Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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IL PAESE DI CUCCAGNA

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Serao, Matilde 1 occorrenze

Era naturale che don Cesarino Fragalà e quell'anima buona di donna Luisella Fragalà abbandonassero quella casa, dove si erano sposati, che era bellissima, veramente un appartamento magnifico: non potevano più pagare quella pigione così cara. Il marito aveva giuocato tutto al lotto, ed era così carico di debiti, così rovinato, col magazzino di dolci, in piazza dello Spirito Santo, che la moglie, sgomentata da un prossimo fallimento, aveva deciso di vender tutto, gioielli, argenteria, mobili, ogni cosa di lusso, di far una liquidazione generale e di andarsene in una piccola casa, dove ella avrebbe trovato a suo marito qualche piccolo impiego commerciale, per mandare innanzi la famiglia. E la portinaia, col suo interlocutore, rammentava le due splendide feste, per il matrimonio di Cesare Fragalà con Luisella, per la nascita della piccola Agnesina, gli splendori di quei ricevimenti, i gelati, i dolci, i vini, un subisso. - Gesù, Gesù, - mormorava l'interlocutore, uomo o donna. - E ha perso tutto alla bonafficiata? Tutto; sono ridotti senza un soldo, se vogliono pagare i debiti. E donna Luisella paga: muore, ma paga! - Che birbante di marito! - Non ci facciamo maestri di nulla, - sentenziava la portinaia, profondamente. - Tutti siamo di carne. Le dispiaceva, sì, le dispiaceva che i Fragalà se ne andassero chi sa dove, non li avrebbe riveduti più; massime, le dispiaceva per quella piccola Agnesina, così buona, così placida, così obbediente, che già andava all'asilo infantile, piccolina piccolina, accompagnata da sua madre che andava a riprenderla, teneramente, ogni giorno. Erano buona gente: va a sapere, chi sarebbe venuto al loro posto! E il trasloco del marchese Cavalcanti era una cosa preveduta, da tempo: non pagava la pigione, da tanti mesi, e il signor Rossi aveva sopportato, sopportato di avere ogni tanto un acconto, anche perché il marchese Cavalcanti era stato l'antico proprietario della casa, che gliel'aveva venduta, non voleva scacciarlo brutalmente, quanta pazienza aveva avuto! Ora, non poteva più tollerare, in casa Cavalcanti mancavano spesso le cinque lire per mangiare, e il marchese portava via i mobili più necessarii, a uno a uno, vendendoli a un rigattiere del largo Barracche: la signorina, povera anima di Dio, pranzava talvolta con un piatto cucinato, che le mandava, dal Monastero delle Sacramentiste, sua zia, suora Maria degli Angioli: e i due vecchi servitori, Giovanni e Margherita, cercavano di lavorare, la donna rammendando calze e maglie di seta, l'uomo copiando carte per un usciere del tribunale. Una miseria, una miseria tale, che se non fosse stata una gran vergogna, la portinaia avrebbe spesso portato, in su, un piatto dei suoi maccheroni, o della sua minestra verde, ma non osava, quelli erano signori e sopportavano la miseria in silenzio. Del resto, per la mancanza della dote, la marchesina Cavalcanti era stata respinta dal diventare Suora della Carità, e in altri monasteri, in altri ordini non era permesso più entrare con la nuova legge: neanche monaca, si può diventare, con questo Governo. - E a maggio se ne vanno? - domandava la interlocutrice, vagamente impietosita. - Dove vanno? - Chi lo sa! Ma io dico che la marchesina non lo vede, quel giorno. Sta così male: si consuma ogni giorno, come un cero; non dice nulla, nulla, ma quando ha la forza di comparire dietro un cristallo del balcone, mi pare un'ombra. Non esce più: già non ha vestiti per uscire, e se li avesse, le mancherebbe la forza di fare un passo. Ah povera signorina, e pensare che il padre l'avrebbe potuta maritare se avesse voluto! - E con chi? Perché non ha voluto? E qui cominciava la terza dolente nota della portinaia, la partenza del terzo suo inquilino, il dottor Antonio Amati, quello che le faceva guadagnare tanti denari, per le chiamate improvvise dagli infermi: ah egli se ne andava, anzi se ne era andato, mettendola sul lastrico, la povera portinaia, che non avrebbe più guadagnato un soldo! Figuratevi che il dottor Antonio Amati che era già ricco e che guadagnava quello che voleva, proprio per fare una carità, tanto era un buon signore, aveva voluto sposare la marchesina, così bella e così cara: e anche lei gli voleva bene, al medico, un bene dell'anima, perché l'aveva assistita nelle sue malattie, perché non aveva conosciuto altri uomini, perché, infine, egli solo poteva toglierla a quella miseria. Ebbene, non era da credersi, ma il marchese Cavalcanti aveva detto no, si era incocciato a dire di no, sempre di no, facendo perdere quella buona fortuna, unica, come non se ne trovano più, alla sua figliuola. - Voi che dite! - esclamava la interlocutrice. - Non pare vero! Già, già, pareva una bugia, ma il marchese Cavalcanti aveva detto no. Gli faceva onore e piacere che il dottor Amati avesse cercato la figlia, ma certi nonni suoi, antichi antichi, antichissimi, avevano lasciata una carta scritta, con cui si diceva che l'ultima figlia femmina della famiglia, non doveva maritarsi, doveva morire zitella; e se questo ordine non si eseguiva, era preparato un gran castigo di Dio, per lei. Quante lacrime aveva sparse la marchesina, non si può sapere; ma il padre era stato duro. Tanto che il dottor Amati, una sera che ci aveva fatto una lite terribile, per togliere ogni nuova occasione di collera e per levarsi dalla testa quell'idea, aveva cercato un mese di permesso all'ospedale, aveva lasciato tutti i suoi malati e se ne era andato al suo paese, da sua madre. Poi, era ritornato: ma non aveva voluto più metter piede, nel palazzo Rossi, e se ne era andato ad abitare una casa mobiliata, in via Chiaia. A palazzo Rossi, la casa era chiusa, con tutti i suoi mobili e i suoi libri, che il medico non leggeva più: ogni tanto veniva la governante a pulire e se ne ripartiva, dopo poco: ora, anche i mobili e i libri sarebbero stati portati via: a maggio, l'appartamento restava vuoto. Ah povera marchesina, quante volte l'aveva vista, la portinaia, comparire dietro i cristalli del balcone, nella corticina interna, e fissare i suoi occhi già smorti, su quel balcone del medico, chiuso, ermeticamente chiuso. Che pena faceva al cuore, quella misera creatura della Madonna, che si consumava di malattia, di malinconia e di miseria. Proprio pareva che non vi fosse più olio alla lucerna; Margherita, la cameriera, quando gliene parlavano, abbassava gli occhi, per non far vedere che le veniva da piangere. Ma il marchese non aveva avuto torto, di obbedire alla volontà dei nonni: coi castighi di Dio non si scherza! - Eh, stava scritto… - osservava, approvando, la interlocutrice, tutta pensosa. - Scritto, scritto, figlia mia. La volontà di Dio, che volete fare! I ricercatori di case cominciarono subito ad affluire per visitare gli appartamenti disponibili nel palazzo Rossi; e la via crucis ella portinaia, su e giù per le scale, dalle dieci della mattina alle quattro del pomeriggio, non terminava più; ogni volta che una famiglia si presentava, innanzi al suo casotto, e faceva le interrogazioni di rito, ella crollava il capo, sospirava e si levava per accompagnarla su, al primo o al secondo piano. Andava avanti, salendo piano piano, rivolgendosi a discorrere con questi cercatori di asilo, con la familiarità della piccola gente napoletana e faceva scricchiolare le chiavi, che teneva sospese alla cintura, se coloro volevan visitare la casa del medico, che ne aveva affidata la custodia alla portinaia. Monotonamente, girando per le stanze vaste, mobiliate un po' severamente, dove ancor restava l'austera impressione morale di una grande scienza, di una grande volontà, e di tutte le miserie umane che là erano venute a chieder soccorso, ella vantava la casa e il dottor Amati, il famoso dottore, per cui si riempiva d'ammirazione Napoli, e tutto il mondo - come ella diceva. - Ah! - dicevano i visitatori, meravigliati, - e perché va via? In fretta, in fretta, ella soggiungeva che il dottore si ammogliava e aveva bisogno di una casa più vasta, o che i suoi affari avevano cambiato di centro, o che egli si restringeva d'appartamento, avendo preso uno studio ll'ospedale, insomma una bugia qualunque; una bugia così frettolosa e poco logica che i visitatori, dotati già di una naturale diffidenza, non accettavano affatto e la interrompevano: - Ah, va bene: ritorneremo. Ma non tornavano punto, impressionati un po' tristemente dall'aria solitaria e grave di quell'appartamento, dai troppi libri, dalle troppe macchine chirurgiche e infine da quel seggiolone a letto, di cuoio nero, su cui si distendeva l'ammalato, per esser visitato, e che pareva come il preliminare della tomba: e andavano via in fretta, parlando piano, come intimoriti, anche più intimoriti dall'assenza del dottore, il temuto e rispettato Iddio della medicina. Fuggivano e non tornavano più, con la fantasia abbuiata, non volendo mica venire a contristarsi, in quell'ambiente così gravemente pensoso. La portinaia, sulla soglia del portone, li vedeva andar via lestamente, verso Toledo, dove ci era il moto, la luce e l'allegrezza, e malgrado le loro vaghe promesse, vagamente profferite, ella capiva che non sarebbero più ritornati. - Non si combina nulla, comare mia, - ella diceva ogni tanto, con aria stanca, alla sua vicina portinaia del palazzo De Rosa. E non si combinava nulla, neppure per gli appartamenti che lasciavano le famiglie Fragalà e Cavalcanti, quasi che i visitatori sentissero la mala sorte che emanava da quelle due case, dove tante lacrime erano state versate, dove tante se ne versavano. In casa Fragalà la malinconica e valorosa Luisella si era già disfatta di una gran parte dei mobili: il bel salone rosso era oramai nudo dei suoi mobili di antico broccato, la bimba dormiva nella stanza dei suoi genitori e la vita di costoro, di un tratto immeschinita, ammiserita, si era ristretta alla camera da letto e alla stanza da pranzo. Talvolta i visitatori trovavano la famigliuola a pranzo, alle due: Cesare Fragalà teneva gli occhi fissi sul suo piatto, mangiando macchinalmente; Luisella taceva, rotolando palline di mollica fra le dita, e la piccola Agnesina, savia, buona, guardava il padre e la madre, volta a volta, non facendo nessun rumore con la forchetta e col cucchiaio, per non disturbare: e quando i visitatori entravano, il padre di famiglia impallidiva, la madre di famiglia chinava gli occhi: ambedue, a ogni visita, sentivano di dover andar via da quella casa e ancora la loro piaga frizzava, mandava sangue. La bambina li guardava e ripeteva, assai sottovoce: - Mammà, mammà… I visitatori, accompagnati dalla portinaia, sentivano di disturbare e chiedevano scusa, passando nelle altre stanze, mentre la portinaia parlava volubilmente, per stordirli: quando essi vedevano deserti, vuoti, il salone e il salottino e l'anticamera, si scambiavano delle occhiate bizzarre, tanto che la portinaia fremeva d'impazienza, bestemmiando in cuor suo, tutti, chi va via dalle case, chi le va cercando e anche chi li accompagna su, cioè proprio lei, che doveva avere questa dura sorte. E i visitatori facevano la domanda di rito, con un certo sospetto: - Ma perché se ne vanno? Allora ella si decideva e sottovoce mormorava: - Sono falliti… - Ah, ah! - esclamavano, interessati, i visitatori. Nelle scale ella dava i particolari, diceva la ragione del fallimento, narrava l'antica ricchezza e la moderna strettissima privazione di ogni bene materiale; diceva il coraggio della povera signora Luisa, di fronte alla indomabile passione del marito per la bonafficiata; iceva la bontà della povera piccola Agnesina, che parea avesse capito, esser lei nata e cresciuta nel cattivo tempo della sventura. I ricercatori di casa ascoltavano incuriositi, con quella emozione a fior di pelle, che è particolare ai meridionali: ma da quello che avevano visto, come da quello che loro narrava la portinaia, essi ricevevano una singolare impressione di malaugurio, una fatalità che si era appesantita sopra una famiglia buona e innocente, un tetro destino che ne aveva distrutto tutte le sorgenti di felicità e di energia. Ah, davano le spalle alla casa dei Fragalà e al palazzo Rossi lentamente, i visitatori di case, ma restava loro una tristezza nell'anima e parlavano fra loro di questi disastri umani, così implacabili, così impreveduti e invincibili. Chi l'attribuiva al perfido destino, chi alla jettatura, hi faceva della filosofia sulle passioni umane, sul giuoco, specialmente, ripetendo ancora quella frase, che racchiude tutta l'indulgenza, tutto il perdono napoletano: - Signori miei, non ci facciamo maestri… Nell'appartamento del marchese Cavalcanti si penetrava con difficoltà; spesso, Margherita si opponeva che le persone visitassero la casa, malgrado che fosse l'ora delle visite. La portinaia parlamentava, irritandosi un poco, levando talvolta la voce, chiedendo come si sarebbe mai potuto affittare un appartamento, quando nessuno poteva entrare a vederlo; talvolta otteneva di entrare, da un battente socchiuso. Tutti tacevano, immediatamente: e dall'anticamera gelida e nuda, al nudo e gelido salone, vi era un tal freddo, un tal odore di vecchia polvere smossa, che faceva ribrezzo. Sulle mura eran disegnati, in larghe macchie scuriccie, i profili dei mobili che vi erano stati un tempo e che il marchese Cavalcanti aveva venduto, per giuocarne il valore al lotto: si vedevano i grossi chiodi a uncino, a cui una volta erano stati sospesi i quadri; un mucchio di vecchie carte giallastre era per terra, in un angolo del salone vuoto; e dove erano state attaccate le tende, alle porte e ai balconi, restavano i buchi scalcinati, donde parevano essere state strappate con violenza. Anche la cappella era senza più un santo, venduto l' Ecce Homo, enduta la Madonna Addolorata, e le frasche, gli ornamenti, e persino la fine tovaglia guarnita d'antico merletto, tanto che quell'altare spogliato aveva un lugubre, un sacrilego aspetto. Attraverso questa casa, ogni tanto, i visitatori incontravano una pallidissima, esilissima figura di fanciulla, in veste nera, con le magre spalle avvolte in uno sciallino gramo, con le grosse trecce nere che le rendevano anche più esangue il volto. Ella fissava i suoi occhi dolenti sui visitatori, come se non si raccapezzasse, e un'ombra di dolore li rianimava, per un minuto, quando ella intendeva che doveva abbandonare quel tetto, quell'asilo. La portinaia sottovoce, diceva: - La marchesina. Senz'altro: ed era, quell'apparizione, come tutta la grande linea di un disastro morale irrimediabile. Talvolta, i visitatori, accompagnati dalla portinaia e da Margherita, la cameriera, arrivavano davanti a una porta chiusa. La cameriera esitava un momento: ma a un'occhiata suggestiva della portinaia, si decideva a bussare. - Eccellenza, possiamo entrare? - Sì, sì, - rispondeva una fioca voce. E tutti vedevano una misera stanzetta verginale, dove si gelava di freddo, dove la smorta creatura dal vestito nero, avvolta nel gramo sciallino, era seduta presso il suo lettuccio, o si levava prestamente dal suo inginocchiatoio. Allora, intimiditi, coloro davano appena un' occhiata rapida, mormoravano vagamente qualche parola di scusa e se ne andavano, mentre la fanciulla li seguiva coi neri occhi pensosi e dolenti. Nelle scale essi osavano parlare: domandavano alla portinaia, come se si trattasse di persone e di cose morte: - Come si chiamavano, ostoro? ostoro?- I marchesi Cavalcanti, - diceva la portinaia. E i visitatori andavano via, portando seco l'impressione profonda di cose e di persone estinte.

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