata), io vorrei bene, se la situazione del malato non esigesse tutte le nostre sollecitudini, sbizzarrirmi alcun poco nella diagnosi di questa vacuità a cui le moltitudini danno il nome di amore! ... Oh! chi scriverà la storia dell'amore? Chi vorrà riprodurre nella sua spaventevole ampiezza la cronaca delle follie e dei delitti derivati da questo equivoco, da questa fatale illusione della superbia umana? E fino a quando proseguiremo noi ad insultare la natura, a pervertirci, a suicidarci, per la mania di idealizzare a mezzo di una insensata parola l'attrazione simpatica dei sessi, comune a tutti gli enti, a tutte le molecole della creazione? «Ma torniamo al malato. La prevalenza del fosforo, rivelata dalla esplorazione, mi è di buon augurio; l'assenza della febbre mi allarma. Provochiamo la febbre! provochiamo questa benefica agitazione del sangue che tende ad espellere dall'organismo gli atomi eterogenei, «Soffiamo in questa bonaccia! suscitiamo la tempesta riparatrice! ... «E non perdiamo un istante (proseguì il medico, ritraendo la mano dalla fronte del malato); si chiami tosto ... Ma, no! ... io stesso sceglierò l'individuo da applicarsi ... «Vi è qui alcuno che possegga un ritratto della donna che questo infelice ha creduto di amare? ... » Fratello Consolatore si levò in piedi, levò dal portafoglio una fotografia e la porse al primato. - Sta bene! ... Conducetemi tosto ad una casa di Immolate ... Là troveremo l'individuo simpatico che ci abbisogna. E volgendosi ai giovani studenti che in silenzio lo avevano ascoltato: - Spero - disse - che mi avete compreso. L'estirpazione del chiodo fantastico allora si effettuerà spontaneamente, quando si ottenga che quest'uomo abbia a credere in un'altra forma di donna ... Se a tanto può giungere il talento e la volontà di una Immolata, è indubitabile che lo sviluppo istantaneo della febbre ricondurrà l'equilibrio nelle forze mentali, e allora il cervello potrà gridare a' suoi satelliti: sorgete e obbeditemi!» Ciò detto, il Virey riconsegnò a fratello Consolatore la fotografia dell'Albani, dopo averne spiccato uno dei tanti ritratti fotografici che vi erano intercalati. - Levita! - riprese il Primate nell'atto di congedarsi - voi perdonerete alla vivacità di alcune mie espressioni che per avventura possono aver irritate le vostre suscettibilità - la scienza medica non fu mai troppo scrupolosa nella pratica del galateo. - Dopo tutto, se i nostri principii e le nostre credenze si avversano, ciò non impedisce che noi ci chiamiamo fratelli. - Fratelli! - ripetè il Levita stringendo al cuore la mano che aveva cercato la sua - è pur consolante l'udir profferire questa parola da un uomo che nega l'amore e non crede all'esistenza dell'anima ... Il Virey, irritabile come tutti gli scienziati, stava per riprendere la sua polemica, ma un sospiro affannoso del malato gli ricordò che i minuti erano contati. Egli volse al Levita un'ultima occhiata piena di ironia e uscì dalla stanza seguito dagli alunni. Giunto nella via, il Virey fece salire nella sua volante il custode della Villa, e scambiate sommessamente alcune parole con lui, ordinò al conduttore di dirigersi alla piazza dell'antica cattedrale.

L'ALTARE DEL PASSATO

676783
Gozzano, Guido 2 occorrenze

Ma la donna s'era abbandonata sul mio petto come se quel nome e quel cognome l'avessero uccisa. E nel silenzio sentii più forte lo stridore del ridicolo, segreto dalla voce consolante della ragione. "Non tremare! Nessuno sa! La cosa buffa è tra te e la notte". Lady Mac Lewis parlava, parlava, me io l'udivo confusamente, come se il suo racconto mi fosse fatto non da lei, ma da dieci persone vociferanti. - Il mio amante! Il mio amante! - ripeteva come uno che confessi: Ho ucciso, ho ucciso! - Da tre anni non vivo che di questo! Da sei mesi non ho notizia! ... Vado in Italia soltanto per lui, per portargli baby ... Vidi gli occhi di Guido Rocca: i begli occhi di montanaro dalle grandi iridi azzurre, maculate di due tre punti neri come il velluto; gli occhi del piccolo: identici! Pervinche della stessa radice, fiorite dall'amore in due contrade remotissime: le falde delle Alpi d'Italia, le falde dell'Himalaja ... - ... il secondo giorno che v'ho conosciuto, ricordate? v'ho detto che se avessi un fratello sentirei per lui ciò che sento per voi ... E voi farete per me, sono certa, ciò che fareste per ridare la felicità ad una vostra sorella disperata! ... No, non parlate, lasciatemi parlare. Sbarcheremo in Italia fra quindici giorni. Mio marito proseguirà per Londra con Sue. Voi mi accompagnerete a Bergamo, subito ... No! No! Niente telegramma, niente ritrovo, per carità! Non v'ho detto che mi teme, che non mi vuole più? Me l'ha scritto in una lettera che conservo come una condanna a morte ... Ma se mi vede, mi ama, ne sono certa. Non deve aspettarmi: devo apparirgli Voi mi guiderete attraverso il paese, attraverso la gente sconosciuta, mi consiglierete, mi difenderete, combinerete l'incontro improvviso. Il tempo, la distanza l'hanno fatto così! Se mi rivede, mi riama. Ne sono certa. Tacque pochi secondi, senza più voce: poi, con una nota rauca che mi diede il brivido: - ... l'amo, l'amo da morire o da farlo morire ...

"Contessa Costanza Zeni": lesse sulla fascia d'una rivista abbandonata sul marmo, e decise di non parlare se la signora non parlava. La signora non parlò che del nipotino. - Adorabile, non è vero? La mia pena è di averli così lontani. Palermo. - Perchè non convive con loro? - fu per domandare Claudio, ma tacque, prudente; e fu bene, perchè la signora disse subito: - Li ho visti l'ultima volta a Pasqua, pensate! Li rivedrò a Natale. I Gribaudi sono palermitani, in tutta l'espressione. Famiglia patriarcale, bigotta, pedantissima. Ottima gente, m'accolgono con tutta cordialità, ma ... alla larga. Lei conosce il mio carattere, caro Soranzi ... - Santina le vuol molto bene! - Molto. Ma il bene delle figlie sposate per le mamme lontane. Una decima parte di quello che noi si porta loro ... Ancora una volta Claudio non trovò parola. - Contessa ... - Ah! non mi chiami contessa per carità; almeno lei! ... E Claudio rinunciò a parlare di Zeni, e s'accorse di non saper come annunciare alla signora la notizia, delle sue nozze felici: ora più che mai il momento non era propizio, ed il raffronto doloroso, e l'argomento indelicato da parte sua. - Ah! caro Soranzi! il tramonto non pesa. Pesa la solitudine. - Ma gli amici ... - Quasi tutti dispersi, come lei ... E i pochi superstiti vengono ben di rado. Non attira la casa dove non si ride più. Le ripeto, la vecchiaia non pesa ... - Ma non parli di vecchiaia alla sua età! - protestò Claudio schiettamente. Sapeva per calcolo certo, per confidenze del tempo andato, che la signora era poco più che quarantenne. - Non parli di vecchiaia a quarant'anni! La donna ebbe uno sguardo pieno di tristezza e di ironia: - Povero Soranzi, lei calcola sulle mie confidenze d'allora. A lei, come a tutti, ho sempre confessato ... sette anni di meno! E si ripagò dell'umiltà di quella confessione, la più dolorosa per una donna, con l'imbarazzo buffo del giovane amico. - Gli anni non contano, - protestò Claudio, - e se non fosse questa canizie precoce ... - Precoce? Ero canuta a venticinque anni! Mi sono tinta sempre, fino a tre anni or sono ... Ebbe un sogghigno crudele che le si fissò sulle labbra, sino alla fine. Claudio s'alzò, e s'accorse che per la terza volta stava per darle notizia della sua felicità e della sposa che voleva presentarle; ma che una timidità, un pudore lo tratteneva, e non sapeva quale. Forse il pudore del fortunato che non osa ostentare la bella veste di fronte al mendico. Volle parlare. Ma pensò che era tardi, che non poteva dare la notizia dopo un'ora, a visita finita, e che sarebbe stato più buffo che mai. - Se ne va? L'accompagno un tratto verso Sant'Erasmo ... La signora l'accompagnò lungo il declivio. Claudio paventava l'avvicinarsi all'albergo. Ma a mezzo il colle la sua ansia ebbe fine: - È tardi. La lascio, caro Soranzi. Le son tanto grata della visita. E la rinnovi qualche volta. Farà una carità evangelica. Si ferma a Sesto qualche giorno? - Sì. Veramente no. Ma devo premettere ... - Premettere che cosa? Claudio trovò una frase qualunque: - Premettere che scenderò a Sesto soltanto per lei. La signora s'allontanò con un sorriso triste, e lo minacciò con la mano, incredula e pur riconoscente. E Claudio scese correndo, inquieto, scontento di se stesso. Ancora una volta gli era mancato il coraggio dell'annunzio troppo tardivo. Giunse a Sesto, deciso di lasciare il paese quel giorno stesso, per non esporsi all'incontro ormai inconciliabile delle due donne. Trovò la moglie che usciva dall'albergo. - Ti venivo incontro. Andavo alla Posta. E sollevò un fascio di cartoline e di lettere. - La mia piccola grafomane! - e Claudio prese il fascio, lo soppesò nella mano sorridendo. - Mah! E tutto questo perchè il mondo seppia che siamo felici? - Sì. Perchè il mondo sappia che siamo felici ...

I sogni dell'anarchico

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Mioni, Ugo 2 occorrenze

esclama, mentre il suo occhio guarda supplice un piccolo serpente, arrotolato al suo braccio sinistro; il suo odio, l'onnipotente, il patrono della sua tribù, che la rese sempre grande, la conservò potente, le concesse sempre grandi trionfi e aveva abbandonata soltanto due giorni innanzi: un dio sanguinario, che chiedeva molte vittime, bambini innocenti e vergini pure. Dio serpente! Perché mi hai abbandonato? Sì; lo aveva abbandonato. Ricordava la sua tribù forte, potente, padrona della grande oasi, dominatrice delle vie del deserto. Egli ne era il capo temuto. Suo padre gli aveva lasciato un nome terribile, che tutti paventavano, un'autorità, avanti alla quale tremavano tutti, un forte esercito di tremila armati, le casse piene di oro giallo, caldo, più caldo della sabbia del deserto, molti schiavi e molte schiave. Egli aveva stretto con mano forte le redini del governo ed avido di dominare sul deserto, di essere padrone delle grandi vie, che conducono al suo interno, per poter taglieggiare a piacimento le carovane ed imporre loro le tasse che voleva; per diventare il padrone del paese, aveva dato battaglia ad una tribù finitima e che gli era rivale, l'aveva debellata ed era stato senza misericordia coi vinti. Chi gli era caduto vivo nelle mani era sitato macellaio o fatto schiavo e conservato ad una sorte più terribile della morte. Quanto sangue sparso allora! Egli fremeva della barbara giova al pensiero di quell'eccidio, e gli sembrava di veder scorrere ancora ai suoi piedi, sulla sabbia del deserto, un ruscello di sangue umano, rosso; gli pareva di allungare il braccio colla mano, piegata a mo' di scodella, di attingere quel liquore rosso, caldo, e di portarlo alle labbra. Spegnere la propria sete col sangue dei morti nemici! Dimenticò per un'istante la propria sete, il suo sfinimento, e si rizzò fìero, maestoso, sul suo cavallo. Io! Il principe Ramsette! Ma poi ricadde nell'antica prostrazione; la persona si curvò ed egli dovette con ambo le bracca afferrare il collo del fido cavallo e stringersi a quello, per non stramazzare al suolo. La sua ultima vittoria, perché i vinti avevano implorato l'aiuto dei potenti ed odiati romani, ed il proconsole aveva avocato a sé la causa ed osato citare lui, un principe, lui, Ramsette, al proprio tribunale. Aveva risposto: Un libero principe non può venir giudicato da nessuno! ed aveva invitato il proconsole al proprio tribunale. Aveva armato la sua tribù. Sperava di vincere. I suoi erano uomini liberi; i romani schiavi. Un uomo libero vale per cento, per mille schiavi e ne sbaraglia una legione. Eppoi egli si lusingava, che tutte le altre tribù si saprebbero unite a lui, le libere, per conservare la propria libertà, le soggiogate, per scuotere il durissimo giogo. Ma le sue speranze non si erano avverate. Molti Io temevano, molti lo odiavano, molti lo volevano veder umiliato; la sua umiliazione premeva loro assai più della loro libertà. Non vedevano il loro vero nemico nel proconsole romano, che li teneva domi, li soggiogava alla dominatrice del mondo; vedevano piuttosto in lui un rivale pericoloso, che andava umiliato. Nessuno lo aiutò; uno o l'altro favorì anzi i romani. Si venne alla lotta, ed egli fu vinto. Le centurie romane, bene armate di bronzo, furono insensibili alle leggere frecce; i suoi invece non poterono resistere al loro impeto; molti fuggirono; molti vennero mietuti dalle loro spade, molti furono trapassati dalle loro lande. Dall'alto del suo destriero egli aveva diretto la pugna e cercato d'infiammare i suoi e di condurli al trionfo; ma quando aveva visto sbaragliati i suoi uomini, prima invincibili, da' un pugno di nemici, inferiori di numero; quando gli avversari si erano lanciati contro di lui; quando aveva udito la voce del centurione gridare: « Mille sesterzi a chi lo piglia vivo», un terribile spavento lo aveva incolto. Morto sì, ma schiavo mai. Aveva dato di sprone al suo cavallo ed incominciato quella fuga pazza, da parte sua, quell'inseguimento pazzo da parte loro. Fuggire? Dove? Alla sua oasi, per condurre colà il nemico; per dargli in preda le donne, i fanciulli, il suo oro? Mai! Si lusingava, che il nemico non avesse trovato la via dell'oasi, non si fosse spinto fin là, a predare, sgozzare ed incendiare; si lusingava di poterlo allontanare in un'altra direzione. E perciò fuggì all'impazzata, nel deserto, senza una meta. avido solo di mettere una immensa distanza tra sé ed il nemico: di mettere in salvo la propria vita; di non cadere nelle mani di quell'avversario temuto, di non diventare suo schiavo. Dio serpente! Mi salva, mi salva! E continuava la cavalcata pazza. Il sole volge rapidamente al tramonto. I colli gettano lunghe ombre, strane, e prendono tinte fiammeggianti; domina, da principio, il giallo, un giallo saturo che diventa poi arancione e poi rosso fuoco mentre i colli ardono; sembra che un gigantesco incendio divampi nel deserto; l'orizzonte è in fiamme, odi in mezzo a quelle fiamme, rossa essa pure, un'enorme brace, si tuffa la gigantesca palla solare. Il rosso cede il' luogo al violetto; sembra che le rocce vestano a mestizia per l'occaso del sole. Il fuoco si spegne sull'orizzonte, rapidamente; i colli si coprono di gramaglie, e sul padiglione nero del cielo compariscono numerose stelle. Il capo prorompe in un urlo di spavento. In mezzo a quelle stelle è comparso un indice luminoso, gigantesco, il dito di Dio, che gli minaccia' sventura. «La cometa! L'astro della mia rovina! e cade privo di sensi a terra.

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Giura, nella Chiesa bianca, fede incrollabile alla sua sposa, che mai gli sembra così pura e così degna di amore come ora, che ha sofferto tant'onta; che vuole consolare, col suo maschio amore, per l'onta subita, ed incomincia a diradare una foresta abbandonata, a coltivare la fertile terra, a edificare un rustica casa; lieto di trovarsi anche là in Italia, perché sa che là, dove si trova anche un solo italiano, vi è pure l'adorata madre Italia......

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CAINO E ABELE

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Perodi, Emma 1 occorrenze

Sempre più quella donna appariva a Franco un enigma; era bellina, era abbastanza ricca, era giovane e sola e qual ragione mai la spingeva a sotterrarsi viva su quella spiaggia abbandonata? Se avesse conosciuto Roberto, prima, se lo avesse amato, era naturale che fosse andata presso di lui; ma non lo aveva mai visto e come mai s'era imposta quel sacrifizio volontario, senza esservi neppure spinta dal bisogno? Il duca rivolse altre interrogazioni al Varvaro, senza ottenere maggiori notizie di quelle che già sapeva. Velleda aveva saputo ispirare tanto rispetto in quell'uomo semplice, che si sarebbe vergognato di nutrire un sospetto sulla sua esistenza precedente, e Franco si accorge che aveva sbagliato strada per giungere a scoprir terreno. Poco dopo il Varvaro augurò a Franco la buona notte e questi, rimasto solo, aprì la lettera del fratello. Roberto scrivevagli lungamente, narrandogli che nei primi giorni, al palazzo, non cessava mai la processione dei creditori. Informati dai giornali della sua partenza, sarti, calzolai, carrozzieri, fiorai, orefici, fornitori delle scuderie e delle cucine, tappezzieri, tutti eran corsi e volevano essere pagati. Ma i servi erano andati via, i cavalli erano stati venduti, e il guardaportone aveva ordine di mandar tutti dall'avvocato, che li aveva calmati con alcune migliata di lire, ricavate dalla vendita dei cavalli e delle carrozze e con l'esazione di alcune pigioni arretrate. Lo scandalo volgare, dei piccoli e clamorosi creditori era stato dunque evitato e Roberto sperava di evitare anche quello grosso. Aveva, dai direttori d'istituti di credito, ottenuto una dilazione per il rinnovo delle cambiali e ora trattava con un proprietario di albergo la vendita del palazzo. Con la somma che sperava ottenerne, avrebbe soddisfatto i debiti ipotecare che su quello gravavano e gli sarebbe bastata anche a pagare gl'interessi delle cambiali. Voleva ad ogni costo evitare il fallimento, per non vendere disastrosamente. Egli invitava Franco a farsi animo, assicurandolo che da quel disastro gli sarebbe rimasto qualcosa. Intanto, appena venduto il palazzo, sarebbe partito da Roma, per tornarvi alla nuova scadenza delle grosse cambiali; a regolare le altre minori bastavano le pigioni delle case affittate. Terminava dicendo: Credo di aver interpretato un desiderio tuo non denunziando il maestro di casa come ladro. Egli non ha saputo rendermi i conti di più migliaia di lire. I giornali si sarebbero valsi di quella notizia per dire il vero e il falso sul conto tuo, e il silenzio, in questo momento vale più di ogni altra cosa. Le rose fioriscono sempre e la marchesa Salvati ne riceve ogni giorno. Ella sta meglio. Ancora non ha saputo della tua partenza e ogni giorno ti manda a ringraziare. Scrivile per annunziarle che sei costà, affinchè risorgendo non lo sappia da altri e preparati con serietà di proposito alla nuova esistenza, che potresti rivolgere a utile tuo e di altre persone. Questa lettera consolò Franco rispetto ai suoi interessi. L'arrivo del fratello a Roma in quel momento disastroso era stata una fortuna per lui. Senza Roberto tutto, tutto sarebbe stato inghiottito, senza soddisfare chi avanzava. È una potenza quel Roberto! - esclamò il duca e riepilogando tutto ciò che aveva veduto in due giorni e che era opera soltanto di suo fratello, questi gli apparve potente e saldo come una delle colonne gigantesche che rimanevano erette sulle sabbia, una di quelle colonne che nè commozioni telluriche, nè furia d'intemperie, nè rabbia d'uomini avevano potuto abbattere. Oh! che invidia ispiravagli quel colosso, che dominava gli eventi, che lo vinceva nella forza, nel sapere, nell'intelligenza, nella bontà, in tutto, in tutto, anche nella bellezza fisica, perché Roberto era la vera espressione della bellezza maschile! Ma non può non avere un lato vulnerabile, - diceva Franco a se stesso, - e quel lato io lo scoprirò certo; so volere tenacemente anch'io! Mentre il duca sfogava nella sua camera l' invidia contro il suo salvatore, Velleda, in atteggiamento umile, di devota, dinanzi a una sacra reliquia, rileggeva per la terza volta la lettera di Roberto e giunta alla firma, posava su quella le labbra. Ella aveva gli occhi pieni di lagrime, ma un sorriso di beatitudine le illuminava il volto delicato, curvo sui fogli coperti di una scrittura unita e marcata. Nessuna lettera di Roberto l'aveva fatta piangere, perché nessuna era più dolce, più cara di quella. Mia buona amica, - diceva quella lettera, - lasci che io le dia questo nome che riassume i sentimenti di stima profonda e di affetto vero che nutro per lei. Nessuna donna, credo, abbia mai avuto nel cuore di un uomo onesto il posto che ella occupa nel mio. Non le ho fatto mai questa confidenza, poiché non volevo che vicino a lei la commozione mi vincesse, e perché potevo esser debole anch'io e noi dobbiamo esser forti; ma ora, da lontano, posso farle questo sfogo, posso aprirle il mio cuore di cui ella è signora. E questo dominio che ella ha preso su di me, non sussiste da che le sono lontano, da che sento la mancanza di lei ad ogni istante, no. Rammenta la lunga lettera che mi scrisse appena io ebbi accettato la sua offerta di essere per Maria una seconda madre? Spinta da un sentimento di delicatezza sublime, ella volle farmi una confessione generale e mi narrò la sua triste infanzia fra una madre, gran signora, dissipatrice, capricciosa, una di quelle russe che hanno tutte le superstizioni delle razze corrotte e tutti gli ardimenti di quelle primitive, pietosa e barbara, entusiasta e calcolatrice, nevrotica e dispotica sempre; e un padre, artista di piccola ambizione e di modesta fama, gretto, schiavo della moglie, incapace di farsi valere dagli estranei e di farsi rispettare in famiglia. E accennava alle scene disgustose, ributtanti, fra la dama che rinfacciava al suo schiavo la propria inettezza a conquistare un nome e una fortuna, che il più delle volte sorride soltanto agli auduci. Quelle scene straziavano il suo cuore di bimba ed ella si faceva protettrice dell'oppresso, del debole e inimicavasi la madre, la quale per fuggire la noia, pentita di avere sposato un oscuro artista, lo abbandonava, lasciandogli come elemosina la villa di Fiesole e i poderi acquistati, allorché del povero artista ella si era foggiata un ideale molto diverso dal vero, credendolo dotato di attitudini straordinariamente felici. Quella lettera io l'ho bruciata perché nessuno potesse mai leggerla, ma mi è rimasta scolpita nel cuore e posso citargliela periodo per periodo; da quello in cui mi descriveva la tristezza di suo padre dopo l'abbandono, e lo strazio della sua anima di bimba nel vedersi dimenticata assolutamente dalla madre, all'altro nel quale dipingevami la reazione che nacque in lei, l'amore allo studio dei classici italiani, destato dall'amore per Firenze, il desiderio di soffocare nel lavoro le malinconie languide della giovinezza, di conquistare quella fama che suo padre non aveva saputo conseguire e ornarne, a guisa di gloriosa corona, la canizie del vecchio sfiduciato. Il titolo dei suoi primi scritti, i passi penosi nel campo delle lettere, le sfiducie, gli entusiasmi, distratti dalla critica inesorabile, tutto, tutto rammento fino a quel grido di gioia, che il ricordo di un grande trionfo riportato dal suo romanzo: Vincitori e vinti dava a quel brano della sua lettera un colorito, che mancava al resto della narrazione. Poi sobriamente ella mi accennava all'amore per un giovane avvocato, più innamorato della sua fama che di lei, al loro matrimonio, alla morte del padre e alla nascita di una creatura. Qui la narrazione si faceva angosciosa e io nel leggerla capivo lo sforzo che doveva esserle costato lo scriverla. Ella parlava più lungamente dei suoi lavori, che continuavano a portarla sempre più in alto, che di quel dissipatore egoista, il quale aveva in odio il lavoro e avrebbe voluto vivere alle sue spalle oziosamente e signorilmente, che della lotta sostenuta per difendere il piccolo patrimonio della sua bambina, che delle minaccie e delle percosse per ottenere da lei denaro che correva a spendere in orgie e a sciupare nel giuoco. Su tutto questo ella sorvolava quasi, ma io indovinai più di quello che ella mi diceva, come capii quanto insopportabile doveva esser diventato per lei quel giogo, per ricorrere ai tribunali e chiedere una separazione legale. Ma ottenutala ella non ottenne la calma. Quel vile continuava a perseguitarla e mentre la diffamava con tutti, ricorreva poi a lei per aver soccorsi, l'aspettava sulla via per intimorirla e giungeva fino a rubarle la sua bimba, che moriva lontana da lei, in un paese del Mugello. Tutti quei dolori, sopportati senza sfogo, alteramente, la tennero più mesi fra la morte e la vita, e quando tornò in sé seppe che il marito scontava in un bagno penale il delitto di aver strappato una donazione a un ebete a danno degli eredi naturali. Allora un sentimento di vergogna la vinse; ripudiò il nome di quel vile, riprese il casato di suo padre, non ebbe più sogni di gloria, affittò la villa e cercò, mutando paese, di dimenticare a di farsi dimenticare. Quando io ebbi terminato di leggere quella confessione, Velleda, io provavo già una profonda stima per lei, un'ammirazione viva, per quell'alto sentimento di dignità che aveva saputo conservare in mezzo a tante sventure; ero già l'amico disinteressato che erale mancato nella vita, ero già penetrato da un senso di tenerezza per quell'anima afflitta, ma forte, che cercava nel lavoro l'oblìo, che non si sgomentava al pensiero di ricominciare a trent'anni l'esistenza, e pieno di fiducia le dissi di venire presso la mia bambina. La mia fantasia ha poco agio di correre dietro a visioni; e io non vestii di nessuna delle forme muliebri quell'anima afflitta; ma quando la vidi, se ne rammenta? scendere dal treno e stendermi le mani senza arrossire, capii che la sua figurina era il degno involucro dell'anima sincera e buona che aveva parlato alla mia, e il suo sguardo sereno mi scese al cuore. Da quel giorno l'affetto; nato spiritualmente, si accrebbe sempre, ma non ha mai degenerato, mai. Ella, invece di cadere nelle volgarità che è difficilissimo evitare nella vita in comune, si è sempre più inalzata nella mia stima ed ha costretto la mia ammirazione a convertirsi in una venerazione quasi sacra, in un culto ardende e rispettoso. Quando la vedo accanto a Maria pazientemente intenta a educarla, mi pare l'angelo della mia casa; quando poi la incontro nelle case degli operai malati, o la vedo presiedere ai loro pasti frugali, mi appare come il genio della carità, e allorché la sento accanto a me nelle lunghe e silenti serate, curva sopra un libro, o la odo parlare, allora mi pare la compagna invocata nella solitudine, la fata misteriosa che mi legge nel cuore e nel pensiero, la donna ideale, che si compiace di elevarmi, di schiudermi una nuova esistenza: quel paradiso riservato agli eletti dello spirito, nel quale è difficile penetrare senza aver fatto una lunga sosta nel regno del dolore. Questa fusione perfetta che riscontro in lei di tutte le qualità del carattere e della mente, racchiuse in un involucro di una bellezza tutta ideale, che sfugge allo sguardo di chi cerca nella donna la femmina, hanno determinato il mio affetto per lei. Badi che parlo d'affetto e non d'amore, perché non voglio offenderla con una espressione alla quale si dà in genere un significato materiale, di cui è scevro il mio sentimento. Affetto! ecco la parola vera, la parola santa di cui non possiamo arrossire. Non le ho mai chiesto se il mio sentimento fosse corrisposto, ma son certo da molto tempo che ella mi vuole un bene immenso. L'ho capito da quel linguaggio misterioso che si parlavano i nostri cuori, mentre le labbra restavano chiuse, dalla perfetta comunione dei nostri pensieri, dalla facilità con cui io leggevo in lei ogni moto dell'anima, dal desiderio di farsi umile dinanzi a me, da quel dolce riposo che le procura la mia presenza. Senza la catena che la lega a un essere che sconta tutti i misfatti commessi contro di lei, io l'avrei supplicata di accettare il mio nome, non perché il mio affetto avesse bisogno di questa sanzione legale per sussistere, ma soltanto per avere il diritto di starle sempre vicino e di proteggerla da ogni dolore. Questo non può accadere e io ricaccio il sogno in fondo al cuore, e mi stimo beato del legame spirituale che ci unisce. Mantenendo il nostro affetto in questi limiti, noi non abbiamo ragione di arrossire dinanzi al mondo, non offendiamo Maria, e la nostra coscienza non ci rimprovera nessuna azione turpe. So bene che la gente crederà poco a un affetto che non abbraccia altro che una parte della nostra vita, quella immateriale; che si ritempra nella rinunzia; che si alimenta nei sacrifizii. Essa ci getterà alle spalle le sue turpitudini, cercherà d'insozzarci col suo fango, ma noi serenamente procederemo per la via che ci siamo tracciati, facendo del bene e tenendo l'occhio rivolto in quell'etere profondo ove non giungono le volgarità del mondo e nel quale forse si ricongiungono le anime pure. Fra quelli che meno capiranno il carattere elevato del nostro affetto, sarà Franco. Egli è vissuto troppo male, fra gente troppo profondamente corrotta per credere alla idealità di un sentimento fra persone di sesso diverso, giovani ancora, ma è troppo signore, e mi dovrà tanta gratitudine per quello che faccio per lui, per amareggiarmi la vita. A lei sola lo dico. Per impedire il fallimento, ho impegnato la mia firma per una somma vistosa che non le preciso. È stato uno sforzo, perché ella sa che noi industriali immobilizzando dei capitali ci tagliamo le gambe. Ma il dovere me lo imponeva e quando saremo alla liquidazione finale, Franco mi pagherà. Ma egli non potrà mai compensarmi del sacrificio che faccio stando lontano da lei, o mia gentilissima, privandomi della sublime consolazione di vederla e di udirla. Mi voglia bene, me ne voglia molto e pensi a me condannato a vedermi passare sotto gli occhi tante turpitudini di avidi speculatori, a lottare con loro accanitamente per salvare le briciole di un patrimonio regale. Baci teneramente la nostra Maria. Il suo ROBERTO Egli ha ragione, - pensava Velleda - la confessione che mi fa in questa lettera, non mi cagiona nessuna sorpresa, nessuna. Anche se non avesse mai parlato, io ne sarei stata certa; l'affetto di Roberto non poteva essere un mistero per me. Ella si alzò e portò alla bimba addormentata il bacio paterno, poi toltasi il severo vestito di lana grigia, indossò un accapatoio di trasparente batista e andò sul terrazzo a respirare l'aria fresca della sera. Com'era beata per quella lettera affettuosa! Dal suo pensiero sparivano tutte le piccole contrarietà di quegli ultimi giorni e s'immergeva nel ricordo dell'assente carissimo. Le pareva che il vento agitando i palmizi, le onde lambendo la sabbia, le parlassero di altre serate egualmente felici, trascorse insieme con Roberto nella contemplazione di quello spettacolo sublime del mare, del quale i loro occhi non si stancavano mai. Il mare si associava a tutti i ricordi della nuova esistenza di Velleda; esso accompagnava col rumore scrosciante della burrasca le loro letture invernali, esso li alliettava col suo azzurro nei tepidi giorni primaverili, esso, col morniorìo cadenzato delle onde che andavano a morire al piede delle dune, interrompeva le loro meditazioni nelle serate calde. Trepidavano insieme allorché vedevano partire un vapore carico durante una tempesta; si facevano una festa di abbandonarsi al mare in una barca nei giorni in cui il lavoro taceva nello stabilimento; facevano insieme lunghe passeggiate sulla riva mentre Maria raccoglieva le conchiglie, e sempre sul mare si posavano i loro sguardi allorché temevano che s'incontrassero. Nè Velleda nè Roberto in quelle passeggiate, in quelle ore che passavano insieme, parlavano mai della loro vita anteriore. I loro discorsi sì aggiravano sul periodo di tempo di quell'ultimo anno, come se entrambi non volessero confessar di vivere altro che dal momento che s'erano incontrati. E mentre si parlavano la loro voce acquistava un tono carezzevole, che non aveva per solito, e i loro occhi una espressione di infinita dolcezza. Essi evitavano di stringersi la mano, di star vicini quando erano soli e i loro atteggiamenti erano sempre rigidamente casti. Pareva che sprezzassero tutte le manifestazioni materiali dell'affetto per rinchiuderle nel cuore e dare maggiore intensità al sentimento che li univa. Velleda non aveva mai permesso che Roberto leggesse un libro scritto da lei e firmato col pseudonimo di "Melusina", sotto il quale era nota nel mondo delle lettere. Una volta egli le aveva chiesto I Vincitori e i Vinti Vintied ella avevagli risposto: Ora non scriverei più in quella maniera, i miei sentimenti sono cambiati; non provo più certi risentimenti, non vedo più l'amore sotto lo stesso aspetto, mi sono fatta più calma e più umana; mi faccia il piacere di non leggere quel libro, che rinnego. Roberto aveva ubbidito, ma per giudicare il suo valore di romanziera, non aveva avuto bisogno di leggere libri di lei; gli era bastato di ascoltarla mentre narrava a Maria le avventure commoventi di poveri bimbi, le novelle meravigliose delle fate per convincersi della ricca fantasia di quella creatura eletta, nella quale vibrava alta la corda del sentimento, e queste qualità essenziali per chi deve dipingere la vita andavano unite a un gusto finissimo, a una perfetta dizione che accarezzava dolcemente l'orecchio e che scendeva nel cuore di Roberto commovendolo. Velleda, in quella sera di dolcissima meditazione; aveva dimenticato di scendere, come faceva sempre, a chiùdere il cancello e a sguinzagliare i due mastini che vegliavano sulla villa solitaria, nella quale dormivano il cuoco, Costanza, la bambina e la signora soltanto, ora che Saverio stava presso Franco. I rintocchi della mezzanotte, suonati dall'orologio dello stabilimento, la fecero balzare in piedi e senza chiamare Costanza, che doveva essere in camera di Maria, ella scese in giardino e s'avviò al canile. In quel momento i cani si misero ad abbaiare e Velleda vide un' ombra sgattaiolare fra i palmizj a poca distanza da lei e perdersi sotto il fogliame scuro delle folte piante d'arancio. Ella tremò, ma vinta la paura, sciolse presto i cani dicendo : Cerca Lampo! cerca Etna! E i due cani, col muso in terra, abbaiando, s'allontanarono di corsa. Per Velleda fu quello un momento di suprema angoscia. Non sapeva che fare, se risalire in camera di Maria, o correre a suonar la campana per chiamare aiuto dallo stabilimento, quando un colpo di fucile ruppe l'alto silenzio della spiaggia, e uno solo dei cani tornò a lei spaventato latrando. I malandrini! - esclamò la signora atterrita, e senza riflettere più gettò un sasso contro la finestra della camera del cuoco e salendo a precipizio le scale si attaccò alla corda della campana. Costanza era andata sulle scale, pallida e tremante, il cuoco era corso su col fucile in mano, mezzo vestito; Maria sola dormiva placidamente. Velleda collocò Costanza accanto al letto della bambina, chiuse a chiave le porte e preso che ebbe un revolver di Roberto, incominciò a perquisire la casa, insieme col cuoco, premendo ovunque i bottoni della luce elettrica, affinchè se vi era qualcuno nascosto, fosse subito visto a quel chiarore vivo. Ella era ancora al piano superiore, allorché giunsero due guardiani armati, Saverio e il Varvaro. Quest'ultimo aveva in mano la lanterna e avanzandosi nel viale dei palmizj guardava a destra e a sinistra, proiettando in basso e in alto la luce e intanto gridava per annunziare il suo arrivo. Velleda udi quei gridi e scese incontro al direttore. Ma che cosa è avvenuto? - domandò questi. Non so precisamente" - diceva con voce interrotta cercando di ritrovare il filo delle idee, - mi ero un po' attardata prima di sciogliere i mastini e quando sono scesa per isguinzagliarli ho veduto un'ombra nera fra gli alberi. Allora immediatamente ho sciolto Lampo ed Etna. I cani certo debbono avere scoperto il malfattore, perché ho sentito un colpo di fucile e Lampo solo è tornato verso di me ed è rifuggito subito. Ponetevi a difesa della casa sulla terrazza e non lasciate avvicinare alcuno, - ordinò il Varvaro ai guardiani, - Saverio e il cuoco cercheranno insieme con me. Velleda risalì in camera di Maria e vi si rinchiuse ; Costanza, in preda a un cieco terrore, aveva acceso tante candele a una immagine della Vergine, e balbettava : Maria, bedda matri aiutatemi! Salvatemi! Maria dormiva sempre e Velleda, con l' orecchio teso, spiava ogni lieve rumore. La camera di Maria, che era pure la sua, non guardava sul viale dei palmizj ne su quella parte del giardino in cui erasi svolta poco prima la rapida scena, e per questo ella non poteva seguire le indagini del Varvaro. Però a un certo momento sentì un rumore di passi nell'anticamera terrena e non reggendo più, corse sul pianerottolo, spenzolandosi nel vano della scala per veder chi era. Saverio! Saverio! che cosa è successo? - diceva scorgendo il cameriere, che correva verso la cucina. Lampo ha fatto il suo dovere! - rispose il servo nel passare. Poco dopo Saverio ripassava portando una spugna e una catinella piena d'acqua. Ma Saverio, per carità, spiegatevi! - diceva Velleda che lo aveva atteso trepidante. Signora, un malandrino ferito. Laconico nelle risposte come ogni siciliano, non disse altro e tornò verso i suoi compagni nel giardino. Suonate! - gridò Velleda ai guardiani affacciandosi al terrazzo. - Sparate i fucili, fate che vi odano dalla Casa dei Viaggiatori. Lo Carmine con i suoi ci verrà in aiuto. Oh se i carabinieri fossero in perlustrazione, se i doganieri accorressero; sparate! Partirono quattro colpi di fucile a breve intervallo e poi la campana suonò a distesa. A un tratto s'illuminò la Casa de' Viaggiatori, s'illuminò il " Selino " e da quello partì un colpo per avvertire che l'appello era stato udito. Lampo abbaiava furiosamente e i cani dello stabilimento pareva che gli rispondessero. Velleda correva ansiosa dalla camera di Maria alla terrazza e il suo pensiero volava a Roberto. Oh.' come lo invocava in quel momento; come sentiva il bisogno di averlo accanto a sé, a difesa della casa! A un tratto vide Costanza, che rompendo la consegna, scendeva le scale e le ingiunse di tornare dalla bimba. Sotto la chiara luce lunare, la signora scorse una lancia del " Selino " accostarsi alla banchina e vide dalla Casa de' Viaggiatori uscire un gruppo scuro, che correva in direzione della villa. Ma intanto che tutti quei soccorsi si avvicinavano, e Velleda ne affrettava col desiderio l'arrivo, più colpi di fucile erano sparati nel cortile dello stabilimento. I marinari del "Selino, che erano giunti al cancello della villa, retrocessero di corsa, i due guardiani che erano sul terrazzo della villa traversarono la sala; gridando a Velleda : Era una finta per allontanarci; il pericolo è là. Il pericolo! - ripeteva la signora atterrita. Dunque attentavano alla proprietà di Roberto, al frutto paziente del suo lavoro? Il Varvaro anch'egli s'era unito ai guardiani e correva verso il luogo più minacciato. Velleda non sapeva più che cosa fare e le fucilate che continuavano a turbare l'alto silenzio della notte, le ferivano dolorosamente gli orecchi. Ella scese incontro al Lo Carmine e ai due tedeschi e non seppe dire altro che : Maria! Lo stabilimento! Anche il sottodirettore degli scavi e i suoi due compagni erano armati di fucile e nella cintura portavano il revolver. revolver.Signori, - ella disse ai due giovani architetti tedeschi, conducendoli sulla porta della camera di Maria, restino qui, non si muovano, non lascino uscir nessuno, veglino per me. Io devo correr là. Non si muovano! Ella aveva preso in mano il revolver e trascinava seco il Lo Carmine verso il cancello, quando s'imbattè in Saverio e nel cuoco che portavano sopra un asse un uomo con la gola aperta e sanguinante. Velleda si fermò un momento, lo fissò con raccapriccio e poi esclamò: Alessio, il capo degli scioperanti di quest' inverno! Proprio lui! - rispose Saverio. - Ma Lampo gli ha levato la voglia di ricominciare. Lo rinchiudo in camera mia e dopo frugheremo la casa. Lampo seguiva il ferito mandando latrati feroci annunzianti che non era soddisfatto dell'opera sua. La fucilata era cessata allo stabilimento e il Lo Carmine, che vedeva con dispiacere Velleda dirigersi verso quel punto più minacciato, la trattenne quando stava per varcare il cancello. Resti qui, - le disse. - Se Maria si destasse, non avrebbe forse bisogno della sua parola rassicurante? Pensi che questa bimba è quello che di più caro ha il signor Roberto. Là vi è il Varvaro, vi sono tanti uomini. A quel nome, invocato da un amico, Velleda non seppe resistere e dopo aver chiuso a chiave il cancello, disse : Frughiamo il giardino, Ella aveva preso nella sinistra la lanterna abbandonata da Severio e col revolver nella destra, coraggiosa e cauta, si avanzava sotto le piante di arancio e sulla sua testina piovevano i petali bianchi. A un tratto si fermò, In una pozza di sangue giaceva Etna, con la testa squarciata da una palla, gli occhi spalancati e vitrei e intorno, mescolati al sangue, i soliti fiori profumati. Povera bestia! - esclamò, - mi voleva tanto bene ed è andata incontro alla morte per ubbidirmi. Più là vi erano altre tracce di sangue; il sangue di Alessio e sempre fiori, ovunque fiori nivei. Una corda abbandonata era attaccata con un arpione alla sommità del muro del giardino. Velleda l'accennò al suo compagno, il quale la staccò. Camminavano in silenzio esplorando. In un altro punto era stata tagliata un'alta pianta di fico d'India, in terra trovarono un altra corda avvoltolata. Velleda e Lo Carmine andavano sempre avanti, senza scambiare una parola. Quando ebbero esplorato tutta la parte anteriore del giardino, passarono in quella a tergo della casa. Velleda alzò la lanterna e mandò un grido. Attaccata al davanzale della finestra di Costanza, attigua alla camera di Maria, stava una scala di corda, e in terra, sulle aiuole di margherite e di pelargoni si vedevano tracce di pedate e piante calpestate. Velleda impallidì. Ormai il complotto era palese. Volevano rubare Maria per esigere poi da Roberto una somma prima di restituirla. Sventato il colpo avevano tentato di penetrare nello stabilimento, per rifarsi, rubando i denari che vi erano sempre. Quando la signora ebbe la percezione esatta del pericolo corso dalla bambina, impallidì e rimase irrigidita senza poter fare un passo. Se i malandrini avessero avuto tempo di mandare ad effetto il rapimento, che sarebbe avvenuto di Maria? Come avrebbe lei, Velleda, sostenuto la vista di Roberto? Oh! si sentiva impazzire a pensarvi. Pochi momenti più che si fosse indugiata nella meditazione della lettera di Roberto, e il colpo era fatto. Posò la lanterna; strappò la scala con un atto repentino e poi invasa dal terrore di un nuovo pericolo, corse in casa, salì in fretta le scale e penetrata in camera di viaria s'inginocchiò accanto al letto di lei e pianse, pianse lungamente. Costanza, inginocchiata pure e con aspetto truce pareva pregasse. Così Franco vide Velleda giungendo, così la vide il Varvaro, che andava a dirle quello che era accaduto. Ella fece loro cenno di non fiatare per non turbare il sonno della bambina, e senza accorgersi dei due tedeschi che facevano sempre la guardia, come sentinelle, andò in sala e lasciandosi cadere sopra una poltrona; disse al Varvaro: Ora mi racconti tutto! L' attacco allo stabilimento non era preparato, disse il direttore, - ma appena i malandrini hanno udito il suo appello, hanno veduto che io mi dirigevo qui con i guardiani e che i marinari del " Selino " venivano pure alla villa, hanno dato la scalata al muro di cinta e senza esser visti dal solo guardiano che era rimasto là, si son diretti alla segreteria, ove sanno che vi sono danari. I cani hanno dato l'allarme, il guardiano ha incominciato a tirare schioppettate e s'è attaccato alla campana. Allora io, destato all' improvviso, - continuò Franco, ho preso il revolver e, spalancata la finestra, ho mirato su quello dei malandrini che stava dietro a tutti e gli ho messo due palle nella schiena. Gli altri - erano sette - hanno rivolto i fucili verso la mia finestra facendo un fuoco di fila. Io sono andato a quella accanto e di dietro la persiana ho continuato a tirare. I marinari del " Selino " allora sono entrati nel cortile insieme col signor Varvaro ed i guardiani ed hanno fatto fuoco. Due altri malandrini sono caduti, i quattro rimasti illesi, mettendo mano ai coltelli hanno attaccato i difensori per aprirsi un varco e fuggire. Due vi sono riusciti; due sono stati presi e legati. Velleda con gli occhi pieni di lagrime che le scendevano sul dolce visino coperto da un pallore mortale, narrò quello che era accaduto alla villa e come avesse acquistato la convinzione che il colpo era diretto contro Maria. Era una imprudenza di restar qui quasi sola, disse Franco, - da stasera in poi mi permetterà di occupare la camera di mio fratello, e Saverio ed io faremo una ispezione nel giardino prima di coricarci. Il Varvaro approvò quella risoluzione, ma Velleda che non dimenticava mai Roberto, rispose: Farò avvertire i carabinieri, grazie; essi veglieranno nella villa. Franco non rispose, e non insistè perché sapeva che era inutile. Intanto erano giunti i doganieri, i quali trovandosi in perlustrazione verso il porto di Palo, avevano udito la fucilata, e quando l'alba rosea già illuminava le imponenti rovine, la villa e lo stabilimento, nessuno pensava ancora a cercare il riposo, e Velleda, con gli occhi sempre pieni di lagrime vegliava onde sparisse dal giardino ogni traccia dell'assalto notturno e Maria potesse ignorare il pericolo che aveva corso. Alessio, il ferito, era vegliato da un guardiano, il cadavere di Etna era stato sotterrato nella sabbia, i due tedeschi e il Lo Carmine erano tornati alla Casa dei Viaggiatori, e quando Maria aprì gli occhi sorrise vedendo Velleda da un lato del suo letto e dall' altro Franco. Oh! zio che sorpresa! - disse e cinse con un braccio il collo del duca, mentre con l'altro attirava a sé Velleda. gàra sui capelli. Sì, amore, - le rispose, - la mattinata è tanto bella! Anzi faremo il primo bagno di mare. I carabinieri dovevano giungere presto e Velleda era impaziente di allontanare la bambina dalla villa. Non voleva che sentisse parlare di quell' eccidio, come non avrebbe voluto che quella notizia giungesse a Roma a Roberto. Ma come fare? Ella affidò Maria alla balia; che aveva ancora gli occhi rossi, e fatto cenno a Franco di seguirla nella sala, gli disse: I giornali di Roma avranno probabilmente stasera la notizia del fatto, suo fratello la leggerà; non sarebbe meglio avvertirlo con un lungo telegramma? Non so, - rispose Franco. - Forse è più prudente di avvertire le autorità di tener celato l'acccaduto. Certe cose non si nascondono; sono troppi i testimoni e a quest' ora una cinquantina di persone sanno tutto. Io non posso celar nulla al signor Roberto; egli ha diritto di saper quello che avviene in bene e in male e io non meriterei più la sua stima se tacessi. Telegrafi allora; ma gli dica che il pericolo è scongiurato, - rispose Franco il quale non pensava ad altro che ai suoi interessi che sarebbero rimasti abbandonati se Roberto fosse partito.

LE NOVELLE DELLA NONNA. Fiabe fantastiche

679059
Perodi, Emma 3 occorrenze
  • 1992
  • Newton Compton Editori s.r.l.
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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. - Mi par di camminare sopra una cava abbandonata, dove gettano gli animali morti. - È la soglia della mia dimora, - disse il cavaliere, e la trascinò giù per la discesa. Ma appena ebbero toccato il fondo della cava, la luna ricomparve ed Amabile si vide dinanzi, invece del bel cavaliere, uno scheletro avvolto in un lenzuolo sbrandellato. Amabile cadde in ginocchio, gridando: - Misericordia! Allora il morto le disse: - Non urlare: son Desiderio, lo sposo tuo. Tornavo per celebrare le nozze e sono stato aggredito da due ladroni, i quali, dopo avermi spogliato, mi hanno messo questa corda al collo e mi hanno gettato in questa cava. Il mio cadavere marciva sopra a terra, quando Gesù s'è impietosito e mi ha dato le sembianze d'uomo per provare la tua fede. Tu sei una spergiura, ma io voglio mantenere le promesse che ti ho fatte poco fa. Avrai abiti da regina, perché anche le regine sono rivestite di terra dopo morte; avrai un palazzo degno di un re di corona, perché anche i re, una volta spirati, son posti sottoterra. Dammi la mano, sposa mia, e mettiti al mio fianco, perché è sonata per me l'ora di tornare in seno alla morte. Ciò dicendo lo scheletro legò la corda attorno al collo della ragazza con un nodo così forte che nessuno avrebbe potuto sciogliere; e si coricò sulla terra umida. Amabile passò tutta la notte a pregare la Madonna, che non la udiva. Verso l'alba vide qualche cosa che si moveva ai suoi piedi. Era un topolino che stava fermo a guardarla. Nel medesimo tempo apparve qualche cosa di nero sopra la casa, e un corvo bigio andò a posarsi sopra una pietra. Il corvo e il topo erano due Maghi, che andavano in quel luogo a pascersi di cadaveri. - Corpo del diavolo, compare! - disse il corvo. - Sei giunto presto e scommetto che hai già scelto quel che ti piace meglio di quella ragazza! - Ma Satanasso non ci permette di toccar carne viva, - rispose il topo. - Ebbene, aspetteremo che sia morta. - Sì, - disse il topo - io mi sono scelto le gote. - E io le labbra, - replicò il corvo. - Le mangeremo gli occhioni neri. - E le orecchie rosee. Amabile si sentiva gelare, ma ebbe la forza di dire: - Ahimè! sono tanto giovane e smilza che avrete poco da mangiare; scommetto che vi tornerebbe più conto di salvarmi. - Salvarti! E come si farebbe mai? - Non è difficile; basta che il topo roda la corda che mi tien legata al cadavere, e che il corvo mi porti fuori da questa caverna. - Che cosa ci daresti se ti si contentasse? - domandarono i due Maghi. - Supplicherei mio padre di tesservi un bell'abito di drappo per ciascuno. I Maghi si misero a ridere. - Una camicia di finissimo lino. I Maghi risero più forte. - Anche un mantello di velluto. - No, - disse il topo, - non ho bisogno di vestiti né di biancheria; ma voglio due ali per volare. - Ed io, - continuò il corvo, - voglio quattro piedi per camminare. - Se domani non ci dài quello che chiediamo, l'anima tua è perduta, - aggiunsero tutti e due. Quelle condizioni parvero abbastanza dure a Amabile; ma accettò tutto, piuttosto che restare in quella caverna legata allo scheletro. I Maghi le fecero fare un giuramento sulla crocellina d'oro che portava appesa al collo, e appena ella ebbe giurato, il topo si mise a rosicare la corda, finché non fu spezzata, e poi il corvo si avvicinò, se la fece salire in groppa e la ricondusse fino dal padre. Quando l'ebbe posata nell'orticello del tessitore, l'avvertì che il giorno dopo sarebbe tornato in quel luogo insieme col compagno, affinché ella mantenesse la promessa. Amabile corse subito a picchiare all'uscio di cucina, che dava sull'orto, e il padre andò ad aprire. Ma vedendo la sua bella figliuola pallida, infangata, con gli occhi sbarrati, cominciò ad urlare che doveva esserle accaduta qualche disgrazia, e dallo strepito destò tutta la gente del vicinato. Amabile raccontò tutto quello che le era accaduto, e il padre disse che bisognava ricorrere a fra' Cirillo, che era un frate francescano, famoso per dar consigli. Appena fu giorno, Amabile andò al convento, accompagnata dal suo babbo e in confessione raccontò tutto a fra' Cirillo, che le disse: - Figlia mia, tu hai giurato sulla croce e nessuno ti può prosciogliere dal giuramento; ti conviene fare quanto hai promesso. - Dio mio, sarò dannata! - esclamò Amabile. - Stammi a sentire, - replicò il Frate, - e fa quanto ti ordino. La ragazza promise di non dimenticar nulla. - Prenderai prima un coltello che non abbia mai toccato carne; andrai lungo le siepi ascoltando il soffio del vento nell'erbe; quando udrai un lieve rumor di sonaglio, taglia la parte superiore dell'erba, che è quella del sonno, portala nell'orto, stendila in terra e torna ad avvertirmi. Amabile fece come le aveva ordinato il Frate e, trovata l'erba, la tagliò con un coltello nuovo e la stese nell'orto, e poi tornò dal Frate, il quale la rimandò a casa dopo averle insegnato quel che doveva fare. Fino a sera l'Amabile rimase nell'orto in orazione, e quando fu notte, sentì la voce del topo, che la chiamava. - Sono pronte le ali? - domandò in tono di scherno. - Non ancora, - rispose Amabile, - ma presto sì. - Sbrigati, sbrigati, - replicò il Mago, - ho furia, e domani sera devo essere a Firenze per certi affari miei. - Riposatevi un momento, - rispose la ragazza, - e vi contento subito. Il topo, che si sentiva volentieri trattato come persona di riguardo, si sedé sull'erba preparata da Amabile; ma l'erba del sonno produsse il suo effetto e di lì a poco il topo dormiva e russava. Dopo qualche momento comparve il corvo, e domandò: - Ebbene, carina, dove sono i miei quattro piedi? - Ahimè non ho potuto trovarli, neppure pagandoli a peso d'oro, - rispose Amabile. - Ne ero sicuro, - disse il Mago sghignazzando. - Ora dunque mi spetta metà della tua animaccia, e la voglio fra poco. - Concedetemi un po' di tempo, caro Mago! - esclamò Amabile. - Spero che avrete compassione di una povera ragazza innocente, che vi reca da cena. - Come mai? - domandò il corvo. - Ho acchiappato un topo con la trappola e l'ho portato qui per offrirvelo, - disse accennando il topo che dormiva sdraiato sull'erba. Il corvo lo guardò. - È un bocconcino ghiotto e lo accetto, a condizione di non rinunziare ai miei diritti. - Fate quello che vi pare, - replicò Amabile. Il corvo non si fece pregare: chiappò il topo per la collottola e giù in un boccone. Ma quello, svegliandosi, si mise a gridare e a dimenarsi tanto forte che con le quattro zampe forò lo stomaco del ghiottone. Allora comparve fra' Cirillo, che aveva veduto tutto. Egli recava la croce, e gridò: - Via, razza nata dal Diavolo! Questa ragazza non vi appartiene più perché ha adempiuto la sua promessa. A te, topo, ha dato le ali, perché oramai sei una cosa sola col corvo; a te, corvo, ha dato le quattro zampe che volevi. Andate dunque, e restate così come avete voluto essere, fino al giorno del Giudizio. I due Maghi, scorbacchiati, se ne andarono, ma non per questo la ragazza fu salva. Il grande spavento che aveva avuto nella caverna la fece ammalare, e presto presto si ridusse al lumicino. Il tessitore si rodeva le mani dal dispiacere. Avere una figliuola così bella, la bella fra le belle, e vedersela morire nel fiore degli anni! Il padre mandò a chiamare un forestiero che curava gl'infermi; costui le dette intrugli sopra intrugli, ma Amabile non risanò. Mandò a chiamare fra' Cirillo, e fra' Cirillo l'asperse di acqua benedetta; ma Amabile non risanò. Allora mandò a chiamare una vecchia, che stava in una capannuccia su verso la Beccia, e che tutti chiamavano la Strega, e costei, guarda e riguarda, esamina che ti esamino, disse che Amabile non sarebbe guarita, perché il suo male aveva sede nel cervello. E infatti non guarì. Di giorno era un po' più tranquilla, ma la notte pareva una indemoniata, perché appena l'aria si faceva buia, lo scheletro si alzava dal fondo della cava, si avvolgeva nel lenzuolo sbrandellato, e via accanto a lei a tormentarla, a coprirla di rimproveri per la fede mancata e per esserle fuggita con l'inganno. - Spergiura! Spergiura! - le diceva, e con le mani scheletrite le cingeva il collo, e con le guance ghiacciate toccava il viso infocato di Amabile. La malata urlava, si dibatteva tutta la notte, e ogni momento faceva atto di gettarsi giù dal letto; ma lo scheletro la tratteneva con le lunghe braccia, Amabile lo vedeva e lo sentiva, ma il padre, che l'assisteva, non vedeva nulla e attribuiva quelle smanie alla febbre che divorava la figliuola. Una sera Amabile morì. Le donne del vicinato la vestirono dei suoi abiti più belli, accesero molti ceri attorno al cadavere e le misero una croce fra le mani. Prima esse pregarono per l'anima di lei, poi, stanche, cederono al sonno. Quando si destarono all'alba, che è che non è, il cadavere era sparito. Figuriamoci lo spavento del padre e delle donne! Chi diceva che i ladri lo avevano rubato per spogliarlo degli abiti! Chi diceva che il Diavolo se l'era portato via! Figuriamoci se il padre cercò il cadavere della sua Amabile per fargli dare onorata sepoltura! Si mise alla testa di una comitiva di amici, e frugò per le macchie, per i burroni; tutto fu inutile. Allora fece fare delle novene; ma sì, il corpo d'Amabile era sparito e nessuno l'aveva veduto, né in città, né nel contado. Poi, come succede sempre, egli si stancò di cercare e riprese a tessere pensando sempre alla figliuola. Ecco com'erano andate le cose. Il corvo e il topo, che ormai formavano una sola persona, perfida per cento, appena che furono burlati a quel modo da Amabile pensarono di vendicarsi atrocemente di lei, e, aspettato il sabato notte, si recarono a un luogo dove sapevano d'incontrare il Diavolo, e gli esposero l'accaduto. - Che cosa posso fare per compiacervi, figli diletti? - domandò Satanasso quando ebbe udita tutta la narrazione. - Noi vorremmo un piccolo favore soltanto, - rispose il corvo che era molto loquace e parlava anche per il compagno. - Vorremmo cioè che ogni notte lo scheletro di messer Desiderio si destasse dal sonno della morte e andasse a tormentare Amabile. All'ora della di lei morte, poi, sarebbe nostra brama che Desiderio portasse la sua promessa sposa nella cava abbandonata, e se la tenesse a fianco fino al giorno del Giudizio. - Compare, - disse il topo, che vinceva in perfidia il corvo, - non ti pare che sarebbe meglio ottenere che tanto Desiderio quanto Amabile tornassero in vita per alcune ore; così il tradito continuerebbe a tormentare la spergiura? - Bravo! - esclamò il corvo. Il Diavolo, che era stato a sentire, si dette una fregatina alle mani in segno di allegrezza, e concesse ai due Maghi quello che volevano. - Ora, - disse il topo, - voliamo pur via e andiamo a godere dello spettacolo di Amabile alle prese con lo scheletro. Quella vista ci farà buon sangue, Infatti il corvo, nelle notti della malattia di Amabile, non si mosse più di sul davanzale della finestra, e quando la ragazza fu morta volò dietro allo scheletro, che se la portava nella sua caverna umida. Nel destarsi in quel luogo d'orrore, Amabile gettò un grido, e il topo le disse: - Perfida fra le perfide, ora non c'è nessuno che ti roda la corda. - Né che ti prenda sulle proprie ali per cavarti di qui, - aggiunse il corvo. - Sposa mia, sei diventata tanto brutta che mi fai orrore; - le diceva lo scheletro, - ma posa la testa più qua, affinché mi serva da guanciale. E allora lo scheletro posava il teschio sul viso di Amabile e la copriva d'improperî. - Spergiura! ... Vile! ... Anima nera! ... Strega! ... Questa scena si ripeteva ogni notte, e il corvo e il topo non la perdevano mai; venivano da lontano per assistervi, e a tutti e due pareva di andare a nozze. Ora avvenne che, dopo un certo tempo, fu stabilito a Bibbiena di costruire una nuova chiesa in onore della Madonna, e pensarono di prender la pietra nella cava abbandonata dove giacevano insepolti i cadaveri di Desiderio e di Amabile. Gli scavatori, appena vi scesero e videro quei due corpi, corsero a Bibbiena a raccontare il fatto, e il povero tessitore, che non aveva dimenticata la figlia, andò subito nella cava con la speranza di riconoscere in uno dei due cadaveri la sua Amabile. La riconobbe infatti dalle vesti, e con molta solennità fece trasportare la salma nel sagrato della Pieve, dove le dette onorata sepoltura. Le ossa di Desiderio furono poste in altro luogo. Da quel momento in poi Amabile riposò in pace, aspettando il giorno del Giudizio, e Desiderio la cercò invano accanto a sé. Si dice che per anni e anni un corvo stesse sempre, di notte, sul sagrato della Pieve gracchiando. Era il Mago col topo in corpo. Nessun dei due aveva potuto dimenticare il tradimento. Ora saranno crepati di vecchiaia, almeno si spera. E qui la novella è finita. - Mamma, - disse Cecco, - non so perché stasera ci abbiate raccontato questa novella che mette i brividi. Pare che l'abbiate detta per la Vezzosa. La ragazza rise di cuore mettendo in mostra i bellissimi denti, e fu lei che rispose: - No, la mamma non l'ha detta per me, prima di tutto perché non son la bella fra le belle, esposta a grandi tentazioni, e poi perché sa come la penso, - e qui guardò Cecco con occhio affettuoso. - Se ha scelto stasera questa novella, è perché si suol raccontare alle future spose. La mamma ha fatto bene a seguir l'usanza; è tanto bello di fare ciò che hanno fatto quelli che vissero prima di noi. Ma quell'Amabile, sentite, mamma, è vero che fu cattiva, ma ebbe una punizione che più tremenda, credo, non avrebbe saputo inventarla neppur Dante, che ha scritto l'Inferno! - E che ne sai tu di Dante? - le domandò Cecco. - Poco o nulla. Quand'ero piccola andavo per la vendemmia da certi cugini del babbo a Rassina, e là c'era una vecchia che sapeva a mente il canto del conte Ugolino, quello dei Serpenti, e non so più quali altri. Non sapeva neppur leggere, ma li diceva così bene da farci piangere. Ella ci raccontava che al tempo dei tempi questo Dante era stato in Casentino, a Poppi, a Romena e altrove, sempre ne' palazzi de' Guidi, e qui aveva scritto anche qualcuno di quei canti. Dice che i fiorentini lo avevan messo al bando e lui, sdegnato, se n'era venuto in questi poggi a sfogare il suo risentimento. - Non sai che cosa è avvenuto di quella cugina di tuo padre, che sapeva a mente i canti di Dante? - domandò la Regina alla sua futura nuora. - Ho sentito dire che era morta, - rispose la ragazza. - Morta sì, ma prima di scender nella fossa aveva fatto una tappa al manicomio. La povera Rosa s'era tanto empita la testa di quei canti, della descrizione delle pene dei dannati, che si figurava di esser lei nell'inferno circondata di serpenti. Era uno strazio a vederla. Credimi, Vezzosa, certi libri non son fatti per gli ignoranti come noi. Se ci si comincia a riflettere, s'ammattisce, perché il nostro cervello non è avvezzo a certo cibo. Maso fece osservare alla Vezzosa che era tardi e occorreva interrompere la veglia. La ragazza salutò tutti, prese in collo i bambini per baciarli, e avanti d'uscire chiamò da parte l'Annina e le regalò le buccole che aveva prima agli orecchi. Maso la riaccompagnò fino a casa, insieme con Cecco. Sulla porta c'era la matrigna ad aspettarla, che le urlò da lontano: - Dovevi farti aspettar dell'altro! È questa l'ora? Se tardavi un momento, trovavi tanto di catenaccio. Cecco sussurrò a Vezzosa: - Coraggio, ce n'è per poco; lasciala urlare e dormi bene.

. - Santo vecchio, - dissero allorché furono alla presenza del Romito, - perché hai abbandonata la nostra Bibbiena? - Io non avrei altro desiderio che quello di ritornarvi; - rispose il Romito, - ma il Diavolo vi ha stabilito il suo dominio e ogni tentativo per sloggiarlo mi pare inutile. - Vieni e tenta di cacciarlo. La fede non ti può mancare, e la fede opera miracoli. Il Romito pronunziò una breve preghiera, invocando l'aiuto del Cielo sulla impresa sua, e, accompagnato dai tre uomini, salì a Bibbiena. Nessuno guardava più le porte, perché il popolo faceva continua baldoria, e il Romito poté giungere sulla piazza della Pieve, senza che alcuno lo riconoscesse. Ma invano egli fece udire la sua voce dolce e persuasiva. Intorno a lui non vi erano altro che il padre e i due figli; il popolo, adunato nelle osterie e schiamazzante, non poteva afferrare le parole del santo uomo, il quale tornò nel bosco dopo lungo predicare. Però il Diavolo, che sapeva tutto ciò che avveniva in città, fu informato che i Bibbienesi non avevano tenuto il patto, e, adunatili la sera sulla piazza, li rimproverò acerbamente, minacciandoli di una nuova invasione di rettili, e designò i tre colpevoli, i quali vennero legati dal popolo inferocito, e rinchiusi in una prigione sotterranea. Ciò nonostante, il Romito tornò a Bibbiena dopo pochi giorni, attrattovi dalla carità verso quel misero popolo, e si mise di nuovo a predicare in piazza. Questa volta il suo uditorio si componeva di una vecchia, abbandonata nella miseria dai figli, i quali non lavoravan più per andare all'osteria a giuocare e a bere, e della moglie di un uomo ucciso in rissa. Le due povere donne piansero amaramente alle parole del Romito, il quale cercò di consolarle come meglio poteva. Anche questa volta il Diavolo fu informato di tutto, e disse fra sé: - Qui ci vuole un esempio, se no Bibbiena mi sfugge dalle mani. E appena calò la sera fece apparire sulla città tante lingue di fuoco che, abbassandosi, lambirono le mura e i tetti delle case. La gente, impaurita, temendo che l'incendio distruggesse le loro abitazioni, corse nelle vie e nelle piazze urlando e strascicandosi dietro i bambini. Il finto frate s'insinuò tra la folla e incominciò a pronunziare misteriose parole, che i grandi non udivano, ma che i piccini capivano bene. Con quelle parole prometteva loro giuochi, sollazzi, ghiottornie, ogni cosa che alletta la fantasia dei bimbi. E questi gli correvano intorno giulivi e lo seguivano. Quando ebbe radunati tutti coloro che potevano camminare, uscì da Bibbiena e si diresse verso un bosco, dove sapeva che vi era una grotta immensa, praticata nei fianchi di un monte, e ve li rinchiuse. Allora le lingue di fuoco cessarono di lambire le case, e la gente, dopo aver domato alcuni incendi prodotti da quelle, si diede a cercare i bambini. Le donne correvano sgomente per le vie chiamandoli con alte grida, gli uomini si spingevano fuori del paese, frugavano i boschi, urlavano, ma nessuna voce infantile rispondeva al loro appello e soltanto l'eco dei boschi ripeteva quei suoni desolati. Il finto frate, dopo aver compiuto il ratto dei bambini, ritornò in paese fra la gente afflitta e sconsolata. Appena i Bibbienesi lo videro, rammentando che li aveva liberati dai rettili, ricorsero a lui. - Rendeteci i nostri bimbi, - supplicarono essi, - e la nostra gratitudine sarà eterna. Il Diavolo fece un ghigno spaventoso. - Due volte, - egli rispose, - avete calpestati i nostri patti; due volte il Romito ha predicato in piazza. - Abbiamo punito coloro che lo fecero venire la prima volta, - risposero gli afflitti cittadini. - Ma non avete punito le donne che lo hanno ascoltato la seconda; mettetele a morte. - E chi sono? - domandò la folla. Il Diavolo le nominò. - Voi chiedete troppo, - risposero i cittadini, - la prima è una infelice già abbastanza provata dalla sventura; la seconda è una povera vedova; lasciatele dunque vivere, giacché non hanno mai fatto alcun male a nessuno. - Riflettete, - disse il Diavolo. - Se le ucciderete, i vostri bimbi ritorneranno in paese; se le lascerete vivere, non li vedrete più. Il finto frate, dopo aver pronunziate queste parole, sparì. I cittadini rimasero perplessi. Però non potevano risolversi a mettere a morte due innocenti; no, non potevano. - Il loro sangue ricadrebbe su noi in tanta maledizione, - dicevano i più saggi, - lasciamole vivere; Iddio ci renderà i nostri figli. E inteneriti e resi migliori da quella grande sventura, si riversarono nelle chiese, si prostrarono dinanzi agli altari e ripresero a recitare le preci che eran soliti innalzare a Dio allorché il Romito era di continuo in mezzo a loro, sostenendoli con la dolce e persuasiva sua parola. E spinti di nuovo sulla via del bene, liberarono i tre prigionieri che avevano condotto a Bibbiena il Romito, e le preci di questi e delle due donne salvate dalla carità popolare, operarono un vero miracolo. Il Romito, nella sua capannuccia, ebbe un avvertimento nel sonno. Egli si sentì chiamare da una voce celeste, che gli disse: - Va' in città; lassù hanno bisogno di te. Il Romito si alzò nel cuor della notte dal suo giaciglio di foglie secche, e si avviò, in mezzo alle tenebre, verso Bibbiena. Il Diavolo però, che non lo perdeva di vista, gli suscitò contro una quantità di ostacoli. Prima di tutto il sant'uomo fu avvolto da una nebbia impenetrabile, ed egli, in mezzo alle alte piante, non trovava il sentiero battuto tante volte, di modo che dovette fermarsi per non camminare in una direzione opposta alla sua mèta, attendendo che sorgesse il sole. Poi, quando questo ebbe diradata la nebbia, si scatenò all'improvviso un temporale fortissimo. Fulmini spaventosi squarciavano le nubi, il vento turbinoso schiantava gli alberi, l'acqua torrenziale convertiva in fiumi i rigagnoli, la grandine percuoteva il volto del viandante, il quale dovette di nuovo fermarsi. Quando il temporale si fu sfogato, due serpenti, sbucati fuori da un ciuffo di felci, gli si avviticchiarono alle gambe, in modo che egli non poteva più camminare. Allora il Romito, supponendo che tutti quegli ostacoli fossero creati dal Diavolo, toccò con la croce i due rettili spaventosi, e questi si sviticchiarono e fuggirono via. Da quel momento egli poté continuare il cammino senza ostacoli, e giunse a Bibbiena. Il popolo, vedendolo, gli corse incontro esultante, e inginocchiatosi intorno a lui, gli disse: - Rendeteci i nostri figli; noi siamo peccatori indegni di perdono, ma intercedete per noi. E allora il sant'uomo s'inginocchiò in mezzo alla piazza della Pieve, e il popolo unì le sue preci a quelle di lui. Dopo aver lungamente pregato, il Romito volle venti uomini robusti e disse loro: - Seguitemi. Ed essi lo seguirono giù nella valle, ubbidienti ad ogni suo cenno. Mentre camminavano, egli pregava ancora. Allora si vide una bianca colomba staccarsi da un albero e volare prima verso un balconcino dove erasi affacciata una giovanetta e poi volare dinanzi a lui. Il Romito la seguiva, e finalmente ella si fermò sopra un grosso macigno. - Qui sono i vostri figli, - disse il Romito, - qui deve averli celati il finto frate. E i venti uomini si diedero, con quanta forza avevano, a smovere il macigno, ma non riuscirono neppure a scostarlo. - Qui è inutile arrabattarsi, - dissero, - ci vogliono delle corde e diverse paia di manzi! E lasciando il Romito a guardia del luogo, gli altri tornarono al paese a provvedersi dell'occorrente. La colomba intanto non si moveva dal posto ov'erasi posata, come per dire che i piccini di Bibbiena erano lì davvero. E vi rimase finché gli uomini andati in città non furono tornati con cinque coppie di bei manzi alti e poderosi, e muniti di corde e di catene. Avvolsero queste intorno al macigno, vi legarono le corde, e i buoi si misero a tirare; ma tira tira, il sasso non si moveva. Gli uomini sudavano freddo, il Romito era sgomento, e i buoi, stanchi, si rifiutavano di tirare ancora. - Figli miei, - disse il sant'uomo, - mi accorgo che il macigno è sigillato al monte da una forza soprannaturale. Andate, abbiate fede, e se le mie preci saranno ascoltate lassù ove tutto si può, io vi ricondurrò a Bibbiena i vostri figliuoli. Fra i venti uomini andati nel bosco a liberare i bambini, v'erano i due giovani figli del vecchio, quelli, cioè che nonostante il divieto del finto frate, avevano ricondotto il Romito a Bibbiena ed erano stati rinchiusi in prigione. Essi pregarono il santo vecchio di conceder loro di rimanere a fargli compagnia, e il Romito non seppe rifiutare a quei due buoni giovani ciò che gli chiedevano. Gli altri diciotto se ne tornarono dunque in paese a testa bassa, tutti pensosi, disperando quasi di rivedere i loro piccini, e non sapendo come dar la dolorosa notizia, che non erano riusciti a nulla, alle mamme ansiose e piangenti. Il Romito, appena rimasto solo con i due fratelli, disse: - Figli miei, preparatevi a passar una notte angosciosa; il Diavolo cercherà di sgomentarci con ogni mezzo. - Siamo pronti a tutto, - essi risposero. Appena le ombre della sera si allungarono sul bosco, un'aquila gigantesca incominciò a descrivere giri attorno al macigno. La bianca colomba, spaventata, volò via, ma l'aquila la inseguì e la ghermì. Un grido straziante echeggiò nel bosco, indicando che l'innocente uccello era stato vittima del suo poderoso aggressore. Poco dopo il bosco fu pieno di urli di lupo. Pareva che quei famelici animali fossero scesi a branchi dalle vette più alte in cerca di cibo. Uno di essi si accostò ai due fratelli, con la bocca spalancata, pronto ad azzannarli, ma il Romito si fece avanti coraggiosamente e invece di lanciargli contro un sasso, lo toccò con la croce del rosario. L'animale barcollò e diedesi a fuga precipitosa. Allora, sul macigno comparvero due diavoli, che mandavano fuoco dagli occhi e dalla bocca e tenevano a distanza chiunque per il fetore che emanava dai loro corpi. Il Romito alzò la mano e fece tre grandi croci nell'aria, e subito i diavoli sparirono. Ma le prove dei tre uomini non eran terminate, e poco dopo che avevano visto sparire i diavoli, si presentò Satana in persona, non più sotto le sembianze del frate francescano, ma con la sua effigie stessa, spaventosa a vedersi. - Romito, - diss'egli, - tu hai troppo potere sull'animo dei mortali; io non voglio che tu continui a vivere. - Io vivrò finché piacerà al Signore Iddio di tenermi su questa terra e con l'aiuto del Cielo spero che la mia anima non ti apparterrà mai. Il Diavolo pronunziò due parole magiche, due sole, e una schiera di demoni s'impossessò del vecchio e diedesi a soffiargli fuoco sulle carni. Queste bruciavano orribilmente, e il santo vecchio pregava, con lo sguardo rivolto al cielo. A un tratto comparve su quello una stella luminosa che via via si avvicinava alla terra spandendo una luce più mite del sole, ma egualmente bella. Quella stella si fermò di fronte al Romito e lo avvolse tutto nei suoi raggi, come avvolse il macigno, il quale incominciò a liquefarsi come se fosse stato di cera molle esposta al fuoco. Quando il macigno, ridotto liquido, ebbe lasciato aperto l'ingresso della grotta, la stella lentamente si allontanò per andarsi a confondere con le sue sorelle del cielo. Allora il Romito, cessando di pregare, chiamò a sé i compagni e disse loro: - Andiamo, con l'aiuto di Dio. E s'internarono nelle viscere della terra. Giunti che furono a una vôlta bassissima, sotto la quale bisognava andar carponi, la stella ricomparve, e i raggi di lei, invece di battere in faccia al Romito e ai due fratelli, si mossero verso il punto opposto. - Là, là debbono essere i bambini, - disse il santo vecchio, e strisciando il corpo sul terreno si avanzò seguìto dai compagni. Giunto nel punto in cui la vôlta toccava quasi il suolo, il Romito vide una pietra posata in modo da far supporre che al di là vi fosse una grotta, e rimossala fu sorpreso di scorgere una specie di sala che prendeva luce dall'alto, nella quale centinaia di bambini erano distesi per terra come morti. La stella allora li toccò con i suoi raggi, ed essi, stropicciandosi gli occhi, si alzarono e vedendo aperta la porta della prigione, ne uscirono frettolosi, curvandosi per passare. Il Romito li trattenne e disse loro di lasciarlo prima uscire con i due giovani ed essi sarebbero venuti poi; i bimbi si fermarono ubbidienti, poi lo seguirono in silenzio. Giunti che furono all'imboccatura della camera, la stella, che fino allora aveva rischiarate le buie gallerie, s'alzò splendente nel cielo e andò a posarsi sulla città di Bibbiena. Gli abitanti, vedendola, sperarono subito che essa fosse annunziatrice di felicità e mossero incontro al Romito. Questi camminava in mezzo alla turba dei bimbi, esultanti per la ricuperata libertà. Così lo videro i Bibbienesi da lungi. Impossibile descrivere la loro gioia. Ognuno chiamava a nome i figli, ognuno se li prendeva fra le braccia, e quando furono tornati in paese, le grida, le esclamazioni, i pianti delle mamme coprirono ogni altro rumore. Il Romito riprese da quel tempo le sue prediche, e Bibbiena ebbe un lungo periodo di calma dovuta alle parole del santo vecchio. Il Diavolo, per quanto facesse onde combatterne il potere, rimase sempre vinto e scorbacchiato e dovette rinunziare all'impresa, aspettando rabbiosamente che il Romito morisse. E quando questi ebbe chiusi gli occhi nella pace del Signore, tornò a regnare in Bibbiena, come regna in molti paesi, ove non c'è un'anima santa per tenerlo lontano. - E qui la novella è finita, bambini, - disse la Regina, - e forse per qualche settimana non ne racconterò altre. - Perché? - domandarono essi. - Perché la signora Durini mi vuole per un po' di tempo a Camaldoli per insegnarle a conservare le frutta, e io non posso rifiutarle questo favore. I bimbi fecero il broncio, ma tacquero, perché erano assuefatti a rispettare la volontà della nonna.

Capì allora che non si trattava di cosa caduta dal dorso di un mulo o da una carretta, ma abbandonata in quel luogo con intenzione, e, tolti i sassi, rimase come di sale nel vedere che il fagotto conteneva una bella bambina di pochi mesi, placidamente addormentata. - E ora che ne faccio? - disse fra sé il monaco, che avea nome Buono. - In monastero c'è clausura e non ve la posso portare; ad ogni modo non ci sarebbe carità a lasciarla qui. E presa la bimba fra le braccia, risalì a cavallo alla mula e giunse al monastero di Camaldoli, allora chiamato Ospizio di Fonte-Buona, dove i monaci facevano una specie di prova prima di passare all'Eremo, che era ed è più su, a un'oretta di cammino. Frate Buono depose la bimba, così avvolta com'era, sopra una panca nello stanzone del portinaio, e saputo che l'Abate maggiore si trovava in quel giorno a Fonte-Buona, chiese di parlargli. - Padre santo, - gli disse dopo avergli riferito l'ambasciata affidatagli dall'abate di Strumi, - io ho trovato fra la neve, venendo quassù, una creatura umana. - Spero che l'avrai fatta riscaldare e le avrai dato da mangiare. - Gli è, padre santo, che quella creatura non può mangiare. È una bimba di pochi mesi che avrebbe bisogno del latte e delle cure di una donna. L'Abate maggiore rimase perplesso e poi disse: - Tu sai, fra' Buono, che i nostri statuti ci proibiscono di tener donne quassù; come faremo dunque ad allevare quella creaturina? - Padre santo, per ora diamola al padre forestale, e cercheremo poi una vacca, una pecora o un'asina che la nutrisca. - La carità cristiana c'impone di non abbandonarla. Intanto battezziamola, poiché non sappiamo se ella sia cristiana. La bimba dormiva ancora, ma quando l'Abate maggiore in persona le gettò l'acqua lustrale sulla testa, ella aprì gli occhi, e, invece di mettersi a piangere, schiuse la bocca a un sorriso e stese le manine al monaco. Questi le impose il nome di Buona, e si sentì intenerire a veder quella piccina così bella e gaia, che non aveva altra famiglia che i monaci, altra casa che il convento di Fonte-Buona. Il padre forestale scelse un'asina più giovane e forte delle altre, e, fattala mungere, dette a bere quel latte caldo a Buona. Così fu nutrita la bimba per alcuni mesi. Ogni giorno l'Abate maggiore diceva al forestale che doveva cercare una contadina che avesse cura della piccina, e ogni giorno quel monaco trovava un pretesto nuovo per tenerla presso di sé. Ora diceva che era raffreddata e non voleva farla uscire; ora nevicava, ora tirava vento. Contadine ce n'erano molte nei poderi dipendenti dal monastero, ma il fatto si è che il forestale non voleva staccarsi da quella creaturina, e fra' Buono neppure. Così passò l'inverno, e quando già Buona aveva circa un anno e camminava spedita, il forestale un giorno la prese in collo e si avviò giù per la scesa per portarla in una casa di contadini; ma gli rincresceva quanto mai di separarsi da Buona, che lo abbracciava, gli metteva le manine nella barba e lo chiamava babbo. Giunto al di là della spianata del convento, il forestale vide una capannuccia abbandonata, dove solevano rifugiarsi i pastori, e pensò: - Perché devo portare Buona in casa d'altri, quando qui potrebbe essere come in casa sua? Le porterei da mangiare, la verrei a vedere, e a guardia della bimba potrei lasciar Lupo, il can da pastori di cui tutto il vicinato ha paura. Quest'idea parve così bella a fra' Ilario, il forestale, che, invece di andar oltre, posò la bimba sopra un mucchio di fieno e, chiusa alla meglio la porta, corse al monastero a prendervi coperte, guanciali e utensili per arredare la capanna. Dopo poco egli tornò da Buona recandosi dietro Lupo, e trovò la bimba placidamente addormentata. Egli approfittò di quel momento per ripulire la capanna, per rimettere alcune assi che mancavano alla porta e cogliere sul prato tanti fiori per allietare la sua Buona. Poi munse una bella vacca che pascolava, e quando Buona si destò, vedendo tutti quei fiori, batté le manine esclamando: - Babbo, belli! Fra' Ilario dette del latte alla bimba e le mostrò che era in una ciotola sopra una panchetta; poi le raccomandò di esser buona, e, dopo aver ordinato a Lupo di accucciarsi accanto alla creaturina, alla quale era tanto affezionato, tornò al suo monastero. Ma prima di varcare la soglia della capanna, alzò le mani al cielo, esclamando: - Vergine santa, io pongo quest'anima benedetta sotto la vostra protezione; vegliate su di lei! Dopo questa invocazione, fra' Ilario chiuse la porta, si mise in tasca la chiave, e quindi si avviò verso il Cenobio di Fonte-Buona. Mattina e sera il monaco, appena aveva accudito ai suoi doveri, correva da Buona e la trovava sempre allegra, sana, sorridente. Ella si baloccava con Lupo, si gingillava con i fiori, cantava con una vocina dolce le canzonette sacre che le insegnava fra' Ilario e correva sotto gli alberi durante il giorno. La notte dormiva saporitamente, e mai nessun male l'aveva tormentata. Di vestiti non aveva che una specie di camicia di lana bianca, tagliata da una tonaca vecchia di fra' Ilario. I capelli biondi le scendevano sulle spalle a guisa di manto, e i piedini rosei parevano quelli di una regina. Buona cresceva a vista d'occhio, e appena fu grandicella andò da sé a far legna nel bosco e a cogliere fragole e lamponi, che insieme col latte, con le uova e col pane che le portava fra' Ilario, costituivano tutto il di lei cibo. Così Buona raggiunse i tre anni. Il forestale aveva già confessato a fra' Buono e all'Abate maggiore come l'aveva allevata e come l'aveva posta sotto la protezione della Madonna, e i due monaci non lo avevano biasimato. Ogni volta che essi uscivano a passeggiare, passavano dinanzi alla capanna, e la bimba, che li conosceva, correva loro incontro e parlava loro con affetto. Appena ella ebbe sette anni, l'Abate, che molto si occupava di quella creaturina affidata al monastero, disse che bisognava darle un'occupazione, e a tale scopo le affidò alcune pecore affinché ella le portasse a pascere. Poi l'Abate diede incarico a fra' Buono d'istruirla come si conveniva a buona cristiana, e il monaco ogni giorno si avviava, dopo il vespro, alla capanna e insegnava a Buona a leggere in latino e in volgare, affinché potesse imparare le preci e le laudi della Madonna sua protettrice. La capanna intanto non era più così spoglia come quando il padre forestale vi aveva portato la sua protetta. Vi era una tavola con alcuni libri, vi erano due sgabelli, un lettuccio e un focolare, nel quale Buona aveva cura di mantenere sempre il fuoco. Ella imparava con una facilità straordinaria, ed era così cortese e nobile nelle maniere, che l'Abate maggiore, ogni volta che parlava di lei, diceva: - Quella Buona si direbbe nata in una corte! Passavano gli anni e la bimba si faceva grande, ma non aveva mai portato altro vestito che una tonaca bianca simile a quella dei Camaldolensi, e chi la vedeva da lontano guidare le pecore al pascolo, la prendeva per un novizio. La vita all'aria aperta l'aveva fatta crescere forte e robusta, e la convinzione di esser protetta dalla Madonna la faceva esser coraggiosa, quasi temeraria. Un giorno di autunno ella aveva spinto il gregge verso l'Abetiolo, per trovare un po' d'erba fresca. L'accompagnava, come di solito, il grosso cane da pastore, che era stato il suo compagno d'infanzia e che ora s'era fatto alquanto vecchio; ed ella camminava svelta, chiamando le pecore quando cercavano di sbandarsi per salire qualche piaggia erbosa. Era sola sola in quel luogo deserto, ma quella solitudine non le ispirava alcun timore, perché nessuno le aveva mai fatto alcun male, e quando i pastori vedevan comparire su qualche poggio la sua figurina tutta bianca, si mettevano le mani alla bocca, affinché la loro voce le giungesse, e le gridavano: - Figlia della Madonna, prega per noi! Ella era davvero sicura in quel paese deserto, e mentre filava, pregava. Quel giorno dunque, mentre badava al gregge, ella vide Lupo diventare inquieto e correre di qua e di là, abbaiando. Buona, con la voce e col gesto, cercava di calmarlo, quando a un tratto si vide davanti un lupo, che si gettò nel branco delle pecore. Queste, spaventate, corsero via; ma una, più vecchia delle altre, fu raggiunta dalla fiera, che l'avrebbe certamente sbranata, se il cane non si fosse buttato a difenderla a corpo morto. Allora, fra il difensore e l'assalitore s'impegnò una lotta tremenda, nella quale il buon cane stava per soccombere. La pastorella del Pian del Prete assisteva piangendo a quella lotta. Il lupo azzannava il suo avversario e lo faceva sanguinare da tutte le parti, inferocito. Buona, senza riflettere al pericolo che correva, alzò il bastone sull'animale feroce, e disse solennemente: - In nome della Madonna, mia protettrice, ti ordino di rispettare ciò che mi appartiene! Il lupo, da furente che era, si fece mansueto a queste parole, e a coda bassa andò a leccare la mano della pastorella, la quale, intenerita, tolse dal canestro il pane destinato alla sua colazione e lo gettò alla fiera. Il cane intanto era fuggito cacciandosi avanti le pecore, ed era corso da fra' Ilario. Il forestale, vedendo Lupo solo e le pecore senza la loro guardiana, temé che a questa fosse accaduta qualche sventura; ma poco dopo rimase meravigliato vedendola comparire sulla viottola, col lupo accanto, che la seguiva come un agnellino. - È un miracolo! - esclamava fra' Ilario. - Figlia mia, tu sei già santa in vita, tu sei una benedizione per il monastero! E tutto commosso da quel fatto, corse da fra' Buono e dall'Abate maggiore a raccontar l'accaduto. - Erigeremo un santuario nel luogo ove Buona è stata salvata! - disse l'Abate, - e faremo venir da Firenze un abile pittore per dipingere sulle mura di quello, la storia della bambina, da quando fu trovata fra la neve fino al momento che ha ammansito il lupo. - Sarà meglio lasciare due pareti bianche per dipingervi in seguito altri fatti della vita di questa fanciulla, cara alla Madre del Signore; - disse fra' Buono, - poiché ella è veramente santa, e la Madonna si servirà di lei per operare altri miracoli. - Da che lo arguisci, fra' Buono? - domandò l'Abate. - Padre santo, l'umile capanna ove ella abita è sempre olezzante di gigli e viole; il corpo di lei non è stato mai soggetto a nessuna infermità; quando ella canta le laudi della Vergine, gli uccelli corrono a stormi dai boschi e le si posano sulle spalle; le piante che ella coltiva dànno fiori, anche quando soffia il tramontano. Ed era vero quel che diceva fra' Buono, perché tutti i fatti da lui citati erano avvenuti sotto i suoi occhi; ma quello che il buon frate non sapeva, si era che appena la notte avvolgeva la terra, una luce viva illuminava la capanna, e appena Buona chiudeva gli occhi, due angeli scendevano dal cielo a vegliare sulla fanciulla dormente. E l'umile monaco non sapeva neppure che tutta questa protezione che la Vergine concedeva alla fanciulla, raccolta da lui in mezzo alla neve, era fervidamente implorata da più anni da un cuore desolato di madre. Bisogna sapere che un terribile dramma di famiglia aveva cagionato l'abbandono di Buona. Il conte di Poppiano e il conte di Romena erano fra loro nemici acerrimi; questa inimicizia era nata quando Corso, figlio del primo, era già un giovinetto, e Selvaggia, figlia del secondo, era una bella e graziosa fanciulla. L'inimicizia era scoppiata per una contestazione di confini fra i loro feudi, e i due signori avevan fatto ricorso all'Imperatore, il quale aveva dato ragione al conte di Romena. Tanto il vincitore quanto il vinto s'erano giurati odio vicendevole ed eterno. Ma lo scoppiare di quest'odio aveva fatto sentire a Corso e a Selvaggia, educati e cresciuti insieme, quanto bene si volevano; e si erano scritti, prima per deplorare l'inimicizie dei loro padri, poi per sfogare il dolore che risentivano di non vedersi più. E queste lettere, recate dalla balia di Corso alla balia di Selvaggia, alimentarono tanto il loro affetto, che i due giovani, non vedendo mezzo alcuno per ottenere una riconciliazione fra le loro famiglie, stabilirono di sposarsi senza il consenso dei loro padri. Corso, col pretesto di una caccia nei monti, uscì dal castello di Poppiano molto segretamente; ma ad un certo punto, fingendo d'inseguire un animale, si sottrasse allo sguardo dei suoi, e, spronato il cavallo, giunse in prossimità di Romena. Costì rimase nascosto fino a notte inoltrata nella casa della balia di Selvaggia, dove verso sera erasi recata la fanciulla sotto pretesto di visitarla e portarle dei doni; e quando l'oscurità fu completa, messer Corso pose in groppa al suo cavallo la bella figlia del conte di Romena, e la portò fino ad Arezzo. Era appena giorno quando vi giunsero, e senza prendere nessun riposo, entrarono in una chiesa e fecero celebrare il loro matrimonio da un prete che ufiziava. Poi i due sposi andarono ad alloggiare da una vecchia zia del signor di Poppiano, dove menarono vita oscurissima. Nessuno può figurarsi l'ira del conte di Poppiano quando, dopo aver cercato inutilmente per più giorni il figlio, supponendo gli fosse accaduta una disgrazia alla caccia, seppe che anche la figlia del suo nemico era sparita! Né minore fu l'ira del conte di Romena quando non trovò più la figlia. Tutti e due i vecchi si chiusero nei loro rispettivi castelli mulinando una vendetta, e intanto spedirono fidi messi in traccia dei fuggiaschi. Passarono i mesi senza che questi tornassero. Furono fatte ricerche a Firenze, a Siena, in Romagna, in Umbria, e anche ad Arezzo; ma i due sposi stavano così celati agli occhi di tutti, temendo l'ira dei genitori, che anche ai bracchi dal fino odorato, riusciva impossibile scoprirli. Intanto i due vecchi fremevano nell'attesa di notizie; essi temevano di chiuder gli occhi prima di avere sfogata la vendetta, e ogni giorno che passava la ideavano più atroce: il conte di Romena, contro Corso che accusava di avergli rubata la figlia; il conte di Poppiano, contro Selvaggia. Frattanto la bella moglie di messer Corso aveva dato alla luce una bambina. La madre la nutriva col suo latte, il padre vegliava sempre sulla culla di lei; ma l'odio del vecchio conte di Poppiano per la nuora minacciava la felicità di Corso e di Selvaggia. Infatti, il vecchio scriveva lettere sopra lettere agli uomini che aveva sguinzagliati contro il figlio, e uno di questi, che si trovava appunto ad Arezzo, per non esser più incitato, si mise a ricercare messer Corso, facendo la posta di giorno e di notte vicino alle case dei parenti e degli amici, che il giovane aveva nella città. E una notte d'inverno lo vide uscire cautamente da una porticina della casa della zia, che dava sopra un chiassuolo, accompagnato dalla moglie, la quale reggeva una creaturina lattante. Il giorno dopo quell'uomo era già a Poppiano a informare il Conte della scoperta fatta. Quali ordini gli desse il vecchio, è inutile dirvi. Vi basti sapere che la sera successiva quattro uomini erano appostati nel chiassuolo, dentro una rimessa, e tre cavalli sellati aspettavano sotto le mura della città, sulla via del Casentino. Appena messer Corso, come di consueto, fu uscito nella strada insieme con la moglie per farle prendere una boccata d'aria, due dei quattro appostati gli saltarono addosso e due altri imbavagliarono Selvaggia per portarla via insieme con la piccina. La donna si difendeva, e Corso, sguainata la spada, menava colpi da ogni lato per proteggere la sua cara sposa; ma tutto fu inutile. Un colpo ricevuto al fianco lo fece cadere, mentre Selvaggia veniva portata via svenuta. Dopo un'ora, circa, dal fatto, i quattro malfattori calavano, da una casa addossata alle mura, una donna e una bambina, e per la stessa via essi pure uscivano dalla città, temendo il bargello e il capestro. - Eccovi la moglie del figlio vostro, - disse il capo della spedizione giungendo a Poppiano. - Che sia rinchiusa nella prigione più oscura del castello, - ordinò il Conte. - E della figlia che dobbiamo farne? - domandò il ribaldo. - Abbandonatela sui monti affinché i lupi la divorino. E Corso dov'è? - chiese il signore. I ribaldi aspettavano la domanda e avevan pronta la risposta. Essi non volevano confessare di averlo mortalmente ferito, perciò dissero che Corso, quella sera, non era uscito insieme con la moglie, ma l'aveva affidata bensì a due parenti suoi, i quali, difendendola, erano caduti feriti da più colpi. Il Conte si mostrò pago dell'esito della impresa e non permise che la bambina rimanesse neppure un'ora nel castello. Così il capo della spedizione dovette risalire a cavallo e portarla lontano, e fu allora che la depose nel Pian del Prete, ove la trovò fra' Buono. Ma torniamo a Corso. La ferita lo inchiodò per più settimane nel letto. Appena rimesso, l'infelice andò a Romena, supponendo che il ratto fosse stato operato ad istigazione del suocero: ma per quanto interrogasse i terrazzani, e soprattutto la balia della sua sposa, nessuno poté dirgli di avere veduto la figlia del Conte in quel luogo. Allora Corso andò a Poppiano e fece chiedere al padre di essere ricevuto. Il vecchio lo fece entrare nella sala d'armi e lo squadrò da capo a piedi. - Quale ragione ti riconduce sotto questo tetto, che hai abbandonato come un malfattore? - gli domandò severamente. - Nessun'altra che l'ardente desiderio di sapere che cosa sia avvenuto della mia sposa, - rispose il giovine. - Come supponi che io possa dirtelo? Corso allora chinò la testa e tacque; ma invece di rimanere in quel luogo, si mise in viaggio per cercare la sua Selvaggia. Dopo un anno d'inutili ricerche, il giovane signore intraprese il pellegrinaggio di Terra Santa, per ottenere dal Cielo la grazia di esser riunito all'adorata consorte. Ma la nave fu assalita dai pirati ed egli, come i suoi compagni, vennero fatti prigionieri da un capo barbaresco e condotti sulle coste africane a lavorare la terra. Però, la sorte di Corso non era tanto dura quanto quella di Selvaggia. Egli almeno respirava l'aria libera, mentre l'infelice donna era rinchiusa in una prigione e s'era veduta strappare la sua creaturina. Selvaggia, in quel carcere, non faceva altro che piangere e pregare; ella piangeva Corso, che supponeva morto in seguito alle ferite, e pregava per la sua bambina, che una voce interna le diceva che era viva. E le sue preghiere, rivolte specialmente alla Madonna, erano così fervide che giungevano fino al trono della Madre di Dio e la commovevano. Passarono molti anni dal giorno che la fanciulla fu raccolta da fra' Buono, ed ella s'era fatta bellissima di viso e di corpo, e tale appariva agli occhi della gente che la scorgeva andando in pellegrinaggio a Fonte-Buona. Tutti le tributavano un gran rispetto, vedendola vestita dell'abito dato da san Romualdo ai suoi monaci, e intenta sempre a leggere nei grossi volumi che le recava fra' Buono, o a guardare le pecore al pascolo, o coltivare i fiori, che crescevano intorno alla sua capanna come se fosse stato primavera. Inoltre il padre forestale raccontava a tutti il miracolo del lupo e faceva vedere a quanti si recavano al monastero la bella Buona, seguìta dalla fiera. In poco tempo la venerazione per Buona era tanto cresciuta nella gente del Casentino, che gl'infermi, gli storpi, i malati d'ogni genere, si facevano portare alla capanna di lei, e la pregavano supplichevolmente di suggerir loro un rimedio o soltanto di toccarli, sperando da quel semplice contatto la guarigione. Buona rispondeva a tutti quegli infelici: - Pregherò la Madonna per voi! E siccome talvolta essi risanavano, così nessuno più dubitava che ella fosse già santa in vita. Ora avvenne che il conte di Poppiano ammalasse gravemente, di una malattia che aveva sede nell'anima. Egli era torturato dal dolore di non vedere più l'unico figlio suo, e invece di mostrarsi più umano verso Selvaggia, la rendeva responsabile della gran sciagura che lo faceva morir disperato. Per curarlo, erano stati chiamati tutti i dottori del Casentino, ma la sua malattia resisteva a ogni rimedio. Allora, siccome egli non poteva più muoversi, gli fu suggerito di chiamare al suo letto la pastorella del Pian del Prete. E Buona, pregata da un frate che bazzicava al castello, se ne andò, scalza e vestita della bianca tunica, presso il vecchio signore, che teneva rinchiusa sua madre in un sotterraneo e che aveva fatto abbandonar lei alla voracità dei lupi. - Signore, - disse Buona quando fu alla presenza dell'infermo, - io non so altro che pregare, e pregherò per voi. Quella voce dolce scese come un balsamo al cuore del vecchio, il quale incominciò subito a migliorare. - Chi sei? - le domandò il vecchio, - e dove stanno i tuoi genitori? - Non lo so. Quindici anni fa, frate Buono mi raccolse fra la neve nel Pian del Prete. Io non ho altra famiglia che i frati camaldolensi, altra madre che la Madonna. - Quindici anni fa, tu dici! - Sì, avevo allora pochi mesi. Tacque il vecchio, e il suo volto rivelava la lotta che si combatteva dentro di lui. - Dimmi, sapresti tu perdonare a chi ti avesse privato della madre? - Io ho imparato da fra' Buono, che non sta a noi giudicare le azioni altrui. - Avvicinati! - ordinò il Conte. Il vecchio le prese le mani e la esaminò attentamente. Non poteva ingannarsi: erano proprio quelli gli occhi grandi e dolci del suo Corso, eran quelli i lineamenti del figlio perduto. Allora, preso dalla tenerezza, il vecchio attirò a sé Buona e disse: - Figlia del figlio mio, ti benedico! Buona non capiva nulla. Soltanto quando il Conte le narrò la storia truce, ella comprese e disse: - Liberate l'infelice madre mia! Questo desiderio fu subito appagato; ma quando Buona fu in presenza della madre, credé di vedere uno spettro. - E tu, Selvaggia, puoi perdonarmi? - domandò il vecchio. - Mi rendete la mia creatura e io dimentico tutto per non rammentare altro che questo momento felice. Il Conte in breve si rimise in salute e appena ebbe riacquistate le forze, cavalcò fino a Camaldoli per fare una ricca offerta al monastero che aveva tenuto Buona come figlia e visitare il santuario eretto in onore di lei. Ma, nonostante che egli fosse circondato dalle cure amorevoli delle due donne, il suo pensiero era sempre rivolto a Corso. Una sera gli fu annunziato che un cavaliere chiedeva l'ospitalità. Il signore ordinò che fosse subito introdotto, e quando il viaggiatore entrò nella sala, gli occhi affievoliti del vecchio Conte non lo ravvisarono; ma dalla bocca di Selvaggia uscì un grido, riconoscendo in quel cavaliere il proprio marito. Corso raccontò che era riuscito a fuggire, e, raccolto da alcuni marinari sulle coste d'Africa, era passato in Sicilia, e di là era tornato in patria. Buona fu per molti anni la consolazione dei genitori, com'era stata la consolazione del vecchio Conte; ma nonostante le ricche offerte di maritaggio, ella volle rimanere libera e non dismise mai l'abito bianco dei Camaldolensi. Rimasta orfana, ella cedé ai parenti il castello di Poppiano e i feudi annessi, e costruitasi una piccola casa all'Abetiolo, accanto al santuario eretto in memoria della sua miracolosa salvazione dal lupo, vi morì in odore di santità. La novella terminò senza che Cecco fosse tornato. Regina, per distrarre Vezzosa, che vedeva malinconica, avrebbe incominciato volentieri a raccontarne un'altra; ma gli uomini si erano già alzati per andare a letto, meno Maso, il quale disse: - Cecco si meriterebbe di dormire sull'aia; stasera lo aspetto io e gli dico il fatto mio! Vezzosa si sentì gelare. Le dispiaceva l'assenza del marito, ma più ancora l'affliggeva che il capoccia lo biasimasse. Per questo disse al cognato che Cecco lo avrebbe aspettato lei. - Tu puoi rimproverarlo quanto vuoi in camera tua, come moglie, ma io voglio rimproverarlo come capo di casa, - rispose Maso. - Nella nostra famiglia nessuno ha mai bazzicato le osterie con gli amici, e non deve essere il primo lui. Vezzosa dovette ubbidire e andare in camera sua, ma non si spogliò finché non udì il passo di Cecco, e rimase inchiodata alla finestra per udire il colloquio fra i due fratelli. I rimproveri che rivolse Maso a Cecco furono così aspri, che Vezzosa non ebbe coraggio di fargliene altri. Ma piangeva la povera donna, come una vite tagliata, e quelle lacrime inasprirono il colpevole, invece di rabbonirlo.

MEMORIE DEL PRESBITERIO SCENE DI PROVINCIA

679349
Praga, Emilio 1 occorrenze
  • 1881
  • F. CASANOVA. LIBRAIO - EDITORE
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Era quella la mia meta: la riconobbi subito dalla quercia fronzuta che spiegava maestosa nel mezzo i suoi rami sopra gli avanzi di una casupola bassa abbandonata come se ne vedono tante in montagna, specie di covo umano da cui il bisogno o la morte ha snidato la vita. Malgrado il suo nome prosaico di Carbonaia il luogo è delizioso: vi cresceva un'erbetta minuta e d'un bel color chiaro chiazzato a lunghe zone di menta fiorita. È remoto ed aperto nel tempo stesso. Lo Strona lo difende da una parte, e un inaccessibile burrone dall'altra: una macchia fitta di castagni cresciuti rigogliosi dalle ceneri degli antichi forni permettono di spiare non visti tutti i sentieri che scendono dal monte e salgono dalla valle. La dimora che ha servito ai carbonai è deserta da molti anni; la natura ha preso possesso di quella rovina. L'ha coperta di muschi d'edera: ha riempito tutte le fenditure coi capelveneri e colle felci, - tuttavia essa può servire di riparo contro un temporale improvviso. Come mi aveva detto lo speziale, non era un fondo fruttifero; il godimento quasi del tutto nominale di esso era da tempo immemorabile lasciato alla parrocchia, cioè ai poverelli che nel nome di lei ne ricavavano qualche pugno d'erba l'estate e qualche fardellino di legna l'inverno. Ma il sindaco pretendeva rivendicarlo per antico dritto di proprietà non mai abbandonato che precariamente dal comune, - e coonestava l'animosità col progetto di farvi passare una viottola assai incomoda del resto che dalla strada provinciale, che saliva al di là della Strema, mettesse direttamente senza passar in paese alla frazione di Fontanile, le cui case si vedevano in fondo accovacciate in una piega del monte e non giustificavano davvero colla loro importanza quella singolare premura sindacale. Inoltrandomi fra le macchie, scoprii don Luigi. Era seduto dietro la casupola sopra un grosso ceppo di castagno coverto di muschio; teneva la fronte bassa appoggiata al dosso della mano e aveva le guancie rigate di lagrime. Non si accorse di me. Ebbi rimorso di averlo spiato. Per salvare almeno le apparenze, mi rivolsi indietro pian piano e, quando mi fui allontanato convenientemente, mi posi a cantarellare ad alta voce per metterlo sull'avviso della mia presenza. Egli mi richiamò per nome. Quando tornai da lui, s'era ricomposto, ma senza ombra di dissimulazione. Mi diè uno sguardo di amichevole confidenza, mi prese la mano e la tenne alcuni minuti nelle sue senza far motto. - Figliuolo, mi disse poi, ho pensato alle idee ieri manifestate dal dottore .... e, posso errare, ma quello mi pare materialismo nè più, nè meno. - È un argomento che prova troppo .... e nulla. Coll'ammettere l'irresponsabilità delle inclinazioni, si esclude la colpa, e il male; si esclude la pena, la sanzione e il giudice .... È tutto una conseguenza. Quanto a me, dinanzi a questo cielo e a questi luoghi, testimoni di tutti i miei pensieri .... e dei miei errori, - vi assicuro, - del male che ho fatto preferisco sentirmene responsabile e accusarmene, - perchè ciò mi da la speranza di ottenere perdono per me e la consolante certezza che sarà riparato per gli altri. Che ne dite? Che potevo dire? Il materialismo allora mi dava assai meno fastidio di adesso. Non lo conoscevo che da lontano, e mi seduceva coll'apparenza di una generosa, eroica ribellione contro la più assoluta autorità dell'universo. Pure ammiravo l'ingenua bontà di quell'animo che s'adombrava al pensiero di esser liberato da una obbligazione e protestava contro l'assoluzione offertagli, con una logica che veniva dal sentimento più che dal raziocinio. Esternai la convinzione che le sue parole non avessero altro movente che una eccessiva austerità di coscienza. - Il male che avete fatto è un modo di dire, soggiunsi, ma non è di tal natura da rimordervi troppo .... e quanto alla riparazione ella è bella e fatta a quest'ora .... - Zitto, vi prego, - m'interruppe subitamente turbato, - zitto, voi non sapete nulla. Volevo replicare, ma egli ripetè: - Non sapete nulla, non sapete nulla. Poi dopo alcuni minuti di silenzio, con maggior calma e una malinconica intonazione di voce: - No davvero, figliolo, non posso scroccarvi un giudizio tanto indulgente. La santità di ser Ciappelletto mi ripugna. La sua modestia era tanto sincera e tanto viva che non ardii combatterla, tacqui. Don Luigi si alzò, passò il braccio sotto il mio e mi trasse con sè in gran fretta. Al principio del sentiero si volse, abbracciò con uno sguardo di ineffabile tenerezza quel suo prediletto ricovero. - È forse l'ultima volta ch'io vengo quassù, mormorò; - oh i decreti di Dio colpiscono giusto .... Cominciammo a scendere la china in silenzio. Don Luigi era triste, accasciato come non l'avevo mai visto. Mi parve allora assai più vecchio del solito; si appoggiava al mio braccio e camminava a stento. Appressandosi al villaggio si rinfrancò un poco; ma non tanto che Baccio non s'accorgesse della sua tristezza. E mi disse con sincera schiettezza: - Vossignoria è andato a disturbare il curato; ha fatto male, ha fatto male. Egli aveva bisogno di restar solo. - Perchè? domandai sorridendo a fior di labbra. - Perchè, quando nessuno l'inquieta, egli trova colà nella solitudine il rimedio di tutti i suoi fastidi. E mi contò i mirabili effetti di quel luogo sull'animo del curato, ch'io sapevo già dallo speziale. - Ma cosa ci trova lassù? - Dicono, rispose esitando il sacrestano e abbassando la voce, dicono che venga un angelo a visitarlo. - Un angelo, chi l'ha veduto? - Saranno quasi vent'anni, un giorno tornando dalla Valsesia, scendevo per il Mongrigio. Arrivato a un certo punto dove il sentiero sovrasta al piano della Carbonaia guardo in giù e scorgo qualcosa di bianco fra i castagni: era una figura di donna ravvolta in un velo lungo fino a terra sotto al quale traspariva una veste azzurra. La visione passò lentamente fra gli alberi e scomparve dietro il muro dei carbonai. Non la vidi che un minuto, ma ne fui abbagliato. Splendeva più del cielo!, - andava cauta ma tanto leggiera che non pareva toccasse la terra. Dopo il primo stupore calai giù, passai il ponte dello Strona e, girando intorno alla collina, passai la strada di Sulzena. Allo sbocco del sentiero della Carbonaia incontrai don Luigi. Allora aveva dei dispiaceri ed era triste, afflitto più di adesso. Ma quel dì mi sembrò tutt'altro: mi passò vicino senza vedermi, incantato come uno che viene dal paradiso. Il paragone di Baccio non mi sembrò punto strano: il suo racconto in cui altri più positivo di me non avrebbe visto che una fiaba grossolana, mi interessava grandemente. Lo ascoltai come la più seria cosa del mondo. Egli era certo in buona fede. Eravamo in sacristia dove don Luigi ci aveva lasciati soli per entrare in chiesa a parare l'altare per la benedizione. Il sacrestano mi fece la sua confidenza agitando il turibolo a ravvivarne le brace. Il barlume del crepuscolo cadeva dall'alte e strette finestrello su certi visi pallidi di madonne e di sante; il bisbiglio sommesso dei devoti che entravano in chiesa, certi echi profondi, un acuto profumo d'incenso, - la maestà del luogo disponevano l'animo al meraviglioso. Un po' di prodigio cresceva attrattive alla misteriosa figura del curato.

L'altrui mestiere

680281
Levi, Primo 3 occorrenze

Ho letto da qualche parte la descrizione di uno degli artifizi della mnemotecnica, cioè dell' arte (un tempo coltivata dai dotti e dagli studiosi, oggi stupidamente abbandonata) di esercitare e migliorare la memoria: chi voglia ricordare un elenco di trenta, quaranta o più nomi, ed eventualmente stupire il pubblico recitandolo anche a rovescio, può raggiungere lo scopo se collega mentalmente (ossia inventa un rapporto qualsiasi) fra ogni singolo nome e, ordinatamente, un angolo della propria abitazione: procedendo cioè, a partire dalla porta d' ingresso, ad esempio, verso destra ed esplorandone successivamente tutti gli angoli. Rifacendo poi nell' immaginazione lo stesso itinerario, potrà ricostruire l' elenco iniziale; se percorrerà l' alloggio in senso inverso, si invertirà anche il senso dell' elenco. Non ho mai avuto bisogno di compiere questa performance, ma non dubito che essa funzioni in generale. Non funzionerebbe invece nel mio caso, perché nella mia memoria tutti gli angoli di casa sono già occupati, ed i ricordi autentici interferirebbero con quelli occasionali e fittizi richiesti da questa tecnica. L' angolo a destra della porta d' ingresso è quello dove cinquant' anni fa stava un portaombrelli, e dove mio padre, rientrando a piedi dall' ufficio nei giorni di pioggia, depositava il parapioggia grondante, e nei giorni asciutti la canna da passeggio; dove per vent' anni è rimasto appeso un ferro da cavallo trovato da mio zio Corrado (a quel tempo si potevano trovare ferri da cavallo in corso Re Umberto), amuleto di cui sarebbe difficile stabilire se abbia o no esercitato la sua azione protettiva; e dove per altri vent' anni ha penzolato da un chiodo una grossa chiave di cui tutti avevano dimenticato la destinazione ma che nessuno osava gettare via. L' angolo successivo, fra il muro e il guardaroba di noce, era ambito come nascondiglio quando si giocava a rimpiattino; in una domenica imprecisata dell' oligocene, mi ci sono nascosto io, mi sono inginocchiato su una scheggia di vetro, mi sono ferito, ed ancora ne porto il segno sul ginocchio sinistro. Trent' anni dopo di me ci si è nascosta mia figlia, che però rideva e si faceva trovare subito; e dopo altri otto anni mio figlio con una torma di suoi coetanei, uno dei quali ha perso sul posto un dente da latte e per misteriose ragioni magiche lo ha conficcato in un buco dell' intonaco dove probabilmente si trova tuttora. Proseguendo nel cammino destrogiro, si trova la porta di una camera che dà verso cortile e che ha avuto nei decenni destinazioni diverse. Nei miei ricordi più lontani era il salotto buono, dove mia madre, due o tre volte all' anno, riceveva le persone di riguardo. Poi ci ha dormito per qualche anno una favolosa "donna fissa"; in seguito è stato ufficio commerciale di mio padre, finché, con la guerra, ha servito da accampamento e da dormitorio per parenti ed amici a cui le bombe avevano abbattuto la casa. Dopo la guerra (e il sequestro dovuto alle leggi razziali) ci hanno dormito e giocato successivamente i miei due figli, e ci ha passato molte notti mia moglie che li assisteva quando erano ammalati: io no, con l' alibi di ferro del lavoro in fabbrica e con l' egoismo olimpico dei mariti. Attualmente è un laboratorio multiplo dove si sviluppano fotografie, si cuce a macchina e si fabbricano giocattoli divertenti. Trasfigurazioni simili si potrebbero raccontare per tutti gli altri locali; da poco tempo, e con disagio, mi sono accorto che la mia poltrona preferita occupa il luogo preciso in cui, secondo la tradizione famigliare, io sono venuto al mondo. La mia casa è situata in un posto fortunato, non troppo lontano dal centro urbano eppure relativamente tranquillo; la proliferazione delle auto, che riempie ogni cavità come un gas compresso, è arrivata ormai fin qui, ma solo da pochi mesi si fatica a trovare un parcheggio. Le pareti sono spesse, ed i rumori della strada giungono attutiti. Un tempo tutto era diverso: la città finiva a poche centinaia di metri verso sud, si andava attraverso i prati "a vedere i treni" che allora, prima che si scavasse il sistema di trincee del quadrivio Zappata, correvano a livello del suolo. I controviali sono stati asfaltati solo verso il 1935; prima erano acciottolati, ed al mattino si veniva svegliati dai rumori dei carri che venivano dalla campagna: fragore dei cerchioni di ferro sui ciottoli, schiocchi delle fruste, voci dei conducenti. Altre voci famigliari salivano dalla strada in altre ore del giorno: i richiami del vetraio, dello stracciaio, del raccoglitore dei "capelli del pettine", a cui la già nominata donna fissa vendeva periodicamente i suoi, lunghi e canuti; occasionalmente, di mendicanti che suonavano l' organetto o cantavano in strada, ed a cui si gettavano monetine incartate. Attraverso tutte le sue trasformazioni, l' alloggio in cui abito ha conservato il suo aspetto anonimo ed impersonale: od almeno, tale sembra a noi che ci viviamo, ma è noto che ognuno è cattivo giudice delle cose che lo riguardano, del proprio carattere, delle proprie virtù e vizi, perfino della propria voce e del proprio viso; forse ad altri potrà apparire fortemente sintomatico delle tendenze appartate della mia famiglia. Certo, a livello consapevole, alla mia abitazione non ho mai chiesto molto di più del soddisfacimento dei bisogni primari: spazio, calore, comodità, silenzio, privatezza. Né mai ho consapevolmente cercato di farla mia, di assimilarla a me, di abbellirla, arricchirla, sofisticarla. Non mi è facile parlare del rapporto che ho con lei: forse è di natura gattesca, come i gatti amo gli agi ma posso anche farne a meno, e mi sarei adattato abbastanza bene anche ad un alloggiamento disagiato, come varie volte mi è successo, e come mi succede quando vado in un albergo. Non credo che il mio modo di scrivere risenta dell' ambiente in cui vivo e scrivo, né credo che questo ambiente traspaia dalle cose che ho scritte. Devo quindi essere meno sensibile della media alle suggestioni ed influenze dell' ambiente, e non sono sensibile affatto al prestigio che l' ambiente conferisce, conserva o deteriora. Abito a casa mia come abito all' interno della mia pelle: so di pelli più belle, più ampie, più resistenti, più pittoresche, ma mi sembrerebbe innaturale cambiarle con la mia.

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Una rappresentava una barchetta vuota, priva di remi, inclinata su un fianco e abbandonata fra cespugli e alberi. Dissi che la nostra vecchia domestica, quando le chiedevamo "Come va?", soleva rispondere sconsolatamente "Come una barca in un bosco", e la ragazzina mi parve soddisfatta. Un altro cartone rappresentava alcuni contadini che dormivano sdraiati a terra, in mezzo ai covoni, col cappello calato sul viso; mi suggerirono sete, fatica, riposo meritato e precario. Un terzo cartone portava l' immagine di una giovane accovacciata ai piedi di un letto in una posizione innaturale e forzata, col capo nascosto tra le spalle e la schiena curva, come se della schiena stessa volesse farsi una corazza contro qualcosa o qualcuno; a terra c' era un oggetto mal distinto che poteva essere una pistola. Non ricordo il soggetto degli altri cartoni; quel lavoro d' interpretazione mi andava a genio e mi faceva sentire a mio agio, la ragazzina mi disse che se n' era accorta, non aggiunse altri commenti e mi fece passare nella camera attigua. Qui, seduta dietro una scrivania, stava una giovane elegante e bellissima. Mi sorrise come se mi conoscesse da molto tempo, mi fece sedere di fronte a lei, mi offerse una sigaretta e incominciò a farmi domande tecniche, personali e intime, sul genere di quelle che fanno i confessori in confessione. Le interessavano in specie i sentimenti che provavo verso mia madre e mio padre: su questi insisteva fastidiosamente, ma senza mai allentare il suo sorriso professionale. Ora, a quel tempo io avevo già letto il mio Freud e non mi sentivo del tutto sprovveduto. Me la cavai con decoro, anzi, osai perfino dire alla bellissima che era un peccato che ci fosse così poco tempo, se no magari saremmo arrivati al transfert e io l' avrei invitata a cena, ma lei tagliò corto, con l' aria un po' seccata. A questo punto, la faccenda cominciava nettamente a divertirmi: l' angoscia del sentirmi scandagliato e pesato era scomparsa. Seguì un' altra stanzetta e un' altra esaminatrice: era più anziana dei suoi colleghi e anche più spocchiosa. Non mi guardò neppure in faccia e mi squadernò sotto il naso le dieci figure di Rorschach. Queste sono grosse macchie informi ma simmetriche, ottenute piegando in due un foglio bianco su gocce d' inchiostro nero o colorato: a prima vista possono sembrare coppie di gnomi, o scheletri, o maschere, o insetti visti al microscopio, o uccellacci; a seconda vista non significano più nulla. Pare che il modo in cui vengono interpretate dia indizi sulla personalità complessiva dell' individuo. Ora, era successo che proprio pochi giorni prima un amico mi aveva parlato di queste figure, e mi aveva anche imprestato il manuale che le accompagna, e che spiega con molti curiosi dettagli come la loro interpretazione vada interpretata; cioè che cosa si nasconda dentro colui che nelle macchie vede un teschio o rispettivamente un' orchidea. Mi sembrava corretto avvertire la mia esaminatrice che la prova sarebbe stata inquinata. Glielo dissi, e lei si gonfiò tutta dalla rabbia. Come avevo potuto permettermi una simile trasgressione? Inaudito: erano cose riservatissime, cose loro, in cui i profani non dovevano cacciare il naso. Il loro era un mestiere delicato, e nessuno doveva cercare di rubarlo. Ma soprattutto: che cosa avrebbe scritto adesso sulla mia scheda? Non poteva certo lasciarla bianca. Insomma, io la avevo messa in una situazione senza vie d' uscita. Mi congedai con qualche scusa indistinta, e archiviai la faccenda; quando arrivò la lettera d' assunzione risposi che ero già sistemato diversamente, il che era vero. Qualche mese più tardi venni casualmente a sapere che i veri candidati non eravamo noi trenta, ma loro, i nostri esaminatori: erano una équipe di psicologi in prova, e i test somministrati a noi erano il loro esordio, quello che per gli apprendisti operai si chiama il "capolavoro". Dopo di allora non sono più stato sottoposto a esami di questo tipo, e ne sono contento. Ne diffido: mi sembra che violino alcuni nostri diritti fondamentali, e che siano oltre a tutto inutili, perché i candidati vergini non esistono più. Mi piacciono invece quando sono fatti per gioco: allora si spogliano della loro presunzione, ed anzi stimolano la fantasia, fanno nascere idee nuove, e ci possono insegnare qualcosa su noi stessi.

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Era una costruzione faraonica, una delle prime in cemento armato erette in Torino: terminata verso il 1915, nel 1934 era già abbandonata e fatiscente, insigne esempio di spreco del pubblico denaro. L' anello della pista, lungo .00 metri, era ormai in terra nuda, cosparso di buche malamente riempite di ghiaia; sulle gigantesche scalinate crescevano erbacce ed alberelli stenti. Ufficialmente, l' ingresso era vietato, ma noi entravamo dal bar, portandoci dietro le biciclette. C' era chi lanciava il peso (un blocchetto di cemento) o un giavellotto casalingo, e chi faceva il salto in alto o in lungo meglio che poteva: ma Guido ed io ci attenevamo rigorosamente al "pulverem olympicum" cantato da Orazio. Ci eravamo scoperti mezzofondisti, ma i 1500 di Beccali per noi erano troppi; ci bastavano e avanzavano i polverosissimi .00 metri della pista. Quei tre versi ci riconciliavano con la latinità; quegli antichi romani non erano puri fossili, dunque: conoscevano la febbre della gara, erano gente come noi. Peccato che scrivessero in un latino così difficile. Guido era un giovane barbaro dal corpo scultoreo. Era intelligente ed ambizioso, ed invidiava i miei successi scolastici; io, simmetricamente, invidiavo i suoi muscoli, la sua statura, la sua bellezza e le sue precoci libidini. Questa competizione incrociata aveva creato fra noi una curiosa amicizia ruvida, esclusiva, polemica, mai affettuosa, non sempre leale, che comportava una gara continua, un confronto ad oltranza, e di fatto ci rendeva inseparabili. Avevamo quindici o sedici anni, e questa tensione competitiva sarebbe stata pressoché normale se fossimo stati ad armi pari, ma così non era. Io disponevo di un certo vantaggio iniziale sul piano della cultura, perché avevo a casa molti libri, e mio padre ingegnere me ne portava altri a volta di corriere se solo accennavo ad un desiderio specifico (ad eccezione di Salgari, che lui detestava e mi vietava), mentre il mio rivale era figlio di gente semplice; ma Guido non era né stupido né pigro, si faceva imprestare tutti i libri di cui gli parlavo, li leggeva voracemente, ne discuteva con me (eravamo quasi sempre di pareri contrari), e poi non me li rendeva più; perciò il suo handicap culturale si andava riducendo di mese in mese. Per contro, il suo vantaggio sul piano fisico era incolmabile. Guido pesava sessanta chili di buoni muscoli, ed io solo quarantacinque; qualsiasi forma di corpo a corpo era da escludersi, ma competere dovevamo e volevamo (forse lo volevo più io di lui), e prima di scendere sul campo aperto dell' atletica avevamo escogitato varie forme di confronto indiretto. Per settimane ci sfidammo a chi tratteneva il fiato più a lungo; dapprima senza particolari accorgimenti, poi affinando via via le nostre armi. Io inventai l' artificio di ossigenarmi previamente il sangue, respirando a lungo e profondamente prima della prova; Guido scoperse che si guadagnava qualche secondo se si gareggiava stando coricati sul pavimento anziché seduti; io affinai la tecnica della respirazione interna, contraendo ed espandendo il torace a glottide chiusa. Funzionava, ma Guido si accorse della manovra e subito la imitò. Tutti e due resistevamo ostinati fino all' orlo dello svenimento; gareggiavamo a turno, ognuno reggendo il contasecondi davanti agli occhi via via più sbarrati dell' altro. Non c' era bisogno di controlli, non ci sarebbe mai venuto in mente di frodare sull' effettiva chiusura dei canali, perché ciascuno era in cerca piuttosto di una prova di volontà che di un confronto vincente. Mi pare che i risultati non fossero brillanti, arrivammo fin verso i cento secondi di apnea, poi, contro le nostre abitudini, convenimmo di sospendere la gara "perché se no finisce che diventiamo tisici". L' inventore del gioco degli schiaffi fu senza dubbio Guido. Le regole, mai scritte né enunciate, si erano definite da sole: bisognava sorprendere la guardia dell' avversario, in strada, alla scrivania, se possibile anche in scuola, e colpirlo in piena faccia, senza preavviso, con quanta più forza si poteva, a metà di un discorso pacifico. Era lecito, anzi apprezzato, distrarre l' avversario con chiacchiere, ed anche colpirlo da dietro, ma sempre e solo sulle guance, mai sul naso o sugli occhi; vietato colpire una seconda volta approfittando del suo stordimento; erano ammesse, ma quasi impossibili, le parate; era disonorevole protestare, lamentarsi o mostrarsi offesi; doveroso rivalersi, ma non subito: più tardi, o il giorno dopo, in piena distensione, nel modo più brusco e imprevisto. Eravamo diventati abilissimi nel leggere l' uno sul viso dell' altro la contrazione impercettibile che preludeva allo schiaffo: "Ecco che straluni li occhi per fedire", citai io dall' "Inferno", e Guido cavallerescamente mi lodò. Contro ogni previsione, dal selvaggio torneo uscii vincitore io, ai punti: avevo riflessi più rapidi di Guido, forse perché le mie braccia erano più corte, però i miei schiaffi andati a segno, anche se più numerosi dei suoi, erano molto meno violenti. Guido ebbe una facile rivincita in un cimento che lui stesso aveva istituito in un tempo in cui lo strip-tease non esisteva ancora neanche in America; io non seppi vincere il mio pudore, concorsi una volta sola e mi fermai alle scarpe. Come ho detto, in quella classe eravamo tutti maschi; non tutti eravamo mascalzoni, ma i mascalzoni erano i veri leader, non noi "intellettuali". Guido li sfidò e li vinse tutti. La prova consisteva nello spogliarsi in classe, e poteva svolgersi solo nelle ore di scienze naturali perché il professore aveva la vista corta e non scendeva mai fra i banchi. Alcuni arrivarono fino al torso nudo, quattro fino alle mutande, ma solo Guido giunse a denudarsi da capo a piedi. Il rischio di essere chiamati alla lavagna faceva parte del gioco e lo arroventava: accadeva infatti di vedere qualcuno che, interrogato, si riinfilava a precipizio i pantaloni sotto il piano del banco. Guido, stratega d' istinto, aveva preso le sue precauzioni. Con un pretesto si era fatto spostare dal secondo banco all' ultimo, si era allenato a rivestirsi rapidamente, aveva atteso il giorno dopo un' interrogazione, e infine, mentre il professore illustrava lo scheletro indicandone le parti con la bacchetta, non solo s' era spogliato completamente, ma nudo era salito in piedi prima sul seggiolino e poi sul pianale, mentre tutti trattenevano il respiro, sospesi tra l' ammirazione e lo scandalo. Così era rimasto per un lungo istante. Ligi al mito collettivo, ci eravamo dedicati finalmente all' atletica, ma fu presto evidente che Guido avrebbe stravinto in tutte le specialità salvo una, e quest' una erano gli .00 metri. E proprio sugli .00 metri lui mi voleva battere, affinché la sua supremazia atletica non avesse ombre. Il giro dell' anello era una fatica da bestie. Calzavamo scarpette da tennis, e la ghiaia ci faceva male ai piedi e sottraeva spinta alla falcata. Avevamo corso insieme una volta sola, massacrandoci a vicenda; nessuno dei due voleva lasciarsi sorpassare, neppure per pochi metri: non sapevamo che la condotta di gara più razionale consiste invece appunto nel farsi tagliare l' aria dall' avversario, risparmiando fiato per lo scatto finale. Così, a metà percorso eravamo tutti e due suonati; io rallentai, non per generosità o per calcolo, ma per totale esaurimento; Guido, per l' onore, corse ancora una decina di metri, poi uscì di pista anche lui. Dopo di allora, ciascuno atterrito dall' ostinazione dell' altro, corremmo a cronometro: uno arrancando in pista, l' altro inseguendolo in bicicletta ed annunciandogli i tempi parziali; ma Guido era sleale, invece di rispettare la mia rabbiosa concentrazione mi raccontava storielle sporche per farmi ridere. Andammo avanti così per parecchie settimane, riempiendoci la trachea di polvere olimpica, convivendo civilmente in scuola, odiandoci allo Stadium dell' odio inconfessato degli atleti. Ad ogni prova, ciascuno metteva in atto tutta la sua ferocia per rosicchiare qualche secondo dal tempo dell' altro. Alla fine dell' anno scolastico io smisi di rosicchiare: la superiorità di Guido era conclamata, consolidata; ci separava un abisso di almeno cinque secondi. Il caso mi concesse tuttavia una magra rivincita: il bar dello Stadium aveva chiuso, e per entrare nella pista bisognava ormai scalare gli spalti fino in cima, dove non so che varco era stato dimenticato aperto. Ora io mi accorsi che le cancellate che sbarravano l' ingresso al piano terra avevano interstizi di sedici centimetri: ci passava giusto il mio cranio, ma a quel tempo ero così magro che se passava il cranio passava anche facilmente tutto il resto. Di questa impresa, solo io ero capace: bene, non era forse una specialità anche quella? Un dono di natura, come i quadricipiti e i deltoidi di Guido? Forzando un po' sui termini, come facevano i sofisti, poteva essere definita una specialità atletica, le cui modalità avrebbero potuto essere precisate con un opportuno regolamento. Forse, all' elenco di indociles, di non paghi, iniziato da Orazio, si sarebbe potuto aggiungere un item, quello dei passatori di cancellate? Guido non sembrava molto d' accordo. Di Guido ho perso le tracce, e non so quindi chi di noi due abbia riportato la vittoria nella gara di gran fondo della vita; ma non ho dimenticato quello strano legame che forse amicizia non era, e che ci ha uniti e divisi. Nel mio ricordo la sua immagine è rimasta così, fissata come in un' istantanea: nudo in piedi sull' assurdo banco del liceo, simmetrico allo scheletro osceno di cui il professore stava esponendoci l' inventario; procace, dionisiaco ed oppostamente osceno, monumento effimero del vigore terrestre e dell' insolenza.

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ATTRAVERSO L'ATLANTICO IN PALLONE

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Salgari, Emilio 3 occorrenze

Malgrado la sua scoperta risalga a un'epoca così avanzata, Terranova rimase quasi abbandonata e la sua colonizzazione non iniziò che nel 1623 con lord Baltimore. L'aerostato spinto da un freddo vento di sud-ovest, filava sopra quella lunga e sottile penisola che racchiude, verso occidente, la baia Placentia, dirigendo verso quella di Trinità. Da quell'altezza l'isola era interamente visibile in tutti i suoi punti, anche i più lontani. Era come un'immensa carta geografica, spiegata sotto gli occhi degli arditi aeronauti. Grandi boschi di larici, di betulle, di pini e frassini apparivano qua e là, come pure parecchi villaggi, situati lungo le spiagge della baia. Si vedevano i pescatori scendere precipitosamente a terra e gli abitanti uscire in fretta dalle capanne ad ammirare il vascello aereo, che filava maestosamente sopra le loro teste e si udivano di quando in quando dei clamori e anche qualche detonazione. "Diavolo!" esclamò l'irlandese, che non amava il silenzio. "Ci prendono per aquile? Fortunatamente siamo molto alti e le loro palle non arriveranno fino a noi." "Crederanno di salutarci," rispose Kelly. "Che siano indiani?" "Gli indiani di Terranova sono morti tutti e da parecchi anni." "Li hanno distrutti?" "La civiltà dei bianchi è fatale alle razze di colore. Dove si introduce, distrugge." "Vi erano delle tribù all'epoca della scoperta?" "Sì, e non poche, a quanto sembra, ma scomparvero presto. L'ultima fu quella dei Micmac." "Erano proprio dei barbari?" "No, anzi si scoprirono in loro notevoli principi di civiltà, che dimostravano che, in tempi antichi, avevano avuto contatti con gli uomini bianchi." "In tempi anteriori alla scoperta dell'isola?" chiese O'Donnell con sorpresa. "Sì, amico mio." "Ma l'isola fu scoperta solo nel 1497! Chi poteva averla visitata prima di Caboto?" "Voi mettete in campo un'autentica questione, che ha fatto versare torrenti d'inchiostro agli storici europei." "E quale mai?" "Che l'America settentrionale sia stata visitata dagli europei cinque secoli prima delle scoperte di Colombo e di Caboto." "Ma da chi?" "Dagli scoto-irlandesi e dai norvegesi." "Questa è bella!" "Sembra che prima del 1000 parecchi audaci marinai scoto-irlandesi, spinti o dall'istinto dell'emigrazione o dal desiderio di conquista, siano sbarcati su queste isole e sulle coste del Canada, fondando degli insediamenti e introducendo fra le tribù primitive la religione cristiana. Infatti, si sa che quando i norvegesi, dopo aver scoperto l'Islanda e la Groenlandia, sbarcarono su queste coste, trovarono tracce evidenti del cristianesimo." "Ma che sia proprio vero che i norvegesi siano sbarcati in queste regioni?" "Le tradizioni leggendarie che la Saga nordica ha trasmesso fino a noi, accennano alle spedizioni dei norvegesi e degli scoto-irlandesi, e ormai si è certi che qui fondarono parecchi insediamenti, specialmente nella Nuova Scozia e nel Nuovo Brunswick." "Ma che cosa accadde delle loro colonie? Perché non si spinsero verso il sud, alla conquista delle regioni più miti e più ricche?" "Ecco quello che si ignora. Di quelle colonie non rimasero che le tracce, sono state distrutte dai selvaggi o qualche terribile malattia ha spento quei primi coloni? Ciò però non toglie alcun merito alle grandi scoperte di Colombo e di Caboto, perché furono loro a far conoscere all'Europa un altro immenso continente, la cui esistenza era stata messa in dubbio e ... " "Che cosa?" "Non vi sembra che il freddo stia improvvisamente aumentando. O'Donnell?" "Al punto che batto i detti, ingegnere." "Ascoltate!" Entrambi tesero le orecchie e udirono in aria dei leggeri crepitii. Pareva che dei corpuscoli urtassero la superficie degli aerostati. Kelly guardò in alto e vide brillare, ai raggi leggermente tiepidi del sole, delle pagliuzze di ghiaccio che si tenevano sospese in aria. "Comprendo da cosa deriva questo brusco abbassamento della temperatura," disse, "attraversiamo uno strato di sottili ghiaccioli. Brutto segno: porterà una nevicata." "Tò!" esclamò O'Donnell. "Non vi sembra che ci stiamo abbassando?" "Infatti è vero. Questo freddo repentino tende a restringere l'idrogeno, ma appena saremo usciti da questo strato, il sole tornerà a dilatarlo e noi a salire." Il vascello aereo si abbassava lentamente, ma doveva essere cosa di breve durata. Ben presto il barometro avvertì gli aeronauti che i trovavano a 3000 metri di altezza, mentre prima si erano sempre tenuti a 3500. Quell'abbassamento permise di osservare meglio la grande isola che si stendeva sotto di loro. Si distinguevano perfettamente le abitazioni sparse sul bordo delle grandi boscaglie, gli abitanti che cercavano di correre dietro all'aerostato, credendolo forse un gigantesco uccello di nuovo genere, data la sua forma così differente dai soliti palloni, e si udivano nettamente le loro grida di stupore. Alle tre pomeridiane O'Donnell e l'ingegnere scorsero, come annidata sulle sponde di una baia, San Giovanni, la capitale dell'isola. Per alcuni istanti poterono vedere il palazzo dell'assemblea, la dogana, le fortificazioni e le numerose graves che si estendevano per lungo tratto fuori dalla città, poi non videro più che una massa biancastra poiché il vento li spingeva verso nord, ossia in direzione delle baie di Trinità e Bonavista. Alle tre e quaranta minuti si libravano sopra il capo Fuels, avvistando l'isola del Fuoco, e pochi minuti più tardi l'aerostato abbandonava l'isola, filando sopra l'oceano Atlantico, le cui onde si urtavano con profondi muggiti, coprendosi d'un immenso manto di candida spuma." "Addio terra!" esclamò O'Donnell. "D'ora innanzi non vedremo che acqua." "Purché il vento non cambi direzione," disse l'ingegnere. "Potrebbe spingerci verso il nord e fors'anche ricondurci verso l'America." "Dove ci porta ora?" "Diritti al grande banco. Non vedete laggiù, verso l'est, quei punti neri? Sono le navi occupate nella pesca ai merluzzi." "E lontano però il grande banco" "Vi giungeremo fra un paio d ore, se la nostra velocità, che è ora di quaranta miglia, non diminuisce." "Si pescano dappertutto i merluzzi, intorno all'isola?" "Sì, specialmente quando i pesci cominciano a lasciare il banco per cercare un altro cibo. In primavera i merluzzi si radunano in grandi masse nei dogger-banks delle coste di Islanda, nei fiorden della Norvegia e nei golfi dell'Irlanda, poi si dirigono tutti insieme verso Terranova. È in questa stagione che dalle coste della Norvegia, della Francia, dell'Inghilterra e dell'Olanda partono vere flottiglie di pescatori, i quali, cosa sorprendente davvero, qui vengono senza bisogno di carte e di strumenti necessari a fare il punto, seguendo, direi quasi, una traccia secolare. Si calcolano fino a seimila navi che tutti gli anni vengono impiegate nella pesca del prezioso pesce." "Devono pescarne una quantità immensa." "Dai 35 ai 40 milioni." "E chi per primo s'accorse della riunione dei merluzzi su questo grande banco?" "Caboto lo aveva notato; poi un altro ardito navigatore italiano, il fiorentino Giovanni da Verrazzano, che prese possesso di Terranova nel 1525 in nome di Francesco I re di Francia e che poco dopo cadde sotto le lance e le scuri degli indigeni; poi Cartier, lo scopritore del fiume San Lorenzo." "Si pescano anche nel San Lorenzo?" "No, i merluzzi non penetrano mai nei fiumi, anzi si tengono lontani dalle foci." "Terminata la stagione sul grande banco, si radunano altrove?" "No, si disperdono, scompaiono e non si vedono più per il resto dell'anno. Si ignora dove vadano a svernare durante la stagione fredda, ma pare che si tengano in acque assai profonde. Ma ecco le prime barche da pesca, O'Donnell, aprite bene gli occhi, e non vi dispiacerà di aver fatto una volata sopra il grande banco di Terranova.

"Ma perché l'hai abbandonata?" "Per non venire ucciso e divorato," rispose il mozzo, battendo i denti per il terrore. "Quale terribile dramma marino si è svolto in questi paraggi?" mormorò O'Donnell. "Si è affondata la tua nave?" chiese Mister Kelly. "Sì, è andata a picco tre settimane fa a milletrecento miglia dalle isole Canarie," disse il mozzo. "Si chiamava Florida ed era salpata da Baltimora con un carico di bazzeccole, destinata ai porti della Sierra Leone. Una notte si aprì una falla sotto la ruota di prua e il brick cominciò a fare acqua in tale quantità da rendere inutile il lavoro delle pompe. Si misero in acqua le imbarcazioni, ma il caldo aveva disgiunto le tavole e affondarono tutte, eccetto il piccolo canotto che io montavo poco fa. Allora, mentre una parte dell'equipaggio manovrava le pompe, gli altri marinai improvvisarono una zattera. Non avevano ancora terminato di costruirla, che il brick affondò, trascinando con sé il capitano e il secondo di bordo. Nella confusione che accadde in quel supremo istante, furono dimenticati i viveri che erano stati accumulati sul ponte del legno affondante, e si poterono a grande stento salvare tre casse di biscotti e due barilotti d'acqua che ancora galleggiavano. Fu deciso di fare rotta verso l'est, per approdare alle isole Canarie o in qualche punto della costa africana, ma le calme ci sorpresero e rimanemmo lunghi giorni immobili sotto un calore spaventevole. L'acqua ben presto mancò, poi mancarono i biscotti, quantunque venissero misurati con grande parsimonia. Io avevo notato che i marinai tenevano sovente gli occhi fissi su di me e che poi si radunavano, discutendo calorosamente, ma procurando sempre che la loro voce non giungesse fino a me. Mi nacque un sospetto orribile: che tramassero di uccidermi e poi pascersi delle mie carni. Cinque notti orsono, mentre fingevo di dormire, vidi avvicinarsi a me il mastro d'equipaggio, seguiti da due marinai e udii il primo dire: "È magro come un merluzzo secco: preferisco che la sorte decida." "No," risposero i compagni. "Questo fanciullo sarà la prima vittima della fame. Perché attendere che muoia? Prima o dopo è tutt'uno e noi potremo forse salvarci." Poi si allontanarono dicendo: "A domani." "Miserabili," esclamò O'Donnell. "Uccidere un ragazzo!" "La fame non ragiona, amico mio," disse l'ingegnere. "Continua, ragazzo." "Avevo messo in serbo alcuni biscotti e un mezzo litro d'acqua che avevo nascosto nel cavo di una trave, sotto il tavolato della coperta. Decisi di fuggire senza perdere tempo. Attesi che tutti dormissero, poi salii nel canotto che era ormeggiato a poppa della zattera, m'imbarcai portando con me le poche provviste e mi allontanai dirigendomi verso il sud. Arrancai disperatamente tutta la notte, e all'alba avevo percorso tanto cammino da non scorgere più la zattera. Due giorni dopo avevo consumato i miei viveri, ma continuai a remare, con la speranza di incontrare qualche nave in rotta dall'Europa all'America, finché, stremato di forze, morendo di sete e di fame, stramazzai in fondo al canotto. Mi ero rassegnato a morire, quando, aprendo gli occhi vidi brillare una luce e presso a questa disegnarsi una forma umana ... " "Ero io che avevo acceso una torcia," disse l'ingegnere. "Devi essere rimasto assai sorpresero nel vedere un uomo in aria." "Sì, signore," rispose il mozzo. "Credetti di sognare, ma avendo scoperto sopra di voi una grande massa nera che rifletteva qua e là i bagliori della torcia, quantunque la cosa mi sembrasse strana, indovinai subito che sopra di me passava un pallone e lancia il mio primo grido." "Sei americano? " gli chiese Kelly. "Sì, signore, sono virginiano, nato a Richmond e mi citiamo Walter Chidley." "Hai parenti a Richmond?" "No, signore, sono solo al mondo e non li ho mai conosciuti." "Ti prendo come mio figlio." Gli occhi azzurri del povero mozzo si empirono di lacrime. "Signore ... signore." balbettò. "Voi siete buono ... e vi offro la mia vita." "Conservala, mio povero ragazzo," disse l'ingegnere, commosso. "Benedico questo viaggio che mi ha fatto incontrare due buoni amici." "Grazie, Mister Kelly," disse O'Donnell, stringendogli la mano che gli porgeva. "Questi due amici, come voi volete chiamarli, vi devono la vita." "E a voi forse devo la mia salvezza, O'Donnell. Senza di voi non so cosa sarebbe accaduto di me, in compagnia di quel disgraziato Simone." Poi, volgendosi al mozzo: "È al nord che si trova la zattera?" gli chiese. "Lo credo, Mister Kelly." "Quanti uomini la montano?" "Quando l'abbandonai si trovavano a bordo quattordici marinai, ma temo che ora non siano tutti vivi. Qualcuno sarà stato divorato." "Se la incontreremo cercheremo di aiutare quei disgraziati. Possiedo ancora dei viveri sufficienti per nutrirci un mese e spero di non aver bisogno di tanto per raggiungere la costa. Coricati su quel materasso, ragazzo mio e riposati: tu devi essere sfinito. Quando ti sveglierai potrai mangiare a piacimento." In quell'istante un urto violento fece oscillare fortemente la scialuppa e un nembo di spuma balzò sopra i bordi. "Le onde!" esclamo O'Donnell, che si era curvato sull parapetto. "Tocchiamo la superficie dell'oceano." "Ci eravamo dimenticati di scaricare della zavorra," disse l'ingegnere. "Questo ragazzo non pesa molto, ma gli aerostati non vogliono saperne di sopraccarichi." O'Donnell prese un sacco di zavorra di cinquanta chilogrammi e lo precipitò nell'oceano. Il Washington subito si rialzò, tendendo le corse delle àncore e la guide-rope. "Vento da sud-ovest," disse l'ingegnere, gettando uno sguardo sul mostra-vento appeso all'asta della bandiera e un altro alla bussola. "Partiamo!" Rovesciarono i due coni e trassero a bordo la guide-rope. I due immensi fusi salirono lentamente e, raggiunti i quattrocento metri, si misero a filare verso il nord-est, in direzione delle Canarie. Il mozzo, stremato dalle lunghe veglie e dai lunghi digiuni, si era coricato e dormiva tranquillamente sul materasso un tempo occupato dal disgraziato Simone; l'ingegnere, che aveva terminato il suo quarto di guardia, l'aveva imitato e O'Donnell si era collocato a prua, fumando. La notte era oscura assai. Uno strato di vapori, che a poco a poco si erano accumulati nelle profondità degli spazi celesti, intercettava completamente la debole luce degli astri. Giù, in fondo, l'oceano brontolava sordamente e si udivano le onde, sollevate dal vento che era diventato assai fresco, urtarsi e sfasciarsi. Di quando in quando, su quei flutti d'inchiostro si vedevano balenare dei punti luminosi che tosto scomparivano. Probabilmente erano pesce-cani, le bocche dei quali, di notte, diventano fosforescenti. Il Washington marciava con rapidità di venti chilometri all'ora, ma la sua direzione non era stabile. Sovente la corrente d'aria cambiava e lo spingeva ora verso il nord ora verso l'est e qualche volta lo ricacciava verso il sud. Alle dieci del mattino, però, la corrente del sud-ovest ebbe il sopravvento e trascinò l'aerostato verso il nord-nord-ovest, con una velocità superiore ai quaranta chilometri all'ora. Se continuava in quella direzione, gli aeronauti non dovevano tardare a scoprire qualche terra. Alle quattro, mentre cominciava a disegnarsi verso oriente una bianca striscia di luce, una pioggia violenta si scatenò sull'oceano. I vapori che durante la notte si erano condensati sopra quella porzione dell'Atlantico, si scioglievano rapidamente. Quei grossi goccioloni, cadendo sulla seta dei due palloni, producevano degli strani crepitii e rendevano pesante il vascello, il cui gas non aveva ancora cominciato a dilatarsi. O'Donnell, che era sempre di quarto, s'accorse ben presto che scendeva verso l'oceano con notevole velocità. Dopo pochi minuti scorse le onde dell'Atlantico a sole quaranta braccia. Svegliò Mister Kelly e lo informò di quella rapida caduta. "Gettiamo zavorra," disse l'ingegnere. "Ne abbiamo gettati altri cinquanta chilogrammi ieri sera, Mister Kelly," disse l'irlandese. "È necessario alleggerirci, O'Donnell". "Ma fra poco rimarremo senza, se continuiamo questo getto." "Abbiamo ancora trecento metri cubi d'idrogeno." "Vada la zavorra, dunque." Un altro sacco fu gettato. Il Washington s'innalzò con rapidità, attraverso lo strato nuvoloso, inzuppando uomini, coperte e materassi e si arrestò a milletrecento metri, filando sopra le masse vaporose. Lassù il vento soffiava gagliardo, mantenendo la direzione di nord-nord-est, con grande soddisfazione dell'ingegnere che sperava di risalire verso l'Europa, evitando la grande corrente dei venti alisei che potevano spingerlo nell'Atlantico centrale. Alle otto del mattino, l'aerostato era salito di altri millecinquecento metri avendo cominciato il dilatamento dell'idrogeno a causa del calore solare che era ancora intenso, quantunque gli aeronauti si fossero allontanati assai dal Tropico del Cancro. Alle dieci, O'Donnell, che stava seduto a prua discorrendo col mozzo, segnalò un grande transatlantico che filava verso l'occidente con una velocità di quarantadue chilometri all'ora e al basso, a circa ottocento metri dalla superficie dell'oceano, si estendevano ancora qua e là dei nuvoloni gravidi di pioggia, i quali erano separati da brevi distanze. Alle undici, l'ingegnere che da parecchio tempo guardava ostinatamente verso l'est, mostrò a O'Donnell una specie di nebbia, ma che si alzava in forma di cono e che appariva a una grandissima distanza. "Che cos'è?" chiese l'irlandese. "Laggiù si estendono le isole Canarie," rispose l'ingegnere. "Le Canarie!" esclamò O'Donnell. "È impossibile, signore, che vi siamo giunti così presto!" "Giunti? Vi è ancora un bel tratto di via da percorrere, amico mio." "Se si scorge una delle loro montagne, non devono essere molto lontane." "Ma quel picco che voi scorgete è quello di Teneriffa, il quale è tanto alto che lo si scorge dalla distanza di più di duecento chilometri." "Abbiamo del tempo per giungere a quell'arcipelago" "Se mai lo toccheremo, poiché il vento ci spinge al largo di quelle isole." "Formano un gruppo considerevole, quelle terre?" "Le isole sono cinque, la Gran Canaria, Palma, Lanzarate, Geneira, Ferro; poi vengono le isolette di Labos, Roqueta, Alegranza, Santa Giara e Graciosa, ma pare che un tempo fossero undici." "È scomparsa l'undicesima?" "Così si dice." "Non si crede forse alla sua scomparsa?" "Sì e no." "Spiegatevi meglio, Mister Kelly." "Allora vi dirò che le antiche cronache portoghesi fanno menzione di un'isola che si chiamava S. Bernardo. Si dice che alla prima metà del XV secolo, un vecchio marinaio si presentasse al re Enrico confidandogli di aver veduto nei pressi delle Canarie un'isola abitata da antichi portoghesi e sulla quale sorgevano sette opulente città con grandiosi palazzi. Narra ora la leggenda che un ricco cavagliere portoghese, certo Don Fernando de Ulmo, partisse con due caravelle armate a proprie spese, alla ricerca di quell'isola misteriosa che supponeva abitata da portoghesi fuggiti dalla patria durante l'invasione dei mori, cioè nell'VIII secolo. Fernando de Ulmo sarebbe partito, avrebbe sbarcato a S. Bernardo, splendidamente accolto da parte dei suoi compatrioti i quali lo avrebbero nominato loro adelantado. Ma ecco che comincia una storia meravigliosa e assai stravagante. La leggenda dice che, un secolo dopo, Fernando de Ulmo ritornava a Lisbona ... " "Cent'anni dopo?" chiese O'Donnell. "Sì, ma è la leggenda che narra questo amico mio. Si fece conoscere, ma lo trattarono da pazzo: più nessuno si ricordava di lui e del suo viaggio all'isola delle sette opulente città, essendo i suoi amici e i suoi parenti morti da molti anni. Un vecchio, però, si rammentò di aver udito raccontare, nella sua gioventù, che un Ulmo era partito per le Canarie e condusse il navigatore presso una tomba dove era scolpito il suo ritratto, che gli somigliava assai, malgrado l'età. Ulmo ripartì per le Canarie per ritrovare la sua isola, ma era scomparsa. Morì poco dopo mentre sul promontorio di Palma cercava avidamente con gli sguardi le tracce di quella misteriosa terra, e fu sepolto nella cattedrale dell'isola." "Ma credete che sia realmente esistita quell'isola?" "E perché no? Le Canarie sono di natura vulcanica e quell'isola può essere stata inghiottita durante qualche terribile commozione del fondo marino. Gli abitanti dell'arcipelago e i naviganti portoghesi e spagnuoli dicono che, di quando in quando, specie allorché i crateri di Teneriffa eruttano e il terremoto scuote le isole, quell'isola riappare a fior d'acqua per poi tornare a inabissarsi."

La zattera, poiché era proprio quella che il mozzo aveva abbandonata sei giorni prima, era ormai visibile. Era un ammasso informe di legnami, di travi, di pennoni, di pezzi di fasciame, di tavole legate con cordami e catene, e sormontato da un troncone d'alberetto, da cui pendeva una vela stracciata. Undici uomini montavano quella zattera, undici miserabili, coi volti bestiali, le membra ischeletrite dai lunghi digiuni, con le barbe arruffate e coperti di stracci Alcuni impugnavano delle scuri e due tenevano dei fucili; pareva che minacciassero il pallone, decisi a rovinarlo con una scarica, piuttosto di lasciarlo andare. A prua di quello strano galleggiante, gli aeronauti scorsero, non senza un fremito d'orrore, gli avanzi di due scheletri umani gettati dietro a due barili sfondati. Non ci voleva molto a comprendere che quegli sciagurati, rosi dalla fame, si erano pasciuti delle carni di quelle due vittime. "Orrore!" esclamò O'Donnell. "Questa è una seconda edizione del naufragio della Medusa ... " "La fame non discute, O'Donnell" disse l'ingegnere. "Orsù, cerchiamo di soccorrerli nel limite delle nostre forze." "Ci lasceranno liberi poi?" "Taglieremo le funi." "E le nostre àncore?" "Piuttosto di farmi trascinare sulla zattera, preferisco sacrificarle." "Temo che quest'incontro ci porti sfortuna, Mister Kelly." L'ingegnere non rispose. Esaminò rapidamente la sua dispensa, scelse parecchie scatole di carne conservata, ammucchiò in una cassa qualche decina di chilogrammi di biscotti, vi unì dello zucchero e delle scatole di tonno. "Caliamo questi viveri" disse. "Mettendosi a razione, quegli uomini possono vivere qualche giorno e guadagnare le Canarie, che non sono lontane." "Ma non abbiamo funi per calare questa cassa" disse O'Donnell. "La faremo scorrere lungo una fune di un'ancora. Aiutatemi, amici." I naufraghi, comprendendo che il soccorso stava per giungere, avevano cessato le loro grida minacciose, ma non abbandonarono i due coni, che avevano tratti presso la zattera per impedire la fuga dell'aerostato. Coi visi in aria, gli occhi fissi, non perdevano di vista una mossa degli aeronauti. L'ingegnere e O'Donnell, legata la cassa attorno alla fune dell'ancora poppiera, la lasciarono andare gridando: "Attenti alle teste!" La cassa filò lungo la fune e piombò sopra il cono. I naufraghi vi si precipitarono sopra urtandosi e respingendosi per essere i primi a metter le mani su quei viveri, la tirarono a bordo e con pochi colpi di scure la sfondarono. Ad un tratto un urlo di furore scoppiò fra quei disgraziati. "E l'acqua! ... Noi vogliamo dell'acqua!" urlarono, tenendo le mani raggrinzite verso gli aeronauti. "Ne abbiamo appena per noi" disse l'ingegnere. "Dateci la vostra acqua, canaglie!" tuonò Mac-Canthy. "Ti schiaccio nel cranio una palla, brigante!" urlò O'Donnell. "La canaglia sarai tu!" "A me amici!" gridò il marinaio. "Tiriamoli giù!" "Sì, giù, giù, o dateci la vostra acqua!" urlarono i marinai furiosi. L'ingegnere raccolse il winchester e lo armò risolutamente, mentre O'Donnell impugnava una scure, pronto a tagliare le funi. "Il primo che tocca le àncore lo uccido come un cane!" tuonò Mister Kelly con tono minaccioso. I naufraghi, lungi dal calmarsi a quella minaccia, inferocirono maggiormente: si precipitarono sulle funi e diedero una tale strappata, da abbassare l'aerostato di parecchi metri. "Tagliate, O'Donnell!" gridò l'ingegnere. L'irlandese con due colpi di scure assestati sui bordi della navicella, sui quali poggiavano le due funi, liberò l'aerostato, il quale fece un balzo in aria. Vedendo fuggire e precipitare le funi, i naufraghi emisero urla feroci. I due uomini armati alzarono le armi e fecero fuoco. Una palla passò fischiando rasente il bordo poppiero della navicella e si perdette altrove; l'altra non fu udita. O'Donnell, furibondo, armò una carabina, e la puntò contro la zattera, ma l'ingegnere lo trattenne. "È inutile" disse. "Lasciateli: la fame e la sete non ragionano." "Sono canaglie, Mister Kelly, che non conoscono la riconoscenza. Avrei cacciato ben volentieri una palla nel corpo a quel brutale Mac-Canthy." "È lui che voleva mangiarmi" disse il mozzo. "Ma spero che sarà lui il mangiato, Walter" disse O'Donnell. Il Washington intanto s'innalzava rapidamente, alleggerito com'era di quei duecento e più metri di funi e di coni. I naufraghi nondimeno continuavano le loro minacce e tiravano coi loro fucili, quantunque l'aerostato fosse ormai fuori portata. La loro rabbia parve che non avesse più limiti, dopo che si erano accorti della presenza di Walter, e si udiva la rauca voce di Mac-Canthy che urlava: "Scendi, cane di un mozzo!" Vedendo il Washington dirigersi verso il sud, quegli uomini, che parevano diventati pazzi, si precipitarono sulla vela, che in un istante fu bracciata sul filo del vento, poi s'armarono di tavole e di pennoni, mettendosi ad arrancare con furore: però dovettero ben presto convincersi dell'inutilità dei loro sforzi. La distanza cresceva rapidamente, di secondo in secondo: le loro grida divennero fioche, poi non si udirono più; la zattera rimpicciolì a poco a poco e finalmente fu perduta di vista. "Che l'oceano v'inghiotta, canaglie!" esclamò O'Donnell che era ancora esasperato. "Bel modo di ricompensarci dei viveri che abbiamo loro gettato." "Le privazioni li hanno resi feroci, O'Donnell disse l'ingegnere. "Nel loro caso noi, forse, ci saremmo condotti egualmente." "Che il diavolo se li porti! Ecco delle àncore perdute, che forse rimpiangeremo." "Questo é vero, O'Donnell, poiché ormai noi non possiamo più fermarci. Siamo in balìa dei venti." "Perdita grave e ... " Si era arrestato col viso in aria, fiutando l'atmosfera. Ad un tratto impallidì ed emise una sorda imprecazione. "Mister Kelly" disse con voce alterata "sentite odore di gas." "Sì, sì" disse l'ingegnere. "Che una valvola si sia aperta o che ... ?" "Una valvola? ... È impossibile. O'Donnell. Qualcuno ha guastato i nostri palloni." "Una palla di quelle canaglie, forse?" Kelly, che non era meno agitato dell'irlandese, salì sull'asta che sosteneva la scialuppa, e ascoltò con profondo raccoglimento. In alto, udì dei leggeri scoppiettii. "Infami!" esclamò. "E io li ho soccorsi!" Ridiscese in preda ad una sorda collera: se la zattera si fosse trovata ancora sotto il pallone, non avrebbe forse più trattenuto O'Donnell, che voleva rispondere alle palle di quei miserabili con la grossa carabina. "Ebbene?" chiese l'irlandese con ansietà. "L'idrogeno fugge" rispose l'ingegnere. "Ci hanno traversato un pallone quei naufraghi?" "Sì e forse tutti e due." "Sono ferite gravi?" "Sì, O'Donnell, perché fra poco quei fori s'ingrandiranno, e noi cadremo sull'oceano." "Se provassimo a turarli? Non v'è qualche mezzo?" "Sì, cucirli, ma chi salirà fino ai fusi?" "Io, Mister Kelly." "No, Mister O'Donnell" disse il giovane Walter, "è affar mio." "Non avrai paura delle vertigini, ragazzo mio?" chiese l'ingegnere . "Sono un mozzo, Mister Kelly." "Ma ci troviamo ad una spaventevole altezza, Walter: a 3300 metri." "Non avrò paura" rispose il ragazzo con voce ferma. "Ma può scivolarti una mano o un piede e tu potresti piombare nell'oceano" disse O'Donnell. "Lascia che vada io." "Voi siete troppo pesante, O'Donnell" disse l'ingegnere "e potete squilibrare il fuso. Preferisco che salga Walter, che non pesa molto." "Grazie, Mister Kelly" rispose il ragazzo. L'ingegnere frugò in una delle casse ed estrasse del filo di seta, degli aghi e una scatoletta contenente una vernice assai densa e molto attaccaticcia, che mandava un acuto odore di resina. Consegnò quei diversi oggetti al mozzo, dicendogli: "Non perdete tempo, mio bravo ragazzo. Ogni minuto che passa è un metro cubo di gas che sfugge." Walter intascò gli oggetti, si levò le scarpe per non guastare la seta dei palloni e per essere più sicuro dei piedi, poi si aggrappò alle funi e s'arrampicò coraggiosamente sull'asta sostenente la scialuppa. "Hai paura?" gli chiesero O'Donnell e l'ingegnere. "Se ti coglie un principio di vertigine, scendi." "Il vuoto non mi spaventa" rispose il ragazzo con voce ferma. S'aggrappò alla rete e s'innalzò sopra quello spaventevole abisso aperto sotto i suoi piedi. Di maglia in maglia raggiunse il margine inferiore del fuso di tribordo e si issò sul suo fianco, cercando i buchi aperti dalla palla. Il fuso, sotto quel peso aggrappato al suo fianco, si spostò, inclinandosi verso l'esterno, ma essendo solidamente legato all'altro non si rovesciò. "Ci sei?" chiese l'ingegnere, che non scorgeva più il mozzo. "Sì, Mister Kelly" rispose Walter. "È un buco o uno strappo?" "E uno strappo lungo sei centimetri; e ne vedo uno più lungo sull'altro fuso." "Puoi turare le ferite?" "Lo spero, Mister Kelly." Il mozzo si mise subito all'opera. Le palle, invece di aver attraversato i fusi aprendo due fori, come dapprima l'ingegnere aveva sospettato, li aveva sfiorati di fianco, producendo però due strappi considerevoli, attraverso i quali il gas fuggiva con grande impeto, scoppiettando. Si potevano turare ma, prima che l'operazione fosse terminata, una parte considerevole di idrogeno doveva fuggire, compromettendo grandemente la stabilità del Washington il quale cominciava ad abbassarsi rapidamente, inclinandosi sul tribordo. Walter, legatesi un fazzoletto sulla bocca e sul naso per non venire asfissiato dal gas che irrompeva attraverso l'apertura, si mise rapidamente al lavoro, mentre l'ingegnere e O'Donnell preparavano i cilindri contenenti l'idrogeno compresso per iniettarlo nelle manichette dei fusi. Malgrado il mozzo cucisse rapidamente, il Washington si piegava sempre più e s'abbassava rapidamente, anzi precipitava. In cinque minuti era calato di 1500 metri e non si arrestava ancora. L'ingegnere che vedeva avvicinarsi l'oceano con grande rapidità, aprì il primo cilindro e lanciò nel fuso riparato i primi quaranta litri di idrogeno. Il Washington si raddrizzò e la sua discesa si arrestò, anzi si mise a salire, dapprima lentamente, poi con una certa rapidità, finché raggiunse i 3200 metri. Il mozzo aveva terminato la cucitura. La coprì con parecchie pennellate di vernice, si assicurò che non vi fossero altre aperture, poi ridiscese, passò altro fuso e ripeté l'operazione sulla seconda ferita, che era più grave dell'altra. Pareva fosse stata fatta con un proiettile tagliente. "Hai finito?" gli chiese l'ingegnere. "Sì, Mister Kelly." "Grazie, mio bravo ragazzo. Rinforziamo anche il secondo fuso." "Resisteranno le cuciture?" cinese O'Donnell. "Non ho la pretesa che non lascino sfuggire il gas" disse l'ingegnere, "ma infine la perdita sarà minore e, forse, potremo sostenerci in aria qualche giorno ancora. "E poi? ... il vento ci spinge sempre al sud, Mister Kelly e la costa è lontana." L'ingegnere non rispose, ma emise un profondo sospiro.

I CORSARI DELLE BERMUDE

682292
Salgari, Emilio 1 occorrenze

§In quel momento i due marinai della Tuonante si erano fermati ad osservare una vecchia casamatta abbandonata. All'intimazione, Testa di Pietra e Piccolo Flocco si erano scambiati un rapido sguardo, poi il primo, piantate le callose manacce sui fianchi, chiese: - E perché non si può passare? - Tale è l'ordine del governatore - rispose l'inglese, un giovane biondo e roseo, cogli occhi azzurri e magro quasi quanto la cameriera di miss Wentwort. - Dovevo andare a trovare mio fratello per portargli un paio di pagnotte - disse il bretone. - Me le sono levate dalla bocca per serbargliele. - Non si passa! - replicò il testardo, tenendo sempre puntata la baionetta. - Ti regalo un dollaro. - Nemmeno dieci: non voglio correre il pericolo di farmi fucilare. Testa di Pietra, con una mossa fulminea afferrò a due mani la baionetta, alzando subito il fucile per non ricevere una scarica, mentre Piccolo Flocco girava dietro al soldato, lo afferrava per le gambe e lo sollevava. Il disgraziato, lasciò andare l'arma, e cadde al suolo. - Presto, nella casamatta! - disse Testa di Pietra. Lo afferrarono, e lo portarono di corsa dentro la piccola costruzione, imbavagliandolo con uno dei larghi fazzoletti che usano i marinai. - Hai una sagola? - chiese il bretone. - Che domanda! ... Sai bene che i gabbieri ne hanno sempre nelle loro tasche. - Lega questo papagallo, mentre lo tengo fermo. - E che cosa ne faremo di questo pappagallo? - Lo lasciamo qui. - La casamatta non è frequentata, ed egli correrà forse il rischio di morire di fame - disse il giovane gabbiere. - Questo è affare suo: la guerra. te l'ho già detto, ha le sue crudeli esigenze. - Lo sfido a slegarsi. - Allora possiamo riprendere la nostra ispezione. Voglio raggiungere il corridoio che mette nella camera da mina, per vedere se l'hanno ricoperta ed in quale stato si trova. Trascinarono l'inglese, legato come un salame, nell'angolo più oscuro della casamatta, poi tornarono all'aperto. Primo pensiero di Testa di Pietra fu quello d'impadronirsi del fucile per farsi credere una sentinella. Quella precauzione era stata buona, poiché centocinquanta metri più innanzi i due marinai s'imbatterono in un altro soldato inglese. - Alt! Non si passa! - gridò. - Ordine del governatore. - Non vedi che sono anch'io di guardia? - rispose prontamente il bretone. - E quel giovane che ti accompagna? - È un marinaio che devo condurre da un ufficiale, avendo una lettera urgente da consegnargli. - Quando mi dici che si tratta di una lettera urgente, prosegui pure, camerata. - Grazie: quando ritorno ti pago da bere. So che i viveri scarseggiano in Boston, ma vi si trovano ancora bottiglie di gin e di brandy. Ripresero la via, salutati da una specie di grugnito da parte della sentinella. Erano giunti ai ridotti. Era là che avevano fatto scoppiare la mina. Testa di Pietra s'avvide subito che gl'inglesi, durante quelle quarantotto ore, avevano sgombrato le macerie e rimontato le casematte. - Perbacco! - esclamò. - Come hanno lavorato questi bravi soldati, sebbene affamati! Mi pare che, per il momento, non vi sia nessuno. Si può andare a vedere. - Che il passaggio sia stato riaperto? - chiese Piccolo Flocco. - Ho questa speranza. Esaminò attentamente le due casematte, ed entrò in quella segnata con un 24 dipinto in rosso. - Lì finiva il corridoio - disse. Entrò risolutamente, poi usci subito, e disse a Piccolo Flocco: - Va' a vedere tu. Io rimango di guardia e non lascio passar nessuno. - Sta bene - rispose Piccolo Flocco e scomparve. Il bretone passeggiava da una diecina di minuti, quando un soldato tedesco si cacciò dietro la trincea che copriva le casematte. - Alt! - gridò con voce tuonante il mastro. - Non si passa: ordine del governatore. - Terteuffe! Io afere sparato tutt'oggi e crepare di fame. - Va' a crepare in un altro luogo, ma non qui - rispose il mastro. - Mia gamella trovasi nella casamatta. - Andrò a cercarla io: non fare un passo innanzi, o sparo. Il tedesco, rispettoso della consegna, si sedette su un cumulo di terra, mentre il bretone entrava nella casamatta per cercare la gamella. Ci volle un bel po' a trovarla, essendovi poca luce; ma finalmente uscì, gridando: - Prendila, e vattene al diavolo! Nessuno rispose alla chiamata. - Che sia scappato? - si chiese il bretone. Fece il giro del mucchio di terra, e lo trovò disteso in una pozza di sangue e senza vita. Una palla l'aveva nettamente decapitato. Tornò precipitosamente verso la porta della casamatta per paura di subire la medesima sorte, ed attese impaziente il ritorno di Piccolo Flocco. Trascorsero altri quindici minuti poi il giovane marinaio ricomparve. - Dunque? - gli chiese subito il bretone. - Hanno sgombrato il passaggio dai rottami e vi hanno collocato una nuova mina - rispose Piccolo Flocco. - Hai attraversato la camera? - Certo. - Anche il secondo passaggio è aperto? - Lo scoppio non lo ha affatto danneggiato. - Ne sei sicuro? - Sicurissimo. - Allora siamo a posto - rispose il bretone. - Prima di mezzanotte saremo a bordo della corvetta insieme con la bellissima miss e col mio merluzzo secco. - Passerà la signora? - Se passo io, che sono grosso, passerà anche lei. Giungerà alla estremità della galleria colle vesti strappate, ma si rifarà a bordo. Sai bene che abbiamo più di venti casse di vestiti, di cappelli e di biancheria. Volsero le spalle alle casematte e ripresero la via del ritorno, mentre il bombardamento aumentava d'intensità. Testa di Pietra ed il giovane gabbiere, rientrarono in città. Annottava, e solo le bombe rompevano le tenebre. Le ultime candele di sego di Boston erano più utili a rinforzare il brodo degli assiani, che a dare la luce. Dopo aver girato per parecchie vie, giunsero finalmente in prossimità dell'Albergo delle trenta corna di bisonte. Con loro grande sorpresa, videro parecchie persone ferme dinanzi alla porta, che parlavano animatamente. Il bretone provò subito un gran colpo al cuore. - Dio! - mormorò. - Che cosa è successo? Piccolo Flocco, non ho il coraggio di avvicinarmi. - Che sia avvenuta qualche rissa fra ubriachi? - rispose il gabbiere. - Io penso al comandante. - Che un colpo di sole mi ammazzi! Non mi ricordavo in questo momento che il capitano fosse lì dentro. - Che fare? - chiese Testa di Pietra, il quale si trovava più imbarazzato che mai. - Non ho mai avuto paura; eppure, in questo momento tremo. Guardò meglio. I borghesi mescolati ad alcuni soldati tedeschi cominciavano ad allontanarsi: i primi per andare a cena, ed i secondi per obbedire alla ritirata. - Possiamo avvicinarci anche noi - disse. Voglio sapere che cosa è successo. Alzò il cane della sua pistola, respinse tre o quattro borghesi che si ostinavano a rimanere dinanzi all'Albergo delle trenta corna di bisonte, intimando loro con voce minacciosa di tornare subito alle loro case, ed entrò seguito da Piccolo Flocco. La sala era in pieno disordine. Tavolini e sedie erano rovesciati, molte bottiglie e piatti in frantumi. Il taverniere stava appoggiato al banco, guardando tristemente quella rovina. Non si era ancora deciso a mettere un po' d'ordine in quella stanzaccia. Vedendo entrare il bretone, aprì le braccia, facendo un gesto di disperazione. - L'hanno preso! - gemette mastro Taverna. - Quel bravo gentiluomo! Testa di Pietra si diede due poderosi pugni sul capo e diventò livido. - Preso il mio capitano! esclamò. - Sì, mio signore. - Quando? - Un'ora fa. - E chi è venuto ad arrestarlo? - Dieci soldati inglesi comandati da un capo della polizia. - Si è difeso? - Sembrava un giaguaro. Ne ha infilzati due, ed ha bruciato le cervella ad un terzo; poi ha dovuto arrendersi oppresso dal numero, quantunque si fosse servito dei miei piatti e delle mie bottiglie come mitraglia. - Preso! Il capitano preso! - esclamò Piccolo Flocco, il quale non era meno livido ed atterrito del bretone. Testa di Pietra si era lasciato cadere su una sedia, come se fosse stato preso da malore, ma subito si rialzò chiedendo: - E la miss? - Arrestata anche lei! - rispose mastro Taverna. - È terribile! - aggiunse Piccolo Flocco. - Non hanno lasciato qui che quel tedesco, che continua a dormire, e quella signora magra ed attempata. - La cameriera? - gridò il bretone. Si scagliò su per la scala ed entrò come una bomba nella camera che il Corsaro aveva destinato alle due donne. - Miss Nelly, - disse il bretone - è proprio vero che hanno portato via la vostra padrona? - Sì, marinaio, - rispose la donna, tergendosi le lagrime. - Sono stati i soldati del marchese che l'han rapita. Ah, povera padrona! Il bretone si era messo a passeggiare per la stanza dandosi continuamente pugni sul capo e domandandosi con voce rabbiosa - Che fare? Che fare? Me lo fucileranno di certo quel bravo comandante che amo come un figlio. Bisogna salvarlo; ma come? Ad un tratto interruppe la sua passeggiata di orso in gabbia e si fermò dinanzi alla cameriera. - Le sentinelle del castello vi conoscono? - le domandò. - Oh! quasi tutti i soldati. - Dunque non avreste nessuna difficoltà ad entrare nella torre. - No. - Uditemi bene, mia dolce Nelly. Ormai la ritirata è suonata, quindi è troppo tardi, ed anche troppo pericoloso avventurarsi per le vie di Boston. Domani mattina vi recherete al castello e cercherete di vedere la vostra padrona, che non sarà certamente stata cacciata in prigione come una donna qualsiasi ... - Oh no! Il marchese non lo permetterebbe. - Benissimo! - rispose Testa di Pietra. - Cercherete di sapere dove hanno rinchiuso il baronetto e quali istruzioni hanno gl'inglesi: verso mezzogiorno tornerete qui. Quel valoroso non deve morire, né fucilato, né impiccato. - Oh no! la mia padrona ne morrebbe di dolore. Ama tanto sir William! - Noi rimarremo in Boston fino a domani sera, perché sarà necessaria la notte per raggiungere la nostra nave. Riposate tranquilla, mia Nelly, e pensate a me. Il mastro fece un goffo inchino e discese nella taverna, dove trovò Piccolo Flocco e mastro Taverna impegnati in una animatissima conversazione. - Giungi in tempo - disse il giovane gabbiere. - L'albergatore mi faceva or ora osservare che i soldati o i policemen potrebbero improvvisamente ritornare. - Lo so, per il Borgo di Batz! - esclamò Testa di Pietra. - Mi aspetto di vederli giungere da un momento all'altro. - Perciò mastro Taverna ci propone di nasconderci in un luogo che nessun poliziotto del mondo, per quanto abile, saprebbe scoprire. - È vero - confermò l'albergatore. - Dove si trova? - chiese il bretone. - Nel mio giardino. - Vi è un sotterraneo forse? - No, un pozzo, il quale sopra il livello dell'acqua ha una specie di stanza. - Vi è molta acqua nel pozzo? - Forse un metro e non più. È un mese che non cade una goccia d'acqua. - Hai una fune solida? - Si mio signore. - Mandaci giù bottiglie, candele, tabacco, coperte, e non dimenticarti i salciciotti e il prosciutto. - E di quel tedesco che dorme ancora che cosa devo farne? - Gli rendo il suo vestito e riprendo il mio. Quando si deciderà a svegliarsi, lo manderai con Dio, dopo d'avergli offerto qualche bicchiere di gin. Il bretone entrò nella stanza-magazzino, si spogliò rapidamente e si rimise il suo costume da marinaio. - Si può andare - disse rientrando nella sala. - Giacché i policemen non giungono, approfittiamone per sottrarci alle loro ricerche. Mastro Taverna chiuse la porta e la sprangò, essendo già ora inoltrata; scese nella cantina a prendere una solida fune lunga una ventina di metri, poi disse: - Andiamo, miei gentlemen. Fece loro attraversare uno stretto corridoio e li condusse in un orticello che si trovava dietro l'albergo. Nel mezzo vi era un pozzo. Una solida spranga di ferro ne traversava la bocca piuttosto larga. Testa di Pietra, aiutato da Piccolo Flocco, fece alla fune diversi nodi, assicurò solidamente un capo alla spranga e gettò l'altro nel pozzo. - Scendete dieci metri circa - gli disse mastro Taverna, porgendogli un pezzo di candela. - Poi ci penserò io. Il bretone, s'aggrappò alla fune, e dopo mezzo minuto entrava in una specie di camera umidissima costruita in un fianco del pozzo.

I PREDONI DEL SAHARA

682445
Salgari, Emilio 1 occorrenze

"La coraggiosa donna s'avanzò quindi nel deserto raggiungendo felicemente l'oasi di Gharbi, ma colà si vide subito abbandonata, con un pretesto qualunque, da quel capo, e affidata alla protezione di un marabutto chiamato Hang-Amed. "Poco tempo dopo essa veniva raggiunta da otto Tuareg che dicevano di aver ricevuto l'ordine di scortarla. "La Tinnè che non dubitava d'un tradimento, accettò la scorta e riprese la marcia con ventisette arabi ed altrettanti cammelli, forza imponente che avrebbe dovuto tenere in freno i predoni, se tutti quegli uomini fossero stati fedeli. "Al terzo accampamento dopo Murzuk, i Tuareg della scorta, quantunque avessero ricevuto ricchi regali, cominciarono a mostrarsi esigenti e ad assumere un contegno minaccioso. Si erano messi d'accordo col tunisino per spogliarla. "Resi arditi dalla complicità di quel miserabile, chiesero alla viaggiatrice cinquanta talleri ed un burnus nuovo, minacciando in caso contrario di abbandonarla nel deserto. È così, El-Haggar?" "Sì, signore," rispose il moro. "Il tunisino, anima vile e perversa, era d'accordo con loro." "La Tinnè, donna energica e risoluta, rifiutò recisamente, promettendo però di fare loro altri regali quando la carovana fosse giunta salva a Scenukhen. Tuttavia, temendo qualche brutta sorpresa da parte di quei ladroni, fece rimettere al loro capo un presente di valore. "Il giorno seguente i cammellieri, che si erano pure accordati coi Tuareg, cominciarono a dare segni d'insubordinazione, rifiutandosi dapprima di partire, poi sventrando alcuni otri. "La Tinnè sospettò qualche cosa, perché si è saputo che aveva divisato di tornare a Murgest, ma l'infame tunisino fu così abile nel rassicurarla, da indurla a riprendere la marcia verso il sud. "Il lo agosto erano già giunti nella valle dell'Aberdisciuk, lontani dalle oasi abitate. "La Tinnè aveva dato ordine dopo una notte tranquilla di levare le tende e di caricare i cammelli. Doveva essere l'ultimo ordine che dava; la sua morte era stata ormai decisa dai Tuareg e dal tunisino. "Già stavano per rimettersi in marcia, quando una viva questione insorse fra due cammellieri, pel carico dei bagagli. "Uno dei due marinai olandesi volle interporsi per rappacificarli. Un Tuareg si slanciò allora contro il disgraziato colla lancia alzata, gridandogli "Che hai tu per immischiarti in una questione sorta fra mussulmani?" "Aveva appena pronunciato quelle parole che il povero olandese cadeva al suolo trafitto. "Il suo compagno, Ary Jacobs, che si trovava già a cavallo, si slanciò verso l'assassino tentando di afferrare il fucile che aveva appeso alla sella, ma prima che avesse potuto armarlo cadde a sua volta, sotto un colpo di scimitarra e uno di lancia. "Alle grida delle donne e degli schiavi liberati, la signora Tinnè uscì dalla tenda, chiedendo che cosa succedesse. "I Tuareg ed i cammellieri si erano già precipitati sulle casse e le saccheggiavano, credendo che fossero piene d'oro come aveva dato loro ad intendere il tunisino, mentre i servi fuggivano vigliaccamente in tutte le direzioni. "La signora Tinnè comprese subito che la sua ultima ora era suonata, tuttavia cercò di calmare quei miserabili e d'imporsi colla propria energia. "Un arabo, certo Hman, della tribù dei Bu Sef, le passò dietro e le vibrò coll'jatagan un colpo sulla nuca facendola cadere al suolo svenuta e sanguinante. "Poche ore dopo la sfortunata signora spirava senza soccorso alcuno, mentre le sue ricchezze passavano nelle mani dei cammellieri e dei Tuareg. È così, El- Haggar?" "Sì, signore," rispose il moro. "E tu non l'hai difesa?" chiese Esther, con indignazione. "Ti credevo più coraggioso, El-Haggar." "Io ero stato abbattuto da un colpo di lancia, la cui punta mi aveva trapassato la spalla," disse il moro. "Quando tornai in me, dopo molte ore, la signora Tinnè era già morta." "Ed è rimasto impunito quell'assassinio infame?" chiese Ben. "Furono arrestati i servi, ai quali i Tuareg avevano dato alcuni cammelli perché tornassero a Murzuk, ma gli altri scorrazzano ancora il deserto," disse il marchese. "Anzi il dottor Bary incontrò più tardi l'uccisore della Tinnè nell'oasi di Ghat e lo udì ancora vantarsi di quel delitto." "E il tunisino?" chiese Esther. "Di quel miserabile, che osò perfino spogliare la Tinnè mentre era ancora agonizzante, non si seppe più nuova." "Che canaglie!" esclamò Ben. "Ah! Non è il solo delitto rimasto impunito," disse il marchese. "Anche l'assassinio dei signori Dournaux Duperrè e di Joubert non è stato vendicato." "Chi erano costoro?" chiesero Ben ed Esther. "Due coraggiosi francesi che si erano proposti di esplorare il Sahara al sud dell'Algeria e che furono vigliaccamente assassinati dai Tuareg. "Avevano già visitato felicemente parecchie oasi del Sahara, Dournaux studiando e Joubert negoziando, perché era un abile trafficante, quando ebbero la malaugurata idea di prendersi una guida tuarik, certo Macer-Ben-Tahar, un traditore forse peggiore del tunisino della signora Tinnè. "Si erano già molto inoltrati nel deserto, quando s'accorsero che quella guida cercava d'ingannarli e che per meglio riuscire nei suoi disegni cercava di allontanare la loro seconda guida. Amed-Ben-Herma, la quale invece aveva dato prove di fedeltà non dubbia. "Decisero quindi di sbarazzarsene e giunti a Ghedames la denunciarono al cumacan. Fu un'imprudenza di certo ed il magistrato, che conosceva l'animo vendicativo dei Tuareg, non mancò di avvertirli del pericolo. "Macer aveva infatti giurato di vendicarsi dei suoi ex padroni e non mancò alla promessa. "I signori Dournaux e Joubert si erano allontanati da Ghedames di alcune giornate, quando si videro raggiungere da sei tuarik che parevano affamati e miserabilissimi. "Avendo chiesto ai due francesi ospitalità con pianti e lamenti, furono ricevuti nel campo e provvisti di cibi. Erano sei assassini mandati dal vendicativo Macer. Di notte, mentre i due francesi dormivano, quei miserabili invasero la tenda e li trucidarono barbaramente a colpi di pugnale." "E nemmeno quei disgraziati furono vendicati?" "I loro assassini scomparvero nell'immensità del deserto e più nessuno si occupò di loro." "Abbiamo fatto bene a dare loro quella severa lezione," disse Rocco. "Se avessi saputo, ciò prima, invece che sui cammelli avrei sparato contro gli uomini. Forse quei bricconi avevano preso parte all'assassinio dei signori Dournaux e Joubert e fors'anche a quello della missione Flatters e ... " Rocco si era bruscamente interrotto. I suoi sguardi si erano incontrati a caso con quelli del sahariano, ed era rimasto stupito dal lampo terribile che balenava negli occhi di costui. "Che cosa avete, El-Melah?" chiese. "Perché mi guardate così?" Tutti si erano voltati verso il sahariano e rimasero colpiti dall'espressione cupa del suo volto. "È nulla," disse El-Melah, ricomponendosi. "Udendo questi racconti sanguinosi, ho avuto un'impressione sinistra." "Comprendo," disse il marchese. "Avete assistito troppo di recente a una simile strage." "È vero, signore," disse il sahariano. "Vado a riposare, se me lo permettete." S'alzò quasi a fatica e uscì dalla tenda con passo malfermo. "Flatters!" mormorò coi denti stretti, gettando all'intorno uno sguardo smarrito. "Che non lo sappiano mai, almeno fino a Tombuctu." Alle tre del mattino, dopo un riposo di sei ore, il marchese faceva suonare la sveglia, desiderando giungere ai pozzi di Marabuti prima che il sole, che fra poco doveva mostrarsi, tornasse a scomparire. Durante la notte nessun allarme era stato dato dagli uomini di guardia. Alle quattro la carovana, dopo una leggera colazione, si rimetteva in cammino scendendo una immensa pianura che, in tempi certo antichissimi, doveva essere stata il fondo d'un vasto serbatoio d'acqua salata, a giudicare dalle masse di sale che si vedevano sparse fra le sabbie. Il marchese e Ben si erano ricollocati alla retroguardia e Rocco come sempre all'avanguardia a fianco di El-Haggar. Le vicinanze dell'oasi di Marabuti s'indovinavano facilmente pel numero considerevole d'animali che si vedevano correre in mezzo alle dune. Di quando in quando, ma a grande distanza, e quindi fuori di portata dai fucili, si vedevano fuggire bande di struzzi e di grosse ottarde. Talora invece erano truppe di sciacalli dalla gualdrappa, specie di cani selvaggi colla testa da volpe, gli orecchi grandissimi, gli occhi grossi, le code lunghissime, ed il pelame rossastro, fitto e morbido, che diventava giallognolo sotto il ventre, col dorso coperto da una specie di gualdrappa nera a strisce bianche, del più curioso effetto. Al pari dei caracal questi sciacalli non sono pericolosi per gli uomini, tuttavia non mancano d'audacia e osano entrare perfino nei duar onde mangiare ai poveri montoni la grossa coda, un boccone squisito e molto apprezzato dai sahariani. Anche qualche iena striata di quando in quando si mostrava sulla cima delle dune, facendo udire il suo riso sgangherato; ma all'appressarsi della carovana subito s'allontanava al galoppo. A mezzodì El-Haggar, che si era spinto innanzi alcune centinaia di metri, segnalò una linea di palme, la quale spiccava vivamente sul purissimo orizzonte. "L'oasi!" gridò, con voce giuliva. "Presto! là avremo acqua fresca e selvaggina!" Anche i cammelli avevano fiutato la vicinanza dell'acqua. Quantunque stanchissimi, affrettarono il passo, mentre i mehari non si trattenevano che a grande stento. "Ben," disse il marchese, "precediamo la carovana. Sono impaziente di godermi un pò d'ombra e di bere una buona tazza d'acqua." "Sono con voi, marchese," rispose l'ebreo. Spronarono i cavalli, lanciandoli a corsa sfrenata. Le palme ingrandivano a vista d'occhio, spiegandosi in forma d'un vasto semicerchio. L'effetto che produceva quel verde in mezzo alle aride ed infuocate sabbie del deserto era così strano, che il marchese stentava a credere d'aver dinanzi a sé delle vere piante e dubitava che si trattasse invece d'uno dei soliti giuochi del miraggio. "Si direbbe che quell'oasi sia un'isola perduta sull'oceano," disse a Ben. "Ed è anche popolata, marchese," rispose l'ebreo, rattenendo violentemente il cavallo. "Vedo dei cammelli, in mezzo a quelle piante." "Che appartengano a qualche carovana proveniente dalle regioni meridionali?" "O che siano i nostri Tuareg? Possono averci preceduti e senza difficoltà, avendo tutti dei buoni mehari." "Se sono essi daremo battaglia e questa volta non saranno gli animali che cadranno." Ben non si era ingannato. Parecchi cammelli e mehari, montati da uomini vestiti di ampi caic bianchi e coi volti quasi interamente nascosti da pezzuole legate dietro la nuca, si erano schierati dinanzi ai gruppi di datteri e di palme che formavano l'oasi. Non dovevano essere quelli che li avevano inseguiti, perché erano tre volte più numerosi e per la maggior parte armati di lance. Anche gli uomini della carovana si erano accorti della presenza di quegli stranieri. Rocco ed El-Haggar accorrevano in aiuto del marchese e di Ben, l'uno col mehari e l'altro montato sull'asino. Dieci Tuareg, preceduti da un uomo di alta statura che portava un turbante verde, un capo di certo, s'avanzavano tenendo le lance in pugno. Quando giunsero a cento passi dal marchese, l'uomo dal turbante. verde lo salutò con un "Salam-alek" molto cortese. Poi, assumendo improvvisamente un'aria spavalda, gridò: "I pozzi sono occupati da noi e per ora ci appartengono: che cosa volete quindi voi, figli del sultano del Marocco?" "Noi siamo assetati, desideriamo bere," rispose El-Haggar. "L'acqua del deserto appartiene a tutti ed i pozzi sono stati costruiti dai nostri padri." "I vostri padri li hanno abbandonati ai Tuareg e noi li abbiamo occupati. Volete bere? Sia, ma l'acqua la dovrete pagare." "Che cosa chiedi?" "Le vostre armi e la metà dei vostri cammelli." "Ladro!" gridò il marchese, che non poteva più frenarsi. "Ecco la mia risposta!" Con un rapido gesto aveva alzato il fucile, mirando il capo. Già il colpo stava per partire quando El-Melah, che era giunto guidando il cammello di Esther, si precipitò innanzi, gridando: "Amr-el-Bekr, non mi conosci più? Pace! Pace!"

IL VENTRE DI NAPOLI (VENTI ANNI FA - ADESSO - L'ANIMA DI NAPOLI)

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Serao, Matilde 1 occorrenze
  • 1906
  • FRANCESCO PERRELLA EDITORE
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Non vi è venditrice di acqua minerale, di noci, di frutta fracide, di ciambellette, di spassatiempo che guadagni, quando li guadagna, più di dodici o quindici soldi al giorno e, se è sola, se è vedova, se è abbandonata dal marito, come potrebbe pagarne diciassette, al giorno, per il pigione di casa? In breve: come era naturale, non un solo luciano , non una sola luciana è andata ad abitare al Borgo Marinai. Non uno, una! Hanno preferito, ostinatamente, le loro vecchie, dirute, sudicissime case che, per diciotto anni, hanno aspettato il piccone, ove pagavano nove o dieci lire il mese, di pigione - è TUTTO ciò che può pagare il popolo napoletano NOVE o DIECI LIRE il mese! - e negli ultimi due anni, man mano si sono ritirati più indietro, nelle medesime catapecchie, e scacciati dalle demolizioni, sono rientrati, rientrano la notte ad abitare le rovine, e si gittano alle ginocchia dei demolitori, per non essere perseguitati dalle guardie, dai carabinieri, e piangono, e gridano, e urlano, non vogliono andar via, non sanno andar via, e alcuni di essi, o pietà grande, abitano, adesso, nelle grotte onde è forato il monte Echia che sovrasta santa Lucia, e talvolta una di queste grotte frana sulle teste, sui corpi di questi miseri luciani che dormono, e li uccide. Intanto dirimpetto, sotto il forte Ovo, il Borgo Marinai scintilla di lumi che si riflettono nelle acque del mare. Chi vi abita, chi vi vive, mai? Pittori che scelsero quei quartini per istudio, poichè il posto è pittoresco; qualche loro modella; delle ballerine o delle chanteuses del vicino cafè chantant dell'Eldorado, che prendono in affitto, per un mese, per quindici giorni, una cameretta con cucina; qualche donnina di facile vita e misera fortuna; e altra minuta gente, non del popolo. In quanto alle botteghe, esse in un vasto angolo, sono tutte trasformate in osterie grandi e piccole, alcune carissime, altre modeste, altre vere taverne e vi si aspira un'aria mefitica di cucine più o meno malsane, e nel piccolo porto cadono tutti i detriti di queste taverne e ciò contrista, affligge, avvilisce i due eleganti clubs dei canottieri che sono sulla riva accanto. A ogni modo il Borgo Marinai è vivido, lieto, curioso: e inutile, infine, anche al santo scopo a cui serviva. I luciani sono d'altra parte respinti di stamberga in stamberga, respinti di rovina in rovina, di grotta in grotta. E dopo, quando tutto, tutto sarà demolito dove andranno questi superbi ma poverissimi popolani, quelle fiere, ma miserissime popolane dove andranno? Lo sa Iddio! Anche le case del popolo costruite all'Arenaccia, nel Quartiere Orientale hanno fallito completamente la meta. Il minor prezzo di ognuno di questi quartini, è ventisette lire il mese; si domandano due mesate anticipate, per regolamento, cioè cinquantaquattro lire: o si domanda un garante solido. Anzi tutto, dove è mai un vero popolano che possa pagare ventisette lire il mese, di pigione? Per poter cavare questa somma, un napoletano del popolo deve guadagnare almeno due lire e cinquanta al giorno, o tre lire: e allora, qui da noi, non è più un popolano, è già un operaio, ma di quelli fortunatissimi, di opera eletta, diciamo così: è già un civile, è già appartenente alla piccola borghesia. Dove, dove è il popolano che disponga, mai, nella sua vita di cinquantaquattro lire tutte insieme? Dove, dove è il popolano che trovi un garante solido? Ah che nessuno, nessuno si convince che qui, il popolo nostro, vive di soldi e non vive di lire, che gitta la sua gioventù, la sua salute e la sua forza in fatiche compensate irrisoriamente, felice, anche, di trovarla, questa fatica; che, per istinto, poichè nessuno pensò a educarlo, preferisce spendere i suoi soldi più nel mangiare, che nell'aver una casa e delle vesti e che quando ha venti soldi, quindici, almeno, gli servono pel suo pranzo e il resto, pel resto! Ventisette lire il mese! Cinquantaquattro lire di anticipo! Un garante solido! Quale ironia insultante! Nelle case del popolo, all'Arenaccia, nel Quartiere Orientale non abitano, dunque, che gli operai eleganti, diciamo così, e tutta la piccola borghesia, piccoli impiegati, commessi, contabili, uscieri, scritturali e, persino, dei cancellieri di tribunale: non abitano che tutti coloro, il cui bilancio familiare fluttua da settantacinque lire a cento lire il mese, posizione, già molto brillante, in questo nostro paese. Borghesia, borghesia minuta, modesta, innumerevole come le stelle del cielo e le arene del mare, borghesia lavoratrice, onesta, ma, come si vede, molto povera, per la sua condizione: borghesia, non altro che borghesia, nelle case del popolo, ma niente popolo, mai! Vi è di più. Spesso, a questi operai fortunati, a questi oscuri borghesi dalla decente miseria, è impossibile pagare ventisette lire al mese, perchè vi sono spesso, cioè, non spesso, sempre, dei figli, e spesso, quasi sempre molti figli, poichè la fecondità femminile, la prolificazione, sovra tutto in certe classi, assume proporzioni assai patriarcali, ma, anche, terrificanti. E allora si trova il rimedio peggiore e migliore; sono due le famiglie che prendono in affitto la casa di ventisette lire, stringendosi, stringendosi, mettendosi in tre, in quattro in una stanza, avendo la piccola cucina comune e allora, addio aria, addio luce, addio igiene! Spesso una famiglia subaffitta una camera a studenti, a uomini soli e la vita è comune e tanto nel primo, come nel secondo caso l'agglomerazione, i contatti, il vivere gli uni sugli altri, conduce, novellamente, alla sporcizia, alla malattia, al vizio, alla corruzione e alla depravazione. In quei nuovi caravanserragli, laggiù, laggiù, in questi caravanserragli già tutti deturpati, dall'aspetto già sconquassato, dalle macchie di sudiceria trapelanti dai muri, dai vetri già appannati e dalle cui finestre, come nei quartieri antichi, pendono le biancherie di dubbio colore, mal lavate, e i mazzi di pomidoro e i mazzi di agli, in questi derisorii caravanserragli che dovevano servire alla rigenerazione fisica e morale del popolo napoletano, si svolgono, ogni giorno, drammi dolorosi venuti, appunto, dalla povertà e dalla degenerazione, si svolgono farse grottesche e si vive colà, male, malissimo, come si viveva altrove, e per una folla che, per abnegazione, per virtù naturale, per onestà natia conserva la decenza dei costumi, ve ne è un'altra che ha trasportato, colà, tutti i suoi istinti indomabili, indomati, che niuno ha cercato di domare, che ha impiantato, colà, una novella vita brulicante e scostumata come nei vecchi quartieri, che, infine, se pure non ruba, se pure non assassina, altri essendo i covi e le caverne del ladri e degli assassini, mette, accanto alla folla borghese e decente, una nota di più bassa borghesia, indecente, rumorosa, screanzata, villana, repugnante. Non popolo, non popolo! Il popolo napoletano è restato nei suoi bassi dei vecchi quartieri, nei suoi bassi dei quartieri non risanati, nei bassi purtroppo, del Vasto, dell'Arenaccia, del Quartiere Orientale; non è mai salito, in nessun posto, di Napoli antica, di Napoli nuova, al primo piano o all'ultimo piano, perchè non può pagare i prezzi, anche minimi che vi si pagano, perchè chi ha costruite quelle case non sapeva niente, ignorava tutto e, intanto, ha fatto una ottima speculazione, poichè tutte quelle case sono affittate, come ho detto; ma lo ripeto, e lo ripeterò sempre, il popolo napoletano non si è mosso dal suo basso , dovunque il basso si trovi, sia una bottega quasi pulita o sia un buco oscuro e insalubre Così, purtroppo, tutte le grandi idee dei grandi uomini, tutti i vasti progetti, a base di milioni, tutte le intraprese colossali, che volevano il risanamento igienico e morale di Napoli, bisogna dirlo hanno fatto fiasco. E non vi è rimedio, dunque? Non vi è altro da fare? Nulla, proprio, di fronte a tante tristezze, a tanti disastri, a tanti pericoli sociali? Chi sa! Vedremo!

CONTRO IL FATO

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Steno, Flavia 1 occorrenze

Quell'alcova azzurra, tutta chiusa, custodita da due amorini alati, era troppo seducente e piena di promesse per poterla abbandonare, e quella splendida creatura da tempo trascurata, non gli era mai sembrata tanto bella, così bianca e rosea, un po' stanca, un po' languida, abbandonata tutta sul letto ampio e basso, colle spalle ed il petto scoperti offrentisi ai baci. Nel suo sangue acceso ed eccitato, divampò a un tratto il desiderio. - Sarah!... - disse con voce bassa e implorante, chinandosi su di lei e passandole una mano sotto le spalle. - Lasciami! - non potè far a meno di gridare la duchessa, spaurita e tremante, rabbrividendo all'idea di doverlo subire ancor fremente e inebriato dagli amplessi dell'altra. Ma eccitato e alterato com'era, egli non avvertì l'accento pieno di terrore e di ripugnanza. Credette si schermisse per quell'istintivo senso di pudore, che impedisce sempre ad una donna di offrirsi intera al primo bacio e proseguì più incalzante, tutto curvo su di lei, mordendole la bocca e scompigliandole i capelli. Era un impeto di passione irruente, un soffio di voluttà acre e selvaggia contro il quale essa si difendeva con tutte le forze, torcendosi per svincolarsi dalla stretta di lui, supplicando e gemendo con accenti interrotti e soffocati dai baci, respingendolo colle mani, colle ginocchia, col petto, orribilmente sgomenta dall'idea di appartenergli così, di non poter vincere, di sentirsi mancare e svenire sotto quei baci di fuoco che le toglievano a poco a poco tutta la forza. - Non voglio i tuoi baci, no, no! - supplicava straziata. E finalmente questo grido supremo, cento volto ripetuto, non vinto mai nè dalle carezze, nè dalle proteste, lo percosse brutalmente, riempiendolo di stupore. - Perchè, amor mio? - domandò, senza lasciarla, ma sollevandosi un poco a guardarla in viso. Essa tacque: il cuore le palpitava assai forte in petto, gli occhi neri, stanchi di passione, si riempivano di lacrime. - Perchè non vuoi i miei baci? - insistè lui. E allora, fremente d'indignazione: - Perchè mi ripugni! - ella gridò, chiudendo gli occhi per non vederlo. Luciano si rizzò mortalmente pallido sotto l'insulto che in quell’ora, in quel luogo, era il più sanguinoso ed umiliante che potesse ricevere. - Sarah! - gridò con voce alterata dallo stupore o dalla rabbia. - Sei impazzata, Sarah!... Soffriva, ed era realmente sincero nel suo dolore; ah! quella parola sulla bocca della donna che portava il suo nome, e che egli credeva pur d'amare, a modo suo!... Ah, peggio ancora della parola, la ripugnanza e il disgusto nel cuore e nei sensi di quella donna, che per lui solo aveva conosciuto l'amore. Sarah piangeva in silenzio voltata bocconi nel letto, col viso nascosto nel guanciale e la stupenda massa di capelli d'oro scomposta tutta come un'enorme aureola. E per quel pianto egli ebbe l'intuizione che qualche cosa di molto grave doveva essere successo alla poveretta, così stranamente eccitata e cattiva. - Hai fatto per ridere, non è vero? Dimmi che fu solo un cattivo scherzo; dimmelo per carità!... – S'era chinato un po’ fino a sfiorarle i capelli, e la sua voce era tanto cupa e angosciosa, che essa ne fu profondamente scossa. - Oh, quanto male m'hai fatto! - singhiozzò. - Io? io t'ho fatto del male? Ora cominciava a spiegarsi un po' il vivo sdegno di lei. - Dimmi tutto.... - pregò. - Che vuoi ti dica? So tutto, ecco! so tutto e non ti amo più, non voglio amarti più, perchè tu m'inganni, ti ridi di me, e non sai che farti del mio amore ch'era tanto vero e grande! oh Dio!... Finì in un gemito straziante il lamento doloroso, che era proprio il sangue del suo cuore ferito. Luciano comprese: essa aveva scoperto qualcuna delle sue quotidiane infedeltà; ciò lo seccava assai, ma spiegava benissimo la frase terribile, che non il cuore e non i sensi, ma l'orgoglio ferito della sua povera innocente, gli aveva gettato in faccia. Oh avrebbe egli ben saputo illuderla ancora e farsi perdonare!... - O mia povera bimba! - sussurrò baciandola affettuosamente sulla fronte, come avrebbe fatto una madre. Dimmi dunque che c'è stato, che t'hanno detto....- pregò, immaginando che da qualche pettegolezzo femminile ella avesse potuto sapere qualche cosa. - Oh, no, non m' hanno detto soltanto, ho anche veduto! - singhiozzò lei. - Va' non potrai negare!... -Luciano corrugò la fronte assai seccato. Essa aveva veduto? Ciò era peggio di quanto immaginava; bisognava sapere che cosa avesse veduto. E dolcemente, lentamente supplicandola, riuscì a farsi narrar tutto, mentre il racconto di quella triste conversazione con il signor Rook le strappava torrenti di lacrime. Luciano ascoltò silenzioso col viso conturbato, sul quale si riflettevano le tristi impressioni dell'anima. Il signor Rook era stato tanto vigliacco? Ah, gliel'avrebbe pagata! Non era l'aver tentato di sedurgli la moglie ciò che lo indignava maggiormente, molto più che Sarah con delicatezza infinita e forse sbagliata, aveva appena appena alluso a questo per non addolorarlo; ma l'altro fatto bassissimo di aver svelato a lei le facili relazioni del marito.... Bel favore da amico, in verità! Ah! quel Yankee!... Quanto a Sarah, gli fu facilissimo di convincerla che aveva sbagliato. Non c'era nulla di vero! Le donne che essa aveva veduto, erano alcune artiste della nuova compagnia d'operette del Casino; egli le aveva trovate per pura combinazione passeggiando con Lovere e con Yglau in quelle sale. Ora si rammentava d'aver incontrato il signor Rook appunto là intorno. Certo il vigliacco aveva profittato di quella combinazione, per far credere a lei d'essere tradita, por farle odiare il marito e supplirlo così!... Come mai essa, tanto intelligente e colta, non l'aveva capito? E tutto queste ragioni, tutte queste proteste, erano avvalorate da tanti baci discreti e timidi, da un viso così sinceramente addolorato, da un accento così schietto, che Sarah cominciava a lasciarsene penetrare, ad ammetterle buone, ad abbandonarsi ancora, ebbra di felicità, alla gioia immensa di credersi amata. - Ma, - obiettò ancora timidamente - tu eri appoggiato sulla spalla di quella donna.... - Oh, mia povera innocente! - sussurrò lui, abbracciandola. - Credi tu che quelle sieno donne? Sono femmine e nulla più! Non si trattano certo col rispetto che si ha per una signora, e non si sciupa, non si profana con esse l’amore! M'ero appoggiato su di lei, dici? Non rammento! Può darsi che un po' squilibrato dallo sciampagna bevuto poco prima al buffet e dai profumi della festa, mi sia dimenticato al punto d'appoggiarmi alla spalliera della sua seggiola, ma non certo su di lei.... e ciò per discorrere meglio con Lovere che mi stava proprio di fronte.... E tu, tu, povero amore, hai tanto sofferto? Hai creduto che io non ti amassi più, che ti dimenticassi per quelle miserabili! Oh, Dio, Dio! come se fosse possibile non amarti! Come se si potesse trovare una donna più bella, più buona, più cara di te!... Cattiva che sei!... Non hai veduto come son tornato ansioso dei tuoi baci? - soggiunse più dappresso, più piano, sicuro di aver trionfato, soffiandole in viso tutto il folle desiderio poco prima represso. Essa si schermiva ancora un po' dubitosa tuttavia, ma felice, oh, tanto felice e credula per l'immenso bisogno di illusione che le teneva il cuore, già vinta e inebriata da quella che credeva gran passione, ancor più dolce e soave dopo lo strazio sofferto. E gli tese la bocca avida di baci e gli aprì le braccia desiderose, offrendosi finalmente tutta, povera cara, tanto bisognosa d'affetto e di tenerezze. Fu con un sorriso di trionfo che Luciano le diede quella notte l'ultimo bacio. - È tutto passato, non è vero? - le sussurrò prima di lasciarla. - Sì, amore. Ma senti, partiremo domani, eh? - ella implorò, colle braccia sempre avvinto al collo di lui. - Voglio prima dare una lezione a quel vigliacco! fece il duca sdegnoso. - Oh, no, no, ti supplico! Lascialo stare, fuggiamo soltanto al più presto, perchè io ho paura, ho tanta paura!... - Faremo come tu vorrai!... - egli rispose galantemente. Quella promessa finì di rassicurarla. Ma la mattina seguente, quando Luciano risalì dopo la colazione portando a Sarah la notizia che il signor Rook era partito improvvisamente la notte stessa e che aveva lasciato ordini perchè gli spedissero subito tutta la sua roba a Parigi, essa, felice come una bimba, abbracciò lieta il marito e non parlò più di partire. Il terribile signor Rook se n'era andato, dunque si poteva ben prolungare di qualche settimana il delizioso soggiorno a Biarritz. Anzi, ella avrebbe cominciato solo allora a goderlo, perchè per la prima volta in quindici giorni, non aveva più da tremare. Quando scese in un fresco abbigliamento roseo, tutta coperta di trine bianche, era più bella e più attraente che mai. Accanto a lei, Solange si lagnava di quel cattivo signor Rook ch'era partito senza neppur salutarle. Lovere, Gleunitz e d'Ostrog le attendevano rispettosi. - Due vere aurore! - disse il marchese sorridendo. Per la prima volta Sarah accettò lieta il suo braccio per fare un giro in giardino, mentre Solange li seguiva con miss Lucy, e la baronessa flirtava molto correttamente col buon d'Ostrog. - Non vieni, Luciano? - gridò Sarah al marito. - Se permetti, prendo la rivincita della partita perduta ieri.... - disse questi, sedendosi a un tavolino di fronte a Belitzine. Splendeva il meriggio luminoso lì intorno, su nel cielo, sulla terra, sul mare. Lontano le vele bianche solcavano l'Oceano, quasi tenui fragilissime speranze.... - Che splendida giornata! - disse Sarah commossa. E ancora in fondo al giardino sentirono la voce del duca ch'era su nella terrazza: - Scusi! era fante di cuore, principe!

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Il maleficio occulto

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Zuccoli, Luciano 2 occorrenze

Per qualche tempo, alla villa Scavolino, si stette assai male: tutti si sentivano sospettati e tutti sospettavano; la baronessa pensò di congedare quanti erano alle sue dipendenze: poi, sola, senza consiglio, abbandonata com'era, paventò qualche vendetta, e non osò nulla. I furti cessarono, per breve; la vita rientrò nella sua abituale monotonia: su, a destra della villa, abitava e viveva tristemente la baronessa; giù, a sinistra, il barone si logorava l'anima a escogitar espedienti per trovar quattrini.....Vuoi darmi un po' d'acqua?... - Siediti, - disse Clara, versandomi da bere. - Siediti qui vicino a me: riposati un istante. - Che ora è? - chiesi, rimettendo il bicchiere sulla tavola, e sedendomi presso Clara, che rimaneva sdraiata. - Quasi la una, - ella rispose. - Ma non importa: è fatta ormai! Non potei vincere un interno moto di gioia: comunque fossero per finire, quell'episodio notturno, quella mia visita sospetta, avrebbero ritardato il matrimonio, forse lo avrebbero reso impossibile; e il gusto di piantar così un dubbio atroce nel cuore dell'uomo che odiavo, mi parve squisito. - Ora, - dissi, riprendendo il racconto con nuova lena, - abbiamo due fatti quasi contemporanei, i quali ci svelano che nessuno dei due figuri aveva rinunziato alla propria idea. Il barone torna a mettere in campo le sue pretensioni di vendite e di denaro; il Boldrella, gironzando un giorno per la casa, trova aperto l'uscio della camera da letto della baronessa. Nella camera non c'è alcuno, ma sul tavolino d'abbigliamento, fra mille ninnoli, luccica un anello dimenticatovi un istante; la tentazione è troppo forte: all'occhio avido del ladro, quell'oro e quelle pietre rappresentano una somma favolosa, forse il coronamento di tutta la sua opera paziente, certo il viaggio e il soggiorno in America. Vi pianta l'artiglio, e poi, rapido e silenzioso, sale fino al granaio, sposta le tavole, dà un'occhiata in giro, si cala nel giardino, scivola in iscuderia. La baronessa che passa qualche istante dopo, vede il Boldrella tutto affaccendato a smuovere la lettiera e a rinfrescarla con nuova paglia. Chi sa se nel cuore dell'infelice un pensiero di benevolenza non è sorto per il giovane laborioso il quale si guadagnava così faticosamente la vita!..... " Un'ora dopo, la signora corre in biblioteca a denunziare il furto; anche il barone si scuote; promette di chiamare i carabinieri, di far perquisire tutte le persone di servizio e raccomanda alla baronessa di vigilare specialmente la cameriera, poiché questa sola si trovava o doveva trovare a quell'ora nella stanza. La signora insiste perché la perquisizione si faccia subito, all'improvviso, senza intervento dell'autorità; il barone fa osservare che l'anello non può essere più in tasca del ladro, e che scoperto questo, bisogna consegnarlo subito ai carabinieri, che se lo portino via; dunque i carabinieri sono indispensabili; non precipitiamo: prima i carabinieri, poi la perquisizione.... Notiamo che il barone è uomo forte e coraggioso, e che siamo in pieno giorno! In una camera, fino al sopravvenire della autorità. Invece, quale prudenza! Come calcola i pericoli fantastici! Per acciuffare il ladruncolo, gli abbisogna una legione di carabinieri, un esercito; ancora un po' e pretenderà l'artiglieria!.... Di questo grazioso episodio s'è riso molto al processo: il pubblico che non potè vedere il barone perché malato, si imaginò un omuncolo vigliacchetto e deboluccio, una specie di Don Abbondio senza il tricorno; qui dove la sua condotta comincia a diventar quasi imprudente, la comicità di tante precauzioni coperse il vero fine dell'individuo. " Meglio ancora quando si seppe che d'improvviso il barone era partito quel medesimo giorno con l'ultimo battello a vapore. Aveva pretestato una lettera urgente arrivatagli allora, la quale esigeva la sua presenza a Milano. Il presidente delle Assise non potè trattenersi dall'osservare che il barone in quel momento, era stato temerario Temerario, senza dubbio, ma a spese altrui: egli arrischiava, con un coraggio leonino..... la vita di sua moglie! Egli, che aveva dovuto confessare la necessità di chiamar la pubblica forza per difendere i propri averi, forse la propria esistenza, lascia la casa ad un tratto, lascia una donna in balia dell'ignoto e corre ad un supposto convegno di non sappiamo chi, di non sappiamo che cosa! Il Boldrella compiuto il furto, non era potuto rimaner tranquillo: qualche ora dopo essere stato visto in iscuderia dalla baronessa, attacca i cavalli ed esce per muoverli. " Ha paura: alcuni che l'hanno incontrato sulla strada comunale, dichiararono che aveva spinto i cavalli a corsa velocissima, e li sferzava, li eccitava con la voce a rischio di non dominarli più.... Ha paura: la sua opera diuturna e scaltra sta per essere svelata: bisogna giuocare una carta ultima, o veder tutto miseramente perire. Ma che fare? Quale occasione gli si offrirà? e quando?..... Ha udito susurrar di perquisizioni, di carabinieri, di arresti. Forse, tornando a casa, troverà il maresciallo sulla soglia.... Sarà difficile provare che il ladro è lui, perché la refurtiva è ben nascosta: ma intanto possono tendergli qualche tranello.... Poi il barone ricorda l'episodio della biada, e lo narrerà e quello sarà il filo conduttore che dipanerà la matassa..... " Lentamente, coi cavalli stanchi, verso sera egli si decide a ritornare; passando il cancello, non vede alcun carabiniere; tutto quieto, monotono e triste come ogni giorno.... Che più? In breve, egli viene a sapere che il barone è partito per Milano. E' un lampo di luce! L'occasione si offre da sé, nessuno l'ha cercata, bisogna approfittarne; pazzo chi non ne approfitta!.... Ma la baronessa?.... domanda; e il massaio, che, da galantuomo, ha l'antipatia istintiva per i mascalzoni, non gli risponde. " Che volete saper voi? " gli dice il massaio. "Ah non vuol parlare? Ebbene, il Boldrella spia; egli conosce le abitudini di tutta la casa e vede che le abitudini non si ripetono: la finestra della baronessa ha le gelosie socchiuse: alla sera non le recano il tè, come di solito: la cameriera, contro il solito, va a dormir presto. La baronessa non si vede, non si sente, la baronessa è partita, la casa è in mano di lui, la breccia su nel granaio, gli apre il passaggio e stanotte il colpo decisivo, il colpo maestro sarà compiuto. Il Boldrella ha qualche ora di gioia incontenibile. L'America è nel suo pugno, come le casa del barone! Egli canta, in iscuderia, canta sfrenatamente, di gioia spaventosa..... - Come sai tutto questo? - interruppe Clara, drizzandosi a guardarmi. - L'ha confessato lui, capisci? Ha confessato che la partenza del barone gli diede l'idea di finirla con un colpo d'audacia.... Era un'attenuante per l'assassino: ma i giurati la respinsero, nonostante gli sforzi del difensore.... Poi, il resto fu narrato dai testimoni e confermato a me da gente del paese..... -Ah, che orribile, che orribile cosa! - esclamò la donna, serrandomi le mani. - Non potrò più reggere alla sua presenza: mi sento un brivido freddo, pensando che egli è stato qui, ha toccato le mie mani, e verrà ancora..... - Vedremo, - dissi. - Ora ascoltami per poco; ho quasi finito. - Si, sì, ti ascolto.... Ma tu, dimmi, tu l'hai veduto, l'assassino? - Il Boldrella? Certo, per una settimana, ho passato lunghe ore a due passi da lui, perché col mezzo di certi amici avvocati m'ero fatto dare un posto, sotto la gabbia..... Allora non imaginavo che avrei parlato tanto di lui, e a te, in questa notte!.... Piccolo e magro, sembrava lo si potesse atterrare con una stretta, ed era un uomo che sollevava un peso di cento chili senza difficoltà.... Aveva occhi rotondi, come quelli del gufo, e lucentissimi: baffi scuri che gli celavan la bocca; fronte stretta, zigomi sporgenti, le tempia appiattite; non aveva mento, quasi: pareva che il volto finisse con i baffi; colorito pallido. Il suo sguardo non si poteva dimenticare; dritto, fisso, indagatore; nè si potevan dimenticare le sue mani, enormi di lunghezza e sempre instabili.... Quando lo conducevan nell'aula, non se ne udiva il passo: egli compariva, si sedeva; e risuonava appena il chiavistello della gabbia; il suo passo era sordo, quasi egli camminasse sulla bambagia..... " Fu quest'uomo, o meglio questa faina, questa volpe, quest'animale da preda, che spaccò il cuore alla giovane signora! - Come avvenne, di', come avvenne? - domandò Clara, guardandosi istintivamente attorno e stringendosi nella mantiglia. - S'è saputo bene? - S'è saputo molto e s'è indovinato il resto, - seguitai. - Pare che dopo una serata tristissima, in cui non volle veder nessuno, nemmeno la cameriera, dalla quale pure si sapeva amata, la baronessa si sia coricata affranta, e che verso le due di notte, quando il ladro cautamente forzò l'uscio, ella non abbia udito. Dormiva, come si dorme dopo aver pianto molto. Il Boldrella, sicuro di non trovare alcuno, entrò e si diresse a uno stipo ch'egli sperava di forzare come l'uscio. C'era la luna, e un po' del suo chiarore penetrava nella camera tagliandola quasi a metà; ombra dov'era la giovane signora coricata: luce dov'era il Boldrella. " La baronessa si sveglia e vede; non grida, non dà l'allarme; forse non osa; si lascia scivolar dal letto, e lestamente cerca di uscire per chiudere il ladro in trappola..... Ma il letto ha scricchiolato; il Boldrella si volge, si sente perduto, non ha nemmeno il tempo di meditare un piano.... - Dio! - esclamò Clara con un brivido, che la scosse. - Fa un balzo alla porta, verso la figura bianca: la vede in faccia, l'afferra, le chiude la bocca con la mano enorme e terribile: "Non gridare! - dice come in rantolo - non gridare, o sei morta! " Ma la baronessa, si divincola. L'orrore è troppo forte: lei, quasi nuda. fra quelle braccia! - Ah, non dire, non dire più nulla! - mormorò Clara. - Ella si divincola per fuggire: egli la serra sul petto in un abbraccio spaventoso, e colla mano libera cerca in tasca, trova una lima acuminata, la vibra nell'aria, l'affonda nel seno palpitante della donna, che gli manca tra le braccia, senza un grido.... Tutto questo in un attimo, in un lampo, sulla soglia, quasi senza parole..... Vi fu un lungo silenzio. Clara piangeva, come aveva pianto l'umile Anastasia, al ricordo della scena: e lo spettacolo di quelle donne che davan le loro lagrime più pure alla memoria della sacrificata era tenerissimo e nobile. Non diversamente, forse, le belle giovinette pagane piangevano la compagna immolata a qualche barbarica cerimonia. - Ho fatto male a raccontarti tutto? - domandai sottovoce, accarezzando lievemente la mano, che Clara aveva abbandonato lungo il fianco. - No, hai fatto bene: devo sapere, fino in ultimo, - ella rispose con impeto. E guardando un piccolo orologio, che stava in un angolo, sopra una mensoletta, aggiunse: - Sono appena le due. Abbiamo tempo....

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Avevo nelle vene e nei polsi un'inquietudine divorante: pensavo che la donna, sola, abbandonata a se stessa, poteva ricader nei dubbi, trovar delle lacune in quanto le avevo narrato, esser ripresa dalla necessità volgare delle prove. Se, per caso, il barone avesse potuto riavvicinarla, s'ella si fosse lasciata sfuggire una parola, un accenno, egli avrebbe trovato chi sa quali frasi, chi sa quali gesti, per distruggere a sua volta la mia opera! Quantunque la riamassi d'un tratto con l'impeto di mille fiamme, io non nutriva illusioni sul carattere di Clara. Era facile alla passione; mobile, intelligente, nervosa, s'assimilava agevolmente le idee altrui e le riviveva con intensità; un uomo forte e imperioso la dominava. Io aveva, anzi, perduto il suo amore per questo: la tenerezza soverchia m'impediva di dettarle la mia volontà, e non sentendo il freno, non avendo a temermi, a poco a poco s'era trovata libera e indipendente. In realtà, non aveva alcun bisogno di me, per essere sola; così ella m'aveva detto un giorno, molto tempo addietro, con la sincerità crudele e rara ch'ella metteva in tutte le cose sue. Nella mia implacabile ostinazione stava dunque il segreto della vittoria: ripetere, rammentare, approfondire indelebilmente nel cervello di Clara la convinzione del maleficio occulto di cui l'uomo era stato capace: far balzare dall'ombra il misfatto che vi si celava, perché sfolgorasse agli occhi di lei come stava intero innanzi agli occhi della mia mente; l'opera caparbia e tenace che mi spettava. Ma non ebbi nemmeno a cercarla, Clara. Quel medesimo giorno in cui l'avevo lasciata sull'alba, la vidi giungere da me, verso il tramonto. Io abitava in due camerette, Lungarno Acciaioli, e stavo alla finestra guardando il fiume bieco e giallastro per recenti pioggie. I colori sul Ponte Vecchio, sulle case antiche di fronte, e giù, a destra fino a Ponte alla Carraja, avevano una delicatezza squisita; e quella luce, quell'ora, quella torpida calma, svelavano l'anima della città, in altri giorni così cupa e veemente di passioni insaziabili. Vidi giungere Clara; la vidi alzar la testa e sorridermi: qualche passante levò la testa pure, guardando ov'ella guardava. - Che cosa avviene? - le dissi, correndole incontro per le scale, come un ragazzo. - Nulla; son venuta a trovarvi - ella rispose, mentre continuava a salire. - Vi spiace? E quando fu nella mia camera, ella seguitò: - Alle cinque è venuto il barone: gli feci dire ch'ero indisposta; egli restò a gironzare per via Tornabuoni; io allora mi son vestita e sono corsa qui, fingendo di non vederlo, ritto innanzi a un caffè. Egli mi segue, naturalmente. Dalla finestra potreste scorgerlo certo. - Grazie! - mormorai. - E' inutile ch'egli veda me. - Avete ragione - disse Clara tranquillamente sedendosi. - Egli deve credere che mi siate corso incontro abbracciandomi, baciandomi, portandomi in giro per la camera, come una statuetta di gesso. Rimarrò qui un'ora, un'ora e mezza, quanto basta. - Quanto basta a che cosa.? - domandai. - Ma.... a convincerlo ch'io vi amo più che mai.... - Per bacco! - dissi ridendo. - Vi ha vista entrare quì; che cosa potrebbe imaginare se non un convegno? Rimanete anche fino a stanotte, se vi par necessario. - Ah no, per esempio! - esclamò la giovane. - Sapete che non ho ancora dormito un istante? Dopo il vostro racconto, avevo quasi paura, lo confesso: ogni scricchiolar di mobili mi dava un colpo al cuore. Vedevo ladri e assassini ovunque. - Tanto più che il barone stava ad aspettarmi in istrada - interruppi. - Davvero? - disse Clara con un gesto di meraviglia. - Era facile prevederlo; voleva sapere esattamente quanto sarebbe durato il nostro colloquio e per questo rimase appostato fino alle quattro di stamane. - E vi ha veduto uscire di casa mia? - Se io ho veduto lui....! Non è arrivato in tempo a scantonare, ed io lo riconobbi. - Clara stette silenziosa un poco; quindi osservò: - Se l'avessi saputo, vi avrei risparmiato la noia della mia visita. - Repetita juvant Un colloquio fino a tarda ora della notte poteva anche insospettirlo: la vostra visita, oggi, ha invece la forma di un convegno amoroso, un po' ardito; i sospetti natigli ieri, oggi prendono tutt'altro colore; non teme più ch'io vi dica ciò che so di lui! crede di trovarsi innanzi ad un rivale qualunque.... E' una cosa diversa. Clara si guardò attorno. - Sapete, - disse improvvisamente, - son venuta qui senza avvisarvi, perché voi mi assicuraste mille volte che non ricevete nessuno; per ciò non ho temuto d'interrompere qualche visita più divertente. - Avete fatto benissimo, osservai. - Ora avete la prova che non ho mentito. Per voi la casa è aperta a qualunque ora. Ma non potremmo lasciar le cerimonie inutili, Clara? Seguitate a scusarvi, come se aveste sbagliato l'uscio..... La donna sorrise..... - Mi date un libro da leggere? - domandò, guardando la biblioteca aperta. - Un'ora e mezza sarà lunga. - Non volete parlare con me? - chiesi alla mia volta. Clara tornò a sorridere; parve impacciata. - Avete detto di non far cerimonie. - rispose. - Ebbene, senza cerimonie, vi assicuro che preferisco leggere. Non vi offendete; siete un bel parlatore; ma preferisco leggere. - Come volete, - dissi. - Ed io tornerò alla finestra. - No, alla finestra no! - interruppe Clara. - Il barone è nella via, a spiarci.... Se vede voi alla finestra, non ci capirà più nulla! - E' vero - osservai ridendo. - Io devo portarvi in giro per la camera, come una statuetta di gesso! Da tanto tempo ho perduto queste abitudini!..... Che libro desiderate? - seguitai, avvicinandomi alla biblioteca. - Il primo che vi viene sott'occhio. Nel recarle il libro le diedi uno sguardo. Era vestita di nero. - Cotesto abito lo conosco, - dissi. - L'avevate alle Cascine, ieri quand'eravate in carrozza con lui. Vi sta molto bene. - Si, mi sta bene - ella ripetè, guardandosi istintivamente la gonna e le maniche. Si levò, si mise dentro la luce dorata del tramonto che prorompeva nella camera dalla finestra aperta. I capelli scintillarono; la figura scultoria rimase un breve istante incorniciata in quella luce di fiamma. - Ho visto, ho visto! - dissi, mordendomi le labbra per non annoiarla con qualche frase di rammarico. Ella tornò a sedere e cominciò a leggere; io, in una poltroncina molto lungi dalla sua, fumavo, guardandola di tratto in tratto. La mia statuina di gesso faceva una lettura assai disattenta; era preoccupata: le mani a poco a poco le si abbandonavano col libro, ed ella si perdeva a pensare, gli occhi sbarrati nel vuoto. - Pare un sogno! - esclamò di repente. - Che cosa? - domandai con inquietudine. - Che cosa? Tutto! Tutto pare un sogno; da stanotte, mi sembra di vivere una vita nuova..... Chinò la testa sul libro e continuò la lettura. - C'è la finestra con le persiane spalancate, - osservai dopo qualche tempo. - Ciò non si usa in un convegno. Volete che chiuda? Accenderò il lume. - No: mi fa melanconia - rispose la giovane, continuando a leggere. - Piuttosto, avete chiuso la porta a chiave? - Me ne sono dimenticato. Del resto, è un particolare ch'egli ignorerà. - Non si sa mai..... - mormorò Clara, senza alzar gli occhi dal volume. - Supponete che egli abbia l'imprudenza di salire in casa mia? - La gelosia non ragiona. Io mi misi a ridere. - A quest'ora - dissi - un uomo geloso mi avrebbe già provocato. Clara depose il libro vivamente sulle ginocchia e fece un gesto di paura. Mio Dio, - proruppe. - A questo non avevo pensato! Sì, egli può provocarti, batterti, ucciderti! Come non ho pensato a questo? Ho commesso una imprudenza stupida, e tu ne avrai le conseguenze più dolorose. Io lo irrito, lo esaspero, ed egli non può nulla contro di me. A chi farà scontare la sua rabbia? A te certamente. Come non ho visto una cosa tanto semplice? Adagiato nella poltrona, io la lasciava parlare, compiacendomi egoisticamente di quella sua affezione che prorompeva. Ella agitatissima, e parlando, mi guardava quasi per implorare un conforto, una parola che la rassicurasse; io ascoltava, godeva e taceva. - Ti farà del male, di'! - ella seguitò. - Due uomini che si odiano sono terribili: e voi vi odiate furiosamente. Ah, che cosa ho mai fatto, amico mio! Ho giuocato la tua vita, come una pazza! Egli può ucciderti. Ecco in qual modo io ti ringrazio. Ah, quale follìa ho commesso! Ma io gli dirò che non ti amo: che vengo qui per isfuggire lui, non per essere la tua amante. Glielo dirò oggi stesso, ora, subito....... Devo salvare te, prima di tutto. - Clara! - esclamai, vedendo ch'ella si levava in piedi e si dirigeva alla porta. La giovane si fermò. - Che vuoi? - chiese. - Non c'è tempo da perdere: egli può provocarti quando esci di casa. Ora vado da lui e gli parlo. - Clara - mormorai - non ti credevo tanto sciocca. La poveretta restò presso la porta come fulminata. - Sì, sciocca - seguitai crudelmente. - Bisogna essere sciocchi per supporre che colui venga a cercarmi. Egli non farà nulla, egli non agisce mai per conto proprio, direttamente; è una bestia viscida e tu lo temi come un leone furibondo. Siediti, va! Non commettere altre ragazzate. Sei qui: rimani; egli deve credere che tu sei la mia amante; farglielo credere. Non lasciarti prendere da tenerezze ridicole. Dal modo con cui ella tornò a sedersi, umile e sommessa, compresi di avere trasmodato; ma la mia ira non si calmò. - Del resto, - soggiunsi - pensi che queste inquietudini mi commuovano molto? Sei la sorella, tu; me lo dicevi anche ieri. Ma io non posso essere un fratello, per te, e la tua affezione casta m'irrita. Non mi ami, ma mi vuoi bene: quali invenzioni, che piccinerie, che puerilità! Se mi uccidono, sarai disperata perché ti è morto il fratello d'anima! Quanto è goffo tutto questo; che settecento irrancidito, che smorfiette isteriche!.... - Eppure - susurrò Clara - se ho torto, potresti perdonarmelo. - Perdonare non è tacere, - osservai freddamente. - Prima ti dico quel che penso, e poi ti perdono! Quanto a me, non avere inquietudini..... Sarebbe troppo risibile ch'io mi facessi ammazzare per una sorella di passaggio. Ah, la frase volgare m'era scappata! Mi morsi la lingua troppo tardi, e mi serrai furiosamente le mani per richiamarmi alla realtà, al rispetto, al dovere. Ma mi giunse quasi in un soffio la voce di Clara, dolce, stanca, velata di lagrime: - Che posso fare di più? Quando vuoi, sono tua, anche ora. Ti devo tutto: mi hai salvata. Dimmi che mi vuoi, e sono cosa tua. - Morta, fredda, senz'anima, morta, fredda, - mormorai. Clara prese il libro e continuò la lettura. - Lo sapevo - ella disse - che non si può parlare con voi. Vi avevo pregato di tacere. - Verrai anche domani? - - chiesi, impaurito ch'ella mi sfuggisse. Devi venire qua, se vuoi che la finzione abbia un significato. La giovane dissimulò a stento un sorrisetto malizioso. In realtà, continuando con quella commedia, il barone avrebbe finito per credermi il più indomito amatore del secolo. Guardandoci negli occhi, vi leggemmo lo stesso pensiero, ed io mi arricciai i baffi per trattenere qualche parola piena di rimpianti. - Verrò, - ella disse, - s'egli verrà a cercarmi, benchè non creda che vi divertiate molto. Non penso a divertirmi, ora; penso a rendere impossibile il vostro matrimonio, senza provocare spiegazioni difficili fra voi due. Tacemmo: io mi avvicinai alla finestra e guardai cautamente giù, sul Lungarno. Il barone non si vedeva, forse stava celato in un negozio vicino, indugiando fino al ritorno di Clara. - Non andartene così, - dissi, vedendo che la donna si levava, e abbassava il veletto del cappellino - Aspetta ch'io chiami una carrozza. - Ma sono a due passi da casa mia, - ella obiettò. - Non importa; di costui non mi fido. In un istante son di ritorno..... Uscii: il barone seguitava ad essere invisibile; tornai con una carrozza chiusa; ciò era più romantico. La giovine vi saliva qualche istante appresso, ed io, dalla finestra, seguii dello sguardo la carrozza che si allontanava rapida e voltava per via Tornabuoni. - Anche voi siete fraterno, nelle vostre idee, - ella m'aveva detto, stringendomi la mano, e partendo. E il complimento, nello stato in cui mi trovavo, non poteva essere più sarcastico.

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