Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Piccolo mondo antico

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Fogazzaro, Antonio 1 occorrenze

I suoi grandi, compunti occhi neri si ravvivarono quando il signor Giacomo pronunciò un gran soffio finale, e i colleghi, lasciate le carte, si abbandonarono sulle spalliere delle rispettive seggiole a riposare alquanto, a ruminar il piacere del giuoco. Finalmente il suo signore si avvicinò al canapè, le fece segno di alzarsi. Per la prima volta in vita sua, forse, ella fu contenta di salire in barca, con grande meraviglia del Puria il quale dichiarò che sul lago, di notte, era un "fifone". È vero che a cento passi da Cressogno l'orrore del lago e delle tenebre la riprese. Pensò allora con invidia al curato del quale udiva la voce sopra il Tentiòn, fra gli ulivi. "Addio, fifone!", gridò Pasotti. Il "fifone" non udì. Egli e il Paolino discorrevano sottovoce ma con gran calore, commentando le parole della marchesa, del prefetto, di Pasotti, cercando di frugar nel cuore della vecchia, disputando se vi fossero pietà e rimorsi. Il curato era per il sì, il Paolino per il no. Il Paolon precedeva con la lanterna mettendo continui, inintelligibili grugniti. Il Paolino andò poi mordendo tutto che fosse da mordere, la durezza della marchesa, la malignità di Pasotti, la dabbenaggine di sua moglie, la cortigianeria del Cima, la temerità del prefetto, le pazzie di Luisa e di Franco, la debolezza dell'ingegnere Ribera, tante altre colpe di vivi e di morti. Durezze, debolezze, malignità, ostinazioni, cortigianerie: dappertutto, secondo lui, c'era in fondo quell'egoismo porco. "Che gran mond mincion!", fu il suo riassunto finale. "Ch'el senta car el me curat, quand gh'è quel poo de ris e verz con quel poo de formagg per sora, lassèm pür andà tüsscoss al diavol che l'è mej." Dopo una sentenza tanto logica nulla restava più a dire né a grugnire e la piccola comitiva giunta in capo alla salita procedette silenziosa per le umide ombre del Campò, nell'odor fresco dei castagni e dei noci, senz'accorgersi di uno spettro che passava in aria, vôlto a Cressogno. Partiti i suoi ospiti, la marchesa suonò il campanello per il rosario che non s'era potuto dire alla solita ora. Il rosario di casa Maironi era una cosa viva che aveva le sue radici nei peccati antichi della marchesa e veniva sempre più sviluppandosi, mettendo nuovi Ave e nuovi Gloria a misura che la vecchia dama avanzava negli anni e si scorgeva più netto e più visibile a fronte un teschio schifoso, il proprio. Perciò il suo rosario era lungo assai. I peccati dolci della protratta gioventù non le pesavano troppo sulla coscienza; ma qualche grossa furfanteria d'altro genere, misurabile in lire, soldi e denari, mal confessata e quindi mal perdonabile, le dava una molestia sempre compressa a furia di rosari e sempre rinascente. Mentre chiedeva al Creditore Grande la remissione de' suoi debiti le pareva ch'Egli avesse facoltà d'accordarla intera; invece dopo le si levavano da capo in mente le facce crucciose dei creditori piccoli, ritornava con esse il dubbio del perdono, e la sua avarizia, la suasuperbia avevano a lottare con il terrore di un carcere perpetuo per debiti, oltre la tomba. Recitare le preghiere per la conversione dei peccatori e quelle per la guarigione degl'infermi, prima di venire ai Deprofundis , annunciò tre Avemarie nuove secondo la sua intenzione. La guattera, una semplice pia contadina di Cressogno, suppose che le tre Avemarie fossero domandate per quei poveretti di Oria e le recitò con tutto lo zelo. Le Avemarie della guattera urtarono e dispersero quelle della padrona, che chiedevano sonno, riposo di nervi e di coscienza. Quanto alle Avemarie degli altri, esse furono dette secondo la loro comune intenzione che non restassero, come troppo spesso accadeva, definitivamente appiccicate al rosario. Nessuna insomma poté arrestare lo spettro nel suo cammino. La marchesa si ritirò verso le undici. Prese dell'acqua di cedro e avendo la cameriera incominciato a parlare di Oria, di don Franco che si sussurrava essere arrivato, le impose silenzio. Era tocca, sì. Aveva sempre davanti agli occhi l'immagine di Maria come l'aveva veduta una volta passando in gondola sotto la villetta Gilardoni, piccina, con un grembiale bianco, i capelli lunghi e le braccia nude, stranamente somigliante ad un bambino suo, mortole a tre anni. Sentiva ella affetto, pietà? Non sapeva ella stessa quello che sentisse. Forse dispetto e sgomento di non sapersi liberare da una immagine molesta; forse paura di questo pensiero, che se non fosse stato commesso certo grosso peccato antico, se il testamento del marchese Franco non fosse stato arso, la bambina non sarebbe morta. Come fu a letto si fece leggere altre preghiere dalla cameriera, le ordinò di spegnere il lume e la congedò. Chiuse gli occhi, cercò di non pensare a niente, e si vide sotto le palpebre una chiara macchia informe che si venne disegnando in un guancialetto, poi in una lettera, poi in un gran crisantemo bianco e poi in un viso supino, morto, che diventava via via più piccolo. Le pareva già di assopirsi ma per effetto di quest'ultima trasformazione le vibrò nel cuore il pensiero della bambina, non vide più nulla sotto le palpebre, il sopore si dileguò ed ella aperse gli occhi, inquieta, malcontenta. Si propose di pensar una partita di tarocchi per cacciar le immaginazioni moleste e richiamar il sonno. Pensò ai tarocchi, poté, con uno sforzo, vedersi nella testa il tavolino da giuoco, i giuocatori, i lumi, le carte; ma quando cessò dallo sforzo per abbandonarsi ad una visione passiva di questi soporifici fantasmi, le comparve sotto le palpebre tutt'altra cosa, una testa che cambiava continuamente lineamenti, espressione, attitudini e che venne per ultimo lentamente ripiegandosi avanti sopra se stessa come nel sonno o nella morte, non mostrando più che i capelli. Altra scossa di nervi; la marchesa riaperse gli occhi e udì l'orologio della scala suonare. Contò le ore: dodici. Già mezzanotte e non poter dormire! Stette alquanto ad occhi aperti ed ecco adesso immagini nel buio come prima sotto le palpebre. Cominciavano da un nucleo informe e si svolgevano continuamente. Si disegnò un quadrante d'orologio, che diventò un occhio spaventato di pesce, un occhio umano severo. Ad un tratto venne alla marchesa l'idea che non riuscirebbe a dormire e il sopore già inoltrato andò rotto da capo. Allora ella suonò il campanello. La cameriera si fece chiamar due volte e poi venne mezzo svestita, dormigliosa. L'ordine fu di posar il lume sopra una sedia per modo che dal letto non si potesse veder la fiamma; di prendere un volume di prediche del Barbieri e di leggere a mezza voce. La cameriera era abituata a somministrare questi narcotici. Si pose a leggere e in capo alla seconda pagina, udendo il respiro della padrona farsi greve, andò pian piano smorzando la voce per un mormorio inarticolato, fino al silenzio. Aspettò un poco, ascoltò il respiro regolare e pesante, si alzò a guardar la faccia cupa, supina sul doppio guanciale con le sopracciglia aggrottate e la bocca semiaperta, prese il lume e si ritirò in punta di piedi. La marchesa dormiva e sognava. Sognava di giacer sulla soglia nello stanzone buio di un carcere, con i ceppi ai piedi, accusata di assassinio. Entrava il giudice con un lume, sedeva presso a lei e leggeva una predica sulla necessità della confessione. Ella gli si protestava innocente, ripeteva: "Ma non sa che si è annegata da sé?". Il giudice non rispondeva, leggeva, leggeva sempre con voce compunta e solenne, e la marchesa insisteva: "No, non l'ho uccisa". Non era flemmatica nel sogno, si agitava come una disperata. "Badi", rispondeva il giudice. "La bambina lo dice." Egli si alzava in piedi e ripeteva: "Lo dice". Poi batté forte le mani palma a palma ed esclamò: "Entrate!". Fino a questo punto la marchesa aveva sentito, sognando, di sognare; qui credette svegliarsi, vide con orrore che qualcuno era entrato infatti. Una forma umana debolmente luminosa stava a sedere sulla poltrona ingombra di vesti, presso il suo letto, sì ch'ella non poteva vedere la parte inferiore dell'Apparizione. Il busto, le braccia, le mani raccolte insieme avevano un colore biancastro e contorni alquanto incerti; la testa, appoggiata alla spalliera, era nitida e circonfusa d'un chiaror pallido. Gli occhi scuri, vivi, fissavano la marchesa. Che orrore! Era veramente la bambina morta. Che orrore, che orrore! Gli occhi dell'Apparizione parlavano, lo dicevano. Il giudice aveva ragione, la bambina lo diceva, senza parole, con gli occhi. "Tu, nonna, tu sei stata, tu. Io avrei dovuto nascer e vivere nella tua casa. Tu non l'hai voluto. Sei condannata alla morte eterna." Gli occhi soli, i fissi, tristi, pietosi occhi dicevano tutto questo ad un tempo. La marchesa mise un lungo gemito, stese le braccia verso l'Apparizione, credendo dir qualche cosa e non riuscendo che a rantolare "ah ... ah ... ah ..." mentre le mani, le braccia, il busto del fantasma sfumavano in una nebbia, i contorni del viso illanguidivano e solo rimaneva intenso lo sguardo, che finalmente pure si velò e rientrò quasi in un lontano e profondo Se stesso, null'altro rimanendo dell'apparizione che poca fosforescenza poi assorbita dall'ombra. La marchesa si svegliò di soprassalto, ansante, non si ricordò del campanello, si provò a gridare e non riuscì a metter fuori la voce. Con un impeto della sua volontà potente ancora nello sfacelo delle forze, cacciò le gambe dal letto, discese, fece due passi brancolando nel buio, incespicò nella poltrona, si aggrappò a una sedia, cadde con essa pesantemente sul pavimento, si mise a gemere. La cameriera si svegliò al tonfo, chiamò, non ebbe risposta, udì il gemito e, acceso il lume, accorse, vide nella penombra, tra la sedia e la poltrona, qualche cosa di bianco e d'enorme che si divincolava sul pavimento come una bestia mostruosa del mare tirata in secco. Gridò, corse al campanello, svegliò d'un colpo tutta la casa e si precipitò ad aiutar la vecchia che rantolava: "Il prete, il prete! Il prefetto, il prefetto!"

ATTRAVERSO L'ATLANTICO IN PALLONE

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

I naufraghi, comprendendo che il soccorso stava per giungere, avevano cessato le loro grida minacciose, ma non abbandonarono i due coni, che avevano tratti presso la zattera per impedire la fuga dell'aerostato. Coi visi in aria, gli occhi fissi, non perdevano di vista una mossa degli aeronauti. L'ingegnere e O'Donnell, legata la cassa attorno alla fune dell'ancora poppiera, la lasciarono andare gridando: "Attenti alle teste!" La cassa filò lungo la fune e piombò sopra il cono. I naufraghi vi si precipitarono sopra urtandosi e respingendosi per essere i primi a metter le mani su quei viveri, la tirarono a bordo e con pochi colpi di scure la sfondarono. Ad un tratto un urlo di furore scoppiò fra quei disgraziati. "E l'acqua! ... Noi vogliamo dell'acqua!" urlarono, tenendo le mani raggrinzite verso gli aeronauti. "Ne abbiamo appena per noi" disse l'ingegnere. "Dateci la vostra acqua, canaglie!" tuonò Mac-Canthy. "Ti schiaccio nel cranio una palla, brigante!" urlò O'Donnell. "La canaglia sarai tu!" "A me amici!" gridò il marinaio. "Tiriamoli giù!" "Sì, giù, giù, o dateci la vostra acqua!" urlarono i marinai furiosi. L'ingegnere raccolse il winchester e lo armò risolutamente, mentre O'Donnell impugnava una scure, pronto a tagliare le funi. "Il primo che tocca le àncore lo uccido come un cane!" tuonò Mister Kelly con tono minaccioso. I naufraghi, lungi dal calmarsi a quella minaccia, inferocirono maggiormente: si precipitarono sulle funi e diedero una tale strappata, da abbassare l'aerostato di parecchi metri. "Tagliate, O'Donnell!" gridò l'ingegnere. L'irlandese con due colpi di scure assestati sui bordi della navicella, sui quali poggiavano le due funi, liberò l'aerostato, il quale fece un balzo in aria. Vedendo fuggire e precipitare le funi, i naufraghi emisero urla feroci. I due uomini armati alzarono le armi e fecero fuoco. Una palla passò fischiando rasente il bordo poppiero della navicella e si perdette altrove; l'altra non fu udita. O'Donnell, furibondo, armò una carabina, e la puntò contro la zattera, ma l'ingegnere lo trattenne. "È inutile" disse. "Lasciateli: la fame e la sete non ragionano." "Sono canaglie, Mister Kelly, che non conoscono la riconoscenza. Avrei cacciato ben volentieri una palla nel corpo a quel brutale Mac-Canthy." "È lui che voleva mangiarmi" disse il mozzo. "Ma spero che sarà lui il mangiato, Walter" disse O'Donnell. Il Washington intanto s'innalzava rapidamente, alleggerito com'era di quei duecento e più metri di funi e di coni. I naufraghi nondimeno continuavano le loro minacce e tiravano coi loro fucili, quantunque l'aerostato fosse ormai fuori portata. La loro rabbia parve che non avesse più limiti, dopo che si erano accorti della presenza di Walter, e si udiva la rauca voce di Mac-Canthy che urlava: "Scendi, cane di un mozzo!" Vedendo il Washington dirigersi verso il sud, quegli uomini, che parevano diventati pazzi, si precipitarono sulla vela, che in un istante fu bracciata sul filo del vento, poi s'armarono di tavole e di pennoni, mettendosi ad arrancare con furore: però dovettero ben presto convincersi dell'inutilità dei loro sforzi. La distanza cresceva rapidamente, di secondo in secondo: le loro grida divennero fioche, poi non si udirono più; la zattera rimpicciolì a poco a poco e finalmente fu perduta di vista. "Che l'oceano v'inghiotta, canaglie!" esclamò O'Donnell che era ancora esasperato. "Bel modo di ricompensarci dei viveri che abbiamo loro gettato." "Le privazioni li hanno resi feroci, O'Donnell disse l'ingegnere. "Nel loro caso noi, forse, ci saremmo condotti egualmente." "Che il diavolo se li porti! Ecco delle àncore perdute, che forse rimpiangeremo." "Questo é vero, O'Donnell, poiché ormai noi non possiamo più fermarci. Siamo in balìa dei venti." "Perdita grave e ... " Si era arrestato col viso in aria, fiutando l'atmosfera. Ad un tratto impallidì ed emise una sorda imprecazione. "Mister Kelly" disse con voce alterata "sentite odore di gas." "Sì, sì" disse l'ingegnere. "Che una valvola si sia aperta o che ... ?" "Una valvola? ... È impossibile. O'Donnell. Qualcuno ha guastato i nostri palloni." "Una palla di quelle canaglie, forse?" Kelly, che non era meno agitato dell'irlandese, salì sull'asta che sosteneva la scialuppa, e ascoltò con profondo raccoglimento. In alto, udì dei leggeri scoppiettii. "Infami!" esclamò. "E io li ho soccorsi!" Ridiscese in preda ad una sorda collera: se la zattera si fosse trovata ancora sotto il pallone, non avrebbe forse più trattenuto O'Donnell, che voleva rispondere alle palle di quei miserabili con la grossa carabina. "Ebbene?" chiese l'irlandese con ansietà. "L'idrogeno fugge" rispose l'ingegnere. "Ci hanno traversato un pallone quei naufraghi?" "Sì e forse tutti e due." "Sono ferite gravi?" "Sì, O'Donnell, perché fra poco quei fori s'ingrandiranno, e noi cadremo sull'oceano." "Se provassimo a turarli? Non v'è qualche mezzo?" "Sì, cucirli, ma chi salirà fino ai fusi?" "Io, Mister Kelly." "No, Mister O'Donnell" disse il giovane Walter, "è affar mio." "Non avrai paura delle vertigini, ragazzo mio?" chiese l'ingegnere . "Sono un mozzo, Mister Kelly." "Ma ci troviamo ad una spaventevole altezza, Walter: a 3300 metri." "Non avrò paura" rispose il ragazzo con voce ferma. "Ma può scivolarti una mano o un piede e tu potresti piombare nell'oceano" disse O'Donnell. "Lascia che vada io." "Voi siete troppo pesante, O'Donnell" disse l'ingegnere "e potete squilibrare il fuso. Preferisco che salga Walter, che non pesa molto." "Grazie, Mister Kelly" rispose il ragazzo. L'ingegnere frugò in una delle casse ed estrasse del filo di seta, degli aghi e una scatoletta contenente una vernice assai densa e molto attaccaticcia, che mandava un acuto odore di resina. Consegnò quei diversi oggetti al mozzo, dicendogli: "Non perdete tempo, mio bravo ragazzo. Ogni minuto che passa è un metro cubo di gas che sfugge." Walter intascò gli oggetti, si levò le scarpe per non guastare la seta dei palloni e per essere più sicuro dei piedi, poi si aggrappò alle funi e s'arrampicò coraggiosamente sull'asta sostenente la scialuppa. "Hai paura?" gli chiesero O'Donnell e l'ingegnere. "Se ti coglie un principio di vertigine, scendi." "Il vuoto non mi spaventa" rispose il ragazzo con voce ferma. S'aggrappò alla rete e s'innalzò sopra quello spaventevole abisso aperto sotto i suoi piedi. Di maglia in maglia raggiunse il margine inferiore del fuso di tribordo e si issò sul suo fianco, cercando i buchi aperti dalla palla. Il fuso, sotto quel peso aggrappato al suo fianco, si spostò, inclinandosi verso l'esterno, ma essendo solidamente legato all'altro non si rovesciò. "Ci sei?" chiese l'ingegnere, che non scorgeva più il mozzo. "Sì, Mister Kelly" rispose Walter. "È un buco o uno strappo?" "E uno strappo lungo sei centimetri; e ne vedo uno più lungo sull'altro fuso." "Puoi turare le ferite?" "Lo spero, Mister Kelly." Il mozzo si mise subito all'opera. Le palle, invece di aver attraversato i fusi aprendo due fori, come dapprima l'ingegnere aveva sospettato, li aveva sfiorati di fianco, producendo però due strappi considerevoli, attraverso i quali il gas fuggiva con grande impeto, scoppiettando. Si potevano turare ma, prima che l'operazione fosse terminata, una parte considerevole di idrogeno doveva fuggire, compromettendo grandemente la stabilità del Washington il quale cominciava ad abbassarsi rapidamente, inclinandosi sul tribordo. Walter, legatesi un fazzoletto sulla bocca e sul naso per non venire asfissiato dal gas che irrompeva attraverso l'apertura, si mise rapidamente al lavoro, mentre l'ingegnere e O'Donnell preparavano i cilindri contenenti l'idrogeno compresso per iniettarlo nelle manichette dei fusi. Malgrado il mozzo cucisse rapidamente, il Washington si piegava sempre più e s'abbassava rapidamente, anzi precipitava. In cinque minuti era calato di 1500 metri e non si arrestava ancora. L'ingegnere che vedeva avvicinarsi l'oceano con grande rapidità, aprì il primo cilindro e lanciò nel fuso riparato i primi quaranta litri di idrogeno. Il Washington si raddrizzò e la sua discesa si arrestò, anzi si mise a salire, dapprima lentamente, poi con una certa rapidità, finché raggiunse i 3200 metri. Il mozzo aveva terminato la cucitura. La coprì con parecchie pennellate di vernice, si assicurò che non vi fossero altre aperture, poi ridiscese, passò altro fuso e ripeté l'operazione sulla seconda ferita, che era più grave dell'altra. Pareva fosse stata fatta con un proiettile tagliente. "Hai finito?" gli chiese l'ingegnere. "Sì, Mister Kelly." "Grazie, mio bravo ragazzo. Rinforziamo anche il secondo fuso." "Resisteranno le cuciture?" cinese O'Donnell. "Non ho la pretesa che non lascino sfuggire il gas" disse l'ingegnere, "ma infine la perdita sarà minore e, forse, potremo sostenerci in aria qualche giorno ancora. "E poi? ... il vento ci spinge sempre al sud, Mister Kelly e la costa è lontana." L'ingegnere non rispose, ma emise un profondo sospiro.

I MISTERI DELLA GIUNGLA NERA

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

Abbandonarono la fregata e s'imbarcarono sulla Devonshire, la quale riprese la corsa a tutto vapore, inoltrandosi nel Mangal. Tremal-Naik aveva assunto il comando e la faceva volare sulle acque fangose del fiume. Ben presto la sua rapidità si accrebbe spaventevolmente. Tonnellate di carbone scomparivano dentro i forni scaldati a bianco, il vapore usciva dalle valvole emettendo acuti fischi; un tremito formidabile scuoteva il battello dalla chiglia alla cima degli alberi, dall'asta di prua a quella di poppa. Ben presto il manometro segnò sei atmosfere e mezzo! Ma Tremal-Naik ed il capitano, assaliti da un'impazienza furiosa, da una specie di delirio, non erano ancora contenti. La loro voce risuonava ad ogni istante, stimolando i macchinisti ed i fuochisti che arrostivano dinanzi ai forni. Tre ore erano già trascorse, tre ore lunghe come tre secoli per l'indiano che anelava di rivedere quella donna che le era costata tanti sacrifici e tante emozioni. Il canale andava a poco a poco restringendosi ed ingombrandosi di isole e di isolette fangose, in mezzo alle quali slanciavasi la cannoniera sfondando masse compatte di putridi vegetali. Tutto indicava che il viaggio stava per terminare. D'un tratto sulla cima dell'albero s'udì un grido: - Il banian! Al nord era apparso il gigantesco albero, coi suoi trecento tronchi. Tremal-Naik si sentì scuotere da capo a piedi da una violenta commozione. - Ada! ... - esclamò egli. - Eccomi alla fine delle mie pene! Si gettò d'un balzo giù dalla lunetta e corse a prua. La riva era deserta. Solamente dei marabù stavano appollaiati sui rami del banian, crocidando lugubremente. La vista di quei funebri uccelli gli fe' correre un brivido per le ossa. - Macchina indietro! - gridò. La battuta delle tambure cessò. La cannoniera, trasportata dal proprio slancio, andò a cozzare colla prua la costa dell'isola, incagliandovisi profondamente. Il capitano si avvicinò a Tremal-Naik, che si era arrestato, stringendo con mano convulsa la murata. - Nessuno?, - chiese. - Nessuno, - rispose Tremal-Naik. - Allora li sorprenderemo nel loro covo. - Lo spero. - Conosci l'entrata? - Sì capitano. - Sarà accessibile? - Lo credo. - A terra adunque! ... - Una parola: lasciate che entri prima io. Mi si conosce e vi aprirò il passo. Quando udirete un fischio, avanzatevi liberamente. Ciò detto si mise a correre, come un delirante, verso l'albero, vi si arrampicò, raggiunse il tronco e si lasciò cader giù. Ai piedi della scala brillava una torcia, e accanto ad essa vegliava un thug, con una carabina in mano. - Avanti, - diss'egli. - Cosa succede nei sotterranei? - chiese Tremal-Naik. - Nulla. - La mia Ada? - Aspetta nella pagoda il suo regalo di nozze. S'avvicinò ad un enorme tamburo sospeso alla volta, e batté tre colpi. In lontananza s'udirono tre colpi eguali. - Sei atteso, - disse il thug, porgendogli la torcia. - Allora muori! ... Tremal-Naik, pronto come il lampo, erasi gettato addosso al thug col pugnale in mano. Afferrarlo strettamente per la gola e cacciargli l'arma nel petto fu cosa d'un solo istante. Lo strangolatore cadde senza emettere un grido. Tremal-Naik spinse da un lato il cadavere, poi emise un fischio. Il capitano ed i suoi uomini, che erano già entrati, lo raggiunsero.- La via è libera, - disse l'indiano. - E mia figlia? - chiese Corishant, con voce soffocata. - Ci attende nella grande caverna. - Avanti! ... Armate i fucili! ... - No, lasciate che io vi preceda. Li sorprenderemo più facilmente. - Va', noi ti seguiremo a breve distanza. Tremal-Naik si mise in cammino procedendo rapidamente. Mille angoscie lo agitavano in quel supremo istante. Gli pareva che un tremendo pericolo lo minacciasse, ora che stava per raggiungere la felicità suprema. La sua corsa, attraverso a quelle lunghe fughe di corridoi, durò dieci minuti. Dodici colpi sonori rimbombavano in quegli spaventevoli sotterranei, quando giunse alla pagoda, in mezzo alla quale giganteggiava la sinistra figura di Kâlì, la mostruosa divinità dei thugs indiani. Uno spettacolo strano, mai più visto, si presentò tosto dinanzi ai suoi occhi. Sotto le volte splendevano ricche e bizzarre lampade, le quali versavano torrenti di luce azzurrognola, livida. Dalle pareti pendevano migliaia e migliaia di lacci e migliaia e migliaia di pugnali. Dinanzi ad una vaschetta di marmo bianco, colma d'acqua, nella quale guizzava il pesciolino sacro delle acque del Gange, su di un cuscino di seta cremisi sedeva Suyodhana, avvolto in un grande dubgah di seta gialla, e attorno a lui, ritti e immobili come statue, stavano cento thugs, alcuni dalla pelle nera come gli africani, altri olivastra come i malesi ed altri ancora bronzina, rossiccia o gialla, quasi nudi, unti d'olio di cocco e col petto tatuato. Tremal-Naik, anelante, stupefatto, s'era arrestato in mezzo alla pagoda, saettato da quei cento sguardi acuti come punte di spillo. - Sii il benvenuto, - disse Suyodhana con uno strano sorriso. - Torni vinto o vincitore? - Dov'è la mia Ada? - chiese Tremal-Naik con angoscia. Un sordo mormorìo percorse il cerchio dei thugs. - Sii paziente, - disse il capo dei settari. - Dov'è la testa del capitano? - Hider mi segue, e fra qualche minuto te la presenterò. - L'hai dunque ucciso? - Sì. - Fratelli, il nostro nemico è morto! - urlò Suyodhana. S'alzò, anzi scattò su come una tigre. Sulla sua faccia passò come un fremito e rimase lì, immobile a guardare Tremal-Naik. - Odimi, - disse, dopo qualche minuto. - Vedi tu quella donna di bronzo che sta di faccia a noi? - La vedo, - rispose Tremal-Naik. - Ma quella donna non è la mia. - Lo so, ma quella donna è possente, più possente di Brahma, di Visnù, di Siva e di tutte le divinità adorate dagli indù. Vive nel regno delle tenebre, parla a noi a mezzo di quel pesce che tu vedi nuotare in quella vaschetta, è giusta e terribile. Disprezza gli incensi e le preci, non vuole che vittime. Quella donna rappresenta la libertà indiana e la distruzione dei nostri oppressori dalla pelle bianca. Suyodhana si arrestò per vedere quale effetto producevano quelle parole su Tremal-Naik, ma questi rimase freddo, insensibile all'entusiasmo del settario. Egli non pensava che alla sua Ada, che per lui era la sua dea, la sua patria, la sua vita. - Tremal-Naik, - ripigliò Suyodhana. - Tu sei uno di quegli uomini che nell'India sono rari, tu sei forte, tu sei audace, tu sei terribile, tu sei un indiano, che come noi langue sotto il giogo degli stranieri dalla pelle bianca. Abbracceresti la nostra religione? - Io! - esclamò Tremal-Naik. - Io thug! - Ti fanno orrore i thugs? Forse perché strangolano? Gli europei ci schiacciarono col ferro dei loro cannoni, noi li schiacciamo col laccio, l'arma della nostra possente dea. - E la mia Ada? ... - Rimarrà fra noi, come rimane Kammamuri che ormai è diventato un thug. - Ma sarà mia sposa? - Giammai! Ella appartiene alla nostra dea. - E Tremal-Naik non ha altra dea che Ada Corishant! Per la seconda volta un sordo mormorio percorse il circolo dei thugs. Tremal- Naik si guardò attorno con furore. - Suyodhana! - esclamò. - Sarei io forse tradito? ... Mi si negherebbe ora quella donna dopo tutto quello che feci per la vostra dea? ... Saresti tu uno spergiuro? - Quella donna ti appartiene, - disse Suyodhana con un tono di voce che metteva i brividi. Un indiano batté dodici colpi su di un tam-tam. Nella pagoda regnò per alcuni istanti un profondo silenzio, un silenzio di morte. Si avrebbe detto che quei cento uomini non respiravano più. D'un tratto una porta s'aprì e si slanciò fuori Ada, coperta di candidi veli, col petto racchiuso da una corazza d'oro dalla quale scaturivano acciecanti bagliori. Due grida rimbombavano nella pagoda: - Ada! ... - Tremal-Naik. E l'indiano e la giovanetta si slanciarono l'una nelle braccia dell'altro. Quasi subito si udì una voce tuonante a gridare: - Fuoco! ... Una scarica tremenda rimbombò nel sotterraneo scuotendo tutti gli echi delle gallerie, poi sessanta uomini, irrompendo dal tenebroso corridoio, si slanciarono nella pagoda a baionetta calata. I thugs, stupefatti, atterriti, si rovesciarono confusamente attraverso alle gallerie, lasciando sul terreno una ventina di loro. Suyodhama, con un balzo di tigre si era lanciato in uno stretto passaggio, chiudendo dietro di sé una pesante porta di legno di tek. Il capitano si era precipitato verso Ada, gridando: - Figlia mia! ... finalmente di rivedo! ... - Mio padre! ... - aveva gridato la giovanetta, ed era svenuta fra le braccia di lui. - In ritirata! ... - tuonò Tremal-Naik. - I soldati si ripiegarono verso la pagoda, per tema di smarrirsi sotto le tenebrose gallerie. - Partiamo! - disse il capitano. - Vieni, mio valoroso Tremal-Naik la mia Ada è tua sposa! ... Tu l'hai ben meritata. E si misero a ritirarsi, ma prima che uscissero dall'immenso sotterraneo, si era udita la voce del terribile Suyodhana a gridare con accento minaccioso: - Andate! ... Ci rivedremo nella jungla. -

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