Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbandonata

Numero di risultati: 12 in 1 pagine

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Da Bramante a Canova

251202
Argan, Giulio 1 occorrenze

In altri termini (paradossali, ma tutta la poetica del «sublime» giuoca sul paradosso) il lavoro manuale è il solo lavoro, che l’attuale situazione storica consenta ed imponga all’intellettuale: accettando di farsi artigiano per polemica, l’artista rivendica il dovere di conservare un’eredità di cultura che l’incosciente avidità dei più vorrebbe sperperata o abbandonata. Né occorre spiegare che, così facendo, l’artista denuncia la crisi, l’imminente scadenza dei valori che vorrebbe difendere e che infatti erano stati o stavano per essere abbandonati proprio da coloro che li avevano, per secoli, praticati.

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La pittura moderna in Italia ed in Francia

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Villari, Pasquale 2 occorrenze
  • 1869
  • Stabilimento di Gius. Pellas
  • Firenze
  • critica d'arte
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Questa, malata e abbandonata sulla poltrona, viene illuminata da una luce diretta, ed è dipinta con una finezza e delicatezza grandissima. È una nobile e gentile figura, che raccoglie la luce principale del quadro, come attira gli sguardi innamorati e i pensieri del poeta che legge. L’altra delle tre Eleonore, posta fra le due prime, s’accorge, sorpresa, che è tra due rivali, rivale anch’essa. Tutto ciò segue presso un verone che forma il fondo del quadro, e dal quale penetra una luce che lo illumina mirabilmente. Ed è ciò che forma il prestigio e lo scopo principale di questo lavoro, in cui il carattere dei personaggi, trovato e capito assai bene, viene in parte sacrificato al Dio onnipotente della luce. — Il Bagno di Pompei è anch’esso uno stupendo effetto di luce: una figura in mezzo del quadro, semi-nuda, illuminata dall’alto; un gioco stranamente difficile di riflessi che produce l’effetto proprio del vero. L’artista ha studiato l’architettura, i costumi del tempo, e li riproduce; ma lo spettatore s’avvede che lo scopo principale è l’effetto difficilissimo di luce; tutto il resto, un mezzo secondario: la vita romana e pompeiana nei bagni, è quasi l’accessorio del quadro.

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V’è una sola professione che resta abbandonata, senza vere e proprie scuole che mettano in grado d’esercitarla convenientemente, ed è quella dell’architetto. Si è pensato alle scuole d’applicazione per gl’ingegneri di ponti e strade, di vie ferrate, di officine industriali e di miniere; ma all’architetto, che deve essere prima artista e poi uomo di scienza, non s’è pensato abbastanza. Spesso è un capo muratore colui che dirige la costruzione d’un palazzo. Coloro che si danno alla professione, qualche volta pigliano la via universitaria e trascurano l’arte, qualche volta vanno all’Accademia di belle arti e trascurano la scienza di cui hanno uguale bisogno. La conseguenza di questo fatto è semplice. Spinti dalla corrente industriale e prosaica del secolo, noi siamo ridotti a tale, che le nostre case non sono più opere d’arte, anzi di rado l’arte v’entra per nulla. La pittura, la scultura, l’architettura una volta facevano come un’arte sola. Oggi, invece, lo scultore fa una statua che possa stare ugualmente, come un mobile di lusso, in un salone qualunque; il pittore si pone a far piccoli quadri, che possano, come le stampe, entrare in commercio; e l’architetto fa una casa che come un magazzino, si possa fornire di suppellettile, secondo il capriccio mutabile di coloro che vengono sui abitarla. I pubblici edifizi, pei quali abbiamo speso parecchi milioni, sorgono senza che lo scultore o il pittore sieno mai chiamati a dare un compimento di cui si crede che non abbiano più bisogno. Si dice che è risparmio di spesa; ma una linea barocca costa quanto una elegante, e quello che si spende nei nostri saloni, per supplire con un lusso sfoggiante alla mancanza d’arte, basterebbe certo a fare il contrario. Ristabilire l’unità e l’armonia delle arti, sarebbe il più efficace sussidio che si potrebbe dare ad esse. I basso-rilievi del Partenone non potrebbero stare ovunque. Gli affreschi del Vaticano perderebbero assai in un altro edifizio. Perfino i barocchi erano, sotto questo aspetto in condizioni assai migliori di noi. Dai loro palazzi d’un’architettura esagerata e sfoggiante, dalle ampie scale ornate di statue, dalle terrazze che davano sui giardini, dai saloni colle mura e le volte ornate di grandi freschi, sino alla più minuta suppellettile, agli abiti, alla tabacchiera, all’orologio del cicisbeo, essi serbavano il medesimo stile; e l'arte loro, scorretta ed esagerata, aveva pure un carattere che manca alla nostra, e degli artisti le cui opere saranno pur sempre ammirate. Non si può, noi lo sappiamo, vincere affatto o fermare l’andazzo dei tempi; ma un efficace rimedio sarebbe l’istituzione d’una grande scuola di architettura, e d’un tirocinio regolare, se non imposto almeno indicato ed aperto a tutti. È una parte indispensabile d’un buon sistema d’istruzione in ogni paese civile.

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La storia dell'arte

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Pinelli, Antonio 1 occorrenze

Questa tendenza a fingere con la pittura o con il mosaico uno spazio architettonico a tre dimensioni su supporti bidimensionali perdurò in Italia fino all’epoca tardo-antica e all’inizio del Medioevo, quando fu progressivamente abbandonata in favore di un’ambientazione spaziale più indefinita e di un appiattimento nella rappresentazione di figure ed oggetti, con conseguente rinuncia a simularne la concretezza plastica e la solidità tridimensionale.

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Le arti belle in Toscana da mezzo secolo XVIII ai dì nostri

254897
Saltini, Guglielmo Enrico 3 occorrenze
  • 1862
  • Le Monnier
  • Firenze
  • critica d'arte
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Però non crederemmo avere sodisfatto intiero l’obbligo nostro, se dopo aver parlato della Scultura, non ricordassimo quel bravo CLEMENTE PAPI, che ha fatto rivivere tra noi V arte di fondere in bronzo statue ed altri oggetti di plastica, dopo Giovan Bologna e Ferdinando Tacca quasi affatto abbandonata tra noi. Il Papi (n. in Roma il 31 agosto 1806) venne per tempo in Toscana e qua dopo ostinata perseveranza e studio indefesso, giunse ad eseguire getti di finitura e delicatezza mirabile. Nel 1837 fece il busto di un giovinetto da esso modellato sul vero; dopo di che avuto modo per favore di chi reggeva il paese, di erigere una fonderia, gettò in bronzo una statua di tutto rilievo che fu la Diana succinta, trovata a Gabi. Riprodusse quindi la Venere della villa della Petraia e il Mercurio volante della Galleria degli Uffizi, bronzi di Giovan Bologna; nel 1839 il Perseo di Benvenuto Cellini, poi la testa del David di Michelangelo, e in fine le statue del Duprè, Abele e Caino, per la reggia de’ Pitti. Tutti questi getti sono di una straordinaria bellezza, sebbene condotti e finiti nella forma, senza bisogno di altre rinettature o ritocchi, eccetto gl’inevitabili in cosiffatti lavori. I contorni delle statue rimangono tali, quali escono dalla forma, senza essere alterati da lime o ceselli. E per far meglio conoscere l’effetto di questo suo bellissimo metodo, il Papi gettò anche in bronzo piante, fiori e animali formati sul vero, la superfice dei quali non può alterarsi con ritoccature, mostrandone! conservare i più delicati rilievi e sottosquadri della forma tale maestria, non più veduta ai nostri tempi.

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Abbandonata la imitazione della natura, e la scelta di quel bello, che in gran parte nel vero risiede, volle seguitare i più strani capricci, e si ridusse una matta convenzione, quasi diremmo una parodia. Pietro Leopoldo I, salito al trono della Toscana, volle fare dipingere alcune sale della villa del Poggio Imperiale, ma in veder poi codeste pitture scoperte, ebbe ad esclamare sdegnato: «Io pago e aiuto questi miserabili, ed altri prenderà cura di far imbiancare le volte!» Non pertanto vennero i nuovi tempi per l’arte: ma noi prima di studiarne il risorgimento, vogliamo far sosta un poco, e vedere quali cose operassero questi pittori toscani dell’ottocento, non pochi di numero, nè affatto privi d’ingegno. Incominciamo dai fiorentini.

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I suoi lavori, da lui condotti con rara facilità, vuolsi che sommino a meglio di mille cinquecento: ricorderemo prima il più famoso, la Clizia abbandonata da Apollo, dal quadro di Annibale Caracci (1772); ma non meritano minor lode, la morte di lord Chatham in Parlamento, da Copley (1791); il Diploma Accademico, sul disegno dell’amico suo Cipriani; la partenza d’Abramo colla famiglia, dallo Zuccarelli; Giove e Leda, e Narciso al fonte, dal Viera; l’Orlando e Olimpia e la Vergine del silenzio, dal Caracci; Didone sul rogo, da un disegno del Cipriani; e la Circoncisione, dal Guercino. Invitato in Portogallo (1806) dal principe reggente, morì pochi anni appresso a Lisbona in povero stato.

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Pop art

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Boatto, Alberto 2 occorrenze

La situazione che Rosenquist raffigura appare eminentemente equivoca ed aperta; non è nemmeno sintetica come quella del manifesto pubblicitario, ma tende alla sintesi senza per altro pervenirvi, giacché si è abbandonata la chiarezza e l’immobilità del mondo pubblicitario per l’oscura flessibilità della vita della coscienza. E non di meno è proprio la pubblicità a fornire al pittore il suo variopinto cinémascope: per recuperare l’energia e il fantastico non occorre tanto distaccarsi, quanto manomettere, far precipitare l’universo artificiale trapassato a fondo dal sogno e dalla vitalità dell’uomo.

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Il nuovo punto di partenza, non Neo-Dada ma più latamente pop, nelle prove iniziali di Schifano, di Kounellis e di Mauri, appare meno intellettuale e maggiormente visivo, di abbandonata partecipazione alle apparenze del mondo oppure di elaborazione dei segni primi di un nuovo vocabolario. Ciò che predomina nella pittura di Mario Schifano è appunto l’aspetto visivo, non la rappresentazione descrittiva dell’immagine, ma la sua immediata percezione, che viene restituita sulla tela mediante una limpida e fresca visione, giacché la pittura per l’artista consiste essenzialmente in una tecnica del vedere. Nelle sue iniziali composizioni Schifano cancella la congestione materica dell’informale e prepara la strumentazione visiva per potere di nuovo posare sullo spettacolo del mondo uno sguardo partecipe e disponibile. Per altro la sua fresca percezione non è affatto naturalistica ma mediata, avendo subito l’influenza della percezione meccanica della foto e del cinema. È come se Schifano guardasse sempre la realtà da dietro uno schermo artificiale, sia esso il riquadro televisivo il finestrino dell’auto, oppure lo schermo materiale del plexiglass coprente l’immagine sottostante, nei suoi lavori successivi. Dietro questo schermo l’artista inquadra frammenti d’immagine che entrano all’interno del suo campo visivo e che possiedono appunto la casualità e la sorpresa delle inquadrature e delle sfocature di campo. Dapprima sono particolari di scritte pubblicitarie, poi sono sezioni di paesaggio. L’immagine inquadrata viene riportata direttamente sulla tela mediante diverse tecniche di riporto e d’impressione, tutte riconducibili a due procedimenti di base, il rifacimento e il ricalco. Schifano smaterializza l’immagine riducendola ad una pellicola visiva; la stessa tradizione dell’avanguardia, dai futuristi a Picabia e ai suprematisti russi, è «rivisitata» attraverso la mediazione dei documenti fotografici che testimoniano, non solo delle opere, ma anche della figura umana dei protagonisti.

Pagina 190

Scritti giovanili 1912-1922

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Longhi, Roberto 1 occorrenze

Quanto all'espressività estrapittorica, cioè sentimentale, s'essa ci possa servire a qualche rilievo per la posizione storica dell'opera, si può dire, sommariamente, che Caravaggio abbandonata la sensibilità episodica delle sue prime cose, tende a concentrarsi in una chiara sobria espressività umana che ha per primo fine, e più significante: non distrarre l'artista dalla solida rappresentazione pittorica delle cose. Così egli è qui il vero precursore degli spagnoli, di Zurbaran senza la tristizia, di Murillo senza lo zucchero, soprattutto di Velasquez per la tecnica, cioè per l'arte stessa. Ciò si spiega quando si pensi che in questo torno d'attività Caravaggio fonde la pittoricità dei Veneziani col senso plastico-pittorico assunto dai suoi primi ispiratori provinciali: Bresciani e Bergamaschi.

Pagina 24

Scultura e pittura d'oggi. Ricerche

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Boito, Camillo 2 occorrenze
  • 1877
  • Fratelli Bocca
  • Roma-Torino- Firenze
  • critica d'arte
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Nella chiesa di San Marco, oltre alle radicali riparazioni esterne ed interne, fu eseguito un utile lavoro, l’asciugamento della cripta, che sino dal 1569 era stata abbandonata, perchè l’acqua, salvo nelle bassissime maree, vi filtrava, rendendola impraticabile. Fu steso sotto il suolo uno strato del cemento idraulico bergamasco e fu rifatto il pavimento di marmo; e così, riaperti gli ingressi, si scende al sotterraneo da due scale laterali, e si possono ammirare le cinquanta colonnette coi loro strani capitelli, su cui piantano gli archi e le vôlte, dove stanno alcune traccie di antichi dipinti. Nel mezzo è l’altare tutto a trafori, con la cassa di marmo, in cui fino al 1811 era stato nascosto il corpo di Marco evangelista. O pensate ora che la cripta misteriosa è illuminata a gas da certe candele fìnte, infisse su certi bracciuoli da osteria, che escono dai muri e dai peducci delle vôlte! Questo spirito di modernità volgare muove a riso e disgusta. E non v’è cosa più fastidiosa che il vedere guastare con qualche goffaggine secondaria un’opera fatta bene. Per esempio, l’interno della Madonna dell’Orto, una bella chiesa veneziana del Trecento, già qualche anno addietro rimessa nella sua vecchia semplicità, è ora nuovamente ingombrata sulla porta maggiore dall’architettura e dalla pittura di un organo farragginoso. Restaurare per risciupare, è peccato!

Pagina 157

Alle pareti bianchiccie e monde sono appiccati pochi studietti, pochi bozzettini, qualche fotografia; non una tela abbandonata, un quadro invenduto, una cornice che aspetti per mutare destinazione. Nel mezzo un cavalletto, in un angolo un modello di legno; nessuno di que’gingilli, de’ quali tanto si compiacciono gli artisti. V’è tutta la semplicità, la parsimonia fiorentina. A primo tratto sembra la stanza di un giovine ch’esca appena dalla scuola, che non abbia mai fatto nulla, che sia impacciato e povero. Gli è che il Sorbi — Raffaele Sorbi, per chi non lo sapesse — non ha tempo di lavorare per sè, non ha tempo di pensare a sè. Gli spazzano la stanza di ogni cosa ch’esca dalla sua mano, appena egli ci ha messo sotto la cifra; ed egli fa presto, presto e bene, e quando ha cominciato un quadro, non si svaga, non divaga, ma lo finisce. Così nella sua stanza non si può vedere mai nulla. NuIla dies sine linea, ma neanche un segno perduto. Egli che ha dipinto delle tele grandissime, la sua Madre dei Gracchi, per esempio, schicchera de’ bozzetti più piccoli di un polizzino da visita con tre colpi di pennello. De’ suoi quadri non gli restano che certi studii di qualche figura, alti pochi centimetri, e de’ disegni in una cartella, pur piccoli, ma tracciati con rara sapienza de’ moti e della forma. Non ha neanche gli schizzi dell’insieme, neanche le fotografìe delle sue opere migliori.

Pagina 196

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