Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Il Marchese di Roccaverdina

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

Con che cuore ha potuto abbandonarlo?» «Ringraziate Iddio! ... Se ci fosse stata lei, non sareste qui ... » La osservava. Era tuttavia bella, meglio della marchesa, con quel viso affilato, bianco come il latte e quegli occhi neri e quei folti capelli nerissimi, alta e snella. E parlando di lei con mastro Vito, Titta dichiarava che, secondo lui, la prima pazzia il marchese l'aveva commessa dandola per moglie a Rocco che non se la meritava. «Non sapete il patto? Non doveva toccarla neppure con un dito ... Per questo il marchese lo ha ammazzato.» «Aveva messo l'esca accanto al fuoco ... Che avreste fatto voi?» «Capriccio di gran signore! ... A voi e a me non sarebbe passato per la testa quel patto. E n'è andato di mezzo un innocente! La marchesa non sa che la Solmo è qui. Verrebbe a cavarle gli occhi. Maria mi ha raccontato di averle sentito dire alla madre: "Non lo posso perdonare! È diventato assassino per quella donna!". Ed ha voluto andarsene.» «Il marito è sempre marito! In quello stato poi!» «Dicono che ha rinunziato alla dote per mano di notaio ... Il marchese le aveva assegnato Poggiogrande.» «Per mano di notaio?» «Ci credete voi? Io vorrei sapere intanto chi comanderà qui e provvederà ai fatti miei.» Lo zio don Tindaro e il cavalier Pergola venivano tre, quattro volte nella giornata, in compagnia del dottor La Greca. «Ah dottore! Non vuole mangiare più! Serra i denti, si volta di là; come fare?» «Ci siamo!» Il dottore non die' altra risposta; e Agrippina Solmo, che ne comprese il significato, si buttò su una seggiola, con le mani nei capelli, singhiozzando: «Figlio, figlio mio!». La desolata tenerezza di queste parole non commosse il vecchio zio del marchese, che le si avvicinò e la prese per un braccio, riguardosamente ma severo: «Dovete capirlo», le disse, «non potete restare più qui. Mastro Vito, pensateci voi ... Poveretta!». Ella gli sfuggì per baciare e ribaciare quelle mani quasi inerti che avevano ammazzato per gelosia di lei; e pareva volesse lasciarvi tutta l'anima sua grata e orgogliosa di essere stata amata fino a quel punto dal marchese di Roccaverdina. «Figlio! figlio mio!» E si lasciò trascinar via da mastro Vito, senza opporre resistenza, umile, rassegnata com'era stata sempre, convinta anche lei che non poteva restare più là, perché il suo destino aveva voluto così.

PROFUMO

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

A intervalli gli arrivavano, a traverso gli usci non ben chiusi, gli scoppi di risa dei commessi, o il rumore d'una lor breve disputa, che lo respingeva, quasi con un urto, alla coscienza della propria condizione di funzionario, ai minuti par- ticolari delle cose di ufficio: un lavoro da sollecitare, la Commissione per la ricchezza mobile da convocare, un'ispezio- ne da intraprendere; lampi che gli guizzavano nel cervello e si estinguevano subito, per abbandonarlo alla ruota di tortu- ra che forse non si sarebbe arrestata più mai! Già ripensava alla madre, che frattanto se ne stava di là, in camera sua, so- la sola, ruminando livore contro la nuora; probabilmente anche irritata contro di lui per quel: "Mamma!" strappatogli dalla indignazione nel terribile momento. "Ha torto. Glielo dirò in viso!" esclamò, accompagnando allo scatto della voce un vigoroso gesto della mano. Avea preso una risoluzione. E picchiò all'uscio. Al cospetto della madre, emaciata, più che dagli anni, dalle sventure patite; che era stata bella, ma che della bellezza serbava traccia soltanto nella severità dei lineamenti, accresciuta dallo squallore della carnagione e dalle rughe, tristi impronte lasciatevi dalla cattiva sorte, Patrizio comprese d'un tratto che avrebbe avuto torto lui, se avesse parlato come si era proposto. La signora Geltrude, che non aveva mai smesso il lutto, raggrinzita in quel punto su la vecchia poltrona testimone di tutti i suoi dolori e di tutti i suoi pianti inconsolati, aveva appena voltato la testa e appena appena levato verso di lui gli occhi socchiusi, con mossa interrogativa, diffidente; e questo gli spense ogni sdegno, gli aggelò la parola nelle fauci, gli fece abbassare la fronte come a un colpevole. "Mamma!" egli disse, accostandosele a mani giunte. "Perdonami!" Ella brontolò a mezza voce parole inintelligibili, aprendo gli occhi per guardarlo in viso. Parve si attendesse qualcos'altro. Vedendo che suo figlio continuava a tacere, abbandonò di nuovo il capo su la spal- liera e tornò a socchiudere gli occhi. Patrizio era meravigliato e deluso di non sentirsi domandare: Come sta Eugenia? o tua moglie, colei, in qualunque modo ella avesse voluto chiamarla! "Non mi hai perdonato! Non vuoi perdonarmi!" scoppiò a dire. "Oh, mamma! E non ti accorgi che così mi fai patire pene d'inferno?" Ella si rizzò lentamente su la vita, appoggiò le mani alle ginocchia, inarcando le braccia, e, con labbra tremanti, ri- spose: "E le mie sono forse pene da nulla? Ti sei lasciato stregare! ... Sei tutto suo! Io non conto più niente per te!" "Come puoi immaginarlo, mamma?" "Non lo immagino, lo vedo. Avete dei segreti, ve li andate susurrando all'orecchio qua e là, evitando la mia presen- za, cogliendo ogni più lieve pretesto per evitarla. Sono di troppo - l'ho capito - non per te, no, per colei. Ma non posso andarmene via, per farle largo. Il Signore non mi vuole; mi lascia qui, in castigo de' miei peccati, forse; forse, pe' suoi disegni che non possiamo sapere. Dovrete sopportarmi ancora un po'. Poi sarete liberi; sarete pur liberati di questa in- cresciosa!" "Che mai dici, cara mamma!" "La verità, l'evangelo. E non me ne curerei, se si trattasse di me soltanto. Sono cosa inutile oramai, spazzatura da buttare in un canto!" "Che mai dici, mamma! Che mai dici!" replicava Patrizio, cacciandosi le mani tra i capelli, inorridito di sentirla par- lare a quel modo. "Ma penso a te! Penso a te!" ella continuava imperterrita, scrollando il capo. "Tu non ti guardi allo specchio, o ti guardi così di sfuggita da non poter accorgerti quanto sei mutato e invecchiato da sei mesi! Non potresti riconoscerti. Lei se lo beve il tuo sangue! Lei se l'assorbisce la tua carne, il midollo delle tue ossa, la tua vita! ... Io sono impo- tente a lottare con lei. È giovane, è bella, è amata. Ti ha stregato! Che posso più fare io? Ti avvertii in tempo; ti ho av- vertito dopo; ti ho sempre ripetuto: "Bada! Bada!". Non mi hai dato mai retta; hai fatto sempre a modo suo. Che preten- de, più di quel che ha ottenuto? Vorrebbe forse che io le dicessi: "Mi hai tolto il figliuolo; grazie! Mi divori il figliuolo; grazie! grazie!". Tu intanto, non che essermi grato, mi credi esaltata - l'hai detto una volta! - e prendi parte in favore del vampiro che ti succhia il sangue! E vieni qui ..." "Zitta! Zitta, mamma, per carità!" gridò Patrizio. "Mi sento impazzire." Si teneva strette le tempie tra le mani, quasi a impedire che gli scoppiassero. Aveva avuto in vita sua molte tremende giornate. Si era visto più volte l'abisso della miseria spalancato sotto i piedi, pronto a inghiottire sua madre, lui, la sua giovinezza, il suo avvenire, e quando più gli era parso che una buona speran- za, dopo mille sacrifizi e mille stenti, fosse sul punto di realizzarsi. Il dolore del disinganno e il terrore del presente gli avevano atterrata ogni forza vitale, quasi spezzata la intelligenza; e gliene sovveniva spesso il ricordo, dopo che la pro- tezione d'un vecchio amico del padre, fedele anche nella sventura, gli aveva inaspettatamente tesa quella tavola di sal- vezza del posto di Agente delle tasse, traendolo fuori della tempesta, fuori d'ogni angustia giornaliera. Ma cercava inva- no nei ricordi una terribile giornata come quella, uno scoppio così improvviso di circostanze da nulla, da cui veniva prodotta tale rovina, che egli si sentiva soccombere sotto le macerie, senza speranza di aiuto. E tornava a premersi le tempie, ripetendo: "Mi sento impazzire!" Stette così qualche istante, poi lasciò cadere le braccia, desolatamente; e buttandosi ginocchioni davanti a la mam- ma, le prese le mani e cominciò a baciargliele, dicendo con voce interrotta: "Abbiamo torto tutti e tre! Non c'intendiamo! Non ci siamo mai spiegati! Ne riparleremo più tardi. Intanto, lasciamo che gli animi si calmino. E allora tu, mamma, vecchierella mia, santa mia, ti avvedrai che non solo non hai quasi perdu- to il figlio, come ti figuri, ma ne possiedi due, che ti vogliono bene egualmente ... due, due! Te ne avvedrai! ..." Nè si voltò indietro, per non veder il crollar continuo di quella grigia testa, che gli rispondeva ostinatamente: No! Noi No! Eugenia riposava ancora. Dorata, la vecchia serva, era venuta a sedersi a piè del letto, con le mani incrociate sul seno, la testa moresca, coi ca- pelli arruffati, un po' abbandonata su la spalla, con le labbra aggrinzite ancora dallo stupore di quel che aveva visto e che non sapeva spiegarsi. Vedendo entrare il padrone non si mosse. Si era già abituata a non parlare senza essere interrogata; e al cenno di Pa- trizio si levò dalla seggiola e uscì nel corridoio. Patrizio, per non far rumore, prese il posto di lei, accavalciò una gamba su l'altra, stese un braccio lungo la sponda del letto, e stette ad attendere che Eugenia si destasse. Il terrore di quel risveglio gli faceva strizzare gli occhi di tanto in tanto. "Che cosa dirle? Come farle intendere la strana gelosia della mamma? ... Ah, mamma! Ah, mamma!" E poc'anzi gli era sembrato di essere tanto forte da poter ribellarsi a quel giogo che lo avea domato e lo riduceva un fanciullo. Si era rallegrato innanzi tempo. Un senso di compassione e d'intenerimento per lei già gli s'insinuava nel cuo- re. "Povera mamma! È vissuta tutta per me! Non sa rassegnarsi a spartire con un'altra l'affetto dell'unico figlio! ... Fissazione! Debolezza! Come fargliene una colpa?" E si accusava: "Sono stato egoista! Avrei dovuto sacrificarmi a lei, far tacere ogni mio sentimento; ubbidire a occhi chiusi. Avrei sofferto io soltanto. A quest'ora, probabilmente, non soffrirei più ... Signore Iddio! È così difficile la vita?" Cominciava a comprendere che l'isolamento, le sventure, fin gli studi, fuori d'ogni personale esperienza, eran serviti a falsargli la prospettiva della realtà, a renderlo impotente a qualsiasi lotta. La fragile creatura stesa là, prostrata dalla crisi nervosa, ne sapeva più di lui; vedeva chiaro, vedeva giusto; possedeva il senso pratico della vita, che a lui mancava affatto. E perciò s'era rivoltata, proclamando il suo diritto: "Ora sei mio! Ora sei mio!". Si ingannava però, rimprove- randogli: "Picchio, e non mi senti! Chiamo, e non mi rispondi!". Se la sentiva! Se gli affluivano pronte alle labbra le af- fettuose risposte a quegli appelli! Forse egli aveva preso troppo alla lettera le parole del medico, consultato avanti il ma- trimonio, intorno al temperamento di lei, allorché la mamma gli aveva detto: "Cieco! Cieco! Non t'accorgi ch'ella è un viluppo di nervi?". Il medico aveva sorriso, alzando le spalle: "Chi non è nervoso a questi lumi di luna? Le donne poi, caro signore, son diventate oggetti fragilissimi, da maneggiare con cautela, se non vogliamo vederceli rompere fra le dita!". Egli s'era contenuto e si conteneva per questo! Ed ecco le belle conseguenze! Ogni istante che passava accresceva il suo turbamento. I tocchi delle ore, che la soneria guasta dell'orologio del campanile ripeteva affrettatamente, due, tre volte di seguito, lo facevano sobbalzare, quasi gli martellassero dentro il cervello. "E se la crisi nervosa si rinnova? Se è segnale di terribile malattia! ... Se la mamma ha ragione? ... No: il male non avrebbe atteso sei mesi prima di manifestarsi." E si consolava osservando che il volto di Eugenia aveva ripreso l'aspetto ordinario. La respirazione era placidissima; il sonno le coloriva i pomelli delle guance con lieve tinta incarnatina; le labbra sembrava sorridessero a qualche dolce fantasia che le appariva in sogno. La mano posata sull'orlo del guanciale, presso la faccia, era un atto di carezza. "Buona creatura! Le devo tanto! Mi son sentito così felice nel legarmi a lei per tutta la vita! Bisognerà però affrettar- si a consultare il dottor Mola, e dirgli tutto, tutto! senza sciocchi ritegni." Eugenia aperse gli occhi. Pareva stupita di trovarsi mezza discinta sul letto; e, rizzàtasi sopra un gomito, guardava attorno confusa e vergo- gnosa, cercando di raccapezzarsi, di rammentare. "Che è stato? Mi è venuto male?" "Oh, cosa da niente!" s'affrettò a dire Patrizio. Le accarezzava il viso, le ravviava i capelli, domandandole: "Come ti senti?" "Fiaccata, con le ossa rotte! ... Apri gli scuri ... Ah!" Ricordava. Patrizio, tornando presso il letto, la trovò col viso nascosto fra le mani, singhiozzante. "Eugenia!" "Lasciami! ... Lasciami stare!" "Vuoi proprio ammalarti?" "Che cosa posso farci? Non so resistere!" ella rispose, asciugandosi gli occhi e ricacciando indietro le ciocche dei capelli in disordine. "Non pensarci, divagati!" cercava di persuaderla Patrizio. "Ne ragioneremo dopo, quando sarai tranquilla. Allora soltanto potrai comprendere ... Riderai di te stessa, come ne rido io, vedi? Ne rideremo insieme." "La mamma?" ella domandò, esitante, avendola cercata invano con lo sguardo. "È in camera sua. Non sta bene, al solito ... Manderò a chiamare il dottor Mola ... Sentendo che t'era ve- nuto male, ella accorse qui ... subito! ... Fu tutt'a un tratto. Non hai dovuto avvedertene. La commozione, l'agitazione ... E sei caduta fuori di sensi tra le mie braccia! ... Anche per debolezza, dice il dottore ... Che? ... Non ti sei neppure avveduta del dottore un'ora fa? Sai? ... Egli sospetta ... Fosse vero! ... Non alzarti da letto, riposati ancora un pochino. Dovresti prendere una buona tazza di brodo. È pronto. Ti farà bene. Più tardi? ... Quando tu vorrai." Parlava affrettatamente, per sviare il discorso e non darle tempo di scorgere l'imbarazzo prodottogli dalla sua con- traddizione a proposito del dottore. "Temo" egli continuava "che tu non soffra, sopra tutto, per la solitudine in cui viviamo." Eugenia fece un cenno negativo con la testa: "Ero abituata così a casa mia. Uscivamo raramente; la domenica soltanto, per la messa. Tu lo sai: visite poche, pas- seggiate pochissime, appena tre o quattro, d'estate, nelle sere più calde." "Avevi però le tue sorelle, così allegre e chiassone!" "Non mi divertivo a quel chiasso loro." "E qui sei sola affatto." "Se la mamma si mostrasse un po' più buona!" rispose Eugenia dopo breve pausa. "Non badare a lei, te ne prego! È buona a modo suo. Prendila com'è." "Questo volevo fare! È stato impossibile. Anche tu ..." Al gesto d'impazienza sfuggito a Patrizio, che alzò gli occhi alla volta reale della cella, Eugenia si levò rapidamente, si mise a sedere sul letto; e posate le mani su le spalle del marito, lo guardò fisso in faccia, con aria d'affettuoso rimpro- vero: "Ascoltami, non sdegnarti! ..." Ma egli la interruppe; e, presàla pei polsi, portò le care mani alle labbra: "Sono diacce!" "Ascoltami" ripetè Eugenia, senza tentare di ritrarle. "Quando tu, col viso di chi dà una cattiva notizia, venisti a dirmi: "Ufficio e alloggio sono in un convento!" te ne ricordi? io ne fui così contenta, che tu mi guardasti stupito. Non ti ho mai spiegato il perché di quella mia contentezza. Voglio dirtelo ora. Pensai subito: "In un convento saremo più liberi che non nella piccola casa di Castroreale, o in qualunque altra". E di mano in mano che tu me lo descrivevi, immagina- vo le nostre future scappate pei corridoi, per la selva, per la terrazza, senza la continua sorveglianza della mamma, che mi pareva inceppasse ogni tuo movimento e metteva in disagio anche me ... Nelle prime settimane fu proprio così. Avevo fin dimenticato le cattive impressioni di Castroreale. Ma la mamma non tardò molto a riprendere il suo primo contegno. Qui, in un edifizio così vasto, doveva apparirmi più chiara l'avversione di lei, perché qui si vedeva benissimo ch'ella faceva ogni cosa a posta, per farmi dispetto, per farmi capire ..." "No! No!" disse Patrizio, baciandole ripetutamente le mani. "Che guardi?" domandò Eugenia, vedendolo fermare all'improvviso. "È strano ..." egli rispose. "Si direbbe che tu te le sia stropicciate con la zagara ... Ma non è la stagione. Hai forse un profumo di fiori d'arancio?" "Lasciami sentire ..." Ella voltava e rivoltava le mani, odorandone la pelle come un fiore. "È vero: pare che io abbia toccato della zagara e che me ne sia rimasto l'odore ... Si avverte appena però ..." "Anzi, al contrario! Senti? ... Anche ai polsi ..." soggiunse Patrizio ... E tirò in su, curiosamente, una manica di lei fio al gomito. "Pure al braccio!" esclamò, meravigliato. "Senti, senti!" Eugenia si strinse nelle spalle: "Sarà stata la lavandaia, che avrà voluto profumarmi la biancheria ..." "Può darsi." "Dunque, come ti dicevo ..." ella cercò di riprendere. Patrizio portò rapidamente l'indice della mano destra alle labbra per significarle: Silenzio! "Animo tranquillo e buon brodo, ha raccomandato il dottore!" E affacciatosi all'uscio che dava sul corridoio, chiamò: "Dorata! Dorata!" Eugenia persisteva nella sua idea. Finito di sorbire la tazza di brodo recata dalla donna, messasi a sedere su la sponda del letto, ravviata la veste e pas- sàtesi le mani sul volto, attirò Patrizio tra le ginocchia, cingendogli le braccia attorno il collo. "Bada!" gli disse. "Io non cedo. Non ho ceduto ai miei, quando mi agitavano dinanzi a gli occhi lo spauracchio di una vita randagia, senza nessuna sicurezza per l'avvenire; non cederò, mettitelo in mente, nemmeno con tua madre!" "In che cosa dovresti cedere? ..." Egli affettava un tono di gentile canzonatura, per mascherare l'agitazione che le parole di lei gli producevano. "Intendo" riprese Eugenia seria seria "intendo: che voglio esser libera, con libertà santa e giusta, si capisce! Intendo che ti voglio sincero con me, come da un pezzo non sei più, sì, come da un pezzo non sei più! Mi credi tanto stupida da non capirlo?" E all'improvviso gli si abbandonò con la fronte sul petto, mormorandogli quasi in tono di preghiera: "Pensa che ora non ho altri che te! Pensa che tu sei tutto per questa povera creatura che ti vuol bene! Oh Patrizio! Il mio cuore è uno specchio così limpido che neppure il fiato l'appanna ... Puoi mirarviti quando tu vuoi! Sul tuo cuore, invece, c'è spesse volte un velo grigio, che m'impedisce di vedervi bene quando più avrei bisogno di vedervi be- ne. Non ce lo voglio! Strappalo! Che cosa chiedo infine? Se io ti sentissi sincero, non mi curerei di nient'altro! Hai forse qualche doloroso segreto? ... Mettimene a parte; voglio soffrire assieme a te!" "Vedi come ti ecciti? ... Come esageri? ..." E sollevandole la testa, soggiunse: "Dammi una prova del tuo amore, Eugenia; te ne scongiuro, non tornare su questo soggetto, almeno per ora! Ti fa male; fa male anche a me ..." "Non ne parlerò ... Ma ... sarai tu sincero da oggi in poi?" "Sì, sì, come sempre! ..." "Proprio sincero? ..." "Sì!" "Ebbene ... allora ..." ella riprese lentamente, fissandolo, "allora dimmi ... perché ... la mam- ma ... No, non voglio saperlo! Me lo dirai quando ti parrà!" E gli si avvinse di nuovo al collo, arrossendo di essersi così presto contraddetta, e ripetendo con voce soffocata: "Non voglio saperlo! Non voglio saperlo!"

SCURPIDDU

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

Pure non osava credere che Paola avesse potuto fargli la partaccia di abbandonarlo! Le voleva tanto bene! L'avea cresciuta e addestrata con tanta cura! Gli teneva così buona compagnia la sera nel suo bugigattolo, quando si metteva a discorrere con lei appollaiata nel paniere infisso nel muro e che le serviva da nido! Ormai non la reputava più una tàccola, ma una persona: tanto si mostrava intelligente ed affezionata! Com'era carina - sembrava un bambino bizzoso - nei momenti che gli faceva i dispettucci di tirargli l'orecchio, un ciuffo di capelli, di strappargli di mano un oggetto, il fil di rame, per esempio, in quei giorni che egli stava occupato ad annodare coroncine e badava poco a fare il chiasso con lei! Gli teneva il broncio, si allontanava su per gli alberi attorno, accorreva con ritardo al richiamo di lui, come se volesse castigarlo ... E appena si risolveva, che carezze, che vellicamenti di orecchi! E con che grazia gli si appollaiava sul braccio, piegando le gambine, talvolta mettendo la testa sotto un'ala, quasi intendesse di dirgli: - Vorrei stare qui sempre! Ci si sta così bene! - Giacchè per lui Paola parlava a verso suo, sì, ma parlava, e pure intendeva le parole di lui. - Paola ! Ehi! Paola ! Paola ! Vide apparire di su la cima del Monte un gran stormo di tàccole che volavano fitte e facevano una macchia nera nel cielo azzurro. Scendevano, gracchiando allegre, rapidamente, verso le rocce della vallata dov'erano i loro nidi, Scurpiddu attese che gli passassero, in alto, sul capo, per chiamare replicatamente: - Pao! ... Pao! ... Pao! .. - mangiandosi l'ultima sillaba del nome per imitar meglio il grido delle tàccole; e facendosi visiera della mano contro il sole, guardava ansioso, se mai avesse potuto riconoscerla. E l'aveva riconosciuta dalla catenina di rame che le straluccicava al collo Allora si era messo a gridare più forte: - Paola ! Pao! ... Pao!.. - Ma le altre tàccole avevano circondato Paola per condurla con loro, come una conquista gloriosa, a viver libera tra le rocce. Scurpiddu notò infatti che, un istante, Paola si era arrestata, aveva piegato il volo in giù, e che le altre tàccole, stringendosele attorno, beccandola, spingendola, l'avevano costretta a tirar via, tra un clamoroso gracchìo di vittoria. Lo stormo era già lontano, e Scurpiddu , immobile, con gli occhi gonfi di lagrime, credeva di veder luccicare ancora la catenina di fil di rame al collo dell'ingrata che lo abbandonava ... - Paola ! - gridò con voce soffocata dai singhiozzi. Ma Paola era già sparita dietro i fichi d'India che facevano siepe su l'orlo delle rocce nella gola della Caldaietta. - Vergogna! Piangere per una tàccola? - le disse la massaia. - Non sei più un bambino! A letto, prima di spegnere il lume, Scurpiddu si sentiva solo senza Paola . Guardava il paniere vuoto infisso nel muro e crollava il capo. Pure non disperava di rivederla. - Tornerà! - pensava. - Qui stava calduccia. A una buca della roccia non saprà adattarsi certamente. Tornerà! E la mattina, avanti di avviarsi coi tacchini al pascolo, si affacciò dal ciglio del precipizio dietro il frantoio per richiamare la fuggitiva, caso mai la scorgesse. Gli rispose soltanto l'eco, due o tre volte. Scurpiddu tornò addietro a capo chino, e sfogò la stizza coi tacchini che quella mattina non andavano diritto, o indugiavano a pascolare tra le erbe ai fianchi della strada. Guappo si buscò un bel colpo di canna, Vittorio Emanuele un calcio, Garibaldi un urto con la gamba. E per via, Scurpiddu guardava in alto, osservando gli stormi di tàccole che passavano gracchiando allegramente. Ma Paola non era tra essi; l'avrebbe sùbito riconosciuta. Con un groppo alla gola, dimenticava di cavar dalla tasca la colazione; non c'era più Paola che venisse a beccargli la fetta di pane nero tra le mani. Più tardi però l'appetito si fece sentire. Scurpiddu a ogni boccone, masticando lentamente, quasi il pane o le olive nere salate avessero sapore amaro, guardava attorno, lontano, lusingandosi ancora che da un momento all'altro Paola comparisse; ma l'infamaccia, - così egli diceva internamente, - non si faceva vedere! E sarebbe stato meglio, se non si fosse fatta più vedere. Sul tardi un piccolo stormo di tàccole, sei o sette, venne a posarsi sui mandorli di Rossignolo. Una di esse si staccò dal ramo poco dopo, e si mise ad aliare sul branco dei tacchini che pascolavano. Si accostava, tornava indietro rapidamente, riveniva esitante…Era Paola , con la catenina di rame che luccicava al collo! Scurpiddu non aveva forza di chiamarla, tanto la commozione gli paralizzava la lingua, dandogli frèmiti di gioia. Due o tre volte, Paola tornò a posarsi con le altre sul ramo del mandorlo, riprese ad aliare gracchiando, pareva attendesse il richiamo; poi le compagne spiccarono il volo e la condussero via. - Infamaccia! - singhiozzò Scurpiddu . Da quel giorno in poi la infamaccia non si fece vedere più.

CENERE

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Deledda, Grazia 3 occorrenze

Io dovrei abbandonarlo, ora che sono cosciente ... » Ma un po' d'affetto e molta confidenza lo univano a zia Tatàna. Essa non era riuscita a far di lui quello che aveva sognato, cioè un ragazzo religioso e obbediente, ma anche così come egli era, indifferente a Dio, maldicente dei preti e del re, protervo e spregiudicato, lo amava egualmente, convinta che egli, nonostante i suoi difetti, sarebbe diventato un grande uomo. Egli rideva e scherzava con lei, la faceva ballare, le raccontava tutti gli avvenimenti del paese. Ogni mattina ella gli portava a letto una tazza di caffè, e gli annunziava se la giornata era bella o brutta; tutte le domeniche, poi, gli prometteva denari se egli andava a messa. «No, ho sonno», egli rispondeva; «ho studiato tanto ieri notte.» «Allora andrai più tardi», ella insisteva. Egli non prometteva, ma zia Tatàna gli dava egualmente i denari. E sempre intorno a lui svolgevasi la stessa scena, con gli stessi personaggi: ancora il sambuco profumava l'aria e gettava foglie nella cameretta silenziosa; il vento portava dalle valli il soffio della selvaggia primavera nuorese; le api ronzavano nell'aria tiepida, e ancora, a intervalli, vibrava il lamento di Rebecca. Anania frequentava tutte le case del vicinato, e specialmente la domenica s'indugiava qua e là, portando nei miseri ambienti neri l'eleganza del suo vestito bleu, della cravatta rossa e del colletto alto, sotto il quale celavasi il cordoncino dell'amuleto di Olì. L'indomani del sogno idilliaco fatto al chiaro di luna sul davanzale della sua finestruola, appena Zuanne ritornò dal Tribunale egli lo condusse fuori, con la buona intenzione di fargli bere un calice di anisetta nella bettola del vicinato. «Chissà quando ci rivedremo!», disse il mandriano, «quando dunque verrai a trovarci? Vieni per la festa dei Martiri.» «Non posso. Ho tanto da studiare: quest'anno devo prendere la licenza ginnasiale.» «E poi dove andrai? In continente?» «Sì!», rispose Anania con impeto. «Andrò a Roma.» «Ci sono tanti conventi a Roma, e più di cento chiese, non è vero?» «Oh! più di cento, certamente.» «Ieri notte tuo padre raccontava che quando era soldato ... » «Dovrai fare il servizio militare, tu?», interruppe Anania, che non badava all'espressione del volto di Zuanne. «Lo farà mio fratello. Io ... » Tacque. Entrarono nella bettola. Un nugolo di mosche ronzava attorno ad una fanciulla bruna e bella, ma spettinata e sucida, seduta al banco. «Buon giorno, Agata; come hai passato la notte?» Ella si alzò e si rivolse ad Anania con triviale famigliarità. «Che vuoi, bello?» «Che vuoi?», ripeté egli a Zuanne. «Quello che vuoi tu», disse impacciato il pastorello. La fanciulla si mise a rifare la voce e l'atteggiamento di Zuanne. «Quello che vuoi tu ... E tu cosa vuoi, agnellino mio?» Guardò sfacciatamente Anania, ed anche Anania la guardò. Dopo tutto egli non era un santo; ma si avvide che Zuanne arrossiva e chinava gli occhi, e quando uscirono si sentì chiedere timidamente: «Anche quella è tua innamorata?». «Perché?», egli domandò un po' irritato, un po' allegro. «Perché mi guardava? Oh, bella, a che servono gli occhi? Ti farai frate, tu?» «Sì», rispose l'altro semplicemente. «E va a farti frate!», esclamò Anania, ridendo. «E adesso andiamo a vedere il Camposanto: così staremo allegri.» «Eppure dobbiamo andarci tutti!», disse gravemente l'altro. Mentre ritornavano verso casa, incontrarono un compagno di scuola di Anania, un brutto ragazzo che s'era già fatto crescere i baffi e la barba a forza di strofinarsi e radersi il volto. «Atonzu, vengo da te. Ti vuole il direttore. Tu dunque farai da donna», egli disse, fermando Anania. «Io? Macché donna d'Egitto! Non farò niente, io!», rispose Anania con molto sussiego. «Come si fa, allora? Sei l'unico tipo adatto! Non è vero che rassomiglia a una donna? Guarda!», esclamò lo studente brutto rivolgendosi a Zuanne. «Sei bello ... », disse timidamente il giovinetto. Anania si inchinò, levandosi il cappello. «Grazie, altrettanto!» «Sì, dunque, non fare il modesto: sei bello!» ripeté lo studente brutto: «vieni dunque dal direttore». «Più tardi, ma io non farò da donna, parola d'onore, no!» «Perché deve far da donna?», domandò con meraviglia Zuanne. «In una commedia, capisci: ed è per beneficenza ... per gli studenti poveri ... » «Io sono povero, fatela dunque voi in mio favore, la commedia!», disse Anania. «Povero! Sentilo! Il diavolo ti porti, tu sei più ricco di noi!» «Che cosa vuoi dire?», chiese Anania minaccioso, rabbuiandosi al pensiero che il compagno accennasse alla protezione del signor Carboni. «Tu sei bello, sei il primo, tu diventerai giudice istruttore e tutte le fanciulle ti vorranno raccogliere come un confetto ... » Questa espressione, che Nanna ripeteva dappertutto, fece ridere e calmò Anania; ma egli tenne la parola e non prese parte alla commedia. E non se ne pentì, perché la sera della rappresentazione egli poté assistervi seduto in seconda fila, subito dietro la sedia del padrino (in quel tempo sindaco di Nuoro) al cui fianco Margherita, in abito rosso e cappello bianco, risplendeva come una fiamma. Il capitano dei carabinieri, il segretario della Sottoprefettura, l'assessore anziano ed il direttore del Ginnasio sedevano in prima fila, accanto al sindaco ed alla sua splendida signorina; Margherita, però, non sembrava soddisfatta di tanta compagnia, perché si voltava indietro guardando con dignità gli studenti e gli ufficiali. In fondo alla sala adorna di ghirlande d'edera e di vitalba, il sipario di percalle qua e là rattoppato ondulava e lasciava scorgere coppie di studenti che ballavano allegramente. Alla fine il tendone fu tirato su con grande stento e la commedia cominciò. La scena risaliva al tempo delle Crociate, e si svolgeva in un castello molto turrito e vetusto all'esterno, per quanto all'interno fosse arredato con un solo tavolino rotondo e mezza dozzina di sedie di Vienna. La fida Ermenegilda, uno studentino dal viso tinto con carta rossa, indossava un largo vestito da camera della signora Carboni; seduta presso il balcone, con le gambe accavalcate indecentemente, ricamava una sciarpa per il non meno fido Goffredo, guerriero lontano. «Ora si punge le dita», mormorò Anania, chinandosi verso Margherita. Ella si chinò a sua volta, portando il fazzoletto alla bocca per soffocare una risata. Il capitano dei carabinieri, seduto accanto a lei, volse lentamente il capo, dando un bieco sguardo allo studente. Ma Anania si sentiva tanto felice, aveva una pazza voglia di ridere e voleva comunicare a Margherita tutta la gioia che la vicinanza di lei gli destava. Nel secondo atto il conte Manfredo, padre di Ermenegilda, voleva costringere la fanciulla ad obliare Goffredo e sposare un ricco barone di Castelfiorito. «Padre mio!», diceva la donzella, aprendo le gambe in modo sguaiato. «A che mi vuoi tu costringere? Mentre il prode Goffredo langue forse in una prigione orrenda, tormentato dalla fame, dalla sete e da ... » « ... dagli insetti», mormorò Anania, chinandosi nuovamente verso Margherita. Il capitano si volse di botto e disse con disprezzo: «La finisca, dunque!». Anania sussultò, si ritrasse, gli parve d'essere umile e pauroso come la chiocciola che appena disturbata si ritira nel guscio; e per qualche minuto non vide e non udì più nulla. «La finisca, dunque!» Sì, egli non poteva scherzare, non poteva parlare: sì, egli aveva capito benissimo; non poteva sollevare neppure gli occhi: egli era povero, era figlio della colpa ... «La finisca, dunque!» Che faceva, lui, fra tutti quei signori, fra tutti quei giovani ricchi ed onorati? Come gli avevano permesso di entrare? Come aveva potuto chinarsi all'orecchio di Margherita Carboni e sussurrarle frasi volgari? Perché ora sentiva tutta la volgarità delle osservazioni fatte. Ma non poteva parlare altrimenti il figlio d'un mugnaio e di una donna ... «La finisca, dunque!» Ma a poco a poco riprese animo, e guardò con odio la nuca rossa e la testa calva del capitano. Non udendolo più ridere né parlare, Margherita si volse alquanto e lo guardò: i loro occhi si incontrarono ed ella s'offuscò vedendolo triste, ed egli se ne accorse e le sorrise. Immediatamente tornarono allegri tutti e due; ella rivolse il viso al palcoscenico, ma sentì che gli occhi lunghi e socchiusi di Anania non cessavano di guardarla e di sorriderle. Una sottile ebbrezza li avvolse entrambi. Verso mezzanotte Anania accompagnò i Carboni fino alla loro casa: l'assessore anziano, un vecchio medico chiacchierone, camminava a fianco del sindaco: Anania e Margherita andavano avanti, ridendo e inciampando sui ciottoli della strada buia e diruta. Gruppi di persone passavano, ridendo e chiacchierando. La notte era scura, ma tiepida, vellutata: di tanto in tanto arrivava un soffio di levante, profumato da un odore di bosco umido. Stelle e pianeti, infiniti come le lagrime umane, oscillavano sul cielo profondo; sopra l'Orthobene Giove brillava vivissimo. Chi non ricorda nella sua prima giovinezza una notte, un'ora così? Stelle oscillanti nell'oscurità d'una notte più luminosa d'un tramonto, stelle pronte a cadere sovra la nostra fronte, come un diadema regale; l'Orsa brillante, a guisa d'un carro d'oro che ci attenda per condurci in un lontano paese di sogni; una strada buia, la Felicità vicina, così vicina da poterla afferrare e non lasciarla mai più. Due o tre volte Anania sentì la mano di Margherita sfiorare la sua; ma il solo pensiero di poterla prendere e stringere gli parve un delitto. Egli parlava e gli pareva di tacere e di pensare a cose ben lontane da quelle che diceva; camminava e inciampava e gli sembrava di non sfiorare la terra; rideva e si sentiva triste fino alle lagrime: vedeva Margherita così vicina da poterle stringere la mano, e gli pareva lontana e inafferrabile come il soffio del vento che veniva e passava. Ella rideva e scherzava, ed egli aveva ben veduto negli occhi di lei il riflesso della sua sdegnosa tristezza; ma gli sembrava che ella non potesse badare a lui che come ad un cane fedele. «Se ella», pensava, «potesse immaginare che io mi struggo dal desiderio di stringerle la mano, griderebbe d'orrore come al morso di un cane arrabbiato.» Ad un certo punto la voce alta e nasale dell'assessore tacque; Margherita ed Anania si fermarono, salutarono, ripresero la via, ma lo studente parve destarsi da un sogno; tornò a sentirsi solo, triste, timido, barcollante nel vuoto della strada scura. «Bravo, bravo!», disse il sindaco che si era messo fra i due ragazzi; «ti è piaciuta la commedia?» «È una stupidaggine», sentenziò Anania con tono sicuro. «Braaavo!», ripeté meravigliato il padrino. «Sei un critico acerbo, tu!» «Ma son cose da farsi quelle? Già, il direttore è un fossile; non poteva scegliere altro. La vita, la vita non è quella, non è stata mai quella!» «Potevano dare una commedia moderna: una cosa commovente: queste stupide contesse han fatto il loro tempo!», disse Margherita, prendendo il tono e l'accento d'Anania. «Brava! Anche tu! Sì, davvero, dovevano dare una cosa più commovente: per esempio la commedia di quegli indiani che quando la moglie partorisce si mettono a letto e si fanno trattare da puerpere anche loro ... avete sentito l'assessore?» Margherita rise: rise anche Anania, ma il suo riso si spense subito, come troncato da un improvviso pensiero triste. Camminarono in silenzio. «Ebbene, questi lampioni; bisognerà provvedere», disse piano, parlando a se stesso, il signor Carboni; poi a voce alta: «Cosa hai detto per il direttore?». «Che è un fossile.» «Bravo! E se vado a dirglielo?» «Che mi fa? Tanto l'anno venturo me ne vado.» «Ah, te ne vai? E dove?» Anania arrossì, ricordandosi che non poteva andar via senza l'aiuto del signor Carboni. Che significava ora la sua domanda? Non ricordava più? O si burlava di lui? O voleva fargli pesare già la sua protezione? «Non lo so», disse a bassa voce. «Ah!», riprese il sindaco, «tu vuoi andar via? Non vedi l'ora di andar via? Andrai, andrai: tu vuoi volare già, tu scuoti già le ali, uccellino! Ebbene, ssssst, vola!» Fece atto di lanciare in aria un uccello, poi batté la mano sulle spalle del figlioccio. Ed Anania sospirò, e si sentì leggero, lieto e commosso come se veramente avesse spiccato il volo. Margherita rideva: e nel silenzio della notte, il riso vibrante di lei pareva ad Anania, fattosi uccello, il fremito arcano d'un ramo fiorito sul quale egli poteva posarsi e cantare.

E Anania pensò a sua madre, a sua madre che era stata così cattiva da abbandonarlo. Un giorno, verso la metà di marzo, Bustianeddu invitò Anania a pranzo. Il negoziante di pelli era dovuto partire improvvisamente per affari, e il ragazzetto trovavasi solo a casa, solo e libero dopo due giorni di prigionia per una delle solite assenze dalla scuola: inoltre serbava sulla guancia destra il segno d'un poderoso schiaffo somministratogli dal genitore. «Vogliono che io studi!», disse ad Anania, aprendo le mani, col solito fare da uomo serio. «E se io non ne ho voglia? Io desidero fare il pasticciere: perché non me lo lasciano fare?» «Sì, perché?», chiese Anania. «Perché è vergooogna!», esclamò l'altro, allungando la parola con accento ironico. «È vergogna lavorare, apprendere un mestiere, quando si può studiare! Così dicono i miei parenti: ma ora voglio far loro una burletta. Aspetta, aspetta!» «Che cosa vuoi fare?» «Te lo dirò poi: ora mangiamo.» Egli aveva preparato i maccheroni: così egli chiamava certi gnocchi grossi e duri come mandorle, conditi con salsa di pomidoro secchi. I due amici mangiarono in compagnia d'un gattino grigio che con lo zampino bruciacchiato prendeva famigliarmente i gnocchi dal piatto comune e se li portava furbescamente in un angolo della cucina. «Come è curioso!», diceva Anania, seguendolo con gli occhi. «A noi ce l'hanno rubato, il gatto.» «Anche a noi. Ce ne hanno rubati tanti! Scompaiono e non si sa dove vadano a finire.» «Scompaiono tutti i gatti del vicinato! Chi li ruba cosa ne fa?» «Ebbene, li fa arrostire. La carne è buona, sai; sembra carne di lepre. In continente la vendono per lepre: così dice mio padre.» «Tuo padre è stato in continente?» «Sì. Ed anch'io ci andrò, e presto.» «Tu?!», disse Anania, ridendo con un po' d'invidia. Bustianeddu allora credé giunto il momento di svelare all'amico i suoi pericolosi progetti. «Io non posso più viver qui», cominciò a lamentarsi; «no, io voglio andar via. Cercherò mia madre e farò il pasticciere; se vuoi venire, vieni anche tu.» Anania arrossì d'emozione, e sentì il suo cuore battere forte forte. «Non abbiamo denari», osservò. «Ecco, noi prendiamo le cento lire che sono nel cassetto del comò; se vuoi, le prendiamo subito; poi le nascondiamo, perché se partiamo subito mio padre si accorge che le ho prese io; aspettiamo finché passa il freddo, poi partiamo. Vieni.» Condusse Anania in una camera sucida e disordinata, ingombra di pelli d'agnello puzzolenti; cercò la chiave del cassettone in un nascondiglio e si fece aiutare ad aprire il cassetto: oltre il biglietto rosso delle cento lire c'erano altre carte-monete e denari in argento, ma i due ladruncoli domestici presero soltanto il biglietto rosso, richiusero, rimisero la chiave. «Ora lo tieni tu», disse Bustianeddu, ficcando il biglietto in seno ad Anania; «stanotte lo nasconderemo nell'orto del molino, nel buco della quercia, sai; poi aspetteremo.» Ancor prima che avesse potuto opporsi, Anania si trovò col biglietto nel seno, sotto l'amuleto di broccato; e passò una giornata febbrile, piena di rimorsi, di paura, di speranze e di progetti meravigliosi. Fuggire! Fuggire! Come e quando non sapeva, ma oramai sentiva che il sogno stava per avverarsi, e ne provava gioia e terrore. Fuggire, passare il mare, penetrare nel regno fantastico di quel continente misterioso dove si nascondeva sua madre! Che ansie, che sogni, che gioia! Le cento lire gli sembravano un tesoro inesauribile; ma intanto sentiva d'aver commesso un grave delitto, rubandole, e non vedeva l'ora che arrivasse la notte per liberarsene. Non era la prima volta che i due amici penetravano nell'orto coltivato da zio Pera, scavalcando la finestruola che dalla stalla attigua al molino dava nell'orto; di notte, però, non c'erano stati mai, quindi spiarono a lungo prima d'azzardarsi. Cadeva una sera chiara e fredda; la luna piena sorgeva fra le roccie nere dell'Orthobene, illuminando l'orto con un chiarore d'oro. Giungeva ai due bimbi affacciati alla finestruola un disperato miagolìo di gatto che pareva un lamento umano. «Che cosa è? Pare il diavolo!», disse Anania. «Io non scendo, no, io ho paura.» «E rimani qui, allora! È un gatto, non senti?», rispose l'altro con disprezzo. «Scendo io; nascondo il denaro entro la quercia, dove zio Pera non guarda mai; poi torno. Tu resta qui a guardare; se c'è pericolo, fischia.» In che consistesse poi questo pericolo i due amici non sapevano; ma entrambi provavano un acuto piacere a render fantastica l'avventura, alla quale il chiarore della luna e quel lamento straziante di gatto davano un sapore ancor più piccante. Bustianeddu saltò nell'orto, ed Anania rimase alla finestra, un po' avvilito dalla paura che lo rendeva tremante, ma tutto occhi e tutto orecchi. Ed ecco, appena il compagno fu scomparso in direzione della quercia, due ombre passarono sotto la finestruola; Anania sussultò, emise un fischio sottile sottile, e si nascose sotto il davanzale. Che impeto di terrore e di piacere strano provò in quel momento! Come si sarebbe salvato Bustianeddu? Che avveniva laggiù? Ecco, i lamenti del gatto raddoppiarono, si fusero tutti in un gemito rabbioso e straziante; poi cessarono. Silenzio. Che mistero, che orrore! Anania sentiva il cuore spezzarglisi in seno. Che accadeva all'amico? L'avevano preso, l'avevano arrestato? Ora lo porterebbero in prigione; ed anche lui, anche lui subirebbe la sua parte di guai. Tuttavia non pensò un solo istante a mettersi in salvo, ed attese coraggiosamente sotto la finestra. Ed ecco un passo, un respiro ansante, una voce sommessa e tremula. «Anania? Dove diavolo sei?» Anania balzò su, porse la mano al compagno salvo. «Diavolo», disse Bustianeddu, ansante, «l'ho scampata bella.» «Hai sentito il fischio? Eppure ho fischiato forte.» «Niente. Ho sentito invece il passo di due uomini, e mi sono nascosto sotto i cavoli. Ecco, sai chi erano i due uomini? Zio Pera e Mastru Pane. Sai che hanno fatto? Ebbene, c'è un laccio pei gatti; il gatto che miagolava era preso al laccio, e zio Pera lo ha ammazzato col randello. Maestro Pane prese la povera bestia sotto il mantello e disse, tutto contento: "Per Dio, come è grasso! Meno male", disse zio Pera, "quello di avantieri sembrava uno stecco". Poi andarono via.» «Oh!», esclamò Anania a bocca aperta. «Ora lo fanno arrostire, capisci, e cenano. Sono loro che rubano i gatti, così, prendendoli al laccio! Meno male che non mi hanno veduto!» «E i denari?» «Nascosti. Andiamo, mammalucco; non sei buono a niente.» Anania non si offese: chiuse la finestra e rientrò nel molino, dove si svolgeva la solita scena. C'era Efes che si grattava le spalle contro il muro, cantando Quando Amelia si pura e si candida ... e il Carchide che raccontava d'essere stato in un paese vicino, per certi suoi affari. «Il sindaco era amico di mio padre, quando noi eravamo ricchi», diceva il bel giovine, la cui famiglia era stata sempre miserabile. «Appena sa che io arrivo nel paese, mi manda a chiamare e mi ospita in casa sua. Accidenti, che gente ricca! Trenta servi e sette serve: per arrivare alla casa bisogna attraversare tre cortili, uno dentro l'altro, con muri altissimi: i portoni di ferro, le finestre della casa tutte munite d'inferriate.» «E perché?», chiese il mugnaio. «Per i ladri, caro mio. Perché il sindaco è ricco come il Re.» «Boumh! Boumh!», gridò un uomo che spingeva la spranga. «Cosa ne sai tu?», riprese il Carchide, guardando l'uomo con disprezzo. «Il sindaco ed i suoi fratelli, quando morì il loro padre, si divisero le monete d'oro con una misura capace d'un ettolitro! La moglie del sindaco, poi, ha otto tancas in fila, irrigate da fiumi, con più di cento fontane! Ebbene, dicono che il padre del sindaco trovò un ascusorju, dove il re di Spagna, quando fece la guerra con Eleonora d'Arborea, nascose più di cento mila scudi in oro.» «Ah!», esclamò il mugnaio, con un fremito d'emozione, appoggiandosi sulla pala nera. «Quelli sì, quelli son signori ricchi», riprese il Carchide. «E dunque i rognosi Nuoresi?» «Il mio padrone è ricco!» protestò il mugnaio. «Possiede più lui nell'angolo della scopa che tutti i tuoi sindaci pulciosi.» «E va!», gridò il giovine, facendo le fiche. «Tu non sai quel che dici.» «Tu, non sai quel che dici, tu!» «Il tuo padrone è pieno di debiti: ne vedremo la fine, ne vedremo.» «Che tu possa diventar cieco, prima!» «Che tu possa schiantare prima!» Per poco il mugnaio ed il giovane calzolaio non vennero alle mani: ma la loro lite fu interrotta da un assalto di delirium tremens che colpì il povero Efes Cau. Egli cadde sulle sanse, avvoltolandosi, contorcendosi, saltando come un verme, con gli occhi spaventosamente aperti e i lineamenti contratti. Anania si gettò in un angolo, gridando e piangendo per lo spavento, mentre Bustianeddu corse, assieme col mugnaio ed altri, per aiutare il disgraziato. A poco a poco Efes tornò in sé, si sedette sulle sanse sparse, guardò attorno con quei suoi grandi occhi sporgenti pieni di terrore, ancora tutto contorto e tremante. Gli diedero da bere, lo confortarono. «Chi ... chi mi ha assalito? Perché mi avete bastonato? Ah, non mi ha abbastanza castigato Dio perché abbiate a bastonarmi anche voi?» Poi si mise a piangere. Lo fecero coricare, ed egli si assopì, delirando, chiamando sua madre ed una sorellina morta. Anania lo guardava con terrore e pietà: avrebbe voluto fare qualche cosa per aiutarlo, ed intanto provava un istintivo disgusto per quell'uomo una volta ricco, ora ridotto ad un involto di cenci puzzolenti, buttato sulla sansa come un mucchio di immondezze. Chiamata da Bustianeddu venne zia Tatàna: si chinò pietosamente sul malato, lo toccò, lo interrogò, gli mise un sacco sotto il capo. «Bisogna dargli un po' di brodo», disse sollevandosi. «Ah, il peccato mortale, il peccato mortale!» «Figliolino mio», disse ad Anania, «va dal signor padrone a chiedere un po' di brodo per Efes Cau. Va: vedi come riduce il peccato mortale? Va, prendi questa scodella, va.» Egli andò con piacere, e Bustianeddu lo accompagnò. La casa del padrone non era lontana, ed Anania vi si recava spesso per farsi dare la prebenda del cavallo, i lucignoli per la candela del molino, e per altre commissioni. Le strade erano qua e là illuminate dalla luna; gruppi di paesani passavano cantando un coro melanconico ed appassionato. Davanti alla casa bianca del signor Carboni si stendeva un cortile quadrato recinto d'alti muri e con un grande portone rosso. I due ragazzetti dovettero picchiar forte per farsi aprire; ed Anania porse la scodella, esponendo il caso di Efes Cau alla domestica che dischiuse il portone. «Non sarà per voi, il brodo, eh?», sogghignò la serva, squadrando sospettosa i due amici. «Va al diavolo, Maria Iscorronca, noi non abbiamo bisogno di brodo», gridò Bustianeddu. «Animaletto, ora ti pago gli insulti», disse la serva, rincorrendolo per la strada. Ma egli fuggì, mentre Anania penetrava nel cortile illuminato dalla luna. «Chi è: cosa vogliono?», chiedeva una vocina sottile, dall'ombra di una tettoia sotto cui aprivasi la porta della cucina. «Sono io!», gridò Anania, avanzandosi, con la scodella fra le mani. «Efes Cau è malato, nel molino, e mia madre prega la signora padrona che dia un po' di brodo al disgraziato.» «Oh, vieni!», rispose la vocina. In quel momento rientrò la serva, che non avendo potuto raggiungere Bustianeddu prese a spintoni il piccolo Anania. Allora la bimba che aveva detto «vieni» balzò fuori e difese il figlio del mugnaio. «Lascialo: che ti ha fatto?», disse, tirando la sottana alla serva. «Dagli subito il brodo. Subito!» Questa protezione, quel tono da padrona, quella figurina grassa e rossa, vestita di flanellina turchina, quel nasetto prepotente rivolto all'insù fra due guancie molto paffute, quei due occhi scintillanti alla luna, fra due bende ricciolute di capelli rossicci, piacquero immensamente ad Anania. Egli conosceva già la figlia del padrone, Margherita Carboni, come la chiamavano tutti i bimbi che frequentavano il molino; qualche volta ella gli aveva dato i lucignoli ed anche l'orzo per il cavallo, e quasi tutti i giorni egli la vedeva nell'orto e ad intervalli anche nel molino, dove essa si recava con suo padre; ma mai s'era immaginato che quella signorina grassa e rossa e dall'aria superba fosse così affabile e buona. Mentre la serva entrava in cucina per prendere il brodo, Margherita domandò ad Anania qualche particolare sulla malattia di Efes Cau. «Egli oggi ha mangiato qui, in questo cortile», ella disse con serietà. «Pareva sano.» «È un male che viene agli ubriaconi», spiegò Anania. «Si contorceva come un gatto ... » Appena dette queste parole egli arrossì ricordando il gatto preso al laccio da zio Pera, e le cento lire rubate e nascoste nell'orto. Cento lire rubate! Che avrebbe detto Margherita Carboni se avesse saputo che lui, Anania, lui, il figlio del mugnaio, lui, l'abbandonato, lui, il servo, verso cui la piccola padrona si degnava mostrarsi affabile e buona, aveva rubato cento lire e che queste cento lire erano nascoste nell'orto? Ladro! Egli era un ladro, e di una somma enorme! Solo in quel momento percepì tutta la vergogna della sua azione, e sentì dolore, umiliazione, rimorso. «Come un gatto, ah!», disse Margherita stringendo i denti e torcendo il nasino; «Dio mio, Dio mio; è meglio che egli muoia.» La serva tornò, con la scodella colma di brodo. Anania non poté più aprir bocca: prese la scodella e andò via piano piano, badando di non versare il brodo. Sentiva una strana voglia di piangere, e quando raggiunse Bustianeddu, nello svolto della strada, ripeté le parole di Margherita: «È meglio che egli muoia». «Chi? È caldo quel brodo? Ora lo assaggio ... », disse l'altro, allungando il collo verso la scodella. Ma Anania si irritò. «Non toccare!», gridò. «Tu sei cattivo; tu diventerai come Efes. Perché hai preso i denari?» aggiunse, abbassando la voce. «È peccato mortale, rubare. Va a riprenderli e rimettili nel cassetto.» «Poh! Poh! Sei matto?» «Ed io lo dico a mia madre!» «Tua madre!», disse l'altro con ironia. «Va a cercarla!» Intanto camminavano lentamente, ed Anania guardava sempre la scodella. «Siamo ladri!», disse a bassa voce. «Il denaro è di mio padre, e tu sei un mammalucco. Andrò via io solo, io solo ed io solo!» «Va, che tu non possa più ritornare! Ma io ... io lo dirò a ... a zia Tatàna» (sì, ora si vergognò di dire mia madre!). «Spia!», proruppe Bustianeddu, minacciandolo coi pugni stretti. «Se tu parli ti ammazzo come una lucertola, ti rompo i denti con una pietra, ti faccio cacciar le viscere per gli occhi.» Anania abbassò le spalle, pauroso di rovesciar il brodo e di ricevere i pugni dell'amico, ma non ritirò la minaccia di rivelare ogni cosa a zia Tatàna. «Che diavolo ti han detto dentro quel cortile?», proseguì l'altro, fremente. «Che ti ha detto quella servaccia? Parla.» «Niente. Ma io non voglio essere un ladro.» «Tu sei un bastardo», gridò allora Bustianeddu, «ecco cosa sei. Ed io ora vado, riprendo i denari e non ti guardo più in faccia.» S'allontanò di corsa, lasciando Anania colpito da un dolore profondo. Ladro, bastardo, abbandonato! Era troppo, era troppo! Egli pianse e le sue lagrime caddero entro la scodella. «Ed ora anche Bustianeddu mi abbandona e va via solo! Ed io, quando potrò partire io? Quando potrò ricercarla? Quando sarò grande!», rispose a se stesso, rianimandosi. «Ora non m'importa.» Tuttavia, appena consegnò la scodella a zia Tatàna, corse al finestruolo della stalla. Silenzio. Non si vedeva nessuno, non s'udiva nulla nel grande orto umido e chiaro sotto la luna. Le montagne si delineavano azzurre sullo sfondo vaporoso del cielo; tutto era silenzio e pace. Ad un tratto giunse dal molino la voce di Bustianeddu. «Egli non ha ripreso i denari?», pensò Anania. «Non è entrato nell'orto. Se andassi io?» Ma ebbe paura; rientrò nel molino e cominciò ad aggirarsi come un gattino affamato intorno a zia Tatàna che curava il malato. Ella gli fece la solita domanda: «Che hai? Ti fa male il ventre?». «Sì, andiamo a casa.» Zia Tatàna capì che egli voleva dirle qualche cosa e lo accompagnò fuori. «Gesù, Gesù, Santa Caterina bella!», proruppe, appena seppe tutto. «In che mondo siamo noi! Anche gli uccelli, anche i pulcini dentro l'uovo commettono il male!» Anania non seppe mai come zia Tatàna avesse persuaso Bustianeddu a rimettere il denaro nel cassetto: però d'allora in poi i due amici si guardarono un po' in cagnesco, e per ogni piccola cosa si insultavano e venivano alle mani.

Nonostante il dubbio che Margherita potesse abbandonarlo se egli ritrovava sua madre, era felice del suo amore; la sola idea di riveder la fanciulla gli dava vertigini di gioia. Contava i giorni e le ore; in tutto il suo avvenire misterioso e velato non scorgeva che un punto luminoso: l'incontro con Margherita, al suo ritorno per Pasqua. Anche a Cagliari, durante il primo anno di liceo, egli non ebbe amici e neppure conoscenti; quando non studiava o non vagava solitario in riva al mare, sognava sul balcone, come una fanciulla. Un giorno, verso il tramonto, salì sulle colline di monte Urpino, al di là dei campi ove i mandorli fiorivano dal gennaio, e s'inoltrò nella pineta. Sul musco dei viali abbandonati il sole calante tra i pini rosei gettava riflessi delicati; a sinistra s'intravedevano prati verdi, mandorli in fiore, siepi rosse al tramonto; a destra boschetti di pini, e chine ombrose coperte di iris. Egli non sapeva dove fermarsi, tanto i posti erano deliziosi; colse un fascio d'iris, e infine salì sopra una cima verde di asfodeli, dalla quale si godeva la triplice visione della città rossa al tramonto, degli stagni azzurrognoli e del mare che pareva un immenso crogiuolo d'oro bollente. Il cielo ardeva; la terra esalava delicate fragranze; le nuvole azzurrastre, che disegnavano sull'orizzonte d'oro profili di cammelli e figure bronzee, davano l'idea d'una carovana e ricordavano l'Africa vicina. Anania si sentiva così felice che sventolò il fazzoletto e si mise a gridare salutando un essere invisibile, - che era l'anima del mare, del cielo, lo spirito dei sogni: Margherita. D'allora in poi le pinete di monte Urpino diventarono il regno dei suoi sogni: a poco a poco egli si considerò talmente padrone del luogo che si irritava quando incontrava qualche persona nei viali solitari: spesso rimaneva nella pineta fino al cader della sera, assisteva ai rossi tramonti riflessi dal mare, o seduto fra le iris guardava il sorgere della luna, grande e gialla, fra i pini immobili. Una sera, mentre stava seduto sull'erba di una china, al di là di un piccolo burrone, udì un tintinnio di greggie pascenti, e fu assalito da un impeto di nostalgia. Davanti a lui, al di là del burrone, il viale perdevasi in una lontananza misteriosa: i pini rosei sfumavano sul cielo puro, il musco aveva riflessi di velluto; Venere splendeva sull'orizzonte roseo, sola e ridente, quasi affacciatasi prima delle altre stelle per godersi la dolcezza della sera senza essere disturbata. A che pensava la solitaria stella? Aveva un amante lontano? Anania osò rassomigliarsi all'astro radioso, così solo nel cielo come egli era solo nella pineta. Forse in quell'ora Margherita guardava la stella della sera. E che faceva zia Tatàna? Il fuoco ardeva nel focolare, e la buona vecchia preparava melanconicamente il pasto della sera, pensando al suo caro fanciullo lontano. Ed egli, egli non pensava quasi mai a lei; egli era un ingrato, un egoista. Ah, ma che poteva farci? Se al posto di zia Tatàna ci fosse stata un'altra donna, il suo pensiero sarebbe volato costantemente a lei. Invece quella donna ... Dove era quella donna? Che faceva in quell'ora? Scorgevano anche i suoi occhi la stella della sera? Era morta? Era viva? Era ricca o mendicante? E se fosse in carcere? Egli si meravigliò di non arrossire a questo pensiero. Per la prima volta, dopo tanti anni, provò un senso di pietà, come quando, bambino, cercava di scaldare coi suoi piedini i piedi gelati di Olì ... Finalmente il giorno del ritorno arrivò. Egli partì, quasi oppresso dalla sua felicità: aveva paura di morire in viaggio, di non arrivare a rivedere le care montagne, la nota strada, il dolce orizzonte, il viso di Margherita ... «Se però io morissi ora», pensava, con la fronte appoggiata alla mano, «se morissi ora ella non mi dimenticherebbe mai più ... » Fortunatamente arrivò sano e salvo; rivide le care montagne, le valli selvaggie, il dolce orizzonte, il viso paonazzo di Nanna venuta ad incontrarlo alla stazione. Ella aspettava da più di un'ora; appena vide il bel volto di Anania aprì le braccia e cominciò a piangere. «Figliuolino mio! Figliuolino mio!» «Come la va? Prendi!», egli gridò, e per impedirle di abbracciarlo le gettò addosso la valigia, un involto, un cestino. «Avanti! Avanti! Va avanti, passa di qui; io devo passar di là. Andiamo.» Si mise quasi a correre, e sparve, lasciando la donna stupefatta. Ecco, ecco. Egli deve rivedere la nota strada: ella lo aspetta alla finestra, e non hanno bisogno di testimoni per rivedersi. Come le case di Nuoro sono piccole e le strade strette e deserte! Meglio! Fa quasi freddo, a Nuoro! La primavera c'è, ma è ancora pallida e delicata come una fanciulla convalescente. Ah, ecco alcune persone che s'avanzano: fra esse è Franziscu Carchide che, riconoscendo lo studente, comincia a far gesti di gioia. Che rabbia! «Ebbene, come stai? Ben tornato! Come ti sei fatto grande! Ed elegante, poi! E che scarpette da damerino! quanto le hai pagate?» Finalmente Anania è libero. Avanti, avanti! Il suo cuore batte, batte sempre più forte. Una donna s'affaccia al limitare di una porta, guardando curiosamente; ma Anania passa, fugge, e da lontano sente esclamare: «È lui, sì, proprio lui!». Ebbene, sì, è proprio lui, che vi importa? Ah, ecco, ecco; ecco la strada che conduce all'altra, alla nota, alla cara strada. Finalmente: non è un sogno? Anania sente dei passi e si stizzisce; è un bambino che attraversa di corsa la strada, lo urta, vola via. Egli vorrebbe correre così, ma non può, non deve. Prende anzi un aspetto rigido, composto, si accomoda la cravatta, si sbatte con due dita i risvolti del soprabito. Già; egli ha un soprabito lungo, chiaro, elegante che lei non ha ancora veduto. Lo riconoscerà subito con quel soprabito? Forse no. Ecco finalmente la nota strada! Ecco il portone rosso, ecco la casa bianca con le finestre verdi. Margherita non c'è! Perché? Perché, Dio mio? Egli si ferma, palpitando. Fortunatamente la strada è deserta: solo una gallina nera passeggia, alzando molto le zampe prima di posarle per terra, e si diverte a battere il becco sul muro ... Basta, bisogna passare oltre, a scanso di essere notato da qualche occhio curioso. Egli comincia a camminare lentamente come la gallina; e benché le finestre rimangano vuote egli non cessa di fissarle un istante, e si commuove e sente il cuore saltargli in gola. Ad un tratto gli parve di svenire. Margherita s'era affacciata, pallida di passione, e lo guardava con occhi ardenti. Egli impallidì e non pensò neppure a salutare, a sorridere; non pensò a nulla, e per parecchi istanti non vide che quegli occhi ardenti dai quali gli pioveva una voluttà ineffabile. Camminò automaticamente, voltandosi ad ogni passo, seguito da quegli occhi inebbrianti; e solo quando Nanna, con la valigia sul capo, l'involto in una mano e il cestino nell'altra, apparve ansante in fondo alla strada, egli trasecolò, sorpreso, e affrettò il passo. Parte Seconda I. Era nell'ora che volge il desìo ai naviganti ed a quelli che stanno per salpare verso ignoti lidi. Anania è fra questi. Il treno lo trasporta verso il mare; cade una limpida sera d'autunno, grave di melanconia; i dentellati monti della Gallura sfumano nelle lontananze violacee, l'aria odora di brughiere; un ultimo paesetto appare, grigio e nero su uno sfondo di cielo rossastro. Anania guarda gli strani profili dei monti, il cielo colorato, le macchie, le roccie, e solo il timore di apparire ridicolo agli altri due viaggiatori, un prete e uno studente già suo compagno di scuola, gli impedisce di piangere. Eppoi, ormai, egli è un uomo. È vero che egli si credeva un uomo fin da quando aveva quindici anni: ma allora si credeva un uomo giovane, mentre adesso si crede un giovine vecchio. Eppure la salute e la gioventù brillano nei suoi occhi; egli è alto, svelto, con due seducentissimi baffetti castanei dalle punte d'oro. La sera cadeva; già qualche stella appariva «sovra i monti di Gallura» e qualche fuoco rosseggiava tra il verde-nero delle brughiere. Addio dunque, terra natìa, isola triste, antica madre amata ma non abbastanza perché una voce potente d'oltre mare non strappi i tuoi figli migliori dal tuo grembo, incitandoli a disertare, come aquilotti, il nido materno, la roccia solitaria. Lo studente guardava l'orizzonte ed i suoi occhi si offuscavano a misura che s'offuscava il cielo. Da quanti anni egli aveva sentito la voce che lo attirava lontano! Ricordava l'avventura con Bustianeddu, il progetto della fuga infantile; poi i continui sogni, il desiderio mai spento di un viaggio verso la terre d'oltre mare: eppure sul punto di lasciar l'isola egli si sentiva triste, e si pentiva di non aver proseguito gli studi a Cagliari. Era stato così felice laggiù! Nell'ultimo maggio Margherita gli era apparsa tra lo splendore fantastico delle feste di Sant'Efes, e insieme con lei, fra allegre brigate di compaesani, egli aveva trascorso ore indimenticabili. Ella era elegante, molto alta e formosa; i suoi capelli splendenti e gli occhi turchini solcati dall'ombra delle lunghe ciglia nere attiravano l'attenzione dei passanti che si voltavano a guardarla. Anania, meno alto e più sottile di lei, le camminava al fianco, trepidante di piacere e di gelosia; gli pareva impossibile che la bella creatura regale e taciturna, nei cui occhi sdegnosi brillava tutta la fierezza d'una razza dominatrice, si abbassasse ad amarlo e neppure a guardarlo. Margherita parlava poco; non era civetta, non cambiava aspetto né voce, quando gli uomini le rivolgevano lo sguardo o la parola; e Anania l'amava anche per questo, e non vedeva che lei, non guardava altra donna che per paragonarla a lei e trovarla inferiore; e più egli diventava uomo e lei donna, e più la passione lo infiammava: spesso gli sembrava impossibile che anni ed anni dovessero ancora passare prima che ella diventasse sua. Durante le ultime vacanze si erano spesso trovati soli, nel cortile di Margherita, favoriti dalla serva che facilitava la loro corrispondenza. Di solito essi tacevano, ma mentre Margherita, o per paura o per pudore tremava, vigile e melanconica, Anania sorrideva completamente dimentico del tempo, dello spazio, delle cose e delle vicende umane. «Perché non mi ripeti le parole che mi scrivi?», le domandava. «Taci! ... Ho paura ... » «Di che? Se tuo padre ci sorprende io mi getterò per terra, gli dirò: "no, non facciamo del male; siamo già uniti per l'eternità ... ". Non aver paura; io sarò degno di te, io ho un avvenire davanti ... Io sarò qualche cosa!» Margherita non rispondeva, e vedendola così bella e gelida, con gli occhi illuminati dalla luna come gli occhi di perla d'un idolo, egli non osava baciarla, ma la fissava silenzioso e sussultava, non sapeva bene se di angoscia o di felicità. «Il mare è calmo. Dio sia lodato!», disse uno dei viaggiatori. Anania si scosse dai suoi ricordi e guardò la distesa verde- dorata del mare, che nel crepuscolo pareva una pianura illuminata dalla luna. Le rovine d'una chiesetta, un sentiero attraverso le macchie, perduto sull'estremo limite della costa, quasi tracciato da un sognatore che l'avesse condotto fin laggiù con la speranza di proseguirlo sul velluto marezzato delle onde, attirarono gli sguardi di Anania. Egli pensò a Renato del quale gli parve intravedere il triste profilo su una roccia guardante il mare ... No, non è lui, è un altro eroe di Chateaubriand, Eudoro, che sulle roccie marine della Gallia selvaggia sogna le rose dell'Ellade lontana ... Ebbene, no, non è neppure Eudoro ... è un poeta che si domanda: Questa roccia granitica erta sul mar che fa? ... Ma la roccia, la chiesetta ed il sentiero sono già spariti e con essi il profilo dell'incerto personaggio ... La tristezza dello studente aumentava: domande gravi e inutili gli attraversavano la mente, cadevano senza risposta, come pietre buttate nell'acqua. Perché non poteva egli fermarsi su quella costa selvaggia, dolcemente melanconica, e perché il profilo intraveduto sulla roccia non poteva essere il suo? Perché non poteva egli costrurre una casa sulle rovine della chiesetta? Perché pensava a queste stupide romanticherie, perché andava a Roma, perché studiava, perché studiava leggi? Chi era lui? Che cosa era la vita, la nostalgia, l'amore, la tristezza? Che cosa faceva Margherita? Perché egli l'amava? E perché suo padre era servo? E perché suo padre lo aveva replicatamente avvertito di visitare, appena giunto a Roma, quei luoghi dove si conservano monete d'oro ritrovate sotterra o nelle antiche rovine? Suo padre era o no un delinquente, o un pazzo affetto dall'idea fissa dei tesori? Che aveva egli ereditato da suo padre? L'idea fissa in forma diversa? Era dunque soltanto un'idea fissa, una malattia mentale, il pensiero costantemente rivolto a quella donna? Ma trovavasi ella veramente a Roma, e la ritroverebbe egli? «Anninia», disse con voce beffarda l'altro studente, dando ad Anania il nomignolo che i compagni gli avevano affibbiato, «fai la nanna? Su, via, non piangere, la vita è fatta così: un biglietto per viaggio circolare, con diritto di fermate più o meno lunghe. Consolati almeno che il mal di mare non verrà a interrompere i tuoi sogni d'amore ... » Infatti il mare era calmissimo e la traversata cominciò coi migliori auspici. La luna nuova calava illuminando fantasticamente le coste e la roccia enorme di Capo Figari, sentinella ciclopica vigilante il melanconico sonno dell'isola abbandonata. Addio, addio, terra d'esilio e di sogni! Anania rimase immobile, appoggiato al parapetto del piroscafo, finché l'ultima visione di Capo Figari e delle isolette, sorgenti azzurre dalle onde come nuvole pietrificate, svanirono tra i vapori dell'orizzonte; poi sedette sulla panchina, battendosi dispettosamente un pugno sulla fronte per ricacciar dentro le lagrime che gli velavano gli occhi; e rimase lì, pallido e sconvolto, intirizzito dalla brezza umida, finché vide la luna, rossa come un ferro rovente, calare in una lontananza sanguigna. Finalmente si ritirò, ma tardò ad assopirsi; gli pareva che il suo corpo s'allungasse e si restringesse incessantemente, e che una interminabile fila di carri passasse sopra il suo petto indolenzito; i più tristi ricordi della sua vita gli tornarono in mente: gli sembrava di udire, nello scroscio delle acque frante dal piroscafo, il rumore del vento sopra la casetta della vedova, a Fonni ... Oh, come, come la vita era triste, inutile e vana! Che cosa era la vita? Perché vivere? Così, tristemente, si assopì; ma svegliandosi si sentì un altro, agile, forte, felice. Si era addormentato in un tetro paese di dolore, fra onde livide vigilate da una luna sanguigna: si svegliava in mezzo ad un paese d'oro, in un paese di luce, - vicino a Roma. «Roma!», pensò, palpitando di gioia. «Roma, Roma! Patria eterna, abisso d'ogni male e fonte d'ogni bene!» Gli pareva di poterla abbracciare tutta, di muovere alla conquista del mondo intero. Già a Civitavecchia, attraversando la città umida e nera sotto il cielo mattutino, tutto gli sembrava bello, e diceva allo studente Daga: «Vedi, mi par d'essere nel vestibolo d'una grotta marina meravigliosa». Il Daga, che aveva già vissuto un anno a Roma, sorrideva beffardo, invidiando l'entusiasmo enfatico del suo compagno. L'arrivo rombante del diretto diede al giovane provinciale sardo un senso di terrore, la prima impressione vertiginosa d'una civiltà quasi violenta e distruggitrice. Gli parve che il mostro dagli occhi rossi lo portasse via, come il vento porta la foglia, lanciandolo nel turbine della vita. A Roma i due studenti andarono ad abitare al terzo piano di una casa in Piazza della Consolazione, presso una vedova, madre di due graziose ragazze telegrafiste, maestre, dattilografe, civette. I due studenti dormivano nella stessa camera, vasta, ma poco allegra, divisa da una specie di paravento formato con una coperta gialla; la loro finestra guardava su un cortile interno. La prima volta che Anania guardò da quella finestra provò un senso disperato di sgomento. Non vedeva che muri altissimi, d'un giallo sporco, bucati da lunghe finestre irregolari, e panni miseri, d'un candore equivoco, appesi a fili di ferro; uno di questi fili, con anelli scorrevoli, dai quali pendevano laccetti di spago attorcigliati, passava davanti alla finestra degli studenti. Mentre Anania guardava con disperata tristezza i muri perdentisi sul pallido cielo della sera, Battista Daga scosse il filo e cominciò a ridere: «Guarda, Anninia, guarda come gli anelli e i laccetti di spago ballano. Sembrano vivi. Così è la vita: un filo di ferro attraverso un cortile sporco: gli uomini si agitano, sospesi sopra un abisso di miserie». «Non rompermi le scatole», disse Anania, «sono abbastanza melanconico! Usciamo, mi par di soffocare.» Uscivano, camminavano, si stancavano, storditi dal rumore delle carrozze e dallo splendore dei lumi, dal passaggio violento e dal rauco urlo delle automobili. Anania si sentiva triste, tra la folla; gli pareva d'essere solo in un deserto, e pensava che se si fosse sentito male e avesse gridato nessuno lo avrebbe udito e soccorso. Ricordava Cagliari con nostalgia struggente; oh, balcone incantato, orizzonte marino, dolce occhio di Venere! qui non esistevano più né stelle, né luna, né orizzonte: solo un disgustoso ammasso di pietre, un pullulamento di uomini che allo studente barbaricino parevano d'una razza diversa e inferiore alla sua. Veduta attraverso lo sbalordimento, la stanchezza dei primi giorni, la suggestione melanconica del buio appartamentino di Piazza della Consolazione, Roma gli dava una tristezza quasi morbosa; nella città vecchia, dalle vie strette, dalle botteghe puzzolenti, dagli interni miserabili, dalle porte che parevano bocche di caverne, dalle scalette che sembrava si perdessero in un tenebroso luogo di dolore, egli ricordava i più miseri villaggi sardi; nella Roma nuova si sentiva smarrito, tutto gli appariva grande, le strade tracciate dai giganti per giganti, le case montagne, le piazze tancas sarde; anche il cielo era troppo alto e troppo profondo. Anche all'Università, dove egli cominciò a frequentare assiduamente i corsi di Diritto civile e penale e le lezioni di Enrico Ferri, lo aspettava una delusione. Gli studenti non facevano altro che rumoreggiare e ridere e beffarsi di tutto. Pareva si beffassero della vita stessa. Specialmente nell'aula IV, mentre si aspettava il Ferri, il chiasso e il divertimento oltrepassavano il limite; qualche studente saliva sulla cattedra e cominciava una parodia di lezione accolta da urli, fischi, applausi, grida di «Viva il Papa», «Viva Sant'Alfonso de' Liguori», «Viva Pio IX». Qualche volta lo studente, dalla cattedra, con una faccia tosta indescrivibile imitava il miagolar del gatto o il canto del gallo. Allora le grida e i fischi raddoppiavano; venivano lanciate pallottole di carta, pennine, fiammiferi accesi, finché l'arrivo del professore, accolto da applausi assordanti, metteva fine alla scena. Anania si sentiva solo, triste fra tanta gioia, e gli sembrava di appartenere ad un mondo diverso da quello ove era costretto a vivere. Solo quando il professore cominciava a parlare, egli provava una commozione profonda, quasi un senso di gioia. Fantasmi di delinquenti, di suicidi, di donne perdute, di maniaci, di parricidi, passavano, evocati dalla voce possente del professore, davanti al pensiero turbato di Anania. E fra tante figure egli ne distingueva una, che passava e ripassava davanti a lui, ad occhi bassi. Ma invece di fissarla con orrore egli la guardava con pietà, col desiderio di stenderle la mano. Una sera lui e il Daga attraversavano Via Nazionale: lo splendore delle lampade elettriche si fondeva col chiarore della luna: le finestre del palazzo della Banca erano tutte vivamente illuminate. «Sembra, che tutto l'oro racchiuso nella Banca brilli attraverso le finestre», disse Anania. «Ma bbraaavooo! Si vede che la mia compagnia ti dirozza.» «Sono più che mai romantico stasera. Andiamo al Colosseo!» Andarono. Si aggirarono a lungo nel divino mistero del luogo, guardando la luna attraverso ogni arco; poi sedettero su una colonna lucente e sospirarono entrambi. «Io sento una gioia simile al dolore,» disse Anania. Il Daga non rispose, ma dopo un lungo silenzio disse: «Mi sembra d'essere nella luna. Non ti pare che nella luna si debba provare ciò che si prova qui, in questo gran mondo morto?». «Sì», disse Anania, con voce flebile. «Questa è Roma.» Al ritorno passarono ancora per Via Nazionale. Chiacchieravano in dialetto. Era tardi, e su e giù, attraverso i marciapiedi quasi deserti vagavano molte farfalle notturne, così le chiamava il Daga. A un tratto una di esse passò accanto a loro e li salutò in dialetto sardo. «Bonas tardas, pizzoccheddos!» Era alta, bruna, con grandi occhi cerchiati: la luce elettrica dava al suo piccolo viso, emergente dal collo di pelo d'un soprabito chiaro, un pallore cadaverico. Come a Cagliari, la sera in cui Rosa e la compagna lo avevano fermato, Anania sussultò, preso da un senso d'orrore, e trascinò via il Daga che rispondeva insolentemente alla donna. Era lei? Poteva esser lei? Era una sarda ... poteva esser lei! II. Sdraiato sul suo lettuccio, dopo ore ed ore di amarezza, di dubbio, di opprimente melanconia, egli pensava: «È inutile illudermi: non sono pazzo, no; ma non posso più vivere così; bisogna ch'io sappia ... Oh, fosse morta! fosse morta! Bisogna che io cerchi. Non sono venuto a Roma per questo? Domani! domani! Dal giorno che arrivai ripeto questa parola, e l'indomani arriva ed io non faccio niente. Ma che posso fare? Dove devo andare? E se la trovo?». Ah, era di questo che egli aveva paura. Non voleva neppur pensare a quanto poteva accadere dopo ... Improvvisamente si domandò: «E se mi confidassi col Daga? Se io ora gli dicessi: "Battista, devo uscire, devo recarmi in questura per chiedere informazioni ... ". Ah, non ne posso più! Sono tanti e tanti anni che io trascino con me questo peso: ora vorrei liberarmene, gettarlo via come si getta un carico opprimente ... liberarmene, respirare ... Bisogna snidarlo questo verme roditore. Mi diranno che sono uno stupido, mi convinceranno che lo sono, mi diranno di smettere ... Ebbene, tanto meglio se mi convinceranno ... Che giornata triste! Il cielo si abbassa ... si abbassa sempre più ... Avrei sonno? Bisogna ch'io vada subito». Pioveva dirottamente. Anche il Daga sonnecchiava sul suo lettuccio, al di là del paravento. «Battista», disse Anania, sollevandosi, col gomito sul guanciale, «tu non esci?» «No.» «Mi presti il tuo ombrello?» Sperava che il compagno gli chiedesse dove voleva andare, con quel tempo orribile, ma il Daga disse: «Non potresti farmi il piacere di comprartene uno?» Anania sedette sul letto, rivolto al paravento, e mormorò: «Devo andare in questura ... ». E sperò ancora che una voce fraterna gli chiedesse il suo segreto ... Ecco, egli palpitava già pensando come cominciare ... Ma attraverso il paravento una voce beffarda chiese: «Vai a far arrestare la pioggia?». Il segreto gli ripiombò sul cuore, più amaro e grave di prima. Ah, non un paravento, ma una muraglia insuperabile lo divideva dalla confidenza e dalla carità del prossimo. Non doveva chiedere né aspettare aiuto da nessuno; doveva bastare a se stesso. S'alzò, si pettinò accuratamente e cercò nel cassetto la sua fede di nascita. «Prendilo pure, l'ombrello. Ma perché vai?», chiese l'altro, sbadigliando. Egli non rispose. Sulle scale buie si fermò un momento, ascoltando lo scroscio sonoro dell'acqua sull'invetriata del tetto: pareva il rombo d'una cascata, che dovesse di momento in momento precipitarsi entro la casa, già inondata dal fragore dell'imminente rovina. Una tristezza mortale gli strinse il cuore. Uscì e vagò lungamente per le strade lavate dalla pioggia: salì su per una viuzza deserta, passò sotto un arco nero, guardò con infinita tristezza i chiaroscuri umidi di certi interni, di certe piccole botteghe, nella cui penombra si disegnavano pallide figure di donne, di uomini volgari, di bimbi sudici: antri ove i carbonari assumevano aspetti diabolici, dove i cestini di erbaggi e di frutta imputridivano nell'oscurità fangosa, ed il fabbro e il ciabattino e la stiratrice si consumavano nei lavori forzati, in un luogo di pena più triste della galera stessa. Anania guardava: ricordava la catapecchia della vedova di Fonni, la casa del mugnaio, il molino, il misero vicinato e le melanconiche figure che lo animavano; e gli pareva d'esser condannato a viver sempre in luoghi di tristezza e tra immagini di dolore. Dopo un lungo ed inutile vagabondare rientrò a casa e si mise a scrivere a Margherita. «Sono mortalmente triste: ho sull'anima un peso che mi opprime e mi schiaccia. Da molti anni io volevo dirti ciò che ti scrivo adesso, in questo triste giorno di pioggia e di melanconia. Non so come tu accoglierai la rivelazione che sto per farti; ma qualunque cosa tu possa pensare, Margherita, non dimenticare che io sono trascinato da una fatalità inesorabile, da un dovere che è più terribile d'un delitto ... » Arrivato alla parola «delitto» si fermò e rilesse la lettera incominciata. Poi riprese la penna, ma non poté tracciare altra parola, vinto da un gelo improvviso. Chi era Margherita? Chi era lui? Chi era quella donna? Cosa era la vita? Ecco che le stupide domande ricominciavano. Guardò lungamente i vetri, il filo di ferro, gli anellini ed i lacci bagnati e saltellanti su uno sfondo giallastro, e pensò: «Se mi suicidassi?», Lacerò lentamente la lettera, prima in lunghe striscie, poi in quadrettini che dispose in colonna, e tornò a fissare i vetri, il filo di ferro, i laccetti che parevano marionette. Rimase così finché la pioggia cessò, finché il compagno lo invitò ad uscire. Il cielo si rasserenava; nell'aria molle vibravano i rumori della città rianimatasi, e l'arcobaleno s'incurvava, meravigliosa cornice, sul quadro umido del Foro Romano. Al solito, i due compagni salirono per Via Nazionale e il Daga si fermò a guardare i giornali davanti al Garroni, mentre Anania proseguiva distratto, andando incontro ad una fila ciangottante di chierici rossi, uno dei quali lo urtò lievemente. Allora egli parve destarsi da un sogno, si fermò e aspettò il compagno, mentre i chierici s'allontanavano, e il riflesso dei loro abiti scarlatti dava uno splendore sanguigno al lastrico bagnato. «Nella mia infanzia ho conosciuto il figliuolino d'un bandito famoso; il bimbo era già arso da passioni selvaggie, e si proponeva di vendicare suo padre. Ora invece ho saputo che si è fatto frate. Come tu spieghi questo fatto?», domandò Anania. «Quell'individuo è pazzo!», rispose il Daga con indifferenza. «Ebbene, no!», riprese Anania animandosi. «Noi spieghiamo o vogliamo spiegare molti misteri psicologici, dando il titolo di matto all'individuo che ne è soggetto.» «Per lo meno, però, è un monomaniaco. D'altronde anche la pazzia è un mistero psicologico complicato; un albero il cui ramo più potente è la monomania.» «Ebbene, ammetto. Ma l'individuo in questione aveva la monomania del banditismo; aggiungi, monomania atavica. Facendosi frate egli, sebbene uomo quasi primitivo, ha voluto liberarsi dal suo male ... » «E finirà con l'impazzire davvero, quel frate. Un uomo cosciente, colto dal malanno di un'idea fissa qualunque, deve liberarsene secondandola.» «Tu forse hai ragione», disse Anania, pensieroso. E non parlò più finché non arrivarono all'angolo di Via Agostino Depretis. Allora disse, svoltando strada: «Voglio prendere ... mi hanno incaricato di prendere l'indirizzo di una persona ... Devo andare in questura». Il compagno lo seguì, curioso. «Chi è questa persona? Chi ti ha incaricato? È del tuo paese?» Ma Anania non si spiegava. Arrivati davanti a Santa Maria Maggiore il Daga dichiarò che non sarebbe andato oltre. «Allora aspettami qui», disse Anania, senza fermarsi, «ti dirò poi ... » Messo in curiosità il Daga lo seguì per un tratto, poi lo aspettò sulla gradinata della chiesa. «Il dado è gettato?» chiese con enfasi, quando Anania ricomparve. Ma nonostante le sue domande e i suoi scherzi non riuscì a sapere che cosa il suo compagno era andato a fare in questura. Appoggiato al muro Anania guardava l'orizzonte e ricordava la sera in cui, bambino, era salito sulle falde del Gennargentu ed aveva veduto un pauroso cielo tutto rosso, animato da spiriti invisibili. Anche adesso sentiva un mistero aleggiargli intorno, e la città gli sembrava una foresta di pietra attraversata da fiumi pericolosi, e sentiva paura. III. Sì, come si legge nelle vecchie storie romantiche, il dado era gettato. La questura, dopo la domanda e le indicazioni di Anania, fece ricerca di Rosalia Derios, e verso la fine di marzo informò lo studente che al numero tale di Via del Seminario, all'ultimo piano, abitava una donna sarda, affitta-camere, il cui passato e i connotati corrispondevano a quelli di Olì. Questa signora si chiamava, o si faceva chiamare, Maria Obinu, nativa di Nuoro. Abitava in Roma da quattordici anni, e nei primi tempi aveva vissuto un po' irregolarmente. Da qualche anno, però, menava vita onesta - almeno in apparenza - affittando camere mobiliate e facendo pensione. Anania non si commosse troppo nel ricevere queste informazioni. I connotati combinavano; egli non ricordava precisamente la fisonomia di sua madre, ma ricordava che ella era alta, coi capelli neri e gli occhi chiari: e la Obinu era alta, coi capelli neri e gli occhi chiari. Inoltre egli sapeva che a Nuoro non esisteva alcuna famiglia Obinu, e che nessuna donna nuorese viveva e affittava camere a Roma. Evidentemente quindi la Obinu falsava il suo nome e la sua origine ... Tuttavia egli sentì che la donna indicatagli dalla questura non era, non poteva essere sua madre; questa non viveva a Roma dal momento che la questura non riusciva a scoprirla. Dopo giorni e mesi di attesa e di ansia, egli provò come un senso di liberazione. La primavera penetrava anche nel cortile melanconico di Piazza della Consolazione, in quell'enorme pozzo giallo esalante odori di vivande, animato dal canto delle serve e dal gorgheggio dei canarini prigionieri. L'aria era tiepida e dolce; sul cielo azzurro passavano nuvolette rosee, e il vento portava fragranze di rose e di viole. Affacciato alla finestra, Anania si abbandonava ai suoi sogni nostalgici. L'odore delle viole, le nuvole rosee, il tepore della primavera, tutto gli ricordava la terra natìa, i vasti orizzonti, le nuvole che dalla finestra della sua cameretta egli vedeva affacciarsi o tramontare fra gli elci dell'Orthobene. Poi ricordava la pineta di monte Urpino, il silenzio delle cime coperte d'asfodeli e di iris violette, il mistero dei viali vigilati dal puro sguardo delle stelle. E la figura diletta di Margherita dominava i freschi paesaggi natii, circondata di asfodeli e di gigli selvatici, coi capelli di rame sfumati nel fulgore del cielo metallico. La primavera romana non lo commoveva che per le rimembranze: gli sembrava una primavera artificiale, troppo ardente e luminosa, troppo abbondante di fiori e di profumi. Piazza di Spagna, ornata come un altare, con la scalinata coperta di petali di rose mosse dalla brezza, il Pincio con gli alberi avvolti di fiori violacei, le vie profumate dai cestini di narcisi e di ranuncoli che le fioraie, ferme sull'orlo dei marciapiedi, offrivano ai passanti, - tutta questa ostentazione, tutto questo mercato della primavera, dava allo studente l'idea di una festa banale, che a lungo andare rattristava e disgustava. La primavera palpitava al di là dell'orizzonte; giovinetta selvaggia e pura ella scorrazzava attraverso le tancas coperte d'erbe alte aromatiche, e cantava con gli uccelli palustri in riva ai torrenti, e scherzava coi mufloni e con le lepri, fra i ciclamini, sotto le immense quercie sacre ai vecchi pastori della Barbagia, e si addormentava all'ombra delle roccie fiorite di musco, nei voluttuosi meriggi, mentre intorno al suo letto di felci e di pervinche gli insetti dorati ronzavano amandosi, e le api suggevano le rose canine estraendone il miele amaro; amaro e dolce come l'anima sarda. Anania amava e viveva in questa primavera lontana; seduto accanto alla finestra guardava le nuvolette rosee, e s'immaginava di essere un prigioniero innamorato. Una sonnolenza piacevole gli velava lo spirito, togliendogli la forza e la volontà di pensare a determinate cose. Le idee venivano e passavano nella sua mente, - così come le persone passano per la via; lo interessavano per un attimo, ma non si fermavano ed egli le dimenticava subito. Più che mai amava la solitudine; e persino la presenza del compagno lo irritava, anche perché il Daga lo derideva continuamente. «Noi vediamo la vita sotto aspetti ben diversi», gli diceva, «cioè io la vedo e tu non la vedi. Io sono miope e vedo, attraverso lenti fortissime, le cose e le umane vicende, nitidamente, rimpicciolite; tu sei miope e non possiedi neppure un paio d'occhiali.» Talvolta infatti pareva ad Anania di aver un velo davanti agli occhi; egli viveva di diffidenza e di dolore. Anche la sua passione per Margherita, in fondo, era composta di tristezza e di paura. Un giorno, agli ultimi di maggio, egli sorprese il compagno stretto in tenero amplesso con la maggiore delle padroncine. «Sei un bruto», gli disse con disprezzo. «Non amoreggi anche con l'altra sorella? Perché ti burli di entrambe?» «Scusami, stupido: son loro che vengono a buttarmisi fra le braccia, le posso respingere?», chiese cinicamente il Daga. «Poiché il mondo è diventato un gambero, profittiamone. Ora son le donne che seducono gli uomini; ed io sarei più stupido di te se non mi lasciassi sedurre ... fino ad un certo punto ... » «Ma perché certe cose non accadono che a certi tipi? A me no, per esempio.» «Perché agli asini non può succedere ciò che succede agli uomini: eppoi le nostre soavi padroncine hanno, in fondo, l'onesto desiderio di trovarsi un marito e sanno che tu sei fidanzato.» «Io fidanzato? ... », gridò Anania, «chi lo ha detto?» «Chi lo sa? E di una Margherita, anche, che questa volta, meno male, va gettata ante asinos.» «Ti proibisco di ripetere quel nome!», proruppe Anania, andando addosso al Daga. «Capisci, te lo proibisco!» «Abbassa le dita, ché mi cavi gli occhi! Il tuo amore è feroce!» Fremente di collera Anania si mise a impacchettare i suoi libri e le sue carte. «Ah», diceva, a denti stretti, «me ne vado subito, subito. Io non so vivere fra gente curiosa e volgare.» «Addio, dunque!», disse Battista, gettandosi sul letto. «Ricordati almeno che nei primi giorni che siamo giunti, se non c'ero io rimanevi vilmente schiacciato da una carrozza.» Anania uscì, col cuore gonfio di fiele: si diresse automaticamente verso il Corso, e quasi senza avvedersene si trovò in Via del Seminario. Era un pomeriggio ardente; lo scirocco sbatteva le tende dei negozi: l'aria odorava di vernici, di droghe e di vivande. Anania sentiva i suoi nervi fremere come corde metalliche. In Via del Seminario passò in mezzo a uno stormo di chierici e di preti dalle mantelline svolazzanti e mormorò dispettosamente: «Corvi!», A un tratto, accanto a una piccola porta che dava su un andito buio, egli vide un numero, il numero della casa ove abitava Maria Obinu. Entrò, salì all'ultimo piano e suonò. Una donna alta e pallida, vestita di nero, aprì: egli si turbò, sembrandogli di aver veduto altra volta i grandi occhi verdastri di lei. «La signora Obinu?» «Sono io», rispose la donna con voce grave, «No», egli pensò, «non è lei; non è la sua voce.» Entrò. La Obinu gli fece attraversare un piccolo vestibolo buio e lo introdusse in un salottino grigio e triste; egli si guardò attorno, vide una testa di cervo e una pelle di muflone attaccate al muro, e immediatamente sentì i suoi dubbi rinascere. «Vorrei una camera; io sono sardo, studente», disse, esaminando la donna da capo a piedi. Ella era pallida e scarna, col collo lungo, il naso affilato quasi trasparente; ma i folti capelli neri, pettinati ancora alla sarda, cioè a trecce strette appuntate fortemente sulla nuca, le davano un'aria graziosa. «Lei è sardo? Ho piacere ... », rispose disinvolta. «Adesso non ho camere disponibili, ma se lei può pazientare una quindicina di giorni, ho una signorina inglese che deve partire ... » Egli chiese ed ottenne di veder la camera; il letto stava al centro, fra due cataste di libri vecchi e d'oggetti antichi; entro una vasca di gomma, ancora piena d'acqua insaponata, olezzava un fascio di gaggie; dalla finestra si scorgeva un giardinetto melanconico. Sul tavolino Anania vide, fra gli altri, un volumetto che egli amava con passione dolorosa. Erano i versi di Giovanni Cena: Madre. «Ho bisogno di andar subito via dalla casa dove sto; prenderò questa camera, ma intanto, non potrebbe darmene un'altra, fosse anche un buco? ... » Rientrarono nel salottino, ed egli si fermò a guardare la testa imbalsamata del cervo. «È un ricordo di mio padre, che era cacciatore», disse la donna, sorridendo con bontà. «È di Nuoro, lei?» «Sì, ma sono nata là per caso.» «Anch'io sono nato per caso nel villaggio di Fonni», egli disse, guardandola in viso. «Sì, sono nato a Fonni; mi chiamo Anania Atonzu Derios.» Ella non batté palpebra. «No, non è lei!», egli pensò, e si sentì felice. «Per questi quindici giorni le darò la mia camera», disse finalmente la Obinu, cedendo alle insistenze di lui, ed egli accettò. La cameretta pareva la cella d'una monaca; il lettino candido, odorante di spigo, ricordava i semplici giacigli di certe patriarcali abitazioni sarde. E come in quelle abitazioni, Maria Obinu aveva appeso lungo le pareti grigie della sua camera una fila di quadretti e di immagini sacre; tre ceri, poi, e tre crocefissi, un ramo d'olivo e un rosario che pareva di confetti, pendevano in capo al letto; in un angolo ardeva una lampadina davanti ad una immagine dove le Sante Anime del Purgatorio, tinte di livido da un lapis turchino, pregavano tra fiamme insanguinate da un lapis rosso. Anania prese possesso della camera, e ben presto fu riassalito dai suoi dubbi. Perché la Obinu gli cedeva la sua camera? perché si mostrava così premurosa con lui? Mentre egli metteva a posto i suoi libri, Maria bussò e, senza avanzare, gli domandò se desiderava che la lampadina delle «Sante Anime» venisse spenta. «No», egli rispose con voce forte, «venga avanti, anzi, che le faccio vedere una cosa.» Ella entrò, pallida, sorridente; pareva avesse sempre conosciuto il suo inquilino e gli volesse bene. Egli teneva fra le mani uno strano oggetto, un sacchettino di stoffa unta, attaccato ad una catenina annerita dal tempo. Disse, mettendosi l'amuleto al collo: «Veda, anche io sono devoto, questa è la ricetta di San Giovanni, che allontana le tentazioni.» La donna guardava. Improvvisamente cessò di sorridere, ed Anania sentì il suo cuore battere forte. «Lei non crede a queste cose?», domandò Maria. «Ebbene, se non ci crede, almeno non se ne burli. Sono cose sacrosante.» Steso sul lettino odorante di spigo, Anania pensava continuamente al suo segreto. ... E se Maria Obinu era Olì? Se era lei? Così vicina e così lontana! qual filo misterioso lo aveva condotto fino a lei, fino al guanciale su cui ella doveva qualche volta piangere ricordando il figliuolo abbandonato? Che strana cosa la vita! Egli era dunque giunto così al suo destino, solo per forza di una volontà misteriosa che lo aveva guidato quasi a sua insaputa. Ma non era pazzo, dunque? Che sciocchezze, che puerilità! No, non era lei, non poteva esser lei. Ma se lo era? Se ella già sapeva di essere vicina a suo figlio, mentre egli si dibatteva nel dubbio? No, non poteva essere lei. Una madre non può non tradirsi, non può non gridare nel rivedere suo figlio. Era assurdo. - Sciocchezze, idee convenzionali. Una donna sa dominarsi anche tra le più violente emozioni. Essa, poi, che aveva abbandonato e buttato via la sua creatura! Appunto per questo doveva tradirsi, gridare, sussultare. Una madre è sempre una madre. Eppoi Olì, una selvaggia, una semplice figlia della natura, non poteva aver assimilato la perfidia delle donne di città, tanto da fingere come una commediante, da sapersi dominare così! Impossibile. Era assurdo, Maria Obinu era Maria Obinu, simpatica donna, mite e incosciente, che aveva avuto la fortuna, più che la forza, di emendarsi. Non poteva esser lei. Ma intanto egli ricordava la prima notte passata a Nuoro e il bacio furtivo di suo padre, e di momento in momento aspettava che l'uscio s'aprisse, e un'ombra si avanzasse, nel chiarore della lampadina, e un bacio rivelatore gli sfiorasse la fronte! ... «E se ciò fosse ... che farei io?» si chiedeva trepidando. I rumori della città si affievolivano, s'allontanavano, quasi ritirandosi anch'essi, stanchi, verso un luogo di riposo. Anania sentì rientrare i tardivi inquilini, poi tutto fu silenzio, nella casa, nella via, nella città. Ed egli vegliava ancora! Ah, forse quella lampadina? ... «Ora la spengo ... » Si alzò. Un rumore, un fruscio ... È l'uscio che si apre? Oh, Dio! Egli si gettò nuovamente sul letto, chiuse gli occhi e attese. Il cuore e la gola gli pulsavano febbrilmente. Ma l'uscio rimase chiuso, ed egli si calmò e rise di sé. Però non spense la lampadina.

Il cappello del prete

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De Marchi, Emilio 1 occorrenze

Sentendo che le forze stavano per abbandonarlo, ebbe piú paura della sua debolezza che del morto. Se egli si lasciava vincere e cadeva estenuato, era perduto. Da quando in qua aveva imparato ad avere paura dei cani? Aveva egli parlato a quel cane? Come poteva dire di non temere lo spettro di Banco, se la vista d'un cane lo spaventava tanto? Guardò ancora una volta con occhio di sfida per tutti gli angoli del cortile, nella stalla, nella legnaia... Nulla. Ma aveva paura a tornare indietro, paura di quel cane. Dio non aveva accettato il suo patto, segno che Dio non esiste. Altrimenti avrebbe avuto compassione. Bisognava cominciare da capo e soprattutto non perdere la testa. Bisognava ragionare, ragionare. Salvatore era morto due o tre giorni dopo il fatto e d'un colpo improvviso. In quei due o tre giorni nel suo lungo far nulla poteva esser passato dal cortile e aveva raccolto il cappello. O forse l'aveva portato in casa il suo cane... A questa idea corse fuori in giardino. Se avesse potuto parlare quel maledetto cane! Trovato il cappello, nulla di piú naturale che Salvatore lo portasse intanto in camera sua. "U barone" corse a vedere nella stanza. Il morto non aveva lasciato che il canterano, e il fusto del letto con un pagliericcio. Aprí un cassettone e non vi trovò nulla. Aprí un altro, un terzo, guardò sotto il canterano, sotto il letto, toccò, palpò il pagliericcio da tutte le parti... Nulla. Allora tornò fuori in giardino. Il cane poteva benissimo aver portato il cappello in giardino o nella vecchia serra dei fiori. "U barone" fece il giro del giardino, entrò nel boschetto, cercò presso la fontana, corse in serra, dove era la cuccia del cane, e non vi trovò che delle ossa spolpate. In preda a uno spaventoso parossismo, che gli impediva di fermarsi, entrò nel palazzo e cominciò a correre per le vuote stanze, guardando in ogni angolo; risalí, dopo tanti anni che non vi poneva il piede, l'antico scalone sparso di calcinacci, traversò una lunga fuga di sale quasi cadenti, infilò delle scalette, discese in luoghi non mai visti, persuaso già di non potervi trovar nulla, ma cacciato dalla sua paura, dalla sua irragionevole curiosità, dal desiderio acuto e pungente di mettere la mano su quel maledetto cappello che si sottraeva al suo dominio. Una volta si arrestò e si chiese: - E non l'avrei io sepolto col suo padrone? E si chiese ancora se si sentiva pronto per comperare la pace di rimovere di notte il mucchio dei mattoni, di rimovere tutta quella sabbia, di sollevare la pietra, di guardare... Ma egli era troppo sicuro che non aveva piú cappello quella testa rotta quando scese nella tomba... Come se queste idee fossero la peste, "u barone" fuggí innanzi a loro, saltò sul cavallo, uscí e si ricompose nella sua abituale rigidezza, quando vide venire incontro il segretario. Questi chiuse il cancello e consegnò con molto ossequio la chiave al signore, che non volendo partire senza aprire la bocca, uscí con queste parole: - Che cosa avete detto del nipote di Salvatore? - Che gli ho consegnato certe robe ch'erano nella stanza del defunto... - Ah! - esclamò "u barone" aprendo la bocca a una enfatica esclamazione. - E dove abita questo giovinotto? - Alla Falda, eccellenza, all'osteria del Vesuvio!... Il cavallo si mosse lentamente. Splendeva un bellissimo sole, e l'aria, lavata dalla recente pioggia, mandava un mite bagliore celeste.

UNA SERENATA AI MORTI

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Faldella, Giovanni 1 occorrenze

La moglie non avrebbe mai voluto abbandonarlo un momento né collo sguardo né colla mano adunca. Essa si piantò di sentinella alla porta, e vi ristette con la truce ed eroica figura, che doveva avere la madre di Pausania, quando concorse con gli efori ad ostruire le porte del tempio di Minerva, dove si era rifugiato suo figlio traditore della patria. Quando Pino Goldi uscì dalla navata da lui occupata, fu così sconcertato nel vedere la moglie appostata, che rimise a lei l'obolo dovuto al custode del tempietto. S'è fatta sera. Il viale dell'Opera è innondato dalla luce elettrica, che sprazza da globi, di cui attraversa la crosta lattiginosa. Geromino prova un sentimento di malinconia e di compassione verso le stelle, la luna e il sole che s'incamminano ad essere imitati, se non soppiantati. Infatti i fanali della luce elettrica hanno la potenza di astri effettivi. Ne viene un chiarore bianco, d'una affinità chimica con quello del giorno. Invano la signora Clitennestra osserva, che esso è un chiarore da cimitero, e che acceca. Il sindaco addita le vie attigue, dove c'è tuttavia l'illuminazione a gaz. - Che fiasco! Sono gli sgorbi gialli del poeta... Eppure in altri tempi s'era fatta anche la guerra al gaz, che si trovava anch'esso troppo abbagliante... Ma, guarda, moglie mia, come si può leggere magnificamente un giornale!... No, per carità! non leggere niente, ché sarebbe un insulto alla tua qualità di sindachessa ammodo... - Sai, che cosa dovremmo fare, mio caro Pino? Raccogliere e poi depositare una collezione di questi giornali nell'archivio municipale di Monticella... I nostri posteri non vorranno credere, che persone pulite e di garbo abbiano esercitato così pubblicamente il lenocinio, in buona fede, sicuro, quel che è peggio, in buona fede. Quando si vive continuamente in un mondo artificiale, si desina ogni giorno alla trattoria, e non si parla con altre donne fuorché con la fioraia, con la guantaia, con la padrona di casa, con la mercantessa di sedie al teatro e ai giardini pubblici, e con le abitatrici delle sedie limitrofe, si perde ogni sentore di famiglia; e la si schernisce, la si distrugge, senza farlo apposta, anzi senza accorgersi... La comitiva si fermò davanti la bacheca di un libraio. La signora Geromino loda la felice scioltezza dei titoli; per esempio Giornale di un giornalista... Pino Goldi la interrompe per gridare: - Per Dio! Fiori di Bitume... Avevamo già i Fiori del male, che erano un passo molto innanzi sui Fioretti di S. Francesco. Fra qualche mese mi aspetto un libro di poesie intitolato Fiori di Water?closet... A proposito, Geromino, mio signor sindaco, non ti pare che qui il popolo... delle insegne pecchi di anglomania o di tedescomania, come da noi si pecca di gallomania? Qui i cabinets... intimi ed idraulici si chiamano Water?closets; un bicchiere di birra bock; i biglietti d'ingresso alla Esposizione tickets... Che ne dici, signor avvocato, filosofo mio?... - Io ti dico e ti insegno, Pino discepolo mio, che una parola, la quale abbia nella sua lingua una significazione generale, trasportata poi in una lingua straniera acquista il vantaggio di esibire la ricchezza di una significazione speciale. Così wagon in inglese vuol dire semplicemente e genericamente carro; e vagone, fatto italiano, vuol dire il carrozzone speciale dei treni della strada ferrata. - Quanto si impara per istrada, - disse con ostentazione adulatoria il Goldi - quando si ha il benefizio di aver in compagnia un filosofo peripatetico della tua forza! - Si impara anche questa conferma stradale che i parigini sacrificano ogni sentimento al contegno delle forme - soggiunse la signora Angelica Geromino. - Ti ricordi, sindaco! quando il cappellano-fattore?segretario del marchese di Monticella nel fare stampare la lettera di morte della signora marchesa ci mise dentro: "L'illustrissimo marchese ecc. HA L'ONORE di partecipare a V. S. l'irreparabile perdita..."? Il marchese, avvertito dagli amici, andò in collera; e l'onore posto in vece del dolore negli annunzi di morte divenne nel nostro paese una baia proverbiale, con cui i proprietari si consolano malamente del rammarico di aver perduto una vitella. Invece qui a Parigi l'onore pel dolore nella morte dei più cari sembra una cosa naturale... Infatti si era davanti un gran negozio di pompe funebri che annunziava all'ingrosso e al minuto: - Convogli mortuari, interramenti, medici necroscopici, servizi religiosi, lettere di partecipazione filettate di nero ed altre imprese e merci dello stesso colore... frangiate di giallo e bianco. E la signora Geromino lesse forte il modello d'una lettera di annunzio mortuario, che campeggiava nel bel mezzo di quella bottega di Caronte: - La signora Emilia..., religiosa del Sacro Cuore, e la signora Hoenig nata ecc., ONT L'HONNEUR de vous fair part de la perte, qu'ils viennent de faire en la personne etc. - Il gran Galateo delle forme pubbliche - riprese Geromino - si rivela sopratutto negli avvisi delle autorità costituite. Degnatevi di ammirare quest'Ordonnance concernant les chiens. Nous Prefet de Police etc. Vu la loi etc... Sembra che il senatore, prefetto di polizia, si sia messo i guanti per discorrere coi cani e dica loro: "Favorite di portare la museruola; se no, i nostri ufficiali, gli accalappiacani, vi pigliano e vi ammazzano, S'il vous plait...". Ah! io non faccio tanti complimenti ai signori cani di Monticella. Oh! niuna pubblicazione all'Albo Pretorio! Comando semplicemente ai miei sparafucili, guardie campestri: "Uccidetemi quel cane irregolare e infesto...". E di lì a mezz'ora il cane proscritto ha terminato di far male... Un'altra nota della letteratura parigina, ambulante, spicciola, giornaliera, sia essa parlata o sia scritta, si è la disinvoltura nelle inesattezze, a cui il parigino si abbandona per semplice estro di frivolezza e di burla o per scopo di tirar gente. Non fu raro il caso, che sull'imperiale dell'omnibus un parigino, conoscendo il nostro sindaco per forestiero, lo abbia toccato nel gomito con un gesto di carità fraterna e gli abbia indicato il maresciallo Mac- Mahon, che passava. Anzi Geromino assicura che gli additarono sette Mac?Mahon di fisionomia affatto diversa, ed invano il segretario volle spiegare l'arcano al suo superiore, dicendogli che una volta sarà stato l'eroe di Magenta, un'altra volta il Mac?Mahon delle batoste del 1870, a cui il popolazzo parigino in quei giorni perigliosi voleva imporre le orecchie d'asino; una terza volta il debellatore della Comune, una quarta l'uomo del 16 maggio, una quinta il presidente dal dilemma cornuto di Gambetta: dimettersi o sottomettersi; una sesta il presidente in voce di pigliarsi ambedue le corna, oltre la intimazione di Gambetta, cioè in voce di dimettersi, dopo di essersi sottomesso; una settima il possibile presidente destituito dalle vicine elezioni senatoriali. Nello stesso modo facile, con cui i parigini danno ad intendere personalmente a Geromino un uomo per un altro, e una via per l'altra, essi non hanno, come disse con un arcaismo il povero sindaco, essi non hanno alcun respitto nel litografare e nel vendere un album delle facciate delle Nazioni all'Esposizione, facciate, fors'anche migliori, ma affatto diverse da quelle che esistono in realtà. Alcuni grandi magazzini o semplici negozi regalano ai loro avventori e anche a chi non compra niente, una pianta di Parigi e dell'Esposizione. Or bene Geromino verificò, che in una pianta dell'Esposizione il Campo di Marte era capovolto rimpetto al Trocadero, e ciò per poter collocare meglio negli angoli del disegno la raccomandazione dell'Acqua di Melissa o della broda Boudier o della sartoria Voltaire, che per 21 lira dà un vestiario completo, oltre al ritratto dell'autore dell'Enriade. Nella pianta di Parigi poi isoleggia, fuori di ogni squadro, il magazzino, che l'ha fatta stampare; cosicché ad un forestiere meno ingenuo di Geromino parrebbe che il negozio, di cui si tratta, fosse cosa più notevole e più grande del Louvre, delle Tuileries, del Lussemburgo, della Maddalena, del Pantheon e degli Invalidi riuniti insieme. A un certo punto la nostra brigata, passando davanti a un padiglione illuminato a vetri colorati, fu tutta intagliata dalla proiezione degli annunzi. La signora Giacomina aveva sulle spalle la raccomandazione di un romanzo; il sindaco aveva nella faccia il disegno di un cappello; il segretario era attraversato da un Gran Ristorante; e la signora Clitennestra portava sul naso la strombazzata della Compagnia Nazionale del lucido da scarpe francese. Eglino erano diventati tante caricature di Cham, e come se ciò non bastasse, di sopra li percotevano alcuni paroloni di gaz illuminante da disgradarne Ottino, che predicavano le extra ultime mantiglie al primo piano; l'asfalto si spingeva, sotto i loro piedi, a cantare in lettere bianche le pantofole più morbide dell'universo, e i tavolini da caffè loro sorridevano mosaici di avvisi benevoli e stuzzicanti. Da quella ridda di reclami, i nostri quattro viaggiatori si involarono, riparandosi nella loro umile casetta di rue du Bac, mobile come un vecchio armadio in riparazione davanti la bottega di un falegname. Goldi disse a Geromino: - Ho fatto incetta qui di parecchi giornali scostumati; ma prima di leggerli rinserriamo le nostre consorti nei loro appartamenti. Certi giornali non potrebbe leggerli neppure... mia moglie. Quando fu ben sicuro, che il gentil sesso era rientrato nelle sue tende, il segretario, con il più buffo secretume da Consiglio dei Dieci, offerse un fascio di giornali alla lettura del suo sindaco. Questi, dopo averli esaminati, stette un po' pensieroso e poi ragionò: - Una volta la letteratura francese commetteva qualsiasi bricconata con buon gusto; tanto è vero che il maledico Heine poteva scrivere di Victor Hugo, che questi godeva appunto di una fama singolare, perché egli era l'unico che sconfinasse dal buon gusto fra i suoi connazionali. Ora invece la bricconata letteraria francese viene fuori con la frase più tecnica e più brutale. In questo giornaletto c'è una lettera di uno zio padrino alla nipote Giovannina cucitrice di nero a Montmartre, per i casi occorsile, onde ebbe origine un trovatello, ed è una lettera di cui si potrebbe tradurre il senso ma non la parola cinica. E questa poesia? La vita di un Gaudente, Ninna Nanna. "Quattro anni per dire mamma e papà, amare gli zuccherini, le immagini, e farcela addosso, è la gran bella età! - Dieci anni! per andare in collegio, intraprendere un tirocinio, è la gran bella età! - Diciotto, vent'anni! - Per fare all'amore, per diteggiare i vaghi corsetti, i giocondi visini, le gambe fatte al tornio, ecc.". Per un tratto non si può più continuare nella traduzione in prosa... "Cinquant'anni! Per essere scornato e ricevere un calcio nel sedere dall'uomo che vi disonora. È la gran bella età! - Sessant'anni. - Per crepare di quattrini, divenire un personaggio immondo, gesuita, putrido, classe dirigente, è la gran bella età! - Ottant'anni! Per essere completamente imbecille, avere la testa che dondola, e farsela nuovamente addosso, è la gran bella età...". - A me quello che piace di più è il seguente avviso - interruppe Goldi prendendo il giornale di mano al sindaco. - La comparsa del libro di Paolo Makalin, LE LEGGIADRE ATTRICI DI PARIGI, ha testè suggerito ad uno dei nostri più avveduti uomini di finanza il proposito di fondare una società in accomandita per l'estrazione del mercurio dai corpi di ballo e simili... - Questo è niente - rispose Geromino: - è il n. 11, anno I, di un giornale che morrà presto, come un fungo... il grido di disperazione corbellatrice degli ingegni abortiti o disgraziati e delle vocazioni spostate, che si incollano confondendosi in questo oceano di glutine parigino, dove nella calca mostruosa l'individuo è isolato, e il parroco smesso può fare senza rossore il vetturino, e l'avvocato e l'ingegnere, in mancanza di meglio, possono adattarsi tranquillamente a fare il cameriere d'albergo. Direi che c'è qualche cosa di nobile e di positivo, di forte, o per parlare più difficile, c'è qualche sentore d'aurora, d'ideale e di avvenire in questo orribile muoversi dei diseredati e dei calpestati, che mordono le calcagna a coloro che passano di sopra... Ma io trovo molto più lercio e più rivoltante il linguaggio di alcuni fra gli ingegni riusciti costituiti e dominanti. Prendiamo questo giornale illustrato, che ha sedici anni di vita fiorente, è l'organo della gente ammodo, è pieno di brio, di arguzia e di utilità pratica, e in una pagina sola di disegni ci fornisce un mondo di storia vera, istruttiva e divertente, la storia di una famiglia nobile dalle Crociate alla Esposizione dei formaggi. Orbene vediamo in quale prosa casca questo ammirabile giornale. Ecco qui a pag. 462: Consigli pratici ai forestieri. Ci descrive i quartieri delle disgraziate creature che pigliano addirittura il nome dal mondo intiero, loro clientela; ed esse non sono più le allegre Lisette di Béranger, le matte studentesse, le peccatrici dal cuore leggiero, le grisettes dall'anima di cardellino; ma sono le avide, le truculente, le mascherate cocottes, entomati, vibrioni, mangiatrici di denaro. Ci descrive il Quartier de l'Europe e poi le Quartier des Martyrs e dice: "Le castellane di questo quartiere si compiacciono estremamente del respirare aria fresca; e perciò fanno in accappatoio bianco delle lunghe pose alle finestre dei loro alloggi. Sarebbe perfettamente inutile l'accingersi ad una serenata per commuoverle... Non vi getterebbero di certo la scala di seta. Il meglio si è rivolgersi al portinaio. D'ordinario si trova la chiave sotto l'uscio; se non c'è, è meglio non insistere: - Chiuso per causa di occupazione...". - E questo birbone di giornalista, seguita in un modo, che ho rossore di seguitare a tradurre io... Ci descrive la sacerdotessa nella sacristia del suo abbigliatoio, e poi meglio ancora, quando la porta si apre, la tenda si solleva; e la sacerdotessa compare nel tempio fresca, fragorosa e olezzante; la soave capigliatura sparsa; e la grande persona drappeggiata in un vago velo di China, celeste o rosa, allacciato da capo a fondo da piccoli nodi di setino. Qui quel briccone di giornalista, che si potrebbe chiamare dantescamente galeotto, ci dà persino il manuale di conversazione con la solita traduzione inglese per i viaggiatori che sono stimati più danarosi: "Quelle étoffe soyeuse! - Ce peignoir s'agrafe jusqu'en haut. Ce sont des noeuds. Est?ce qu'ils peuvent se défaire? - ...Cette jarretière ne vous serre pas trop. En êtes?vous sûre? - Vos petits pieds sortant de ces pantoufles ont l'air de sortir d'un nid". E concede persino degli scherni placidi alla morale e alla filosofia: "Le moraliste s'en etonne. Le philosophe s'en afflige. Mais qu'y faire? (The moralist is astonished - The philosopher is sorrow. Can you help it?)". A questo punto il sindaco si rizzò in piedi, fregandosi il pugno negli occhi, quindi proruppe: - Ma se vi sono dei giornali che si intitolano dai Grandi Matrimoni, se vi è Le Trait d'union. Organo dei celibatarii e delle famiglie; domando io, perché questa prosa non potrà entrare in un Giornale Ufficiale delle Mondane, delle generose Morelliane...? Poi l'adirato Geromino si sedette nascondendo la faccia nelle mani. Pensò al suo villaggio, alla sua famiglia, alla sua sposa; pensò, che lo scrittore di quelle righe forse aveva anche lui una famiglia illibata in una città di provincia o in un castello, dentro la strombatura di una montagna. - Sì! Ed avrà una nonna bianca, veneranda, che sprofondata in un seggiolone a bracciuoli, con gli occhiali verdi sul naso, leggerà al chiarore casalingo dell'olio d'uliva i giornali dell'ultima posta cercandovi la notizia dei successi teatrali del figlio drammaturgo... Ed il figliuolo venuto qui, dove la foga della grande città annichila nella vita pubblica esterna i morali e santi ripostigli della divina famiglia, venuto qui, vittima inconscia del putridume, che lo ingoia, serve da letterario mezzano... Il sindaco fu di nuovo in piedi e agguantò pei bottoni il segretario vociandogli con una efferatezza di voce soffocata: - Ma vi sono dunque due leggi morali, e due razze d'uomini...? E una mia figlia potrà appartenere al sesso di quella sciagurata!... Una delle due: o noi siamo minchioni, o quelli non sono uomini, sono compagni di Sant'Antonio. Geromino era ricaduto sulla seggiola spossato; e si sarebbe detto che piangesse tacitamente. Pino Goldi si appigliò al solito partito da lui praticato, quando vede alcuno a piangere; accende il sigaro, perché, dice lui, non si vedano le sue lacrime di richiamo. Ma il sindaco non piangeva; onde Pino Goldi gli disse: - Caro mio, impara a conoscere il mondo, e piglialo come viene. E per istruirci di più, domani sera dobbiamo andare tutti al Mabille.

Clelia: il governo dei preti: romanzo storico politico

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Garibaldi, Giuseppe 1 occorrenze
  • 1870
  • Fratelli Rechiedei
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Anita, compagna inseparabile del solitario neppure in questo terribile estremo consentì ad abbandonarlo. Invano lo sposo si affaticava a persuaderla di rimanere a San Marino: incinta, spossata, inferma, non vi fu verso di persuaderla. La coraggiosa donna non volle udire ammonizioni e rispondeva al suo diletto: ch’egli voleva abbandonarla!! Attorniato da corpi di truppe austriache, cacciato dalla polizia papalina, dopo una marcia di notte, delusi i persecutori, quello stanco avanzo dell’esercito Romano giunse alle porte di Cesenatico allo spuntare della mattina. «Scendete e disarmateli! »

UN MATRIMONIO IN PROVINCIA

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Marchesa Colombi 1 occorrenze

Poi, nei primi tempi del nostro lutto si fece sposa anche la Maria, e, dopo un breve viaggio di nozze, tornò collo sposo in casa di suo padre, per non abbandonarlo nella vecchiaia. Di quattro, io, la bellezza, ero rimasta l'ultima. Finalmente una sera di maggio, mentre eravamo a passeggio sull'"allea", vidi Onorato, coi due moschettieri che gli erano rimasti. Nel passarmi accanto, mi guardò, precisamente come se m'avesse veduta il giorno innanzi. Ebbi un accesso di gioia pazza, e pensai: "Ecco! È venuta la mia volta!" Ed aspettai di giorno in giorno la domanda di matrimonio. Ma la domanda non venne. Riprese a guardarmi quando m'incontrava, a venire in chiesa in capo al banco, cogli occhi fissi su me; gli occhi che mi riconfermavano sempre il tacito accordo pattuito fra noi, e rafforzavano la mia fede, ed accrescendo la mia impazienza, mi davano però l'energia d'aspettare. Ed aspettai infatti altri cinque o sei mesi, felice del suo ritorno, tranquilla d'aver assicurato il mio avvenire. Un giorno la Maria, che dopo il suo matrimonio non m'aveva piú parlato d'Onorato, e si lasciava vedere di rado a casa nostra, venne a prendermi per condurmi a pranzo da lei. Quel fatto strano mi fece supporre che avesse qualche buona nuova da comunicarmi; pensai alla domanda di matrimonio ed uscii col cuore palpitante. Infatti, mentre aspettavamo che il signor Bonelli ed il marito della Maria tornassero pel pranzo, lei mi disse: - E tu, bellezza! non pensi a maritarti? È tempo, sai. Hai sei mesi piú di me. Io cominciai a rispondere: - Ma appena mi farà la domanda... Lei m'interruppe con una risatina che non era naturale, ed esclamò: - Ah! la domanda di Mazzucchetti! È il tuo vascello fantasma, quella domanda! - Il mio vascello fantasma?... - Sí; tu non sai. È un'opera. Vuol dire una meta a cui si tende sempre e non si raggiunge mai. Un'illusione. - Credi che sia un'illusione? - Vedo che passano gli anni e non concludete nulla... Io, nel caso tuo, ci rinuncerei. Crollai le spalle indispettita, e lei continuò: - Ti allontana i partiti quel grassone. Io protestai: - Ma che partiti? Se non c'è nessun altri che si curi di me... - Sfido! Sanno tutti che sei innamorata di quello lí. Mio marito l'ha udito dire in un caffè. - In un caffè! - Ma sicuro, mia cara. Tu vivi fuori del mondo, e non sai che quel bel signore ti compromette colle sue eterne occhiate, che non mettono capo a nulla. Ero un po' offesa, senza saper bene il perché. Quel discorso mi pareva brutale, e fuor di proposito. Perché me lo faceva appunto allora, e non qualche anno prima? Non rispondevo nulla, ma il mio silenzio doveva dimostrarle che ero risentita, perché lei mi venne accanto, mi prese le mani e disse: - Non andare in collera, ti dico queste cose pel bene che ti voglio. Se noi potessimo giovarti, tanto io che mio marito... pensaci. Possiamo far qualche cosa per te? Presto andiamo in campagna. Vuoi venir via con noi e star fuori tutto l'autunno, e cercare di dimenticarlo?... Vuoi? Stetti un lungo tratto a pensare. Mi pareva di sentire in quelle parole un sottinteso che non mi riesciva di comprendere. Finalmente dissi: - Perché dimenticarlo? Dopo aver aspettato tanto!... Lei mi guardava con un'aria di compassione che mi faceva stizza, e non parlava piú. Io tornai a dire: - Dimenticarlo! Bisognerebbe che sapessi che non mi sposerà mai, per volerlo dimenticare. La Maria chinò il capo come se avesse un torto e se ne vergognasse, e senza guardarmi sussurrò: - Fa' conto di saperlo. Diedi una forte scossa alle sue mani che tenevano sempre la mia, e respingendola, ed alzandomi a guardarla in viso, tutta eccitata gridai: - Perché? Che motivo hai di dir questo? Perché non dovrebbe sposarmi mai? Ho qualche torto? Di'... Crollò il capo, e sempre cogli occhi bassi rispose: - Tu no, povera Denza! - Allora è di lui che sospetti? Di che cosa? Sentiamo. Ha un'altra moglie? Questa volta alzò gli occhi, mi guardò addolorata, e giungendo le mani come per domandarmi perdono, disse pian piano: - Sposa la Borani. Io ripetei come un'eco: - Sposa la Borani! E mi sentivo divenir tutta fredda, e tremavo, tremavo, e non potevo dir altro. Mi pareva che tutti i vincoli che avevo colla vita si fossero spezzati ad un tratto, e che, dopo quella grande rovina, dovessi morire; che fosse finita. La Maria mi guardava sbigottita. Mi ero lasciata cadere sul divano; lei si mise in ginocchio accanto a me, in silenzio. I singhiozzi cominciavano a gonfiarmi il petto e stringermi la gola. Resistetti un minuto, poi m'abbandonai nelle sue braccia, piangendo disperatamente, ed esclamando che volevo morire, che volevo farmi monaca, che non volevo piú stare a Novara neppure un giorno, e che non volevo piú uscir di casa, e che tutti vedendomi avrebbero riso di me, e che sarei morta di vergogna. La Maria mi lasciò sfogare pazientemente, senza contraddirmi, senza tentare di consolarmi, finché la convulsione del pianto cessò. Allora soltanto, con molta delicatezza, mi disse: "che avevo sempre data troppo importanza a quelle occhiate, che, in sostanza, lui era stato accorto, non s'era impegnato in nessun modo; che certo gli piacevo, perché ero bella, e se avessi avuto la dote della Borani avrebbe preferito sposar me; ma era uomo interessato; non aveva il coraggio di rinunciare alla dote. E non meritava che lo rimpiangessi; e soprattutto non dovevo dargli quel trionfo d'avermi fatta vittima, d'avermi turbata. Dovevo mostrarmi indifferente. Capiva che era difficile e doloroso, ma questo doveva essere il mio eroismo. Dovevo averlo per la mia dignità; cominciando subito a ricompormi per non farmi scorgere dal suo babbo e da suo marito, e piú tardi dalla mia famiglia..." Questa considerazione mi scosse piú di tutte le altre. Infatti non potevo dire a casa mia: - Piango, mi dispero, faccio delle scene perché il mio innamorato mi pianta. Mi lavai il volto coll'acqua fresca, e, bene o male, assistetti a quel pranzo, dove i due uomini ebbero la cortesia di fingere di non saper nulla e di non vedere in che stato di alterazione mi presentavo. La sera, quando la matrigna vedendomi tutta pallida e cogli occhi gonfi, mi guardò sgomenta, io sussurrai: - Si parlò della zia. E me ne andai in camera a spogliarmi. Il domani ci furono le occupazioni inevitabili della casa che mi aiutarono a combattere, se non il mio dolore, almeno le manifestazioni del dolore! Parlavo pochissimo, ero triste, avevo spesso il pianto alla gola, ma lo ringoiavo, e fingevo di non aver altro cruccio che quello per cui portavo ancora il lutto Cosí superai il periodo piú acuto e difficile della catastrofe. Più tardi andai colla Maria alla sua campagna e vi stetti fin dopo quelle nozze di gente ricca di cui a Novara si parlava troppo, perché io potessi rimanerci senza molte sofferenze e mortificazioni. Quando tornai ripresi la solita vita, ed a poco a poco mi avvezzai anche all'idea dolorosa di non essere amata. Quando mi accadeva d'incontrare Onorato, mi guardava tal quale come prima. Era un'abitudine. Se non avesse avuto moglie, avrei potuto illudermi che m'amasse sempre, e sperare chissà fin quando. La Maria mi diceva: - È meglio che si sia ammogliato, altrimenti t'avrebbe fatta invecchiar zitellona come la tua zia, per vivere e morire dietro un paravento. A quell'idea rabbrividivo, e dovevo convenire che infatti era meglio. E lei, incoraggiata, continuava colla sua monelleria da ragazza, che qualche volta faceva capolino ancora: - Se lo sa il tuo babbo, accende una lampada alla Madonna per Grazia ricevuta. Dopo quel grande avvenimento ci fu un lungo periodo, assai lungo, durante il quale non accadde assolutamente nulla. Un periodo uggioso e grave tutto pieno di faccende di casa, di discorsi scipiti, di abitudini che si ripetevano a tempo fisso: solennità, feste di famiglia, esami e premiazioni nelle scuole del mio fratellino, piccole malattie della matrigna, visite scambiate con mia sorella. Nulla che mi abbia dato una scossa o lasciato una impressione profonda, fin al carnovale del 1875. Quell'anno la Giuseppina, che aveva avuto un parto immaturo, e ne aveva fatto una malattia, venne a passare l'inverno a Novara, e sua sorella per divertirla diede una serata musicale, avvertendo che sul tardi si sarebbero fatti quattro salti. Era la prima volta che mi si offriva l'occasione d'andare ad una serata; e mi davo gran pensiero dell'abbigliamento. Avevamo ricevuto l'invito nel pomeriggio, pel posdomani. E la sera a cena dissi: - Potrei mettermi l'abito bianco di questa estate... Il babbo osservò soltanto che avrei potuto infreddarmi. Ma la matrigna fece delle obbiezioni: - Cosí com'è? Tutto bianco? Mi pare troppo giovanile per una ragazza della tua età. Credo che in quel momento la circolazione del mio sangue triplicasse di rapidità, perché sentii una vampa di calore salirmi dal cuore alla testa, ed il cuore mi batté con una violenza che mi scosse tutta, ma mentre risentii quell'impressione istantaneamente, il pensiero non fu altrettanto pronto a riflettere che età avessi e se mi convenisse o no quel vestito, ed esclamai: - Alla mia età! Sono una vecchia da non potermi vestir di bianco? E la matrigna, spietatamente sincera, disse: - Non sei una vecchia, no; ma sei una giovane matura... Ah, che colpo fu quello! Neppure l'abbandono d'Onorato m'aveva desolata a quel modo. Una giovane matura! Ed era vero. Avevo venticinque anni passati! Non m'ero mai fermata su quel pensiero. Quell'età me l'ero lasciata venire addosso, cosí, lemme lemme, facendo sempre la stessa vita che facevo a quindici anni, stando sempre sommessa al babbo ed alla matrigna... Infatti quel bimbo che avevo portato in collo, era diventato un omino di dieci anni, ed andava al liceo. Quella sera, seduta sul letto, colle gambe penzoloni, livide pel freddo, rimasi lungamente assorta in quelle riflessioni profondamente tristi. Venticinque anni passati, quasi ventisei! Fra quattro anni ne avrei trenta! Mi ricordavo quanto s'era riso colle cugine e con mia sorella d'una certa signorina di ventotto anni, che si dava l'aria d'una giovinetta, e non osava uscir di casa sola. Una volta che aveva detto "quando sarò maritata" ne avevamo avuto per un gran pezzo da burlarla. Ed un'altra volta che le era sfuggito, parlando con noi, di dire: "Fra noi ragazze" oh! che scene avevamo fatte! Ci era sembrato il colmo del ridicolo. Ed ora ero nello stesso caso. Una zitellona! Non potevo piú parlare di speranze future, di nozze; mi avrebbero burlata dietro le spalle. Le altre ragazze mi trovavano vecchia. E di certo! Le mie coetanee, la Maria più giovane di me, erano maritate, avevano dei figlioli che andavano alla scuola; erano donne. La mia vita era sciupata. Mi vedevo sorgere dinanzi minacciosamente il paravento della povera zia, e mi cadevano le lagrime silenziose, sconsolate, giú per le guancie sulla camicia, e non m'accorgevo che mi gelavano le gambe, che mi assideravo tutta. Una zitellona! La mattina ero gravemente infreddata, e presi quella scusa, o l'altra che non sapevo ballare, per non andare alla serata della Maria. Comparire per la prima volta in società come una giovane matura, troppo vecchia per vestirmi di bianco, era troppo umiliante e doloroso. I sei mesi che passarono tra quel giorno memorabilmente triste, e l'agosto seguente, furono i piú squallidi della mia vita. Nell'agosto di quello stesso anno, una sera che m'ero coricata presto, mi svegliai verso le undici con una gran sete, ed andai in cucina senza lume a piedi scalzi, per bere un po' d'acqua. Faceva un caldo soffocante, tutti gli usci erano aperti, e si udivano il babbo e la matrigna discorrere nella loro camera. Il babbo diceva: - Io non oso neppure proporglielo. Una ragazza giovane e bella... La matrigna rispose: - Sicuro è bella ed è sul fior dell'età. Ma, come giovane da marito, è un po' matura. - Ma che! Quanto ha? ventidue, ventitrè anni... Povero babbo, per lui non ero una zitellona. Mi credeva sempre la giovinetta che faceva correre sulle strade maestre, narrando l'Iliade. La matrigna rettificò. - Ne ha ventisei. È giovane, ripeto. Ma ci sono tante ragazze, di diciotto o vent'anni belle quanto lei e ricche; e, naturalmente, lei, che non ha dote, ed ha degli anni di piú, se vuol maritarsi non dev'essere troppo esigente. Già è il primo che le capita... Fuggii in letto in punta di piedi col cuore che mi batteva forte forte. Infatti era il primo che mi capitasse. Chi era? Chiunque fosse, mi faceva un gran bene. Ero disposta ad accettarlo; il fatto solo d'avermi domandata, era un titolo in suo favore. Non mi trovava troppo matura, lui! Purché il babbo non si ostinasse ad essere piú esigente di me! Perché non osava propormelo? Era forse un vecchio? Oh Dio! Quante supposizioni, quanti romanzi fabbricai in quella notte! Fu la matrigna che il giorno dopo, alla fine del pranzo, mi disse: - Senti, Denza. Ci sarebbe un partito per te; però non è brillante. Il babbo era presente, ma leggeva un giornale per dimostrare che voleva rimanere estraneo a quella proposta. Io domandai molto agitata: - Chi è? - Un notaio di Vercelli, che viene a stabilirsi a Novara. Fin qui non c'era nulla di male; ma ci doveva essere. Domandai ancora: - Vecchio? - No... Quarant'anni - . Stavo per dire che mi pareva vecchio. Ma mi ricordai che ero matura, e dissi invece, cercando ancora il male che non stava nell'età: - È molto povero? - Tutt'altro, è agiato. E venendo qui entrerà come socio nello studio del notaio Ronchetti. Cosa poteva avere a suo svantaggio? La figura di certo. Domandai con molta trepidazione. - Ma dunque è un mostro? - Un mostro no... Ma ha un difetto... Stavo senza fiato. Non osavo interrogare. La matrigna lasciò che mi fossi fatta all'idea d'un difetto, magari d'una deformità, perché il colpo mi riescisse meno grave, poi continuò: - Ha una verruca; sai, un porro, un po' grosso, qui sulla tempia destra. Rimasi impressionata. Non riescivo a figurarmi che grossezza potesse raggiungere un porro. Avevo veduto una volta, a Borgomanero, un contadino con un'escrescenza sul naso, grossa il doppio del naso stesso; un orrore. Ma non poteva esser cosí. Quello non era un porro, doveva essere qualche malattia spaventosa... Finalmente mi feci coraggio e domandai: - È molto grosso? - No... che! Come una noce. Portando i capelli abbassati sulla tempia, non si vede neppure... L'idea di quei capelli, ravviati, appiccicati su quella mostruosità che dovevano nascondere, mi dispiacque piú del porro. Mi pareva che, se l'avesse portato con disinvoltura, sarebbe stato meno male. La matrigna riprese: - Ad ogni modo vederlo non t'impegna a nulla. Prima di rifiutare, vedilo. Chinai il capo rassegnata. Non che mi dispiacesse vederlo. Anzi era il mio desiderio. Ma mi dispiaceva che il matrimonio si presentasse in modo tanto differente da quello che avevo sognato. Era stato il signor Bonelli che aveva proposto per me il notaio Scalchi, come aveva proposto parecchi anni prima Antonio Ambrosoli per mia sorella. Pareva che quel lontano parente avesse la missione di darci marito. Fu dunque, per colmo d'imbarazzo, in casa sua, ed alla presenza della Maria, che dovetti vedere il mio pretendente. Andammo in casa Bonelli dopo il loro pranzo, verso le sette. Lo sposo non c'era ancora. Si parlava apertamente di quell'incontro, e del motivo che lo provocava. La Maria diceva: - È un bell'uomo, non ha che quel difetto. Del resto ha già rifiutato delle spose con dote, sai. Gli avevano proposto la signorina Vivanti, e non la volle perché era troppo piccola. Le fu presentata mentre stava seduta sopra un divano un po' alto, e lui vide che i piedi non le arrivavano in terra... La signorina Vivanti era un mostricciattolo che i parenti e gli amici cercavano di maritare da parecchi anni, senza mai riuscirvi. Cosa poteva essere un uomo a cui si proponeva quella specie di sposa? Venne quasi subito, e la prima impressione non fu sfavorevole. Era alto, un po' grosso, ma ben fatto. Aveva una foresta di capelli castano chiari, tutti dritti a spazzola. Si vedeva che non tentava neppure di portarli abbassati sulla tempia per nascondere il suo difetto. Del resto non avrebbe potuto; erano capelli ispidi che non si piegavano. Anche per lui la prima impressione dovette essere favorevole, perché, appena m'ebbe trovata collo sguardo, e fissata un minuto, si fece rosso come un giovinetto, e perdette l'aria disinvolta con cui s'era affacciato all'uscio. Quando me lo presentarono ebbe un momento d'imbarazzo, e, sorprendendo i miei occhi rivolti alla sua tempia destra, arrossí un'altra volta. Ma si rinfrancò subito, e prese parte al discorso che facevano gli uomini. Aveva una voce armoniosa, e parlava bene. S'intratteneva delle risaie del Vercellese; deplorava che fossero troppo vicine alla città, ma chiamava esagerata e sentimentale la compassione degli scrittori pei risaioli. Diceva che, trattati umanamente dai proprietari, possono attendere a quella coltivazione senza soffrirne. E spiegava tutto un sistema d'igiene per quei contadini, che mi annoiava molto. Avrei voluto che mi parlasse delle sue speranze, dell'impressione che gli avevo fatta... d'amore insomma. La Maria, da accorta padrona di casa, seppe procurarci un colloquio da soli. Ci fece uscir tutti sul balcone; poi, poco dopo, rientrò colla matrigna per fare il tè, e gli altri le seguirono. Rimanemmo soli sul balcone. Tenevo gli occhi fissi giú nella strada, e stavo zitta, ansiosa di sentire cosa direbbe. Parve che ci pensasse molto, perché stette un tratto senza parlare, poi s'appoggiò al davanzale accanto a me e disse: - Non ho sentito il suo parere signorina, sulla questione che si discuteva dianzi. Pensai che avessero discusso col babbo o col signor Bonelli sul nostro matrimonio; mi sentii salire al volto una vampa di rossore, e tutta confusa, domandai: - Quale questione? - Quella delle risaie. Credetti che scherzasse, e lo guardai stupefatta. Ma lui, senza far caso del mio stupore, continuò: - I miei fondi, i pochi che ho, perché non sono un gran possidente, sono in risaia. E ci vivo una parte dell'anno per sorvegliare io stesso i lavori. Per i proprietari di risaie è un obbligo di coscienza; altrimenti si deve affidarsi ai sensali ed allora sí che i poveri giornalieri, in quelle mani, sono oppressi da un lavoro soverchio, mal pagati, mal nutriti, alloggiati come Dio vuole, trattati da schiavi. Io risposi un po' stizzita: - Non me ne intendo, sa. Noi abbiamo pochissimi fondi verso Gozzano; boschi e vigneti. Le risaie non le conosco. - Ma potrebbe trovarsi nel caso di conoscerle, di possederle. E vorrei che comprendesse la necessità di sacrificarsi a sorvegliarle personalmente. Dico sacrificarsi, perché capisco che è un vero sacrificio, specialmente per una signora. Io, per esempio, ho una casa vasta, comoda, anche abbastanza elegante; ma non è una villeggiatura dove si possano fare degl'inviti, dove ci si possa divertire. Si fanno delle passeggiate lungo il giorno, ma la sera bisogna ritirarsi presto, star chiusi in casa ad accender il fuoco... Capii che mi voleva preparare alla vita che m'aspettava; ma avrei voluto che ci mettesse un po' piú di sentimento. Ero scoraggiata. Lui forse se ne avvide, perché disse: - Io mi ci sono avvezzo, e lo faccio volentieri, per un sentimento d'umanità; ma sento che se in quei mesi, in quelle lunghe sere nebbiose, avessi vicino qualcuno... Esitò un tratto; fece una pausa, forse cercava i miei occhi per averne un incoraggiamento a spiegarsi su quel qualcuno; ma io non osai voltarmi, e lui concluse con una risatina piena di mistero: "mi ci avvezzerei anche meglio". La Maria uscí con due chicchere di tè e nel porgermi la mia sussurrò: - Come va? E vedendomi rossa e confusa, accennò lei stessa che andava bene. Ero sconfortata, perché dinanzi a quell'uomo positivo e nella nebbia delle sue risaie, vedevo svanire i miei sogni sentimentali. Ma però ero risoluta a sposarlo per non restar zitellona. Tutti uscirono sul balcone colle chicchere sorseggiando il tè, persuasi che quei pochi minuti fossero bastati per farci decidere di tutta la nostra vita. Infatti erano bastati. Avevamo deciso. Il signor Scalchi se ne andò prima di noi, ed il signor Bonelli, che lo aveva accompagnato in anticamera, rientrò tutto soddisfatto dicendo: - Lui è felice, e protesta che non poteva desiderare una sposa piú bella, piú gentile. È innamorato addirittura, e teme soltanto di non essere accettato. Gli tremava la voce nel parlarmi. Mi strinse la mano col pianto alla gola: era tutto commosso. Rimasi sbalordita di quella commozione che era scoppiata soltanto in anticamera, mentre, dinanzi a me, non aveva saputo suggerirgli una parola. Però mi fece piacere e ne fui lusingata. Poteva anche aiutarmi ad uscir d'imbarazzo. Tutti mi guardarono aspettando il mio responso; e la matrigna, vedendo che stavo zitta, mi domandò: - E tu cosa dici? Ti piace sí o no? Io balbettai: - Se non avesse quel porro... - Ah! se non l'avesse sarebbe meglio di certo. Ma l'ha. Questo è inevitabile. Devi accettarlo con quell'aggiunta o rifiutarlo. Feci ancora un'obbiezione, per salvare la mia dignità. - Non potrebbe farselo togliere? Ci fu un momento di silenzio e d'imbarazzo. Tutti si guardarono, e mi parve di leggere su tutti i volti un'espressione di biasimo. Poi il signor Bonelli rispose: - Come si fa proporgli una cosa simile? Del resto, se fosse un'operazione possibile l'avrebbe fatta quand'era piú giovine... La matrigna mi disse severamente: - Ma ti pare! Esporre la vita d'un uomo per un capriccio... E la Maria osservò: - Sarebbe una mortificazione per lui, sentirsi rinfacciare il suo difetto, ora che t'ha conosciuta, ed è innamorato di te... Sii generosa; accettalo com'è... Il babbo la interruppe: - Non influenzarla, Maria. Lascia che ci pensi lei. Preghi il Signore che le dia una buona ispirazione; accenda anche una lampada alla Madonna, e poi faccia quello che il cuore le consiglia. Si tratta di tutta la vita. Se lo sposo non le piace è meglio che dica di no subito, per non pentirsi poi. Non ero punto disposta a dir di no. Chinai il capo in silenzio; ma tutti capirono che avrei accettato, e pel resto della serata si parlò del patrimonio di Scalchi, de' suoi fondi a Borgo Vercelli, dello studio di Novara, del suo socio, come di cose che ci toccassero molto davvicino. Il domani dissi definitivamente di sí. Lo sposo fu ammesso in casa. Mi portò i soliti doni nuziali, cercò l'alloggio e vi fece trasportare i suoi mobili da Vercelli, e finalmente si fissò il giorno delle nozze, che grazie alle buone condizioni finanziarie dello sposo, si dovevano fare con solennità. Da quel momento non ebbi piú tempo di pensare alle mie aspirazioni passate, e quasi neppure al mio sposo. Il matrimonio, colle sue formalità preventive, m'assorbiva tutta, ed assorbiva anche il resto della famiglia. Mia sorella aveva affidato il figliolo alla suocera, ed era venuta a Novara per aiutarci. Tutto il giorno eravamo in giro a far compere, o visite di partecipazione. E la sera, io e mia sorella, facevamo delle copie, colla nostra scrittura piú accurata, d'un epitalamio che il babbo aveva preparato per le mie nozze. A misura che una copia era finita, lui la correggeva, - c'era sempre da correggere nelle nostre copie, - poi la rotolava, la legava con un nastrino rosso, e ci scriveva sopra il nome dei destinatari, con una precisione notarile: "Signor Bonelli ingegnere Agapito, e genero e figlia, coniugi Crespi". "Signor Martino Bellotti, dottore in medicina, chirurgia ed ostetricia, e consorte". Intanto la matrigna combinava la colazione e gli inviti, e tratto tratto interrompeva il nostro lavoro, per consultarci e fare delle lunghe discussioni. A mia ricordanza non s'era mai fatto un invito a pranzo in casa nostra. Avevamo l'abitudine di desinare in cucina, al tocco, e quando capitava lo zio Remigio, o qualcuno degli Ambrosoli, o qualche altro parente di fuori, gli si offriva il nostro desinare di famiglia, senza nessuna aggiunta, su quella tavola di cucina, tra i fornelli ed il paravento della zia. Ora il paravento non c'era piú; ma ad ogni modo non era possibile servire una colazione nuziale in cucina. Bisognava apparecchiare in salotto. Quella novità ci mise in grande orgasmo. Si dovettero portar via i sacchi di granturco, le patate, le castagne e tutto; si dovettero scoprire i mobili, ed appendere le cortine, e togliere le tavole rotonde per sostituirvi quella grande della cucina. Poi non era lunga a sufficienza, e ci si aggiunsero ancora ai due capi le tavole rotonde un po' piú bassine, che facevano un effetto curioso e poco bello. Nessuna delle nostre tovaglie aveva le dimensioni di quella mensa cosí allungata. E le due tavole rotonde ebbero anche una tovaglia a parte, di modo che facevano come casa da sé, un gradino piú in giú della tavola centrale. Il babbo suggerí di nascondere il gradino sotto uno strato di fiori; ma rinunciò a mettersi, come s'era combinato prima, a capo tavola, perché, dovendo sedere piú basso, non avrebbe dominato tutta la mensa leggendo l'epitalamio. Scelse il posto nel centro, e la matrigna l'altro in faccia a lui, sebbene quella nuova moda francese non fosse di loro gusto. Anche la mia abbigliatura da sposa era stata argomento di molte discussioni. La solennità che si voleva dare alla cerimonia, non arrivava però al lusso dell'abito bianco. Un abito di seta colorata a strascico, sul quale avevo fatto assegnamento e di cui andavo superba, la Maria lo trovò disadatto alla circostanza e provinciale. Allora la matrigna fece la pensata di vestirmi da viaggio, e per quanto le si facesse osservare che non facevamo nessun viaggio, non si lasciò rimovere, ed il vestito da viaggio fu accettato. Finalmente venne quella mattina aspettata e temuta. Quando fui tutta vestita come una touriste che si disponesse a fare il giro del mondo, cominciai a piangere abbracciando tutti prima d'andare in chiesa, come se non dovessimo mai piú rivederci in questo mondo. Poi, durante la cerimonia piansi tanto che fu un miracolo se udirono il sí, che tentai di pronunziare fra due singhiozzi. Poi tornai a piangere zitta zitta durante tutta la colazione, rispondendo con un piccolo singhiozzo ogni volta che mi facevano un complimento, tanto che smessero di farne, e mangiarono tutti quieti, parlando di cose serie, dei raccolti, che quell'anno erano buoni, dei nostri vini dell'alto Novarese che non hanno nulla da invidiare a quelli del Piemonte, e del secondo vino, "il cosí detto vinello che è eccellente, e tanto conveniente per uso di famiglia". Poi, alle frutta, quando il babbo spiegò uno dei tanti fogli che avevo scritto io stessa, e cominciò a leggere ad alta voce: In questo dí, sacro ad Imene, io prego La Vergine ed i Santi a voi propizi, quei versi, che sapevo a mente, mi commossero al punto che scoppiai in un pianto dirottissimo, e dovettero condurmi via. Cosí, dopo tutti quegli anni d'amore, di poesia, di sogni sentimentali, fu concluso il mio matrimonio. Ora ho tre figlioli. Il babbo, che quel giorno dell'incontro con Scalchi aveva accesa lui la lampada che mi consigliava, dice che la Madonna mi diede una buona inspirazione. E la matrigna pretende che io abbia ripresa la mia aria beata e minchiona dei primi anni. Il fatto è che ingrasso.

Vita da vita

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Mazzucco, Melania 1 occorrenze

S'aggrappa ai calzoni di Rocco, perché non gli venga la tentazione di abbandonarlo là sopra. Aiutami, aiutami, si ritrova a implorare. Con una voce infantile, supplichevole, che quasi non sembra la sua. Infatti è quella di Celestina. Rocco s'inchioda sul bordo del tubo, sbuffando. Lo agguanta per un braccio e lo solleva, con la stessa facilità con cui raccoglierebbe da terra un fazzoletto. Entra, gli dice, infilandolo nel buco. Poi, mentre Diamante urla di non lasciarlo, lo tiene per il tallone con una sola mano, con l'altra afferra la testa del cane e gli affonda le dita nelle palle degli occhi, finché quello non molla la presa, e tonfa nel buio. Molla la presa anche Rocco, e Diamante scivola a capofitto. Nessuno ha visto Dio, ma Diamante stanotte ha visto Rocco. Quant'è forte, e quanto è coraggioso. Quanto vorrebbe diventargli amico. L'ha salvato dal cane, dai guardiani e dalla Children's Court, anche se Diamante gli ha già detto che non vuole più scrivere le lettere dell'Uomo col fazzoletto rosso. E tutto ciò, Rocco l'ha fatto in bilico nel buio, grosso, goffo com'è e impedito dal peso morto di una ragazzina paffuta di nove anni. Perché Rocco s'è caricato Vita in braccio: in mutande, con gli stivaletti slacciati e scombussolata com'è, non scendeva abbastanza veloce. Il tubo si stringe. Diamante si graffia le mani contro le giunture, s'incastra, si dimena, si libera, cade ancora a precipizio, sbatte, rimbalza contro le pareti di gomma. Non dubita mai di sfracellarsi. Rocco non lo permetterà. Da qualche parte, là in fondo, deve esserci qualcosa di accogliente. Rocco continua a vedere la cosa rossa. Continua a tentare di dimenticarla. Affonda il viso nei capelli di Vita. Vita gli serra le caviglie dietro la schiena, e le braccia attorno al collo. Trema come se piangesse, ma non sta piangendo. Non si mostrerà così debole, mai, mai, mai. Rocco scivola lungo il tubo, la giacca si lacera contro là gomma, i piedi frenano contro le giunture, il tubo dondola. Diamante pensa, è incredibile quanto possa essere buono un duro. Gliel'aveva detto di non venire con noi, e lei è voluta venire lo stesso, anche se nessuno disubbidisce a Rocco - e se ne pente, quando lo fa. Di più. Quando Vita non riesce più a trattenersi e svuota la vescica sulla sua camicia, Rocco non si arrabbia, non impreca, non la prende nemmeno in giro, come Vita meriterebbe che facesse e come Diamante stesso farebbe al posto suo. Finge di non rendersi conto che le mutande di Vita sono fradice, e fradicia è la sua unica camicia buona. Non la mette giù neanche quando cadono nel cassone della calce e affondano in un impasto molle che sembra fango. Si rialza e continua a tenersela avvinghiata al collo. Intreccia sotto le natiche di lei le grosse mani che non sa mai dove mettere e che gli sono sempre d'ingombro. E la porta, bagnata com'è, su e giù tra le buche del cantiere, lungo lo spiazzo illuminato dai fanali, su e giù per la recinzione, attraverso il filo spinato e poi, camminando con quella sua andatura inconfondibile, ciondolante, per decine di isolati, attraverso la città sempre meno grandiosa, sempre meno illuminata - Trentesima strada, ventesima, decima, zero - fino a casa.

Oro Incenso e Mirra

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Oriani, Alfredo 1 occorrenze

Perché mai questa vergine, che non ha amato il mondo, questa tisica che sta per abbandonarlo con gioia, si perde ad analizzarne con arte sì fina e talvolta con particolari così dotti tutte le loro bellezze alla madre? O fu un capriccio d'inferma, o è stato un difetto nel poeta. L'agonia si avvicina: il prete è uscito dopo aver benedetto la morente, mamma e figlia sono sole. Il canto del finale incomincia con un canto sacro; gli angeli sono passati a volo pel cielo suonando le arpe; Regina le ha sentite due volte, alla terza morirà. Un angelo librato nel vano della finestra, lontano, nell'azzurro, la chiama. - Addio sorella, addio mamma! La ragazza spirando rivela il proprio segreto di vergine, quindi il sogno di paradiso le ricomincia nell'anima, e in quel sogno s'addormenta. Ecco la figura messa da Tennyson dinanzi ai propri idilli come quella che più altamente esprime la sua poesia idilliaca. Il paesaggio è inglese, colori freddi, aria umida, vegetazione rigogliosa. Una agricoltura sapiente ha migliorato ogni pianta: case, mulini, castelli, tutto a posto, il quadro pare il paese, ma il paese pare un quadro. La regina muore: che cosa farebbe nella vita? Diventerebbe prima sposa, poi madre, poi massaia: addio quindi poesia, perché tutta la poesia consiste nella verginità, primo grado dell'angelo. Invano parla sempre di fiori e li conosce, ne sa persino i nomi difficili: forse li imparò adornando l'altare della chiesetta, ma i fiori non le dissero una parola della loro vita così simile alla nostra, vita di amore e di generazione. L'idillio di Tennyson è dunque un'elegia ancora più romantica che cristiana, alla quale Lamartine non è estraneo, giacchè nel canto o nell'accompagnamento, nella voce o nell'accento, qualche cosa di suo vi si intende. Che cosa pensa Tennyson della Simetha di Teocrito? Non lo so, ma si potrebbe forse saperlo, e forse ne pensa diversamente da noi, ma che cosa penserebbe Teocrito della Regina di Tennyson? Adesso l'Inghilterra è per Tennyson, poeta laureato della regina, i lords lo accettano tra di loro, i borghesi lo venerano, i pastori lo citano, il pubblico lo paga come non ha mai pagato nessun poeta, i critici lo dichiarano superiore a Byron e si sono lagnati solo una volta, quando volle imitarlo dopo aver imitato tutti; ma il mondo è per Teocrito, il poeta della natura, che nessun periodo di civiltà ha ancora invecchiato, che forse nessun altro poeta sorpasserà. Teocrito vive in fondo a tutti i cuori: è laggiù nei nostri primi ricordi, nei nostri primi sogni d'amore, nel nostro primo risveglio alla vita e alla verità. Tutti noi avemmo qualche Simetha e qualche Regina, vivemmo nell'elegia e aspirammo alla sana giocondità dell'idillio antico. Così la letteratura inglese, che ha avuto Shakespeare e avrà Tennyson ancora per poco, pare accenni anch'essa di ritornare all'antico per interrogare la natura con nuove intenzioni. La Francia ha ritrovato Zola e Zola ha ritrovato la Miette; l'Inghilterra non può quindi tardare molto a rinvenire un altro poeta, che alzi nell'atrio del proprio monumento un'altra maggiore statua, perché secondo il motto di Pindaro "all'ingresso di ogni opera d'arte bisogna mettere una figura che brilli da lontano".

CAINO E ABELE

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Perodi, Emma 1 occorrenze

Come avrebbe potuto vivere lontana da Roberto; come avrebbe avuto il coraggio di abbandonarlo? No, non poteva, non poteva! Roberto viveva, per lei, 0166 lei lontana egli sarebbe stato un corpo senz' anima, un infelice. Non poteva! Aveva veduto tante donne clie si barcamenavano abilmente fra due amori e lei stessa aveva descritto in Vincitori e Vinti una donna onesta, secondo il significato che da il mondo a questa parola, che teneva a bada un alto funzionario dal quale dipendeva l'avvenire del marito, senza concedergli nulla; nulla. Ah! ma io non sarò mai così! - esclamava in un impeto di ribellione. - La mia onestà è ben altra cosa; non ammette finzioni; non ammette inganni e il mio amore e così grande che si appanna come un cristallo al soffio di ogui altra passione. No, io non posso. Ma intanto che Velleda viveva in continue agitazioni e in continui sospetti, Franco si faceva ogni giorno più insistette e più ardito, rispettosissimo verso di lei in presenza di Roberto, la trattava brutalmente appena erano soli. Una mattina Velleda nuotava al largo. Il mare era calmissimo ed ella, mentre Maria vestivasi nella cabina, aveva provato il desiderio di spingersi fuori, sola. Velleda aveva di questi ardimenti ed era lieta quando provava le sue forze. Soltanto l'estate prima aveva imparato a reggersi sull'acqua, ma presto era divenuta espertissima e ora sdegnava di essere accompagnata e andava sempre avanti sicura, senza temere per il ritorno. In mare c'era una barchetta immobile; ma ella non se ne dette pensiero, perché riconobbe una barca dello stabilimento e suppose che dentro vi fosse un pescatore. L'aveva di già oltrepassata, quando udì un tonfo nell' acqua e un momento dopo si sentì mettere una mano sulla spalla. Velleda aveva un largo cappello di paglia che le impediva di veder dietro a sé, ma esperta come era nel nuoto, fece un lancio sull'acqua e rivoltandosi scorse Franco che rideva malignamente. Ritorni alla sua barca, - gli disse in tono imperioso, 0167 Sarei pazzo, Velleda, se le ubbidissi. Qui deve ascoltarmi e mi ascolterà. Ella tremava, e sentivasi mancare le forze, ma aveva ripreso a nuotare presto, a freccia, in direzione della riva per accrescere la distanza che li separava. Franco rideva sempre e le si era accostato con poche bracciate. Vede che non può sfuggirmi? - le disse ponendosi a fianco di lei. - È stanca? appoggi una mano sulla mia spalla. Ella non rispose e fece nuovi sforzi per allontanarsi ma le braccia le si erano fatte pesanti e le gambe erano come troncate. Velleda, - disse il duca afferrandola per la cintura del costume, - perché non ha nessuna pietà di me, perché non vuoi concedermi nulla? Io sono divorato dalla passione, io non posso più vivere così accanto a lei. Nessuno sospetta nulla, nessuno ci osserva mai: mi consoli, Velleda? Ella non poteva più rispondere, il suo corpo aveva acquistato la pesantezza del piombo, le gambe istintivamente cercavano il fondo del mare, l'acqua le saliva fino alla bocca. A un tratto affondò e sarebbe scomparsa se Franco non le avesse messo una mano sotto l'ascella, e allora, vedendola incapace di difendersi, l'attrasse a sé, le staccò il cappello lanciandolo lontano, e la baciò sulla nuca con rabbia amorosa. Al contatto di quelle labbra, Velleda si scosse e fatto uno sforzo supremo, gli dette una spinta e riprese a nuotare; aiutandosi con la testa, con le spalle, con tutto il corpo. Pochi istanti dopo si abbandonava sfinita sopra uno scoglio a fior d'acqua e scoppiava in pianto. Tutta l'acqua del mare non può lavarmi da questa profanazione, - ripeteva sconsolata. E allora ebbe come una visione dell'avvenire sentendo che la sua pace, la sua lieta esistenza, il suo amore; tutto sarebbe stato distrutto da Franco. 0168 Sarà il mio carnefice - mormorò. Il duca non aveva osato inseguirla, ma risalito nella barca si era accostato allo scoglio e la guardava così bellina e sottile, con il vestito di lana aderente al corpicino elegante, con le braccia nude, abbandonate lungo la persona, con i piedini rossi baciati dalle onde lievi, con quella pelle delicata. Egli la divorava con gli occhi e nel passarle a poca distanza s'alzò sulla barca e le disse in atto di sfida: - A un'altra volta! Velleda, più morta che viva, tornò nella cabina e cadde sopra una panca, tremante, pallida o sconvolta. Hai la febbre Leda? - le diceva Maria. No, mi sono stancata troppo, ma non è nulla, non ti spaventare. Costanza, che era intenta ora a strizzare i costumi del bagno, teneva gli occhi bassi; aveva veduto tutto, ma non aprì bocca. Ogni dolore di Velleda era una gioia per lei. Più tardi quando il duca e Velleda s'incontrarono a colazione, sotto lo sguardo dolce di Roberto, Franco ebbe il coraggio di domandare alla signora se si sentiva male perché la vedeva pallida e abbattuta, Leda s'è sentita male nel bagno, - rispose Maria, - è uscita tutta tremante, pareva che avesse la febbre. Ho commesso un'imprudenza nuotando troppo, disse la signora per rassicurare Roberto, che la guardava ansioso. - Non farò più bagni. L'agitazione di Velleda continuò per un pezzo. Dopo pranzo non ebbe la forza di fare la solita gita sul " Selino " e passò alcune ore seduta nell'acropoli deserta di lavoratori, con un libro in mano, senza leggere. I più strani pensieri le correvano alla mente; pensieri baldi di resistenze violente, di acerbe lotte; pensieri di fuga. di sparizione senza lasciare traccia di sé: ma tutti cadevano allorché il cuore le ricordava che non era sola, 0169 che non aveva il diritto di abbandonare un uomo buono, del quale aveva accettato l'affetto. Mentre stava così perplessa invocando un'idea cui attaccarsi, un'idea che la salvasse in mezzo a tanto sconforto, udì dei passi dietro a sé e si alzò spaventata. Siala vista del Lo Carmine la calmò. Come mai è divenuta così nervosa che si spaventa a ogni rumore? - le domandò. L'estate mi ha spossata, - rispose Velleda, - uia non è nulla e l'autunno mi renderà vigore. Volevo giusto parlarle, - disse il Lo Carmine, ma è sempre accompagnata e non bramo che le mie parole giano udite da altri. C'è forse qualche pericolo? - domandò ansiosamente. No, si calmi, ha i nervi agitati; anzi ... ! Sono stato a Trapani in questi giorni, e come ella sa, per tutto si prepara la lotta elettorale, benché il decreto di scioglimento della Camera non sia anche firmato. Ebbene, molti amici miei, persone anche influenti, vorrebbero che nella lista dei deputati moderati della provincia figurasse il nome del signor Roberto e mi hanno detto d'interrogarlo se si lascerebbe portare. Che cosa crede lei? Queste poche parole erano bastate a dare un altro avviamento ai pensieri di Velleda. Ritornata a un tratto padrona di sé, esaminava la situazione con calma. Naturalmente, il collegio che gli si offre sarebbe. Castelvetrano? - domandò ella Appunto. Non so se accetterà, ma sono quasi sicura che riu scirebbe se si portasse. Veda, l'avvocato Orlando, ministeriale, riuniva fin ora molti voti, perché vi era lo scrutinio segreto e per lui votavano in altre circoscrizioni della provincia. Ritornati al collegio uninominale, egli avrebbe pochi voti, perché non ha, base a Castelvetrano, dove il partito di sinistra è in minoranza. Sono 0170 tutti moderati o socialisti. I primi voteranno certo per il signor Roberto; i secondi, a meno che non portino un candidato proprio, che non riuscirebbe, darebbero i loro voti a un candidato d'opposizione piuttosto che a un ministeriale. In tutti i casi ci sarebbe dispersione di voti e per conseguenza ballottaggio, ma il risultato finale -sarebbe reiezione del signor Roberto. Questi stessi calcoli sono stati fatti dai miei amici di Trapani, ma ora si tratta di sapere se il signor Roberto accetterà. Vorrebbe ella interrogarlo, per evitarmi un rifiuto, o nel caso affermativo, preparare il terreno alla mia proposta? - Volentieri, - rispose Velleda, tutta infervorata da quell'idea. - Se posso, lo interrogo stasera e domani le darò una risposta per lettera. Allora il Lo Carmine si diede a esporre a Velleda il bene che Roberto avrebbe potuto fare a quel paese così abbandonato dal Governo. Prima di tutto bonificarlo, riprendendo dopo tanti secoli i lavori intrapresi da Empedocle; poi creare una colonia agricola nei terreni strappati alla palude e alla malaria, in terzo luogo ottenere del bilancio dell'istruzione pubblica maggiori fondi per gli scavi. Qui la volevo! - esclamò Velleda. - Dica la verità: ella desidera che un uomo colto, un archeologo, conoscitore di questi luoghi vada alla Camera, per ottenere che Selinunte esca dalla terra che la copre, perché lei possa frugare questa spiaggia in tutti i versi. Sarebbe forse un desiderio colpevole? - domandò il Lo Carmine, balbettando più del consueto. No davvero. Anzi è un'ambizione molto modesta ; le mie sono più vaste, più grandi. Lo scienziato non le domandò a che miravano quelle ambizioni; lo indovinava ed era sicuro che Roberto avrebbe accettato il mandato per compiacerla. Noi vi sorprendiamo! - esclamò Roberto mostrando 0171 la testa di dietro un muro basso. - Ah! ho capito! aggiunse rivolgendosi a Velleda scherzando. - Non è voluta venir con noi perché aveva un appuntamento col Lo Carmine! Il viso di lui mi dice che qui si tratta di un complotto. Sì, - rispose Velleda, - noi si cospira contro l'onorevole Orlando, il quale sarà in questo momento nella suo villetta, senza sospettare che dinanzi al mare due persone attentano alla sua felicità. Franco, che era sopraggiunte insieme con Maria, non capiva nulla; Roberto credere che si trattasse del processo, perché l'avvocato Orlando era appunto il difensore d'Alessio e disse : Io non devo saper nulla di questo complotto? Per ora no; più tardi forse. È curioso? - gli domandò ridendo Velleda. - Un poco. Tutti insieme si diressero verso casa. Roberto aveva pregato il Lo Carmine di pranzare con loro, così che quella sera il pranzo fu più animato. Velleda però era taciturna. Era bastato un sorriso di trionfo di Franco per agghiacciarle il sangue. Evitava d'incontrare lo sguardo freddo, sarcastico del duca, ma bastava la voce di lui per ferirla e barbaramente ripeteva a sé stessa, per risentire la vergogna dell'insulto : Mi ha baciata! Mi ha baciata! Era già notte alta, una notte quieta e serena, quando Velleda si alzò da tavola. Ella offrí il caffè agli ospiti e a Roberto e poi per non parlare con Franco, condusse Maria a letto. Le altre sere lasciava per solito a Costanza quella cura, ma quella sera volle spogliare da sé la bambina. Che cosa hai fatto oggi? - le domandò. Niente; mi sono divertita con lo zio Franco. Figurati; fingeva che io fossi grande e mi trattava come 0172 una signora. Mi diceva che ero bella, che avevo gli occhi come un'orientale, la pelle morbida e tante altre schiocchezze. E tu gli credevi? No! Che me ne importa di esser bella ora? Quando sarò grande, allora sarò duchessa. - Ma che duchessa! Egli non può trasmettere il suo titolo altro che ai proprj figli. - T'inganni, Leda: tu sai tutto, ma queste cose le sa meglio Franco di te. Il duca non lasciò a lui il suo titolo? - Perché era un maschio. Le femmine non ereditano titoli; esse portano il nome del padre e poi quello del marito; e se tu mi vuoi bene, Maria, la prima volta che lo zio ti parla di queste sciocchezze devi rispondergli che tu non hai bisogno di titoli, perché ti basta il nome onorato del babbo. Me lo prometti, Maria? S'era inginocchiata accanto al letto della bimba e la guardava con tale intensità d'affetto, che ella, attratta da quello sguardo, le buttò le braccia al collo, dicendole : Farò quello che tu vuoi; Leda, perché ti voglio tanto bene! Ora; dormi, cara, - disse, e chiamata Costanza ricornò in sala. Il Lo Carmine, già s'era alzato per andarsene. Bravo, - gli disse in modo da essere udita da Franco - Lei sa che devo parlare al signor Roberto. Gli parli subito e farà bene, - rispose l'altro. Il duca rimase un momento perplesso, ma poi si rassicurò pensando che del fatto della mattina non avrebbe letto niente a suo fratello, che si sarebbe fatta piuttosto ammazzare. Per via voleva confessare il Lo Carmine e per questo gli usò la cortesia di ricondurlo fino alla Casa dei Viaggiatori, ma il Lo Carmine non si fece confessare. Era 0173 uomo di poche parole ed aveva quella serietà di carattere che è uno dei tanti pregi dei siciliani; eppoi il duca non gl'ispirava nessuna simpatia. Franco rimase per alcun tempo a passeggiare sulla spiaggia, guardando la villa illuminata e specialmente la sala, nella quale scorgeva Velleda seduta vicino alla vetrata aperta. Non vedeva Roberto, ma ne indovinava la presenza, osservando che Velleda parlava animatamente come se cercasse di convincerlo di un fatto. Gli rivela tutto, lo aizza contro di me! - diceva perplesso e ansioso. - Perfida! Ma un momento dopo, vedendo Velleda che cessava di parlare e appoggiando la testa alla spalliera della poltrona sorrideva ascoltando tranquillamente ciò che rispondevate l'altro, si calmò. Non è di me che parla: c'è un altro mistero; una cosa che la fa felice. Se avesse narrato di me, avrebbe pianto, sarebbe andata in collera; invece ha una espressione severa sul volto; non ha astio! La conversazione fra Velleda e Roberto durava lungamente e Franco non sapeva scendere dal monticello di sabbia dal quale il suo occhio si spingeva dentro la sala. A un tratto vide Roberto alzarsi, accostarsi a lei, ma invece di curvarsi a baciarla, sollevò la mano che Velleda posava sul bracciale del seggiolone e se la portò alle labbra. Un momento dopo Roberto era in giardino, e chiudeva il cancello; dall'alto della terrazza Velleda gli gridava : Buona notte, mio buon signore! - e rientrava in sala per scomparire. Velleda aveva vinto le esitazioni di Roberto perché gli aveva detto: Io, che ho rasentato la gloria, non ho più ambizioni per me; tutte le mie ambizioni sono riposte in lei. Accetti e sarà eletto. Col suo ingegno, con la sua attività, con le larghe vedute e specialmente col suo cuore, 0174 che ha tutte le virtù più elette e si commuove a tutti i dolori, capisce tutti i bisogni dell'età moderna; potrà fare tanto bene. Lei, che è un solitario, un carattere integro e assolutamente puro, portando fra tanti utilitarj la sua rettitudine di giudizio e la sua coscienza retta, farà, dei proseliti. Non è possibile che non si manifesti una reazione; che un bisogno di probità e di onoratezza non si faccia strada nelle masse; e lei sarà l'apostolo di queste due virtù, il rigeneratore. Accetti! Ma saremo spesso divisi! - aveva osservai Roberto. È vero, - aveva risposto Velleda, - ma quello divisioni ci faranno meglio sentire l'affetto che ci lega. Accetti e mi farà felice! Roberto s'era lasciato convincere ed era stato in quel momento che Velleda aveva appoggiato la testa alla spalliera della poltrona, e, sicura della vittoria, aveva tracciato a Roberto tutto quello che poteva far di utile, specialmente nel campo della legislazione sociale, proponendo leggi per migliorare la condizione degli operai, per assicurare le famiglie in caso d'infortunio, per far cessare quell'odio di classe; che si accentua ogni giorno più contro la borghesia, la trionfatrice crudele del 1793. Sì Vellcda, io farò tutto quello che vuole, io mi lascerò guidare da lei, - aveva risposto Roberto e le aveva baciato la mano. Franco aveva assistito a quella scena, avevo udito Velleda dar la buona notte a Roberto, eppure non credeva alla purezza del loro affetto, e la sua fantasia eccitata glieli rappresentava ora stretti in un ardente abbraccio, ora dolcemente stanchi dopo lunghe ore d' amore, ma mai mai egli voleva ammettere che amandosi così profondamente, essi si fossero imposti un sacrifizio sovrumano. Anche quella sera Franco tornò stanco e irritato nel suo quartiere e penò molto prima di addormentarsi. 0175 Perché il Signorini non gli rispondeva? Ah! se avesse potuto scoprire una macchia sul passato di Velleda, l'avrebbe avuta in suo potere! Come sarebbe stato felice allora di sapere umiliata quella superba, di poterla piegare alle sue voglie, di vedersela dinanzi supplichevole, offrendo il suo amore in cambio del silenzio. La solita idea fissa lo torturava. Ora anche l'invidia per Roberto era meno viva; non lo invidiava più per la fortuna negli affari, per la stima di cui godeva, per quella superiorità che tutti gli riconoscevamo su di lui e neppure per i benefizj che Roberto gli aveva fatti ; lo invidiava soltanto per essersi fatto amare da Velleda. Questa invece non pensava a lui. Il passo che stava per dare Roberto dietro suo consiglio, le pareva così grave che ne esaminava con mente calma tutti i vantaggi e gli svantaggi, e in certi momenti si pentiva del consiglio, ma subito dopo ripensava alla nobile opera che egli avrebbe potuto compiere e ricacciava nel fondo dell'anima i dubbj. Fu in uno di questi momenti di fiducia che scrisse al Lo Carmine di comunicar pure ai suoi amici che Roberto accettava. Ella posò la lettera senza chiuderla sulla scrivania, per vederla appena desta e modificarla nel caso che il sonno le avesse dato un altro consiglio. Sia il sonno l'avvalorò, invece, nel suo proposito e la lettera fu recapitata la mattina presto al suo indirizzo.

LE NOVELLE DELLA NONNA. Fiabe fantastiche

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Perodi, Emma 1 occorrenze
  • 1992
  • Newton Compton Editori s.r.l.
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Teresona gli raccontò le sue angustie della notte, e il giovane s'intenerì sapendo di quale abnegazione essa era stata capace pur di non abbandonarlo. - Se un giorno io riacquisterò i miei beni, - le disse, - tu, eccellente ragazza, sarai signora e padrona in casa mia; te lo giuro da cavaliere. Teresona s'intenerì e sempre più prese affetto per quell'infelice. Il giorno passò senza che messer Spini ricadesse nel letargo; ma appena la luna inondò con la sua luce argentea la vasta pianura, egli si addormentò, e dal sonno passò alle convulsioni; si dibatteva, mandava bava dalla bocca, e urlava come un lupo affamato. Ora bisogna sapere che la casetta, nella quale Teresona si era rifugiata insieme con l'ammalato, apparteneva a certi contadini i quali non l'abitavano altro che nei due mesi che precedevano la vendemmia. Essi solevano passarvi la notte per abbadare che non rubassero loro l'uva; il resto dell'anno non ci capitavano mai. Ma quella era appunto la stagione in cui l'uva aveva bisogno della sorveglianza notturna dei contadini, e due di essi si avviarono alla casupola, quando sentirono uscirne urli di lupo. I contadini stettero in ascolto un momento; poi, udendo che gli urli continuavano, non pensarono più all'uva e via di corsa. Quegli urli erano stati uditi anche da altri contadini, così che la mattina nel vicinato non si parlava d'altro che della presenza del lupo mannaro nel Pian di Campaldino. Come avviene sempre in certe circostanze, vi era pure chi asseriva di aver visto la bestia spaventosa correre di notte, mentre la luna era alta, per i campi e per i boschi, così nessuno si attentava più a uscir di casa la notte, e i contadini avrebbero lasciato piuttosto marcir l'uva sulle viti, che attentarsi a incontrare il lupo mannaro. Intanto Teresona, sostenuta dal desiderio di rendersi utile all'infelice cui affezionavasi ogni giorno più, non rifuggiva da nessun lavoro, per faticoso che fosse, pur di guadagnare qualche cosa. Aveva riaccompagnato il monaco a Camaldoli e da lui aveva ottenuto una larga ricompensa; poi s'ingegnava a far legna, che andava a vendere a Poppi e a Bibbiena, e se incontrava nei boschi qualche squadra di taglialegna, offriva l'opera sua per ottenerne qualche soldo. Una notte, vedendo messer Spini dibattersi furiosamente in preda alle convulsioni, Teresona aveva detto: - Sant'Anna benedetta, non vi pare che quest'infelice abbia patito assai? guaritelo, per carità di lui e di me! La luminosa visione le era di nuovo comparsa, e sant'Anna le aveva risposto: - Se la diletta Figlia mia non avesse esaudito le tue preghiere, tu e l'esule non avreste più neppure questo ricovero. Non capisci che sono gli urli di lui che tengono lontana la gente da questo luogo? - Chino il capo alle savie disposizioni della Provvidenza, - rispose Teresona umilmente. - Così va bene; - disse sant'Anna, - quando la persecuzione contro messer Spini cesserà, egli sarà guarito. La visione scomparve, ma gli urli continuarono e il terrore era sparso nei dintorni. Intanto i contadini, che vedevano marcire la loro uva sulle viti nel Pian di Campaldino, erano andati dall'abate di Strumi, che aveva nomea di santo, e gli avevan detto, con voce tremante e spaventata: - Abate maggiore, il lupo mannaro è in paese, e noi si perde la raccolta dell'uva. L'abate si era fatto spiegare il come e il perché di quella perdita, e dopo aveva detto: - Domani farò una processione fino alla casetta nel Pian di Campaldino e con l'acqua santa caccerò il lupo mannaro. Infatti il giorno dopo aveva adunato i suoi monaci, e, preceduto dalla croce, si era diretto al luogo dove tenevasi nascosto messer Spini. Egli era in un momento di calma e, seduto per terra col dorso appoggiato alla rozza parete, esprimeva a Teresona, che lo ascoltava con le lacrime agli occhi, l'ammirazione che ella gl'ispirava per la sua illimitata bontà. - Ti voglio bene, Teresa, - le diceva, - più che alla madre mia, più che alle sorelle, agli amici, alla patria stessa, e non saprei vivere senza di te. La donna, che stava sempre in ascolto temendo una sorpresa, udì salmodiare e, guardando da uno spiraglio della porta, vide la processione di monaci dirigersi alla volta della casupola. - Siamo perduti! - esclamò. E, senza cercar di fuggire, perché lo reputava inutile, s'inginocchiò e pregò fervidamente sant'Anna e la Vergine. In quel momento messer Spini fu assalito dalle convulsioni; egli incominciò ad urlare, e il suo corpo prese a un tratto l'aspetto orribile di una bestia villosa, con una testa enorme e una bocca fornita di zanne minacciose. L'animale, sempre urlando, si fece sulla porta, e pareva pronto a gettarsi addosso al primo che si accostasse. Il giovane monaco che recava la croce ed era in testa alla processione, appena vide il mostro, fuggì; l'abate che sperava tanto nell'acqua santa, se la diede a gambe, e in breve Teresona vide le tonache bianche dei monaci sparire dalla pianura di Campaldino. Quando nessuno più rimase in quei dintorni, messer Spini riprese sembianze umane e Teresona respirò. Tutti e due capirono che quella trasformazione era avvenuta per intervento celeste, e ringraziarono le loro Protettrici. Dopo qualche giorno messer Spini non fu più assalito dalle convulsioni. Soltanto quando qualcuno voleva avventurarsi vicino alla casa, mandava urli da lupo, e se v'era qualche spirito forte che si accostava con l'intendimento di uccidere il lupo mannaro nella sua tana, il fiorentino prendeva subito le sembianze del mostro e faceva fuggire il mal capitato. Così Teresona e l'esule rimasero padroni di una zona di terreno, dalla quale essi ricavavano in parte il nutrimento. La ragazza però non cessava d'industriarsi andando a vendere erbaggi a Bibbiena, e laggiù apprese che a Firenze non governava più il partito avverso a messer Spini, e che a questi era stato revocato il bando e la confisca dei beni. Tutta lieta ella andò a comunicare la notizia all'esule, il quale pianse di gioia e, approfittando della notte, volle subito partire per Firenze. Teresona fu molto afflitta da quella risoluzione del fiorentino e gli disse: - Signor mio, quando sarete in patria, ricordatevi qualche volta di me. - Ma tu mi accompagni! - rispose messer Spini, - mi sei stata compagna, sostegno, appoggio nella brutta sorte, sarai dunque la compagna dei giorni lieti. Così partirono, e dopo molti giorni di viaggio faticoso, messer Spini bussava alla porta del suo palazzo e, riconosciuto dai suoi concittadini, tornava al possesso del patrimonio e delle cariche del governo della Repubblica. Teresona aveva ripreso gli abiti femminili, ma non appariva più a nessuno così brutta come per il passato, forse perché messer Spini narrava a tutti la devozione di cui era stata capace quella creatura così buona e coraggiosa. Nonostante Teresona si sentiva a disagio nel bel palazzo, e ormai che messer Spini era guarito e ritornato in patria, ella voleva riandarsene in Casentino, per aver notizie del padre suo e ottenerne il perdono. Ma messer Spini non glielo concesse e, anzi, per dimostrarle la sua gratitudine, volle farla sua moglie. Teresona credé d'impazzire dalla gioia allorché il suo signore le comunicò questa risoluzione. Le nozze furono celebrate senza pompa nella cappella del palazzo Spini, dove la sposa visse lunghissimi anni venerata e stimata dal marito e dagli amici di lui, e dove morì in tarda età. Appena messer Spini e la Teresona furono partiti dal Casentino, certi contadini che passavano una mattina sul limitare della pianura di Campaldino videro il cadavere di un mostro, simile in tutto e per tutto a quello che aveva tanto spaventato l'abate maggiore di Strumi e tutta la processione. Essi andarono a raccontare a Poppi che il lupo mannaro era crepato, e allora il popolo dei dintorni, guidato dai proprietari della pianura, andò a vedere la bestiaccia che era stata per tanto tempo il terrore di tutto il paese. - Bruciamola! - disse uno. - Bruciamola! - risposero tutti. Allora lì per lì fu messa insieme una catasta di legne secche; la bestiaccia pelosa vi fu posta sopra a forza di stanghe, perché nessuno voleva toccarla, e in breve fu avvolta dalle fiamme e incenerita. Da quel giorno nessuno ha più udito né veduto il lupo mannaro in quei luoghi, e i contadini sono ritornati ogni anno a badare all'uva matura, senza essere turbati nelle loro veglie dagli urli del lupo. - E ora la novella è finita, - disse la Regina. In quel momento tornavano da Camaldoli il professor Luigi e la moglie, e con loro c'era anche l'Annina. - Come mai sei venuta? - le domandò la nonna. - Non so, - rispose la ragazza, - la signora mi ha detto che era meglio che passassi qualche giorno a casa, ed ho ubbidito. La signora Maria prese da parte la Carola e le disse che la signora Durini, sapendo che Carlo Buoni doveva tornare mercoledì o giovedì della settimana seguente, aveva creduto più conveniente che si abboccasse con l'Annina e le aprisse l'animo suo in casa dei genitori, piuttosto che alla villa dell'ispettore. Dopo quell'abboccamento le avrebbero rimandato la ragazza, dalla quale non intendeva separarsi fino al giorno del matrimonio. L'Annina doveva sospettar qualche cosa, perché era turbata e guardava tutti come se volesse leggere nell'animo dei suoi il segreto che era sicura le celavano; ma non domandò nulla, per il momento, ai grandi. Però, imbrancatasi con i piccini, che le avevano fatto una gran festa vedendola giungere, li aveva condotti nell'orto, e abilmente, senza dimostrare curiosità, li aveva interrogati. Essi erano stati tutti contenti di raccontarle che in settimana avevan avuto visite, che c'erano stati i Buoni, padre e figlio, e che durante la loro visita essi erano stati mandati via di cucina. - E dopo che hanno fatto? - domandò l'Annina. - Dopo aver molto parlato, il capoccia ci ha mandati a prendere l'aleatico; essi hanno bevuto, e son partiti per Poppi. Però il Vecchio, al ritorno, s'è fermato qui di nuovo. - E com'era il babbo? - Tutto felice, come quando torna dal mercato e ha venduto bene un paio di manzi. - E voi, che cosa avete supposto? - chiese di nuovo l'Annina. - Che il capoccia, la nonna, le nostre mamme e la Vezzosa hanno paglia in becco. L'Annina era troppo furba per non aver capito tutto. Il cuore le batteva forte forte, e quel certo mistero che ancora avvolgeva un fatto di cui non poteva aver più dubbio, le faceva provare una grande, una immensa felicità. Non sapeva spiegarsi come il sor Carlo avesse proprio scelto lei, e quando fu a letto, sicura che nessuno la vedeva, pianse e rise dalla grande felicità.

Se non ora quando

680534
Levi, Primo 1 occorrenze

Non vorrai mica abbandonarlo. Oltre a tutto ci serve, metà dei bagagli li porta lui. Gedale si rivolse di nuovo a Piotr: _ Che treni passano su questa linea? _ Treni merci, quasi tutti; a volte c' è a bordo anche qualche passeggero, gente che fa la borsa nera. Se portano materiale per i tedeschi, sono scortati, ma non è mai una grossa scorta: due uomini sulla locomotiva e due in coda. Tradotte militari di qui non ne passano mai. _ Qual è la stazione più vicina? _ È Kolki, quaranta chilometri a sud: è una piccola stazione. _ C' è il piano caricamento? _ Non lo so. Non ricordo. Intervenne Dov: _ Ma perché ci vuoi far prendere il treno? Gedale rispose con impazienza: _ E perché non dovremmo prenderlo? Camminiamo da più di mille chilometri; e la ferrovia è a due passi; e insomma io voglio entrare in terra polacca in una maniera che la gente si ricordi di noi. Ci pensò su un momento e aggiunse: _ Abbordare un treno in stazione è troppo pericoloso. Bisogna fermarlo in aperta campagna, ma allora il cavallo non può salire. Ecco, il grosso dei bagagli li prendiamo noi, tanto la tappa è breve; tu Pavel vai avanti col cavallo e ci aspetti a Kolki. Pavel non era convinto: _ E se non arrivate? _ Se non arriviamo ci vieni incontro col cavallo. _ E se il piano caricamento non c' è? Gedale scosse le spalle: _ E se, e se, e se! Solo i tedeschi prevedono tutto, ed è per questo che perdono le guerre. Se non c' è ci arrangeremo. Vedremo sul posto, il modo non ci mancherà. Parti, Pavel; ricordati che sei un contadino, e non farti vedere troppo nell' abitato. Da queste parti, i tedeschi i cavalli li requisiscono. Pavel partì al trotto, ma era ancora in vista quando il Tordo ricadde nel suo solenne passo abituale. Gedale e i suoi si misero in marcia e in poco più di due ore raggiunsero la ferrovia. Era a un solo binario, e tagliava la prateria da un orizzonte all' altro diritta come un raggio di luce. È facile confondere la speranza con la probabilità. Tutti si aspettavano che il treno venisse da nord e fosse diretto al confine polacco; dopo qualche ora di attesa lo videro invece arrivare da sud. Era un merci e viaggiava lentamente. Gedale fece appostare uomini armati dietro i cespugli ai due lati dei binari, poi, in maniche di camicia e disarmato, si pose fra le rotaie sventolando uno straccio rosso. Il treno rallentò e si fermò, e dalla cabina di guida incominciarono immediatamente a sparare. Gedale scattò via in un lampo e si defilò dietro un nocciolo; tutti gli altri risposero al fuoco. Mendel, mentre anche lui sparava cercando di centrare le feritoie della locomotiva, ammirò la preparazione militare dei gedalisti. Da quanto aveva visto delle loro maniere fino a quel momento, si sarebbe aspettato che fossero spericolati, come infatti erano; ma non aveva previsto la precisione e l' economia del loro fuoco, e la tecnica corretta con cui si erano disposti. Sarti, copisti e cantori, diceva la loro canzone: ma avevano imparato presto e bene il loro nuovo mestiere. L' inesperto e lo spaurito si riconoscono subito, perché cercano il riparo massiccio, la roccia o il grosso tronco, che proteggono sì, ma impediscono di spostarsi e di sparare senza esporre il capo. Invece tutti si erano appiattati dietro cespugli folti, e sparavano attraverso le foglie, spostandosi spesso per disorientare l' avversario. Anche la scorta del treno, al riparo delle lamiere, sparava preciso e fitto: dovevano essere almeno quattro uomini, e non facevano economia di munizioni. Nel vagone di coda, invece, non c' era difesa. Mendel vide a un tratto Mottel balzare fuori ed avventarsi al convoglio. In un attimo si arrampicò sul tetto dell' ultimo vagone; lassù era al riparo, e del resto dalla cabina non lo avevano visto. Aveva appesa alla cintura una granata a mano tedesca, di quelle a forma di clava, che esplodono a tempo, e correva verso la locomotiva di vagone in vagone, saltando le giunzioni. Quando fu sul tetto del primo vagone lo si vide strappare l' innesco della granata e aspettare qualche secondo; poi, con la granata stessa, ruppe il vetro del lunotto della cabina e lasciò cadere la granata nell' interno. Ci fu l' esplosione ed il fuoco cessò. Nella cabina trovarono che i tedeschi della scorta erano solo tre; uno era ancora vivo, e Gedale lo finì senza esitare. Anche il macchinista e il fuochista erano morti; peccato, disse Gedale, loro non c' entravano e ci sarebbero stati utili: beh, chi serve i tedeschi ha dei rischi e lo sa. Faceva il broncio come un bambino. L' iniziativa di Mottel era stata brillante ma aveva guastato i suoi piani: _ E chi la fa muovere, adesso? Chissà la tua bomba che guai ha combinato sulle leve di comando; e oltre a tutto bisogna invertire la marcia. _ Tu, comandante, sei una testa dura e non sei mai contento, _ disse Mottel che si aspettava un elogio. _ Io ti regalo un treno e tu mi critichi. Un' altra volta voi andate all' attacco e io accendo la pipa. Gedale non gli diede ascolto, e disse a Mendel di salire in cabina e di vedere se se la cavava a rimettere la macchina in moto. Altri uomini intanto stavano ispezionando il convoglio. Ritornarono delusi: non portava roba pregiata, solo sacchi di cemento, calce e carbone. Gedale fece sgomberare dal cemento due vagoni coperti, per gli uomini e per il cavallo: non aveva abbandonato l' idea della scampagnata ferroviaria. Era molto eccitato; ordinò di tagliare tutti i sacchi col coltello, poi ci ripensò e ne fece accatastare un buon numero fra i binari davanti alla motrice: _ Con meno fretta si sarebbe potuto fare un buon lavoro; ma anche così, con un po' di pioggia e un po' di fortuna, farà un bel blocco _. Poi salì in cabina da Mendel: _ Allora? Che cosa mi sai dire? _ Una locomotiva non è un orologio, _ rispose Mendel seccato. _ Nu, sempre ingranaggi sono, e la tua non è una risposta. Una locomotiva non è un orologio, e un orologiaio non è un ferroviere, e un bue non è un porco, e uno come me non è un capobanda, ma fa il capobanda e lo fa meglio che può; anzi, fa il capobandito _. Qui Gedale rise, di quel suo riso facile che rischiarava l' aria in un attimo. Rise anche Mendel: _ Adesso scendi, che proviamo. Gedale scese e Mendel armeggiò fra i comandi. _ Attento, ora do il vapore _. Il fumaiolo sbuffò, i respingenti gemettero, e il convoglio si spostò a ritroso di qualche metro; tutti gridarono "urrà", ma Mendel disse: _ C' è ancora pressione in caldaia, ma durerà poco. Non basta il macchinista, ci vuole anche il fuochista _. Quanto erano efficienti i gedalisti nel combattimento, altrettanto erano confusionari nelle scelte di pace. Nessuno voleva fare il fuochista; dopo un' intricata discussione, a Mendel fu assegnata come aiutante una donna, che però era forte come un uomo: Ròkhele Nera, che doveva scontare una punizione perché diversi giorni prima, nel corso della pulizia delle armi, aveva smarrito la molla di un moschetto. Si chiamava Ròkhele Nera per distinguerla da Ròkhele Bianca: era scura in viso come una zingara, magra e svelta. Aveva gambe lunghissime, lungo anche il collo, che reggeva un piccolo viso triangolare illuminato dagli occhi ridenti ed obliqui. Portava i capelli neri raccolti in una crocchia. Era anche lei una veterana di Kossovo, benché avesse poco più di vent' anni. Ròkhele Bianca invece era una creatura semplice e mite, che non parlava quasi mai, e quando parlava lo faceva con voce così bassa che si stentava a capirla. Per questi motivi nessuno sapeva nulla di lei, né lei sembrava desiderosa di far sapere qualcosa a qualcuno: seguiva passivamente il cammino della banda, obbediva a tutti e non protestava mai. Veniva da un remoto villaggio della Galizia ucraina. Mendel mostrò alla Nera come doveva fare per alimentare la caldaia, tutti gli altri salirono sui due vagoni liberi e il treno si mosse, spinto invece che trainato. Mendel bloccò la manetta del vapore su una velocità molto bassa, perché dalla cabina non poteva vedere la via. Jòzek si era installato col mitra nell' abitacolo del frenatore, sull' ultimo vagone che ora era il primo, e faceva da battistrada; ogni tanto si sporgevano entrambi, e Jòzek segnalava a Mendel se la via era libera. La fuochista rideva come a un gioco e impalava carbone con entusiasmo infantile; in breve fu tutta sudata, e nera sul serio, da capo a piedi, tanto che occhi e denti brillavano come fanali nel buio. Mendel, invece, non si divertiva affatto. La soddisfazione per aver domato quel bestione meccanico si spense presto; il sangue sul pavimento di lamiera lo metteva a disagio, si sentiva inquieto per quella marcia fatta quasi alla cieca, e l' intera impresa gli sembrava una follia gratuita e un' imprudenza estrema. Non capiva quali lontane intenzioni avesse Gedale. A metà strada si dovette convincere che Gedale aveva raramente intenzioni lontane, e preferiva improvvisare: si era sporto dal vagone e gli faceva cenno di fermare. Fermò, e scesero tutti e due. _ Senti, orologiaio, mi è venuto in mente che sarebbe bene danneggiare questo treno più che possiamo. Che cosa si può fare? _ Qui, proprio niente, _ rispose Mendel. _ Se andassimo per diritto invece che a rovescio, potremmo sganciare i vagoni e bloccarli in qualche modo, ma così è un altro discorso. Ecco, il solo lavoro che si può fare è di ribaltare le sponde dei vagoni scoperti; così, con le scosse, tutta la calce e il carbone finiranno sparsi sulla scarpata. _ E i vagoni stessi e la locomotiva? _ Ci penseremo dopo, _ disse Mendel. _ Quando tu ne avrai avuto abbastanza. Gedale ignorò la provocazione, mandò tre uomini a ribaltare le sponde, e il treno ripartì seminando allegramente il materiale dai due lati. Arrivarono a Kolki nel primo pomeriggio, e i vagoni erano quasi vuoti: Pavel col cavallo li aspettava sul piano caricamento. Nella stazioncina non c' era nessuno, salvo il capostazione, che però vide il mitragliatore in mano a Jòzek, fece una specie di saluto militare e si ritirò. Mendel frenò, caricò in un istante Pavel e il Tordo, e ripartì. Gedale era felice, e fece segno a Mendel di andare avanti, e più in fretta: "A Sarny! A Sarny!" Al di sopra dello strepito della macchina, dai due vagoni arrivavano fino a Mendel grida e canti, e i nitriti di Tordo spaventato. Poco dopo fu Mendel che prese l' iniziativa di fermare il treno presso un fiumiciattolo che solcava la steppa disabitata. Non solo per riposarsi e per dar modo a Ròkhele di lavarsi un poco, ma anche per avvisare che l' acqua del serbatoio stava per finire. Tutti si misero al lavoro, facendo la spola al fiume con i pochi recipienti disponibili: qualche pentola di cucina e un secchio trovato sulla motrice. L' operazione andava per le lunghe, e Mendel ne approfittò per ascoltare Pavel, che stava raccontando quanto aveva visto a Kolki. _ Non abbiamo corso nessun rischio, né il cavallo né io. Nessuno si è occupato di noi né ci ha rivolto la parola, eppure credo proprio che nessuno mi abbia preso per un contadino. Tedeschi non ne ho visti; ci devono pur essere, perché davanti al municipio c' erano i loro manifesti di propaganda, ma in strada non si fanno vedere. La gente non ha più paura di parlare, o ne ha meno di prima; sono entrato in un' osteria, c' era la radio accesa, e la voce era quella di Radio Mosca: diceva che i russi hanno ripreso la Crimea, che tutte le città tedesche sono bombardate di giorno e di notte, e che in Italia gli alleati sono alle porte di Roma. Ah, come è bello passeggiare nelle strade di un paese, vedere i balconi con i vasi di fiori, le insegne dei negozi, le finestre con le tendine! Guardate che cosa vi ho portato: l' ho staccato io dal muro, ce n' è su tutte le cantonate. Pavel mostrava in giro un manifesto, stampato in grossi caratteri su brutta carta gialliccia, in russo e in polacco. Diceva: "Non lavorate per i tedeschi, non date loro informazioni. Chi fornirà grano ai tedeschi verrà ucciso. Lettore, ti stiamo spiando; se strappi questo manifesto ti spareremo". _ E tu lo hai strappato? _ chiese Mottel. _ Non l' ho strappato, l' ho staccato: è un' altra cosa. L' ho staccato con rispetto, chiunque si sarebbe accorto che lo portavo via per farlo vedere a qualcuno; e difatti non mi hanno sparato. Vedete? è firmato dal Reggimento Stella Rossa: comandano loro. _ Comandiamo anche noi, _ interruppe Gedale con impeto. _ Entreremo a Sarny a modo nostro: in modo da farci ricordare. Chi conosce Sarny? La conosceva Jòzek, che ci aveva fatto il servizio militare nell' esercito polacco: una cittadina modesta, forse ventimila abitanti. Qualche fabbrica, una filanda e un' officina per la riparazione del materiale ferroviario. La stazione? Jòzek la conosceva benissimo perché ci era stato di presidio poco prima che scoppiasse la guerra; Sarny era l' ultima città polacca prima della frontiera, i russi ci erano entrati senza combattere, subito dopo l' inizio delle ostilità. Era una stazione abbastanza importante, perché ci passava la linea per Lublino e Varsavia, e per via dell' officina di riparazioni. C' era un gran capannone e una piattaforma girevole, appunto per avviare le locomotive all' officina. Gedale si illuminò, e disse a Mendel: _ La tua macchina farà una fine gloriosa _. Mendel disse che sperava di non farla anche lui. Gedale fece fermare il treno a notte, all' imbocco dello smistamento, e fece scendere tutti dai vagoni. Il cavallo, impaurito dal buio, si imbizzarrì: rifiutava di scendere, tentava di inalberarsi, nitriva convulso e scalciava contro la parete di fondo del vagone. Lo tirarono e spinsero, alla fine si decise a saltare, ma atterrò malamente rompendosi una zampa anteriore; Pavel si allontanò senza dire parola, e Gedale lo finì sparandogli nella nuca. Anche la stazione di Sarny sembrava deserta: nessuno reagì allo sparo. Gedale disse a Mendel di spingere i vagoni su un binario laterale, e a Jòzek e Pavel di andare avanti cauti, e di deviare gli scambi in direzione della piattaforma; tornarono a lavoro compiuto, e riferirono che il ponte della piattaforma era in posizione trasversale rispetto al binario di arrivo: benissimo, disse Gedale. Avrebbe mandato la locomotiva a fracassarsi nella fossa della piattaforma, l' officina sarebbe rimasta bloccata per almeno un mese. _ Non sei convinto, orologiaio? Ti ci sei affezionato, eh? Un poco anch' io, ma ad andare più avanti non mi fido, e non la voglio regalare ai tedeschi. E ti dirò una cosa che ho imparata nei boschi: le imprese che riescono meglio sono quelle che il tuo nemico non crede che tu possa fare. Su, spingi via i vagoni, metti in moto la macchina e salta giù. Mendel obbedì. La locomotiva senza equipaggio sparì nel buio, visibile soltanto per le faville che scaturivano dal fumaiolo. Tutti aspettarono col fiato sospeso; pochi minuti dopo si udì un fracasso di lamiere sfondate, un rombo di tuono, e un sibilo acuto che andò estinguendosi lentamente. Ululò una sirena d' allarme, si sentirono voci concitate, i gedalisti fuggirono in silenzio verso la campagna. Mentre camminava a tentoni, nel buio dell' oscuramento, inciampando nelle rotaie e nei cavi, ronzavano nella testa di Mendel, incongrue, le parole della benedizione dei miracoli: "Benedetto sii Tu o Signore Dio nostro, re del mondo, che hai fatto per noi un miracolo in questo luogo". In questo modo la banda di Gedale segnò il suo ingresso nel mondo abitato.

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ATTRAVERSO L'ATLANTICO IN PALLONE

682203
Salgari, Emilio 1 occorrenze

Il negro proruppe in uno scroscio di risa, e invece di abbandonarlo, gli si aggrappò addosso con suprema energia: era invaso da quella paura che più non ragiona e che invade le persone prossime ad affogare, o voleva trascinare il suo salvatore negli abissi marini? L'irlandese atterrito, pallido per l'emozione, cominciava a pentirsi di essersi precipitato in mare per salvare un pazzo. Cercò di liberarsi da quelle mani che lo strangolavano e da quelle gambe che paralizzavano i suoi movimenti, facendolo affondare, ma pareva che il negro possedesse, in quel momento, una forza straordinaria. "Giù le zampe, Simone!" urlò con voce strozzata. "Giù, o ... " La frase gli fu troncata da un'onda che lo coperse, riempiendogli la bocca d'acqua amara e salata. Sprofondò, ma con uno sforzo disperato riuscì a liberare le gambe e a rimontare alla superficie, trascinando seco il pazzo, che non voleva abbandonarlo. "Lasciami!" rantolò. Il negro continuò a stringere, facendo balzi disordinati per trascinarlo sott'acqua. Alzò il pugno e percosse quel disgraziato sul viso, ma inutilmente: quelle mani non lo abbandonavano, anzi gli conficcavano le unghie nel collo. "Ah! Non vuoi lasciarmi?" disse l'irlandese. "Ebbene, muori tu solo!" Allora, fra quell'oscurità, in mezzo a quelle onde che a volta a volta coprivano i due uomini, s'impegnò una lotta suprema. Il negro resisteva con disperata energia e faceva udire, di tratto in tratto, i suoi scoppi di risa; l'irlandese cercava di liberarsi da quelle strette mortali e lo tempestava di pugni per stordirlo, emettendo grida sempre più rauche, più strozzate. Scendevano, risalivano a galla, si rotolavano fra le onde, si mordevano, urlavano. O'Donnell, già strozzato per tre quarti, si sentiva venir meno le forze, i suoi occhi non scorgevano più l'avversario se non attraverso una nebbia, e si sentiva trascinare negli abissi misteriosi dell'Atlantico, aperti sotto di lui. Con un supremo sforzo trascinò ancora il negro alla superficie, poi si lasciò andare nuovamente a picco. A un tratto si sentì urtare bruscamente e quasi strappare l'epidermide da un corpo ruvido, e gli parve di udire, fra le onde che lo inghiottivano, un grido orribile. Quasi subito sentì allentarsi la stretta e si trovò libero. Senza perdere tempo rimontò a galla, girando all'intorno uno sguardo smarrito. A tre passi vide sorgere bruscamente una forma nera, girare su se stessa un istante, poi sparire. Mandò un grido d'orrore: quella forma nera era un tronco umano, che pareva fosse stato tagliato a metà da una gigantesca forbice. Allora si ricordò dell'urto, dello sfregamento e del grido udito sotto le onde e comprese tutto. Uno squalo aveva tagliato in due il disgraziato Simone. L'irlandese era coraggioso: lo si è già visto alla prova, ma nel ritrovarsi da solo in mezzo all'oceano, forse spiato dai pesce-cani con dinanzi agli occhi l'orribile fine del negro, credette di impazzire per lo spavento. Rimase parecchi istanti immobile, come istupidito, livido, agghiacciato dal terrore, non osando fare il più lieve movimento per paura di attirare gli squali e raggrinzando le gambe, per timore di sentirsele mozzare da un istante all'altro. Una lontana detonazione, che pareva scendesse dal cielo, lo strappò da quell'immobilità, che a poco a poco lo trascinava sotto le onde. "Mister Kelly ... " mormorò. "Ah! Se sapesse in quale situazione mi trovo ... !" Alzò gli occhi e guardò in aria, ma non riuscì a scorgere l'aerostato. Attese alcuni minuti in preda a una tremenda ansietà, poi verso il sud, a una distanza di due miglia vide brillare a grande altezza una striscia luminosa, poi udì un'altra lontana detonazione. "Vi comprendo," disse, "mi segnalate la vostra direzione, ma non posso rispondervi e nemmeno raggiungervi. A quale altezza si troverà il Washington? Questo doppio capitombolo lo pagheremo forse caro." Abbassò gli occhi sul mare, e gli sembrò di vedere qualche cosa di nero agitarsi in mezzo alla spuma di un'onda. "Che cosa può essere?" si chiese. "Che Mister Kelly, nel momento che il pallone si alzava, ci abbia gettato degli oggetti galleggianti? Ho veduto dei salvagente fra le casse della scialuppa. Orsù, non debbo rimanere qui in eterno: se i pesce-cani mi spiano, possono tagliarmi in due anche qui." Rabbrividì a quel pensiero, pure si fece animo e si diresse, procurando di non far rumore, verso quell'oggetto che le onde trastullavano. In pochi istanti lo raggiunse e lo ghermì strettamente. "Non mi ero ingannato!" mormorò, respirando più liberamente. "Grazie, Mister Kelly, di aver pensato a me ! " L'oggetto che aveva afferrato era uno di quei grandi cerchi di sughero, avvolti in tela grossa e robusta e che le navi usano portare attaccati alle murate, per gettarli ai marinai o ai passeggeri che cadono accidentalmente in mare. Sorreggono comodamente una persona per quanto sia pesante, mantenendola a galla anche in mezzo alle più grandi ondate. Ma se l'ingegnere aveva pensato a dare un punto d'appoggio ai due naufraghi, non aveva dimenticato di fornirli di mezzi di difesa contro i formidabili assalti dei mostri marini. Infatti, O'Donnell trovò appesi al salvagente due lunghi e affilati coltelli, due di quei bowie-knives usati dagli americani del Nord. "Se gli squali vorranno mangiarmi, avranno un osso duro da rodere." disse l'irlandese, passandosi le armi nella cintola. "Orsù, in viaggio, e cerchiamo di seguire il pallone." Si passò il salvagente sotto le ascelle e, meravigliosamente sorretto da quell'anello di sughero, si spinse verso il sud, gettando però degli sguardi inquieti sulle acque circostanti e fermandosi di tratto in tratto ad ascoltare se qualche mostro lo seguiva. Le detonazioni erano cessate, ma ormai sapeva che l'aerostato si trovava verso il sud, e ciò gli bastava. Era certo che in quel momento l'ingegnere stava sacrificando il suo gas per discendere verso la superfìcie dell'oceano. Aveva percorso circa seicento metri, quando vide verso il sud, ma quasi a fior d'acqua, balenare un lampo, e poco dopo intese una debole detonazione. "To'!" esclamò. "Che vi sia una nave laggiù, o che l'ingegnere sia già disceso?" Si arrestò, guardando attentamente in quella direzione, e gli parve di distinguere, sul fondo azzurro del cielo, che cominciava a tingersi dei primi riflessi dell'aurora, una massa oscura sospesa a breve distanza dalla superficie dell'oceano. "Dev'essere il Washington" mormorò. "Quale salasso avrà dovuto fare ai palloni Mister Kelly per abbassarsi così presto! Fortunatamente c'è la riserva nei cilindri e la zavorra è ancora abbondante. Dannato polipo! E stato la causa di tutte le nostre disgrazie e della fine orribile del povero Simone. Per mille merluzzi! Sento gelarmi il sangue quando penso a quel tronco umano che ho visto sollevarsi sulle onde e quel ... " S'arrestò bruscamente, girando intorno lo sguardo spaurito. Gli era sembrato di sentire un rauco sospiro e un tonfo sordo. "Qualche pesce-cane?" mormorò battendo i denti. "Che sia destinato anch'io ad avere per tomba lo stomaco di uno squalo? Ventre di balena! C'è da impazzire, anche senza essere paurosi." Stette in ascolto parecchi minuti, trattenendo perfino il respiro: ma non udì più nulla. Credendo di essersi ingannato, riprese le mosse verso il sud, nella cui direzione cominciava già a scorgere il Washington che pareva ancorato a breve distanza dalla superficie dell'oceano. L'onda larga, investendolo e coprendolo di spuma, lo stancava, paralizzandogli le forze, che cominciavano ad esaurirsi. Si sentiva le estremità irrigidirsi a poco a poco e provava una grande oppressione al petto, che gli rendeva penoso il respiro. Tuttavia, la paura di venire assalito da qualche torma di squali affamati, lontano dall'aerostato, lo spingeva a tirare innanzi senza prendere riposo. Il Washington spiccava ora nettamente sul fondo madreperlaceo dell'orizzonte, avvicinandosi rapidamente l'alba, ma pareva che la distanza non scemasse mai. Per maggior disgrazia, la paura invadeva poco a poco il disgraziato irlandese, il quale credeva di udire dietro di sé i rauchi sospiri dei mostri marini e temeva che s'avvicinassero sott'acqua. Allora ripiegava le gambe e si arrestava in preda a un'angoscia indescrivibile, impallidiva come un morto e, malgrado il freddo che quel bagno prolungato gli procurava, si sentiva scendere sulla fronte grosse gocce di sudore. "Arriverò vivo al Washington o lascerò le mie gambe in quest'oceano?" si chiedeva ad ogni istante, con terribile perplessità. Alle cinque il sole apparve bruscamente sull'orizzonte, inondando l'oceano di raggi abbaglianti. O'Donnell respirò e salutò l'astro con un vero e proprio grido di gioia. "Almeno potrò vedere qualcosa e scorgere forse a tempo gli squali." disse. Guardò verso il sud. L'aerostato non era lontano che un miglio, e nella navicella scorgeva l'ingegnere, il quale alzava le braccia come per incoraggiarlo a fare presto. Raddoppiò gli sforzi e avanzò in quella direzione, respirando a grande fatica. Ma, percorsi tre o quattrocento metri, si arrestò con i capelli irti e il viso sconvolto da un'inesprimibile angoscia. A venti passi aveva scorto un punto nerastro emergere dalle onde e poi una larga pinna natatoria, che era subito scomparsa. "Gran Dio!" esclamò. "Ecco il nemico!" Abbandonò il salvagente, impugnò il bowie-knife e si tuffò. L'acqua era limpida, e si poteva scorgere, a grande profondità, un pesce di grosse dimensioni. Guardò a destra e a sinistra e vide una grande ombra che pareva s'immergesse venti o trenta metri più lontano. La seguì con gli occhi smarriti finché poté, poi tornò in superficie, aggrappandosi al salvagente. Non vide nulla. Aveva scambiato qualche grosso delfino con uno squalo, o lo squalo non l'aveva ancora visto? Si sa che questi terribili mostri, specialmente i tintoreas ci vedono assai male, e poteva darsi che il mostro che si trovava in quelle acque non avesse scorto la preda umana. O'Donnell rimase parecchi minuti immobile, con gli orecchi tesi e gli occhi ben aperti, poi si decise a riprendere il faticoso esercizio. Comprendeva che ormai la sua salvezza non dipendeva che dalla sua rapidità, perché lo squalo non avrebbe tardato a scoprirlo. Fece un ultimo e disperato appello alle proprie forze e si spinse innanzi con la maggior velocità possibile, ma procurando, nello stesso tempo, di non far rumore. Alle sei non era che a cento passi dal Washington, il quale si trovava trattenuto dalle due àncore a soli sessanta metri dalla superficie dell'oceano. L'ingegnere aveva calato le guide-ropes, alle cui estremità pendeva l'ancorotto a patte, che non era stato più staccato dopo l'abbordaggio con la nave dei morti. "Coraggio, O'Donnell!" gli gridò Kelly. "Ancora uno sforzo e siete salvo." "Vengo, Mister Kelly." rispose l'irlandese che era esausto. "Ma dov'è Simone? È morto ... ?" "Mor ... to." rispose O'Donnell, rabbrividendo. "Forse che ... " L'ingegnere si era bruscamente interrotto, gettando un grido di terrore.

IL PAESE DI CUCCAGNA

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Serao, Matilde 1 occorrenze

Fra queste due donne taciturne, Luisella Fragalà cominciava ad annoiarsi assai: il suo temperamento vivace la spingeva a levarsi su, ad andare in giro per il salone, discorrendo con le sue parenti ed amiche, magari andando di là, a vedere che faceva Agnesina, a vedere che cosa accadeva in cucina e in stanza da pranzo, dove udiva una grande baraonda; ma il suo posto d'onore era lì, su quel divano, il posto della padrona di casa, della madre di famiglia: sarebbe stato un delitto di lesa borghesia abbandonarlo; e continuava ad annoiarsi mortalmente, sorridendo di lontano alle sue amiche, mentre si soffiava col grande ventaglio di raso nero, cosparso di stelline d'oro. A un tratto, non potendone più, chiamò suo marito e gli parlò sottovoce, un momento: egli annuì col capo e sparve di là a organizzare il corteo. Gli invitati, abituati al programma borghese di queste feste, capirono subito e si misero a guardare verso la porta, ogni tanto, sapendo che cominciava un'altra parte dello spettacolo. - Qualche sorriso affettuoso si delineava di già: si levava un lieto susurrio. Dalla gran porta il corteo comparve. La piccola Agnesina col visetto tutto rosso nella sua cuffietta di merletto bianco dai nastri azzurri, con un corpettino di battista tutto ricami, le cui manicucce larghe e lunghe le coprivano le manine rosse, era distesa in un portabimbi, di raso azzurro e merletti bianchi, appoggiando il capo a un cuscino di raso e battista: e il portabimbi, che è nel medesimo tempo un lettuccio, una culla, un sacchetto e un vestito, stava sulle forti braccia di Gelsomina, la nutrice di Frattamaggiore, che portava il suo carico con una divozione profonda, come il chierico porta il messale, da un corno all'altro dell'altare, senza distogliere gli occhi dal volto di Agnesina che la fissava placidamente, con quegli occhietti chiari dei neonati, occhietti che sembrano di cristallo. Accanto a lei, in tutta la gravità del suo ufficio, vi era donna Candida, la levatrice, che per assodare la continuità del suo patronato, teneva la mano sul cuscino della bimba; dietro, il padre, Cesare Fragalà; e un po' più indietro, di nuovo, i camerieri coi vassoi pieni di canditi, di confetti, di pastine secche, di dolci caramellati, di frutta giulebbate, e con altri vassoi pieni di bicchieri di Marsala, di Malaga, di Lunel; e dietro ancora, facendo, osando fare capolino dalla porta, qualche serva curiosa e intenerita, che guardava, con gli occhi sgranati. All'apparire del corteo, non inatteso, poiché tutti sapevano che la creaturina sarebbe stata mostrata agli invitati, parenti ed amici, al suo apparire, dovunque scoppiò un applauso lungo, fragoroso, qua e là fatto più sordo dalle mani guantate di alcuni giovanotti eleganti: e un coro scoppiò feminile e maschile. - Evviva donn'Agnesina! - Evviva Agnesina! - Possa tu crescere santa! - Quanto è bella, quanto è cara! - Agnesina, Agnesina! - Evviva il papà e la mammà di Agnesina. Intanto la bambina, direttamente, era stata portata al bacio della comare marchesa che l'aveva tenuta al sacro fonte, la mattina, e che la baciò in fronte, leggermente, mentre metteva una carta bianca nella mano della nutrice, facendo una mossa di scontento, col suo naso adunco che le cadeva sulla bocca rincagnata. Applausi al bacio della comare marchesa. Poi, chinandosi, con la grossa faccia un po' pallida e come contratta da un triste pensiero, la baciò il compare, don Gennaro Parascandolo: forse altre feste di simil genere, gli altri battesimi dei suoi figliuoli gli erano passati nella mente, in quel minuto. Ma egli si rimise subito, rispose con un sorriso agli applausi anche più fragorosi della società. Quando la bimba fu baciata dalla madre, vi fu un minuto di silenzio, come se un'improvvisa gravità fosse caduta sulla gioconda riunione: la madre teneva il capo chinato sulla faccia della sua bambina, come se le soffiasse il suo alito, come se le parlasse, benedicendola, invocando per lei dal cielo tutte le benedizioni. Un silenzio: e poi di nuovo un grande chiasso, poiché la bimba era portata in giro, trionfalmente, e le donne davano in leggieri strilli di materna emozione, e se la sbaciucchiavano, mentre essa già cominciava a piagnucolare. E avendo levato il capo, Luisella Fragalà, a un tratto, addossata a uno stipite di porta, scorse una bizzarra figura, a lei sconosciuta. Luisella guardò due o tre volte, presa da una curiosità, quella figura, cercando di rammentarsi, dove l'avesse vista, qualche altra volta, ma fu invano: le era nuova. Chi poteva essere? Forse qualche persona condotta da un parente, da un amico, così senza neanche chieder permesso, con quella beata famigliarità, che dal popolo napoletano sale alle classi più alte. Certo, era una persona sconosciuta. E mentre la bimba troppo baciata continuava a piagnucolare, mentre la nutrice, la levatrice, le altre signore cercavano di consolarla, dicendole delle paroline amorose sopra un tono di cantilena, mentre pel salone si diffondeva un'altra volta l'allegrezza del cibo, del vino, della leccornia, Luisella Fragalà, singolarmente interessata, obbedendo a una voce interna, non poteva staccare gli occhi da quella bizzarra figura immobile. Era un uomo fra i trentacinque e i quaranta anni, col pallido volto emaciato, di chi ha fatto un lungo e disastroso viaggio: una fitta barba nera un po' riccia, incolta, scendeva dalle guance striate di un rosso malaticcio e nascondeva qualunque traccia di biancheria e di cravatta, al collo di quell'uomo; la fronte aveva lo stesso pallore esangue e due rughe vi si disegnavano, a ogni moto delle sopracciglia: i capelli erano castani, buttati indietro disordinatamente e lascianti scoperte le tempie dove erano un po' radi, dove, a guardar bene, a guardar minutamente, si vedeva, sotto la finezza della pelle, la rete delle vene azzurre, un po' ingrossate. Il collo era scarno: e a qualche movimento della testa, vi si disegnavano i tendini, come nelle zampe delle galline morte: ed erano scarne le mani abbandonate, buttate giù lungo il corpo. L'uomo era vestito poveramente, assai poveramente, con un paio di calzoni sale e pepe, un po' corti, che lasciavano vedere le scarpe non bene spolverate, scarpe alla prussiana, legate da un nastro che si era fatto rossiccio; con un panciotto e una giacchetta, sì, proprio una giacchetta, color marrone scuro. E tutto l'uomo aveva un aspetto nel medesimo tempo malaticcio e misterioso, miserabile e ignobile nella miseria; e i suoi occhi scuri vagavano, di qua e di là, senza fermarsi mai un minuto sullo stesso punto, avendo la stessa espressione di mistero e d'ignobilità di tutta la sua persona. - Chi sarà questo straccione? - domandò a sé stessa Luisella Fragalà, presa da un senso di collera e di paura. Tutti facevano baldoria, nuovamente, intorno ai vassoi dei dolci, dei dolci sopraffini che eran il fior fiore della cucina e della bottega Fragalà, a Toledo: alla naturale tendenza golosa si univa adesso la curiosità di certe forme, di certi colori, di certi sapori, che molti degli invitati avevano sempre ammirati nelle vetrine brillanti, nelle bomboniere di raso, nelle coppe di porcellana. Il dattero unito alla crema di pistacchio su cui il bicchiere di Malaga ha un sapore profondamente aromatico; lo squisito confetto alla rosa, dove qualche pezzettino di corteccia di limone, candito, mette una nota acuta, acre, eccitante il palato e che il vino di Marsala condisce così meravigliosamente; tutto quel molle, attraente, seducente, incantevole odore di vainiglia, che esce dal cioccolatte, dalla crema, dai biscotti di mandorle; tutta quella punta sopracuta di menta, di menta forte, che è nel medesimo tempo refrigerante ed eccitante, che infiamma la bocca, riscalda lo stomaco e dà sete: tutta questa unione di cose belle all'occhio, buone al palato, deliziose all'olfatto, avevano dato un novello esaltamento alla riunione a cui il vino largamente versato veniva ad aggiungere un principio di vera ebbrezza. - Chi sarà mai quel pezzente? - si domandò ancora Luisella Fragalà, sentendosi come offesa nel suo orgoglio di padrona di casa, nel suo amore della nettezza, da quell'uomo malaticcio, misero e sudicio. Si alzò macchinalmente, per sapere qualche cosa, da qualcuno, su quel bizzarro straccione che si era introdotto nella sua casa, lasciando la comare marchesa che aveva aperto di nuovo il suo fazzoletto bianco sulle ginocchia e sul fazzoletto aveva ammonticchiato ogni genere di dolci, mangiandone di tutti, lentamente e continuamente, lasciando la ricchissima e infelice signora Parascandolo, i cui occhi pieni di lacrime seguivano intentamente il portabimbi dove la piccola Agnesina continuava il suo giro per la sala. Giusto, Luisella Fragalà raggiunse il piccolo corteo, dove ora la piccolina strillava acutamente, mentre il giro finiva: e istintivamente, quando la nutrice Gelsomina si stava per fermare innanzi a quello strano personaggio, come se anche a lui volesse far baciare la bimba, Luisella Fragalà si interpose vivamente, squadrando con ribrezzo lo sconosciuto, che già si era avanzato per baciare, e dicendo rudemente alla balia, mentre metteva la mano sul cuscino della piccola Agnesina per proteggerla: - Vattene, nutrice, la bambina piange troppo. La nutrice uscì subito seguita da donna Candida, mentre la madre, dalla porta, le guardava che si allontanavano nelle altre stanze, quasi a proteggerle ancora contro un maleficio ignoto. Rientrando nel salone, Luisella Fragalà fu distratta per un momento dallo spettacolo che presentava: il tappeto era cosparso di quei cartoccetti pieghettati finemente, dove stanno i frutti canditi, come in un nido, di carte dorate e argentate dei diavolotti, di coverture metalliche scintillanti dei cioccolattini: sulle sedie, sui tavolini, sulle mensole ammonticchiati i dolci, tolti dai vassoi devastati; le signore si erano tolte i guanti, tenendo con due dita, sollevato il pezzo di candito, la pasta secca, il mandorlato, la sottile e attorcigliata caramella che mangiavano; gli uomini andavano e venivano da un vassoio all'altro, da un gruppo di donne a un altro, trasportandosi per mano i bambini, che piagnucolavano, tutti lucidi le labbra di zucchero colante e sporchi di cioccolatte. Alcuni altri, chiesto il permesso a Cesare Fragalà che lo aveva accordato, ridendo di quello scatenamento, raccoglievano in un fazzoletto dei dolci, posandoli con delicatezza, cercando di non farli schiacciare; ad altri, lo stesso Cesare, fattosi portare dei larghi fogli di carta, formava dei cartocci, alti e pesanti, finendo di svaligiare i vassoi. Tutte le mani erano attaccaticcie, tutte le bocche lucenti: sulle mensole i bicchieri di vino, posati, avevano lasciato dei circoli rossastri o giallastri, e un ciarlìo forte, continuo, inesauribile, accompagnava quel saccheggio, quella devastazione. - Cesare! - disse Luisella, chiamando suo marito. - Che vuoi, bella mia? - rispose costui, finendo di legare uno spago tricolore intorno a un cartoccio, con la grazia del venditore di dolci. - Dimmi una cosa… - Due cose, gioia mia. - Chi è quell'uomo, là, vicino alla porta? -Quello? - chiese Cesare, aguzzando gli occhi, come se non ci vedesse bene. È Giovannino Astuti, l'agente di cambio. - Nossignore, nossignore, Giovannino Astuti, lo conosco. Dico quell'altro, quell'altro… - Oh! - fece lui, con un lievissimo imbarazzo, è una persona qualunque… - Che persona? - diss'ella, duramente. - Un amico mio… - Un amico, quello straccione? - Non si possono avere amici ricchi, sempre, - ribattè, con una risatina che suonava falsa. - Capisco: ma non ci è ragione di far venire un pezzente, anche se ti è amico, in mezzo a una riunione di galantuomini - Oh Luisa, come sei nervosa, gioia mia! Un po' di carità… - La carità è una cosa, la convenienza è un'altra! - replicò ella, nella sua ostinazione. Non vedi come è sporco? - Oh sporco! - mormorò lui, nella sua costante bonomia. - È filosofo, non bada ai vestiti. - Infine, Cesare io vorrei che se ne andasse. - E come si fa? - chiese lui, confuso, mortificato dall'insistenza della moglie. - Gli si dice. - Ora gli dò prima un bicchiere di vino, Luisella: ancora un po' di pazienza e poi lo faccio andar via. Difatti, Cesare Fragalà si avvicinò allo sconosciuto e gli offrì dei dolci, del vino, parlandogli, sottovoce, guardandolo negli occhi. Costui accennò a un sorriso, con le labbra di un violetto smorto e cominciò a mangiar pian piano, con una piccola smorfia di difficoltà, come se non potesse bene deglutire. Prima di portare alla bocca il candito, la rosea pasta reale, il frutto giulebbato che Cesare Fragalà gli veniva man mano offrendo, invitandolo con gli occhi a gustarne, il misterioso personaggio guardava il dolce, con una ciera fra indecisa e diffidente: infine si risolveva a mangiarlo, facendo sempre quell'atto nervoso, penso, del volto di chi ha la gola stretta. Ed era restato in piedi, con quell'aspetto imbarazzato della propria persona, che è la incurabile infelicità di certi individui; spezzava un mandorlato scrocchiante, inghiottiva i grossi bocconi molli della pasta Margherita, uardandosi vagamente intorno, come se non osasse abbassare gli occhi sulle sue gambe e sulle sue scarpe. Pure, lentamente, continuava a mangiare; anzi Cesare Fragalà aveva fatto portare un vassoio di dolci sopra una mensola, accanto allo strano personaggio, donde gli veniva porgendo continuamente i cioccolattini i confetti di mandorle vainigliati, i quarti di mandarino, stillanti di sugo agrodolce. Anche, aveva fatto posare sulla mensola un vassoio di bicchieri di vino; ne aveva dati tre, uno dopo l'altro, al bizzarro personaggio che li aveva tracannati senza fiatare, levando il volto smunto, striato di rosso, levando l'ispida barba di convalescente uscito dall'ospedale. L'uomo seguitava a mangiare e a bere, continuamente, taciturno; mentre Cesare Fragalà, con un sorriso stentato che mal celava una certa preoccupazione, guardava l'uomo negli occhi, come se volesse leggergli in fondo all'anima. Intanto Luisella Fragalà, per distrarsi, per calmare il subitaneo moto d'impazienza che era scoppiato così vivacemente, girava di gruppo in gruppo, salutando, ringraziando, chiacchierando con le sue parenti, con le sue amiche. Oramai era corsa la voce, che la scintillante stella di brillanti che Luisella Fragalà portava nei capelli neri, era il dono del compare di Agnesina, di don Gennaro Parascandolo: degno dono di un compare così ricco. Nel cuor loro le Naddeo, le Antonacci, le Durante, e tutte le altre mercantesse, e tutte le mogli dei contabili, dei commessi, pensavano che Luisella Fragalà, nella sua avvedutezza coperta di cortesia, era stata molto furba a scegliersi un compare molto ricco; e calcolavano, alla prossima gravidanza, di fare lo stesso, pensando di scegliere, fra i tanti, un compare di battesimo che conoscesse e sapesse fare il dover suo, come quel carissimo don Gennaro Parascandolo. E dei piccoli aforismi maliziosetti correvano: - Chi ci pensa prima, non si pente poi. - Il signore, sempre signore è. - Vivi con chi è più di te e fagli le spese. Come Luisella Fragalà si accostava, tutto ciò si tramutava in un coro di ammirazione sul magnifico gioiello. Ella annuiva, abbassava il capo, arrossendo di orgoglio; e la stella, fra i neri capelli, scintillava, scintillava. Le donne avevano quel mormorio lungo di ammirazione, lusinghiero per chi lo fa e per la persona che lo riceve: mormorio pieno di compiacente soddisfazione, di tenerezza vanitosa, mentre gli occhi feminili s'illanguidiscono o lampeggiano. Qualcuna, per mostrarsi anche più amabile, sebbene fosse al corrente, domandava: - Il compare? - Sì, - rispondeva Luisella Fragalà, con un lieve sorriso. - Non poteva essere diversamente, - susurrava l'altra, con aria d'indovina felice. Altrove, due volte, Luisella aveva dovuto togliersi lo spillone dalla testa, perché le signore avevano voluto avere fra le mani il prezioso gioiello. Il gruppo si formava, le teste feminili si chinavano, piene di curiosità, piene di quell'invincibile trasporto per le gemme, che è in fondo al cuore della donna più modesta e più oscura: ed erano strilletti di ammirazione, interiezioni, interrogazioni che sorgevano, al balenare della stella di brillanti. Qualcuna arrivava finanche a volerne sapere il prezzo: ma Luisella Fragalà faceva un gesto largo d'ignoranza, un gesto che ampliava il valore della gemma: e questo mistero, questa cifra incognita acquistava, nella immaginazione feminile, una latitudine che imponeva loro rispetto. Tanto che a un certo punto, fra otto o dieci signore nel cui centro stava Luisella, per moto plebiscitario, un impeto di entusiasmo nacque, crebbe, finì con un'acclamazione: - Evviva il compare! Don Gennaro Parascandolo, facendo finta di niente, accorse, premuroso, con l'aria fra disinvolta e bonaria del napoletano che ha viaggiato. E si difese contro i complimenti, modestamente: quella era una cosa da nulla, due pietruzze insignificanti, due fondi di bicchiere: le signore contraddicevano vivamente, adulandolo, coprendolo di cortesie, col profondo istinto muliebre che fa loro prodigare parole e sorrisi, così, sapendo che qualche cosa finiranno per fruttare: e quando egli disse che donna Luisella Fragalà meritava non una stella, ma una corona di stelle, un applauso coprì la sua voce. Nel frattempo la padrona di casa aveva dato, ogni tanto, delle occhiate oblique verso il pezzente che le aveva urtato tanto i nervi; ma costui seguitava pianamente a mangiare e a bere, ritto in piedi, con quel moto lento delle mascelle, con la tensione dolorosa dei muscoli del collo, che somigliava alla zampa gialla di una gallina morta. Però qualche cosa di bizzarro avveniva intorno, di cui Luisella Fragalà si dovette dar conto, man mano che il fenomeno si propagava nel salone. Mentre il pezzente devastava il vassoio dei dolci, facendosi intorno ai piedi un circolo di cartine bianche intagliate, di cartine metalliche colorate ed anche di ossi di prugna, nel salone egli aveva attirato l'attenzione di coloro che vi erano e che avevano finito di mangiar dolci e di sorbire gelati. Nella vaga ora di digestione di tutte quelle leccornie, con lo stomaco pieno e il pacchetto di dolci da portare a casa, tutti i distratti, tutti i disoccupati, girando gli occhi attorno, avevano scorto quello strano miserabile, a cui con tanta compiacenza Cesare Fragalà dava da mangiare e da bere; e man mano, l'uno indicandolo all'altro, con un'occhiata, con una gomitata, con quella mimica significativa di occhi, di sopracciglia, di sorrisi, che costituisce il più espressivo fra i linguaggi, si erano indicati quel divoratore muto, che cominciava quando essi avevano finito, ma che pareva non dovesse finire, se non quando avesse distrutto l'ultimo dolce e bevuto l'ultimo bicchiere di vino. Qualcuno lo guardava con una certa ammirazione, dolente di non poterlo imitare in quella pappatoria continua: qualcun altro sorrideva, con indulgenza; qualcun altro aveva negli occhi come una luce di compassione per un disgraziato che pareva non avesse mai mangiato e mai bevuto; e qualche frase, qua e là, fra scherzosa e bonaria, si ripeteva, di persona in persona: - Che bello stomaco… - È la chiesa di San Pietro… - Salute e provvidenza… - Io gli farei un vestito, anzi che dargli da mangiare… - Santa Lucia gli guardi la vista, perché per l'appetito non ve ne è bisogno… Ma erano le solite esclamazioni un po' grasse, dinanzi a un forte mangiatore. Qualche uomo disoccupato si era accostato a Cesare Fragalà e all'incognito, per osservare meglio quel muto divoratore. A poco a poco, adesso, tutti quelli che erano nel salone mettevano gli occhi addosso al lungo mangiatore; e Luisella Fragalà sentiva le fiamme della vergogna salirle al viso, poiché tutti si erano accorti, adesso, dell'ignobile straccione che suo marito le aveva portato in casa e che ella doveva subire nel suo salone. Invano ella cercava, andando di gruppo in gruppo, parlando, ridendo, scherzando, agitando il suo ventaglio nero, di divergere l'attenzione: era inutile. La gente riunita nel salone aveva mangiato, aveva bevuto, aveva applaudito Agnesina, applaudita la stella di brillanti e il compare Parascandolo che gliel'aveva regalata; ora non sapendo più che cosa fare, si attaccava a quel curioso straccione, la cui presenza, certo, era una cosa inusitata in casa di Luisella Fragalà, buona ma fiera, caritatevole ma che non avrebbe introdotto mai un povero in salone. Oh era inutile che ella si arrovellasse, sentendosi salire le lacrime agli occhi; oramai tutti si erano acconti del pezzente mangione, tutti lo guardavano, anche le donne, anche le fanciulle, le grandi sonnambule che pare non vedano mai nulla. E gli stessi sorrisi di compassione, di scherzo, di scherno, d'indulgenza si dipingevano sulle labbra feminili, come si erano dipinti su quelle maschili; salvo che la curiosità muliebre, più ardente, più forte, non seppe resistere, e la signora Carmela Naddeo, piegandosi dietro il ventaglio, domandò a Luisella Fragalà: - Bella mia, chi è quell'affamato? - E chi lo conosce! - disse l'altra, con un vivo moto d'impazienza. - Cesarino, certamente. Gli dà da bere. - Cesare li raccoglie col carrettino, questi straccioni, - diss'ella, fremendo di collera. Ma ad un tratto, da uomo a uomo, da donna a donna, una parola sommessa, susurrata, corse, con uno strano stridore, con un sibilo di sillabe più fischiate che pronunziate. Chi, primo, aveva pronunziato quella sibilante parola? Qual era la persona che, conoscendolo, l'aveva pianamente soffiata, nelle sue avvolgenti e sinuose sillabe, all'orecchio del suo vicino? Chi lo aveva rivelato, il mistero dello sconosciuto? Chissà! Certo che in un minuto secondo, con la rapidità di una traccia di polvere pirica che svampa, tutti avevano saputo e ripetuto la mistica parola, per tutto il salone cremisi, e che essa ritornava su sé stessa, riavvolgendosi, negli archi, nei circoli delle sue lettere, formando come un magico cerchio, in cui entrò subito tutta l'assemblea, uomini, donne, fanciulli. E quando tutti ebbero saputo chi era quell'uomo, come una stupefazione li colse: i lumi delle lampade parve si fossero improvvisamente abbassati: un gran pallore parve caduto sulla vivezza dei volti, dei mobili, delle stoffe: un silenzio profondo si fece, dove ancora si trascinava, fioca, flebile, la mistica parola: - L' assistito, l' assistito 'istessa Luisella Fragalà, l'intrepida, impallidì nel bruno volto, e le mani che stringevano il ventaglio, tremarono. L' assistito aveva finito di mangiare e di bere, ora si riposava tranquillo, girando intorno il suo sguardo vago, incerto, non sapendo che cosa farsi delle sue mani scarne e giallastre; un po' di sangue gli era salito alle guance smunte, spuntando sotto la barbaccia nera; ma era un colorito malaticcio, a strie, un colorito di sangue guasto, di sangue povero, di sangue che è stato, o è consumato da una febbre che non si guarisce. Eppure così brutto, sporco, miserabile, ignobile come era, l' assistito veva concentrato su sé tutti gli sguardi, intenti, dell'assemblea; sguardi di curiosità, di lusinga, di ossequio, di speranza, sopratutto sguardi di rispettoso spavento, uno spavento fantastico che traluceva specialmente dagli occhi feminili. Poiché ancora le donne, nel lieve tremore dei loro nervi, ripetevano a sé stesse: - Dio mio, ecco l' assistito. come per una attrazione forte e naturale, man mano, intorno all' assistito un cerchio di persone si venne formando, stringendosi sempre più, un cerchio di facce lievemente ansiose, dove si leggeva il vivido lavorio della fantasia meridionale, la fuga di tutte quelle immaginazioni nel paese dei sogni e dei fantasmi. Alle persone meno timide, che per le prime si erano avvicinate, si venivano ad aggiungere le altre, più ritrose, ma infine vinte anch'esse, sognando anch'esse tutto il fantomatico corteo degli spiriti assistenti, l corteo degli spiriti buoni e degli spiriti cattivi, che ogni giorno, ogni notte, ogni ora del giorno e ogni ora della notte si agita, combatte, vince o è vinto intorno all'anima e intorno alla persona dell' assistito Il cerchio si era talmente ristretto che don Gennaro Parascandolo, uno dei primi accorsi, pur conservando il suo sorriso un po' scettico, si rivolse a Cesare Fragalà e gli disse: - Cesarino, presentami a questo signore. Cesare Fragalà che era molto imbarazzato, non trovando una via di uscita, colse al volo questa domanda e disse subito: - Il cav. Gennaro Parascandolo, mio compare: Pasqualino De Feo, un bravo amico. L' assistito sorrise vagamente e tese la mano: don Gennaro stese la sua e toccò una mano gelida e un po' molle di sudore, una di quelle mani repulsive che dànno un brivido di ribrezzo. Ma nessuna parola fu scambiata. Le donne che stavano fuori del cerchio e non osavano avvicinarsi, si domandavano, tormentate da un desiderio profondo: - Che dice, che dice? - Non dice nulla, - rispondeva donna Carmelina Naddeo, che era la più vicina all' assistito e che non lo perdeva d'occhio un sol minuto. Le donne si mordevano le labbra, intimidite dalla presenza degli uomini, un po' vergognose, non osando accostarsi all' assistito, entre ognuna di esse fremeva d'impazienza, fremeva di desiderio di sentire la fatidica parola di quell'uomo che viveva in continua comunicazione col mondo dei fantasmi e a cui gli spiriti buoni dicevano tutte le verità nascoste della vita, a cui gli spiriti che lo assistevano, rivelavano, ogni settimana, i cinque o almeno tre dei numeri del lotto. Che diceva? Nulla. Son gente che vive per lunghe ore, concentrata, perduta forse in un gran combattimento interiore, perduta dietro le voci dall'alto che le parlano e che ogni tanto, strappata alle sue visioni dalla realtà umana, pronuncia una frase, una frase fatale, dentro cui è il segreto che si vuole scoprire, avviluppato nel mistero di parole spesso informi, ma che s'intendono, miracolosamente, da chi ha una forte fede, una forte speranza. Tutti, uomini e donne, vinti da un grande sogno, balzati d'un tratto dalla quotidiana realtà nella ardente, consumatrice regione delle visioni, dimentichi del minuto presente, attendevano la parola dell' assistito, ome un verbo sovrumano. Ah, certo, don Gennaro Parascandolo conservava il suo sorriso di napoletano che ha viaggiato, che ha vissuto, che ha una grossa fortuna sicura; ma, in fondo al cuore, il vecchio istinto partenopeo, l'istinto del grosso guadagno, del guadagno illecito, ma non colpevole, senza fatica, improvviso, dovuto al caso, dovuto alla combinazione, a burla fatta al Governo, sorgeva, così, naturalmente, di fronte all'uomo che sapeva i segreti delle cose nascoste. Certo, certo, tutti quei Fragalà, quei Naddeo, quegli Antonacci, quei Durante, erano abituati a vendere i dolci stantii, le stoviglie di creta grossolana, i pannilana avariati e il puzzolente baccalà, nelle oscure botteghe nei freddi depositi i via Tribunali, di via Mercanti, alla Pietra del Pesce, alla via Marina: erano abituati a tutte le glacialità, le volgarità, le meschinità del commercio, dove per anni e anni si mette il soldo sopra il soldo, la lira sopra la lira, e infine, dopo due o tre generazioni, si arriva ad avere una fortuna: certo, tutti costoro sapevano che il valore del denaro è quello del lavoro, il valore dell'economia e della diligenza, ma che importa! Potere, per una frase detta da un misterioso personaggio, che costava solo la pena di raccogliere e d'interpretare, in una settimana, anzi in un sol giorno, guadagnare con una piccola posta una grossa somma, avere, in un giorno, il guadagno di venti anni di vendita di baccalà, di quarant'anni di vendita di zucchero marmoreo e di caffè arenoso, era un regalo così prelibato, era una visione così luminosa alle borghesi fantasie! Certo, tutti quei contabili, quei commessi di negozio avevano un'idea modesta, limitata del proprio avvenire, avevano vissuto di nulla, vivevano di poco, desideravano vivere con qualche cosetta di più, null'altro, umili a ogni desiderio; ma la figura dell' assistito quel pezzente così potente, quello straccione che discorreva ogni notte con gli spiriti superni e inferi, li buttava a un tratto in un mondo fantastico, dove i poveri miracolosamente si trasformavano in ricchi, dove essi, oscuri lavoratori, potevano, a un tratto, diventare dei signori. Ah, don Domenico Mayer, nipote, figliuolo, fratello, padre e zio d'impiegati, non aveva fede che nella santa burocrazia, gelida carriera di taciturni sofferenti: pure, stretto nel suo soprabitone nero, aveva lasciato in un cantuccio la sua misantropica famiglia, si era accostato al gruppo della gente che circondava Pasqualino De Feo, l' assistito, vibrava quelle sue occhiate fra severe ed ansiose, aspettando anch'esso la frase che lo doveva trarre, in un giorno solo, dall'ambiente sepolcrale della sua Intendenza di finanza. Ma le donne, le donne erano quelle che più ardevano nell'immaginazione! Certo, almeno dieci di esse, per la nascita, per il matrimonio, per le virtù proprie e per quelle dei loro parenti o mariti, erano ricche, possedevano la quiete della fortuna e l'avvenire dei figli assicurato: dieci di esse, almeno, godevano il lusso borghese dei mobili di broccato, dei gioielli, della biancheria a bizzeffe: e tutte le altre, per la saviezza, per la modestia, per l'economia, virtù proprie e virtù dei parenti e mariti, non mancavano del necessario - ma la vivace passione del sogno si era risvegliata in loro e le abbruciava; ma sorgevano loro nell'anima tutti i desiderii di benessere, di ricchezza, di lusso; ma esse volavano, volavano, pei campi del desiderio, con la forza, con la intensità che le donne più tranquille mettono in queste improvvise follie: ma le teneva una irrefrenata voglia di sapere il gran segreto; ma una crollante piramide di oro e di gioielli pareva accendesse di fiamme i loro occhi. Finanche la vecchia marchesa di Castelforte, curva, dal naso adunco, con la bocca rincagnata, rovina di una donna, avanzo isolato, solitario di una famiglia, senza parenti, senza eredi, avendo settant'anni e con la tomba per solo avvenire, si era levata su e portando seco la borsa di velluto nero, era venuta a tendere il suo profilo di vecchia civetta, fra due spalle di uomini. Perfino donna Carmela Naddeo, la bella, la ricca, la felice, la fortunata donna Carmela Naddeo, tendeva l'orecchio, convulsa di curiosità, istintivamente, dicendo a mezza voce: - Se mi dice i numeri, mi compro la stella di brillanti come quella di Luisella. Pure, l' assistito aceva: tanto che don Gennaro Parascandolo, sentendo dietro di sé l'impazienza della sala, arrischiò una domanda: - Vi è piaciuta la festa, don Pasqualino? Infine costui schiuse la bocca e dalle labbra sottili, violacee, tutte maculate dalla febbre, una voce bassa e fievole uscì: - Sì, - disse - è un bel battesimo. Anche il battesimo di Gesù Cristo nel Giordano era bello… Immediatamente vi fu un mormorio, un agitazione nella sala; tutti parlavano fra loro, sottovoce o ad alta voce, commentando la frase, cercandone subito la spiegazione, formando circoli, crocchi, le donne discutendo fra loro, mentre il numero trentatré, l numero del Redentore, correva su tutte le bocche. Placidamente, come se prendesse la data di una cambiale, don Gennaro Parascandolo aveva trascritta la frase nel suo taccuino: e celandosi dietro una portiera, senza lasciare la sua gravità burocratica e misantropica, don Domenico Mayer ne aveva preso nota. La vecchia marchesa, che era sorda, andava domandando, rabbiosamente: - Che ha detto? Che ha detto? Finì per chiederlo a Luisella Fragalà, che, immobile, con gli occhi imbambolati, sedeva presso la malinconica signora Parascandolo, e Luisella non seppe dire altro: - Non so, comare marchesa, non ho inteso. Però don Gennaro Parascandolo, non contento, insisteva: - Vi sono piaciuti i dolci, don Pasqualino? Ho visto che li mangiavate con piacere. - Sì, - mormorò costui. - Io mangio, ma non mastico… - Non avete denti? - Non ho denti… E girò gli occhi intorno, in alto, vagamente, senza fissar mai nessuno, come se vedesse delle cose di là; fece un cenno con la mano, appoggiando tre dita sulla guancia. Vi fu lo stesso mormorio, la stessa agitazione: ma sorse anche una incertezza. La frase era ambigua: e il cenno con le tre dita, che significava? Anche don Gennaro Parascandolo, mentre prendeva la sua annotazione, si fermò, pensando: e il mistero di quella seconda frase, il mistero di quel cenno scatenava tutte quelle già frementi fantasie, in un mondo sovrasensibile. Oh la fede, la fede, ecco quello che ci voleva, per intendere le parole dell' assistito E ognuno, concentrando le potenze dell'anima, cercava di avere uno slancio sublime di fede, per sapere la verità, e per conoscere come si traducesse in numeri, e per cambiarla nei danari del lotto. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . A notte tarda, quando la casa fu vuotata di gente, Cesare Fragalà, insieme con le serve sonnacchiose, andò smorzando i lumi, chiudendo tutte le porte, come faceva, per prudenza, ogni sera. Rientrato nella stanza nuziale, trovò Luisella, semi spogliata, seduta nella penombra. La culla di Agnesina era stata portata nella stanza della nutrice; gli sposi erano soli. Pareva che la stanchezza li avesse ammutoliti. Pure, accostandosi alla sua giovane moglie, egli vide che ella piangeva, silenziosamente, a grosse lacrime che le si disfacevano sulle guance. - Che hai, Luisella, che hai? - chiese, abbracciandola, tremante anche lui di emozione. - Niente, - ella disse, piangendo ancora, nel silenzio, nella penombra.