Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Epistolario ascetico Vol.I

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Certo non siamo capaci di grandi cose: persuasi di questo ci contenteremo di tutto, e ringrazieremo Iddio di non far peggio: altro non possiamo fare che riconoscer questo ed abbandonarci del resto in Dio. Amiamoci in lui; giacchè la carità è il contrassegno dei discepoli di Gesù Cristo: qui siamo un cuore e un' anima sola. Ci si è aggiunto da pochi giorni un altro compagno, di cui spero bene: fu la Provvidenza sola che ce lo mandò: riceviamo ciò che ci dà, rendendo grazie. Preghiamo unanimemente. Ogni sera nelle orazioni comuni qui preghiamo anche per voi. Abbracciatemi il nostro caro Giulio. Il caro don Giovanni vi fa tanti saluti nel Signore, come anche li fa a Giulio. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.30 Voi mi chiamate Padre, e non sono che un figlio discolo: ommettete quella espressione che mi fa tanto arrossire e vergognare di me stesso, e chiamatemi fratello, se così vi piace, che me ne trovo io anche troppo onorato: ma via, per amore poi posso essere e vi sono fratello. Mi ha consolato moltissimo la vostra lettera, come pure ha consolato moltissimo il nostro caro fratello Don Giovanni, primieramente per ciò che dite della vostra persona. Ringrazio il Signore che vi accresca forza e che siate arrivato colla meditazione ai tre quarti d' ora. Questo mezzo della meditazione lo tengo molto importante: noi ne abbiamo un piccolo metodo in iscritto cavato massimamente da S. Ignazio: è buono che imparino tutti un buon metodo, e vorrei che questa fosse una delle prime vostre cure circa i vostri compagni di far sì che imparino bene il modo di meditare. Questo del meditare, quello di esaminare la coscienza e quello di pregare con intelligenza e attenzione, sono i tre principali istrumenti della vita spirituale. Mi ha pure consolato il pensiero che mi manifestate di far dare un piccolo passo innanzi all' unione questo santo giorno di Natale prossimo. - Ho poi qualche osservazione da farvi sul vostro progetto, ed aprirvi quale sarebbe la mia intenzione. Primieramente non vorrei che diceste: « Se il Signore aprirà il cuore del nostro Sovrano », ecc. poichè io stimerei meglio di non pensare a questa cosa: se l' opera è da Dio, avverrà tutto ciò che è necessario, perchè abbia il suo esito: abbandoniamoci più ciecamente alla Provvidenza: io stimo che dobbiamo fare tutto quel bene che possiamo al presente con ogni tranquillità e senza occuparci punto del futuro e dell' incerto: il che è sempre un fonte d' inquietudini, colle quali il nostro inimico vorrebbe sempre tenerci in moto la fantasia, e toglierci la pace del cuore. « Nolite cogitare in crastinum ». Direi dunque che con tutta semplicità faceste ai vostri compagni il discorso da voi ideato, soggiungendo unicamente di tenerci uniti nello spirito tutti e di dimandare maggiori grazie e misericordie, purificando incessantemente le nostre anime fino a quel tempo, se Iddio lo ha stabilito, nel quale si potranno regolare meglio le cose, e con maggiori vincoli anche esterni congiungerci. Intanto le nostre relazioni saranno nell' unità del fine e de' mezzi, nell' uguale abbandono alla Provvidenza, lasciandoci da essa muovere senza punto prevenirla, nella carità scambievole e nella frequente comunicazione epistolare, colla quale ci manifesteremo a vicenda tutto ciò che la misericordia divina dispone circa di noi, sia che siamo in un luogo o nell' altro. Vi dirò poi anche quale intenzione io avrei. Non è già necessario di avere una positiva approvazione dal Governo, come ho rilevato avendo consultato sopra di ció persone bene informate; ma basta che siamo in buona intelligenza col Vescovo, e mi sono state mostrate anche in fatto diverse Congregazioni in Italia esistenti, che non hanno mai dimandata approvazione politica, ma essendo ben vedute dal Vescovo anche il Governo n' è pienamente contento. Questa buona intelligenza poi col Vescovo è necessaria in ogni modo, qualunque cosa si abbia in animo di fare, ed io ho gran fiducia di ottenerla per alcuni buoni indizi che n' ho avuti. D' altro lato è meglio andare adagio, e fare in tal modo un piccolo passo alla volta, senza parlare menomamente di approvazioni formali, e senza presentarsi come veramente una società religiosa; giacchè la vera natura di questa società è quella di essere una società umile e privata, e l' unione consiste puramente nei vincoli spirituali, che riguardano la coscienza, sicchè il Superiore sia veramente un Padre e Direttore spirituale. Anche il carissimo nostro Don Giovanni è dello stesso avviso; e parmi che così ci uniformiamo meglio alla mente del Santo Padre Pio VIII di santa memoria, che m' ha raccomandato tanto di mantenere il proposito di seguire la Provvidenza e non prevenirla, facendo un piccol passo alla volta. Cercate dunque che i vostri compagni si uniscano pure, come avete proposto, in una piccola congregazione coll' intenzione di essere uniti di cuore con noi, e formare, se Dio vuole, una cosa sola, prescrivendo loro intanto di pregare per i loro confratelli che sono qui col corpo, ma insieme con loro collo spirito nel Signore (come noi tutti preghiamo per tutti voi altri anche in comune in ogni sera nelle orazioni domestiche) e di fare con semplicità i loro doveri e le opere buone incominciate, avendo un solo fine dinanzi agli occhi, Iddio in tutto e il nostro Signore Gesù Cristo, a cui solo onore e gloria ne' secoli de' secoli. Amen, amen . La Domenica seconda di Avvento abbiamo avuto la consolazione di ricevere nella nostra Chiesa un' altra abiura di una protestante con qualche solennità e molto concorso di popolo, che ne fu molto edificato. E` la settima abiura che riceviamo per delegazione del Cardinale: ringraziamone Iddio. Anche de' nostri cherici sono contento, e per misericordia divina parmi che ogni dì s' acquisti nelle virtù religiose: io solo me ne resto come uno scoglio resistente al mare delle divine misericordie. Ah per carità pregate per me in particolare! Saluti a Don Giulio in osculo sancto . Tutti qui vi salutano con effusione d' amore santo. Viva il nostro Signore Gesù Cristo e la sua santissima Madre Maria, viva, viva! [...OMISSIS...] 1.31 Mi sta altamente fitto nell' animo, che dove si mettesse fra gli Italiani vera concordia, stima reciproca, interesse de' scambievoli lavori, e di proposito prendessero a trattare le grandi questioni che interessano la Religione e l' umanità collettivamente, e quasi direi nazionalmente, si vedrebbe ben presto sorgere da tali discussioni una dottrina imponente e di una dignità forse nuova, d' un vantaggio all' umanità incalcolabile. Cotale stima ho io delle menti italiane! capaci per mio avviso di tutta la celerità e chiarezza francese, di tutta l' esattezza e solidità inglese, e di tutta la profondità tedesca; ma oltracciò dotate di una nobile pacatezza, tutta loro propria che conservano anche nel maggior fervore, giacchè la stessa fantasia degli Italiani è ordinata e lascia loro tempo di pervenire a tutta quella pienezza e perfezione nella risoluzione delle questioni, dove solo la verità riposa e la questione termina per cominciare la scienza. Non si faccia meraviglia di questa grande stima che ho io degli ingegni e degli animi de' miei connazionali, per non vedere que' frutti che io accenno; perciocchè troppe cause mettono fin' ora impedimento a quella unione che sola ingigantisce gli ingegni individuali, i quali finchè stanno isolati e solitari sono necessariamente fiacchi ed hanno una potenza chiusa e invisibile: « paulum distat inertiae celata virtus ». Ma ove gli animi di bell' ingegno, e sopra tutto di animo gentile e religioso, entrassero in questo pensiero di unirsi amicamente fra loro, cercando insieme quel bene, che pure cercano concordemente, ma separati e senza quasi saperlo; io vedrei in questa tendenza un seme di grandi beni, e un principio della realizzazione di quella speranza che porto nel mio seno, e ivi la alimento siccome la mia stessa vita. E quando considero che la Provvidenza ha collocato in questa nazione il magisterio supremo del Cristianesimo, non posso non credere che ad essa sieno servati i più grandi destini anche per quello che spetta alla diffusione delle umane dottrine; giacchè queste non possono crescere, per mio avviso, con istabilità e perfezione e con vera utilità del genere umano, se non dalla radice divina del Vangelo. Non è già ch' io ammetta miglioramenti successivi nell' essenza del Cristianesimo, come nè pur Ella li ammette: esso è la parola di Dio; ed è immutabile più dei cieli. Ma il Cristianesimo, e più propriamente il Cattolicismo, è per mio avviso idoneo a degli immensi sviluppamenti, che saranno cagione a lui di glorie sempre più belle, inaspettate, portentose. Su questo pensiero mi ha fermato non solo la meditazione più attenta della natura infinitamente feconda della parola evangelica, non solo gli effetti stupendamente benefici ch' ella ha prodotto al mondo in questi diciotto secoli che è annunziata, ma le stesse parole de' Profeti che predicono le sue grandezze ed i suoi trionfi, i quali non sono ancora alla lettera compiti. Questi sviluppamenti del Cattolicismo non consistono in sostanza che in altrettante applicazioni pratiche ai bisogni degli uomini, alle loro varie circostanze, e massime ai loro diversi avvincolamenti nelle varie società che fecero insieme e che faranno: il Cattolicismo porterà il lume da per tutto, da per tutto metterà l' ordine, la pace, l' amore; e tutti i beni che possono venire agli uomini dall' amore della pace. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.31 Le rendo mille grazie della sua gentile lettera, che mi fa certa fede, non essere io punto dimenticato da Lei, anzi, ciò che io punto non merito, molto ben ricordato. Ma La ringrazio poi particolarmente per l' allegrezza che mostra nelle sue lettere e l' interesse che prende per questo piccolo Istituto, che, nato unicamente per opera della divina Provvidenza, viene soavemente da essa stessa consolidato ed ingrandito. Più cose Le avrei da scrivere, in cui questa operazione mirabile della mano di Dio si vede ogni giorno più manifesta; ma mi contento di pregarla a volerne ringraziare di cuore il Signore, come mi scrive che già fa, e a supplicarlo sempre maggiormente che, per sua divina misericordia, non ci lasci mettere piede in fallo, ma ci diriga tutti sicuramente « in viam salutis aeternae ». E` coll' orazione che si può far tutto, coll' orazione sola fatta in modo umile, confidente e perseverante , come dice sant' Alfonso. Felici gli uomini d' orazione! E tale è la professione che assume il sacerdote, il quale « constituitur in iis quae sunt ad Deum, ut offerat dona et sacrificia pro peccatis ». Ecco la professione propria sacerdotale, ecco tutta la vita del sacerdote. Lei beata, perchè, indossando questa sacra divisa, che tanto indegnamente io pure porto, entra in un ufficio così consolante, così sicuro, così nobile e sublime, come è quello di vivere in terra conversanti con Dio, e trattanti con lui delle nostre miserie e di quelle de' nostri fratelli, gli altri uomini! « Nostra autem conversatio in coelis est ». Non v' ha certamente cosa di mezzo; e guai a quel sacerdote che vuol transigere col mondo, coll' amor proprio, e co' capricci irrequieti e indefinibili della propria volontà! « Dominus pars haereditatis meae »: queste grandi parole che Ella pronunzierà solennemente, quando passerà sul suo capo la forbice del Vescovo, e ne taglierà tutte le superfluità, saranno la legge, e la legge accettata, elettasi, di tutta intera la sua vita. Guai a coloro che le pronunziano colle labbra, e col cuore intanto ritengono un' altra eredità! mentiscono « non hominibus, sed Deo ». Guai a tutti quelli altresì che si lasciano scandalizzare dalla mala consuetudine di quei primi, e si trascinano dietro il loro esempio! Grande pericolo, mio caro, è questo dell' esempio, giacchè pur troppo è frequente nel mondo. Ma chi si raccoglie a meditare la verità, chi ha il vantaggio di respirare l' aura pura d' una solitudine sacra a Dio, o chi non fa sua compagnia che pochissimi sacerdoti santi ed esemplari; questi solo potrà difendersi e munirsi contro quella mortifera indifferenza, freddezza e spensieratezza, colla quale si vedono molti ricevere l' imposizione delle mani, e, dopo ricevuta, viversi a loro grand' agio, come se non l' avessero ricevuta, o peggio ancora. Io sono entrato in questo discorso quasi senza avvedermene; ma osservo ch' Ella nella sua lettera ha l' umiltà di dimandarmi un parere su questa cosa e sul suo stato futuro; perciò non me ne pento. E giacchè Ella così vuole, Le aggiungerò liberamente, che, per la più vera amicizia che Le professo, La scongiuro a non fare a Dio il sacrificio di se stesso dimezzato, ma intero intero. E quindi di rimanersi in una perfetta indifferenza circa qualunque ufficio di carità che la divina Provvidenza Le presentasse di fare; perchè questa bella indifferenza, credola io la disposizione migliore per servire Iddio con sicurezza, secondo la sua santa volontà, e per mettersi al sicuro degli artifici della volontà nostra, che cerca sempre tradirci, proponendoci di seguire perpetuamente le nostre inclinazioni per piacere a noi stessi, ed anche i consigli vani del nostro amor proprio, di questo grande imbroglione che tutto il bene guasta e perturba. Oh se i sacerdoti, pensando di non servire a se stessi, ma a Dio solo, e per Dio al bene de' prossimi, fossero indifferenti a tutto il resto, come dovrebbero! comincierebbero allora appunto ad essere veri sacerdoti di Cristo. E queste legioni sacerdotali che vittorie non apporterebbero contro i nemici dell' uman genere! che beneficŒ immortali non farebbero alla umanità! che unione, che forza, che trionfi procaccerebbero alla Chiesa! che meriti, che grandezza di premi celesti a se stesse! Ecco il mio consiglio, carissimo e stimatissimo mio conte Giuliari; ecco tutto in poche ma cordiali parole: Ella non se n' avrà certamente a male, se ho riversato il mio cuore nel suo. Mi saluti tutti i carissimi amici nostri: in particolare Besi suo, e Gentili, a cui dica che aspetto lettera. Tornando dal Tirolo, mi sono trattenuto qualche giorno a Verona col suo Vescovo, e abbiamo parlato di Lei. Ai Gesuiti tante cose. [...OMISSIS...] 1.31 Le notizie che mi date colla vostra lettera, ricevuta oggi, della malattia del carissimo Matteo, potete ben pensare che trafitture sianmi state al cuore, e quanto io senta l' amarezza del caso, sì per l' amore che io porto a lui, sì per la tenera amicizia che vi è fra di noi. Io ho raccomandato tosto a Dio il caro infermo e voi stesso che, a ragione, siete immerso nel dolore, pregando per l' uno e per l' altro tutto quello, che per la vostra salute eterna è più confacevole, e, se ciò fosse, la sanità al primo e la serenità e la calma al secondo. I sentimenti di cui avete riempita la vostra lettera, mi mostrano quel combattimento che fa la nostra natura colla volontà superiore; ma tale però che non vedo restare incerta la battaglia, ma sì trionfare manifestamente la grazia di Dio. Tale è l' abbandono e rassegnazione nell' infinita bontà del nostro Signore, che dirigono e dominano le dolorose vostre espressioni. Ah sì, mio dolcissimo, il Signore vi dà una forte prova, mediante la quale v' acquistate una sublime corona! Diciamo pur adunque, cooperando alla grazia, nel mezzo della maggiore desolazione e strazio del nostro cuore « se mai è possibile, passi da noi il calice »: e soggiungiamo poi fedelmente « ma non si faccia la nostra volontà, ma la tua, o Padre ». Questo nome di Padre, contemplato con una fede viva, sia il balsamo delle nostre piaghe. Abbiamo un Padre amoroso nel nostro Dio! E` egli possibile che non ci ascolti? E` possibile che tutto ciò che ci dà non sia buono? Oh ripugni pure alla nostra inclinazione, ripugni alla natura: non cesserà per questo d' essere bene; sarà una medicina amara, ma salutare e necessaria negli occhi di Dio, alla nostra infermità. Viva fede! e saremo maggiori di noi stessi, checchè disponga il Signore. Mio caro D. Giovanni, tutto è di Dio, tutto sacrifichiamo a lui col cuore. Io spero che il Signore ci salverà il caro Matteo, lo donerà alle orazioni vostre e di tanti vostri buoni amici di costì. Ma, anche salvato, sia però il nostro cuore pronto ad ogni sacrificio: è il momento di mostrare che amiamo Iddio, e che il Paradiso lo contiamo per qualche cosa. Dimani molte persone divote faranno la via Crucis per voi e per Matteo. Noi tutti vi raccomanderemo particolarmente nella Santa Messa come pure tutta la famiglia vostra, che ben m' imagino quanto sarà costernata, particolarmente le figlie e il caro Raffaello. Sono interrotto e non posso scriver più altro. Finisco dunque. Datemi pronto ragguaglio del corso che prende la malattia e delle decisioni de' medici: io spero che il sangue lo salverà. Noi, vi ripeto, pregheremo e faremo pregare; voi mostratevi forte, abbandonatevi in Dio e non temete di nulla: egli vi sosterrà, e la Madonna Santissima. V' abbraccio nel Signore, fonte delle consolazioni. [...OMISSIS...] 1.31 Permettetemi, in primo luogo, per quella carità di Gesù Cristo che ci lega insieme, e che, ho grande fiducia nel Signore, non ci slegherà più mai per tutta l' eternità, che vi avverta che non ho potuto approvare il passo che voi avete fatto col Vescovo, senza darmene avviso. No, mio caro, non ci lasciamo trascinare mai dall' insofferenza d' aspettare, giacchè questo va direttamente contro lo spirito che abbiamo eletto e distruggerebbe fino dalla radice quell' Istituto, che la sola misericordia di Dio e l' opera della sua Provvidenza sembra che voglia produrre. Questa cosa mi sta sul cuore assai, e mi ha grandemente addolorato il passo fatto di proprio moto, che è un operare sempre estremamente pericoloso e contro le regole comuni. Io vi supplico dunque caldissimamente di non volere, di qui in avanti, far niente di simile; ma riposarvi nella divina Provvidenza, avendo gran fiducia in essa, e cercando di eseguire bene tutte le buone opere presenti, senza darvi sollecitudine dell' avvenire, commettendolo a Dio. E se vi viene in animo di fare qualche passo, prima comunicatemelo, perchè possiamo maturarlo bene insieme, per vedere se è veramente secondo lo spirito giusto di prudenza, che è lo spirito di Dio, e che le nostre Costituzioni prescrivono. Conviene bene imprimersi, che una sola cosa è necessaria: « porro unum est necessarium »; e questa è di salvare l' anima nostra e di possedere in noi Dio. Che cerchiamo di più? Se mai vorrà qualche cosa da noi Iddio, non ha egli modo di parlarci, egli che ha fatto a noi la lingua? o gli costa qualche cosa a farci sapere la sua volontà? o forse ci terrà occulto ciò che sarà bene? Ah! no, perchè è ottimo: e noi soli siamo mali. Ma egli è anche sapiente, ed egli solo conosce i tempi ed i momenti, « quae Pater posuit in sua potestate ». Abiti in noi la quiete nelle opere buone che facciamo, senza più; la quiete nel possesso del nostro Dio: la fede viva e la longanimità tanto lodata dalla Scrittura ne' patriarchi: e quel « sustine Dominum », che è così frequente ne' Salmi. Sì, sì, aspettiamo il Signore, egli verrà; non preveniamolo; chè sarebbe presunzione la nostra e imperdonabile stoltezza. Che sappiamo noi? Conosciamo noi ciò che sia bene, e ciò che sia male alla sua Chiesa? No certo: siamo poveri ignoranti. Che possiamo noi? Nulla, giacchè siamo nulla. Che pensieri adunque possiamo avere di fare qualche cosa? Non conviene a noi che di stare bassi e quieti, quieti nel nostro proprio nulla, per non irritare maggiormente il nostro Iddio; cercando anzi di placarlo colle nostre umili preghiere. E` Iddio solo che si può servire anche del nulla, se vuole, per fare qualche cosa, giacchè egli chiama « ea quae non sunt, tamquam ea quae sunt ». Per le viscere di Gesù Cristo vi prego adunque di meditare questa massima che è il fondamento di questa unione, che Iddio solo ha finora cominciata; e di raccomandarla anche agli altri, acciocchè possiamo frenare la fantasia vana che vuole sempre correre al futuro, e seguire in quella vece la maturità del giudizio, col quale solo cammineremo nella luce del Verbo . E` una pena certo raffrenare l' imaginazione che vuole correre nel futuro e nelle cose grandi, che vuol produrre in noi degli interminabili e fallaci desiderŒ. Ma è questo un inimico, a cui dobbiamo fare una implacabile guerra, giacchè, se l' avremo vinto appieno, avremo insieme vinto la superbia, la durezza del nostro cuore, e saremo chiamati « docibiles Dei ». Perciò tutte le Costituzioni nostre, se ben le avete intese, versano sopra di questo primo punto. Al presente adunque pensiamo, e nelle nostre piccole case stiamo contenti. Non pensiamo ad altre fondazioni per la Diocesi ed altrove, fino che la volontà di Dio non si manifesti da se stessa. Per quella di costì, giacchè il passo è fatto, lo considero anch' esso come un mezzo della Provvidenza, la quale si serve anche de' nostri falli a' suoi disegni. Questo è un gran punto sostanziale d' intendere, che, sebbene non si vuol limitarsi a niente, non si vuole però intraprendere niente di spontaneo moto, ma solo secondare, quando il Signore presenta l' opera da eseguire; e intanto viversi contento nel proprio ritiro. Le Costituzioni non sono che regole di prudenza pe' casi possibili: non conviene dunque pensare a tutto quello sviluppo, di cui parlano le costituzioni. Noi non ci dobbiamo pensare; è Iddio quello che, se vorrà, a tempo e luogo lo farà. Dobbiamo pensare a quelle cose ed opere singole che abbiamo alle mani: pensiamo dunque ora a queste due case che sono qui cominciate, e a quella di costì che dee cominciare, colle loro opere caritatevoli annesse: ma nulla di più. Bensì è necessario non lasciarsi limitare, nè mettere impedimenti: questo è un articolo essenziale, di cui mi riservo di parlarvi a voce. Noi non dobbiamo pensare ad approvazione governativa; siamo un corpo di Sacerdoti privati, che opera d' intelligenza co' Vescovi e superiori Ecclesiastici. Tutto ciò che potrebbe limitarci, ripugna alla nostra società: e dove non si può fare che ricevendo limitazioni ivi non è la volontà di Dio che noi facciamo nulla. Non dubitiamo punto: Gesù Cristo non ha limitata la sua Chiesa, ed è una empietà protestantica il dire che la Chiesa sia nello Stato. Stiamo con Gesù Cristo e con la sua Chiesa che si chiama cattolica , e non temiamo punto, nè sottoponiamoci alle arbitrarie limitazioni che si cerca pur troppo dagli uomini di mettere alla Chiesa che è essenzialmente cattolica . Il Vescovo nelle lettere che mi scrive, mi parla in questo senso, dicendomi che non intende limitare le mie mire alla diocesi, ma che è ben contento che il bene si diffonda alla Chiesa universale. Preghiamo tutti con un cuore solo: noi lo facciamo ogni giorno in comune e in privato. Io dico sempre Messa per l' anima mia e per quella di coloro che il Signore sembra associarmi. E` l' orazione che dee tutto maturare; ma l' orazione, intendendo bene, fatta per le anime nostre, non per altri fini: qui c' è tutto. Se attenderemo tutti alle anime nostre, non metteremo ostacoli ai disegni del Signore: non possiamo fare di più, giacchè non siamo buoni a nulla. Il Signore diffonde la sua bontà da per tutto, dove non trova ostacoli; noi non pensiamo dunque, che a rimuovere questi ostacoli e a conservare la pace. Certo, è quella sapienza che descrive S. Giacomo, e che accennate nella vostra cara, quella che ci conviene: « fructus autem iustitiae in pace seminatur ». Ah! sì, ditelo, anche a mio nome, al caro compagno, che raffreni il suo zelo, e che vada adagio adagio, con passi sicuri e sempre con consiglio e secondo l' ubbidienza , in ogni minima cosa. Non siamo solleciti. Abbandoniamo alla Provvidenza l' esito di quello che facciamo, giacchè ella sola può fare tutto, e noi niente. Non operiamo adunque con isforzo e travaglio, quasi che dai nostri sforzi e dai nostri stentati travagli dipendesse l' accrescimento del regno di Dio. E` Iddio solo che converte le anime, che sono tutte in sue mani. Con quanta soavità non operava lo stesso nostro Signor Gesù Cristo! niente di violento o di troppo calcato nelle sue parole. Spargeva il seme e lasciava che da sè mettesse, cioè mediante la sua secreta operazione. Così a tempo e luogo facciamo noi, e abbiamo molta fiducia nella operazione che fa Iddio nelle anime. Questi sono tutti i prinlipii della società nostra, che dee formarsi per se stessa, cioè non per la volontà dell' uomo, ma per quella di Dio che influisce nella natura stessa di tutte le cose, e perciò tocca da una estremità all' altra con forza e soavità: « et disponit omnia fortiter et suaviter ». Per lo stesso principio andiamo pur lenti ad ammettere compagni; siamo contenti di essere quei pochi che siamo, non pensando di più. Se Iddio ce ne manderà, ne riceveremo con allegrezza; ma non preveniamo noi i disegni di Dio, nè pure coi nostri desiderii. Di quelli che presentemente abitano questa casa, non c' è alcuno che non sia stato qui evidentemente mandato dalla Provvidenza. Mi riserbo a voce di contarvi i progressi che la divina Provvidenza fa fare ogni giorno soavemente all' Istituto. Noi siamo sempre contenti: la nostra società in qualunque stato si trovi è sempre compita e perfetta, nè desidera di più; tutti i desiderii devono concentrarsi nell' avanzare giornalmente nella virtù: pochi o molti che siamo, poco importa al nostro fine. Il fine della società è semplice, non è che il fine degli individui che la compongono: questo si può ottenere in ogni stato, in cui ella si trovi; dunque è sempre contenta e perfetta. Mio carissimo, questo è il gran travaglio, a cui si deve pensare sul principio, a formare i membri della società! Non importa quale sia il numero, ma la qualità. Al Noviziato conviene che presentemente diamo tutti i nostri pensieri, per procedere con vera maturità e sicurezza. V' abbraccio tenerissimamente nel Signore, in cui sommamente vi amo con tutti i nostri. [...OMISSIS...] 1.31 Miei Reverendi e carissimi sacerdoti nel Signor nostro Gesù Cristo, a cui solo sia onore e gloria, amen . Per quanto io sia misero e nullo nel regno di Dio, non ho potuto però a meno di giubilare interiormente leggendo la lettera che hanno avuto la bontà di scrivermi, e di ringraziare di cuore il Signore de' buoni sentimenti che loro ispira, sollecitandoli al desiderio della perfezione. Oh questa è una grande grazia che fa il Signore, mettere in cuore a' sacerdoti il conoscimento della infinita dignità sacerdotale, e il bisogno di corrispondere a quella dignità con altrettanta bontà di vita; e, se questo non può essere compiutamente, almeno con altrettanta umiltà! Un indegnissimo adunque qual io mi sono, che non dovrebbe aprir bocca, non può d' altra parte tacere, e gli incoraggia a farsi conto d' una tal grazia, che sarà certamente per loro seme di felicità eterna. Per essere aiutati nel coltivare questo desiderio santissimo, che dovrebbe nascere in tutti i nostri cuori colla sacra Ordinazione, non v' ha mezzo più efficace che l' unione fra sacerdoti e la mutua corrispondenza, tanto frequente ne' primi tempi della Chiesa e tanto stretta, quanto rilassata e rotta di poi per le passioni, e massime per l' egoismo, per l' interesse, per la freddezza, per l' ignoranza, e fin anche per la falsa prudenza di questo secolo, a cui noia infinitamente l' unità della Chiesa, giacchè nell' unità sta la sua forza. Quindi era certamente un pensiero santo e veramente conforme allo spirito della Chiesa, spirito della massima unità, quello del nostro Rev.mo Monsignor Vicario di unirli in una piccola società sotto la protezione dell' Apostolo S. Paolo; e per quanto essi me ne dicono nella loro lettera, e Molinari a voce, non mi sembra improbabile che questo pensiero sia venuto a Monsignor Scavini dal desiderio di fare qualche cosa di simile all' associazione di S. Paolo che c' è in Roma, approvata da' Sommi Pontefici, e che fa un gran bene. Laonde non so qual uomo probo e savio potesse vedere male simili società desiderate dalla Chiesa, promosse ed approvate da' Sommi Pontefici: sicchè è al tutto vero quello che essi scrivono, che è solo il nemico dell' uman genere, il quale si trasforma talora in angelo di luce, quello che odia queste sante congregazioni e muove terra e cielo per distruggerle, se gli riesce; e se non gli riesce, almeno per perseguitarle, inquietarle, e seminarvi mille zizzanie e divisioni. Il che sapendo, è da tenerci forti, e colla dovuta prudenza persistere costantemente nel divisamento e nella tendenza generale di unione e santa amicizia fra noi ecclesiastici. Per ciò io non posso che lodare molto il loro pensiero di essersi stretti fra loro, anche dopo la dissoluzione della Società di S. Paolo. Non so poi come possa essere loro venuto in mente di ricorrere a me, come fanno nella loro lettera; perchè io volessi servire loro di centro e di capo nella loro santa corrispondenza. Iddio sa chi io mi sono; un vero nulla, un peggiore del nulla, perchè il nulla non ha mai offeso il Signore, come l' ho offeso io, un ignorante che ha un po' d' impostura (per servirmi d' una frase di una santa persona mia conoscente), uno che ha un estremo bisogno di essere diretto e guidato a mano invece che di guidare e dirigere. A mal grado di tutto questo, e di quel più che taccio, perchè dalla loro bontà non sarei creduto, mi trovo impegnato nell' ufficio di superiore di questa piccola società del Calvario, nella quale non ci è nessuno a cui io sia degno di allacciare le scarpe. E giacchè tengo che sia Dio quello che mi ha fatto tale, mi confido in lui, che suole spesso servirsi delle cose più spregiate, e tiro innanzi; e veggo anche oggi giorno che Iddio vuole fare egli tutte le cose, essendoci io piuttosto per figura che per altro. Miei cari consacerdoti e fratelli nel Signor nostro Gesù, è mia massima di non « ricusarmi a nulla di tutto ciò che mi offre da fare la Provvidenza per gloria di Dio »: abbandonandomi così nella stessa divina Provvidenza. E fu questo il motivo che, dopo sottoposti i riflessi che credeva a' miei compagni, ho poi ceduto alla loro volontà prendendo la loro direzione e governo spirituale. Che posso dunque dir loro circa la proposta che essi mi fanno? Io non mi ricuserò neppure a loro, se persistono nel loro disegno; essi si dichiarano miei figliuoli in Gesù Cristo, ed io li abbraccierò per tali, se il Signore li conferma in questo volere. Ma, prima di fare ciò, io voglio che esaminiamo meglio la volontà di Dio, che è quella sola che noi desideriamo di fare. A tal fine adunque io li prego caldamente di occupare i tre ultimi giorni di carnevale in particolari orazioni rivolte a questo fine di conoscere in ciò la volontà divina, facendo anche in quei giorni qualche mortificazione di bocca: e il medesimo farò anch' io volentieri con Loewenbruck e con Molinari, che mi aiuteranno a impetrare da Dio il suo lume. Così uniti insieme di spirito, otterremo coll' unanime preghiera di operare giusta il voler divino. Dopo ciò adunque essi mi scriveranno se si sentono nella medesima determinazione e persuasione; e quando ciò fosse, io non mi ricuserò punto di assumere nel Signore la loro direzione, e considererò la loro unione come un' affigliazione alla piccola società del sacro Monte Calvario, che Iddio, come dicea, va benedicendo. In tal modo ci stringeremo tutti alla croce, ed avremo in questa il vero centro d' unione, la nostra àncora, il nostro libro, il nostro vessillo. Oh quanto è luogo proprio de' sacerdoti il Calvario! è qui l' altare, il sacrificio, la vittima, il pontefice. Dove tutto ciò si confermi nei loro cuori dalla voce dello Spirito, io comincierò ben volentieri a comunicare loro quelle regolette, che per ora credo a proposito di osservare, e indispensabili; le quali sul principio saranno ben poche e semplici; ma esigeranno altrettanta più cura ed esattezza nel mantenerle. Ciò che trovo per ora necessarissimo si è, che non comunichino al presente con nessuno dei loro compagni la cosa fin dopo l' orazione e la deliberazione matura; ed allora altresì è necessario che non comunichino la cosa a nessuno, senza prima averlo scritto a me. La sola persona a cui li prego di comunicare tutto è il nostro stesso Monsignor Scavini; giacchè vogliamo pendere intieramente dalla sua volontà: non gli scrivano però, ma aspettino di parlargli in voce, e gli mostrino tanto la lettera che essi hanno scritto a me, quanto questa mia risposta. Non aggiungo altro. Amiamoci nel Signore, a cui solo ogni onore e gloria. Non viviamo che per lui, non respiriamo che per lui: le altre cose non sono degne di un sacerdote nè di un cristiano: lui solo sappiamo, lui solo pensiamo, a lui solo aspiriamo, in lui moriamo. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.31 Vi assicuro che mi fu una notizia sopra modo dolorosissima il sentire che l' ubbidienza di D. G. sia molto imperfetta: perchè sperava anzi che si rendesse molto forte ed esemplare in questa virtù. Avrei volontà di scrivergli una lettera; ma prima desidero sentir da voi, se farò bene a farlo. Ditegli intanto da parte mia, che se vuol far la volontà di Dio, faccia l' ubbidienza, altrimenti non gli riuscirà bene nessuna cosa, e il suo merito andrà in fumo. Non è il far molto all' esterno che conta Iddio; ma l' aver un cuor umile, ubbidiente e diritto con Dio: « melior est obedientia quam victimae ». Vorrei che leggesse, che meditasse e che imparasse a memoria la lettera di S. Ignazio sull' ubbidienza; quella lettera dobbiamo imaginare che sia scritta a noi stessi. Se mai la nostra piccola unione potrà fare qualche cosa, sarà coll' ubbidienza. Con questa sola santificheremo noi stessi, che è il grande scopo ed unico della nostra piccola unione, perchè più della nostra santificazione non possiam desiderare. Circa il numero dei soggetti non ci pensate punto: voi altri tre siete abbastanza: il tutto sta a formarsi: non dubitate, Iddio aiuterà e ci condurrà con soavità dovunque vuole: abbandoniamoci solo a lui, e non abbiamo in vista altro fuorchè il piacergli e il riposar tranquilli in lui, contenti sempre dello stato presente senza voler di più, e riguardando sempre lo stato presente come opera finita. Ciò in cui dobbiamo essere incontentabili, e dobbiamo vederci andar ogni giorno avanti, è nell' amar Iddio, e nel camminare nella sua giustizia. Non è dunque nè pure il predicare, nè il fare grandi cose per gli altri ciò che veramente dobbiam amare; ma il purificare noi stessi, e l' osservare ogni dì più fedelmente la parola di Gesù Cristo, che è verità e vita delle anime nostre. Stiamo meditando questa parola ai piedi di Gesù con Maddalena. Se egli vorrà poi farci pur fare qualche cosa, lo farà bene: ma noi non lo desideriamo sollecitamente. Qui preghiamo ogni giorno per voi: fate così anche voi altri, miei dilettissimi nel Signore, per noi tutti. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.31 Mi scusino, se non ho risposto prima d' ora alla loro fervorosa lettera, colla quale si mostrano costanti nel loro primo divisamento, dopo fatta l' orazione, e anche nel pensiero di volere la mia infinita nullità per loro padre spirituale. Le mie occupazioni mi hanno impedito, in questi giorni passati, di potere trattenermi con loro a mio agio, come desiderava di poter fare; quest' oggi spero che mi sarà conceduto. In primo luogo, io non mi rifiuto, nè pure ora, dopo essermi raccomandato al Signore, di assecondare i loro desiderii, che mi paiono santi e rivolti tutti alla gloria di Dio, coll' aiutare la direzione che mi propongono, e considerare le loro persone come una estensione di questa mia piccola carissima famigliuola del Calvario. « Quam bonum et quam incundum habitare fratres in unum! » dico io sempre; e questa unità, per la quale è così dolce trovarsi fratelli, non intendo che sia il luogo corporale, ma Iddio, che è come il nostro luogo spirituale, nel quale è pur dolce trovarsi e abitare insieme. Or io credo di non dover punto differire a comunicar loro qualche cosa di ciò che credo indispensabile per un buon effetto al loro santo desiderio. Vi ha una massima, su cui tutta si regge la piccola società del Calvario, e che n' è la pietra fondamentale; la quale massima fino che si conserverà, non potrà mai essere altro che benedetta la società e quelli che la osserveranno. Questa massima è semplice, umile e comune; ma tuttavia noi non abbiamo altro fondamento che questo, nè altro principio di condotta, di maniera tale che tutti gli altri nostri regolamenti, che sono al presente e che saranno introdotti nel futuro, non hanno altra origine nè capo, se non questa massima, verso alla quale sono ciò che le conseguenze verso il principio, da cui derivano. Or questa massima è la seguente: « di concentrarci in noi stessi seriamente, per fare unicamente conto della salute e perfezione propria », non riguardando tutto ciò che spetta al prossimo, se non come altrettanti mezzi di piacere a Dio, o sia di santificare noi stessi. Questa massima esclude il falso zelo, col quale l' uomo è più inclinato ad essere sollecito della salute del suo prossimo che di se stesso: frutto pur troppo di una secreta presunzione che rifugge dal considerare i propri difetti, e, quasi che le cose, per rispetto a sè, fossero tutte in buon ordine, l' uomo presume di poter essere necessario alla salute del prossimo suo. La quale maniera di operare è anche segno di scarsezza di fede nella bontà e provvidenza di Dio, quasi che Dio non pensasse e provvedesse da padre a tutti gli uomini e alle anime tutte, anche senza bisogno di noi, e senza l' opera nostra. Eh! chi conoscerà Dio e se stesso si riputerà inutile, e starà basso e tutto occupato di se medesimo, piangendo i propri peccati e travagliando giorno e notte a conoscersi, correggersi, ed emendarsi. Questa è la gran fatica che dobbiamo prendere a fare, miei carissimi fratelli, e la faremo di certo, se saremo veramente umili, e conosceremo che non conviene a noi altro stato e posto che quello dispregievole ed abietto di penitenti; nè avverrà mai, se saremo penetrati da queste grandi verità, che noi di proprio moto assumiamo qualche incarico, dignità, od altro, se non forzati dall' ubbidienza, o certo dal timore di non opporci forse alla divina volontà, e così di non contraddire a quel Dio, al cui possesso solo aspiriamo. Consideriamo seriamente, miei carissimi, che, se abbiamo ottenuto l' emendazione e purificazione delle anime nostre e quindi la giustizia in noi e il possesso del nostro Dio, noi abbiamo ottenuto tal cosa, che altro non ci resta più a desiderare; noi abbiamo ottenuto il tutto, siamo pieni, siamo beati. A che dunque altro pensare, se non a ciò che Gesù Cristo ci ha insegnato in quelle parole: « porro unum est necessarium »? Oh qui conviene che semplifichiamo, e sinceriamo la nostra mente e il nostro cuore, poichè qui sta tutta la semplicità della vita cristiana. Pur troppo la nostra mente, vivendo noi in questo secolo, s' empie d' una moltitudine d' idee false, sebbene apparentemente pie; pur troppo il nostro cuore si empie di una moltitudine di falsi ed inutili desiderii, sebbene apparentemente religiosi! No, no, cacciamo dalla nostra mente tutto quell' ingombro, cacciamo dal nostro cuore quelle vane frasche, induciamoci alla semplicità del pensare e del sentire evangelico. Uno sia l' oggetto della nostra mente, come pur quello del nostro cuore: la purità della coscienza, il gusto della parola di Gesù Cristo, il possesso di Dio. Oh quanto allora saremo sgravati ed alleggeriti del fardello molesto, onde ci carica e ci aggrava la secreta nostra presunzione e la scuola sempre gonfia di questo secolo! « Venite ad me omnes », diceva appunto per questo Gesù Cristo. In somma l' unico fine della nostra unione sia la salvezza e la perfezione di noi stessi: questo è l' unico fine della Società del Calvario; e dall' intendere bene questo semplicissimo fine e dal toglierlo a praticare, ne dipenderà tutto l' esito. Ora posto questo grande fondamento, colla semplicità e unicità del quale si caratterizza propriamente e contraddistingue questo Istituto, ecco che cosa io suggerisco loro per ora. Conviene che ciascuno si faccia un librettino col titolo di « Regulae », nel quale scrivano successivamente quelle regolette e que' mezzi che io un poco alla volta verrò loro indicando secondo l' opportunità ed il bisogno. Intanto questa sarebbe la prima: « Finis huius societatis est salus et perfectio propriarum animarum ». Le altre poi che al momento presente loro suggerisco, consistono tutte in alcuni esercizi religiosi, rivolti alla purificazione dell' anima, e che conviene intraprendere con coraggio, e mantenere con fedeltà. Questi sono in primo luogo, una meditazione la mattina (se è possibile questa dee essere fatta senza libro innanzi, preparandone la materia colla lezione, o in altro modo, la sera precedente), la quale converrebbe che durasse un' ora. Questa pratica è fondamentale, ed è quella che col suo peso tiene, per così dire, in equilibrio tutta la persona. In secondo luogo, due brevi esami di coscienza avanti pranzo e la sera. In terzo luogo gioverebbe che almeno una volta la settimana si unissero loro due in una conferenza spirituale sopra argomenti i più atti a compungere il cuore, purificare l' anima, mantenere il raccoglimento e procedere in tutte le cose con sacerdotale gravità e maturità. Questi tre esercizi per ora io credo opportuni per incominciare; e, se li trovano eseguibili, scrivano nel librettino quest' altra regoletta, che sarà la seconda, colla quale vengono prescritti i suddetti esercizi: [...OMISSIS...] . Io spero che prendendo a fare con fervore e soprattutto con fedeltà questi pochi esercizi, se ne troveranno in breve molto contenti e consolati; poichè è nella lunga e seria meditazione che s' impara a conoscere se stessi e Dio, ed a stimare l' unione nostra col sommo bene, nè far più conto alcuno di tutte l' altre cose. Io adunque attendo che mi informino dopo qualche tempo dell' esperienza che avranno fatto di questi esercizi, delle difficoltà e degl' impedimenti che ci troveranno: (e il demonio certo ne metterà in mezzo d' ogni sorte per iscoraggiarli, al suo solito); e finalmente tutto ciò che mi comunicheranno intorno alle loro carissime persone, il riceverò con grande mio piacere. Una cosa, che anche loro molto raccomando, è il leggere più volte e colla massima attenzione, quel libretto che essi conoscono, intitolato « Massime di perfezione »; il quale non può dare fuori il suo gusto, se non venendo molto molto masticato e ruminato. Finalmente siamo strettamente uniti tutti nell' amore di Gesù Cristo! L' amore, che ci avremo scambievolmente, sarà il segnale che saremo i suoi discepoli. Preghiamo senza intermissione; e nell' orazione troviamoci tutti uniti; e, massime all' altare, siamo un cuor solo ed un' anima sola, giacchè all' altare spezziamo un solo pane che ci nutre tutti e ci vivifica d' una stessa vita, e simboleggia la nostra ineffabile unità. Viva dunque Gesù, di cui siamo tralci; viva Maria nostra madre tenerissima e nostra speranza, che è il tralcio maggiore della vite! [...OMISSIS...] 1.31 Vi scrivo poche linee solamente, perchè mi stringe ora il tempo, avendo assunto di fare il quaresimale in questa città, ed alle prediche debbo prepararmi d' un giorno all' altro: pensate voi! Vi ringrazio intanto di tutto quello che avete fatto; i consigli di Monsignor di Cremona li seguiremo fedelmente. Vi torno a raccomandare che con altri punto non parliate, ma se avete qualche cosa da discutere intendetevela con lui solo per l' affare nostro. Mi è anche di somma consolazione il sentire, che vi sia penetrata bene quella nostra massima fondamentale, di non occuparci che dei nostri doveri presenti, troncando tutti i desideri nostri con un sol colpo e lasciando fare a Dio in tutte le cose. Eh se Iddio ci desse la grazia di essere suoi servi fedeli, di mantenere la sua santa parola in noi, non basterebbe? che più potremmo desiderare? così poco conto vogliamo fare della sua grazia? Lungi da noi il zelo disordinato ed inquieto, che viene dal falso spirito, e per la strada della fantasia entra a turbarci l' animo. Teniamo ben fermo, che vogliamo una cosa sola, salvare e perfezionare noi stessi: che quindi la nostra Società sia grande o piccola, è sempre perfetta, perchè può sempre ottenere il suo fine. Circa le conferenze ve le raccomando: e vorrei che si ravvolgessero massimamente sulla vita interiore e religiosa... Vi raccomando di raffrenare Don Giulio dove eccede, perchè è molto importante la prudenza e la semplicità. Calcategli ben in mente che Iddio non ha punto bisogno di noi miserabili per fare il bene, e che se noi saremo veramente umili e ci terremo buoni da nulla, come siamo, ci terremo assai indietro, e non assumeremo mai le cose di nostro moto, ma solo per ubbidienza; e anche allora tremando. Oh è pur fina la nostra presunzione! Ma sia Maria Santissima il nostro modello, e la maestra di quella vita occulta, che era meglio che la conversione del mondo intero. E` Iddio sopra di noi; è egli solo che può qualche cosa. E siamo noi tali che non troviamo da occuparci di noi stessi? non abbiamo più nulla a fare in casa propria? tutto vi è in ordine? [...OMISSIS...] Il libretto delle Massime conviene convertirlo in succo e sangue, non basta averlo letto qualche volta; ed io n' ho veduto degli ottimi effetti, non già alla prima lettura, ma dopo essere molto meditato. Egli serve ancora di testo per le nostre conferenze, e per ciascuna se ne dà una piccola particella, la quale è anche il soggetto della meditazione di quel giorno, nel quale si tiene la conferenza. Non dubitiamo punto; abbandoniamoci interamente nel Signore, mio carissimo. Pregate tutti per noi, noi qui preghiamo tutti per voi. E` nell' orazione che si fanno le cose. Addio. Le poche linee sono divenute molte senza accorgermi. Tenetemi informato di tutto, abbracciatemi i compagni, ed amatemi nel Signore, come io v' amo. Ciò che potreste inculcare a Don Giulio si è che attenda molto alla sua cattedra come all' affare principale. Questa è la volontà di Dio: altre cose può esser dubbio se sieno: attendendo bene allo studio della teologia, farà buon fondamento che gli sarà utile assai: non lasci passare il tempo. [...OMISSIS...] 1.31 Se il signor Prefetto non si unirà con noi non fa niente, mio caro: non siamo punto solleciti; n' avremo abbastanza se potremo migliorare le anime nostre. D' altro lato non vi fidate di nessuno, se non della Provvidenza di Dio. Non si può a principio dire chi entrerà o no. Talora quelli che parevano i meglio disposti, venendosi al punto, « respiciunt retro »; si trova all' incontro della generosità dove meno s' aspettava: « Spiritus ubi vult spirat ». Di noi stessi in somma siamo unicamente solleciti, e di conservare la pace interiore. Stiamo quieti pensando all' edificio interiore; e sia la nostra divisa quella dell' Ecclesiastico: « Humiliare Deo et expecta ». Godo che le Conferenze sieno riprese e che pur vadano bene. Ciò che molto giova si è il non passar leggermente sulle verità sante, che si prendono per soggetto delle medesime; ma calcarle molto molto nella mente, e cercar veramente l' edificazione e la compunzione. Il gran lavoro è la perpetua purificazione di noi stessi, la fame e la sete della giustizia. Null' altro amiamo che la giustizia: ecco il tutto; qui sta la semplicità della nostra vita. Vi prego di fare da parte mia ringraziamenti e complimenti a monsignor Sardagna, che ho veduto già preconizzato dal nostro Sommo Pontefice. Abbracciate teneramente don Giulio, e tutti gli altri a cui posso estendere questa affettuosa confidenza. 1.31 Ella mi fa cuore perchè io ponga mano alle teorie sociali. M' invita ad un arringo pieno di passioni, e dove la verità è come una pecora in mezzo ai lupi. Tuttavia, Le dirò sinceramente e senza affettazione, il mio cuore non sa temere nella causa della Verità, della Religione, dell' Umanità, che è pure una causa medesima; e all' amor dell' unico bene che io m' abbia, è ben poco qualunque sacrifizio; è il tesoro nel campo, pel quale si vende anche tutto il suo. Perciò le passioni ed i pregiudizi degli uomini non mi ritrarranno mai, coll' aiuto di Dio, dalla manifestazione di questi principii, che credo gli unici salutari per la Chiesa (che è la gran Società) e per gli uomini tutti. Meno mi affido delle mie proprie passioni e de' miei proprii pregiudizi. Perocchè finalmente debbo sospirare e dire: se questi sono i pregiudizi comuni, e chi mi scuopre quali siano i miei? Tuttavia l' intima persuasione è sempre rispettabile, e quella che produce nell' uomo la verità è tanto forte, che non l' agguaglia giammai la persuasione dell' errore: e tale è quella persuasione che si è creata in me, dopo lunga e paziente meditazione di quella Teoria filosofica , di cui non ho finora messo in pubblico che la radice. Io desidero che questa radice prenda; se prende, apparirà potente e in un modo inaspettato feconda. Ma perchè prenda ci vogliono delle menti forti, e degli animi nobili e nuovi. Egli è inevitabile uno studio grande e la più quieta meditazione. Questa, a dir vero, nuoce al pronto sviluppo del mio disegno, perchè il carattere del secolo è pur troppo l' impazienza e la fretta. Nulla di meno io non m' arretro, e spero. E` nell' ordine della divina Provvidenza che io pongo molta fiducia ed in que' semi indistruttibili che l' Evangelo ha seminati nell' umanità, e che in ogni secolo appunto mandano de' frutti nuovi d' una radice vecchia, de' fiori d' una bellezza incognita per addietro, e che conviene riconoscere come spuntati dalla parola di Cristo, e con amore cristiano coltivare. Guai, se, perchè il frutto ed il fiore è nuovo, per questo si disconosce figlio dell' antica e onnipotente pianta! Si fa contumelia a quella radice stessa divina; si fa onta a quel tesoro, dal quale il padre di famiglia profert nova et vetera . Ma si può essere tuttavia ingannati nel discernimento di fiore da fiore, e di frutto da frutto: e può cogliersi il frutto della scienza che porta la morte, credendosi di cogliere il frutto della vita! Per evitare un sì deplorabile errore non v' è altra via che l' umiltà e l' orazione, colla quale si consulta il Padre stesso della verità e della vita. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.31 Mi duole di non avere trovato tempo fin ora da rispondere alla loro lettera, che mi è riuscita cara anche più delle altre, perchè piena di quel desiderio di arrivare ad una perfetta emendazione dei propri difetti, che Iddio suol sempre coronare coll' esito più felice. Sì al certo, miei cari fratelli, è impossibile che a lungo andare Iddio non conceda la grazia della emendazione dei nostri tanti difetti, della guarigione delle nostre tante infermità a chi la vuole questa grazia, a chi la domanda, a chi con vera semplicità cerca di conoscere se stesso, cerca di conoscere l' abisso della propria originale corruzione inviscerata pur troppo con noi, a chi la manifesta con candore, con pienezza, con costanza ai padri spirituali, per mezzo dei quali suole Iddio operare comunemente la purificazione delle anime. Siccome adunque i nostri nemici, e le nostre male inclinazioni, la nostra superbia, la nostra pigrizia, la nostra leggerezza non cessano di farci guerra e di tentare la nostra ruina; così anche noi non dobbiamo cessare mai di penetrare sempre più a fondo nella cognizione della nostra malizia e impotenza infinita, di confessarla, di domandarne aiuto, di umiliarci sotto tutte le creature, di rinnovare ogni giorno i nostri proponimenti con viva fede nella divina misericordia, e di acquistarci ciò che ci manca, sodezza, risoluzione, ordine fermo, interiore ed esteriore raccoglimento. Pur troppo il demonio si scatena più fiero allorquando noi facciamo la risoluzione di darci a Dio solo, a Dio interamente: lo dice la Santa Scrittura: [...OMISSIS...] Ma egli è certo ancora che col seguitare a combattere senza ristarcene mai, noi siamo sicuri della vittoria, che Iddio ci ha destinata. [...OMISSIS...] Oh è pur questa sicurezza nella misericordia di Dio di riuscire bene ne' nostri combattimenti colla sofferenza e con la perseveranza un dolce conforto, un incoraggiamento il più efficace! Gli sforzi, le fatiche, le pene nostre non sono mai perdute, nè pure allorquando ci sembra di non potere fare alcun passo innanzi, e di essere freddi e pesanti nella via del Signore, anche allorquando il Signore medesimo sembra sordo alle nostre querele, e pare che ci abbandoni, anche allorquando ci lascia cadere sventuratamente in peccato. Allora è il tempo più che altro mai di vivere di fede, allora è il tempo di ricorrere con più umiltà all' abbandono in Dio, che si compiace tanto dei peccatori che sperano da lui la salute e che contra la sua giustizia nella sua misericordia si rifuggono, cercando in lui protezione contro di lui. Ah sì, « humilia respicit »! e le nostre cadute non sono bene spesso permesse se non per deprimere la nostra superbia; giacchè fino che siamo superbi, egli non può esercitare quella misericordia che pure vuole con noi esercitare. Perciò non umiliandoci noi abbastanza, egli rompe la nostra presunzione stolta coll' abbandonarci a noi stessi, e mostrarci col fatto, che d' altro non siamo capaci se non di male. Copriamoci adunque di vergogna per la nostra tanta presunzione, di cui portiamo la radice nel peccato originale, e che sempre resta in noi; ed ogni cosa facciamo, tanto internamente quanto esternamente, che più ci abbassi e valga a procacciarci un disprezzo infinito di noi stessi. Perciò nel doppio esame di coscienza, che noi facciamo a mezzo giorno e la sera, esaminiamoci particolarmente sulla rettitudine d' intenzione nelle nostre operazioni. Spiamole per vedere se si mescolano nel nostro operare fini di amor proprio e di vanità; se cerchiamo l' approvazione degli uomini, e non ci contentiamo di quella di Dio; se lodiamo direttamente o indirettamente noi stessi nei nostri discorsi, se aspettiamo lode dagli altri. Guerra implacabile a questi vizi! Discendiamo alla pratica, ed ogni volta che ci troviamo colpevoli, consideriamo le cagioni che ci hanno condotti in queste miserie, le occasioni nelle quali siamo caduti, i compagni, la natura della conversazione forse troppo leggera ed oziosa, ecc.. Consideriamo ancora i mezzi necessari per correggerci di un tale difetto, le ammonizioni scambievoli, le aperizioni di coscienza frequenti, le domande a Dio particolari rivolte ad ottenere la grazia della vigilanza e forza nella tentazione, le umiliazioni esterne, le penitenze, i proponimenti ripetuti sovente, le proteste ed assicurazioni a Dio, riconoscendolo come unico nostro bene, unico amore, unica felicità, fuori di cui niente vogliamo, ecc.. Così partiremo dall' esame rinforzati, massimamente se metteremo poi di mezzo la nostra cara Madre Maria Santissima che tutto ci otterrà dal suo divin Figliuolo. Lo stesso facciamo anche nella meditazione, giacchè la guerra contro la superbia deve essere continuata e perpetua. E facendo così, non dubitiamo punto: il Signore ci renderà poverelli di cuore e semplici, scopo dei nostri voti. A questi progressi contribuirà il conservare il maggior possibile raccoglimento esterno, evitando il troppo parlare, il ridere e la disoccupazione, e custodendo in quella vece più che si possa il silenzio, un' amabile serietà, e un continuo lavoro alla presenza di Dio e con aspirazioni. Credo poi necessario prendere un solo libro per la materia della meditazione, il Da Ponte stampato dal Marietti a Torino. La conferenza gioverebbe che fosse stabilita in giorni fissi; facendo tutti e due la stessa meditazione, essa potrebbe servire anche per materia della conferenza, come si fa al Calvario. Mi riserbo ad aggiungere qualche altra regoletta da scrivere in sul libretto in un' altra mia. Intanto qui finisco. Supplico la loro bontà di orazioni per tutti noi: io celebro ogni giorno messa unicamente per me e per gli miei cari compagni. Li ringrazio della nota de' soggetti atti allo scopo. Qualcheduno di essi mi ha già scritto. Faccia il Signore, che pare voglia accrescere la nostra piccola società: egli sia lodato in eterno. Io me ne devo restare qui qualche poco per affari appunto della piccola società del Calvario. Mi possono scrivere qui direttamente dove le lettere mi vengono sicure. Io sono pur sempre al Calvario col cuore e in mezzo di loro. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.31 Aveva già sentore dell' afflizione vostra, pel male ripetutosi ed incalzatosi del buon Matteo, e gran dolore aveva provato del dolor vostro e suo. Ora me lo confermate e con più vivi colori. Io non so se non ripetervi quello che vi sapete, e che è pure un sommo conforto a chi l' intende, che noi non siamo fatti per questo misero luogo, ma per un altro migliore: che poniamo in codesto altro luogo migliore tutti gli affetti nostri, perchè non saremo allora più turbati, nè ingannati nella nostra aspettazione. Ah! solo il cielo è il luogo nostro, il luogo sicuro, ove riporre ogni nostro tesoro: colassù il tesoro nostro non può perdersi nè logorarsi. Ogni cosa cara all' incontro, fin che l' avremo quaggiù in terra, ci sarà sempre cagione di affanno, perchè sempre in cimento di esserci tolta, e in una sicurezza che in ogni modo ci sarà tolta. Viviamo dunque coll' anima nostra nel cielo, in Dio: ecco l' unica via di giungere alla pace ed alla consolazione. Il cielo, il nostro Dio non ci sarà tolto giammai; e con questo solo avremo tutto, in questo troveremo tutto, anche ciò che avremo perduto. Così fece Gesù Cristo, nostro esemplare, così fecero i Santi: e coll' affetto del gaudio tollerarono e sostennero ogni temporale sciagura, e si poterono perfettamente conformare alla volontà del celeste Padre, anzi in essa giubilare. Io non vi dico altro, se non che tutte queste cose che già sapete, e che me pure confortano, riusciranno di tanto maggiore alleviamento al vostro dolore, quanto più, raccomandando voi e i vostri cari alla nostra cara madre Maria Santissima, ella vi otterrà il soccorso al di fuori, ed il conforto al di dentro. Consolatevi ancora nell' amicizia fraterna che dimostra il caro Raffaello, e nella bontà e pietà delle figlie che ben vi compensano con tanta loro virtù e col loro affetto... [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.31 Ciò che mi scrivete della gragnuola mi ha passato il cuore. Non c' è che mirare alla mano in cui sta la verga per consolarci, e son ben certo, e il veggo già dalla vostra lettera, che dalla meditazione della bontà paterna di chi percuote voi sapete derivare consolazione e per voi stesso abbondante e per altrui. Ah mio caro è pure una grande stretta al cuore il vedere una famiglia così prostrata in un istante nelle fortune, e la famiglia propria o quella d' un caro amico! Ma via, anche in tanta desolazione la fede non vede che un decreto di bontà! viviamo dunque di fede; e quel Dio che umilia innalzerà, quel Dio che mortifica vivificherà. Io non mancherò di aggiungere le mie povere orazioni raccomandando voi e l' afflitta vostra famiglia al Signore che dà abbondanza, « et non improperat ». Nell' altra parte della vostra lettera voi dite di sentire degli stimoli di vocazione divina, ma mettete un ostacolo fra gli altri nel vostro stomaco debole, il che m' avete toccato più volte. Vi risponderò ora, che non c' è nessuna regola fra di noi che obblighi ad avere uno stomaco forte, che pur troppo e la fatica e l' età non risparmia nè privilegia la complessione di quelli che sono ascritti in questo piccolo Istituto, ma siamo soggetti alle stesse miserie degli altri; che non avendo l' Istituto per fine essenziale se non la propria santificazione, per sua natura riceve anche i vecchi, anche gli infermi (quando però i superiori per non impedire un maggiore bene non reputassero talora di non riceverli); che non ci sono regole fisse che determinino il cibo e le altre cose occorrenti, se non quella dei primitivi cristiani, che avendo messo tutto in comune, si distribuiva poi come si legge negli atti degli Apostoli « prout unicuique opus erat ». Una cosa vi è da osservarsi, che in quanto ai propri bisogni corporali, come pure nelle altre cose, nessuno è giudice in causa propria, nè pure il superiore, a cui viene assegnato chi pensa per lui; che tutto viene regolato e dispensato dall' ubbidienza; che quindi può avvenire talvolta che alcuno abbia da soffrire, ma chi non ha da soffrire a questo mondo? e questo caso deve ben essere raro in una società, in cui nulla è più raccomandato che la dolcezza verso gli altri (si chiama della carità) e il rigore per sè. Più frequente deve essere quel caso, nel quale uomini ferventi dimenticherebbero sè stessi, se il proprio superiore non provvedesse loro; ed è questa la principale ragione per la quale si attribuisce a tutti chi abbia cura della sua salute, e dei suoi bisogni. Finalmente è indispensabile, che chi si dà a Dio si abbandoni anche a Dio ed alla sua provvidenza, e si prepari un animo contento di ciò che è sufficiente: [...OMISSIS...] . Per altro tutto questo affare versatelo con Dio in una orazione umile e generosa, colla quale non dimandiate che la sua gloria e la vostra salute; ed egli vi esaudirà. Aggiungete in questa orazione anche il miserabilissimo vostro amico. [...OMISSIS...] 1.31 La lettera, che avete avuto la bontà di scrivermi nella festa della nostra Mamma assunta in cielo, mi apportò una grandissima consolazione spirituale, perchè mi ha dato notizie vostre che molto desiderava, nè sperava così presto d' avere, e molto più perchè la trovai piena di quei sentimenti, coi quali vivendo voi, non potrete, per la grazia di Dio, che menare una vita piena della pace del Signore e assicurare la vostra eterna salute. Oh sì che non vi è altro, mio caro signor Phillipps, che ci possa dar vera e soda e inesausta consolazione, se non il vivere distaccati dalle cose terrene, e coll' anima in cielo, aventi sempre la memoria di Dio e del nostro Signor Gesù Cristo, non meno che della sua amatissima Madre, nostra gloria e letizia. Io me ne congratulo con voi, io ne ringrazio il cielo, io vi scongiuro a perseverare su questa via sino alla fine, ed a mettere ad effetto, colla grazia del Signore e colle sue sante ispirazioni, tutti i vostri proponimenti pii e salutari. Vi ringrazio ancora della confidenza che mi usate aprendomi il vostro cuore, il più bel segno di cristiana amicizia che mi poteste dare, e raccontandomi il combattimento che sentite in voi stesso, necessario per vincere la miseria umana, e conseguire quella perfezione a cui vi sentite chiamato. Ah! mio caro sig. Phillipps, è questa pur troppo la condizione della nostra natura, guasta radicalmente: il germe della superbia, innato con noi, è pur troppo il più profondo dei nostri mali, è una fistola che incancrenisce irrimediabilmente, se il miracolo della grazia divina, cooperando gli sforzi della nostra volontà, non la sana in noi. Perciò io vi consiglio e conforto a cercare tutti i mezzi possibili per umiliarvi e acquistare il santo disprezzo di voi stesso, mettendovi l' ultimo fra tutte le creature, e colla carità la più effusa verso tutti gli uomini e massime i più poveri, bassi, abietti ed afflitti, rendendovi servo di tutti per Cristo: in essi onorando Cristo, e imitando Cristo che venne per servire e non per essere servito. Ed a voi è più necessario operare tutto ciò che fate, con questo sentimento, in quanto che, avendovi Iddio posto in alto grado nella società e dato dei beni temporali, più facilmente potete essere offuscato dalle vanità del mondo, e d' altro lato più facilmente servire Dio ne' vostri prossimi con grande merito vostro. Ed è questa umiliazione e carità e dolcezza che renderà efficace poi il vostro zelo per la salute delle anime, se Iddio, come credo, in ciò vi ha eletto, per la sua grande misericordia, suo strumento, e pel bene che ne ridonderà a cotesta vostra patria, tanto degna d' affetto, a cui non posso pensare, senza sentirmi intenerire e piangere il cuore, quando penso che ella era una volta l' Isola de' Santi, e che poi il demonio così la pervertì e travolse miserabilmente; nè avrebbe trovato come fare ciò, se non avesse trovato negli uomini già entrato miseramente l' attacco disordinato ai beni temporali, che è il principio d' ogni sciagura, e agli interessi di questa misera vita, e la superbia. E` dunque una grazia grande quello che Dio vi fa col darvi lume a conoscere la perfezione a cui vi chiama, e voglia di conseguirla: ed è un obbligo questo che dovete adempire. E per venire alla minima nostra società, non so se sappiate che appunto il fondamento di essa è la perfezione dell' anima propria; e che tutto il grande scopo di essa si è di aiutarci insieme a conseguire un tanto fine. Laonde per sua natura ammette in sè tutti quelli che desiderano ardentemente la perfezione; ancorchè la divina Provvidenza li voglia nel secolo, come voi, che sento dalla lettera vostra in trattato di presto sposarvi: nel che vi prego ogni benedizione, acciocchè la compagna che Dio vi destina, sia una cosa con voi nel Signore, e vi sia non solo di aiuto in questa vita, ma d' aiuto anche per l' altra. Dico che nella minima società nostra possono entrare anche persone che sono nel secolo (purchè non pensino co' principii del secolo), quando il vogliano; poichè ai Religiosi propriamente detti sono congiunti e affratellati di quelli che si dicono ascritti e che, vivendo nel secolo, hanno però tutta la congiunzione possibile di carità e partecipazione di opere buone coi nostri, anzi sono propriamente nostri; e unitamente nel loro stato travagliano tutti alle opere della gloria di Dio e della carità dei prossimi, quando e come la divina Provvidenza dimostra di volere. Il che vi dico per vostro lume, e fors' anco per vostra consolazione, muovendovi Iddio a prendere tanta parte alla minima nostra società; della quale pure è questo principio « di fare qualunque cosa che appartenga alla gloria di Dio e alla carità del prossimo, in qualunque paese, purchè sia dimandata, e di contentarsi poi di tutto ». Per il che circa i mezzi di sussistenza in Inghilterra, sa Iddio cosa ci vuole; non vi date punto alcuna pena, perocchè poco veramente ci basta, e se non ci fosse anche nulla affatto, desiderandolo il Vescovo, ci verremo nulla ostante: vivendo con quello che abbiamo del nostro, fino che ce n' è, e poi confidando nella Provvidenza: chè di fame nessuno è mai morto di quelli che travagliano per Iddio, avendo questo Signore de' granai in abbondanza da mantenere gli operai che egli solo chiama e conduce nel campo. Bensì infinitamente vi ringrazio del zelo che avete per una tale opera, che Iddio solo sa quali effetti produrrà per l' onore e gloria sua in Inghilterra, e delle parole che avete già fatte col vostro Prelato, e di quelle che volete fare col piissimo Conte Shrewsbury; nè dubito punto che la fondazione per l' opera vostra non debba avere luogo. Anzi perchè sappiate come stiano le cose fra noi, il caro Gentili è qui meco al Calvario, e ne ho qualche altro, che sto preparando, quando e come al Signore piacerà, per l' Inghilterra; giacchè non c' è, si può dire, cosa che mi stia più a cuore di questa. E voglio unirvi alla presente una lettera dello stesso Gentili, acciocchè sentiate anche i suoi sentimenti, e siate anche con essi maggiormente consolato. Iddio benedice manifestamente le cose nostre. Una nuova fondazione abbiamo ora fatta nella città dell' ultimo sacrosanto Concilio Ecumenico, che fu contro tutte le eresie moderne: e penso che non senza significato ci abbia la divina Provvidenza chiamati in Trento, dove fu il Vescovo che ci volle; e le cose procedono, per la sola grazia di Dio, assai bene. Avrei altre chiamate, ma non voglio troppo allargarmi, procedendo anche in ciò dietro i consigli, che ebbe la degnazione di darmi il nostro Santo Padre Gregorio XVI; al quale sta tanto bene, per la uguaglianza del nome col Magno che convertì l' Inghilterra alla fede, che egli ci mandi costà. In quanto a noi, spero che in men di due anni saremo preparati. Ora è tempo da pregare assai, e da disporci: voi dalla vostra parte, noi dalla nostra. Ma, come dico, soprattutto è da farci orazione molta. Oltre le private, facciamo anche noi nelle nostre case orazioni in comune per voi, mio caro, e per i santi vostri disegni e desiderii sull' Inghilterra, acciocchè Iddio il tutto benedica, secondo il suo divino beneplacito, nel quale riposiamoci pur tranquillamente: e dicendo per i vostri santi desiderii sull' Inghilterra, intendo in primo luogo per la salute di quelle anime che vi sono più care, cioè per la salute del padre vostro e della vostra famiglia. L' inquietudine d' Inghilterra e del mondo è certo a bene ed a trionfo della santa Chiesa; e anch' io, mio caro Phillipps, aspetto delle glorie nuove ed inaudite, che sono per venire alla Chiesa di Gesù Cristo, in adempimento di tutto ciò che profetarono « sancti qui a saeculo sunt », e che non è ancora pienamente compito. Tale e tanta debba essere la gloria di Gesù Cristo ancora in questo mondo, che ogni cogitazione umana e speranza dei buoni trapassi e vinca. Non ho però coraggio di applicare ancora i mille anni dell' Apocalisse, di cui voi mi parlate. Il Signore sa tutte le cose, egli conosce i tempi ed i momenti, « et abscondita », come disse Giobbe, « in lucem produxit ». Noi teniamoci al sodo della sua santa ed adorabile legge: qui abbiamo tutto: massimamente preghiamo. Nel santo sacrifizio che indegnamente celebro ogni mattina voi, mio caro Phillipps, siete ricordato, e il sacrificio stesso nol celebro, se non per questo, insieme cogli altri affari riguardanti la gloria di Dio e della minima società nostra. Di questa vi manderò poi, se mai voi vorreste mostrarla ad alcuno secondo la vostra prudenza, qualche piccola descrizione. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.31 Giunto a Trento felicemente, dopo essermi trattenuto in patria qualche giorno, ho subito portati i suoi complimenti a sua Altezza Rev.ma e presentata la lettera che mi ha consegnata...... Ora mi permetta che io scriva quello che non ho potuto dire, per la ristrettezza del tempo che mi sono trattenuto in Verona, nell' ultimo mio passaggio, circa l' obbiezione delle troppe incombenze che si propone di assumere l' Istituto della Carità, come io il concepisco. Dissi già che questa obbiezione riposa sopra un falso supposto; ma non ho potuto rendere ragione di questa mia risposta. Il falso supposto è, che questo Istituto si proponga tutte le opere di carità indistintamente: ciò non è al tutto vero. Egli ha un' opera sola determinata che si propone, e, quanto a sè, non si propone null' altro, e quest' opera si è la santificazione dei membri, dei quali l' Istituto si compone. In questo punto differisce molto dall' Istituto dei Gesuiti, che si propone due scopi principali, la santificazione propria, ed ancora l' altrui. Il fine del nostro Istituto è più semplice, perchè non ha per iscopo principale ed ultimo se non la sola santificazione propria; e quindi egli è un Istituto radicalmente contemplativo, di vita quieta e privata, quale conviene al sacerdote semplice, o al laico che aspira alla perfezione evangelica. E` un errore, pur troppo diffuso a' nostri giorni, il credere che la professione del sacerdote importi di sua natura la cura d' anime, quando anzi è il solo Vescovo che, di sua natura, è Pastore, ed i Sacerdoti non hanno alcuna missione, se non quella di pregare e di sacrificare per sè e per il popolo, quando però il Vescovo non li chiami e non li mandi. Essendo dunque proprio del laico e del sacerdote semplice la vita umile, occulta e ubbidiente, e perciò l' orazione e lo studio; di questo genere di virtù e di vita si fece lo scopo vero d' un Istituto, cioè del nostro, che si compone di persone private, legate insieme per santificarsi mutuamente ne' doveri del proprio stato. Lo scegliere questo, piuttosto che un altro fine, non era nè pure in mio arbitrio, giacchè è il fine, da cui non si può prescindere, essendo stabilito non da me, ma da Dio: e l' aggiungere a questo l' impresa di qualche opera di carità esigerebbe una speciale missione, una speciale manifestazione della divina volontà, una ispirazione straordinaria, cose che sono bensì proprie de' santi, ma non di me miserabilissimo peccatore, e se anche ai peccatori Iddio manda di tali vocazioni straordinarie, a me però non le mandò punto. Egli è bensì vero che a Dio non si può legare le mani, e che anche quei laici e quei sacerdoti che pensano a se stessi, assumendo per divisa quello dell' Apostolo, attende tibi , possono essere da Dio chiamati all' esercizio di qualche opera di carità, e ciò, non solo in modo straordinario, ma anche per le vie ordinarie. Perchè essendo tutti gli uomini, in generale parlando, obbligati all' esercizio della carità del prossimo, e tanto più quelli che si propongono la perfezione, egli è manifesto che, ogniqualvolta il prossimo ci domanda d' aiuto, e noi possiamo aiutarlo, ci incombe l' obbligazione o almeno il consiglio di farlo. In tal modo anche i semplici cristiani sono tirati da una necessità morale ad esercitare delle opere di carità, in certi casi, e molto più i sacerdoti, e quelli che aspirano alla perfezione. Perocchè in questi casi, ricusandosi, non provvederebbero alla propria santificazione come desiderano, ed unicamente desiderano. All' incontro nessuno è obbligato, e, oso anche dire, nessuno è consigliato (senza una particolare vocazione) di andare a cercare le necessità del prossimo, perchè il prossimo, a cui dobbiamo accorrere, non è già rappresentato nel Vangelo in un infermo cercato, ma nel Samaritano trovato sulla strada. E Gesù Cristo stesso menò vita occulta per trent' anni, per darci una lezione contro il falso zelo; ed anche quando uscì nella vita pubblica, si restrinse alle cose della sua missione, e non cercò punto gli infermi per risanarli, ma gli venivano portati, e ci volle molta instanza dalla parte della Cananea per essere esaudita, dicendo egli: « Non sum missus nisi ad oves quae perierunt domus Israel (Mat. XV) ». Quando adunque c' è la petizione e l' istanza del prossimo, anche persone prive di generale missione sono certo obbligate o consigliate a prestarsi, ed in questi casi la volontà di Dio e la missione è quindi manifesta. Ora queste sono le opere di carità che assume di esercitare l' Istituto della Carità, perchè a queste non può ricusarsi, per la natura stessa del suo unico e semplicissimo fine. Ella qui soggiungerà che, appunto per questo che le opere di carità non sono determinate, si viene con ciò stesso ad assumerle tutte. Ma io rifletto che nessuno può mettere legge alla Provvidenza, alla quale sola spetta di determinare le opere di carità che ognuno di noi è chiamato ad esercitare; e che non è in nostro arbitrio di escludere un' opera buona, che in virtù delle circostanze noi siamo obbligati o consigliati di assumere; e che basta assumere queste opere di carità prudentemente . Questa è la condizione di tutti i cristiani e di tutti i Sacerdoti: e chi ci autorizza a restringere la legge di Dio, e limitare il Vangelo? La carità non è di sua natura universale? Posso io arbitrariamente prefiggermi di esercitare la carità solo per metà, in una specie di cose sì, e in un' altra specie no? Se fu la Provvidenza, quella che m' impegnò in qualche opera, certo sono dispensato di occuparmi in altra, dove non giungessero le mie forze; ma farmi da me stesso una legge di non estendermi fuori di certe opere determinate, questo non saprei come farlo, senza restringere la legge evangelica, cioè farmi un Vangelo mio proprio; molto meno saprei imporre una simile restrizione e limitazione ad altri. Ma con ciò si viene a condannare gli altri religiosi Istituti. - No, certamente: Dio me ne guardi; ma si viene bensì a dire che i santi Fondatori de' religiosi Istituti avevano dei lumi grandi soprannaturali, una missione straordinaria: e con questo intendo di fare il più grande elogio de' religiosi Istituti. E non dubito punto che quella santa dama, la Marchesa Canossa, non abbia una ispirazione straordinaria, se fonda i Figli della Carità in quel modo che li ha concepiti; perchè è somma la stima che ho per Lei, e ciò non mi maraviglierebbe punto: massime avendo avuto un simile straordinario impulso per la formazione delle Figlie della Carità , che è manifestamente opera di Dio. Ma la mia miserabilità è infinitamente lontana da queste cose: ed io non posso che trascinarmi per le vie le più ordinarie e comuni; e Dio sa con quanta imperfezione vada anche per queste vie; e se non fosse la bontà de' miei compagni, l' Istituto della Carità non procederebbe così facilmente tanto nella Diocesi di Novara, come in questa, anzi nè pure starebbe in piedi. La condizione dunque nostra, e quella dei laici e dei preti secolari, è la medesima; e la necessità che abbiamo, sì gli uni che gli altri, si è di assumere le opere di carità, offerte dalla divina Provvidenza, prudentemente . Ma nell' osservare questa prudenza, c' è però un vantaggio notabile nell' essere in congregazione sopra il non essere: perchè qui ognuno non giudica in causa propria, ma è diretto dal giudizio del superiore, e non riceve incarichi, se non dopo che il superiore ha giudicato che convenga riceverli per ubbidire a Dio, la cui volontà nelle circostanze esterne si manifesta. Un altro vantaggio notabile dell' essere uniti insieme, si è quello di potersi aiutare scambievolmente e prepararsi meglio a fare con generosità di cuore ciò che a Dio più piace, e non ciò che il proprio capriccio, o almeno l' inclinazione vorrebbe, sotto il pretesto di zelo. Un terzo vantaggio ancora si è quello che, volendolo Iddio, un corpo di persone può esercitare degli uffizi caritatevoli più estesi, che persone singole sparpagliate. E a questo proposito dell' esercitare la carità esternamente, mi ricordo che Ella mi disse, non sapersi persuadere, come si potrà regolare bene un corpo di persone, che vivono anche fuori delle case. Ma conviene considerare che il fondamento della società sono le case, e che quelli che stanno fuori, non sono che un sopra più, degli ausiliari comodi per certe opere, nelle quali, adoperando degli interni, si metterebbe forse a pericolo il loro spirito; sicchè la società potrebbe sussistere anche senza queste braccia esterne, ma l' avere qualche aiuto di più non sarà male. Tanto più che la carità vuole che, se qualche esterno desidera di partecipare de' beni della società, non lo si escluda, e l' escluderlo sarebbe uno di quei principii arbitrarii, ai quali io fo sempre guerra in tutte le cose. Sicchè gli esterni vengono come per una conseguenza dello spirito della società. La prego, Monsignore, di scusarmi se ho scritto così a lungo; e con la consueta venerazione implorando la pastorale sua benedizione, di cuore sincero mi onoro di essere... [...OMISSIS...] 1.31 Con questa mia non posso rispondere a tutti i punti della vostra lettera, come vorrei, per la scarsezza del tempo, e per altre cagioni: ma risponderò poi con comodo a tutto. Portate dunque pazienza per ora e ricevete quello che vi posso dare, che è forse il principale. Ricordatevi che la pazienza e il sapere aspettare è di sommo momento per noi; che io sono nemico della fretta, e che mi è carissima oltre modo, e vorrei da tutti i nostri praticata quella virtù che si chiama della longanimità , tanto nelle divine Scritture lodata. Ecco adunque le poche cose che ho da osservarvi per ora. Mi piace che si diano ai novizi delle meditazioni tutte al loro scopo, e son certo che ci guadagneremo. Quello che vi raccomando in visceribus Christi si è di non ostentare con essi la minima autorità, ma di trattarli con una dolcezza e carità senza fine, sopportando i loro difetti con vera longanimità e pazienza, non volendoli far correre più che non possano le loro forze; ma solamente conducendoli a mano d' un gradino all' altro per la scala delle virtù. Conoscendo noi stessi, avremo infinita benignità ed indulgenza verso gli altri. Qualunque guadagno si faccia, ringraziamone il Signore; perchè anche quello è dono suo, e non viene dall' uomo. Circa i difetti poi conviene bene spesso dissimularli, ove la correzione o la penitenza fosse superiore alle forze morali del novizio; verrà altro tempo più opportuno, ed allora si dee cogliere il destro della correzione. Sopra tutto rare volte avviene che la correzione, fatta sul punto del mancamento, giovi. Il più delle volte conviene lasciare tranquillare l' animo dello sviato, e nel momento di tranquillità e benevolenza, quando anche meno la si aspetta, fargli allora sentire la voce della ragione e della sincerissima carità, e « non dico tibi septies, sed septuagies septies » rimettere i mancamenti. Voi poi non inquietatevi punto, non tenete nè pure memoria, non che ruggine, per i falli dei novizi, acquistate dominio di voi medesimo, e non date segno che vi restiate offeso di niente, nè che riteniate animo menomamente indisposto verso di loro; altramente perdereste la loro confidenza e il loro amore, senza di che nulla vi gioverebbe ogni fatica. Considerate la descrizione che fanno le Costituzioni del maestro dei novizi, e come la prima qualità che si richiede in esso, sia questa: « Hic autem vir sit natura pacificus ». Debbo finire perchè viene gente. Vi abbraccio e benedico tenerissimamente nel Signore. Tenetevi alle istruzioni che ricevete e mantenete una perfetta unione in casa per la via della dolcezza, della carità e della umiltà e sottomissione al vostro superiore di costà, conversando con lui quanto il tempo più permetterà di stare insieme, chè sarà buono assai, che insieme conversiate il più che sia possibile. Addio dunque: aspetto notizie fedeli di tutto, e al tempo debito. [...OMISSIS...] 1.31 Perdonatemi, se vi ho afflitto coll' ultima mia lettera: mi è molto consolante di dovervi domandare perdono dell' afflizione datavi, in gran parte involontariamente. In fatti, se voi leggerete tranquillamente i rimproveri che in quella lettera vi faccio, troverete sempre usati i verbi e le particelle dubitative, temo, dubito, nel caso che siate reo , e simili modi: perciò erano rimproveri condizionati, i quali, mancando la condizione, cessano al tutto, e non dovete punto nè poco applicarveli. D' altro lato, mio caro, non crediate che io abbia fatto nessun giudizio sulla vostra condotta, ma solamente ho temuto ; e le apparenze mi davano da temere. Se dunque credete che io abbia fallato nell' esporvi anche i miei dubbi sulla vostra condotta, non solo io ve ne dimando umilmente perdono, ma anche mi sottometto ben di cuore a riceverne quella penitenza che voi stesso m' imporrete, e a darvi quella soddisfazione che più vi piacerà. Ciò premesso, vi prego di considerare che era ben penosa la mia posizione nel trovarmi da più di quindici giorni privo al tutto di lettere del Calvario, a malgrado che e voi e il Gentili aveste avuto obbligo di scrivermi, secondo l' istruzione datavi, e che io v' avessi scritto due volte in quel mezzo. Riflettete ancora che, se il dover partirvi dal Calvario era urgentissimo , come voi me lo descrivete, a segno che un sol giorno di ritardo poteva portare l' occupazione militare della casa, e quindi se voi dovevate partire senza dimora, potevate però fare che il Gentili mi scrivesse subito lui tutte le circostanze di questo affare, anche nella vostra assenza, senza aspettare di scrivermi voi da Torino, ad affare finito. Voi anche probabilmente voleste darmi la notizia del buon esito dell' affare, senza darmi la trista nuova del pericolo in cui era la casa. Ma io non voglio, mio caro, che con me usiate simiglianti riguardi e simiglianti delicatezze: amo bensì d' essere informato di tutto, passo passo, del bene e del male. Se poi io vi avrei consigliato ad andare a Torino, anche posta tutta l' urgenza che voi indicate, nol so, e quindi non posso approvarne ancora l' andata, perchè ne ignoro ancora i fini particolari. Ma forse anco io avrei preferito di espormi al pericolo dell' occupazione militare della casa, anzichè farmi innanzi fino a Torino e schivare l' occupazione per un privilegio odioso, e che è contrario, in generale parlando, allo spirito del nostro Istituto . Non so se voi sentiate la forza di questo riflesso, e desiderei sommamente che la sentiste. Per altro è necessario che mi diate de' lumi maggiori, e desidero positivamente che mi diciate i motivi che c' erano da temere una subita occupazione militare. Voi poi dite che non ci vedete questo male del sapere e dell' approvare che fa il Re la nostra unione del Calvario. Mio caro, se sia questo bene o male, lo sa solo Iddio. Ben vi dico, che la nostra unione, di sua natura è umile, privata ed occulta , e se cerca approvazione dai principi, senza necessità, essa ha tradito il suo spirito, che è spirito di confidenza nel solo Dio e nella ineffabile sua provvidenza. Sì, mio caro, noi dobbiamo avere anche in questo punto una maniera umile di procedere, cioè lasciar fare a Dio; fuggire il più che possiamo le relazioni coi grandi del secolo, eccetto allora che la necessità, cioè il dovere morale, esige che ci mettiamo con essi a contatto. Se dunque questa approvazione l' avessimo cercata, noi avremmo fatto un passo falso, e saremmo fuori di strada . In questo senso dovete intendere le mie parole. Perocchè, o voi convenite con me nel non cercare nè provocare in nessun modo, nè direttamente nè indirettamente, gli appoggi temporali, e nel volervi appoggiare semplicemente in Dio, col fare i propri doveri; e in tal caso quelle parole non sono dette per voi. Ovvero mantenete l' inclinazione e il pensiero di farvi avanti e tentare d' intromettervi presso i grandi per avere la loro protezione; e, in questo caso poi, potete correggere lo zelo falso, e perfezionarlo col divino aiuto; e non si ha per questo da dubitare della vocazione. Insomma, mio caro, prendete dolcemente, e intendete in sano modo le cose che io v' ho dette. E non mi conoscete ancora? E non sapete ch' io non voglio, se non il bene? Sì, per la divina misericordia, non cerco altro; intendete dunque bene ciò che vi dico: non per il male, ma per il bene; non per affliggervi o per iscoraggiarvi, ma per perfezionarvi sempre più e acciocchè possiate perfezionare anche gli altri, quelli che vi ha commessi il Signore, ed al quale certamente dovete rendere conto. [...OMISSIS...] Qui, per la misericordia di Dio, le cose vanno bene. I compagni mi sembra che crescano in virtù, ed anco in numero, giacchè ho diverse domande. Voglio mandarvi la nota di tutti, acciocchè se ne conoscano i nomi anche dai Confratelli del Sacro Monte. Abbracciatemi caramente il Molinari, e ditegli che gli raccomando di fare bene in tutto, come spero che farà. E qualche volta mi scriva non per complimento, ma per informarmi di sè e dello stato suo, parlandomi con apertura e candore. Amiamoci, mio caro, nel Signore. Abbraccio tutti i nostri; salutatemeli nominatamente . Ho in mente di scrivervi in un' altra lettera le mie ragioni per le quali temo che non sia stato secondo la prudenza l' andare a Torino, anche posta la grande urgenza da voi asserita. Ma prima aspetto la informazione sui motivi che c' erano da temere una così prossima occupazione militare della casa. Addio dunque intanto, preghiamo il Signore incessantemente. [...OMISSIS...] 1.32 Riputando cosa del mio dovere che Vostra Beatitudine sia di quando in quando informata de' progressi che al Signore piace di far fare all' Istituto della Carità , essendo Ella, sempre piena di benignità, che anche prima di sedere sulla cattedra di San Pietro si è degnata favorire il principio di questa umile opera, incoraggiandola e aiutandola con molte grazie, per sì fatta guisa che fin d' allora ho messo in Lei la mia confidenza e La ho considerata come il vero padre della Istituzione: ed essendo anche mio desiderio, a tenore dell' indole propria dell' Istituto, tutto ordinato in servizio della Santa Sede, di non procedere ad alcun passo notabile se non dopo d' avere implorata ed ottenuta l' apostolica benedizione; perciò io mi fo animo di venire ai santissimi piedi notificando a Vostra Beatitudine, che la divina misericordia si è degnata di estendere quest' anno prossimo passato l' Istituto della Carità anche nella diocesi di Trento, dove conta già, sebbene da così poco tempo introdotto, un ragguardevole numero di sacerdoti; e, la Dio mercè, tali che certamente è ancor più dalla loro qualità che dal loro numero che si può conoscere quanto voglia essere liberale l' Altissimo verso questo paese sito nei confini d' Italia. Il perchè, godendo anche tali soggetti della confidenza di questa Altezza Reverendissima, ad invito della quale ho intrapreso la fondazione, avviene che abbiano non poco da occuparsi in cose che riguardano la gloria di Dio e la carità del prossimo. Umilmente adunque prostrato ai piedi di Vostra Beatitudine imploro l' approvazione e la benedizione apostolica sulla nuova fondazione e sui singoli membri che la compongono. Perchè poi è pregevolissimo il tesoro delle sacre indulgenze, e giustamente ne sono avidi i cristiani fedeli, perciò consapevole della carità e liberalità apostolica di Vostra Santità, oso ancora supplicare alla medesima acciocchè volesse degnarsi di conferire qualche sacra indulgenza da lucrarsi da tutti i membri di questo Istituto, pel quale anche la santa memoria di Pio VIII si era degnata di offrirmene ov' io le avessi dimandate, il che ho differito di fare fin adesso anche per aspettare che l' Istituto prendesse qualche consistenza; e nominatamente supplico che tali indulgenze non solo sieno profittevoli a quelli che all' Istituto appartengono col legame de' quattro o de' tre voti, abitino questi ultimi in case raccolti, o fuori nel campo del Signore col titolo di Coadiutori esterni ; ma ben ancora a quel genere di persone che appartiene all' Istituto della Carità col titolo di Figliuoli adottivi , come altresì a quello che vi appartiene col titolo di Ascritti : l' uno e l' altro de' quali generi, sebbene liberi dai voti dell' Istituto, ricevono però dall' Istituto medesimo una particolare direzione o aiuto spirituale, e prestano la loro cooperazione nell' esercizio delle opere della carità; e finalmente anche a quelli che vengono ricevuti come Alunni in prova, acciocchè possano a suo tempo essere incorporati nella Società in quella classe di persone che meglio a ciascuno di loro si conviene. Finalmente riguardo alla mia particolare persona oso anche esporre umilmente alla Santità Vostra, che dopo l' ultimo mio ritorno da Roma, insistendo sull' indirizzo datomi dalla santa memoria di Pio VIII e da Vostra Beatitudine confermatomi, non mi sono tanto occupato nei particolari rami di carità, p. es., predicare e confessare (a meno che qualche caso particolare non mi sembrasse esigerlo, anche per esempio de' miei compagni); quanto nella direzione generale dell' Istituto, e nel ribattere gli errori correnti scrivendo de' libri, ne' quali cerco di non limitarmi alla sola confutazione, ma di estendermi a stabilire la vera dottrina, colla luce della quale le dottrine erronee cadono da sè stesse: uno dei quali libri ho anche pubblicato col titolo « Principii della Scienza morale » ed ho fatto umiliare a Vostra Santità per mano dell' Em. Card. Vicario, dove ho avuto anche per iscopo di distruggere il sistema degli Utilitari , cioè di quelli che vogliono dedurre i doveri morali dall' utilità, sistema che riprodotto in tante forme e introdotto oggidì per tutto sì negli affari pubblici che privati non cessa di produrre un infinito male alla religione non meno che alla società. E medesimamente sarebbe mio disegno di attaccare gli errori dominanti con una serie di scritti, che, se Vostra Santità approverà questa mia occupazione e Dio mi concederà vita e forze, non tarderò di venir successivamente pubblicando. 1.32 Dell' Istituto della Carità credo che voi dobbiate avere una piccola descrizione scritta: se non vi basta, ne aggiungo qui un' altra, breve sì ma che contien tutto. Qui la misericordia divina si degna di benedir molto l' Istituzione. Vi raccomando però di far un uso prudente delle notizie che avete dell' Istituto; cioè a dire non operate per fantasia, nè vi lasciate lusingare da speranze vane. Se vi vedete del solido, cioè se persone pie veramente desiderano l' Istituto, in questo caso confidate loro ciò che credete; altrimenti vi prego di tacerne e non parlarne oziosamente con nessuno. Il mondo è pur troppo sempre nemico di Cristo; onde non conviene inutilmente attizzarlo: « Cavete ab hominibus ». Santifichiamo sodamente noi stessi: ecco l' ogni bene, mio caro. Sono a parte con tutto il cuore delle vostre tribolazioni. [...OMISSIS...] Quest' Istituto è una pia Società composta di Sacerdoti e laici uniti insieme per cooperare alla propria, e, ordinatamente, anche all' altrui santificazione. L' indole propria dell' Istituto è quella di venire in aiuto de' Vescovi principalmente, in tutti i bisogni delle Diocesi e delle parrocchie. Per questo fine l' Istituto non esclude veruna occupazione, incombenza, o ramo pio; ma intraprende tutto ciò che i Vescovi principalmente desiderano o dimandano. S' intende però sempre fin dove arrivano le forze dell' Istituto stesso. L' Istituto quindi ha per fondamento quella massima di San Francesco di Sales « nulla cercare e nulla ricusare »: intesa in questo modo, che i membri di questo Istituto non hanno un particolare oggetto esterno in cui sia loro essenziale l' occuparsi, nè intraprendono cosa alcuna da sè stessi; ma, se vengono cercati o da' Superiori ecclesiastici, o anche da semplici fedeli, si prestano in tutto ciò che loro è possibile; per esempio in missioni, in cura d' anime, in iscuole, in collegi, in assistenza di spedali, di prigioni ecc. ecc. preferendo anche le opere più umili e le men curate dagli altri. Se poi non sono dimandati, essi non escono dalle funzioni della loro propria Chiesa, ma in essa confessano e predicano e mantengono vivo il culto di Dio: e in casa si occupano, oltre che negli esercizŒ pii, negli studŒ adattati alla loro professione. I membri di questa Società hanno de' voti semplici e perpetui, solvibili però a giudizio del Superiore. Alcuni membri poi a scelta del Superiore emettono anche il voto delle missioni del Sommo Pontefice. Ai membri stretti con voto si aggiungono alcuni pii fedeli che vengono aggregati senza voti, per pura divozione e ad intendimento di cooperare alle opere di carità che l' Istituto ha occasione di esercitare. I Superiori dell' Istituto sono: 1 un Superiore Generale, che risiede in quella casa dell' Istituto ch' egli medesimo si sceglie e che presentemente ritrovasi nella casa in Trento; 2 e dei Superiori locali costituiti dal Superiore Generale secondo i bisogni. Quando il Vescovo, il Parroco, o anche de' semplici fedeli bramano qualche servigio od opera di carità, essi si rivolgono ai Superiori dell' Istituto, e questi sono obbligati, avendo i soggetti opportuni per quell' opera, di servire ai medesimi assumendo quegli incarichi senza riflesso a vantaggi temporali od altra considerazione umana. In caso contrario però, cioè non avendo in pronto i soggetti adattati, od essendo questi precedentemente aggravati d' altre opere, hanno il diritto di non accettare l' opera della quale vengono dimandati. [...OMISSIS...] 1.32 Ho tardato alquanto a rispondere alla loro cara lettera per diverse occupazioni sopraggiuntemi. Intanto il caro Loewenbruck avrà recato loro i miei saluti, essendo stato qui a trovarmi; sebbene alla sfuggita. Ora finalmente eccomi a intertenermi almeno un poco co' miei Lissandrini e Teruggi. La relazione che mi danno di sè stessi mi fa fede del loro sincero desiderio di profittare nella virtù ogni giorno, e di pervenire alla perfezione in questa dolce via del servizio del Signore. La perseveranza nei loro tentativi, nei loro sforzi, nella loro rinnovazione dei santi proponimenti, ne' sospiri e ne' gemiti fatti innanzi al trono di Dio crocifisso, sarà indubitatamente coronata. Ah! non trascuriamo nissun mezzo, miei cari, per infrenare la nostra mobilità, e por ferma legge alla nostra naturale leggerezza! Oh quanto saremo consolati se piglieremo la cosa seriamente, se porremo delle leggi a noi stessi da non infrangerle sì agevolmente, legando con esse quasi con una catena di ferro la protervia della nostra carne e l' inconsideratezza del nostro spirito! Ciò che crederei molto contribuire a ciò sarebbe che avendo essi insieme una confidenza veramente fraterna ed intiera in Gesù Cristo, l' uno eleggesse l' altro in suo sopravegliatore, e si obbligassero insieme ad avvertirsi e tenersi fermi nelle regolette stabilite, confessando i proprii falli e pregando d' averne in cambio salutari penitenze. I proponimenti riguardanti la distribuzione delle ore ordinate alla esecuzione delle due regolette ricevute converrebbe fossero fatti insieme con qualche solennità, per esempio in un giorno di ritiro tutto consecrato a penetrarsi dell' importanza di operare virilmente nelle cose dello spirito. E con questi proponimenti converrebbe promettessero l' uno all' altro, non solo ciascuno a sè stesso, il mantenimento di alcune particolari regolette (quali essi stessi crederanno di formarsele e proporsele, secondo le loro circostanze): e nello stesso tempo l' uno assumesse incarico verso l' altro di non perdonare nessun difetto o mancanza contro alle dette regolette. Ma una cosa che crederei ancor più poter giovare all' acquisto di spirito ed al progresso nelle solide virtù sarebbe dare delle scappate, e passare qualche porzione dell' anno al sacro Monte Calvario, ed ivi farvi gli esercizi spirituali; giacchè oltre il sommo vantaggio che deriva all' anima da quel luogo solitario ed idoneo al contemplare, massime pei tanti oggetti intorno che rammentano i misteri della dolorosa passione dell' Uomo7Dio nostro Redentore; oltre la forza delle meditazioni stesse date in quell' ordine concatenato che S. Ignazio ha indicato tanto utile massime alla purificazione dell' anima; oltre tutto ciò ed altri vantaggi, io veggo che ce n' avrebbe in ciò uno singolarissimo, qual è quello di potere intendersi e legarsi meglio alla piccola società del Calvario, e stabilire que' nessi e quelle relazioni, dalle quali, introdotte che fossero fra noi, ne aspetterei una comunicazione non piccola di grazie celesti e un grande aiuto scambievole, sì per migliorare e confortare le anime nostre, come per esercitare, secondo l' ordine della divina Provvidenza, la carità verso il prossimo; questa virtù della carità, che forma il distintivo de' discepoli del Signore, e della quale si pregia di denominarsi il piccolo Istituto che nacque a piè della croce. Ed anzi parmi ormai tempo che alle due regolette che hanno scritto nel loro libriccino se n' aggiunga una terza cioè appunto quella degli Esercizi annuali da farsi al sacro Monte, di che ho fatto anche cenno al nostro amatissimo Mons. Vicario Scavini, e che potrebbe essere espressa così, se a loro pare: 3 « Omnes alieni domui societatis adscripti erunt, et in ea opportuno tempore exercitia spiritualia peragent annis singulis . » Questa terza regoletta l' aggiungano adunque alle due prime del libretto, se loro piace, e la comunichino altresì a Monsignore; e queste tre regolette, ben meditate e scritte nella mente, sieno il fondamento e il principio da cui deducano poi quelle altre regolette più particolari che diceva di sopra da imporre a sè stessi, e rendersi della loro esecuzione l' uno e l' altro scambievolmente responsabili. La misericordia divina benedirà, come spero grandemente, questi piccoli principii. Operiamo solo rettamente e generosamente, e ne' nostri mancamenti una profonda umiltà ci sorregga; non rifiniamo mai di confessare i nostri falli, e di umiliarcene in tutti i modi, e di essere sempre come poverelli che gemono e dimandano limosina. Ah! è un gran titolo a ricever pietà dal nostro buon Padre celeste l' esser poveri, e il dire di cuore: « inclina, Domine, aurem tuam et exaudi me, quoniam inops et pauper sum ego ». Anche per me innalzino la loro voce, il più povero di tutti, ROSMINI p.. [...OMISSIS...] 1.32 Vi ringrazio delle notizie mandatemi da Milano e da Arona. Quanto alle parole del Cardinale, non vi dieno alcuna noia. E` in Dio che noi confidiamo: si farebbe torto a sua divina Maestà diffidando: « brachium Domini non est abbreviatum ». Per altro se le parole degli uomini ci recano qualche perturbazione, entriamo in noi stessi, mio caro, e da un tale effetto riconosciamo che noi mettevamo la nostra fiducia negli uomini. Eh! chi è spoglio di ogni speranza e fiducia dalla parte degli uomini, chi non pensa a protezioni umane, ma vuole solo la protezione di Dio, non si turba punto per qual si voglia parola, che oda dagli uomini. D' altra parte ricorriamo sempre a quel dolcissimo principio, che ogni bene per noi è racchiuso nel fare la volontà di Dio, nel perfezionare e santificare noi stessi: e quanta tranquillità e costanza non acquisteremo! quale santissima indifferenza per tutto ciò che si compiacerà di fare avvenire la Provvidenza benignissima! Ah! faccia il Signore di noi e della società nostra tutto ciò che a lui piace; saremo egualmente contenti. Piace a lui che la nostra società si rimanga umile, oscura, piccolissima? Sia benedetto: agli occhi suoi, ve lo dico sinceramente, riesce più amabile, più ch' ella è piccola, appunto perchè ella ha meglio occasione d' essere anche più umile e non soggetta alle lodi degli uomini, che corrompono il nostro cuore. Piace a Dio che la nostra società sia contrastata, combattuta, perseguitata? Lo sia pure; solo non succeda per nostra viltà, per nostra leggerezza ed imprudenza, per nostra presunzione, in una parola per nostra colpa. Gli piace in quella vece che la nostra piccola unione prenda radice e s' ingrandisca? Sia benedetto egualmente. Questi, o mio caro, sieno i nostri sentimenti: e questi ci renderanno imperturbati, o certo forti contro le tentazioni che ci assalissero. Ricordatevi i proponimenti fatti in Trento, le promesse date, di cui il tremendo giudice certamente vi domanderà conto. D' altra parte l' abbondanza della misericordia divina trabocca sopra di noi in quanto ai favori esterni; vorrei dire altrettanto degli interni, se la mia imperfezione e miseria infinita non facesse continuamente guerra alla increata Bontà. Dite al Gentili che le cose per la missione inglese vanno bene; che tutto saprà a suo tempo; che ora non resta altro che fare orazione molta per quest' affare, e farne fare. Abbraccio teneramente tutti i miei carissimi fratelli. Preghino tutti fervorosamente per la salute delle anime nostre. Oh quanto sono pieno di miseria, mio caro! E pure confido nel Signore che esaudisce la voce dei miseri, questa voce che innalzo pure a lui dall' abisso delle mie malvagità. « De profundis clamavi! » Pregate dunque istantemente e tutti, pregate pel vostro in Cristo A. R.. P. S. . Non è ancora questa partita e ricevo la vostra de' 6 marzo dal Calvario. Due cose mi hanno molto consolato in essa: le buone nuove de' carissimi nostri confratelli, e le speranze che danno le giovani inviate a Portieux. Sia lodato Iddio mille volte. V' ho scritto già che vi do licenza di trattare l' affare delle Figlie della Provvidenza in Isvizzera: ma vi scongiuro di nuovo, prudenza nelle vostre parole e nei vostri fatti: diffidate di uno zelo impetuoso e subitaneo; siate calmo in tutte le vostre parole, e operazioni, e non prendete impegni , ma tenetevi alla larga colle promesse. Iddio farà tutto, se camminerete nella via retta. Altrimenti gran bei principŒ e tristi riuscimenti. Abbraccio tutti di cuore e vi benedico nel Signore. [...OMISSIS...] 1.32 La ringrazio di cuore della sua lettera piena di bontà e di carità. Faccia il Signore che la causa della virtù e della religione proceda innanzi; ed ho in seno una immobile speranza che procederà innanzi anche in mezzo ai rischi ed agli sforzi disperati dell' inimico dell' uman genere, perchè è finalmente la causa di Gesù Cristo, a cui è data ogni podestà in cielo ed in terra. Credo che molto debba aiutare questa causa ne' nostri tempi una sana filosofia, e che quelli che daranno opera a renderla non meno pura che evidente si acquisteranno molto merito per l' eternità, se il faranno sinceramente per amor di Dio. Vorrei vedere i Gesuiti entrati su questa strada: oh quanto n' aspetterei di bene! se non fanno i buoni, e quelli che se l' intendono con Dio, chi farà? Pare a molti un prendere la cosa da lontano a voler per questa via giovare gli uomini, ed amano più i mezzi più vicini e pratici. Ottimi sono questi, ma ciò non fa che non sia maggiore il bisogno di risanare le menti coll' infondere in esse idee giuste. Gli uomini conviene andare a prenderli lontani, perchè sono andati lontani. Non ci sarà nè chi sappia somministrare, nè chi sappia ricevere i mezzi migliori, fino che si seguita a empir le menti di torte idee e che hanno in seno il verme. L' umana debolezza d' altro lato ha bisogno anche degli amminicoli, massime oggidì. La religione, tanto guasta da una mala filosofia, riceverà solo da una filosofia buona quello splendore che penetra ovecchesia, e a cui nulla s' agguaglia: o, per dir meglio, gli uomini si metteranno in posto e in istato da contemplare tanta bellezza. Ah se io potessi trasfondere questo mio sentimento o anzi questo calcolo ne' Gesuiti! dico, questo mio calcolo: perchè non credo di parlare senza avere un po' meditato sui bisogni dell' umanità e sulla malattia da cui è travagliata: non parmi che sia un puro e vano sentimento che a creder così e a sperar tanto mi muova. Ho per certo che se fosse al mondo S. Ignazio m' intenderebbe: ma può dal cielo ottenere tutto il lume necessario a' suoi figliuoli. Ella mi farà sempre una grazia singolare se mi darà sue notizie, e de' suoi studi. Aspetto la preziosa grazia, che mi promette, di tenermi raccomandato nelle sue orazioni a Gesù, ed alla nostra carissima speranza Maria. Io, sebben così povero d' ogni bene, che ho vergogna fino di me medesimo a prometterglielo, pure non mancherò di farlo per lei; nè mi sconfido per questo mai di essere esaudito « quoniam inops et pauper sum ego ». La prego de' miei rispettosi saluti a' RR. PP. Rettore e Ministro, e a quegli altri suoi correligiosi che ho avuto il bene di conoscere quando fui a Novara. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.32 Non tardo un momento a rispondere alla cara vostra. Se ella mi ha afflitto per la compassione di quelli che patiranno dal sopravvenire della malattia che minaccia; di gran lunga più mi ha consolato ed empito di giubilo la manifestazione dell' unanime disposizione de' miei carissimi fratelli del Calvario nell' impiegare le loro forze e nell' esporre le loro vite in servire Gesù Cristo ne' suoi infermi. Oh bella occasione che vi manda l' amore del nostro Gesù! oh corona desiderabile che vi guadagnerete, se moriste in tale ufficio! oh consolanti parole quelle che udirete nel giorno estremo: « infirmus eram, et visitastis me »! Certo non vi può essere via più sicura e preziosa di questa per assicurarvi l' eterna vostra salute. Io, se mi sarà conceduto, verrò sicuramente ad aiutarvi, e dividere con voi, troppo avventurati, i travagli per Cristo. In quanto alla casa di cui sono livellario, io la metto in pienissima disposizione del pubblico per farvi lo Spedale ; e anzi lo scriverò io medesimo al caro Bianchi, nella lettera che qui unisco. Converrà però prendere le cose con fervore insieme e con prudenza, come vuole il nostro Maestro ed esemplare: cioè premunirsi di tutte le cautele tanto pel corpo , che per le anime nostre . Dico anche per le anime ; perchè in questi tempi di pubbliche malattie occorrono dei pericoli anche per l' anima più del solito, per la libertà maggiore del trattare, ed altre cagioni. Perciò in questo punto ci vorrà una somma vigilanza e provvidenza da parte dei Superiori. Voi pensateci; e mandatemi tutti i vostri riflessi, e un piano circa il modo di procedere de' nostri nel caso della malattia, dove tutto sia ben cautelato: ve ne incarico espressamente; questa è cosa vostra personale. Il Vice7superiore me ne farà uno anch' egli; ma non dovete comunicare insieme; ma ciascuno pensare da sè, scrivere e mandare. Io poi vi manderò, se ci sarà bisogno, un Regolamento definitivo per vostra buona regola. Addio, pregate istantemente e abbracciatemi tutti, facendo sapere a tutti la consolazione mia della loro generosa disposizione. Qui siamo tutti dello stesso cuore, e ci siamo offerti al Vescovo, prima d' ora. Anzi questo desiderio che facciate anche voi altri. Fate una bella lettera al Vescovo, offerendovi in essa a qualunque uso e luogo per tutta la Diocesi, in che egli vi vorrà adoperare in aiuto spirituale e corporale de' malati (non però in aiuto corporale di donne, chè questo lo escludo assolutamente), e dite in questa lettera che ciò ognuno fa per ispontaneo suo volere e maturo consiglio, fidando in Dio, ed avendone ricevuto il consenso e la permissione dal vostro Superiore. Poi sottoscrivetevi tutti cominciando dal Vice7superiore, e quindi voi, il Molinari e tutti gli altri, non esclusi i laici; sicchè tutti i nostri sieno anche in ciò un' anima sola ed un solo olocausto; non ne manchi uno solo. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.32 Io temo che quelli ai quali Ella ha affidato l' esame delle Costituzioni, non ne abbiano bastevolmente penetrato lo spirito. Essi sembrano essere intimoriti dalle gravi obbligazioni di coscienza che impongono. Ma l' Altezza Vostra non ha che a rileggere il paragrafo 16., che è l' ultimo delle Costituzioni, per accertarsi che non v' è nessuna cosa nelle Costituzioni che obblighi sotto pena di peccato nè pur veniale, eccetto i voti e quelle cose che già sono obbligatorie per altre leggi. Con meno vincoli di coscienza di questi non si può erigere nessuna congregazione religiosa che abbia voti. Può essere che abbia fatto timore quel predicarsi e raccomandarsi da un capo all' altro delle Costituzioni una gran perfezione e una ubbidienza la più perfetta. Ma altro è quello che si propone come meta, altro è l' esigere che questa meta sia conseguita; oltracciò nello stesso tempo che si propone quella meta così alta, si prescrive ai Superiori ogni dolcezza, discrezione, non comandando se non quello che è proporzionato alle forze, in modo tale che ciò che i soggetti fanno, riesca sempre volontario. Questa autorità tutta spirituale e dolcissima de' Superiori, son per dire che sia propria dell' Istituto della Carità, e che l' autorità non sia se non puramente spirituale e persuasiva come quella di un padre spirituale e d' un maestro di spirito. Forse in nessun Istituto religioso l' autorità di comandare è proposta con tanta dolcezza, come nelle Costituzioni dell' Istituto della Carità. La cosa riesce in pratica mirabilissimamente; ed è una vera consolazione a vedere la letizia di tutti i miei compagni, nessuno eccettuato, che benedicono ogni giorno il cielo per la contentezza di cui godono. I Superiori ancora possono sciorre i membri da' voti; ed è loro prescritto di farlo ogni qual volta credessero che questi riuscissero de' vincoli troppo stretti e pericolosi, perchè il fine è la salute delle anime de' membri stessi. Voglia dunque Vostra Altezza assicurarsi intieramente su questo punto; voglia restituirmi il suo pieno compatimento e la prima sua cooperazione ed appoggio, e possa io sperare che Ella me lo presti di tutta sua persuasione. Io credo che l' opera sia adattata ai tempi, e che riuscirebbe sicuramente se Ella il vuole; non dico senza delle difficoltà, perchè di queste pur troppo se n' incontrano in ogni cosa, e dobbiamo anche noi aspettarne, ma dico senza difficoltà insuperabili, ecc.. 1.32 La venerata sua lettera degli . corrente mi ha prodotto incredibile consolazione per il pensiero che Le ha ispirato Maria santissima. Oh il bel pensiero, che fu questo! Lo eseguisca senza perdere tempo, ed Ella corrispondendo a questa inspirazione, s' acquista sicuramente un nuovo titolo alla protezione della Vergine, nostra carissima Madre, da cui dobbiamo aspettare ogni lume e conforto. Sì, la cara e benignissima nostra Madre Maria sarà quella che Le darà ogni consolazione al cuore, e quella tranquillità e pace di animo che è tanto necessaria, e che, sebbene indegnamente, Le prego ogni giorno. Abbandoniamoci alla divina Provvidenza e speriamo nella bontà di Gesù Cristo e nell' intercessione della sua santa Madre. Non siamo troppo solleciti, e non ci chiameremo pentiti di questa nostra confidenza e di questo nostro abbandono. E` vero che siamo tanto miserabili e che abbiamo tanti difetti! E chi non ne ha? Ma la grazia di Gesù Cristo può purificarci in un istante. E qual miglior mezzo di ottenere questa grazia, che è il solo vero bene di cui abbisogniamo, se non quello di fare opere della sua gloria, e farle unicamente per la sua gloria? Lungi da noi ogni altro pensiero: se noi penseremo solo al nostro Padre celeste, dimenticando noi stessi, egli allora penserà a noi; egli è il padrone del tutto, e nelle sue mani pende tutto ciò che abbiamo, e che siamo, i nostri averi, la nostra salute, la nostra vita e la nostra morte; egli mortifica e vivifica. In lui dunque solo confidiamo e pienamente riposiamo. Oh qual quiete dolce e piena di contento non dà il pensare che siamo nelle sue mani! E` impossibile, se abbiamo fede, che vogliamo turbarci: tutto succede secondo i consigli della Provvidenza, anche i nostri stessi falli. Siamo dunque contenti di tutto, e amiamola ogni dì più questa Provvidenza: seguiamola, ed essa ci scorgerà soavemente per la via della nostra eterna salute e della pace, « quae exsuperat omnem sensum ». Io qui sono consolato assai, perchè ho trovato le cose in ottimo stato. Sia lodato Iddio di tutto: egli sa solo tutte le cose. Finisco baciandole umilmente la mano, e implorando la pastorale sua benedizione sopra chi, col più alto rispetto, gratitudine e affezione sincera, si dice, ecc., A. R.. [...OMISSIS...] 1.32 Sieno grazie al nostro buon Dio, che, come sento dall' amico Mellerio, avete cominciato a fare la trottata; egli mi dice che non avete vinta ancora la tosse, che sola vi toglie dal dirvi pienamente rimesso in istato: ma spera ed io pure, che se n' andrà. Intanto questi son tutti sperimenti che ci fa prendere il Signore di noi stessi, acciocchè veggiamo nullità che noi siamo. E che varrebbe saperlo speculativamente, se non avessimo acquistata la scienza sperimentale ? Oh quanto è vana la scienza puramente ideale, se non abbiamo delle verità la prova reale! Quella scienza non penetra fin dentro al cuore, il quale praticamente resta incredulo, perchè è duro e tardo a credere, se non isperimenta. L' essere tentato dai mali, all' incontro, e quasi oppresso, abbassa l' altezza del nostro pensiero, e ci costringe quasi involontariamente a riconoscere ciò che siamo, senz' alcuna illusione. E il senso di tanta nostra miseria vien reso dalla grazia il veicolo che ci conduce alla cognizione di Dio. Poichè non trovando in noi altro che miseria, e non altro in questo mondo che tribolazione, il nostro cuore, che non può starsi senza un bene ed un amore, si rivolge finalmente a Dio, quasi per una felice necessità di cui si serve la grazia, ed in Dio intieramente s' abbandona; ed allora incomincia a riconoscerlo per il solo bene, e ad averlo per il solo suo amore, e sente, oh quanto! la verità di quelle parole di Cristo: « « Venite a me, o voi tutti che affaticate e siete aggravati, ed io vi ristorerò » ». E quanto bene, che prima gli era incognito, non trova allora il nostro cuore in Dio! E con quale affetto allora pronuncia quelle dolci parole: « Deus meus et omnia »! E gli pare d' essere troppo felice per quelle stesse infermità che tanto contrariano la natura, giacchè per mezzo loro, privato della lusinga de' beni naturali, sente che Dio solo basta a tutto e soprabbasta ad ogni suo desiderio. Oh preziosa semplicità dell' amor di Dio! O ricca nudità dell' anima, che, libera dall' ingombro delle dilettazioni terrene, si converte tutta al suo Creatore! Ella ha un tal valore questa conversione dell' anima desolata e nuda dei beni naturali al bene sommo ed essenziale, che Iddio n' ha fatto il fiore della sua provvidenza in sul genere umano, che per essa ci ha lasciato le infermità e la morte, che fa di essa le delizie de' suoi più cari e il lor patrimonio ricchissimo, e che al suo diletto Figliuol solo n' ha dato la pienezza, nelle angoscie inenarrabili della sua vita e della sua morte. Ah! noi pure avventurati, o mio Giulio, se il seguiremo dietro la sua voce: « « Chi vuol venire dopo di me, anneghi se stesso, e tolga la sua croce, e sì mi segua » ». Tale e tanto conforto il Signore ha aggiunto a' nostri mali! Il Signore, che a ciascun che soffre e che ama lui, dice: « Sono io stesso con lui nella tribolazione, e nel trarrò io fuori, e lo glorificherò », patisce egli stesso con noi, e quasi non fosse ciò abbastanza a renderci dolce ogni patire, ci aggiunge ancora che ce ne trarrà fuori, e ci glorificherà. E di che gloria! « Non sono condegne - dice l' Apostolo - le sofferenze di questo tempo verso alla gloria futura che si manifesterà in noi ». Quivi adunque, in questa gloria abitiamo, fin da ora, per la fede: chè la conversazione del cristiano dee pur essere in cielo, secondo l' Apostolo stesso. E se siamo in cielo collo spirito, colla mente e coll' affetto, che sarà per noi mai questo mondo corruttibile, sopra cui ci siamo immensamente innalzati? Allora sentiremo tutta la noia di quello che l' Apostolo chiama peregrinare dal Signore , e ci nascerà in cuore quella parola non intesa, se se non da chi gli è dato da Dio, « cupio dissolvi et esse cum Christo ». E se pur viveremo, ciò non ci sarà tollerabile per altro, se non per fare la volontà di quel Signore appunto a cui notte e giorno dall' esilio sospiriamo. [...OMISSIS...] 1.32 Sperava di potervi abbracciare personalmente nel Signore nei primi giorni del prossimo novembre; ma alcuni affari incamminati che riguardano la gloria di Dio e che esigono la mia presenza, acciocchè siano prontamente ultimati, com' è necessario, non me lo permettono, ma richieggono che mi trattenga ancora qualche poco in questo dolcissimo santuario della passione di Cristo, che fu la culla, come sapete, del minimo Istituto nel quale Dio solamente per sua misericordia ci ha insieme congregati e congiunti. Se non colla corporale presenza adunque, almeno però con questa lettera vengo in mezzo di voi, per effondere a voi tutto il mio cuore, e per dirvi con quanta pena io mi stia da voi diviso di corpo (chè di spirito nol sono mai), sollecito del progresso ne' santi vostri propositi. Non già che l' essere io vicino a voi possa arrecarvi qualche grazia, o che io possa molto colle mie parole aiutarvi e sostenervi nelle tentazioni, e spingervi avanti nella virtù: poichè anzi conosco d' essere inetto a tutto ciò, e di non poter nulla, se non forse nuocervi coll' esempio della mia debolezza e miseria. Ma l' amore tuttavia che vi porto in Gesù, nostro strettissimo vincolo, è quello che mi fa desiderare di avere tutti i miei cari compagni nel santo servizio, se fosse possibile, continuamente sotto gli occhi. Poichè l' amore è impaziente di sapere tanto il bene che il male delle persone amate, nè vuole aspettarne la relazione altrui, ma rilevarlo da se stesso e certificarsene cogli occhi propri: giacchè egli vuol godere del bene loro, e vuole esserne certo, e per essere certo di quanto bene abbiano le persone amate, vuol saperne anch' il male. Oltracciò, conoscendo io la vostra carità e umiltà e la vostra dedicazione al Signore, non mi fa meraviglia che vogliate cavar profitto alle anime vostre da tutto, e anche dalle stesse mie parole, ricevendo in buona parte e in edificazione dell' uomo interiore, quanto io vi fossi per ripetere degl' insegnamenti del Signore, sebbene io sia tanto indegno di proferirli. Ed è appunto per questa santa disposizione, che spero essere negli animi di tutti voi, che io voglio dirvi nella presente (ciò che farei a voce se potessi) quanto credo essere il più necessario e vantaggioso per le vostre anime, acciocchè consumino la santa vocazione, nella quale sono per la singolare benignità e carità di Cristo, e nella quale desidero che restino in eterno. Ognuno di voi pensi seriamente ad essere sincero con Dio, cioè a volere col fatto eseguire quanto propongono le regole della Società, nella quale è entrato; il che importa, che noi entrati in questa Società vogliamo sinceramente e pienamente consecrato a Dio solo tutti noi stessi, e tutte le cose che abbiamo al mondo , non avendo d' ora in avanti altro scopo ed affetto ultimo sopra la terra, se non quello di accrescere la gloria di Gesù Cristo e della sua Chiesa in tutti i modi possibili; pronti a qualunque cosa; e massimamente senza attacchi di carne e di sangue, che sono i più fatali di tutti per chi vuol darsi veramente e pienamente a Dio nella nostra società, la quale dee avere siccome scritte in fronte quelle divine parole di Gesù Cristo: [...OMISSIS...] . Ognuno di voi ami tenerissimamente tutti i suoi compagni nelle viscere di Gesù Cristo, senza eccezione alcuna, e sopporti con piena carità i loro difetti, condonandoli loro per amore di Cristo, soffrendoli anche con gusto per propria mortificazione, non pensandoci, e, se fosse possibile, non osservandoli; all' incontro osservando continuamente i difetti suoi proprii e avendone dispiacere, anche per quello che in conseguenza di essi fa sopportare agli altri suoi compagni di molestie e di pene. Ognuno consideri il bene e l' ordine di tutta la Casa come il bene proprio, e faccia tutto quello che può per ispargere nella famiglia sempre più la dolcezza di una tenera carità e l' unione più stretta de' cuori; ognuno cerchi di unire fratello con fratello, e i fratelli coi padri, cioè co' Superiori; e di rimuovere qualunque anche minima cagione che possa diminuire questa unità d' anima e di cuore che abbiamo in Cristo, a imitazione dei primi fedeli. Tutti quelli che cooperano alla perfetta consensione delle volontà e dei cuori sono in Cristo; ma quelli che non si guardano dall' essere cagione di dissapori e amarezze, e anche solamente di freddezze scambievoli, non operano in Cristo, ma piuttosto si fanno ministri dell' inimico di Cristo, e di tutti noi. Siamo tutti un corpo: ognuno è membro del proprio nostro corpo; dunque ognuno da parte sua studi di fare quello che può per la perfetta concordia e sanità delle membra. Specialmente poi ognuno desideri di vedere i propri compagni andare continuamente avanti nelle solide virtù, e a tal fine aiuti i Superiori informandoli di quanto possono credere che sia utile loro sapere per vantaggio de' singoli. Questa carità santa, e questo impegno che ognuno prenderà per il bene spirituale e l' ordine di tutta la Casa, ci mostrerà veri seguaci del nostro Maestro che ha detto: « Gli uomini conosceranno che voi sarete i miei discepoli, se voi vi amerete l' un l' altro ». Finalmente ciò che in singolar modo vi raccomando, si è di studiare di rendervi perfetti nella ubbidienza . Oh quanto è grande, quanto bella questa virtù! Ognuno cerchi di essere ben disposto verso il Superiore: chi è benignamente inclinato verso di lui riceve con gratitudine tutte le cure che il Superiore impiega per suo bene. Le correzioni, le penitenze, le mortificazioni sono de' grandi benefizi: attacchiamoci di cuore a quei Superiori che ce li danno. In tutte le cose dove non si scorge peccato, la voce del Superiore è la voce di Gesù Cristo, la volontà del Superiore è la volontà di Gesù Cristo: e però quello che ci comanda il Superiore eseguiamolo; quello che desidera il Superiore, desideriamolo; quello che egli vuole, vogliamolo. Così si ama Iddio, così si depone se stesso. Ah! miei cari fratelli, non abbiamo volontà propria: non conosciamo ripugnanze e propensioni, non abbiamo altre ripugnanze, che di quelle cose che ci sono da' Superiori vietate, nè altre propensioni, che di quelle cose che ci sono da' Superiori comandate. Vinciamo noi stessi: dobbiamo essere vittima con Cristo, e ciò che ci immola, come Isacco, dee essere il ferro dell' ubbidienza. Tanto mi preme questa virtù, perchè è il fonte di tutte le altre, massime nella società nostra; e perciò vi prego di legger tutti in comune e di meditare, per convertire in succo e sangue, la bellissima lettera di sant' Ignazio sull' ubbidienza; ella par fatta a posta per noi, per la nostra società. Voi vedrete in essa, come il gran fondamento di questa virtù sia la fede che vede nel Superiore la stessa persona di Gesù Cristo, e non considera punto le qualità umane. Con questo fondamento sarete ubbidienti sempre, ed a tutti i Superiori, qualunque sieno: e se i Superiori fossero per se stessi dispregevoli, voi allora appunto acquistereste un merito più grande, e sareste più sicuri di servire ed ubbidire a sua divina Maestà. Di queste massime desidero vedervi forniti, specialmente ogni qual volta mi accade di dover costituire fra di voi un nuovo Superiore, come ora; e perchè credo che lo siate, perciò spero che ne riceverete l' annunzio non solo con illimitata sommessione, ma ancora con amore e con vera spirituale allegrezza. Perocchè considerando che il nostro carissimo fratello e padre don Rigler, Superiore costì di tutti voi, è oltremodo aggravato dalle sante sue occupazioni che il rubano a voi quasi del continuo, e perciò non potete ricorrere a lui ne' vostri bisogni; ho veduto esser necessario di aggiungere a lui un Assistente che faccia le sue veci, e sia una gran parte almeno di tempo con voi, e possiate con lui conferire e ricevere conforto e direzione ogni volta che vi abbisogna. Al qual fine ho pregato caldamente il Signore che m' illumini, e fatto pregare per trovare quello che meglio convenga, considerate tutte le circostanze; e finalmente mi sono risoluto di dichiarare Assistente del Superiore di Trento il vostro e mio carissimo don Giulio Todeschi, colla fermissima fiducia che come egli vi sarà l' interprete fedele della volontà del Signore, così voi sarete quegli umili e docili soggetti che avidamente riceverete e fortemente eseguirete la medesima divina volontà che egli vi manifesterà. Non è bisogno che vi lodi questo nostro carissimo fratello, perchè voi lo conoscete, e col destinarlo a tale ufficio, mostro abbastanza la stima che ho di lui. Piuttosto vi scongiuro tutti nelle viscere di Gesù Cristo a sopportare i suoi difetti, se ne ha come uomo, giacchè qual uomo mai ne è esente? e a rammentarvi quello che ho detto innanzi, che i difetti del Superiore rendono infinitamente più meritoria e cara a Dio l' ubbidienza de' sudditi. Ma chi di voi sarà un vero ubbidiente e un vero discepolo di Cristo, assai più che i difetti, se ce ne ha, vedrà ed amerà le rare virtù di cui il nuovo vostro Padre va fornito, e con una carità che crescerà ogni giorno, unirà una devota riverenza verso di lui. Ah! vi supplico tutti, quanto so e posso, date nuove prove ogni giorno della vostra sincera umiltà e annegazione, e mostrate che nell' uomo, mediante la fede, mirate continuamente non l' uomo, ma Dio. Non aggiungo di più, e so che neppur di questo era mestieri; ma ho voluto dire tutto ciò, perchè siate sempre aiutati a rammentarvi ed avere vive nella mente quelle grandi verità che già sapete, le quali formano le basi della vita religiosa, e perchè conosciate la mia premura e il mio amore continuo che anche assente ho per voi. Ed abbracciandovi tutti al seno in Gesù Cristo nostro Capo e Maestro, nostra delizia, ogni cosa, mi raccomando alle vostre orazioni, e vi benedico. Il Padre, il Figliuolo e lo Spirito Santo abiti nei vostri cuori perpetuamente. Così sia. [...OMISSIS...] 1.32 Le mando qui una carta intitolata « Regolamento dell' Istituto », nella quale c' è tutta la descrizione in breve dell' Istituto della Carità. La prego di farla copiare pulitamente, e di umiliarla, in mio nome, all' Em.mo cardinal Weld, che desidera avere notizia precisa e diretta di questo Istituto. La relazione che l' Istituto ha coi vescovi, di cui l' Em.mo desidera special contezza, la troverà chiaramente esposta al N. 15 del suddetto Regolamento. A mio parere la natura dell' Istituto è tale che non può mai venire in collisione coi vescovi, perchè egli non agisce che dietro le richieste principalmente de' vescovi, ed è soggetto a questi in quanto alle funzioni sacerdotali e alla cura d' anime; restando soggetto a' propri Superiori in quanto al governo interno dell' Istituto medesimo, al mantenimento delle Regole, alla distribuzione de' soggetti, e all' assumere o non assumere, ritenere o dimettere gli uffizi, che egli mai non cerca, ma solo assume dietro le dimande del prossimo. Dimanda ancora S. Em.za, come intendo dalla sua lettera, qual sarebbe il sistema e modo di agire che don Gentili e compagni si propongono di tenere in Inghilterra. Se alla Provvidenza piace che il Gentili si rechi in Inghilterra con de' nostri « egli si propone di tenere un modo di agire tutto uniforme al « Regolamento » annesso, un modo di operare cioè quieto e tranquillo, che da principio si restringerebbe a fare strettamente, nè più nè meno, i doveri propri dei cristiani e de' sacerdoti, e starebbe aspettando gli ordini del vescovo e le dimande del prossimo. A quelli e a queste egli intenderebbe di prestarsi con prontezza e indifferentemente in ogni genere di opere buone, fino che bastassero a lui ed a' compagni suoi le forze ». Questo sarebbe il procedere ch' egli terrebbe, e questo è il modo di procedere nostro: nulla facciamo di proprio moto, se non i doveri strettamente privati; mossi poi da' prelati principalmente, ci prestiamo a quelle prime opere, qualunque sieno, che ci vengono dimandate. Che « se si volesse dare al Gentili co' compagni il peso d' una parrocchia, anche questa l' accetterebbe, e l' amministrerebbe secondo le leggi canoniche ed i voleri del vescovo, senza eccezione o privilegio alcuno; se poi si volesse impiegarlo nella predicazione, egualmente; se nelle scuole, pur sarebbe pronto; se nelle opere di carità, come spedali de' poveri, ed altre simili cose, di gran cuore le accetterebbe. Insomma l' Istituto nostro vuole avere dei sacerdoti che, senza predilezione, non abbiano altro in mira se non di prestarsi con missione , cioè non di proprio moto, e di prestarsi a tutto, giacchè Iddio solo credono di servire egualmente in tutte le cose ». Se mai l' Em.mo Weld desidera sapere qualche altra cosa, ove si degni di farmela conoscere, mi onorerò di comunicare tutti gli schiarimenti desiderabili. Ora veniamo a noi, mio caro Quin. Ha fatto bene a non entrare Ella a parlar della natura della Società, e faccia così anche per l' avvenire, non comunicando a nessuno quello che ha, senza licenza espressa. Desidererei molto di averla con noi qualche tempo in questa sacra solitudine, dove il carissimo Gentili fa progressi grandi nelle virtù. Non dico che desidererei di averla come de' nostri: questa non può esser che l' opera di Dio: io non v' entro, e non desidero se non quello che Dio Le ispira nel cuore; sono però certo che il desiderio della perfezione non viene che da Dio, e perciò, sebbene io non La esorti punto a prendere il nostro Istituto, tuttavia La esorto quanto so e posso a seguire i consigli evangelici, perchè i consigli di Gesù Cristo sono ottimi, senza bisogno d' alcun esame, come insegna san Tommaso; e ogni cristiano per seguirli non ha bisogno di dimandare consiglio di direttori, ma solo di risolversi con generosità a darsi tutto e senza eccezione alcuna al suo Dio. Oh beati quelli che intendono la bellezza de' consigli dati agli uomini dal divino Maestro! Non c' è oro nè gemme che si possano mettere a confronto col prezzo di que' consigli. Perciò li segua animosamente, ma in quell' Istituto al quale la volontà di Dio piegherà il suo cuore. Ad ogni modo caro assai mi sarebbe il vederla, l' abbracciarla, e l' averla meco qualche tempo. La prego di tradurmi in buon inglese il « Regolamento » e di mandarmelo. 1.32 « La buona novella, dopo diciotto secoli, è nuova tuttavia per il mondo che l' ha sentita, senza comprenderla ». Dite bene, mio caro Tommaseo, è nuova per il mondo, « tenebrae eam non comprehenderunt », e sarà sempre; ma non pe' Santi che l' hanno sempre compresa in tutti i secoli. I figli di Dio sono stati sempre e sempre saranno, « et fulgebunt quasi stellae in perpetuas aeternitates ». Non è dato agli uomini di accrescere il numero di questi d' un solo, nè è in potere dell' uomo diminuirlo di un solo. Iddio gli ha contati, e nessuna creatura può alterarne il conto. L' uomo può essere superbo, ma non disperdere la superbia degli altri uomini: Iddio solo dall' alto sperde la superbia di tutti. Tutto ciò che sta nella perfezione dell' ordine morale, Iddio l' ha riserbato a se solo; e, se usa degli istrumenti umani come ministri di quest' ordine, egli li ha scelti « ab eterno. Ego elegi vos »; non fu scelto da loro: « non vos me elegistis »; sicchè l' uomo in quest' ordine soprannaturale di cose è sempre inutile per se stesso: « servi inutiles sumus »; e guai a chi si intrude! « non mittebam prophetas, et ipsi currebant ». Non ha l' uomo altra incombenza, che quella de' propri doveri morali, conformandosi a colui che disse: « « Imparate da me, che sono mite ed umile di cuore » ». Ma chi segue il Vangelo, nella sua umiltà e mitezza è leale e generoso; non teme di annunziare tutta la verità che è il suo bene, e di confessare Cristo; e non sa fare nè per viltà, nè per ingannevole speranza di produrre un bene che Dio non vuole, alcuna transazione colle massime carnali e collo spirito omicida di questo mondo. Il Vangelo basta a se stesso. Dio è tutto, e il giusto nei beni eterni ha tutto il suo cuore: è da ciò appunto che scorre da se stessa la felicità anche temporale, come un fiume uscente da un mare; non dico ogni felicità che la nostra cupidigia desidera o s' immagina, ma quella felicità temperata che sa Dio più convenire a' suoi disegni di misericordia pei predestinati ai regni immortali. La sventura, la croce sarà sempre un dolce tesoro ai discepoli del Cristo, e non mancherà loro: nel tempo stesso che la loro carità universale è portentosa, non penserà che di alleggerire e sollevare la croce che pesa in sui fratelli. Non ha dunque bisogno la religione di essere giustificata con industrie umane; ma, osservata, si giustifica da se stessa: è il fatto quello che mostrar dee i buoni effetti temporali venienti spontanei dalla osservanza della legge: « Mirabile cosa, diceva pur bene quell' uomo di legge: la Religione cristiana, che non sembra avere altra cura che delle cose del Cielo, è quella che produce anche il bene di questa terra! »Sì, « pietas, ad omnia utilis »: ma pietà, e non cupidigia. Sì, la carità sia lo stimolo; un amore di Dio, un amore degli uomini per Iddio; tutto è possibile alla carità. In tal modo gli interessi umani non sono cercati direttamente; è il solo regno di Dio che hassi direttamente a cercare: « Cercate prima il regno di Dio, - il resto vien da sè, - e tutte queste cose vi saranno aggiunte », perchè sa il Padre celeste che n' avete bisogno. La Chiesa ne' suoi santi mostra una sapienza più alta ancora, una sapienza non intesa dal mondo, anzi chiamata stoltezza: ella fugge i beni materiali, ella vive d' astinenza, di mortificazione, di volontaria povertà, ed ha scritto sul suo petto: « beati pauperes ». A questi è venuto Cristo ad evangelizzare, a questi è venuto a comunicare i suoi tesori Colui che non aveva ove reclinare il capo. Ben è vero che dalla radice della povertà nasce un frutto contrario alla madre: le ricchezze corrono là, dove questa povertà si è mostrata: ecco come s' è arricchita la Chiesa: ecco l' unico mezzo onde la religione del Crocifisso può giungere a signoreggiare gl' interessi materiali. Ma, oh quanto il Consiglio di Dio è alto sopra i consigli degli uomini! Allora appunto che la Chiesa è carica delle spoglie d' Egitto come di altrettanti trofei, allora ch' ella pare divenuta l' arbitra delle sorti umane, allora solo ella è come impotente, ella è il Davidde oppresso sotto l' armatura di Saulle: quello è il tempo del suo decadimento. E l' Eterno che vigila a' suoi destini, dopo averla così umiliata, averle fatto conoscere ch' ella è composta di uomini soggetti alla tentazione, averle mostrato per un' amara esperienza che in lui solo ella è forte e può confidarsi, mosso a pietà di lei, concede alla ferocia del secolo di buttarsi sui beni temporali della Chiesa, e farne bottino; riducendola in tal modo a quella sua originaria semplicità che, amabile sopra ogni bellezza muliebre, trae di nuovo a sè tutto, per tutto nuovamente deporre al cenno non degli uomini, ma dello Sposo, quando le dica; « Sorgi, t' affretta, amica mia, colomba mia, e te ne vieni ». [...OMISSIS...] Le due Case vanno bene per la grazia di Dio: lo scopo loro è tutto morale religioso, non è uno scopo particolare, ma lo scopo comune a tutti gli uomini, il fare i proprii doveri, il mantenere la legge di Dio, e perciò può prender per motto; « in lege Domini voluntas eius »: nulla di più semplice, ed io credo altresì nulla di più dolce. Ciò dunque perchè si distinguono dagli altri cristiani, non è per lo scopo, ma per l' essersi alcuni associati per aiutarsi scambievolmente ad ottenere questo scopo. Nel libretto che ho stampato a Roma col titolo « Massime di perfezione », c' è tutto, eccetto l' ubbidienza, poichè non si parla in quel libro di Società. Addio, pregate per me. [...OMISSIS...] 1.33 L' indifferenza di S. Ignazio non riguarda il fine , ma i mezzi . Possiamo e dobbiamo sospirare incessantemente il fine, e dire col massimo affetto: « adveniat regnum tuum »; ma dobbiamo essere indifferenti su questi o su que' mezzi, pei quali la divina bontà ci voglia condurre al fine. Ciò che è degno di altamente meditarsi si è, che noi non conosciamo nè pure quali sieno i mezzi particolari che ci facciano ottenere il nostro fine. Siamo ignoranti, e perciò conviene rimetterci a chi ci vede, che è Dio, ricevendo tutto dalle mani di Dio con perfetta indifferenza. Tutto sta dunque in trovare i segni del divino volere. Senza questi, so io che lo studio, in ragion d' esempio, sia la strada della mia eterna salute? Quanti vi hanno trovato l' eterna dannazione! So io che la predicazione mi gioverà? Quanti, predicando agli altri si sono resi reprobi! Tutta la vita, la perfezione, la morale cristiana sta nel dare il giusto peso a questa parola Eternità . - Ma ella è futura. - Appunto per questo gli uomini, trattenuti dal glutine della vita presente, non danno la dovuta importanza all' eternità, e giudicano stolti quelli che gliela danno. La vita futura risponde a quella dimanda: da mihi punctum . E` il punto fuori del mondo, sul quale la religione punta la leva e muove il mondo stesso. O conviene rinunziare alla religione, o conviene ammettere che questo è vero. Se poi questo è vero, tutto è indifferente fuori che Dio, fuori che la parola di Dio, i segni della volontà di Dio, i mezzi conosciuti pe' segni della volontà di Dio; insomma Dio solo in tutte le cose: « et exaltabitur Dominus solus ». Un giorno non sarà più virtù amare la vita eterna, perchè sarà presente. Virtù è amarla ora, perchè è lontana. Oh non lascino gli uomini passare inutilmente questo tempo del merito e della virtù! Ecco il mio voto. 1.33 Mio soavissimo amico e fratello in Gesù Cristo nostro bene, Cercate di piantare in tutti un amore sviscerato per la verità e per ogni bene . Dominando in noi un grande e prevalente amore della verità , noi la cercheremo da per tutto, e ci chiameremo sempre felici quando potremo averla acquistata. Se mai noi la troveremo nelle parole di un nostro amico o fratello, ella riuscirà ancor più cara, e gli resteremo obbligati d' averla insegnata. Se dovremo deporre una nostra opinione per la verità, qual cosa più dolce di questo? Subito con un sentimento di bella umiltà diciamo: « io era in errore, ora ho conosciuto il vero: ne sia lode a Dio: lo sapeva già di essere ignorante ». Infatti noi dobbiamo sapere e tenercelo ben certo, che siamo ignorantissimi, anzi l' ignoranza stessa in persona. E l' ignoranza ricuserà d' imparare? oh questo poi no. Per tal fine non fuggiamo la disputa accademica : anzi, io vi do per consiglio di cercarla voi stesso, ma sempre con buon umore, con ilarità, umiltà e carità; oh quanto bel campo non troverete in essa da esercitare tutte queste virtù, da sempre più conoscere voi stesso, e da vincervi salutarmente! Sapete già la bella dottrina dello Scupoli: per andare avanti nella virtù, conviene sfidare a battaglia, cimentare i nostri vizi, fuori che in ciò che è contrario all' onestà. Di questo dunque vi consiglio. Parimenti posso dire dell' amore del bene . Se noi abbiamo un vero e compìto amore pel bene, noi ameremo sicuramente ogni bene dovunque lo troveremo, in ogni persona, in ogni circostanza, sotto qualunque forma. Ah! la nostra bella legge è legge d' amore: l' amore non odia nè invidia chicchessia; egli non vuole in ogni cosa che il bene. Così si forma un' anima dilatata, che corre nella via dei divini comandamenti. Per riuscire ad ottenere questo, spargiamo lagrime dinanzi a Dio giorno e notte; e i nostri sforzi saranno certo coronati. - Ora qui nella Chiesa capitolare si sta facendo il Giubileo: i predicatori sono don Giacomo e don Giovambattista. Don Luigi è impegnato pel prossimo quaresimale. Abbiamo dimande di missioni da tre luoghi. Domenica scorsa abbiamo ricevuta l' abiura di un nuovo calvinista; ed è il ventesimo che abbiamo la consolazione di riunire alla Chiesa cattolica dopo che siamo qui. Sia lodato il Signore. Insomma, affari non ne mancano: « rogate Dominum messis ». Le Figlie della Provvidenza prendono un buon avviamento per la misericordia divina. Da per tutto se ne vorrebbero: fin ora non ne abbiamo conceduto che a Torino; ma presto dovremo darne ad altri luoghi. Preghiamo tutti d' accordo il Signore per tanti bisogni che abbiamo. Se egli non ci assiste, che possiamo noi fare? Vi raccomando l' anima di un mio condiscepolo che amai tanto. [...OMISSIS...] 1.33 Ho ricevuto la lettera vostra e quella del conte Salvadori, colle quali mi parlate del tentativo che si sta facendo di erigere una casa di ricovero pei poveri nella mia patria; e mi chiedete di voler entrar anch' io in parte della spesa necessaria per quest' opera. In quanto a quest' ultimo punto, io non mi ricuso; e scrivo al conte Salvadori di dar per me quella somma maggiore ch' io posso. Dopo di ciò però permettetemi, mio caro D. Paolo, ch' io vi dica candidamente il mio sentimento, come si fa cogli amici, intorno al merito di questo progetto e di questo tentativo. Non voglio già far torto alle intenzioni; e sono persuaso che molti per puro zelo del bene e per un sentimento di vera carità si facciano promotori di quest' opera, e uno di questi siete voi, mio carissimo. Ma in quanto all' opera stessa, in quanto alla massima de' reclusori de' poveri, io ho variato di sentimento. Fu un tempo nel quale io accoglieva con entusiasmo tutti questi progetti e piani di pubblica beneficenza, e debbo forse rimproverarmi di aver guardato qualche volta con un occhio severo e disdegnoso quelle persone che si mostravano fredde a cooperarvi, o di contrario avviso. Ma ogni anno si fa qualche riflessione nuova, si aumentano le osservazioni, e si vanno verificando le cose, come sono in realtà, senza lasciarsi ingannare (o piuttosto disingannandosi) dalle apparenze, dalle promesse, e da quelle speranze senza limite, che una fantasia giornaliera e ancora verginale somministra incessantemente ad un cuore benevolo. Io vi dico la verità, non sono più amante de' reclusori de' poveri dopo averne veduti tanti, e dopo aver letto ciò che uomini savii hanno scritto sopra di essi, e più di tutto dopo aver meditato io stesso sull' intrinseca natura della cosa. Egli è bensì vero che v' ha una infinita differenza da reclusorio a reclusorio, il che nasce dalla diversità de' loro regolamenti e del primo loro impianto: ma appunto l' estrema difficoltà di dare un regolamento sapiente ad un tale istituto è uno degli scogli che s' incontrano, e che gli uomini superficiali non calcolano per nulla. Un altro timore mio si è che questi istituti, i quali, al modo che si concepiscono comunemente oggidì, appartengono ai protestanti, non sieno già effetti di una vera carità cristiana, ma piuttosto del sottile egoismo e della mollezza del secol nostro, il quale contraffà la stessa carità, e veste i vizi da virtù, facendo servire con una perpetua finzione e colla più indegna ipocrisia le cose tutte al proprio interesse. In vero nè Gesù Cristo, nè gli Apostoli ci hanno mai insegnato a non poter sopportare sotto gli occhi nostri i poverelli e ad allontanarne il loro aspetto da noi: Gesù Cristo e gli Apostoli non ci hanno mai insegnato ad essere tanto insofferenti che ci riesca di una noia insopportabile il sentirci a domandare un pezzo di pane, talora più colle lagrime che colle parole. Non è egli una gran durezza di cuore l' esserci cosa insopportabile che il sentimento della nostra compassione sia suscitato dalla vista delle miserie de' nostri simili? E` questo sentimento una cosa sì trista, che si convenga far di tutto perchè egli non sia in noi mai commosso, e da dover inventare un sistema per giungere a far sì che il pubblico non abbia mai bisogno di essere compassionevole? saremo più felici quando la nostra compassione non sarà mai più eccitata? la società si renderà migliore? Voi direte che non si fa per questo il reclusorio de' poveri; ma per impedire la mala vita di molti e l' ozio coperto sotto la professione di povertà. Mio caro D. Paolo, l' uomo nelle sue operazioni ha de' secreti che non vuol rivelare a tutti: il suo cuore talora non si rivela neanche a lui medesimo, se pur l' uomo non faccia una sottile disamina di sè stesso; perciò ben sovente le operazioni umane hanno un pretesto ed un motivo. Il pretesto si dice, ed il motivo si tace. Considerate con profonda attenzione ciò che ho detto e ne sentirete la verità: ma ch' io l' abbia detto nol dite a persona del mondo, perocchè gli uomini non la perdonano mai a chi rivela un loro secreto. [...OMISSIS...] 1.33 Ho letto le vostre lettere, ed ecco quanto il Signore mi suggerisce al cuore di dirvi. State certo che ogniqualvolta, venendoci proibite dai superiori le penitenze, noi sofferiamo una grande alterazione, un turbamento eccessivo, una grave malinconia, egli è segno che vi è dentro di noi un gravissimo difetto; che vi è un attacco pernicioso a quelle mortificazioni e penitenze che noi facevamo, sieno esse poche o molte, ciò non importa. Questa è dottrina sicura, mio caro, confermata da tutti i Santi. Noi dobbiamo fare le mortificazioni e le penitenze in modo da poterle lasciare al menomo cenno del Superiore o del Confessore, senza nessunissima difficoltà, anzi con allegrezza grande di cuore; perchè tutto ciò che vuole l' ubbidienza ci dee rallegrare sempre, qualunque cosa ella voglia, e senza pensare altro. Se l' ubbidienza non ci rallegra, ma ci rattrista, ma ci fa dare indietro, ma ci fa pensare all' una cosa e all' altra, e c' induce a biasimare nel nostro cuore il comando; la cosa è chiara, noi siamo ben lontani dalla perfezione, e colle penitenze che facevamo prima, c' ingannavamo miseramente, credendo d' andare avanti nella strada delle virtù: ma sotto la cenere ed il cilicio abitava pur troppo il serpente. Ringraziate dunque di tutto il vostro cuore la misericordia del Signore, che si è servito della voce del vostro Superiore per trarvi d' inganno e farvi vedere la verità coll' esperienza appunto che avete fatto di voi stesso, alla prova del dover lasciare le penitenze. Orsù rallegratevi dunque, e presentemente occupatevi a vincere in voi questo difetto ed a rendervi perfettamente indifferente a far penitenze ed a tralasciarle, sì che serviate il Signore con gran libertà di cuore, e confidando nella sua bontà e non nelle opere penitenziali per sè stesse. Tutti i pensieri che vi vengono contro questa dottrina, per quanto sembrino pii, non sono che sofismi, che vi fa il finissimo demonio per ingannarvi. Iddio vuole che confidiate in lui solo: e Iddio non vi mancherà se cercherete non le penitenze, ma l' ubbidienza: a quest' ultima troverete annessa un' abbondante grazia. Abbiamo dunque scoperto il nemico, la vittoria vostra sarà certa. Attendo vostre lettere per sentire che vi scuoterete d' attorno le tentazioni; e negando il vostro giudizio, correrete ilaremente per la via giusta che il Signore vi mostra per sua misericordia. Vi abbraccio teneramente. Salutatemi tutti i nostri cari; a molti de' quali debbo e desidero scrivere da molto tempo, massime al caro don Giacomo. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.33 Chiamandovi Iddio per la bocca de' vostri Superiori ad assumere (benchè per ora solo in prova) la Scuola elementare de' fanciulli del comune di Calice, voi ricevete con ciò una dolce e grave missione, della quale dovrete render conto ai Superiori vostri, e, ciò che è più, al tribunale del vostro Creatore, onde veracemente vi viene da esercitare tale ministerio di carità. E però l' amore, che vi porto vivissimo nel Signore, mi stringe a dovervi munire, in tale circostanza, della presente breve Istruzione, sulla quale dirigendo la vostra condotta, l' incarico datovi vi diverrà, come io spero, una via diritta pel Cielo. Primieramente vi raccomando di badare, che il nuovo ufficio non diminuisca punto in voi il raccoglimento religioso, l' esattezza nel mantenere le regole e la piena dipendenza e sommissione verso i vostri Superiori; ma che anzi queste virtù in voi s' accrescano, rendendovi per amore di Cristo via più simile a que' fanciulli, che or venite ad avere sempre sott' occhio, e ne' cui teneri cuori dovete coltivare le care virtù proprie dell' infanzia, quali sono la semplicità, la purità, la mansuetudine, la sincerità, la docilità e la dolcezza. Per conoscere quanto dovete amare in Gesù Cristo i fanciulli, che vi vengono consegnati, meditate spesso quanto stanno a cuore al divin Redentore, e quelle sue parole: « lasciate che i pargoletti vengano a me »; come pure quelle altre: « chi avrà scandalezzato uno solo di questi pargoletti, che credono in me, meglio sarebbe stato per lui che, sospesagli al collo una mola da mulino, fosse gittato nel profondo del mare ». Proponetevi di condurre i fanciulli come esseri ragionevoli e cristiani coi due mezzi della ragione e della fede ; chè altro non si dà, che meglio possa nell' uomo, di questi due mezzi. Perciò voi dovete arricchire l' animo de' giovanetti di motivi di operare sempre puri e nobili; giacchè questi soli sono ad un tempo ragionevoli ed evangelici; e le intenzioni torte e ignobili, che inavvedutamente si seminano ne' teneri fanciulli a ritroso della retta natura, recano in essi un guasto segreto e, quasi direi, una etisia morale fino nei primi loro anni infantili, e sono l' origine sconosciuta di quegli aperti vizi, che contaminano l' età matura e straziano la società. Ma sappiate tuttavia, che il giovanetto non viene corretto e abbonito, se non dalla interna operazione di Dio, che l' aiuta a custodire i divini comandamenti, come dice il salmo: « in che corregge il giovanetto la sua strada? nel custodire i tuoi comandamenti »; però dovete con ferventi preghi ottenere che Gesù, solo maestro degli uomini, accompagni e avvalori le vostre sollecitudini, mantenendo e sviluppando in essi la grazia del Battesimo. Per infondere poi ai giovanetti un abito di operare con ragionevolezza e secondo il lume divino, vi conviene quest' abito mostrarlo loro nel vostro proprio contegno. Tutto ciò che voi fate adunque sui loro occhi, e tutto il trattar vostro con essi sia pacato e pieno di lume; e cotesta chiarezza e pacatezza del vostro operare vi renderà più amabile a loro, che non farebbero delle carezze senza ragione. Vi raccomando adunque quella dolcezza non ricercata, che nasce spontanea da un operare nella tranquillità della luce interiore, dove non havvi mai indizio di passione, o d' ira, e che la divina Scrittura mette sempre in compagnia della sapienza, mentre alla stoltezza dà per carattere l' iracondia. « « L' iracondia, leggesi in Giobbe, veramente uccide lo stolto » (c. V) »; e ne' « Proverbi : « la verga della superbia è nella bocca dello stolto »(c. XIV) », e poco appresso si legge anche questa bella sentenza: « « quegli che è paziente governa assai cose colla prudenza; ma quegli che è impaziente fa apparir ben grande la sua stoltezza »(ivi) ». Le quali sentenze, ed altre tali delle Sacre Lettere vi forniscano spesso materia alle vostre meditazioni. Mantenete con religiosa puntualità le ore prescritte alla scuola e tutto ciò che viene ingiunto dai « Regolamenti » intorno alle Scuole elementari e dai « Capitoli » del comune di Calice. Tanto di quelli poi come di questi sarà vostra cura di procacciarvi due copie, e comunicarne una a chi tiene ufficio di Superiore nella Casa del Sacro Monte, che la riporrà negli archivi. Abbiate un vero zelo, acciocchè i giovanetti a voi affidati imparino a francamente leggere, scrivere e conteggiare, e gli altri oggetti, scopo della scuola. E a tal fine voi dovete por l' animo vostro a procacciarvi tutte le cognizioni a ciò opportune, le nozioni di una buona pedagogia, e la maniera pratica più confacevole a dare con perfezione l' istruzione, facendo conto dei libri che vi possono a ciò giovare. Finalmente considerate che voi riuscirete probabilmente, se così ne piace a Sua Divina Maestà, il primo maestro elementare approvato dall' Istituto della Carità; e che vi incombe perciò il dovere di rendervi forma e modello di quelli che Dio volesse mandare di poi. Farete, prima di cominciare il vostro ministero, quindici giorni di spirituali esercizi a fine d' impetrare la grazia che vi abbisogna, e di prepararvi allo stato chericale, a cui sarete ascritto ricevendo la chericale tonsura. E dopo che, assistito dal divino aiuto, avrete dati argomenti della vostra fedeltà e perizia in questo servizio del Signore, cioè come maestro in prova del comune di Calice, sarete al debito tempo, così piacendo al Signore, ordinato altresì Lettore della santa Chiesa, e dichiarato maestro approvato dell' Istituto della Carità. [...OMISSIS...] 1.33 Non avrete preso sicuramente a male il mio tardare a rispondervi, perchè la vostra carità sa bene che desidererei essere sempre pronto a rispondere e conversare co' miei cari compagni; ma che delle varie cagioni ed occupazioni talora me lo impediscono. Ora ritornato da un viaggetto che ho dovuto fare per negozii del nostro Istituto, sono con voi, mio carissimo. Sperava di vedervi ed abbracciarvi tutti quest' autunno; il Signore non volle ancora concedermi una tanta consolazione; spero tuttavia che me la concederà almeno all' aprirsi della nuova stagione. Per quanto allo stato dell' anima vostra che diligentemente mi descrivete, io spero bene, mio caro, nella misericordia di Dio. Io veggo che il Signore permette che l' inimico del bene vi dia una battaglia forte e penosa; ma non vi lasciate far paura, perchè confidando nella croce di Cristo, tutto sarà superato. Quello però che trovo il punto principale al quale dovete rivolgere le vostre armi, si è a conseguire la cara mansuetudine di Gesù Cristo. « « Imparate da me che sono umile e mansueto di cuore » »: oh quanto sono belle queste parole! esse racchiudono il carattere vero di Cristo e del Cristiano! Ritenete, mio caro, questo principio infallibile: ogni iracondia, ogni turbazione irosa, ogni malevolenza, ogni acrimonia viene dal diavolo. Con questo principio alla mano voi potrete subito discernere i diversi spiriti che si manifestano nel vostro interno. E` egli uno spirito di dolcezza, di pace, di cedevolezza, di amore? Dite tosto: questo è spirito di Dio, e io debbo secondarlo. E` all' incontro uno spirito di opposizione, di durezza, di tristezza, di censura, di odio? Dite tosto: questo è spirito del demonio che mi seduce, che mi violenta; io non voglio acconsentirvi, lo sofferirò come una tribolazione, ma io non lo seconderò, non opererò nulla dietro il suo incitamento. Oh voi felice, se diverrete appieno mansueto! e se ucciderete in voi ogni iracondia, anche quella che vi si presenta sotto l' abito di zelo, ma di zelo amaro e non conforme al vostro ufficio! Voi con questo studio della carissima virtù della mansuetudine acquisterete tutte le altre; l' ubbidienza, l' umiltà, la rassegnazione e la pazienza, come pure quella che S. Filippo Neri chiamava la mortificazione razionale , sono comprese nella mansuetudine. Questa vale più di tutte le austerità e penitenze esterne, le quali non valgono nulla, se non sono umiliate e sottomesse all' ubbidienza e alla direzione anche diversa ora d' un superiore, ora d' un altro; secondo che l' uno o l' altro regge la casa. In questa diversità di direzione, mio caro, consiste una bellissima occasione di vera virtù, e una prova a vedere se siamo sì o no veramente mortificati interiormente. Quell' uomo, il quale non sa cangiarsi con tutta facilità e senza nessuna resistenza, a tenore del cangiarsi de' superiori, non è sicuramente mortificato: e tutto ciò che fa, anche di più austero, non prova in lui punto una vera mortificazione, che dee sempre essere radicata nella docilità e pieghevolezza della volontà, e, in una parola, nell' annegazione di se stesso. Osservate, mio caro, che Gesù Cristo, dando il precetto di portare la sua croce, vi premise queste parole: « « Se alcuno vuole venire dietro a me, neghi se stesso » »: e ciò perchè nulla sarebbe il portare la croce, se prima non ci fosse l' annegazione di se stesso. Non ogni croce è la croce di Cristo; la croce di Cristo non è quella che diamo noi a noi stessi; ma quella che ci è data dall' ubbidienza, con negazione della nostra volontà e del nostro intelletto. Le penitenze esterne adunque, che sono come la croce, sono buone, se noi le prendiamo con avere premessa la negazione di noi stessi: altramente il volerle è un inganno dell' inimico. Tenetevi, o mio caro, a questi principii che sono gli infallibili del Signore. Varrà più per voi un solo atto di rinunzia al vostro giudizio e alla vostra volontà, che tutte le austerità che potreste pensare. Rendetevi adunque a queste indifferente, nè vi turbi l' esservi negate, o comandate, o permesse. Tutto sia lo stesso per voi. Nulla desiderate altro che la dolcezza, la pace, la ubbidienza e il negare voi stesso. E` meglio che conserviate nella pace della carità il vostro cuore, di quello che sia che convertiate il mondo. Mirate dunque sempre nell' esemplare nostro amabilissimo Gesù Cristo, e diventate così amabile e tranquillo come lui. [...OMISSIS...] 1.33 «Mio reverendo e caro consacerdote e compagno nel servizio del Signore. » Perdonate se ho tardato a rispondervi, e attribuitelo alle mie occupazioni che mi hanno fatto essere assente, come sono ancora, dalla casa di Trento. Ora sono con voi, la cui lettera mi fu carissima, per le notizie genuine che di voi stesso mi date. La ripugnanza e la noia che voi accusate, è il solito effetto, mio caro, che si manifesta in quelli che si danno alla vita ritirata e religiosa, ed è una delle più forti prove che dà il Signore, una delle più utili occasioni di vincere noi stessi e di acquistare un solido merito. Questa vittoria sulla noia e sul tedio per la ristrettezza della vita e della libertà, non ha niente che ecciti l' amor proprio e non è considerata dagli uomini: tanto più ella è da Dio! Io spero che voi ne riporterete colla vostra costanza, mediante la grazia del nostro Signore, un pieno trionfo; ed allora comincierete a gustare come cosa dolcissima anche ciò che a principio sembra insopportabile. Se voi, ammirando l' umiltà de' vostri compagni che dimandano con tanta frequenza pubblico perdono di alcune loro mancanze, non vi sentite per anco cuore di imitarli, ciò punto non vi turbi, perchè questa specie di ripugnanza la vincerete col tempo. Sopportate solamente voi stesso, e non esigete da voi di più di quello che potete: la grazia e la virtù viene a gradi: a quelli che ancor ci mancano, suppliamo coll' umiltà e col riconoscere candidamente che gli altri sono in quel dato rispetto più umili o più perfetti di noi. Per altro, senza inquietarci, prefiggiamoci di vincere ogni specie di ripugnanza, aspettando intanto il tempo che il Signore ce ne dia le forze, e dimandando queste forze con ferventi desiderii e preghiere. Così soavemente procederemo innanzi, senz' alcun turbamento. Per altro, circa il domandar perdono, egli non è necessario che la materia sia una colpa morale, dovendoci noi umiliare anche per le limitazioni della nostra natura, o per le mancanze della nostra vigilanza: ma è bensì sempre necessario che sia una imperfezione : perchè altrimenti, se non fossimo convinti che ciò di cui formiamo materia di pubblica accusa non fosse nè pure imperfezione alcuna, quell' atto dell' accusarci non sarebbe sincero : e niente si dee fare che non sia candido, sincero e proveniente dall' interna nostra convinzione. [...OMISSIS...] Desidero moltissimo di vedervi e di trattenermi con voi a lungo, mio carissimo; ma pare che il Signore non mi voglia dare questa consolazione per ora: al più lungo però spero d' essere al Calvario in primavera. A quando a quando scrivetemi, e contate d' avere in me un amico. Vorrei che mi traduceste in bella lingua francese il piccolo libretto delle « Massime di perfezione », che vorrei anco pubblicare. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.33 Ricevo in questo momento la vostra dei 21 corrente la quale mi lascia ancora fra la speranza e il timore. Piacesse a Dio che egli vi avesse veramente illuminato a scorgere l' inganno orribile dell' inimico della vostra anima! Non m' inganno, no, a dire che il nesso dell' Istituto della Provvidenza e della Carità è unicamente progettato . Dovete adunque sapere che tutte quelle Costituzioni che furono scritte al Calvario sono tutte meramente progettate ; e non sono mai e poi mai definitivamente stabilite, se prima non sono provate dalla sperienza e quindi confirmate dalla Santa Sede. Tanto è poi vero che quelle regole sono unicamente progettate, che anzi possono essere cangiate da un giorno all' altro, purchè la ragione e l' esperienza il permetta. Oltre di ciò voi confondete più questioni in una, mio caro, perchè altro è dimandar « se il nesso dell' Istituto della Carità con quello della Provvidenza vada bene sì o no »; altro è il dimandare « se posto che il direttore dell' Istituto della Provvidenza sia un membro dell' Istituto della Carità, questi possa operare a proprio arbitrio contro il grado di autorità ricevuta dal superiore dell' Istituto della Carità a cui è soggetto ». La prima questione può essere controversa, ed io non l' ho mai definitivamente decisa. Ma la seconda non è punto controversa; e l' ubbidienza perfetta che esige l' Istituto della Carità, non ammette sicuramente che un soggetto di questo Istituto sia indipendente sotto nessun rispetto e in nessun genere di cose. Ciò sarebbe una mostruosità; si introdurrebbero subito mille scismi, l' Istituto diverrebbe un' idra con cento capi e non potrebbe sussistere. Io non dirò dunque che l' Istituto della Provvidenza debba aver per direttore sempre un membro dell' Istituto della Carità; ma dico bensì che ove l' Istituto della Carità concede che un suo membro però diriga ed anche fondi un Istituto qualunque, questo membro non viene menomamente esonerato dal peso dell' ubbidienza sotto nessun rapporto; e solo opera tutto ciò che fa in virtù d' ubbidienza e d' autorità non propria, ma ricevuta. Tale è il vero concetto della santa ubbidienza in ogni Istituto religioso; e chi si vuol sottrarre a questa sicurissima virtù dell' ubbidienza, si mette a pericolo di perdere la vocazione e la perde sicuramente, è ingannato dal demonio, e l' eterna sua salute è per lo meno incerta assai, perchè ricusa i mezzi sicuri datigli da Dio di salvarsi nella guida de' suoi superiori. Val più ubbidire, mio caro, che convertire il mondo. S. Francesco Saverio era pronto ad abbandonare i milioni d' uomini, che si convertivano alla sua voce, ad un solo cenno del suo superiore! La sua fantasia non lo illuse, nè lo trasse a dire: « Il mio superiore erra, o il mio superiore non sa, non vede il bene, e la maniera di ottenerlo », oppure: « io sono chiamato da Dio ad evangelizzare questi popoli: dunque abbandonerò il mio superiore e la religione per esser più libero e far tanto bene ». Povero lui, se avesse detto così! Con un simile discorso ogni religioso potrebbe sottrarsi all' ubbidienza, col pretesto di maggior libertà a fare il bene, ed uscire dal proprio Istituto. Inganno deplorabile! « Manete », dice S. Paolo, « in vocatione »: e non mutate col pretesto di maggior bene. Io veggo tutte le orribili conseguenze che si trarrebbe dietro la vostra defezione dall' Istituto della Carità per un pretesto simile, delle quali la minima di tutte sarebbe, che il mondo stesso scandalizzato vi abbandonerebbe, e voi vi trovereste alla fine privo di tutti quegli appoggi di cui ora vanamente vi lusingate. Di questo ho moral certezza, e ne ho prove positive e documenti nelle mani; ma questo, come dico, sarebbe ancora il minimo male; il più grande per me sarebbe quello di veder voi tirato in un abisso, e per riparare ad un errore commetterne cento, e dopo aver cominciato colle più belle speranze trovarvi infine colle mani ne' capelli e coll' aver fatti moltissimi mali nel mondo per aver voluto far troppi beni, non secondo Dio , cioè secondo le regole sicure de' santi. Per tutte queste ragioni e per molte altre voi vedete adunque la risposta ch' io son disposto a dare, alla vostra lettera del 21 corrente. Io non posso assolutamente concedervi nè pure ad tempus quella indipendenza che mi dimandate, perchè distruttiva dell' Istituto della Carità, e perchè sarei responsabile di tutti i passi precipitati e falsi che potreste commettere per fantasia riscaldata. Voi poi in fine alla lettera vostra mi fate un' alternativa, o « di ritirarvi dall' Istituto della Carità secondo la vostra lettera del 30 ottobre; o che io assuma i vostri impegni e che disaggravi voi dalla direzione dell' Istituto della Provvidenza, promettendomi che voi starete in quel minimo posto che giudicherò di assegnarvi al Calvario ». Io accetto questa seconda proposta, e vedrò in questa mia accettazione se il vostro parlare sia sincero. Voi nulla sfigurerete nè verso il Governo sardo, dicendo che il vostro superiore ha richiamato a sè il carico della direzione dell' Istituto della Provvidenza, volendo egli impiegar voi in altri affari, e che perciò se l' intendano con me. Dio mi aiuterà, lo spero, nè ricuserò mai di far manco conto del vostro consiglio e dell' opera vostra, che voi mi presterete senza pericolo alcuno dell' anima vostra nè dell' Istituto. E` l' unico partito che mi resta. Lasciarvi uscire dall' Istituto non mi patirebbe mai il cuore, e peccherei sicuramente contro la carità, cooperando all' opera manifestissima del demonio. Aspetto dunque nuova lettera e veramente consolante, nella quale mostriate di aver parlato da uomo sincero, e non facciate alcuna nuova difficoltà a questa vostra promessa, dalla quale tanto dipende sia riguardo all' anima vostra, sia riguardo ai due Istituti. Scrivetemi subito; e dietro alla lettera che mi consoli, mettetevi in viaggio voi stesso per venire a Rovereto, dove vi fermerete in casa mia, ed io ci verrò pure tosto; mi direte tutti i vostri impegni, concerteremo tutti i mezzi di soddisfare pienamente ai medesimi ed accorderemo insieme ogni cosa. Ho confidenza che da quell' epoca che ciò sarà fatto, comincierete ad essere un vero superiore dell' Istituto della Carità, e comincierà una nuova e veramente salutare carriera della vostra vita. Vi abbraccio intanto tenerissimamente, aspettando con impazienza che mi togliate giù questa pietra dal cuore. Addio. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.33 Sabbato è giunto qui il caro vice7Superiore, ed io pure mi son qua recato tosto per conferire con lui. [...OMISSIS...] Appena mi vide si mise in ginocchio, e l' ho trovato intieramente rientrato in se stesso. Come vi aveva scritto io sperava che il Signore non avrebbe certamente abbandonato questo suo servo e zelante ministro. Dite dunque il Te Deum e fate fare continua orazione, acciocchè ogni cosa si componga alla gloria di Dio, e con istabilità di successo, come spero nel Signore; avendomi il Signore già anche prima confortato molto con questa tribolazione. Ho ricevuto la vostra dei 30 novembre. Avrei gustato meglio che non vi foste giustificato. Quando Maria SS. vide che S. Giuseppe doveva dubitare della sua fedeltà maritale si tacque, e lasciò a Dio la cura di sgombrare (se egli avesse creduto) ogni dubbio dall' animo del suo sposo. E non dee essere la Madre di Dio il nostro modello? Non l' abbiamo noi scelta perchè sia la causa esemplare della nostra Società? Perchè dunque imitarla sì poco nella rassegnazione, nell' abbandono di noi stessi in Dio? Quando poi volete anche scusarvi (il che non sarebbe secondo la perfezione), da qui in avanti non adoperate più queste espressioni di troppa sicurezza: « debbo disingannarla di un errore in cui so essere stato ecc.. Tanto Ella che Don Giovanni hanno creduto che io, ecc. »; ma dite più tosto: « forse Ella potrebbe aver creduto... Io temo non forse Ella, ecc. »: come vuole la modestia e la riserbatezza, non meno che il rispetto verso i propri Superiori. Aggiungete di più, che in materia di attacchi è sconveniente al tutto purgarsi con quella sicurezza che fate voi; perchè gli attacchi acciecano; ed ognuno dee dubitare di se stesso, e non assicurarsi. Quando anco voi foste purissimo d' ogni attacco, non dovreste mai dirlo, ma lasciare che lo dicano gli altri, e voi mantenervi nella santa umiltà interiore ed esteriore. Nè crediate che il sentire ripugnanza in qualche cosa sia certo segno di non avere attacchi a quella cosa; perocchè qui si tratta principalmente di attacchi spirituali, i quali consistono in una certa estimazione e persuasione di far bene in qualche impresa, con certa durezza di giudizio proprio; e simili attacchi possono stare insieme con repugnanze naturali; anzi queste ripugnanze possono illudere, ed essere appunto la materia della nostra ostinatezza di giudizio e del nostro attacco. Del non avere questi attacchi perciò non si dà altra prova, se non il trovarsi così liberi, che al solo conoscere la volontà del Superiore ed anco il suo desiderio, senza ragionare, senza dubitare, senza replicare, senza indugiare, tosto con grande allegrezza si lasci tutto per conformarsi al desiderio del Superiore. Vi scrivo queste cose, mio carissimo, per la certezza che ho che voi non cercate altro a tutto vostro potere, che di corrispondere alla santa vostra vocazione, rendendovi un vero membro dell' Istituto della Carità, come vien descritto nelle regole. Abbiamo coraggio nel Signore, che è con chi spera in Lui. Egli ci aiuterà indubitatamente. Vorrei fra le altre cose, che in tutti noi s' introducesse un sincerissimo desiderio ed amore della correzione. Oh che bel mezzo è questo per andare innanzi! [...OMISSIS...] Vi compassiono poi di cuore di ciò che mi dite circa le molteplici vostre occupazioni che vi tolgono il tempo di pensare a voi stesso e d' istruirvi. Ma, mio caro, portate ancora voi un po' di pazienza offerendo la vostra croce al Signore. Io penserò intanto qualche via di consolarvi; e alla più lunga spero di farlo quando verrò al Calvario all' aprirsi della stagione. Intanto armatevi di fortezza. Vi raccomando poi di essere dolce e benigno, [...OMISSIS...] Ditemi se vi siete emendato circa il difetto che v' ho notato di essere troppo lungo nelle divozioni.

Epistolario ascetico Vol.II

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Egli è Dio stesso che ci difende quando siamo innocenti, e a lui dobbiamo abbandonarci. - Finalmente vi avviso di un altro inganno dell' amor proprio. Questo imbroglione si veste talora da umiltà. Egli ci fa parere i nostri difetti maggiori che non sono, e anche nelle accuse che si fanno ai Superiori ci suggerisce di esagerare. Esaminatevi anche su questo punto: i vostri difetti non v' impauriscano: confidatevi pienamente in Dio, coll' aiuto del quale sicuramente li vincerete: non pretendete troppo da voi stesso, e accusatevi colla massima semplicità. Se io volessi mettere a confronto due parti della vostra lettera, quella nella quale vi scusate, e quella nella quale vi accusate, risulterebbe una singolare contraddizione; secondo la prima non ci sarebbe difetti in voi, secondo l' altra ve ne sarebbero moltissimi ed eccessivi. Non procediamo dunque secondo la fantasia, ma una serena ragione e una carità dolce e piena di pace accompagni i nostri pensieri e le nostre parole. Vi raccomando di nuovo, in ciò che dite nelle istruzioni non fate cadere delle proposizioni troppo severe e che non reggerebbero a martello, provate colla norma di una discreta e savia morale; particolarmente badate « di non far precetto quello che è sol consiglio, e di non far peccato mortale quello che è solo veniale ». - In penitenza delle vostre mancanze v' impongo di leggere con tranquillissimo animo tutti gli avvertimenti personali che vi ho dati in diversi tempi, e che tenete registrati nel vostro libretto. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.36 Don Luigi per vostro ordine mi annuncia la malattia del Giacomino Somaglia. Collo stesso spaccio di posta il conte Cesare Castelbarco me ne fa conoscer la perdita. Io m' immagino quanta sia la vostra afflizione per un caso sì impreveduto, e questo è quello che più mi addolora, il pensiero dello stato vostro. Dall' altra parte rifletto alla cristiana vostra fortezza provata per tante sciagure, alla bontà infinita di Dio che suole proporzionare i pesi alle forze di quelli a cui li impone, e che suole anche accrescere nel bisogno queste forze medesime colla santissima sua grazia. Questa riflessione alquanto mi solleva, e mi fa confidare pienamente, che questa disgrazia secondo la natura, sia da voi sostenuta colla solita vostra invitta rassegnazione, la quale vi alleggerirà l' acerbità della ferita, aggiungendovi merito e premio. Certo che voi vi vedrete anche un tratto dell' ineffabile bontà di Dio in darvi occasione di mostrargli l' amor vostro coll' uniformarvi di pienissimo cuore alla sua adorabile volontà. Non v' ha certamente nulla di più amabile della volontà di Dio, anzi non v' ha di amabile che essa sola; e non v' ha altro bene che il poterla conoscere ed adempire. Ma quando la dolcissima volontà del nostro Dio ci impone qualche sacrificio grave alla natura, oh allora mi sembra cosa infinitamente cara, e soave, e piena di giubilo allo spirito fedele, che ha riposto in Gesù Cristo il suo cuore, e il suo amore nelle sue piaghe! Amare la volontà di Dio nelle cose liete è poco amore, ed incerto se sia amore; ma amarla nelle contrarie è amor puro come l' oro affinato, amore che appaga l' anima che amando patisce. O mio caro Mellerio! voi non avete bisogno de' miei conforti, voi che m' avete detto le mille volte, come la nostra santa religione ci converta in letizie i più inamabili avvenimenti. Ma tuttavia non credo che vi sia discaro in queste circostanze tutto ciò che rammenta quanto sia preziosa per un cristiano la croce. Certo io provo contento a rammemorar queste cose, e però il faccio con un amico, come siete voi, col quale so di avere i sentimenti ed il cuore, per così dire, comuni. La mano di Dio toccando voi, ha toccato me pure. Questa mano sapientissima e onnipotente, che ha fatti i cieli, vuol formare noi pure al celeste amore; e il magistero delle tribolazioni, con cui ci forma, non è meno ammirabile di quello, con cui ha creato l' universo, sebbene sia un magistero occulto, e per quanto apparisce di fuori, piuttosto di distruzione, che di edificazione. Infatti distrugge le cose visibili per creare dentro di noi le invisibili, toglie dal nostro cuore gli oggetti terreni per darcene uno eterno, immenso, infinito, che valga per tutti i terreni e più e più senza misura. M' imagino la desolazione di vostra sorella e di casa Somaglia, e anche questa sarà occasione per voi di merito, il comunicar loro della vostra costanza. Io, appena ebbi l' acerba notizia, non ho mancato di raccomandare a Dio l' anima del defunto, e di farla raccomandare a' miei. V' abbraccio teneramente, e fra breve spero di vedervi. Che il Signor nostro Gesù Cristo crocifisso sparga nel vostro cuore una gocciola del preziosissimo suo sangue: non c' è balsamo più salutare. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.36 Sebbene fra poco spero di abbracciarvi, contando di partir di qui il 22 corrente, ed essere a Milano entro la settimana; tuttavia vi scrivo ancor questa. Non dubitavo punto che nel dolore voi sentiste ancor più vivo il senso della dolcezza della grazia di Dio. Il mondo è perverso, e forse era difficile al giovane di cui siam privati, di tirare innanzi con buon esito: Iddio lo prevedeva, e lo rapì, « ne malitia mutaret intellectum eius ». Tutto fa l' eterno amore con fini d' infinita misericordia: noi abbiamo a sperar forte, che misericordioso abbia voluto essere al giovane col prenderselo, e creder fermissimo che misericordioso abbia voluto esser con noi, parlandoci delle grandi verità colla lingua de' fatti, che è lingua di Dio. Vi prego, che anche Casa Somaglia conosca la parte che prendo all' infortunio, che sappia come non dimentico nelle mie povere orazioni quelli a cui ho tanta obbligazione e amicizia. Noi cerchiamo sempre più di fare quello che vuol S. Paolo che facciamo, tenendoci lontani dalla tristezza propria de' gentili, « qui spem non habent », e diamoci tutti al Signore. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.36 Conviene che l' istitutore della gioventù sia altamente persuaso che, a rendere buoni i giovinetti e ad operare efficacemente ed utilmente nel loro spirito, non v' ha che una sola e semplicissima forza, cioè la verità in tutta la sua estensione; intendo dire nella sua forma naturale e imperfetta, e nella sua forma soprannaturale e perfetta. Quest' ultima è la grazia di Gesù Cristo, che opera occultamente, onde solo viene la salvezza, la virtù intera e la felicità dell' uomo. Per conseguente egli è d' uopo, che l' istitutore non ponga troppo di sua confidenza ne' mezzi esterni, e dirò così meccanici, i quali possono bensì ottenere due beni, ma nulla più, cioè: 1 rimuovere le occasioni del male; 2 disporre indirettamente l' animo al bene. Ma questi mezzi non danno il bene stesso; non pongono che una cotale preparazione a ricevere il bene, consistente nella verità e nella grazia . Or quella maniera d' educazione, che mette ogni sua confidenza ne' detti mezzi materiali e dispositivi, in modo che trascura per questo appunto i mezzi immediati e formali, genera senza accorgersi due mali gravissimi negli animi della gioventù. In quanto ella si restringe ai mezzi preventivi e proibitivi , e in una parola ai mezzi negativi, produce una bontà apparente, posticcia, che si può dire una bontà da collegio; la quale se ne va tosto che il giovinetto non sia più rinserrato nelle sacre mura, e perciò non sia più circondato dai detti ripari, che, senza poterlo far buono, il mettevano nella impossibilità di operare il male all' esterno. In quanto poi quella educazione adopera de' mezzi positivi sì, ma puramente dispositivi al bene, quali sono la dolcezza delle maniere nei precettori, le carezze, le industrie, onde si rendono anche materialmente dolci le opere buone, la emulazione, ecc., essa, restringendosi a questo, cagiona nell' animo del giovinetto una falsa direzione d' intenzione, che è pur l' occhio dell' anima, onde dipende la lucidezza di tutto il corpo, come dice il Maestro7Dio, perchè ella non produce in fondo all' animo del giovinetto alcun vero amore della virtù per sè stessa, per la sua ineffabile bellezza e intrinseca giustizia; ma vi produce unicamente degli affetti umani verso i suoi precettori, un amore d' esser lodato, di essere carezzato, d' essere premiato, una cotal vanagloria, una stima di sè, l' ambizione, il desiderio di sovrastare ai suoi simili, che impara così ad invidiare, anzichè ad amare, nel quale amore starebbe pure la virtù, a cui si dee bramare di condurlo. Non è però che tutti questi mezzi, che soli nuocono, ma che adoperati insieme co' mezzi migliori preparano l' opera del render buono il giovinetto, non si debbano curare; anzi bisogna farne gran caso, come si fa della siepe che difende il campo dagli armenti. Il male sta, come dicevo, unicamente nel credere che in essi stia tutto, o il principale dell' educazione, o che l' educazione con questi soli mezzi sia pur incominciata. Il campo ben assiepato e senza semente non produce che mala erba. No, non valgono essi nè pure a porre il cominciamento, nè pure a dare il primo seme dell' educazione; ma, di nuovo il dirò, non possono essere che i preludi della grand' opera di rendere buono il giovinetto. Comincia quest' opera, e progredisce, e si consuma unicamente: 1 col far conoscere allo spirito del fanciullo la verità salutare, confortata dalla grazia; 2 col fargli contemplare la bellezza di questa verità che conosce; 3 col fare che s' innamori della bellezza della verità che contempla; e 4 coll' ottenere che operi in conformità alla bellezza di quella verità di cui si è innamorato . A conseguire tutto ciò una cosa sola ci abbisogna, ed è: che dinanzi al suo intelletto sia posta ben chiara la vista della morale verità di cui si tratta; la luce poi onnipotente di questa verità non viene che dalla divina grazia. Ora, acciocchè venga posta innanzi agli occhi dell' intelletto dei fanciulli la verità morale, conviene esporla loro con semplicità e con coerenza , non con ismancerie e con artifizi. Nostro Signore, che come Dio è la verità stessa, come uomo n' è il grande ed unico maestro, perciò è il modello dei maestri; sguardiamo in lui; niente di affettato, niente di ricercato o d' artifizioso, una sposizione chiara, breve, profonda, grave e vestita di quegli emblemi e figure sensibili, che sono agli uomini le più famigliari, ai non ancora sviluppati necessarie. Dissi anche, che la verità morale dee essere esposta con coerenza ; poichè vi dee aver coerenza fra il detto e il fatto ; la vegga il fanciullo e sulle labbra del maestro e nel suo volto e nella sua vita. Vi dee essere pure coerenza fra i vari detti dello stesso maestro, o di più maestri; perocchè non conviene alle diverse ore del giorno insegnargli cose diverse, e nelle circostanze accidentali della vita produrre delle massime contrarie a quelle che si sono insegnate nella scuola; e nella scuola fa duopo che sia tutto verità ciò che s' insegna, senza esagerazioni, senza finzioni, senza il mescolamento di quei pregiudizi che pur troppo respiriamo coll' aria; insomma coerenza di verità vuol dire, che sia verità purissima, scevra da ogni umana menzogna, o sacra o profana. Caro D. Paolo, non è così facile come si crede, il non mentire! Ora qui considerate bene, per avvicinarci al quesito che mi fate « come si possa render durevole la virtù dei giovani collegiali », che la verità è d' una bellezza eterna e cotale che nè viene in sè stessa mai meno, nè stanca mai o sazia di sè i riguardanti: anzi chi più lei contempla, più ne divien vago, e fin pazzo. Però quegli animi, a cui pur una volta venne gustata questa cotale ineffabile e vivificante bellezza della verità morale, non se ne staccano più se non difficilmente assai: epperò l' educazione di cotesti è bene assicurata, i quali mostransi virtuosi anche fuor di collegio, perchè furono veramente virtuosi in collegio. Non è in potere dell' uomo, come dicevo, dare alla verità morale quell' infinita luce che divinizza, per così dire, le anime umane, che in sè la ricevono, rendendole superiori a tutte le seduzioni di cotesto mondo e a tutti i terrori di lui; questa è opera della sola grazia, convien crederlo fermamente; di quella grazia che è la verità stessa sussistente , la quale per Cristo rifulge mirabilmente da sè in noi. Tuttavia ci sono dati dal Maestro7Dio i mezzi della grazia, e infallibili. Conviene dunque far sì, che i giovinetti usino degnamente dei Sacramenti di Cristo, e voi sapete che voglia dir degnamente . Questi Sacramenti pongono il suggello e danno l' efficacia alle umane nostre parole, chè anche esse, se vengono spirate dallo Spirito Santo che sta in noi, sono, dirò quasi, un cotal Sacramento, e danno la grazia. Ora, posciachè vi dicevo che il principal pericolo dei mezzi accessori è quello di storcere malamente le intenzioni dei giovinetti, e perchè finalmente nella sola dirittura d' intenzione sta e si compie il formale della virtù, vi aggiungerò qui in fine, quali siano le norme, che seguitano i fratelli dell' Istituto della Carità applicati ad educar giovinetti, circa la cura appunto di mantener diritta in loro la intenzione. Gli avvisi che loro diedi furono i seguenti: « Non sarà adoperato, a stimolare i giovinetti al bene, il motivo dell' emulazione; nè pure ella sarà ripresa quando nasce spontanea, ove non degeneri in invidia od in avversione. I motivi da adoperarsi a sprone de' giovinetti, altri sono primari , altri secondari . I secondari non debbono servire da sè soli, ma all' uopo di aggiunger forza ai primari. I motivi primari sono: 1 La bellezza della virtù; 2 Il merito che ha Dio di essere da noi ubbidito ed amato, Cristo d' essere imitato. I motivi secondari sono: 1 La voce della buona natura, che ci chiama a seguire la virtù; per esempio, la compassione, l' amor de' nostri simili, ecc.. 2 L' utilità che ci viene dalla pratica della virtù; per esempio, dalla temperanza la salute del corpo, dall' industria la ricchezza, dal sapere la stima de' nostri simili, ecc.. Questi due motivi debbono sussidiare il motivo primario della bellezza della virtù. 3 Il premio ed il castigo dell' altra vita. 4 L' esempio della Madonna e de' Santi, e in generale di persone virtuose, specialmente se abbiano attinenza di famiglia, di patria, di età o d' ogni altro modo co' giovinetti. Questi due ultimi motivi debbono sussidiare il motivo primario del merito che ha Dio di essere da noi ubbidito ed amato, e Cristo d' essere imitato. Voi vedete semplicità di queste regole: elle non contengono che cose note a tutti; ma se ho a dirvi il vero, parmi che, appunto perchè troppo note e non peregrine, poco assai si considerino. E ritengo, che ove dagli istitutori della gioventù queste verità sì semplici fossero profondamente meditate, e ognuno di essi intendesse ad eseguirle fedelissimo e a farne a sè legge inviolabile, una gioventù novella comparirebbe sopra la terra. L' intenzione, la purità d' intenzione, non mi stancherò di dirlo, è l' essenza della bontà e della virtù; e la virtù di natura sua è durevole, nè ella perisce col cessare della educazione collegiale; solo svaniscono i simulacri di essa. Per il che uno scrittore nella sua semplicità sapientissima soddisfa appieno, per mio avviso, alla vostra domanda « come si può istituire la gioventù in modo che anche fuori di collegio conservi la bontà », quando, cercando da che dipenda la costanza della virtù, risponde dalla purità d' intenzione . Quest' è l' autore del libro dell' « Imitazione di Cristo », e il documento che vi accenno, è nel capo 33 del libro III, dove è scritto: [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.36 All' occasione della vostra carissima (1. giugno) ho pensato seriamente qual potrebbe essere la cagione delle vostre turbazioni e della insistenza onde vi molestano. Oh quanto bramerei di trovarci il rimedio, acciocchè voi poteste godere della pace del cuore, e santificarvi nella vocazione, che avete intrapresa! Uditemi adunque attentamente, e giudicate, se le osservazioni che vi farò vengano da Dio, come io fermamente credo. La ragione dei vostri mali consiste: 1 nel non aver bene afferrato che, fuori di voi non c' è nè bene nè male per voi, ma tutto il vero vostro bene sta nella vostra santificazione, e tutto il vostro male sta in perdere qualche grado della vostra santificazione: 2 nel non aver bene afferrato che tutte le cose esteriori non dipendenti dalla vostra volontà (sieno per sè buone o cattive) possono essere e sono, nelle mani della divina Provvidenza, altrettanti mezzi da accrescere la vostra santificazione . In fatti io veggo che quello che vi cagiona turbazione si è l' operare del vostro Superiore, nella condotta del quale voi vedete molte mancanze. Ora io voglio supporre, che tutte le mancanze da voi osservate sieno verissime: ma siete forse voi che le commettete? No. Dunque quelle non nuociono all' anima vostra. Quando voi fate il vostro dovere, dentro la vostra sfera, l' anima vostra è santa, voi siete salvo. Che cosa volete cercare di più? perchè turbarvi de' falli, che non commettete voi? perchè perdere la vostra tranquillità, e assoggettarvi, in conseguenza dell' irritazione che nasce in voi, alla tentazione di esser meno umile, meno mortificato, meno docile, meno ubbidiente? In tal modo vi turbate per una cosa che non è male per voi, e turbandovi fate una cosa che è vero male per voi, perchè danneggia l' anima vostra. Voi mi rispondete, che intanto le cose vanno male, e che ne vien danno agli altri e all' Istituto. Ma questa non è una buona ragione; è un zelo, che non viene da un buon principio. Io vi domando: del danno che nasce dall' altrui condotta, siete forse voi colpevole? No, certo, perchè non siete voi quegli che lo produce. Se dunque non dipende da voi, perchè affliggervi, perchè turbarvi? Adorate piuttosto la divina Provvidenza, che lo permette, in pienissima tranquillità, e pregate incessantemente Iddio che dia maggior lume a chi ne ha bisogno. Se poi volete anche riparare a questi mali, vi insegnerò un rimedio. Cercate di accrescere in voi stesso la carità, l' umiltà, la mortificazione e l' annegazione: perocchè in tal modo ne verrà a voi un gran guadagno, e l' Istituto otterrà in voi il suo fine. Scrivetevi bene in mente il semplicissimo fine dell' Istituto, salus et perfectio propriarum animarum . Se dunque, senza badare agli altri, voi badate solo a voi stesso, e adoperate tutte le forze, e impiegate tutto il vostro pensiero nell' abbassamento di voi stesso sotto di tutti, nella sommessione e nell' ubbidienza; voi santificate e perfezionate l' anima vostra, e avete condotto l' Istituto al suo fine. Pel resto lasciate che faccia Iddio. Supponete che il vostro Superiore operasse in tutto come sembra a voi il migliore, e che voi non annegaste mai la vostra volontà, non aveste mai occasione di esser contraddetto; e perciò restaste legato dalle passioni: che cosa vi gioverebbe? Quid prodest , se anche tutta l' Inghilterra si salvasse, e voi periste? Quid prodest , se nella casa, in cui siete, andasse tutto a vostro gusto, e voi non andaste a gusto di Dio? Lasciate dunque, che il vostro Superiore faccia quel che crede: lasciate che operi secondo i suoi lumi, secondo il suo spirito; e non pretendete che operi secondo il vostro. Anche quando vi pare cosa più prudente il fare il contrario di quel che egli fa, voi abbassatevi, umiliatevi; dite dentro di voi: « questa cosa non tocca a te il deciderla; Iddio così lo ispira: Iddio saprà il perchè. Tu fa il tuo dovere e non pensar altro. Quante sollecitudini ti prendi? « Porro unum est necessarium. » Abbassati, abbassati , e troverai la pace. Tu sei qui per conseguir la virtù, e non per far il censore agli altrui difetti. Iddio vuol questo da te, « salus et perfectio animae meae »: questa è la mia gran vocazione. « Martha, Martha, sollicita es, et turbaris erga plurima » ». E con queste ed altre simili parole, che direte a voi stesso, avvezzatevi a frenare la fantasia e raccogliervi tutto in voi stesso; a separare quello che spetta a voi per dovere, e quello che non ispetta a voi. Se voi foste Superiore, fareste quello che Iddio v' inspira nella direzione degli altri. Essendo suddito, la vostra santificazione e salute eterna consiste nel sottomettere tutti i vostri pensieri e volontà. Ecco il gran bene, il solo bene per voi! Coraggio adunque, mio carissimo fratello; credete a me: le vostre non sono che tentazioni ; non vi debbono far timore: voi le vincerete facilmente: sì facilmente, se non vi avvilite; ma non senza croce: [...OMISSIS...] 1.37 La cara vostra del 27 febbraio giunse opportuna a mettermi l' animo in tranquillità, temendo della salute vostra pel mancamento di notizie. Quanto alla dottrina circa la vocazione religiosa, egli è vero, considerata la cosa in generale, che non trattasi che di seguire consigli e non precetti; e però non v' è peccato per colui che non li segue; perocchè il peccato consiste sempre nella violazione di qualche precetto. Confesso, che la dottrina contraria a questa è falsa, che mette in angustie le anime, e anche che ne fu fatto abuso. Perciò guardatevi dall' essere troppo stretto in questa materia. Tuttavia egli è certo, che colui il quale non seguita la vocazione religiosa, quando potrebbe pur seguitarla, si priva di un bene infinito; e l' essere privo di un aumento di bene spirituale è, a dir vero, per chi ha lume di fede ed amor grande di Dio, un danno insopportabile. Oltracciò noi non possiamo conoscere quelle obbligazioni che nascono in altrui dalle comunicazioni interne della grazia; essendo certo che Iddio vuole in particolare da certi uomini quello che non vuole dal comune degli uomini, e che può diventare per essi precetto quello che non è, comunemente parlando, precetto. Ma noi non dobbiamo nella direzione delle anime parlare mai con troppa sicurezza su questo punto; poichè questo è secreto di Dio: dobbiamo solamente esortare le anime, acciocchè esaminino bene se stesse, e o per amor proprio, o per attacco ai beni terreni, non vogliano villanamente rifiutarsi agli inviti interni dello Spirito Santo. Vi raccomando fortezza d' animo e ilarità co' vostri compagni, i quali abbraccio di tutto cuore e benedico nel Signore. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.37 Io penso che una parola amica, che si versi in un cuore pieno di amarezza, non possa essere disaggradita. Questo pensiero mi determina ad inviarvi la lettera presente. E` un vostro confratello che la scrive; è un prete che partecipa da lontano a tutte le vostre angoscie: egli non ha, nè può avere fini secondari: non è inspirato che dalla pura carità fraterna. Da molto tempo questa lo fa gemere profondamente su di voi, e gli fa un bisogno di dirvi con semplicità: « E che facciamo? Non crediamo noi più alle parole di Gesù Cristo? E che sarà di noi se non gli crediamo? Vogliamo noi perder l' anima? »Ecco il semplicissimo, ma altrettanto terribile riflesso, che sembrami aver voi perduto di vista, e che può ben essere spregiato dalla mondana sapienza; ma spregiato, non diviene che più spaventoso. Io non presumo più di entrare con voi in alcuna controversia; voglio solo soddisfare al bisogno che prova il mio cuore di dirvi liberamente (deh! sostenete le mie parole, eziandiochè vi sembrino dure e temerarie, perocchè elle sono nella sostanza fedeli ed amorevoli): Pensate, o caro fratello, all' anima vostra. Ah! l' anima vostra si perde! l' anima vostra è sulla strada dell' abisso! E come no, se voi, la cui anima è stata riempita di grazia mediante i Sacramenti della Chiesa cattolica, voi tinto del sangue dell' Agnello, che v' impresse in fronte il carattere di cristiano e di sacerdote, cui porterete vivo e rosseggiante per tutta l' eternità, vi allontanate adesso da quella Chiesa cattolica, madre vostra, onde avete ricevuto la generazione spirituale, una dignità maggiore di quella degli Angeli, e il marchio indelebile della padronanza che ha su di voi in perpetuo Gesù Cristo? Possibile che, da quel punto che la Chiesa ha riprovata qualche vostra opinione, abbiano subitamente cessato di esser vere quelle parole: « Chi ascolta voi, ascolta me? »Possibile che ad un tratto vi siate dimenticato di quelle altre parole, che poco anzi risplendevano di tanta luce alla vostra mente e nutrivano il vostro cuore di tante speranze: « Tu sei Pietro, e sopra questa pietra io edificherò la mia Chiesa, e le porte dell' inferno non prevarranno contro di lei? »Possibile che nell' anima vostra siasi estinta improvvisamente la fede nell' orazione di Gesù Cristo, al quale niente può esser negato dal Padre, e il quale pur disse a nostro conforto: « Rogavi pro te, Petre, ut non deficiat fides tua »? Deh! mio caro fratello, torniamo indietro senza indugio; ripariamoci al seno della nostra tenera Madre, dove solo è salute. I vostri scritti, dopo il vostro ritorno da Roma, mostrano tutti un animo immensamente tristo, profondamente piagato. E che? Non vorremo dunque sostenere con fortezza quelle prove, tuttochè dure, alle quali ci pone la divina Provvidenza? Avremo la viltà di disertare dalle bandiere della Chiesa, perchè il combattimento è difficile, o perchè i supremi capitani non dirigono la battaglia come piace ai soldati semplici? Ah! non entriamo noi negli eterni consigli di Colui, che invisibilmente, ma mediante un Vicario visibile, dirige la sua Chiesa e distribuisce le prove ai suoi servi! Gesù Cristo è quegli che dà la prova alla vostra fede, e che sta mirando se ella resiste, o se miseramente vien meno, per giudicarvi secondo l' esito. Ah! che non sia mai vero, che egli ritrovi vane le vostre operazioni passate! Ah! che non si dica, che tutto ciò che avete fatto, e che è pur tanto in apparenza, sia stato senza radice! La perturbazione dell' animo vostro, non può negarsi, merita ad un tempo compassione e compatimento; giacchè una immensa forza, e, direi quasi, sovrumana, si richiede a sacrificare dei pensieri che hanno per tanto tempo dominata l' anima intera. Ma qual dubbio, che se, umiliato nella polvere ai piedi del Cristo che abita nei nostri tabernacoli, voi dimanderete che la sua virtù divina si affretti in soccorso dell' umana debolezza, non partirete di là se non sentendovi divenuto un altro uomo, un uomo potente sovra voi stesso? D' altro lato, ella è appunto la perturbazione dell' animo, che vi rende ancor più difficile la sommissione fedele e sincera alle parole del Vicario di Gesù Cristo; perocchè quella perturbazione, annebbiandovi la mente, v' impedisce d' intendere le decisioni del Capo della Chiesa. In luogo di prendere queste decisioni nella loro semplicità, come furono proferite, voi aggiungete loro coll' immaginazione una quantità di altre cose, che esse non contengono punto. Però quasi direbbesi che l' anima vostra (permettetemi che non vel taccia), sdegnata forse per cose accessorie, non altro brami che di fare vendetta. Sembra che questo spirito ostile niente tralasci, acciocchè apparisca aver torto coloro che voi falsamente credete vostri avversarii, voglio dire la Santa Sede, e che, messovi in questo impegno, apponiate alla Santa Sede molte dottrine nè contenute nell' Enciclica, nè espresse nella lettera del Cardinal Pacca. Non è dubbio, che prima di scrivere tali cose, ve le siete persuase a voi medesimo; ma questa persuasione fittizia, questo inganno che vi avete fabbricato voi stesso, è appunto quello che vi rende immensamente più difficile un' umile e figliale sommissione. Voi credete e fate credere che nella lettera di Sua Eminenza il Cardinal Pacca sia proscritta la libertà civile e politica ; ma se voi rileggerete nella calma, che avrete ricevuta dinanzi a Dio, la stessa lettera, non vi ritroverete di riprovato altro che le « dottrine relative alla libertà civile e politica contenute nell' « Avenir » », che è tutt' altra cosa; e la ragion di questa riprovazione viene soggiunta nella lettera stessa, dove si legge che sono disapprovate perchè « tendono di lor natura a eccitare e a propagare per tutto uno spirito di sedizione e rivolta dalla parte dei soggetti contro i loro sovrani ». Voi parimenti vi siete persuaso, che in quella lettera si condanni sempre e in ogni caso « la libertà dei culti e della stampa »; ma veramente non si riprovano che « le dottrine dell' « Avenir » »su questi argomenti, e non più; e si riprovano perchè « sono state trattate con tanto d' esagerazione, e spinte sì lontano dai redattori di quel giornale ». Di più si dice in quella lettera espressamente, che « in certe circostanze la prudenza esige di tollerare quelle libertà per lo minor male ». E che? pretendereste che la libertà dei culti e la libertà della stampa non involgessero seco alcun male? Tutto ciò che voi possiate dire a lor favore, si è unicamente, che talora il male che hanno cagionato è minore del bene che apportano: che maggiore sarebbe il male che s' incontrerebbe togliendo via tali libertà. Ora dicendo voi così, non dite appunto quel medesimo che dice nella sua lettera il Decano del Sacro Collegio, il Santo Padre stesso, di cui è l' organo? A me sarebbe facile, e più facile sarà certamente a voi, di trovare nei vostri scritti espresso il medesimo sentimento, e nello stesso vostro lagrimevole libro ultimamente stampato col titolo: « Affaires de Rome », voi stesso dite aver desiderato che la Chiesa stabilisse « la libertè sur l' èternel fondement de tout ordre, la loi morale qui doit en règler l' usage, et qui en garantŒt la durèe ». A che dunque si riducono le cose decise dalla Chiesa coll' Enciclica? Tutto si riduce a dichiarare essere contrario allo spirito del Cristianesimo, che i soggetti si ribellino a quelli che li governano. In questa decisione non si tratta propriamente di alcuna forma di governo: ella si applica tanto all' Impero russo, quanto agli Stati Uniti, o ai Cantoni svizzeri. La Chiesa riconosce tutte le forme legittimamente stabilite, e ciò appunto perchè ella non si mescola delle cose temporali, se non allorquando elleno abbiano relazione colla eterna salute dell' anima, a cui presiede. Ora quale difficoltà ragionevole può mai trovarsi in una simile dottrina? Nell' antica legge si condannavano i tumulti popolari, e quelli che li fomentavano (Lev. XIX, 16): la nuova legge, tutta di carità e di mansuetudine, non poteva anche sotto questo riguardo che perfezionare l' antica. Quando i discepoli di Gesù Cristo volevano opporsi colla forza all' autorità pubblica che lo catturava, rispose loro delle parole sempre mai memorabili. Egli chiamolli a riflettere sulla temerità colla quale volevano accorrere alla sua difesa: fu un rimprovero ch' egli fece alla loro fede, quando disse loro, che se egli avesse voluto usare de' mezzi violenti, non avea mestieri di servirsi degli uomini; perocchè avrebbe ben avuto le schiere degli Angeli a' suoi comandi. E non vive e regna Gesù Cristo tuttavia? è egli debole? vuole il figlio della polvere prestare il suo braccio all' Onnipossente? Ma Gesù Cristo disse espressamente che non volea usare di cotali mezzi, e ne rese questa ragione, che non doveva egli conquistare il suo regno, siccome fanno i re del mondo, coi mezzi del mondo; ma che gli dovea venire il regno da un principio invisibile e soprannaturale, solo potente a soggiogare le anime: « Regnum meum non est de hoc mundo ». E chi siamo noi sacerdoti, se non discepoli di Cristo? Qual' è la nostra forza, se non la parola di Dio? Ecco la spada a due tagli, che, come disse S. Paolo, penetra le midolle, divide l' animo dallo spirito: e questa arma è onnipossente come Dio stesso, ma è l' unica del sacerdote. D' altro lato, che cosa è mai una ribellione? che cosa è se non un cumulo indicibile di misfatti e d' iniquità? e chi fomenta le ribellioni non è egli partecipe di tutti quei misfatti e di tutte quelle iniquità, appunto perchè egli se ne rende in parte l' autore? Voi mi dite che al di là di questo mare di delitti si trovano le isole fortunate, e che perciò bisogna varcarlo. Ma è stata mai questa la dottrina della Chiesa? la dottrina di Cristo? e sarà mai? Io leggo nell' Apostolo, che non sunt facienda mala, ut eveniant bona : io trovo concordi tutti i padri, tutti gli scrittori ecclesiastici, le coscienze di tutti i fedeli, in ritenere che il Cristianesimo è una dottrina di tanta rettitudine, di tanta giustizia che esso non permette il minimo peccato, quand' anche con esso si potesse salvare il mondo e aprire il carcere dell' inferno. D' altra parte, la Chiesa ha forse vietato di opinare, che la Provvidenza dell' Eterno tragga dei beni, dei sommi beni dalle rivoluzioni? Io dirò anzi che c' ingiunge di crederlo: perocchè non v' ha alcun male al mondo, che non sia da Dio permesso affine di trarne un bene maggiore. Ed è per questo appunto che Cristo disse: « Necesse est, ut veniant scandala »; ma giustifica questo chi li produce, chi se ne rende direttamente od indirettamente l' autore? « Vae autem », soggiunge, « homini illi, per quem scandalum venit! » Sì certo, tutti i tiranni che hanno sparso il sangue de' martiri, tutti gli empŒ che hanno predicata sopra la terra l' iniquità, tutti i viziosi che propagano il mal costume; sì certo, tutte le rivoluzioni degl' Imperi, le sovversioni delle città, i massacri, gli incendŒ, gli sterminŒ, hanno servito alla causa di Gesù Cristo. E che mai non serve a questa causa divina? L' eresia, lo scisma, l' apostasia, l' inferno stesso non travaglia che per la gloria del Redentore e della sua Sposa, che mai da lui si disgiunge. Lavoreremo adunque per la causa della Chiesa, o sia che lo vogliamo o che non lo vogliamo, o sia che ubbidiamo a lei o che le disubbidiamo, o con lei congiunti o anco divisi. Sia vero adunque, per una cotale supposizione, che vi riesca di mover i popoli alla rivolta; sia che dopo un abisso di calamità il mondo si rinnovi di felice giovinezza, sia che la Chiesa stessa se n' esca fuori più bella da tante rovine, e che ritornino i tempi de' primi cristiani: e che perciò, mio caro? Avrete voi fatto una buona opera? Certamente l' opera sarà stata buona nel suo effetto, ma non per voi. Voi avrete cooperato alla gloria della Chiesa, ma come vi cooperano quelli che sono disubbidienti alla Chiesa. Sarete stato uno strumento nelle mani di Dio, come lo sono i suoi nemici; ma non come lo sono i suoi amici che stanno innestati nella vite. Quid prodest homini ...? Un tralcio reciso si getta ad ardere. Voi siete adunque libero di pensare, che le rivoluzioni nelle mani di Dio sieno più o meno utili alla sua Chiesa: questa non è opinion condannata: voi siete libero di giudicare delle circostanze de' tempi minacciosi, e di metter fuori altresì, se così vi piace, le vostre predizioni. Ma non siete libero di farlo in modo da fomentar con ciò que' mali orrendi che vi sembrano necessari quai mezzi ad una ristorazione del mondo e della Chiesa. Ho osservato che voi volete trovare la Santa Sede in contraddizione seco stessa, perchè non proibisce ai cattolici irlandesi di difendere i loro diritti. Ma anche qui voi confondete due cause ben diverse. Il personaggio, che ha nelle cose d' Irlanda l' influenza maggiore, non fomenta la ribellione di quel popolo, anzi lo contiene nella dovuta sommessione: il suo programma è di adoperare i mezzi legali in vantaggio del suo paese. E credete voi che la Santa Sede proibisca ai popoli di usare dei mezzi permessi dalla legge? Voi adunque esagerate a voi stesso le decisioni della Sede Apostolica, cioè ci aggiungete quello che essa non dice, e così rendete a voi stesso, son per dire, impossibile la figliale obbedienza. No, la Santa Sede non si divide dai popoli, quando anzi ella è il loro centro di unione: ella abbraccia egualmente e popoli e re, e governi e sudditi, e a tutti egualmente predica la giustizia e la carità. La separazione della Santa Sede dai popoli è una conseguenza falsa che voi deducete da delle false premesse. Calmate, io ve ne scongiuro per amore del nostro comune Signore Gesù Cristo, quell' agitazione che v' impedisce di vedere tutta intera la verità. Se in uno stato di calma entrerete in voi stesso, se rileggerete in questo nuovo stato i vostri scritti, vi troverete un caos dove della luce celeste è mescolata con delle tenebre infernali. Talora il vostro stile sembra infuocato dal zelo di un Apostolo; e in un' altra pagina prendete il tono di un profeta romanziere, quasi scherzando colla parola di Dio, senza sentire spavento di quella sentenza che caratterizza i falsi profeti: « non mittebam eos, et ipsi currebant ». Talora vi ritirate da tutto il mondo, e allora la vostra patria è il cielo, e la vostra ricchezza è la nudità del Crocifisso; e poco stante dimostrate una nazionalità, che è ben tutt' altro dalla cristiana carità, e parlate di finanze, d' industria, di commercio, come se Gesù Cristo, costituendovi suo sacerdote, vi avesse dato la missione di occuparvi tutto delle cose terrene. Qua mettete in campo la mansuetudine dei confessori di Gesù Cristo, e riconoscete la potenza irresistibile della virtù e della verità; e colà all' incontro volete tutto operare colla violenza. Non siete mai tanto eloquente come quando detestate la forza bruta che aspirò sempre a farsi regina del mondo; e poi invece d' opporle la forza occulta e tutta spirituale, che opera nell' anima e che senza contrasto conquista il mondo, voi ricorrete a questa stessa forza bruta, e ne parlate in modo da far credere che in essa solo riponiate tutte le vostre speranze. Eh! no, la Chiesa non opera e non opererà mai così; perocchè il suo divin Fondatore ha già detto che il regno di Dio viene senza osservazione , e non coi tumulti e colle rovine. Persuadiamoci, o caro fratello, che niuno è necessario a Cristo ed alla sua Chiesa; e noi sacerdoti, in tempi sì calamitosi, udiamo la voce di Cristo, che dice: « Et vos vultis abire? » Ah! la nostra risposta sia unanime: « Domine, ad quem ibimus? » quale asilo troveremo noi abbandonando Cristo e la Chiesa? è egli possibile che ritirandoci dall' ordine spirituale, noi ci restringiamo nell' ordine puramente temporale? Questa parola, a cui mi sono abbattuto nei vostri scritti, mi ha inorridito. E che spera di ritrovare un Sacerdote di Gesù Cristo in un ordine puramente temporale? No, non sarà soddisfatto il suo cuore giammai: sarà un misero che, perduta la strada, erra in una selva deserta, e vi perisce di fame o divorato dalle fiere. Non aggiungo di più: sono stato anche troppo lungo e forse importuno. Rammentate però che questa importunità viene d' amor puro, sgomentato al pensiero della perdizione eterna di un mio confratello. Se voi darete un sol minuto a questo pensiero, se lancierete un solo affetto a Gesù, non resisterete più a lungo alla voce di Dio, che non tace sicuramente nell' anima vostra. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.37 Io so bene che non siete legato con voti all' Istituto. Se foste legato con voti, non vi proporrei la questione che vi ho proposto « se lo spirito che vi ha mosso a fare una tale risoluzione sia stato spirito di Dio, o spirito di voi stesso »; in tal caso la cosa sarebbe certa, e non dubbiosa. Ma appunto, perchè siete libero di stare e di uscire, mi pare che dobbiate fare a voi stesso una simile questione: appunto perchè siete libero potrebbe allucinarvi l' amor proprio, il quale sa essere buon teologo, alcune volte, male a proposito. Ciò che io bramo si è, che allontanata qualsivoglia sottigliezza di ragionamento, davanti al vostro Creatore, esaminiate « se i motivi del vostro passo vengano dal pensiero dell' eternità e dal desiderio di piacere a Dio, oppure vengano da qualche miseria della vita presente ». Lo spirito di Dio è lo spirito di Gesù Cristo, e lo spirito di Gesù Cristo consiste in umiltà, mansuetudine, annegazione, mortificazione; ecco lo spirito di Dio: il contrario è lo spirito del demonio: « qui spiritu Dei aguntur, hi sunt filii Dei ». Non crediate adunque, che io abbia la temerità di decidere se voi abbiate peccato, o non peccato a fare quello che avete fatto. Anzi io debbo dire che non avete peccato, perchè un uomo non può condannare il suo fratello, se non v' ha un obbligo preciso , e se non trova che quest' obbligo sia stato da lui violato. Ora io non trovo che voi aveste nessun obbligo preciso di rimanervi nell' Istituto: dunque per me conchiudo decidendo, che non avete peccato. Ma che cosa è questa mia decisione? nulla per la vostra quiete: io, se fossi nel vostro caso, non la giudicherei soddisfacente; ma direi: « qui autem iudicat me Dominus est »: convien pensarci come se fossimo in punto di morte, in quel punto, nel quale svaniscono tante distinzioni frivole , colle quali possiamo talora addormentare la nostra coscienza, ma non modificare il giudizio di Dio. La legge, che io vorrei che consultaste, si è quella dell' amore: io v' ho scritto persuaso, che voi siate un vero amatore di Gesù Cristo, o che bramiate sinceramente essere tale. Se l' oggetto del vostro cuore è di piacere più che sia possibile a Gesù, se lo scopo dei vostri desiderii è la perfezione ; in tal caso interpreterete in sano modo le mie parole. Ogni peso sostenuto per amor di Gesù Cristo è in questo senso il dolce e soave giogo di Gesù; ogni mortificazione, patita con rassegnazione e umiltà dietro il suo esempio, è la croce santa e beata de' suoi discepoli. Il « tollite iugum meum super vos », e il « qui vult venire post me, abneget semetipsum et tollat crucem suam », sono voci del più tenero amore, e gli amanti le intendono: non si riferiscono solamente a de' voti religiosi, o a degli obblighi sotto pena di peccato mortale: esse invitano tutti a cosa maggiore; la legge di grazia non è legge rigorosa mosaica: conviene in questa felicissima legge che la giustizia abbondi: « nisi abundaverit iustitia vestra », ecc.. Tuttavia se voi mi diceste « io non voglio che fuggire il peccato mortale e nulla più »; io non avrei nulla a replicarvi, ma supplicherei nel silenzio la divina misericordia a dilatarvi il cuore: perchè Cristo non si trova che coll' amore, e l' amore desidera essenzialmente, senza confini, nè limiti di sorte alcuna: vi ripeto tuttavia, che non oserei mai per questo pensar male della vostra anima. Ma fino a tanto che io sono persuaso che voi bramiate la perfezione e che bramiate di spogliarvi intieramente di voi stesso per vestirvi di Gesù Cristo, e della sua umiltà, e della sua mortificazione, permettete, che vi stimoli a pensare seriamente « se col passo che avete fatto abbiate cercato di avvicinarvi alla perfezione »: io non posso crederlo, e tengo per certo che nè pur la vostra intima coscienza lo crede. Per quanto esamino i motivi del vostro divisamento, quali esponete nella vostra lettera, supponendoli tutti veri, io trovo bensì delle cose umilianti all' umanità; ma non dei motivi spirituali. Tutto si riduce ad un lamento dell' amor proprio sdegnato! Giudicate questo motivo colle massime e cogli esempi del nostro divin Maestro, e vedrete quanto poco vale. D' altra parte che vi sia toccato un superiore, che non si affà al vostro temperamento, è un puro accidente (disposto però dalla Provvidenza). E da un puro accidente volete far dipendere la mutazione dello stato? Finalmente non vi aveva io pregato di avvisarmi, se sentivate di non poter durare alla tentazione che vi cagionava l' unione con D. Luigi, promettendovi che vi avrei mutato di luogo? Ma voi, senza scrivermi, avete fatto un passo che a me cagionò sommo dolore, somma sorpresa a cotesto Monsignore, e grave danno alle sue vedute, grave sconcerto a noi stessi! Dov' è in questo procedere la prudenza, la carità, la convenienza? Io non attribuisco certamente ciò a vostra malizia, ma bensì alla vostra tentazione che vi ha fatto precipitare in un tal passo. Per questo appunto, persuaso, come io sono, che voi non abbiate operato colla debita tranquillità, ma che sia stata una caduta accidentale; non solo non ricuso di ricevervi di nuovo nello Istituto, se vi trovate coi sentimenti propri di un discepolo del Salvatore crocifisso; ma ben anco v' invito a ciò fare, e credo che la carità me lo imponga. Io vi scongiuro a fare orazione, a pensare alla morte, e a fare atti di disprezzo di voi stesso: conviene acquistare l' abitudine del contemnere se ipsum . Iddio vi benedica: consolatemi con una risposta pienamente conforme ai miei desiderii. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.37 La sua lettera mi ha empito di gioia. Sia benedetto quel Signore che è bontà essenziale, e che si comunica alla creatura che a Lui si rivolge, e l' ha creata per questa ineffabile comunicazione. Certo: « Qui coepit opus bonum, ipse et perficiet ». E chi considera bene questo stesso ch' io dico risponde a quella difficoltà che Ella vien toccando intorno all' altezza della perfezione. Se questa fosse puramente l' opera nostra, ella sarebbe disperata. Ma ella è l' opera di Dio, poichè la perfezione non è altro appunto, che la comunicazione del creatore alla sua creatura; e allora dice la creatura, maravigliandosi di sè stessa e quasi non sapendo spiegare un tal prodigio: « omnia possum in eo qui me confortat ». Qui batte la gran dottrina di san Paolo, che fa venire la giustificazione non ex operibus , quasi ella venisse da noi, ma ex fide , cioè dalla confidenza in Dio misericordioso. Leggevo tempo fa in un libro questa frase, che il pentimento è la « virtù dei mortali »: ella è frase eminentemente cristiana, e coincide colla fede di san Paolo, fede nell' onnipotenza della bontà divina, per la quale l' uomo, che sente sè stesso nulla, spera tutto; l' uomo che sente d' esser impotente alla perfezione, sa insieme che Iddio, che a quella lo chiama, a quella altresì gratuitamente lo porta; l' uomo che non vede in sè che peccato, vede nello stesso peccato l' occasione della massima gloria divina, che sta in un' infinita misericordia. Che fa dunque l' uomo con questa fede? Niente altro che sentire intimamente e confessare l' infinita sua imperfezione e impotenza di rispondere alla legge di perfezione che gli sta dinanzi, e in pari tempo credere che Iddio sia tanto buono e di bontà sì potente da tuttavia farlo salvo. Ecco ciò che empie l' immenso vallone che separa noi dal poggio della perfezione: l' UMILTA`. Perciò la dottrina dell' umiltà insegnata da Gesù Cristo, che disse: « « Ognuno che si umilia sarà esaltato » », è identica colla fede di san Paolo. Sia pur vero che noi siamo colpevoli; se saremo umili, saremo esaltati. Esser umili è credere alla verità, credere alla nostra imperfezione, credere alla potenza della grazia di Dio, che ci perfeziona: « Credidimus charitati », dice san Giovanni, « quam habet Deus in nobis (1, Io. III) ». Vero è che la grazia stessa che ci comunica Gesù Cristo, ha i suoi gradi; ma ogni grado, per minimo che egli sia, è sempre infinito, perchè è sempre una comunicazione dell' Infinito. Credo che ciò riuscirà maraviglioso, ma non incredibile a Lei che conosce i diversi ordini degli infiniti matematici, che hanno qualche analogia coi gradi della grazia. Ella vede, che solamente in questa dottrina dell' umiltà cristiana e della fede si trova la soluzione alla difficoltà fortissima che Ella propone sulla pratica inarrivabile della perfezione; e che tal soluzione non venne mai prodotta in alcuna filosofia: nuova prova della divinità della cristiana dottrina! Questa dottrina sovrumana non ha timore di dire all' uomo: « Numquid homo, Dei comparatione iustificabitur? Septies cadit iustus - cum omnia haec feceritis, dicite: servi inutiles sumus », perocchè tosto dopo atterratolo, lo solleva e conforta dicendogli ancora: « Voluntas Dei sanctificatio vestra: omnia quaecumque petieritis a Patre (meo) in nomine meo, dabit vobis - confidite: ego vici mundum! » Che ci resta dunque a fare? Metter solo il collo sotto il soave giogo di Cristo, umiliare incessantemente la petulanza cieca della nostra natura sensitiva e l' orgoglio ancor più cieco del nostro ingegno. Come nell' ordine morale giace in noi stessi una infinita imperfezione (astraendo dalla grazia di Cristo); così nell' ordine intellettuale giace in noi stessi un' infinita ignoranza. La pienezza della virtù non è meno ardua, alle sole forze dell' uomo, della pienezza della verità. Onde noi riceveremo la salute malgrado delle nostre imperfezioni, indi riceveremo la vital luce della mente, il lumen vitae delle Scritture, malgrado della nostra ignoranza. Oh questa è luce solare e ardente, quando la luce del secolo non ha che dei raggi biancastri e freddi! Sono certo, mio caro marchese, che appigliandosi Ella alla grazia, Dio La porterà innanzi, il quale ha detto e Le dice: [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.37 Coll' occasione che vengono a voi alcuni altri fratelli, bramo scrivervi poche parole, per rammentarvi la vocazione vostra nella santità della carità. Io prego e supplico tutti voi nelle viscere di Gesù Crocifisso, che niuno voglia divergere nè a diritta nè a sinistra, ma che direttamente tenda a quello a che è chiamato, cioè a procacciare a sè medesimo la santità che non consiste in veruna opera d' ingegno, nè in alcuna prodezza o gloria umana, nè buon riuscimento delle imprese esteriori; ma bensì nel praticare quelle virtù che Gesù Cristo, Salvatore e forma delle anime nostre, ha mostrato in sè stesso, massime pendente dalla croce: le quali sono l' umiltà, la povertà, l' abnegazione e l' ubbidienza, la mortificazione e la pazienza, e la carità ardente che tutte le contiene e non si perde in sottigliezze, ma cammina con semplicità e non cerca le cose proprie, ma quelle di Dio e del prossimo. In questo sta tutto l' Istituto della Carità che voi avete abbracciato, e che dovete avere continuamente innanzi agli occhi affine di perseverare in esso fino alla morte, non con sola l' unione dei corpi, ma con quella degli spiriti, affine di non ingannare voi stessi, perdendo di vista l' unica vera idea e forma dell' Istituto, nato al Calvario e uscito dal Crocifisso: in quanto che da lui sono uscite le virtù, in cui l' Istituto mira come in suo fine, e perciò lo costituiscono. Voi, o miei dilettissimi fratelli, avete tanto maggior bisogno di tenere fisso il vostro cuore a questo fine, non facendo conto che della pratica delle virtù evangeliche, come del solo bene (giacchè il resto è vanità), in quanto che il servizio di Dio costà ha congiunte difficoltà non poche, distrazioni e pericoli: i quali tutti però voi superare potrete, cooperando fedelmente alla grazia che Iddio non vi nega, e così essi diverranno altrettanti mezzi del vostro perfezionamento e trofei della vostra gloria futura. E questa cooperazione alla grazia non può consistere in altro, che nello aver presente la vostra vocazione per dirigervi secondo quella, uniformandovi allo spirito e alla lettera delle Regole, che vi sono prescritte, con sommessione perfetta. Ognuno in prima si persuada di non fidarsi troppo del proprio sentimento e giudizio, e piuttosto creda fermamente che fra tutti i pericoli della vita religiosa il più insidioso è quello che consiste nell' uso esclusivo del proprio raziocinio; perocchè l' uomo, essendo un essere ragionevole, inclina a ragionare, senza troppo considerare che i suoi ragionamenti sono brevi, limitati e spesso fallaci, a differenza di quelli di Dio che abbracciano in un modo infallibile le cose tutte, le presenti e le future, che rimangono nascoste agli occhi nostri. Perciò ciascuno nella propria condotta, invece di seguire le regole e i risultamenti del suo proprio ragionare, prenda a sua guida la sola altissima e semplicissima regola della volontà divina, a imitazione di Cristo, il quale, dando ragione del suo operare, non diceva già che operava per questo o quel motivo, ma diceva sempre che operava per fare la volontà del suo Padre Celeste, e acciocchè si adempissero le Scritture che contenevano appunto ciò che il Padre aveva ab aeterno prestabilito. Laonde tutto lo studio nostro, o carissimi, consista in pervenire a conoscere la volontà divina, e non in ragionare e disputare fra noi stessi, se questa o quella sia cosa buona o migliore secondo il proprio vedere limitato ed umano. Siamo solleciti unicamente di cercare quali siano i segni della divina volontà per eseguirla fedelmente e semplicemente, con pace interiore e senza contraddizione del proprio intelletto. E se voi attentamente considererete, scorgerete di leggeri, che i segni della divina volontà sono segnatamente tre, ai quali noi la riconosceremo senza fallo, se di puro cuore la cercheremo. Il primo segno è la legge di Dio , da Gesù Cristo apertaci con pienezza e perfezione; la qual legge è chiamata perciò dai teologi volontà di segno ; e perciò è anche scritto: « Voluntas Dei sanctificatio vestra ». Se dunque la volontà di Dio è la nostra santificazione, noi possiamo essere certissimi di operare conformemente a quest' amabilissima e santissima volontà divina, quando incessantemente lavoriamo a purificarci dalle nostre imperfezioni, e ad acquistare tutte le virtù che formano la santità. E ogniqualvolta una turbazione di animo ci pone in uno stato di perplessità e di dubbiezza, ricordiamoci di preferire fra i due quel partito che in sè stesso è più favorevole alla nostra santità, quello che più contiene di virtù evangeliche, appigliandoci senz' altro dubbio nè esitazione a ciò che meglio esercita la nostra abnegazione, povertà, ubbidienza, carità e disprezzo di noi stessi e delle cose nostre; perocchè facendo così, noi siamo certi di non isbagliare e di operare secondo l' altissima ed eccellentissima regola del divino volere che pur vogliamo seguire, e per questo siamo nell' Istituto. Il secondo segno che ci fa conoscere quest' ottimo e desiderabilissimo volere di Dio, si è l' ubbidienza a' nostri Superiori. A tutti voi io dico questo, e in prima al Padre Rettore e al Padre Ministro che debbono precedere coll' esempio nell' ubbidire semplicemente a' propri Superiori, e di poi lo dico a tutti gli altri fratelli soggetti. Conviene riflettere che questa è la dottrina della Chiesa cattolica, la quale insegna ed ha sempre insegnato che l' ubbidienza perfetta a' propri Superiori è la via più sicura a conoscere il divino volere e a perfezionare e salvare sè stessi. Non insorga adunque la temerità e la baldanza del proprio ragionamento, perchè così facendo non insorgerebbe già contro l' uomo che comanda, ma contro Dio che manifesta il suo volere per mezzo di quell' uomo. Egli è vero, che si può trovare nel comando del Superiore sbaglio o difetto, secondo il corto vedere umano; ma vero sbaglio o difetto non può cadere nel volere di Dio, di cui quel comando è segno indubitabile. Di maniera che è da credersi che eseguendo quel comando, sebbene accompagnato da qualche errore secondo le viste umane, tuttavia non si farà che ottimamente secondo le viste divine, e che Dio vorrà servirsi di quello sbaglio od errore del Superiore ai suoi altissimi e sapientissimi fini, che noi per la nostra cortezza ed ignoranza non arriviamo a conoscere. Non si dà nessuna eccezione a questa regola, fuor solo quando nel comando del Superiore vi avesse peccato. Fuori di questo caso, taccia il nostro intelletto davanti a ciò che viene comandato, non giudichi, non censuri, non calcoli cosa (se non forse per rappresentarla sommessamente al Superiore); ma presti con viva fede e con certezza di ubbidire a Dio, una ubbidienza intera, pronta, semplice ed umile. Quando poi non si può conoscere il voler di Dio nè col primo nè col secondo di questi due segni, perchè non v' è un comando del Superiore che prescriva il da farsi, nè la legge di Dio o l' amore della santità lo determina, allora convien ricorrere alla terza regola, molto necessaria ai Superiori, ed anche ai soggetti, ogni qualvolta i Superiori rimettono al loro giudizio il modo di operare. Questo terzo segno del divino volere si è la voce della divina Providenza , che si fa sentire negli avvenimenti esterni e nel complesso delle loro circostanze. Conviene che questa voce sia da noi raccolta col lume tranquillo della propria ragione, soccorsa dal lume della fede, con una maniera di vedere al tutto logica, senza prevenzioni nè fantasie, o niente che abbia del superstizioso e dell' arbitrario. Fare tutto il bene, che la divina Provvidenza ci presenta nelle occasioni esterne da noi non cercate, farlo senza ingiusta predilezione, ma sempre col debito ordine: ecco ciò che in questo caso vuole Iddio certamente da noi. Iddio è l' essenza del bene; dunque egli vuole da noi tutto il bene possibile, ed è quello che, venendoci presentato a fare dalla sua Provvidenza, non è scelto a nostro, ma a suo arbitrio. Questo terzo segno è subordinato al secondo, come il secondo è subordinato al primo, cioè a dire se la legge di Dio ci obbliga ad una cosa, a quella dobbiamo attenerci; ma se non ci obbliga, dobbiamo attenerci all' ubbidienza. Se poi neppur questa determina il da farsi, allora dobbiamo studiarci di conoscere il voler di Dio per mezzo del lume di ragione e della grazia che il deve accompagnare, il quale per non fallire non deve prevenire, ma seguire la Provvidenza nei fatti esterni. Dal primo poi e dal secondo de' tre segni scaturisce la necessità che voi tutti avete, quando pur vi piaccia di attenervi strettamente alla volontà del vostro Dio, di meditare attentamente e amorosamente le regole dell' Istituto da voi abbracciato, come quelle che contengono in compendio e applicano la legge di grazia portataci da Gesù Cristo, e come quelle, a cui debbono prestare egualmente ubbidienza e i Superiori e i soggetti. Ognuno adunque cerchi di vivere confidato grandemente in Dio, unito strettamente col proprio Superiore, in cui ravvisi come in imagine Dio stesso, uniti ancora tutti fra di voi in congiuntissima carità, la quale non sia turbata mai da cosa alcuna, sopportando i difetti altrui nell' abbondanza dell' amore, onde ciascuno dee avere ricolmo il cuore, avendo gran premura non solo del profitto proprio, ma ben anco di quello di tutti gli altri fratelli che formano con lui una famiglia in Gesù Cristo, edificandoli col suo contegno e cooperando alla loro purificazione e perfezione, secondo lo spirito dell' Istituto e la volontà de' Superiori. E così facendo voi, l' umile vostro fratello che ha tanto di fidanza di scrivervi queste cose con ogni libertà nel Signore, spera di dover partecipare della pienezza de' vostri meriti e delle vostre preghiere che con un cuor puro e retto innalzerete senza posa al trono di Dio, nel quale egli assai vi ama e dal quale vi prega ogni benedizione e aumento di grazia, consolazione e fortezza nelle tribolazioni e corona di gloria immarcescibile. [...OMISSIS...] 1.37 Se nelle confessioni non troviamo materia grave, è misericordia del Signore nostro, e nel dobbiamo ringraziare; peraltro ciò non ci dee distorre dalla confessione, la quale è un atto di profonda umiltà e di compunzione di tutti i nostri peccati in generale, i quali si possono sempre detestare e sottomettere di nuovo alla sacramental confessione; tanto più che possiamo sempre temere per cagion d' essi, sebbene sottomessi già al giudizio del sacerdote, non sapendo con assoluta certezza se le disposizioni nostre erano del tutto quelle che si richieggono ad ottenere da Dio un pieno perdono. D' altro lato la confessione, e sopratutto poi la comunione, aumenta la grazia e le forze spirituali. In quanto ai peccati veniali, conviene che li combattiamo con tutta pace e senza pretensione di riuscirvi in breve tempo. Vi ha un mezzo generale e soavissimo di far ciò, ed è quello di accrescere in noi la carità coll' orazione e con atti frequenti di amor di Dio e del prossimo: in ragione che cresce in noi la carità, vanno cadendo i peccati veniali, quasi senza che ce ne accorgiamo, ed ogni attacco a noi stessi ed alle cose proprie. Questo è un mezzo eccellente specialmente per quelli che fossero inclinati ad assottigliare, ai quali il troppo pesare e scrutare le minime cose può cagionare turbazione e inquietezza. Quanto poi alle opere di sopraerogazione, non conviene mai cangiarsele in doveri; perchè sarebbe un rendersi grave da sè stessi il giogo del Signore. Anche qui conviene procedere per la via di quell' amore che dilata il cuore; ma perchè questo stesso potrebbe affannare l' animo, pensando che è troppo scarso il nostro amore verso il bene infinito che dobbiamo amare, perciò ci è uopo d' altro lato riflettere che questo amore soprannaturale è esso stesso un dono di Dio, dono che egli ci fa in certa misura; e però si contenta che l' amiamo con quella misura colla quale possiamo amarlo, e non pretende di più. Perciò Gesù Cristo, comandandoci l' amor di Dio non ci ordinò di amarlo infinitamente , com' ei si merita; ma ci ordinò di amarlo con tutto il cuore ecc., che è quanto dire con tutta la potenza che abbiamo di amare. Di più non chiede; e però convien fare quel che possiamo, e poi starci contenti riposando in Lui e sperando in Lui; ed egli farà di più in noi. E quanto al precetto dell' amor del prossimo, che ci comanda di amare gli altri come noi stessi, non parla di uguaglianza , ma di somiglianza ; e parla dell' amor volontario e non dell' istintivo; e queste considerazioni debbono quietare, se ci sembra di non amar gli altri quanto noi stessi, bastando che li amiamo come noi stessi. Buona cosa è tuttavia e che fa fare all' anima molti progressi, l' occuparsi in opere di carità e specialmente di carità spirituale, che è la più eccellente, e nel promuovere tutte le opere sante. Quanto a ciò che mi dice circa la differenza di specie fra l' anima di un buono e di un malvagio, non si potrebbe sostenere, perocchè la specie umana è costituita dall' aver per lume l' essere iniziale , e questo l' hanno tutti o lo amino o no. Si potrebbe dire bensì che fra un buono e un malvagio vi ha una differenza maggiore che non sia dalle stelle alla terra e più ancora, voglio dire una diversità maravigliosa, incredibile, che nel Vangelo viene espressa con quel chaos magnum che sta interposto fra Lazzaro ed Epulone. Se si tratta di bontà soprannaturale la distanza è infinita, ed è certo che la grazia opera un cangiamento sostanziale e non puramente accidentale, come insegna San Tommaso. Mi è stata carissima la sua lettera e l' altra che mi ha scritta, e la prego di continuarmi la sua cara benevolenza, e comandi a me come ad uno che la stima e l' ama... [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.3. Sebbene risponda tardi alla vostra lettera, non dovete credere che ella mi sia riuscita meno grata, nè prenderete errore se attribuirete la lunga dilazione in farvi risposta alle troppe mie occupazioni... Quanto a ciò che nella vostra lettera mi dite intorno agli studii, non si richiedono molte parole, giacchè essendo questo tempo del vostro noviziato sacro all' esercizio della virtù e della santità più fervente, il resto non è che accessorio; e dal Padre Maestro saprete quello che vi convenga di fare. Sommamente importante all' incontro mi parrebbe lo scrivervi qualche cosa sul conto del dubbio venutovi in cuore circa l' ubbidienza cieca , se già questo vostro Maestro e amorosissimo superiore non mi avesse fatto intendere, esservisi questo dubbio dileguato dall' anima. Tuttavia un nonnulla voglio dirvi su ciò, mio caro Giacosa, e questo si è in prima che il conoscere intimamente l' eccellenza altissima dell' ubbidienza cieca prestata per amor di Gesù Cristo, ella è cosa al tutto divina , e quelli soli ciò intendono, a cui lo Spirito Santo comunica questa sapienza sopraumana. Laonde vorrei esortarvi a domandare questa soprannaturale illustrazione con intensissime preghiere, annientandovi davanti al trono della Maestà di Dio e chiedendogli con gran fervore di poter intendere le lezioni che ci ha dato Gesù Cristo suo Figlio dalla sanguinosa cattedra della Croce. Ci potrebbe anco condurre all' intelligenza e al possesso di questo tesoro dell' ubbidienza cieca, un amore intensissimo che noi avessimo verso il nostro Signor Gesù Cristo; perocchè questo infiammato amore ci porterebbe indubitatamente ad intendere gli ammirandi suoi esempi e le parole con cui ce l' ha insegnata: parole ed esempi non compresi se non da quelli che l' amano svisceratamente, e che all' opposto sono stati e saranno gentibus stultitia . Un' altra via da poter giungere a capire la preziosità di questa virtù dell' ubbidienza, per la quale l' uomo spirituale è sempre pronto anco a morire, è quella della fede fermissima e viva nel magistero della Santa Chiesa, come quella che è colonna e firmamento di verità, e nell' esempio dei Santi che furono dalla Chiesa canonizzati. Perocchè chi ha questa viva fede, ha lo spirito e le parole di sua madre la Chiesa, e senz' altro ragionare si persuaderà pienissimamente che il cieco ubbidire è un atto di virtù squisitissima e di sommo merito presso Dio. Veramente Chiesa Santa l' ha creduto ed insegnato in tutti i secoli ed in tutti i luoghi; ed ha coronati gli eroi di questa virtù. E parimenti quegli che crede che i Santi sieno i veri sapienti, non dubiterà che ciò che hanno fatto tutti essi, nessuno eccettuato, cioè l' ubbidire ciecamente, non sia ragionevole, e giusto, e santissimo; e se insorgeranno a costui dubbii nella mente, chiamerà sè stesso scioccherello e pazzo, e si atterrà immobilmente al lume de' Santi, i quali, atteso lo Spirito Santo che avevano in sè, intesero assai bene la forza di quelle parole dette da Cristo, « qui vos audit, me audit ». Le quali parole del divin Maestro sono per vero un inconcusso fondamento all' ubbidienza cieca, imperciocchè esse furono dette per gli Apostoli alla Chiesa, e la Chiesa parla ed opera pe' suoi ministri, e massime per li superiori delle sante Religioni e Congregazioni. Sicchè vi è tanta ragione di ubbidire ciecamente ai Superiori, quanto ragion vi è di credere ciecamente a Cristo. E come credendo ciecamente a Cristo, si rinunzia bensì a tutte le altre ragioni, ma per attaccarsi ad una ragione altissima, ed unica vera ragione; così ubbidendo ciecamente ai superiori, si rinunzia bensì, in un senso, alla propria ragione individuale e a tutti i suoi speciali ragionamenti, ma nello stesso tempo, in un altro senso, si ubbidisce alla stessa propria ragione; perocchè è la propria ragione di chi ubbidisce, illuminata dalla grazia di Dio, che persuade al vero ubbidiente essere cosa convenientissima che egli ubbidisca, senza cercare altre ragioni che la bellezza stessa dell' ubbidienza. Qui poi osservate, mio caro, l' errore che commettete, dicendo nella vostra lettera che due soli sono quelli che ci possono comandare, la ragione nostra ed il superiore esterno. Voi lasciate fuori il principale, che è Dio che parla per mezzo del superiore e vale molto più della nostra ragione individuale, la quale è soggetta ad ingannarsi, ed anzi inganna sempre ed indubitatamente ogni qualvolta non vuole ubbidire ciecamente alla volontà divina, che Dio manifesta per la bocca del suo ministro e del suo rappresentante sopra la terra che è il superiore religioso. Dico che s' inganna sempre la ragione nostra individuale , quando ci persuade di non ubbidire. Imperocchè quando è, di grazia, che noi veramente c' inganniamo? Quando invece di cercare ciò che è meglio pel nostro fine, cioè a dire per l' acquisto della virtù, della perfezione, dell' umiltà, dell' annegazione, della mortificazione, della penitenza, della imitazione in una parola di Gesù Cristo Crocifisso, noi ci fermiamo a delle considerazioni umane e di altro ordine interamente diverso da quello delle virtù evangeliche. A ragion d' esempio, quando quel celebre solitario, insigne maestro di perfezione, comandava al suo discepolo, che ogni giorno portasse certa quantità d' acqua per inaffiare una pianta disseccata da molto tempo, se quel discepolo avesse disubbidito col pretesto di seguire la propria ragione, egli si sarebbe ingannato e avrebbe operato al tutto contro ragione. Perocchè era bensì vero che l' inaffiare quella pianta, come gli veniva comandato, era inutile e irragionevole, quando si consideri solo il fine di farla rinverdire, ma se all' incontro si considera quell' altro fine molto più sublime, che consiste nell' atto di virtù, di umiltà, di annegazione, di mortificazione, e in una parola d' ubbidienza (perocchè tutte quelle cose sono contenute nella sola ubbidienza); allora si vede manifestissimamente che l' ubbidire a quell' irragionevole comando era cosa ragionevolissima, sapientissima, e santissima. E tanto è grato a Dio questo cieco ubbidire, che si degnò, non di rado, di manifestare la sua approvazione coi miracoli; come accadde nel fatto che vi accenno; perocchè quella pianta disseccata, narrano le storie, che a quell' atto di ubbidienza rinverdì e rifiorì. Ed ora chi non vede, che in ogni atto di ubbidienza, fatto per amor di Dio, al proprio superiore, vi è sempre rinchiuso l' abbassamento di se stesso, l' annegazione, l' umiltà, e l' amor di Dio, e che queste virtù vi sono tanto più belle e grandi, quanto la cosa comandata è più ripugnante e contraria al nostro senso proprio ed al nostro proprio giudizio? E se Gesù Cristo ci ha insegnato che la perfezione nostra sta in quell' annientamento che l' uomo fa di se stesso per amor suo, ed a sua imitazione, chi non vede che vi è sempre una ragione di ubbidire a qualsivoglia comando, e che questa ragione è l' ultima di tutte le ragioni a cui tutte le altre debbono cedere? Perocchè la ragione del rendere noi stessi perfetti, annientandoci per amor di Cristo, è tanto grande che non ve ne può essere un' altra più grande: è il sole della ragione che ecclissa tutte le stelle. Deh! qual ragione di operare vi può essere più grande di quella di ottenere il fine, per cui siamo creati, e di ottenerlo nel più perfetto modo insegnatoci da Cristo? L' ubbidienza che si dice cieca è dunque un' ubbidienza illuminatissima , e con essa si rinuncia a tutte le ragioni frivole e vane per solo attenersi all' unica ragione vera, solidissima e beatissima. Ma tutto questo discorso da chi può venire inteso, se non dall' amatore di Gesù Cristo? Da chi può essere gustato, se non dal semplice ed umile di cuore? A chi risplende tal lume se non al poverello di spirito e al fanciulletto che ha lo sguardo schietto e sincero? [...OMISSIS...] Conviene adunque, mio caro, acciocchè capisca in noi la cognizione di questi tesori della sapienza e della scienza di Dio, che prostrati bocconi per terra innanzi al trono della Maestà, domandiamo, come dicevo, al Padre che ci tragga a Cristo Signor nostro; perocchè indubitatamente è vero quanto pronunciò l' oracolo dell' infallibile verità: « Nemo potest ad me venire, nisi Pater traxerit eum ». Che se il Padre, udendo quel prego che gli innalzeremo dal profondo del cuore in nome del suo diletto Unigenito, ci aprirà gli occhi dell' anima e ci farà cadere le cateratte che le nostre passioni su vi coagularono; allora non solo vedremo l' intrinseco prezzo inapprezzabile dell' evangelica virtù della ubbidienza cieca, ma vedremo di più che, povero il nostro naviglio, se avesse per proprio conduttore noi stessi e la nostra propria ragione e volontà! Vedremo andarsene esso a caso qua e colà trabalzato da flutti in mare immenso, tempestoso e tenebroso, senza discernere mai a che direzione sia volta la miseranda nostra navigazione. Vedremo il lume della ragione nostra, rimastosi solo, non valerci più ad altro che a farci conoscere la condizione disperata in cui siamo gittati. Vedremo che la sola stella che ci possa scorgere a certo segno, non è la povera e inutile nostra ragione umana, ma la sola luminosissima, benignissima, e sicurissima volontà di Dio; e che il nocchiero che possa guidarci dietro a quest' astro di presagio lietissimo, è quel superiore appunto datoci dalla Provvidenza e dalla misericordia di Dio nella religione qualunque ei sia; perocchè qualunque ei sia (purchè non ci comandi il peccato), egli è sempre l' inviato da Dio, è sempre l' interprete dei divini disegni e il ministro delle divine misericordie. Vedremo tutto questo rispetto a noi; ma vedremo molto più se ci viene dato il lume dell' umile sapienza di Cristo, rispetto al bene che potrebbe per noi farsi ai prossimi nostri ed alla santa Chiesa. Perocchè Dio Padre di tutti gli uomini è quegli che pensa a tutti, e Gesù Cristo, Capo della Chiesa ricomperatasi a prezzo di sangue, è quegli che pensa alla sua Chiesa. E Iddio padre e Gesù Cristo suo figlio non elegge alle opere della sua gloria in beneficio del mondo e della sua Chiesa, se non di quelli che, conformati a Cristo, crocifiggono se medesimi, e muoiono a se stessi nella virtù della santa ubbidienza, annegazione, umiltà e amore della croce. Nè altri, ma anzi il solo seguace della santa ubbidienza evangelica è colui che veramente si offerisce a Cristo ed al Padre, e che il Padre e Cristo, secondo il loro beneplacito, elevano, come dicevo, a loro ministro e l' adoperano a tutte quelle cose grandi a cui l' hanno ab eterno predestinato. Stringiamoci adunque all' ubbidienza dei superiori, rinunciando una volta per sempre a noi medesimi, e otteniamoci una grazia sì squisita coll' assiduità di un' umile e non mai interrotta orazione. Questo, o mio caro, io mi aspetto da voi e da tutti cotesti nostri Novizi carissimi; aspetto che tutti usciate infiammati d' amore divino, e atti ad appiccarne l' incendio ai quattro angoli della terra; aspetto che usciate pieni della umile sapienza di Gesù Cristo, che è stoltezza ai vani ragionari del mondo, ubbidienti, docili, mansueti, illuminati, morti alla terra, vivi a Dio, gloriosi di non sapere altro se non Gesù Cristo, e questo crocifisso, da cui vi prego salute e benedizione ne' secoli. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.3. Le dovea pervenire questa mia lettera sul cadere di agosto secondo il promesso, se alcuni accidenti, fra gli altri quelli del corpo sempre malazzato di chi la scrive, non lo avessero trattenuto finora. Essa è incaricata di farle di nuovo molti ringraziamenti del prezioso dono della magnifica « Introduzione » della sua « Storia Universale », letta da me e trovata quale mi aspettavo, e più ancora che io non mi sapessi aspettare ampia e ricca di cose, specchio di una gran mente e di un animo buono e gentile come dee esser quello dello storico. Questa lettura mi ha captivato alla dolce fatica di dover leggere tutta altresì la storia che segue, cosa che ripugnerebbe a queste mie presenti strettezze di tempo e di forze che mi divietano la lezione di tante altre opere egregie e mi prescrivono severamente di non isvolgere altri libri se non i soli necessariissimi alla giornata; pure egli mi è forza ubbidire alla prepotenza che mi usò la sua « Introduzione ». Ma pazienza se questa fosse la sola conseguenza dell' essermi io arreso al suo cortese invito! Ella non vuole da me udire prette lodi, ma mi dimanda un parere, delle osservazioni: come di quelle mi sarebbe facile il mandargliene molte e sincere, così mi pare oltremodo difficile il mandarle di queste, che siano ragionevoli e discrete ed utili; nè sarebbero tali se non fossero anche nuove. E come Le dirò io cosa che non Le sia forse stata detta da altri, se non anco prima pensata e discussa da Lei stessa? Che le cose belle e grandi non mancano di censori numerosissimi, nè saprei dire se la sua stessa grand' opera sia stata più onorata dal pubblico colle lodi o colle censure. Tuttavia forse dirò cosa non detta da altri se parlerò della religione, che come la più importante di tutte, così è quella di cui men parlano i letterati. Tutta da capo a fondo è religiosa la sua « Introduzione », e per entro ad essa lo scrittore non si vergogna mai di far pubblica e dignitosa professione di cristiano. Tanto più posso parlarle liberamente con sicurezza, che il mio parlare non Le torni molesto anzi gradito, paresse quanto si voglia di soverchio sottile e scrupoloso. Ciò dunque che mi cadde in animo di dirle si è, che talora le espressioni e le maniere, che vengono qua e colà usate nell' « Introduzione » parlando del cristianesimo, mi parvero risentirsi e quasi avvicinarsi a quelle che si trovano in molti scrittori moderni, massimamente francesi, i quali parlano umanamente della cristiana religione e, per così dire, la rifanno a lor modo: sogliono evitare tutto il soprannaturale, almen tacendolo, se non negandolo: niente di miracoli, niente di misteri, niente della grazia divina, che è propriamente la vita della fede nostra; confondono la vera rigenerazione dell' uomo, che viene operata da Cristo in un attimo nel battesimo, con ciò che essi chiamano impropriamente rigenerazione , intendendo con questa parola il successivo incivilimento nazionale o sociale che si opera col decorso de' secoli. Le darò un solo esempio di ciò che intendeva. Alla faccia 2. dell' « Introduzione » si dice molto nobilmente: « il cristianesimo elevò la storia e la rese universale, dacchè proclamando l' unità di Dio proclamò quella del genere umano, e insegnandoci ad invocare il Padre nostro , ci fè riconoscere tutti per fratelli ». Niente di più vero nella sostanza: tuttavia osserverei, che il cristianesimo non operò tanta maraviglia col proclamare solamente l' unità di Dio. Questa unità era stata proclamata anche in principio del mondo, e non valse a sostenerlo dalla corruzione: la stessa tradizione antichissima della unità di Dio si conservò fino presso gli Otaiti, adoratori del grande Spirito, e non impedì quelle popolazioni di scadere a stato selvaggio: questa unità fu proclamata dai più insigni savi delle Indie, di Grecia e di Roma: Maometto la proclamò, e quasi direbbesi, più di Cristo, giacchè negò la Trinità delle Persone; e questo dogma della unità tanto proclamato non elevò la storia, non fece nulla di quello che fece il cristianesimo. Il dogma proprio e fecondo della Religione del Salvatore del mondo si è quello della Trinità, e il conseguente della Incarnazione. Pure il proclamare questi dogmi sarebbe stato un profferire delle vane o pazze voci, se la onnipotenza della grazia non avesse acceso il lume della fede nelle anime de' battezzati: ecco lo stromento segreto, che mancò a Maometto, a Confucio, a Platone, a quanti vissero savi in sulla terra dichiarati da Cristo latrones ; ma che non mancò al Verbo incarnato. Questi solo ebbe virtù di mettere in sulle labbra degli uomini il Padre nostro , parola che non poteasi pronunziare senza la dottrina della Trinità, perocchè quella parola tutto racchiude in sè questo mistero, non potendo Dio ricevere nome di Padre se non ha un Dio per figlio. - Siccome in questi ed in altri simili luoghi la grazia avrebbe espressa tutta la verità del pensiero dello scrittore, così dove si legge che « « i poveri, deboli, mal conosciuti, calunniati, coll' autorità, l' istruzione, le ceremonie, l' esempio propagarono il regno di Dio »(facc. 46) » si sente che manca il mezzo principale onde il cristianesimo si propagò, cioè quello de' miracoli ; giacchè, come osservò S. Agostino, se questi fossero mancati, un miracolo massimo sarebbe stata questa sì rapida diffusione della cristiana verità. Mio carissimo signor Cesare, io credo ora di averle dato prova della stima che fo di Lei e dell' affetto sincerissimo che Le porto comunicandole queste poche osservazioni sul suo egregio lavoro. Ella ne faccia quel conto che il suo senno Le suggerirà. Io son certo che le cose da me dette non tolgono all' opera sua l' esser un gran monumento dell' italiana letteratura, ed oso anche dire fin qui l' unico nel suo genere. Ella mi conservi la sua preziosa amicizia, e mi saluti il veneratissimo nostro don Alessandro. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.39 Il mio sentimento è che facciate i voti, essendo io appieno convinto, che, facendoli, voi farete cosa grata a Dio. Con questa persuasione intima ho messo il vostro nome nel decreto che mando al vostro Superiore, il caro D. Luigi, e al quale viene stabilito quali siano quelli, che costì faranno i voti. La sottigliezza del vostro ingegno e sopratutto la vostra fantasia, ecco i vostri principali nemici, che voi stesso conoscete. Cercate di vincerli coll' orazione e con atti generosi di volontà ripetuti molte volte. Gli atti generosi della volontà e le proteste fatte a Dio di frequente e i gemiti cavati dal profondo del cuore hanno grande virtù di ottenerci la grazia e la fortezza di cui abbisogniamo continuamente in questa nostra peregrinazione. Non riprendo che si ragioni ; ma io dico che vi sono delle ragioni primarie e di assoluta verità, e delle ragioni secondarie , e che hanno una verità relativa solamente e parziale. Ora noi dobbiamo dirigerci in tutte le nostre opinioni ed azioni con quelle ragioni primarie che sono poche, semplici, sublimi, universali, madri di costanza e di pace; e non colle ragioni secondarie che appartengono ad una sfera di cose più bassa ed angusta, e non sogliono essere concludenti per la pratica, nè mai si esauriscono, perchè ripullulano infinite, e però mettono l' animo in una perpetua inquietudine e turbazione. Questa non è solamente dottrina logica, è dottrina sacra: Gesù Cristo ha insegnato a' suoi discepoli a far conto solamente delle ragioni grandi o primarie, di cui parlo: elle sono quelle che formano la semplicità, la costanza e la magnanimità della vita dei Santi. Ecco alcuna di queste ragioni che hanno potenza col loro peso di annientare innumerabili ragioni secondarie, minute e querule. Vi ha una Provvidenza amorosissima che tutto regola e dispone: dunque io debbo essere contento di tutto ciò che non dipende da me: debbo tenere per certo, che anche ciò che mi sembra storto è l' istromento migliore per la massima mia santificazione e beatitudine se io me ne approfitto. Essendo Iddio infinitamente buono, debbo confidare e buttarmi in Lui, anche quando io sono cattivo, debole, infermo: debbo sforzarmi, come posso (ma senza ansietà e turbazione), a vincere me stesso e far le cose perfette; e mi riesca o no di farlo debbo considerare che gli stessi miei sforzi, gli stessi miei desiderii sono un dono suo e un pegno che Egli mi vuol soccorrere: i desiderii santi costantemente ripetuti in un cuore non possono andare a male, e perciò nella Scrittura si esprime un uomo santo col dire semplicemente Vir desideriorum . Debbo sommessamente seguire l' autorità della Chiesa, de' Sommi Pontefici, e oltracciò il senso e, per così dire, l' istinto de' Santi. Il senso de' Santi e l' autorità della Chiesa mi dicono che l' ubbidienza ai superiori religiosi è una via sicura di salute e di perfezione. Io mi accorgo, che Iddio mi fa sentire profondamente al cuore questa verità. Che importa dunque che i miei Superiori fallino? Io sono sicuro. D' altra parte se fallano i miei Superiori, come uomini che sono, non falla Iddio che permette il loro fallo, e son certo che lo permette pel mio massimo bene. I Superiori non sono che istromenti nelle mani di Dio: quel comando dunque, che è sbagliato se lo considero con una ragione secondaria e di bassa sfera, non è dunque sbagliato se lo considero con una ragione primaria e sublime: la ragione primaria mette la tranquillità nel mio cuore; m' infonde l' affetto e il compatimento verso i miei Superiori; mi rende dolcissimo e sommamente meritorio l' ubbidire in questi casi appunto, nei quali le ragioni secondarie mi offuscano la mente, mi turbano ed amareggiano il cuore, mi rendono disamorevole verso i miei Superiori, ritroso ad ubbidire, vacillante nella stessa vocazione. Periscano adunque queste ragioni secondarie, si scaccino, come le nubi dinanzi al sole, si faccia sereno il cielo dell' animo nostro. Non conviene ragionare con esse, ma colla forza onnipotente delle ragioni primarie soffocarle appena nate, annientarle, prima che nascano, senza misericordia. Debbo fare grande stima di tutti i miei prossimi e specialmente de' miei confratelli e de' miei Superiori; debbo presumere e interpretar bene ogni cosa, facendo che tutto il mio ingegno sia a piena disposizione della mia carità. Per l' opposto debbo diffidare infinitamente di me stesso, di tutti i miei giudizii, e pospormi a tutti in ordine alla virtù. Se io fo un atto generoso e santo, sono certo che non me ne pentirò mai: sono certo, che gli effetti di quest' atto saranno buoni per me: e se io mi butto in Dio (per quanto miseramente posso) son certo, che Egli non mi lascerà cadere in terra, ma mi raccoglierà nel suo seno. Queste ed altrettali ragioni primarie e sublimi, e che formano la base del nostro Istituto, danno gran pace al cuore e fanno andare innanzi i deboli e gl' infermi e i peccatori. Io sono persuaso che nel fondo del vostro cuore prevalgono queste ragioni primarie; ma mi sembra che, sebben vittoriose, non abbiano ancora distrutte ed annientate le ragioni secondarie, e che vi sia una grande attività nel vostro ingegno e nella vostra immaginazione tendente a fabbricare incessantemente di queste ragioni di bassa sfera, le quali sono veramente inesauribili e rendono l' uomo loquace, involgendolo in disputazioni che non han fine alcuno, e molto meno danno edificazione. Io vi esorto a distruggerle al tutto, facendo che le ragioni primarie e divine sieno le dominatrici pacifiche e sole dell' animo vostro. In questo senso vi esorto a far guerra alla vostra propria ragione, sottomettendovi ciecamente all' autorità ed ubbidienza, fermo in quella parola della Scrittura: « Vir obediens loquetur victorias ». Così si debbono intendere i Santi e i maestri di spirito, quando ci esortano a rinunziare alla nostra ragione e giudizio proprio: sublime ed altissimo documento, sicuro fonte di santità! Qual cosa più bella che il navigare con sicurezza di giungere al porto, sebben s' ignori la strada che dovrem percorrere ed i cimenti che incontreremo per essa? O bella e santa Fede! a te, quantunque abbi le bende agli occhi, io mi attengo con tutto il cuore. [...OMISSIS...] In quanto al modo, col quale fu governato l' Istituto fin qui, credetemi, carissimo mio fratello, che ignorando voi le più minute circostanze, non potete portarne un giudizio sicuro. Io ho riandato molte volte ciò che si è fatto e credo che nel complesso si sia fatta la volontà di Dio: si sia fatto tutto quello che si è potuto e saputo, e che il resto l' abbia fatto mirabilmente Iddio. Quanto alle mortificazioni, voglio rettificare un vostro concetto. Voi dite che quando una cosa è stabilita come appartenente alla vita comune, non si può a meno di conformarsi alla generalità de' fratelli per non dare scandalo. Se si tratta semplicemente di mortificazioni, io non sono del vostro avviso. L' Istituto pregia sopratutto l' umiltà; e se un nostro compagno che non può fare la mortificazione, riceve quella specie di umiliazione, che gliene viene, da Dio e nel suo interno ne cava profitto, umiliandosi e riconoscendosi debole; egli pratica con ciò una virtù molto propria dell' Istituto. Ma gli altri ne prenderanno scandalo? Questo è quello che non deve essere: io bramo, e spero che si otterrà col tempo, che tutti i membri dell' Istituto aborriscano i giudizi sui propri fratelli e sappiano stimarli altamente ed amarli anche se non fanno le mortificazioni comuni, pensando che nelle anime loro possono trovarsi infiniti tesori di grazie anco senza di ciò, e attribuendo il non fare la mortificazione a cause oneste ed anco sante. Il pensare il contrario e il perdere la stima dei fratelli per così piccole cose, è una vera ignoranza: io voglio che tutti i nostri fratelli sieno in ciò istruiti bene, e bene avvezzi a conservare una gran carità in cuore. Stimo e bramo più questa disposizione della stessa uniformità della vita comune: sebbene anche questa uniformità la desideri, per quanto ella è possibile. Desidero tuttavia nel medesimo tempo, che tutti facciano grande stima della penitenza e antepongano all' altre quella della comunità; perchè questo è lo spirito della Chiesa, e di Gesù Cristo, e de' Santi suoi, e il voto dell' Istituto nostro. Quanto ad opinioni, l' Istituto dà piena libertà a' suoi membri, secondo quella regola bellissima di sant' Agostino, « in necessariis unitas, in dubiis libertas, in omnibus charitas ». Circa all' opinioni politiche, io son certo che voi vi atterrete alle dottrine espresse dal Sommo Pontefice nelle Encicliche pubblicate a condanna delle opinioni dell' abate De La Mennais. Forse voi avrete anco letta la lettera, che io ho diretta a questo sacerdote e che fu tradotta anche in francese. L' attenersi alle dottrine dell' Enciclica è cosa necessaria, « in necessariis unitas ». Del resto voi siete libero: ed ho piacere che mi diciate non professar voi alcuna opinione, perchè la materia essendo difficilissima e delicatissima, sarebbe un esporsi a grave pericolo il prendere un' opinione, senza averne studiata la questione complicatissima, da tutti i lati. Bramerei, che leggeste la mia opera intitolata « La Società ed il suo fine », dove ho cercato di render chiare alcune idee importanti, che hanno uno stretto rapporto con quella questione. Ma questa lettera è già lunga, e il tempo assolutamente mi manca di dir di più. Credo d' aver sostanzialmente toccate le cose principali da voi scritte. Coraggio adunque, libertà di coscienza, risoluzione generosa, irrevocabile. Iddio vi venga incontro e vi abbracci. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.40 La lettera vostra del 3 mi ha cagionato una dolorosa sorpresa. Voi vi mostrate vacillante sul punto di abitare in Italia. Ma il disegnare da se stessi il luogo in cui si deve abitare, non è ella cosa direttamente contraria al voto dell' ubbidienza religiosa, e specialmente al voto proprio dell' Istituto nostro, che esige l' indifferenza ad ogni luogo , come espressamente dichiarano le regole? Avete ben letto il « Memoriale della prima prova », e tutte l' altre regole nostre, che espressamente dichiarano tali cose? Avvertite che il sacrificio, che noi dobbiamo fare al Signore e che gli abbiamo fatto co' sacri voti, dee essere simile a quello di Gesù Cristo in sulla croce, nostro maestro ed esemplare. Ha forse detto Gesù Cristo al suo celeste Padre: io non voglio stare nella Giudea, perchè provo delle tristezze, o perchè mi espongo al pericolo della morte? Per lo contrario « obedivit usque ad mortem ». E notate che i Ss. Padri, tra i quali S. Basilio e S. Tommaso, dichiarano che l' ubbidienza religiosa obbliga sino alla stessa morte. E non vale mica il dire, io non intendevo di prendermi queste obbligazioni quando feci il voto; perocchè, questa sarebbe una maniera assai facile di sottrarsi da un' obbligazione così sacra; massime dopo essere precedute tutte le istruzioni sulle regole nostre, che dichiarano la forza de' voti. Ah non vogliate, mio caro, essere così illiberale col Signore, e far dei passi che al punto della morte vi potrebbero levare la tranquillità della coscienza! Egli è vero che potrete forse trovare dei consiglieri ed anco de' teologi che favoriscono le vostre imperfezioni e passioni; ma poco giovano certi consigli, fondati sopra sottigliezze, dinanzi al tribunale di Dio. Permettetemi che vi parli con libertà. Voi non sarete mai quieto fino a tanto che il sacrificio che fate di voi stesso a Dio non sia intero e perfetto ; e non sarà mai intero e perfetto se non la rompete generosamente con tutti gli attacchi a voi stesso e alle cose di questo mondo, e non vi stringete a Dio solo. « Deus meus et omnia », dee essere la vostra divisa, e la divisa di tutti noi. Quando voi vi mettete nelle mani di Dio (e nelle sue mani vi siete messo coi sacri voti e colla professione del nostro Istituto), allora dovete stare costante e quieto in quelle mani, vivo e morto . Iddio non abbandona certamente chi si fida intieramente a lui, e da lui riceve per mezzo de' propri Superiori il bene ed il male. Questo abbandono nella divina Provvidenza è essenziale al nostro Istituto, e non si dà vero sacrificio, non si dà vera imitazione di Gesù Cristo, senza di questo. Chi ragiona diversamente, ragiona umanamente, e però s' inganna. Se Iddio vedrà che al maggior bene, non del vostro corpo, ma dell' anima vostra, giovi che meniate una vita mista, egli farà nascere tali circostanze, che condurrete una vita mista. Se Iddio vedrà il contrario, egli permetterà il contrario; permetterà che siate anco attaccato da' nervi, perchè finalmente « virtus in infirmitate perficitur »; e voi, se rimarrete costante nella vostra vocazione e nelle prove che vi darà il Signore (le quali non sono mai superiori alle forze, purchè si preghi), diverrete giusto e caro agli occhi di Dio, giacchè « vir obediens narrabit victorias ». La necessità dunque della vita mista il Signore la vede, e se ella è reale per l' anima, e non per il corpo, vi provvede sicuramente a favore di un servo che gli è fedele; ma non di un servo che gli è infedele. Avvi anche pericolo che in queste cose giochi in gran parte la fantasia, la quale spesso c' inganna, e a cui convien resistere valorosamente, opponendole lo scudo della fede. Ma la fantasia non opererebbe, se in noi non ci fosse l' attacco a noi stessi, ai paesi da cui noi proveniamo, ai conoscenti, al proprio benessere, e alle sostanze temporali. Rompiamo dunque con forza tutti questi attacchi, e la fantasia cesserà di operare. Potremo allora cantare: « Laqueus contritus est et nos liberati sumus ». Il demonio c' inganna coll' attrattiva di una vita apostolica; ma la vita apostolica può ella essere priva delle più solide virtù? Si dà egli vita apostolica senza ubbidienza e senza povertà? Gli apostoli erano mandati : ma come può esercitare l' apostolato un religioso che non riceve la missione de' suoi Superiori, e che dice: io voglio fare l' apostolo per impedire l' attacco de' miei nervi? come può esercitare l' apostolato chi non vuole lasciare le sue reti e la sua barca? S. Paolo tremava, non forse predicando agli altri si facesse reprobo egli stesso; il che dimostra che le fatiche apostoliche non si debbono assumere nè per inclinazione, nè per gusto o consolazioni che vi si trovino; ma perchè Iddio vuole, perchè Iddio manda. Se dunque i vostri Superiori vi mandano, fate bene ad ascoltarli, e ad andare, perchè « qui vos audit, me audit »: ma se volete andare da voi stesso, o cercate che altri vi mandino, dovrete renderne conto a Dio, e il giudizio che vi si farà dei falli che voi commetterete nell' apostolato sarà inesorabile: « ego non mittebam eos, et ipsi currebant ». Ah! temiamo pure nell' accingerci alla grand' opera di ammaestrare gli altri, come temeva e tremava s. Agostino e tutti i Santi; e desideriamo piuttosto di prepararci all' apostolato, che non sia di esercitare l' apostolato stesso; desideriamo piuttosto di convertire noi stessi, e così di prepararci a convertire gli altri, quando e come il Signore lo vorrà. Se avremo vinto noi stessi, debellate le tentazioni, sacrificati i nostri gusti, resi noi stessi perfetti nell' ubbidienza e nell' annegazione; allora saremo divenuti istrumenti idonei nelle mani di Dio, e potremo sperare che egli forse si serva di noi a fare qualche bene. Ma fino che siamo così imperfetti, pieni di volontà propria, di giudizi proprii, così mal mortificati, abbiamo troppa ragione di temere di noi stessi. Quegli solo sarà un vero apostolo, che a imitazione di Gesù Cristo sa aspettare la missione celeste per 30 anni nell' oscurità della vita occulta. Ecco la virtù che non falla, perchè non lusinga l' amor proprio: la virtù che noi sacerdoti dell' Istituto della Carità ci siamo proposto di esercitare. Coraggio adunque, mio caro fratello nel Signore! Vada tutto, vada la vita, vada la roba, vadano i gusti e tutti i nostri giudizi particolari; ma non vada la virtù vera, evangelica e veramente apostolica che forma l' essenza della nostra professione. Abbandoniamo ogni altro nostro pensiero e desiderio fuor di quello di divenire veri membri dell' Istituto della Carità . Quest' unico pensiero vi occupi più che non ha fatto per lo passato. Il membro dell' Istituto della Carità è contento in ogni luogo, in ogni grado, in ogni ufficio, perchè cerca Iddio solo. Egli si stacca da tutto. La nostra povertà deve essere piena, assoluta, simile a quella di Gesù Cristo sulla croce. Io non potrei mai permettere che nessuno dei nostri compagni amministrasse i suoi beni proprii, o che menomamente ne disponesse o che impedisse all' Istituto il disporne, giacchè peccherei io stesso mortalmente contro il voto e farei peccare i miei compagni condiscendendo alla loro imperfezione. E perciò vi prego e vi scongiuro, mio carissimo fratello in Cristo; e non bastando ciò, vi comando altresì in virtù di santa ubbidienza (notate bene) di consegnare fedelmente tutto ciò che avete in beni mobili e stabili a questo mondo nelle mani del vostro Superiore, in maniera che non vi resti più nè bene alcuno, nè disposizione, nè amministrazione di sorta alcuna; acciocchè siate sciolto intieramente da tali imbarazzi, e possiate servire il Signore in una vera e intera povertà, e si compia in voi la volontà divina. Spogliato interamente dei beni temporali, la virtù della grazia di Dio si aumenterà in voi; e così reso più forte, e da Dio illustrata la mente, non finirete di benedire il suo Nome per la grazia grande che vi ha fatto. Intanto vi raccomanderò indegnamente al Signore, e spero che nella prossima vostra lettera mi restituerete quella consolazione che mi ha fatto perdere la precedente, per la giusta sollecitudine che ho dell' anima vostra. Addio. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.40 Non dubito che la bontà e misericordia del Signor nostro non voglia da voi una sempre maggior perfezione. Quel tenerissimo nostro amico e Sposo picchia incessantemente alla porta del nostro cuore; vi entra se noi gli apriamo, e vi entra per renderlo più bello e per fugarne tutte le tenebre. Oh! ma quanta è mai la nostra miseria! Impastati di fango vilissimo, e peggio ancora, di vilissima carne, non siamo buoni da altro che da oppilare gli spiragli della luce celeste, che da turare gli occhi dell' anima nostra, fatti pure per ricevere quella luce e vivificarsene, e ostruire gli orecchi acciocchè non sentano le divine parole! Quand' io considero da una parte l' insistenza di Dio per fare del bene a me, sua povera creatura, e dall' altra non dico la mancanza della corrispondenza da parte mia, ma gli ostacoli ch' io oppongo al mio infinito benefattore e la guerra che gli faccio, inorridisco; e se egli stesso non mi aiutasse ancora, chi mi terrebbe dal non avvilirmi e disperarmi? Coll' esperienza mia propria adunque misuro benissimo e comprendo come simiglianti sentimenti ed anche agitazioni e desolazioni possano entrare nell' anime altrui, possano entrare anco nella vostra. Ma che perciò? non ci sarà per noi, mio carissimo, anche una larga vena di consolazione? Ah sì, ed infinita! Io la trovo sempre in quelle parole: « Surgam et ibo ad patrem meum ». Oh dolce nome di Padre! Quanti mercenari « in domo patris mei abundant panibus; ego autem hic fame pereo! » Alla nostra casa adunque, alla casa del nostro Padre! e vi troveremo ogni cosa che ci bisogna: gli amplessi paterni ci aspettano. E` vero che se noi dovessimo sperare in noi stessi, la sarebbe finita; ma noi possiamo contare talmente sulla tenerezza del nostro Padre Iddio, che da lui stesso possiamo aspettare fin anco che ci muti il cuore, fin anco che produca egli in noi la corrispondenza nostra alla grazia sua, fin anco che ci comunichi egli stesso il coraggio e la fortezza che ci manca per fare quelle risoluzioni generose e grandi di cui abbisogniamo. Non n' abbiamo noi il desiderio? E bene, questo desiderio benchè sterile è la caparra che ci dà Iddio di voler fare con noi de' prodigi di misericordia; perocchè lo stesso desiderio del bene è suo dono. Dietro a questo desiderio mandiamo a Dio delle voci, delle suppliche, de' gemiti almeno; se non possiamo pregar molto, preghiamo poco, ma con frequenza ed ardore; preghiamo che ci accresca il dono di pregare: egli ci esaudirà, e dietro la preghiera verranno a noi tutte l' altre grazie che ci bisognano, e più ancora. Non meritando che di essere mercenari nella casa paterna, ci troveremo senza saper come ridivenuti figliuoli, e della bella stola vestiti e dell' anello prezioso fregiati. Oh insomma non può nulla mancare a chi desidera, a chi spera, a chi fa quello che può, ed aspetta dal suo ottimo Creatore e Padre quello che non può! Coraggio adunque, fiducia illimitata, tranquillità nello stesso dolore, nella stessa umiliazione! Mio caro, quanto bramerei di potervi recare qualche sollievo nella vostra afflizione, se io sapessi il modo! Chi sa, che forse non vi gioverebbe l' assentarvi per qualche tempo da Roma, e dalle vostre ordinarie occupazioni! Nel caso che ciò trovaste potervi giovare, venite da me, staremo insieme: o se le mie occupazioni non mi lasceranno molto tempo libero, voi avrete la compagnia di alcuno de' miei compagni. Il riposo, la novità della vita e degli oggetti che vi circonderebbero, potrebbero ristorarvi. Non vi prometto però delizie, ma povera vita. Se non poteste fare il viaggio per la spesa, ciò non vi trattenga; pagherò io per voi. In somma disponete di me, come si fa de' veri amici. Farò pregare, pregherò; voi pure pregate. Il nostro caro Signore e la dolce nostra Madre, stiamone certi, ci esaudiranno: ci faranno suoi , che è quello solo che noi vogliamo: [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.40 Ho aggradito la vostra lettera colla quale mi date notizia di voi stessa. Il consiglio principale che vi do si è, che vi mettiate sempre avanti gli occhi la vita di Gesù Cristo vostro sposo per imitarla, e i suoi celesti insegnamenti; fra gli altri quei due tanto da lui raccomandati dell' abbandono di sè nella Provvidenza , e della carità del prossimo . Egli ha detto che gli uomini conosceranno quali sieno i suoi discepoli, dalla carità che eserciteranno fra di loro. Questa è la vera perfezione, la più alta perfezione religiosa che si possa concepire: e questa è quella a cui siete chiamata nell' Istituto della Provvidenza. Badate di acquistare idee diritte, e di non credere che la perfezione religiosa consista nella clausura, in certa regolarità di preghiere, e in cose somiglianti. No, mia figlia, non consiste in queste cose la vera perfezione, sebbene tali cose possono esser buone ed aiutare a conseguire la perfezione, se Iddio ce le concede. Eleggete dunque per vostro maestro nella via della perfezione il solo Gesù Cristo: vedete che egli nè i suoi apostoli, esempi della più alta perfezione, non vissero chiusi e addetti a certo fisso regolamento; ma andarono dovunque li chiamava la Provvidenza divina e la carità del prossimo . Iddio vi aiuterà da per tutto dove andrete per amor suo, e per far bene alle anime da lui redente. Ciò che ora dovete fare si è d' impegnarvi grandemente a divenir perfetta nello stato in cui vi trovate e in cui certamente vi ha posta il Signore, cacciando ogni altro pensiero, che non farebbe che nuocere al vostro profitto, e innamorandovi del vostro Istituto, tutto sacrificato alla Provvidenza ed alla carità. Le tentazioni vi saranno, e verranno anche più forti; ma non temete. Iddio sarà con voi, se da parte vostra non vi lasciate distrarre con pensieri alieni, coi quali il demonio suole disturbare le anime coll' apparenza del meglio. Fate per me una santa comunione, e ogni qualvolta abbiate bisogno di consiglio, scrivetemi pure liberamente. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.40 Niente ritrovo in quanto Ella mi espone che mi faccia menomamente dubitare che l' ecclesiastico, che dirige l' anima sua, non sia degno della piena sua confidenza; e però sono intimamente persuaso che la più compita ubbidienza al medesimo sia la strada più sicura per Lei di piacere a Dio, come desidera, e di far progresso nelle virtù. La voce del suo Direttore deve essere per Lei la voce di Dio stesso, e perciò se il Direttore Le concede licenza di accostarsi all' altare per ricevere la SS. Comunione tre o più volte la settimana, e in quei giorni ch' Ella desidera, questo è anco il voler di Dio; ed Ella non ha da far altro che di riempirsi di riconoscenza verso la bontà del suo Creatore, che con tanta generosità d' amore la chiama a sè mediante la voce del suo ministro e La ammette al suo divino banchetto; non ha da far altro che di confondersi nel suo niente, nella sua indegnità, accostandosi in pari tempo alla sacra mensa confidente, lieta, umile, magnificando il Signore coi sensi di Maria Santissima, perchè egli si degnò di riguardare alla bassezza della sua serva. Non si tratta qui della questione se siamo degni o no di un tal favore; trattasi di sapere se Iddio ce lo vuol fare o no un favore sì segnalato, sebbene noi siamo e ce ne riconosciamo pienamente fuor di questione indegnissimi; trattasi di sapere se noi ci possiamo credere di quegli avventurati zoppi e storpi e guerci dell' Evangelio, che pur furono, nonchè invitati, quasi cacciati dentro a forza nella sala delle nozze di quel gran signore. E come possiamo noi saperlo? Ce lo fa sapere la voce di Dio che noi udiamo dalla bocca del suo Ministro che ha cura dell' anima nostra: entriamo dunque con fiducia e col cuore esultante, perchè il Signore che abbiamo offeso si degna di sopraffarci in tal modo e vincerci in bontà: pensiamo che egli è infinito, e non ce ne faremo più meraviglia. Ma io sono stata una gran peccatrice, Ella mi dice, e dov' è la penitenza? Il desiderio di soddisfare alla divina giustizia colle opere penitenziali è cosa giusta e santa, e certo un tal desiderio non si dee reprimere quando Iddio lo fa nascere nell' anima nostra: tuttavia questo desiderio, come tutti gli altri buoni desiderii, dee sottomettersi alla più grande delle virtù, all' ubbidienza, e da questa esser interamente diretto. Se il suo Direttore non crede di permetterle alcune mortificazioni e penitenze esteriori, ch' Ella stimerebbe troppo giuste e desidererebbe grandemente di fare; Ella riconosca anche in ciò l' amabile volontà di Dio, riconosca che Iddio stesso La dispensa per ora da tali penitenze, che si contenta del suo desiderio, e sopra tutto poi della ubbidienza ch' Ella esercita, non facendole. Egli è tanto grande il merito che ha presso Dio l' ubbidienza, che nella Scrittura stessa vien detto che questa piace più a lui delle vittime. Nell' ubbidienza adunque stanno per Lei racchiuse le penitenze, di cui si sente verso Dio debitrice. Ella le fa tutte ubbidendo. Ma questa stessa dichiarazione, che Le fa Dio, dee di nuovo confonderla ed umiliarla, essendo un nuovo tratto della benignità di Dio verso di Lei, non dee diminuir punto nel suo cuore il sentimento di tutto ciò che deve a Dio in conseguenza delle sue colpe; dee considerarsi come doppiamente debitrice e per le soddisfazioni delle quali Iddio La dispensa, e per la grazia della quale Iddio La ricolma. L' essere dispensata in tal modo da certe penitenze dee oltracciò impegnarla ad accendersi di maggior tenerezza verso il nostro Signor Gesù Cristo, riflettendo ch' Egli La dispensa così dal patire per aver patito Egli a sua vece; giacchè se Gesù Cristo non avesse sborsato per noi peccatori il prezzo del suo sangue, noi non potevamo essere dispensati dal dovuto pagamento. Ecco la ragione per la quale il suo Direttore, qual organo di Dio stesso, Le può impedire alcune penitenze senza scapito della soddisfazione dovuta: la penitenza fatta da Cristo per noi n' è la gran ragione: sopra questa ci possiamo riposare. Come Ella vede, io parlo di alcune penitenze, delle arbitrarie ch' Ella stessa s' imporrebbe: non resterà perciò priva di penitenze e ben meritorie. Molte ne farà ricevendo con gran pace e contento tutte quelle che impone Iddio alle anime mediante i varii accidenti della vita, praticando quelle che riguardano la mortificazione interiore, quelle che s' incontrano nello studio stesso di piacere a Dio solo, nella meditazione delle cose eterne, nell' orazione, nel combattimento contro tutti i propri nemici spirituali non meno piccoli che grandi. Ella dice che non fa profitto nella emendazione de' suoi difetti: questa è una nuova penitenza, il sopportare se stessa. Ne vuole ancora di più? Eccogliene. Faccia per quanto può una vita di carità; faccia il maggior bene ch' Ella possa a' suoi prossimi, e quando non può farlo coll' opera, lo faccia loro col desiderio, colla compassione, coll' intercessione verso gli uomini, colla preghiera verso Dio. Oh quanto bene c' è da fare a questo mondo, mia pregiatissima signora, purchè si voglia! E non dubito ch' Ella lo faccia, che lo farà; e la carità sua riuscirà tanto più graziosa agli occhi di Dio, quanto più Ella procurerà di dirigerla non solo al ben dei corpi, ma ciò che più monta, alla salute eterna dell' anime de' suoi prossimi. Serva Ella dunque il Signore, che la favorì e La favorisce, con ampiezza di cuore senz' angustie, nè timori: dei difetti nè rimarranno, ma non se ne sgomenti: questi li permette il Signore per tenerci umili: approfittiamocene per questo appunto, staccandoci sempre più da noi stessi e dal mondo. Io sono stato più lungo in questa mia di quello che avrei voluto: se troppo, me ne scusi. Ma sopra tutto preghi il Signore anch' Ella (come io farò pure indegnamente per Lei) per i molti miei bisogni d' ogni specie. Mi son servito, com' Ella vede, della licenza ch' Ella mi diede di risponderle nella lingua italiana, e ne ho certo una buonissima ragione, il non saperne altra: il che però non vuol dire che io sappia questa in cui scrivo. [...OMISSIS...] 1.41 La sua cara lettera è un pegno di vera cristiana amicizia: uno di quei pegni che non si dimenticano più. Io ne La ringrazio con tutto il cuore. L' opuscolo di cui Ella mi parla, come messo in giro anche costì, ma da Lei non veduto, neppur io potei averlo ancor nelle mani. Ne seppi l' esistenza solo pochi giorni fa: una persona lo portò all' Em.mo Card. Tadini Arcivescovo di Genova, il quale lo mostrò ad un mio amico. Questi n' andò in traccia per Genova a fine di rinvenirlo: tutti i librai lo conoscevano, tutti ne parlavano, niuno seppe dirgli dove fosse, d' onde lo si potesse avere. Ho ragione di credere che una copia ne sia stata recata altresì all' Arciv. di Torino, e ad altri Prelati e Magistrati. Tosto che mi verrà fatto di procacciarmelo potrò dirle qualche cosa del contenuto. Le posso però parlare fin d' ora del più importante. Il più importante è la mia fede, che, come sento si attacca. Io non pretendo già di essere infallibile; ma guai se la fede cristiana dovesse riposare sull' infallibilità dell' uomo! essa riposa tutta sull' autorità di Dio rivelante, il quale ci fa conoscere la verità col mezzo della S. Chiesa. Su quest' autorità la mia fede, come quella di ogni altro semplice fedele, è basata: ella è dunque indipendente tutta dal ragionamento, ed io non ho mai fatto dei miei ragionamenti (Dio me ne guardi!) il sostegno e l' appoggio della mia credenza, gli ho considerati sempre come cosa affatto da questa diversa. Quindi, come ho sempre tenuto per falso quel ragionamento che fosse anco menomamente opposto all' autorità della Chiesa; così, qualora mi fosse avvenuto di fare un ragionamento, che senz' accorgermene riuscisse opposto a quanto avesse deciso quest' infallibile autorità, ciò proverebbe bensì in me dell' ignoranza e della fallacità di giudizio, ma non per questo la mia fede ne soffrirebbe. Ora io non sono già nato per esser dotto o per acquistarmene la gloria presso gli uomini, nè mai a questa fama ho rivolte le povere mie fatiche; ma sono nato bensì per esser credente e fatto degno delle promesse di Cristo, qual figliuolo devoto della sua Chiesa. Da questo Ella conoscerà, che io non posso valutar molto quella qualsiasi riputazione di letterato che Ella mi dice avermi per l' addietro acquistata, e che l' esser io convinto d' ignoranza, non è quel che mi pesa. Il mio tesoro è la santa fede, e qui è anco il mio cuore. Laonde se avvenisse, poniamo il caso, che la S. Sede Apostolica mia maestra, e maestra di tutto il mondo, trovasse di che riprendere nelle cose mie, non sarebbemi certo difficile il fare qualsivoglia pubblica dichiarazione, che rendesse la mia intemerata credenza più luminosa; giacchè tutto ciò che io avessi detto contro questa credenza, l' avrei detto certamente contro il mio proprio sentimento, e ritrattandomi non farei che esprimere quel pensiero immutabile, che m' ebbi sempre permanente nel cuore, e solo correggerne l' espressione esterna, che mancherebbe a rendere con esattezza quell' intimo pensiero, voglio dire, la mia piena fede. Che anzi Le dirò di più; a chi mi ebbe mostrato qualche mio sbaglio io professai sempre gratitudine, come voleva il dovere, nè alcuna difficoltà sentii mai a correggerlo per amore di quella verità che sola voglio ed amo in tutte le cose mie; e se questo feci e fo nelle cose più indifferenti, come nol farei io in un punto sì capitale come è quello della mia religione, dove, oltre l' offendere la verità e nuocere all' anima mia, mi esporrei al pericolo di rendermi maestro di errore al mio prossimo? Che cosa ho io voluto mai altro nei poveri miei scritti, che giovare alle anime? Ed ora le pervertirò io stesso? e ad occhi aperti? Iddio nol permetterà mai; io n' ho tutta e in lui solo la fiducia, in lui che m' infuse la fede bambino, e mi diede una illimitata devozione alle decisioni della S. Sede Apostolica, in lui che spande nel mio cuore la gioia quando posso fare un atto di fede, e che mi farebbe desiderar quasi d' esser caduto in un involontario errore, purchè senz' altrui danno, per potergliene rendere una confessione più alta e solenne. - Ma questo involontario errore ci sarà egli dunque nelle vostre opere? Ella mi domanda. Le risponderò con S. Paolo: « nihil mihi conscius sum, sed non in hoc iustificatus sum ». Mi parla nella sua lettera di errori di Baio, di Quesnello, di Giansenio, di Calvino, di Lutero: il solo sentir questi nomi, mette, a dir vero, raccapriccio. Le detestabili dottrine di questi eresiarchi, eretici, o fautori d' eresia sono state condannate giustissimamente dalla Chiesa: io le ho sempre condannate e detestate insieme con essa; e com' è egli dunque possibile che io segua costoro? e voglia esser anch' io un tralcio reciso dalla vite, buono da gittarsi solo sul fuoco? Dio mio! l' udir questo è certo una grande umiliazione. Le Bolle de' Sommi Pontefici che condannarono il giansenismo in tutte le sue diverse gradazioni, sono certamente sotto i miei occhi; e pure io non veggo che un solo dei sentimenti espressi nelle mie opere, e nominatamente nel « Trattato della Coscienza », che come credo, si prende specialmente di mira, s' approssimi ai sentimenti condannati di que' novatori. Che anzi più volte, io citai le proposizioni condannate in essi, a fin di mostrare qual sia la strada perversa in cui quelli eransi incamminati, e qual sia per ciò la contraria che noi dobbiamo percorrere; più volte mi son dichiarato in modo da non lasciare intorno a ciò il minimo dubbio. Che dunque si pretende con tali accuse? qual progetto si cova nascosto? vuol Ella che Le dica in fine di più ancora? vuol Ella che le apra tutta l' intima mia persuasione? vuol che Le faccia conoscere quanto la mente mia chiaramente prevede dover avvenir da quest' aggressione alle spalle, che or mi si fa? M' ascolti benignamente, e non attribuisca a presunzione alcuna quanto la chiara consapevolezza e il testimonio interiore dell' animo mio depone in me stesso, ed a Lei ingenuamente confido. L' autore dell' opuscolo, che secretamente si sparge, sarà stato mosso da buon zelo per la purità della fede; egli è probabile assai, che siasi grandemente riscaldata la testa, e che mal pratico delle dottrine filosofiche e dello stile rigoroso, che io stimai bene d' adoperare nel « Trattato della Coscienza » come nelle altre mie opere per ridurre le questioni complicate ai loro semplici principŒ, abbia preso, come si suol dire, delle cantonate. Egli è facile, appigliandosi a qualche frase staccata, a qualche periodo mal inteso, farne uscire un senso a rovescio; come è facile comporre un centone di passi che dicano tutt' insieme precisamente l' opposto di ciò che volle dire l' autore; ed ognuno sa che collo stile stesso e colle frasi del Vangelo si può benissimo scriver la vita di Cagliostro. Ma che perciò? Certo che dee nascere necessariamente da una tal frode qualche sussurro per ogni canto, massime che vi sono anche assai di quelli a cui buccinano da sè gli orecchi. Questo dee portare di conseguente una costernazione nei buoni, un gaudio nei tristi, un cotal sospetto nella moltitudine che non può giudicare del merito dei partiti ardenti, uno scatenarsi delle passioni; ciò appunto che voleva « inimicus homo, qui superseminavit zizaniam ». Io ne addoloro pel ben comune: per veder quelli che doveano esser meco uniti, così dividersi. Ma in fine, non vive egli Iddio? non regna egli Cristo? non vede egli i cuori? non conosce egli i suoi servi? non dispone egli forse tutto per la sua gloria e pel bene della sua Chiesa? che c' è a temere? gli darò io cagione di dirmi: « modicae fidei, quare dubitasti? » No certo, colla sua grazia. E in terra non ha egli il suo Vicario? il Papa non è egli ispirato e condotto dallo Spirito Santo? i giudizi della S. Sede hanno forse niente di comune coi giudizi precipitosi e riscaldati di alcuni uomini forse zelanti, ma non sempre secundum scientiam? Ecco dunque ciò che avverrà. La S. Sede tutto esaminerà colla sua solita posatezza, imparzialità, prudenza e sapienza divina: ella andrà al fondo della cosa, e giudicherà con piena cognizion di causa. Il suo giudizio è stato sempre la mia regola, sarà tale ancora. Io amerò egualmente una regola sì cara, sì dolce, sì certa, sì sicura qualunque ella sia, qualunque cosa Ella prescriva. Ma che cosa in fine prescriverà? Eccole la persuasione mia fermissima. Non solo giudicherà pure e sane le mie dottrine, e il suo autorevole giudizio le renderà più utili ai miei prossimi pei quali io le scrissi, credendo di scrivere quello che il lume del Signore mi suggeriva; ma di più la S. Sede riconoscerà in esse degli argomenti validissimi, coi quali sterpare fino le radici degli errori di Giansenio, Baio, Quesnello ed altri sopra nominati, e in questa vista veramente furono da me scritte. Ma Ella ritenga sempre, che questa mia persuasione dettatami dalla coscienza insieme e dalla cognizione non leggera delle materie nei miei scritti trattate, non ha ancora da far niente colla mia fede: la quale è semplice e in altro non fondasi affatto che in Dio e nella santa sua Chiesa. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.41 Mi consola assai il sentire che Ella è risoluta di amare a qualunque sia prezzo la verità e di non tradirla giammai. Io sono persuaso che questa sia la più bella disposizione che Ella possa avere per ottenere da Dio i lumi e la fortezza di cui Ella abbisogna nelle circostanze in cui Ella si trova, e che nella sua lettera mi descrive. Non è certamente bisogno, che io osservi che i doveri nostri verso la verità sono molti, giacchè noi dobbiamo non solo amarne quella bellezza che dimostra al nostro intelletto ( « agnoscere veritatem »), ma ben anco realizzarne colla condotta nostra quella bontà che propone alla nostra volontà ( « facere veritatem »). Questo secondo dovere è più difficile assai del primo, ed è quello ad eseguire il quale specialmente noi abbiamo bisogno del divino aiuto, e, per averlo, di domandarlo incessantemente. [...OMISSIS...] come dice S. Giacomo. Perciò io credo che Ella si troverà ben contenta se in tutti i suoi viaggi, tenendo presente Iddio, lo invocherà senza posa, praticando i doveri imposti dalla santa Chiesa Cattolica, e facendo uso, con viva fede e nihil haesitans , de' Sacramenti della medesima. Le sarà altresì di grandissimo aiuto e difesa contro ai pericoli l' abituarsi a non pregiare le cose e le cognizioni stesse, se non in ordine alla verità ed alla giustizia, e perciò a Dio ed alla santa Chiesa Cattolica, a cui ha la grazia di appartenere. Con questa retta intenzione viaggiando, Ella non si contenterà meramente di acquistare cognizioni, ma di mano in mano rifletterà all' uso che potrà fare delle cognizioni che Le verranno acquistate, e stimerà più quelle che più Le possono servire un giorno a far valere la causa della religione, della giustizia e dell' umanità. Questo stesso riflesso gioverà assai a farle considerare come mere vanità molte cose di questo mondo, intorno alle quali gli uomini impazziscono; e La difenderà da molti pregiudizi ed opinioni false, di cui sogliono essere imbevute le società particolari, e i particolari. [...OMISSIS...] 1.41 La vostra cara lettera di ier l' altro mi è un nuovo caro pegno di quella vera cristiana amicizia che mi professate. Vi assicuro per altro, che nella « Risposta al finto Eusebio Cristiano » ho temperate secondo il vostro consiglio alcune espressioni che riescivano un po' pungenti; sebbene sento ora che vi sembra ancor troppo acerba. E tale sarebbe anche agli occhi miei, se io avessi così scritto, perchè il mio avversario fu il primo ad offendermi e ferirmi nella parte più delicata, qual' è l' integrità della fede , come vi credete che io abbia fatto. Ma io protesto che questa è per me una ragione che non val nulla; giacchè, per grazia di Dio, non mi curo nulla delle ingiurie personali, nè me ne sono mai curato. Laonde se non avessi temute le conseguenze funeste per le opere della gloria di Dio e per la dottrina vera del nostro Signore, state pur certo che non avrei risposto nè pure una parola ad Eusebio. No, ve lo ripeto, per ispirito di vendetta, grazie a Dio, non iscrivo, nè ho mai scritto. Perchè scrivo io dunque? Scrivo pel bene pubblico; e dal momento che io stimo che questo sia il mio dovere, reputo di scrivere in quel modo, nel quale si possa ottenere più facilmente, più speditamente e pienamente questo bene che ho in vista. Per ottenere questo bene non si deve mentire, che Iddio me ne guardi! ma della verità si deve dire quella parte che sembra necessaria ad ottenerlo in maggior abbondanza. Talora questa verità è una pillola amara, ma anco i rimedi che danno i medici sono amari; e se v' ha un modo di fare del bene al mio avversario, io credo che sia questo da me adoperato, e di cui nostro Signore e tutti i Santi ci hanno dato l' esempio. Fino che considererete la causa, di cui si tratta, come mia personale, mi condannerete, può essere, come mancante di mansuetudine; ma quando considererete la causa come di Dio, allora vedrete che talora è mansuetudine e vera carità anche il parlar forte, e che il nostro divino Maestro non era meno mansueto nè men umile allorquando diceva volpe ad Erode, o ipocrita e cieco al fariseo, di quel che sia quando pregava pei suoi crocifissori. Il bene che si deve avere per fine è sempre un solo, e questo è la carità anche verso gli avversari, anche verso i nemici; ma i mezzi di esercitare la carità sono molti, talora vi ha anche quello di dire cieco al cieco, e di dir volpe a chi è volpe; come è pur troppo il caso mio, per quanto mi pare. Io non ho avuto in vista altro che di scuotere gli avversari, perchè intendano che sono deliberato di resistere fortemente, e di discoprire tutte le loro trame che vanno ancor tessendo continuamente contro l' Istituto, e che io debbo dalle loro tenebre tirare in manifesta luce. Credo che io sono nelle presenti circostanze obbligato a fare fronte, anche pel loro stesso bene. So che non farò nulla, e che le persecuzioni subdole e artificiose non cesseranno: ma si persuaderanno almeno che troveranno ostacolo a farle riuscire. Siamo d' accordo in dover fare tutto ciò che è più conforme allo spirito del divin nostro Maestro: e chi può dubitarne? Tutto il resto è inganno e pazzia. Ma io non ho inteso di dipartirmene, e vorrei morire più tosto che farlo scientemente. Continuate a pregare il Signore, perchè m' illumini se sono in errore, e non permetta giammai che altro spirito mi diriga fuor che il suo, che solo desidero ed amo. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.41 Ier sera prima di notte siamo giunti felicemente in questo seminario, dove questi ottimi sacerdoti ci accolsero colla loro solita cordialità. Non è però solo il darvi notizia del nostro viaggio lo scopo di questa mia, ma ancora il fare qualche risposta alla carissima vostra del 1 corrente: giacchè non ve n' ho potuto parlare nel mio passaggio da Milano con quella comodità che sarebbe stata necessaria, e se nulla affatto vi replicassi, sembrerebbe che io non avessi aggradita l' amorevole vostra ammonizione, o non ne facessi quel conto, che pure ne fo. Vi parlerò dunque con tutta candidezza, come sono solito e come voi volete certamente che io faccia. E in primo luogo vi dirò, che il sentimento vostro esposto con tanta sicurezza, m' incute timore, e comincio a dubitare non forse io abbia ecceduto nell' uso di espressioni biasimanti ed umilianti col mio avversario; spero che il vostro avviso mi sarà utile per l' avvenire, se non mi può più essere utile nella causa presente. Sia pur dunque vero, che io abbia errato, e voi condannatemi pure; ch' è io non intendo difendermi, sapendo troppo bene di essere capace di qualsiasi male, se Iddio non mi sostiene. Ma io crederei di ostentare una falsa umiltà e di mancare alla veracità e insieme all' amicizia, se ingenuamente non aggiungessi, che le ragioni, che voi adducete nella cara vostra, non sono punto solide, come vi sembra; e ne converrete anche voi, se vi farete sopra le seguenti riflessioni. Voi dite che non potete concepire come le ingiurie scagliate contro il prossimo possano servire di gloria a Dio; e dite certamente benissimo. Nè pur io posso concepire una tal cosa; perchè le ingiurie sono peccati, e i peccati si oppongono direttamente alla gloria di Dio. Ma le parole biasimanti e umilianti, sono esse sempre ingiurie? No certamente. Ingiuria vuol dire ingiustizia, e perciò le parole e gli appellativi di biasimo non sono ingiurie, se esprimono il vero; non è ingiuria, per esempio, il dire ladro al ladro , e perciò Gesù Cristo non ha detto un' ingiuria, quando ha chiamati ladri i venditori nel tempio. Voi dite poscia, che il nostro divin Maestro poteva usare degli epiteti umilianti come ne usò, perchè era Dio, a cui solo conviene il mihi vindictam , e nol possiamo mai noi, perchè siamo uomini che non veggiamo l' interno dei cuori. Ma se attentamente considererete la cosa, vi accorgerete che non si può dire che nostro Signore nella sua prima venuta abbia mai operato per vendetta , la quale fu intieramente da lui riserbata per la seconda sua venuta. Egli ha adoperato sempre per carità e per dare a noi esempio di essa, e non ha mai offesa la mansuetudine, nè pure quando disse stolti, tardi di cuore, ciechi, ladri, volpe , e a tutta la generazione degli ebrei nequam , e a Pietro satanasso , e tali altri epiteti: i quali tutti sono stati detti senza ingiuria alcuna, senza vendetta, e senza abbandonare la sua divina mansuetudine, e per insegnarci che talora conviene essere acerbi nelle parole e duri per carità ; il che ha luogo quando si crede che questo sia il mezzo di essere utili al prossimo, pel quale si parla. Ma per esercitare questo atto di carità, bisogna certamente essere spogli di passione umana e d' illusione; perocchè le parole forti, biasimanti ed umilianti stanno benissimo colla carità e colla mansuetudine: ma non così la passione umana e l' illusione che questa produce. Voi poi recate l' esempio di san Paolo che maladetto benediceva. E qual dubbio che questo sia dovere dell' uomo di Dio e del discepolo del Signore? Ma non si può egli benedire chi maledice, e nello stesso tempo parlargli forte e con epiteti umilianti? La civiltà non istà nella materialità esterna delle parole, ma nello spirito con cui sono proferite. Sono certo che voi ben vi ricorderete che san Paolo ebbe più volte l' occasione d' imitare Gesù Cristo anche nel dire parole acerbe contro i suoi avversari, o, per dir meglio, contro gli avversari della gloria di Dio. Al mago Elima sapete che disse niente meno che, « o plene omni dolo et omni fallacia »; e non contento di questo lo chiamò figliuolo del diavolo (imitato poi da san Policarpo, che incontrando a Roma un eresiarca, lo onorò col titolo di « primogenitum diaboli »; e non contento ancora vi aggiunse « inimice omnis iustitiae »). Nè si può dire che san Paolo era peccabile, e che avrà peccato, perchè sarebbe un manifesto giudizio temerario, e smentito da Dio stesso, che confirmò la condotta di san Paolo in tale occasione con un miracolo «(Act. XIII). » Considerate ancor l' altro fatto di san Paolo narrato al cap. XXIII degli « Atti ». Avendo san Paolo detto ingenuamente d' essere proceduto con buona coscienza , Anania, giudicandolo temerariamente, gli fece dare uno schiaffo. Allora san Paolo non dubitò di chiamarlo muraglia imbiancata ; nè con questo si può dire, che si sia vendicato, o che abbia offesa la mansuetudine o peccato contro la carità; ma più tosto imitato il Signore in un atto di zelo e in dire una verità acerba, credendola opportuna all' effetto del bene. Egli è poi vero che sono più i tratti di dolcezza usati dai Santi, che di durezza; ma ciò non vuol dire altro se non che le occasioni in cui giova usare questi secondi sono più scarse, che le occasioni in cui giovi usare quei primi. E certo in tutte le cause personali che riguardano noi o le cose nostre, dee aver luogo la mansuetudine e la dolcezza; ma nella causa della giustizia, della virtù, della verità cattolica e del bene del prossimo, qualche volta può aver luogo la durezza; la quale non è una vera durezza, perchè non viene da un cuor duro, ma anzi da un cuor tenero e mansueto, checchè del resto ne giudichino gli uomini. I tratti adunque di apparente durezza che si scontrano nelle parole e negli scritti dei Santi, cominciando da san Giovambattista che chiamava gli Ebrei razza di vipere , non si possono così facilmente imputare all' essere stati essi peccabili; ma dobbiamo piuttosto attribuirli al loro zelo, e all' adempimento di quel precetto dello Spirito Santo: « responde stulto iuxta stultitiam suam, ne sibi sapiens videatur »; il qual precetto dee potersi qualche volta mettere in pratica, se pur noi non vogliamo dire, che lo Spirito Santo abbia parlato inutilmente. Tuttavia queste cose non mi giustificano, se ho ecceduto nel mio scritto; ed io vi ripeto che non voglio scusarmene; e che, se non provano le vostre ragioni, prova però a me moltissimo il sentimento, che in voi ha prodotto la lettura del mio opuscolo; sebbene potrebbe essere che questo sentimento nascesse in voi dal non conoscere a pieno lo stato delle cose e delle circostanze, e la natura del male, a cui si deve opporsi. Ad ogni modo, nel dubbio in cui mi avete messo, io approfitterò del vostro avviso in altre occasioni; e voi vogliatemi compatire, acciocchè giunga a quello che solo desidero, a conoscere senza inganno alcuno il nostro Signore e ad imitarlo con sincerità e pienezza. Pregate anche, acciocchè Iddio benedica questi santi esercizi. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.41 Statevi certo che io non ho rancore con nessuno, ma che credo fermamente che la Verità e la Religione nostra santissima sono una cosa sola; e che le frodi e gli artifizi, se si svelano, non è che un bene che si fa alla Religione. Il nostro Dio è Dio di verità, e il Maestro nostro è la verità in persona. Ma pur troppo al mondo si ama poco la verità, e perciò poco si ama Iddio; e si crede in quella vece di onorarlo, formando dei partiti, e mettendo le apparenze nel luogo della sostanza! No, no; se noi amiamo Dio, amiamolo semplicemente e senza umani partiti: il credere che questi sono utili alla Religione, è un deplorabile inganno che ha fatto molto male alla santa Chiesa. Io credo, che voi converrete meco; perchè son certo che siete di quegli adoratori che adorano Iddio in ispirito e verità. Abbracciovi nella vivissima speranza che riceverete nel loro vero senso anche queste mie schiette parole, e non vorrete interpretarle male. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.42 Voi avete fatto un ragionamento assai storto, quando avete argomentato che il vice7rettore, che presentemente è superiore di cotesta casa, non avesse facoltà di mutare gli ordini del rettore assente. Tenendo egli il luogo di superiore nella casa, egli può cangiare a quel modo che Iddio gli ispira essere migliore; come un superiore può sempre cangiare i proprii ordini, tostochè lo crede necessario. E qualora anco fosse vero (il che non è) che il vice7rettore non potesse cangiare gli ordinamenti del rettore assente, sapevate voi forse se il cangiamento non fosse stato accordato prima col rettore stesso o con un superiore maggiore? E poi tocca forse al suddito di fare il processo a suoi proprii Superiori? Dov' è qui, mio caro Arnoldo, la vera ubbidienza, quell' altissima virtù che contiene la vera soprannaturale sapienza? Avreste forse fatto un somigliante temerario ragionamento, se il nuovo ordine dato dal nuovo superiore vi fosse andato pienamente a genio? Esaminatevi bene: e badate attentamente, se la mancanza di quell' aurea indifferenza e di quell' annegazione che debbono professare i discepoli di GESU` sia stata forse la cagione che vi ha inalberata la mente fino a giudicare della condotta di quello che dovete considerare come vostro giudice e come indicatore dolcissimo della volontà divina. Lo stesso vi debbo dire su tutto ciò che mi venite esponendo nella lettera vostra del risentimento che avete sofferto per non essere stato ascoltato, come voi volevate, e interrotto da cotesto vostro superiore. Non sapete voi adunque ancora, mio caro Arnoldo, a quale altezza di perfezione siate stato chiamato da Dio? Non sapete ancora quale sia la scuola del nostro Signor GESUÙ Cristo, in cui vi trovate? E non intendete voi il senso profondo di quelle parole, « qui vult venire post me, abneget semetipsum »? Ah! pregate, pregate il buon GESU` che vi dia l' interno conoscimento della sua profondissima dottrina, tutta d' annegazione, di umiltà e di preziosissimi patimenti: perocchè questa dottrina non la potrete certo intendere se leggeste migliaia di volumi, non apprendendosi essa che a' piedi del Crocifisso. Quello che mi fece meraviglia, leggendo le espressioni vivaci e i ragionamenti assai umani della vostra lettera, si è che non abbiate conosciuto ancora, che i Superiori sono obbligati di esercitare i soggetti nell' umiltà, nella mortificazione, nella pazienza e nell' annegazione di ogni proprio volere; e non siate giunto a capire qual tesoro infinito di vera sapienza si contenga in queste divine virtù. Qual dubbio, che se lo capiste, ne sareste innamorato, le cerchereste giorno e notte, accogliereste lietissimo le occasioni d' esercitarle, e lungi dal risentirvi, se un superiore carico d' affari non può udirvi così pacatamente come vorreste, anzi gli sareste gratissimo, lo ringraziereste, lo preghereste di non volervi risparmiare l' amor proprio, ma anzi in ogni modo di abbassarvi, e in esso mortificarvi! Oh felici contraddizioni e mortificazioni per un' anima che ama GESU` Cristo e sospira di rendersi a lui simile il più che mai possa! Oh felice voi, mio Arnoldo, se otterrete dal Signore la grazia di tali lumi! Credete voi, che un servo di Dio, un religioso a lui consacrato, il quale non sia capace di ricevere con pace e con allegrezza nè pure di essere interrotto nel suo parlare dal proprio superiore o di non essere ascoltato, potrà mai rendersi degno ministro delle opere divine? Che farete, se or siete tanto delicato, quando si trattasse di esporvi a tutti i sacrifici e gl' insulti presso le nazioni infedeli, se ci foste mandato ad annunziarvi il Vangelo? E forse che sognate di poter resistere ai gravi combattimenti lontani, quando non siete capace di tollerare una parola, un tratto ruvido al presente, e nè pure dai vostri stessi Superiori? Oh qual enorme presunzione, qual deplorabile cecità sarebbe questa! Per carità di voi stesso, riconoscete da questa infausta esperienza, come pur troppo dentro di voi stia ancor molto da riformare, stia ancor molto da deporre dell' uomo vecchio. Umiltà, umiltà: ecco la sapienza veramente sublime! abbassamento di sè: stima e rispetto a tutti: ubbidienza pronta, allegra, indifferente, universale: ecco lo studio principale che io aspetto da voi: ecco la vera scienza dell' Istituto a cui Iddio si è degnato di chiamarvi, Istituto che professa di non saper altro se non JESUM CHRISTUM , et HUNC CRUCIFIXUM . State certo che io non avrò altra allegrezza da voi che questa di vedervi simile a Cristo: ubbidiente « usque ad mortem, mortem autem crucis »: non esaminatore de' comandi de' Superiori, ma fedele esecutore, pronto ed allegro. Ad arrivare a questo, veggo io bene che vi bisogna altresì di mettere lo studio in secondo luogo nell' ordine de' vostri affetti: nel primo luogo dee stare quella virtù che abbraccia tutte le altre, e perciò tutto il bene morale, la perfetta e mortificata ubbidienza: questa dee avere il primo seggio nel vostro cuore, e dovete riputare di aver fatto un gran guadagno quando per essa avrete dovuto lasciar lo studio e ogni altra cosa. Ricordatevi del gran detto dell' illuminatissimo S. Francesco d' Assisi: « Tantum scimus, quantum operamur ». Non vi do penitenza, perchè le vostre lettere mi fanno temere che non siate compunto del fallo. [...OMISSIS...] 1.42 Sì, mio caro in Cristo figlio, accogliete il lume della grazia, il quale non parla al cuore dell' uomo che dell' inenarrabile bene che egli è l' umiliarsi incessantemente: nè l' umiliazione è vera se non si trasfonde nel fatto. In quale fatto? Nel fatto sublime della CIECA UBBIDIENZA. Questo non opera dentro di noi che la sola parola di vita di Cristo. Beati quelli a cui la parola: « qui vult venire post me, abneget semetipsum » ha penetrato le ossa e le midolla! Ecco quali ossa esulteranno: « exultabunt ossa humiliata . Io veggo dalla cara vostra, che mi ha rallegrato, come il Signore sta ad ostium et pulsat »: spero che gli abbiate aperto, che gli aprirete sempre. State certo, che se cercate la verità e la giustizia, come grandemente confido, voi troverete l' una e l' altra nell' umiliazione del vostro cuore; perocchè abitano qui, ed altrove non vi ha di esse che il simulacro. Nè solo per amore della verità e della giustizia usate di lasciar da parte i ragionamenti interni favorevoli alle inclinazioni naturali e opposti all' ubbidienza; ma di più all' ubbidienza di Dio e all' amore della penitenza e della mortificazione sacrificate tutte le ragioni e i diritti che vi paresse d' avere secondo natura, per purissimo amor di Dio e ardore di rassomigliare al vostro dolce Maestro e Salvatore. Gustai molto il sentire che mi promettete indifferenza a tutto, anco a non istudiare, se Iddio pe' Superiori così dispone di voi. La rettitudine e la perfezione vuole assolutamente che siate disposto a fare a Dio anche questo sacrificio. E tutto farete per la grazia che vi darà valore. Ma vi arricorda di rivolgere sempre le vostre orazioni a dimandare la giustizia e la grazia di vincere interamente voi stesso. Or poichè vi credo ben disposto, darovvi anco la penitenza da voi desiderata; e sarà che leggiate e meditiate altamente le prime quattro regole del capitolo X delle Comuni , che procuriate di gustarne la bellezza, di scrivervele nel cuore, di domandare a GESU` Cristo che egli stesso ve le scolpisca. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.42 Sento con mio sommo dispiacere che in cotesta Casa non ci sia quella perfettissima unione, che è il segnale dei veri discepoli di Gesù Cristo, e perciò dei veri membri dell' Istituto, che non si propone che il discepolato del Signor nostro. Nella vostra lettera vi accusate è vero di molti difetti in generale, e in ispecie interni , ma non ispecificate nessuno di questi; anzi mi assicurate di amare i vostri fratelli e di esser sollecito della loro e della vostra perfezione. Ma nello stesso tempo mi dite che A. vi fugge da un mese e mezzo, e dite che « se vi dicono i vostri difetti, è allorquando hanno qualche cosa contro di voi, e non altramente », mostrando così di giudicare delle loro intenzioni, quando l' umiltà è il precetto di nostro Signor Gesù Cristo, che dice: « nolite iudicare ». Ah, mio caro, pur troppo è da temere che nel vostro cuore non sia ancora entrata nè l' umiltà, nè l' annegazione, nè la carità del nostro Signor Gesù Cristo! Altro è credere di amare i propri fratelli, altro è amarli veramente. Chi non sa umiliarsi ed annegare sè stesso, non sa amare come vuole Gesù Cristo. Può ben avere un' amicizia, come detta il mondo; ma non avrà mai la carità di Gesù. La prima è capricciosa ed instabile; ma questa seconda è immutabile e sempre uguale, perchè fondata in Cristo che non si muta. « La carità »dice san Paolo « è paziente, benigna, non ha gare e non pensa il male, « omnia suffert, omnia credit, omnia sperat, omnia sustinet » ». Ma voi invece di sofferire e sostenere ogni cosa, vi risentite, vi mostrate offeso; e Dio non voglia che abbiate voi stesso forse dato, se non in tutto, almeno in parte cagione al dissapore nato tra fratelli, che debbono essere in Cristo una cosa sola; perchè, come vi ripeto, nella vostra lettera vi accusate in generale de' difetti, ma nulla dite della causa di un tanto male. Ah! temo pur troppo che non abbiate inteso la gran parola, che è il fondamento dell' Istituto, che « non v' ha altro bene che la giustizia e la perfezione, e che quest' unico bene, questo tesoro si ottiene coll' abbassare, annegare e crocifiggere incessantemente sè stessi. [...OMISSIS...] . Il mio dubbio nasce da questo: se aveste ben inteso una dottrina così profonda e contraria all' inclinazione della natura, insegnata al mondo dal solo Verbo Incarnato nostro unico Maestro di verità, qual mai dubbio che vi mostrereste tutto sollecito di abbassare e impiccolire voi stesso, di darvi sinceramente il torto in ogni cosa, di cercare ne' vostri falli l' origine di tutti i mali, e di pregare e gemere e sospirare a' piedi del crocifisso Gesù, perchè egli vinca in voi e squagli ogni durezza di amor proprio, di superbia, di orgoglio, di confidenza ed opinione di voi stesso: egli che, come dice la Scrittura, fa squagliare col suo fuoco celeste le montagne stesse? qual dubbio che sareste insaziabile di umiliazioni, e fin anco d' obbrobrii, e che vi mettereste in ogni cosa, coi fatti, dico, e non colle parole, l' ultimo de' vostri compagni, considerandovi come il rifiuto e la peste della Casa? [...OMISSIS...] Ecco adunque il rimedio, mio caro: umiliarsi, ma interamente e non per metà, ma con tutta l' anima, e non con uno sterile sentimento e con più sterili parole; e perchè questa piena umiliazione dell' uomo non è che l' opera della divina grazia e misericordia che illumina e vivifica, pregare e pregare incessantemente, e con atti i più grandi di umiltà. Non occupare mai il pensiero de' difetti o torti che gli altri possano avere in verso di noi; ma occuparci unicamente delle nostre colpe, iniquità, ingiustizie, nequizie, impertinenze, sciocchezze, ignoranze, balordaggini, presunzioni, temerità, debolezze e miserie senza limite e misura; e non esser mai contenti di temere e tremare per noi stessi, di compungerci, e di sospettare dei nostri stessi sentimenti, dei nostri pensieri, delle nostre parole ed azioni, anche quando ci sembra che nulla di male sia in esse: tenendo per fermo che noi siamo stolidi e ciechi e che non possiamo mai esser sicuri di nulla, e che Iddio solo è il nostro giudice, che col suo sguardo acutissimo vede tutto, e se il nostro cuore è retto o non è retto, vede le magagne, e Dio non voglia, anche le cancrene più nascoste e più puzzolenti. Mio caro, che dunque sia finito fra voi e per sempre ogni segno di dissidio da parte vostra . Se gli altri non fanno il loro dovere, non vi affannate: affannatevi solo grandemente se non lo fate voi: di questo piangete pure e pregate, e Iddio vi ascolterà. Prefiggetevi che la vostra conversazione sia uguale con tutti , come vuole la carità e le regole nostre, senza affezioni: che il vostro tratto sia amabile, grave, senz' affettazione e sempre uguale. Se gli altri non corrispondono, dissimulate e non pretendete corrispondenza; piuttosto prendete occasione di umiliarvi in voi stesso, come di una giustizia che vi si usa. Non pretendete che i compagni vi correggano, perchè questo è contrario alle Regole (Reg. Com. 24); quantunque se lo fanno, dobbiate essere loro grato; ma vi stia ben a cuore che i compagni comunichino i vostri difetti al Superiore (Reg. Com. 22); e quando di questo vi sentirete allegrezza e verso di loro gratitudine, allora sarà segno che cominciate ad amare la virtù sinceramente . L' anima vostra dee essere aperta a' Superiori, pel canale de' quali Iddio comunica le sue grazie, e la sua volontà; e beati quelli che conoscono il prezzo infinito di quelle due parole lasciateci da Gesù: « qui vos audit, me audit »! Quanto poi alla grazia che mi domandate di essere dispensato dall' ufficio di Prefetto io ne scriverò a cotesto vostro Superiore. Gesù Cristo vi faccia sentire la verità delle cose che vi scrivo, e vi muova il cuore a praticarle, e allora solo condurrete a felice termine la santa vostra vocazione. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.42 Mi ha grandemente consolato il sentire che siete risoluto di proporvi, colla grazia divina, un' ubbidienza perfetta, cioè a dire un' ubbidienza che inchiuda l' intero sacrificio di sè fino alla morte. Oh qual compendio di tutte le virtù non è questa obbedienza, qual via di renderci simili a Cristo, « qui factus est obediens usque ad mortem, mortem autem crucis », a una morte cioè obbrobriosa, come dovuta ad uno scellerato! Ma ho poi trovato anche nella cara vostra delle cose, che sono ben lontane dalla vera sapienza spirituale. Sul detto comune « niuno è buon giudice in causa propria », voi distinguete: chi giudica sè stesso per passione, non è buon giudice; ma giudicando senza passione, ciascuno è ottimo giudice di sè stesso. Questa distinzione pecca di circolo: perchè si dice che niuno è buon giudice in causa propria? Appunto perchè niuno può essere ben sicuro di giudicare senza passione, appunto perchè la passione si nasconde agli occhi di quello che più la ha, appunto perchè Iddio nega i lumi a quelli che vogliono giudicare di sè stessi contro il giudizio dei savi e de' Superiori, punendo così la loro presunzione. Ah mio caro! I Santi diffidavano sempre di sè stessi, e volevano sempre esser diretti dall' altrui autorità e dall' altrui giudizio; e statevi pur certo che l' occuparsi a giudicare ed a giustificare sè stesso è cosa che impedisce il profitto nella vita spirituale, toglie la pace, distrugge l' umiltà vera dell' anima e vi semina la superbia, diminuisce la stima e la carità verso gli altri, e rende impossibile quella cieca obbedienza che è un tesoro inapprezzabile, e che voi stesso desiderate tanto di conseguire. Oh bella diffidenza di sè stesso! questa dee essere tanto grande quanto la confidenza in Dio, cioè infinita: questa non inganna: questa non è la scienza dell' albero vietato, ma è il frutto dell' albero della vita. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.42 Nel tempo stesso che ho inteso con vero piacere che Ella sia pienamente contenta della cura, a cui sottomise costì la figlia maggiore, mi recò gran pena il sentire dal venerato suo foglio, che Ella stessa soffre per la malattia manifestatalesi. Io la farò raccomandare al Signore da delle anime buone, come Ella desidera, ed io stesso indegnamente presenterò le mie povere preghiere al trono dell' Altissimo, acciocchè egli benedica la cura, Le dia fortezza e consolazione in sopportarla, e faccia il tutto ridondare in aumento di meriti per l' anima sua, acciocchè diventi più pura e più bella, con questa occasione di patire, agli occhi di Dio. Infatti quantunque l' umanità se ne risenta, tuttavia lo spirito ammaestrato dagli insegnamenti e dagli esempi di N. S. GESU` Cristo, e sopratutto illuminato dalla sua grazia, sa ben conoscere che nel patimento delle malattie si nasconde una preziosissima occasione di meritare e di renderci simili al Signor nostro, praticando le virtù soprannaturali da lui praticate; e le riceve quindi come grazie speciali e segni dell' amore che Dio ci porta, poichè, come dice la Sacra Scrittura: « Iddio castiga quelli che ama ». Questi so e vedo dalla sua lettera che sono i sentimenti da cui Ella è penetrata, e però non dee sgomentarsi, se sente la ripugnanza che la natura nostra ha al patire, come quella che sarebbe fatta da Dio per godere, non essendo lo stato di patimento che una irregolarità prodotta dal peccato. Basta che nel fondo dell' animo nostro portiamo la rassegnazione e l' uniformità al volere divino, e stimiamo le cose col lume verace della fede; il qual lume ci mostra, che là appunto sta nascosto il maggior bene, dove la carne nostra peccatrice esperimenta il maggior male; e ci fa rallegrare e gioire immensamente di quello, di cui piange la carne e mena alti lamenti. Basta adunque che rivolgiamo i nostri sforzi, non già ad estinguere in noi il rincrescimento naturale dei mali, ma a far sì che unitamente con esso vi sia in noi una gioia soprannaturale, superiore e vincitrice di quello. Perciò io non ho punto dubitato a dirle in sul principio di questa mia, che sento un sincero dolore della sua infermità, perchè questo dolore secondo la natura non è male, ed esige solo di esser sottomesso a quella più alta considerazione dello spirito, che fermamente crede all' amorosissima bontà di Dio, e la ravvisa questa bontà nello stesso dolore e nella stessa tribolazione temporale, che da essa ci viene. Onde posso anche aggiungere con uguale sincerità, che, unitamente al rincrescimento del suo male, lodo il Signore che l' ha permesso per tutto quel gran bene, che egli ha destinato di cavarne. Imperocchè qual dubbio, che l' effetto di questo suo male sarà una maggior purificazione dell' anima sua e un maggior distacco dalle cose di questa terra, un' unione maggiore con Dio e ardente desiderio delle cose del Cielo, un disinganno e accrescimento di luce spirituale, un fervore nuovo e brama vivissima di spendere il tempo che le rimane di vita nelle opere della gloria del Signore, in lodarlo, e amarlo, e servirlo nei suoi prossimi? Ella offerirà quello che dovrà soffrire in isconto dei suoi debiti, e questa oblazione volontaria sarà ricevuta con gradimento: Ella avrà dei momenti in cui sentirà profondamente il proprio nulla, e farà di quegli atti di umiltà che sono la maggior giustizia che la creatura possa rendere al Creatore: Ella nelle sue angustie sentirà intimamente il bisogno di Dio, e gli dirigerà quelle preghiere, che non sanno fare se non le anime strette da ogni parte dalla tribolazione, e che giungono al cuore dell' Eterno; Ella insomma avrà occasione di far mille atti d' amor divino, che son quelli che migliorano le anime ed assicuran loro l' eterna salvezza. Tutti questi beni, che mi rappresento come il fine che ebbe il Padre celeste nel sottometterla a questa prova, sono argomenti di santa speranza e letizia; ed io fin d' ora la divido con Lei. Del resto affine di poter esercitare questi atti più perfettamente, e con maggior facilità ottenere che lo spirito pronto prevalga sopra la carne inferma, la consiglio ad aver presente ora più che mai il ricordo di GESU` Cristo: « Non vogliate pensare al giorno di domani ». Procurar di allontanare il pensiero dell' avvenire ed i timori che l' accompagnano, è già questo un grand' atto di virtù e di abbandono nelle mani amorevoli del Signor nostro: è ciò che forma il camminare semplice davanti al Signore tanto lodato nelle divine Scritture. E perchè dipingerci innanzi alla mente quello che non sappiamo e che Iddio ha voluto celarci? e perchè accrescerci il male che abbiamo coll' immaginazione di mali temuti che non sono, e che forse non saranno giammai? Non è egli meglio lasciare la cura di noi intieramente a Dio, senza volerne saper cosa alcuna, e viverci tranquilli di giorno in giorno, e di ora in ora, persuasissimi che l' amor suo verso di noi vince l' amore di ogni madre più tenera? Questa tranquillità non c' impedisce d' altronde di rivolgerci a lui incessantemente colla più filial confidenza, dicendogli non solo i nostri bisogni, ma ancora i bisogni creati dalle nostre debolezze e dalle nostre ignoranze. Poichè egli non se ne adonta; ma ascolta anche questi e ci compassiona nella sua immensa tenerezza; e o ci fortifica, o a quei bisogni stessi immaginari maternamente sovviene. Nè pure c' inquieti la vista dei propri difetti. GESU` Cristo è morto per noi; ci ha conservata fin qui la vita, perchè abbiamo tempo di lavarci nel suo sangue: la penitenza nostra non importa che sia lunga, ma che sia cordiale: la migliore poi di tutte le penitenze è la pazienza nelle croci che egli ci manda, adattandole amorosamente alle nostre spalle, ed aiutandoci a portarle. Dunque larghezza di cuore, mia veneratissima signora contessa, e dolore sì dei peccati, ma dolor confidente, dolore che si perda e trasmuti in amore: i timori per altro, che talora inevitabilmente si suscitano nell' imaginazione, nè sono peccati, nè distruggono la rassegnazione: talora non sono che nuove pene da sopportarsi come tutte le altre con ispirituale pazienza. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.42 La partenza vostra da Stresa ha lasciato, quasi direi, un vuoto nell' anima mia. L' uomo s' abitua alle cose dolci, ed io m' ero così abituato alla cara e pia vostra conversazione, benchè sì brevemente da me goduta, che ne ho sentito, ve n' assicuro, la mancanza. La consensione pienissima nei religiosi sentimenti è pur cosa soave e confortante, massime dopo che il Signore ha detto: [...OMISSIS...] . Io non cesso d' innalzare al nostro Padre quella stessa preghiera che gl' innalzate voi: « da quod iubes, et iube quod vis ». Oh volontà dolcissima del Signor nostro, nel cui solo compimento sta tutta la nostra beatitudine! Ella poi è tanto alta, di una sapienza e d' una bontà sì sproporzionata al vedere ed al sentir nostro, che non la possiamo nè raggiungere per acume d' intelletto, nè adempire per forza di volontà; sicchè non ci resta che di pregare colla faccia in terra che ella si manifesti a noi colla sua luce, e ci avvivi colla sua vita, e si compia in noi da sè medesima colla sua efficacia in noi trasfusa. Per questo dobbiamo essere in verità fanciulletti, come ci ha insegnato il Maestro nostro, e così entrare nel regno dei cieli, che è il regno degli umili che non hanno volontà propria, ma la cui volontà è quella di Dio. In questa nostra nullità possiamo bene sperare contra speranza; giacchè la grandezza di Dio si manifesta e spiega in quelli che sono nulla; e la volontà sua si rivela e compie in quelli che hanno perduta la volontà propria, perchè non saprebbero più cosa volere, se non lo stesso voler di Dio. Io certo quando mi sento più infermo nel corpo e nell' anima, allora Iddio mi dona maggior fiducia, veggendo io che egli ha qui un' occasione maggiore dove spiegare la magnificenza della sua carità. E parmi che allora appunto quando siamo e ci sentiamo più infermi, dobbiamo dimandar cose più grandi ancora, giacchè è infinito il Signore a cui le dimandiamo, e le nostre miserie non gli possono metter limite, ma anzi dilatano i limiti della sua gloria. Teniamoci adunque pur certi, mio caro signore, che seguitando noi a dire quel FIAT, FIAT VOLUNTAS TUA, col desiderio che egli disponga di noi senza limiti , e facendo che sulla bilancia della nostra stima non pesino che i motivi della maggior perfezione morale nostra propria (il solo bene assoluto per noi), avverrà che la volontà divina sarà fatta in noi in un modo ancor più grande di quello che noi possiamo concepire, o che osiamo espressamente sperare. La santità, il desiderio della santità , tutto verrà dietro a questo: i disegni di Dio si compiranno: la legge di Dio ha una virtù nascosa: nella sua massima semplicità è infinitamente feconda: la Provvidenza è tutta rivolta in servigio di quelli, che nella legge di Dio volunt nimis , e in essa (non nei proprii disegni) ripongono tutta la loro speranza. La Chiesa non ha da sperar altro che dalla santità , a cui serve tutto. La parte dell' uomo consiste nello studio di emendare sè stesso e di ottenere la giustizia e la santità: Iddio dopo di ciò fa il resto, elegge quelli che egli si degna d' impiegare a vantaggio della sua Chiesa, li manda, li dirige, li assiste. Beati allora cotesti che non vanno da sè stessi, ma sono mandati! Sta dunque il tutto nel fare la dovuta stima della propria perfezione, e quivi trovare ogni fiducia. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.42 La dolorosa nuova della perdita che abbiam fatto della sì buona, sì amabile, sì edificante contessa d' Auzer mi riuscì tanto più amara, quanto più improvvisa. Avevo bensì udito dal M. Gustavo, quando passò rapidamente di qui, che le era tornata la febbre, ma s' attribuiva a cagione affatto accidentale, e venivo già rassicurato che stava meglio. Ma il Signore aveva disposto altramente. Egli è buono anche quando ci castiga. Per altro parmi veramente di poter dire, che il padrone è venuto nel suo giardino e n' ha colto la frutta che n' ebbe trovata matura: egli ne volea imbandire la celeste sua mensa. Vero è che per noi che l' abbiamo conosciuta e l' abbiam trattata, e specialmente per le sue indivise sorelle, per tutti i suoi congiunti, a cui s' era resa tanto amabile, e da cui era tanto amata, egli è pur questo un acerbo distacco! Mia venerata signora, mi creda che nol capisco solo, ma l' esperimento nel fondo dell' anima. Nel tempo che io mi sono trattenuto in Torino, e fui gentilmente alloggiato in casa Cavour, io m' ebbi tante prove della bontà e purità di quell' anima, ne ricevetti tanto buono esempio, e mi trovai sì fattamente legato di stima ad essa per quella sua religiosa cordialità, per quel suo candore, per quell' avidità insaziabile di sentir parlare delle cose di Dio, per la rettitudine delle sue intenzioni, e in somma per la solida sua virtù; che l' annunzio che ella mi dà del gran passo che ha fatto la buona dama in lasciandoci quaggiù per sempre, mi trapassa il cuore, e mi fa troppo partecipare all' angoscia di lei, ed a quella della duchessa di Tonner e di tutta cotesta famiglia, di cui ella era divenuta per affetto sì cara parte. Se non che dando poi luogo alla riflessione, io ben mi accorgo che quegli stessi aurei pregi della defunta che ce la fanno tanto rincrescere e piangere, debbono esserci in pari tempo un gran lenimento al dolore e un' ampia fonte di spirituale consolazione. A quanti superstiti a cui muoiono i parenti, anche dopo esser giunti al colmo delle umane prosperità, manca poi questa solida ragione di conforto, senza la quale è ben piccola ogni altra! Ecco donde io credo che potremo, mia cara signora, attingere quella consolazione vera che Ella mi domanda nella sua lettera. Quanti motivi non abbiamo, per grazia di Dio, di credere che la sua amata sorella or si trovi in uno stato migliore di prima! Noi non la troviamo ora più in quella sua stanza, in quel suo letticciuolo, accanto al quale passavamo delle ore gradevoli: ma invece abbiamo motivo di contemplarla in Cielo. Sì, quella virtuosa ha già superato il gran passo, ha già compita questa faticosa navigazione piena di pericoli e ancor di naufragi, è pervenuta alla sponda, è entrata in porto. Ella ha portata seco la vera fede, di cui le aveva Iddio fatto dono conducendola alla Chiesa cattolica, caparra della sua predestinazione; ha portato seco una vita immacolata, è stata oltracciò lungamente provata e appurata nel crogiuolo delle tribolazioni. Quando l' oro è reso tutto puro e mondo dal fuoco, allora l' artefice lo riversa nello stampo e fonde una statua preziosa, ornamento al gabinetto del re. Così noi abbiamo troppo a sperare, che il Re celeste abbia già formato della nostra cara Contessa un bell' ornamento del suo Paradiso. Non lasciamoci ingannare dalla carne: il punto della morte è penoso, è vero; ma finalmente non è che un punto, e questo punto per la defunta è passato. Hanno pur troppo ragion di temere per dopo la morte coloro, che durante la vita non hanno amato il loro Creatore. Ma quelli che lo amarono, le anime buone e rette, come la nostra Contessa, quelle che visser di fede e di viva speranza nella divina misericordia, ah! per queste fortunate che è mai la morte? Un istante di merito, un sospiro prezioso; dopo il quale ogni patire è cessato per sempre, la salvezza è assicurata, il gaudio eterno incomincia, un gaudio perfetto, di cui non possiamo formarci un' idea adeguata, ma di cui però sappiamo che l' unire insieme colla nostra imaginazione tutti i piaceri e le soddisfazioni della vita presente, tutti gli onori e le grandezze, tutti i tesori, ogni cosa insomma desiderabile, non è ancora che formarcene in mente un' idea imperfettissima; vincendo la realtà di quello stato di gaudio quanti desiderii e quante brame sappia accendere in sè l' uman cuore. Allorquando adunque l' umanità nostra si sente oppressa nel suo dolore, concediamole pure il suo sfogo, mia veneratissima signora Marchesa; ma poscia ritiriamoci dentro noi stessi, e nell' anime nostre, dov' è stata infusa la fede col santo Battesimo, troveremo insieme con questo lume divino un grande sollievo, un immenso conforto. Oh come le cose cangian di aspetto al lume della fede! oh come questo lume di soprannatural verità tramuta i mali più intollerabili alla natura, in argomenti d' indicibil letizia! E nel vero, facciamo un po' tacere in noi questa cieca nostra natura, per contemplare in quella vece silenziosi al lume di santa fede, quale di presente dobbiamo noi sperare che sia la persona amata che piangiamo perduta. La vedremo noi forse pentita e dolente di aver abbandonata la terra? Anzi ella se ne chiama felicissima, benedice quel prezioso momento, nel quale lasciò questa valle di lacrime e ruppe quei ceppi della carne che le impedivano di goder pienamente il suo Dio, e nel quale uscì per sempre da ogni battaglia di spirito e da ogni sofferenza di corpo: ella ora guarda in giù ed ha compassione di noi, che ci vede ancor nell' esilio, e sorride alla nostra semplicità scorgendo che, compassionando lei felice, spargiamo lagrime amare e meniamo lamenti di tanto suo bene. Non rifiuta ella l' amor nostro, ma vorrebbe comunicarci un po' del suo; vorrebbe comunicarci di quel lume intellettivo, col quale ella apprezza tanto meglio di noi il vero valor delle cose: vorrebbe che noi potessimo uscir colla mente e col cuore dai limiti di questo mondo sensibile, e che sull' ali dello spirito salissimo sino a lei, infino alla sua gloria, infino al suo trionfo, e che colassù, invece di gemere oppressi dal dolore, godessimo insieme con lei del suo gaudio, del suo regno che è quello di Dio medesimo. Ecco quanto brama ora da noi la nostra buona dama, innalzata al grado di regina, e di regina celeste; perocchè tal grado sortono tutti in Paradiso gli eletti. Riprendiamo adunque salutarmente, mia venerata Marchesa, la nostra umana sensitività, dicendo a noi stessi: come sarebbe assai strano che una sorella piangesse l' altra sorella perchè la vede trascelta alle nozze di un re, così egli è assai più strano che noi piangiamo sull' avventurata sorte di un' anima che abbiamo ragione di credere eletta sposa di sua Divina Maestà. Egli è vero, che ci si farà innanzi eziandio il pensiero che, non ammettendosi nella reggia del Cielo niente che porti il minimo segno di terra, che serbi la minima macchia od adombramento, ed essendo pur tanto grande la umana infermità e fragilità, possiam dubitare che anco all' anime che ci paiono le più monde, uscite di questa vita rimanga tuttavia qualche imperfezioncella a rimondare nel purgatorio. La grande stima che noi portiamo ai cari defunti non ci renda adunque meno solleciti a suffragarne le anime con sagrifizi e preghiere, e da parte mia ho celebrato a tal fine questa mattina per la cara estinta, e le feci fare altri suffragi. Ma da una parte questi stessi suffragi che rilevano l' efficacia loro dal sangue di Cristo, il cui merito è infinito, debbono esserci nuovo motivo di consolazione, pensando che il buon Dio ci ha voluto dare anche questo soccorso, prova della tenerezza che egli ha per le sue inferme creature; dall' altra possiam riflettere che le anime sante del Purgatorio, benchè patiscano, patiscono però sì volentieri, che elle non vorrebbero mai accettare il partito di ritornare su questa terra, e sono veramente felici in isperanza, onorate dagli angeli perchè sante, piene di dignità perchè spose di Dio: la gloriosa loro destinazione è assicurata per sempre, non si tratta che d' un po' di ritardo posto al sospirato momento, in cui venga lo Sposo divino, e tutte belle e lucenti le introduca nel suo talamo, a' suoi amplessi. Entriamo adunque nei sentimenti di quella che noi amiamo e che a torto piangiamo; e ci si cangierà la scena; ci cadranno piuttosto lagrime di dolce letizia per la sua felicità che di dolore per la nostra solitudine. Sarà questa una prova che le daremo di vero amore, cioè d' un amore spirituale e sublime, e troppo a lei più caro di quello della natura; chè ella non desidera oggimai da noi, se non il nostro vero bene, e si rallegra solo in veggendoci fare atti di virtù, di rassegnazione, di fortezza, di uniformità perfetta al divino volere, di rendimento di grazie a Dio che in ogni cosa è buono egualmente, e che tutto dispone collo stesso amore infinito per noi. Che se noi oltracciò piglieremo questo avvenimento, sì grave al cuore di carne, come un' occasione dataci dal Signor nostro ed un avviso acciocchè ci disinganniamo vie più delle cose terrene, e ci innamoriamo delle celesti, ed a queste ci prepariamo; oh quanto renderemo contenta quella che ci ha preceduti nel gran viaggio! Ella altro non vuole da noi, altro non aspetta, altro non ci domanda: ed altro non domanda altresì per noi al celeste suo Sposo. Che se noi dopo di ciò, dopo tutti questi riflessi, sentiamo tuttavia quaggiù un vuoto difficile da riempirsi; se di quando in quando quasi senza accorgerci, cerchiamo col cuore e cogli occhi il noto volto, le care parole, la dolce consuetudine di Colei che ci fu tolta; se all' improvviso ella ci si affaccia alla mente come per dirci che non c' è più, che non la rivedremo mai più in questa vita; e se questo pensiero che ci restituisce di nuovo in vita Colei che è morta, per rapircerla subitamente, questa imaginazione che ci mette lì come ancora esistente e parlante quella con cui eravamo soliti di passare tante ore, per dissiparci un momento dopo crudelmente la cara illusione, se tutto questo ci stringe il cuore e ci manda agli occhi delle lagrime involontarie; e che per ciò? Non inquietiamoci punto; chè non sarà per questo meno perfetta la nostra rassegnazione, men piena la nostra conformità al divino volere. Fino che viviamo in terra, noi siamo pur troppo due esseri in uno: e questi due esseri, la carne e lo spirito, combattono insieme: ma la battaglia adduce la vittoria, e la vittoria reca alla corona. E` l' orazione, mia signora Marchesa, che ci conduce alla vittoria dello spirito; come è il tempo che medica le ferite profonde, di cui si risente la carne. Godo che il mio buon abate Molinari sia stato in Torino in questa occasione ed abbia potuto colle sue parole contribuire a consolare tante persone afflitte: egli ha un cuore dolcissimo ed è pieno di quella carità, che val meglio di ogni balsamo in tali occasioni. M' imagino anche il dolore del mio carissimo marchese Gustavo, rientrando massimamente in famiglia. Sono stato sfortunato quest' anno per non averlo potuto aver meco a Stresa qualche giorno, come avrei desiderato e m' avea fatto sperare. Ora dovendo io partire in sui primi di settembre per Bergamo, dove debbo dettare gli spirituali Esercizi a quel Clero; nè posso recarmi a Torino, nè posso sperare di rivederlo a Stresa quest' autunno; ben prevedendo che in ottobre egli farà la sua solita campagna. La prego, mia venerata signora Marchesa, di presentare i miei ossequi al signor Marchese, alla signora Marchesa madre, alla signora Duchessa ed ai suoi figliuoli; e di partecipar loro ad un tempo i sentimenti dell' umana mia condoglianza per la perdita fatta, e più ancora quelli della spirituale consolazione, co' quali ho procurato di attemperare, scrivendole la presente, il mio ad un tempo ed il suo dolore. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.42 Ho ricevuto le vostre due lettere da Lione e da Londra, e ho ringraziato di cuore il Signore, e l' Angelo suo, che v' abbia sì felicemente condotto. Rispondo alla prima intorno a ciò che dite sulla facilità di ricevere all' Istituto. Vi posso assicurare che il desiderio di accrescere il numero dei nostri non mi muove a ricevere alcuno. Sono contentissimo del piccol numero che ci manda il Signore: vedo anche in questo la sua sapienza e bontà; l' adoro e ne giubilo. Vi spiegherò dunque le massime che io tengo in ciò, e che sono conformi a quelle delle nostre « Costituzioni ». Io distinguo fra il ricevere in Casa e il mandare avanti nei successivi gradi dell' Istituto quelli che abbiamo ricevuti. Quanto al ricevere semplicemente, ricevo tutti quelli che domandano e che mi lasciano qualche speranza di riuscimento. Questa speranza me la danno tutti quelli che nella prima prova dichiarano e promettono di intendere e praticare le cose contenute nelle « Massime » e nel « Memoriale della prima prova », senza ch' io abbia una ragione positiva da dover giudicare assai probabilmente il contrario. Le ragioni che mi muovono ad essere così facile nella prima ammissione sono le seguenti: 1 Temo assai di giudicare temerariamente de' miei fratelli, onde inclino sempre a presumere bene di essi, e, piuttosto di fare il contrario, mi espongo volontieri ad essere ingannato, a sostenere delle spese, a patire degli incomodi. Non mi sono mai pentito di aver operato così: questa condotta mi reca una gran pace e consolazione interiore: e il Signore non ha mai permesso che gl' inganni che mi sono stati fatti, avessero ree conseguenze. 2 Parmi questa una maniera di imitare la bontà di N. S. Gesù Cristo, il quale dice: « et venientem ad me non eiiciam foras »: parole che ci mettono davanti a questo proposito le Costituzioni, e che citano pure allo stesso proposito le più celebri regole de' santi Fondatori. E` vero, che molti vengono a noi coi piedi e non col cuore; ma non posso io giudicare che facciano così, fino che non ho delle prove positive. D' altra parte, io considero la venuta a noi d' un fedele di Cristo sotto due aspetti: come mandato acciocchè forse egli diventi un membro dell' Istituto, e come mandato acciocchè l' Istituto eserciti verso di lui la carità. Essendo tale lo spirito dell' Istituto ch' egli vuol accettare, purchè possa, tutte affatto le occasioni che gli presenta la Provvidenza d' esercitare la carità; anche questa, dico io, n' è una; accettiamo dunque questo fedele di Cristo, ed usiamogli intorno tutta la carità possibile del corpo e dell' anima. Il N. S. Gesù Cristo vedrà di buon occhio che noi facciamo così con colui; e l' Istituto non ne avrà da questo scapito, ma vantaggio di buone opere. Il fratello che venne a noi sentirà intanto la parola di Dio; e quand' anco egli non riesca nostro membro, egli porterà via quel seme che forse frutterà un giorno nel suo cuore. 3 Quanto l' Istituto è alieno dal cercar cosa alcuna di proprio moto, altrettanto egli si propone di esser attento e premuroso di non trascurar niente di quel bene che gli offre la divina bontà, andando incontro premurosamente alla Provvidenza divina, non risparmiandosi in nulla per secondarla. Or se io rimando un aspirante senza esser certo che gli manchi la vocazione, non m' espongo io a rifiutare forse un dono che mi voleva fare la divina bontà? Uno dei segni della Provvidenza è la domanda del prossimo. Dunque, se un mio fratello in Cristo mi domanda, e non ho ragioni positive in contrario, io debbo accoglierlo non solo, ma affaticarmi con pazienza e carità intorno a lui, e durar tanto in questa fatica fino che mi sono persuaso che egli non può riuscire membro dell' Istituto: allora solo io sono giustificato davanti a Dio, se lo licenzio; ed anzi debbo tosto licenziarlo. Ma se l' Istituto non fa tutto quello che può da parte sua con pazienza longanime per formare quell' aspirante, istruendolo, educandolo, provandolo, non deve sempre temere di essersi da sè stesso privato di un membro che Iddio gli volea forse dare, ma gliel volea dare a condizione che sel guadagnasse col merito delle fatiche, coll' orazione per lui fatta al trono della sua Maestà? Perocchè, stiamone certi, Iddio vuole, non che aspettiamo da lui le cose belle e fatte per intero, ma che ce le procacciamo coi nostri sudori, che egli è pronto a benedire, se li spandiamo con viva fiducia in lui solo. Niente, niente trascuriamo mai per indolenza da parte nostra: « particula boni doni non te praetereat », dice la sacra Scrittura. Queste massime vorrei io seguite con semplicità da ogni Superiore dell' Istituto che ha facoltà di accettare gli aspiranti: queste sono le massime delle Costituzioni. Resta a farne l' applicazione; e questa riesce diversa nelle circostanze diverse, restando le massime sempre le stesse. A ragione d' esempio egli è certo che un Superiore può avere maggior lume di Dio da conoscere prontamente chi è chiamato e chi non è; e in tal caso, avendo maggior lume, potrà anche non accettare o licenziare più prontamente gli aspiranti che giudica inetti. Ma i Superiori debbono diffidare in questo di sè stessi, non dando luogo a giudizi suggeriti dalla fantasia, che è la madre dei giudizi temerari; ed è più sicuro il procedere per via di ragioni intellettive e positive, ricorrendo anche al giudizio dei consultori, ai quali, appunto perchè ne sento il bisogno, io sempre, quando posso, ricorro. Un' altra varietà cade nell' applicazione delle dette massime, a cagione delle circostanze esterne. Se queste fanno sì che il ricevere gli aspiranti di riuscita dubbiosa sia di troppo gran peso e danno all' Istituto, come sarebbe in Inghilterra, dove mancano i mezzi di esercitare verso essi la carità temporale e spirituale, si deve certamente restringersi a ricevere i migliori e di vocazione più chiara. Aggiungasi ancora un' altra osservazione, che m' era scappata, su quello che voi dite intorno all' ingegno ed altre doti di cui bramereste forniti i nostri. Il vero scopo dell' Istituto, che non si deve mai perdere di vista, si è la santità. Tutto il resto dobbiamo riputarlo niente affatto; e dobbiamo avere speciale tenerezza per i nostri fratelli poveri, difettosi secondo la carne, e anche idioti. Vi assicuro che a me è tanto caro il più semplice e plebeo dei nostri fratelli, purchè sia buono e santo, quanto il più dotto, di nobil lignaggio ed avente splendide doti in faccia al mondo; ed anzi più quel primo, se ha più virtù, standomi in mente l' amore che portava Gesù Cristo ai poveri ed agli spregiati. Penso dunque che dobbiamo ricevere tutti gli uomini di buona volontà nell' Istituto. E` vero che quanto più i nostri compagni hanno ingegno ed altre doti anche esterne possono fare più del bene al prossimo, se sono buoni, e possano fare andar più avanti l' Istituto. Ma io mi contento che si faccia al prossimo tutto quel bene che si può, e che l' Istituto vada avanti come può. Accogliamo tutti i mezzi, tutte le doti, tutti i talenti che ci dà Iddio; non ne vogliamo di più, ma nello stesso tempo non ne rifiutiamo nessuno; e dopo raccolti questi talenti colla maggior cura perchè niuno ce ne cada di mano, traffichiamoli tutti colla maggior industria e fedeltà possibile. Tutti i talenti vengono buoni all' Istituto, anche i più piccoli e di minor conto, perchè l' Istituto non ricusa nessun' opera di carità. Chi non è buono da fare il predicatore, sarà buono da far l' infermiere; e chi non avrà destrezza di trattare un negozio o dottrina da comporre un libro, verrà utilissimo come maestro di scuola, foss' anco per insegnare l' abbiccì. Vengo ora al secondo punto, cioè alle massime che soglio tenere, quando si tratta di promuovere gli aspiranti a de' gradi ulteriori. Quanto mi sembra di dover facilitare in ricevere gli aspiranti, altrettanto stimo bene di essere rigoroso nel promoverli ai successivi gradi. Come non ricuso nessuno senza avere delle ragioni positive per rifiutarlo, così stimo essere assolutamente necessario di aver delle ragioni e prove positive che l' alunno abbia le qualità richieste al grado, prima di promuoverlo ad esso. Se l' alunno dà delle prove positive di non essere chiamato, non indugio un solo istante a licenziarlo, tosto che abbia potuto su quelle prove formare un giudizio prudente: se non mi dà prove positive nè per l' una parte nè per l' altra, porto pazienza, procurando che gli sia usata ogni carità d' istruzioni, d' eccitamenti, fino che possa aversi un ragionevole scioglimento della cosa. Abbiamo avuto persone in Casa per lungo tempo senza che neppure siano state ammesse al Noviziato. La trafila per cui devono passare i nostri è lunghissima, come sapete, vi ha tempo di conoscerli, e possono essere sempre licenziati. Così operando, parmi che non debbano seguire quelli sconci che voi temete; e quantunque s' abbiano degli incomodi e dei piccoli danni da questo procedere, conviene riflettere, che il volere evitare tutti gl' incomodi e i danni non è un buon principio, secondo la perfezione e semplicità evangelica; ma è un principio che ha dell' umano. Siamo pazienti e longanimi, e il nostro Signore ci proteggerà. Col dirvi questo, non intendo scusare tutto ciò che è stato fatto; ma unicamente esporvi le massime che generalmente parlando ho seguìto, e che potrò seguire più pienamente in progresso. Nei cominciamenti di un Istituto vi sono molte difficoltà che non si preveggono. Raccomandiamo adunque al Signore Iddio l' Istituto, e poi andiamo avanti semplicemente e con coraggio. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.42 Sentendo i vostri sentimenti, quali me li esprimete nella lettera vostra, e la fiducia che Iddio v' ispira al cuore di dovervi consecrare tutta a lui solo in servigio de' prossimi, io non dubito punto che siate chiamata, come dite, all' Istituto della Provvidenza. Queste Suore fanno appunto quello che vi proponete far voi, una rinunzia totale al mondo e ad ogni sua lusinga, un sacrifizio totale di se stesse, per servire Gesù Cristo, sposo delle anime loro, ne' prossimi, attendendo specialmente all' eterna salute di questi. Un' umiltà profonda, un' annegazione continua, una perfetta ubbidienza, una carità ardente, uno studio d' imitare in tutte le cose il divino loro Maestro: ecco a che si riducono le loro regole. Nessun' opera di carità è aliena dal loro Istituto: quella poi a cui attendono con più cura presentemente, si è l' educazione delle fanciulle povere e ricche, per le città e per le ville, dove la divina Provvidenza le vuole. Esse si compiacciono del titolo di povere serve delle serve dei poveri . Professano la povertà per imitare anche in questo Gesù Cristo, fanno i tre voti, da prima ogni anno (dopo il noviziato) e poscia di tre in tre anni, finalmente anche perpetui, se i Superiori lo permettono. Se questa adunque è la via a cui vi sentite chiamata, fatevi coraggio; chè non manca il Signore di aiutar sempre le anime, che lo scelgono per unico loro bene, signore, maestro, esempio e sposo. A lui alzate le vostre voci, domandategli la grazia di poter consumare il vostro sacrificio a imitazione sua sulla croce santissima della religione, confittavi co' tre chiodi de' sacri voti; e poi lasciate fare a lui: vi esaudirà certamente, vi aprirà la via soavemente, sarete consolata: ma quando? Questo egli solo lo sa: a voi appartiene solo il desiderare, il pregare, il sospirare notte e giorno verso lui con rassegnazione e tranquillità. Egli vi ha dato un buon padre terreno, che può anche farvi da padre spirituale. Qual grazia non è già questa! Aprite tutto il cuore con vostro padre. Appena che gli avrete date prove della vostra solida virtù; appena che si sarà convinto che non è il vostro un fervore passeggiero, ma una vera vocazione divina; son persuaso, che non avrete più bisogno della mia mediazione: egli da se stesso vi condurrà a me, ed io vi riceverò fra le povere serve e felici spose del Signore. Rassegnazione adunque e preparazione al gran passo. Conviene prepararvisi con tutta la maturità, la considerazione, l' orazione, il santo affetto, la pratica d' ogni virtù. Io so che lo farete, e perciò non dubito punto del buon esito: MARIA Santissima, a cui sono tanto devote le Suore della Provvidenza, v' accoglierà nella sua famiglia: la farò pregare anche a questo fine. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.42 Noi dobbiamo guardarci assai di non far torto a quell' infinita bontà e misericordia di Dio, che vince gli ostacoli stessi che noi poniamo coi nostri mancamenti e peccati alle copiose sue grazie; quando noi facciamo due cose, cioè SPERIAMO e PREGHIAMO. Ah dolcissima speranza del mio Signore che niuno confonde! oh preghiera potentissima! Io non vorrei che vi lasciaste dall' inimico rinserrare mai il cuore, quando Iddio anzi vuole che lo dilatiamo, perocchè « viam mandatorum tuorum cucurri cum dilatasti cor meum ». DILATAZIONE adunque di CUORE: ecco ciò che sopra ogni altra cosa vi raccomando. Noi siam cattivi, ma Iddio è INFINITAMENTE buono. Oh quanto poco si pensa a questa parola INFINITAMENTE! Se ci si pensasse, non cadrebbero a terra tutti i nostri timori? non ci terremmo sicuri della vittoria sopra tutti i nostri nemici? non diremmo: « si exurgat adversum me praelium, in hoc ego sperabo »? Non ci lasciamo adunque ingannare dall' inimico che tende talora a spargere la tristezza nei nostri cuori, angustiandoli col pretesto talora di compungerci dei nostri peccati. No, la compunzione nostra sia sempre congiunta ad una INFINITA SPERANZA; perchè questa è ragionevole, e perchè Dio la gusta dalle sue creature. Guai a confidare in noi stessi! ma quanto al nostro Dio non ci stanchiamo di dire: « In te Domine speravi, non confundar in aeternum », e di ringraziarlo: « Quoniam tu Domine singulariter in spe constituisti me ». Chi spera è forte, chi spera può tutto; quest' è àncora immobile, quest' è arma invincibile. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.42 Ella m' onora colle sue domande più ch' io non merito. Non le direi certamente cosa ch' ella non sappia: e tuttavia per ubbidire a quanto m' ingiunge nella cara sua non tralascerò di accennarle, che a mio parere il maggior studio a cui dee applicarsi chi predica a' giovanetti, si è quello di far loro ben intendere la religione, che sol intesa è amabilissima per sè stessa. A tal uopo è più necessario che non si creda, che l' istruttore religioso studi assai prima di tutto per intenderla a fondo egli stesso: il che non è piccol affare trattandosi d' un sistema ampiissimo di dogmi misteriosi e di precetti sublimi. Forse quel volume che io ho stampato col titolo di « Catechetica », le potrà somministrare qualche concetto. Ma dovendo ella, come sento, spiegare il Vangelo, non potrà osservare un ordine di connessione nelle materie. In tal caso ogni ragionamento fa quasi un tutto da sè; e può egli solo esser chiarissimo e semplicissimo. La somma chiarezza e semplicità dello stile fa poi luogo all' affetto; e in niun esemplare si dee più guardare che nello stile del Vangelo. Poche idee alla volta, ma sublimi; pochi sentimenti, ma generosi. Oh quanto bene risponde a questi il cuore del giovanetto! Non ha bisogno che d' intendere la verità per amarla, che di vedere la virtù per eleggerla. Ma di solito la verità si copre di troppe vesti, e volendola troppo spiegare, s' oscura; la virtù poi si falsifica per troppe distinzioni umane, e la s' impiccolisce sperando così di renderla agevole. E pure l' animo innocente anela più tosto d' ergersi a volo, che di serpeggiare per terra. Se nel cuore d' un giovanetto si giunge a inserire un sentimento nobile ed elevato, la riuscita di lui può dirsi assicurata. E` dunque un errore quello di sdolcinare soverchiamente l' austerezza della virtù, e di abbassarne l' altezza: privata della sua eccellenza non più esige un santo entusiasmo; spoglia della sua maestà non riscuote più ammirazione, nè attira a sè l' uomo creato per l' infinito. Io vorrei che si parlasse ai giovanetti sempre in modo come si trattasse di farne degli eroi. Con questo pensiero non ha a far niente lo stile gonfio, ampolloso, concitato: anzi un tale stile produce l' effetto contrario. Il grande e lo squisito dee consistere nelle cose; del resto la dote precipua delle parole e mai studiata abbastanza, nel caso nostro è la chiarezza: chiarezza di elocuzione, chiarezza di pensieri, chiarezza d' ordine. Il conseguimento d' una dote che par sì facile costa sudori, meditazioni, prove e riprove, pertinacia di tentativi: è uopo che s' abbia in testa il tipo della perfezione, e nell' animo la volontà risoluta di conseguirla. Cose scritte per la gioventù ve ne sono tante, e molte di buone; io difficilmente potrei indicargliene di quelle ch' ella non conosca; e conoscerà senza dubbio anche il libricciuolo intitolato « La gioventù dabbene » stampato dal Pogliani in Milano. Vi ha in que' sei discorsetti un cotal principio di ciò che io voglio dire, ma ancor lontano dal perfetto. Del resto, come le dicevo, io non ho a dirle che quelle cose che ella già sa, e che d' altra parte non si possono restringere in breve lettera. Presenti, la prego, i miei cordiali saluti a' Padri Villoresi e Dalla Via, e i miei ossequi al M. R. P. rettore di cotesto collegio; e mi raccomandi al Signore. Godo di sentire, che i due valorosi giovani Dandolo e Gazzola approfittano, e benchè non li conosca, ho già cominciato ad amarli sulle sue parole. [...OMISSIS...]

Epistolario ascetico Vol.III

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Anzi dovremo finire di confidare in noi stessi e nella nostra propria giustizia, e abbandonarci intieramente e tranquillamente nelle amorosissime mani del Signor Nostro GESU` Cristo, dicendogli con pieno contento, « in manibus tuis sortes meae ». Lungi da noi l' essere di quegli uomini di cui dice S. Paolo, « ignorantes enim iustitiam Dei, et suam quaerentes statuere ». Che cos' è la giustizia di Dio? che altro se non la sua misericordia, cioè quella giustizia che egli dona all' uomo unicamente per sua misericordia, quella giustizia che S. Paolo chiama anco iustitia fidei , cioè la giustizia che nasce all' uomo dalla fede , dalla pienissima fiducia e confidenza ch' egli mette nella bontà e fedeltà di Dio? Questa giustizia di Dio , che l' uomo acquista col pur riporre una piena fiducia, quae non confundit , nella divina misericordia, viene contrapposta da S. Paolo alla giustizia dell' uomo , nominata anche « iustitia ex operibus », sulla quale non vuole l' Apostolo che confidiamo; acciocchè sia glorificato Dio solo, e non noi stessi. Mira il santo Apostolo in tutta la lettera ai Romani ad insegnarci questo appunto, che non dobbiamo pretendere d' esser privi di mancamenti (il che la Scrittura anche esprime con quell' altre parole, « noli esse iustus nimis »); chè anzi dobbiamo andare persuasi di essere per parte nostra peccatori sempre, e in fatto quanto alle venialità, e in radice quanto ad ogni maniera di peccati. E nello stesso tempo vuole che ci crediamo giusti in Cristo , cioè nella speranza della sua benignità, nel valor dei suoi meriti, nella fede de' suoi Sacramenti. Se siamo consapevoli di qualche peccato, usiamo con fiducia del Sacramento che li scancella: se non ne siamo consapevoli, usiamo ancora della fiducia nella divina bontà, certi che ella non manca a quelli che in lei s' affidano, benchè siano difettosi peccatori. Sta in questo la gloria della grazia di GESU` Cristo, di rimediare gratuitamente a' nostri peccati, e di giustificarci per la fede avvivata dalla carità, mentre non possiamo giustificarci per le pure nostre opere. Separate adunque il sentimento della mestizia, dal timore di essere in disgrazia di Dio . In quel primo non istà il difetto vostro, ma in questo secondo: di quel primo non è a far caso; ma gran caso dovete farvi di questo secondo. Il sentimento della mestizia procurate di scacciarlo, ma non pretendete di riuscirvi; se non potete, sopportatelo con rassegnazione, con pace, come ogni altra tribolazione. Ma il timore inquietante di essere in disgrazia di Dio riguardatelo come un vostro nemico, come un' insidia del demonio, come un difetto dell' amor proprio che prende piede e vigore nell' animo dalla pochezza della fede nella bontà di GESU` Cristo: scacciatelo adunque da voi ad ogni costo, non gli date mai il consenso della vostra volontà, e tanto meno il tollerate, quanto più vi si presenta sub specie boni , cioè come un sentimento di umiltà, giuoco finissimo dell' inimico. Questi fa credere, che sia un buon atto di pietà l' abbassare interamente se stessi; ma vi ha un abbassamento cattivo, che nasce dalla poca fede in Dio e produce un tristo scoraggiamento, e questo prende il luogo di quell' abbassamento buono, che sa gloriarsi nel Signore , cioè che considera la propria infermità come un continuo trofeo della gloria di GESU` Cristo, e mantiene l' uomo in Cristo come il tralcio nella vite, e a Cristo il tiene stretto come si stringe il bambino alla madre. Io vi rivolgerò dunque le parole di S. Agostino [...OMISSIS...] . Considerate quest' ultime parole: risvegliate la fede nella sua BONTA`, ed è impossibile che chi conosce la bontà di Dio si lasci opprimere dal pensiero di essere in sua disgrazia; perocchè il passare dalla sua disgrazia alla sua grazia è l' opera della sua bontà, che non manca mai a quelli che sperano. « Tutte queste cose le so, voi forse risponderete nel cuor vostro, le so, e il P. Generale s' affatica inutilmente a farmi una lezione ». Non dite così: ricevete anzi la lezione del P. Generale con umiltà, con docilità, ricevetela come un ignorante, pensateci come se si trattasse di cose nuove, nè mai udite: e, accompagnando tutto ciò coll' orazione, ricupererete la primiera libertà di spirito, e imparerete come si dee portare quella tristezza involontaria che non si può scacciare, ma su cui non si può fondare alcun giudizio temerario contro noi stessi. 1.43 Ieri ed oggi ho celebrato il santo sacrifizio della Messa per Lei, affine di ottenere che il celeste Padre, pe' meriti del suo Figliuolo GESU`, Le conceda una ferma fede in questo divin Mediatore, ed una piena pace. Intendo troppo quanto sia penoso lo stato di un' anima che vuol credere, ed è disturbata e impedita dal fare una piena, assoluta, incondizionata adesione alle verità rivelate da dei pensieri rinascenti che producono il dubbio e vengono certamente dal nemico dell' anime nostre. Sono quegli uccelli di cui parla Cristo nel capo XIII di San Matteo, i quali portano via il buon seme caduto lungo la strada, e insieme col buon seme essi portano via la pace del cuore e vi spargono l' inquietudine e l' angoscia; e con questo sì tristo effetto provan di nuovo che essi vengono dal cattivo principio, da Satanasso; e non da Dio, che è un Dio di pace , come la Scrittura lo chiama. E non basterebbe questo solo segno per escluderli da noi, combatterli ed abborrirli? Dai frutti si conosce l' albero; e però se i nostri pensieri ci apportano frutti sì amari, come sono quelli della desolazione, non possono venire che da un albero malvagio, cioè dal demonio. Questo nostro nemico è scaltro, e noi dobbiamo essere molto prudenti per iscoprirne le frodi. Come ingannò egli la nostra prima madre Eva? Col ragionamento. Se Eva non si fosse posta a ragionare coll' astuto serpente, ma avesse in quella vece creduto alle parole di Dio, ell' avrebbe salvata se stessa e noi tutti. Vi hanno dunque dei ragionamenti che ingannano; e queste sono le armi perpetue che usa il demonio per sedurre gli uomini; perchè il demonio vuole sempre apparire ragionevole ne' suoi assalti; e così è che la Scrittura dice, che egli si trasforma in angelo di luce. Con questi ragionamenti capziosi quell' antico serpente produsse tutte le eresie, anche le più mostruose che straziarono il regno di GESU` Cristo: produsse l' infedeltà e l' incredulità. Rinunzieremo noi dunque perciò alla ragione? No certamente; ma ci terremo bensì in guardia contro i ragionamenti sottili che insinua il demonio nell' animo nostro per distaccarci dalla fede alla parola di Dio. Come potremo adunque guarentirci da un tanto inganno? Vi sono dei segni generali per distinguere i ragionamenti dolosi e falsi dell' inimico, dai ragionamenti veri che procedono da Dio autore e lume dell' umana ragione: a questi segni dobbiamo attenerci, e tosto che, mediante tali segni, abbiamo conosciuto la frode, sta a noi a troncare il filo del ragionamento ingannoso, ad espellerlo dalla nostra mente, a non volerlo punto nè poco ascoltare, per non rimanere sedotti o morsi dal serpente. Eccole alcuni di questi segni. Il primo si è quello che le dicevo, l' effetto buono o cattivo , che un dato ragionamento produce nell' anima. Se ci mette la guerra, non può venire da Dio che è la verità, ma dall' angelo ribelle, padre della menzogna. Oh quanto non è semplice e salutare, facendone buon uso, questo contrassegno insegnatoci da GESU`, che ci disse: « Non si turbi il vostro cuore: credete in Dio e credete in me ». «(Giov. XIV). » Un altro segno per distinguere i sottili ragionamenti di Satana da quelli che vengono dalla verità, da Dio, si è quello di osservare se sono tortuosi, torbidi, lunghi, involuti, e che non lasciano in fine mai una piena certezza ed assoluta persuasione, ma si contentano di lasciare l' anima in preda al dubbio e con un segreto rimorso. Questi sono cattivi sintomi: la luce della verità che viene da Dio è semplice, tranquilla, umile, soddisfacente, edificante. Mi permetta che spieghi in parte questo pensiero: mi limiterò a spiegare in che senso dicevo, che la luce di Dio e il ragionamento che nasce da tal luce è semplice , e non punto tortuoso, lungo e interminabile. Supponiamo che una persona si sia convertita pienamente in virtù di una sola prova che dimostra la verità della Religione cristiana cattolica, sia questa prova qualsivoglia, per esempio, un miracolo, la risurrezione di Lazzaro, la risurrezione di Cristo, l' avveramento d' una profezia, uno de' miracoli di S. Gregorio Taumaturgo, o di quelli infiniti che nacquero in occasione delle persecuzioni fatte alla Chiesa Cattolica, ecc.. Questa persona si è a pieno convinta della verità d' un solo di questi miracoli, o di un' altra prova di altro genere; ma questa stessa persona non può ugualmente convincersi col proprio ragionamento della verità delle altre prove. Che dovrà fare questa persona? Se questa persona vuole essere ragionevole, secondo Dio, cioè secondo la verità, dovrà credere senza alcuna esitazione alla verità della Religione cattolica, in cui pro milita quella sola prova di cui s' è convinta. Ma ella non s' è potuta convincere della verità delle altre prove col proprio ragionamento. Questo non fa: basta una sola prova per assicurarsi della verità della cattolica Fede: è dunque obbligata questa persona di rigettare i suoi dubbi sulle altre prove, come insussistenti, e riconoscere, che se non ne penetra la forza, ciò può benissimo avvenire per la limitazione dell' umana ragione. Che se invece di ciò, questa persona vuol tuttavia ragionare sospendendo l' assenso, essa si espone alle insidie del serpente, e rimarrà ingannata dal maligno; perchè non si è attenuta alla verità che aveva già conosciuta, mediante quella prova di cui non può dubitare. Ma questa persona non può capire molti articoli della Fede cattolica, e qualcuno di essi le sembra assurdo e contrario alla ragione. Non importa: la Religione cattolica è stata provata vera per lei; se è provata vera, ella è vera in tutto e non in una sola parte; perchè la Religione cattolica è un tutto solo indivisibile che ci si presenta come fondato sulla parola di Dio; nè Iddio potrebbe, a ragion di esempio, confirmarla con un miracolo, se contenesse qualche cosa di falso. Questa persona adunque dovrà ragionare così: « La Religione cattolica è vera; io lo so perchè non posso negare la tal prova convincente: dunque è vero tutto ciò che nel sistema delle sue verità si contiene; dunque i miei dubbi sono insussistenti, essi provengono dalla limitazione della mia ragione: voglio adunque rinunziare a questi miei ragionamenti particolari che si oppongono alla verità generale da me conosciuta: voglio credere fermamente a tutto ciò che la Chiesa Cattolica mi propone di credere, rinunziando all' inclinazione di ragionare, di cui non ho più bisogno ». Con questa ferma risposta il nemico è vinto: il serpente ha chiuso la bocca: non può più dare una mentita a Dio: non può più dire, come disse ad Eva: « Non è vero quanto ha detto Iddio: tu non morrai mangiando dell' albero della scienza ». All' incontro, se la detta persona, benchè abbia una prova della verità della cattolica Fede, non vuole tuttavia credere fino a tanto che non ha ragionato sulle verità particolari che la detta fede contiene, ella già manca con questo al suo dovere, si rende indocile alla verità conosciuta; invece di seguire umilmente la parola di Dio che si è a lei fatta udire, seguita l' orgoglio amante della disputa e della contenzione, e inimico della pace e della semplice verità. Conviene adunque persuadersi che la ragione umana è limitatissima, ch' ella non può raggiungere i grandi misteri rivelati da Dio, come sono quelli della Trinità, dell' Incarnazione del Verbo nel seno purissimo della Vergine, della Santissima Eucaristia, ed altri tali; che ella anzi si perde spesse volte anche nello studio delle cose semplicemente naturali, trovandosi nella stessa natura infiniti oggetti inesplicabili al sapere dei più consumati sapienti; ch' ella è soggetta all' errore nelle cose più ovvie; e che ella però in punto di religione non dee domandare di più, contenta in tutto il resto di umiliarsi sotto l' abisso e la immensità delle cose divine, contenta di credere tutto ciò che si contiene in quella Fede di cui ha conosciuto in generale la verità. Così noi sacrifichiamo a Dio non già il vero ragionamento, ma tutti i falsi ragionamenti che vorrebbe insinuarci il nemico del bene per traviarci e travagliarci. Non è egli forse ragionevolissimo questo sacrificio? non è la ragione stessa che riconosce la propria impotenza? non è un dovere che abbiamo di assentire e di credere alla verità tosto che l' abbiamo conosciuta, senza trattenerci a cavillare per metterla ancora in dubbio? Se una sola verità della Fede cattolica è vera, è provata, tutta la Fede è vera, tutta è provata, anche quella che non intendiamo. Prendiamo invece della prova del miracolo, quella prova morale, che ella stessa, Madamigella, mi diceva sembrarle molto efficace. La fede cattolica è santa: ella ha formato degli eroi di santità: questi eroi perfetti in tutte le virtù più sublimi e più sconosciute dal mondo non solo aderivano a questa Fede, ma cavavano da essa sola i lumi e le forze colle quali giunsero a quella innocenza di vita e generosità d' amor divino, pel quale stimavano un nulla il dare anche la vita. Ora è egli possibile che Iddio abbia lasciato nell' inganno queste sue creature amanti? è possibile che la menzogna e l' errore (figli di Satana) abbiano condotte le anime a Dio, e le abbiano strette con Dio nel modo il più intimo? Quale assurdo il pensarlo! Dunque era vera la loro Fede: dunque erano veri tutti i singoli articoli della loro Fede : dunque io n' ho abbastanza, non debbo cercare altro per crederli: tosto li debbo abbracciare, benchè il serpente mi dica nequaquam , benchè voglia trascinarmi fra le spine di un inutile ragionamento, e farmi perdere in un laberinto, dal quale non so se potrò uscire. E intanto che io giro per le sinuose vie di questo laberinto, io non credo: intanto io resto infedele alla verità conosciuta, e mi rendo ingrato a quel Dio che me l' ha fatta conoscere. Oh qual benefizio infinito non è mai la santa Fede! Essa non è che un complesso di prodigi dell' amor divino verso di noi. Un Dio che si fa uomo e muore per noi, affine di salvarci dal peccato, liberarci dall' errore e dall' ignoranza, effetti del peccato: un Dio che ci rimette i peccati e che stabilisce de' suoi ministri che assicurino del suo perdono con piena certezza, essendosi obbligato di ratificare in cielo ciò che essi scioglieranno in terra: un Dio7Uomo, che ci dà se stesso in cibo, e che ci promette di darci se stesso in un modo aperto e svelato in cielo, qual premio della nostra Fede: tutti questi sono misteri d' amore, sono un abisso infinito di carità, di cui non possiamo certo colla nostra ragione trovare il fondo. E perchè l' amor di Dio è tanto grande che oltrepassa i brevi limiti della nostra ragione, noi per questo appunto negheremo fede al suo amore? Infatti non credere alle verità della nostra santa Religione, è un non credere all' amor di Dio; dubitare, è un dubitare dell' amor di Dio; perocchè la Fede cattolica finalmente non ci propone altro e poi altro da credere, se non gli eccessivi tratti d' amore che Iddio ha usati verso di noi. Questi eccessivi tratti d' amore superano sì la nostra ragione limitata: questa non può intenderli, e se vuole spiegarseli si confonde e vacilla: ma qual meraviglia? Iddio è Dio, e noi siamo uomini: le difficoltà che troviamo in tali misteri debbono essere per noi un nuovo argomento della loro verità, e un nuovo impegno da parte nostra di prestarvi interissima fede; perchè se non prestiamo fede agli eccessi del divino amore, molto meno potremo agli eccessi di questo amor divino corrispondere. A me pare d' avere troppo conosciuto il cuore di Lei nella breve ora che ier l' altro ebbi l' onore di trattenermi seco. Ella vuole corrispondere all' amor divino: bene, abbandoni dunque i ragionamenti sopra i punti particolari della Fede che la disturbano: parta da quelle prove che la convincono della verità della Religione cattolica in generale : e certa di questa, creda senza più vacillare, anche ai singoli dogmi che essa Le propone di credere. La Fede è il primo passo dell' amore: Ella corrisponderà all' amore di GESU` Cristo morto per lei, quand' ella adorerà in lui il VERBO FATTO CARNE, come dice l' apostolo ed evangelista S. Giovanni, che Ella pur ama. Mia signora Contessa, io aveva preso la penna per suggerirle qualche libro secondo il desiderio da Lei manifestatomi, e in quella vece Le ho scritto già una lunga lettera, e poichè è scritta, la lascio correre. Ella forse l' aggradirà: almeno le sarà testimonio del gran desiderio che sento di contribuire, se nulla potessi, alla tranquillità del suo spirito. Sulla scelta de' libri ero veramente incerto: ne abbiamo di eccellenti; ma il profitto non verrà dai libri di controversia, almeno se prima Ella non istabilisce il principio, che « per credere non è necessario avere la soluzione di que' dubbi che possono nascere nella mente contro i dogmi particolari della Fede ». Sciolto e vinto un dubbio, ne nascerebbero dieci, il lavoro sarebbe interminabile; la ragione non vedrà mai tutto: basta che vegga una cosa sola, ed è, che « la Religione cattolica è vera ». Quando la mente sia persuasa di questa verità generale (e dee bastare anche una sola delle innumerevoli prove che n' abbiamo), allora ella dee anche persuadersi che non meritano punto ascolto le obbiezioni e le difficoltà, e dee cacciarle come tentazioni pericolose, chiamando in soccorso Iddio stesso, e non cessando di dire a Gesù Cristo: Credo, Domine, adiuva incredulitatem meam . Io stimo indispensabile a Lei per poter vincere d' un colpo tutti i nemici della sua quiete, ch' Ella ben si persuada di questo principio: « Conosciuta la certezza della Religione cattolica in generale, ho già conosciuto anche la certezza di tutti i suoi insegnamenti particolari, e non debbo più ammettere obbiezioni ». S. Tommaso in una grand' opera enumera quindici mila obbiezioni contro i dogmi rivelati, e tutte l' una dopo l' altra le risolve. Chi volesse aspettare di studiarle tutte per credere, non crederebbe mai più, e in sulla via ne troverebbe delle altre. Quando una religione riceve una dimostrazione diretta, le obbiezioni non possono più avere forza, quantunque noi non giungessimo a risolverle. A conferma di questo gran principio suggerito dalla logica, io bramerei che Ella volesse trovare tempo da leggere una mia operetta intitolata: « Sui confini dell' umana ragione, ecc. »che è la prima negli « Opuscoli filosofici », divisi in due tomi, e stampati a Milano nel 1.27 7 2.. Dopo questa lettura, potrà, piacendole, aggiungere quella di un qualche apologista che dimostri la verità della Religione cattolica in generale, per convincersi bene che questa Religione è vera ed al tutto divina; e le suggerirei di cominciare dalle « Conferenze » di Monsignor Frayssinous, o, se queste le avesse già lette, dal « Catechismo filosofico » del Feller. Unisca poi la lettura del Vangelo, che contiene le proprie parole del nostro Signore, le quali hanno una grande efficacia sull' anima. Anche il libro dell' « Imitazione » le gioverà non poco a farle sentire la divinità di GESU` Cristo. Le orazioni sue proprie e di altre buone persone faranno il resto. E` già una grazia grande l' avere di sì buoni genitori, come sono i suoi, coi quali Ella può usare della più gran confidenza e cavarne consolazione. Le orazioni de' genitori pe' figliuoli sogliono avere una gran forza davanti a Dio. Se Ella amerà che, dopo letti gli accennati libri, io gliene suggerisca degli altri, ben volentieri lo farò. 1.43 Ho fatto indegnamente il memento ch' Ella desidera nella santa Messa, acciocchè il Signore sempre più la santifichi e consumi nella sua carità. Ora io ben devo pregarla, come la prego istantemente, di ricambiarmelo, acciocchè il Signore mi converta e mi riduca interamente sulla buona strada, a malgrado delle continue opposizioni che io metto alle sue misericordie. Egli è infinitamente buono e paziente, e per questo non mi sfiducio, benchè se dovessi pensare a me stesso, sarei disperato. E se io spero tanto, benchè del tutto infedele e mancante alle grazie divine (il che non dico per abbassarmi, ma perchè mi sforza a dirlo la verità che mi sbalza agli occhi), quanto più dee sperare Ella, che fuor del mondo visse sempre a Dio e per Dio? Quantunque mi pare che circa il quanto che dobbiamo sperare non c' è da fare questione o d' assegnare misura; poichè essendo infinita la misericordia di Dio, e non dovendo noi cercare il fondamento della speranza in noi stessi, ma in quella bontà illimitata, la speranza nostra dee essere senza confini, tanto se siamo buoni, quanto se siamo malvagi. Ovvero, qualora pure si voglia assegnare una differenza, speri più il malvagio; chè il povero ha sempre da sperare più del ricco dal liberalissimo Signore, e il Signore nostro più si glorifica colla sua liberalità verso i malvagi. Onde io mi propongo per questa ragione di voler sperare ancor più di Lei, avendone un titolo tanto maggiore. So bene che l' umiltà sua non vorrà accordarmi questa preferenza di titolo, sebbene verissima; ma l' aggiusteremo col proporci l' uno e l' altro di non mettere limiti alla nostra speranza: l' uno e l' altro spereremo più che possiamo, quasi emulando charismata meliora . Che ne dice? E` ella contenta? Vuol Ella entrare in questa gara con me? Io credo di sì, e con tanta generosità, che m' aiuterà colle sue orazioni a sperar molto, senza che la possa mai vincere. Del resto ciò che mi dice nella venerata sua lettera delle tentazioni che patisce contro la Fede, non ci stia a credere, non sono vere tentazioni: la sua fede sta immobile e sicura nel fondo dell' anima sua. Vi fu infusa col santo Battesimo, e fortificata con tutti gli altri Sacramenti. Ma questo non toglie che alla superficie dell' anima nascano dei timori e delle trepidazioni, ed anche dei dubbi che non sono veri, ma apparenti: cose tutte che Iddio permette per esercizio delle anime a lui più care, acciocchè stiano sempre più vigilanti ed attive nell' amor suo, e si purifichino colla tribolazione. Per altro non creda che siano punto pericolose, nè da farne caso. Anzi quanto più si disprezzano, e si considerano per quel che sono, movimenti della fantasia e del sentimento; tanto più facilmente svaniscono da se medesime o s' indeboliscono. All' incontro se l' anima prende tali cose con serietà, se si dà a credere che abbiano importanza, quando non ne hanno nessuna; allora l' anima facilmente si turba, viene occupata da un gran timore; e il timore e la tristezza fanno l' effetto di una lente che ingrandisce un moscherino da parere un elefante. Anzi fanno ancor più, perchè l' anima presa da vano timore vede quel che non c' è, come l' occhio ammalato che vede rosso e nero, secondo il colore che è in lui. Lungi adunque il timore, la trepidazione, la riflessione soverchia su tali cose, gli esami di coscienza troppo minuziosi; e invece studio grande della libertà santa di spirito , e pensieri di cose allegre, come dell' infinita bontà di Dio e del paradiso che ci aspetta, moderata ricreazione e sollievo anche di corpo, abbandono di se stesso pienissimo nelle braccia della divina clemenza, e confidenziale trattenimento colla dolcissima Madre delle speranze Maria santissima. Deh non dubitiamo, caro Padre! Ringrazi di tutto Iddio che sta seco e la conduce per sicura via agli eterni suoi amplessi. Deh! si ricordi di quello che ha la temerità di scriverle queste cose, le quali dovrebbe impararle a tanta maggior ragione da Lei. Ma Ella lo volle, e però quello che sarebbe in se stesso temerità, me lo cangia in obbedienza. Le bacio la mano e La prego di benedirmi. [...OMISSIS...] 1.43 La venerata sua lettera del 21 luglio mi ha colmato ad un tempo di consolazione e di confusione. E come non sarei consolato, sentendovi dentro espresso il cuore di Lei, Monsignore, ardente di tanta carità pastorale? E come potrei non essere confuso, veggendomi trattato con sì esuberante gentilezza? Mi sembra veramente da tutto ciò che Ella mi dice, che il Signore l' abbia trascelta e mandata in cotesta Diocesi per de' gran fini, perchè vi faccia grandi opere di sua gloria. Già Ella tocca tutti i punti principali, che un Vescovo può prender di mira per operare la riforma e far fiorire la propria Diocesi: Seminario, istruzione ed educazione ecclesiastica, culto, confessionario, catechesi e istruzione popolare, riforma de' privati e pubblici costumi. Ella di più, conscia che un Vescovo è azione, non teme, ma spera che dopo gli osanna vengano i crucifige , sapendo che il discepolo allora è perfetto quando è simile al maestro; il che è quanto dire, che il Signore, insieme allo spirito di sapienza per concepire, Le ha infuso altresì quello, non meno necessario ad un Vescovo, di fortezza per eseguire. A tutta ragione Ella dà il primo luogo tra le sue cure a quella del Seminario e della formazione del suo clero: da questo, come da primo anello, dipende ogni cosa. Nel che parmi che il punto principalissimo a cui tendere, sia quello di formare un clero santo ; poichè, ottenuta la santità, vengono da sè quali conseguenze la prudenza e la scienza. A tal fine l' uso della meditazione giornaliera secondo un buon metodo, gli Esercizi spirituali , una disciplina rigorosa , che tenda a segregare i chierici dal mondo, conservarli nel raccoglimento e innamorarli della casa di Dio e del culto che vi si esercita, sono i mezzi adoperati dai santi vescovi, e giustamente presi da Lei in mira. La separazione de' chierici dai convittori secolari, come ottimamente Ella osserva, è indispensabile per poter dare ai primi un' educazione consentanea alla sublime lor vocazione. Eccellenti sono i due libri ascetici, ch' Ella accenna, come mi sembrano pure eccellenti le meditazioni del Da Ponte ridotte in compendio e stampate di recente in Lione in due volumi, il libro « Dello spirito e dei doveri degli ecclesiastici » del prevosto Riccardi, le compendiose operette del Tronson e dell' Arvisenet, il « Thesaurus Sacerdotum et clericorum », e somiglianti. Ma sopratutto sarà d' uopo provvedere il Seminario d' un eccellente Direttore spirituale, che alla santità e allo zelo congiunga una bella mente, per mezzo del quale anche i buoni libri ascetici si propagano e diventano fruttuosi: dovrebbe essere uomo di autorità, la prima persona dopo il Rettore, non molto vecchio, acciocchè sia attivo. Con lui dovrebbero trovarsi in piena armonia il rettore e i maestri. Parmi che a tali posti si dovrebbero eleggere le persone migliori, sostenendole poscia il Vescovo con certa onoranza e con stipendi i più abbondanti che per lui si possa; acciocchè i buoni ingegni, collocati da giovani nel Seminario in officio di maestri o d' altro, vi prendano affetto, amino d' invecchiarvi, formino insieme come una famiglia ecclesiastica e scientifica, come seppe fare appunto il B. Barbarigo nel suo celebre Seminario di Padova. Non mi sembra utile, generalmente, che dai posti del Seminario passino i sacerdoti alle parrocchie, ma piuttosto che dalle parrocchie i migliori passino ai posti del Seminario; e che sia poi provveduto bene per la loro vecchiaia, venendo, a ragion d' esempio, provveduti in età avanzata di buoni canonicati, o nominati consiglieri del Vescovo, se v' è il costume che il Vescovo si nomini dei consiglieri anche fuori del Capitolo. Infatti par sommamente utile che il Vescovo si prepari e tenga vicino a sè un consesso, piccolo o grande secondo la Diocesi, d' uomini dotti da consultare; e niun luogo dove vivere uniti è più acconcio dello stesso Seminario. Tutto ciò che tende a congiungere il clero col Vescovo e fra sè, giova insieme a dividerlo dal mondo, a renderlo più istruito colla comunicazione scambievole delle dottrine, e più uniforme nelle opinioni morali, e a conservare la disciplina e i buoni costumi; poichè i sacerdoti che trattano molto insieme, si custodiscono e aiutano scambievolmente; specialmente se i più specchiati e meritevoli sieno dal Vescovo onorati con imparziale giustizia, e per l' autorità loro conciliata opportunamente divengano altrettanti centri intorno a cui s' adunino gli altri. Dove si può far sì che i parrochi non istieno soli, ma abbiano de' cooperatori, e questi convivano nella casa parrocchiale, ella riesce sempre cosa utilissima. Le conferenze dei casi esattamente regolate, e il nominare de' Vicari foranei eccellenti, dando loro molta autorità, e ispirando al resto del clero rispetto per essi con una ben regolata subordinazione, sono del pari mezzi che influiscono a rendere il clero unito, forte, istruito. All' utile unione del clero conduce certamente tutto ciò che introduce in esso un ordine, una più distinta gerarchia, una stabile organizzazione in somma; la quale non si può ottenere, senza molta subordinazione e umiltà da una parte, e merito reale con autorità dall' altra. I sentimenti di umiltà e di subordinazione non possono infondersi che nel Seminario, quando il clero è ancor giovane, e facilmente si presta a riceverli, concependo allora assai facilmente rispetto e stima ai seniori. E benchè convenga conservare nel clero questa virtù della subordinazione e dell' umiltà, coll' esercitarlo in una continua dipendenza nelle cose giuste dal Vescovo, dai Vicari, dai parroci, dai seniori; tuttavia questa dipendenza divien facile solo allora quando le persone verso cui si dee praticare sono scelte d' un merito reale. Perciò Ella troverà, credo, importantissima cosa che il Prelato usi somma imparzialità nelle elezioni alle cariche, non eleggendo secondo altro principio che secondo quello del merito e delle prove avute della idoneità; evitando particolarmente di costituir parrochi i giovani sacerdoti appena usciti di Seminario, ma esercitandoli prima qualche tempo nella cura d' anime come cooperatori di valenti parrochi provetti, che li possano praticamente ammaestrare e dirigere. Usano anche in alcuni luoghi di conchiudere gli studi teologici del Seminario con una scienza che chiamano Pastorale , nella quale s' insegnano tutti i doveri dei parrochi, applicando all' officio parrocchiale le cognizioni teologiche precedentemente ricevute; il che mi pare utilissimo quando sia fatto a dovere. Di questa scienza un bel compendio è quello fatto dal P. Mauro Schenkl, di cui vennero fatte diverse edizioni in Germania, e che forse a Lei sarà noto. L' arte del catechizzare entra come una parte nella scienza pastorale. Ma è importante che fin da principio i chierici vi si esercitino e ne prendano amore: il che facilmente s' ottiene spiegando loro l' eccellenza di questo ministero, e dando loro delle guide che in esso li dirigano. Giova sopratutto un buon Catechismo diocesano, ed io provo co' fatti che l' esser disposto secondo l' ordine delle idee spiana incredibilmente la via a' catechizzati ed agli stessi catechizzatori. Stimo poi che non si possa mettere in buono stato l' insegnamento del Catechismo nelle parrocchie, senza introdurvi la congregazione della dottrina cristiana, adattando alle circostanze e modificando i noti regolamenti di san Carlo Borromeo, di cui vidi ottimi effetti nella mia parrocchia sopra più di mille fanciulli distribuiti in varie classi, che concorrevano all' istruzione. Nella Pastorale , come s' insegna ai chierici o ai giovani sacerdoti l' amministrazione di tutti i Sacramenti, così si dà loro la pratica del confessionale. Magnificar loro l' ufficio di confessore, l' immensa importanza di esso per la salute dell' anima, il merito di chi fedelmente l' amministra e l' aiuto che vi trova alla santificazione propria: renderne meno spinoso l' esercizio con idee chiare di principii, ed uso frequente di risolvere casi: dare i confessori più provetti e zelanti in esempio e guida a' più giovani: applicare lodi e premi a quelli che mostrano più zelo in tal ministero; sono altrettanti mezzi per metterlo in onore e farlo fiorire. Quanto alla riforma del popolo, Ella tocca il punto capitale de' matrimoni, che sono il principio e il fondamento delle famiglie, e non può esservi cura soverchia a fine di ottenere che si contraggano santamente. Se tutti i parrochi, avvisati appositamente dal Vescovo, insisteranno dal pulpito, dal confessionale, e ne' privati discorsi sulla santità di questo Sacramento; se ammaestreranno il popolo circa le disposizioni necessarie a riceverlo santamente; se faranno conoscere i beni provenienti alle famiglie da un matrimonio santo, e i mali e le sciagure di un matrimonio disonesto; se chiameranno su di ciò l' attenzione de' genitori, gravando la loro coscienza della libertà di conversare conceduta ai loro figliuoli con persone d' altro sesso; se prima d' ammettere al matrimonio esigeranno con rigore dai giovani che sappiano di catechismo, e che ricevano per tempo il sacramento della confessione: non v' ha dubbio che s' otterrà la riforma desiderata. Ma molto influirà alla riforma del popolo il cominciare da missioni generali fatte fare successivamente in tutte le parrocchie da eccellenti operai evangelici, istruiti prima dal Prelato de' punti principali, su' quali debbano insistere, e in cui la riforma è più necessaria. Dopo i quali, servirebbe assai opportunamente la visita del Supremo Pastore della Diocesi, che colla parola e colla grazia confirmasse l' opera incominciata dai Missionari, corroborasse i santi proponimenti de' convertiti, facesse man bassa delle cattive usanze invalse in quelle popolazioni, e introducesse da per tutto per l' opposto opportune cristiane consuetudini. Ma ben sento, Monsignore, che non posso apparire che temerario, discendendo con Lei a tante particolarità; e tuttavia giacchè m' è corsa la penna, non voglio cancellare lo scritto fin qui, ma La prego di perdonarmi tutto ciò che vi avesse di sconvenevole in questa mia prolissità, volendo del resto accettar tutto in buona parte, in quello spirito di carità, nel quale Ella colla veneratissima sua mi richiese di esprimerle i miei sentimenti sopra i toccati argomenti. Vengo ora al punto, onde avrei dovuto cominciare, come quello che mi recò l' onore di entrare con Lei in questa ben avventurata relazione, voglio dire alla Società nostra. Faccia il Signore che questa Società possa prestarle qualche aiuto alla grand' opera ch' Ella si propone di far vieppiù fiorire nella sua Diocesi, la pietà, la carità, la dottrina. Credo che a Lei sia noto, che l' Istituto della Carità si compone di due principali sezioni di membri, la prima delle quali costituisce un Ordine religioso legato con voti d' ubbidienza al Preposito Generale; la seconda comprende alcuni pii fedeli, ecclesiastici e secolari, i quali non hanno voto d' ubbidienza, ma solo vincoli di carità e obbligo di mantenere i regolamenti fino a tanto che piace loro di rimanere nell' ascrizione. Questa seconda sezione che si chiama la Società degli Ascritti , serve a propagar il bene anche là dove per impedimenti esterni non si può introdurre l' Istituto religioso. L' Ordinario suol esserne il Protettore ed il Presidente dell' Ascrizione. E qui debbo rendere a Monsignore i miei vivi ringraziamenti per essersi degnata di formar parte di essa e di incaricarsi benignamente della presidenza in coteste parti: come pure della notizia che mi dà delle ottime disposizioni del suo clero ad unirsi con un cuore solo con noi, disposizioni dovute certamente alla pietà del Pastore. La Società degli Ascritti convien considerarsi nel suo principio e nel suo progresso . Nel suo principio ella è una Società così larga e generale, che ogni pio cristiano vi può appartenere. Per lasciar aperto l' adito a tutti i buoni cristiani di unirsi in essa, fu necessario non mettervi vincoli od obbligazioni di coscienza; è dunque un' unione di spirito, una comunicazione di buone opere spontanee, una cristiana amicizia o fraternità. Ma questa unione generale non impedisce che i più ferventi membri di essa facciano di più, e anche si leghino a cose di maggior perfezione; chè anzi ciò si desidera e si riguarda come il natural suo progresso o sviluppo. Quindi la Società generale e comune, buona per sè stessa, ed utile perchè unisce i fedeli in Cristo ed accresce la carità, i meriti, le buone opere, divien poi anche quasi terreno su cui si possono fabbricare cose maggiori, diviene il germe di altre Società più strette e determinate, che si chiamano sodalizi . Uno di questi sodalizi è indicato e proposto dai regolamenti, ed è quello che diciamo dell' Oratorio ; ma gli altri non sono predeterminati: e la ragione si è, che essendo vari i bisogni dei fedeli e delle Diocesi, e vari gli spiriti, si vuole che i sodalizi vengano formandosi da sè stessi nei vari luoghi opportunamente adattati alle circostanze ed all' istinto dello Spirito Santo, che muove gli Ascritti piuttosto a queste che a quelle opere pie e caritatevoli. Tutto ciò rileverà, Monsignore, dalle brevi Regole di cui le trasmetto un centinaio di copie, e ch' Ella, bramandolo, potrà quandochessia far ristampare. Così il Prelato che presiede a tutta l' opera, può dirigere meglio l' Ascrizione a quegli scopi determinati ch' egli nella sua saviezza crede più necessari. Alla formazione di un sodalizio non si esige altro, se non che quegli Ascritti che vogliono unirsi a formarlo, estendano le loro proprie Costituzioni d' accordo col Prelato e, trasmesse al Preposito generale, questi con suo decreto erige il sodalizio su quelle stabilito. Ella vedrà da tutto ciò, Monsignore, che cosa si potrà fare in cotesta sua Diocesi. Cominciandosi dal poco, si potrà con piccoli passi ma sicuri giungere al molto. Io me Le offerisco tutto alla sua ubbidienza, e mi troverà sempre pronto a' suoi ordini. Vorrei bene essere così fortunato da poterle dar mano in provvedere il suo Seminario di Rettore, di maestri, di prefetti; ma, se non m' inganno, osterebbe il governo Granducale a mandar costà dei religiosi di un Istituto da esso governo non per anco riconosciuto. Ma è ben tempo che finisca questa lunghissima lettera. [...OMISSIS...] 1.44 Quella persona di cui ella mi scrive dee ben mettersi in guardia dagli inganni della propria fantasia , della quale il demonio si serve per insinuare in essa lo spirito di superbia. Conviene che si faccia una legge di troncare i pensieri inutili come sono quelli che riguardano il futuro: questi sono pensieri frivoli e grandemente dannosi: l' uomo dee unicamente occuparsi del presente, e specialmente del presente suo stato morale, per conoscere i propri difetti ed emendarsene: allora solo egli cammina per una via sicura dalle diaboliche illusioni. Di poi, io vorrei consigliare quella persona ad acquistare un gran dolore ed orrore de' proprii peccati. Un sol peccato, una sola offesa di Dio è materia sufficiente per piangere mille anni. E che dico io mille anni? anzi per bruciare in eterno. Se una persona acquista questa cognizione e quest' orrore dell' offesa di Dio, sarà ben premunita contro la superbia, perchè un peccato solo, se l' uomo ben ne conosce la deformità, basta ad umiliarlo sotto tutte le creature, e a non più riputarsi che un mostro, la feccia della natura, un istrumento degno solo del fuoco. Ma sopra tutto poi esorterei e pregherei fin colle lagrime agli occhi una tale persona a guardarsi con somma cautela da tutte le occasioni anche minime di offendere la santa purità. Che se combattendo valorosamente colla fuga delle occasioni e con tutti gli altri mezzi che insegnano i maestri di spirito giugnerà a purgare la sua vita dall' immondezza, essa otterrà ben anco da Dio la grazia della santa umiltà. Ad un fine sì grande e sì importante per l' eterna salute, ad un fine, per ottenere il quale è necessario di fare ogni più gran sacrificio e di dare anche la propria vita, io suggerirei alla indicata persona due mezzi principali. Il primo sarebbe di ritirarsi dal mondo per dieci o quindici giorni almeno, per fare i santi esercizi colla maggior esattezza sotto un direttore di vero spirito e di celeste sapienza fornito, a fine di imparare in essi a conoscere sè stessa e a detestare le proprie colpe, acquistandone la giusta idea che l' uomo attigne, quando vi pensa, in faccia all' eternità, e quindi per finire la vita passata con una confessione generale, dopo la quale venga il principio d' una vita al tutto nuova. Il secondo mezzo sarebbe di scegliere per confessore un uomo veramente santo, confessandosi a lui spesso, e deponendo nel suo seno ogni debolezza, tentazione, o colpa; eseguendo puntualmente tutti i suoi consigli. Gioverebbe che tanto il direttore degli esercizi, quanto il confessore fosse un sacerdote ben conoscente della vita interna. Molti altri mezzi ci somministra la bontà del nostro Signor GESU` Cristo per abbattere la nostra superbia e tutta la illusione e la prepotenza delle nostre passioni; e prima di tutto ORAZIONE. Oh quanto non è possente questo mezzo per ottenere la grazia e i lumi che ci bisognano, qualora lo pratichiamo assiduamente e con affetto sincero! Io consiglierei la nota persona a darsi all' orazione più ancora che allo studio , e all' orazione vocale più ancora che all' orazione mentale; perocchè essa deve temere grandemente i giuochi della fantasia, che facilmente nella mentale s' intromettono. Oltre di che l' orazione vocale è propria dei semplici e degli idioti; e la detta persona dee studiar di farsi in ogni cosa, il più che possa, semplice e fanciullo, se pur vuole conseguire l' umiltà e reprimere lo spirito sì facile ad intumidire. La consiglierei tuttavia ad usare anco di libri opportuni, cercando di gustarli con tutto l' affetto d' un animo che vuole umiliarsi; e specialmente di rendersi famigliari il libro dell' « Imitazione », quello del « Combattimento spirituale », le « Confessioni » e le « Meditazioni » di S. Agostino, e le opere di S. Francesco di Sales. Le Confessioni di S. Agostino potranno ben eccitarla alla contrizione de' suoi peccati, se le legge con disposizione conveniente al fine. Gioverebbe assai che una tal persona anteponesse queste lezioni spirituali agli altri studi speculativi, che facilmente esaltano la mente e inaridiscono il cuore e sono tanto meno importanti per l' uomo che lo studio della propria eterna salute. « Quid prodest homini ! » Aggiunga ancora a tutto ciò la persona di cui si tratta, una somma vigilanza sui propri interni sentimenti, per reprimere tutti quelli che sapessero di presunzione e di superbia, introducendo e suscitando spesso in sè stessa i sentimenti contrari di diffidenza, di umiltà, di disprezzo sincero di sè, procurando di formarsi l' intima persuasione di non essere buona a nulla, se non a far male, e volenterosamente collocandosi al di sotto di tutti gli altri uomini. - Ella mi domanda se gioverebbe, che la detta persona facesse degli atti esterni per umiliarsi: ed io le rispondo che gli atti esterni fatti con sincerità sono utilissimi all' uomo che vuole vincere la superbia, e gli hanno fatti tutti i santi. Ma essi debbono venire dal cuore, debbono essere un' espressione sincera de' sentimenti interni, o almeno di quelli che si vogliono professare ed acquistare. - Finalmente cerchi di provvedere la propria mente di tutte quelle tante ragioni che dimostrano quanto sia ragionevole e giusta l' umiltà, e come l' uomo non possa mai abbassarsi ed umiliarsi di soverchio, dopo l' esempio di GESU` Cristo che dal cielo s' abbassò fino alla croce dolorosissima ed infamissima agli occhi degli uomini: di quelle ragioni ancora che dimostrano quanto sia ingiusto, empio, vituperoso, dannoso ogni orgoglio alla polvere ed al fango di cui siamo composti, e quanto renda l' uomo ributtante agli occhi di Dio. Alla umiltà giova immensamente la pratica di quella carità che brama di fare tutto il bene possibile al prossimo, e onde l' uomo dimentica affatto sè stesso per cercare i vantaggi degli altri. I ministeri di carità più bassi, come il fare il catechismo a' fanciulli e alle persone rozze, sopportandole amorevolmente, giova molto ad ottenere l' umiltà. Ma sopra tutto confidenza in Dio ed in Maria Ss. pari alla diffidenza di se stesso. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.44 Il desiderio della conversione alla fede dei vostri compatriotti, ed anzi di tutto il mondo, è buono, purchè non sia tale che vi distragga dalla santa ubbidienza, la quale è ancora migliore; purchè non vi tolga dall' animo lo stato dell' aurea indifferenza, che altro non cerca che ciò che piace a Dio, e nel modo che piace a Dio; purchè non vi cagioni turbamento e sottragga quelle forze che devono essere da voi consacrate a Dio e impiegate negli uffizi che egli presentemente vi diede, acciocchè adempiendoli con perfezione e con semplicità, troviate in essi la vostra eterna salute. Egli è buono il desiderio che i vostri compatriotti e tutto intiero il mondo si converta alla vera fede, quando è veramente simile a quello che nutriva Mosè per la liberazione del suo popolo, il quale pregava Iddio che mandasse Colui che doveva essere mandato: « Mitte, Domine, quem missurus es »; ma nella sua profonda umiltà non pensava a se stesso; anzi quando Iddio lo volle mandare ne fu sbigottito, e nella sincerità del suo cuore pregò Iddio di dispensarlo dall' ardua missione più e più volte, rappresentandogli ch' egli era un povero balbuziente. E` buona anche la domanda che mi fate di far pregare per la conversione della Svizzera, e in questo con gran piacere vi esaudisco. Oh pregare! sì, questo lo possiamo fare tutti, lo possiamo fare sempre, e con tutta libertà. Gesù Cristo ce l' ha insegnato: « Rogate Dominum messis, ut mittat operarios in messem suam ». Considerate bene, mio caro Arnoldo, queste parole, considerate chi le diceva. Non poteva Gesù Cristo da se stesso mandare quanti operai avesse voluto nel campo evangelico? Poteva, e pur non volle: volle invece che i suoi discepoli impetrassero i celesti mandati dal suo Padre celeste coll' orazione. Tanto gli stava a cuore imprimere nella mente de' suoi discepoli la necessità della missione divina per le imprese evangeliche! Egli stesso dichiarò replicatamente di non essere venuto spontaneamente, ma di essere stato mandato dal suo Padre celeste. Senza questa missione è vano sperare alcun frutto. Guai a colui che pretende mandare se stesso! lungi dall' ottenere la salvezza degli altri, opera la propria condanna, perchè rimane convinto che la sua missione non è simile a quella di Cristo, il quale non venne se non mandato. Anzi l' uomo di Dio non pensa nè pure che possa cadere sopra di lui la missione; e se mai Iddio gliela dà, trema da capo a piedi, pena a persuadersi che sia vero, ne vuole prove replicate; la sola voce de' suoi superiori gli fa deporre i dubbi: e solo quando si è così certificato di essere da Dio inviato, s' incoraggia nella fede della sua parola, e opera animosamente, benchè sempre con timore di se stesso. Or che vi dirò io, mio caro Arnoldo, quando voi mi pregate d' inviare operai alla conversione della Svizzera? Iddio sa quanto ardentemente anch' io desidero la conversione di tante anime ingannate; ma vi potrei forse dire altro, o vi potrei dire di meglio, di quello che disse Cristo agli Apostoli: Rogate , anzi io metterò il verbo in prima persona, « rogemus Dominum messis ut mittat operarios in messem suam »? Pretendete forse che io vi dica di più? pretendete che io sia di più di nostro Signore? « Non est discipulus supra Magistrum ». Tutto quello che vi dicessi di più, sarebbe temerità, arroganza, inganno deplorabile che farei a me stesso ed a voi. Che se il Padre celeste, esaudendo le vostre e le comuni orazioni, mi dirà come disse agli Apostoli: « Segregate mihi Paulum et Barnabam »; se mi farà conoscere che alcuni dei nostri cari fratelli sono da lui destinati a tant' opera; credete voi che io aspetterò le vostre preghiere e le vostre suppliche per ispedirli? No, mio caro Arnoldo, non tarderò un momento solo ad ubbidire ai divini comandi. Ma i tempi e i momenti sono nella potestà di Dio, e le vostre preghiere fatte a me non potrebbero accelerarli: Iddio suole mandare i banditori evangelici alle nazioni, quando egli vede che già sono mature a riceverli, come già disse nel Vangelo: « Levate oculos et videte regiones, quia albae sunt iam ad messem (Io. IV) ». Al tempo della maturanza venne Cristo. Al tempo della maturanza fu scoperta l' America. Ogni nazione entra nella Chiesa solo quando è venuta questa sua maturanza che l' infinita sapienza di Dio conosce, ma che è del tutto occulta agli uomini, perchè in quel tempo, e solo in quel tempo, le invia i suoi Apostoli con grazie efficaci di convertirla: l' una all' ora di terza, l' altra alla sesta, l' altra alla nona, e taluna all' undecima. Quale presunzione mostruosissima non sarebbe quella di un uomo che, nella sua totale ignoranza pretendendo scrutare i decreti di Dio, volesse stabilire i tempi e i momenti, in cui le nazioni sono mature alla messe! Vi ripeto adunque che, col rivolgere a me le vostre preghiere, non potete accelerare il giorno fortunato della ricolta; ma potrete, volgendovi con umiltà profondissima e colla pratica di tutte le virtù, specialmente dell' ubbidienza e dell' indifferenza, al celeste Padre. Io mi accorgo, caro fratello, dalla vostra lettera che non conoscete appieno, non avete meditato abbastanza quale e quanto divina sia l' opera della conversione delle anime. Voi dite che « se è volontà di Dio che s' aiuti il prossimo ne' bisogni temporali quando vengono a nostra cognizione, molto più è da dirsi ciò dei bisogni spirituali ». - E non v' accorgete che l' opera del soccorrere i bisogni temporali, e quella di predicare il Vangelo e convertire le nazioni, sono fra di loro di diversissima natura? La prima non ha bisogno di missione, la seconda sì. La prima noi l' adempiamo con ciò che abbiamo noi stessi, colle nostre forze naturali, coi nostri beni di fortuna, ecc.. Ma per adempiere la seconda l' uomo non trova nella sua natura alcun mezzo, perchè non è opera umana ma divina; non è mai l' uomo, ma Dio solo che converte le anime; e può l' uomo sbracciarsi quanto vuole, può predicare e sudare, ma non fa nulla, se Iddio non accompagna le parole dell' uomo col dono ineffabile ed al tutto gratuito della sua grazia: la quale egli non suole aggiungere alle imprese di que' temerarii che assumono da se stessi il ministero dell' evangelica predicazione e che con sacrilega ignoranza confidano di potere da se stessi colla propria scienza, colla propria eloquenza, col falso zelo da cui si sentono invasi, convertire il mondo. No, no, mio caro Arnoldo, non vi date a credere che il convertire un' anima sia tanto facile come il fare un' elemosina, come assistere un infermo, come consolare un afflitto: queste sante opere di misericordia le possono e le debbono fare tutti i cristiani: sono proporzionate alle forze di tutti quelli che hanno buona volontà. Non così il ministero apostolico, che viene detto dai Padri della Chiesa « angelicis humeris formidandum », anche quando è imposto sulle spalle da Dio medesimo. Come dunque non ne rimarrà oppresso e schiacciato colui, che osa mettervi sotto da se stesso l' omero mortale? Iddio non permetta che nessuno de' nostri cari fratelli e compagni sia tanto ignorante delle cose divine, o tanto orgoglioso da nutrire in capo sì imprudenti pensieri, sì colpevoli attentati. Ascoltatemi adunque, o mio carissimo figlio: pregate sempre il Signore della messe, che mandi i suoi operai sì nella Svizzera, che in tutto il mondo: del resto non date adito nel vostro cuore ad alcun desiderio che turbi il vostro riposo e la vostra tranquillità nel Signore: tagliate i pensieri del futuro: occupate tutto voi stesso nei santi ministeri che la Provvidenza vi ha messo in mano, nel cavare da essi il maggior merito possibile, adempiendoli colla maggior perfezione sì interna che esterna, sopportandone le pene e mortificazioni annesse, e cavandone il maggior gusto spirituale, lodando e ringraziando Iddio ogni giorno e di tutto, e nelle sue mani amorosissime abbandonando tutta la vostra sorte. Dite spesso: « in manibus tuis sortes meae »; e persuadetevi che egli vi ama più che voi amiate voi stesso, e che la sua soavissima Provvidenza dispone ogni avvenimento piccolo e grande per nostro bene: onde non ci è maggior gioia che il conoscerla, che l' amarla, che l' adorarla in tutto ciò che avviene, sia favorevole o contrario alle naturali inclinazioni. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.44 Comincio dal farle le mie scuse, se ho tardato qualche giorno a rispondere alla gratissima sua degli 11 corrente, colpa la mia assenza da Stresa. Ottimamente Ella attribuisce il vacillare di tanta gioventù nella fede e nei costumi all' istruzione e all' educazione dimezzata comunemente in uso, più dimezzata ancora pei giovani destinati alla vita militare. Questo è male irreparabile, se non si rimuove la cagione, riformando l' educazione stessa; e lodevole cosa sarebbe, facendone sentire il difetto a S. Maestà, il religiosissimo nostro Sovrano. Or fino che non si potesse ottenere sì desiderabile mutamento, gioverebbe apporre al male qualche rimedio, confortando le menti e gli animi dei giovanetti, e provvedendoli di solidi principŒ coll' occasione appunto d' insegnare loro gli oggetti prescritti. Fra questi v' ha il Catechismo ; ebbene se ne stenda l' insegnamento in modo da fare loro conoscere prima di tutto la Religione nella sua pienezza, e a questa occasione si sventino le calunnie che le oppongono gli eretici e gli empi che non la conoscono. Questa maniera di apologia, condotta bene, può essere utilissima, come quella che non ammette risposta, trattandosi di verificare semplicemente il fatto, se la Chiesa cattolica e la sua dottrina sia quella che dicono gli eretici e gli empi, e su cui fondano le loro obbiezioni; e la confutazione di queste conduce meglio i giovanetti a penetrare al fondo, e financo a sentire la bellezza della Religione che professano. Non così approverei che nella scuola s' introducessero obbiezioni d' altro genere, che esigono sottile raziocinio e conoscenza delle cose umane, la quale i giovanetti non hanno. Ma quelli che fossero turbati da difficoltà di tale natura, si dovrebbero istruire a parte con somma diligenza e dolcezza. Niente vieta però che in occasione di dare l' istruzione religiosa, si vengano insinuando alcuni de' più necessari e principali principŒ d' una buona logica, quelli appunto che più sembrano opportuni a difesa della Fede, supplendo così alla mancanza della scuola di filosofia. E come questi principŒ di logica religiosa , dirò così, gioverebbero a formare le menti de' giovanetti, così non poco conferirebbe a formare il loro cuore il presentare loro quegli argomenti morali, che dimostrano la Religione nostra a un tempo che vera, bella altresì ed umana, ed utile fin anco alla vita presente. E qui l' insegnamento della storia greca, romana e patria, potrebbe maneggiarsi in modo che consuonasse all' insegnamento religioso e lo confermasse, se il professore di storia non dimenticasse mai di fare il confronto fra i vizi e le miserie delle società pagane, e la virtù e la grandezza delle società cristiane; se moralizzando con opportuni e brevi cenni, s' adoperasse ad imprimere nelle menti giovanili qual sia la vera misura, onde si dee giudicare le azioni degli uomini illustri, quanta vanità si nasconda spesso nelle clamorose loro virtù, e come la grandezza e la celebrità umana non sia che una deploranda illusione, e però non quella a cui il vero virtuoso, il vero grande debba rivolgere i suoi desiderŒ e i suoi sforzi. Anche le belle lettere possono non poco giovare a rendere sana la mente e religioso il cuore, se si fa ben conoscere come elle sono belle e lodevoli solo allora che servono a mettere il vizio in orrore agli uomini, in amore ogni vera virtù. Queste cose spianano la via e dispongono l' anima alla impressione che debbono poi farvi le massime eterne, e specialmente quella, come Ella ben dice, de' giudizi spaventevoli di Dio, e dell' inferno. E a ribadire queste in mente con frutto, gioverà assaissimo l' avere persone atte a dare gli esercizi spirituali con efficacia e degli ottimi confessori. I fatti e gli esempi hanno potere grandissimo sull' animo della gioventù; e poichè Ella brama che Le additi qualche autore che ne contenga, mi sembrano commendevoli le opere dell' abate Carron, che, se non erro, ha anche una raccolta di vite di virtuosi militari. Ella mi dimanda in fine della sua pregiatissima qualche cenno sul modo di educare la numerosa gioventù affidatale dalla Provvidenza, e benchè le angustie di una lettera non permettano di dire delle mille cose l' una, tuttavia per esserle ubbidiente Le dirò parermi ottimo mezzo di educare quello che alla dolcezza congiunge la fermezza e una somma ragionevolezza ; sicchè il giovane debba sempre, almeno nel suo interno, essere persuaso, che l' educatore ha ragione sempre in tutti i punti, ed egli ha sempre il torto: cosa difficile a conseguirsi, poichè richiede somma prudenza in ogni passo, e perfetta coerenza e uguaglianza in tutto ciò che si opera. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.44 Rimanendomi un pocolino di tempo libero fra le occupazioni di questi santi esercizi, voglio scrivere a voi per certa cosa che mi diè noia nell' ultimo fascicolo dell' Amico Cattolico , a voi dico che ben so essere un devoto fervente della Madonna Santissima, che l' avete non solo per madre, come l' abbiamo tutti, ma quasi anche per compatriotta. Or come avete lasciato correre nel detto fascicolo, senza almen farne lamento, che Maria giunta a Betlemme fu sorpresa dai dolori del parto? Non vi offende, non vi strazia orribilmente gli orecchi una tale espressione? Ve ne può essere alcun' altra che sia cotanto, per dir poco, piarum aurium offensiva? La Madonna avere sofferto dolori nel parto del Salvatore? La Vergine che si fa madre di Dio, soggetta alle miserie penali delle altre madri? Or dove avete trovata che sia fatta per Maria la legge, che fu solo intimata ad Eva peccatrice, « in dolore paries »? Non vedete che questa legge incomincia: « multiplicabo aerumnas tuas et conceptus tuos », e che perciò è legata, quasi direi, a quella cagione impura che fa moltiplicare alle altre donne le concezioni, cagione che non potè cadere in Colei che non fu sposa effettiva d' altri che di Dio, coniugio spirituale che nulla ha di carnale, nè madre d' altri che dell' Unigenito di Dio, maternità che non toglie punto la verginità? E non vedete che la medesima legge prosegue a dire: « et sub viri potestate eris, et ipse dominabitur tui (Gen, III, 16) », parole che esprimono di nuovo la cagione de' molteplici concepimenti delle altre donne? Ora Maria a qual mai uomo fu soggetta? Perocchè Giuseppe, giuridicamente suo sposo, la venerava, a non dubitarne, come la sua Signora, e non vedeva certo in essa la sua soggetta. A chi dunque fu soggetta veramente Maria, se non a Colui, di cui disse ella stessa: « Ecco l' ancella del Signore? »Onde se Giuseppe tenne in terra la dignità, se così si vuole, di capo di casa, egli non sostenea tanto ufficio se non considerandosi come un mero vicario o rappresentante dello Sposo celeste, a cui aveva ben di cuore la sua sposa ceduta e tutta sacrata. Tant' è lungi adunque che Maria Santissima possa aver provato alcun dolore in depor al mondo il Sole della giustizia, che anzi io tengo (e credo che voi pure lo terrete meco, perocchè io lo tengo con autorità venerande e con tutti i devoti della gran Vergine) che, allorquando fu compiuto il tempo in cui dovette nascere il Redentore, ella dovette essere sorpresa da gaudio indicibile, da gioie celesti, da rapimento ed estasi amorosa così sublime, che non può da uomo alcuno concepirsi, e che le diede un cotal saggio della superna felicità. No, mio caro, non è da lasciarsi passare una frase caduta, son certo, dalla penna dell' illustre scrittore per mera inavvertenza, ma che stride tuttavia e lacera gli orecchi cristiani; non è da lasciarsi passare, io dico, senza qualche emendazione, ed io prego voi di procurarla questa emendazione a vantaggio de' comuni lettori, ne prego voi per l' amore che voi portate a Maria. Io per me non solo veggo che la divina Scrittura favella sempre in modo da rimuovere da Maria ogni pensiero d' infermità materna, ma ce la mostra divenire madre senz' aiuto di altra persona, e tosto dopo messo al mondo il suo Portato, ella stessa, non usando già dell' opera di Giuseppe, involgerlo ne' poveri pannicelli e colle proprie mani nel presepio acconciarlo, siccome suol fare non già una persona addolorata e ammalata, ma sana e lesta. « Et peperit Filium suum primogenitum, et pannis eum involvit, et reclinavit eum in praesepio (Luc. II, 7) », volle fare tutto da sè. E pure qual dubbio, se avesse avuto bisogno in sì dolce ufficio di alcun aiuto, che Giuseppe non si sarebbe mosso a soccorrerla? Ma che? Non vedete voi in quella vece il buon Giuseppe, che in un angolo della grotticella si sta in silenzio adorando e contemplando il gran mistero, senza pur osare di fare un passo innanzi ed offerir l' opera sua alla sua dolce regina, la quale da sua parte non cede a nessuno de' mortali, non divide con nessuno le materne sollecitudini a cui ella sola, come sola genitrice in terra, ha tutto il diritto? E per darvi maggior prova di quel parlare vigilantissimo della divina Scrittura, tutto ad onor di MARIA, io vo' che facciate un' altra osservazione, e non è l' unica che potrei farvi. Vedete quel luogo dell' Esodo (Cap. XIII) dove Iddio promulga la legge dei primogeniti serbati al sacrificio, e prescrive che il primogenito dell' uomo si riscatti a prezzo. Or bene che ne dite di quella frase: « sanctifica mihi omne primogenitum quod aperit vulvam »? E perchè non si contenta la legge di dire « omne primogenitum », senz' altro aggiungere? Non era chiaro abbastanza? Voi mi direte forse, che la spiegazione che vi si aggiunge è tutta conforme all' indole delle lingue orientali. Ma posciachè le stesse lingue orientali furono ordinate dalla Provvidenza e scelte ad esprimere gli oracoli della divina rivelazione, io non mi trattengo dal dire, che quella frase orientale ed ebraica fu eletta non a caso da Dio, come acconcissima ad esprimere ciò appunto che Dio voleva, fu eletta cioè a limitare quella legge per modo, che ella avesse sì vigore per tutte le madri, venendone nel tempo stesso eccettuata la Madre di Dio, MARIA. E quale espressione potea essere più acconcia a questo intento del divin Legislatore? Senza bisogno di aggiungere alcuna speciale eccezione, nella stessa lettera della legge è già l' eccezione contenuta, con un laconismo veramente legislatorio. Voi potete riscontrare la stessa circospezione di parlare, dove s' intima la legge della purificazione (Levit. XII), le cui espressioni tutte sono tali, che dichiarano quella legge non essere fatta se non per le femmine ordinarie, non già per colei, che senza aver conosciuto mai uomo divenne Madre e restò vergine intemerata. Non dunque da dolori, ma da gaudii ineffabili fu accompagnato il parto della Vergine, di quella che fu sempre « hortus conclusus, fons signatus »: parole registrate nella sacra Scrittura in onore della pura Sposa del Re della celeste Gerusalemme, a cui le applica la Chiesa, di quella per la quale passò il Verbo incarnato siccome raggio solare per cristallo purissimo, come uscì dal sepolcro senza infrangerne punto i suggelli, come penetrò dove erano raccolti gli Apostoli « ianuis clausis »; di quella finalmente che ad altro dolore forse non fu soggetta mai, se non a quello atrocissimo e tutto spirituale, tutto volontario, che le trafisse l' animo come spada, quando compatì il Figlio in croce, e la passione del Figlio fu riflettuta e rinnovata nell' anima della Madre. Io spero, anzi sono certo, che all' illustre e pio autore dell' articolo, dove è scorsa la frase che a me e a voi pure, son certo, mal suona, non possono dispiacere queste mie osservazioni, nè il desiderio che vi manifesto che quella frase sia emendata. Il suo scritto, tacendo del merito dello stile e della erudizione, è pieno di affetto per MARIA, ed io credo che a lui stesso gradir dovrebbe l' udire cosa, da lui forse non saputa, che tanto torna ad onore di quella Eroina che egli descrive e quasi dipinge con sì bei colori di sua eloquenza e di sua divozione. D' altra parte il non essere egli ecclesiastico lo scusa appieno dell' inavvertenza che può benissimo scorrere dalla penna anche di noi ecclesiastici. Laonde, se a voi non gradisse di mandare qualche vostra noticella ai direttori del giornale, io non ho minima difficoltà di permettervi, che li preghiate d' inserire nel prossimo fascicolo la presente mia lettera. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.44 Per esser breve, e soddisfare alle sue diverse interrogazioni, soggiungerò alle sue dimande la risposta: D. Qual autore reputa migliore per dare gli spirituali esercizi? R. S. Ignazio. Sulle tracce di S. Ignazio io misi insieme il libro intitolato: « Manuale dell' esercitatore », che ella potrà vedere nel volume pubblicato col titolo di « Ascetica ». D. Giovano gli esercizi una sola volta all' anno o più? R. In via ordinaria non più d' una volta all' anno; ma se si tratta d' un semplice ritiro di qualche giorno, può giovare assai replicando questo breve e pio ritiro. D. Qual regola particolare mi proporrebbe per mantenere la gioventù nella santa castità? R. Già le regole che danno i maestri di spirito sono eccellenti, nè di altre particolari ne avrei. Pure stimo che l' infondere un pensare elevato, nobile, spirituale, generoso, e insistere sulla purità d' intenzione in tutte le cose che si fanno, e sul buon uso del tempo, giovi più che non si creda all' intento. D. E` meglio reggere i giovani con mite governo o con severità? R. Il mite ragionevol governo, unito alla fermezza dee essere l' ordinario; il rigore dee usarsi come le medicine ne' casi rari e straordinari. D. Qual governo è preferibile nel reggere le comunità religiose, dove sia taluno poco inclinato alla pietà, all' ubbidienza, all' osservanza delle regole? R. E` preferibile quel governo che: 1 Convinca i sudditi che il superiore non opera che per puro amore del loro vero bene, senza alcun puntiglio, nè fine secondario, e con grande umiltà; 2 Che illumini i sudditi, predicando e inculcando assiduamente le verità evangeliche, e dando loro buon esempio; 3 Che dimostri nel superiore un giudizio sicuro e ben maturo, onde egli non parli che cose vere e ben fondate, non interpreti male i fatti, e molto meno le intenzioni, ecc. giovando più una correzione, quando non lascia luogo a scusa, che frequenti correzioni contro le quali il corretto possa concepire scuse plausibili; 4 Che sia fermo nel mantenere la disciplina, ma senza irritazione; e dove la disciplina è rilasciata, cominci ad essere inflessibile sopra alcuni punti essenziali, e di mano in mano diventi rigoroso sopra un numero maggiore di punti disciplinari; 5 Che sia coerente a sè stesso, sempre uguale, con un fine costante in tutte le disposizioni, non si contraddica mai, nè un giorno si mostri debole, dopo che nel precedente si è dimostrato forte; 6 Che sia vigilantissimo, sappia tutto senza mostrar curiosità, accompagni i suoi sudditi co' suoi sguardi in tutti i loro passi, non gli esponga a tentazioni sopra le loro forze, e rimuova da essi i pericoli di dissipazione; 7 Che sia concorde, cioè che i diversi Superiori maggiori o minori abbiano lo stesso spirito ed unità di governo, e l' uno sostenga l' autorità dell' altro nelle cose giuste; . Che sia penetrante, cioè atto ad intendere gli uomini ed i caratteri diversi, e ad ovviare i disordini nei loro principii, facendosi gran conto delle piccole cose, quando queste possono essere seme di maggiori; 9 Che a queste regole del governo ordinario, aggiunga delle scosse straordinarie quando v' è il bisogno; gli esercizi spirituali fatti con tutto il rigore delle regole di S. Ignazio, e dati da un sant' uomo che abbia la discrezione degli spiriti, possono rinnovare lo spirito in un religioso rilassato. D. A mantenere il buono spirito come si fa? R. Presenza continua di Dio, orazione assidua, purità d' intenzione in tutte le opere, occupazioni continue di carità, ecco dei mezzi sicuri da mantenere e crescere lo spirito. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.44 Il P. Provinciale Pagani mi rimise da Roma la lettera che gli avete scritto in data del 23 settembre p. p., e con molta soddisfazione intesi i sentimenti in essa contenuti. Sopra tutto approvo la riflessione che voi fate sull' universalità della carità. Questa è la divisa di Cristo, de' suoi discepoli, della Chiesa, e perciò è anche quella dell' Istituto della Carità. Le nostre Costituzioni prescrivono di seguire in tutto la nostra santa Madre, la Chiesa Romana, anche negli esterni riti e cerimonie, perchè la santa Chiesa Romana ha missione da Cristo di regolare e fissare la disciplina della Chiesa universale; la quale non potrebbe essere universale se non avesse unità, di cui Roma è centro. Se si trattasse di sapere quali sono le più belle vesti e i più bei parati di Chiesa, si potrebbe sostenere che i gotici vincono tutti gli altri in maestà religiosa. Ella sarebbe una questione di gusto, e come i gusti sono diversi, così a certi uomini piacerebbe una forma, a certi altri un' altra, e la uniformità non si potrebbe giammai ottenere: i vestiti e i riti varierebbero in ogni chiesa di una nazione stessa e dello stesso tempo. Volendo seguire questo sistema, si finirebbe con introdurre i capricci della moda nella Chiesa di Dio. Dunque la scelta de' sacri parati non dee essere una questione di gusto, nè può decidersi da chicchessia. E` questione d' istituzione ecclesiastica: gli abiti sacri non possono essere variati, se non da quell' autorità che gli ha istituiti o approvati. Solo in tal modo si può ottenere l' uniformità degli abiti sacri e delle cerimonie, che è un' espressione visibile dell' universalità e dell' unità della Chiesa di Gesù Cristo. Dicendo a voi queste cose, non intendo già di comandarvi che vi opponiate con forza all' inclinazione che si manifesta in cotesto Distretto medio pe' paramenti sacri di stile gotico; rimetto la cosa alla vostra prudenza. Se tutti i nostri Superiori si terranno passivi ed indifferenti, la cosa non andrà molto avanti. Raccomando bensì di predicare opportunamente a tutti i nostri: 1 che la carità di Cristo è universale, ed esclude qualsivoglia egoismo, specialmente il nazionale; 2 che la Chiesa Cattolica è universale come la carità; 3 che la Chiesa universale è fondata nella unità della S. Sede Romana; 4 che gli uomini all' opposto tendono sempre a restringere l' universalità e a spezzare la unità; 5 che l' Istituto nostro, che trae il nome dalla carità di Cristo, dee opporsi alla tendenza degli uomini, e promuovere la causa dell' universalità e dell' unità della Chiesa, coll' universalità della carità. Questa dottrina dolcemente insinuata nelle menti produrrà i frutti desiderati a opportuna stagione. [...OMISSIS...] 1.44 Se ha qualche cosetta da sofferire per amor di Dio, va bene che se ne rallegri, pensando nello stesso tempo a tanti che sofferiranno più di lei. M' è parso sempre un buon pensiero quel di riflettere a chi patisce in ogni momento nelle diverse parti del mondo. Quanti lottano colle agonie della morte, anche violenta! quanti combattono colle più fiere tentazioni! quanti sono martoriati da pene interiori! Noi non conosciamo distintamente quelli che in tante diverse maniere sono angosciati, ma basta anche solo conoscere un po' in generale quanto passa continuamente in questa valle di lagrime, per poter raccogliere che il Signore tratta noi assai dolcemente al paragone, ed essergli grati anche di questo. Supponendo che ella brami che le dica alcuna cosa sui punti della relazione comunicatami, non dubito di farlo colla presente. Sul punto del chiamarsi vittima , Le ho già scritto; e da quello che le ho scritto Ella avrà già inferito, quanto sarei ora per dirle, cioè che io non consiglierei mai ad una società religiosa di pigliare il titolo di vittime del sacro cuore di Gesù , perchè troppo pomposo; giacchè non v' ha cosa nè più grande, nè più onorifica che di essere vittime dell' amor divino. La vittima dell' amor divino è più che santa, è giunta all' apice della perfezione, alla quale non si giugne propriamente che in cielo, dove quelli destinati da Dio ad essere sue vere vittime avranno compito il loro sacrifizio. Ora come nessuno quaggiù in terra può sapere di essere santo, senza un' espressa rivelazione, così molto meno niuno può sapere d' essere vittima, nè dee riputarsi tale, ma solo desiderare di essere. D' altro lato tutto ciò che appartiene alla santità si dee procurare di nasconderlo agli occhi degli uomini: onde come mai tutte le religiose d' una congregazione potrebbero da sè stesse pubblicare che sono vittime del santo amore, e pretendere che gli uomini le chiamino con un titolo così magnifico? Queste buone religiose, imponendo a se stesse una tale denominazione, si canonizzano da sè stesse, mentre per essere canonizzate converrebbe prima che morissero, e poi facessero di que' miracoli solenni e pubblici, sui quali solo la Chiesa istituisce il processo della canonizzazione. Di più, gli uomini non potrebbero in coscienza dare loro un tal titolo, senza esporsi a mentire; perocchè quantunque le religiose fossero persuase di meritare tanto onore, tuttavia, non consterebbe della verità della loro persuasione agli altri uomini, se pur loro non rivelasse Iddio espressamente che tutte quelle religiose sono destinate da lui vittime da immolarsi sull' altare dell' amor suo. Fino dunque che noi viviamo quaggiù in terra pensiamo pure ad amare Iddio, e a divenire vittime del suo amore, domandandone ed aspettandone da lui la grazia; ma non pensiamo a chiamarci con sì bel nome, e molto meno a volere essere così chiamati da tutto il mondo. Se ella si compiacerà di riflettere tranquillamente su tutto ciò, s' accorgerà facilmente che, quanto al titolo di Vittime del sacro cuore da darsi alla istituzione alla quale le parve essere chiamata, altro non può essere stato che un gioco della sua fantasia. Spero che ella abbraccierà questo mio ingenuo sentimento, e l' abbracciarlo le riuscirà di profitto. Non cesserà già per questo di fare il più gran bene ch' ella possa al prossimo, secondo le occasioni che le verranno offerte dalla divina Provvidenza, perchè non v' ha niente di più caro al nostro Signor Gesù Cristo che l' amare ed il fare del bene al prossimo, e specialmente alle anime: l' amor del prossimo è il più sicuro segno e il più bell' esercizio dell' amor di Dio. Dopo di ciò ella mi domanda consiglio intorno alle letture che mi sembrassero a lei più convenienti, e glielo darò in breve. Nessun autore di mistica, nè pure le opere tanto pregevoli di Santa Teresa. Tutto ciò che dicono gli autori, che trattano degli stati d' orazione e delle divine operazioni nell' interno dell' anima, può essere utilmente studiato dai direttori per altrui direzione; ma è di poco profitto, di grande imbarazzo, di difficile intelligenza, ed anche di pericolo alle anime che quelle dottrine vogliono applicare a sè stesse. Il mio e suo S. Francesco raccomandava oltremodo la semplicità in trattando con Dio e cogli uomini, e v' ha gran pericolo di perderla avvolgendosi nelle sottigliezze della mistica. Egli è assai meglio amare, contemplare, pregare il Signore col menomo possibile ritorno sopra di sè stessi, su ciò che avviene nell' anima nostra, o che fa l' anima nostra. Il nostro bene è fuori di noi, è Dio in sè stesso e nel prossimo. Giova dunque pensare a Dio e non a noi stessi; cercare lui specialmente ne' prossimi, e non assottigliarci per misurare i passi nostri, con cui l' andiamo cercando. Esclusi i mistici, a lei sono già noti i più sicuri ascetici e non dubito che ne sia riccamente fornita. Mi restringerò adunque a darle un sol consiglio, quello di leggere abitualmente il « Nuovo Testamento », specialmente le proprie parole di nostro Signor Gesù Cristo, che hanno una soavità e forza infinita, sono adattate ai dotti ed agli indotti, rendono un sapor celeste, prestano un alimento divino, sono della più esatta verità, senza che nessun pensiero umano vi si intrometta, e d' una inesauribile sapienza. Le proprie parole di Gesù Cristo , ecco il cibo a lei adattato, e adattato a noi tutti. Le altre parti del Nuovo Testamento, oltre i Vangeli, servono a intendere meglio le parole di Cristo. Potrebbe anco ricorrere ad alcuni libri dell' Antico Testamento e specialmente ai Salmi, ai libri Sapienziali, a Tobia, Giuditta, Ester, Giobbe, e al Deuteronomio, procurando di ridurre questi libri a Gesù Cristo ed al suo amore: perchè a Cristo veramente tutti si riferiscono: tutti ben intesi lo annunziano e lo celebrano venturo: e insomma alle parole di Cristo Gesù convien sempre ritornare col pensiero, e abitare e riposare in esse con tutta l' anima. In queste parole s' impara massimamente il precetto tutto proprio di Cristo, e nuovo nella sua bocca divina, quello dell' amor del prossimo. A questo gioverà infinitamente, per dirlo di nuovo, ch' ella diriga le principali sue cure e meditazioni. Spero ch' ella mi scuserà, se mi diffondo più del bisogno, e vorrà riconoscere anche in questo, che altro non mi muove che quella carità del Signor nostro in cui ritrovo contenuto ogni bene. Credo però d' avere ora soddisfatto alle sue domande. Resta ch' ella mi compatisca e mi continui quel soccorso d' orazioni, che considero come abbondantissimo conpenso a questa leggera e dolce fatica. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.45 Presumendo il suo permesso, ho confidato a un mio compagno, il sacerdote Pagani, il progetto inviatomi della pia unione, e meco conviene nel riconoscere che l' atto, con cui un cristiano offerisce sè stesso, la propria vita, il proprio sangue a Dio, insieme col sangue e colla vita di Cristo, e coi patimenti di Maria, è il più bello ed eccellente che si possa fare; e però approva in sostanza, che si promuova questa divozione, eccitando i fedeli a praticarla. Ma perchè è molto ardua a farsi con sincerità (cosa importantissima se deve essere buona ed utile), perciò gli sembra da tenersi piuttosto fra pochi, che da propagarsi fra molti, con pericolo che diventi una comune e languida formalità, com' è accaduto ad altre divozioni per sè stesse ottime. Egli anche suggerisce che il titolo della pia unione sia più breve e più semplice; che l' offerta che si stabilisce venga recitata tre volte al giorno dagli ascritti, o almeno una, e che, lasciate le altre regole, all' offerta sussegua il modo di praticarla o, per dir meglio, i sentimenti e gli affetti da cui essa deve essere accompagnata quando si recita; acciocchè essa sia recitata bene, con sincerità d' affetto e cognizione di ciò che importa l' offerire sè stesso al Signore. Che se si volessero aggiungere delle piccole meditazioni o riflessioni sul sangue sparso da Gesù Cristo, sul Sacro Cuore, e sui patimenti di Maria, dove gli stessi sentimenti contenuti nell' offerta venissero più ampiamente esposti in forma di soliloquio, per chi ha comodità di usarne, anche questo potrebbe riuscir vantaggioso. Gesù la ricolmi dell' amor suo; e penso che ciò Le basti. Non cessi di pregare per me e pei sommi bisogni miei propri e di quelli che meco insieme servono il Signore. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.45 Restituisco i manoscritti favoritimi, pieni di fervorosi sentimenti, pei quali ho lodato il Signore da cui provengono. Avendomeli Essa mandati per ubbidire al suo Direttore, il quale pure mi prega di dire il mio parere sulle cose in essi contenute, riconoscendo prima di tutto la mia poca perizia, glielo esporrò con tutta la dovuta sincerità. In generale non dubito punto dire, che Ella si trova, per misericordia del Signore, in sulla buona via, per la quale non è a pensare altro se non che a tirare avanti con prudenza e semplicità. Non disapprovo adunque che continui a scrivere quanto passa nell' anima sua, per sua propria edificazione, e per informazione di quelli che la debbono guidare nel suo cammino. In particolare non feci che poche osservazioni e sono queste: La prima, che per altro calcolo poco o nulla, riguarda certe espressioni colle quali Ella sembra di credere che in certi stati, in cui Le avviene di trovarsi, le potenze del suo spirito sieno oziose: il che non è, mancando solo l' avvertenza delle loro operazioni, ed essendo l' oggetto, in cui sono occupate, generale, onde non ammette discorso e distinzioni. Ma, come dicevo, di questo non faccio caso, perchè ho veduto in altri passi che Ella viene poi a spiegarsi meglio, dicendo presso a poco altrettanto. La seconda è più importante, ed è, che mentre in descrivere certi sentimenti avuti si diffonde notabilmente, pare che mostri della ripugnanza ad esprimersi francamente ed interamente sopra certe altre cose più necessarie a sapersi per chi la deve guidare, e questi sono massimamente tutti quei luoghi, nei quali tocca, sembrarle che Iddio voglia da Lei qualche impresa misteriosa da compirsi fuori del suo Monastero. Fino a tanto che si tratta di opere buone, specialmente riguardanti la carità del prossimo, da farsi restando Ella nel luogo dove Iddio l' ha collocata, converrà esaminare le cose per minuto, ma poi non ci sarà forse difficoltà. Ma non così la penso, se si trattasse di dovere uscire dal luogo, in cui ora felicemente si trova: perocchè, già per questo solo, la cosa dovrebbe tenersi per sospetta, fino a tanto che Iddio non desse delle prove palmari della sua volontà, per esempio, che il Papa gliel' ordinasse; il che non è per ora verosimile. Su di questa materia dunque trovo necessario che Ella ponga ogni cura ad esprimere e manifestare distintamente ciò che passa nell' anima sua, essendo il punto più importante per chi la deve dirigere; a meno che Ella deponesse ogni pensiero di ciò, e la cosa finisse così. La terza osservazione si riferisce alla stessa materia, e mi si presenta forse dal mio non bene intendere il suo pensiero. Quando Ella parla delle vittime che vuole il Signore, parmi che Ella intenda di essere chiamata a fondare un monastero o una società di queste vittime. Ma converrebbe distinguere più cose. Egli è certo, che Iddio ha mandato il suo Verbo a incarnarsi ed immolarsi vittima pei nostri peccati. E` certo ancora, che la missione di Gesù Cristo è appunto questa di fare, che i suoi seguaci diventino simili a lui, vittime immolate sull' altare del divino amore. « « Io sono venuto a portare il fuoco in terra » », Egli disse, e il fuoco è quello che deve incenerire l' olocausto. « « Chi vuol venire dietro di me prenda la sua Croce » », e la croce è il supplicio dove Cristo è morto, e dove i suoi seguaci debbono pure morire. « « Io vi mando come pecore in mezzo ai lupi » » e anche questo, perchè Gesù Cristo voleva dai suoi discepoli il sacrificio di se stessi. S. Paolo vuole, che i Cristiani sieno morti e sepolti con Cristo; e di sè dice, che era crocifisso al mondo, come il mondo a lui. Insomma le Scritture sono piene di questo sentimento, e Iddio ebbe sempre ed ha le sue vittime. Tali furono prima i Santi Martiri, e poi tutti i Santi Confessori, che morirono col cuore a se stessi, e non vissero e non operarono che per Cristo. Questa immolazione adunque di tutto l' uomo in onore del Creatore è il fine della missione di Gesù Cristo e della stessa creazione dell' universo. Felici quelle anime, che possono essere vere vittime bruciate dal fuoco di Cristo e condite del suo sale! Il predicare questa dottrina è cosa santissima, perchè è la dottrina stessa di tutto il Vangelo. Ma dopo di ciò, sarebbe un' altra ricerca da farsi quella « se si potesse fare una vera società di tali vittime ». Primieramente le vittime di Cristo ben sovente non sanno di essere tali: perchè chi può conoscere i secreti del proprio cuore, e sapere con sicurezza, che ci abbia nel fondo, dove non vede che l' occhio di Dio! Di poi, le vittime di Gesù Cristo non soffrirebbero di essere chiamate con questo nome, come appunto i celebri martiri di Lione non soffrivano d' essere chiamati martiri, benchè avessero sofferto moltissimo per Gesù Cristo, perchè dicevano: « non siamo ancor morti, il nostro martirio non è ancor consumato ». In terzo luogo, per formare una società di vittime, converrebbe conoscerle, ma Iddio solo conosce le sue vere vittime, e se l' uomo volesse giudicarle tali, prima di vederle coronate in cielo, andrebbe a rischio di raccogliere degli armenti, che, venuto il tempo dell' immolazione, gli sfuggirebbero dall' altare. In quarto luogo le società religiose hanno per iscopo di prendere gli uomini imperfetti e di aiutarli acciocchè, colla divina grazia, tendano alla perfezione; ma le vittime sono già perfette, non hanno bisogno di essere associate, e nè pure di conoscersi come tali. In quinto luogo, le vittime non si fanno tali se non con quell' ultimo atto di perfezione, col quale immolano se stesse; e quest' atto è l' opera di Dio; onde nessuno al mondo per quanto predicasse, eccitasse al bene o somministrasse i mezzi, che egli può al bene, potrebbe fare una vittima sola: e perciò una società, che s' incaricasse di formare delle vittime usurperebbe l' opera di Dio. Non è dunque possibile, a mio parere, istituire una società con questo titolo che agli uomini spirituali parrebbe ambizioso, ed al mondo, pur troppo, ridicolo. Che cosa adunque sarebbe possibile di fare? Quello stesso che hanno sempre fatto i santi fondatori delle religioni; unire delle persone che aspirano alla perfezione, e dare loro tutti i mezzi al perfezionarsi coll' orazione, colla mortificazione, colla povertà, colla solitudine ecc., eccitarli quanto è possibile al fervore, a non volere che il piacere di Dio, a cercare il più perfetto in ogni cosa, a caricarsi specialmente di tutte le opere di carità verso il prossimo, e dare il proprio sangue in aiuto dei loro prossimi: e in questi ministeri verso i prossimi è appunto dove possono trovare numerose occasioni di fare il sacrificio di se stessi, come l' ha fatto Gesù Cristo per nostro amore e per nostra salvezza, adempiendo così il precetto di Gesù Cristo di amarci scambievolmente, ed adempiendolo con perfezione, cioè spendendovi la vita stessa. E in questi esercizi della carità del prossimo è dove più sicuramente si esercita e spiega la carità verso Dio, non potendovi essere illusione di sorta nel fare ogni bene possibile ai nostri prossimi con fatica, umiliazione, e patimento nostro proprio: purchè sopra tutto anche in tali esercizi abbiamo la guida dell' ubbidienza, che è l' interprete fedele del divino volere. « « Se ci amiamo scambievolmente, dice S. Giovanni, Iddio si tiene in noi, e la carità di lui in noi è perfetta. Figliuolini miei, non amiamo colla parola o colla lingua: ma coll' opera e colla verità dei fatti » ». Or poi se fra queste persone, che si propongono di fare in tutto la volontà sua, e di spendersi a vantaggio dei prossimi, Iddio si sceglierà delle vittime, egli sia benedetto e lodato in eterno: questo è quello che bramiamo e che da lui dimandiamo. Colle orazioni nostre dimandiamo pure dal Signore, che egli mandi il fuoco celeste anche sopra tutto il mondo, e ne riceva l' olocausto in odore di soavità. Da parte nostra, dopo avere fatto quello che possiamo, in lui speriamo, che avrà pietà dei nostri peccati, e in lui riposiamo. Quanto a noi dunque, offriamo pure noi stessi al suo amore, senza crederci perciò già divenuti sue vittime; offriamocegli nel modo, che le scrivevo in sulla fine dell' anno scorso. Eccitiamo anche i prossimi a sì bella offerta, ma senza ingerire loro nell' animo il pensiero di essere divenuti vere vittime; perocchè è da lasciare tutto ciò al Signore; e più tosto procuriamo che tutti si credano ben lontani da tant' altezza. Facciamo, come S. Ignazio martire che solamente quando udì il ruggito dei leoni che doveano divorarlo, pieno d' allegrezza disse: « « Ora incomincio ad essere discepolo di Cristo » ». Eccole, Molto Reverenda Madre, le mie osservazioni. Ora vengo ad informarla dello stato del libretto progettato, che dee contenere gli esercizi per l' offerta di se stessi . Il tempo destinato a questo piccolo lavoro nel passato autunno, mi fu tutto rubato da minuti affari e convenienze a cui la carità non permetteva che mi sottraessi. Sono però desideroso, se a Dio piace, di applicarmi a così dolce fatica: ma quando il potrò? Dio solo lo sa; ma per qualche mese vedo la cosa impossibile. Ella preghi che il Signore, mi dia i lumi, gli affetti, le parole necessarie, acciocchè possa essere utile alle anime. [...OMISSIS...] 1.45 Partecipe delle gentilezze del Conte e più ancora della Contessa Masino, non posso a meno di venire a solvere un doloroso uffizio con Lei, ottima signora Contessa, un uffizio della più sincera condoglianza in questa nuova tribolazione che il Signore Le ha mandato, privandola della più intima persona di sua famiglia che sola Le rimaneva. Il Signore è certo egualmente buono, egualmente saggio anche in questi momenti che colla prova del dolore purifica le anime a lui care, come in altri momenti in cui le ricolma di prosperità e le incoraggia colle consolazioni al suo più fedele servizio. Io so, che Ella piena di Fede, e nutrita delle profonde verità della nostra Religione santissima, consolatrice di tutti i mali, non ha bisogno de' miei conforti, e che sa vincere il dolore della natura coll' altezza dell' animo rassegnato e costante. Anzi mi imagino che, avendo Ella conosciuto intimamente la bontà del cuore e le beneficenze del Conte Masino, a cui non mancarono, come mi fu scritto da Torino, nè pure nell' ultima malattia gli aiuti spirituali dei SS. Sacramenti, Ella raffrenerà la naturale afflizione colla ferma fiducia nella misericordia del Salvatore, che egli si trovi in un luogo assai migliore di questo misero mondo, che anche in mezzo alle illusioni che produce, pure si sente essere una terra d' esilio, un albergo di viaggiatori, o più tosto una mobile tenda nel deserto. E questi amari casi che ci fanno sentire vie più che questa non è la nostra patria, che non abbiamo quaggiù una città permanente, destano nelle anime buone come Lei, mia Signora Contessa, un indefinibile sentimento di speranza e un sospiro verso cose migliori e non periture, che ben dimostra quello che è stato detto ancora, che come in seno ai piaceri spunta la spina del dolore, così in seno ai dolori nasce pei veri Cristiani la rosa bella e fragrante della spirituale consolazione. E quel che è più, le disgrazie nostre temporali ci migliorano il cuore, ce lo fanno più umile, più dolce, più caritatevole, più distaccato ed anzi disgustato delle vanità. Onde il Signore che ama i suoi d' un amore perfetto, che ha per oggetto il loro miglioramento spirituale, permette che sieno così sbattuti, e si compiace di quel combattimento fra la natura e la grazia, in cui egli li vede valenti e trionfanti: ed anzi li fa tali egli stesso. Chi non ha più in terra le persone in cui riponeva i suoi legittimi affetti, questi ha più diritto di chiamare Iddio suo protettore, suo padre, suo sposo; chi è sciolto dai vincoli umani, benchè carissimi, questi ha acquistato una maggiore libertà di darsi a Dio e di consecrarsi a tutte le opere della carità e della pietà. Onde S. Paolo parlando della donna che non ha marito, dice che « pensa quelle cose che sono del Signore, ad essere santa di corpo e di spirito ». Certo che, essendo noi vestiti di corpo, quando ci viene rapita dai sensi nostri un' amata persona, non vedendola più, nè udendola parlare, nè potendo noi più parlare a Lei; ci sembra d' averla intieramente perduta. Ma quant' è più sublime il senso della Fede! Questa ci dice tutto il contrario, questa ci assicura che ciò che è perduto della cara persona è il meno, è un nulla in paragone di ciò che s' è conservato: la persona desiderata vive ancora, e non ha fatto che deporre la veste, una veste logora, sdruscita, già non più degna d' esser portata, e tuttavia questa veste non l' ha dismessa per sempre, ossia l' ha dismessa per cangiarla poscia in una nuova, magnifica, nuziale, che non prende più macchia, nè si lacera più, nè si corrode dalle tignuole, nè si consuma dal tempo, e che sempre nuova e bella rimane in eterno. Nè periscono gli affetti della persona resa invisibile ai nostri sguardi carnali, nè la memoria; ma ella pensa a noi ancora, e ci ama di più puro amore, ed è grata ai benefizi ricevuti nella pristina vita, ed è potente per rimeritarceli; perocchè ella sta vicina al trono della grazia e della misericordia. Ed è scambievole tuttavia il commercio degli affetti del cuore, perchè anche noi saliamo coll' ali del nostro spirito e della nostra fede fino a lei e, se ha bisogno ancora di noi, possiamo prestarle i più amorevoli e preziosi uffizi colle nostre orazioni ed opere buone; e, se non ne ha più bisogno, possiamo contemplarla colla speranza nostra nella sua altissima felicità e gloria, e compiacercene, ed esultarne nello spirito del Signore, e renderne a Dio misericordioso le grazie più vive. Ed anzi l' una e l' altra di queste due cose possiamo e dobbiamo fare ad un tempo, secondo la disposizione e l' invito del nostro cuore. Poichè anche quando le virtù conosciute delle persone passate di questa vita ci danno piena fiducia della loro salvezza, non possiamo però presumere che questa povera umanità sia comparita dinanzi all' Essere santissimo priva d' ogni legger mancamento da scontare e purgare; e però dobbiamo suffragarla, se mai di suffragi avesse bisogno. E quanto a me ben Le prometto, mia ottima Signora Contessa, che lo farò, e lo farò fare dai miei compagni, e da questi ottimi Novizii, e sopra tutto dalle nostre Suore della Providenza che tanto debbono a Lei, e che La venerano come madre. Che se il buon defunto non avesse bisogno di questi spirituali soccorsi, il Signore ne accetterà l' offerta a vantaggio della Signora Contessa, acciocchè sulla sua afflizione sparga la grazia, e, buona com' è, vie più la santifichi. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.45 Mi congratulo che Ella sia fatto Rettore di cotesto venerato Seminario, perchè questa è una buona occasione che la divina Provvidenza Le mette in mano di poter fare un gran bene alla Chiesa di G. C.. Ma non mi fa stupore l' intendere, che Ella si trovi in molte perplessità e dubbiezze circa la maniera di condurre un sì importante Istituto, in cui si formano ai più sacri ministeri i giovani leviti. E` già un bel lume che le dà il Signore quel di sentire le difficoltà dell' impresa e il bisogno urgentissimo ne' nostri tempi di riformare l' ecclesiastica educazione. Il clero oggidì, parlando in generale, è debole, pur troppo, prostrato e avvilito, rincontro a un secolo che tanto esige da lui: da sè stesso si è ridotto così malamente; ed una delle più grandi e delle più prossime cagioni fu il meschino disegno, le anguste proporzioni a cui si ridusse l' istituzione ne' Seminari. Vorrei poter versare nel suo seno tutto ciò che sento nel mio su questo argomento, se potesse capirsi in una lettera; e perciò attutendo quel sentimento ch' io provo di continuo, direi quasi, di sdegno, Le dirò in quella vece qualche parola almeno in generale, che risponda alla sua generale dimanda. La base immobile dell' educazione ecclesiastica è la SANTITA`. Ah quanto poco s' intende questo principio vitale e sostanziale! quanto facilmente ci si contenta ne' chierici d' una bontà mediocre, d' una vocazione ingombra e macchiata di fini umani, a cui l' acquisto d' un benefizio, d' un posto lucroso, d' uno stato onorevole secondo il mondo, agiato secondo il senso, è termine e scopo principale per non dir unico! Quanto poco si va al fondo per scrutinare la coscienza dei chierici; ond' entrano nel sacerdozio assai spesso schiavi di perverse abitudini, ignari del gravissimo incarico che egli è, con una maniera di pensare bassa, ignobile ed egoista, senza alcun amore agli studi, con amor grandissimo all' ozio, leggieri, mondani, senz' alcuna sodezza di vera virtù! Privi della coscienza della propria dignità, senza pur intendere la propria abbiezione, molti giovani sacerdoti, forse appena usciti da' Seminari, sottopongono le spalle a delicati offici di cura d' anime, delle quali non conoscono il prezzo, e perdendone molte perdon sè stessi. Di che io voglio raccogliere che la persona più di tutte importante in un Seminario è il Direttore spirituale, senza il quale è impossibile farne alcun bene; e vuol essere uomo di gran pietà e di molta testa altresì, giacchè le teste piccole guastano con ottimi fini. Soggiungerò a questa un' altra generale osservazione, ed è che il Rettore, per quantunque grand' uomo egli sia, non può cavare gran frutto dal suo governo senza che gli altri sacerdoti che lo coadiuvano sieno bene scelti, ciascuno a suo posto, e formino con essolui buona unione, per la quale il piano che viene abbracciato si possa eseguire con unità di pensiero e consenso di operazioni. Dopo la santità, radice e fonte d' ogni vero pregio ecclesiastico, viene la dottrina, la quale ne' Seminari si dà ai tempi nostri troppo mutilata, anzi pur come squarci di un cadavere. E mentre il sacerdote di questo tempo dovrebbe saper di tutto, neppure s' istituisce solidamente nella sacra teologia, dalla quale si troncano le più vitali questioni, credendole inutili alla pratica, quando esse anzi sono della pratica stessa la vita e la forza; e talora si assolvono i chierici dallo studio della dogmatica, senza dare pur loro altra morale, che quella de' soliti trattatisti, tutti volti a decidere ciò che è o che non è peccato in uso de' confessori, ma poveri di ciò che riguarda l' alta idea della virtù, e della vita virtuosa, e dell' evangelica perfezione. Onde gli studi, debbono essere, mio egregio signor Rettore, troppo più ampi che non si costuma ne' Seminari a' dì nostri; ed io credo che la sua penetrazione volesse forse alludere a questo difetto, quando mi accennava le sue perplessità ed i suoi timori. Ottimo è il pensiero che Le venne d' introdurre una Cattedra di scienza pastorale e di sacra eloquenza; ma queste scienze, e specialmente quella che insegna a praticare il pastoral ministero, dovrebbe formare il riassunto e quasi la corona di tutte l' altre; giacchè al pastore dell' anime viene il bisogno d' avere alla mano ed applicare ai casi tutte le cognizioni raccolte dallo studio delle varie scienze teologiche e delle ausiliarie. Per l' insegnamento di questa scienza gioverebbe trovare un uomo dotto in tutta la teologia, di gran pratica della cura dell' anime, fornito di naturale prudenza e di gran zelo; acciocchè potesse informare i suoi uditori. Ma non più, benchè l' argomento troppo più richiederebbe. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.45 Nel giornale francese « L' ami de la Religion », 6 novembre 1.45, è riportata una lettera sulla conversione al cattolicismo del dottor Newman, e viene attribuita a V. S.. Io pensai che, se questa lettera è veramente sua, a Lei non dispiacerà che io soddisfi al bisogno del mio cuore che brama farle conoscere quanta consolazione in me e in molti de' miei amici ne abbia prodotto la lettura. La confidenza che Ella ripone nella preghiera, l' esclusione dell' eresia, come di un ostacolo dell' unione, il desiderio d' essere guidato dallo spirito di Dio nella verità, l' uniformità al divin volere, la speranza viva nella divina misericordia, e la sete della giustizia e della santità sono altrettanti doni del Signore, di cui la sua lettera contiene una non dubbia espressione. Voglia Ella dunque permettere, che un sacerdote cattolico del continente, che, nella carità del Signore, La considera come fratello, Le apra tutto intero il sentimento, che provò in leggendo quella sua lettera. Soprattutto il consolò l' intendere ch' Ella riconosce la potestà delle chiavi lasciata da GESU` Cristo alla sua Chiesa, e non potè a meno di dire seco stesso: « Sì, il buon Dio, che ha dati tanti lumi a quest' amico sincero della verità, gli farà anche conoscere, che la divisione dell' Inghilterra dalla Chiesa cattolica è avvenuta per un atto di questa potestà ». Quando io lessi nella medesima lettera, che ciò che tiene lontane dalla Chiesa cattolica le persone religiose d' Inghilterra, non sono le dottrine, ma alcune pratiche della Chiesa Romana, io ho concepito la più viva speranza, che Iddio, compiendo le sue misericordie, farà conoscere altresì a tali persone che la Chiesa Romana, che si professa nemica di ogni superstizione, non approva ciò che potrebbe esservi di men retto nelle pratiche di alcuni individui cattolici; e molte pratiche che in se stesse non sono cattive, salvo il dogma, non le impone come obbligatorie ai fedeli. Sì, tutti noi cattolici, da ogni parte del mondo, abbiamo ora rivolti gli occhi a cotesta illustre terra inglese, e facciamo incessanti e concordi preghiere, perchè il Signore voglia compire le sue misericordie sopra di quella, e speriamo, che quando il Signore, venuto il tempo, ci avrà esauditi, rinnestando questo tralcio separato nella vite del Supremo Padrone, la quale non può essere che unica, secondo le parole di Gesù Cristo; allora questo tralcio debba dare « fructum plurimum »: noi siamo persuasi, che Iddio prediliga cotest' Isola, e che il suo santo Spirito, spirito d' unione, operi in molte persone di buona fede, che pregano il Signore nella rettitudine del loro cuore, e che quest' operazione divina non potendo rimanere imperfetta, condurrà tali persone all' unità. Noi bramiamo che tutte queste persone possano prima di morire arrivare a quest' unità, verso cui sono mosse dal divino Spirito, senza però che il loro libero arbitrio rimanga legato. Specialmente noi lo bramiamo e lo speriamo per quelle che, riconoscendo già il potere delle chiavi, possono invocarlo e dimandare che loro sia aperto, se prima fu loro chiuso, e, riconoscendo il potere di legare e di sciogliere, possono dimandare d' essere slegati, se prima furono legati; il che appunto fece colui, nel quale V. R. nella sua lettera riconosce che operò lo spirito di verità. Questo spirito di Dio certamente lo illuminò a vedere che, se nella Chiesa non vi fosse un poter supremo delle chiavi, ma questo potere fosse dato a molti in egual grado o alle stesse condizioni; egli sarebbe esposto al disprezzo, e riuscirebbe incerto ed inutile, perchè mentre l' uno chiuderebbe, l' altro aprirebbe; mentre l' uno legherebbe, l' altro slegherebbe; si legherebbe e si slegherebbe a vicenda. Io confido nella retta intelligenza di V. R. e nel lume che Le dà e Le darà il Signore, che Ella riconoscerà come una verità di fatto, che quelli che rientrano nella Chiesa Romana, non solo riconoscono il potere delle Chiavi, ma il poter supremo delle Chiavi in S. Pietro e ne' suoi successori, avendo GESU` Cristo consegnate le chiavi nominatamente a quest' Apostolo, e impetrano che questo potere supremo delle chiavi apra loro la porta del regno de' cieli, che prima era loro chiusa. Questo è il fatto, tale è la loro credenza. Se questa loro credenza fosse falsa, sarebbe un' eresìa; ed Ella stessa riconosce che nella Chiesa Romana eresìe non ve ne sono. Se fosse un' eresìa, od anche semplicemente un errore professato da tutta la Chiesa Romana, come lo spirito del Signore avrebbe condotto nell' errore colui, di cui Ella parla nella sua lettera, ed altri, in cui Ella stessa riconosce l' operazione e la volontà di Dio? E se in tali persone la grazia del Signore, data probabilmente alle loro ed alle altrui preghiere, com' Ella giustamente osserva, produsse questo frutto; non è egli da credersi, che i bei semi che si sviluppano nel seno della Chiesa anglicana, siano appunto doni di Dio, che non abbandona le anime religiose di questa chiesa, per condurle soavemente allo stesso termine, cioè nell' unico ovile dell' unico Pastore? Che se non si può negare che la separazione dell' Inghilterra si operò per un atto della podestà delle chiavi, non si può nè pur negare che vi avesse una giusta ragione per un tal atto, cioè l' eresia che Ella, col lume datole dal Signore, riconosce esistere, più o meno, nel seno della chiesa anglicana. Non si può negare che l' eresia fu considerata sempre nella Chiesa per un giusto motivo di separarne le parti infette, privandole della comunione ecclesiastica, e che i fedeli, in un tal caso, si riconobbero sempre gravemente obbligati di tenersi uniti colla parte sana della Chiesa, dividendosi dall' altra; come pure è certo che la parte divisa dalla Chiesa non può esservi ricongiunta, se non per un altro atto della potestà delle chiavi che riapra loro la porta. Dio pur volesse che tutti i Vescovi separati che sono in Inghilterra, insieme colle loro diocesi, venissero all' unità! E parmi che il suo cuore, pieno di zelo per la gloria di Dio, miri a questo, ed aspetti questo, e lo solleciti colle sue preghiere. Se il Signore la esaudirà, noi ne benediremo tutti insieme con Lei il Signore in eterno! Ma se qualcheduno fosse chiamato dal Signore alla prima, alla terza, o alla sesta ora della giornata, io non vorrei che egli aspettasse a venire a lavorare nella vigna del Padrone per entrarvi insieme con quelli che fossero chiamati all' ora undecima. Quando il Signore chiama un popolo, suol nascere una specie di giudizio, una separazione fra quelli che egli assume e quelli che egli lascia: difficilmente rispondono tutti alla chiamata, « quidam credebant his, quae dicebantur, quidam vero non credebant »: i primi fanno la strada agli altri. Io credo che quelli che si unirono testè alla Chiesa cattolica, abbiano trovata la via più sicura e più breve di ristorare a nuova vita la chiesa anglicana. Le mie preghiere, o piuttosto quelle di noi tutti cattolici tendono a questo: ma noi preghiamo specialmente per colui, di cui il Signore si servì e si serve per purificare la chiesa anglicana dall' eresìa, per mezzo del quale ha fatto nascere in essa un movimento sì consolante: noi preghiamo caldamente, acciocchè il Signore si degni di fare divenire costui una di quelle pecore che affidò a Pietro, quando gli disse: « « Pasci le mie pecore » ». [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.46 Il P. Molinari mi avea pur troppo reso consapevole del pericoloso stato dell' ottima Signora Marchesa, sua madre, e preparato a sentire d' un giorno all' altro il doloroso annunzio, ch' ella ci ha abbandonati. Mi figuravo il dolore di tutta l' egregia famiglia, e particolarmente l' afflizione del mio carissimo amico Gustavo, di cui troppo conosco il tenero cuore. Ed ecco la sua lettera, che m' annunzia compiuta la trista aspettazione. Quell' ottima Signora adunque, delizia de' suoi congiunti, ornata di tanta carità, piena di tanta fede e ricca di tanta pietà, non è più visibile agli occhi nostri, non si trattiene più con noi in famigliari e virtuosi colloqui, non più appare qual centro, intorno a cui consorte, figliuoli ed amici si trovavano così volentieri uniti, e con sì virtuoso affetto! Ah diamo pure il suo tributo di lagrime alla natura che si risente della grave sua perdita; e poi diciamo col più famoso esemplare di religiosa fortezza che presentasse il tempo antico: « Dominus dedit, Dominus abstulit; sit nomen Domini benedictum! » Tale è certo l' esclamazione, che avrà già fatto più volte, con tutta la sincerità del religioso suo cuore, il mio carissimo marchese Gustavo, di cui ho prova nella stessa sua lettera: e quanta soavità di conforto non avrà già gustato! Quale salubrità di balsamo non è egli questo versato dalla fede nelle piaghe sanguinanti della natura! La volontà di Dio: che sublime parola! che luce per l' intelletto che conosce ed ama Dio! che bene ineffabile ed infinito che supplisce e compensa ogni altro bene! Oh volontà santissima, volontà sapientissima ed ottima, fuori della quale anzi non è più bene, ma sola illusione di bene, fiat, fiat! Oh adesione fortunatissima del nostro volere col volere sommamente buono, unicamente buono e perfetto dell' Onnipotente, adesione che trasforma in beni tutti i mali, in felici avventure tutte le umane calamità! Tali sono i sentimenti che io veggo in Lei, mio caro Marchese, e di cui io pure traggo come in questa, così in ogni altra sciagura temporale, indicibil sollievo, ineffabile consolazione. Ed ora specialmente mi è oltre misura caro il pensiero di avere questo conforto con Lei indiviso, al cui dolore partecipo. Ma dobbiamo ancora non poco rallegrarci considerando con che pietà la Signora Marchesa compì la sua carriera mortale, avendomi il P. Molinari raccontato con quale fortezza si faceva incontro al suo fine, con quanta sollecitudine dimandò e con quanta divozione ricevette i Sacramenti della Chiesa, e quanto rassegnata e sperante mutò questo albergo transitorio colla patria intrasmutabile. Onde se noi rimaniam privi per brev' ora di Lei, ella non rimane però priva nè di Dio, nè di noi, che in Dio ci rinviene e possiede. Che se qualche leggera macchia tenesse questa carissima anima, che fu viatrice per questo cammino del mondo, tutto fango e belletta, dove è sì difficile andare senza imbrattarsi ed è pure difficile nettarsene interamente, ancora lontana dalla visione della faccia del suo Creatore, a cui non può essere ammesso chi sia della luce men puro: il Signor nostro Gesù Cristo nella sua immensa bontà ci ha lasciati anche i mezzi efficaci per accelerare, coll' applicazione de' suoi meriti, la purificazione delle anime trapassate e renderle degne del suo cospetto. Ed anche questa istituzione divina e questa efficacia, che ci attesta la fede delle orazioni, e dei suffragi, e delle buone opere a vantaggio de' nostri cari defunti, è pur cosa preziosissima pei passati e consolantissima pei superstiti che possono accelerare il momento della beatitudine di quelle anime. Io unirò certamente le mie povere preci alle sue ed a quelle della famiglia, e anzi vengo pur ora (giacchè ho dovuto interrompere ier sera questa lettera) dall' aver celebrata la Santa Messa in suffragio dell' anima della Signora Marchesa, e così farò pur fare de' suffragi a' Sacerdoti miei ed alle nostre buone Suore della Provvidenza. Se si considera con viva fede che cosa sia la visione beatifica, oh quanta voglia viene d' invidiar santamente quelle anime, che già la godono! e quanto sdegno nasce contro la fiacca nostra natura che vorrebbe piangere di ciò che era pur necessario che avvenisse perchè fossero felici! Quanto stimolo altresì possiamo cavare da sì duri avvenimenti per istaccarci e liberarci vieppiù dalla servitù delle cose visibili ed unirci con Dio, considerando il tempo della vita presente come datoci dalla Provvidenza per fare il maggior bene possibile a' nostri prossimi e così ottenerci poi il riposo di un' eterna felicità! Le parole di S. Paolo: « dum tempus habemus operemur bonum », saranno forse corse al suo pensiero in questi momenti, come occorrono al mio. Mi imagino pur troppo quanto sentiranno vivamente la perdita fatta l' egregio Signor Marchese suo Padre, e l' ottima sua ava. La prego di presentar loro, come pure al Conte Camillo, le mie condoglianze più sincere. Potessi essere a Torino e dar loro qualche conforto! Ma sono anch' essi sì religiosi, che troveranno nella mano che flagella la mano altresì che copiosamente consola. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.46 Io spero che vedrò il sig. Newman, che Ella menziona nella venerata sua lettera, al ritorno di lui da Roma. Manzoni mi recò la lettera di Phillipps, che me lo raccomandava, qui a Stresa, e mi duole di non aver avuto occasione di prestargli qualche servizio da queste parti. Del resto ciò che Ella dice della sommissione di noi Fratelli della Carità all' Ordine gerarchico, ella è un punto capitale del nostro Istituto. Ho ben veduto che un Istituto generale non potrebbe esistere, se fosse, assolutamente parlando, soggetto alla giurisdizione dei Vescovi delle singole diocesi, ciascun de' quali pensa naturalmente pel suo gregge, e non allo stesso grado pel bene generale della Chiesa, che più importa, e che dee formar lo scopo di un tale Istituto; ho conosciuto che gli Ordinari delle diocesi non potrebbero reggere un Istituto colle stesse massime, collo stesso spirito, con perfetta concordia d' azione, e quel che è più, che, occupati nella cura esteriore delle anime, non avanza loro tempo (nella presente condizione di cose) per coltivare, quanto importa, la vita religiosa ed interna de' membri d' una tale società, che è pur la radice ed il fondamento delle virtù e delle opere esteriori. Ma d' altra parte, essendo essi i legittimi successori degli Apostoli, avendo la missione da GESU` Cristo, chi mai potrebbe, secondo una retta dottrina, voler operare qualche cosa nella Chiesa, senza la loro direzione, senza esser mandati da essi? Procurai dunque nell' Istituto della Carità di conciliare questa sommissione, obbedienza e religiosa servitù all' ordine gerarchico colla universalità dell' Istituto, colla indipendenza necessaria per poter esistere in un corpo ben unito, e perciò stesso forte, ordinato al di dentro e animato da un solo spirito, senza pericolo che ne venisse a patire la vita e la perfezione interiore. Ad ottenere tale doppio intento l' Istituto fu esentato dalla giurisdizione vescovile, acciocchè i propri Superiori potessero liberamente occuparsi a formare i loro soggetti alla santità; ma ebbe in pari tempo per sua regola e massima fondamentale di considerarsi come professore di vita ritirata e nascosta, aspettando dalla Provvidenza le occasioni di esercitare la carità, senza cercarle, e aspettando dai Prelati della Chiesa la missione necessaria per esercitare la cura delle anime e la predicazione apostolica; esercitando in tutto e per tutto questi ministeri secondo il voler dei Vescovi e prestandosi in ogni cosa di carità alle loro domande preferibilmente a quelle di qualsivoglia altra persona. E poichè, qualora i Parrochi e Vescovi fossero dell' Istituto stesso, cesserebbe ogni difficoltà; perciò fu pure stabilito come regola precipua, che qualora alcuno dell' Istituto fosse chiamato da Dio alla cura d' una parrocchia, egli fosse parroco e ad un tempo Superiore nato di tutto l' Istituto entro i confini della parrocchia, e così se fosse innalzato al vescovato, egli sarebbe Vescovo ad un tempo e Superiore nato di tutto l' Istituto entro i confini della diocesi. Ciò deve sempre aver luogo, verificandosi alcune condizioni stabilite dalle Costituzioni. Così l' Istituto è diviso per parrocchie, diocesi, provincie ecc., divisione rispondente a quella dell' Ordine gerarchico a cui deve servire. Venendo ora al discorso de' riti orientali, che è il principale oggetto della venerata sua lettera, niente affatto dubito di confidare alla sua prudenza ed amicizia la mia maniera di sentire; ed ecco qual' è. L' attaccamento dei varŒ popoli ai loro riti è così grande, e, se mi permette di dire, così cieco, che io credo che sarebbe impossibile di far rientrare nella Chiesa le nazioni scismatiche ed eretiche dell' Oriente, quando si pretendesse di farle nello stesso tempo cangiar di rito, inducendole al rito latino od altro; o almeno io giudico che per tali nazioni sarebbe uno sforzo assai più difficile mutar di rito, che mutar di fede. L' attenta osservazione del fatto lo prova a qualunque uomo che sappia osservare. Quindi la sapienza della Chiesa e della S. Sede raccomandò sempre a' Missionari che i riti orientali fossero rispettati: Ella conosce in particolare i Decreti di Benedetto XIV. Posto dunque questo sommo attaccamento alle antiche e venerabili liturgie de' popoli orientali, posto altresì l' efficacia del pubblico culto sul sentimento religioso, io credo, che una delle principali massime della Chiesa Cattolica nell' opera d' invitare a sè que' Cristiani che sono fuori del suo seno, debba essere e sia di mantenere o restituire a quei riti tutta la dignità che possono aver perduta agli occhi dell' Occidente, com' Ella dice egregiamente. Stimo del pari che sia un felicissimo pensiero quello che mi accenna, l' introdurre i diversi riti fra i membri delle Congregazioni cattoliche destinati a diventar Missionari e Pastori di quelle pecore sbrancate. Per riguardo all' Istituto della Carità basta il nome che porta a far risposta alla sua dimanda, basta il motto che lo caratterizza omnibus omnia . Ma acciocchè non nascesse confusione da tale provvedimento si dovrebbero istituire collegi di missionari, destinati a vantaggio di que' popoli che professano quei riti. E l' Istituto della Carità a ciò sarebbe disposto tanto più, che egli suole dividere i suoi membri in altrettanti collegi, quante sono le opere principali di Carità ch' egli esercita. Onde sarebbe cosa tutta conforme alla sua istituzione e al suo spirito che v' avesse, poniamo, un Collegio di Missionari pei Russi, uno pei Greci, uno per gli Armeni, e così discorrendo per le diverse chiese scismatiche di rito diverso. Vero è che nella regola nostra si dice che i membri dell' Istituto usano il rito romano; ma questo fu detto unicamente per escludere i diversi riti occidentali, che discordano dal romano, essendo troppo desiderabile che l' Occidente abbia un rito solo; ma non fu detto per escludere i riti orientali. Per altro, come Ella osserva, dovrebbe sempre intervenire in ciò la facoltà e l' approvazione della S. Sede Apostolica. Noi non cesseremo di pregare il Signore, che le eccellenti vedute di Lei e l' ardente suo zelo per l' avvenimento del suo regno apportino un frutto abbondantissimo. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.47 Voi volete qualche indirizzo che vi scorga a ben giudicare delle cose presenti. Io non dubito che il movimento italiano sia ordinato da Dio a trionfo della sua Chiesa: ma anch' egli è un conflitto de' più opposti elementi, e la luce e le tenebre pugnano mescolati insieme, e pugnano a morte. Fra i campioni dell' inferno e quelli del cielo v' ha un partito mezzano simile a quello « degli Angeli che non furon ribelli, nè fur fedeli a Dio, ma per se foro (Dante) ». E benchè anche i primi sappiano qual sia l' arte dell' ipocrisia raffinata, tuttavia egli è men difficile guardarsi da essi che non sia giudicare rettamente di quelli che occupando il mezzo, partecipano dei due estremi. Per additarvene il carattere mi basta che voi consideriate quelle parole che Cesare Balbo pose in fronte al suo libro delle « Speranze »: «porro unum est necessarium ». A costoro l' un necessario non è più liberare l' anima dalla servitù del peccato, ma liberare l' Italia dalla servitù degli Austriaci. Dal qual principio logicamente procede che gli si può dare tutto, anche l' anima, per ottenere, quell' uno necessario; quindi agli occhi o almeno nella pratica di costoro, tutti i mezzi sono buoni per arrivare a quell' uno. Questo principio spiega maravigliosamente i loro costumi: bugie, calunnie, artifizi, sommovimento di passioni popolari, adulazioni, latrati, seminazioni di odŒ e di astŒ sopratutto nel clero, schiavitù della Chiesa, provocazioni alla violenza e alla guerra ecc.: tutto è buono, tutto è santo, tutto è perfettamente cristiano per ottenere il grand' uno necessario del loro nuovo cristianesimo, del loro nuovo evangelio. Da questo voi potete raccogliere che è una somma grazia che Iddio ci fece traendoci fuori dal caos di questo mondo e mettendoci in un cantuccio al sicuro da tanti inganni che avremmo potuto prendere, e da tante occasioni nelle quali avremmo potuto offenderlo. Per me ne giubilo, e non ho lingua da ringraziarnelo a sufficienza. Del rimanente ancora io vi ripeto essere io persuasissimo che tutto ciò che accade di bene e di male, mosso o permesso dall' altissima Provvidenza, tutto sarà in fine condotto ad uno dei più splendidi trionfi e delle più magnifiche glorie della sua Chiesa. Noi, e come cristiani e come italiani e come sacerdoti e come religiosi, potremo aiutare grandemente il felice esito del terribile dramma combattendo coll' orazione incessante, e con una diligenza, una carità vie maggiore nell' adempimento di tutti i nostri doveri. Per questa via le due parti, in cui non voi solo, mio dolcissimo, ma tutti siamo pur troppo divisi, diverranno un solo tutto; o almeno quella che è degna di vincere, vincerà e dominerà l' altra, che n' è indegna e che perirà come merita, lasciando che la prima s' integri e si compia in Dio suo principio, ove tutto ritrova, onde tutto ricupera. Nella separazione dal mondo, nella dolce pace della solitudine aspirando alla patria celeste, gioveremo alla patria terrena, perocchè i flagelli delle nazioni vengono dai peccati degli uomini; e dalla fede, dalla speranza, dall' amore, dalle sopraumane virtù vengono chiamate tutte le benedizioni sopra di esse. Ecco l' indirizzo che do a me stesso, e che do a voi, mio dolcissimo: [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.47 Rilevo dalla cara sua lettera che il Signore sapientissimo ed ottimo lavora dentro e fuori di Lei, e tutto dispone acciocchè Ella, distaccato da tutto l' universo, tutto a lui si consacri ed alla carità che è lui stesso. « Deus Charitas est . » A lui solo onore e gloria. Tanta grazia, che Iddio vuol fare a Lei, la desidero e prego a tutti, acciocchè sia fatta in terra la volontà del Creatore nostro com' ella è fatta nel cielo. Non badi alle parole ancorchè buone in se stesse, e di buoni, e fatte per bene, o sub specie boni , che la potessero raffreddare o disviare da quel santo proponimento in cui Ella ha posto la mira, e a cui non conduce, nè invita le anime giammai il nemico dell' anime. E se il movimento non può venire da di giù, dunque viene da di su; ne stia certo. Ella mi domanda alcune ragioni che persuadano come giovi sommettersi al giogo di una ubbidienza pienissima, qual si pratica nell' Istituto della carità, e vorrei scriverne un librettino, se avessi tempo, ma eccone alcune delle principali: 1 Il sentimento costante della Chiesa e specialmente di tutti i Santi schierati in ogni secolo, e per nominarne due soli, di san Basilio che raccolse le tradizioni orientali, e di san Benedetto che raccolse le tradizioni occidentali. 2 Le parole di Gesù Cristo: « qui vos audit, me audit »; le quali furono costantemente intese anche dell' ubbidienza religiosa « usque ad sanguinem », attesochè i Superiori degli Istituti approvati da' Sommi Pontefici ricevono dalla Chiesa l' autorità in quel modo che viene dichiarata nelle regole. 3 L' essere l' ubbidienza descritta la maggiore umiliazione ed annegazione dell' uomo, e però il contenere in sè l' adempimento compiuto delle parole di Gesù Cristo: « Qui vult venire post me, abneget semetipsum »; quindi ella ha un merito intrinseco, indipendente affatto dall' oggetto intorno a cui si esercita, o dall' essere prudente o non prudente il comando del superiore, purchè quanto viene comandato sia onesto; il vero bene sta nel prezzo morale dell' atto, non nella materia intorno a cui s' esercita; e la perfezione consiste nel cercare solo il vero bene, il valore morale. 4 L' umiltà , che è virtù evangelica intrinsecamente buona e perfetta, e che adduce un bassissimo concetto di se stessi e comparativamente un alto concetto di tutti gli altri, persuade il sottomettersi all' altrui parere, anche opposto al proprio, e quindi adduce all' ubbidienza , nella quale ci ha sempre un atto di umiltà, all' ubbidienza verso tutti, come dice san Francesco di Sales, molto più verso i superiori legittimi. 5 L' essere l' ubbidienza perfetta di molti ad un solo l' unico mezzo di esercitare la più estesa carità possibile a vantaggio del prossimo, e di compire le più grandi opere possibili per la gloria del Signore e della Chiesa; e ciò perchè un corpo, una società unita, diretta da una sola mente, è una macchina potentissima che ottiene assai più di quello che possano ottenere le forze sparpagliate dei singoli individui. Così un esercito regolare è immensamente più forte dei combattenti isolati senza direzione comune. Sarebbe un inganno manifesto quello dei soldati che volessero uscire dalle file o perchè non approvano le mosse ordinate dal condottiere, o perchè credessero di operare di più, liberi ed isolati: adoprerebbero forse di più, affaticherebbero forse di più, ma otterrebbero molto meno, ed anzi si farebbero ammazzare con poco frutto. Lo stesso è a dirsi dell' esercito del Signore. E` impossibile che individui divisi, per quantunque siano attivi, possano fare quello che possono fare società intere, rese forti dall' unione dell' ubbidienza. Conviene considerare che la perfezione consiste nel desiderio efficace di fare o di occasionare il maggior bene possibile a bene del prossimo e a gloria di Dio e della Chiesa. « Non si può dunque raggiungere la cima della perfezione se non unendosi in un corpo, associandosi in molti con perfetta ubbidienza, che è il vincolo dell' unità ». Tutto deve cedere a questo riflesso, se il desiderio del bene, di ogni bene, del bene maggiore possibile è veramente quello che vive e domina nelle anime nostre. Chi non adopera quel mezzo, che è l' unico ad ottenere di promuovere tutto il bene possibile, questi non è perfetto. Questa fortissima ed evidentissima ragione, che persuade la più piena ubbidienza, acquista un peso assai maggiore rispetto ad una società, che si prefigge appunto la carità nella sua immensa universalità, il precetto di Cristo senza limite alcuno. Il pensiero che il superiore potrebbe sbagliare nel comandare, non ha più forza alcuna contro quella grande ragione, perchè l' uno o l' altro sbaglio del superiore, d' uno o d' altro superiore, non toglie che, considerando la cosa in universale, la società a malgrado di tali sbagli accidentali, produca immensamente più bene che non gli individui separati, i quali sono pure anch' essi esposti qualche volta a prendere inganno, e tanto più quanto più sono liberi e abbandonati, e quanto sono meno umili. 6 Dimostrato che l' ubbidienza pienissima è intrinsecamente cosa santa e perfetta, e che racchiude in sommo grado le virtù evangeliche dell' umiltà, dell' annegazione, e della carità del prossimo, ne viene di conseguente che l' ubbidiente è preso sotto la protezione di Dio stesso, a cui intende ubbidire ed ubbidisce nel superiore, perocchè colui che fa tutto per Iddio, ha Dio che lo guida. « Justum deduxit Dominus per vias rectas ». Iddio dunque è quello in cui l' ubbidiente confida, e questa confidenza non può essere confusa, perchè Iddio « non confundit sperantes in se ». L' ubbidienza dunque da una parte è un atto di fede perfetta e di speranza in Dio, dall' altra ha seco la certezza che non può produrre all' obbediente se non il massimo bene, perchè tale è sempre lo scopo della direzione che presta Iddio a quelli che in lui s' abbandonano. Iddio conduce dunque l' uomo ubbidiente, ogni dì più, al vero suo bene, e per fare questo si può servire ugualmente d' ogni cosa, fin anco degli sbagli del superiore, i quali non sarebbero permessi se non fossero occasioni di bene all' ubbidiente preso in cura da Dio. Se dunque sbaglia talora il superiore, non isbaglia Iddio che lo permette, e lo permette sol quanto giova all' ubbidiente e non più: del resto Iddio illumina i superiori, dando loro tutta quella sapienza appunto, che è necessaria a conseguire il sommo bene degli ubbidienti, la somma loro santità a cui risponde una somma gloria. Per questo lo Spirito Santo dice in modo assoluto: « vir obediens cantabit victorias ». Eccole, mio carissimo in Cristo fratello già e compagno, alcune delle ragioni da lei dimandate. Nella lettera di S. Ignazio sull' ubbidienza, che la esorto a leggere, troverà altre belle cose. Da questo apparisce che l' ubbidienza, benchè pienissima, non è mai cieca: è cieca di ragioni umane, ma non è cieca di ragioni divine: si rinunzia per essa alle ragioni piccole e minute, ma non si rinunzia alle ragioni grandi, universali, soprannaturali: con essa si può talora fallire ad un fine mediato, ma non mai e poi mai al fine ultimo ed assoluto, all' unico nostro fine, a quello che è vero fine, e da cui tutti gli altri ricevere possono qualche valore. Dunque « exultemus in Domino » di avere trovato il tesoro nascosto nel campo. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.4. Nelle più gravi sventure, da cui noi siamo colpiti, vi è la mano dell' amore infinito. « Deus charitas est . » Se a noi fossero palesi i misteri della sua misericordia che si nascondono talora fra i più giusti rigori, se fossero palesi e svelati come agli occhi dei comprensori celesti, l' anima nostra non potrebbe conoscere altri affetti che quelli della riconoscenza e del gaudio nelle prospere e nelle avverse cose egualmente. La santa fede supplisce alla nostra ignoranza dei grandi disegni dell' infinita bontà di Dio, ella basta a conservarci la pace del cuore nelle più gravi avversità, com' Ella esperimenta in questo momento; ma essendo la fede un lume infallibile sì, ma velato, se rassicura e conforta d' ineffabili speranze la parte nostra superiore, non impedisce sempre in noi che la nostra parte inferma senta potentemente la scossa della sciagura che ci priva delle cose più care. Così Iddio permise che fossimo ridotti per effetto del primo peccato, acciocchè il patire diventasse un merito, una purificazione, un sacrificio accetto al Signore unito a quello del suo diletto Unigenito che più di tutti ha patito, crocifisso di amore. Chi sa da quanti pericoli, da quante colpe, fu salvato il suo Augusto? Forse era questa l' unica via di condurre quell' anima al cielo, dove ora adora ed esalta la divina bontà, e reputa per la maggiore di tutte le sue fortune la ricevuta ferita e il breve patire, e prega pel suo tenero padre. Forse in una malattia non avrebbe ricevuto i Sacramenti colla stessa divozione e collo stesso fervore, lusingandosi di campare, e, se avesse avuto da rendere il conto di una vita più lunga, sarebbe forse stato còlto dalla diffidenza, o mancatogli quell' ardore che è proprio dell' età giovanile non ancora pervertita. Deh quanto mai non v' ha a temere e a tremare per la gioventù in questo secolo nequam! Quand' io considero i rischi d' un giovane in mezzo al mondo, reputo che Iddio debba fare un prodigio ogni volta che ne conduce uno sano e salvo all' eterna città dei santi. Tutto ciò che Iddio fa, lo fa per salvare le anime: questo è il fine della creazione: per questo fine è morto Gesù Cristo: i santissimi Sacramenti sono istituiti per questo ed hanno un' efficacia infinita, perchè hanno in sè la potenza di Gesù Cristo; egli ce li ha lasciati quand' è asceso al cielo, in suo luogo. L' opera di Dio non è mai priva del suo effetto: riposi dunque tranquillo nella grazia dei Sacramenti, munito dei quali il suo Augusto partì da noi. Suffraghiamo dunque colla più gran fiducia nella divina bontà il carissimo defunto, che fu sempre raccomandato al Signore anche prima della sua fine: celebrerò la S. Messa per l' anima sua, e raccomanderò a tutti i miei compagni di unire pure le loro preghiere al medesimo fine. Il dogma del Purgatorio è pure anch' esso un dogma consolatore! Quanti peccati che a giudizio degli uomini sembrerebbero mortali, agli occhi di Dio che considera le subbiettive disposizioni, riescono forse pure venialità, o per mancanza di piena cognizione, o per mancanza di deliberazione al male ch' essi contengono! Si conforti adunque, mio carissimo e veneratissimo Marchese: le orazioni non sono mancate in vita, non mancheranno in morte al suo Augusto: e l' orazione fatta per Gesù Cristo ottiene ogni cosa. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.4. L' umanità mia soggiacque ad un gravissimo dolore leggendo nella cara vostra del 12, ieri pervenutami, che il nostro carissimo fratello Giov. Battista Boselli sta per abbandonare il consorzio di noi suoi compagni nel terreno pellegrinaggio. Egli ebbe ripieni i suoi giorni di buone opere: fu un di quelli che portò il calore ed il peso della giornata; e la sua dolcissima serenità in sul letto di morte, di cui voi mi parlate, come è pegno e preludio della prossima mercede che sta per isborsargli il Padron della vigna, così deve essere a noi d' ineffabile conforto e stimolo acutissimo per imitare i suoi esempi, la sua instancabile assiduità nel confessionale e in ogni altro penoso ufficio riguardante la salute delle anime, la sua pazienza conosciuta da pochi, ma ben nota a Dio, la rettitudine delle sue intenzioni, il fervore del suo zelo, la sua carità che il faceva tutto a tutti, la sua profonda umiltà e pieno distacco da ogni applauso degli uomini che temeva potergli diminuire la pienezza della mercede. Sì, io lo conobbi intimamente questo caro nostro fratello, che fu uno dei primi, di cui gustassi lo spirito: l' ho venerato profondamente, e molte e molte volte santamente invidiato. Quante volte non m' ebbe egli comunicato dei sentimenti celesti, e dei documenti preziosissimi! Quante volte non mi sono avveduto che nel suo spirito si diffondevano degli sprazzi di lume divino, lume intimo che forma il secreto dei santi! Ah sì, se egli se ne è andato, forse a quest' ora che scrivo, al possesso di quel Bene che ha sempre e solo amato, noi non dimentichiamo per questo di tenerlo vivo e presente agli occhi nostri, come un esempio di molte e rare virtù donatoci da Dio, perchè noi ne caviamo copioso profitto. Io intanto mi sono subito a Dio rivolto, sia per offerirgli il sacrifizio di questo caro compagno, sia per pregarlo che se qualche macchia dell' umana infermità lo rendesse tuttavia men degno del suo cospetto, purgata la macchia nel sangue di Cristo, e reso del tutto immacolato, volesse accoglierlo nel beato suo seno; sia finalmente perchè esaudisse l' orazione che nel suo seno il nostro felice compagno gli rivolgesse per noi che lasciò quaggiù pellegrini. Ma nel mentre che la virtù, la fortezza, la generosità del nostro compagno ci brilla dinanzi agli occhi più bella e più desiderata nel momento che ci vien tolta, dovremo noi forse, mio carissimo, pensare a gettare giù dalle spalle la soma che ci ha imposto il Signore, quasi sfiduciati per la mancanza dell' aiuto che ci prestava quell' operaio, che avendo finita la sua giornata entrò nel riposo e nel gaudio del Signore? Sono questi gli altissimi sentimenti della sublime vocazione a cui Iddio ci ha fatto la grazia di chiamarci? Pensa forse il soldato valoroso ad abbandonare il posto, dove il suo capitano lo ha messo in guardia? o non preferisce anzi di lasciarvi la vita più tosto che mancare al suo dovere? E` questo l' esempio che il divino nostro Capitano Gesù Cristo lasciò a coloro che si arrolarono al suo vessillo? E l' agricoltore, che semina il campo in un fondo, perde forse la speranza della raccolta al vedere che sopravviene il verno, e che si copre la terra di neve e di ghiaccio? o il vignaiuolo che pota la vite vuol forse raccogliere i grappoli maturi da oggi al domani, o anzi non aspetta con pazienza e fiducia che venga il sole a maturarli e colorirli, alla stagione ordinata dall' Autore della natura? Avremo noi meno longanimità, meno fede nella Provvidenza divina di quella che s' abbia il bifolco, o qualunque altro uomo industrioso e prudente del secolo, che ben conosce le cose tutte avere un periodo, ed il principio di un' opera od una intrapresa lucrosa esigere prima grandi spese e fatiche, e solo dopo gran tempo potersi adunare nello scrigno il guadagno? o saremo noi così indiscreti, così presuntuosi e temerari da pretendere da Dio favori e grazie, frutto di anime a lui guadagnate senza alcuna nostra grave fatica, senza sforzi, nè stenti, nè patimenti da parte nostra? Quando mai fece Dio tale cosa coi santi suoi? Non abbiamo noi forse lette le vite degli uomini apostolici, la loro costanza ne' travagli, la fiducia che non venne loro mai meno nella superna pietà, il sudore, il sangue, le ambascie, le malattie, i patimenti d' ogni maniera, coi quali essi ricomperarono insieme con Cristo le tante anime che hanno condotte a salvamento, arrivando S. Paolo a dire, che essi supplirono a ciò che mancava a' patimenti di Cristo? Ai quali non mancava certo niente in ragione di merito, essendo in essi il fondo di ogni merito, ma mancava in ragione di applicazione, volendo Gesù Cristo stesso in via ordinaria, per la sua infinita bontà e sapienza, che i Santi apostolici, unendo i loro patimenti a' suoi, ottengano che i suoi meriti vengano applicati a tante anime, che altramente andrebbero perdute, e che così partecipino anch' essi di ogni maniera di sua gloria, fatti quasi con esso lui corredentori del mondo. Beati quelli che intendono questa dottrina e se l' appropriano! Ingannati quelli che, invitati da Cristo alla vita apostolica o comecchessia chiamati legittimamente alla cura delle anime, cercano in un' altra dottrina la loro beatitudine! Vi debbono dunque, mio dolcissimo fratello, incoraggiare queste riflessioni fondate nella parola di Dio, a non lasciarvi venire meno l' animo, tenendovi fermo al luogo che vi è assortito, acciocchè non « excedas de loco tuo »; nè vi commuova punto il poco frutto, che sembravi fare tra questa popolazione, dovendo anzi per ciò stesso essere più cara al cuore del pastore partecipe di quella carità, di cui ardea colui che è il buon Pastore, e che cercò noi stessi prima di tutto come pecore sbrancate, e ci ridusse, senza badare a ciò che gli costavamo di affanni e di sangue, nel suo sicuro e dolcissimo ovile, nè contento di farci sue pecore, volle parteciparci il suo proprio pastoral ministero. Vi sovvenga di ciò che c' insegna la Scrittura divina, quando ci ammonisce che [...OMISSIS...] . Dalle quali parole s' inferisce che pel contrario riesce alla fine benedetta quella eredità che s' acquista con lunga aspettazione di stenti e fatiche. Vi sovvenga che non si edifica la casa se non colla sapienza, che non si consolida se non colla prudenza, non s' empisce di cose preziose se non colla dottrina, cioè colla pratica della dottrina che è la virtù, e che la stessa Scrittura ci avverte che l' uomo non è sapiente se non è forte, e non è dotto nel bene se non resiste con robustezza ed efficacia alle tentazioni; tutto ciò imparandosi colà dove si legge: [...OMISSIS...] E` dunque mio sentimento e mio volere (e questo equivale per voi altri a una manifesta dichiarazione della volontà divina) che rispetto a cotesta fondazione di Verona si mantenga quella massima delle nostre Costituzioni, che prescrive la costanza nelle opere intraprese, senza lasciarsi turbare dalle difficoltà che s' incontrano più o meno in tutti i principii, e che sono utili e necessarie nell' ordine della Provvidenza, acciocchè colla fiducia in Dio e colla lotta valorosamente sostenuta, meritiamo noi stessi dalla divina bontà la grazia del consolidamento dell' opera intrapresa. Conviene dunque, mio caro, rinforzarsi coll' orazione e con ogni maniera di spirituali esercizi, risuscitando nell' animo nostro abbattuto i sentimenti della fede, la quale se viene meno e vacilla, è indeclinabile il nostro affondare nell' onde. Conviene scuotersi ed operare più virilmente che pel passato, con maggior fervore e zelo, con maggiore efficacia ed energia, badando anche che una soverchia prudenza non leghi le forze, e non c' impedisca d' operare tutto il bene che possiamo, e per operarlo d' aprirci un campo più largo... Conviene dunque, mio carissimo, che voi subiate dolcemente ed alacremente la croce che vi vuole imporre quel Dio, il quale si giova delle cose più inferme all' opere sue, e al bisogno le soccorre d' ogni fortezza. Fatene la deliberazione fermissima, offerite pieno il vostro sacrificio, e non vi date altra cura che di consumarlo. Quello che è da fare con tutta sollecitudine, si è di fare approvare confessori il Mazzotti e l' Aimo. Qualora colla grazia di Dio, con uno zelo ardente, con pastorali esempi e documenti di sacra dottrina vi riesca nel corso di qualche anno di formare l' uno o l' altro di questi giovani sacerdoti, alle virtù, alla esperienza e alla prudenza del pastorale ministero: allora avrete in qualche modo il diritto di domandare, se il peso, che non avete ancora incominciato a portare, e che v' impaurisce all' imaginarlo, vi si rendesse per l' età più grave, d' essere esonerato sopra quello che sarà riuscito nella vostra scuola miglior discepolo. Ma rigettare ora un fardello, di cui vi aggrandite colla imaginazione il peso senz' averne sperimentate le dolcezze, è cosa che non conviene nè alla perfezione del vostro stato, nè all' imitazione di quell' esempio, a cui tutti i cristiani debbono conformarsi. Ed io menzionavo le dolcezze che non avete ancora sperimentate, perocchè la vita del buon pastore, piena certo di spine e di travagli, ha tuttavia le sue secrete dolcezze, le quali sono tali e tante per un' anima amante che vincono le amarezze, ed anzi rendono il pastore felice. Oltre di che, quale non è la gloria riserbata al pastore fedele! quanto diversa da quella dei cristiani comuni! quanto più splendida e più magnifica! altrettanto quanto è più sublime della comune la pastorale carità, che è tutta carità verso il nostro Signore Gesù Cristo. Ascoltate dunque, ed applicatelo a voi stesso, ciò che Cristo disse a Pietro: « Petre, amas me? si amas me, pasce oves meas ». A fine di giovare spiritualmente e corporalmente a cotesta parrocchia, trovo indispensabile che voi specialmente, dopo che sarete parroco, facciate bel bello relazioni colle migliori e più pie famiglie di Verona, le quali non mancano, e non mancherò di mandarvi io stesso delle commendatizie. Quindi potrete avere soccorsi a pro di cotesti poverelli, i quali dovete avere carissimi; e di mano in mano, s' intende col tempo, l' elemosine vi apriranno la strada a guarire le loro miserie e le loro infermità spirituali. Qui certo conviene che la carità del pastore sia ingegnosa ed anche ardita, non arrossendo di domandare. Vi esorto adunque a domandare l' elemosina ai più ricchi e più pii signori della città, sia quando si tratta di levare dal pericolo qualche zitella, sia per ogni altro grave bisogno, come la educazione di qualche fanciullo, o necessità somiglianti: con far questo vi introdurrete, vi farete conoscere, si saprà in Verona che a S. Zeno vi sono uomini zelanti per sovvenire alla poveraglia. Oggi 23, ho ricevuto anche l' altra vostra del 13 corrente, che non abbisogna d' altra risposta: ella bensì appagò il mio desiderio di sapere la malattia di cui è aggravato e che forse a quest' ora ci ha tolto il caro Boselli, benchè sulla natura di tal malattia mi si dia appena qualche cenno. Del resto, di nuovo coraggio nel Signore; non mancate all' espettazione che io e l' Istituto abbiamo posto in voi, e non mancherete, se vivrete di quella fede di cui vive il giusto, e che tanto ingrandisce i nostri cuori, perchè è la sostanza delle cose che abbiamo a sperare. [...OMISSIS...] 1.4. Non Le dirò quanto il tenore della venerata sua mi abbia fatto arrossire di me medesimo, ma ubbidirò senza proemio al suo desiderio, dicendole quale mi sembra dover essere la condotta di un Vescovo nelle presenti gravissime circostanze. L' incarico che un Vescovo ha ricevuto da Gesù Cristo di predicare il Vangelo e di condurre le anime degli uomini all' eterna salute è così sublime, santo e divino, che non v' ha cautela soverchia da adoperarsi, perchè nessun altro affare terreno ne impedisca od intralci e disturbi l' esercizio. Questo esercizio può essere intralciato sopratutto dalle umane opinioni in materia politica, le quali si dividono e contrariano secondo il vario sentire e pensare delle menti, e pur troppo ancora secondo le varie passioni da cui si lasciano agitare gli uomini e le cieche fazioni che ne derivano. Sopra di tutti questi interessi umani, di queste opinioni, passioni e partiti, che agitano e travagliano la società e l' umanità, si leva il Vangelo, e col Vangelo il Vescovo, che n' è il maestro istituito da Dio, e in questa regione celeste dell' Evangelio egli abita col suo spirito la città della pace imperturbata e felice: « Nostra autem conversatio in coelis est ». Parmi adunque che ogni Pastore della Chiesa cattolica adempia il suo ufficio e corrisponda all' altezza della sua missione divina, se, astenendosi dal prender parte in qualsivoglia politica controversia e dal dichiararsi per qualsivoglia fazione, si limiti a predicare a tutti egualmente e in modo generale la giustizia, la carità, l' umiltà, la mansuetudine, la dolcezza, e tutte le altre virtù evangeliche, riprovando i vizi contrari e difendendo acremente i diritti della Chiesa, dove venissero da qualsivoglia parte violati. Reputo che il Vescovo debba, sopratutto in questi tempi, spargere un olio balsamico di dolcezza nelle piaghe dell' umanità, debba guardarsi da ogni giudizio temerario, da ogni parola ingiuriosa a chicchessia, da ogni adulazione strappata dal timore, da ogni connivenza al male che gli fosse persuasa da speranza di giovare, conservando un contegno grave, riservato, fermo, con una conversazione verso tutti soave ed amorevole, ed insieme atta a far distinguere con una santa dottrina, ma senza alcuna veemenza, il bene dal male. Colla preghiera più assidua ed intensa, col promuovere più studiosamente il culto divino tra i fedeli e tutti gli esercizi di pietà, coll' eccitarli sopratutto ad una frequenza maggiore de' Sacramenti, commendandone l' eccellenza, e facendoli loro amministrare con abbondanza, potrà il Pastore attirare le benedizioni divine sopra il suo popolo, e preservarlo da molti mali richiamando molte menti traviate al retto sentire. E` dall' alto che ci dee venire l' aiuto, è il lume celeste che dee sgombrare le tenebre. Dopo averla ubbidita, debbo domandare scusa dell' ardimento d' averla ubbidita scrivendole cose nelle quali Ella a tutto buon diritto è mio maestro. [...OMISSIS...] 1.49 Una delle opere più vantaggiose, che conviene prefiggersi evangelizzando i popoli, si è di introdurre nelle famiglie e nelle popolazioni cristiane consuetudini le quali, quando si giunge a ben praticarle, propagano il bene di generazione in generazione, e diventano altrettante difese o ripari posti alla corruzione del mondo. Una di queste si è la pratica di recitare nelle famiglie giornalmente il santo Rosario; ed io bramerei che tutti i nostri missionari si prefiggessero d' inculcare costantemente questa pratica dappertutto ove vanno, e durante la missione trovassero tempo d' insegnare al popolo la maniera di recitarlo, spiegandogli anche il contenuto dell' orazione domenicale e dell' Avemmaria , non meno che l' ordine col quale il Rosario è disposto, del quale è parlato in quel discorsetto sul Rosario che si trova nella raccolta de' miei discorsi. Un' altra pratica da inculcarsi a tutti i cristiani che sanno leggere si è quella di andar sempre in Chiesa con un libro di divozione, col quale possano accompagnare le sacre funzioni. E` impossibile, in generale parlando, che il popolo stia raccolto nelle Chiese, e vi faccia veramente orazione, se non è provveduto dell' aiuto d' un simil libro. Mi è occorso più volte di vedere nella Chiesa una moltitudine di persone starvi coll' apparenza di statue o peggio, quasi non sapendo che fare o che pensare in quel luogo santo. Questo è troppo increscevole a vedersi fra i cattolici ed assai pernicioso alle anime, e in Inghilterra riesce di scandalo ai protestanti, i quali tutti vanno in Chiesa col loro libretto di preghiere. Io vorrei dunque che tutti i nostri missionari si prefiggessero d' accordo d' indurre i cristiani cattolici, a cui sono mandati a predicare, a provvedersi d' un simil libro, e a portarlo sempre seco e leggerlo in Chiesa. Ma perchè la cosa riesca, gioverà che tutti i missionari suggeriscano lo stesso libro, il quale potrebbe essere l' Eucologio stampato in Torino dai Fratelli delle Suole Cristiane. Converrebbe altresì, che i missionari ne facilitassero l' acquisto nei paesi ove vanno, portandone seco un buon numero di copie, o facendo che un libraio od altri ve ne porti, e che siano smerciati a buon prezzo, ma siano tuttavia legati in modo forte ed elegante. Leggete questa lettera a tutti i nostri missionari, ed esortateli tutti ad adoperarsi che queste due consuetudini s' introducano; e se prenderanno la cosa con calore, e sopratutto con uniformità e con costanza, riusciranno allo scopo. Coll' introduzione di queste consuetudini faranno un bene incalcolabile e duraturo, assai maggiore di quello che ottener potrebbero da molte prediche. Già è noto con quanto calore e zelo S. Domenico fece predicare il Rosario, e quanto bene abbiano fatto i Domenicani con questa divozione. Vorrei che tutti i nostri avvivassero in sè stessi lo spirito di San Domenico: così saranno benedetti dalla Madonna. Ma l' altra pratica, del libro di devozione da portarsi in Chiesa, non arrecherà meno di vantaggio alle anime, ed anzi ancor più. Se s' insegna a' cristiani a fare buona orazione, la causa è vinta. Il mondo va così male, perchè molti non fanno orazione, e molti altri la fanno malamente. Conviene cominciare dal poco per renderla facile, e il mezzo che conduce a ciò è appunto la pratica del libretto divoto che suggerisco. Voi tutti adunque, o fratelli carissimi, che siete sacrati alla grand' opera delle Missioni, accingetevi all' impresa di introdurre dappertutto queste due consuetudini; ma fatelo con perseveranza, senza la quale non può riuscire, e così avrete adempita la volontà del vostro Superiore, e in essa quella di Dio, da cui imploro sopra di voi ogni celeste benedizione. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.49 Ho ricevuto le due lettere, del dì di Natale e pel primo dell' anno: e prima la ringrazio de' suoi buoni augurii che di tutto cuore Le ricambio; di poi La avverto che non mi appartiene ancora il titolo di Eminenza di cui mi onora, giacchè l' esule Pontefice ha sospeso per intanto la promozione degli stabiliti Cardinali, non pel motivo che addussero i giornali, ma per le dolorose circostanze in cui si trova al presente la Chiesa Romana. Venendo ora all' argomento della prima sua lettera, non parmi che Ella bene interpreti le parole di Nostro Signor Gesù Cristo. Egli disse beati i poveri di spirito, per encomiare e raccomandare il distacco di cuore da tutte le cose mondane; le quali si possono anche possedere e tuttavia esserne pienamente distaccati, usandone pienamente alla gloria di Dio. Così fecero gli Apostoli, ai cui piedi i fedeli della primitiva Chiesa ponevano il prezzo delle possessioni vendute; così fecero tanti Vescovi, che amministrarono le ricchezze della Chiesa a vantaggio de' prossimi senza restar macchiati dal loro contatto, e cavandone anzi grandissimo merito di carità per le sollecitudini spinose che sostenevano nella loro amministrazione; così fecero tanti monarchi che onoriamo sugli altari, un santo Stefano di Ungheria, un san Luigi di Francia ecc., i quali vissero tanto poveri di spirito quanto il minimo fraticello; così fecero tanti sommi Pontefici, che portarono il peso della temporale corona come fosse corona di spine unicamente pel ben della Chiesa, pei popoli loro affidati dalla divina Provvidenza. Il sommo Pontefice non considera mai sè stesso come possessore, ma semplicemente come amministratore e depositario degli Stati della Chiesa: è una sollecitudine di carità che gli è imposta, non un mondano dominio. Nè prova in contrario l' esempio o la parola di Cristo, a cui Ella si appella. Non l' esempio, perchè Cristo, sebbene re degli ebrei e del mondo, non volle assumere la corona temporale del popolo d' Israele; perchè questo non ne era degno, come assai ben mostrò quando invece di accettarlo per re lo confisse al patibolo, e Cristo voleva che il suo regno non gli venisse dalle mani de' perfidi che formavano il mondo, ma lo aspettava da Dio e dai Santi che operano per impulso di Dio: e qual dubbio che, se la nazione ebrea fosse stata fedele e santa, egli avrebbe accettato d' esercitare col mezzo di essa anche il temporale reggimento? Non la parola, la quale altro non significa, secondo la lettera e secondo l' interpretazione de' Padri, se non che il suo regno non era del mondo , cioè non proveniva dalle arti del mondo, dalla violenza, dall' astuzia, nè dagli uomini del mondo; ma bensì traeva l' origine dalla potestà di suo Padre, e dalla santità colla quale egli avrebbe tirato a sè tutte le cose: « omnia traham ad meipsum ». E in vero dalla santità da lui infusa nel mondo provennero poi tutte le largizioni dai fedeli fatte alla Chiesa, e i vari dominii che ella possedette o possiede, dei quali dominii uno è lo Stato ecclesiastico, forse il solo che ancor resta: giacchè come la santità è quella da cui vengono alla Chiesa i beni temporali ch' ella riceve, come dicemmo, unicamente in deposito e in amministrazione a comune vantaggio degli uomini, e massime de' poveri e de' sofferenti, così l' improbità è quella che spoglia la Chiesa di tali beni; e l' improbità se potesse, torrebbe non solo tali beni alla Chiesa, ma ancora l' esistenza e la vita, come già fece del suo Capo divino. D' altra parte non vi hanno regole di governare più giuste, più umane, più liberali, più fratellevoli di quelle che professa la Chiesa, la quale possiede la dottrina della carità. Si possono bensì mescolare nella pratica degli abusi e dei difetti umani, e contro questi è giusto che s' adoperi la censura; ma perchè il Governo ecclesiastico sia perfetto, basta che questi sieno rimossi: non conviene schiantare l' utile pianta, ma coltivarla a regola d' arte. [...OMISSIS...] 1.49 Quanto mi annunziate nella vostra lettera del 6 marzo mi caverebbe dagli occhi del cuore amarissime lagrime, se non assicuraste nella lettera stessa che Iddio vi ha preservato dalle cadute. Ma a buon conto apritevi con una apertissima e sincerissima confessione al P. Provinciale, giacchè questo è un mezzo utilissimo per rinforzarsi coll' aumento della grazia del Signore. Di poi è necessario che produciate in voi stesso una vera compunzione dei falli passati e risoluzioni più forti d' abborrimento al male per l' avvenire. Ma come si può avere la compunzione? Non si può avere se non si dà tutta la colpa a se stesso de' proprii peccati e della propria fragilità. Chi invece di far così, come fanno i veri penitenti, va cercando le proprie colpe nella condotta degli altri, e gli accusa ed incolpa anzichè incolpare e accusare unicamente se stesso, costui non acquisterà mai compunzione nè umiltà, nè distacco da se stesso, nè per conseguenza fortezza spirituale. Molto più se s' incolpano i Superiori a torto, il che è un atto di ingiustizia e di superbia; e finchè dura la superbia, come si può ottenere da Dio la grazia d' esser liberi da gravi tentazioni? I Superiori vi hanno trattato con tutta la carità, e questo lo so perchè il cuore non mente; essi hanno sopportato la vostra inquietudine e indocilità, ed i vostri lamenti, così contrarii alla vostra santa vocazione, in occasione che vi hanno rimosso dalla scuola: ora voi non ricordate più le molestie che voi avete loro arrecato colle vostre censure continue delle loro paterne disposizioni. I Superiori nondimeno hanno presunto bene di voi, giacchè sogliono sempre giudicare nel modo più favorevole de' proprii figliuoli, ed hanno supposto che foste interamente emendato, fondati anche sulle vostre promesse; e dopo aver lasciato trascorrere qualche tempo e datovi agio di esercitarvi in cose spirituali, hanno creduto di poter contentarvi rimettendovi in una scuola di fanciulli d' età maggiore: voi non avete fatto alcuna osservazione in contrario. Ora invece di umiliarvi profondamente davanti al Signore di una condotta così contraria alla perfezione religiosa, che cosa fate? andate col pensiero fuori di voi, e sospettate temerariamente che i Superiori non abbiano cura e sollecitudine della salvezza dell' anima vostra. Come può stare la compunzione, la penitenza, il raccoglimento, l' umile e fervorosa orazione in compagnia di sentimenti che vengono ispirati nel cuore dell' uomo dallo spirito della superbia? No, mio figlio, senza umiltà, senza profonda umiltà non si può conoscere se stesso, non si può avere quegli affetti di perfetta contrizione e di alto disprezzo di sè, che sogliono arrecare una grazia abbondante, colla quale l' uomo umiliato è preservato dai pericoli. A questo dunque tendete con tutto lo studio, ad acquistare un grande amore di Dio. Custodite con somma cautela i sensi: fate orazioni e mortificazioni: e sopratutto esercitate con perfezione l' ubbidienza e l' umile sommissione in tutti i vostri pensieri, parole ed atti. Del resto, certo che vi leverei anche subito dal posto ove siete, se temessi che non poteste tirare innanzi senza pericolo prossimo. Ma non conoscendo ben le cose, nè potendo in tanta distanza esaminare da vicino lo stato vostro, rimetto ogni disposizione a prendere al zelantissimo vostro P. Provinciale, a cui vi raccomando di aprir tutto voi stesso, e di ricorrere come allo stesso Dio, che prego di benedirvi, illuminarvi, santificarvi. [...OMISSIS...] 1.49 Figlio devoto ed ubbidiente alla Chiesa, che è la colonna ed il firmamento della verità, sommesso a tutte le sue decisioni, contro le quali non sorse mai un dubbio nell' animo mio, aderente coll' intime viscere alla dottrina celeste da essa insegnata, dove solo è la pace, il gaudio e la gloria della mente umana e la speranza dell' eterna felicità, io ho sottoposte le molte e molte volte con pubbliche e private dichiarazioni tutte le opere mie e tutte le mie opinioni a quella infallibile maestra e madre, nel grembo della quale per grazia di Dio sono nato e sono rinato alla grazia. Il tenore dell' ossequiatissimo foglio, di cui Vostra Beatitudine mi onorò in data 10 corrente, mi fa provare il bisogno di protestare di nuovo avanti di Lei il pienissimo mio attaccamento alle dottrine della Santa Romana Chiesa di cui sono figlio. Beatissimo Padre, io bramo modificare tutto ciò che ci fosse da modificare nelle mie opere, di correggere tutto ciò che ci fosse da correggere, di ritrattare tutto ciò che ci fosse da ritrattare. Ma il conoscere questo assai più che dalle mie proprie riflessioni, lo aspetto dalla sapienza dell' Eminentissimo Cardinale Mai, a cui ora intendo che Ella ha rimesso da esaminare nuovamente i miei scritti. Egli mi proporrà la dottrina della Chiesa, ed io la sottoscriverò ciecamente. Qualunque cosa nelle mie opere risulterà, dall' esame del Cardinale Mai, di contrario alle decisioni di santa Chiesa, io con giubilo la ritratterò e la condannerò. Io voglio appoggiarmi in tutto sull' autorità della Chiesa, e voglio che tutto il mondo sappia che a questa sola autorità io aderisco, che mi compiaccio delle verità da essa insegnatemi, che mi glorio di ritrattare gli errori in cui potessi essere incorso contro alle infallibili sue decisioni. Nello stesso tempo io desidero ardentemente, e, se oso supplicare Vostra Beatitudine di una grazia, La supplico che una tale definizione si solleciti per mia quiete e per edificazione del prossimo. [...OMISSIS...] 1.49 Ier sera mi fu recata la veneratissima sua scrittami per ordine di N. S. il Santo Padre, colla quale mi dichiarava, che la Santità Sua lascia a me la libertà di scegliere il luogo dove dovessi condurmi in queste circostanze. In conseguenza di che io mi dirigerò domani verso Capua per trattenermi qualche tempo, ed ivi in appresso prenderò consiglio dalle circostanze. Ella mi aggiunge un dolcissimo conforto dicendomi che il Santo Padre mi accompagnerà col suo affetto paterno, e che « pregherà costantemente il Signore, acciocchè mi conceda i lumi da poter conoscere tutto ciò che nelle opere da me scritte potesse dispiacere al divino dispensatore dei doni, la qual cognizione potrò avere volendo assoggettarmi al giudizio della Santa Sede ». Confido grandemente che qualora anche nelle mie opere io avessi inavvertentemente scritto cose erronee e perniciose, la misericordia di Dio Signore mi userà indulgenza, non avendo io mai cercato altro colle mie povere fatiche che la sua gloria, il bene della Chiesa e la salute delle anime; e questo stesso sentimento me l' ha infuso Egli per pura sua bontà. Qualunque decisione poi fosse per emanare dalla Santa Sede, io l' accoglierò con tutto l' animo mio e mi vi conformerò con gioia, non cercando io di sostenere le mie opinioni, ma le dottrine della Santa Chiesa Romana mia maestra, e questo pure lo spero dalla grazia di Gesù Cristo. La comunicazione che V. E. Rev.ma mi fa in iscritto e la benedizione che Sua Santità mi comparte espressa nella sua lettera mi avvisano di trattenermi dal venire in persona prima di partire a baciare il piede al Santo Padre, e fo volentieri questo sacrificio, raccomandandomi anche alle orazioni di Lei, che una volta si compiaceva chiamarmi suo fratello in Gesù Cristo, quale appunto da parte mia io Le sarò sempre e quale ho l' onore di dichiararmi umil.mo servo e fratello in Gesù Cristo. [...OMISSIS...] 1.49 Ricevo pur ora dalla mano del R. P. Boeri il veneratissimo suo foglio dato da Viterbo 12 agosto corrente, nel quale Ella mi significa che, essendosi radunata in Napoli per espresso comando di Sua Santità la Sacra Congregazione dell' Indice, di cui è Prefetto l' Eminentissimo signor Cardinale Brignole, questa fu di unanime consentimento, approvato poi dal Santo Padre, che si dovessero proibire le mie due operette aventi per titolo, l' una: « Delle cinque piaghe della Santa Chiesa », e l' altra: « La Costituzione secondo la giustizia sociale », ecc., e in pari tempo m' interpella sulla mia sommissione al relativo decreto, acciocchè possa esserne fatta menzione nel decreto medesimo. Coi sentimenti pertanto del figliuolo più devoto ed ubbidiente alla Santa Sede, quale per grazia di Dio sono sempre stato di cuore, e me ne sono anche pubblicamente professato, io le dichiaro di sottomettermi alla proibizione delle nominate operette puramente, semplicemente, e in ogni miglior modo possibile, pregandola di assicurare di ciò il Santissimo Nostro Padre e la Sacra Congregazione. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.49 Ho ricevuto qui in Albano una lettera del caro Gilardi in data del 4 agosto, nella quale trovai copia di un' altra lettera che voi mi avete scritto in data del 7 luglio, dirigendola a Santa Lucia di Caserta, la quale debb' essere andata perduta. A questa prima di tutto rispondo pregandovi di non far cosa alcuna di ciò che mi esponete di aver deliberato coi vostri due Consultori in occasione della persecuzione mossa contro di me. Questa persecuzione conviene lasciare che si sfoghi, perchè è Dio che la vuole, cioè che la permette pe' suoi adorabili fini, ed io perciò ne sono contentissimo. Sono ormai certo che verrà proibito tanto il libro delle « Cinque piaghe » quanto quello della « Costituzione », senza che a me venga comunicato il motivo o la ragione della proibizione. Io mi sommetterò pienissimamente al decreto, come è cosa doverosa di farsi, e non ne domanderò la ragione, la quale già non mi sarebbe comunicata. Ho ragione di credere che quasi tutti i Cardinali e specialmente il Prefetto dell' Indice mi sieno contrari: prove di amicizia non ricevo che dal buon Cardinale Castracane e dal Cardinale Tosti, il quale ha la bontà di ospitarmi qui in Albano, ma nè l' uno nè l' altro di questi possono cosa alcuna nei momenti presenti. Sono momenti di turbazione e di passioni. Ottenuta la proibizione di quelle mie due operette, è ben naturale che non si possa parlar più di Cardinalato. Tuttavia, per le ragioni stesse che voi dite, io mi devo trattener qui fino che non mi sia noto espressamente il volere del Santo Padre, e vi sto tranquillissimo e contento. Il Padre Theiner fece stampare a Napoli un opuscolo contro il libro delle « Cinque piaghe », nel quale si dicono molti errori evidenti ed eresie. Io ne sto componendo una risposta, la quale mi sembra dover riuscire concludentissima; ma venendo proibito il mio libro, non conviene più che io la stampi, perchè sembrerebbe che volessi difendere una cosa proibita, e darei nuovo appiglio ai nemici. Le ragioni, per le quali io vi prego di non fare alcun fatto in questa bisogna, sono: 1 perchè essendo voi altri lontani, e non conoscendo le persone che attorniano il Pontefice, potreste fare dei passi assai falsi con pregiudizio dell' Istituto; 2 perchè sembrerebbe la cosa mossa da me, e la persecuzione, lungi dal cessare, si incalorirebbe vie più; 3 perchè non essendo io consapevole di aver fatto, detto o scritto cosa alcuna maliziosamente, conviene avere una viva fede in Dio, il quale dispone ogni cosa pel bene della sua Chiesa, e se sarà di sua volontà e di utilità alla Chiesa, farà indubitatamente tornare il sereno dopo la tempesta, e tanto più presto, quanto meno ci porremo dell' opera nostra e più della fede in lui; 4 perchè una persecuzione che non ha alcun solido fondamento, va a cessare da sè stessa solo tacendo e sopportando. Dirò come diceva San Francesco di Sales quando era messo in pericolo il suo onore: « Iddio sa di qual grado d' onore noi abbisogniamo per poterlo meglio servire; quel tanto d' onore che ci bisogna a un tal fine, Egli saprà mantenercelo, senza che noi ce ne prendiamo sollecitudine ». D' altra parte da tutti questi avvenimenti nascono molti beni; e fra gli altri io ne vedo uno, del quale sono a Dio gratissimo, e questo si è del tenermi più lontano dal mondo e da uno stato di cose così imbrogliate e difficili, in cui al presente si trova lo Stato Romano, dal quale non si vede alcuna uscita. Povero me, se dovessi o come Cardinale o con altro impiego prender parte agli affari di questo Governo! Io sarei intieramente sacrificato senza produrre alcun bene agli altri. Così lontani, come voi siete, non potete conoscere nè immaginare questo orribile caos. Iddio adunque per la sua singolare misericordia mi salva ora dal perdermi in un vortice divoratore. Ben intendo il trionfo che meneranno i nemici, le dicerie dei malevoli, l' alienazione da noi di molti deboli amici; ma noi dobbiamo sapere servire al Signore « per infamiam et per bonam famam ». E se possiamo sperare di avere Iddio con noi, « quis contra nos? Si consistant adversum me castra... in hoc ego sperabo ». Acciocchè poi voi vediate chiaramente tutto ciò che è avvenuto fin qui in questo affare, vi mando copia della relazione che ne ho data al nostro buon amico il Cardinale Castracane, raccomandandovi nello stesso tempo di usare il più gran secreto e una somma prudenza nel favellare. Questo è il tempo di tacere e di pregare. Il Papa non rientrerà nello Stato, a quanto si crede, prima del mese d' ottobre, e perciò non ispero ricever ordini prima di quel tempo. Attenetevi dunque ai miei consigli, e siate superiori a tutto ciò che dicono gli uomini, nei quali non dobbiamo confidare, e i quali non dobbiamo temere. Scrivetemi quanto prima d' aver ricevuto la presente. Dite al caro Gilardi, che per ora non si può più parlare della ristampa del libro delle « Piaghe ». Io vi ho sempre tutti nel cuore, e vi metto ogni dì sulla patena e nel calice di Cristo. Egli vi custodisca e benedica perchè possiate arrecare quel frutto plurimum che esige dalla vite che egli va potando. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.49 Ringraziamo il Signore, il quale ora permette che io sia preso assai di mira anche da persone, che moltissimo influiscono sul Pontefice. Si fa ogni sforzo perchè vengano messi all' Indice i due miei scritti delle Cinque piaghe , e la Costituzione ; e vi riusciranno per certo non avendo io alcuna via aperta a difendermi. Io mi sommetterò alla condanna con tutta la sincerità del cuore. So che non mi verranno comunicate le ragioni, e un Cardinale mi disse che errori non ve ne sono: saranno probabilmente proibite per l' inopportunità di quegli scritti e il pericolo d' abuso. Non ci affliggiamo punto di questo, mio caro, ma, come dicevo, ringraziamone il Signore, il quale vuole provarci, o permettere a Satana di cribrarci. Io mi fermerò in Albano, dove convivo coll' Em.mo Tosti in questo suo casino: il Cardinale mi usa ogni atto gentile. Quando rientrerà il Papa nei suoi Stati, e non sarà certo prima di ottobre, allora saprò forse qualche cosa delle sue disposizioni a mio riguardo. Qualora voi poteste senza inconveniente venire in Italia, io ve lo permetto: nè sarebbe da tardare per non incontrare la stagione troppo fredda al ritorno. Potreste forse sbarcare a Napoli, e di là recarvi qui meco, il che mi sarebbe di grande consolazione. Ma tutto si dovrebbe fare in modo che non ne soffrisse cotesta cara e importantissima Missione inglese per la vostra assenza. Voi coi vostri Consultori giudicherete. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.49 Non ho fatto che puramente il mio dovere nel sottomettermi pienamente al decreto della sacra Congregazione che fu poi approvato dal Santo Padre. E perchè non intendo di scrivere la presente al Maestro del Sacro Palazzo Apostolico, ma alla privata persona del Rev.mo Padre Buttaoni, a cui ho somma devozione e stima, aggiungerò che, per pura grazia di Dio, non ho mai avuta in vita mia alcuna tentazione in materia di fede, e non ho mai esitato un solo istante a condannare qualunque cosa la santa Sede fosse per condannare ne' miei scritti o altrove. Quando nel mese del prossimo passato settembre il Santo Padre si era degnato ordinarmi di scrivergli una lettera, nella quale dichiarassi o correggessi alcuni punti osservati nelle due note operette che mi avrebbe fatto indicare da Mons. Corboli, io per desiderio di uniformarmi colla più saggia esattezza alla mente del Sommo Pontefice, pregai lo stesso Mons. Corboli di estenderne la precisa minuta, e quindi copiata la sottoscrissi e la presentai al Santo Padre. Quando poi lo stesso Santo Padre mi disse che la facessi esprimendo più esplicitamente il punto che riguardava le vescovili elezioni, ubbidii subito come era debito, e mandai da Napoli a Gaeta quanto mi sembrava desiderare il Papa, di che egli non mi fece più alcun cenno. Avendomi in appresso il Santo Padre stesso scritto di aver deputato ad esaminare le mie opere il Cardinal Mai e ordinato di conferire con lui, ne lo ringraziai e mi recai tosto dal detto Cardinale per adempire tutto ciò che mi avesse indicato; ma ebbi per risposta dal Cardinale, che egli non avea voluto accettare un tale incarico, e che il Santo Padre ne lo avea dispensato. Così stavano le cose quando ricevetti qui in Albano il veneratissimo suo foglio del 12 corrente, riuscitomi del tutto improvviso. Ora Iddio è testimonio della mia sincera e costante disposizione di sottomettermi in tutto, e di ubbidire in tutto ai miei superiori. Perdoni, Rev.mo Padre, se La ho trattenuta con questa inutile lettera, a cui non s' incomodi a rispondere. La ho scritta pel dovere di renderle grazie de' benignissimi conforti che mi dà colla gentile sua del 20 pur ora ricevuta. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.49 « Sit nomen Domini benedictum », al quale è piaciuto che si proibissero i due libri delle « Cinque piaghe » e della « Costituzione ». La cosa mi venne assai improvvisa, perchè mi fu tenuta secretissima: si fece in un' adunanza della sacra Congregazione tenuta a Napoli straordinariamente, non col solito segretario, ma con altro a ciò delegato: con quei cardinali che ivi si trovavano, essendo alla presidenza Brignole, sempre avverso alle cose del nostro Istituto, e per consultore si adoperò Secchi7Murro: niuno che fosse a noi benevolo. Ringraziamone di nuovo Iddio: io mi sono sottomesso alla proibizione ciecamente, benchè mi sia tenuto segreto il motivo, il quale, a dir di taluni, fu più politico che religioso. - Mi ha dato non leggera consolazione spirituale l' intendere che vi siete adoperati nell' assistere i colerosi: faccia Iddio che siate i primi di tutti in tali opere di generoso zelo. Beati, se vi toccasse la grazia di esser vittima della carità! Ma anche il sacrificio che non si consuma materialmente, spiritualmente è perfetto: e Iddio che è spirito ve lo imputa a corona. - Vi raccomando di governare i fratelli nello spirito del Signore, secondo le norme e le regole dell' Istituto, con dolcissima carità e con fortezza costante. Non chi comincia, ma chi persevera sarà salvo. Abbraccio e benedico tutti cotesti miei carissimi in Cristo. Non pensate alla traslocazione del Cesana, ma a sopportarlo e renderlo migliore: fategli fare il cinto ed il tabarro di cui abbisogna, come vedrete dalla annessa lettera. La carità pazientissima usata da lui col caro Don Roberto, la cui anima godrà ora la vista di Dio, merita che noi pure siamo verso di lui in particolar modo caritatevoli, rendendogli il cambio de' suoi servigi. Addio, non vi prendete pena delle cose mie, perchè in qualunque modo vadano a sciogliersi, il Signore mi dona una pace perfetta, e spero nella sua misericordia che me ne continuerà il dono, com' io ne lo prego, e voi altri meco. [...OMISSIS...] 1.49 Gli amici che sempre eguali si dimostrano e non cangiano clima come le rondini, sono quel tesoro inapprezzabile di cui parlano le divine Lettere. Voi, mio soavissimo Paolo, siete uno di questi rarissimi, e la vostra cara lettera, nella quale il minor fregio è l' eleganza della latina favella, mi conferma quello che da lunghi anni conoscevo; perciò vi porto sempre, non dirò in oculis , ma nel cuore riconoscente. Tanto è poi vero quello che voi dite, che non si può rinvenire nulla di più dolce che il sapere con certezza di ragione e di fede, e il tener fermissimo, averci un Nume ottimo, sapientissimo, potentissimo, regolatore di tutte le umane cose, soccorritore di quelli che in lui confidano; che l' improvviso avvenimento testè accadutomi del vedere due mie opericciuole ascritte all' indice de' libri proibiti per nulla alterò la mia pace e la contentezza dell' animo mio, anzi espresse dal medesimo sentimenti sinceri di ringraziamento e di lode a quella Provvidenza divina, che disponendo ogni cosa coll' amore, anche questo per solo amore permise. Ma non crediate tuttavia che questa tranquillità sia cosa mia propria: perchè ben so che io sarei in balìa di ogni perturbazione e passione, se Colui che ascolta le umili nostre preghiere e conosce i bisogni della nostra infermità, non me ne avesse protetto misericordiosamente colla sua grazia, e in me sostituito al mio disordine umano il suo ordine divino. Laonde di questa stessa grazia del Signore nostro ho gran cagione d' umiliarmi e di essergli grato senza misura; di che conviene che i veri amici, come voi siete, mi aiutino a ringraziarlo anche di questo, il che io non so fare nè degnamente, nè bastantemente. E di vero quanto non sarebbe stato facile che io mi turbassi ad un annunzio così impreveduto, se non altro pel danno che ne potrebbe venire a' miei fratelli, che servono il Signore nell' Istituto della Carità, e pel dolore che ne proveranno? Ma in questo stesso mi confortano assai due pensieri: l' uno che so di certo che tutti si uniranno a me nella sottomissione e nella docilità, baciando anche la mano che ci percuote; l' altro che non si raffredderanno punto, nè diverranno perciò più lenti in quelle opere che prestano alla Chiesa ed alla carità de' prossimi con tante loro privazioni e fatiche. Quanto poi a quello che potranno soffrire dagli uomini, Iddio che li raccolse e che disse: « « Ove due o tre di voi si uniranno nel nome mio, io sarò nel mezzo di loro » », distenderà le sue ali, sotto le quali sicuri e fidenti troveranno ricovero. In quanto a me dirò sempre: « Tollite me et mittite in mare, et cessabit mare a vobis: scio enim ego quoniam propter me tempestas haec grandis venit super vos . » Sto anche pensando come possa recarmi quanto prima in mezzo di loro a consolarli: ma l' ingombro delle cose che ho a Roma, e di cui non so ancora come disporre, mi rallenta l' esecuzione di questo mio desiderio. Or basta: quando mi toccherà la buona ventura di riabbracciarvi, di più a voce. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.49 Rispondo alle care vostre del 2 e 7 corrente, che non è d' affliggersi per la proibizione delle mie due operette; e ciò perchè non è da prendersi affanno che del peccato. Fu retta l' intenzione con cui furono scritte, la coscienza mi rende questo testimonio. Noi dobbiamo rimanere sinceramente sottomessi al decreto, e dobbiamo prendere anche questo avvenimento dalle mani dell' amorosissima Provvidenza che lo permise. Se fui obbligato ad accettare la porpora e a fare gravissime spese per provvedermi del corredo cardinalizio, se ne fu differito il conferimento per la fuga del Papa da Roma, se ora, come credo, il Papa non me la conferirà più; questo è affatto nulla, perchè non ci pregiudica, ed anzi ci può aiutare ad ottenere il nostro fine. Se questo è un disonore presso gli uomini, che giudicheranno esserci noi resi colpevoli di qualche grave mancanza, dobbiamo avere presente che noi dobbiamo essere ugualmente disposti a servire Gesù Cristo « sive per infamiam, sive per bonam famam ». Stiamo dunque tranquilli ed allegri, se possiamo essere umiliati e patire qualche cosa ad imitazione di GESU` Cristo. Quando il Papa mi annunziò il cardinalato, il nostro caro e santo fratello Gentili mi scriveva queste belle parole: Padre mio, si ricordi della porpora di cui coprirono le spalle di nostro Signor GESU` Cristo : egli parlava forse in ispirito quasi profetico. Spero che il nostro caro Istituto non soffrirà alcuna scossa da questo avvenimento; e se dovesse sofferirne, sarà per risorgere più bello e più glorioso nel Signore. Quanto a me, non vi prendete alcun pensiero umano. Non so ancora se e quanto mi fermerò qui: vorrei prima conoscere più esplicitamente la mente di Sua Santità. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.49 Consideriamo, com' è dover nostro, le cose dall' alto. Una somma bontà e sapienza il tutto dispone per nostro bene e per la sua gloria. Quindi ho benedetto il Signore nella proibizione delle due mie operette, come in ogni altro evento più felice, e con tutta la sincerità e devozione del cuore mi sono sottomesso al decreto, senza conoscerne o ricercarne i motivi. Furono proibite: dunque c' erano ragioni di proibirle, altro a me non importa sapere. Sono bensì grato all' amicizia ch' Ella mi dimostra in questa occasione, di che mi è testimonio la sua letterina. Ho sentito con molto dispiacere, che cotesto ottimo Mons. Vescovo sia incomodato: prego Iddio che ce lo conservi. Spero che Ella qualche volta visiterà cotesti miei buoni fratelli di S. Zeno: li raccomando alla sua amicizia. Quest' anno non potrò vederli, come oltremodo bramerei; ma sia fatta anche in questo la volontà di Dio. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.49 Quando vi scrivevo che sarebbero state poste all' Indice le due note operette, io sapevo che il decreto era stato fatto il 30 maggio e confermato dal Papa il 6 giugno, perchè il Maestro del sacro Palazzo m' aveva scritto officialmente per domandarmi se io mi sottomettevo. Per quantunque improvviso mi sia riuscito un tal decreto (fattosi in Napoli in adunanza straordinaria, con segretario straordinario, essendo uno dei Consultori il P. Secchi7Murro), tuttavia non mi turbò, perchè raccomandandomi a Dio, non solo ebbi la grazia di sottomettermi senza difficoltà, ma anche con consolazione dell' animo mio, pensando che così ed io e l' Istituto sentiremo meglio di essere nelle mani paterne del Signore, e a quelle dolcemente ci abbandoneremo. Nessun motivo mi fu comunicato della proibizione, e proibendosi certi libri non solo per errori che contengano, ma ben anco per una prudente economia che intende sottrarre agli occhi del pubblico quelle dottrine di cui si potesse temere abuso, è verisimile che per quest' ultima causa si sia venuto alla accennata proibizione. D' altra parte non sarebbe la prima volta che con un nuovo esame si sieno tolti dall' Indice dei libri che vi erano stati inscritti, e fra gli altri, i libri che insegnavano il movimento della terra. Ma l' autorità ha parlato, e basta; noi tutti staremo sempre sottomessi ad ogni decisione. Conviene però che in pari tempo accresciamo la nostra fede, e confidati in Dio, stiamo fermi, come scoglio, nella fiducia della sua infinita bontà e provvidenza: sotto le sue ali poniamo noi e l' Istituto, lavoriamo allegramente, e senza avvilirci od abbatterci, per la sua gloria e pel bene de' nostri fratelli: e questa confidenza e santo coraggio domandiamolo a lui stesso caldamente, perocchè egli ce lo darà. [...OMISSIS...] Io mi sento a segno tale contento, che altrettanto non fui innanzi al decreto: la mia coscienza non mi rimprovera nulla: « Deus autem est qui iudicat ». Quando siamo umiliati, umiliamoci ancor più e saremo esaltati: la parola è di Gesù Cristo. Rinunzio alla consolazione di vedervi se la venuta vostra potrebbe pregiudicare cotest' opera santissima, che Iddio v' ha posto così manifestamente alle mani. Vi avrei detto molte cose, che non posso comunicare ad una lettera. La vostra supplica al Papa, benchè giunga tardi, farà buon effetto. Nei disegni di Dio sta qualche cosa di grande, di grande dico, anche agli occhi nostri, perocchè in sè stessi i suoi disegni sono sempre grandi, anzi infinitamente grandi. Circa il rimanente, vi risponderò dal Piemonte, dove conto ritornare, giacchè va da sè, io credo, che il Cardinalato, che il Papa mi obbligò di accettare (onde spesi da otto a nove mila scudi pel corredo), sia andato a finire nella proibizione dei due opuscoli; benchè questi fossero stampati e noti al Papa prima che mi ordinasse di prepararmi ad essere promosso alla porpora nel prossimo Concistoro, che doveva cadere nel passato dicembre. L' essere alleggerito del peso di questa dignità mi è caro, salvo il disonore che me ne viene presso gli uomini; ma anche questo lo sopporto pensando che uno molto maggiore tollerò Gesù Cristo, e che egli sa qual sia il grado d' onore che ci faccia bisogno per meglio servirlo in quelle cose nelle quali egli vuole essere da noi servito. Il nostro caro fratello D. Luigi fu profeta, quando, udita la promozione intimatami dal Papa, mi ammonì di ricordarmi di quel cencio di porpora di cui furono coperte le spalle di Gesù Cristo. Coraggio adunque! Io partirò pel Piemonte entro i prossimi quindici giorni, ma mi fermerò alcuni giorni a Firenze. Orazione, orazione, orazione. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.49 Quando noi con retta coscienza cerchiamo di servire il Signore conviene riposarsi in lui, nè troppo rattristarci di ciò che avviene. Al Signore è piaciuto non solo che venissero poste all' Indice le due note operette, ma che questo affare mi si celasse con tanta secretezza, che allora solo il seppi quando vi scrissi, essendosi bensì fatto il decreto il giorno 30 di maggio e confermato dal Papa il giorno 6 giugno, ma non pubblicato se non sulla fine di luglio. Se avessi saputo prima che questo affare si trattava, non avrei mancato di avvisarvene. Ma come poteva formarne nè pure un prudente sospetto, se dai colloquii avuti col Santo Padre io dovevo anzi indurre tutt' altro? Già molto prima il Santo Padre m' avea detto che i miei avversari avenano la veduta corta d' una spanna. Io l' aveva veduto anche il 9 giugno e i giorni successivi cioè alcuni giorni dopo la conferma del decreto: m' avea trattato come il solito, m' avea parlato delle cose dello Stato, e solo nell' ultima udienza o nella penultima gli uscirono queste parole: « stanno esaminando le sue opere », il che io intesi di qualche esame privato, di cui mi sarebbe comunicato il risultato. In quella vece non si esaminavano, ma il decreto era già fatto, e confermato a voce da alcuni giorni. Lungi da me ogni maniera di cavillazione o di sottigliezza legale; ma ben vi dico, che se un uomo di legge volesse instruire su questo avvenimento un processo, avrebbe molti e validi indizi da far parere verosimile che il Papa non fu libero in tal negozio, che pronunciò contro il suo sentimento a me manifestato più volte, e che la conferma del decreto fu ottenuta orretiziamente e surretiziamente, e per una umana e diplomatica pressione. Ma come dicevo, tutte queste cose, e la mia causa stessa l' abbandono intieramente al Signore, da cui viene ogni cosa e per la causa del quale ho scritto quello che ho scritto: perchè la causa della Chiesa è la causa di Cristo. Le quali considerazioni fecero sì che, pel divino favore, la proibizione non mi abbia recato nè turbamento grave, nè grave dolore; e mi sia sottomesso con semplicità di cuore, senza fatica. Questa finalmente non importa una condanna delle dottrine; ma importa la proibizione fatta a' fedeli di leggere que' libri giudicati inopportuni e dannosi nelle presenti circostanze de' tempi. Così il Pontefice Alessandro II sottrasse agli occhi del pubblico il libro intitolato « Gomorrhianus » di S. Pier Damiani; e non è unico quell' esempio, senza intendere con ciò di paragonare me stesso con uomini così santi e dottissimi; e senza nè pure volere affermare nulla sulla dottrina dei due libri proibiti, sulla quale è certo che non ha parlato ancora la Chiesa. Io credo che se voi conosceste le circostanze in cui si trovava a Gaeta ed ora in Napoli il Santo Padre, vi farebbe assai meno maraviglia l' avvenuto. Persuadete dunque il caro Bertetti, che io nulla vi tenni nascosto di quello che seppi, non vi ho ingannati; ma bensì sono stato ingannato io, e tosto che rilevai la cosa, ve la scrissi con ogni schiettezza. A vostro conforto, voglio altresì aggiungere che l' effetto della proibizione e della mia sommissione, fu più favorevole a noi che contrario; tanto in Roma quanto in Piemonte e a Verona; eccetto nel partito de' nostri avversari. Non temiamo adunque come v' ho scritto nell' ultima mia, ma confidiamo grandemente in Dio, che caverà anche da questo, come da ogni cosa la sua gloria. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.49 Vi sono oltremodo obbligato della cara vostra lettera, che dimostra ad un tempo ardente zelo per la causa di Cristo e della Chiesa, e molta amicizia per me. Ora lasciamo fare a Dio, mio carissimo, e noi non pensiamo che a fare il dover nostro; sforzandoci col divino aiuto di compiere ogni giustizia, secondo l' esempio datoci dal Signor Nostro Gesù Cristo. Questa giustizia voleva che io mi sottoponessi, con sincerità di cuore, al decreto dell' autorità competente, senza badare al modo straordinario col quale venne emanato e alle eccezioni alle quali potesse soggiacere, fra le quali una è il trovarsi in contraddizione colle private parole dettemi dal Sommo Pontefice. Deve essere nel grand' ordine della divina sapienza anche questo un mezzo necessario a fare andare avanti il regno di Dio e la gloria di Cristo: e noi, che altro non vogliamo, esultiamone. Nostro Signore, che non dà mai un peso a portare senza aggiungere forza a chi lo deve portare, ove umilmente gliela dimandi, mi ha conceduto in questa bisogna una pienissima pace ed anche letizia. Che vogliamo noi di più? Intanto uno de' beni che ne verranno, oltre quello della maggior nostra umiliazione e pratica uniformità al suo volere, sarà quello di poterci presto rivedere; perocchè conto di partir da Roma in pochi giorni e per la via di Firenze, Livorno e Genova, affine d' evitare i luoghi infetti di colera, restituirmi al nido di Stresa. Io non so più nulla dell' affare del Cardinalato, dopo esser partito da Gaeta, e dopo la proibizione; ma quello che io credo si è che non avrà luogo alcuna promozione alla porpora prima del ritorno del Santo Padre a Roma, dove è ancora incerto quando si potrà condurre, non prendendo un buon avviamento le cose pubbliche di questi Stati. Godo sentendo che siete stato incaricato dal Vescovo d' insegnare il metodo alle Monache della diocesi, e che lo stesso abbiate fatto colle nostre Suore: l' opera che avete alle mani è opera grande, opera di Dio, cui prego di cuore di volervi rendere un nuovo Calasanzio. Salutatemi in Domino tutti i nostri carissimi maestri, e confortateli ad intendere la dignità e la bellezza della loro santa missione. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.49 Quando noi non vogliamo altro che quello che vuole Iddio, godremo sempre la pace di Cristo che contiene ogni bene. L' improvvisa e inaspettata proibizione delle mie due operette non ha potuto togliermela; nè il modo segreto con cui fu condotta, nè i maneggi d' ogni specie che vi si mescolarono, impedirono che io mi sottomettessi con tutta la sincerità del cuore a ciò che stimò bene di pronunciare la competente autorità. Nondimeno mi conforta l' essere stato assicurato che la proibizione non fu fatta perchè si fosse trovata nelle dette mie operette alcuna proposizione degna di censura teologica, ma perchè si credettero inopportune alla condizione politica dei tempi, dispiacendo sopra tutto a qualche potenza temporale ciò che vi si trova scritto intorno alla maniera d' eleggere i Vescovi, quantunque scrivessi con sincera persuasione di dir cosa non meno utile alla Chiesa che agli Stati, cosa che influirebbe a mio vedere a temperare le esorbitanze de' popoli dando a questi una tendenza religiosa; i quali se non si avviano a pensare ed occuparsi delle cose religiose, rovescieranno la loro esorbitante attività sulla società civile, e ne turberanno tanto più l' ordine, quanto più saranno empi e indifferenti ai negozi religiosi. Comecchè sia, io mi sono ciecamente sottomesso a quel decreto, com' era mio debito. Godo assai de' buoni avanzamenti de' tuoi figliuoli, nei quali il Signore ti benedirà. A me non meno che a te dispiace che la nostra unione sia tolta, o almeno differita. Io credo che non ci saranno promozioni alla porpora prima che il Papa entri in Roma, il che non so davvero quando possa essere, lo stato delle cose pubbliche e delle opinioni rimanendo ancora tutt' altro che sicuro e consolante. Quando poi il Papa sarà tornato alla sua capitale non so quello che sarà di me. Perocchè quantunque a Gaeta stessa m' abbia assicurato che nella prossima promozione avrebbe compreso l' umile mia persona, tuttavia dopo la mia partenza di là venni a sapere ciò che si lavorava in Napoli, di cui fu effetto la congregazione straordinaria che proibì le mie operette: e questo può aver mutata la deliberazione del Papa, benchè nessuno avviso io ne avessi. In questa oscurità e contraddizione di avvenimenti, io penso di tornare per intanto a Stresa ed ivi aspettare l' esito definitivo che mi farà conoscere la volontà divina. Tu già sai che io nulla omisi per declinare l' onore e il peso del cardinalato, e che fui obbligato in coscienza a sottomettermi. Se dunque come tutte le cose sembrano tornare nello statu quo , anche io ritorno nello statu quo ; non è certamente questo che mi rincresca. 1.49 Non ho risposto prima alla dolcissima sua lettera piena de' sensi della più vera cristiana amicizia, ricevuta anche tardi, per diverse occupazioni che mi sottraevano il tempo destinato al carteggio cogli amici. Nel sottomettermi, come ho fatto con pienezza di cuore, al decreto emanato dalla autorità competente e riuscitomi del tutto improvviso ed inaspettato, non ho fatto che un semplice atto doveroso per ogni figliuolo della Chiesa, di cui io sono l' ultimo; nè per grazia di Dio un tale avvenimento mi diminuì punto nè poco la pace. Iddio mi è testimonio che quello che ho scritto, l' ho scritto pel bene della santa Chiesa e del prossimo, ma dichiarando in pari tempo che io non mi reputava il giudice di ciò che potesse convenire ai tempi ed alle circostanze, e quindi che io sottometteva ogni cosa al giudizio supremo della Chiesa stessa, che n' è il vero giudice. Ella ha trovato che fosse meglio sottrarre agli occhi de' fedeli que' miei suggerimenti o consigli; e così sia. Mi conforta che da più persone di merito fui assicurato, che niuna proposizione si riscontrò in quelle scritture degna di particolar censura teologica: onde inferisco che debbano probabilmente essere state proibite per timore dell' abuso, e perchè non rimanessero offesi alcuni Governi tenaci delle nomine vescovili; benchè io credessi in buona fede, che la libertà delle elezioni diventerebbe un vantaggio non meno della Chiesa che degli Stati, ai quali niente più nuoce dell' irreligione dei popoli, nè veggo come questa possa cessare se i popoli non abbiano Pastori di tutta loro confidenza, e i popoli stessi non prendano un vivo interessamento per tutte quelle cose che riguardano la religione e la Chiesa. Rivolta l' attenzione e il pensiero de' popoli alle cose religiose, non rovescierebbero la loro attività aumentata sulle cose politiche con sì gran danno dell' ordine pubblico, come pur troppo veggiamo avvenire e dolorosamente sperimentiamo. Molti già intendono la cosa così, ma non osano zittire, perchè il timore di far peggio comprime i buoni: ed anzi, venendo l' occasione di doversi manifestare, si mettono dalla parte contraria. Io però non veggo tutte le cose presenti della nostra religione santissima di color così fosco come la veggon taluni: ma confido vivamente che la divina Provvidenza vada preparando uno stato novello di cose, alla religione ed alla causa della Chiesa, utile e glorioso. Quanto poi s' attiene alla mia persona, nulla affatto ci penso, come nulla so di quanto sarà per disporre il sommo Pontefice, dopo tutti i precedenti. Intanto conto di restituirmi a Stresa fra i miei carissimi compagni che da tanto tempo non veggo, e m' accompagna la dolce speranza di poter ivi riabbracciare il mio carissimo amico Gustavo. Con sommo dolore debbo dire che qui le cose non procedono come si desidererebbe, nè lo spirito pubblico migliora, nè ancora si sa quando il Santo Padre potrà rientrare con fiducia nella sua capitale. Del pari mi danno gran dolore le cose pubbliche del Piemonte, mia seconda patria, e mi ha pur sommamente attristato vedendo i tentativi sacrileghi che si stanno ordendo per ispogliare la Chiesa delle sostanze temporali, e renderla schiava del Governo che le getti un tozzo di pane perchè viva. Chi avrebbe aspettato in un regno, poco fa così devoto alla Chiesa, macchinazioni così empie e così opposte ai principŒ più elementari del giusto e dell' onesto? E questa dev' essere la strada della libertà? Povera Italia! traditi Governi! Ho ricevuto a suo tempo la lettera scrittami prima in Albano, come pure ho consegnata l' acchiusa per l' Em.mo Tosti, a cui fu aggraditissima. Non è facile a dire quanto La ami e La stimi; egli ha dovuto tornare in Roma per alcuni giorni, dove lo rivedrò domani. Mi usò ogni immaginabile tratto d' amicizia pel lungo soggiorno che feci presso di lui. Mille ossequi a tutta la sua famiglia. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.49 Avrete ricevuto risposta alla vostra precedente lettera; ora aggiungo poche linee per rispondere all' ultima che mi avete scritta in data 17 p. p. settembre. L' abisso della divina sapienza e scienza di Dio merita un abisso di adorazione e di amore; e se la tardità e durezza del nostro cuore di carne non può toccare il fondo di questo abisso, dobbiamo almeno esercitare quegli atti di adorazione e di amore che possiamo maggiori, e il più che vi manca e che ci resta quasi in abito deve supplirsi colla conoscenza del difetto nostro e colla umiltà che ne consegue. Così avremo l' inalterabile pace di Cristo, che non il mondo, ma noi soli sentiamo. Questo principio verissimo ci dispensa altresì dal sottilizzare sull' autorità che ci parla e sugli atti suoi, e ci dispensa da una scienza travagliosa e pericolosa. Tanto più che della proibizione d' un libro non è conseguenza necessaria il contenere esso dottrine degne di censura, perocchè colla proibizione non altro fa la Chiesa che giudicarlo inopportuno a' fedeli, agli occhi dei quali il sottrae, come avvenne di un libro di S. Pier Damiani, e più recentemente dell' opera del P. Lacunza, del quale, parlando io una volta col Papa, mi assicurò egli stesso, che in quel libro non ci avevano dottrine condannabili, ma era stato proibito per una cotal prudenza ed economia della Chiesa. Conviene adunque che noi facciamo quello che è tante volte inculcato nelle divine Scritture colle frasi « expectare Dominum, sustinere Dominum », e ciò con viva sicurissima fede. Del rimanemente ringrazio di cuore il Signore che, mediante l' accidente intervenuto, egli siasi degnato di illuminarvi nella cognizione di voi stesso con aumento di umiltà (la più preziosa di tutte le virtù, perchè fondamento di tutte) e di saviezza. Domani parto per Roma, e di là m' incammino verso coteste anime a me carissime, e tutte colla mia nel Signore conglutinate. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.49 Godo che la lettera del Cardinal Franzoni sia venuta a confortarvi in questa prova che v' ha mandato il Signore. Ma assai più ho goduto in vedere che la divina Provvidenza chiaramente si manifesta a favore del progetto, tanto da voi bramato, di erigere costì un Collegio di Missionarii per le Nazioni estere. Ora mi sembra cosa di somma importanza di cominciare dallo stabilire alcune massime fondamentali che servano di norma alla istituzione di detto Collegio. E prima di stabilirle, bramo di sentire tutti i vostri sentimenti e concetti, dandovi intanto su di ciò un cenno de' miei. Per quanto ho potuto osservare, parmi che nel preparare i Missionarii ad opera così sublime, si possano commettere due sbagli egualmente dannosi, i quali potrebbero isterilire le Missioni. Il primo si è di credere che Iddio doni la grazia dell' apostolato assai largamente, quand' ella anzi essendo di tutte sublimissima, non è data a tutti, ed esige la maggiore cooperazione da parte dei vocati, il cui numero potrà essere accresciuto soltanto per virtù d' orazioni, avendo detto Gesù Cristo: « « La messe è molta per certo, ma gli operai sono pochi: pregate dunque il Signore della messe che mandi operai nella messe sua » ». Sì certamente sono scarsi ed anzi scarsissimi gli uomini apostolici, i quali non possono essere tali, se non sono eminenti nell' orazione e nello zelo di annunziare la parola di Dio. « Nos vero orationi instantes erimus . » E questo ci dee fare conchiudere di non eleggere alle Missioni straniere, in cui si tratti di diffondere il Vangelo agli infedeli, se non quei pochi che sono di provata vocazione, e con zelo ardente a questa cooperano. L' altro errore si è di credere che per le Missioni agli infedeli faccia bisogno una grande scienza analitica, su quella forma nella quale s' instituiscono i Sacerdoti in Europa. Io credo che si dovrebbe studiare per trovare un modo d' instituire tali missionari all' apostolica, un modo che congiungesse insieme la pratica e la teoria, e che questa piuttosto venisse da quella, anzichè il contrario. Vorrei che si procurasse di accendere, o piuttosto nutrire in essi un ardentissimo zelo delle anime; e dico piuttosto nutrire, perchè lo zelo deve già prima ardere in essi, come un dono di Dio e segno della vocazione: le anime fredde e comode si dovrebbero escludere. Vorrei che fossero esercitati prima di tutto nel culto e nell' amministrazione de' Sacramenti, ne avessero il gusto, ne cavassero profitto cercando d' intenderne lo spirito e la lettera, e che dalla Liturgia si traesse, come da uno de' fonti, l' istruzione loro teologica. Vorrei che avessero un' altissima stima e devozione allo studio delle Sacre Scritture siccome ispirate da Dio, e sopra tutto del Vangelo, che n' avessero famigliare la lettura e la spirituale meditazione, ed indi come da un altro fonte si deducesse la loro istruzione teologica. Quando ci fosse tutto questo, ove avessero appreso un compendio contenente tutte le verità definite dalla Chiesa, un compendio di Morale, un altro di Diritto ecclesiastico per ciò che riguarda specialmente la gerarchia della Chiesa, potrebbero essere presso che formati, colla sola giunta di quelle notizie o cognizioni che richiedesse la missione particolare a cui si destinano. Io vorrei che, se Iddio ci dà la grazia di vedere istituito e consolidato questo collegio, gli alunni di esso si destinassero fino a principio tutti ad una Missione determinata, perchè conviene restringersi, e non sparpagliarsi, e perchè, se si prende in vista una sola Missione determinata, si può dirigere tutta l' istituzione a preparare missionari idonei alla medesima; laddove formare in un solo Collegio missionari per più Missioni, sembrami cosa impossibile. Mi pare che noi dobbiamo scegliere fra l' America inglese e le Indie pure inglesi. La Missione americana parrebbe più facile perchè s' avrebbe la lingua, e altro non si richiederebbe che imparare poi sopra il luogo, se non si può prima, le lingue dei selvaggi, nè v' ha quasi bisogno di filosofia. All' incontro se si preferisce l' India, io credo che noi dovremmo tentare una strada diversa da quella che s' è fatta finora, prefiggendoci d' andare ad assalire i bramini, al che fare si esige moltissimo studio delle loro filosofie, oltre alla lingua indiana e l' indiana antica, la sanscrita. Io credo che non si è fatto ancor molto in quel popolo, perchè essendo egli sommamente legato ai loro bramini, non si fa niente o poco rivolgendosi al popolo senza attaccare i bramini stessi, se non convertendoli, almeno confutando le loro dottrine, e facendo loro perdere quel credito di sapientissimi che si mantengono, e dimostrando che i missionari sanno anch' essi tutte le dottrine braminiche, e ne sanno di più, perchè le sanno confutare. Credo che senza questo le Indie non saranno conquistate alla fede, e questo è un lavoro duro e lento, al quale si esige anche molto ingegno, perchè quelle loro filosofie sono veramente maravigliose, e quasi l' estremo sforzo dell' errore. L' Inghilterra sarebbe un paese acconcissimo dove formare dei missionari ben addentro in tali dottrine, le quali sono state fatte conoscere all' Europa dagli Inglesi, specialmente dalla loro società di Calcutta; ma converrebbe mettere a suo tempo i nostri missionari, cioè quando sono più formati nello spirito, e in tal caso si dovrebbero anche formare, nella filosofia, e più avanti nella teologia, in relazione coi letterati e dotti in tali studi che debbono essere a Londra e in altre Università. Io bramerei che consideraste tutte queste mie riflessioni, e mi diceste, dopo invocato il lume divino, se vi paresse meglio assumere l' impresa di formare missionari per l' America, o per le Indie. [...OMISSIS...] 1.50 Voi mi proponete due sottilissime questioni, l' una fin dove, preparandosi a favellare al popolo, possa giungere la confidenza nel divino soccorso, senza che traligni in temerità o presunzione, l' altra come si compongano insieme la semplicità e la prudenza evangelica. Queste sono cose, o mio caro, che nessuno degli uomini può insegnare, e che Iddio ha riserbato a se stesso per insegnarle egli solo ai suoi servi. Ed egli le insegna un poco alla volta, perocchè questa scienza, o piuttosto questa sapienza è troppo grande per essere ricevuta tutta in un tratto da noi così poco preparati. Il perchè niuno ha finito d' apprenderla mai, e i santi v' impiegaron tutta la vita, e ne restava ancora. Conviene dunque dimandarla al Maestro, e non cessare mai di dimandarla con intensissime istanze, e con grida e gemiti, presentandogli l' anima aperta a ricevere tutto quello che egli ci mette, e gli orecchi del cuore aperti a non perdere sillaba della sua istruzione. Perocchè la dottrina celeste è così fatta, che quand' anche ci avesse un uomo che la sapesse e potesse ridurla ad una teoria umana ed esprimerla con parole, ancora avverrebbe che i suoi discepoli non la intenderebbero, se Iddio non aprisse loro l' intendimento alla sua luce, o la fraintenderebbero, se Iddio non dirigesse al vero la loro intenzione. Una cosa nondimeno io vi dirò sulle generali, e questa si è, quanto alla prima questione, che giova prepararsi, specialmente nel caso vostro, con tutta diligenza, nelle cose prima, e poi anche nelle parole, ma senza sollecitudine od inquietezza; nell' escludere questa consiste l' abbandono in Dio, e quest' abbandono esclude la sollecitudine sull' esito, non lo studio e la diligenza. Pensare all' oggetto e dimenticare il soggetto, cioè dimenticare affatto noi stessi, ma intendere con tutto l' impegno nell' oggetto, cioè nella dottrina che dobbiamo annunziare. Quanto alla lingua, di cui fa d' uopo vestirla, chi n' ha più bisogno e chi meno, e chi n' ha più bisogno dee più occuparsi: conviene che ognuno prenda regola in questo da quella misura di cognizione e di facilità che sa di avere. Credo che costì in Inghilterra vi abbia qualche copia di quell' eccellente libro che io raccomando ai nostri Predicatori, e che ha per titolo: « Guide de ceux qui annoncent la parole de Dieu (Chambéry, Puthod, 1.29) »: è una raccolta di precetti dei Santi intorno al vero modo di predicare, e vi troverete anche cose che fanno alla vostra domanda. Quegli poi è uomo semplice , il quale dice sempre la verità, e s' attiene ne' suoi pensieri, affetti ed operazioni, alla giustizia; quegli che non usa frodi per comparire più che egli non è, e che non fa uso di cavillose riflessioni per fare che la verità sia quello che a lui piace, ma accetta la verità qual' è, amandola come tale, senza intendimenti stranieri o fini secondarii: quegli è semplice che non si vergogna di confessare il Vangelo, anche in faccia agli uomini che non lo stimano se non come una debolezza o una fanciullaggine, e di confessarlo in tutte le sue parti e in tutte le occasioni, alla presenza di tutti, e senza fasto, ma unicamente perchè è vero: quegli è semplice che, piuttosto che fare un giudizio temerario, si lascia ingannare e pregiudicare dal prossimo, che prende tutto in buona parte, nè perde il sereno dell' animo suo per qualunque contegno gli altri tengano con esso lui. Questi è quello che è veramente semplice, che è un umile sincero, conoscendo schiettamente tutti i propri mali, e non ischivando altresì di riconoscere e confessare i beni che gli ha dati il Signore, con rendimenti di grazie e infinita gratitudine, non riputandoli a' suoi propri meriti, nè tampoco esagerandoli. Ma il prudente è quegli che sa tacere una parte della verità, la quale sarebbe inopportuna a manifestare, e che taciuta non guasta la parte di verità che dice, falsificandola: quegli che sa giungere ai fini buoni che si propone, scegliendo i mezzi più efficaci con solerzia ed energia di volere e di operazione: quegli che in qualunque affare sa prevedere tutti i casi possibili e le difficoltà che potrebbero incontrarsi, e sa per tempo evitarle: quegli che per tempo antivede ancora le difficoltà opposte o contrarie, cioè le difficoltà che nascono dallo stesso studio di evitare le difficoltà, e quindi sceglie la strada di mezzo che è quella che incontra difficoltà minori e minori pericoli: quegli che avendosi proposto qualche fine buono, ed anche nobile e grande, non lo perde più di vista giammai, e colla costanza del suo proposito giunge a superare tutti gli ostacoli, dirigendo a quel fine tutti i suoi atti, nè lasciandosi scappare occasione alcuna che a quello conduca: quegli che in ogni affare distingue nettamente ed afferra la sostanza, nè trattenendosi, nè lasciandosi impacciare dagli accidenti, trascurati i quali, più rapidamente giunge a cogliere il suo fine, e quindi bada che le sue forze non divergano e si sparpaglino in varie direzioni, ma tutte le tiene serrate e converse nel fine che si propone: quegli finalmente che, dopo aver fatto tutto ciò, spera il buon esito da Dio solo, e a lui lo domanda, e lo vuole se lo vuole Iddio, e non si raffredda, nè si cruccia, nè si pente, nè rallenta il suo bene operare, se non gli riesce, contento d' aver fatto tutto ciò che sta in lui, e sicuro che il fine ultimo non gli è mancato, perocchè questo fine ultimo all' uomo prudente del Vangelo non è più altro che la volontà e la maggior gloria di Dio. Voi vedete, mio caro, che questa semplicità non ha nulla che contraddica a questa prudenza, e questa prudenza nulla che contraddica a questa semplicità. La semplicità sta nell' amare e la prudenza nel pensare: l' amore è semplice, l' intelligenza prudente: l' amore prega, l' intelligenza vigila: « vigilate et orate », ecco la conciliazione della prudenza e della semplicità. L' amore è come la colomba che geme, l' intelligenza operativa è come il serpente che non cade mai in terra, nè mai urta, perchè va tastando col suo capo tutte le ineguaglianze del suo cammino. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.50 Ancor domani celebrerò la santa Messa in suffragio dell' anima di sua madre e la farò suffragare colle orazioni de' miei compagni. Le quali orazioni non sono utili soltanto ai defunti, ma di conforto anche ai sopravviventi; perocchè, in virtù di quel lume della fede che non inganna, noi sappiamo con una immobile persuasione che quelle care persone, le quali partendosi di questo mondo nella fede di Cristo ci si tolgono dagli occhi, non è vero che sieno morte, ma solo che vivono in un altro modo. E di più dobbiamo sperare, che questo nuovo modo di vita sia troppo migliore e più perfetto di quello che aveano prima: chè per verità il verme o la crisalide non muore quando diventa farfalla, ma riceve l' ultima forma dell' esser suo. E credo veramente che, se noi ci staccassimo col retto giudizio e coll' affetto da questa vita di senso e di carne, la quale è in fine un' incomoda e corruttibile prigione, e giungessimo a dimorare col vigore della nostra volontà in quell' altra forma di esistenza serena e spirituale, nella quale lo spirito entra tostochè è liberato dall' ingombro corporeo; proveremmo una letizia spirituale della morte nostra o de' nostri, la quale tempererebbe ed anzi vincerebbe la naturale tristezza che induce in noi l' animalità che si scioglie. Non che questa letizia possa venire all' uomo dalla condizione della sua natura, ma certo da quel Cristo Signore, nel quale siccome membra al capo siamo incorporati, e il quale vive di vita immortale e beatissima, e comunica alle sue membra della stessa vita quando ancora militano quaggiù, e più pienamente quando passano di quaggiù colà dov' egli si trova, e dove compensa abbondevolmente l' anime ignude di quello che collo spoglio de' sensi corporei hanno perduto. Ma veramente ardua cosa è mantenere lo spirito nostro così sollevato, e anzi ella è opera della grazia e della fede che in noi si aumenta coll' orazione. Onde io dicevo che questa non riesce di minor conforto e consolazione ai sopravviventi che di suffragio ai defunti. Voglia, mio carissimo amico, trovare alleggerimento al suo gravissimo dolore in queste belle e preziose verità, e non abbandonarsi di soverchio alla tristezza. So pur troppo quanto il Signore in questi due anni passati L' abbia voluto provare e purificare colla tribolazione, la quale è un segno indubitato dell' amor suo. E se la compagnia de' mali può attenuare, come si suol credere, il dolore ai compazienti, io bramerei ch' Ella potesse vedere nell' anima mia; poichè in allora chiaramente conoscerebbe che non Le mancano compagni nelle sofferenze e nelle tribolazioni, e forse Le parrebbero scarse le sue. Ma colui che castiga è quegli ancora che consola: riceviamo l' una e l' altra cosa dalle stesse mani amorose: al doppio regalo corrispondiamo con doppio amore, cioè coll' amore della rassegnazione e con quello della riconoscenza. Così perverremo, aiutandoci Iddio, ad una condizione di animo che gode mai sempre, come quello che sa derivare un cotal gaudio dallo stesso dolore: « Ut gaudium vestrum sit plenum . » Ma più lungamente e forse più soavemente ragioneremmo di tali cose se Ella fosse presente, e però Ella mantenga il promesso, venga a passare alcuni giorni nella solitudine di Stresa, dove filosofando insieme procureremo di darci l' un l' altro conforto. [...OMISSIS...] 1.50 Pervenne a' miei orecchi una cosa di voi, mio caro figlio, la quale mi ha molto amaricato, cioè che vi siete non poco rilassato nello spirito, e divenuto negligente nello studio dell' orazione. Se la cosa è così, conviene che abbiate grande timore e sospetto di voi medesimo, acciocchè Iddio non vi castighi. Perocchè Iddio ha usato con esso voi ogni liberalità, e oltre il farvi cristiano, vi ha eletto fra quelli che si debbono dedicare al suo più stretto servizio, e arrivare alla perfezione della vita; e vi ha raccolto dal mondo in una casa a lui consecrata, e quasi direbbesi nel suo stesso palagio, cioè nella religione. Ora se Iddio è liberale, egli è anche geloso, e pretende che quelli, a cui egli è andato incontro il primo, offerendo loro i più alti posti nel suo regno, riconoscano il valore e la preziosità di tale sua grazia, e non la prendano a festa, ma le corrispondano siccome è degno. Il che non fanno sicuramente quelli che sono pigri ed accidiosi, e hanno quasi noia e fastidio di trattare con esso lui nell' orazione, la cui conversazione non ha amarezza nè fastidio, ma ogni letizia ed ogni gaudio; e chi non la prova questa letizia e gaudio ineffabile nello stare in istretta conversazione con Dio nella orazione, è manifesto segno che ha l' animo rozzo e duro, quasi privo di senso spirituale, e senza lume a conoscere l' infinita grandezza e dolcezza e bontà di quel Dio a cui si sta presente, e a cui parla. Onde se costui vuole veramente il bene e il vero, nè ama ingannarsi da se stesso, deve provare grandissimo dolore e timore in conoscersi così freddo, insensato e stupido, e non dee aver quiete nè dì nè notte, fino che non ha trovato la compunzione, e ricuperato il gusto spirituale e il fervore della preghiera e di tutti gli esercizii di pietà. E lo troverà se vince se stesso, se vince la sua carnalità superba, colla mortificazione e colla umiltà prima di tutto, e poi col durarla imperterrito nella fatica del pregare; la quale fatica, se colla buona e forte volontà si sostiene e supera generosamente, cessa dopo qualche tempo d' essere fatica, e diventa soavissimo esercizio, a cui l' anima infervorata trae e anela, siccome l' affamato al cibo più ghiotto. Sollevatevi dunque, carissimo figlio, dalla bassezza della tiepidità in cui pare siate caduto, e staccandovi da voi stesso e da ogni pigrizia, siccome buon soldato, senza temere patimento di corpo, riprendete alacremente i santi esercizii della orazione, specialmente quelli che sono ordinati dalle nostre consuetudini, e più ancora, se potete spronare lo spirito vostro ad una maggiore generosità. Considerate che se noi non vogliamo ridurre veramente in pratica gli insegnamenti di Gesù Cristo, e tenere dietro da vicino a' suoi esempi, egli è vano e falso il chiamarci suoi discepoli, e la vita che abbiamo intrapresa non si sa dove se ne andrà a riuscire, ma non certo a buon punto. Se dunque non vogliamo faticare indarno ed esserci messi per questa via della religione senza pro, conviene che quelle parole: « sine intermissione orate », e quelle altre: « vigilate et orate », e ancora: « petite et accipietis », ci stieno presenti, e siano da noi adempite coll' opera, acciocchè diventino per noi un titolo alla mercede e alla gloria, e non anzi una legge che ci condanni: conviene altresì che portiamo di continuo dipinto innanzi agli occhi nostri Gesù Cristo, che pernotta in orazione o sul monte, o nell' orto con effusione di sangue, o sulla croce con un valido clamore, siccome nostro vivo modello, in cui ci sforziamo continuamente di trasformarci, facendo in lui e con lui quello che egli faceva e che fa tuttavia, « qui sedens ad dexteram Patris interpellat pro nobis ». Non inganniamoci, mio carissimo, chi non prega non può reggersi in piedi, nè stare con Dio: chi prega poco, fa poco bene; chi prega molto, ne fa assai, e noi ci siamo obbligati, mio caro, colla nostra professione di vita tutta ardente di carità, di farne assai; e però dobbiamo pregare molto e, se non lo facciamo da vero, veniamo meno al nostro dovere, falliamo al nostro fine, ci pasciamo di vento, non possiamo avere quella carità a cui ci obbligammo, a cui, in cui, e per cui debbono essere tutte le nostre operazioni. Voi direte che l' ufficio vostro di Maestro di belle lettere ha del profano e distoglie l' animo dalle cose di Dio. - Appunto per questo dovete più fortemente e più assiduamente pregare; il vostro officio è tale, che esige che voi otteniate da Dio, a forza di orazione, di renderlo innocuo all' anima vostra, e utile spiritualmente ai vostri prossimi; egli è necessario che colle più fervide e perseveranti istanze otteniate da Dio una sì gran misura di carità, che santifichi i vostri studii, e, quasi direi, da profani li faccia divenire santi e spirituali; il che avverrà se li professate con una profonda umiltà di cuore e disprezzo di voi medesimo, con una retta e pia intenzione di servire Iddio ne' prossimi, e con un' industria di giovare con essi anche spiritualmente, ed anzi prima di tutto spiritualmente, ai vostri discepoli, guidato da un vero e ardente zelo della salute delle loro anime, alle quali un maestro di scuola può sempre in molte maniere giovare, perocchè l' Istituto della carità non prende propriamente a insegnare se non per questo gran fine, in cui la carità di Gesù Cristo consiste. Onde il fermarsi coll' istruzione o coll' operazione nella letteratura, o nella grammatica, o nella filosofia, o in altra scienza profana, senza pervenire fino al Vangelo, in cui sta la salute, è somigliante a chi si trattenesse in sul viaggio a mezzo del cammino, senza pervenire allo scopo del viaggio stesso. Questo scopo (che finalmente è la patria celeste, a cui noi siamo avviati, e a cui dobbiamo trarre con ogni industria insieme con noi quanti più possiamo, tale essendo la professione della nostra vita e l' intento dell' Istituto della carità) non si può certamente ottenere senza la grazia di Dio, nè questa senza l' orazione, nè l' orazione si fa utilmente senza mortificazione, che dura e resiste alla ripugnanza e alla fatica che oppone la carne, e senza umiltà che abbassa lo spirito internamente ed esternamente altresì, sommettendo il collo in tutto e per tutto al giogo santissimo della religiosa disciplina ed obbedienza. Queste cose io vi metto sott' occhio, o carissimo, e quell' amore che vi porto in Cristo, com' è mio debito, farà che di qui avanti io tenga gli occhi aperti specialmente sopra di voi, per conoscere i vostri andamenti e il vostro profitto nella via dello spirito e nell' osservanza delle nostre sante regole. Che se mi dovessi accorgere che l' ufficio di maestro, che vi ho affidato, potesse menomamente nuocere a quello che più, ed anzi, che solo importa, voglio dire all' anima vostra, non tarderei di richiamarvi al Noviziato. Ma spero che voi compirete tutti i miei desiderŒ, svegliando voi stesso, e dandovi al servizio del Signore con nuova lena e vigore. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.50 Vi sono obbligato della parte che prendete alle mie tribolazioni, e dei conforti che con ciò mi porgete. Io posso dire veramente col Salmista: [...OMISSIS...] . E nulladimeno, a malgrado di tanti motivi di afflizione, di tante acque ingrossate che « intraverunt usque ad animam meam », procuro di tender l' udito a quella parola di vita che rianima i morti stessi: [...OMISSIS...] . Ci ascolterà, ci esaudirà, se lo pregheremo: perocchè questo, mio caro, egli è per verità, più che ogni altro, tempo di preghiere e di supplicazioni, e di umili confessioni al Signore dei nostri peccati; e dobbiamo perciò congiurarci insieme, direi, per fare alla lotta con Dio, siccome Giacobbe. Questo io mi aspetto da voi, carissimo D. Michele, che facciate qualche sforzo di bene per me in questi momenti, e suggeriate ai fratelli di farlo anch' essi. Viviamo di fede: [...OMISSIS...] . Sia in noi l' afflizione che salutarmente ci umilii, non l' avvilimento che ci sgagliardi, o l' indifferenza che ci insuperbisca: sia il rispetto e l' affetto filiale e l' obbedienza all' autorità che ci percuote e che castiga, secondo il divino beneplacito, le colpe di cui pur troppo siam gravi. [...OMISSIS...] 1.50 Ho inteso dalla vostra lettera, mio carissimo in Cristo figlio, le vostre tentazioni ed i vostri combattimenti, e sento tuttavia compassione del vostro stato. Ma il valoroso atleta di Cristo non si smarrisce alla moltitudine de' suoi nemici spirituali, perchè sa di poterne riportare compiuta vittoria, quando milita sotto le insegne del suo invincibile capitano Gesù Cristo, che colla sua preziosissima morte ha debellato il diavolo e tutti i suoi angeli, e a lui si stringe, e da lui domanda incessantemente aiuto e soccorso. Io v' insegnerò dunque ad uscire dai pericoli e dalle angustie in cui vi trovate, purchè mi diate ascolto e adoperiate i seguenti mezzi: 1 Ogni giorno fate almeno per tre volte una fervorosa protesta di odiare e aborrire qualunque peccato anche minimo, e di voler piuttosto morire, che accondiscendere ad alcuna tentazione: e procurate di rinforzare il decreto della vostra volontà di voler sempre il bene, il giusto, l' onesto, ciò che in una parola vuole Iddio santo per essenza, e ciò che piace agli occhi suoi. 2 Siate semplice e sincerissimo col vostro Superiore, e dite a lui candidamente tutte le vostre tentazioni, e tutti i pericoli che vi pare d' incontrare, e le debolezze, le cadute di cui vi rimorde la coscienza: e ricevete da lui con grande umiltà e gusto le correzioni, le mortificazioni, le penitenze, cercando sempre ciò che più serve ad umiliarvi ed a mortificarvi. 3 Domandate spesso e fervorosamente a Dio, a Gesù Cristo ed alla vostra amabilissima madre Maria, di cui spero che sarete figlio amoroso e devoto, e sempre più diverrete, la grazia: 1 di esser umile; 2 di esser casto e puro; 3 di amare il prossimo senza limitazione o parzialità di sorta, distruggendo in voi ogni sentimento d' invidia, di malignità, spirito di censura, disprezzo, ira, impazienza, intolleranza, vendetta. Convien che vi facciate forte a pregar molto e fervorosamente, e la vittoria è sicura. 4 Usate gran mortificazione de' vostri sensi, non guardando, o almeno non affisando mai le persone pericolose, non avvicinandovi mai ad esse per pura inclinazione, ma solamente quando lo vuole la necessità, o l' ordine, o il caso. 5 Cercate di far del bene a tutti senza distinzione, e quando sorge nell' animo vostro un pensiero di poca carità, o qualche immaginazione contraria all' angelica virtù, subito fate un atto contrario; e con forza e valore, invocando il nome di Cristo, di Maria, degli Angeli o de' Santi, datele addosso senza lasciarle tempo, acciocchè la vostra volontà si renda superiore ai nemici e non si lasci giammai dominare o indebolire. Mio caro, con questi pochi mezzi potete vincere, se volete; e certo lo vorrete. Adunque coraggio, all' armi! In breve tempo vi sentirete confermato più che mai nella vostra santa vocazione, e imparerete a conoscere qual tesoro preziosissimo vi abbia dato Iddio in essa: e quando avrete ben conosciuto questo, da quell' ora farete progressi grandi nella via dello spirito, verso a quella perfezione, a cui voi dovete con animo generoso, ma umile insieme, corrispondere. 1.50 Parmi di rilevare dalla vostra ultima letterina che non abbiate ben inteso lo spirito di quanto io vi ho scritto. Non trovate voi nella mia lettera suggeritivi de' mezzi opportuni per uscire dallo stato di tentazione in cui vi trovate? E` vero che io non v' ho detto di essere disposto a trasportarvi in un' altra Casa, perchè non l' ho creduto necessario; ma se sarà necessario, farò anche questo, farò tutto per vostro bene. Ma badate di non angustiarvi senza cagione, perchè non dovete già credere che le tentazioni, a cui si resiste, sieno peccati: fatevi coraggio, e da una parte combattete colle armi della fede, dall' altra non v' inducete a credere d' avere acconsentito e d' esser caduto, quando per grazia di Dio, non avete acconsentito e non siete caduto. Il sentire delle molestie venienti dai nemici infernali è una prova che permette il Signore, ma voi opponete la volontà ferma nel Signor vostro amabilissimo. E poi fate di tutto per poter conoscere ed amare questo Signore, e trovar piacere nella sua dolcissima conversazione: perocchè in questa maniera non vi riuscirà grave il pregarlo e il supplicarlo; ma troverete esser cosa allo spirito dolcissima, benchè penosa alla carne. Già sapete che i santi trovavano le loro delizie nell' orazione, la quale non si può sentire quanto sia dolce, se non si pratica. E se non vi sentite inclinato all' orazione, domandate anche questa grazia al Signore, che è la grazia delle grazie; e se vi sforzerete a dimandarla istantemente con tutto il cuore, ve l' accorderà e vi farete santo. Se non vi pare di aver approfittato del Noviziato, cominciate adesso; e se non vi riesce costì, scrivetemi, che, quantunque mi rincresca farvi interrompere gli studi, farò anche questo, vi richiamerò. Ma cacciate i pensieri contro la santa vocazione, in cui Iddio vi ha chiamato, e dove potete assicurare la vostra eterna salute; e per una leggerezza non inclinate mai l' animo a buttar via un così grande tesoro, chè ne lamentereste poi forse la perdita inconsiderata, tutta la vita, ed anche l' eternità. Orsù adunque, cominciate ad operar virilmente: Maria Santissima sia il vostro rifugio, stringetevi al suo patrocinio, ed abbiate viva fede nella sua pietosissima intercessione. Spero che dopo qualche tempo mi darete migliori nuove del vostro spirito, nuove liete e consolanti. Alleluia . [...OMISSIS...] 1.50 La lettura della cara vostra ha destato in me grandissima compassione del mio caro fratello, il quale però confido che dalla presente lotta uscirà vincitore, e ritrarrà grandissimo vantaggio. [...OMISSIS...] Nella prossima settimana, se il tempo me lo permette, io verrò a trovarvi, come tanto desidero e vi condurrò meco lasciando un altro a fare le vostre veci nella scuola per alcuni giorni, e spero che, variando un poco tenore di vita, vi refocillerete, coll' aiuto di Dio, il corpo e lo spirito. Del resto consideriamo che siamo posti in questa breve vita per fabbricarci una casa eterna, dove riposeremo dalle fatiche e dalle noie, nè ci sarà più cosa che ci arrechi tedio o fastidio. Col pensiero a questa grand' opera, a compir la quale Iddio ci ha posti quaggiù, quello che in sè stesso è molesto e alla nostra infermità pesante, ci parrà cosa preziosissima: il tesoro infinito del merito che è nascosto nel travaglio e nel patimento, stando sempre davanti agli occhi nostri, ci conforterà, e ci rallegrerà assai più che non faccia al cuore dell' avaro un monte tutto d' oro e di gemme che gli si offre a guadagno. Se guardiamo in giù o d' intorno, è vero pur troppo, siamo « lutea vasa portantes quae faciunt invicem angustias »; ma se all' incontro guardiamo in su, si dilatano subito immensamente gli spazi della carità. [...OMISSIS...] Se guardiamo a noi stessi, è giusto che ne prendiamo orrore; ma se guardiamo al nostro Creatore e Redentore Iddio, è impossibile (colla sua grazia) che non sentiamo fiducia e allegrezza infinita, e un bene che condisce ogni amarezza, e in cui si perde dolcemente il cuore che non può abbastanza ingrandirsi e vorrebbe rompere la propria limitazione. - Che se sorgono in noi delle antipatie alle cose e alle persone, reprimiamole, mio carissimo, per l' amore del nostro Dio; perchè esse sono un difetto, e ci rubano la dolcezza del cuore, e diminuiscono in noi la carità e le forze spirituali per progredire costanti nel cammino della virtù. Non così facilmente conosce l' uomo il male ed il danno delle antipatie, che si manifestano nell' animo suo; e però, senza accorgersi, egli non le combatte, ma piuttosto le lascia in pace, o pur anche le coltiva e le nutre con ragioni speciose e col pretesto del bene: perocchè sembra che nascano dal volere tutte le cose e le persone perfette su quell' ideale che ci sta nella mente, e questo sembra che sia un volere il bene, onde parendoci d' essere mossi da un nobile sentimento, non badiamo a quel vizio funesto che esse contengono: non badiamo che esse sono opposte alla sapienza, la quale ci dice di non doversi aspettare quaggiù la piena perfezione, sono opposte alla santissima umiltà come quelle che presumono troppo dell' uomo e di noi stessi, e sopra tutto sono opposte alla dolcissima carità, [...OMISSIS...] Conviene adunque queste antipatie, forse troppo neglette fin qui, in noi combatterle e distruggerle, e sostituire ad esse altrettante simpatie d' altissima carità, di quell' altissima carità che ha il punto della leva fuor di questo mondo, nell' astro del cielo eterno che è GESU` Cristo. - E GESU` Cristo stesso volle passare più di trent' anni in queste nostre angustie, ed ebbe anch' egli a desiderare la morte, quella morte però nella quale stava il volere del Padre, e potè dire anch' egli: « Baptismo habeo baptizari: et quomodo COARCTOR usque dum perficiatur »! Quanto le angustie di Cristo sono state maggiori delle nostre! Certo di tanto, di quanto egli era più grande di noi; e tuttavia ristretto e angustiato alla nostra misura, e fra uomini come noi imperfetti, che colle loro imperfezioni lo angustiavano e pressavano d' ogni parte, fu suo cibo il fare la volontà del Padre suo, e per fare questa volontà, li sopportò, visse con loro, e patì e morì per loro, anzi per noi tutti: perchè anche noi, noi stessi, l' abbiamo premuto, e angustiato, ed afflitto e, Dio non voglia, fin anco crocifisso. E` dunque giusto, equo e doveroso che anche noi sopportiamo in pace e in rassegnazione le nostre angustie, e in esse ci consoliamo al pensiero di rassomigliarlo da lontano e di compensarlo in qualche modo colla nostra pazienza; perchè egli si rallegra se ci vede portare con fortezza le nostre afflizioni, e si rallegra per l' amor che ci porta, cioè perchè vede che il nostro patire generoso ci ammigliora e ci perfeziona, giacchè la sola pazienza « opus perfectum habet », e arreca a noi stessi, se ci pensiamo al vero suo lume, l' indicibile contento d' essere così suoi imitatori. « Similes ei erimus » in cielo, quale inebriante speranza! Ma se non abbiamo un cuore di sasso, non ci deve essere men cara la speranza, ed anzi la certezza, di essere a lui simili in terra. Questa certezza ci abbellirà e spargerà di fiori e di viole, e di gigli, tutte le nostre occupazioni, le quali per se stesse ci fossero pure ingrate, ma specialmente quelle che noi facciamo per amor di Dio e per amor del prossimo; e così aggiungerà vita alla nostra vita, e come noi dell' Istituto ci proponiamo di fare tutto per questi amori, tutto altresì ci ritornerà abbellito, e infiorato, e illuminato dal brillantissimo lume della vera vita. Coraggio adunque, mio carissimo, all' opera, all' opera! vincendo noi stessi, vinceremo i nostri nemici che ci vogliono offuscare quel cielo sereno, sotto cui dobbiamo e possiamo vivere, in cui astro fulgidissimo è il sole della giustizia, che « exultavit ut gigas ad currendam viam ». La carità, la pazienza, il compatimento, la fede, ma sopra tutto l' orazione, una tenera e perseverante orazione, ci arrecherà quella luce di cui abbisognamo per intendere praticamente tutto quello che ho scritto in questa lettera, traendola dalle divine carte, e ci confermerà in quei santi propositi, a cui l' uomo non può venire meno se non si abbandona alle tenebre della carne, e del sangue, e del demonio. Perocchè queste sole sono quelle cose che distolgono l' uomo dalla virtù e dalla giustizia, non mai alcuna ragione, alcuna intelligenza, alcuna virtù. Spero nel Signore, che quando verrò costì, vedrò la vostra faccia serena e lieta: così spero nel Signore, così ne lo prego. Ci consoleremo a vicenda, abbiamo entrambi delle afflizioni, abbiamo entrambi delle consolazioni, accomuneremo insieme le une e le altre, e faremo, o piuttosto Iddio farà in modo che prevarranno le seconde alle prime. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.50 Ho sempre apprezzato altamente le scritture di V. S. chiarissima, e appena saputo che l' annunziato suo libro era uscito alla luce, avea data commissione che mi fosse provveduto. Ed ecco che ora lo ricevo, doppiamente caro, dalla sua gentilezza, accompagnato da una cortese lettera. E` appunto uno di que' libri, ove si tratta di quegli argomenti nei quali sono consegnati i semi, così scarsi tutt' altrove, delle speranze che ci rimangono. Gli educatori e le educatrici, che io in qualche modo dirigo, e che già si giovarono della « Guida dell' educatore », profitteranno anche del nuovo ordine e della nuova perfezione ch' Ella aggiunse alle dottrine pedagogiche, colla gratitudine dovuta a chi, con tanto senno, lucidezza ed amore, porge così utili documenti e validi conforti alla laboriosa e difficile vocazione. Io ne ringrazio V. S. anche a loro nome. Ma con questo solo non mi parrebbe di averle significata compiutamente la mia gratitudine e la stima grande che ho sempre avuta della sua persona: un segno più certo Le sia dunque il pensiero che oso soggiungerle. Io sono persuaso che l' uomo (e molto più la società) non possa raccogliere nè anco in questa vita tutto il bene che la Provvidenza ha disposto per lui, se non a condizione, che egli, come a termine fisso, volga tutta la sua attività a' suoi eterni destini. Non trovo un altro punto d' appoggio così fermo che mai non ceda, dove puntar la leva per movere, in qualunque circostanza, l' uomo alla virtù, se non quello che è fuori di questa terra, un bene eterno. E` un sentimento intimo al cristianesimo espresso in quelle parole del Salvatore: « « Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno aggiunte » ». E mi sembra, che questo sia appunto quel più alto ordine di cose, ch' Ella m' accenna nella sua lettera « aver procurato d' insinuare negli animi senza che paia ». Rendendo piena giustizia alle sue intenzioni, mi si offriva qui all' animo spontanea la domanda; se non sarebbe naturale, non sarebbe almeno conveniente, che apparisse in tutta la luce, quel principio che dee pur reggere tutto l' uomo in ogni suo fatto, e al quale tutti gli altri principii vogliono essere subordinati, dal quale sono corroborati e santificati. Il rifiuto o l' indifferenza che ne mostra il mondo, potrebbe forse essere una ragione di più per insistervi. Ecco quanto affido alla sua saviezza ed alla sua benevolenza. Il grave argomento che Ella tratta sotto il titolo: « Ragionevolezza dell' uso delle punizioni »mi pare che dovrebbe ricevere delle importanti modificazioni, considerato in quell' ordine più sublime. Mi è non poco doluto che il mio celere passaggio da Firenze m' abbia privato del vantaggio di riveder Lei, e di conoscere di persona l' egregio Gino Capponi di cui ho tanta venerazione; e ben mi desidero, ma non ispero così presto, qualche altra fortunata occasione. [...OMISSIS...] 1.50 Duolmi di sentire dalla cara vostra del 26 corrente i difetti di alcuni nostri fratelli. Io voglio darvi alcune regole per arrivare a toglierli, se si può, e quando usati tutti i mezzi che sono in nostro potere, non si riesca, per licenziare dall' Istituto gli inosservanti. Le regole sono queste: 1 Il Superiore deve dimostrare una ferma volontà che tutte le regole sieno osservate. Se i fratelli sieno una volta ben persuasi che il Superiore vuole , state certo che non si prenderanno facilmente certe libertà; 2 Il Superiore deve dimostrare questa ferma volontà in un modo coerente, in maniera che da tutte le sue parole e da tutti i suoi atti chiaramente risulti, senza che sia mai trovato in contraddizione per ragione di parzialità o di fiacchezza; 3 Questa ferma volontà deve essere dimostrata con tutta la dolcezza, e l' amabilità di modi, e le dimostrazioni d' affetto; ma quella dolcezza deve cadere sul modo e non sulla cosa : deve stabilire la fermezza della volontà, non distruggerla; 4 Deve ancora questa fermezza essere dimostrata colle più chiare ed esplicite parole, senz' alcun timore o riserbatezza, cioè non conviene dire le cose a mezzo nè oscuramente, ma precise e bene determinate, e vale anche qui il proverbio: patti chiari e amicizia lunga ; 5 Il Superiore nel dimostrare questa fermezza di volontà in esigere l' osservanza e l' obbedienza, non deve escludere la discrezione , che consiste nel dispensare nei casi particolari da qualche regola, quando o il bisogno della salute, o altra buona ragione lo esiga; 6 Conviene che il Superiore parli aperto e senza riguardi, ma nello stesso tempo con mente fredda , protestando di non voler altro che il bene e l' emendazione; 7 Il Superiore non deve risparmiare le correzioni e le penitenze; ma deve prima ben accertarsi del fatto e prendere notizia delle circostanze. Deve ascoltare a testa fredda le giustificazioni, e se conoscesse d' aver preso uno sbaglio, deve tosto cedere, dando prove che lo moveva il solo zelo del bene e l' amore della giustizia. Deve anche distinguere i falli che traggono seco rilassatezza e conseguenze funeste, da altri falli accidentali e materiali, e rispetto ai primi deve essere inesorabile. Deve graduare la forza della riprensione e della penitenza, e, se non c' è emendazione, deve dichiarare al fratello francamente che va a scrivere al Provinciale e successivamente al Generale; i quali indubbiamente lo sosterranno a qualunque costo, anche a costo di licenziare il fratello dall' Istituto, se sarà necessario; . Se nelle correzioni il Superiore deve conservare al maggior segno la testa fredda, e dichiarare in un modo esplicito la sua volontà senza parole inutili che dicano di più di quello che esige il caso, le quali dimostrano qualche irritazione o riscaldo; in tutto il resto del tempo il Superiore deve dimostrare la più grande amabilità, famigliarità e umiltà, usando spesso qualche attenzione e graziosità a' suoi sudditi, specialmente a quelli che sono stati corretti, e si sono emendati, od hanno promesso emendazione. Già s' intende che questi atti gentili non debbono essere tali da rilasciare per nulla l' osservanza delle Regole, il che sarebbe contro il fine; 9 Finalmente il Superiore deve prestare aiuto e sostegno ai fratelli nell' esecuzione delle loro incombenze ed officii. Facciamoci dunque coraggio, o mio carissimo, e se siamo uomini, pensiamo che abbiamo vicino Iddio che aiuta sempre colla sua onnipotenza quelli che confidano in lui, e che operano per lui. 1.50 Quello che mi dite nella cara vostra è tutto vero. Un giovane che deve fare il Superiore ha pur troppo delle grandi difficoltà da superare, ed è solo con un grande aiuto ottenuto da Dio coll' orazione, con un' assidua vigilanza sopra se stesso, su tutti i suoi atti e su tutte le sue parole, ch' egli riuscirà in un tale e tanto ufficio. Nello stesso tempo questa prova gli riuscirà infinitamente utile per emendare e formare se stesso, se con grande spirito di Dio e con grande impegno la intraprende. I due perni del suo reggimento debbono essere: 1 disciplina ; 2 dolcezza. Disciplina , non lasciandosi per debolezza o per alcuna leggerezza rimuovere dal proposito di mantenere e far mantenere la perfetta osservanza in tutte le cose importanti, usando qualche volta nelle meno importanti la debita discrezione. Dolcezza , non potendo egli per la sua età far uso di molta autorità e rigore, e dovendo pure ottenere il fine assolutamente necessario della religiosa disciplina; la dolcezza, la persuasione, la ragionevolezza, l' affabilità de' modi, ma ferma ed irremovibile, è quell' arma a cui deve di continuo por mano, ed è un' arma così potente che può ottener con essa le più belle vittorie. Ma quando fosse necessario, avrà poi un' altra arma, quella di ricorrere ai Superiori maggiori, dando loro imparziali e chiarissime relazioni de' casi, ne' quali debbono intervenire per sostenerlo. Questo vi scrivo per incoraggiarvi, e perchè tali documenti vi saranno sempre utili. V' abbraccio intanto teneramente, e abbraccio con voi tutti cotesti carissimi, a cui prego dal Signore grazie e virtù da conoscere ed amare quanto sia bella e gradita a Dio l' opera della carità che esercitano. [...OMISSIS...] 1.50 Con una veneratissima sua lettera del 20 maggio p. p. Vostra Eminenza mi manifestava, come l' animo del Santo Padre non era punto cangiato in verso l' umile mia persona: « e come il desiderio di darmene una pubblica testimonianza si manteneva egualmente vivo: in prova di che per ben due volte Le aveva ordinato di scrivermi su questo proposito per manifestarmi questa sua disposizione, ed insieme farmi conoscere che manderebbe con tanto maggior compiacimento ad effetto le intenzioni già manifestate sulla mia persona, facendo io precedere qualche spiegazione declaratoria di quelle proposizioni, di cui hanno abusato gli avversari per sollevarmi contro la censura ». Grato a tali sentimenti dell' augusto Pontefice, nella mia risposta in data 30 maggio p. p. io esprimevo la profonda mia riconoscenza verso Sua Santità, e poi, rammentando i diversi atti co' quali avevo procurato di soddisfare al volere della Sua Santità medesima per quanto aveva potuto conoscerlo, dichiaravo di esser pronto a fare con egual docilità quanto per mezzo di Lei mi si richiedeva di nuovo: al qual fine pregavo Vostra Em.za d' indicarmi le proposizioni bisognose di quelle spiegazioni declaratorie che il Santo Padre desiderava. Non ricevendo pel corso di più mesi alcuna risposta, e dubitando che la mia lettera si fosse smarrita, ne ho replicata un' altra in data del 5 agosto p. p., raccomandandola a persona sicura; e in risposta a questa ieri ho ricevuta la veneratissima sua del 2. agosto, nella quale, senza far più menzione delle spiegazioni declaratorie, di cui già aveva espresso desiderio il Santo Padre, invece Ella mi dice che: « il desiderio esternatole da Sua Santità sarebbe, che io scrivessi un' operetta in opposizione a quella intitolata « Delle Cinque Piaghe » »: e di più mi aggiunge che: « questo passo dovrebbe, a senso dei discorsi di Sua Santità, appianarmi la via all' esecuzione di quei disegni, sui quali si era già aperto con me ». Eminenza, io non posso che ripetere quello che più volte ho detto, cioè: Che la mia maggior gloria e felicità è sempre stata e sarà sempre, Iddio così aiutandomi, nell' essere figlio divoto e ubbidiente alla Chiesa Romana, madre e Maestra di tutte le Chiese; Che in ubbidienza alla detta Chiesa io sono pronto a fare qualunque dichiarazione, correzione o ritrattazione che mi fosse richiesta dal Santo Padre; Che per fare alcuna delle dette cose, io ho bisogno che mi venga indicato quali siano in particolare le proposizioni, che richiedono spiegazione, correzione o ritrattazione: senza di che mi riesce egualmente impossibile il fare un' operetta in opposizione al noto libro. Onde non mi resta che tornare a supplicare, perchè mi si comunichi quello che in particolare io debba emendare, correggere o ritrattare. In quanto poi a quello che Vostra Eminenza soggiunge che « questo passo dovrebbe, a senso dei discorsi di Sua Santità, appianarmi la via all' esecuzione di quei disegni, sui quali si era già aperto con me », Eminentissimo Principe, io non ho mai scritto una linea, nè ho mai fatto un passo per appianarmi la via al Cardinalato. Io considero quest' onore come un peso spaventoso, non da desiderarsi ma da fuggirsi. Se l' avessi bramato assai probabilmente sarei già prima d' ora Cardinale: già fino dal 1.23 il Papa voleva nominarmi Uditore di Rota, e la persona che a nome del Papa me ne fece l' invito, mi assicurava che sarei stato ben presto Decano e poi Cardinale. Io non accettai nè questo invito nè altri posteriori. Fu la Santità di Pio IX che (essendo già pubblicate le due note operette) mosso dalla bontà del suo cuore, spontaneamente mi manifestò il suo fermo volere di elevarmi nel prossimo Concistoro ad una tal dignità. Io feci quello che potevo per declinare un tanto onore; ma obbligato ad accettarlo per ingiunzione di chi mi poteva comandare, io abbassai il capo e l' accettai. Non per lusinga della mia ambizione, come ora dicono i miei nemici, ma sulla parola del Papa io mi sottomisi alla gravissima spesa per fornirmi delle cose necessarie. Quelle carrozze ed altri oggetti, che ora sono in Roma, e che già mi rendono la favola del pubblico, non gli ho venduti sinora per rispetto alla parola del Sommo Pontefice. Ora però io mi sottometto con vero gaudio di spirito alla diversa disposizione che di me ha fatto la Provvidenza, e in breve darò gli ordini opportuni perchè sia venduta ogni cosa: non lasciando per questo di rimanere fermo e inalterabile il mio sincero attaccamento e la piena mia sommissione alla santa Sede Apostolica e al Sommo Pastore della Chiesa. Vostra Em.za in fine alla sua lettera mi domanda un esemplare di quello che ho scritto sulla legge Siccardi: mi duole di non poterla servire, perchè non ne ho. Ma sarà facile che costì Ella trovi il giornale di Torino intitolato l' « Armonia », dove furono appunto inseriti i quattro articoli che scrissi su quell' argomento. [...OMISSIS...] 1.50 M' accorgo dalla informazione che mi date del vostro interno, che il vostro adorabile Signore e carissimo sposo GESU` vi ha regalata assai in questi ultimi spirituali Esercizi, specialmente dandovi lume a conoscere voi stessa e quel segreto tarlo di vanità che, quuantunque non distruggesse intieramente il merito delle vostre buone azioni, tuttavia andava purtroppo corrodendole e rubacchiando una parte di quella mercede, che ad esse è promessa. Ora, per grazia di Dio, è scoperto, convien dunque impedirlo di rodere, e, appena si sente il picchiettare de' suoi denti, picchiare e scuotere; come appunto col tarlo materiale, che, se sta foracchiando un vecchio armadio o qualche altro arnese di legno, e se n' ode il tich, tich , col picchiar l' arnese o scuotendolo, la mala bestiola ristà dal suo tristo lavoro. Così devono fare i servi di Dio, perchè il pigliare il cattivello e ammazzarlo interamente pur troppo è cosa tanto difficile che par quasi un miracolo. Tuttavia se esso si fa continuamente tacere, senza lasciarlo in pace giammai, si muore poi da se stesso, quasi di morte naturale, e allora che felicità! Non regna più nell' anima che l' amor di Dio, vi regna libero e potente in ogni parte di essa, in ogni sua facoltà, in ogni sua azione, o patisca, od agisca. Voi felice, mia cara Bonaventura di GESU`, se arrivate a questo, ed anzi felice, perchè ci arriverete sicuramente, avendo con voi il vostro sposo sempre pronto ad aiutarvi, purchè in lui fedelmente ed intieramente confidiate, in lui, in lui solo. L' aver conosciuto dunque il difetto che si nascondeva nel secreto dell' animo è già una grazia grande. Ora poi vi lamentate che vi manchi un' altra conoscenza, cioè dite di non potere ancora abbastanza conoscere quel bene che è degno di tutto l' amore; ed avete ragione, avete ragione di dire che non lo conoscete abbastanza, perchè sapreste voi che cosa ne sarebbe se lo conosceste così, come voi vorreste e come egli è? Ne sarebbe quello che S. Agostino dice di se stesso, che egli sentiva talora un tale affetto, e in questo affetto divino un tal gaudio, che se fosse cresciuto più oltre, egli certo non saprebbe dire che cosa sarebbe stato, ma questo sapea dire che non sarebbe stata certo la vita presente. Capite che vuol dir questo? Se voi conosceste abbastanza quel bene, a cui aspira, ed a cui è consecrato tutto il vostro cuore, non sareste più qui, in una parola, sareste, senz' accorgervi, in paradiso. E` dunque giusto e ragionevole che voi accusiate la vostra ignoranza in questa parte, e che, conoscendo questa vostra ignoranza che si può dir sempre infinita, non lasciate nascervi più mai alcuna vanità dal saper voi molte altre cose, che non vi tolgono quella ignoranza grandissima del vostro bene, ne sapeste anche infinite: è giusto che vi lamentiate altresì di continuo col vostro sposo, che è la sapienza eterna, perchè non vi faccia conoscere un po' più, ed anzi molto più, di sè medesimo; perchè questi affettuosi lamenti sono a lui cari, ed egli non potrà resistervi, se li farete di continuo, ma cederà coll' accordarvi una comunicazione maggiore del suo essere amabilissimo. E poi questi lamenti che altro sono, a che altro tendono, se non a spingervi fuori delle angustie e della povertà di queste cose visibili e corruttibili? Sono in fine i desiderii della morte, famigliari a tutti i Santi, cominciando da S. Paolo che diceva: « desidero di esser disciolto e di trovarmi con Cristo », e venendo a tutti gli altri. Sapevano quel che desideravano. Ma io voglio che desideriate ancora più di meritare, che di godere, perchè anche Cristo, pregando il Padre pe' suoi discepoli, disse che egli non chiedeva, che fossero tolti dal mondo, ma solo preservati dal male; voglio che desideriate di servire a Cristo nei suoi pargoli più ancora che di goder Cristo, dicendo anche voi collo stesso Apostolo: « Io desidero di essere separato (dal godimento di Cristo) per la salvezza de' miei fratelli ». Tanto più che conoscerete maggiormente Cristo, quanto maggiormente vi affaticherete a pro di quelli pe' quali egli è morto in croce, perocchè niuna via più spedita di conoscerlo che quella di esercitare la sua carità: « Dio è carità, e chi rimane nella carità, in Dio rimane e Dio in lui ». [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.50 Non vogliate attribuire la scarsezza delle mie lettere a poca carità che io abbia verso di voi, perchè il Signore sa che io vi porto nel cuore e vi offerisco a Lui ogni giorno sull' altare, ma sì attribuitelo alla scarsezza che ho di tempo, alla debolezza delle mie forze, ed al sapere che siete provvedute di un Superiore pieno di sollecitudine e di zelo per l' incremento vostro in Gesù Cristo. Non di meno, ora che ritorna a voi dal suo viaggio d' Italia questo vostro Superiore e mio fratello carissimo in Cristo, non posso a meno di accompagnarlo colla presente, sì per ringraziarvi dei doni che mi ha mandato la vostra carità, e che mi sono pegno della vostra filiale devozione, e sì per rispondere brevemente alle tre importanti questioni che mi proponete, e di cui mi domandate la soluzione. Poichè quantunque sappia che in tali argomenti potete sentire la voce di chi vi dirige immediatamente, voce piena di sapienza e di spirito di Dio, tuttavia penso che il sentire le stesse cose da me, come desiderate e chiedete, se non vi torna di maggiore istruzione, vi deve almeno tornare di consolazione e di conforto nel bene, per quell' affetto in Gesù Cristo, e quell' ubbidienza che mi prestate. La prima questione adunque da voi propostami è: Come si può usare lo spirito d' intelligenza senza mancare alla semplice e cieca ubbidienza? La quale questione, come le altre due che le vengono in appresso, dimostrano il vostro discernimento in Cristo, perchè manifestano il desiderio che avete di essere istruite nelle cose più perfette; chè appartiene alla perfezione il saper congiungere ed armonizzare nelle azioni giornaliere quelle virtù che sembrano a primo aspetto opposte, quasi che si escludessero reciprocamente. E in fatti, quantunque niuna virtù possa giammai riuscire veramente opposta ad un' altra virtù, come una verità ad un' altra verità, tuttavia l' arte di unire tra loro in amichevole società quelle virtù che presiedono a facoltà e passioni aventi una tendenza contraria, e che vanno sempre abbinate e possedute solo dall' uomo perfetto, è quella appunto a cui si deve applicare chi allo studio della perfezione si è consacrato. Nel che avviene come nella musica, che quantunque la voce del contralto, poniamo, paia oppostissima a quella del baritono e del basso, tuttavia il perito compositore di musica, trovati i loro accordi, ne fa riuscire un' unica ed aggradevole armonia. Venendo dunque alla questione, dico, che la semplice e cieca ubbidienza si può ben congiungere e compenetrare coll' esercizio dello spirito d' intelligenza, e ciò in diverse maniere. Prima maniera . Conviene considerare che lo spirito di intelligenza si esercita tanto più quanto più è alta ed universale la ragione secondo la quale noi dirigiamo le nostre operazioni; chè, operare con ispirito d' intelligenza non vuol dir altro se non operare con ragione, senza lasciarsi mai muovere o perturbare da passione alcuna. Ora la più alta e la più universale di tutte le ragioni d' operare è quella di far sempre in ogni cosa la volontà di Dio; su di che penso che abbiate veduto un mio ragionamento a stampa, e l' abbiate anche letto. Ma chi fa l' ubbidienza con semplicità e purità, egli è certo di fare la volontà di Dio, il quale ha detto di tutti i Superiori ecclesiastici: « Chi ascolta voi, ascolta me ». Questa è una ragione semplice, ma efficacissima e sublimissima, e contiene tanto bene in sè stessa, che quando ella c' è, rende superflua qualunque altra ragione inferiore; e perciò l' ubbidienza si dice cieca , non perchè sia senza lume, ma perchè ne ha tanto, che non ha più bisogno di prenderne d' altronde, come chi dicesse che sta senza lume colui, che non accende le candele perchè risplende il sole. Seconda maniera . Oltre di ciò colui che obbedisce ciecamente e semplicemente, può esercitare lo spirito d' intelligenza nel modo di eseguire quello che gli viene comandato. Possono essere due persone che eseguiscono il comando del Superiore, ma una di esse lo eseguisca senza giudizio, senz' attenzione, senza spirito, senza rifletter bene a ciò che gli è comandato, e alla vera intenzione di chi comanda, l' eseguisca, ma di mala grazia, senza persuasione, e quasi per dispetto; l' altra poi eseguisca la stessa cosa cercando prima di tutto di ben intendere la mente del Superiore, poi studiando il modo migliore di eseguirla facendo quello che fa con impegno, come se fosse un affar suo proprio, desiderando di riuscire, usando la debita circospezione, mettendovi il buon garbo, trovandovi la sua contentezza, certissima di piacere a Dio. Questa seconda ubbidisce con semplicità e ad un tempo con ispirito d' intelligenza. Non ubbidisce come una macchina che si fa muovere con qualche ingegno, ma come una persona viva e intelligente. E di vero non può il Superiore quando comanda, prescrivere tutte quelle cose che riguardano il modo d' ubbidire, ma dà il comando, poi lascia fare al suddito, e il suddito che ha più spirito d' intelligenza si conosce subito, osservando il modo che egli tiene nell' eseguire quanto gli è comandato. Terza maniera . Accade spesso che il comando stesso sia più o meno generale, e lasci molte cose al buon giudizio di chi lo riceve. In tal caso il suddito deve osservare qual sia la sfera che gli determina il comando del Superiore, e dentro quella sfera egli è obbligato dalla stessa ubbidienza ad operare da sè, non però a capriccio, ma col suo criterio, che è quanto dire con ispirito d' intelligenza. Se voi considerate, mie carissime figliuole, i vari membri di un Istituto religioso, vedrete che tutti operano per ubbidienza, se hanno spirito, foss' anche il Generale dell' Ordine, perchè anch' egli è soggetto almeno al Papa; ma tuttavia l' ubbidienza lascia un campo libero a chi più a chi meno, ai Superiori un campo maggiore, agli inferiori uno minore. Entro questo campo libero ciascuno può e deve mostrare il suo spirito d' intelligenza. Così nella vostra Casa, cominciate dalla Superiora centrale, e venite giù agli altri uffizi della Casa insino all' ultimo, vedrete che tutti questi uffizi essendo subordinati l' uno all' altro, e quindi diretti dall' ubbidienza, possono tuttavia e devono essere esercitati con ispirito di intelligenza, perchè ad ogni ufficiale è prescritto di usare lo spirito d' intelligenza entro la sfera del suo ufficio in quanto è lasciato libero alla sua discrezione. Prendete anco a considerare un ufficio di carità verso gli esterni, come sarebbe quello di maestra o d' infermiera. E` l' ubbidienza che impone quest' ufficio, epperò il merito dell' ubbidienza accompagna tutte le azioni; ma tuttavia quanto spirito di intelligenza non ci vuole ad adempirlo con perfezione? Prendete a considerare anche dei comandi particolari, troverete che la maggior parte di essi lascia qualche larghezza di libertà, dove può aver luogo lo spirito d' intelligenza. Sia comandato ad alcuna di voi di scrivere una lettera e ve ne sia anche tracciato l' argomento; non vi resta ancora molta intelligenza da esercitare nello studiare quella lettera con senno e con intelligenza? L' ubbidienza adunque non suol mai determinare tutti gli atti della persona, il che sarebbe impossibile, ma ne restano sempre molti liberi in cui l' intelligenza può e deve avervi un luogo grandissimo. Quarta maniera . Lo spirito d' intelligenza si può esercitare in altro modo, ed è col fare ai Superiori che comandano, delle rispettose osservazioni, qualora sembri che nel comando che danno vi sia qualche cosa da osservare. Ma per fare queste rispettose osservazioni con vero spirito di intelligenza, ci vogliono tre condizioni: la prima, che non procedano da alcuna passione d' amor proprio, ma dal puro zelo del bene e della gloria di Dio; la seconda, che non sieno fatte con leggerezza, dicendo ogni cosa che venga in capo o in bocca senza avervi riflesso od esaminato bene l' affare; la terza, che sieno fatte con ispirito di sommissione, di modo che se il Superiore persiste nel suo comando, il suddito non se l' abbia a male, ma eseguisca con eguale alacrità e contentezza il comando. Che se si trattasse di un negozio molto importante per la gloria di Dio, e sembrasse proprio che la cosa non andasse bene come la vorrebbe il Superiore, si può ricorrere ad un Superiore maggiore; chè, questo non è contrario alla semplicità dell' ubbidienza, ma si debbe fare anche questo colle dette tre condizioni. I Superiori hanno piacere di sentire tali ingenue osservazioni dei loro sudditi, purchè tutto si faccia con ispirito di carità e di umiltà. Che se poi dopo tutto ciò avviene che quello che si deve fare e si fa per ubbidienza, porti qualche inconveniente (che non sia però mai un peccato), chi ubbidisce non perde nulla, anzi vi guadagna, perchè quell' atto d' ubbidienza contiene una mortificazione delle più grate a Dio. Chi mortifica sè stesso per ubbidire, sia perchè nega la propria volontà, sia perchè sacrifica il suo amor proprio e sottomette la stessa sua ragione ad una ragione superiore, che è quella di Dio onde viene il comando, questi ha dato un gran passo avanti nella via della santità. E su questa quistione basti il detto fin qui. La seconda è: In qual modo si può praticamente unire lo spirito di contemplazione alla vita attiva nelle opere di carità ? L' unione della santa contemplazione coll' esercizio delle opere di carità è l' intento del nostro Istituto; epperò noi non dobbiamo essere appagati fino a che non abbiamo ottenuto da Dio il lume di congiungere in noi queste due cose. E dico che da Dio dobbiamo ottenere la virtù di annodare insieme in tutta la nostra vita la contemplazione e l' azione, perchè non c' è nessun maestro che ci possa insegnare una scienza così sublime, se non quel Gesù Cristo che in sè ne mostrò un perfettissimo esempio. Perocchè questa scienza non consiste in altro se non nell' unione intima con Gesù Cristo, in una unione la più attuata possibile. Ed Egli per sua misericordia ne ha già preparati i mezzi nella sua Chiesa, prima ancora che noi nascessimo o lo sapessimo desiderare. Quali adunque sono i mezzi per ottenere questa unione intima, e continuamente attuata con Gesù Cristo, che non ci distoglie dalle opere di esterna carità, ma che anzi vi ci sprona ed aiuta? Il primo di tutti i mezzi è l' intenzione pura e semplice di cercare Gesù Cristo solo in tutti i nostri pensieri, parole ed azioni. Questa rettitudine d' intenzione si offende di qualsiasi altro affetto che influisca nelle nostre azioni, e resta da esso poco o molto macchiata. Quindi l' intenzione di cercare in tutto il solo Gesù Cristo non è perfetta, se l' uomo non ha rinunciato intieramente all' amor proprio e ad ogni sensualità. Dissi però che quell' intenzione, che cerca in tutto Gesù Cristo solo, rimane offesa da ogni affetto che influisca nelle nostre azioni sieno interne o sieno esterne, perchè un affetto od una sensazione, che non avesse alcuna influenza sui nostri pensieri volontarii, nè sulle nostre parole, nè sulle nostre opere (nel qual caso quell' affetto o quella sensazione sarebbe interamente opposta alla nostra volontà) non diminuisce niente la purità della nostra intenzione, ma piuttosto la eserciterebbe ed acuirebbe secondo il detto di Dio a san Paolo: « che la virtù si perfeziona nella tribolazione ». Il secondo mezzo, che viene in soccorso del primo, consiste nell' eseguire tutti gli esercizii di pietà, e principalmente il ricevimento de' Ss. Sacramenti e l' assistenza al Santo Sacrificio, col maggior fervore, tenerezza, gratitudine, sincerità ed intelligenza possibile; giacchè in questi esercizii avviene la special comunicazione fra Gesù Cristo e l' anima divota. Il terzo mezzo si è quello di sforzarsi continuamente a tener vivo nel cuore l' amore di Gesù Cristo, portando sempre il divino Maestro quasi dipinto davanti agli occhi dell' anima nostra, udendo le sue parole quali sono scritte nel Vangelo, contemplando le azioni da lui fatte nel corso della sua vita mortale e nella sua preziosissima morte (cose tutte che devono essere familiari ad una persona spirituale), facendo delle applicazioni delle sue parole e de' suoi esempii a noi stessi e a tutto quello che abbiamo a operare, considerando altresì come opererebbe egli nel caso nostro, e come egli vorrebbe che noi operassimo, consultando nei casi dubbii con sincero desiderio di conoscere e di fare unicamente ciò che è più perfetto e che più gli piace, ed ascoltando con riverenza ed amore la sua voce, quando egli parla dentro di noi. Il quarto mezzo è di vedere Gesù Cristo nei prossimi coi quali parliamo o trattiamo, proponendoci nel nostro trattare o parlare coi prossimi, di esser loro utili in Gesù Cristo, e di cavare da loro anche edificazione per noi stessi. Se noi abbiamo un vivo zelo per la salute delle anime, noi faremo tutto il possibile per acquistarle ed avvicinarle a Gesù Cristo; epperò saremo nemici di tutte le parole inutili ed oziose, e parimenti delle superflue conversazioni e di ogni vana curiosità. Ma per fare che ogni nostra parola, ogni nostra operazione sia indirizzata a migliorare gli altri e noi stessi, e quindi a portar frutti di vita eterna, ci vogliono due cose: la prima e principale è, che la carità sia sempre quella che ci diriga, e poi che domandiamo a Gesù Cristo il lume della sua prudenza, il quale moltiplica i frutti della carità. Un' anima che si propone in tutto quello che fa o che dice, il bene delle anime, sì delle altrui che della propria, starà sempre raccolta anche in mezzo a molte opere esterne, perchè il suo spirito è sempre inteso alla carità, e chi pensa sempre alla carità di Gesù Cristo, e non ha altro in cuore, è sempre raccolto in Gesù Cristo ed in Dio, perchè la Scrittura dice: « Dio è la Carità ». Ma per acquistare quest' abito ed ottenere che questi quattro mezzi fruttino un raccoglimento costante dello spirito, anche in mezzo alle esterne occupazioni, è necessario di fare degli sforzi a principio e mortificarsi molto e risolutamente in tutto quello che distrae la mente e si oppone al detto stato di raccoglimento e di presenza di Dio, è necessario domandare istantissimamente a Gesù Cristo la grazia; e solo colla perseveranza in una intensa orazione si può stabilire l' animo e fargli acquistare quella condizione permanente di quiete in Dio, la quale, se la volontà da se stessa non si dà al male, non si perde più per nessuna azione esterna. Convien sapere che quella potenza, la quale propriamente comunica con Dio e con Dio si congiunge, è una potenza diversa dalle altre con cui si opera esternamente; e però quando l' uomo è venuto ad un certo stato di contemplazione e di unione, allora egli opera colle sole potenze che risguardano le azioni esterne, senza impedire alla potenza suprema la sua quiete e il suo riposo in Dio. Onde si legge di certe persone sante, che mentre sembravano tutte occupate al di fuori, esse conversavano internamente col loro Dio e Creatore; e questa conversazione non le impediva, anzi le aiutava a far meglio quello che facevano al di fuori, come viceversa, quello che facevano al di fuori non le frastornava da quella interna affettuosa comunicazione. Un così desiderabile stato si suole acquistare da quelle anime fedeli e costanti, che da principio soffrono molto mortificandosi e pregano con intensità ed assiduità. E questo stato le Suore della Provvidenza devono cercare di ottenerlo nel tempo del Noviziato, dove hanno tutto il campo, se vogliono, di stringere questo intimo e indissolubile nodo con Dio, Sposo delle anime loro, nodo che deve poi durare tutta la loro vita. E quelle che non hanno finito d' ottenerlo nel Noviziato, devono procurare di ottenerlo al più presto. Ma oramai passiamo alla 3 quistione. Questa era: Come si può unire perfetto zelo e desiderio ardente di perfezionare la carità col perfetto distacco dalla propria stima e desiderio sincero dei disprezzi ed obbrobrii? E` questa una questione non meno difficile delle due precedenti, non dico difficile a risolversi in parole, ma a risolversi col fatto. Ma che cosa è difficile a Gesù Cristo ed a quelli che in Gesù Cristo sperano e ne lo pregano?... Per rispondere adunque anche a quest' ultima vostra dimanda, dico che è necessario supporre che nella persona ci sia il fondamento di una solida umiltà, la quale consiste nel non attribuire a se stessi quello che appartiene al solo Dio, od agli altri uomini, di modo che umiltà non è altro che giustizia. In fatti è giusto che l' uomo si reputi un nulla, perchè è tale, e che reputi Dio essere tutto: è giusto che l' uomo sappia ancora che la gloria non appartiene al nulla, ma al tutto, epperciò non voglia alcuna gloria per sè, ma voglia bensì procacciare a Dio solo tutta la gloria possibile: è giusto che l' uomo che sa queste cose, senta un certo rammarico quando viene lodato dagli uomini, perchè il nulla non può desiderare di esser lodato senza usurpazione, e che senta un gran diletto per l' opposto quando vede che gli uomini glorificano Dio. Ma l' uomo non essendo solamente un nulla, ma qualche cosa di peggio, cioè un peccatore (non solo per i peccati che ha commessi, ma perchè ne potea e ne può commetter di continuo, se Iddio non ha di lui compassione), perciò è giusto altresì che egli desideri di esser disprezzato, e che egli goda quando viene maltrattato dagli uomini. Questi sentimenti devono essere inconcussi e profondamente scolpiti nell' animo di una persona religiosa. Ma ella dee sapere anche un' altra cosa. Quantunque l' uomo sia un nulla, e di più soggetto ad ogni peccato, tuttavia Gesù Cristo per sua gratuita misericordia lo ha redento, lo salva, e lo riveste di se stesso per siffatto modo che il cristiano ha intorno gli ornamenti di Gesù Cristo; e questi sono più o meno ricchi e preziosi, secondo l' abbondanza delle virtù, dei meriti e della grazia. Sarebbe una gran pazzia che l' uomo trovandosi ricco di siffatti ornamenti, ne insuperbisse; mentre anzi, se pensa che tutti questi tesori gli sono stati dati gratuitamente e contro ogni suo merito, egli dee confondersi e attribuire a Dio solo anche la gloria dei medesimi, senza usurparne per sè la più piccola parte. Ma come Iddio donò all' uomo questi tesori di virtù e di grazia per un suo preveniente e gratuito amore, così egli, gli partecipa ancora una parte della sua gloria. Ora di nuovo l' uomo deve considerare questa gloria che gli viene attribuita, come gloria non sua, ma di Gesù Cristo, che per sua misericordia l' ha voluta diffondere anche ai suoi credenti, e loro partecipare. Ciò posto, le regole da tenere per unire insieme il desiderio di condurre a perfezione le opere di carità e il distacco dalla propria stima, e di più il desiderio sincero del disprezzo (cosa preziosissima), sono le seguenti: Non dare (generalmente parlando) agli uomini alcuna occasione di disprezzarci, almeno con alcun proprio fallo; ma quando, a malgrado di ciò, ci viene il disprezzo, noi dobbiamo riceverlo con allegrezza, come cosa assai cara, e ringraziarne il Signore, senza temere che da ciò proceda danno alle opere di carità, perocchè se anche qualche danno ne procede, questo è voluto dal Signore, per i suoi fini, e allora non dobbiamo averne dispiacere, ma confidare nella Provvidenza che saprà ricavare da quel danno altri beni maggiori. Non far mai nulla per acquistare applauso dagli uomini, che è un fine ignobilissimo; ma quando tuttavia quest' applauso viene da sè, attribuirlo a Gesù Cristo, a cui solo appartiene, e per conto proprio averne paura come di un pericolo, e per cautelarsene fare nel proprio interno atti di umiltà e di disprezzo di se stessi, protestando di non volerlo ricevere come una parte della mercede. Dopo di ciò, se quell' applauso può riuscire di utilità alle opere di carità, si può anche averne piacere, purchè se ne abbia piacere per questo solo fine, e senza alcun riguardo a se stessi, badando bene che non nasca in noi alcun sentimento di vanità o di pretesa, anzi preparandosi ad essere, dopo ricevuto l' applauso, più umiliati di prima e persuasi di non essere per quell' applauso divenuti nulla più di quei miserabili che eravamo prima. Accorgendosi che la lode sia esagerata averne dispiacere, anche perchè è contraria alla verità e giustizia, ed attribuirla al buon cuore di chi la dà, che non bada alla misura. Per conoscere poi se siamo distaccati da noi stessi, dobbiamo esaminare se godiamo delle lodi date altrui, e specialmente voi dovete esaminarvi se godete delle lodi che vengono date alle sorelle; chè sarebbe un gran difetto l' averne anche un minimo dispiacere od invidia. Conviene che cogli altri, e specialmente colle sorelle siate generose, ne consideriate assai più le virtù che i vizii, e procuriate che conservino la stima con mezzi sempre giusti; e ognuna deve declinare le lodi date a sè, facendo in modo che cadano invece nelle sorelle, dovendo ciascuna amar di essere la prima nell' impegno e nella sollecitudine di mettersi l' ultima. E questo non è difficile a farsi quando una persona considera i proprii difetti e le altrui virtù, astenendosi dal considerare o dal giudicare gli altrui difetti, come quelli di cui non appartiene ad essa il giudicare, ma al solo Iddio; il che insegnò Gesù Cristo con quelle parole: « Non vogliate giudicare, e non sarete giudicati ». E in fatti, l' esporsi al pericolo di giudicare a torto sinistramente de' proprii fratelli, è lo stesso che far loro un' ingiuria: onde per non esporci a commettere contro di essi un' ingiustizia, non c' è altra via che astenerci da ogni giudizio definitivo ad altrui danno. Non parlare nè dir cose che cadano in propria lode, il che è riprovato anche dagli uomini. E quantunque non si debba neppure parlare, senza buoni motivi, in biasimo di se stessi, tuttavia si deve cercare di coprire le proprie virtù, per quanto si può, agli occhi altrui, e qualche volta si può anche parlare con disprezzo di se stessi, purchè ciò si faccia con sincerità. E` poi lodevole il farlo, mossi sempre da un sincero sentimento, quando si parla colle sorelle, o con persone famigliari e senza affettazione. [...OMISSIS...] 1.50 Ho ricevuto la gratissima sua del 20 settembre, ed oggi anche la seconda del 23 detto. Da quest' ultima mi accorgo che Ella non deve aver ricevuto una mia, data di Caserta 3 luglio 1.49, colla quale rispondevo alla sua 11 giugno, che mi partecipava la risoluzione da Lei presa nei santi Esercizi d' entrare nel minimo Istituto della Carità. Avendo io conservato copia di quella mia risposta, mi permetta che gliela trascriva. Non m' era mai venuto in pensiero, che questa mia lettera si fosse potuta smarrire, e però mi astenni dal farle parola di questo argomento, essendo mio costume di esortare bensì ad abbracciare lo stato religioso in generale quelli che ve li posso conoscer chiamati, ma non eccitandoli perciò a scegliere l' Istituto della Carità, bramando di accogliervi unicamente quelli che vi sono « missi a Deo , » non mai chiamati da me; che Dio me ne guardi. Tuttavia avendo Ella eletto questo minimo Istituto ne' santi Esercizi colla debita ponderazione, io non credo di doverle tacere (poichè me ne domanda espressamente) esser mia massima, che quando una volta si è presa, dopo consultato Iddio, una deliberazione in cosa per se stessa buona od attenente alla perfezione, convenga perseverare nella medesima, e non lasciarsene debolmente svolgere, se non fosse per ragioni gravissime ed evidenti. E reputo una sottile insidia dell' inimico, il fare che l' uomo vacilli in quella deliberazione, fosse anche sotto pretesto e colore di far meglio. Tale è la mia ferma opinione, non solo per ciò che riguarda la vocazione ad uno o ad un altro Istituto religioso, ma ben anche in altre materie. E credo che questo si potrebbe confermare colla dottrina e coll' esempio de' Santi, ed altresì coll' esperienza, la quale mostra sovente, che gli uomini che mutano leggermente, anche sotto specie di meglio, non raccolgono poi gran frutto. Circa quello che mi domanda, se nel nostro Noviziato ella potrebbe attendere per quattro o cinque mesi ad ultimare il compendio dell' Alasia, le rispondo che in ciò non si farebbe difficoltà. Perchè quantunque siano esclusi dal nostro Noviziato, ordinariamente parlando, gli studi severi, tuttavia per qualche grave cagione e quando si tratta di poco tempo, il Generale può dispensare. Eccole, mio carissimo signore, il mio sincero sentimento circa quanto mi domanda: mi sono raccomandato a Dio prima di darlo, ed ho consultato qualche persona rispettabile. Ma ella ne faccia quel conto che crede. Prego di cuore Iddio che La empisca di lumi e di benedizioni: mi tengo anzi certo che lo farà. 1.50 Aspettavo che mi deste qualche relazione della vostra nuova posizione e del nuovo vostro ufficio, secondo che eravamo stati intesi, quando ci siamo ultimamente veduti. Ora ricevo infatti la cara vostra del 1 dicembre, nella quale mi dite alcune cose dell' essere vostro e dell' andamento della scuola. E per rispetto agli Esercizi spirituali, non dubitavo della vostra diligenza, non essendomi venuta parola in contrario, e nondimeno ho inteso con piacere quello che me ne dite. Continuate, e sopratutto datevi all' esercizio della presenza di Dio e dell' orazione incessante che si fa col cuore, mantenendovi nello spirito d' orazione , che è veramente quello che alimenta il fuoco interiore e dà la vita all' anima. Procuriamo di convincerci sempre più dell' infinito bisogno che abbiamo della grazia divina che ci sostenti e preceda, e accompagni, e sussegua; poichè chi è altamente persuaso di ciò, non cessa di gridare a Dio dal profondo del cuore per ottenerla e averla sempre in ogni atto, in ogni istante della propria vita. Mi pare poi di rilevare da quello che mi dite in appresso, che voi facciate sì con tutto l' impegno e lo zelo la scuola, ma piuttosto per rassegnazione che per amore. E pure io vorrei che la faceste proprio per amore . V' assicuro che in questo sta l' eccellenza della virtù. Sforzatevi di pervenire a quest' alta disposizione d' animo, che l' amore sia proprio quello che faccia tutto in voi, e vi renda tutto soave e grato. A questo fortunatissimo stato giungerete certamente colla grazia divina: 1 Se concepirete colla mente l' eccellenza della carità del prossimo, a cui la divina bontà ci ha chiamati: nella quale carità consiste la sicura e vivente sapienza, « supereminentem scientiae caritatem , » come dice S. Paolo: onde ogni opera di carità ha per questo solo un infinito valore; 2 Se nella carità verso il prossimo avrete per oggetto continuamente presente il divin Redentore GESU`, il quale disse: « « Qualunque cosa avrete fatta a questi miei minimi, l' avrete fatta a me stesso ». » Quali parole per chi ha viva fede! quale incoraggiamento a qualunque sacrifizio! L' amore dunque di GESU` Cristo cresca ne' nostri cuori, e con esso crescerà l' uomo interiore, e si farà adulto e robusto. Mi è rincresciuto assai ciò che mi dite nell' ultima parte della vostra lettera, nella quale pare che crediate di essere trattato con diffidenza dal vostro Superiore. Mio caro Marco, io non so certamente come la cosa sia; ma non vorrei che fosse una vostra illusione o tentazione. Io so di certo che cotesto vostro Superiore vi ama, e potrebbe essere che egli vi tenesse d' occhio con ispecial cura. Ma che per questo? Interpretate bene, riputate all' affetto che ha per voi la sua sollecitudine. Badate che qui non ci sia nascosto dell' amor proprio, il quale noi dobbiamo scoprire e combattere, come nostro infaticabile nemico. Fondiamoci, mio carissimo Marco, nel vero e solido fondamento dell' UMILTA`, diamo addosso a noi stessi: e quante cose allora, che prima ci offendevano, ci sembreranno innocenti, o frivolezze, o fors' anche motivi di giubilo! Sopra questa cosa procurate di esaminarvi e di fortificarvi, e scrivetemene ancora: poichè atteso l' amor che vi porto, vorrei vedere la più perfetta concordia e carità fra voi e il vostro Superiore; la quale è tanto facile e tanto dolce, quando si abbassi ogni amor proprio e si facciano trionfare i bei sentimenti di umiltà e di mansuetudine. [...OMISSIS...] 1.50 Due sistemi sono stati sperimentati circa la relazione degli ordini religiosi coll' Episcopato: quello della dipendenza dagli Ordinarii, e quello di una moderata indipendenza dai medesimi, quale fu stabilito dal sacro Concilio di Trento. Fu provato che un ordine religioso universale è alla Chiesa utilissimo, assai più utile di molti ordini particolari; e in pari tempo, che quello non può fiorire, anzi nemmeno esistere, con un' assoluta dipendenza dai diocesani. All' incontro esso trae seco facilmente l' incomodo di essere dai diocesani veduto con gelosia, insorgendo anche talora collisioni coi medesimi. Questo incomodo manca nelle Congregazioni particolari e diocesane, ma in quella vece l' esperienza dimostra che queste sono deboli, poco utili alla Chiesa, di breve vita anche senza corrompersi, e causa sovente di scissure col resto del clero diocesano; ma quello che più di tutto importa, lontane dall' evangelica perfezione, la quale esige essenzialmente una carità universale, un distacco dalla patria, dalla famiglia, da tutte le cose proprie, e un campo vasto, anzi illimitato di azione quant' è illimitato l' amor di Dio per gli uomini e la sua Provvidenza, e l' indifferenza perfetta a tutto ciò, a cui può esser chiamato un uomo dalla medesima Provvidenza, senza distinzione di luogo o d' uffici, e senza limitazione di pericoli e di travagli per la divina gloria. Egli è adunque da preferirsi senza paragone un ordine universale, benchè involga qualche incomodo, a Congregazioni particolari che con incomodi maggiori arrecano tanto minori beni; e però è da preferirsi la moderata indipendenza dalla giurisdizione vescovile e la stretta unione e sommessione al Capo universale della Chiesa, condizione necessaria ad un ordine universale. E dico moderata indipendenza , perchè il Vescovo è anch' egli in alcuna parte, benchè non in tutto, legittimo superiore dei religiosi che sono nella sua Diocesi e che hanno il privilegio dell' esenzione, assegnandogli sopra di loro il Concilio di Trento, come dicevo, una parte di giurisdizione. Ma voi mi domandate: non si potrebbero vincere le difficoltà e gl' incomodi che trae seco un ordine universale nelle sue relazioni coi reverendissimi Vescovi? Vi rispondo che, avendo noi sommamente desiderato una tal cosa sino dalla prima formazione dell' Istituto, abbiamo studiato di avvicinarci a conseguirla il meglio che noi sapemmo colle norme fissate intorno a ciò nelle Costituzioni. Ma tali disposizioni, acciocchè riescano nella pratica efficaci, richieggono due condizioni che non si sono finora dappertutto verificate. La prima è, che le relazioni tra i Vescovi e l' Istituto avessero per base comune i grandi principii della carità di Cristo: e la seconda, che i Vescovi, informati ben addentro della natura dell' Istituto, fossero solleciti della sua conservazione, come ne sono gli stessi superiori, e non pensassero soltanto ad approfittarne, senza darsi cura di coltivarlo e mantenerlo in florido stato. Infatti se partiamo dai grandi principii della carità cristiana, questa non si restringe nei limiti di una Diocesi, e un seguace di Cristo, che ne sia animato, si compiacerà di un bene maggiore, anche col sacrificio di un minore. E quindi un Vescovo che non deve amare la sua Diocesi particolare più della Chiesa universale, non potrà vedere di mal occhio che qualche religioso abbandoni la sua Diocesi per arrecare un bene maggiore al regno di Dio sopra la terra. E a questo fine intenderà facilmente essere necessario il lasciar libera la disposizione dei loro soggetti ai Superiori generali dell' Istituto, come quelli che meglio vedono dove possono produrre un maggior frutto al padrone della vigna. E così fecero sempre i santi Vescovi, che talora si privarono di eccellenti soggetti a fine di procurare la salute a popoli lontani. E` dunque necessario che, come i Superiori dell' Istituto sono obbligati dalla loro professione di promuovere coll' attività dell' Istituto medesimo il massimo frutto di carità, come lo si propose Gesù Cristo nel governo della sua Chiesa: « ut fructum plurimum afferatis »; così si propongano lo stesso i Vescovi secondo lo spirito dell' episcopato: e in tal modo questi e i Superiori dell' Istituto abbiano un solo ed unico fine, non arbitrario, ma dallo spirito del Vangelo additato e determinato. E questo è già una prima base della concordia desiderata, sulla quale si può facilmente edificare domum pacis . L' altra base è, come dicevo, che i Vescovi investendosi del governo stesso dell' Istituto, come ne fossero Superiori, e bene intendendone la natura, non pretendano da lui di quelle cose che esso non può fare senza guasto della religiosa disciplina, senza dissipazione dello spirito dei suoi membri, senza disorganizzazione del suo ordine interno: nel qual modo soltanto ne possono trarre un grande e permanente profitto. Perocchè se abbiamo una macchina congegnata artificiosamente, vano sarebbe sperare che essa produca a lungo l' effetto pel quale è inventata e fabbricata, qualora non si badasse punto a conservarla in buono stato; ma o adoperandola soverchiamente, o ad altro uso da quello per cui è fatta, si logorasse in breve tempo, disordinasse od infrangesse. E per conservarsi in suo buono stato, senza di che non può giovare, è necessario, che i Prelati abbiano la ragionevolezza di ascoltare intorno a ciò i Superiori, che sono quelli che conoscono davvicino le forze e l' abilità dei loro soggetti, e le forze e l' abilità delle singole Case e Famiglie religiose: come fanno i padroni di un gregge, che per la cura del medesimo ascoltano i pastori e i mandriani, e come fanno i possessori di case e di campi, che ascoltano gli architetti ed i fattori circa il modo di amministrarli, e s' attengono ai loro consigli, riuscendo questa deferenza a loro vantaggio. Questa massima adunque ragionevole di dover adoperare il corpo religioso colla debita discrezione e deferenza al giudizio de' Superiori, acciocchè egli si conservi nello spirito della perfezione e nella sua propria naturale organizzazione, è un' altra base su cui edificasi l' armonia desiderata fra esso corpo ed i reverendissimi Prelati della Diocesi a cui serve. Quando si convenga in questi principii e si verifichino queste due condizioni preliminari, le disposizioni, stabilite dalle regole nostre e dalle nostre Costituzioni, compiranno la detta armonia, ed oso dire altresì, che la renderanno perfetta ed inalterabile. Perocchè appunto col fine di facilitare ed ottenere questo desiderabilissimo intento viene da noi stabilito quanto segue: Che quando si è presa un' opera di carità, piccola o grande, difficile o facile, leggera o faticosa, non si abbandoni più per nessuna ragione umana, e si procuri di adempierla, accrescerla e perfezionarla in tutti i possibili modi. Questa costituzione assicura i reverendissimi Vescovi della stabilità dell' Istituto nelle loro Diocesi, e della sollecitudine dei Superiori di applicare i soggetti più idonei che si possono avere all' esecuzione delle opere assunte; Che i soggetti applicati ad un' opera di carità non si rimuovano da quella leggermente, cioè senza che lo richieda il bene spirituale degli stessi soggetti o quello delle stesse opere intraprese. Questa costituzione assicura i reverendissimi Vescovi della stabilità dei soggetti, non già di una stabilità illimitata e incondizionata, la quale sarebbe irragionevole e contraria alle due massime fondamentali di sopra stabilite, ma di una stabilità ragionevole, quale sola si può e si deve da essi desiderare; Che a tutte le opere di carità si preferiscano quelle desiderate dai Vescovi. Questa costituzione mette l' Istituto alla disposizione dei reverendissimi Vescovi, giacchè per essa l' Istituto si obbliga di fare tutto quel bene che essi bramano da lui, dentro i limiti delle sue forze e della sua possibilità; ed anche qui non si potebbe ragionevolmente desiderare di più; Che quando i Vescovi si degnano di affidare all' Istituto delle opere appartenenti alla gloria di Dio ed al bene della Chiesa e dei prossimi, l' Istituto le adempia in quei modi che bramano i Vescovi stessi; ed in questo egli riceve ben volentieri da essi i regolamenti e i metodi che volessero comunicargli; nè si ricusa di entrare anche con esso loro in positive convenzioni. Voglia, a ragion d' esempio, il Vescovo affidare all' Istituto il suo seminario; i membri dell' Istituto che ne assumono la direzione, si obbligano di governare il seminario in tutto e per tutto come piace a lui, e in questo gli sono pienamente soggetti. Lo stesso si dica delle altre opere che il Prelato della Diocesi volesse affidare all' Istituto: questo non userebbe, se non quella parte di libertà che il Vescovo stesso gli accordasse; neppure in questo io vedo come ragionevolmente si possa bramare di più. Considerate bene queste quattro costituzioni, sarà facile di cavare una conseguenza inaspettata ma pure verissima, e questa si è che il Vescovo può esercitare sopra l' Istituto una maggiore autorità, e ricevere maggiori servigi che non da sacerdoti secolari suoi diocesani. Vero è che i sacerdoti secolari della Diocesi hanno promesso ubbidienza al Vescovo; ma conviene vedere la cosa in pratica non in teoria, conviene vederla nel fatto e non in astratto diritto. I reverendissimi Vescovi non possono già in fatto dimandare tutto quel che vogliono ai loro sacerdoti diocesani; ma debbono usare con essi molti riguardi, e gli usano infatti, evitando le resistenze che prevedono di ritrovare. Queste resistenze procedono da una virtù imperfetta; ora dall' interesse temporale; ora dall' attacco alla famiglia, alla patria o al luogo in cui tali sacerdoti si trovano; ora dall' ambizione e da certi diritti di onore, nei quali venendo offesi si irritano, insorgono, resistono; ora da pretensioni acquistate per meriti e per dottrina; ora finalmente da inclinazioni o avversioni naturali a questo o a quell' altro ufficio. I membri dell' Istituto della Carità promettono al Signore nella loro stessa professione di essere indifferenti ad ogni opera buona, che loro venga ingiunta da esercitare; hanno per voto rinunziato ad ogni interesse temporale, ad ogni onore, alla patria, ai parenti; professano di amar l' umiltà senza mercede di onor temporale, e la carità illimitata. Non v' ha dunque cosa alcuna che non si possa loro liberamente comandare, salvo solo quelle limitazioni che trae seco l' infermità umana, la quale rimane sempre in ogni caso. E` dunque molto più ampia e più libera la sfera, in cui può spiegarsi l' autorità e la volontà del Vescovo, trattandosi dei membri dell' Istituto, che non sia dei suoi proprii sacerdoti diocesani. Che se egli è legato a doversela su di ciò intendere coi Superiori dell' Istituto, questo non pregiudica, anzi giova molto al bene da ottenersi; avendo egli, se così gli piace, negli stessi Superiori dell' Istituto altrettanti fedeli che lo aiutano a dirigere con più ordine e sicurezza il corpo dei sacerdoti soggetti, e gli danno una guarentigia maggiore di buon riuscimento. Vi abbia dunque carità e ragionevolezza, e vi avrà perfetta armonia; non vi avrà no, assoluto dominio dalla parte del Vescovo, ma non è questo che fa il bene nella Chiesa, dicendo l' Apostolo: « neque ut dominantes in cleris »; vi avrà da parte dei reverendissimi Vescovi una dominazione di carità, che nel fatto è la più potente per fare il bene, e vi avrà dalla parte dell' Istituto la più umile e perfetta sommissione, e quella servitù di Cristo, che non è disgiunta dalla libertà pure di Cristo. Se i reverendissimi Vescovi entrassero in questo spirito, ed io spero che presto o tardi sarà, dall' Istituto trarrebbero tutto quel maggior servizio che in Cristo possono desiderare. Tanto più che l' Istituto nel suo contegno esteriore non si distingue dal clero secolare, e brama di affratellarsi con questo e giovare e servire a questo, tirandolo, per quanto gli concederà il Signore, a quei sentimenti di perfezione che vengono insegnati dal Vangelo, e che l' Istituto si è proposto di praticare; senza inclinare egli stesso a quei sentimenti che fossero meno perfetti in alcuni sacerdoti secolari. [...OMISSIS...] 1.51 Ho letto io stesso con tenerezza la sua lettera. Ella si conforti pure nella misericordia di Dio, la quale è infinita. Questa parola infinita ci deve aprire il cuore ad ogni speranza. Ella e il suo figlio defunto discendono da santi genitori, e la stirpe de' santi non suol mai essere abbandonata dal Signore: il Signore può aver dato a quel suo figlio un ultimo sentimento, un solo atto della volontà, di quelli che salvano l' uomo. Forse ha disposto che questo tratto di misericordia rimanesse secreto, perchè questo mistero giovasse ad un tempo e a salvare quell' anima e a santificare Lei e tutta la sua famiglia. Le vie del Signore sono ammirabili e superiori al pensar nostro: dobbiamo adorarne la Maestà, e non dimenticarci ad un tempo degl' infiniti tesori della sua bontà. A questo riflesso costante aggiungiamo le preghiere (anch' io ne farò e farò fare): quelle che facciam al presente, stavano davanti alla mente divina prima che morisse suo figlio, e da tutta l' eternità le ascoltava. Ricordiamoci che non c' è nulla di più caro al Signore che una grande confidenza in lui. Questa confidenza è sempre coronata, ed è il miglior modo di onorare il Signore; poichè non gli si può dare più bella gloria, che quella di esaltare la sua bontà. Gusta ancora che noi ci accostiamo a lui coll' intermezzo di Maria santissima, a cui Ella è figlio divoto: che dubitar dunque con tale interceditrice? Rimuova il pensiero, per quanto mai può, dal figlio, abbandonandosi nelle mani di Dio e in quelle della Vergine: e in questo abbandono si conforti e incoraggi. Abbiamo bisogno di coraggio e di confidenza per andar avanti in questo misero mondo, e Iddio volle farne della speranza una virtù divina. Abbiamo bisogno altresì della tranquillità e della pace del cuore; e nella speranza cristiana questa pure si trova, perchè è qualche cosa di più di speranza. Gesù Cristo ci ha portato la sua pace, riposiamo in lui. La ringrazio di tutto ciò che mi scrive nella sua lettera, e prego Gesù Cristo stesso a ricompensarla. Colla sua saviezza, colla rettitudine delle sue intenzioni potrà giovare a queste difficili condizioni di cose pubbliche; ma in ogni caso, ancorchè gli sforzi de' buoni non riescano a bene, essi hanno fatto il loro dovere e n' hanno il merito, e di questo devon esser contenti, perchè è un bene impareggiabile. [...OMISSIS...] 1.51 La lettera che le Reverenze Vostre, tutte unanimi, si degnarono d' indirizzarmi, mi fece gustare, in leggendola, di quella dolcezza e giocondità di cui parla il Profeta Reale in quelle parole del Salmo: [...OMISSIS...] Se i conforti e le caritatevoli espressioni d' un amico in Cristo sono sempre soavissime e salutari, quanto più non riescono tali quelle che non vengono da un amico solo, ma da molti Padri e fratelli, uniti fra loro coi più sacri vincoli, e formanti una sola famiglia di servi del Signore, i quali concordissimi con un solo cuore, con una sola voce che risuona celeste sapienza, c' incoraggiano nelle avversità e ci si dimostrano quasi nostri compagni in essa, e, deplorandola come propria, vi arrecano quei documenti di consolazione celeste di cui fanno uso ancor prima con sè stessi per attenuare il partecipato dolore? Laonde come le Vostre Reverenze, animate da quella carità che arde così bella nel serafico Ordine, quasi trasformate in me, si risentono alle ingiurie, che a me va facendo il soverchio zelo di alcuni; così io mi sento mosso dalla riconoscenza e dalla carità reciproca, quasi trasformato in esse, essere divenuto del loro numero. Questa è quell' unione in Cristo che avvicina i lontani e che li fa abitare insieme collo spirito siccome fratelli. Perocchè non è tanto la convivenza de' corpi che celebrava il Salmista nelle citate parole, quanto quella degli spiriti: per questa è che noi siamo fratelli e che abitiamo insieme, e il luogo dove abitiamo è Cristo. Accettino dunque le Reverenze Vostre i miei sincerissimi e cordialissimi ringraziamenti dei sentimenti ed affetti che mi manifestano, e, quasi osava dire, le mie congratulazioni, perchè non solo esse alimentano, ne' loro animi, ma ben anco appalesano, e appalesandolo comunicano altrui quel fuoco di santa carità, che edifica col suo splendore e che solo è potente di unire in un solo corpo, pieno di onestà e di bellezza, i religiosi, quantunque in varii Ordini distribuiti, di cui è ricca la Chiesa, e tutti i servi di Dio; e non solo in un solo corpo, ma in un solo cuore e in un' anima sola. Perocchè tale deve essere l' esercito del Signore, e così si rende formidabile ai nemici di lui ed invincibile. E le Vostre Reverenze poi dicono nella loro venerata lettera una verità che io riconosco per esperienza, cioè che la presente tribolazione non manca punto del suo compenso. Primieramente il mio dolore si tempera quando penso che coloro che mi vanno assalendo, sebbene con modi poco decenti, sono mossi in qualche guisa dallo zelo per la purità della fede, cosa così preziosa che va a tutte le altre anteposta. Di poi considero che tali cose sono permesse da quell' Eterno nostro Signore e Creatore, senza il cui volere niente si fa, nè in cielo, nè in terra, e ogni cosa permette con altissimo consiglio, e da ogni cosa anche rea, sa cavare con infallibile effetto un bene maggiore; onde anche questo solo pensiero basta a dare all' animo nostro pienissima tranquillità e dirò anche consolazione in ogni avvenimento, benchè nell' apparenza sinistro. Nè manca il Padre comune di dare colla tentazione il provento, e di aggiungere forze a sostenerla, purchè in lui si confidi e lui si preghi. E quanto a me, non mi sarebbe facile l' enumerare quanti furono i vantaggi e i compensi oggimai raccolti, datami l' occasione dagli avversari. Perocchè quanti amici in Cristo mi si sono manifestati in questa occasione che non sapeva pur d' avere! quanti a me sconosciuti, anche persone ragguardevolissime, presero a petto la mia causa! e gli amici che già possedevo quanto più intimamente si strinsero a me e mi diedero prove d' un affetto cristiano maggior dell' usato! Non conto fra questi vantaggi le lodi pur troppo sempre pericolose al nostro amor proprio, colle quali in voce e in stampa molti cercarono di ristorarmi del biasimo degli avversari; ma conto fra i vantaggi più preziosi e più cari le tante orazioni che per me s' inalzarono al Signore da un gran numero di fedeli, studiosi e seguaci della caritatevole verità e della vera carità. E la lettera delle Reverenze vostre è di tutto ciò un nobilissimo documento. Che poi da tutti questi avvenimenti permessi dal Signore e intessuti di qualche amarezza e di molta dolcezza tragga profitto il mio povero spirito per servire il Signore con maggior fedeltà e maggiore alacrità e coraggio, il quale non si nutrisce che nelle lotte; questo è quello che ardentemente desidero; questo è quello che aspetto e spero dalle orazioni dei buoni e delle Reverenze Vostre particolarmente. E quando, ritornando sopra me stesso, mi sento quasi indifferente a questo che avviene intorno di me, e vedo gli amici tanto più amareggiati di me stesso, dubito quasi di cavare poco profitto da queste avversità, parendo che molto non giovi al profitto dello spirito quel dolore che così poco si sente. Ad ogni modo però confido che il Signore nella sua misericordia riguarderà piuttosto al mio desiderio di approfittare della tribolazione, desiderio che a lui solo debbo, piuttosto che al grado del patimento. [...OMISSIS...] 1.51 « Militia est vita hominis , » e chi nol sa? e chi non l' esperimenta? e a quale di noi manca il combattimento, la prova, l' arduo cimento? Quegli che ci ha assegnato il posto nell' esercito è un capitano che contrabbilancia alle forze nostre l' impeto del nemico; che ci somministra le armi; e quali armi? Le armi della fede. E a qual fucina temprate? A quella del divino amore. Non meritiamo dunque il rimprovero: « modicae fidei, quare dubitasti? » Anzi imbracciato lo scudo della fede, contro cui tutte le saette si spuntano, consoliamoci in quelle parole: « qui perseveraverit usque in finem, hic salvus erit », e in quell' altre: « in patientia vestra possidebitis animas vestras ». Acciocchè poi non ci venga meno la fede, preghiamo senza intermissione: preghiamo fino che otteniamo: « Omnis qui petit, accipit; et qui quaerit, invenit; et pulsanti aperietur ». Nell' orazione troviamo la forza, la consolazione, la tranquillità, il rimedio alle malattie dell' anima, il sollievo a quelle del corpo. Certo in quanto a queste ultime gran conforto possiamo avere anche dal pensiero che dobbiamo colla penitenza scontare le offese che abbiamo fatte a Dio; e anche da quell' altro che « levius fit patientia quidquid corrigere est nefas ». Del rimanente a me passò per la mente che vi potesse recare qualche sollievo il fare qualche passeggiata fino a stancarvi un po'; e però vi proporrei di venire a Stresa, ma prendendo il cammino inverso, cioè per la valle Vigezzo, la Canobbina, facendo un devoto pellegrinaggio a Nostra Mamma di Re, dividendo il cammino a marcie discrete: e quando poi foste qui, dove c' è tutta la comodità, vi consiglierei a fare alcuni bagni, e da tutta questa cura mi riprometto buon effetto. Coraggio dunque, concertate ogni cosa con cotesto Superiore, poi all' opera, dandomi avviso del risoluto. 1.51 Il sentire dalla vostra dell' 11 agosto che voi col dilettissimo Furlong occupate tutto il vostro tempo a vantaggio di cotesto popolo sedente nelle tenebre e nell' ombra della morte, mi produce una somma consolazione, considerando specialmente che la fatica che fa colui che è mandato dal Signore nel curare e pascere le anime, è il maggiore segno che possiamo dare a Dio della nostra carità; onde Cristo dopo aver domandato a Pietro se lo amasse, gli soggiunse per tre volte « « pasci il mio gregge » »; donandogli questo quasi in pegno dell' amor suo. Vero è che anche tutti gli altri uffici di carità imposti dall' ubbidienza ai membri dell' Istituto della Carità hanno lo stesso merito, perchè hanno lo stesso fine, e però si può dire che tutti esercitino la cura delle anime, perchè le loro fatiche tendono finalmente alla salvezza delle anime. Questo sublimissimo intento è l' effetto che deve produrre tutto il Corpo nostro, e però a questo effetto concorrono tutte le diverse membra, di cui il Corpo si compone, e i loro diversi uffizi. Onde avviene che tutti quelli che ben intendono questa gran verità, sono facilmente contenti di ogni uffizio, esercitandolo, qualunque sia, coll' intenzione di cooperare al bene morale e spirituale; è sempre la carità quella che vi si nasconde, come preziosa margarita: questa sola è amata da tutti, e da tutti quelli che l' amano, trovata. E ciò non ostante, coloro a cui Iddio ha dato la missione di lavorare immediatamente alla salute dell' anime e di predicare la divina parola, devono avere una speciale gratitudine alla divina bontà che a tanto li elesse; e sono simili a coloro che, lavorando nel fuoco, non possono a meno di riscaldarsi. E non solo bramo che voi e cotesti miei carissimi fratelli vi riscaldiate nell' impegno in cui siete di dover riscaldare gli altri, ma che v' incendiate altresì d' amor di Dio e del prossimo. A questo dunque attendete; e a tal fine mantenete pura l' anima vostra da ogni contagione di questo secolo, vivendo della vita nascosta in Gesù Cristo; la quale ha per intento di spogliarci d' ogni qualunque attacco alle cose sensibili per attaccarci totalmente alle invisibili. Da per tutto la cattolica fede trova contrasti, ma da per tutto ancora trova trionfi: « oportet ut veniant scandala . » Voi ne avete tanti sott' occhio in cotest' Isola, ma noi certo non ne difettiamo. Che anzi reputo in qualche modo migliore la condizione vostra che la nostra, mentre appresso di voi si edifica, sebben combattendo, e presso di noi si distrugge quello che è edificato e si combatte perchè non sia distrutto. Abbracciate tutti nella carità di Cristo i cinque compagni che vi mando, sui quali ho concepito grandi speranze. Diverranno operai zelantissimi per la divina gloria: che Iddio li difenda dal maligno. [...OMISSIS...] 1.51 Anch' io ho conosciuto che, come voi dite nella carta che m' avete scritto, il vostro difetto è la timidezza; e questa, parte v' impedisce il ragionamento rendendovi esitante, e parte v' impedisce l' operazione trattenendovi dal farla subito, intera e colla dovuta franchezza. Conviene che vi prefiggiate di vincere questo difetto e di rendervi per l' opposto santamente coraggioso. I mezzi di vincere o piuttosto di deporre la timidezza soverchia sono i seguenti: Il primo mezzo è non aver paura della timidezza medesima: perchè questa paura accresce assaissimo la timidezza stessa. Convien dunque non pensare alla propria timidezza e non rivolgere soverchiamente la propria riflessione sopra sè stesso quando si delibera o si opera, ma porre la semplice attenzione sul partito da prendersi e le ragioni solide pro o contra, e dopo averlo preso pensare all' operazione che s' ha da fare, e non ad altro. Il secondo mezzo è di raccogliersi qualche volta e considerare che il timore che sopravviene è irragionevole, e poi disprezzarlo; e anche avendone il sentimento, operare come se non ci fosse, nè ragionare più con esso, come si fa colle tentazioni. Il terzo mezzo è ragionare molto cogli uomini e specialmente con uomini grandi sotto ogni rispetto, e imitare i loro modi e la loro buona franchezza: ancora mettersi dentro nei negozii, avendo grand' impegno di ben condurli: e però non esser parco di parole in conversazione (purchè i discorsi sien buoni ed importanti), e sostenere anche delle questioni o scientifiche o d' altro genere, spiegandovi forza e impegno, senza asprezza, già s' intende. Chi ha grand' impegno di condur bene un affare, per la gloria di Dio, questi si dimentica del timore, e fa il fatto suo. Quarto mezzo . Conviene badare di non voler essere troppo perfetto, cioè falsamente perfetto, dandosi un soverchio fastidio di tutte le piccole ragioncelle, che vengono per la mente, e fermando il passo ad ogni lontano pericolo d' inconvenienti minimi; il che non facevano già i santi, nè farà mai cose grandi per la gloria del Signore colui che si obbligasse a questo; ma andrà sempre impacciato e dibattendosi tra le tele di ragno; non acquisterà mai la perfezione, che domanda un cuore largo, delicato solo quando si trattasse d' offesa contro i precetti o i comandamenti del Signore. Quinto mezzo . Una delle più potenti maniere di prendere coraggio è quella di persuadersi che la buona riuscita delle opere nostre non dipende da noi, ma da Dio, e quindi d' acquistare una grande, infinita confidenza in Dio, che opera in noi, quando noi operiamo per ubbidienza o per carità; ed allora egli cava la sua gloria anche dalla nostra debolezza, da' nostri errori, dalle nostre stesse mancanze. Sesto mezzo . Come conviene evitare l' asprezza, e ciò che veramente offende la carità, così conviene evitare la falsa mansuetudine , che è quella che non vuol mai venire a battaglia con nessuno, e vuole evitare tutti gli urti; quando all' incontro senza sostener battaglie e far testa al male, specialmente uno che dovesse essere Superiore, non riuscirà mai a procacciar molto gl' interessi della divina gloria e migliorar sè e gli altri. All' incontro l' uomo che per amor di Dio ha fatte delle battaglie, non può mancare d' acquistar ben presto il coraggio e il polso forte che gli è necessario. Settimo mezzo . Non credere che il sentimento del timore che coglie improvviso, debba subito scomparire, e non avvilirsi se ritorna dopo i più bei proponimenti e la speranza d' averlo vinto del tutto: perchè quel sentimento non si può scacciare se non con lungo tempo, ma si può operare come se non ci fosse, senza lasciarlo influire nelle nostre azioni, nelle quali dobbiamo dirigerci colla ragione e col calcolo, e non con altro. Questo deve cautelarci contro l' avvilimento, che potrebbe sopravvenire, quando si vedesse ritornare quel senso di timore che si credeva vinto; o si pretendesse di far più di quel che si può in un momento. Ottavo mezzo . L' orazione, e specialmente l' uso dei salmi, che ispirano tanti affetti di fiducia e d' aspettazione di cose grandi dalla bontà divina che ci ha in cura. - Con questi mezzi e colla costante volontà di proceder avanti con buon ordine, ci riuscirete. [...OMISSIS...] 1.51 Avreste fatto bene ad avvisarmi prima d' ora delle tentazioni e delle battaglie che vi dà il nemico dell' anima vostra. Iddio ne ha preavvertiti tutti quelli che egli chiama al suo più stretto servizio con queste parole: « Fili, accedens ad servitutem Dei, sta in iustitia et timore, et praepara animam tuam ad tentationem (Eccli., II, 1), » dove ci comanda di stare nella giustizia e nel timore dell' umiltà, e di apparecchiarci , certo colla buona volontà e coll' orazione. Nello stesso tempo ci ha confortati e assicurati, se noi così facciamo, del suo aiuto, ed anzi si trova scritto: « Beatus vir, qui suffert tentationem: quoniam cum probatus fuerit, accipiet coronam vitae, quam repromisit Deus diligentibus se (Iac. I, 12) ». Indarno taluno vorrebbe darsi alla sequela più intima di GESU` Cristo, pretendendo di non dover essere tentato e provato in varie guise; ma colui che fu chiamato a questa felice sequela è obbligato a respingere tali tentazioni colle dette armi della fede, dell' umiltà e dell' orazione; e quando lo fa, è beato , come Dio stesso ha detto per la bocca di san Giacomo, perchè diventa un servo di Dio provato . All' incontro, chi non lo fa, mette in grave pericolo l' anima propria, tanto se, cedendo alla tentazione, cade in peccato, quanto se, col pretesto di non poter resistere alla tentazione, pretesto ingiurioso a Dio, abbandona lo stato di perfezione; giacchè questo abbandono fatto con tanta viltà è una gravissima ingiuria a Dio vocante, della quale Dio solo è giudice e punitore. Ora voi, mio carissimo figlio, siete stato chiamato e già entrato ne' debiti modi nello stato della perfezione, e vi siete obbligato in esso in perpetuo e irrevocabilmente, da parte vostra , col vincolo sacro dei voti perpetui, dai quali non v' è più lecito di sciogliervi. Nè vi verrebbe a salvezza dell' anima l' esser dimesso dall' Istituto; chè i Superiori non possono dimettere alcuno se non allorquando la sua condotta lo rendesse dannoso al corpo de' suoi fratelli; onde questa stessa dimissione ricade a colpa di colui che viene dimesso, e con essa non si migliora già la sua condizione davanti a Dio, qualunque cosa appaia davanti agli occhi degli uomini. Io giudico dunque che voi non solo siete obbligato gravemente a respingere il pensiero di abbandonare l' Istituto, nel quale Iddio, per sua misericordia, v' ha fatto la grazia d' entrare; ma di più siete obbligato di mantenere la sacra promessa, che avete fatta a Dio medesimo in presenza della corte celeste, e a compiere la beata oblazione di tutto voi stesso, vivendo e morendo santamente in questo Istituto. Dovete dunque riconoscere nei pensieri che vi vengono la voce del maligno serpente, che v' insidia l' eterna salute, e vuol perdere l' anima vostra; e dovete respingere questa voce seduttrice, non essendo già connivente coi detti pensieri, nè coltivandoli, nè fiaccamente contenendovi quando vi assalgono; ma subito dovete discacciarli, e rivolgere il pensiero a cose più degne, e aprirlo ai dettami dello Spirito Santo, spirito di purità e di santità, castigando anche voi stesso, e stringendovi a Dio colle più fervorose orazioni, fino che sia passata e pienamente vinta l' infernal tentazione. Sotto specie di bene questa v' inganna facendovi credere che vi sarebbe più facile salvarvi in un altro stato: quasicchè per chi ha fede in Dio e conosce chi è Dio, l' abbandonare il posto, nel quale egli ci ha messi, non sia un buttarci all' inferno. Anche lo spaventarvi della perfezione che propose Gesù Cristo ai suoi eletti, e che tale quale l' ha egli insegnata, è proposta nell' Istituto, è un diabolico artificio che si fonda nella mancanza di fede; onde avviene che si crede poco all' efficacia degli aiuti che ci dà lo stesso GESU` Cristo che ci ha data la legge di perfezione, e si ha la stoltezza riprovevole di non volerli adoperare, e nello stesso tempo par che si creda che quella perfezione si consegua colle forze umane, delle quali, sentendosi poi deboli, si dispera. Ma chi ha fede e piena confidenza in Dio, ancorchè si senta debole, è fortissimo, ed il suo coraggio va crescendo ogni giorno di mano in mano che Iddio gli si rivela, e gli fa conoscere e sentire la sua potenza e misericordia. Lungi dunque da noi tanta bassezza, miseria e perversità da prender consiglio da quello che ben conosciamo, se pur non vogliamo ingannarci, essere lo spirito delle tenebre e della menzogna, e però essere il nemico più arrabbiato della perfezione evangelica; onde co' suoi mortiferi argomenti vorrebbe condurci al termine da essere scacciati dal paradiso della virtù evangelica, cioè dalla Religione. Al fine di vincerlo e svergognarlo, facendolo dare indietro, ecco le armi: Non ascoltare i suoi seducenti discorsi; e però ribattere subito , al primo sentore, tutti i pensieri i quali tendessero a farci perdere l' amore e la stima della nostra santa vocazione e dello spirito di consacrazione in questo Istituto; rinnovando spesso al Signore di voler vivere e morire in esso, con azioni molte di grazia a lui, che per pura misericordia vi ci ha condotto. Dar opera diligente ad arricchire la mente di santi pensieri, l' anima di santi affetti e la volontà di frequenti propositi di avanzare in ogni maniera di virtù, ma sopra tutto nell' umiltà , nella sofferenza e nella carità . Dedicarsi all' orazione come alla prima e alla più importante nostra occupazione, e fare tutto quello che si può da noi, per riscaldare in essa il nostro cuore e acquistare un gran zelo della maggior gloria di Dio, e di poter farlo conoscere agli uomini; sopratutto è necessario l' abito di frequenti e quasi continue giaculatorie. Amare gli uffici umili , come cosa grata al Signore, e riprendere in noi ogni movimento di superbia, di vanagloria e simile, dandosi alla perfetta ubbidienza , e godendo di questa come di cosa che piace a Dio e che ci ottiene indubitatamente le grazie più preziose per l' anima, facendo di conseguente grande stima di un' osservanza la più esatta che sia possibile. Evitare ogni parola oziosa coi compagni, e in quella vece servirsi della lingua per edificarli e santificarli, giacchè la santità che noi procacciamo in questo modo ad essi ritorna sopra di noi; e cooperare in ogni modo al progresso spirituale de' proprii compagni. Non avvilirsi mai, anche se ci occorresse di cadere, o di non fare quel profitto che speravamo; perchè la nostra emendazione viene a gradi per lo più, qualora Iddio non faccia qualche cosa di straordinario. Ecco dunque quello che dovete fare, mio carissimo fratello: spero che lo farete, e sarete consolato, ed io godrò della vostra consolazione. 1.51 L' incomodo d' un occhio che m' impedisce di leggere e di scrivere, unito alle occupazioni, fu cagione, che io differissi finora a riscontrare la pregiatissima sua lettera, e mi obbliga al presente di usare della mano di una fidata persona per istendere la presente. Del resto quest' incomodo non è gran cosa, ma una piccola croce che mi dà il Signore troppo inferiore a' miei meriti. Comprendo a pieno, mia pregiatissima Signora Baronessa, tutto ciò che deve soffrire il suo spirito allo spettacolo delle cose di questo mondo: nello stesso tempo conosco quanto sia immobile, inalterabile, infinito quel bene che si trova nella nostra Religione santissima, e come questo bene ci compensi di tutti gl' incomodi e le noie e i travagli, che ci vengono dalle cose terrene e corruttibili di cui siamo composti e in mezzo alle quali viviamo, e come noi stessi possiamo e dobbiamo partecipare dell' immutabilità di quel bene. Poichè anche l' anima nostra acquista una certa sostanza ed immutabilità, e quindi una pace stabile, quando si congiunge alle cose immutabili. Iddio sia il luogo della nostra perpetua abitazione; così tutte le cose che cangiano, rimarranno al di sotto del luogo dell' anima nostra. Io so, mia veneratissima Signora, che questi sono i suoi conforti, come sono i miei. Da molto tempo non ho da Roma nuova alcuna, spero nondimeno che lo stato delle cose pubbliche colà si vada migliorando. 1.51 Ecco finalmente la lettera che m' aspettava dal mio caro Setti. La lessi con vera consolazione: specialmente mi consolò il vedere, che la prova che aveste a sostenere, v' abbia persuaso che chi confida nel Signore non perisce in eterno. Conviene abbandonarsi a lui e temere sempre di noi stessi, ma senza alcuna sorte d' avvilimento: non assicurarsi mai di noi, di Dio sempre, in qualunque condizione ci ritroviamo. D' altra parte è necessario, mio caro, di conservare l' interiore tranquillo e non permettere che vi nasca tumulto, nè pur quando un certo tumulto d' affetti sembra buono e a buon fine diretto; perchè un certo confuso tumulto è spesso un' esaltazione dell' immaginativa sommossa dal demonio che si trasforma in angelo di luce e rende l' uomo inquieto, fisso ne' suoi pensieri, indocile, ostinato, angustiato, esclusivo, e di somiglianti cose ripieno, che sono grandissimi difetti ed impedimenti al compimento dell' opera della nostra salute e perfezione secondo la volontà di Dio. Godo dunque che amiate cotesta solitudine, dove avete trovato il riposo dell' anima, ma in modo però d' essere sempre pronto ad abbandonarla, quando l' ubbidienza ve lo imponesse. A questa condizione l' amore che avete ad essa è buono, utile e a Dio gradito. Ma senza questa condizione sarebbe un' illusione e per certo un inganno dell' inimico che è sottilissimo, prendereste il male per bene, e quella che è vostra propria, per cosa di Dio. Quando amaste cotesto luogo e cotesta vita, che ci fate, con attacco impeditivo dell' ubbidienza, benchè apparentemente per un fine e un intento buono e santo, quell' attacco vi pregiudicherebbe alla vera perfezione dello spirito. E sapete che cosa ne potrebbe avvenire? Che quello che ora appare un così forte attacco , dopo qualche tempo potrebbe non essere più nè pure un affetto , e convertirsi in avversione: nè è già la prima volta, che quelli che dicevano di volere per puro amor di Dio un certo genere di vita che credevano indispensabile per salvarsi l' anima, poi si cangiassero, prendendo sentimenti del tutto opposti, e per la stessa ragione del salvarsi l' anima ne volessero un altro tutto diverso e con un' uguale ostinazione. Onde mettiamo per inconcusso fondamento il principio che non falla e che non inganna di sicuro, quello della semplice ubbidienza. E non è già necessario di occupare la nostra mente di pensieri sull' avvenire, e di domandare a sè stessi che sarebbe di noi in questa o quella ipotesi; chè non ci sono pensieri più vani di questi, nè più atti a turbare la pace interiore e scompigliare l' immaginazione. All' incontro la bella semplicità che s' abbandona a Dio senza pensare all' indomani, ma che adempie alacremente tutti i doveri dell' oggi, ecco la maniera d' andare avanti in « pulchritudine pacis . » Pregate dunque, servite la Chiesa e la casa, edificate il prossimo, acquistate collo studio assiduo e ordinato le cognizioni necessarie per rendervi atto a esercitare i ministeri della predicazione e della confessione, abbiate un grande zelo delle anime del prossimo e un grande amore di fargli del bene in ogni modo, conservate un umore ugualmente lieto ed affabile con quelli con cui trattate, e del resto non pensate più avanti: Iddio ci pensa. Scrivetemi poi a quando a quando, se le cose vi continuano bene, come grandemente spero e prego.

Introduzione alla filosofia

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

E così nella storia dell' umanità è segnata una via di alterni periodi, negli uni de' quali prevalgono i sofisti, negli altri i filosofi, negli uni l' errore baldanzoso s' arroga il nome di filosofia e il comune degli uomini sorpreso dalla nuova foggia del ragionare non glielo contende; negli altri lo stesso errore rimane spoglio con ignominia di quel nome malamente usurpato, riconoscendo pressochè tutti, che in coloro, i quali prima si chiamavano filosofi, non v' era in fondo che un' ignorantissima petulanza (onde questi bei nomi di filosofia e di filosofi rimangono per qualche tempo infamati). E questo alternare di periodi di un fallace e di un vero sapere è una di quelle molte maniere di vicende, che, regolate a misura di tempo e quasi a battuta, dalla provvidenza, come fisse leggi, regolano il corso dell' umanità sulla terra, e, uscendo dal male il trionfo del bene, rendono quel corso, quasi contemperato di varie note, una cotal musica dilettevole al divino intelletto. Nel secolo XVIII i sofisti (e anche questo è uno di quei nomi che in Grecia prima e poi per tutto e per sempre, perduta la prima loro nobile significazione, se ne acquistarono una obbrobriosa, quando i falsi ingegni che se l' erano ambiziosamente appropriato furon vinti dai migliori) occuparono il regno dell' opinione: il libro di Giovanni Locke (1690) fu il segnale dell' aprimento di questo novello periodo di volgarissime e pur efficacissime fallacie. Da quell' ora gli uomini, sviati dalle più ferme e salubri verità, vennero illusi e uccellati con apparenze d' utilità e con magnifiche promesse d' un facilissimo e non mai prima conosciuto sapere: le menti blandite ricevettero in sè docilmente gratuite opinioni e goffi errori nella sfera delle cose religiose, in quella della morale, in quella della politica, in quella dell' umana socievolezza, in tutte le questioni più gravi e più importanti alla salute ed alla vita dell' uomo nel tempo e nella eternità. A' quali errori certo da valentissimi scrittori fu risposto e tuttavia ancor seducono, perchè non impugnati intieramente nelle loro proprie forme. Laonde a queste che, sebbene alquanto appassite, pure non cessano di parer seducenti, par necessario di trovare e contrapporre le forme correlative della verità, il che si tenta, come che sia, di fare in varie opere contenute in questa raccolta. Dicevamo che secondo il disegno della Provvidenza l' occhio della quale non si chiude giammai sul mondo, dal male dell' errore procede il bene del trionfo del vero. E già S. Agostino osservava, che gli eretici occasionano questo nobilissimo vantaggio alla Chiesa, « « che i veri da essi impugnati si considerano per la necessità della difesa con più diligenza, e s' intendono con più chiarezza e con più istanza si predicano »(1). » E altri vantaggi ancora arrecano al progresso fra gli uomini della verità, senza volerlo e senza pure accorgersene, i maestri dell' errore. Chè non potendo essi insinuare l' errore nelle menti se non ammantandolo col vestito della verità, non distruggono l' amore di questa in universale a cui anzi prestano testimonianza, e di più sono obbligati di mettere attorno al falso alcuni brandelli della stessa verità, onde prenderne l' avviamento de' loro discorsi e il principio de' loro sillogismi. I quali brandelli sogliono essere per lo più alcune parti di verità, che fino allora erano meno osservate e da' legittimi e sinceri maestri forse neglette, onde con quelle, siccome con altrettanti veri trovati e inculcati da essi, si raccomandano nell' opinion degli uomini e ne magnificano la propria scuola. Di che accade, che colla stessa industria colla quale intendono propagar l' errore, traggono alcuni veri, giacenti quasi nell' ombra, in aperto lume, e così ogni particella della verità ha il suo tempo di venire a galla, d' acquistare il suo giusto valore e di mettersi in corso, servendola di ciò gli stessi nemici. E tuttavia gli uomini che abboccano a quest' esca del vero, rimangono pur troppo presi nell' amo del falso. Al quale danno non poco contribuisce una cotale apparenza di merito, che a' fallaci dottori appartiene. Perocchè cotesti non potendo sedurre gli uomini, se non col trasferire, siccome noi dicevamo poco fa, gli errori antiquati, a cui era stato già cavato il pungolo velenoso da lucidissime confutazioni, in una regione di riflessioni più alta, sforzano i savi che li vogliono combattere a seguitarli, e ad innalzare seco stessi la verità, le forme della quale così s' ingrandiscono agli occhi dell' umana intelligenza; chè l' uomo venuto ad una riflessione maggiore fa appunto come colui, che dalla valle recatosi all' altezza delle vette de' monti, di colà scorge un orizzonte smisuratamente più vasto del primo. Veramente ad ogni ordine di riflessione, battano queste nel vero o nel falso, lo sguardo dell' umano intendimento prende un nuovo orizzonte di scienza o vero od illusorio. Di che non fa maraviglia, che i falsi savi attirino a sè gli uomini colla novità delle forme e coll' originalità del linguaggio, chè la novità, quasi fosse luce, occupa e diletta la mente sempre avida di sapere e prontissima alla speranza di francare i limiti antichi, l' originalità la sorprende e ne riscuote l' ammirazione; e però coloro, che con questi modi si presentano maestri degli uomini, non falliscono mai d' acquistarsi nella volgare estimazione il nome e la fama d' antesignani del sapere e del progresso. E perchè noi dobbiamo essere giusti a tutti, fino al primo autore del male, riconosciamo noi pure, che i sofisti in qualche senso sono gli antesignani del progresso scientifico, in quanto che, con sempre nuove assurdità, essi riscuotono quelli che possedono il vero dalla loro quiete, e li sforzano all' opera di sospingere innanzi l' umano intendimento. Così avviene che questo, pel corso de' secoli, va contemplando la bellezza dell' immutabile verità da tutti i suoi molti lati, de' quali sol uno alla volta ella presenta alle umane menti, e sotto tutte le più nobili forme di cui ella possa rivestirsi. Perocchè è troppo vero, che i savi, ove non sieno vivamente scossi al pericolo della verità che li appaga, assalita da apparenti fallacie, o a quello de' loro simili colti facilmente in queste reti, non dimostrano a pezza quella straordinaria attività, che negli ingegni falsi e cavillatori viene suscitata, secondo l' espressione d' Agostino, dalla loro calda inquietudine. Ma quantunque i figliuoli di questo secolo sieno più prudenti de' figliuoli della luce, il progresso che procede indirettamente da' loro errori non può ascriversi a loro merito, benchè sovente gliel' ascriva la moltitudine nella sua semplicità captivata: chè qui ogni merito non è dell' uomo, ma dell' altissima provvidenza che presiede allo sviluppo dell' umanità, e con infallibile effetto l' ottiene, sia permettendo quel male, che lo provoca quasi stimolo, sia producendo ed operando quel bene che lo compie; epperò nell' immenso suo regno, dove ogni essere è limitato e niuno può far da sè solo alcuna cosa compita, ella adopera ciascuna maniera di enti a lavorare una parte della grand' opera da essa ab eterno contemplata, ora licenziando l' arguzia degli ingegni straniati ad irrompere coll' errore in una nuova sfera di mentali riflessioni, ora aiutando le sane e rette intelligenze a recare in quella stessa la verità, pel qual movimento alterno, come dicevamo, progredisce sollecita a' suoi destini l' umana mente e l' uman cuore con essa. Aggiungi, che il Dio della verità, che con tanta sapienza mette a profitto tutte le potenze e le volontà umane, buone o triste, senza violentarle ad accelerare la realizzazione di quell' idea in cui egli mirava creando l' universo, trae di quell' impaziente operosità d' alcune menti che rifuggendo dal vero lo cercano tuttavia continuamente nel falso, un altro nobilissimo vantaggio a pro di coloro che della sincera verità si dilettano. Poichè questi all' esempio di quelli si sentono provocare ad emulazione, ed esperimentano di necessità una cotale erubescenza considerando la propria inerzia intellettuale, che facilmente scade alla lassezza ed alla infingardaggine, col paragone di quella faticosa e sempre mai irrequieta assiduità. E questo pudore de' buoni ingegni al vedersi precorsi e avanzati nelle scientifiche investigazioni da coloro, che le rivolgono ad offuscare le prime e più salutari verità, in cui pende la vita intellettuale e morale dell' uomo, se mai fu lodevole in altri tempi, in questi nostri è divenuto manifestamente doveroso, ed è così vivamente sentito, che io mi credo, niuno degli onesti che s' applicano alle lettere ed hanno cuore, il possa evitare. Perocchè ci stanno davanti tanti secoli, e in essi l' esperienza tante volte replicata del danno improvviso e quasi procelloso sopravvenuto al mondo per la divulgazione di funestissimi errori, i quali non trovando sufficientemente preparati ed armati quelli che avrebbero dovuto combatterli appena nati, e che allora neppur li riconobbero per quel che erano, ebbero tutto il tempo e l' agio di radicarsi nelle menti, e di farsi adulti e gagliardi, rendendosi poi l' opera del vincerli e dello schiantarli oltre misura più ardua e lunghissima. E questo stimolo che la Provvidenza aggiunge naturalmente agli amatori del vero e del bene, coll' esperienza de' fatti che ella permette, è quel medesimo col quale il divino autor del vangelo spronava i suoi discepoli ad emulare nel bene la prudenza de' figliuoli delle tenebre, ed insegnava, addotto l' esempio dell' amministratore infedele (1), a saper trovare negli stessi malvagi qualche cosa degna d' imitare: che anzi nel giudice iniquo, nel tepido amico, nel principe crudele (2) egli accenna un elemento per sè non reo, che ritrae alcuna somiglianza di quelle leggi, colle quali Iddio medesimo suole operare. Riscosse le intelligenze de' migliori a tali eccitamenti ed ammonimenti, e già infervorate non più solo a dissipare i cavilli di quelli che invidiano agli uomini la luce della verità, ma a prevenirli, s' accende in esse un nuovo ed incredibile desiderio di recare la verità stessa alla sua ultima e più nobile forma ed espressione, e, percorrendone tutto il campo, raccorne ogni membro, e decentemente al suo tutto congiungerlo, facendone riuscire un corpo scientifico di tanta bellezza e luce, che l' odio sì possa oltraggiarlo, non più il sofisma, con qualche probabilità di guadagnar le menti offuscarlo. Il qual desiderio nobilissimo che incomincia a farsi sentire soltanto ad una certa età della vita umanitaria, ed è un nuovo sviluppo di quel tesoro di germi che l' umanità nasconde nel profondo della sua essenza, e nol conosce ella medesima prima che al suo atto esteriore si maturi, cresce in appresso ognor più coll' invecchiare del mondo. E chi molto o poco nol sente in questa nostra età? Ora quale spirito gentile può esserci, che vedendosi davanti tanti nobili veri, utilissimi e fertilissimi, quanti sono quelli, che purgati ed accertati dai sapienti, giacciono consegnati alle carte di cui ogni secolo a noi fè dono, non desideri e non chieda qualche grande sintesi, nella quale tutti quasi d' un solo sguardo si possano abbracciare, que' veri, ordinati a bella unità, e nell' evidenza d' un loro supremo principio di nuova vita accresciuti? Perocchè come da tutte le maniere d' errori sembra che oggimai sia stata travagliata successivamente la verità; così di mano in mano tutte le sue parti più sostanziali furono e validamente difese e descritte con diligenza e con singolare amore ed eloquenza illustrate e adornate. Laonde, la mercè di quelli che istantissimamente s' adoperarono ad oscurare il vero e che insensatamente ambirono alla celebrità di vericidi, è venuto per l' uman genere un' età di tanto suo sviluppo, che i buoni e diritti ingegni, i quali prima (comunemente parlando e fatta eccezione ad alcune menti straordinarie) o s' accontentavano di possedere quasi per abito la verità o si levavano a difenderla solo quand' era assalita, vedendosela ora innanzi divenuta così ricca e molteplice, già si sentono accesi di contemplarla raccolta nella sua scientifica integrità, e di coltivarne lo studio meno ancora per rifiutare gli errori, che per possederne la forma più elegante, e pascersi consapevolmente di quella nuova luce, di cui, nel suo compiuto disegno, ella mostrasi sfolgorante. Nè deve rallentare lo sforzo delle nostre intelligenze a soddisfare questo nuovo bisogno che la Provvidenza ha risvegliato in esse coll' opera de' secoli ne' quali fu combattuta parte a parte e parte a parte difesa la verità, il pensiero che anche dopo essere noi riusciti a inserire in un solo corpo di scienza, con perfetta euritmia, le sparse membra del vero, i sofisti non si ristaranno perciò dall' opera loro, e dedurranno da una riflessione ulteriore nuove fallacie, tendendo con esse nuovi agguati alle menti. Poichè è necessario distinguere tra le singole parti, e il sistema intero della verità. Quella serie d' ordini di riflessioni, che noi abbiamo accennata, si prolunga indefinitamente rispetto alle singole parti; non così da quel punto, in cui la riflessione, lasciate le parti, dee occuparsi del tutto: questo non ammette quegli ordini indefiniti; chè quando una riflessione abbraccia veramente il tutto, un' altra non trova più alcuna nuova materia (non restando altro fuori del tutto), e però ella s' identificherebbe colla precedente, nè da questa si potrebbe distinguere. Laonde, supposto che una volta sia trovato e bene costituito l' intero sistema della verità, non si può più continuare quella lotta se non presso coloro che non vogliono prender cognizione di quel sistema, ovvero che, dopo averla presa, vi ricusano l' assenso dell' animo, nel qual ultimo caso rimane la lotta delle volontà, anzichè quella degli intendimenti, una lotta cioè che niuna scienza, niuno umano argomento può ricomporre, giacchè l' uomo è libero, e la libertà può ben esser condannata dalla ragione, ma vinta solo da Dio. Egli è dunque desiderabile che oggidì tutti gli studiosi del vero e del bene, amici fra di loro, pongano la loro industria nell' opera di comporre (giovandosi dei materiali che il tempo ha già così copiosamente accumulati) quel sistema intero della verità che noi dicevamo, e per aiutare comecchessia quest' impresa, anche noi tentammo noi stessi. Noi diremo appresso in che modo credemmo di poter accingerci a questo tentativo: vogliamo per intanto avvertire come questo secondo fine de' nostri studi serbi un' intima relazione col primo. Poichè prendendo un tale intento per mira s' incontra per via una nuova maniera più efficace e più completa d' impugnare gli errori. Altra cosa è dimostrare che una dottrina è falsa, ed altra insegnare di più qual sia la dottrina vera da sostituirsi. Il primo assunto è assai più agevole del secondo, ma non soddisfa ad ogni bisogno delle menti, le quali per natura avide della verità chiedono che la si annunzi loro espressamente, e tanto poco s' appagano di maestri che si limitino ad impugnare gli errori (il che è un ammaestramento negativo che distrugge ma non edifica) che per la molestia che loro arreca il rimanersi, tolti di mezzo gli errori, tuttavia nell' ignoranza e nell' incertezza, s' attengono fortemente a qualunque opinione, per poco che ella goda di una probabile apparenza o di qualche fama, e dagli errori stessi assai più difficilmente si staccano, quando s' accorgono che, depostili, non hanno perciò guadagnato alcun positivo conoscimento. Anzi questo è uno di que' costanti artifizi co' quali i maestri degli errori traggono gli uomini alla propria scuola e ve l' invescano, il prometter loro una scienza positiva, certa, superiore a tutte l' altre, atta a spiegare ogni cosa; chè la loro formola infine è sempre quell' antica; « In qualunque giorno mangerete di questo frutto si apriranno gli occhi vostri, e sarete siccome Iddii, scienti il bene ed il male; »colla quale l' antichissimo de' sofisti invitò i primi parenti a giudicare il divieto divino; e questo era appunto un far ascendere il loro pensiero ad un ordine di riflessioni superiore, formandosi il giudizio con una riflessione più alta di quella, a cui appartiene la notizia della cosa su cui si giudica. Da quell' ora ad una riflessione erronea convenne di necessità contrapporre un' altra verace, e tale fu veramente il giudizio che pronunciò Iddio sul colpevole giudizio di Adamo; e la disputa del vero col falso, dell' argomento col sofisma è divenuta inevitabile. I maestri del vero non corrono così facilmente a promettere come i seduttori, i quali non si curano dell' attenere, ma di sorprendere, e fare al momento seguaci. Ma ora sembra venuto quel tempo, in cui necessiti soddisfare con una positiva esposizione della verità a modo di scienza, la curiosità tanto cresciuta, anzi divenuta in tutti gli animi pungentissima di sapere in questa forma riflettuta. Tanto più che qualora non si possa contrapporre una dottrina sana e luminosa a quella che si vuol combattere, bene spesso accade che questa non si lasci nè intendere nè vincere compiutamente: se ne parano i mali effetti, se ne mostrano le conseguenze assurde; pure la radice non è schiantata, e talor' anco, senza avvedersene, si coltiva la pianta de' frutti mortiferi. Il qual difetto si può osservare ne' bene intenzionati nostri scrittori. A ragion d' esempio per ciò che riguarda la questione del sensismo e del soggettivismo, fonte di tutti i moderni delirŒ, invano il Galuppi disse di confutarlo a Napoli, il Bonelli a Roma, molti nell' alta Italia: questi ed altri filosofi italiani (per non parlar che de' nostri) non potendo sostituire al sensismo e al soggettivismo alcun sistema positivo intorno alla natura ed all' origine della cognizione, mentre pur ne dimostrarono alcuni accidentali difetti, lasciarono saldo nelle loro scritture il ceppo di quegli errori, e, quasi diradandogli intorno il folto de' suoi silvestri virgulti, lo resero più vivace. Che anzi tanto è difficile conoscere tutto il veleno nascosto nell' errore quando lo si combatte soltanto e non si raggiunge il sistema vero da sostituirvi, che noi ancor poco fa udimmo un Collizi, un Mastrofini, un Costa ed altri venirci a dire che il sensismo fu calunniato, e, persuasi d' averlo essi già d' ogni macchia purgato con alcune accessorie modificazioni, tesserne l' apologia! Noi ci siamo dunque consigliati di prendere il cammino contrario, cioè di cercare prima d' ogni altra cosa in qualsiasi questione ed investigazione il vero positivo, e questo, il meglio che per noi si potesse, descrivere e stabilire: su questo poi quasi su fermo appoggio puntar la leva per dare all' errore la rivolta. Ed abbiamo creduto talmente importante ed utile quel primo intento, che non sempre ci siamo poi trattenuti ad assolvere il secondo, parendoci facilissimo a ciascheduno che il brami, conosciuta solidamente la verità, dedurne la rifutazione dell' errore; massimamente che ci parve tanta esser la fecondità e la potenza di quella, che non un solo errore, ma innumerabili cadono bocconi al suo cospetto, e il parlare specificamente di tutti sarebbe cosa infinita. Così alla domanda assai naturale che sogliono far coloro, i quali si convincono in qualche disputazione d' essere ingannati: « diteci dunque qual sia il sistema che in questa materia si deve tenere, »noi credemmo di non ammutolire, e procurammo di dare quella soddisfazione, di cui hanno, in qualche modo, diritto gl' interroganti. Qualora dunque si consideri che gli uomini aspirano a conoscere e contemplare la verità, e conoscerla e a contemplarla, i presenti segnatamente, in un modo riflesso ed attuale, perchè ne vogliono godere consapevolmente (e senza l' uso della facoltà di riflettere l' umana mente è inconscia delle sue proprie notizie): se si considera ancora, che non si rappresenta il vero alla riflessione nella sua nudità, ma bensì colla compagnia, e coll' aiuto di cose sensibili, fra' quali i vocaboli delle lingue sono i soli che conducano i passi della riflessione a lungo cammino, di maniera che la verità riflessa e parlata è quella infine che più manifestamente e consapevolmente cercan gli uomini, non ci sarà, speriamo, per noi bisogno di giustificare quell' intento, a cui dicevamo avere indirizzate, qualunque sieno, le nostre fatiche, cioè a raccogliere colla meditazione della mente e a raccomandare a' segni delle parole, ordinata a scienza, quella dottrina che è, o che credemmo essere, IL SISTEMA DELLA VERITA`. Ma se un tale intendimento, per se stesso considerato, non ha bisogno di giustificazione, pure prevediamo che ci verrà rivolta questa ragionevole domanda: « come quell' intendo sia possibile, come abbiamo noi creduto di poterlo ottenere almeno per approssimazione: » Non sono le cognizioni umane, ci si dirà, senza numero? e perciò senza numero le verità? In quante scienze non è oggimai compartito il sapere? e non racchiude ciascuna di esse tanti veri o già trovati o trovabili da riuscir soverchi a qualsivoglia memoria e a qualsivoglia intelletto? »Alla quale questione noi sentiamo il debito di rispondere, e lo facciamo tanto più volentieri, che, rimanendo sospesa, non solo i nostri amici potrebbero, trovando ottimo in se stesso lo scopo, riputarlo nondimeno impossibile e vano e temerario, ma noi non avremmo chiarito abbastanza il nostro pensiero, il quale non inteso, neppure potrebbe essere equamente giudicato. Il sapere umano, in quanto si dispone ed ordina scientificamente, può essere rappresentato da una piramide a forma di tetraedro: la base sterminatamente grande è formata, quasi d' altrettante pietre, da' veri particolari, i quali sono innumerevoli; sopra di questi corre un' altra serie fatta di un ordine di quei veri universali, che fra gli universali, sono i più prossimi ai particolari, e anche questi moltissimi, ma non quanti i primi: e se così di mano in mano si ascende agli altri strati o scaglioni superiori, ciascheduno di essi si trova contenere un minor numero di veri, ma di una potenzialità od universalità sempre maggiore, fino a che, pervenuti alla sommità, il numero stesso è scomparito nella unità, e la potenza dell' universalità è divenuta massima ed infinita nell' ultimo tetraedro che forma la cima della piramide. Questa immagine mostra ciò che vogliam dire, ma non in tutto; essendo impossibile che una figura materiale abbia le condizioni spirituali delle idee: quello dunque che non può essere rappresentato o significato da questa similitudine si è, che un ordine più elevato di veri contiene virtualmente in seno l' altr' ordine che gli è prossimamente inferiore (perocchè quelli sono veri più universali, questi meno), e coloro che sanno fare l' ufficio del figliuolo di Fenarete, possono estrarlo dalle sue viscere; laddove un' ordinanza di pietre soprapposte non ha virtù generatrice dell' altra ordinanza che le sta sotto, nè questa nel seno di quella si chiude, nè indi può trarsi fuori alla sua propria esistenza. La quale condizione del vero di trovarsi implicato ed involto in una suprema unità, d' onde si spiega e si svolge nel numero, e ciascuna unità di questo numero implica anch' essa e di sè svolge un altro numero di meno estese verità, feconde pure di germi, pure generative di altre feconde verità, (ond' è che cresce e si moltiplica senza fine questa famiglia d' immortali, e classificata poi a specie e a generi, l' intellettuale progenie forma di sè tante scienze, tante arti, tante discipline); questa condizione, dicevo, del vero che si riversa e quasi si rinnova in altri veri, e in questi diviene di continuo più numeroso senza cessare di essere quello di prima unico e semplicissimo, ella è tanto incorporea e divina che non trova, per dirlo di nuovo, negli enti sensibili e materiali, per qualunque parte dell' universo si vada cercando, alcuna adeguata similitudine o sufficiente rappresentazione. Non è qui il luogo di dire o d' investigare come un vero si risolva in più veri, e come quando questi sono venuti alla luce della mente umana, quello, che s' è quasi direi sgravato di tanti portati, non cessi d' esser qual era per nessuna guisa modificato, gravido ancora degli stessi veri, nè più nè meno di quel che era prima. Ma ci conviene bensì osservare che i veri così figliati da altri veri antecedenti, che in sè li portano, ricevono da questi loro generatori la legge e la norma del loro essere, e ne mutuano tutta la luce. Perocchè egli è manifesto, che non può rinvenirsi più di essere e più di luce ne' veri derivati, di quello che se ne ritrovi ne' loro principŒ, da' quali per giuste inferenze furono dedotti, e tutto il di più che si voglia collocare nelle inferenze e non sia contenuto ne' principŒ, è puro errore. Ora da questa ordinatissima costituzione della verità, e da questa sua singolar natura, che una serie di veri più elevati porti in sè tutte le serie de' veri inferiori, e più sono elevati, meno è grande il lor numero, si può raccogliere, che nella piramide scientifica, quanti sono i gradi della medesima, altrettanti sono i modi, ne' quali la stessa verità è concepita ed espressa dall' uomo, di manierachè tutta intera la verità si trova nella detta piramide replicata altrettante volte in diverse forme, quanti sono gli ordini orizzontali de' massi, per dir così, sovrapposti, con questa sola eccezione, che i veri che costituiscono gli ordini inferiori, scompagnati da quelli degli ordini superiori onde derivano, rimangono quasi ombrati, e l' uomo privo della luce de' loro principŒ, non può farne grand' uso, nè cavarne a' suoi bisogni gran pro; laddove congiunti nell' umana mente ai veri più alti che li generano e in questi contemplati, diventano lucidi, maneggevolissimi ed utilissimi. Laonde sebbene i veri che appartengono alle sezioni più basse della piramide siano smisuratamente più di numero, ed anzi innumerevoli; tuttavia l' essere in tanta moltitudine non li rende nè più splendidi nè più preziosi di quelli, sempre men numerosi, che appartengono alle sezioni superiori; anzi l' esser tanti loro pregiudica doppiamente, e perchè non possono esser tutti conosciuti e raccolti dall' umano ingegno, e perchè la verità così divisa in parti, perde di quella dignità e di quello splendore di cui ella rifulge nella sua interezza. Certo che anche i veri degli ordini superiori acquistano un maggior uso e un maggior corso, quando si possedono dall' uomo accompagnati dalla loro prole, cioè da' veri degli ordini inferiori. Ma posciacchè l' apprensiva e la memorativa di ciascun uomo non s' estendono all' infinito, epperciò non possono abbracciare tutti i veri particolari; al conoscimento di molti di questi è da preferirsi di gran lunga il conoscimento di que' pochi che li racchiudono tutti, e da' quali altresì la mente può ricavare e dedurre, ogni qual volta le piaccia, gli altri, in maggiore o minor numero, secondo il tempo e le forze, ch' ella spende nell' opera della loro derivazione e deduzione. Le quali considerazioni già fanno intendere, che cosa volevamo dire nominando il sistema della verità : dimostrano che questo sistema, il più nobile ed alto scopo a cui si possano rivolger gli studŒ, non è impossibile a rinvenirsi, nè vano o temerario deve riputarsi il tentarlo: di più, che il prenderlo di mira è necessario a chi vuol dare un segno fisso alle filosofiche meditazioni, e finalmente che non può biasimarsi nè pure colui, che quantunque nol colga del tutto, pure se l' è proposto, e vi si è in qualche modo avvicinato. Perocchè il sistema della verità altro non è, per dirlo con diverse parole, se non la descrizione di lei, in quella forma nella quale sta contenuta ne' principŒ, non già ne' veri particolari; ossia, per continuarci nella similitudine usata di sopra, qual ella si trova ne' più alti gradi della piramide, di pochi, ma grandi veri composti, che, avendo in sè potenzialmente tutti quelli de' gradi inferiori, riassumono la verità intera. E certo ad alcuni pochi principŒ i veri più minuti si riducono, i quali principŒ, come dicemmo, sono la viva e pura luce di questi, e ad una tal luce, come si possono discernere tutti i veri, così si possono riconoscere altresì e separare tutti gli errori. Ora il determinare i principŒ ossia le prime ragioni di tutto il sapere, e con precisione pronunciare e affidare ai vocaboli quest' altissima parte dell' immensa piramide dello scibile umano, è appunto l' ufficio della FILOSOFIA. A questa dunque noi abbiamo stimato di dover rivolgere l' attenzione della mente, a questa abbiamo indirizzati i nostri varŒ scritti, ciascuno de' quali intorno a qualche porzione di lei si travaglia. Altrove noi abbiamo definita la Filosofia: « la dottrina delle ragioni ultime »(1), secondo la qual definizione non è malagevole determinare con precisione quale porzione della nominata piramide ella costituisca (2). Perocchè in primo luogo è manifesto, che quel tetraedro nel quale la piramide finisce e che rappresenta Iddio, o la scienza di Dio, deve essere il principale argomento, e formare la precipua parte della filosofia, giacchè Iddio è la ragione ultima e piena di tutte le cose che esistono nell' universo o possono cadere nelle menti. A quel divino e finale tetraedro poi si congiunge immediatamente l' ordine primo di quei veri, che riguardano il creato, e nè anche questi possono essere dimenticati dalla Filosofia, quantunque non costituiscano la ragione assolutamente ultima, la quale non è altra che Dio medesimo; ma essi sono gli ultimi veri, le ultime ragioni fra quelle che all' universo appartengono, facendone in qualche modo parte. Perocchè l' universo ha in se stesso le sue ragioni relativamente ultime, e sono le prime cause create o concreate, dalle quali dipendono, secondo natura, tutti gli enti, e tutte le leggi, al cui tenore gli enti si muovono alle loro operazioni, ed operando pervengono alla loro perfezione, o al parziale decadimento, che pur contribuisce poi anch' esso alla perfezione del tutto, la quale non può essere frustrata giammai. Le ragioni ultime dunque al di là del mondo, e le ragioni ultime nello stesso mondo; ecco l' oggetto della filosofica disciplina, che così prende i due ultimi, e più elevati gradini della immensa piramide scientifica, che noi abbiamo descritta. Di che la Filosofia si rimane chiaramente separata dall' altre scienze e sopra esse innalzata, siccome la madre e la guida comune di tutte, formando queste i gradi inferiori della piramide, che da que' due supremi dipendono, e ne ricevono il lume e la vita. Non potea dunque caderci nell' animo di trattare tutte le scienze, ma bensì di occuparci della loro comune sommità, negletta pur troppo, ed anzi in questi tempi superbi di materiali godimenti e pensieri, ravvolta nel fumo e nella caligine. Dalla sovversione anzi dall' annientamento della Filosofia operato nel secolo scorso dagli autori del sensismo, guazzabuglio di negazioni e d' ignoranze, che sotto il nome assunto di filosofia invase tutta l' Europa con più detrimento del vero sapere, che non vi avesse recato giammai alcuna invasione barbarica, derivò quella corruzione profonda della Morale, del Diritto, della Politica, della Pedagogia, della Medicina, della Letteratura, e più o meno di tutte l' altre discipline, della quale noi siamo testimoni e vittime: e questa corruzione, trasfusa nelle azioni e nella vita mentale de' popoli e della stessa società umana, continua a dilacerare, come mortifero veleno, le viscere di quelli e a minacciar questa stessa di morte. Da quell' ora sembra essersi in molti quasi perduto nelle cose morali il senso comune; le passioni e l' ignobile calcolo degli interessi materiali sono divenuti l' unico consigliere, l' unico maestro delle menti: e queste, aperte a tutte le prevenzioni, disposte a dare il loro assenso sull' istante alle sentenze più stravaganti, a toglierlo pure sull' istante alle più dimostrate, secondo l' opportunità casuale; orgogliose di soggiacere alla schiavitù delle opinioni più appassionate, anzi, appunto perciò, schizzinose della soggezione più ragionevole; credule fino all' assurdo (1), incredule all' evidenza, legislatrici del mondo intero, intolleranti di ogni legge, frenetiche de' proprii diritti, immemori de' proprii doveri, entusiaste, in parole, della filantropia, professanti co' fatti la frode e l' egoismo, irreligiose, disonorate nelle lascivie, impudenti, sembrano avere perduto ogni coscienza della virtù e della verità, e l' esistenza stessa dell' una e dell' altra è divenuta per esse un problema od una vana chimera. Se questa condizione di cose fa nascere da se stessa il pensiero e il desiderio di un radicale rimedio, e invita gli studiosi a indagare una migliore filosofia da sostituirsi a quella che si mostrò feconda di tanti mali, altri gravissimi eccitamenti ancora inclinarono i miei studii verso un tale scopo, e a' miei amici e benevoli non sarà discaro, se io li trattenga qui brevemente colla narrazione di qualche fatto personale, che d' altra parte mi sembra necessario a purgarmi presso alcuni altri dalla taccia di soverchia presunzione nelle mie proprie forze. Ecco dunque quello che mi confermò nel proposito di por mano, per quanto lo concedessero le mie facoltà e le opportunità, alla ristorazione della Filosofia. Io mi trovavo l' anno 1.29 in Roma, e Mauro Capellari in allora Cardinale della S. Romana Chiesa, al quale mi legava il vincolo d' un' antica amicizia, m' esortava e consigliava a scrivere e pubblicare in quel centro della Cattolicità il « Nuovo Saggio dell' origine delle idee, » di cui avevo in allora solamente concepito il disegno, e gettatone il seme negli « Opuscoli filosofici, » che ne' due anni precedenti erano usciti alla luce in Milano. Quell' opera, che effettivamente scrissi e pubblicai quell' anno e sul principio del seguente nella capitale del mondo Cattolico, e che fu approvata da' romani censori, tendeva a combattere il sensismo, fonte di tanti altri errori, ed anzi di tutti i nostri mali: e non a combatterlo soltanto nelle sue conseguenze o a dimostrarne erronei i principŒ, ma a combatterlo a quel modo che abbiamo detto, col mettergli a fronte il vero sistema intorno alla natura e all' origine delle cognizioni; chè il falso, quando gli è posto in faccia il vero, rimane come un reo convinto, ed anche confesso davanti al giudice; e da se stesso si dilegua a quel modo che sgombrano le tenebre all' apparire della luce. A cui s' aggiunse un altro autorevolissimo conforto a non farmi più parere temeraria l' impresa, a cui aveva posto mano col « Nuovo Saggio » ed a condurla avanti, rendendomela un dovere. Poichè in sul bel principio dell' anno seguente Pio VIII assunto al trono pontificale dissipava da me tutti i timori, non tanto della difficoltà dell' impresa, quanto dell' incertezza, se quel tempo e quelle forze che avrei dovuto spendervi, non potessero per avventura essere impiegate a maggior vantaggio del prossimo in altre occupazioni. Ricordo ancora le sue amorevoli ed autorevoli parole, le quali presso a poco furono queste: « E` volontà di Dio che voi vi occupiate nello scrivere de' libri: tale è la vostra vocazione. La Chiesa al presente ha gran bisogno di scrittori: dico, di scrittori solidi, di cui abbiamo somma scarsezza. Per influire utilmente sugli uomini, non rimane oggidì altro mezzo che quello di prenderli colla ragione, e per mezzo di questa condurli alla religione. Tenetevi certo, che voi potrete recare un vantaggio assai maggiore al prossimo occupandovi nello scrivere, che non esercitando qualunque altra opera del sacro ministero ». In tal maniera quel sommo Pontefice di santa memoria mi tracciava la via, e m' esortava a calcarla; e non posso dimenticarmi con quante parole e con quanto calore e bontà seguitasse a dimostrarmi la verità del suo consiglio, e specialmente a persuadermi, che gli uomini si dovevano condurre col ragionamento. A Pio, che rimase sì breve tempo al governo della Chiesa, successe Gregorio XVI, cioè quel Capellari, onde m' erano venuti i primi consigli e conforti, e che durante il lungo suo Pontificato non mancò giammai di raffermarmi nello stesso proposito, d' aiutarmi a compirlo con ogni dimostrazione di paterna benevolenza e di costante protezione. Così fu determinata la direzione de' miei studŒ successivi, e la riforma della filosofia divenne l' intento universale de' lavori fin qui da me pubblicati o promessi; a cui consegue di sua natura quella ristaurazione di tutte l' altre scienze, delle quali la filosofia è madre e nutrice, principalmente delle morali, dove ogni decoro ed ogni onore dell' umanità consiste. Il sensismo e il soggettivismo, che non è, propriamente parlando una filosofia, non può avere una Morale: perocchè noi non dobbiamo prendere i nomi con cui giocano i sofisti, per le stesse cose. Niuna Morale deriva dall' umano soggetto, il quale è bensì colui che viene obbligato dal dovere, ma non è, e non può essere colui che obbliga. Coll' avere i sofisti trasformato l' obbligato nell' obbligante, scambiando il passivo coll' attivo, fecero fare un capitombolo alla Morale. Acciocchè dunque questa disciplina si raddirizzi (chè se non è diritta non è più dessa), egli è uopo dimostrare, che v' ha un oggetto, il quale sia degno di riverenza e d' amore: e lo stabilire questa dignità dell' oggetto, che importi un' esigenza di essere riverito ed amato, di maniera che il non farlo sia un disordine, una turpitudine, è quanto un rimettere la Morale nella sua natural posizione, restituendole il suo primo fondamento. Quest' oggetto è l' ESSERE, in tutta l' estensione che prende questa parola; perocchè l' essere ha di sua natura quella forma appunto, per la quale dicesi oggetto: egli è PER SE` OGGETTO, e quindi medesimo non può mai non essere oggetto. Che se l' essere non può non essere, e se non gli può mancare la forma oggettiva, perchè senza questa non sarebbe pienamente; dunque l' essere oggettivo è necessario, e quindi la Morale pure è necessaria. Non si potea dunque rendere alla Morale il suo immobile fondamento, nè proteggerlo validamente contro gli assalti di coloro, che l' aveano voluto rovesciare nell' opinione umana, senza ascendere col pensiero fino alla teoria dell' essere oggettivo: il che ci obbligò di principiare la serie de' nostri lavori dall' Ideologia, donde ogni sapere umano incomincia. Per la stessa ragione e per una strada ancora più corta il sensismo ed il soggettivismo rovesciò la scienza del Diritto sul quale si reggono non meno le relazioni dell' umana convivenza, che quella delle umane società. Poichè il Diritto nella sua parte materiale è una facoltà soggettiva che ha per fine l' utilità di chi la possiede, e l' esercita: all' opposto della Morale, che tutta si racchiude nel riconoscimento volontario e riverenziale dell' oggetto, senza che le conseguenze eudemonologiche formino, od accrescano l' inflessibilità dell' obbligazione, assoluta come la verità. E quella facoltà soggettiva, che è come la materia del diritto, rimane, anche rimossa la morale; ma colla remozione di questa, che è come la forma del diritto medesimo, essa perde incontanente la dignità e l' essere formale di diritto. La quale dignità morale, che quella soggettiva facoltà d' operare non ha in se medesima, le viene dal di fuori, cioè dalla morale appunto, che la consacra proteggendola, coll' imporre a tutti gli altri uomini l' obbligazione di lasciarla intatta e libera a' suoi atti. Laonde ristabilita la morale, fermatane immobilmente la base, è con questo stesso salvato anche il diritto, e la doppia eccellenza delle azioni umane, cioè l' etica e la giuridica. Se col sensismo e col soggettivismo la mente, coerente a se medesima, non può riconoscere l' esistenza nè di doveri nè di diritti; coll' annullamento poi di questi, ella non può più concepire alcun' altra politica che quella che si consuma in frodi e in violenze, e che, come il principe ideale del Macchiavelli, è biforme, cioè mezza volpe e mezzo leone, quella che ha per suo necessario effetto procacciar l' odio a tutti i governi, quell' odio universale, che li rende tutti impossibili, e che pur troppo vediamo diffuso in Europa a guisa di un diluvio, in cui affogano i governanti, con esso tutte le forme governative. Solo quando sia restituita la morale (e con questo dico la religione, che è la vita della morale) e colla morale il diritto (non una larva ingannevole di diritto), allora è possibile una scienza politica, custode della giustizia, tutrice della libertà di tutti, promotrice d' ogni bene, autrice della concordia de' cittadini, fortissima madre della pace. E quantunque questa scienza che presiede al governo delle società civili, non sia che la prudenza applicata a condurre quelle speciali società al loro fine, e però non possa avere per suo proprio scopo ed effetto altro che l' utilità de' governati, tuttavia se si considera più profondamente, e s' investiga la connessione e la lunga serie di tutte le cause e degli effetti onde la civile società perviene a quella prosperità che le è propria, nella fine di una tale investigazione e di un tal calcolo, la mente riesce ad una conclusione nobilissima; la quale è questa: « Il governo civile instrutto della dottrina della giustizia nelle sue tre parti, la commutativa, la distributiva e la penale, e dotato di una perfetta coerenza di ragionamento, può e deve dedurre tutte le regole della prudenza politica dalla sola giustizia »: conclusione, che può sembrare, nel primo aspetto e superficialmente considerata, un paradosso, perchè veramente è una sentenza fuor d' opinione, non potendo esser di molti la coerenza della mente, che ne' principŒ vede le più lontane inferenze, e pur troppo mancando nei più un alto sentimento morale, quella magnanima fede e sapiente nella giustizia stessa, che n' aspetta ogni migliore effetto, ne fa uno studio continuo, ne prevede con secura speranza gli ultimi felicissimi risultati. Ora quello che prima di tutto insegna la giustizia sociale, quello che i presenti governi sono più che mai lontani d' avere imparato o di voler imparare, si è che il civile governo co' suoi atti e colle sue disposizioni, non dee uscire giammai da' naturali confini della sua autorità, i quali non si possono assegnare, se prima non si definisce che istituzione sia quella del civile governo. Laonde sino a tanto che non si riconosca sinceramente il supremo impero della giustizia, nessun governo può avere un confine, oltre il quale il suo potere non voglia trapassare. Perocchè la sola utilità, questa incertissima e vanissima parola, non può prescrivergli limite fisso, dipendendo essa dal calcolo probabile delle circostanze, e però essendo variabilissima in se stessa e commessa all' arbitrio di chi assume di fare quel calcolo. Onde se a questa sola guida sono rimessi i governanti, come non hanno più alcuna ragione d' anteporre l' altrui utilità alla lor propria, a tutte le occasioni, in cui credano poterlo fare impunemente, stenderanno su tutto quello che loro piace le mani, nè i governati sapranno mai prevedere dove essi voglian fermarsi, nè potranno imporre ragionevolmente un termine al potere o pretendere guarentigie, le quali, accordate che pur fossero, non avrebbero un maggior valore di quello che prima s' avesse la loro propria forza: chè per certo, disconosciuta la morale e la giustizia, sono impossibili le convenzioni; cancellandosi dalle menti il « verba ligant homines », rimanendo solo superstite il « taurorum cornua funes ». Ed egli è così forte il piacere dell' imperare e del governare, anche per le utilità proprie che se ne traggono, talmente seduce, quasi all' impensata dell' uomo stesso, che non solo prima di Cristo, quando tutto era signoria e servitù, ma anche dopo, quando il cristianesimo fece nascere le società civili, non si è mai pensato seriamente (il che pare incredibile e pure è vero) a definire il poter civile, e a circoscriverlo con precisione, ma se n' è mantenuto il concetto nel vago e nell' indeterminato, sebbene la giustizia volesse che la prima questione a risolversi da' governanti, colla massima accuratezza, dovesse essere questa: « che cosa è una società civile; a quale intento è istituito il governo della medesima? »La quale rimanendo insoluta, nè il governo può andar sicuro di non oltrepassare i suoi limiti, nè del pari i governati possono esigere alcuna cosa da chi li governa, senza incorrere nel medesimo pericolo. Ma rimanendo oscura ed incerta la natura e l' intento della civile istituzione, chi governa crede di poter fare alto e basso d' ogni cosa a sua volontà, il che è incredibile quanto a lui piaccia, ma insieme quanto noccia a tutto il popolo. Sarebbe dunque ormai tempo di ben intendere che la società civile non è una società universale nel senso, che comprenda nel suo seno tutte le altre e di conseguenza tutti i diritti delle altre; ma ella è una società particolare che vive a lato delle altre, come pure a lato di tutte le individualità, perchè neppur queste possono essere da lei assorbite colla perdita del loro proprio essere individuale; è una società che lungi di poter appropriarsi, od invadere i diritti degli individui e delle altre società, ha l' intento di tutelarli, senza distruggerli, senza minorarli, senza legarli o recar loro altro pregiudizio, ciò che sarebbe appunto il contrario del tutelarli; è una società che tutta si posa e si fonda sul rispetto de' diritti di qualunque maniera, il qual rispetto è la sua prima, la sua essenziale ed universale obbligazione, onde discendono tutti gli altri suoi speciali doveri, non rimanendole appunto altro diritto, che quello di osservare questi doveri: è una società che per tutelare e proteggere i diritti li modifica altresì nella forma, li coordina, acciocchè non s' impediscano reciprocamente, e possano coesistere pacificamente, e pacificamente svolgersi e prosperare: e in una parola è una società istituita al solo fine di REGOLARE LA MODALITA` DI TUTTI I DIRITTI DE' SUOI MEMBRI, lasciandone intatto il valore. Questa questione fondamentale di giustizia si eleva di gran lunga sopra la questione delle forme di governo, e a tutte impone la stessa legge: « di non disporre menomamente del valore di alcun diritto, limitandosi a regolare, come dicevamo, la modalità di essi tutti per guisa che tutti possano coesistere, svolgersi liberamente, prosperare »: nè dichiara una forma migliore dell' altra, se non in quanto, avuto riguardo ai tempi ed alle circostanze, in una forma possono trovarsi maggiori probabilità, che quella legge fondamentale sia dal governo osservata e seguita. Ora questa determinazione precisa dell' unico ufficio universale della società civile, quando sia abbracciata o resa così evidente nell' opinione di tutti, che non possa più da' governi ricusarsi, è il solo rimedio radicale e specifico del dispotismo, il quale in tutte le forme di governo si è sempre rinvenuto, ma più subdolo e più ributtante che in altre, in certe forme viziate dalle passioni sofistiche all' .9 in poi, nelle quali gli arbitri de' parlamenti compaiono al pubblico con in sul volto l' onesta e mansueta maschera della legge, quasi che la legge dell' uomo non possa anch' ella esser dispotica e tirannica, ma sia una purissima idea astratta, che nulla tiene d' umanità, e non sappia punto odore del volere di quelli che l' hanno fatta. L' onnipotenza attribuita pazzamente al popolo si travasa ne' deputati, i quali (parlo sempre di costituzioni viziate alla francese) si persuadono, che ormai non più colla giustizia, ma con essa onnipotenza si faccian le leggi: contro l' iniquità delle quali il mondo freme e si dibatte, e, poichè rimane confitto nelle menti il vizioso principio, colla ribellione non s' ottiene che di fabbricarsi de' legislatori peggiori, che impongono al popolo ribelle che gli ha scelti, leggi peggiori. E come può essere diversamente, se niuno, nè governanti nè governati, conosce il termine a cui deve andare, nè la strada che vi conduce? Niuno sa precisamente perchè il governo esista? perchè la società civile sia istituita? Niuno vuol saperlo o supporre di saperlo, senza prendersi la cura di ricercarlo? E niuno, massimamente di quegli ambiziosi che s' incaricano di guidare il popolo, accetta i limiti naturali di questa società, ma in persona di difensori del popolo, pubblicano a suon di tromba, che la volontà del popolo può ogni cosa giusta od ingiusta? Cioè creano un' onnipotenza per fondarvi su una società civile pure onnipotente, e questo fanno acciocchè ne riescano onnipotenti gli organi e gli strumenti, cioè il governo che sperano recarsi in mano? Tale è il sofisma dell' egoismo politico, che co' più bei nomi si copre, e specialmente con un bellissimo di liberalismo, e questa specie di liberalismo consiste nell' edificare in sul dorso incurvato degli uomini la mole d' un governo onnipotente, che è quanto dire d' impor loro un dispotismo sofistico così sfrenato, che non fu mai tale sopra la terra da Nembrotte in poi, denominandolo per refrigerio, e consolazion del popolo, libertà! Dal qual laccio le nazioni non possono trarre il collo, se prima nol traggono da quello del sofisma che ha prodotto lo stato, nel quale si logorano e straziano senza volerlo e senza sapere il perchè, cioè se esse non tornano a consacrare il diritto sconsacrato dall' utilitarismo, riponendolo sotto la protezione della morale e della religione che ne è l' effettività, e riconoscendo, che nè il popolo, nè gl' individui che il compongono, nè i parlamenti, nè i monarchi, nè i ministri, nè alcuna autorità sopra la terra può toccarlo; e quindi che i governi non hanno e non possono avere altra incombenza, nè altra autorità, se non quella, che i diritti di tutti (i quali non sono già da' governi creati, come pazzamente fu asserito), i diritti degl' individui, e di tutte le società oneste, sieno conservati nella loro integrità di valore, e, salvo questo valore, regolati nella loro modalità per sì fatta guisa, che senza impedirsi reciprocamente, senza sacrificarsi gli uni agli altri, coesistano, s' esercitino, liberissimamente si svolgano. E` questo il solo principio che può somministrare una politica salutare, che guarisca la malsanìa delle nazioni, e con esse salvi la stessa società umana. Dacchè dunque il senso corporeo, che non apprende la verità, fu proclamato il solo maestro sicuro, la sola guida fedele degli uomini, e questi prestarono fede a quella sentenza che portava la contraddizione in se stessa, la Morale, il Diritto e ogni altra cosa di natura eterna, perì insieme colla Verità nell' opinione degli allucinati, e la politica divenne un' arte aleatoria, nella quale gli uomini giocarono e giocano se stessi, e le loro cose più care co' due dadi dell' astuzia, e della forza brutale. E su questa dottrina furono educate le novelle generazioni alla sensuale sapienza. La voluttà de' sensi divenne, come divenir doveva, il fine della scienza e dell' arte pedagogica, ed acciocchè quella, consumando le sostanze, non consumasse troppo celeramente se stessa, le fu dato a contrapeso la scienza dell' economia politica (anche questa scienza per sè bellissima ed utilissima così corrompendosi), alla quale noi italiani imparammo da Melchiorre Gioja ridursi la morale! Nè vogliamo qui perscrutare quale istinto inducesse i sensisti a conservare con tanta sollecitudine questo nome di Morale, quando parea dover loro bastar quello d' Economia politica, giacchè, non dovendo rimaner più che questa sola scienza, pare che per una scienza sola non ci sia bisogno di due nomi. Certo che la verità si resta colà ritta ed immobile davanti ai deliri degli uomini, e questi, sebbene, chiudendo gli occhi, dicano che quella non è più perchè non la vedono, tuttavia non potendo tenerli sempre chiusi perfettamente, che è uno sforzo contro natura, di quando in quando s' irritano in percependone alcuni raggi, e allora scappano loro quelle incoerenze ed indirette confessioni del vero, che ognuno può avvertire nelle loro parole, se ci bada: ma se quei raggi battono in essi più vivi che non vorrebbero, cagionano loro infiammazione degli occhi, e allora vanno in furore per la doglia: indi l' origine di quella lotta tremenda, incessante, vendicativa che non pochi movono alla verità ed a suoi confessori, nella quale si riassumono tutte l' altre lotte, chè, senza quella prima ed essenziale, l' altre o non sarebbero o cesserebbero facilmente. Al piacere dunque, all' economia politica che lo alimenti, ed all' astio della verità morale e religiosa, nel sistema di cotali educatori, devono sacrarsi le novelle piante umane destinate a formare « la selva selvaggia ed aspra e forte »che ricopre tutta quanta la terra incivilita. Ma se a questo termine dee condurre necessariamente quel sistema ideologico, che nega ogni eterno e immutabile elemento e che abbandona il genere umano e le sue giovanili propaggini al flusso dei sensi; per lo contrario si raccoglie, che la scienza e l' arte dell' umana educazione, qualora non deva essere un' industria dotta e sistematica di corrompere ed imbastardire i teneri rinascenti germogli dell' umana famiglia, converrà che abbia per fondamento anch' essa quell' elemento eterno, che costituisce la nobiltà dell' uomo, e, sollevandolo al di sopra del minerale, del vegetale e dell' essere sensitivo, il fare della terra e scopo della creazione; quell' elemento, a cui il senso corporeo è straniero e soggetto, e che l' Ideologia addita nell' idea, che splende con inestinguibile lume alla mente come prima manifestazione dell' essere necessario; la Morale mostra nella legge, che con autorità assoluta lega la volontà, qual seconda manifestazione dell' essere medesimo; e la Religione fa trovare in Dio stesso, manifestazione ultima e compita, fonte misterioso e della luce ideale ad un tempo e d' ogni legislazione, soddisfacente ogni voto dell' umanità, che nell' essere infinito s' immortala, s' assolve, si bea, si deifica. Al quale sublimissimo fine, a cui l' uomo, col suo intelletto, colla sua volontà, colla sua stessa essenza tende sempre di stendersi al di là del creato, deve dunque indirizzarsi con perseverantissima industria e con perfetta coerenza anche la scienza e l' arte dell' umana educazione, ad un semplice ed evidente principio tutte le altre parti subordinando, le quali, subordinate così, partecipano di quella infinita dignità e contribuiscono alla verace perfezione e alla felicità degli educati. All' opposto, abolita la dignità intellettiva per opera del sensismo, non ci ha più cagione di non abolire la stessa natura sensitiva e discendere al materialismo, come nel fatto è avvenuto. Perocchè chi non ha tanta virtù di mente da vedere l' assurdo, che le idee sieno fenomeni sensitivi, non può neppure ravvisare l' altro assurdo, che le sensazioni sieno fenomeni materiali. Quella mente che non sa conoscere il primo errore è fors' anco meno atta ad accorgersi del secondo; chè dall' idea alla sensazione v' ha un tratto maggiore, che non dalla sensazione alla materia: col primo salto si precipita dall' infinito al finito, col secondo si va dal finito ad un altro finito, benchè di opposta natura. In tutti i rami del sapere, non solo in quelli che riguardano lo spirito razionale e morale, ma ancor più immediatamente in quelli che riguardano il corpo vivente, il materialismo esercitò la sua dannosa influenza intrudendovi il sofisma nel metodo, l' errore nel risultato. La Medicina divenuta materiale (e si parla sempre della scienza, non degli individui, i quali per una felice incoerenza possono credere alla spiritualità dell' anima, coltivando pur la scienza medica quale la trovano, chè non è dato a tutti il cangiarla) ruppe con orgoglio anch' essa il filo della sua tradizione, rinunciò all' eredità de' maggiori: il padre della medicina non fu più un genio, non si vide più nel vecchio di Coo, che un uomo volgare e pregiudicato. E di vero l' antica medicina avea la colpa di riconoscere nella vita e nelle sue funzioni, o in istato di sanità o in quello di malattia, un principio spirituale: Ippocrate riconosceva l' unità perfetta della vita e del vivente, e ne' morbi stessi avea conchiuso nascondersi un principio così straniero alla materia, che egli non seppe in altro modo denominare, che dicendol divino. Non si potea dunque professare il materialismo senza condannare ad un tempo la dottrina di tutti i secoli, e a' sofisti di quest' arte sembrò una magnifica gloria di collocarsi da se stessi al di sopra de' secoli, calcandoli sotto i piedi: gl' Ippocrati infatti (se pur si contentano di questo nome) a' dì nostri formicolano per ogni villa. Così la materia fu termine fisso alle mediche investigazioni portate a cotanta altezza, il pensiero e la sensazione divennero funzioni della fibra altrettanto quanto il meccanico o chimico movimento, e sul cadavere si studiò la vita, e si cercò col microscopio la spiegazione de' fenomeni vitali. Ma quando si muove dalla supposizione che il principio della vita non sia che materia, allora non presentando questa, per qualunque studio l' uomo vi faccia, se non fenomeni passivi, è smarrito quel principio attivo, onde tutte le funzioni, sieno fisiologiche o patologiche, dipendono come da loro causa, e quindi è anche smarrito necessariamente il vero principio dell' arte salutare, nè questo si ritroverà più, se non quando, tornandosi un po' indietro, si riconoscerà di nuovo, che il principio sensitivo, lungi dall' esser materia, è anzi quello che agisce sulla materia e l' avviva e la domina come il principio razionale agisce sul sensitivo, lo modifica e in gran parte lo signoreggia. Di che consegue, che se la medicina vuol influire con utilità sul vivente, è uopo che ella si rimetta in comunicazione con questi due principŒ (il sensitivo e il razionale), dall' azion de' quali il vivente e il suo stato morboso o normale deriva; e in quest' azione benefica confidi assai più che in se stessa, e ad aiutare e riordinare quest' azione tutta la sua industria rivolga. Nell' ordine del senso animale, a cui la sofistica riduce tutte le facoltà dell' uomo, restano le passioni, perchè le passioni sono sentimenti, ma non più rimane la norma intellettiva e morale che le ordina, or temperandole, ora eccitandole, sempre governandole agli alti fini dell' umana destinazione, a cui debbon servire. E quando le passioni ebbero ricevuto dal sensismo, col bando della loro guida e signora, l' intelligenza, il desiderato dono della libertà (e questa è veramente quella libertà, che trae a sè seguaci più numerosi e più clamorosi), allora, tolte al guinzaglio della ragione, esse si svolgono con tutto quell' impeto, in tutti que' capricci, in tutti quegli eccessi, di cui per loro natura sono suscettive. E così esse rimasero sola materia alla letteratura del secolo sensista, da Lord Byron a Vittore Ugo. Lo spettacolo di tutte le passioni uscite agli ultimi loro atti cozzanti fra loro a morte, intrecciantisi in una mischia variata da strani accidenti e quasi in un ballo complicatissimo e capricciosissimo, parve sublime, parve l' ultima rappresentazione estetica degna della letteratura del secolo, e certo ell' era l' unica, perchè il sensismo non ne lasciava altre. Vero è che ritorna a mescolarsi in quella danza la ragione tapinella quasi di furto, sia perchè quand' anco si cacci colla forca la natura, la si presenta poi di nuovo all' impensata, sia perchè senza ragione nè letteratura, nè altra scienza o arte può stare, di che il sensismo condannato a divenire incoerente per esistere, va a finire col suicidio. Ma la meschina è da que' letterati riammessa nella loro letteratura a patto di serbare l' incognito; poniamo, come un personaggio esiliato per legge d' ostracismo, richiamato poi segretamente dalla polizia per averne informazione o altro confidenziale servigio, il quale è in città, donde presto riparte, senza che alcuno sel sappia. Per certo la ragione è necessaria alle passioni stesse, delle quali alcune senz' essa non vivono, altre non possono concitarsi e irritarsi quanto si brama per averne l' effetto della meraviglia, e per cotesti buoni servizi ella s' accoglie nella letteratura, però travestita da figliola o da servetta della sensualità; chè nel suo proprio abito di regina e di regolatrice del senso stesso e delle passioni, non se ne sostiene la vista. E poichè negli storici avvenimenti non si scorge un sublime disegno, se non quando si contemplano in quella ragione e sapienza eterna che gli ordina e li dirige ad un fine, perciò a coloro i quali, eliminata dal calcolo l' intelligenza, non vogliono tener conto che del solo senso, non può parere la storia che cosa gretta, fredda e nuda d' ogni bellezza. Ed è questa la vera ragione del perchè i sensisti furono obbligati ad alterarla e a rifarla a loro gusto (e tutte le storie del secolo scorso sono veramente rifatte non sulle memorie de' tempi, ma sul disegno delle prevenzioni appassionate degli scrittori); e finalmente per avere un maggior campo all' arbitrio, fu inventato il genere ibrido del Romanzo storico, in cui le passioni possono a tutta lena sbizzarrire e disordinarsi, come non si trova mai nella storia; romanzo vestito, qual cornacchia, d' alcune penne della storia medesima, che così si disvuole e si vuole ad un tempo. La qual maniera di contraddizione non fa noia a coloro che altro non ricercano nelle scritture se non sensazioni ed emozioni, quali si sieno, al che il sistema de' sensisti ammaestra gli uomini, anzi d' ogni altro bello o d' ogni altro sublime rende loro impossibile il desiderio: a quelli, a cui è qualche cosa l' intelligenza e l' amore, e d' un delicato sentimento delle cose morali sono dotati, pare che così facendo venga profanata la storica verità, che col filo degli eventi, quasi con caratteri incancellabili, scrive i disegni di Dio, e, per la riverenza a questi ed alla stessa natura umana che li compie, brama che il vero di fatto rimangasi intemerato, siccome un' arca che racchiude de' segreti di bontà e di sapienza, i quali non sono pel sensista che materialmente lo considera. Quindi lo stesso autore del più perfetto e del più maraviglioso de' romanzi storici (e coll' idea dell' alta sua mente, non coll' ignobile senso ne aveva ordite le fila), mal pago di se medesimo, fra l' inaudita celebrità ei solo riprendendo se stesso d' aver saputo trovare un verosimile che dal vero della storia intrecciatavi non si discerne, spuntò la penna onde avea scritto l' opera immortale, e la rattemprò di poi per accusare l' intrinseco vizio di quel genere di componimento. Il sensismo dunque rapendo la parte ideale e divina alla letteratura, e a tutte le arti del bello, o le distrugge col legar l' uomo al positivo della sensazione, o certo le ignobilita lasciando loro il solo ufficio d' imitare, o rappresentare in un aspetto seducente gli eccessi delle passioni, nè altrove si può raccendere la facella del genio, se non al fuoco sacro della verità, della morale e della religione, che il senso ignora, e l' intelligenza consapevole ne' suoi penetrali conserva (1). I tre intenti o almeno i tre desideri, che abbiamo sin qui dichiarati, spiegano in gran parte la ragione de' diversi lavori, che si danno in questa raccolta. Ma un altro bisogno dell' età nostra sollecitava l' animo dell' autore, e il desiderio di soddisfarvi, quant' era da lui, guidavalo nelle sue fatiche. Ei ben vedeva il Vangelo risplendere al di sopra di tutti gli umani sistemi, siccome il sole, a cui le nubi della terrena atmosfera non giungono; e sapeva di più che « «il cielo e la terra trapasseranno e quelle parole non trapasseranno »(1) » Nè ignorava che la divina sapienza non ha bisogno d' alcun filosofico sistema per salvare gli uomini, e che ella è perfetta d' ogni parte in se medesima. Tuttavia sapeva ancora che fra la rivelazione ed una verace filosofia non può sorgere alcun dissidio, non potendo la verità esser contraria alla verità, come quella che, una e semplicissima nella sua origine, è consentanea mai sempre a se medesima: considerava oltracciò che la filosofia, dove non si diparta dalla verità, giova alla mente dandole una naturale disposizione e una cotale preparazione rimota alla fede, di cui fa sentire all' uomo la necessità: che gli errori, le prevenzioni, i dubbi che nascono dall' imperfezione della ragione, e che frappongono altrettanti ostacoli al pieno assenso da prestarsi alle verità rivelate, possono e devono risolversi e dissiparsi colla ragione medesima; che la stessa Chiesa cattolica invita ed eccita i filosofi (specialmente nell' ultimo Concilio di Laterano) a prestar quest' ufficio co' loro studŒ; che la rivelata dottrina non può esporsi compiutamente a modo di scienza senza supporre le verità dimostrate dal filosofico ragionamento, giacchè la religione non distrugge ma perfeziona la natura, la divina rivelazione non abolisce ma completa e sublima la ragione, e però la natura e la ragione sono i due postulati, o sieno le due condizioni e prenozioni del vangelo e le prime basi, su cui s' innalza l' edificio della sacra Teologia (1). Ne' primi secoli della Chiesa i Padri s' erano appigliati, per averne questi aiuti, alla filosofia di Platone da essi emendata; nell' età di mezzo fu preferita la filosofia d' Aristotile, pure emendata da' dottori e maestri della scuola. Nell' uno e nell' altro di questi due periodi di tempo la dottrina filosofica, a cui s' attenevano i Teologi, era universalmente ammessa e consentita; la diversità delle opinioni non ne scoteva l' edificio, perchè rimanevano fra pochi, nè si propagavano a tutto il corpo della scienza, di cui almeno restava sempre comune e incontroversa la forma dialettica, il metodo ed il linguaggio. E questo agevolava oltre misura lo studio della Teologia che s' innalzava a guisa d' un tempio, compito d' ogni sua parte, solidissimo e venerando agli occhi di tutti: ne' primi secoli quella scienza delle cose divine pareva disegnata a foggia d' un tempio greco o romano, ne' posteriori, d' un tempio gotico, ma sempre perfetto e magnifico. Nell' ultima età l' erudizione, la critica, la classica letteratura perfezionarono l' esposizione della scienza Teologica, rendendola più schietta, ed aggiungendo nuove prove positive, ben accertate, ai dogmi; ma caduto e dimentico il sistema filosofico della scuola, che le sopponeva un fondamento naturale, ella perdette la regolarità delle sue forme e la sua maravigliosa unità scientifica, per la quale, congiunta intimamente colla ragione naturale e con tutte le più nobili speculazioni, appariva manifestamente siccome un compimento soprannaturale dell' umana natura e dell' umano sapere, quasi l' ultima mano che il creatore stesso avesse posto all' opera sua. L' uomo allora sentiva altamente che la Teologia non era divisa da lui, e che, sebbene ella travalicasse, per l' origine e la sostanza, i limiti della natura, pure ella parea una continuazione di se stesso, il qual passava dal ragionevole al rivelato, quasi ascendendo da un palco inferiore ad un altro superiore dello stesso palagio della mente, con un solo disegno da Dio fabbricatogli. La Teologia cristiana in quella età era senza contrasto la conduttrice e la custode di tutte l' altre scienze, la signora delle opinioni. Chi avrebbe allora pensato, che sarebbe venuto un altro tempo, in cui alcuni pensassero, doversi la Teologia dividere interamente dalla Filosofia? E pure nacque questo pensiero: nacque, tostochè mancò una filosofia comunemente ricevuta, e si disperò di trovarne un' altra solida e coerente in tutto alla religione. Ma la sfiducia non è mai consiglio, non è ragione. Se il Teologo rinuncia alla filosofia, o egli dovrà intralasciare le più profonde questioni e lasciar imperfetta la scienza (1), o se tuttavia vorrà mettersi dentro ad esse, non gli riuscirà di risolverele, se non forse in una maniera assai imperfetta o falsa, onde n' avrà biasimo da' veri filosofi, dileggio dagli altri, con discredito della sacra disciplina. [...OMISSIS...] La filosofia poi di natura sua amica e fedele ancella della Teologia, se viene da questa ripudiata e dalla sua compagnia cacciata, non cessa perciò di vivere, massimamente ne' tempi nostri, che secondo la sentenza di Pio VIII vogliono gli uomini esser guidati al bene ed alla fede stessa dalla ragione; ma avverrà pur troppo di lei siccome di fanciulla derelitta da' suoi genitori e tutori, che per pane vende a chi ella incontra l' onestà ed il decoro. E qual maraviglia che la Filosofia, come noi pur vediamo dovunque avvenire, degeneri in quel superbo razionalismo, che ambisce oggimai d' esser solo, cacciatane in bando ogni rivelata Teologia? E` dunque desiderabile, che si volga il pensiero a ricomporre e ristabilire un sistema di Filosofia, il quale vero e sano e sufficientemente compiuto, possa essere dalla scienza teologica ricevuto per suo ausiliare, e questi due rami del sapere si ricongiungano in quella unità alla quale son nati, e nella quale reciprocamente si giovano, fiorendo entrambi a vantaggio dell' uman genere (2). Un antico detto consiglia l' uomo a prefiggere alle sue operazioni il più alto scopo concepibile dalla sua mente, acciocchè mirando in un ideale di perfezione e di bellezza possa prenderne sicurissime ed eccellentissime regole d' operare e attignervi quell' amore, quell' inspirazione, quell' aumento di forze, colle quali, eziandiochè non raggiunga la nobilissima meta, pure vi si avvicina abbastanza da far conoscere col suo lavoro, che cosa egli abbia voluto, e da potersi applicare senza vanto e senza vergogna quell' in magnis et voluisse sat est . E dall' esposizione de' fini che mi sono proposto nell' esercizio delle lettere, i miei amici si saranno avveduti, che quel documento mi fu presente all' animo, e o loderanno o scuseranno il mio ardire. Ora io devo loro indicare altresì la via, per la quale mettendomi, mi è sembrato poter più facilmente accostarmi all' intento. Non mi propongo di descrivere i mezzi e i sussidii, onde trassi vantaggio, il che condurrebbe il discorso a lungo senza necessità, nè tampoco di discutere o di giustificare in tutte le sue parti il metodo da me preferito, ma di due sole cose far cenno, cioè della libertà colla quale ho osato filosofare, e della conciliazione che ho procurato di fare, per tutto dove mi fu possibile, delle altrui sentenze. Il vero ed il falso è una qualità de' giudizŒ e degli assensi dell' uomo. Se l' uomo assente a ciò che è, il suo assenso è verace; se assente a ciò che non è, il suo assenso è mendace. Si suol parlare d' idee e di cognizioni vere e false: questa è una di quelle tante improprietà o imperfezioni di dire, che producono questioni inutili (questioni che rimangono escluse solo che si riformi il linguaggio), ovvero che implicano e rendono difficili a risolversi quelle, che sarebbero di loro natura pianissime. E per fermo, se si riserbasse il nome di cognizione a significare quelle che l' uomo acquista o s' appropria per un assenso verace, e le altre si chiamassero noncognizioni, quanti equivoci scomparirebbero incontanente dall' umano discorso? Primieramente si giudicherebbe un uomo saperne tanto, quanto egli possiede di pura verità; e non si metterebbero più in conto di dottrina gli errori, che frequentemente ingombrano le menti di quelli, che passan per dotti, a quella maniera, come chi vuol rilevare l' asse d' una famiglia non somma insieme i crediti e i debiti, siccome fossero quantità d' una stessa natura, ma sottrae questi da quelli, e così ne ricava il netto della sostanza. Ma poichè colui che aderisce a molti errori, crede di saper molto; perciò volgarmente si appella sapere anche quello, che non è altro se non una falsa persuasione che l' errante ha di sapere. Ora con questa sola avvertenza quanti ci avrebbero, che perduto il nome di dotti e di scienziati che malamente portano, benchè abbiano faticato molto sui libri, rimarrebbero in opinione d' ignoranti! E quanto si scemerebbe allora il numero di quelle ingannevoli autorità, che impongono agli uomini, e invece di lasciarli accostare al vero, li trattengono spesso vacillanti fra il vero ed il falso? E per la stessa ragione convien dire che tutti quelli che dubitano, non sanno ancora; chè i dubbŒ non sono cognizioni. Laonde se noi poniamo da una parte gli uomini, che dubitano di molte verità, e dall' altra quelli che a queste verità concedono un pieno assenso: questi secondi hanno indubitatamente maggior copia di cognizioni di que' primi, e così si deve conchiudere, senza tener conto del maggiore studio che possono avere posto i primi per riuscire al dubbio, di quello che abbiano posto i secondi, riusciti alla verità. Perocchè lo studio è il mezzo e non il fine, e anch' egli è vano, se non ci produce altro, che il dubbio del vero; ma soltanto quello studio ha un gran valore, che o ci arricchisce del vero, o ci spoglia del falso, o anche ci fa dubitar di questo, se già ne siamo imbevuti; benchè col farcene dubitare tanto solo ci arricchisca, quanto s' arricchisce colui, che non avendo altro che debiti, acquista quello che gli basta a pagarne una parte. L' assenso dunque che diamo al vero è ciò che ci mette in possesso del vero, fuori del quale non si trova la scienza, ma soltanto l' ignoranza o il dubbio che è un' ignoranza maggiore, o finalmente l' errore che è l' ignoranza massima. L' assenso suppone la notizia di ciò a cui si assente, e che coll' assenso si accetta per vero; e però se la cosa è vera, in ogni assenso, qualunque sia il modo nel quale si dà, c' è sempre cognizione, c' è sapere, e acquisto di verità. Ma l' assenso poi si può dare per più cagioni, le quali si riducono a queste due: o per la sola efficacia che la volontà esercita sulla facoltà dell' assenso, o per una necessità razionale veduta dall' intendimento, che muove al suo atto la facoltà dell' assenso. Nel primo caso l' assenso è arbitrario, cioè voluto non già senza un fine, ma senza una ragione; nel secondo caso l' assenso s' appoggia ad un motivo di ragione, e viene da una facoltà illuminata e qualche volta anche necessitata dall' evidenza, che in certe circostanze dell' animo, determina lo spontaneo moto dell' assenso medesimo. Ora quantunque l' assenso arbitrario non muova da ragioni che dimostrino la verità della cosa, e però sia un atto che non può dirsi strettamente ragionevole, tuttavia anche questa maniera d' assenso può essere dato ad una cosa che è e quindi esser verace, o ad una cosa che non è e quindi esser mendace. E se egli è verace, anche con quest' assenso l' uomo partecipa della verità e vi aderisce, ma nello stesso tempo che sa che quella cosa è vera perchè vi presta fede, egli non conosce il perchè sia vera, e questa è la parte di verità che egli ignora e che gli rimane a cercare. ora questo assenso cieco, che dimostra che l' uomo ha la potestà di assentire e di non assentire, è un fatto degnissimo della meditazione del filosofo, come quello che spiega innumerevoli altri fatti i quali frequentemente avvengono ed esercitano un' amplissima influenza sulla vita umana, voglio dire tutti i giudizŒ temerari, i pregiudizŒ, le prevenzioni, le credenze, le presunzioni, le persuasioni, che talora si manifestano fortissime negli animi, senza sapere onde vengano, senza poter trovare alcuna buona ragione in cui siano fondate, senza che questa ci sia, o almeno senza che ci sia piena e dimostrativa. Il maggior numero degli atti della vita, e stavo per dire pressochè tutti gli atti più necessarŒ, senza i quali l' uomo non potrebbe vivere, vengono diretti da prevenzioni e da credenze, le quali talora sono del tutto in aria, supplendo al loro fondamento di ragione la forza che ha la volontà di determinare l' assenso, la volontà, dico, con tutto ciò che influisce su di lei, colle inclinazioni, cogl' istinti, colle passioni, co' bisogni: talor poi si fondano in ragioni meramente conghietturali, più o meno probabili, in apparenze, in indizŒ o reali o trovati dall' immaginazione ed assunti di nuovo arbitrariamente come segni e generali indicazioni del vero. Se l' uomo, prima d' operare, volesse sempre avere davanti alla mente la dimostrazione delle verità che suppone in operando e che lo determinano a quello o a quell' altro modo d' operazione, egli non s' indurrebbe mai ad agire, e parrebbe divenuto una statua, e cessato d' essere un uomo. La facoltà dunque della persuasione immediata, la qual dipende dalla volontà, gli è oltremodo necessaria e preziosa, e l' aiuta all' azione più dello stesso ragionamento dimostrativo. Ma questa facoltà, se talora coglie nel vero, sovente batte nel falso: si può anzi dire che da essa provenga, universalmente parlando, la funesta potenza che ha l' uom d' errare, da essa altresì il vero ostacolo al libero filosofare. Vediamo qual sia l' ufficio della Filosofia relativamente alle tante prevenzioni, che prendono posto così facilmente nella mente degli uomini. La Filosofia chiama ad esame tutte queste prevenzioni, tutti gli assensi più o meno gratuiti, e distingue quelli che sono prestati al vero da quelli che sono prestati al falso. Riguardo ai primi, la Filosofia aggiunge quello che loro manca, cioè, fa conoscere la ragione che giustifica l' assenso, ricevuta la quale l' uomo non solo possiede la verità, di cui s' era già persuaso non ancora sapendo il perchè, ma ben anco possiede quell' altra verità che gliene rende il perchè, e così la sua cognizione coll' abbracciare queste due verità si completa, e la sua persuasione diventa razionale. Che se l' assenso era stato dato sopra ragioni di probabilità, la Filosofia o tenta di condurre la probabilità a dimostrazione, o, non giungendovi, s' adopera a dimostrare, che in quel caso non si può trovare il certo, e a misurare i gradi della probabilità che gli convengono. Relativamente poi agli assensi che l' uomo ha dato agli errori o senza ragione o per ragioni false, cioè per altri errori precedenti da cui i primi si derivino or come logiche illazioni, or come illazioni credute logiche anch' esse per errore, è propria incumbenza della Filosofia il dimostrare l' erroneità di ciò a cui fu dato l' assenso, ed anche l' erroneità di ciò che fu preso per ragione dell' assenso, e finalmente, se in dedurre il primo errore da questo secondo, non s' inferì bene, anche l' erroneità di questa inferenza: laonde la Filosofia in quest' ultimo caso ha da dimostrare per ogni falso assenso almeno tre errori. Ma gli errori, le prevenzioni erronee, sono di sovente ostinate; anzi convien dire che ogni persuasione, erronea o no, tiene nella sua propria natura una forza di resistenza ad essere annullata, ed è quella stessa forza di conservazione che ha ogni ente, ogni atto di qualunque ente. Laonde quando il filosofo col ragionamento prende a distruggere tali persuasioni (ed è obbligato a farlo per andare avanti), egli non può a meno di entrare in una lotta più o meno forte, più o meno pertinace, cogli uomini, che non vogliono al primo intìmo abbandonare, quasi parendo loro ignavia, il proprio errore. La Filosofia non trova un simile ostacolo se le prevenzioni che ella incontra negli animi, quantunque gratuite, pure sieno vere, perchè allora ella non è obbligata di combatterle anzi con esse si associa, e in vece di rovesciarle, si mette dalla lor parte per fortificarle, illuminarle, difenderle, completarle, con costruirvi il fondamento che loro manca e che è la loro propria ragione. Dal che si deduce che non sono le prevenzioni e i pregiudizŒ per se stessi e nella loro universalità, quelli che ingombrino il passo alla Filosofia (come falsamente si dice), ma sono le sole prevenzioni, e pregiudizŒ erronei, e in una parola sempre e poi sempre l' errore invalso nelle menti. E ne consegue, che colui che avrà ammesse in sè prevenzioni e pregiudizŒ di tal natura, cioè erronei, sarà un uomo del tutto inetto al libero filosofare, e per rendersene atto, egli dovrà prima deporre quelle persuasioni, o certo, entrare in tale disposizione d' animo, che gravemente dubiti di esse, e si renda indifferente a deporle o no, secondochè la Filosofia, lasciata discorrere così libera come se quelle non esistessero, pronunci la definitiva sentenza. Ecco dunque la vera causa del lento e contrastato progresso della Filosofia: le prevenzioni e persuasioni erronee, ecco altresì la causa logica della perdita della sua vera libertà, e quella de' suoi traviamenti. E che le prevenzioni e persuasioni erronee, diffuse specialmente nella moltitudine, sieno causa del lento progresso della Filosofia, si scorge a non dubitarsene ove si consideri, 1 che il sistema filosofico della verità non può arrecare in un popolo que' frutti saluberrimi che in sè contiene siccome in germe, se non a condizione, che riesca a prevalere universalmente nell' opinione. Ma più sono le prevenzioni erronee infisse negli animi, più ancora sono i nemici che egli dee combattere e vincere prima di stabilirvisi, e dove dominano molti errori, gli animi discordi sono più irritabili e superbi, nulla rendendo l' uomo tanto altero, tanto indocile, quanto la tirannia dell' errore, chiamato sapere dallo schiavo che la subisce. 2 Che non solo la Filosofia, supposto che sia già trovata e ordinata, ma colui stesso che meditando la cerca, incontra nelle prevenzioni erronee invalse nella società, in cui vive, un' immensa difficoltà a raggiungere il vero che si propone, sia perchè coll' educazione e colla consuetudine de' suoi contemporanei egli stesso n' ha in sè poco o assai ricevute, sia perchè le opinioni abbracciate dal comune si presentano con una grande autorità, crederebbesi coll' autorità del genere umano, e l' uomo si perita e tituba a prendersela con questo cotal senso comune, e diffida di se stesso, nè si risolve a confessare con franchezza una verità che gli si rivela, dissentendo tutti, avendo tutti per giudici che lo condannano, e per lo più non con una seria e motivata sentenza ma colla derisione. E qui è veramente dove spicca la necessità di quel coraggio ed ardire filosofico, col quale tanto facilmente si confonde la presunzione e la temerità, perchè queste diversissime disposizioni si rassomigliano al primo aspetto, e spesso le ultime fanno come quegli impostori, che alla morte di qualche Imperatore le cui fattezze imitano, si spacciano per lui stesso ancor vivente, e non, come si credeva, già morto. Questo è il buon coraggio che libera la Filosofia da inutili restrizioni ed ingiusti vincoli, ed egli nasce nella mente di chi prende a filosofare mosso dall' amore della verità . Quando quest' amore è puro e vivace: quando colui che si dedica alla filosofica investigazione, sente che c' è un tal bene nella verità (nella verità dico d' un ordine sublime e morale), che a niun altro è comparabile, e la stima di tal valore che per acquistarla è disposto a far getto di tutte l' altre cose, e pur gli pare d' averla in dono gratuito: quando le cose, che non sono verità o ad essa s' oppongono quella reputa vane, anzi, meno della vanità e del nulla, una quantità negativa, perchè ingombrando la luce di quella ne impediscono il pieno e tranquillo possesso, la desiderata fruizione; quand' egli soggiace a quella potentissima debolezza, per la quale non può resistere per così dire alle immortali attrattive di lei e a lei cede senza difesa e senza pentimento; allora quest' uomo captivo di sì giusta imperatrice della mente, trovasi innalzato al di sopra di sè, delle sue proprie prevenzioni e delle altrui, pronto a sacrificar quelle senza dolore, e a combatter queste senza timore, se dopo un imparzialissimo sindacato le une e le altre appariscano erronee; e non può più mancare a costui quel coraggio e quel filosofico ardimento, che la prudenza e la modestia, quasi dandogli mano, accompagnano. E questo è quello che rivendica la Filosofia alla sua natural libertà, onde senza lasciarsi arrestar dagli intoppi, alla scoperta del vero con celerità s' incammina. Io ho sempre riputato in questa generosa disposizione contenersi il primo e il più importante dovere di chi prende a filosofare, la condizione indispensabile del filosofo. E in questa persuasione procurai spingere qualunque investigazione fino agli estremi quesiti, e raccoglierne con esultanza, qualunque fossero, i risultati; procurai di verificare se quei risultati erano veramente gli ultimi e perchè non ce ne potessero essere di ulteriori, di cavarne finalmente le conseguenze; e tutto questo pel primo lavoro. Le conclusioni in tal modo avute non meritano ancora un pieno assenso; devono considerarsi come possibili, o non molto più, fino che non s' è data la riprova all' operazione della mente che le ha somministrate, e questa riprova è il secondo lavoro. Il quale consiste nell' esaminare con attenzione, se i risultati ottenuti, o in se stessi, o nelle loro conseguenze, vengano a cadere in contraddizione con qualche verità, che già si conosce siccome certa, o con qualche opinione probabile, o con qualche prevenzione anche gratuita. Perocchè essendo la verità a pieno coerente seco medesima, se si può accertare che una conclusione qualsiasi, o qualche sua legittima conseguenza, si mostri ripugnante ad una qualunque sia verità, ella è indubitatamente da rigettarsi come fallace, e conviene riandare tutto il calcolo, e rifarlo, fino a scoprirne lo sbaglio. Se poi la lotta è con un' opinione probabile, non si può progredire, se questa non è stata prima esaminata e trovatone l' accerto: chè se ella si convince di falsità, non è a farne più caso; se poi è conosciuta vera, s' ha di nuovo la lotta di quella conclusione colla stessa verità. Il somigliante è a dirsi delle prevenzioni da cui le menti sieno universalmente occupate: non si devono dispregiare eziandiochè gratuite, ma discutere se quelle possano ricevere un fondamento di ragione, o al contrario se v' abbia una ragione che le riprovi per vane ed erronee. Con che il filosofo o le cambia colle sue ricerche in verità accertate, o le discopre errori, e, secondo il risultamento, o se ne giova quali indizŒ sicuri di qualche fallo o trascorso del suo primo ragionare, o, lasciatele indietro, egli continua animosamente ad avanzarsi pel suo cammino. Laonde egli è mal fido consiglio il prestare subitamente l' assenso alle proposizioni singolari che il filosofo crede d' avere discoperte col suo ragionare. Prima di tutto gli conviene diffidare assai di se stesso, altamente persuaso, che gli stessi ragionamenti più speciosi possono ingannare per qualche difetto, o salto che vi s' asconda (chè la fallacità è una delle limitazioni più manifeste dell' umana natura); e per cautelarsene, egli è uopo che faccia l' assaggio d' ogni singolare proposizione, chiamandola al confronto di tutte le altre, e delle verità certe, quasi reo posto al contradditorio co' testimonŒ; perocchè se non regge a questa prova, non può assolversi da grave indizio d' errore, ma se la proposizione regge così bene che si riscontri a pieno consentanea con tutte l' altre verità, allora si potrà fidarsene, e riceverla in lor compagnia. E così non sono tanto le ragioni dirette, che accertano soggettivamente una proposizione, quanto il consenso che ella mantiene con tutte l' altre, e quel sistema apparirà e sarà vero, in cui si trovi tanto perfetta consonanza, che tutte le sue parti, anche minime, quasi ad una voce facciano fede della verità di ciascuna, e in ciascuna, siccome in foco, s' accentrino i raggi di tutte, rendendola con sì gran luce evidente: chè ella è primissima condizion del vero la concordia, l' unità, la perfettissima pace. E qui non posso trapassare un pregiudizio, anzi un errore gravissimo, che si trova ripetuto da molti scrittori de' nostri tempi, rispondendo brevemente a coloro che ce lo opporranno sicuramente come un' obbiezione. Il quale errore si è quello di credere, che il libero filosofare sia interdetto o impedito a coloro che professano la cattolica religione. Opinione assai strana in se stessa, e più strana ancora, in quantochè non si considera, che questo impedimento che s' attribuisce ai cattolici, si dovrebbe, per la stessa ragione, riconoscere in qualunque altro uomo, il quale s' avesse pure una qualche fede religiosa. Di che proverrebbe la singolare conclusione, che il solo ateo si trovasse in istato di liberamente filosofare! Ma da qual principio s' inferisce una tale persuasione? Si pretende forse che l' essere in possesso di alcune verità sia un impedimento alla filosofia? In questo caso converrebbe portare la conseguenza ancora più in là, e sostenere che quegli solo può mettersi sicuro e lesto nell' arringo filosofico, il quale non conosce nè manco una sola verità. Ora quell' uomo di tutto ignaro, non rallegrato da alcun raggio del vero, non si trova, grazie a Dio, sopra la terra, e se ci si trovasse, egli non sarebbe uomo: chè l' uomo riceve da natura il primo lume, quasi concreato con lui, e questo lume è la forma prima che lo rende intelligente, e cresce questa forma con esso lui nell' infanzia, nella puerizia, nell' adolescenza, e continuando a crescere in isviluppo anche quando non crescono più le sue membra, non l' abbandona nè nella virilità, nè nella vecchiaia, nè nella morte. E d' altra parte che cosa vogliamo noi che sia la Filosofia? Tutti quelli che ne intendono alquanto, vi diranno che ella è il prodotto del movimento riflesso del pensiero. Ma come crediamo che possa darsi il movimento riflesso , se il pensiero non trova alcuna materia nel deposito della mente, su cui ripiegarsi? La cognizione riflessa in generale, e molto più la filosofica che è di una riflessione molto elevata, suppone prima di sè la cognizione diretta , e la cognizione popolare e sociale; e in ciascuno di questi generi di cognizione può trovarsi la verità, anzi deve almeno trovarsene una parte, chè altramente non sarebbe cognizione. Noi, definendo la Filosofia, l' abbiamo sollevata su tutte l' altre scienze con dire, che ella è quella che investiga le ultime ragioni di tutto il sapere umano. Ora come potrebbe farsi quest' ultima di tutte le ricerche, se non ci fosse dato precedentemente il sapere, che nelle varie scienze e discipline si comparte? E non è appunto per questo, che nella vita del genere umano i Filosofi e la Filosofia, propriamente detta, comparvero assai tardi, dovendosene prima raccogliere i materiali; e che lo spirito umano, salendo, dopo molte prove e ricco di molte notizie, a quella sublime riflessione, dall' alto della quale egli scorge in che si fondino le già prima conosciute e raccolte verità, giudica di se stesso, del suo proprio cammino, delle leggi che lo guidano ne' suoi passi, e si prescrive un metodo e si rende consapevole della necessità dialettica di quelle cognizioni, di cui fino allora non sapea indicare la ragione necessaria? Ella è dunque la più grande delle assurdità il sostenere, che le verità possedute precedentemente da colui che s' accinge a filosofare sieno un impedimento, un vincolo posto al suo libero pensiero, come chi dicesse che l' ali sono un impedimento, un legame all' uccello, che vola con esse. La verità dunque non impaccia il pensiero giammai: ma quello che lega il pensiero e lo impedisce dal volare liberamente è l' errore, o creato da un fallace ragionamento, o ricevuto gratis nella mente siccome una prevenzione od un pregiudizio: questo è il vero, il solo nemico della libertà filosofica. Laonde è pur maraviglioso e doloroso ad un tempo il vedere, che allorquando un autore produce delle opinioni le più stravaganti e le più erronee, contrarie al senso comune, e mette il suo miglior vanto nel professare delle empietà, benchè non ne adduca prova efficace di sorta, costui trovi chi l' onori (e certo non possono essere che degli ignoranti) del titolo di libero pensatore; quando il suo pensiero è pure allora così vincolato e schiavo all' errore, che non può muovere un passo verso la verità, e di più è trascinato, repugnante invano la natura umana, nel contrario cammino, rivolto il dorso al sole della medesima verità. L' audacia dunque di coloro, che assaliscono le più venerabili e più consentite verità, non è il certo segno, come crede il volgo de' dotti, della libertà del filosofare, ed è anzi del suo contrario. Ma a quante e a quali significazioni diverse non è stata abusata questa parola di libertà! A quanti inganni non s' è prestata strumento, a quante discordie! Quanti odŒ non ha ella commesso, quanti parapigli non ha occasionati, quante lagrime e quanto sangue non hanno sparso uomini che la presero a vessillo per abbaruffarsi con altri uomini che volevano la libertà altrettanto e più di essi, la libertà dico, che la natura umana non può disvolere! Ma o non s' intendevano sul significato del vocabolo e si menavano busse da ciechi, o non volevano intendersi, come non vogliono tuttavia, e in nome della libertà facevano e fanno a chi può meglio opprimere e soverchiare. Chè tutte quelle parole che ricevono diverse significazioni nelle dispute de' filosofi, e così prestansi acconcissime agli artificŒ e alle cavillazioni de' sofisti di tutte le professioni, quelle stesse applicate alle cose della vita reale dividono gli uomini in partiti violenti, ciascuno de' quali rappresenta l' idea diversa che allo stesso vocabolo attribuisce, idee, che poi, quasi incarnate ne' loro fautori, avvolgono in orrenda mischia la società di cui niuno sa predir facilmente la fine. E certo poichè le immortali idee non cadono sotto il ferro, nè trafitte dal piombo, quelle dissensioni, e guerre civili non possono trovare la loro fine, se non là donde presero il principio, cioè nella regione dell' intelligenza, nella quale l' errore tolse dapprima la maschera del vero che si mise in sul volto, deposta la quale, è restituito il regno della pacifica verità, nel cui seno, come in loro proprio domicilio, tutte le idee ritornano (lasciati di fuori gli assensi erronei e gli appetiti che colà entro non sono ammessi), e divinamente ordinate ed unificate dimorano. Libertà dunque è una di queste parole equivoche indeterminate, polisenne, e il mondo che freme e schiuma per essa, come un mare combattuto da contrarii venti, n' è testimonio. E il senso più astratto che s' applica a quella parola è il più assurdo di tutti: perocchè alcuni ripongono il concetto dell' uomo libero in questo, che egli non abbia più alcun legame di soggezione, e però si propongono di liberar l' uomo non meno dal giogo della verità che da quello dell' errore, e di formar così il libero pensatore ; non meno dal vincolo del dovere e della virtù, che da quello del vizio, e di formar così il libero cittadino ! I quali dimostrano, che non solo ignorano la natura umana, ma perdettero ancora totalmente il senso di se medesimi. Che cosa ci rimane dell' uomo, se gli togliamo ad un tempo il vero ed il falso, il vizio e la virtù? Nulla: quello che ci rimane è il bruto, il quale non è suscettivo di libertà, chè in ogni sua operazione è determinato e necessitato dagli istinti. Onde i Comunisti e i Socialisti, che intendono così appunto la libertà, prima di tutto negano affatto all' uomo il libero arbitrio! (1) E per tal modo l' astrazione immoderata trasporta cotesti speculatori fuori del subbietto della questione, cioè fuori dell' uomo che essi distruggono. L' uomo, che non è sottomesso alla verità, necessariamente è sottomesso all' errore; l' uomo, che ha scosso da sè il peso della legge morale e della virtù, necessariamente sostiene il peso del vizio. La verità dice: « « Chi non è meco, è contro di me »(2) » Fra la verità e l' errore, come pure fra la rettitudine e la tortitudine morale, non v' ha mezzo: il punto che le divide è il nulla dell' intelligenza. Convien dunque che l' uomo scelga in questa alternativa: perocchè non istà in suo potere il cessar d' essere uomo. Sia pure che la verità imponga anch' essa all' uomo una cotal soggezione, un cotal giogo. Già la verità in persona l' ha detto di sua bocca: « « il mio giogo è soave, e il mio peso è leggiero »(3): » ha parlato d' un giogo, d' un peso che impone all' uomo. E uno degli Apostoli della Verità ha indicato mirabilmente l' indeclinabile alternativa delle due servitù, scrivendo così ai cristiani di Roma [...OMISSIS...] L' uomo dunque è sempre servo, se così si vuole: a tutte e due quelle opposte servitù non può sottrarsi: egli può solamente scegliere fra quella che il rende servo della verità e della giustizia, e l' altra che il rende servo dell' errore e dell' immoralità. - Quale eleggerà? - Ecco la sola questione possibile; e perchè egli la sciolga, o di nuovo la risciolga, Iddio l' ha fatto libero; ma questa elezione non può esser sospesa: col solo volerla lasciar sospesa, l' uomo ha già scelto, e scelto il male: il momento dunque dell' elezione si può replicare, ma è sempre un momento: non costituisce uno stato, non è una disposizione; è un punto, nel quale l' uomo entra liberamente in uno de' due stati suoi proprŒ, o dall' uno passa all' altro, entra o passa nel regno della verità, o in quello dell' errore. Ma qui io prevedo, che coloro, i quali hanno eletta la verità per loro signora, si lagneranno di me, che chiamo servitù anche la loro felicissima condizione. Io mi scuserò a loro, come Paolo si è scusato a que' di Corinto d' una somigliante maniera di favellare; Paolo, dico, il quale non solo riconobbe due servitù , quella della giustizia e quella del peccato, ma ben anco due libertà , quella che rende l' uomo libero dal peccato, e quella che lo rende libero dalla giustizia. Perocchè dice: [...OMISSIS...] . Come dunque si giustifica di questa maniera di parlare? « « Io parlo alla maniera degli uomini, » dice, «per l' infermità della vostra carne »(2). » Veramente, se l' uomo non fosse limitato, debole, infermo, non gli verrebbe mai nella mente o sul labbro, che l' esser conformato alla verità ed alla conseguente giustizia fosse una condizione di servitù. Perocchè l' ordinario concetto di servitù acchiude in se stesso qualche cosa di ripugnante, d' involontario; giacchè si direbbe mai servo colui che potesse sempre fare, e che sempre facesse tutto ciò che egli vuole? che non trovasse alcun ostacolo al suo volere? non trovasse alcuno, che obbligasse la sua volontà a deviare dalla strada ch' egli s' elesse, riputandola di tutte la migliore ed a sè la più cara? Niuno certamente chiamerebbe cotesta una servitù, anzi una pienissima libertà. Questo sembra evidente: soffermiamoci dunque a considerare come e quanto, secondo questo stesso principio, possa convenire d' appellare servitù la soggezione dell' uomo alla verità ed alla giustizia. La natura umana si può considerare da tre aspetti; in se stessa, astraendo dagli atti posti da essa e dagli abiti acquistati; in quello stato nel quale s' è piegata all' errore ed al male; e in quello, nel quale ella s' è volta alla verità ed al bene. Se consideriamo la nuda natura umana in se medesima, noi la troviamo limitata. Ma fu divino consiglio di chi la compose, ch' ella potesse, quasi per un cotale spiraglio, lasciatole aperto, dell' intelligenza, attignere ed appropriarsi coll' efficacia della sua volontà l' illimitato e l' infinito. Così l' uomo limitato, come soggetto ha proposto dinanzi a sè un oggetto illimitato e illimitabile, l' essere in forma d' idea, che è la verità, verso a cui egli può stendersi senza fine, e, seguendola fedelmente come stella che gli mostra il cammino, ingrandire oltre misura se medesimo. E a questo ingrandimento egli aspira, come a sua propria perfezione. Tuttavia l' abbandonare le primitive sue limitazioni, e il romperle per cercarsi un altro modo più ampio e più nobile d' esistenza, gli è faticoso e difficile; chè gli pare una negazione e quasi un infrangimento di se stesso. Il che accade in questo modo. Egli è dotato di più potenze, e ciascuna ha il suo proprio impulso pel quale ella è portata ad operare indipendentemente dall' altre, e l' indipendenza di tali impulsi e di tali azioni cagiona disordine e disarmonia fra le potenze medesime. A mantenerle in concordia sicchè tutte cospirino armonicamente a migliorare il soggetto, dal quale, come da un' unica virtù, procedono, sta di continuo presente all' uomo la verità, e da alto luogo, siccome divino auriga, colla voce le dirige e le affrena e le inanima. Laonde quest' autorevolissima moderatrice di tutte le umane potenze incontra non di rado opposizione nell' impeto particolare di ciascheduna, che inconscia dell' altre si svolge; ma niuna opposizione trova, nè può trovare nello stesso soggetto che tutte in sè le contiene, a pro di cui ella le governa, almeno se il soggetto stesso volontariamente non si snaturi, lasciando la propria unità, e spezzandosi, trasformandosi quasi in una sua speciale potenza, a' capricci della quale sacrifichi se medesimo. Sotto al governo dunque della verità v' ha una cotale servitù delle singole potenze, non quella dell' uomo; che anzi questi per la verità lungi d' acquistar servitù, diviene il governatore di se medesimo, il signore di tutte le sue proprie facoltà. Ma quando l' umano soggetto invece d' operare coll' istinto suo proprio, che del bene complessivo dell' intero uomo è promotore, si lascia trascinare all' istinto esorbitante d' una sua potenza particolare e a questo ubbidisce; allora noi non abbiamo più davanti la nuda natura umana priva di modificazioni e di alterazioni, ma uno stato di lei acquistato co' suoi atti e cogli abiti; l' abbiamo presente già ripiegata verso l' errore ed il male. Dico anche verso l' errore, perchè l' umano soggetto, se non abbandona la verità, non può dimenticare se stesso, e perdere la sua unità e totalità, per seguir le voglie esclusive d' una sua speciale potenza, in questa sola quasi attuandosi e consumandosi; chè la verità l' ammaestra di fare il contrario, anzi gli dà la forza di reggere e di mantenere nel debito ordine le diverse sue attività, acciocchè tutte cospirino a produrgli quel bene complessivo che è il suo proprio, il bene di tutto l' uomo. E poichè l' uomo considerato nella sua integrità ed unità, naturalmente non può voler altro che il bene di se stesso, non quello d' una sua parte a scapito del suo tutto; perciò l' attenersi alla norma della verità, che gliene insegna la via e gliene dà il potere, è così conforme e consentaneo all' umana natura, che dalla congiunzione di questa colla verità nasce appunto la maggiore delle umane potenze, cioè l' intelletto, e il più eccellente, il più proprio degli umani istinti, quello del bene. E non si potrebbe nè pure intendere in che modo l' uomo che alla verità deve tanta parte di sua esistenza e quell' essenzialissimo istinto che solo, rigorosamente parlando, merita il nome di umano , potesse poi abbandonarne la luce e prendere nelle sue operazioni una direzione contraria, se non lo si sapesse dotato d' una libera volontà, potenza unica nel suo genere, e diversissima da tutte l' altre; chè l' altre tendono solo al bene di se stesse ed altro non possono; per la libera volontà l' uomo può scegliere ugualmente il bene ed il male, può operare così alla propria perfezione come al proprio deterioramento, può rivolgere le sue forze a conservarsi, od anche (quantunque nol possa pienamente conseguire) a distruggersi. Qualora dunque l' uomo coll' abuso di questa singolar potenza (nell' investigazion della cui natura i filosofi si sono di frequente smarriti come in un laberinto) abbia collocato se stesso di contro alla verità per combatterla, diventa necessario che egli consideri quella luce amica, come inimica, e non ravvisi più in lei se non una severissima legislatrice, una regnante crudele, di cui sente pesantissima e molestissima la servitù, e che non gli paia più d' esser libero se non allora, che se la sia tolta d' addosso. Ma il combattere contro la verità è in suo potere, il ritorsene d' addosso la servitù (quella servitù che s' è creata egli stesso) non è in suo potere. Poichè certo il potere dell' umano arbitrio non si stende fin quà: egli può determinare le operazioni dell' uomo e dar loro un avviamento ritroso alla verità, ma non può nulla sulla stessa natura umana, che è guardata dal Creatore; e in questa natura appunto, che sta nella mano dell' Onnipotente, è collocato, come in una rocca munitissima e indistruttibile, anzi inaccessibile a' suoi nemici, la verità; e quivi ella regna, o beneficando, anzi assumendo al proprio talamo i suoi fedeli, o castigando i ribelli. V' ha dunque una servitù della verità, ma sol per quelli che ricusano di partecipare delle sue nozze e del suo regno a cui son tutti invitati. Ma chi può regnare colla verità, il che è più ancora d' esser libero, e in quella vece elegge da se stesso d' esserle servo, anzi di que' servi che furono detti servi di pena, può egli lagnarsi d' una tale servitù volontaria, può dire che la verità e la conseguente giustizia tolgano all' uomo la libertà? Riassumendo dunque, noi vediamo, che, se si considera l' uomo in se stesso, la verità, che lo illumina e gli dà intelletto, impone una cotale servitù alle singole sue potenze, non all' uomo medesimo, a cui anzi mette in mano la libera signoria di queste, onde se ne giovi come gli piace alla propria grandezza. Che se poi si considera quell' uomo, il quale, ricusata questa signoria offertagli in dono dalla verità, preferisce di discendere e d' assudditarsi egli stesso al capriccioso istinto di qualche sua singolare potenza, alla quale, invece di comandare, ubbidisce, allora la giusta servitù della potenza ricade sullo stesso soggetto, cioè sull' uomo, che, servendole, si è reso volontario servo di questa serva. Ma cotesta maniera di bassissima servitù non viene dalla verità, ma dalla rea volontà dell' uomo medesimo, che l' antepose alla libertà. Non è un servire l' operare secondo la propria natura, chè questa forma d' operazione è anzi spontanea e dilettosissima; ma qui sta il concetto della servitù, che altri sia costretto ad operare l' opposto di quello a cui la sua natura propende. E l' unione intima dell' uomo colla verità è naturale, onde l' operare secondo questa unione è consentaneo alla libertà umana. Ma poichè la libera volontà può opporsi all' umana natura , quindi da essa procede la volontaria servitù dell' uomo; e stando la cosa così per colui che ritorce la terribile potenza della propria libertà contro se stesso, egualmente può dirsi, che quella servitù provenga dalla signoria della natura umana, e che provenga dalla signoria della verità; perocchè queste due sono una sola e medesima signoria. E come l' uomo, che si sforza di scuoter da sè la signoria della propria natura, tenta (benchè impotentemente) la propria distruzione, così l' uomo, che si dibatte per iscuoter da sè la signoria della verità, tenta la distruzione medesima. Onde chi non vuole esser servo della natura umana e della verità, diventi libero e signore, che ben lo può; non opponendosi a quelle, da quelle non dividendosi; ma rimanendo con quelle indiviso, regni liberamente e felicissimamente. E questo è il terzo aspetto nel quale noi ci proponevamo di considerar l' uomo: questa è quella condizione, che l' uomo trova quando alla verità ed al bene s' è interamente concorso. Nella quale alla verità non consegue alcuna maniera di servitù, non c' è nulla che costringa l' uomo, che lo leghi. Poichè non è legato colui, che, come dicevamo, fa sempre quello che vuole, il che avviene a chi non vuole altro che la verità e ciò che consegue alla verità; onde la verità ed il bene non è per cotest' uomo alcun giogo o peso, chè non può esser tale l' oggetto stesso de' suoi affetti, de' suoi desiderŒ, de' suoi voleri. Con quest' oggetto egli sente se stesso di sè più grande, da esso deriva e prende una potenza che gli si aumenta in mano di giorno in giorno, in esso trova un' immortale dilettazione, dove acquieta l' ardore dell' anima. La libera volontà di costui è in perfettissimo accordo colla propria natura, o piuttosto ella è la stessa natura nobilitata. Perocchè come la natura dell' uomo, dico la sua natura propria e specifica, consiste in una congiunzione e in un' immanente visione della verità, così la volontà rettissima non fa altro con tutte le sue operazioni che stringere, e perfezionare via più, e quasi consumare questo connubio, nel quale l' uomo più o meno perfetto sussiste. Laonde l' istinto della natura intera dell' uomo e la libera volontà, non avendo più scissura nè opposizione nè lotta di sorte alcuna, si unificano: e l' uomo è uno e perfetto. Il che veniva a significare molto altamente S. Paolo, quando diceva, che « « la legge non è imposta al giusto, ma agli ingiusti »(1). » Perocchè la legge non è qualche cosa d' opposto alla volontà del giusto; che anzi ella dice quello, che questa volontà vuole, onde in altro luogo l' Apostolo afferma ancora, che l' uomo che vuole il bene, è già egli stesso legge a se medesimo (2). Le singolari potenze possono sì nella loro cecità insorgere disgregate e mettere cotanta pace a cimento, tentando d' ingannare e di sedurre la volontà: ma, se questa s' attiene alla verità tanto fortemente che basti, ella le domina, e non riceve offesa da' loro assalti. Se poi la volontà cede per sua fiacchezza, non è questa colpa della verità, onde ogni valore ed ogni forza le deriva. Ma a questa stessa fiacchezza di volontà venne il Creatore in soccorso, e questo comunicando all' uomo di nuovo la verità, ma in misura più copiosa, in un modo più intimo, in una nuova forma più sublime, che non sia quella, in cui egli la consegnò prima universalmente alla natura umana; e così la libertà dell' uomo contro alla cieca violenza de' suoi particolari e parziali istinti fu guardata ed assicurata da Dio medesimo. Il quale diede una tanta promessa agli amatori della verità; quando disse: « « Se voi vi terrete nel mio sermone, sarete miei veri discepoli, e conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi »(3) » La verità dunque lungi d' imporre per se stessa una servitù agli uomini, è l' unica causa della loro libertà, della qual libertà essi non rimangono privi se non allora che essi la ricusano, col ricusarne la causa. E nella verità tende tutta la Filosofia. Poichè, che altro vuole questo studio e quest' amore inquieto di sapienza, se non discoprire la verità, e discoperta contemplarla, e contemplata penetrarla più innanzi, quasi visitandola negli ultimi suoi recessi, dove ella più disvelata si manifesta, per ivi refrigerare la sete ardentissima, che n' ha l' umana natura, all' acque d' una più pura e più alta sorgente? Laonde s' egli fosse così, che la verità traesse seco una servitù del pensiero, che altro sarebbe lo stesso filosofare, se non un andare in cerca di servitù e di servitù sempre maggiore? E come si potrebbe allora esigere in coloro, che alle filosofiche investigazioni si danno, un libero pensare? Quanta e quale dunque non è la contraddizione di coloro, che, facendo pur encomio della libertà del pensare, temono poi della verità e della vera religione, che per avventura non la facciano loro perdere, e considerano meno liberi quelli, che più di verità possedono, e che son quindi più prossimi ad ottenere il fine della Filosofia? E quanto questa contraddizion così strana non si aumenta e moltiplica, allorchè s' ascoltano costoro lodare altamente, siccome liberi pensatori, quelli che si presentano al pubblico autori de' più sformati e stravaganti sistemi, accozzamento di delirŒ e di assurdi, pigliando essi per sicuro segno della libertà del pensiero la novità e il coraggio d' allontanarsi, delirando, dai veri i più consentiti dal genere umano, e di sottrarsi a questa luce quasi ad una volgare ed ignobile servitù, nella quale vivano abbietti gli uomini comunali! Così questi appunto, che sono gli schiavi dell' errore, si predicano i pensatori liberi, e le menti, che la verità ha fatte libere dall' errore colla sua luce e colla sua potenza ha rese signore delle passioni che diffondon le tenebre, si dicono schiave! Qui l' ingiustizia mentisce troppo apertamente a se medesima. Ma taluno dirà: « Voi asserite, che l' avere ricevuto nella mente delle verità, ancorchè ciò sia per modo di prevenzione, di pregiudizio, o di fede, non è una disposizione contraria ed anzi è favorevole al libero filosofare, perchè la verità non impone mai servitù, che anzi è quella che forma nell' uomo la stessa libertà, e fin qui niuna opposizione da parte nostra. Ma voi avete aggiunto, che nè anco le credenze cattoliche scemino la libertà al pensiero filosofico, con che avete supposto che tali credenze sieno altrettante verità. Ora tutti quelli, che non ammettono questa supposizione, vi negheranno la conclusione. » - La quale obbiezione, a buon conto, mi concede, che tutto ciò che dicevo, deve essere assentito senza difficoltà da ogni uomo che professa la cattolica religione; e qui già un gran numero di suffragi viene a confermare il mio ragionamento. Poichè la cattolica Chiesa dilata le sue tende fino ai confini della terra, ed accoglie sotto di esse, tutte o gran parte, le civili nazioni. Per verità un' udienza così numerosa, così civile, ed unanime può soddisfare, anche sola, un uomo che ragiona. Agli altri, cioè a quelli che non ebbero il dono della fede, o dubitano ancora della verità delle cattoliche credenze, io, unito con tutti i filosofi cattolici, volgerò la seguente comparazione: « Fatevi in una scuola dove si spieghi Euclide: voi ci giungete nell' atto, che il maestro dimostra agli scolari la proposizione dell' ipotenusa. Non essendo voi stato presente all' esposizione di tutta la serie delle proposizioni che la precedono, non potete raggiungere quella dimostrazione, che suppone conosciute ed ammesse per vere le altre proposizioni sulle quali ella si fonda. Ora voi vi fate a dire così al maestro: Io non posso assentire alla dimostrazione che voi avete data di questa proposizione, perchè voi ne supponete vere tant' altre, di cui non me n' avete dato alcuna prova. Voi dunque ve ne andate avanti siccome colui, che non adopera un pensiero libero, ma bensì legato da molte gratuite supposizioni. » Chiaro è che quel matematico risponderebbe subito al suo nuovo uditore in questa guisa: « Badate che siete voi quello che non procede con un pensiero libero da false supposizioni, voi che a torto supponete che io ammetta gratuitamente per vere le proposizioni che ho adoperate in ordendo la dimostrazione da voi udita: a voi par questo, perchè, non essendo voi intervenuto alle lezioni precedenti, non avete intese le prove, che di ciascuna di esse io diedi a questi miei discepoli. Se dunque a voi piace d' imparare la geometria, io m' offerisco d' insegnarvela per ordine in lezioni private, e di condurvi di proposizione in proposizione fino a raggiungere questi miei discepoli coi quali potrete poscia continuare lo studio. » A quest' uomo, che giudica di matematica per averne sentito a caso una sola lezione di mezzo al corso, e trova esser la mente del matematico schiava di pregiudizŒ, de' quali egli va liberissimo, è somigliante colui che si dà a credere che il filosofo cattolico ammetta gratuitamente le sue credenze, e queste sieno false, e però gli tolgano la libertà del filosofare la quale, come ci fu conceduto, non è impedita che dall' errore. All' incontro il filosofo cattolico, al pari dell' accennato matematico, reputa che non a sè manchi la libertà del pensiero, ma bensì a colui, che ignora la cattolica verità, e che, ignorandola, la tiene per vana: al quale solo insieme coll' ignoranza appartiene l' errore, che è l' opposto della verità e della libertà. E però egli fa appunto come quel matematico, riducendo la disputa ad una importantissima questione di metodo. Perocchè, come il matematico invitò quell' uomo, che volea incominciare lo studio della geometria dal mezzo invece che dal principio (ond' avveniva, che non gli paresse ben dimostrata la proposizione dell' ipotenusa, perchè ne ignorava le precedenti), lo invitò, dico, a riprendere la scienza dal suo principio; così il filosofo cristiano invita colui che nol crede libero pensatore perchè s' attiene alle credenze del cattolicismo, a discutere prima di tutto sulla verità di queste, e poscia ad accompagnarsi con esso lui nel cammino più innoltrato della Filosofia. Poichè questa appunto è la prima di tutte le discordanze e la fonte dell' altre tra i filosofi cattolici e i non cattolici, che reciprocamente s' accusano di non esser liberi pensatori, cioè la discordanza nel metodo. Il filosofo non cattolico vuole creare tutta intera la Filosofia, senza mai cercare se il cattolicismo sia un errore o una verità: e poichè egli la tiene per un errore, o n' ha almeno il dubbio, vuol filosofare con questo pregiudizio in capo senza discuterlo. L' ateo, molto più, vuol filosofare astraendo da Dio, che suppone non esistere, supposizione che egli pure ricusa d' esaminare, e che appunto perciò è un pregiudizio che egli manda avanti a tutti i suoi ragionamenti filosofici, quasi a capitanarli. Il filosofo cattolico vuole, con chi non ha la vera religione o ne dubita, che prima si ragioni sulla religione stessa, e si stabilisca se il cattolicismo è vero o no; perchè trovatolo vero, è con ciò stesso dimostrato ch' egli non arreca alcun nocumento al libero filosofare, ed anzi rende più facile e più sicura la soluzione delle altre filosofiche questioni. E il filosofo cattolico ha tanto diritto a ciò, quanto n' avea il matematico a volere che colui che bramava applicarsi alla geometria incominciasse l' Euclide da capo; perocchè con qual diritto può il filosofo non cattolico accusare il cattolico d' avere il pensiero inceppato e servo di preventive credenze, se non dimostra che queste sien false? e se non esamina nè manco se quelle siano ammesse senza alcun fondamento di ragione? Chè se sono vere e ragionevoli, certo non impediscono il pensiero dell' uomo, ma lo liberano dall' errore, e l' aiutano mirabilmente. Laonde anche il sommo filosofo di Tagaste diceva, che « « in quelli che ardono d' un grande amore per la verità perspicua, non è da riprendersi lo studio, ma da richiamarlo all' ordine » » cioè, al giusto metodo, « « in modo che incominci dalla fede e colla bontà de' costumi si sforzi d' arrivar dove tende » » cioè alla perspicua, o scientifica verità (1). Veramente ella è una manifesta prevenzione e una prevenzione erronea quella de' filosofi non cattolici, che pretendono d' assumere per cosa certa, che la fede cristiana sia del tutto cieca, una credenza prestata a caso, simile a quella, che la plebaglia accorda al loquace cerretano. Pure il loro pensiero è così fattamente schiavo di questo giudizio temerario, che non arrivano mai a sentire la necessità di sottomettere quella loro prevenzione ad un serio esame, onde ad essa non resta altro fondamento che l' ignoranza della religiosa dottrina e della cristiana fede. E` dunque ragionevole chiamarli prima di tutto a questa discussione; nella quale entrati con lealtà, non sarà difficile il convincerli prima di tutto, che l' intelligenza nell' uomo cattolico precede, accompagna, e sussegue la fede, di manierachè la fede cattolica non va giammai scompagnata dalla luce dell' intelligenza, quando, se più addentro è dato di penetrare, la fede stessa è una parte, la parte migliore di questa luce. E nel vero, i motivi della credibilità sono all' aperto, e a ciascuno è lecito, talor anche doveroso, sottometterli all' esame e alla prova del ragionamento. La religione cattolica poi in questa disamina non teme che una sola cosa, cioè che la discussione si faccia troppo leggermente, superficialmente, non bastevolmente accurata, paziente e profonda. Chè quanto quella discussione si porta più avanti, si conduce con maggior rigore, perseveranza, dottrina, tanto più si tiene sicura la cattolica fede d' uscirne vittoriosa, come sempre accade alla verità, che più è messa alla prova, e più viva luce trasmette; e solo allora non è veduta e abbracciata dagli uomini, quando la disprezzano, ed orgogliosi, con un sogghigno, senza guardarla in faccia, le passano avanti. Laonde è passata quasi in proverbio quella sentenza di Bacone, che una scienza superficiale (non mai priva d' allucinazioni e d' errori) ritrae gli uomini dalla religione, ma una profonda ve li riconduce. Che se i motivi di credibilità resistono saldissimi alla prova del filosofico ragionamento, e rimane vinto, che essi addimostrano la verità della rivelazione e del magistero della Chiesa che ne custodisce il deposito e agli uomini il propone e il comunica, sarà egli filosofo, sarà uomo ragionevole colui che rifiuta nondimeno d' ammettere per vera quella scienza, che esce, come da immediato suo fonte, non da una scuola umana, ma dall' intelligenza di Dio medesimo? In che modo il pensiero che cerca la verità, temerà di non esser più libero quando la trova nel suo più alto fonte? Come la Filosofia prenderà sospetto di un tanto acquisto, dopochè ella stessa n' avrà riconosciuto il fonte e la legittima derivazione ed accertate le prove? Chè nel vero, supposto che la Filosofia abbia trovati efficaci e concludenti gli accennati motivi di credibilità, pure con ciò ella ha imposto a se medesima il dovere di riconoscere per veri gli articoli della fede: ricusarli, la metterebbe in contraddizione, e la contraddizione distrugge la Filosofia. E` dunque per la necessità di conservare se stessa, che la Filosofia accetta la fede, di cui ha discussi i motivi. E parimenti, chi dirà che il pensiero tolga a se medesimo la libertà colle sue proprie, libere, e naturali operazioni, e col subirne le conseguenze? La prima di tutte le leggi del pensiero è la coerenza, chè l' incoerenza, in quant' è incoerenza, non è nè pur pensiero. Se dunque il pensiero, liberamente movendosi, è pervenuto a scoprire l' esistenza d' un' autorità divina e d' un magistero infallibile, egli con queste sue operazioni s' è messo nella necessità o di cessare d' essere, ovvero di assentire a tutto ciò che attesta quell' autorità, il che è quanto dire di credere. V' ha dunque una ragione che precede la fede, e il credere è anch' esso un atto del pensiero, che ubbidisce alla ragione, benchè non sia questo solo. Se facesse altrimenti, allora, e allora soltanto, il pensiero avrebbe perduta ogni sua libertà; poichè non ci potrebbe essere che una causa straniera che gl' impedisse il suo proprio atto, cioè di far quello a cui la sua natura lo determina; e questo appunto è servitù, non potere operare come inclina la propria natura, per un ostacolo, che l' agente incontra fuori di sè al suo svolgimento. Ma non tutti, direte, prima di prestare la fede, esaminano filosoficamente i motivi di credibilità - Sia, se così volete; ma che un gran numero di quelli che ricevono l' evangelica predicazione, ne esaminino o no i fondamenti, quest' è una questione affatto aliena dall' argomento: noi parliamo di ciò che può fare il filosofo, se lo vuole: e basta che lo possa, perchè cada in nulla l' accusa di coloro che dicono, il filosofo cattolico non poter conservare la libertà del suo pensiero. Tuttavia su di questo stesso mi sia permesso frapporre alcune parole. Io richiamo anche qui l' obbiettante a una questione preliminare di metodo. Sieno discussi avanti ogn' altra cosa i motivi di credibilità, e suppongasi che da questa discussione risulti la loro validità, rimanendo così provato, che i dommi cattolici sono altrettante verità. Conosciuto questo, un' altra questione si presenta, di natura totalmente filosofica: « Come l' uomo conosce la verità? C' è un solo modo di conoscerla? E quest' unico modo è forse quello della discussione filosofica, dell' esame condotto a regolo e forma di scienza, di maniera che ad ogni uomo che non è filosofo, o che non s' è applicato alle scienze (e in questo caso si trova il più degli uomini) rimanga precluso interamente l' adito alla verità? E (quello che ne consegue), che quasi tutto il genere umano, eccettuati i pochissimi scienziati, sia condannato negli argomenti più importanti e più necessari al fine dell' umana natura, ad una di queste due cose, all' ignoranza, o all' errore? perchè tolta la verità, questi due mali rimangono ». Ed io credo che può rinunziare alla Filosofia colui che risolve questa questione affermativamente; chè al buon senso ha già rinunziato: credo che se la Filosofia, intendo quella che ha vestito forma di scienza, tanto si restringe, tanto si divide dal genere umano, che si persuada in sè sola contenersi tutta la verità e la certezza, nella gran maggioranza degli uomini non rimanerne un minuzzolo, quella non è più Filosofia, ma invece di Filosofia un' ignorante baldanza che n' ha preso il nome e l' acconciatura. Ma se pure si danno di costoro, i quali abbiano cotanto impacciato il pensiero e da una così ingiusta prevenzione legato, sieno filosofi o no; si può ragionare anche con questi, purchè vogliano veramente seguire quel ragionamento tirato a filo di scienza, al qual solo s' affidano, o piuttosto dicono d' affidarsi. Perocchè appunto con esso quel ragionamento scientifico, in cui ripongono tutta la causa della verità, si devon condurre a istruirsi meglio intorno alle proprietà ed alle operazioni della mente umana, colla qual maggiore istruzione dismettano quell' errore. Chè una credenza così erronea, così ingiuriosa all' umanità, non ha la sua origine nella scienza, ma nell' ignoranza della natura dell' intendimento umano, e delle vie più segrete, per le quali egli alla verità si congiunge. E di vero un' investigazione profonda dell' intendimento conduce a riconoscere, che v' ha indubitatamente una prima verità, la quale comunica senza mezzo con tutte le menti, e questa è l' essere stesso nella sua essenza indeterminata, e nella sua forma ideale. La quale notizia prima ha l' uomo per visione, non per ragionamento, come quella appunto che non ha bisogno di mezzo termine. E chi ne dubitasse, e al ragionamento volesse appellarne, la stessa natura del ragionamento, diligentemente perscrutata, lo convincerebbe che la cosa è così; perocchè il ragionamento non può esistere da sè solo, ma da quel primo vero immediatamente intuìto procede, e, tolto via questo, esso è estinto prima di nascere, come in vano supporreste esistenti i colori de' corpi, se prima di fare questa supposizione, aveste negata la luce. E che fa mai il ragionamento, qual è il suo ufficio, a che s' estendono le sue forze? Non ad altro che a dedurre una verità da un' altra anteriore, per mezzo d' una verità media. Ora quella verità anteriore dove si prende? vorremo procacciarcela per via d' un altro ragionamento? E bene, in tal caso noi la dedurremmo da un' altra verità: se ripetiamo lo stesso discorso anche su l' origine di questa, ad un' altra ci troveremo condotti più lontana; ma così risalendo di verità in verità e di sillogismo in sillogismo, o non ci potremo mai fermare, o dovremo posare il piede in una prima verità, non dedotta dal ragionamento, ma nota per se medesima, come luce immediata della mente. Ora ci atterremo noi al primo braccio di questo dilemma? Il solo tentarlo è un cadere in molti assurdi: poichè se così fosse, ogni ragionamento sarebbe impossibile, e non ci somministrerebbe mai alcuna certa verità. Sarebbe impossibile, perchè supporrebbe un infinito numero di sillogismi conchiusi prima di venire all' ultima conclusione; chè la verità, da cui si toglie a dedurne un' altra, sarebbe ella stessa dedotta da un' altra, e questa da un' altra, e questa da un' altra di nuovo all' infinito. Ora l' uomo è consapevole a se stesso, che niuna delle verità che egli conosce gli costa tanto, e che a niuno di que' sillogismi, co' quali egli ha stimato conoscere qualche verità, ne ha premesso altri infiniti, nè riputò mai esservene bisogno. Di poi, dato anche che l' uomo spendesse tutta la sua vita quant' è lunga a comporre una catena intrecciata di sillogismi, questa catena gli si spezzerebbe in mano colla morte, e così non sarebbe più infinita, e perciò egli non sarebbe arrivato in tutta la vita sua a pur conoscere la minima delle verità. Facciamo l' uomo immortale, e apparirà ancor meglio l' assurdo dell' ipotesi che la verità non si possa conoscere, se non per la via del ragionamento. Dato un uomo che non muoia mai, quand' anco egli in altro non s' occupi che in infilare l' un nell' altro sillogismi, mai non giungerebbe nè manco quest' immortale al termine dell' opera, cioè ad averne infilato quel numero, di cui egli abbisogna per conchiudere con efficacia ad una sola verità, poichè quel numero dovea essere infinito. Che se egli venisse a capo di questo lavoro, la serie de' ragionamenti avrebbe trovato il suo termine, e così non sarebbe più infinita. Onde se ogni verità ha bisogno d' esser provata col ragionamento, niuna verità si può provare; non trovandosi mai in questa deduzione la prima verità da servire di fondamento a tutte l' altre susseguenti: e non solo non si trova, ma nè pure esiste; chè a poter esistere avrebbe bisogno che l' eternità fosse tutta scorsa, e l' eternità non si può scorrere tutta, senza che cessi di essere eternità. Mancherebbe dunque sempre il primo anello della catena delle verità, niuna di esse potrebbe conoscersi dall' uomo, niuna dimostrarsi: chi introduce la verità in questo labirinto, l' ha trasformata in un assurdo, e quella che è per natura sua necessaria, l' ha perduta nell' impossibilità. Dicevo dunque che il ragionamento senza qualche verità precedente, la cui cognizione da lui non dipenda, o è impossibile, o almeno non ci può fornire alcuna certa verità. Impossibile, se si vuole spingere all' infinito la serie de' sillogismi, e fu dimostrato pur ora; non ci può fornire alcuna certa verità, se fermando la serie ascendente de' sillogismi in una prima proposizione, poi si neghi che questa risplenda all' intelletto, come un vero per sè evidente, e si sostenga che quella proposizione, più o men rimota in cui è giocoforza fermarsi, non abbia veruna autorità, e si ammetta soltanto per la necessità che a ciò costringe, come un postulato gratuito, o come un pregiudizio di cui non si può rilevare il valore. Con questo colui che avea cominciato a proclamare il ragionamento qual unico mezzo di conoscere la verità, avrebbe finito, non volendolo e non accorgendosene, col trovarsi divenuto uno scettico: colui, che per mantener libero il pensiero, l' avea affidato alla sola scorta dell' argomentazione ricusando d' ammettere qualsivoglia verità non dimostrata per essa, scorgerebbe d' avere legato mano e piedi il suo pensiero medesimo, fino a renderlo impotente a conoscere cos' alcuna, resolo non solo schiavo, ma scimunito. E questo non è tanto ciò che si prova dover conseguitare dialetticamente, quanto quello che si vede avvenuto; è la storia della moderna filosofia, cioè di quella che i moderni s' ostinano a chiamare Filosofia. Non vediamo noi i filosofi della Germania per un lunghissimo e tortuosissimo cammino aver condotto il pensiero umano in trionfo al suo estremo supplizio? Perocchè l' ultima conclusione de' loro infaticabili studii si fu che la ragione teoretica è impotente a conoscere qualunque siasi verità in se medesima, col qual decreto vericida hanno chiusa ad un tempo stesso la loro rivoluzione filosofica, e finita la filosofia. Di poi hanno tentato di farla risuscitare (perocchè in qual maniera può contentarsi l' uomo di esistere senza la verità?), e sono perciò ricorsi alla ragione pratica , cioè ad una ragione, che assume de' postulati senza poterli dimostrare, per aver qualche punto, in che possa insistere, non tanto il pensiero, quanto l' azione degli uomini; parendo loro più facile rinunziare a quello che a questa. Sono dunque ricorsi ad una cosa indimostrata, non più ad una verità; sono ricorsi ad una ragione, che ha bisogno d' un epiteto per esser ragione, ed è quanto dire ad un fantoccio di ragione messo sul trono, acciocchè, per la grazia dei filosofi, regni, ma non governi; sono ricorsi ad una ragione fatta da loro a mano, schiava della più crudele necessità, dopo aver espulsa la ragione libera e veramente regina. Ecco quello che è avvenuto; ecco quello che doveva avvenire dall' aver posto il principio, che il pensiero non è libero, se non s' affida interamente al ragionamento senza una verità primordiale, che guidi come face luminosa ogni ragionamento. Convien dunque riconoscere, che questi nuovi maestri degli uomini hanno incominciato i loro studŒ da una gratuita ed erronea prevenzione, per la quale hanno accordato al ragionamento maggiori forze ch' egli non s' abbia; che essi dunque non furono filosofi liberi, ma legati e veramente pregiudicati. Convien riconoscere che il ragionamento non è l' unico nè il primo mezzo di conoscere la verità; ma che o avanti il ragionamento ce ne devon essere degli altri, oppure la è finita della verità e della certezza, e molto più della filosofia, e l' uomo si dee rassegnare a rinunziarvi in sempiterno. Ma quello che, considerando l' impotenza del ragionamento di dar fondamento da sè solo alla cognizione umana ed alla certezza, noi induciamo dover essere, quello stesso troviamo che è, osservando e perscrutando con diligenza l' essere, e il fare dell' umana intelligenza. Imperocchè con questa diligente perscrutazione, noi prima intendiamo, che, avanti il sillogismo (alla qual forma si riduce ogni ragionamento), l' intendimento umano pronuncia i giudizŒ, e avanti i giudizŒ, egli vede le idee, senza la qual vista i giudizŒ non si possono pronunziare, come senza aver questi pronunciati non si possono ordire i sillogismi. E poichè le idee composte da' giudizŒ stessi ci vengon date; dunque è da conchiudersi, che anteriori ai primi giudizŒ non sono che le idee semplici, e cercando quali queste sieno, se n' ha per risultamento che una sola di esse è tale, e questa è l' idea dell' essere; di cui investigando poi la natura, rilevasi, che ella a tutti i giudizŒ precede, di nessuno abbisogna, ai giudizŒ tutti è ella stessa così necessaria che senz' essa nessuno è possibile, nessuno concepibile. Quest' idea dunque è la prima di tutte, quella in cui affissando l' occhio della mente, l' umano soggetto può giudicare e raziocinare, onde perciò egli attigne l' intelligenza: noi abbiamo dunque trovato in essa il lume della ragione , la forma oggettiva dell' intendimento: l' uomo crede a questo primo vero, non può non credervi, perchè è pura luce, e da quest' atto di razionale credenza ogni ragionamento toglie tutto quel valore che ha, ivi incomincia l' attività razionale, ed ivi pure finisce. Applichiamo questa dottrina a provar quello che ci proponevamo. Quell' Essere, che ha formata l' umana natura concedendole d' intuire, con certa limitazione, la luce della verità, e così rendendola intelligente, voglia comunicarle un' altra parte di verità, un altro grado specifico di quella luce. Non sarebb' egli verosimile, ed anzi indubitato, che quest' Essere che appieno conosce la sua fattura e che vuole in essa aggiungere verità a verità, la illustrerebbe con un ordine simile e del tutto rispondente a quello, secondo il quale l' ha creata, e quindi medesimo non affiderebbe già la nuova porzione di verità di cui la vuole arricchire, al ragionamento, ma sì bene a quella prima facoltà che al ragionamento ed allo stesso giudizio precede, e in cui, come abbiamo veduto, il giudizio ed il ragionamento si fondano? Anzi, a vero dire, egli non potrebbe far altro; chè il ragionamento non crea la verità, ma la deduce, e il giudizio non la crea neppur egli, ma la analizza e la connette. Onde, qualunque perfezione s' aggiungesse al giudizio o al ragionamento, non sarebbe mai un aumento di verità, non sarebbe che la deduzione di un vero dall' altro resa più sicura e più celere, sarebbe il vero stesso veduto da più lati e nelle sue relazioni: nessuna porzione di verità nuova sarebbe per questo aggiunta all' uomo. Il giudizio, e il ragionamento, come risulta da ciò che abbiamo detto, sono facoltà che altro non fanno che congiungere in nuovi modi l' uomo alla verità che già possiede, senza accrescergliela, gliela scompongono, questa verità, in varie parti, gli collegano queste parti a diverse connessioni, sicchè le une si vedano scorrere da altre, ciò che dà all' uomo una cognizione più esplicita, più viva ed efficace della verità, ma ne lascia uguale la sostanza e la misura primitiva all' uomo conceduta. Egli è dunque manifesto che Dio stesso non potrebbe comunicare all' uomo una nuova parte sostanziale di verità, se non l' aggiungesse a quell' altra parte di essa che l' uomo possiede per natura, continuando l' edifizio a quel punto dove l' ha lasciato, se non la confidasse a quell' intuizione intellettiva, che ogni altro atto di ragione precede, precede ogni giudizio, precede il ragionamento. Ora quello che ho supposto che Iddio volesse fare, co' motivi di credibilità di cui abbiam parlato, si prova al filosofo che l' ha fatto veramente. Almeno questo è il metodo, a cui noi abbiamo richiamato, o invitato il nostro filosofo. L' abbiamo invitato prima a discutere sui motivi di credibilità; trovato poi che questi sono efficaci a dimostrare l' esistenza d' una divina rivelazione, contenente una nuova porzione di verità, che non è all' uom visibile per natura, e che perciò dicesi soprannaturale , e con essa l' esistenza d' un visibile e permanente magistero, che ne conserva intemerato il deposito acciocchè non perisca sopra la terra; l' abbiamo condotto a cercare come Iddio poteva fare che gli uomini ricevessero nel loro spirito quella nuova porzione di verità contenuta nella detta rivelazione, e quindi vi assentisser coll' animo; e abbiamo conchiuso, che non potea farlo in altro modo, se non illustrando egli stesso lo spirito umano con una nuova luce, onde prendesse poi origine una nuova serie di giudizŒ, una nuova serie di ragionamenti, diversa da quella serie di giudizŒ e di ragionamenti, che prendono il loro movimento dalla prima porzione di verità, data all' uomo nella formazione della sua natura. Ed ora qui badate bene che non sono più io, ma è la stessa Religione cristiana, che spiega se stessa in questo modo. Ella si presenta appunto all' uomo come un lume primitivo, intimo, nuovo, che illustra in segreto il fondo dell' anima in un modo simile a quello che fa il lume della ragione, onde i cristiani si dissero sempre, fino dal primo tempo in cui fu annunziato il Vangelo, illuminati ; e il Battesimo, rito scelto dall' Onnipotenza divina qual mezzo ordinario a dar questo lume, si disse illuminazione ; e a questo lume che si comunica ugualmente a tutte le età dell' uomo, si attribuì sempre l' origine della potenza di giudicare e di ragionare sanamente nell' ordine delle cose della salute eterna, che eccedono la natura. A qual filosofia è venuto mai in mente una cosa simile? qual religione si è mai presentata agli uomini sotto la forma di un lume così misterioso ad un tempo, e così ragionevole? Anzi qual religione si è rivolta all' umana essenza e ha dichiarato d' esercitare su di lei una potenza che la migliori e che la sublimi? Tutte, dalla prima all' ultima, le religioni, o veramente le superstizioni inventate dagli uomini si sono indirizzate all' adulto e non al bambino, hanno rivolto il loro discorso alle potenze , all' immaginazione, ed al ragionamento, niuno di esse ha mai osato, ha neppur pensato, di poter entrare e collocare la sua radice nella stessa natura intellettiva dell' essere umano e di là, da quel fondo dove non penetra che il Creatore, regnare sull' uomo, rigenerare coll' uomo tutte le sue potenze. Laonde tanto è lungi che possa farsi al Cristianesimo un' accusa del non rivolgersi egli esclusivamente e immediatamente all' umano ragionamento, ma a quel più recondito principio onde ogni ragionamento deriva e mutua la propria luce, che anzi questo, chi bene il considera, è un palmare argomento della sua divinità, come il non aver saputo, nè potuto osare, nè promettere, nè pensar tanto le altre religioni, è un argomento palmare, che sono invenzioni umane (1). Alla qual conclusione pervenuto, il nostro filosofo non ci domanderà più: « perchè molti credano alla cattolica predicazione senza aver prima esaminati i motivi di credibilità »; chè a questo saprà rispondersi da se medesimo. E per rispondersi non avrà neppure bisogno di considerare, che certi miracoli, certe profezie, ed altri tali motivi possono essere riconosciuti come argomenti legittimi, e a sufficienza efficaci anche dal comune degli uomini, senza che vi spendano un lungo esame; chè anzi di tali argomenti appunto perchè più spediti e manifesti, volle Iddio che non mancasse la rivelazione che egli faceva al genere umano: tutto ciò sarà trapassato dal nostro filosofo come un di più, come una conferma della più diretta e più intima risposta, che da se stesso saprà fare a quella sua interrogazione. Perocchè, se l' uomo quando appena apre gli occhi alla luce, già incomincia a giudicare dell' esistenza delle cose esteriori che gli feriscono i sensi, e non s' inganna; ed egli fa questi giudizŒ, dà questi assensi alle percezioni sensibili, perchè, intuendo egli per natura la luce dell' essere, conosce l' essere, e sa di conseguente, che tutto ciò che agisce su di lui, non può esser altro che essere, e i vari modi, e gruppi separati e specifici di nuove sensazioni che esperimenta, non indicar altro che altrettanti esseri; così somigliantemente l' uomo che apre gli occhi dell' intelletto all' evangelica predicazione, vi può e vi dee dare l' assenso, senza passare pel mezzo di alcun ragionamento, avendo già in se stesso il criterio che gli fa discernere immediatamente il vero ed il falso nell' ordine soprannaturale; il qual criterio è quella nuova visione di verità, come dicevamo, che Iddio discuopre per grazia all' intelletto, la quale, eccedendo la verità naturale, è una cotal nuova forma di verità che dicesi soprannaturale, principio e base d' un nuovo ragionamento. Laonde a quest' interna illustrazione della mente cristiana richiamandosi S. Agostino, con frequenza dice di non potere aprire il secreto delle verità rivelate, se Iddio stesso da dentro non lo aiuti (1). Che se si vuole investigare che cosa sia quest' altra porzione e forma di verità sopraggiunta alla naturale, non cadrà lontano dal vero chi la definisca: « un' intima notizia di Dio medesimo »; il quale è la sussistente verità. Laonde, come col sapere già prima per immediata intuizione che cosa è l' essere, l' uomo acquista la potenza di giudicare dove sia un essere, e che cosa all' essere appartenga e convenga, e che cosa all' essere ripugni; alle quali cose si riducono tutti i naturali giudizŒ: così somigliantemente con quell' intima notizia di Dio che è data all' uomo per immediata e graziosa percezione, egli acquista la potenza di giudicare dove sia la parola di Dio, e se le cose annunziate e predicate a Dio appartengano e convengano, o a Dio ripugnino, alle quali cose si riducono i giudizŒ soprannaturali che fa l' uomo, quando accoglie liberamente l' evangelica predicazione, e rigetta ogni altra che sia superstiziosa o profana. Che se il nostro filosofo continuerà i suoi studŒ su questa via, e, non lasciandosi legare e impedire dall' erronea prevenzione di sapere quello che egli non sa, indagherà più a fondo il mistero della cognizione umana (argomento del tutto filosofico), perverrà a convincersi, che l' uomo, anche il più idiota, non solo pronuncia de' retti giudizŒ, ma ben sovente li pronuncia come conseguenze de' suoi segreti e rapidissimi ragionamenti; e che perciò v' ha una maniera di ragionare naturale e propria degl' idioti, d' una forma sintetica, che conchiude con uguale, se non anco talora con maggior sicurezza, di quella dell' uomo dotto, al quale non par di pensare, se non analizza e divide ogni sua argomentazione in varie proposizioni, e se non le pronuncia tutte ad una ad una; quando l' uomo della plebe le trascorre con uno sguardo mentale, e, all' insaputa degli altri e di se stesso, afferra in un baleno la conclusione, che sola pronuncia e sola sa pronunziare. E sapendo questo, il nostro filosofo non affermerà più con tanta sicurezza, com' egli faceva, che la moltitudine suol dare l' assenso all' evangelica predicazione senza motivi di credibilità, o senza avervi adoperato il ragionamento; perchè vedrà esser troppo possibile, anzi certo, che molte volte vel dee avere usato, benchè non a modo degli scienziati, ma al suo proprio, non meno valido: essergli poi del tutto impossibile l' affermare che non ve l' abbia usato. Laonde l' uomo che filosofa di buona fede con questa discussione si potrà facilmente convincere, che le credenze della cattolica religione non iscemano la libertà del filosofare, perchè questa non viene scemata, se non da quell' ingombro, che gli errori fanno alla mente. Ora se egli discute i motivi di credibilità, i quali non ricusano alcun ragionevole esame, e se li trova efficaci, è già obbligato a conchiudere che quelle credenze non sono erronee, ma altrettante verità. Nè queste verità potrebbero impedire il pensiero, nè manco se fossero ricevute dagli altri uomini a modo di gratuite prevenzioni, perchè non cesserebbero per questo dall' esser vere, e il vero, lo diremo ancora, non può nuocere al vero. Ma questo stesso è un pregiudizio erroneo di molti di quelli che si dicono filosofi liberi, il credere cioè che sieno così ricevute; quando in quella vece gli uomini che prestano il loro assenso alla predicazion del Vangelo, hanno a guida, come abbiamo detto, una luce interiore, che dà loro quasi un senso intellettuale a percepire e gustare la verità, che in essa si trova, ed una facoltà di pronunciare veritieri giudizŒ, di ordire altresì sui motivi d' assentirvi efficacissimi, benchè complessivi, ragionamenti. Nè mai la fede, o la Cattolica Chiesa che la propone, ha messo limiti al pensiero, ma solo ne ha proscritto l' abuso, che non è altro che un impedimento del pensiero medesimo. Anzi i Padri della Chiesa hanno trovato nella fede cristiana uno stimolo, dirò di più, un' obbligazione di svolgere più ampiamente, che non sia stato mai fatto prima di essi, l' intelligenza; non già temendo le conclusioni che ne potessero uscire, quasi alla fede potessero esser contrarie, certi anzi di trovarle sempre alla medesima fede consonanti, di scoprire testimonianze nuove a favore di essa, luce aggiunta a luce, da rendere il giorno più chiaro. Arrecherò a conferma di ciò la sola testimonianza dell' Aquila de' Padri latini. Il quale in una sua lettera riprende gravemente Cosenzio, che voleva fare andar la fede da sè, disgiunta dalla ragione; e fra l' altre cose gli scrive così: [...OMISSIS...] La fede dunque non può stare senza la ragione, di cui è la luce completiva, come il perfetto non può stare senza il suo rudimento, quantunque la ragione naturale, appunto perchè rispetto alla fede è un cotal rudimento, può stare senza la fede. E però l' effetto della fede cristiana introdotta nel mondo fu quello di dare uno inaspettato, maraviglioso, infinito sviluppo alla ragione umana, e di mutar faccia alle nazioni che l' abbracciarono, mettendo nelle mani di queste lo scettro di tutta la terra, uno scettro non materiale che facilmente si spezza, ma spirituale, che dominando la materia, non ha da temer nulla da essa. E di che s' insuperbisce cotanto oggidì il genere umano se non di quella civiltà, che nelle sole nazioni cristiane ha il suo seggio, e il suo stabile domicilio? E guai ad esse se s' insuperbiranno troppo di quella luce, che esse debbono all' umiltà della fede! Chè la superbia adduce seco l' ingratitudine; e dove in queste ingiustizie insolentiscano [...OMISSIS...] potrà loro accadere che di quello splendido effetto, che fa lor nascere per vana gloria il capogiro, perdano la causa, cioè la fede; e la perenne sorgente della civiltà stessa e della luce inaridisca nel mezzo di loro. Tant' è lungi dunque che la fede cristiana tolga la libertà alla ragione, e le impedisca di svolgersi, che anzi quella aggiunse agli uomini uno stimolo fortissimo all' onesto e legittimo uso di questa, vi aggiunse un' obbligazione novella di trafficare con più industria e sollecitudine quel talento, pel quale, come dice S. Agostino, Iddio li creò più eccellenti delle bestie e simili a se stesso, e coll' uso del quale devono dalle cose animalesche dividersi, ed avvicinarsi alle divine, dove sta la causa della loro dignità. La ragione da quell' ora potè camminare più sicura, perchè più robusta, e mutò i passi vacillanti di un bambino in quelli di un gigante: la nuova luce divenne il criterio, e quasi il paragone dell' antica, e non solo questa sentesi più coraggiosa in tal compagnia, ma ben anco di più acuta vista, e chiaroveggente. Laonde le stesse verità che appartengono alla ragion naturale entrata la fede nel mondo, divennero più luminose, e talora così evidenti da divenire un problema per noi difficile a sciogliersi, come prima o non sieno state vedute dagli uomini, o abbian potuto sembrar loro dubbiose. Ed è un' osservazione fatta più volte, e facile a farsi, che gli scrittori gentili di morale, che fiorirono dopo Cristo, si vantaggiano immensamente su tutti quelli che fiorirono innanzi. Chè quantunque non ricevessero la fede, e però rimanessero ciechi alle verità soprannaturali, tuttavia parteciparono di quello splendore, che la fede stessa avea diffuso sulle verità naturali. Perocchè nel Cristianesimo si contengono le une, e le altre, le naturali, e le soprannaturali, e la fede che raggia di sè queste ultime, illumina quelle prime. Laonde anche al presente quelle nazioni che rimangono fuori della Chiesa, quanto si trovano collocate più da vicino alle nazioni cristiane, tanto più prendono del riflesso, che manda loro il lume del Cristianesimo, e s' avvera anche in questo modo la profezia d' Isaia, che dopo aver invitato il Salvatore a sorgere come il sole sopra Gerusalemme, aggiunge, che le genti cammineranno al suo lume, e i Regi allo splendor del suo nascere (1). Ma a chi, anche dopo tutto ciò, dubitasse non forse la fede ponga qualche impedimento al libero esercizio della ragione, io favellerei in questo modo: E` chiaro che dalla fede non può venir alcun impedimento alla ragione, se qualche principio, o deduzione di questa non si trovi in contraddizione con qualche articolo di quella. Perocchè qualora niuna contraddizione intervenga, è necessario che o tutte e due, la fede e la ragione, camminino di conserva, e riescano alle stesse verità, o che l' una non s' incontri sulla stessa strada coll' altra, e quindi non s' urtino, nè s' impediscano. Se vanno di conserva alle stesse verità, invece che l' una pregiudichi all' altra, si giovano reciprocamente: se vanno scompagnate, di maniera che l' una investighi un ordine di verità, e l' altra ne proponga un altro, ciascuna allora compie l' opera sua indipendentemente, e liberamente, senza possibilità di conflitto. Perocchè non possono cadere in conflitto, e in contraddizione, a ragion d' esempio, due matematici, che risolvano due problemi diversi, ma bensì due che risolvono lo stesso problema in modo diverso. Ora in questi diciannove secoli da che il Vangelo fu predicato nel mondo, e ne' quali la ragione fu in continuo esercizio, e fruttò tante scienze e tante scoperte, quante non ne diedero i quaranta secoli anteriori a Cristo, in tutto questo tempo dico, dove la fede cristiana ebbe a lottare con ogni maniera di nemici, e con tutte le cavillazioni, che seppe trovare lo spirito dell' empietà, comparve mai una contraddizione certa e dimostrata fra una verità di ragionamento, e una verità di fede? Mai. Furono bensì prodotte delle apparenze di contraddizione, delle conghietture: ma messe ad un serio esame, tutte si trovarono, si dimostrarono vane ed illusorie: non v' ebbe una sola delle credute contraddizioni, che sia stata riconosciuta tale, e che abbia avuto l' assenso concorde degli intelligenti. Che se questa ci fosse, o ci potesse essere, è egli verosimile che in tanti secoli, con tante prove, con tanti sforzi d' ingegni ostili al Cristianesimo, non si sia trovata, non s' abbia potuto rendere evidente ed irrecusabile? Nè pur una sola? E a malgrado che il Cristianesimo insegni senza esitare, e senza investigare, tante cose le più sublimi, cose nuove, che non furon mai dette prima e non le insegni come conghietture, al che solo arrivava l' ardire de' più gran filosofi, quando toccavano di quelle cose, ed anzi non tema di rispondere subito e francamente a qualunque questione riguardante i supremi destini dell' umanità? non s' abbia potuto trovare una contraddizione del cristianesimo nè con se stesso, benchè egli non muti dottrina giammai, e perciò non ritratti, non nasconda mai nulla di sè; nè colla ragione, benchè sotto la sua influenza si sviluppi del continuo, e faccia nuove scoperte, ed abbia anche frequente bisogno di emendare i suoi risultamenti, i quali così si mutano e si accrescono di secolo in secolo? Tant' è! Tutti gli sforzi per cogliere il cristianesimo in una sola contraddizione con se stesso, o co' principŒ della ragione, o colle necessarie lor conseguenze, sforzi mille volte ripetuti, tornarono affatto inutili, rimasero solo argomento palmare dell' ignoranza e della fallacità di que' sapienti del secolo, che li facevano; a tale, che quantunque degli increduli ve n' abbiano sempre, perchè Iddio lasciò l' uomo libero di dare, o negare l' assenso alla fede, volendo dagli uomini un ossequio spontaneo, e lor proprio; tuttavia essi non sogliono più assalire seriamente da questo lato la cristiana, e cattolica religione, non più tentare di mostrarla in conflitto colla ragione, sfiduciati di poter indicare una sola contraddizione fra essa, e i dettami certi della ragione. E pure il cristianesimo si è presentato al mondo in modo assoluto, dicendo implicitamente agli uomini: « Se voi potete trovare una sola contraddizione vera, e apoditticamente provata, rigettatemi. » Questo è il patto sottinteso, dirò così, anzi è la sfida che fanno tutti i Teologi cattolici ai filosofi, e ai sapienti del secolo, e il patto fu sempre mantenuto, e per quantunque que' filosofi si limassero il cervello per trovarli in fallo, non ne sono mai venuti a capo, come dicevamo; i teologi hanno sempre vinto pienamente quella sfida. Odasi che cosa accorda alla ragione S. Tomaso: « « Quelle cose che sono insite naturalmente alla ragione, è noto che son verissime, di maniera che non è nè pur possibile di pensare che sieno false »(1) », e un commentatore osserva qui, che « « ne' primi principŒ è virtualmente contenuta la notizia di tutte l' altre cose conoscibili coll' investigazion naturale »(2): » di che consegue, che il non contraddire alla ragione s' accetta dai cattolici come una condizione indispensabile e necessaria alla fede, e si concede, che se questa contraddicesse a' primi principŒ della ragione, e alle conseguenze da questi logicamente dedotte, non si potrebbe dagli uomini ammetter per vera. Che si vuole di più? E quel grande dottore delle scuole cristiane conferma la stessa condizione con quest' altro principio: « La cognizione de' principŒ noti per natura è in noi inserita da Dio, il quale è l' autore della nostra natura. »Di che consegue, che la fede cristiana non verrebbe da Dio se ella fosse in contraddizione con que' principŒ della naturale ragione, o colle loro conseguenze. Lo stesso egli argomenta dall' assurdo che ci avrebbe, qualora Iddio dopo aver dato all' uomo la ragione, gl' imponesse una fede contraria alla medesima, guastando così l' opera sua, cioè impedendo l' intendimento umano dall' emettere i naturali suoi atti, e quindi dal pervenire alla verità, perocchè « contrariis rationibus , » dice sempre S. Tomaso, « intellectus noster ligatur, ut ad veri cognitionem procedere nequeat . » Laonde, secondo i cattolici, la libertà intera lasciata alla ragione è una condizione necessaria della verità della fede, perocchè quando la fede si dovesse tener per divina, benchè in contraddizione colla ragione, s' imporrebbe all' uomo un' obbligazione impossibile, ed anzi si legherebbe del tutto la sua attività razionale; chè egli non potrebbe determinarsi a prestare l' assenso nè all' una, nè all' altra, così rimanendosi privo del vero; non alla fede, essendo impossibile all' uomo il rinunziare ai principŒ della ragione; non alla ragione, non potendo egli opporsi alla fede, nell' ipotesi, che fosse tuttavia divina; non ad entrambi, perchè in contraddizione; [...OMISSIS...] Ella stessa dunque, la religione cristiana, professa prima di tutto di non essere in contraddizione colla ragione: ella stessa c' insegna, che quando una religione qualunque si potesse convincere di contraddizione co' principŒ della ragione, o colle loro legittime conseguenze, sarebbe falsa, non sarebbe religione, ma superstizione: ella stessa ci dà in mano questo criterio per distinguere le religioni false dalla vera; con questo criterio appunto ella convince l' altre religioni di falsità, e contro i sofisti, che si assottigliarono per mostrare in essa una tale contraddizione, si difende, e si è sempre difesa colle sole armi della ragione, dimostrando efficacemente, che quella pretesa contraddizione che le si opponeva non era tale per modo alcuno, di maniera che la necessità della concordia della ragione colla fede, è insegnata dalla stessa fede, è un punto essenziale della religione, e la Chiesa cattolica diffinì questo punto anche nell' ultimo concilio di Laterano. Laonde quelli che credono alla fede cristiana, credono necessariamente anche alla ragione, e nello stesso tempo che essi, fermi nella loro fede, ritengono e sanno, che qualunque affermazione contraria alla fede è per ciò solo falsa, non dubitano punto di dire a quelli che non credono: « Se voi giungete a dimostrare apoditticamente colla ragione una proposizione qualunque, statevi certi, che la fede cristiana non v' insegnerà mai nulla di contrario, non avrete ad incontrare con essa alcuna lotta, perchè la fede cristiana si professa alla prima di ricevere, e di ammettere, quasi preliminari, tutte, qualunque sieno, le verità della ragione ». Che se questa è la dottrina del cristianesimo, chi potrà più dire colla minima apparenza di verità, che i cattolici non possano esser filosofi liberi, e che la cattolica religione impedisca, o leghi il libero e pieno sviluppo dell' umana intelligenza? Chi dicesse ciò mostrerebbe chiaramente d' avere la mente preoccupata dall' errore, e dall' ignoranza della fede cristiana, e non sarebbe più filosofo libero egli stesso. Sono appunto i filosofi non liberi, i filosofi servi dell' errore, per lo più ignoranti della cristiana dottrina, quelli che invidiano alla nostra libertà, e tramutando i nomi alle cose, vogliono far passare per una servitù quella fede che ha liberato il pensiero. Non credo necessario che qui io mi trattenga a togliere l' obbiezione tratta da' misteri, obbiezione volgare, che non può esser proposta in buona fede da un filosofo, e che fu sciolta le mille volte. Il fonte de' religiosi misteri è l' infinità incomprensibile di Dio. E che Dio sia infinito, e però eccedente l' intelligenza umana, che è finita, è la semplice ragione che lo dice e lo dimostra. Laonde i religiosi misteri non sono esclusivamente della fede cristiana, ma si trovano ugualmente in qualsiasi teologia naturale, che è una scienza puramente filosofica. Se dunque bastasse trovare de' misteri nella fede per rigettarla, sarebbe necessario di rigettare prima la ragione che li propone egualmente, e vi dice perchè vi sieno, e perchè vi devano essere. Confondere poi il mistero colla contraddizione è uno di quegli sbagli grossolani, che fa la sola ignoranza, non la vera filosofia. Si dice avervi un mistero quando in una data proposizione v' ha qualche cosa che non s' intende, che non può intendersi da una ragion limitata. Non è già che in quella proposizione non s' intendano molte cose, ma basta che ne resti una inintelligibile. S' intendono gli argomenti che la dimostrano vera, quella proposizione, procedano essi dalla ragione o dall' autorità. Così la proposizione: « Iddio è infinito »si prova esser vera anche con argomenti somministrati dalla sola ragione, e pure l' infinito non si comprende, è un mistero, è il complesso di tutti i misterii. La proposizione « un solo Dio è in tre persone » si dimostra vera coll' argomento cavato dall' autorità di Dio rivelante, e la rivelazione si prova anche con argomenti somministrati dalla ragion naturale. Ma come un solo Dio sia in tre persone, questo riesce incomprensibile, è un mistero, benchè la natura stessa somministri delle analogie di questo mistero. In tali proposizioni misteriose, oltre gli argomenti che ne provano la verità, molte altre cose s' intendono colla ragione. Per esempio, s' intende, benchè non appieno, che cosa sia Dio, che cosa voglia dire infinito, uno, trino, essere; ma resta qualche cosa di non inteso, poniamo resta non inteso il nesso de' termini, il modo, come la cosa sia così (1): perocchè non avviene già sempre, nè anco nelle cose naturali, che quando la ragione ci dimostra che una cosa è, ci dimostri anche in che modo ella sia. Così accade, che noi vediamo un fenomeno, un avvenimento, e che tuttavia non lo sappiamo spiegare perchè ne ignoriamo la causa, il che è frequentissimo. La ragione umana dunque ignora molte volte, ma non si contraddice mai: quando d' una data cosa, di cui conosce qualche parte, ne ignora qualche altra, e per quanto faccia non può venire a conoscerla, allora si dice che c' è un mistero , ma non una contraddizione. La contraddizione importa sempre un errore, non così l' ignoranza, chè chi ignora, non erra, non nega il vero come fa l' errante. E` dunque manifestamente un' obbiezione puerile l' addurre i misteri come esempio di contraddizione della fede colla ragione. Se ciò fosse non sarebbe la fede quella che contraddirebbe alla ragione, ma sarebbe la ragione quella che contraddirebbe a se stessa; perocchè l' ignoranza è propria della ragione; chè è la ragione quella che ignora: le limitazioni sono attributi del soggetto a cui appartengono, e l' ignoranza è una limitazione della ragione. Se la ragione umana non fosse limitata non incontrerebbe misteri nè nella natura, nè nella fede: questi dunque non si devono attribuire nè alla natura, nè alla fede, ma alla ragione umana che è limitata. Che se la fede aggiunge delle altre verità misteriose a quelle che la ragione trova nella natura, questa è una nuova ricchezza che la fede medesima dona alla ragione, la quale in quelle verità della fede intende sempre qualche cosa, se non tutto; e applicandosi a quelle (ed è materia degnissima e sublimissima) essa può, aiutata dal lume divino, esercitarsi, e penetrare sempre più addentro, e intenderne sempre più, di manierachè gli stessi misterŒ sono fonti d' inesauribile luce, benchè non si possa mai intendervi tutto, e la medesima ragione il sa in precedenza, e nol pretende, perchè essa conosce la limitazione sua propria, e l' assoluta infinità dell' oggetto. Ma v' ha più ancora, chè la ragione medesima è quella che sentendo d' esser fatta per l' infinito, benchè nol possa comprendere, si slancia in esso come può quando non ha la fede, e molto più quando gli viene offerto dalla fede, conscia di non poter trovare la sua quiete, se non tuffandosi in quel pelago luminoso, nè la piena sua vita, se non perdendosi in quell' abisso (1). E che tutte queste cose non sappian coloro, i quali servi di prevenzioni contrarie alla fede cristiana, non si curano di conoscerla e di farne studio profondo (onde la condannano ignorata ed inaudita), questo non può far maraviglia. Ma è a stupire, e più ancora a dolersi, che alcuni cristiani, e cattolici, i quali professano la pietà, disconoscano anch' essi da questo lato la propria fede, e le facciano un gravissimo torto, facendolo insieme alla verità, in cui non confidano bastantemente: parlo di quelli, i quali si stanno sempre in su un cotal sospetto, e quasi in un femminil timore del naturale ragionamento, come se col legittimo uso di questo potesse pericolare mai la loro fede. Cotestoro inceppano pur troppo il proprio pensiero e l' altrui; non sono questi nè i veri filosofi cattolici, nè i veri teologi di cui parlavamo (1): nè egli è giusto nè ragionevole, che sulla meticulosa ignoranza d' alcuni, che autorità non hanno, si faccia giudizio della relazione tra la Fede cattolica, e la Filosofia. Spaventati soverchiamente dall' abuso, questi osteggiano l' uso stesso del ragionare: altri dal medesimo abuso, che di tanti errori, e di tanti deliri fu padre, deducono, che il naturale ragionamento non può fornire all' uomo alcuna certezza, e così risuscitano il sistema sopraccennato di Cosenzio, già confutato da S. Agostino. Ma il rispettabile signor Bautain, che deluso nella speranza di trovare ne' sistemi filosofici della giornata la verità s' era troppo sfiduciato della Filosofia, e avea riproposto quell' antico sistema, che, segregata la ragione, nella sola rivelazione ripone il vero ed il certo, s' avvide ben presto, che con questo egli s' allontanava dalla dottrina della Chiesa cattolica, che credea sostenere, e si ritrattò del suo errore, la stessa fede riconducendolo alla ragione. Come poi questo filosofo, perchè fedele discepolo alla Chiesa, ritornò discepolo altresì alla ragione; così per l' opposto nel secolo XVI gli autori della falsa Riforma in Germania (si ponga ben mente), abbandonato il magistero della Chiesa cattolica, ripudiarono con esso la stessa ragione. Chè in qualsiasi modo s' interpretino le tesi che Lutero difese l' 11 gennaio 1539, certo è che in esse la naturale ragione è depressa, quasi contraria alla rivelazione (2); come pure è certo, che, a quella scuola educato, Daniele Hoffmanno, e i due suoi discepoli Giovannangelo Werdenhagen, e Venceslao Schilling riprovarono apertamente la filosofia, e la coltura della ragion naturale, onde sollevataglisi contro la facoltà filosofica dell' Università di Helmstadt, l' Hoffmanno fu obbligato ad emettere una dichiarazione pubblica, riconoscendo il suo errore, per decreto del Duca Giulio Enrico di Brunswik del 16 febbraio 1601 (1). E la ragione così spregiata s' indebolì a tal segno nelle menti di que' primi settari, che non sapevano più vedere, e però negavano la differenza intrinseca del bene e del male, e alla sola positiva rivelazione l' attribuivano, sottraendo così alla morale il primo suo fondamento (2). Staccarsi dunque dalla Chiesa cattolica, e prendere la ragione a calci fu tutt' uno: il che non avrebbero potuto fare senza riprension della Chiesa, ma poichè non vollero udire la sua voce nè pure vollero udire quella ragione, che all' autorità della cattolica Chiesa gli avrebbe conciliati (1). Ora che ne riuscì? La natura compressa risaltò, e dell' oltraggio si vendicò crudelmente: i protestanti che avevano prima degradata la ragione a pro, come si credevano, della fede, in appresso, con un errore opposto, degradarono la fede a pro della ragione; di maniera che i discepoli condannarono i maestri, come i maestri aveano già in precedenza condannati tali loro discepoli. Così rompendo sempre negli eccessi, con quello spirito esclusivo che hanno tutti gli errori, mentre aveano incominciato la riforma con un cieco misticismo, e positivismo , finirono con un altrettanto cieco razionalismo ; dissero di non voler più altra guida che la ragione, ma la ragione com' essi la intendono, com' essi la fanno, nuda, disarmata, limitata arbitrariamente a quel genere di materia che loro piace lasciarle in dominio, cioè ai veri naturali, escluso l' ordine dei veri soprannaturali. E questi razionalisti credettero con ciò d' avere aperti gli occhi, e d' essere divenuti simili agli Dei. Se non che avvenne loro ben presto un caso spiacevole: che furon banditi dal paradiso terrestre. Perocchè tanto innalzarono l' umana ragione, tanto la restrinsero in se stessa (vollero fin anco che ne' suoi visceri rientrassero tutte le cose dell' universo, e tutte ne uscissero); che ultimamente s' accorsero che ella moriva loro in mano di replezione, o, se par meglio, per oppressione, come la moglie del levita di Efraim. Infatti la filosofia Germanica discendente in linea retta dal protestantismo, dopo di aver promesso di sè al mondo cose miracolose, si spense in un desolantissimo scetticismo, o certo ella s' addormentò in un sogno panteistico, e l' ultima sua parola fu: « Io ragione non posso conoscere cosa alcuna eccetto me stessa »! Che se noi vogliamo esprimere con altre parole, e con altra similitudine lo stesso fatto diremo, che la ragione in mano di quelli che si tolsero alla Chiesa, si consacrò vergine vestale nel tempio che le eressero, ond' ella non può oggimai aver più figliuoli senza violare, sacrilega, i proprŒ voti. Non è per fermo questa la ragione libera; non è la ragione libera e feconda del Cattolicismo; ma è la ragione che dicono libera coloro, che dal Cattolicismo si dividono. La scelta e il giudizio di queste due libertà a quelli che non hanno ancor perduto il senso comune. Certo è cosa naturale anzi doverosa che un uomo, il quale vuol applicarsi allo studio della Filosofia in Europa, in presenza di un' autorità così grande, così solenne, come è quella della Chiesa cattolica, venerata e ubbidita da milioni di discepoli diffusi in tutta la superficie del globo, fra i quali si contano sublimi intelligenze, cultori esimŒ di ogni maniera di dottrina; un' autorità, che con assoluto magistero favella a tutto il mondo già per un corso di diciannove secoli, e per tutto questo corso è ascoltata da sempre nuovi discepoli, la cui voce persuasiva non è mai vecchia non mai affiocchita per qualunque opposizione e contrasto le muova tutto ciò che nel mondo si reputa forte, prudente, sagace; un' autorità, a cui è dovuta per consenso di tutti la civiltà europea, nella luce della quale egli vive, è doveroso, dicevo, che un uomo che vuole applicarsi alla Filosofia in mezzo ad una tal società, e in presenza di una tale autorità che a lei presiede, qualunque sieno le sue opinioni o prevenzioni, incominci dall' esaminare in quali relazioni si trovi la filosofia, e la libertà della ragione umana con essa autorità, cioè colla cattolica Chiesa. E se questo si facesse da quei che filosofano n' avrebbero il risultato, che noi stessi n' abbiam dato più sopra, cioè la libertà del pensiero, e questa libertà protetta, e in molte maniere aiutata. Ma qualora questo esame non si faccia, o non si faccia seriamente; che altro rimane, se non la prevenzione che, per quanto sia antifilosofica, è tuttavia così frequente, diciamolo pure colla franchezza d' una esperta persuasione, e così comune ne' filosofi? Che cosa sogliono mai fare molti di quelli che così si chiamano? Invece di ricercare qual sia la dottrina della Chiesa cattolica intorno all' uso della ragione, che è la sola questione importante, essi s' appigliano alla sentenza di qualche scrittore particolare, che, quantunque cattolico, non rappresenta la Chiesa cattolica, e non ne esprime con accuratezza l' insegnamento; e della sentenza di questo particolare scrittore fanno un sistema, e gli danno un nome che egli stesso non gli ha dato, un nome equivoco ed improprio, e contro questo nome, contro questo nemico della filosofia creato da se stessi, e resosi a bella posta una fantasima spaventosa, menano i loro colpi, i quali appunto perchè la fede cattolica vi è sempre taciuta dove dovrebbe essere nominata, par che s' indirizzino a questa. E un tal lamento mi spiace di doverlo fare altresì a quell' eloquente scrittore di Vittore Cousin, che con tanto amore, con tante fatiche tentò di promuovere in Francia lo studio della Filosofia. Vedete come nella prefazione al manuale del Tennemann, anch' egli dissimula la questione importante della relazione fra il ragionamento filosofico e la fede, e in quella vece vi parla d' una scuola teocratica , dando evidentemente questo nome al Bautainismo, cioè a una sentenza, che non è quella della Chiesa cattolica, e che fu rivocata dallo stesso suo autore, perchè da lui riconosciuta contraria a quella della Chiesa medesima: egli vi parla della secolarizzazione del pensiero, parola di partito, insensata, e indegna di un filosofo: egli vede nel fantasima che s' è creato della scuola teocratica un nemico, che vuole arrestare la civiltà e distruggere la Filosofia: egli vi butta là una sentenza, che può esser vera, e falsa, che in fatti non è nè vera, nè falsa, perchè non ha senso preciso, dove dice: « « La teocrazia è la culla legittima delle società nascenti; ma non le accompagna nel progresso del loro sviluppo, progresso necessario, che deriva dalla natura delle cose »(1). » Che se per teocrazia intende un' autorità divina, la sua proposizione è manifestamente falsa, e contraddittoria, se pur fra le cose non voglia negare il suo posto a Dio, che è la prima di tutte le cose, e di tutte le nature, anche ascoltando solo la filosofia, e, come io credo, anche ascoltando quella che professa il nostro filosofo. A che dunque questo armeggiare all' aria? che voglia è questa di battagliare contro nemici che non esistono? E in ogni caso, se voi temete di quelli che vogliono separare la fede dalla ragione, ripudiando quest' ultima, non sarebbe stato più semplice e più convincente, che vi foste limitato a dire a costoro: « Voi altri siete gente da non temere, perchè non avete per voi nè il suffragio della filosofia che rifiutate, nè quello della fede cattolica, a cui vorreste attenervi, e da cui siete rifiutati; chè questa è l' amica intima della ragione, e della filosofia. » Convien dunque qui ripetere che al filosofo della civiltà è necessario prima di tutto risolvere la questione dell' accordo fra la ragione, e la fede, che sono i due elementi indivisibili de' popoli civili. E senza aver riconosciuto questo accordo sin da principio, non avrà il filosofo autorità sui suoi contemporanei; chè la civiltà cristiana, la sola civiltà che esista, e che sia mai esistita, udirà la sua voce con ragionevol sospetto; o certo egli non potrà dare una dottrina filosofica proporzionata all' altezza del suo secolo. Verrà forse da questo, che la Filosofia si confonda colla fede, o viceversa? No: chè la fede è tutt' altro dalla filosofia. La fede è un volontario assenso prestato all' autorità di Dio rivelante, in qualunque modo poi si conosca quest' autorità. La filosofia è una scienza, la quale investiga le ultime ragioni delle cose, e da queste ultime ragioni deduce le conseguenze, di maniera che alla filosofia è necessario il ragionamento esplicito, il quale non è necessario, come abbiam veduto, alla fede. La fede contiene delle verità che possono esser date altresì dalla filosofia, e provate col naturale ragionamento, ma ne contiene ancora di quelle, che, senza contraddire giammai a questo, superano le sue forze. La fede ha una sola ragione, ma potentissima, in cui si fonda, quella dell' autorità di Dio rivelante, ma questa non condanna, non esclude, anzi apprezza le altre ragioni: la filosofia trae le sue ragioni unicamente dall' intima natura delle cose, e dai nessi che hanno fra loro; ma queste cose su cui argomenta la ragion filosofica, non sono già create dalla stessa filosofia, ma le vengono dal di fuori, le sono date, e se non le fossero date, mancherebbe alla filosofia la sua materia, la filosofia non esisterebbe più. Il Creatore diede questa materia alla filosofia colla formazione dell' universo, ma lo stesso Creatore dando la fede agli uomini, diede una nuova materia al filosofico ragionamento. Questa nuova materia non distrugge la prima, ma la accresce e la completa. Laonde come la natura presta la materia ad una prima filosofia, così la fede presta la materia ad un' altra più sublime filosofia, che non distrugge, ma amplifica e compie la prima. La fede così resta sempre indipendente dalla filosofia, e bastevole a se stessa, bastevole a tutti gli uomini. Ma non è per questo ostile alla filosofia, che è ricchezza di pochi, anzi ella tiene il suo luogo frammezzo a due filosofie, ad una filosofia naturale che la precede, e ad una filosofia soprannaturale che la sussegue, e quasi paciera fra esse, e mediatrice ne congiunge le destre. Chi poteva comunicare una fede, che avendo tanta dignità stesse in tanta armonia colla natura, e colla ragione umana, se non il Creatore dell' una e dell' altra? Ma tornando a quelli tra cattolici, i quali non intendono come la fede supponga la ragione (chè, come dice Agostino, noi non crederemmo se non avessimo anime ragionevoli), e come la fede e la ragione scambievolmente si giovino, per uno stolto amor della fede sono alla ragione molesti, noi n' abbiamo distinte due classi, l' una di coloro, che, temendo le illazioni della ragione quasi potessero essere contrarie alla fede, astiano lo sviluppo di quella, i quali noi possiamo chiamar timidi : l' altra di coloro, che avendo perduto ogni fiducia nella ragione, e non credendola atta ad accertare la verità; e questi, il sistema de' quali è indebitamente chiamato teocrazia dal Cousin, noi possiamo chiamare sfiduciati . A queste due classi principali si può aggiungerne una terza, niente migliore delle precedenti, quella degli indifferenti , i quali professano questo singolar principio: « Non conviene aderire ad alcun sistema di filosofia: chè ogni sistema è buono quando non s' opponga alla fede, e convien servirsi di tutti in servigio della stessa fede ». La qual proposizione a chi, se la esamina, non parrà strana ed assurda? chè certo niuno può ammettere quella proposizione, se non ad una di queste due condizioni: o che egli stimi, che in diversi e contrarii sistemi giaccia ugualmente la verità, e così non ci sieno due sole verità, come dissero assurdamente taluni fra protestanti, ma molte verità fra loro contradditorie, cosa più assurda ancora; ovvero che egli reputi indifferente il vero ed il falso, cosa assurda, e stolta altrettanto ed immorale. E` non meno stravagante il credere, che, avendovi una sola verità, e però non potendo esser vero che un solo sistema filosofico, tuttavia gli altri sistemi, necessariamente falsi, possano ugualmente accordarsi colla fede, e colla teologia cristiana, e a questa prestare aiuto (1). Certo per me ho sempre creduto, o piuttosto il genere umano intero ha creduto, che una sola sia la verità, e che come il vero non può essere opposto al vero nè nuocervi, così il falso sia opposto al vero e gli pregiudichi; e quindi non ho mai compreso quale utilità possa cavare la cattolica verità dai falsi sistemi di filosofia. Ancora io ho riputato un dovere morale per l' uomo amare quella verità una, che non può mai essere amata abbastanza, e quindi medesimo mi sarebbe parso d' operare contro coscienza se non mi fossi appigliato ad un solo sistema, a quello nel quale mi parve di vedere contenuta la verità, lasciando però fare il contrario a coloro che per qualsiasi ragione non possono formarsi una ferma persuasione (e però nè pure un chiaro conoscimento) d' alcun sistema; purchè essi non pretendano di convertire in una legge universale obbligatoria per tutti, l' esitanza del loro proprio intendimento, e quindi non distribuiscano a larga mano la taccia di superbe a tutte quelle menti, che non sanno trattenersi nell' incertezza, dalla quale non trova onde uscire la loro. Quanto a me io confesso, che la luce della verità mi colpì vivacissima e brillantissima, e che sarebbemi stato impossibile di fare altramente da quel che ho fatto. Laonde se mi resta il biasimo di cotestoro, non mi resta però il rimorso d' aver resa duplice la verità. Le quali parole bastano a rispondere ad alcuni, che m' hanno più volte fatto questo rimprovero di seguitare un solo sistema, quasi che il far questo fosse cosa immodesta ed orgogliosa, come veramente ne pareva a que' censori, i quali affermavano, che coll' abbracciar io un unico sistema; venivo a condannare tutti gli altri concepiti da uomini di altissimo merito: il che io nè posso nè voglio negare, ma scusarmene, opponendo loro l' impossibilità di fare altrimenti, per aver io trovata la verità così altera, e così impolitica, che vuol sempre esser sola, e si ricusa d' essere in due: de' quali costumi della verità io non ho colpa. Tale è la limitazione dell' uomo, che quand' egli è occupato d' alcuna cosa di suprema importanza si rende facilmente, senza avvedersene, ingiusto con altre cose d' importanza minore. E però se non sono in questo lodevoli, sono però in qualche modo scusabili que' teologi (e son pochi, e di minor conto), i quali pare che dieno poca importanza alla verità filosofica, e, invece di cercare qual sistema sia vero, credono meglio d' appigliarsi or all' uno, or all' altro, anche de' più contrarŒ, e sembra loro troppo esclusivo colui, che, coerente a se stesso, ne accetta uno solo. Ma se questo facilmente si spiega, è inesplicabile per l' opposto com' essi trovino imitatori tra quelli che s' applicano di proposito agli studi filosofici. Chi potrebbe credere, che fra questi professori della Filosofia si trovasse alcuno, il quale ignorasse, che il sistema della verità filosofica non può esser che uno? e che essendo uno solo, gli altri tutti non possono esser che falsi? Chi potrebbe credere, che un uomo il quale si propone d' innalzare la Filosofia al di sopra di tutto, al di sopra della Religione stessa, dichiarasse poi che nell' unicità d' un sistema vi ha il sepolcro della Filosofia? e che confondesse la storia de' sistemi filosofici, che nella massima sua parte è la storia delle aberrazioni dello spirito umano, colla stessa filosofia? La quale sembra che per quest' uomo non sia altro, che un cotale spettacolo di atleti, uno spettacolo, in cui gli errori sotto infinite forme or fanno alla lotta, or giuocano al pugillato, or colla spada, col pugnale, col coltello, e con ogni sorta di armi combattono corpo a corpo colla verità, la quale può esser vinta, ma non deve vincerli mai, che vincendoli, terminerebbe a gran danno degli spettatori il divertimento che si chiama filosofia. Il filosofo che s' è formato questo concetto della sua scienza, somiglia allo storico, che deplora quelle età, che non gli danno a narrare guerre atroci, e dissidŒ civili, e affronti di calamità, o accidenti, e rovine di regni, e di popoli, ovvero a quel principe bellicoso, che ripone l' infelicità del suo regno nella tranquillità della pace. E mi duole d' incontrare nell' illustre autore dell' ecletismo francese delle sentenze simili alle summentovate. Perocchè quanto non ci va egli, per lo meno, vicino, quando considera la storia della filosofia come una lezione perpetua di quel suo ecletismo appunto che vuole esser l' unica filosofia possibile a' nostri tempi (1)? [...OMISSIS...] Ma dopochè voi avrete trovata e distaccata quella porzione immortale di verità che ciascun sistema contiene, vi resteranno ancora i medesimi sistemi? o pretendete che quella porzione di verità immortale, che avete svincolata dall' intero sistema, sia ella sola quel sistema? anche se questa porzione è piccola, perchè voi non dite se questa porzione di verità sia grande, o piccola, od uguale in tutti i sistemi? Se non volete dir questo (che sarebbe strano, che voleste confondere quella porzione di verità che può trovarsi nel sistema col sistema stesso); perchè dunque date l' epiteto d' immortale alla porzione di verità che vi si contiene? Chiamando voi immortale questa sola porzione, venite a confessare implicitamente, che è mortale tutto il resto del sistema: e se questo resto del sistema è mortale perchè non gode di quell' immortalità che è la prerogativa divina della sola verità, che compassione ve ne prende? lasciatelo subire la sua sorte, lasciatelo morire, che anche morto resterà nella storia dello spirito umano. Ed anzi, se volete confessar il vero, non potete far altro, quando pure non v' arroghiate la facoltà di rendere immortali i mortali, o non vogliate far la figura di que' medici che hanno trovato l' elixir vitae che preservava gli uomini dalla morte. Infatti, non molto dissimile a questi, voi vi proponete di salvar dalla morte gli errori, cioè quei sistemi da cui avete succhiato fuori, siccome ape industriosa, il miele della verità; e non contento d' assumere voi stesso un così difficile incarico, lo volete dare anche a noi, che non sappiamo d' avere tanta virtù, ed anzi a tutti, prescrivendo loro « di perfezionare i sistemi l' uno per via dell' altro senza tentare di distruggerne alcuno. »Ma badate che non accada a voi stesso di fare involontariamente quel che proibite. Perocchè i sistemi filosofici rassomigliano sovente a quegl' insetti di così ammirabile e dilicatissima tessitura, che per quanto gentilmente si tocchino colle dita, s' infrangono, e muoiono con gran rammarico dell' osservatore della natura; e però parmi, che voi stesso, benchè protestiate in contrario, facciate un tentativo di distruggere que' sistemi, non solo arrischiandovi di toccarli, ma di più sottomettendogli ad una operazione pericolosissima, qual' è quella che estrae da' loro visceri quella porzione di verità che è la loro anima. E voi stesso lo confessate quando dite: « « L' autorità di questi differenti sistemi viene di qui, che tutti hanno qualche cosa di vero e di buono (1) ». » Dite ancora che « « ciascun sistema per quella porzione di verità che contiene, è fratello di tutti gli altri, e figliuolo legittimo dello spirito umano »; » di che consegue necessariamente, non me lo potete negare, che quando voi gli avete tratto di corpo quella porzione di verità, che è l' operazione che vi proponete di fargli subire, quello che resta dopo tale operazione non è più un fratello degli altri sistemi, nè un figliuolo legittimo dello spirito umano. E, per trarre da questa vostra dottrina un' altra conseguenza, ciò che rimane di quel sistema si può legittimamente seppellire nella storia, come cosa morta, e siete stato voi stesso che l' avete ammazzato, senza mancar di rispetto alla libertà dello spirito umano, il che voi giustamente raccomandate. E che? Pretendete forse, o avete il diritto di pretendere dopo queste vostre confessioni, che la libertà dello spirito umano consista in lasciar sussistere tutti i sistemi filosofici l' uno accanto all' altro, i sistemi più contraddittorŒ, i sistemi falsi, altrettanto quanto il sistema vero, i sistemi misti di falso e di vero, anche dopo aver loro tratto di corpo il vero che contengono? Voi sperate di conservarli nel vostro ecletismo, e promettete che vi staranno in pace, come le bestie nell' arca di Noè, e così camperanno dal diluvio: ma a dir vero voi con questo cadete nel solito errore de' falsi liberali, scambiando la libertà colla servitù; poichè siete voi quello che sotto il nome di libertà imponete allo spirito umano la più irragionevole e tirannica servitù, dichiarandogli, che non c' è da far altro che d' attenersi al vostro ecletismo (1), il quale impone allo spirito umano l' obbligazione (ecco come s' intende la libertà) di non distruggere alcun sistema, e di perfezionarli tutti! Il che è quanto dire, che allora si rispetta la libertà dello spirito umano, quando gli si proibisce d' esercitare il diritto, e d' adempire il dovere che ha di rigettare i falsi sistemi, e d' attenersi al sistema vero, che non può essere, che uno solo! Questa è la libertà, che i nostri filosofi liberali spaventati dalla fantasima della scuola teocratica, che giganteggia nella loro immaginazione, lasciano alla ragione umana. E v' assicurano, che questo è uno onorare lo spirito umano, e che sia così, ve lo provano; ascoltate il loro argomento: « Tutti i sistemi sono tanto vecchi quanto la filosofia, e inerenti allo spirito umano che li produce il primo giorno, e poi di continuo li riproduce: il tentare dunque di distruggere un solo di questi sistemi, che sono tutti creature dello spirito umano, è un disonorare lo spirito umano: dunque per lo contrario è un onorarlo il conservarli tutti ». Peccato che il filosofo, che ragiona così sottilmente, si sia lasciato scappare di bocca, che i sistemi sono figliuoli legittimi dello spirito umano per quella porzione immortale di verità che contengono. Parlando di figliuoli legittimi si suppone che ve n' abbiano anche d' illegittimi, e se la verità è prole legittima dello spirito umano, consegue che la falsità sia la prole bastarda del medesimo: e se la prima è una gloria, non pare che si possa riputare una gloria del medesimo spirito umano la seconda che è figliuola della fornicazione. Laonde il concetto che s' è formato il nostro filosofo dell' onore dovuto allo spirito umano non è più giusto di quello che abbiamo veduto essersi egli formato della libertà. Se non vogliamo impazzire, dobbiam riconoscere che lo spirito umano è fallibile, e però che non sono tutte vere, nè tutte belle le cose che fa questo spirito, e che però colui veramente l' onora, che lo dirige sulla via della verità, dalla quale sola riceve il suo onore e la sua gloria, e non punto quell' uomo superstizioso, che per onorarlo l' adula, e lo trasforma in una divinità, il quale così facendo si rende simile a que' cortigiani, che raccoglievano religiosamente, ed adoravano gli escrementi del loro imperatore. Lungi da noi tanta viltà, e tanta servilità. Noi vogliamo esser liberi seguaci della verità, e non rinunziamo in grazia di checchessia, foss' anche l' ecletismo o 'l sincretismo che ci si vuole imporre a nome della libertà e dell' onore dovuto allo spirito umano, al diritto che abbiamo di tentare la distruzione di tutti i sistemi erronei, e di tutta la parte erronea che ci è dato di discoprire ne' medesimi. Tale è il concetto che noi ci siamo formati della libertà dello spirito umano, e della maniera di onorarlo, e reputiamo che chi non l' onora in questa maniera, lo disonora, forse senza avvedersene. Che cosa è un sistema? L' accozzamento di alcune proposizioni senza nesso fra loro? o si vogliono distinguere i sistemi co' puri nomi de' loro autori senza por mente al contenuto della dottrina? Per noi un sistema non è nè un nome, nè dei brandelli staccati a caso da diversi corpi di dottrina; ma è un principio elevato con tutte le sue conseguenze. Laonde molti di quelli che nella storia della Filosofia si descrivono come sistemi diversi, perchè esposti da autori diversi, e con un ordine diverso, non sono agli occhi nostri diversi, qualora que' corpi di dottrina si possano ridurre ad uno stesso principio. Laonde quegli autori, i quali convenendo in un dato principio, ne cavano conseguenze diverse, e non opposte, o s' applicano a dedurne conseguenze nuove, o s' occupano esclusivamente a svolgere quel principio per un nuovo genere d' applicazioni trascurate dagli altri; questi non sono autori di sistemi nuovi, ma lavorano intorno allo stesso sistema, perchè lavorano a fecondare lo stesso principio. E così i sistemi veramente diversi sono in minor numero che non si creda, quantunque la storia della filosofia, come fu fatta fin qui, e che l' ecletismo francese prende a suo fondamento, ce li moltiplichi. Or poi se il sistema filosofico si contiene in quel principio elevato, onde il filosofo muove tutto il suo ragionare, n' avremo questa conseguenza, che, come il principio del sistema il quale è una proposizione semplice non può esser che vero o falso, non essendovi niente di mezzo fra la falsità, e la verità, così converrà dire, che anche i sistemi diversi non possono essere che veri o falsi, e però o da ammettersi o da rigettarsi. Nè vale il dire, che in ogni sistema v' ha una porzione di verità: perocchè quand' anco s' ammetta una proposizione così universale, e per ciò stesso così gratuita, che è un dire antifilosofica; quella porzione di verità o riguarderà il principio, se il principio è vero, o riguarderà alcune conseguenze, se alcune conseguenze prese da se sono proposizioni vere. Se riguarda il principio, e però questo sia vero, in tal caso tutto il sistema è vero, e le conseguenze false, che s' incontrano non possono essere che mal dedotte e si devono espungere, come straniere al sistema sostituendovi le vere. Ma de' principŒ veri, e de' sistemi veri non ve ne possono esser che uno. Se riguarda le conseguenze, di maniera chè alcune conseguenze prese per sè sieno proposizioni vere ma dedotte (probabilmente mal dedotte) da un principio falso; tutto il sistema è falso, e non si salva il sistema, salvando quelle proposizioni vere che non gli appartengono, e da esso si devono separare, raggiungendole a quel sistema, a cui veramente appartengono, cioè a quell' unico che ha un principio vero. Ond' ella è cosa vana e impossibile far quello che prescrive troppo dispoticamente l' ecletismo francese, non tentare di distruggere alcuno de' sistemi prodotti dallo spirito umano. I quali sistemi, vi dice l' ecletismo, sono inerenti allo spirito umano che li ha prodotti il primo giorno della filosofia e li riproduce senza posa. Sia: ma sono veri o falsi? Ecco tutta la questione della libera filosofia, d' una filosofia che non ammette il giogo delle aberrazioni dello spirito, e che ricusa dichiararsi mallevatrice e pagatrice de' suoi errori, e de' suoi delirŒ, che anzi giustamente si sdegna contro a chi le fa violenza per costringerla a tanta umiliazione, e le va prodigando i titoli di serva, e di teocratica, perchè ella, giusta signora, si ricusa di pagare i debiti de' prodighi e degli scapestrati. Protesta altamente, dice all' ecletismo: « Se i sistemi dell' errore sono inerenti allo spirito umano, come voi dite, ed egli gli ha prodotti il giorno che io sono nata, tal sia di lui, io non gliene ho fatto procura, e se egli ha speso il mio nome, e adulterate le carte, non mi resta altro che dargliene querela di falso. »E veramente il dire, che lo spirito umano fino dall' ora che prese a filosofare ha prodotto tutti i sistemi anche falsi, come dice Vittore Cousin, questo non prova, che si debbano ammettere, e religiosamente conservare; ma piuttosto disvela il peccato originale dello spirito umano, un vizio inerente al medesimo, che l' indebolisce e sommette la sua ragione alle seduzioni dell' errore; il quale vizio non gli può venir dal Creatore, che l' ha fatto per la verità. E non è maraviglia che tornino sempre in campo gli stessi sistemi, quando si sa, che le inclinazioni e le passioni umane che affascinano la ragione, e la fanno servire, sono sempre le medesime, ed hanno leggi fisse nel loro operare. Il signor Cousin producendo la prescrizione a favore dell' errore che tiene in servitù lo spirito umano, imita fuor di proposito gli avvocati che difendono i debitori che non vogliono pagare i debiti, senza accorgersi, che se quella prescrizione vale in legge per il solo foro esterno, in filosofia non è buona nè per l' uno, nè per l' altro foro. Una ragione libera dunque, una filosofia libera ha diritto di sdegnare tutto ciò che è falso, e di congiurare colla verità a distruzione di tutti i sistemi falsi: niuno può impedirla dall' esercitare questo diritto di guerra: ognuno può richiamarvela, se non gli resta fedele. E tuttavia egli è vero, che coloro i quali trattano la verità come una femmina, si adirano sconciamente quando la trovano scompiacente, e ritrosa a piegarsi alle vane e capricciose loro opinioni, e di rusticità l' accusano, « siccis rustica veritas capillis (1) »: è vero ancora (noi non lo possiamo negare senza mentire) che tutti quelli che cercano lei sola, lei sola abbracciano; vengono facilmente in voce d' orgogliosi, perchè di necessità, e contro loro voglia, si trovano in diretta opposizione a tutti gli altri, che non consentono con esso loro nello stesso amore del vero, o che a questo antepongono degli altri amori: e in tutti i tempi dovettero scusarsene agli uomini irritati con esso loro. Se ne dovette scusare lo stesso Socrate, pochi giorni prima di lasciare la vita, per cagione dell' invidia di coloro, che egli coll' insegnamento della verità dimostrava ignoranti, e con Teeteto ebbe a dire: « « Molti oggimai, o maraviglioso giovanetto, sono così mal disposti inverso di me, che vorrebbero lacerarmi co' denti, se alcuna volta io discacciassi da essi qualche ciancia, non istimando che da me si faccia questo per benevolenza, essendo essi troppo lontani dal sapere, che niuno Iddio è malevolo agli uomini. Nè io fo per malevoglienza alcuna cosa somigliante, ma non pare a me lecito in verun modo di accettare il falso, e ribattere il vero »(1). » E veramente questi appunto a cui si appone taccia di alterezza sono i più benevoli, anzi i soli benevoli a tutti gli altri uomini. E sebbene davanti ad essi non v' abbia accettazione di persone o di opinioni, tuttavia ne' loro studŒ preparatorŒ alla filosofia non ricusano punto la storia, nè schifano di riguardare negli altrui sistemi tutto ciò che v' ha di vero, e di sincero, ma non confondono però la storia colla filosofia, e non fanno nè credono poter fare della storia, o colla storia la filosofia. Chè la Filosofia non si stabilisce sopra alcuna autorità, nè pur divina, non che umana; poichè la Filosofia è ragionamento, e non altro che ragionamento. Laonde un' autorità sia pure infallibile può bensì segnalare la via al ragionamento filosofico, acciocchè non si perda, ma non può mai surrogarlo: può, ancorchè non infallibile, eccitare il pensiero di colui che cerca una Filosofia, ma non può prevenirlo, ed escluderlo, quasi non più necessario. E dee pur fare un' altissima maraviglia l' incoerenza di coloro, i quali mettendosi in gran sospetto dell' autorità divina, che loro apparisce siccome una scuola teocratica, dimostrano poi la riverenza più servile alle sentenze de' filosofi, o di quelli che così si chiamano, registrati nella storia, a tal che si fanno coscienza di distruggere un solo de' loro sistemi, per non recare, dicon essi, onta allo spirito umano, che pure non veglia sempre, anzi di quando in quando dormicchia e sogna. Singolar cosa è il vedere introdotta nella Filosofia la riverenza allo spirito umano (ed è la sola riverenza, che conoscono costoro), come se questo, o alcun altro simile sentimento potesse valere assai nel decidere questioni di verità e di falsità. Del resto qualora la storia dei sistemi ci porga altresì colle sentenze de' ragionamenti, questi non possono esser ricevuti nella Filosofia a titolo d' essere storici, ma al solo titolo d' essere veri, e di procedere con logica dirittura; il che è quanto dire, d' essere non di questo, o di quel filosofo, ma della mente, e però una proprietà comune di tutte le menti, rimanendo affatto esclusa dalla Filosofia la questione erudita: qual' individuo abbia il primo veduti que' veri colla sua mente e convenevolmente pronunciati colla sua lingua. Come diceva dunque Socrate che niun Dio è malevolo agli uomini, così anch' io dicevo, che quelli che amano e cercano la verità, cosa divina, che è l' onore dello spirito umano non perchè egli la formi ma perchè n' è informato, sono i più benevoli, anzi i soli benevoli agli uomini, ed ai sistemi stessi da loro inventati; ch' essi soltanto sono quelli che procacciano il vero bene alla natura umana, che dalla verità deriva, e alla verità si riduce, e dentro a' loro sistemi riconoscono volentieri ed amano e prezzano tutto quello che c' è d' amabile, e d' apprezzabile, cioè appunto la porzione immortale di essi, la verità, nella quale sinceramente s' accordano e s' uniscono. Così non fanno coloro, i quali s' imaginano, che lo spirito umano meriti un onore per se stesso, indipendentemente dalla partecipazione della verità, e sembra che onorino questa come una creatura di quello, alla stessa maniera dell' errore, che certamente è una creatura, una pura creatura del medesimo. Costoro, non avendo più alcun punto fermo a cui dirigere i loro affetti, ripongono tutto il bello, la vita, la gloria della filosofia in quel movimento continuo, pel quale diversi, e contrarŒ sistemi nascono e cadono, e ricompariscono senza posa, e s' abbaruffano fra di loro in una mischia che non deve mai finire, acciocchè continui a mostrarsi vivace e rigogliosa la filosofia. Nell' arringo della quale essi si spingono cavallerescamente, non per la pace, ma per la guerra, e per la palma della vittoria, e tuttavia i più bravi fra essi non astiano il valore de' loro compagnoni, chè anzi ne lo magnificano, acciocchè sia più glorioso il combatterli, e nel vincerli spicchi maggior prodezza. Solo quelli che non hanno una cortesia così raffinata si strapazzano a vicenda prima di venire a' colpi, come gli eroi d' Omero. Tutti cotesti dilettanti dell' armeggiare gustano assai che i sistemi filosofici sieno molti e che rimangano sempre molti, acciocchè i tornei riescano più brillanti e spettacolosi, dando luogo a un maggior numero di campioni. E questo spiega perchè fin qui la storia della Filosofia, invece di narrare le avventure di quella Dama, che tutta soletta vince molti cavalieri, cioè dell' unica verità, che giostra co' moltissimi errori, non sia che una continua narrazione di gare e di puntigli, che hanno preso l' abito e le forme de' sistemi, i quali scaramucciano con gran valentìa senza intendersi, e senza che la vittoria si decida per l' una o per l' altra delle parti, perchè tanto dall' una, che dall' altra, s' adopera per lancia la verità mista coll' errore. A chi mai non è noto tutto ciò che è stato detto contro lo spirito irascibile, e contenzioso de' filosofi? A cui non son venute a noia le lor perpetue discordie ed emulazioni? Chi non ha preso scandalo di quella interminabile mischia di sempre nuove e contradditorie opinioni, nella confusion delle quali è impossibile, anche agli uomini di miglior vista, discernere la verità, o credere che ve ne sia una, quando i densi nuvoli che si sollevano di polvere olimpico, ne offuscan la luce? Perocchè non tutti gli uomini son battaglieri, o si dilettano solo di zuffe: onde volendo divertire troppo il mondo di sè, si finì pur troppo coll' annoiarlo. E si pretende ora di rimettere in istima la filosofia con uno spediente così nuovo (che in pratica è così antico) di divietare che si distrugga alcun sistema, e di raccomandare che si fortifichino tutti, acciocchè tenzonino ancor più alla disperata (1)? Quando pure, questa è la vera ragione del discredito, per non dire del disprezzo, in cui è caduta la filosofia: la cagione, per la quale gli uomini finirono col credere, che la verità filosofica sia irreperibile, e la filosofia stessa un trastullo di certi ingegni astrusi e stravaganti, che, senza curarsi gran fatto della verità, nè poter riuscire alla certezza e a recare alcun frutto all' umanità, amano di far prova e pompa delle loro forze colla vana gloria della cavillazione! Qual meraviglia che quando comparve al mondo improvvisamente un' altra dottrina di contrario carattere, sicura di sè, immutabile come la verità, completa come la sapienza, voglio dire il Vangelo, ne ricevessero una così grande scossa le scuole de' filosofi, e comparissero alla luce di que' trattati che, sottosopra, avean per titolo: Irrisio philosophorum ? E di questi trattati se ne vogliono ora degli altri? Il Vangelo li produsse in allora, e il Vangelo sta lì per riprodurli, se gli uomini ritornati sofisti, gliene dieno nuova occasione (e la scuola che il Cousin chiama teocratica, n' è almen la minaccia); il Vangelo, dico, che solo potè in appresso, siccome fece, rimuovere dalla filosofia la derisione e la beffa, restituendo al mondo la fiducia che avea perduta nella ragione e nella verità, comunicandogliene una grandissima parte, la parte essenziale e necessaria, anzi facendo molto di più, chè egli ne guarentì la perpetua esistenza nel genere umano, in virtù di quello stesso potere che ordina al sole di nascere ogni giorno e risplendere sulla terra; e accrebbe l' obbligazione d' amarla, infondendone ad un tempo negli animi un amore infinito. Così fu il Cristianesimo, che con tutti gli altri beni, dopo aver abbattuta la falsa, salvò anche la vera filosofia, la quale avrebbe sicuramente trovato la sua tomba nell' ecletismo alessandrino, o questo stesso, per dir meglio, senza di lui, non avrebbe avuto il tempo di farne balenare agli occhi degli uomini l' ultimo raggio. E però noi consideriamo come nostro dovere il mantenere alla filosofia quella dignità che le ha dato il Cristianesimo, e che tutta consiste nella nobilissima obbligazione, o se si vuole, nella felicissima necessità, di dover essere d' allora in poi, maestra di verità, e non punto altro; non già perchè l' uomo che filosofa sia divenuto infallibile, ma perchè tutto ciò ch' egli pensa o dice di contrario al vero non può più usurparsi, senza contrasto, il nome di Filosofia. [...OMISSIS...] Di che necessariamente consegue, che i pensatori e gli scrittori si debbano giudicar tanto filosofi, quanto hanno pensato o scritto di filosofica verità; e per aver essi pensato o scritto altre cose erronee, quante se ne vogliano, non si dee attribuir loro il nome di filosofi (chi pur voglia provvedere all' onore, alla conservazione, e al progresso della stessa filosofia); ma conviene che si denominino sofisti, nemici della Filosofia, o, secondo i loro speciali costumi, filosomati, filocremati, filomachi , o in generale, come volea Platone, « filodossi (2). » Poichè colui che si stanca e si lima l' ingegno non per arrivare al conoscimento della verità, ma per riuscire a distruggerne, se gli fosse possibile, o negarne alcuna parte, e con ardue, ma indottissime cavillazioni, annuvolare il sereno degli umani intelletti; questi fa appunto l' officio contrario a quello che è assegnato al filosofo; e quindi è manifestamente improprio e barbaro l' uso d' applicare lo stesso nome a chi professa due uffici non pur diversi, ma così contrari, quasi che il fare e il distruggere fosse una sol' arte. Ed è cosa ben singolare a vedere, che mentre gli uomini non usano così quando danno i nomi ad altre cose (chè nè s' intenderebbero più tra loro, nè canserebbero il morso del ridicolo); in questa sola materia della Filosofia, cadono in tanta confusione e inversione di linguaggio senza che se ne avvedano. Chi vorrebbe chiamare scultore egualmente il Canova, e colui che prendesse diletto nel graffiare e bucherare le finitissime sue statue? Chi accomunerebbe la denominazione di pittore a Raffaello ed a quell' insensato, che per mostrare il valor suo nell' arte, s' occupasse con grande assiduità, e mettendoci tutta la diligenza, a suggellare con qualche bel colore le pupille degli occhi, ed impastare i nasi, imbellettar le gote de' volti divini, che s' ammirano nelle tavole dell' Urbinate? A niuno potrebbe venire in mente, che un parlare così stravolto si giustificasse colla ragione, che tanto il Canova quanto il guastatore delle sue statue v' adoperi gli stessi ferri, gli stessi scalpelli, le scuffine, le raspe; e che tratti pure gli stessi pennelli, e gli tinga alla tavolozza de' colori altrettanto, quanto faceva il Sanzio, quel disennato che ne deforma le inapprezzabili dipinture. Ma che cosa è il sistema della verità, se non un cotale augusto simulacro, o una figura nobilissima di Dio stesso? E quanto questo altissimo lavoro col quale si scolpisce e colora in anime immortali la viva imagine d' un' eterna sapienza, non ha egli più di pregio, non merita più di riverenza, di quello, col quale gli eccellentissimi artefici danno forme eleganti al marmo e le avvivano sulle tele? Or poi quell' artista, che ad una tant' opera si consacra, chiamasi Filosofo; e l' arte che egli professa, chiamasi Filosofia. Laonde se questo è l' intento, questo lo scopo assegnato alla professione del filosofo; come se ne profanerà, e abuserà il nome accomunandolo anche a coloro, che maneggiano bensì lo stesso stromento del pensiero, ma con sì vituperevole imperizia, che ad altro non riescono che a demolire o sformare l' opera del filosofo? ad offuscare cioè co' sofismi quel lume di verità, che l' arte filosofica mette in aperto, a disformare, troncare, imbrattare colle macchie degli errori quelle membra decentissime del corpo della sapienza, che ritrae in carte il filosofo? E pure questa biasimevolissima improprietà passò quasi universalmente in costume, e nel secolo scorso l' ateismo stesso fu detto il segno d' una mente filosofica! E noi non istupiamo punto, che si vedesse qualche cosa di mostruosamente grande in una sì grande negazione, chè certo non ve n' ha un' altra che cancelli una porzione maggiore e più importante di verità, quand' anzi l' ateismo veramente la cancella tutta. Chi mai non sa che si dà anche un' ignoranza grande, un errore grande, una grande demenza? Ma ci maravigliamo, che si confondesse questa grandezza colla grandezza del sapere e della Filosofia. E a confondere grandezze di cose così opposte, s' usava questo argomento: « « Non v' ha gente così barbara e inospitale, che non ammetta qualche divinità, e con qualche culto non la onori: dunque per lo contrario non può essere che opinione di uomini dottissimi l' ateismo (1). » Quasi che la dottrina giunga al suo colmo, allorquando si dimostra potente a rimuovere dalle menti degli uomini quelle stesse verità, che nè anco la più efferata barbarie, e la salvatichezza medesima non vi ha potuto scancellare. Non ignoriamo quanto sia, e sia sempre stata cosa odiosa, lo scacciare dalla compagnia de' filosofi i maestri dell' errore: ma coloro che amano la verità devono esser disposti a subire l' applicazione dell' antico proverbio: « La verità partorisce odio », come Socrate, che negò coraggiosamente il nome di filosofi ai sofisti del suo tempo (2). Noi dunque non ci terremo, ma continueremo a dire, che è un' ignobile adulazione, perchè è una falsità di parlare, quella d' onorare col titolo di sistema filosofico, qualunque viluppo di proposizioni vere o false, che l' aberrazione della ragione umana o il delirio d' una imaginazione inferma, vi presenti siccome un trattato di filosofia. Può essere una debolezza d' animo e di mente il ricever la legge da' titoli de' libri, e da nomi de' loro autori: che se vi piace mantenere questa improprietà di parlare per qualche vantaggio reciproco che n' aspettate, ell' è una colpevole connivenza. Or come l' accogliere nel novero de' sistemi filosofici anche quelli che hanno per principio l' errore, col pretesto che racchiudono tuttavia qualche particella di verità (quasichè quel che hanno di vero non sia un elemento a loro eterogeneo da sceverarsi per raggiungerlo a quel sistema della verità di cui è proprietà inalienabile), pare un largheggiare d' onori, con manifesta ingiustizia, a cosa che non li merita; così è del pari un negare o scemare l' onore dovuto alla verità, con un' altra ingiustizia, il parlar di sistemi senza distinzione, mettendoli tutti in un fascio, partano essi da un principio vero o da un falso: questo umilia la verità fino al grado ignominiosissimo dell' errore; questo umilia ancora lo spirito umano. E poi, come sapete, che tutti i sistemi sono egualmente un miscuglio di vero e di falso? Pretendete, voi filosofo, che vi si creda sulla parola, che basti l' autorità del vostro giudizio? E come dunque avete poi tanta paura della teocrazia? ne sareste forse geloso? E pure non ci avea bisogno d' una grande penetrazione a capire, che se il principio supremo d' un sistema è vero, tutto il sistema dee riceversi siccome vero e rettificarne soltanto le conseguenze se mai non fossero derivate logicamente, cavarne dell' altre e così svolgerlo e completarlo: se poi il principio supremo d' un sistema è falso, tutto il sistema si dee avere per falso, e se vi s' incontrassero per accidente delle cose vere, queste che non son sue, nol rendono vero. Onde l' accoglierli tutti senz' altra distinzione, è un voler esser filosofo alla guisa d' Omero, che avendo, come osserva Seneca, ne' suoi poemi tutte le filosofie, non ne ha veramente nessuna (1). Convien dunque dire, che niun sistema, propriamente parlando, è misto di vero e di falso (benchè il vero ed il falso possa esser misto ne' libri in cui i sistemi si contengono), ma i sistemi sono tutti o semplicemente veri o semplicemente falsi; ed i sistemi veri (1) si allontanano più che il cielo dalla terra da' falsi, e però non si possono confondere nella medesima categoria, nè pronunciar di tutti in monte una sentenza; e di più, i sistemi falsi, son sistemi d' errori, e quindi a rigore non meritano il titolo di filosofici, ma sì d' antifilosofici. Convien dunque onorare lo spirito umano, diciamo anche noi col signor Cousin, ma intendendo l' onore dello spirito umano in altro modo. Chè per noi tale onore non consiste punto nel calore e nella ostinazione con cui esso spirito umano contraddice e discerpe se stesso, nè si procaccia il richiamare indietro il mondo a' costumi gentileschi, cioè a un tempo passato per sempre. Allora framezzo alle scandalose e impotenti mischie de' filosofi s' udì una voce nuova e potente che diceva: « « La Filosofia non si può ottenere da coloro che consumano l' opera loro in pugne e contrasti di parole »(2), » voce ascoltata da' migliori tra gli stessi filosofi (3), ma più ascoltata da tutto il mondo, a cui parve manifesta la vanità di que' dottori, che faceano la filosofia, come i condottieri del medio evo faceano la guerra. L' onore dello spirito umano, ripetiamolo ancora, per noi sta unicamente nella verità di cui egli può esser partecipe, e n' è veramente, la cui conseguenza è la pace e la concordia; siccome il suo disonore sta nell' errore e nella perpetua incertezza della dissensione. Laonde il disonorare quella verità che lo spirito umano non crea, ma vede, e, vedendola, se ne illumina ed incorona, e l' onorare per l' opposto quell' errore, pur troppo sua creatura, che acceca e scorona il suo creatore; sono due modi di fare ugualmente allo spirito umano vitupero e atrocissima ingiuria. E questo si fa appunto nell' uno e nell' altro modo ad un tempo col sommettere alla stessa sentenza del signor Cousin, benchè sentenza più di grazia che di giustizia, i sistemi veri ed i falsi, e in volerli tutti conservati e affortificati egualmente. Ora se di questa sentenza si possono chiamar contenti tutti gli autori e seguaci de' sistemi falsi; per l' opposto il nostro paciere s' avrà sollevati contro con essa tutti gli autori e seguaci de' sistemi veri, i quali appellano e fanno valere davanti ad un tribunale più autorevole, qual è il senso e la coscienza del genere umano, benchè a dir vero tribunale teocratico, i loro gravami. Come dunque l' ecletismo promette la conciliazione di tutti i sistemi tanto filosofici, quanto antifilosofici, senza distinzione? che conciliazione è possibile in questo modo? Quanto a noi, intendiamo di gratificare agli autori de' sistemi veri; e se il signor Cousin riesca a metter pace, almeno tra' suoi, forte ne dubitiamo (1): all' opposto confidiamo di poter noi aver pace co' nostri, noi che consideriamo il sistema della verità come il fondamento dell' unica pace possibile fra le intelligenze, e causa d' ogni altra pace. E come si può ottenere la pace, quando la pace stessa si pone nella guerra, cioè nel conflitto de' sistemi? Come si può parlare di conciliazione, mostrarne l' importanza, declamare contro quelli che la ricusano da uno, che mette per condizione alla medesima il conservare tutti gli opposti sistemi, e anzi di più l' affortificarli tutti? e che nello stesso tempo vi dice, v' assicura sulla sua parola, che in tutti, niuno eccettuato, v' ha qualche cosa di falso? Non è proprio degli errori, che hanno una natura così moltiplice, d' escludersi e di combattersi a vicenda? e di combattere sopra tutto la verità? Onde, se tutti i sistemi racchiudono nel proprio seno errore e verità (2) (che è il postulato su cui si fabbrica l' ecletismo, e non è altro certo che un postulato, e per buona sorte non come quelli de' matematici che non si possono rifiutare), non solo avremo molti sistemi discordi, ma in ciascuno avremo i semi della discordia! E notate, che si confessa, che l' indole di tali sistemi è l' esclusività, per modo che ciascuno vuole esser solo, ed è questa esclusività che li rende sistemi distinti, cessata la quale, non rimarrebbero più molti sistemi, ma si fonderebbero in uno. Il che si riconosce anche per un difetto, ed un difetto, che a ciascun sistema è così essenziale, che senz' esso non si può conservare, molto meno fortificare. Tuttavia ogni sistema si vuol conservare ed affortificare, a condizione che niuno domini in su gli altri, cioè che non sia esclusivo! Mi dispiace che la contraddizione qui spicchi a tal segno, che mi taglia quasi a mezzo il ragionamento che stavo facendo; perocchè non si può più nè pur domandare come una contraddizione sia possibile, chè una tale domanda equivarrebbe a quest' altra: come sia possibile l' impossibilità. Ricopriamo dunque per un poco questa contraddizione col velo di quelle parole vaghe ed indeterminate, colle quali la copre l' autore dell' Ecletismo, e sostituendo la parola di conciliazione a quella di contraddizione, dimandiamo come la conciliazione promessa sia possibile? Ci si risponde: colla tolleranza (1). Bellissima parola, e gratissima agli orecchi degli uomini che ci vivono. Ma si è mai pensato seriamente al significato di questa parola: tolleranza ? Certo se per tolleranza s' intende - diffidare della propria opinione e rispettare l' altrui dentro i confini che la prudenza assegna, compatire gli altrui errori anche evidenti e le altrui debolezze anche viziose, non prenderne pretesto d' invadere gli altrui diritti, astenersi da ogni giudizio temerario, esser benigno e benevolo a tutti, - questa è una virtù preziosa, ma una virtù che s' esercita verso le persone, non verso i sistemi, e, appunto perchè è una virtù, è un abito della volontà umana, non una scienza. Ora noi non eravamo nel campo della volontà, eravamo in quello della mente, parlavamo di filosofia, di sistemi filosofici, di errori e di verità: bisogna che ce lo ricordiamo. Non è egli un grande scambio cotesto, di trasportare all' intelletto le leggi della volontà, e pretendere ch' egli ubbidisca ad altre leggi diverse dalle sue proprie? Chi non sa che la tolleranza è una legge impossibile a praticarsi dalla mente? chè la mente è sempre per sua natura intollerante (se mi si permette di così parlare), e se potesse tollerare la contraddizione e l' errore da lei conosciuto, compirebbe con ciò una tale annegazione di sè stessa che si annullerebbe. Il costringere dunque la mente ad essere tollerante è un costringerla ad annullarsi: e questo per fermo non è filosofico: anzi a buon diritto si può chiamare un' intolleranza, e un' intolleranza così enorme, che l' uomo per essa non tollera più l' esistenza sua propria della sua mente, e di conseguente molto meno quella della Filosofia. E la colpa per certo non è della mente, se non si presta a leggi che non son fatte per lei: la colpa, se qui c' è colpa, è tutta dell' intollerantissima verità, dell' inesorabile logica: le idee non le fa l' uomo, le riceve bell' e fatte, nè si rifanno, ed oltracciò esse non sono persone, in verso a cui si possa usare la virtù della tolleranza, della compiacenza, e somiglianti. La conciliazione dunque de' varŒ sistemi fatta per via di tolleranza, quale ci viene proposta dall' Ecletismo francese, somiglia perfettamente all' unione delle sette protestanti incominciata nel ducato di Nassau nel 1.17, ed estesa poscia in altri Stati, e specialmente in Prussia per opera del defunto Re, unione singolare, nella quale ciascuna setta mantiene la sua credenza, e tuttavia con credenze diverse e contraddittorie, ciascuna delle quali condanna l' altra, vogliono tutte formare una sola Chiesa, che chiamarono evangelica , come se il Vangelo fosse il complesso di mille contraddizioni, il sincretismo mostruoso di tutte le sette protestanti! Questi fedeli, che per formare una sola Chiesa si contentano d' un nome comune e d' alcune esterne forme, indifferenti poi alle cose , ai dogmi dagl' individui professati, v' assicurano di rappresentare colla più fedele somiglianza la Chiesa Cristiana de' primi secoli! A tale esemplare si modella l' ecletismo francese: egli propone a' filosofi una unione, o conciliazione d' egual taglia, in cui un nome comune, alcune frasi indeterminate, qualche botta contro la teocrazia scusano e ricoprono la sostanziale differenza d' opinioni, che divide gli ecletici, i quali protestano di mantenere, d' affortificare, per onore dello spirito umano, tutti gli opposti sistemi. Solo che a questa proposta di conciliazione, n' aggiungono un' altra speciale, ed è, che i sistemi esclusivi si facciano alcune reciproche concessioni (1), quasichè sistemi su principŒ diversi fondati, potessero esser tanto compiacenti, o far concessioni senza distruggersi, anzichè conservarsi ed affortificarsi. Per fermo che unioni e conciliazioni di tal natura non sono filosofiche, nè da filosofi possono esser proposte, nè ricevute: lasciamole dunque fare a' politici, a' ceremonieri, a' protestanti. Noi distinguiamo la legge dell' intelletto da quella della volontà: non imponiamo questa a quello, che sarebbe una confusione troppo madornale: nè con tali scambŒ potremmo mai condurre avanti la filosofia, nè scorgere quali sieno le cose, che, nell' ordine dell' intelletto, ammettano una conciliazione, quali quelle che non l' ammettano. La verità si concilia sempre colla verità, l' errore si concilia rare volte con se stesso, mai colla verità. L' assumersi un' autorità così grande, com' è quella d' imporre a proprio arbitrio un' altra legge all' intendimento, è un vincere in assurdo que' demagogi, che sotto il nome di libertà insinuano la più ributtante tirannia, è un darsi a credere di poter estendere a man salva il proprio dispotismo intellettuale sull' umana natura, e su quella verità che n' è la legislatrice e l' unica regina legittima. La verità dunque, ecco il solo punto possibile della conciliazione, e questa conciliazione (non ne riconosciamo alcun' altra) è quella che noi abbiamo sempre tenuto davanti agli occhi nelle filosofiche discussioni. Ci permettano anche qui gli amici nostri di rammemorare il cominciamento de' nostri studŒ e come nacque in noi il desiderio e il tentativo di una tale conciliazione. Nell' adolescenza la nostra mente ignara di ciò che era stato pensato e scritto, entrò con ardire, non insolito a' giovani, nelle questioni filosofiche: ve l' introdusse un uomo quasi sconosciuto al mondo, indimenticabile a noi, Pietro Orsi. Colla gioia che il primo aspetto scientifico della verità infonde nell' anima, con una sicurezza quasi baldanzosa, con delle speranze indefinite proprie di quella età che per la prima volta si volge con una riflessione elevata e consapevole, all' universo ed al suo autore, e gli par assorbir l' uno e l' altro colla facilità con cui respira, noi ci ravvolgevamo giorno e notte, quasi pei sentieri d' un giardino, nel vasto campo delle filosofiche questioni, non ci arretravamo dinanzi ad alcuna difficultà, anzi la difficultà ci rendeva più animosi, chè in ogni difficultà vedevamo un secreto atto ad eccitare la nostra curiosità, un tesoro a scoprire, e consegnavamo alla carta il frutto giornaliero di quell' ingenua e ancora inesperta libertà di filosofare, conscŒ di affidarvi i semi che ci doveano preparare il lavoro di tutta quella vita, che Iddio ci avesse poi conceduta. E per vero tutti gli scritti che poscia, in età più matura, comunicammo al pubblico, furono lo svolgimento di que' semi. Dopo quella prima fatica, noi confrontammo di mano in mano a quegli spontanei e imperfetti pensamenti, tutte le dottrine de' filosofi; ed ogni qualvolta le riscontrammo ad essi consentanei, ci tornò caro come può esser caro l' incontro d' un amico, e il trionfare in sua compagnia. Eravamo troppo persuasi della fallacità della mente di un solo e della nostra particolarmente, e intendevamo, che, per assicurarsi a pieno del vero, non solo è necessaria un' autorità in quelle cose divine, a cui non giunge il raziocinio della mente, ma di più, che un' autorità, o, se si vuol meglio, l' assenso d' altre menti è mestieri soppravvenga a confermare la dirittura degli stessi naturali raziocinŒ. I quali certo sono quelli che costituiscono la scienza, chè la Filosofia, come abbiam detto più sopra, di raziocinŒ si compone, e non di autorità; ma l' autorità sopraggiunge sempre a tempo ed utilissima a rivedere ed a suggellare colla sua testimonianza, i medesimi raziocinŒ, di cui quella s' intesse. Allora intendemmo via meglio e apprezzammo la maniera di sentire di Seneca, dove dice: [...OMISSIS...] Non apparisce in questo filosofo, che è de' più sensati, alcun timore, che, stabilendosi nelle menti l' unico sistema vero, la Filosofia vi trovasse la sua tomba. Quando il capo dell' ecletismo francese si dimostra sollecito e in gran pensiero di questo che gli pare troppo sinistro avvenimento, mi comparisce del tutto simile ad Alessandro Magno, che piangeva d' una vittoria riportata da suo padre, per timore che non gli restasse più paese da conquistare. Noi crediamo, che in questo vecchio mondo, ricco di così varie e lunghe esperienze e di tanti disinganni, il diritto di conquista sia oggimai screditato, e che come nell' ordine delle cose politiche difficilmente può evitare la taccia di prepotenza, così nell' ordine delle cose filosofiche difficilmente possa evitar quella d' impostura. E ad ogni modo crediamo che alla contenzione degli spiriti che ambiscono con nobile gara di scoprire la verità, sia da preferirsi la verità già scoperta: crediamo che anche dopo essersi questa scoperta, non possa giammai mancar il lavoro a quelle intelligenze che vogliono assumersi la fatica d' accrescerne la luce e di renderla evidente agli occhi degli uomini, persuasi siccome siamo, che la luce della verità possa sempre aumentarsi all' intelligenze umane: crediamo che come ogni sistema riposa in un principio, onde anche emana; così il principio di quello che noi chiamiamo il sistema della verità abbia una natura tanto feconda, che affaticandosi intorno ad esso tutti gli uomini, non possano finir mai di derivarne nuove conseguenze, nuove, inaspettate e importantissime applicazioni, e che l' opera dell' annodare a quel principio tutte le scienze e tutti i fatti della natura e della storia che ci si riferiscono, e di farne riuscire così, congiunto in un corpo bellissimo, tutto lo scibile umano, sia inesauribile e per poco infinita: crediamo che quand' anco questo smisurato lavoro potesse quando che sia compirsi dagli umani ingegni, ne rimarrebbe loro un altro, sempre nuovo, sempre rinascente, non meno pregevole che non concederebbe alcun ozio, quello di conservare tanta copia di ordinata dottrina, di propagarla a tutti gli uomini, di vestirla di tutte le forme, di tramandarla intatta alle generazioni che si rinnovano, di difenderla e di proteggerla contro all' attivissimo, inquietissimo, cavillosissimo principio che mai non muore e sempre s' agita, del male e dell' errore: finalmente crediamo, che gl' intelletti esercitino un' azione grande e compiuta, anche col solo riposarsi nella verità, col fruirne, col comunicarne in se stessi la fruizione alla volontà, che sola l' attua, la realizza, e, rapendola al cielo della mente dove si mostra quasi pendula, la reca veramente in mano dell' uomo. Il perchè niun filosofo si spaventi, come le femmine della versiera, al pensiero della morte della filosofia predetta dall' ecletismo, nè perciò desista o si rallenti nella ricerca di quell' unico sistema, nel quale, come nella sua più alta idea, dee riguardare e fissamente intendere la filosofica investigazione. Chè niuna cosa muore col giungere alla sua perfezione, e non è verosimile che quest' accidente succeda alla sola filosofia giungendo al suo sistema perfetto. Piuttosto l' arduità e la vastità dell' impresa consiglia ad affrettarsi al lavoro; e prima a rimuovere gli ostacoli della discordia, i quali impediscono che le menti s' uniscano veramente nella verità. Laonde egli è un avvicinarsi a sì desiderabile effetto lo svelare i sistemi erronei, e, colla luce del vero, senza alcuna compassione, dileguar quelle ombre, lasciandoli soltanto segnati nella storia, come gli scogli e le arene nelle carte de' navigatori. Fra i sistemi veri, noi dicevamo, la conciliazione è possibile e desiderabilissima. E prima di tutto è mestieri vegliare attentamente per non cadere nell' ingiustizia, per non escluderne alcuno, e rilegarlo a torto nella classe de' falsi. Che se si riscontra qualche particella di falsità nelle conseguenze mal dedotte da un vero principio, questa si vuol correggere, non il sistema stesso rigettare. Di poi è necessario misurare l' altezza di ciascuno di que' principŒ che costituiscono la base de' sistemi, e a quelli che sono più elevati subordinare i principŒ meno elevati, e tutti all' altissimo, dal quale gli altri derivano siccome conseguenze. Con questa prima industria un sistema s' inserisce opportunamente nell' altro al debito luogo, come ramo al suo tronco, onde di molti parziali ne riesce un solo o completo, o certo meno parziale. Di poi, è da distinguersi la verità dalle varie forme di cui ella si veste, dai varŒ modi di concepirla, dagli aspetti o lati differenti, da' quali ella si mostra visibile alle menti. Questi non sono che altrettante parti della stessa verità, niuna delle quali esclude l' altra, niuna contraddice l' altra, ciascuna le aggiunge un nuovo raggio di luce. Quel savio che sarà animato dallo spirito della conciliazione, troverà sotto tante espressioni diverse, entro molteplici pensamenti, l' unità bellissima del vero, moltiplice senza misura nelle sue apparizioni, ma sempre concorde e consentaneo con se medesimo: questa è la seconda industria colla quale si può addurre una giusta conciliazione fra tutti quelli che rettamente filosofeggiano. Una forza che aiuta grandemente la conclusione di questa pace filosofica, vuol essere la benigna interpretazione delle altrui sentenze. Perocchè non è meno difficile il retto favellare del retto pensare. E però non di rado accade che l' uomo non esprima convenientemente tutto il proprio pensiero, ed allora l' equità esige, che chi ascolta o legge, lo interpreti, e quasi l' indovini sotto l' enimma dell' imperfetta espressione, quasi nobile simulacro coperto dà un velo. Conviene in tal caso cogliere lo spirito dello scrittore piuttosto d' attenersi alla lettera: considerare ciò che risulta da tutto il contesto de' vocaboli, delle sentenze e de' ragionamenti, ma soprattutto porre l' attenzione nella coerenza che aver devono le conseguenze dubbiose co' principŒ certi e colle intenzioni chiaramente manifestate dal pensatore. Un lietissimo e oltremisura desiderato risultamento mi trovai in mano dall' applicazione di queste regole, e si fu aver io acquistato la persuasione; che tutti i grandi filosofi, rispetto alle cose principali e più necessarie all' uomo, differiscono fra di loro più in apparenza che in sostanza, e sebbene di varie forme, non sempre convenienti e adeguate, rivestano la verità, pure nella verità stessa, senza talora avvedersi d' esser concordi, s' abbattono. Laonde lasciando da parte coloro che Cicerone chiamava « minuti filosofi (1) » alla qual distinzione del romano oratore tra i filosofi minuti e i grandi risponde quella che noi trovammo necessaria tra gli autori de' falsi, e gli autori de' veri sistemi; mirabil cosa è a vedere, come le sentenze coincidano nelle medesime capitali e supreme verità, e concordino colla fede e colla coscienza del genere umano, dalla quale que' minuti, non filosofi ma sofisti, dipartendosi, pensano, con insensatissima vanità, di parere dottissimi. E tuttavia questi stessi, qualunque abuso facciano del loro ingegno, qualunque sieno le illusioni di cui si circondano, quasi d' uno steccato che tenga da loro lontana la verità, in qualunque abisso d' errori si sprofondino per non esserne raggiunti, non arrivano mai a radere del tutto dall' anime loro quello che v' ha impresso con caratteri indelebili la natura, nè a soffocare del tutto quella inestinguibile fiammella, ond' hanno accesa l' intelligenza, nè ad imporre un intero e perpetuo silenzio in sè al sentimento umano, che cerca pur quella luce, che con sì grand' arte gli si toglie, come fanno le pupille del moribondo. Laonde da costoro medesimi, non perchè filosofi, ma perchè uomini, si possono raccogliere efficacissime testimonianze rese alle medesime verità, sia in quelle confessioni che scappano loro di bocca in alcuni istanti ne' quali vigilano meno la propria natura, sia nelle contraddizioni colle quali da se stessi tradiscono e distruggono i proprŒ errori, sia in que' temperamenti, che nell' esitazione aggiungono alle proprie dottrine, le quali con una aperta e nuda assurdità offenderebbero soverchiamente, e provocherebbero alla difesa il comun senso degli uomini. Chè sentono anch' essi, e non possono non sentire, la felice necessità d' aggiungere all' errore qualche brano di vero. Poichè come l' essere è necessario al nulla acciocchè questo si possa concepire, così la verità è necessaria all' errore, acciocchè questo si possa ricevere nelle menti, dalle quali sarebbe ripulso se non facesse valer come sua l' amabilità ch' egli usurpa al vero con cui astutamente si mescola, e si confonde. E anche in un' altra maniera tutti coloro che trattano le questioni appartenenti alla filosofia, ragionino in buona o in mala fede, rendono indirettamente testimonianza alla verità, e n' aiutan la causa; cioè col dare a vedere, pur cogli sforzi de' loro ingegni, dove abbian trovato il forte della questione, cioè il nodo difficile che tentarono, quantunque invano, di sciogliere, e che non potendo e pur volendolo ad ogni patto, diede a molti di loro occasione d' errare. Perocchè il sapere dove giaccia precisamente la difficultà, è già un passo, e grande, verso la stessa verità; chè, quando questa è recondita e munita d' ostacoli, non si può espugnare, se prima non s' esplori da tutti i lati la fortezza che la difende. Di che possiamo recare in esempio le disputazioni molte e i sistemi de' filosofi intorno alla quistion principale dell' origine delle idee, che tutti coll' aver urtato nella medesima difficultà, presentatasi loro in varie forme, concorsero a renderla più manifesta e da molti aspetti visibile, e così ne facilitarono gli approcci, e n' apparecchiarono l' espugnazione. Laonde a me pare non inutile l' autenticare i raziocinŒ, che son venuto esponendo, quasi di continuo colle altrui autorità, e colle sentenze de' grandi filosofi precipuamente, interpretate con equità, collazionare e confermare le nostre; non già per surrogare nella filosofia l' autorità al ragionamento, ma perchè è una guarentigia della mente, un gran conforto dell' animo, di cui la stessa filosofia nell' arduo suo viaggio tanto abbisogna, l' udire quel quasi concento delle umane intelligenze. Come dunque la conciliazione e la concordia non può trovarsi che nell' unità, così ci parve assurdissimo il cercarla nella moltiplicità de' filosofici sistemi, voluta mantenere ad ogni costo dall' ecletismo colla fiducia di piacere in tal modo a tutti i loro seguaci; il che, siccome abbiamo già prima osservato, è un cercar la pacificazione della filosofia, dove non è punto la filosofia, cioè fuor della mente, lasciando frattanto in questa ardere, anzi attizzandovi, il dissidio delle opinioni e delle idee. E se nell' unità del sistema può solamente trovarsi la conciliazione degl' ingegni e la perfezione e la pace della filosofia: dunque nella verità, perchè la verità sola è una, e l' errore molteplice. Certo per coloro che, avvezzi alla scuola, all' animoso fervor della disputa, al grato spettacolo che dà l' attrito e la percossione delle menti giovanili ond' escono inaspettate scintille di luce, alla gioia della vittoria nelle superate tenzoni, non distendono i loro pensieri fuori delle mura dell' Università, può parere di poca importanza quella conciliazione e quell' unità, a cui, secondo noi, è uopo d' indirizzare seriamente i filosofici studi. Ma se traendo fuori l' animo e con esso l' attenzione della mente dallo steccato filosofico, si riguarderanno le conseguenze della proposta concordia, queste si ravviseranno così importanti all' umanità, che il voler tuttavia conservata, nella moltiplicità de' sistemi, la materia e il fomento alle questioni scolastiche, incomincierà ad apparire più ancora colpevole che puerile. E il timore stesso, che possano mai mancare a quelle questioni argomenti, è vano come vedemmo. Che la conciliazione sia desiderabile, il dimostrano, a troppa evidenza, i dissentimenti, onde noi, cogli occhi nostri, vediamo il mondo diviso, e turbato: scissure, odŒ, guerre, minaccie di guerre, partiti che, a guisa di tori, dirò con un antico, traggettano in v“to le corna. E perchè tanta divisione di animi, tante sette che s' insidiano a morte, tanto incendio di passioni, dove più fiorente è la coltura, più avanzata la scienza, in questa Europa, con iscandalo de' popoli ancora incolti? Forse, che dove più sono le idee, ivi ancora si debbano accendere più numerose le discordie? Ovvero avvien questo, non pel numero maggiore delle idee e delle opinioni, ma per la loro discrepanza? Certo il verace fondamento della concordia nella convivenza umana, come pur quello della discordia, nelle idee e nelle opinioni o concordi o discordi, si dee ricercare. Perocchè ell' è sempre un' idea, quella che presiede, guida e s' imprime, per così dire, in tutte le operazioni degli uomini. E non solo le singole operazioni hanno per base un' idea; ma fra le idee stesse, ve n' ha di sì generali che costituiscono il tipo e danno il carattere a quella lunga serie d' azioni onde s' intesse l' intera vita degl' individui, e medesimamente da una di quelle primarie idee, come da una secreta norma, prende un' unica sua forma tutta quella mole d' operazioni, dal complesso delle quali risulta in ogni tempo la condizione morale e civile e politica delle nazioni. Che anzi nel fondo stesso della storia, come fu già osservato, nel fondo di tutte le varie vicende per le quali procede, svolgendosi e trapassando su questo globo, l' umana specie, si rinvengono alcune idee, divenute altrettante leggi di quella complicatissima successione d' avvenimenti, in apparenza casuale, e la compartono regolarmente in determinati periodi, ciascun de' quali non è già governato dalla dominazione e dall' influsso d' un astro; ma sì bene dal dominio d' una idea prevalente a quel tempo nelle menti umane, la quale poscia dà luogo di mano in mano al dominio d' un' altra. Laonde se le idee e le opinioni sono discordi nelle umane menti, forz' è che gli affetti altresì dell' animo e le operazioni della vita esteriore riescano discordanti; e per lo contrario, se le umane menti si mettan d' accordo nelle idee e nelle opinioni, incontanente questo mentale consenso influisce nel vivere, e comparisce la benevolenza fra tutti, e quell' unione, in cui sta la pace e la forza sociale. E tu il sai troppo bene, povera Italia, che più lungamente e più atrocemente d' ogni altra regione esperimentasti i funesti effetti della discordia, e ne fosti la vittima! Perocchè io mi credo che il genio stesso del male, temendo forse più da te, che da ogni altra nazione, per ogni tuo angolo agitasse più che altrove la face della discordia, e ve l' accendesse, acciocchè discorde, tu fossi altresì divisa, e divisa, tu rimanessi debole, e debole, tu divenissi pusillanime ed infingarda, e prostesa nella tua infingardaggine, tu non sapessi più nè manco conoscere la vera cagione della discordia. Eccoti questa qual è: il non aver tu un' opinione ben ferma, e l' averne molte deboli e discrepanti. Nella tua mollezza, ne' tuoi studŒ superficiali, in recitando, vecchia fanciulla, le lezioni apprese alle scuole altrui, tu non ti potesti formare giammai una filosofia, una dottrina che fosse tua, e però nè pure avesti una nazionale opinione: sorgi, tendi all' unità intellettiva, che, se tu vuoi, non ti può esser contesa, e diverrà allora fortissima la tua sciagurata bellezza. Or poi sieno qui rese grazie a que' generosi, che all' intento d' ordinare una filosofia che conduca a raggiungere quegli scopi, che ho indicati nella prima parte di questo discorso, e le utilità che conseguono alla conciliazione delle opinioni, mi porsero amicamente la mano. Molti n' ho trovati fra' miei concittadini, e sarebbe impossibile il nominarli tutti, benchè a tutti sia v“lta la mia riconoscenza. Non posso però passarmi in silenzio primieramente i professori dell' Università Torinese Giuseppe Andrea Sciolla, Pietro Corte, e Michele Tarditi, che i primi dettarono de' trattati, difesero, portarono in sulle cattedre, con rara concordia d' intendimento, quella dottrina stessa che noi proponevamo. Ed ahi che due di questi egregi, i quali l' amore d' uno stesso vero e la consuetudine delle stesse fatiche filosofiche, avea resi con noi quasi fratelli, ci furono così in breve rapiti dalla morte con non lieve danno della scienza e della patria; l' uno quello specchio di probità, quell' esempio d' amicizia, lo Sciolla, già inclinato a vecchiezza, ma l' altro, il Tarditi, nel pieno vigor dell' età, e nel fiore delle speranze! Ma essi, lasciando dopo di sè una bella accolta di valorosi discepoli, or sono là « « dove vegliano con perpetua vista nel sacro amore (1) » » e questo sia al dolor nostro lenimento e conforto. Gustavo di Cavour, a cui siamo avvinti con tutti que' legami d' antico affetto e di stima che s' intessono di cose eterne, fu forse il primo che, scrivendo in lingua francese, facesse conoscere la stessa dottrina alla Francia. Di poi Alessandro Pestalozza, professore di Filosofia nel Seminario Arcivescovile di Monza, ne pubblicò, il primo nella patria lingua, un intero e più copioso corso, e con più scritti validamente la difese contro alle obbiezioni mosse e svolte con eloquenza, da un celebre ingegno. Finalmente colui che avea rapito tutta l' Italia coi numeri d' una nuova lirica divina, che vi avea iniziati gli studŒ storici coll' esempio d' una diligenza non comune presso di noi, e con un acume di critica raro per tutto, che in una sagacissima pittura dello spirito umano, sotto forma di romanzo, avea date lezioni di severa e delicata morale, che con nuovi principŒ sulla lingua e sulla letteratura avea saputo additar la via da render quella più omogenea e più certa, questa più virile e più sincera, l' una e l' altra stromento più acconcio all' italiana concordia; questi, riposandosi quasi, dopo aver percorso sì varŒ e sì felici studi, nella filosofia, occupazione convenientissima alla sua età ed alla sua erudizione, fece pur ora dono all' Italia di un dialogo intitolato « « Dell' invenzione » », nel quale resta in dubbio se vinca la finezza dell' ingegno perspicacissimo, o l' urbanità dello stile, e non sai a quale delle due egregie doti, tu conceda più la tua maraviglia. Finalmente noi professiamo la nostra riconoscenza anche ai nostri leali avversari. Abbiamo narrato nelle due parti precedenti quello che abbiamo fatto, o che abbiamo avuto intenzione di fare. A compimento del discorso rimane ora da dire quello che non abbiamo fatto, e che non si può fare con letterarie fatiche e studŒ. Di questi studŒ, de' quali rendemmo conto ai nostri amici e a tutti quelli la cui benevolenza c' impose la dolce obbligazione della gratitudine, furono effetto gli opuscoli che abbiamo pubblicato e che or si raccolgono. Ma quello che si contiene ne' libri, ne' quali non si può trovare altro che scienza, non è nè il tutto, nè il meglio dell' uomo, o i libri trattino di quelle cose di cui, non essendo autor l' uomo, solamente da lui si contemplano, o di quelle le quali, essendo nella potestà dell' uomo, da lui non solo si contemplano, ma ancora si fanno. Chè la potestà che ha l' uomo di farle e le stesse azioni con cui egli le fa, come pure tutte l' altre realità da lui percepite, nè sono scienza, nè possono ne' libri racchiudersi: la stessa natura le esclude dalle scritture, e le colloca al di fuori della scienza, alla quale le scritture richiamano e dirigono, siccome altrettanti segni, il pensiero. Il che non è negato da persona, ma pochi tuttavia intendono quanto importi che questo si consideri. Perocchè v' ha qui una di quelle verità d' indole singolare, che sono nel tempo stesso e facilissime a concedersi, e difficilissime a comprendersi. E di ciò non è dispregevole prova il vedere che così sovente gli uomini, anche dotti, ripongono ogni importanza nella scienza e mostran di credere che con essa sola altri diventi sapientissimo uomo e perfetto, onde colla scienza che appartiene all' ordine delle idee, tornano a confondere la bontà della vita che appartiene all' ordine delle azioni e delle cose reali, la quale alla scienza è bensì confinante, ma al di là per gran tratto si stende. E a conferma di questo posson giovare le sentenze di quegl' ingegni che a perscrutare la natura delle cose morali più particolarmente si applicarono, le quali di rado sono consentanee a se medesime, ma per lo più, senza alcuna costanza, asseriscono l' una cosa e l' altra: ora dalla filosofia distinguersi la virtù, ora queste due cose farne una sola, ora finalmente distinguersi, ma andarsene sempre di conserva indivisibili. Vedasi una tale incoerenza nelle lettere di Seneca. In più luoghi questo moralista ripone la Filosofia nell' insegnamento della virtù, e, come più sopra noi abbiamo escluso dalla classe de' filosofi quelli che non professano la verità, così egli ricusa tal nome a coloro che non danno la dottrina della virtù: « Videndum, utrum doceant isti virtutem an non: si docent, philosophi sunt (1) ». Nella quale sentenza, non guari lontana dalla nostra, e che ugualmente mira a ristabilire la proprietà del parlare riserbando i vocaboli alle cose per le quali furono istituiti, si distingue la virtù, e l' insegnamento della virtù , e non in quella, ma in questo si ripone l' ufficio della filosofia. Ma in un' altra lettera, dimentico d' aver detto che la filosofia è una scienza (e la scienza giace nelle mere idee), un insegnamento (e l' insegnamento si compone di parole), benchè l' una e l' altro possa avere la virtù per oggetto, egli colloca la filosofia non più nelle idee, non più nelle parole che le significano, ma nelle cose, cui quelle rendono note all' uomo, e queste insegnano all' altr' uomo, e vi dice che: « Philosophia - non in verbis, sed in rebus est (2). » Così colui, che avea prima chiaramente distinta la scienza dall' azione , la prima delle quali non può uscir mai dall' ordine delle notizie senza perdere il suo carattere di scienza, la seconda entra nell' ordine delle cose reali; di poi, perduta di vista questa massima differenza, vuole che la scienza della filosofia nelle stesse cose si trovi, in quelle cose che ad essa non ispetta altro che insegnare o additare co' vocaboli all' altrui intendimento. Ma in un terzo luogo egli poi torna a riconoscere che quelle cose che qui confonde in una, sono due, e due a segno, che hanno fra loro una cotale opposizione, come il passivo e l' attivo; onde esponendo l' altrui sentenza, alla quale egli non nega l' assenso, le vuol distinte, ma però indivisibili. [...OMISSIS...] Nelle quali parole quantunque si distinguano la filosofia che è lo studio, e la virtù che n' è l' oggetto, tuttavia non si riconoscono per due forme categoricamente diverse, ma piuttosto per due gradi della cosa medesima, perocchè non pare che si possa intendere il concetto espresso nel testo allegato, se non così: che la Filosofia sia una virtù incipiente, la quale accresca e perfezioni se medesima coll' esercizio; ovvero che la filosofia sia una virtù speciale, la quale conduca l' uomo all' acquisto delle altre virtù, alla virtù universale; e nell' uno e nell' altro modo la filosofia ha perduto il carattere di pura scienza. Quello che professavano que' due sofisti di Chio, Eutidemo e Dionisiodoro, che Platone introduce a disputare nel dialogo che egli inscrisse col nome del primo di essi, cioè « di aver trovata l' arte di rendere gli uomini da malvagi buoni », e questo in un modo facile ed ottimo, unicamente con alcune loro argomentazioni, è quello nella sostanza che promisero agli uomini tutti i filosofi gentili prima di Cristo, e che promettono, se non così esplicitamente chè non potrebbero più esser creduti, pure implicitamente, anche molti de' moderni. I quali tutti non possono evitare l' uno di questi due errori, o che la bontà e la virtù morale consistano unicamente nella scienza, confondendo cose disparatissime, o che basti all' uomo di sapere il bene, perchè incontanente egli riceva col sapere anche la volontà e la forza d' operarlo in modo consentaneo a quel che la scienza gli addimostra. Delle quali due cose, l' una e l' altra è ugualmente smentita dall' esperienza, e da un' accurata osservazione dell' umana natura. Così è frequentissimo trovare negli scrittori confusa l' arte , che è un abito, il quale si riduce al genere dell' azione (1), colla scienza che spetta al genere di contemplazione ; e già notai altre volte la poca proprietà della parola pratico applicata a ciò che non è altro che notizia speculativa, come si dice filosofia pratica per dire la filosofia che specula sulle cose pratiche, cioè sulle azioni umane, e come si definisce la coscienza morale: un giudizio pratico , quando pure la coscienza non è che un giudizio speculativo sull' onestà, o inonestà delle proprie azioni particolari, ossia sulla pratica (2). Egli è facilissimo dunque rispondere a chi propone la questione netta ed immediata: « Se sia lo stesso la conoscenza d' una cosa reale o d' un' azione, o altrui, o anche propria, e quella cosa , quell' azione »nè v' ha alcuno (se lasciamo da parte alcuni filosofi che si perdono nella stessa speculazione) che tostamente non ne senta la differenza, e non risponda, esser quelle due cose, anzi non asserisca, distare infinitamente il conoscere dal fare. Ma perchè dunque una differenza così evidente, negata da nessuno, confessata da tutti, quand' è riguardata in faccia scappa poi dalla mente di molti allorquando essa entra nel discorso in un modo indiretto, e voi vi abbattete da per tutto, anche per mezzo alle più eccellenti scritture di uomini grandissimi, in quelle due cose ridotte ad una, o l' una confusa, o convertita nell' altra? Questa contraddizione in cui cadono senza avvedersi, deve avere la sua ragione, e merita d' essere ricercata: all' intento poi del nostro ragionamento, che è di porgere l' idea della sapienza, l' investigarla è necessario. Ed ella si trova in questo, che ci sono due sorti di notizie, nelle une si ferma il solo intelletto, nelle altre si spiega l' attività del soggetto, e in virtù dell' adesione di quest' attività soggettiva, esse stesse diventano operative, di maniera che si può dire ugualmente che esse operano per virtù della volontà, o che la volontà opera per virtù di esse. E nel vero tutti consentono che la volontà è il principio delle azioni umane. Ma cos' è la volontà? Esisterebbe questa potenza senza notizie? No: chè a' principŒ attivi i quali operano senza alcun lume di cognizione non s' addice il nome di volontà , che è un principio razionale onde la sentenza comune, che la volontà non si muove mai verso l' incognito. Una notizia dunque è necessaria ed essenziale alla costituzione della volontà, od è la forma oggettiva della volontà stessa. Poichè come l' attività del soggetto, astraendo da ogni notizia, non è più che, quasi direi, la materia costitutiva della volontà, così quando quell' attività è informata dalla notizia del bene, allora essa è divenuta volontà; non è più un semplice rudimento materiale della volontà, è la volontà a pieno formata; non è la volontà ancora in via ad essere, nel quale stato si vuol chiamare con una maniera antichissima della scuola italica non7ente , ma è la volontà pervenuta al compiuto suo essere. Questo è dunque l' ordine intrinseco, nel quale la volontà si natura: c' è prima la notizia oggettiva nell' intelletto, poi l' attività soggettiva a quella si congiunge, assentendo: l' attività soggettiva così congiunta all' oggetto è divenuta un principio attivo, che si chiama volontà: questo congiunto, questa potenza di volere è il principio delle umane operazioni: ed ha un grado di forza proporzionato al grado della sua adesione all' oggetto intellettivo: laonde si può dire che la notizia dell' intelletto diventi operativa per l' adesione ad essa del soggetto e quindi che ella operi per la volontà di cui è divenuta la parte formale, e si può dire altresì, che la volontà operi per la notizia che è la sua forma. Ci sono dunque, per ricapitolare, due generi di notizie, le une speculative, le altre pratiche ossia operative; quelle costituiscono la scienza , queste costituiscono il principio reale delle azioni umane. E qui si avverta bene (perocchè l' equivoco e la confusione che vogliamo spiegare sta qui), si avverta, che la scienza può speculare su tutto, anche sul principio delle azioni, la volontà, sulle notizie pratiche, come fin anco sopra se stessa; ma lo speculare sopra una cosa non è già un convertir la cosa in ispeculazione, un' assorbirla con essa speculazione: chè tanto è lungi che la speculazione cangi ed assimili le cose reali, e le azioni a se stessa, che anzi ella è quella che ci fa conoscere queste cose e queste azioni avere e mantenere una natura diversa ed opposta a quella della scienza, a cui diventano oggetto. Laonde le notizie pratiche di cui parlavamo non sono scienza, nè si possono scrivere ne' libri, perchè cesserebbero dall' esser pratiche , e quando si pretende di scriverle (ecco l' illusione), quando si crede di averle scritte, allora altro non s' è fatto, altro non s' è scritto, che la dottrina che versa intorno a quelle notizie pratiche , non le stesse notizie, in quanto sono pratiche, cioè in quanto sono le radici delle reali operazioni, non potendo stare immobili dentro un libro le operazioni dell' uomo che passano, benchè dentro ad esso possa stare un trattato scientifico sulle medesime; chè le idee non passano, ancorchè le cose di cui sono idee, passino. Ma onde poi quest' allucinazione, per la quale si confondono insieme due ordini così distinti quali sono l' ordine delle cose ideali , e l' ordine delle cose reali ? due ordini che gli uomini hanno un bisogno frequentissimo di distinguere, e che in fatti frequentissimamente distinguono nel comune linguaggio? La prima ragione che si presenta alla mente è quella de' vocaboli. Chè gli stessi vocaboli si usano veramente così a significare le idee delle cose come le cose, così a significare le cose possibili, come le cose reali. Quando si dice a ragion d' esempio: « l' uomo è un essere ragionevole », la parola uomo non significa alcun uomo reale, ma l' uomo nella sua essenza e possibilità. Quando poi si dice: « l' uomo che tu vedi chiamasi Pietro », la stessa parola uomo è usata a significare non più la sola idea dell' uomo, ma con essa l' uomo reale. Ora vocaboli che s' applicano a significare più entità differenti, fanno sì che alcune volte le entità stesse, confuse nel discorso, si confondano nella mente, e si parli dell' una come se fosse l' altra. La qual ragione tuttavia non è l' ultima: chè ci resta a cercare: perchè poi gli uomini impongano gli stessi vocaboli alle idee ed alle cose, agli esseri meramente ideali, ed agli esseri reali corrispondenti a quelli. E la dottrina intorno all' umana conoscenza, ci discopre questa ragione ulteriore. E` indubitato, che l' uomo non può applicare un segno vocale, un nome, se non a quello che egli conosce. Ora l' uomo non potrebbe conoscere ciò che cade nel suo sentimento, se non riferisse il sensibile all' idea , rendendolo così intelligibile . All' incontro l' idea non ha bisogno per essere intesa della presenza della realità sensibile; di che questa è una prova evidente, che l' idea rimane nella mente senza la realità, per modo che l' idea è intelligibile per se sola, quando il sensibile non è intelligibile se non per mezzo dell' idea, e colla continua presenza dell' idea. L' idea dunque è l' ente in quanto è conoscibile per se stesso ed è la conoscibilità delle altre cose o entità che non sono idee, cioè degli enti in quanto sono reali e sensibili. Come dunque c' è un ordine logico fra le notizie, di manierachè le prime a conoscersi sono le idee, le seconde poi sono quelle cose che si conoscono per mezzo delle idee, così conviene, che anche l' invenzione de' vocaboli proceda con lo stesso ordine, di manierachè anche ne' vocaboli si distinguano due classi, e la prima sia quella de' vocaboli, che significano idee, la seconda sia quella de' vocaboli che conducono la mente alla realità delle cose. Ora alla prima di queste due classi appartengono i nomi comuni (e comuni sono quasi tutti), alla seconda poi appartengono i nomi proprŒ , e tutte quelle particelle, sieno pronomi, o avverbi, od altro, che si adoperano a trasferire la mente dall' idea comune ed universale, al proprio ed al reale. Così quando io voglio far servire il nome comune di uomo a significare non più la sola idea, ma un uomo particolare e reale, io non posso adoperare quel nome tutto solo, nel qual caso altro non additerebbe alla mente altrui che l' uomo universale, cioè l' idea, e però ho bisogno d' aggiugnergli qualche altro vocabolo, che lo determini a significare l' uomo particolare, per esempio il nome proprio Pietro , o « che tu vedi »o delle particelle che ne indichino la presenza ai sensi, come « che è qui », od altri modi che richiamino alla memoria o all' attenzione l' uomo che fu presente ai sensi nostri altre volte, o ai sensi altrui, o un uomo insomma particolare in qualsivoglia modo determinato. Colle quali aggiunte si restringe il significato di quel nome comune, e si dà a intendere a coloro, co' quali si parla, che quell' idea fa conoscere, in quel caso e per quella volta, una data realità sensibile , e non altro: e così la si prende come fosse la conoscibilità di questa sola, sebbene per sè significhi una conoscibilità universale. Laonde i nomi comuni (a cui si riducono pure gl' infinitivi de' verbi, i participŒ, e gli addiettivi d' ogni maniera), non son essi che significhino il reale, ma l' aggiunte che ad essi si fanno nel favellare; ma essi sono necessarŒ, perchè son necessarie le idee a far conoscere il reale, che separato dalle idee è oscuro, ed essenzialmente ignoto. Or se l' ideale, e il reale sono differentissimi, come in quello e per quello si può conoscer questo? (1) La risposta si trova nell' intima osservazione della cognizione, e del modo di conoscere. La quale osservazione ci attesta, che il fatto è così; e tanto dee bastare a qualunque uomo ragionevole: chè non è mai ragionevole il negare un fatto ben accertato. Ma la stessa osservazione, ove sia penetrante, non solo ci attesta il fatto, ma anche ce lo spiega, perchè è uno di que' fatti, che nel suo seno contiene la sua propria ragione. Noi dunque entrando coll' attenzion della mente negl' intimi penetrali di quel fatto, troviamo che quantunque l' ideale e il reale sieno differentissimi, tuttavia hanno un elemento identico, e questo è l' ente: lo stesso ente identico trovasi nell' uno, e nell' altro, ma a diverse condizioni, e sotto una forma diversa: una forma sotto cui si trova l' ente è l' idealità, o la conoscibilità, o l' oggettività (espressioni che vengono tutte a dire, sostanzialmente, il medesimo), un' altra forma sotto cui si trova il medesimo ente è la realità, la sensibilità, l' attività, che anche queste sono espressioni, che dicono in sostanza il medesimo. Così una massima differenza sta nella forma, un' identità sta nel suo contenuto, che è l' ente stesso: questo in quanto è puramente conoscibile, in tanto è ideale, in quanto è sensibile in tanto è reale: il sensibile reso conoscibile, cioè l' accoppiamento di quelle due forme, è ciò che ci dà la percezione intellettiva, e la cognizione del reale. Dopo di ciò non possiamo più maravigliarci, che i filosofi confondano talora quelle due forme; perchè questo accade loro ogni qualvolta, non accorgendosi che il loro ragionamento si volge intorno alle forme , e riputando in quella vece di parlare dell' ente , accade loro di prendere quelle due forme per una sola, o di prender l' una per l' altra, appunto perchè l' ente, di cui credono ragionare, è uno solo sotto le due forme. All' incontro quando s' accorgono apertamente, che il loro ragionamento s' aggira circa le forme, e che non è dell' ente, come quando si propongono direttamente la questione che batte sulle forme, « se l' idea, e la cosa sia il medesimo », allora non avviene mai che le confondano. Rimane nondimeno a dare un passo più oltre, cioè a investigare perchè accada sovente, che quando il ragionamento tratta delle forme, i filosofi, non avvedendosene, lo dirigano a dir quello che dovrebber dire se si trattasse dell' ente: perchè questa difficoltà a distinguere quando l' oggetto di cui si parla è l' ente, e quando l' oggetto di cui si parla sono le forme? Si osservi, che l' uomo comune, alieno dalle scientifiche astrazioni, non fa riposare mai la sua attenzione intellettiva nè sul solo reale scompagnato dall' idea, che senza questa non si può conoscere; nè sulla mera idea, che sa bensì usare a conoscere il reale, ma d' essa sola non sa che farne: di manierachè ciò, in cui si ferma l' attenzione naturale dell' uomo, è sempre il reale unito all' ideale, colla quale unione si forma il termine della percezione. Ma quando l' uomo si solleva alle astrazioni scientifiche, allora s' accorge di questa duplicità che è negli enti da lui percepiti, onde distingue (in qualunque maniera chiami questi due elementi) la materia e la forma della cognizione. E allora l' idea acquista una nuova relazione colla mente umana, non è più solo oggetto dell' intuito, e mezzo di conoscere le realità, ma è divenuta ancora oggetto della riflessione , e quindi mano mano della scienza. Ma il reale scompagnato dall' idea, privo della sua luce, rimane del tutto incognito, e il rimanere incognito equivale a un dire, che, rispetto alla mente, è caduto nel nulla. La mente però che prima lo conosceva, non vuol perderlo; e per non perderlo, ella, senza pure avvedersene, lo riveste di nuovo dell' idea: quell' idea che gli ha tolto consapevolmente, quella stessa gliela restituisce inconsapevolmente. E quindi ella cade in una prima allucinazione, e poi traendo seco quest' allucinazione (quasi una penna con un peluzzo nel taglio che scrivendo imbratta tutte le eleganti lettere che va formando) fonda la filosofia sopra due elementi, cioè sull' idea staccata dal reale, e sul reale unito di nuovo all' idea; prendendo così l' idea due volte, invece di prenderla una volta sola. Con un' altra riflessione spontanea su questo prodotto erroneo della riflession precedente, il filosofante incappa necessariamente in un altro errore; chè egli oggimai trova da per tutto l' idea da cui è inseguito, o accompagnato nella stessa fuga, la trova anche in quell' elemento che egli crede aver sceverato da ogni idea, perchè questa, alla sua insaputa come dicevamo, c' è ritornata, anzi c' è l' ha rimessa egli stesso per un istinto intellettivo, non per alcuna riflessione, e quindi senza coscienza. Trovando dunque l' idea anche là dove pensa che ci sia sola la realità, è natural conseguenza, che confonda l' idea con essa realtà: e questo io stimo essere il vero principio, e il processo dell' errore d' un illustre italiano, che di quest' errore fece un sistema sull' esempio de' Tedeschi. Ma i filosofi tedeschi caduti in quest' errore, in cui ci cadono tanti altri, il raccolsero con quella gioia, con cui si trova un tesoro, e colla loro diligenza, colla maraviglia loro famigliare, vi edificarono sopra un gigantesco, o piuttosto grottesco sistema; all' incontro gli altri, che pure confondono la scienza coll' azione reale, il fanno senza badarci, e senza darvi alcuna importanza. Non è men vero per questo, che anch' essi vengano in tal maniera a riporre tutta l' umana natura che è reale, nella scienza, e a ridurre l' uomo allo scienziato: e quindi oggimai non può fare maraviglia se facilmente si persuadano, che quando un uomo ha la scienza, abbia ancora con essa la virtù, e che essi soli diano questa agli uomini nelle loro scuole, perchè in esse comunicano loro le proprie teorie. L' impossibilità dunque in cui è l' uomo di pensare direttamente, e più ancora d' immaginare il reale scompagnato affatto dall' idea, conduce lo scienziato, che non istà sommamente guardingo, per questa serie d' allucinazioni, onde perviene a ridurre ogni cosa alla scienza (nulla più vedendo fuori di questa) o almeno a pigliare la scienza per la stessa virtù morale, che all' opposto nel reale dell' operazione consiste; tanto più che l' operazione, per esser virtuosa, è necessario che si riferisca e conformi all' idea, ossia a quella Filosofia, che Seneca, quando non confonde le due cose, definisce (ancor troppo parzialmente) « lex vitae (1) ». Al di là dunque della scienza vi ha un mondo reale, che sfugge non di rado agli occhi degli scienziati e de' filosofi; e in questo mondo vive in gran parte l' uomo, il quale non vive di sola scienza. Se si cerca quello che è perfetto nell' uomo, e che acconciamente può esser denominato sapienza , non convien fermarsi al primo elemento cioè alla scienza, o più generalmente alla cognizione , ma a questa è necessario unire il secondo, che è l' azione reale , in cui la bontà morale consiste. In certi lucidi intervalli della mente sentirono questa verità assai bene gli stessi filosofi gentili, e parlarono della sapienza come di qualche cosa di completo, di qualche cosa, che dovea comprendere tutta la perfezione dell' uomo , la quale nella mente s' inizia, ma si continua poi a ordinare gli affetti, e a rendere onestissime e piene d' armonia tutte, anche le menome sue azioni. Onde qui opportunamente scrivea il filosofo morale che abbiamo citato: « Maximum hoc est et officium sapientiae et indicium, ut verbis opera concordent, ut et ipse ubique par sibi idemque sit (2). » E non preterisce a questo luogo la distinzione fra la filosofia come scienza, che può annunziarsi colle parole, o consegnarsi alle scritture, da quella sapienza la quale non concede che per intero o si dica, o si scriva, e che s' ottiene allorquando la scienza trapassa nell' attività umana, e ne riforma le passioni, gli affetti, le operazioni. [...OMISSIS...] Dove si scorge distinta la filosofia dall' uso della filosofia, da quell' uso , dico, pel quale l' uomo non già co' ragionamenti e colle lettere, ma co' fatti e colle operazioni, che son fuori di tutta la scienza e di tutti i libri, realizza quello che la filosofia insegna nelle parole e ne' libri, e converte le massime di lei in sentimenti, che è quasi un farle penetrare dentro i precordŒ, sede dagli antichi assegnata alle passioni. E in una maniera somigliante viene descritta la sapienza da Platone in quel dialogo che nominò dal giovanetto Teeteto, dove cercasi la definizione della scienza, senza mai rinvenirla, o almeno senza che la si profferisca espressamente, al che forse era un ostacolo, che rendea quella disputa anche lunga ed intrigata, il non distinguersi bastevolmente dal concetto della scienza , quello dell' arte e della vita . Ma la sapienza si ripone senza esitare « « nella perfetta congiunzione della giustizia e della santità colla prudenza »(2). » Chè Socrate dopo aver detto essere impossibile che tutti i mali s' estirpino nelle cose umane e soggiunto « « che tuttavia quelli non possono avere alcun luogo presso gli Dei », » continua così: [...OMISSIS...] Laonde, secondo il senno più compiuto e più purgato degli antichi, la sapienza ha due parti, le quali però in essa si trovano individuamente congiunte, la prima che nella mente, e questa se si separa, e col mezzo della riflessione ordinatamente si dispone, acquista il nome di scienza , che s' insegna, e si scrive; l' altra poi è tale, che nè s' insegna dalle cattedre, nè si può scrivere ne' libri, ed ha la sua propria ed unica sede nell' animo e nella volontà, e in tutte le affezioni, e le operazioni; e tuttavia ella è quasi la stessa scienza, discesa dalla mente, trasfusa nella realità del sentimento, penetrata nella vita, dove con pieno e beneficentissimo imperio governa. E veramente si può mai scrivere l' azione? l' azione umana dico in qualunque de' suoi tre o quattro gradi che sono la cognizione pratica, il sentimento, il decreto, l' operazione esteriore? Ponete mente, che non è mai abbastanza avvertita la distinzione: quando voi avete scritta la parola azione , avete scritto altro che un' idea? Non altro: e l' idea di un' azione sarà ella l' azione nella sua realità? Se voi invece di scrivere azione solamente scrivete di più: « quest' azione reale » ovvero « questa cognizione pratica, questo sentimento che proviamo, questo decreto della mia volontà, onde venne il movimento alle mie mani che or maneggian la spada », allora voi avete scritto delle azioni reali, ma cosa vuol dire scrivere delle azioni reali? Forse prendere le azioni medesime, e incarteggiarle, inserirle nello scritto? Nulla affatto, nulla di questo; vuol dire solamente tracciare in sulla carta de' segni che richiamano tali azioni all' intendimento. Quando poi l' intendimento riceve questi segni, che operazione fa egli per trasportare la sua attenzione da essi alle azioni significate? Forse un' operazione di tal natura che con essa intruda in sè, nel suo pensiero, come in un astuccio, le operazioni stesse reali, per forma che la cognizione che n' acquista diventi essa stessa quelle operazioni? Certo no: che, se fosse, come potrebbe pensare, il che pur pensa, che quelle azioni erano prima che fossero da lui conosciute, e saranno dopo che egli avrà cessato di pensarvi, e che hanno una causa, che egli fors' anco ignora, o conosce esser diversa dal suo pensiero, nè mai gli accade di credere fino che è sano di mente, che il solo pensarle sia un produrle? Dunque nè lo scritto, nè il pensiero delle azioni sono le azioni scritte e pensate, si pensino esse nel loro essere ideale per via di semplice intuizione, o nel loro esser reale per via di apprensione, e di affermazione: fuori della cognizione teoretica, della scienza, rimane sempre qualche cosa, rimane l' azione reale; fuori delle idee, rimane tutto il soggetto. Ma pur questa è una legge dell' anima, che quando agisce esclusivamente con uno de' suoi principŒ operativi, allora ella è questo stesso principio, nel quale ha trasfusa tutta la sua attualità, o certo non le pare di esser altro, perchè gli altri suoi principŒ non sono in quell' istante attuati. Ora lo scienziato, o diremo meglio il pensatore, vive di pensiero, e però egli è attualmente il pensiero, e quindi facilmente cade nell' illusione di riputarsi solo pensiero. Ma le cose che attualmente non cadono nel pensiero, come abbiamo detto di sopra, sono nulla al pensiero, perciò il pensiero immediato le dichiara nulla . Ecco qua di nuovo l' origine del nichilismo hegeliano, la quale in fondo è la medesima di quella che abbiamo indicata più sopra, ma qui vestita d' altre parole. Il nulla onde Hegel fa uscire tutte le cose dell' universo, e nel quale le fa poscia rientrare, non è altro, preso alla sua origine, se non quello che non è divenuto ancora oggetto del pensiero, e che però è nulla al pensiero dell' uomo, e ritorna nel suo primitivo nulla, quando il pensiero cessa dall' atto consapevole. Il qual fenomeno che nasce al pensatore ingannò quel filosofo (ed è lo stesso inganno che subirono gli antichi dell' India) che pose per principio delle cose il nulla (chè gli enti sono prima non pensati, e però nulla al pensiero, e poi pensati, e però relativamente al pensiero esistenti). Quello adunque che era un' apparenza relativa al pensiero immediato e percettivo o anche al pensiero consapevole, e che dipendeva da una legge soggettiva del medesimo pensiero, il filosofo di Stuttgarda, chiuso così in quella sfera del suo pensiero, lo diede per cosa assoluta. Per fermo l' anima che trova la scienza non è, e non può essere, in quell' atto, che solo pensiero, essendo soltanto in questo attuata, e quand' anco ella fosse attuata in altro, quest' altro atto che ella avesse in quell' ora, non sarebbe quello che le produrrebbe la scienza, e però la scienza non lo rappresenterebbe. Ora poi se s' aggiunga, che il primo fondamento su cui s' eresse la filosofia tedesca fu un pregiudizio introdottosi universalmente dopo Locke, cioè che « le cognizioni sieno un mero prodotto dell' intendimento », e però del soggetto umano, ell' è ovvia la spiegazione del sistema hegeliano, e, nel suo traviamento, mostra la forte dialettica dell' inventore, chè tutto si deriva per diritto da queste due proposizioni, entrambi erronee: 1 Il pensatore come tale non riconosce per esistente quello che non è ancor oggetto del suo pensiero, e però lo dichiara NULLA; 2 le cognizioni sono mere produzioni dell' intendimento, e però anche gli oggetti del pensiero sono da questo prodotti e quindi creati, chè il pensiero dal NULLA li fa passare all' ESSERE. E dissi che anche la prima di queste due proposizioni è un errore (l' errore contenuto nella seconda fu da noi lungamente esposto nell' Ideologia), perchè ella non è una proposizione che proceda dal pensiero preso nella sua totalità, ma da un atto particolare di esso, dall' atto della percezione , a cui i tedeschi diedero un' estensione maggiore che non abbia (1): giacchè il ragionamento che sussegue alla percezione, e che certamente è pensiero anch' esso anzi pensiero più innoltrato, conduce l' uomo ad ammettere l' esistenza attuale anche di enti che non cadono nel pensiero percettivo, o nel pensiero consapevole, purchè abbiano relazione con cose che cadano in quel pensiero. Per altro questa illusione non è un fatto isolato: è dello stesso genere di quella che accade agli uomini dati sfrenatamente ai piaceri de' sensi, i quali si mostrano sempre inclinati a credere che quel genere di piaceri sia tutto, e che l' anima umana sia unicamente sensitiva, com' è quella delle bestie, appunto perchè l' anima loro è tanto attuata nella sensazione, e quasi in essa assorbita, che non si conosce più se non come anima senziente, o non ha d' altro coscienza. Pure l' illusione della filosofia Prussiana ha un carattere che la distingue dall' illusione dell' uomo sensuale, e la rende più superba, e quel carattere deriva da questo, che la filosofia è effettivamente opera del solo pensiero, non del senso, e però al filosofo, ridotto quasi ad essere un pensiero puro, accade facilissimamente di non conoscere e di non ammettere che il pensiero, e di prendere i fatti del pensiero per fatti ontologici, come è già avvenuto alle scuole Indiane e alla stessa scuola d' Elea; laddove se il sensualista prende a filosofare, egli è necessitato a salire al pensiero, e, non potendolo disconoscere, si contenta d' attribuirlo al senso dove trova pure il sostegno d' una realità. Ridotto poi l' uomo da' nominati filosofi al solo pensiero, e le idee ridotte pure a non esser altro che produzioni, e modi del pensiero, e confuse necessariamente colle cose (che fuori del pensiero nulla più si riconosce), l' uomo dovea acquistare nelle mani di tali filosofi un cotale stato d' oggettività, e d' impassibilità, che lo divideva necessariamente dagli umani sentimenti, e dai doveri morali. Perocchè io lascio qui da parte le altre gravissime conseguenze, che discendono da' principŒ della scuola hegeliana, quali sono il panteismo, con tutte le dottrine inauditamente mostruose dell' empietà germanica, e voglio solamente osservare, come l' uomo divinizzato in quella filosofia si trovi ad un tempo dissecato ed inaridito riguardo a tutti i più nobili umani affetti, i quali non sono nobili se non sono dai doveri morali nobilitati. Chè allorquando l' uomo si ferma ai sentimenti e ai doveri, sieno religiosi, o di padre e figlio, o di sposo e sposa, o altri quali si vogliano, egli non è ancora divenuto Dio secondo tali maestri, perchè egli non è ancor consumato nell' oggettività del suo pensiero, e per usare una frase famigliare a tali sofisti la « sua coscienza è ancora involta nel travaglio della sua propria creazione. »Quando poi ella emerge da questa sua « immediatità creativa, »del tutto sviluppata, a guisa della farfalla dal bozzolo, allora, divenuta pensiero oggettivo, ella contempla tutte l' altre cose che appartengono agli uomini, cioè i sentimenti e i doveri, dall' alto del suo trono dell' astrazione, siccome cose a sè inferiori, che non più a sè appartengono, ma le stanno davanti a modo d' uno spettacolo artistico, nel quale lo spettatore non ha a fare alcuna parte attiva. L' IO allora è libero, dicono, perchè la morale stessa è sotto di lui: egli la contempla con una perfetta indipendenza e separazione, siccome un pittore che fattosi ricco, e divenuto per la virtù dell' oro più che pittore, sdegna oggimai il dipingere, e si contenta di riguardare con signorile alterezza i quadri dagli altri pittori dipinti. Questa mostruosa dottrina dovea riflettere sulla politica, sulla famiglia, sulla letteratura germanica, e per non parlare che di quest' ultima il Goethe ne fu il rappresentante più ammirato. Il carattere della letteratura del Goethe è appunto l' oggettività nel senso della filosofia germanica: non l' oggettività che l' uomo riconosce per qualche cosa di superiore a sè, a cui si sommette con umile riverenza, ma l' oggettività che l' uomo espugna ed invade, mettendo in essa se stesso e di là regna (cioè s' immagina di regnare), senza aver bisogno di riconoscere più nulla sopra di sè, ma tutto sotto di sè: in una parola è la scalata data al cielo. Tutti gli affetti, tutti i doveri stanno sotto i piedi di quest' uomo [...OMISSIS...] Il Faust è il carattere d' un uomo che non può sofferire di sentirsi chiuso dentro i confini dell' umanità, vuol romperli, tenta ogni cosa per uscirne: si profonda nella scienza della natura, in vano: fa ricorso alla magia, in vano: s' immerge in tutta la voluttà de' sensi di cui l' uomo è capace, si sdegna col Creatore che l' ha rinserrato in que' cancelli dell' essere umano, si vende al demonio, tutt' in vano; infine dopo avere tanto sperato inutilmente di trovare il TUTTO nel NULLA di Mifistofele (2), raggiunto dalla morte, in presenza di questa esclama: « « O natura ch' io non sia null' altro che un uomo davanti a te! porterebbe in tal caso la pena d' essere un uomo! » » E` un' imitazione del Prometeo d' Eschilo, se non che la figura del Semideo è d' un disegno grandioso e puro: il Faust è un piccolo titano del secolo XVIII, un vero professore delle università tedesche, senza un solido sapere, d' immensa ma sregolata immaginazione, credulo, voluttuoso, ambizioso, visionario, pazzo: e per fermo che sotto a questo aspetto il Faust di Goethe è la più acre derisione di quella filosofia ond' egli attinge la vita. Tale è il capo d' opera del poeta prodotto dal panteismo germanico. Non sarà inutile soggiungere il giudizio dell' Herder sopra il Goethe; eccolo: [...OMISSIS...] Non ci parve inutile distenderci alquanto dimostrando le conseguenze d' un errore, nel quale, ove la questione si ponga direttamente, l' uomo non cade mai, ed anzi pare allora impossibile che uomo alcuno ci cada; vogliam dire l' errore che confonde l' idea colla realità, e assorbe tutte le cose nella scienza e nel pensiero che la produce. Dall' aver obliato questa distinzione, che forse a molti può sembrare una sottigliezza metafisica senza utilità alcuna, vennero tutte le conseguenze di cui abbiam parlato: quell' oblivione fu la fucina a cui fabbricaronsi l' armi, di cui alcuni professori tedeschi, quasi gelosi della gloria de' giganti che gemono sotto l' acque, s' armarono. L' uomo della vita comune, a cui non manca mai una logica naturale, bastevole dentro la sfera onde non escono le sue azioni, non va soggetto a sì strana allucinazione; chè il termine de' suoi pensieri, su cui posa la riflessione, è sempre il congiunto dell' idea e del reale, che cade nelle sue percezioni: egli non divide i due elementi; non si ferma a considerar l' idea in separato dalla cosa, molto meno la cosa in separato dall' idea. Distingue bensì questa da quella, ma non la separa: vede l' una in faccia all' altra. Laonde non trova nella cosa reale alcun mistero che lo sorprenda; quando la cosa conserva i suoi rapporti coll' idea, ella trovasi illuminata da questa, è conoscibile; laddove se la cosa si separa dall' idea per un' astrazione costante, come fa il filosofo, subitamente ella gli diviene in mano un enimma: un non so che, che d' una parte non può negare perchè gli rimane nella mente la memoria della notizia che n' ebbe quando la considerò congiunta all' idea, e che dall' altra non può ammettere, perchè non sa più affatto che sia, astratta a quel modo, o come sia, priva dell' idea, ed anzi ne vede l' impossibilità: antinomia singolare e trascendente, per isnodare la quale il pensatore s' ingolfa in quelle ipotesi che sono altrettante mostruose aberrazioni. Conviene dunque che lo scienziato così aberrante ritorni uomo, e non può ritornarvi se non per lo stesso cammino della scienza pel quale s' è traviato; chè la scienza, o ciò che si usa di chiamar scienza, è quella maga che ha virtù di convertire gli uomini in bestie, e in vari generi di mostri, ed anche in demoni, e di farli poi ritornare uomini, ma d' una statura maggiore di quella di prima. E queste due contrarie operazioni quell' antica incantatrice le compie l' una per mezzo de' sofisti, e l' altra per mezzo de' filosofi che loro succedono, come abbiam veduto di sopra; chè i sofisti rompono audacemente le sfere del cielo della mente, quasi fossero di cristallo, entrando in ordini superiori di riflessioni, e colassù tiranneggiano per un po' di tempo la scienza; ma i filosofi che ivi sopravvengono, gli spossessano poi del campo con violenza usurpato. Così la filosofia tedesca s' innalzò per vero ad una riflessione più elevata di quella a cui trovavasi la filosofia del tempo quando considerò il reale diviso intieramente dall' idea, e s' accorse che in questa separazione, egli si rimaneva un incognito, e di più diventava un impossibile. Allora ella conchiuse frettolosamente, secondo il costume della sofistica, e coll' entusiasmo proprio delle vane creazioni, che il reale, e quindi il soggettivo, si dovea ad ogni patto ricacciare dentro ne' visceri dell' idea cioè dell' oggettivo, e ne comparve immantinente la teoria dell' identità assoluta , e la logica hegeliana che si divora la metafisica, come Saturno i suoi figliuoli. Indi le rovine della filosofia e di tutto ciò che è vero e santo. Ma come i diversi ordini della riflessione non determinano nè la verità nè l' errore, ma sono indifferenti all' una e all' altra; onde in ciascuno tanto l' errore, quanto la verità trova un amplissimo spazio in cui collocarsi, e tanto più ampio, quanto l' ordine è più elevato; così rimaneva che, entrando i veri filosofi, per la porta aperta, nella medesima sfera, vi combattessero l' errore arrivato il primo, conquistando quella nuova zona celeste alla verità. E la filosofia fa questo, ragionando così: Vero, che il reale diviso totalmente dall' idea è un incognito, e, se volete, in tale stato, anche un impossibile: ma da questa premessa non deriva la conseguenza che dunque egli appartenga all' idea, che questa se l' abbia in sè, di sè lo emetta e in sè di nuovo lo assorba: cose tutte che si possono anche direttamente mostrare contrarie al fatto, ed assurde; ma deriva soltanto quest' altra conseguenza, che il reale non è mai senza l' idea, dalla quale per un' astrazione arbitraria della mente si divide, è coll' idea, non nell' idea come un suo momento, sicchè reale e idea sono indivisibili, ma non identici: il primo non può stare senza la seconda, ma non si confonde mai colla seconda e d' altra parte l' idea può stare, fino a un certo segno, senza il reale. Altro è dunque il dire che il reale abbia una relazione essenziale coll' idea, un sintesismo ontologico; altro è il dire, che da que' due elementi si deva, si possa rimovere la dualità, concentrandoli in uno solo. Come abbiamo già detto innanzi, il reale è indivisibile dall' idea e insieme distintissimo; perchè quell' essere che è nell' uno, è identicamente nell' altra, ma non sotto la stessa forma, nè alle stesse condizioni: tale essendo l' immutabile natura ed eterna dell' essere, che, nella sua perfettissima unità, in due forme distintissime ed affatto inconfusibili si ritrovi. Di qui la dualità dello stesso sapiente, tanto diverso dallo scienziato. Chè il sapiente nasce dalla piena conformazione dell' uomo reale colle idee, e per mezzo delle idee con tutto l' ordine delle cose reali: conformazione che niuno gli può dare se egli non la dà a se medesimo colla propria attività, cioè colla libera potenza di volere, la quale sola rende pratico, cioè operativo, lo stesso pensiero. E tutta quest' azione della volontà, benchè sia comunicata al pensiero, è però distinta dal pensiero teoretico che si ferma nelle idee e nelle notizie; è un' azione unita al pensiero, ma non confusa con lui, un' azione del soggetto sopra il soggetto, a cui il pensiero diventa mezzo e stromento, dalla quale, il diremo di nuovo, il soggetto reale - persona umana - rimane modificato e nobilitato, partecipando della divina eccellenza delle stesse idee, senza poter giammai trasformarsi in esse. Quando l' umanità era ancora, quasi direi, nella sua culla, e non s' era molto inoltrata nella scoperta delle regioni astratte, regioni vastissime e piene di pericoli, come pe' viaggiatori sono gl' immensi deserti, a lei si affacciava quest' imagine della sapienza in tutta la sua nativa semplicità e verità, ed ella tendeva a raggiungerla. Questa tendenza, questi sforzi, in cui s' esperimentava sempre più la difficoltà dello scopo, più lontana apparendo la sapienza, più che progredendosi verso di lei se ne scopriva meglio la divina natura, (come l' areonauta quanto più s' innalza nell' atmosfera, tanto più intende quanto lontane stieno le stelle, o come incontra a colui che ascende un' altissima montagna, che la vetta, che gli parea da principio toccare, gli si dilunga e gli par più inaccessa): questa tendenza, dico, e questi sforzi furono chiamati convenevolmente filosofia , significando appunto la parola « amore e studio di sapienza ». Ma non è ancor quì la filosofia come scienza , nel quale significato, a cui fu più tardi ristretto il vocabolo, noi la prendiamo: quell' antica filosofia è più ed è diversa dalla scienza. E` più della scienza, perchè questa non ha e non può avere a scopo se non d' illuminare l' intendimento, grandissimo aiuto alla buona volontà, a cui spetta di compir l' opera rendendo, l' uomo sapiente; ma aiuto prestato alla volontà senza violentarla o necessitarla lasciandola libera, rinforzando anzi la sua libertà, sia di dirigere e modificare l' umano soggetto e tutte le sue potenze a quel modo che la scienza dimostra, sia nel modo contrario, qualora riponga, con un falso giudizio, la sua grandezza e la sua felicità in altra cosa, e fors' anco in una lotta d' orgoglio contro la vera scienza e la verità in quella racchiusa, e cerchi una gloria più grande, anche non isperando vittoria, quant' è più grande ed augusto il nemico col quale combatte, da cui si lascia uccidere, senza arrendersi. La filosofia dunque, noi dicevamo, nel senso, « d' una tendenza pratica alla sapienza »è più della filosofia come scienza, che al cospetto di quella rimane umiliata. E questa giusta umiliazione, rivelata al mondo dal Vangelo che dell' umiltà fece la più alta e la più ragionevole delle virtù, è causa d' un' irritazione, che talora giunge al furore, nell' uomo dedito alla sola scienza che si crede divenuto puro pensiero, e come tale vuol esser tutto. Le sue potenze inferiori vanno disordinate: egli le lascia andare quasi non appartenessero a lui, ed arrivano a trascinar seco, lui medesimo: disordinano il suo stesso pensiero traviandolo dalla verità, ma egli non cura, chè non pone l' eccellenza nel modo , ma nella forza del pensiero. E allora appunto, il suo proprio pensiero gli par forte, perchè lotta colla verità, e la violenza della lotta mette in gioco anche le poche forze delle costituzioni deboli. Pure il pensiero che in quel furore sembra a sè stesso così potente, in verità è reso schiavo della volontà pervertita: questa gl' impone di giustificare il proprio disordine, dandogli una base scientifica: egli cancella le leggi della morale, ne inventa dell' altre: pronuncia che qui consiste la libertà: finalmente si presenta come l' uomo7oggetto, nuovo Dio Pan, che assorbe in sè la morale, il mondo: e l' antropolatria è il nuovo culto, che comparisce sopra la terra. Or la filosofia nel senso « d' una tendenza pratica alla sapienza » non solo è più, ma è anche cosa diversa dalla scienza: il che, se noi prendiamo a cercar come sia, ne rimarrà non mediocremente illustrato il primo de' due elementi, di cui abbiam detto comporsi la sapienza. Osserva Seneca, che la Filosofia, a differenza della Matematica, della Fisica, e somiglianti, che mutuano i loro principŒ da altre scienze superiori, « « non prende nulla altronde, ma innanlza tutto l' edificio dal suolo »(1). » Della qual sentenza si trova la ragione nella definizione che noi abbiam dato, dicendo la Filosofia essere la scienza delle ragioni ultime, ultime cioè a rinvenirsi dall' uomo, ma prime rispetto all' albero dello scibile, che da esse incomincia e germina come da radici, onde anche furono dette madri da qualche antico. Laonde la Filosofia sola è quella, fra le scienze, che, in un senso a sè appropriato, può dire, « Sed summa sequar fastigia rerum (2). » Ma la Filosofia nel nostro senso, è una scienza, e benchè sia la prima fra le scienze, sicchè non prenda nulla de' suoi principŒ dall' altre, quando l' altre tutte prendono i loro da lei; tuttavia, appunto perchè è scienza, non può esser prima di tempo in tutto l' ordine intellettuale, chè ogni scienza è opera della riflessione, e la riflessione non è il primo modo, che abbia l' uomo di conoscere, ma egli n' ha e n' adopera degli altri prima di cominciare a filosofare. Noi abbiam detto in qualche luogo, che la filosofia non potrebbe esistere se non a condizione di prendere altronde non de' principŒ, ma de' postulati: e questi postulati dati alla filosofia dalla natura umana come condizione del suo nascimento, sono due, la notizia naturale e immediata dell' essere, e il sentimento (1); l' ideale e il reale primitivo , che diventano in appresso oggetti della riflessione, la quale con tali materiali, e non mai col nulla, edifica l' edificio della dottrina filosofica. L' atto che dà la notizia dell' essere si chiama da noi intuizione , e questo è il primo modo di conoscere anteriore di molto alla riflessione filosofica, la facoltà dell' intuizione è l' intelletto in senso proprio. Il sentimento, come tale, non appartiene all' ordine intellettivo (benchè ci sieno de' sentimenti intellettuali, razionali, e morali che l' accompagnano o prossimamente lo seguono), ma egli presta materia all' intelligenza. Il primo sentimento è quello che costituisce il soggetto uomo, perchè l' uomo (intuente l' essere e percipiente il proprio corpo con quell' immanente percezione che il rende ad un tempo animale e razionale (2)), è un sentimento sostanziale e individuale, che riceve modificazioni accidentali, e in varŒ modi attivo. La percezione primitiva , nella quale sta l' unione dell' anima col corpo, è un modo di conoscere contemporaneo alla prima intuizione , e solo logicamente posteriore; ed è quell' atto primo, che costituisce la facoltà della ragione. L' intuizione e la percezione primitiva appartengono alla cognizione diretta , a cui si riducono molti altri atti di conoscere, come, a ragion d' esempio, tutte le percezioni accidentali che susseguono (3); e la cognizion diretta non è la riflessione, e di molto precede la riflessione filosofica. La riflessione che sopravviene è un secondo modo di conoscere; e molte riflessioni precedono quella d' un ordine alquanto elevato, che genera la Filosofia. Il complesso di queste riflessioni, o, a più vero dire, una parte di queste riflessioni costituiscono quella che abbiamo chiamata cognizione popolare (1). Tutti questi modi di cognizione precedono la cognizione filosofica. E per determinare con maggior accuratezza quel punto nella serie delle varie riflessioni, che divide la cognizione umana in due gran parti, o stadŒ, quella che precede la filosofia, e quella colla quale l' uomo ha incominciato a filosofare; basterà che noi ricorriamo alla preaccennata definizione della filosofia come scienza. Se la filosofia tratta delle ragioni ultime, egli è evidente, ch' essa incomincia precisamente a formarsi con quella riflessione, colla quale l' uomo o implicitamente o esplicitamente, rivolge a se medesimo la domanda: « Quali sono le ragioni ultime di tutto lo scibile? »Con questa domanda, non prima, incomincia dunque il lavoro filosofico dello spirito umano. Vero è che con essa non c' è ancora la filosofia, non c' è la scienza delle ragioni ultime; ma c' è la questione, a cui tien dietro la ricerca, e questo è quanto dire la strada che conduce all' invenzione della filosofia, e però si può dire che l' uomo da quell' istante filosofeggi. Ora di certo non è a credere, che prima che sia venuto quest' istante, nel quale il bisogno d' una filosofia si fa sentire all' uomo, lo spirito umano si trovi interamente vuoto di cognizioni: anzi n' ha molte, che non solo dispongono le sue facoltà, esercitandole; ma offrono alla riflessione copiosi materiali pel nuovo edifizio filosofico ch' ella a suo tempo porrà mano a costruire. E in questa costruzione della scienza, che fa la riflessione? A dir vero, non altro se non vestire la verità precedentemente conosciuta di nuove forme, le quali prestano questo nobilissimo vantaggio, che l' uomo per esse la vede da più lati, e da lati più lucenti, e può usarne in nuove utilissime maniere. Poichè conviene distinguere con diligenza la verità, e le forme di lei che la rendono più accessibile, più visibile, e più maneggevole all' uomo: convien distinguere le idee dalle forme che prendono nell' umana mente e poi nell' umano linguaggio s' esprimono. Le idee e le notizie tutte variamente spezzate coll' analisi, raggiunte colla sintesi, ordinate colle loro intrinseche relazioni, diventano acconce a innumerevoli ragionamenti, si lasciano aggruppare e distribuire in formole secondo i bisogni della mente, e danno a questa quelle nette conclusioni, colle quali, avendole a mano, ella opera speditamente, e lo spirito se ne sente confortato, arricchito, di nuova potenza accresciuto. Fino che voi avete dell' oro in verghe, poco uso far ne potete: mandatelo alla zecca che ve lo restituisce coniato in monete, e ammodato in tal forma voi lo cangiate assai facilmente in tutto quello che vi piace. La zecca è la mente filosofica. Questa svolge le idee e ne trae ciò che hanno ne' visceri: sembrano altrettante nuove verità, quantunque alla fin fine, per dirlo ancora, non v' ha dato che nuove forme; chè le idee, su cui avete esercitato il vostro pensiero, c' erano innanzi, e contenevano quello che voi ci avete cavato, c' era implicito e voi l' avete reso esplicito. Così un principio si pronuncia in una breve proposizione: e pure se voi ne deducete le conseguenze, una scienza intera v' è nata in mano: infinito vantaggio: ma dovete confessare che non avete creato nulla, chè tutta quella scienza già si conteneva nel principio, d' onde voi non l' avreste potuta cavare se non ci fosse stata. Un gran numero di notizie che la mente vedeva ad una ad una, il pensiero filosofico le considera tutt' insieme, ne ferma le relazioni, e con queste le integra, e secondo queste le dispone in un ammirabile sistema: bellissimo lavoro; ma le notizie c' erano, avevano le loro relazioni, forse erano complesse ed intere, e fu bisogno d' astrazione e d' analisi, come le pietre hanno bisogno d' essere rotte dal martello, e riquadrate, acciocchè s' aggiustino al luogo dell' edificio, ove devono essere collocate, ma in fine, checchè faccia il pensiero filosofico, lavora sempre su quello che gli è dato innanzi, nol può creare, cioè non può trovar nulla che sia per intero nuovo, poichè la funzione stessa dell' integrazione non fa che passare dal termine dato d' una relazione essenziale all' altro termine trascendente in virtù d' una legge nota (1). La differenza dunque tra l' uomo comune e colui che filosofa, non istà in questo, che al primo manchino le cognizioni, e n' abbia il secondo; ma in questo, che il primo dà l' attenzione della sua mente ora a questa ed or a quella cognizione delle tante che il tesoro dell' anima sua racchiude, non per vero dire a caso, ma secondo il bisogno che gliene viene di farne uso, siccome un padre di famiglia che trae dall' armadio que' soli vasi di cui abbisogna al momento; il secondo, che filosofeggia, prende per assunto di riguardare tutto il complesso delle medesime cognizioni, non perchè egli abbia bisogno d' usar di tutte in una volta, ma per diletto di contemplare quel ricco tesoro, ed altresì per conoscerne meglio il valore e ben ordinarle, alla guisa d' un vigilante ed operoso amministratore, che ripassa e inventaria tutti i vasi preziosi, le ricche masserizie, e gli arnesi della casa, e li classifica, ed altri ne dispone in altrettanti armadŒ, non solo ripulendoli dalla polvere, ma inserendoli ancora in astucci e in guaine eleganti, altri poi d' argento e d' oro, come troppo antiquati e pressochè inutili, li fa rifondere, e cavarne altri collo stesso metallo di miglior gusto, più conformi agli usi ed alla moda del tempo. Ma il valsente con tutto ciò rimane il medesimo, benchè un grandissimo vantaggio riceva la famiglia da queste diligenze. Ora posciachè il primo elemento della sapienza è LA VERITA`, sotto qualunque forma ella sia; perciò noi dicemmo, che la sapienza, e conseguentemente la filosofia definita all' antica siccome uno studio pratico della sapienza, contiene un primo elemento, l' elemento conoscitivo diverso dalla scienza. E la differenza sta qui, che l' elemento della sapienza è la verità, prescindendo dalle forme, e però sotto tutte le forme, sieno queste quelle di cui ella si riveste prima che l' uomo si risolva a filosofare, o sieno le forme filosofiche; laddove la filosofia come scienza riguarda un genere speciale di forme, di cui il pensiero riflesso veste la verità. Di che si trae questa conseguenza, che la Sapienza può ugualmente precedere, ed anche succedere alla Filosofia: e che quantunque questa giovi non poco a quella, rendendo la verità accessibile all' uomo da più punti e da punti più cospicui, tuttavia non è a quella del tutto indispensabile e necessaria. Non vorrei, che l' aver detto questo, m' attirasse l' indegnazione de' filosofi (che per quanto è a' sofisti, mi ci conviene ad ogni modo rassegnare). Ma quella io spero o d' evitarla, o di poterla comechessia calmare. Perocchè niuno dee conoscere qual sia il nobile e vero amore degli uomini meglio de' filosofi; ai quali perciò conviene che riesca lieta una dottrina, che dimostra, esser tutti gli uomini capaci della sapienza, non esser questo bene riserbato ad una sola classe, eziandio che fosse quella de' filosofi. Perocchè se tutti gli uomini hanno ricevuto la stessa verità, sebbene implicita fin da principio della loro esistenza nel lume della ragione, e se tutti quelli che vissero ad una certa età, hanno più o meno svolta la verità ricevuta in germe, secondo lo stimolo de' bisogni e le occasioni; e se oltracciò portano l' animo ben disposto verso a quella verità che conoscono, riconoscendone liberamente l' autorità suprema e l' immutabil bellezza; onde la loro volontà unita e quasi conglutinata alla verità coll' affetto, a questa, come a norma guida l' altre facoltà; tutti cotesti uomini, i quali hanno saputo mettere in sè stessi tant' ordine e fra le proprie potenze tanta concordia, ed ancora con ciò stesso saputo rendere il mortale e finito consonante all' infinito ed all' eterno, cioè alla verità, di cui riscuotono l' approvazione, tutti costoro dico, si meritano il nome di sapienti. Essendo dunque la verità il primo elemento e la base della sapienza, è da conchiudere che come la verità è variamente sviluppata negli uomini, e sebbene una e sempre uguale in se stessa, è oltre ogni misura feconda e moltiplice nelle sue attuazioni, onde molte sono le forme, più o meno magnifiche, più o meno ornate e quasi a mano trapunte, nelle quali agl' intendimenti diversi ella si dona; così pure sieno molte, e propriamente altrettante, e di consimile ricchezza ed eleganza di lavoro, le forme della sapienza . Di che, principiando da un qualche savio sconosciuto agli uomini, e che deva esser chiamato abnormis sapiens crassaque minerva , fino a un Agostino o ad un Tommaso d' Aquino, o ad altro qualsivoglia dottissimo tra' sapienti, noi avremo innanzi una lunghissima serie non solo d' uomini illustri, ma ben anco d' ignoti a' loro simili, anco dispregiati, benchè non dispregevoli, a cui il nome di sapiente si conviene giustissimamente accordare. E questa conclusione è tale, che non solo può confortare l' animo di colui, che allo spettacolo delle umane ignoranze, e alla somma arduità della scienza , accessibile a pochi, (confondendola egli per errore colla sapienza , o credendola l' unica via per la quale a questa s' arrivi), diffida soverchiamente dell' umana natura, e diffidandone, quasi di troppo inetta al bene, la disama; ma devono e desiderar che sia vera, e goderne, quando per vera la riconoscono, tutti quelli, filosofi o no, che dell' onore, della dignità, e della felicità dell' umana specie si curano. Poichè una tale notizia è la buona novella data ai piccoli: e coincide con quella, che nell' ordine perfetto e soprannaturale, la stessa Sapienza di Dio diede di sua bocca alla umana stirpe, dicendo: « « Colui che viene a me, non lo caccerò fuori »(1) ». Il che non riesce di alcun disdoro alla filosofia; chè comunque questa si prenda, ha sempre la verità a suo proprio oggetto e scopo, e però è affine alla sapienza. Se si prende come scienza, ella insegna le più elevate verità, ed abbiam detto non esser filosofo colui che in vece della verità, insegni l' errore; se come studio di sapienza, ella non solo cerca la verità, ma la rende operativa. Laonde Platone, descrivendo il filosofo, in modo che all' uno e all' altro senso di questa parola risponda: « « Trovasi forse qualche cosa, dice, che sia più famigliare alla sapienza della verità? - Nessuna - E` dunque possibile che la medesima natura sia filosofica (amatrice di sapienza) ad un tempo, e mendace? - In niuna maniera - Dunque colui che è cupido d' apparare, forz' è che tosto dalla puerizia sia soprammodo affezionato ad ogni verità »(2). » Tale deve essere la disposizione del filosofo, anche se si prende questa parola solamente per indicare quello che alla scienza è applicato. Dove si disvela la relazione, e l' intimo nesso che passa fra que' due elementi che abbiamo trovati esser parti integrali, ed anzi essenziali, della sapienza, cioè la verità , e la vita alla verità conforme , nel che consiste la virtù. Il primo de' quali è sempre posseduto dal sapiente, sotto qualsivoglia forma; ed è l' oggetto della filosofia non sotto qualsivoglia forma, ma sotto una forma scientifica, universale, complessiva, splendida all' umana consapevolezza. Ora il filosofo perverrà egli al possesso, e alla sublime cognizione della verità, se non l' ami? o se l' ama solo splendiente, ma la teme redarguente (3)? Il che è quanto dimandare: Se la volontà dell' uomo è alla verità contraria, se lotta con essa, se la rifiuta per maestra della vita, se ne riceve continui rimproveri, potrà poi l' intendimento ne' suoi assensi e dissensi, guidato dalla volontà a cui il vero non piace, riconoscere e confessare pienamente, e prontamente il vero stesso, dovunque gli si presenti, qualunque egli sia, con una perfetta imparzialità e giustizia? quando è appunto perchè alla sua volontà manca la giustizia, che il vero gli si rende molesto, ed odioso, e ripugnante all' assenso? « « Ogniqualvolta, diceva un celebre sofista del secolo scorso, la ragione sarà contraria all' uomo, l' uomo sarà contrario alla ragione » (1) » Ma quand' è che la ragione sarà contraria all' uomo? sempre, quando l' uomo colla sua libera volontà, avrà reso se stesso contrario alla ragione; di certo, questa non è mai la prima ad esser contraria all' uomo. Leibnizio diceva, che le stesse verità matematiche, diverrebbero argomento di grandi disputazioni fra i dotti, qualora comandassero agli uomini de' sacrificŒ e ne regolassero i costumi. La virtù dunque o la disposizione alla virtù conduce alla verità non meno gli uomini tutti, che quelli che vogliono filosofare: tanto è intimo il nesso fra i due elementi costitutivi della Sapienza. E nello stesso tempo nasce di quì l' onore e la dignità della filosofia, rendendosi manifesto, che questa scienza, a differenza di tutte l' altre, benchè nè sia da sè sola la sapienza, nè tampoco sia una forma speciale della sapienza; tuttavia è involta nella felicissima necessità di non poter essere a pieno professata, se non da un sapiente. Laonde Socrate appresso Platone in commendazione di questa disciplina domanda a Glaucone: « « Puoi tu dunque, in qualunque modo, condannare questo studio » (della Filosofia), «che niuno può compire con sufficienza, se di natura non sia perspicace, memore, magnifico, grazioso, amico e famigliare della verità, della giustizia e della temperanza? »(2). » E con ragione questa sentenza è temperata da quella parola « con sufficienza ». Poichè anco di quelli, i quali non hanno la volontà, in cui sta tutto l' uomo come persona, nè di conseguente la vita conformata al vero, possono pronunciare una parte della verità, e con questa apparire filosofi, ma tutta la verità non mai. Altramente non avrebbe potuto aver luogo quella comune, e così giustificata querela mossa a' filosofi del paganesimo, ed ad altri che li prendono ad imitare, cioè che « magna loquuntur, sed modica faciunt (1) ». Se non che era cosa avventurosa e degna di qualche lode anche questa, ch' essi non facessero tutto quello che dicevano ed insegnavano, poichè, come osserva uno di loro stessi, molte cose assai strane, erronee, e riprovevoli uscirono di loro bocca, delle quali, dopo rammentate alcune, quello scrittore continua: « « E moltissime altre cose simili a queste dicono i filosofi, le quali essi non oserebbero mai di farle, se non si trovassero nella repubblica dei Ciclopi e de' Lestrigoni »(2). » Non fanno dunque, ma nè pur dicono, nè possono dire il vero nella sua integrità, nella quale solamente egli costituisce quell' elemento della sapienza , e quell' oggetto della filosofica scienza , che noi dicevamo. E a' nostri lettori, che si rammentano dove noi abbiamo collocata questa integrità, non potrà mai sembrare, che noi con un favellare troppo vago ed indeterminato facciamo contumelia a molti che, a loro possa, s' applicano lodevolmente agli studŒ della filosofia. Essi sanno troppo bene quanto sia lungi da noi l' intenzione di pretendere, che il filosofo, per meritar questo nome, deva conoscere tutte le singole verità: il che se fosse, non solo alcuni cultori di questa scienza rimarrebbero esclusi dal novero de' filosofi, ma non si potrebbe trovarne un solo sopra la terra: chè ogni uomo, di qualunque ingegno, qualunque età abbia speso nel meditare, ignora di molte cose, e per fermo molte più di quelle, ch' egli ne sappia. Non è dunque l' integrità materiale della verità, quella di cui parliamo, ma un' integrità formale, di cui noi dicevamo più sopra la filosofia essere il sistema, come anche Aristotele l' avea definita « « la scienza della verità »(3). » Conviene aver presente quel modo, in cui piacque all' autore dell' umana natura, che questa fosse partecipe della luce della verità. Perocchè, l' abbiamo veduto, volendo Iddio che questa natura fosse intelligente, egli ordinò che fin dal primo suo esistere, le si rendesse visibile la verità, non una parte, ma tutta, come quella che è una e semplicissima, e per conseguente, non capace di divisione. Il perchè non può esser veduta col primo intuito una sola parte di lei recisa dall' intero suo corpo, che anzi questa parte non c' è; benchè quando la mente vede il tutto, allora essa nel tutto stesso, possa poi limitare la sua riflessione e quasi concentrarla in una parte, ch' ella stessa si circoscrive. Ma questa verità, che è l' essere per sè intelligibile , e che, senza che le manchi cos' alcuna (giacchè se mancasse qualche cosa all' essere, non sarebbe più l' essere), sta di continuo presente allo spirito, contiene sì in se stessa tutte le cose vere, ma in un modo implicito e virtuale; e però queste a principio non si vedono in lei le une dalle altre nè separate nè distinte, e nell' atto loro proprio, ma tali vi si scoprono, quando lo stesso spirito umano, aiutato da' sentimenti corporali, coll' uso di diverse attività conoscitive, attua quello che vede in potenza, e quello che già possiede implicito, se lo rende esplicito, quello che è indistinto, distinto; quello poi che sommerso e nascosto nella virtù dell' essere come in un mare senza limiti, lo fa venire a galla, e quasi, direbbe Socrate, esercitando l' arte pescatoria, lo prende e lo ripone nella dispensa della sua memoria. Che se l' uomo non avesse alcun bisogno di far tutto ciò, e le notizie particolari gli fossero date belle e formate dalla natura, non ci sarebbe più cagione della sua propria razionale attività, e rimarrebbe un essere maraviglioso per le preziose cose che conterrebbe, come gl' Iddii d' oro inseriti nel petto de' Sileni, ma privo di quell' onorevolissima azione, per la quale egli si fa quasi maestro a se medesimo. L' essere dunque oggetto dell' intuizione conceduto all' umana natura è la verità nella sua integrità formale. E questa integrità è quella che si dee trasportare dall' attività stessa dell' uomo a cui Iddio l' ha consegnata, nell' opera scientifica della Filosofia: il che si fa, come abbiamo detto, coll' uso di una riflessione elevata. Laonde il primo oggetto, e però il principio della filosofia, non può esser altro che quello che è il primo lume nella natura, e che è il primo principio di tutte le indefinite cognizioni, di cui può arricchirsi l' umanità, le quali tutte, da quello, siccome da un cotal fuoco eterno e sacro, custodito nel tempio della natura, s' accendono. Imperocchè se quello è il primo lume, conviene che in quel solo si trovino le prime ed ultime ragioni delle cose di cui va in cerca, o, trovate, professa d' insegnare la Filosofia. E però è indubitato che intorno a questa scienza, da tempi remotissimi sino a noi, si sono fatte molte, ingegnosissime, e sublimi ricerche, ma, a veramente parlare, non si può dire ch' ella sia stata trovata od abbia esistito, se non allora che si rinvenne quel principio, intorno a cui si facevano quelle investigazioni, il qual solo è la base, su cui regolarmente e a modo di vera scienza, si edifica. Che se quell' essere intelligibile , che è come il sigillo della natura umana, onde questa è intelligente, e che quando poi dalla riflessione è colto e trasportato nel campo della scienza, diviene la prima pietra dell' edificio, contiene la verità nella sua integrità formale, quantunque in modo ancora implicito; questa integrità non si perde più co' lavori che si vanno facendo dalla mente di chi filosofeggia sopra di quel fondamento, se ne innalzino poco o molto al di sopra del suolo le muraglie; e, ancorchè non si arrivi colla fabbrica fino al tetto, si può dire oggimai con verità, che la filosofia è fondata, sebbene non condotta al suo colmo. Ma in questa edificazione è in primo luogo necessario, che l' architetto ponga mente alla perfetta commettitura delle pietre, sicchè non resti fra loro vacuo o fessura, ma ciascuna, squadrata e spianata a giusta misura, si continui all' altra: con che vogliam dire, che le verità speciali che si vogliono ordinare e costruire a forma di scienza, procedano, senza alcun salto, quasi una continuazione della stessa idea che l' uomo per natura intuisce, il primo ordine di esse a questa s' appoggi, i successivi l' uno sull' altro, per modo che in su quel solo e primo fondamento si regga e solidi tutta quanta la fabbrica. Dipoi, non tutte le qualità di pietre sono acconcie a tanto edificio; ma solo quelle che, traendosi dalla prima idea, come da' visceri di ricchissima miniera, ritengono della stessa natura e condizione di pietra durissima, non fragile od arenosa. Il che ha bisogno di qualche dichiarazione, e non vedo di poterne rinvenire altra migliore di quella che ne dà Platone sulla fine del quinto dialogo della Repubblica, là dove Socrate vuole che Gluacone avverta, che non si direbbe con verità che taluno amasse una cosa, se non l' amasse tutta, ma una parte n' amasse, e un' altra parte della cosa medesima odiasse. Di che egli deduce, che quando si dice, che il filosofo è l' amatore della sapienza, allora si asserisce ch' egli è avido d' ogni sapienza, non d' una specie o d' una parte: con che il filosofo ateniese tocca incidentemente quell' integrità formale della verità di cui noi parlavamo, siccome d' una condizione necessaria dell' oggetto della filosofica scienza. Onde in appresso soggiunge, i veri filosofi, cioè gli amatori della sapienza, doversi chiamar quelli, che sono cupidi di vedere la verità; coloro all' incontro che vogliono veder altre cose, non senza il suo solito attico sale, egli dice, che non filosofi, ma si devono chiamare simili a' filosofi , perchè almeno assomigliano a questi nella voglia di vedere. Ma tosto appresso quando cerca che cosa sia quella verità in cui arde di affissare lo sguardo il vero filosofo, allora parla in modo che noi intendiamo quanto vogliano esser salde e durissime quelle pietre, di cui dicemmo, potersi con esse sole costruire l' edificio della scienza filosofica. Perocchè quella verità, di cui parla il grand' uomo, è l' essere : onde risulta che la filosofia dee riputarsi non altro che la scienza dell' essere . Ma Platone qui distingue tre cose, cioè quello che è, quello che non è, e quello che ora e in parte è, ed ora ed in parte non è. Quello che è, è l' essere; quello che non è, è il nulla; e quello che ora e in parte è, ora e in parte non è, e, qualche cosa di mezzo fra l' essere e il nulla, di maniera che non si può dire di lui, semplicemente ed assolutamente, nè che è, nè che non è; ma conviene aggiungere all' assertiva qualche distinzione, o condizione, o limitazione. Ora l' essere è l' oggetto della scienza e della cognizione: col nulla, con quello che in tutt' i sensi è nulla, non prestando alcun oggetto alla mente, rimane l' ignoranza: ma quello che in parte è, e in parte non è, si presta ad una maniera di sapere che cammina medio tra la scienza e l' ignoranza, e non può dirsi nè assolutamente scienza «(episteme)», nè assolutamente ignoranza, onde Platone lo chiama opinione ( «doxa»). la filosofia dunque contempla quello che semplicemente ed assolutamente è, l' essere senza più, e le relazioni di questo col non essere, o con tutto ciò che è solo in parte; e così ella si distingue dall' ignoranza, e dall' opinione. Ora quello che semplicemente è, non accade mai che non sia, e perciò è eterno: è sempre nello stesso modo, e perciò è immutabile: è per essenza, cioè in questo sta la sua essenza, nell' essere, e perciò è necessario: dunque è solidissimo, costantissimo, insuperabile, ugualissimo a se medesimo: tale è la saldezza e la durezza di quelle pietre, di cui, lasciate da banda tutte l' altre meno consistenti, noi dicevamo doversi murare il filosofico palagio. Platone per fare intendere la differenza fra la cognizione di queste cose eterne, e l' opinione che s' aggira intorno le cose contingenti e mutabili, fa uso di un esempio: distingue le cose belle dal bello veduto nella sua idea. Quelle sono molte e varie, e possono divenire, od essere state, brutte, ma il bello stesso, quale l' idea lo fa conoscere alla mente, è perfettamente uno, e non può mai essere stato, o in futuro divenir brutto, perchè è appunto questa la sua essenza, d' essere il bello, e nessuna essenza si può pensare diversa da quello che è, e che appare immutabilmente all' intelligenza. Le cose che possono ora esser belle, e ora esser brutte, non sono assolutamente e semplicemente il bello, ma ora e in parte sono tali, ora e in parte tali non sono: partecipano del bello; e per questa partecipazione Platone le chiama similitudini del bello. Ora, dice, colui che prende le similitudini delle cose, per le cose stesse , fa come chi sogna, che prende le cose sognate per altrettante cose reali. E la massima parte degli uomini sognano a questo modo; poichè si fermano col pensiero alle cose che sono per partecipazione, e si persuadono che al di là di esse nulla ci stia, o non ci pensano: pochissimi giungono a cogliere colla riflessione quell' immutabili essenze, in cui la cosa è veramente in un modo semplice ed assoluto, e questi soli vegliano. Questa facoltà dunque di veder le cose nella veglia della mente, come veramente sono, appartiene a' filosofi. Quello poi che Platone dice della bellezza, vuole che si dica egualmente della giustizia e dell' altre essenze (1); le quali in ultimo sono i soli materiali accomodati a costruire la fabbrica della Filosofia. E veramente noi dicevamo che la Filosofia è la scienza delle ragioni ultime. Ora le ultime ragioni di tutte le cose contingenti e mutabili, le quali sono e non sono, si trovano appunto in quelle loro essenze che nelle idee appariscono, necessarie ed immutabili, che non già sono e non sono, ma semplicemente sono. Tali pietre ci abbisognano, e per trovarle conviene che l' uomo, dice Platone, si stacchi dalle cose corporee e corruttibili, e si rivolga tutto alle eterne e divine, onde chiama questa scienza, «periagogen,» cioè rivolgimento (1), e una specie di morte, solutio atque avulsio animi a corpore, cum ad intelligibilia et ad ea quae vere sunt, convertimur (2): così intimo è il nesso della virtù, che abbiam detto essere il secondo elemento della sapienza, colla scienza filosofica, che nessuno è acconcio a questa, se non è reso generoso e sublime da quella. Ma trovate le pietre, conviene unirle, non a caso, ma secondo il disegno del tempio, che si medita edificare. E come quelle pietre sono eterne e assai più dure del diamante, così eterno ed unico è pure il disegno. Ma questo è sufficientemente indicato alla mente umana dalle stesse pietre, chè ciascuna di esse, tosto che sia estratta dalla miniera, staccata e rinettata da tutto ciò che le aderisce, ma non le appartiene, chi attentamente l' osserva, trova essere numerizzata, e sopra di sè porta scritto il luogo della fabbrica, in cui vuol essere inserita, di maniera che il muratore non ha a far altro, che locarla con ogni fedeltà e con somma esattezza in quello stesso ordine e in quello stesso luogo, che dice la scritta, e con questo il disegno nell' eseguir l' opera si manifesta da sè, e risulta perfettissimo, senza averlo pur veduto su qualche carta delineato. Ora noi stimiamo, che Platone (giacchè non sappiamo facilmente staccarci da un così grand' uomo, poichè l' abbiamo nominato), il quale seppe indicarci le vere pietre colle quali costruire la Filosofia, non abbia poi nè veduto tutto l' edificio, nè conosciutone l' intero disegno; ma certo a lui torna di somma ed immortale onoranza, l' aver conosciuto quale ne dovesse essere il fastigio e, quasi dicevo, il comignolo, benchè ne tocchi con un modesto timore (che parmi il più certo argomento della grandezza di quella mente) di non parlarne in modo degno, quindi anco con una soverchia brevità. Il qual fastigio egli l' addita nell' idea del bene. La quale idea è chiamata da lui disciplina massima , e vuole, che i custodi della città ne sieno, più che di qualunque altra scienza, imbevuti. Perocchè, « come non ci gioverebbe, dice, il possedere qualunque cosa senza il bene, così, se ci è ignota quell' idea, e, senza di essa, pur conosciamo ottimamente l' altre cose, di nessuna utilità ci possono essere tutte queste cognizioni. »Soggiunge poi, che « l' anima intera desidera il bene, e per esso fa tutto quello che fa, augurandosi che il bene sia pur qualche cosa; e tuttavia ella dubita, e non può sufficientemente comprendere che cosa sia, nè sa trovarne una persuasione ferma, qual è quella che usa circa il resto: e quindi anche nell' altre cose s' inganna, quando si continua a giudicare che cosa sia utile. »Dalle quali parole, aguzzata negli uditori la voglia di conoscere una così magnifica e misteriosa verità, che cosa sia il bene, Glaucone ne pressa Socrate di caldissime istanze, che ne voglia ragionare; ma Socrate: « temo, dice, che mi manchin le forze, e che io mi paia più inetto, e muova gli uditori a riso, osando sopra il potere »; onde, scusandosi dall' entrare per allora nella questione dell' essenza del bene, promette di dire in quella vece, quale ne sia il figliuolo a lui somigliantissimo, ma prega gli uditori, anche così restringendo il discorso, di stare bene avvertiti, non forse in un argomento di sì gran rilievo egli inscientemente gli inganni, recando loro di quel figliuolo un vano concetto. E questo, che Socrate chiama il figliuolo del bene è il lume della ragione umana come prole a lui somigliante. Qual mai pensatore in tutta l' antichità gentile vide tant' alto, pronunciò una sentenza più stupenda di questa? Perocchè, egli dice, come nell' ordine delle cose corporee, oltre la forza visiva, e oltre le stesse cose visibili, per aversi la visione, è necessario che ci sia il lume , il quale informi la virtù dell' occhio traendola all' atto, e nelle cose produca i colori, senza i quali non sarebber visibili, così del pari accade nell' ordine delle cose intelligibili. E come il lume del visibile mondo emana dal sole, così quel lume che informa l' intelligenza e rende le cose intelligibili, è immediato figlio del bene essenziale , che Platone chiama spesso l' idea del bene, perchè nell' idea è l' essenza (1). Ora questo lume è la causa della scienza, dice, e della verità, che l' intelletto apprende, e dall' eccellenza di queste cose vuole che la mente ascenda ancora più su, a conoscere cioè l' eccellenza e la prestanza di lunga mano maggiore di quel Sole, da cui, aggiunge egli, non solo è figliato il lume, ma sono altresì causate tutte le cose mutabili, alle quali, causandole, dà il generarsi, l' accrescersi, il nutrirsi, quando pure quel Sole non è niuna di queste cose. Il che noi dichiariamo così, secondo la mente di quel gran filosofo: le cose reali mutabili e contingenti (che Platone chiama con parola tecnica della sua filosofia generabili , ossia soggette alla generazione) non si conoscono da noi, nè sono conoscibili, se non nelle loro essenze, le quali sono eterne e per sè intelligibili, e si chiamano idee, quando sono comunicate alla mente: ora queste essenze si riducono tutte ad un primo lume, che dicesi il lume della ragione, e non è altro che l' essere manifesto alla mente fino dalla prima costituzione di essa: ossia, che è il medesimo, l' essenza dell' essere intuìta da noi senza confine, nè determinazione alcuna, è l' idea prima che produce l' altre, come il lume corporeo, i colori; perchè l' altre idee ed essenze in esse vedute, non sono che la stessa idea dell' essere variamente determinata e limitata, siccome appunto i colori sono la luce, non tutta unita, ma rifratta, separata in fascicoli luminosi, in una parola, anch' essa limitata. Ora il vero, il permanente essere delle cose, quell' essere che è sempre e in uno stesso modo, nè tentenna fra l' essere e il non essere, ma semplicemente è, trovasi nelle loro essenze, di cui le cose contingenti e mutabili non sono propriamente che espressioni imperfette, e, come Platone le chiama, similitudini . Come dunque la similitudine ha per sua cagione l' originale di cui è un' imitazione, così le essenze sono cagioni delle realità, e il lume delle essenze, nelle quali sta il vero essere delle realità, e il Sole che è il bene per essenza, di tutte queste cose insieme. La qual dottrina è per avventura così magnifica e santa, massimamente nella bocca di un gentile, ch' io mi credo non poter dispiacere al lettore, se io qui soggiunga una porzione delle parole stesse, con cui ne parla quell' uomo straordinario: [...OMISSIS...] Nessuna mente prima di cristo fra i gentili salì mai più alto. Il fastigio dell' edificio filosofico qui è chiaramente mostrato in Dio, autore del lume dell' umana ragione, sede delle essenze, autore delle cose. E Dio è indicato, con sommo accorgimento, come l' essenza del bene ; giacchè la sola natura del bene ha in sè la ragion del diffondersi, e, per questo suo istinto diffusivo, Iddio dà sussistenza all' universo. Ma noi dicevamo, che avendo Platone così sagacemente quasi a dito mostrato il colmo della mole filosofica, non potè però disegnarne con accuratezza e distinzion sufficiente l' intera architettura. Chè certo nella sola idea del bene si rinviene il principio intenzionale ed il fine reale del mondo. Ma l' idea della causa finale non è la sola ragione ultima : conviene ad essa aggiungere la causa esemplare , che è per sè idea, o a dir meglio quello di cui l' idea è l' analogo, come pure la causa efficiente . Queste tre cause offeriscono alla meditazione filosofica le tre ragioni ultime di tutte le cose, delle quali l' una non è superiore all' altra, nè l' una si rifonde nell' altra, come sembra supporre Platone, che alla natura del bene subordina l' altre due o con essa le confonde. E anche qui impedì a quella gran mente di conservarle sufficientemente distinte, l' avere ignorata la legge, di cui noi parliamo di continuo, del sintesismo , per la quale accade, che più cose devano essere insieme, e ciascuna si possa annullare col ragionamento, fatta solo la supposizione che manchino le sue compagne, e tuttavia l' una non è l' altra, anzi dall' altra distintissima. Onde essendosi accorto Platone, che l' idea del bene non potea essere senza che si collocasse nello stesso bene l' intelligibilità e la potenza , prese queste come elementi di quella, non come idee da quella distinte. Che se egli avesse considerato altresì, che nè pure l' idea della potenza si regge, se in essa non si collochi l' intelligibilità e il bene; nè l' esemplare, che, come dicevamo, è per sè idea, o verbo di cui l' idea è l' analogo, senza l' esemplato potente e buono; si sarebbe facilmente accorto, che nessuno di questi tre si può ridurre all' altro, benchè ciascuno reciprocamente si chiami e si supponga. Sarebbe stato necessario altresì, a tracciare un disegno perspicuo della filosofica scienza, l' osservare che l' idea della causa efficiente deriva e s' inchiude in quella d' essere reale e soggetto, la causa esemplare poi è l' essere ideale (che si riduce al Verbo divino a cui è analogo), l' essere per sè manifesto , o per sè oggetto; in ultimo l' idea della causa finale scaturisce dall' idea del bene, che è l' essere morale , quasi talamo dell' essere soggetto e dell' essere oggetto. Le quali sono tre forme, ciascuna delle quali in se stessa contiene il medesimo essere e tutto intero, per guisa che quella trinità si consuma nell' unità semplicissima dell' essere stesso. Nè con questo vogliam dire che a torto Platone derivi dal bene essenziale come da causa immediata il lume dell' umana ragione, e l' essenza delle cose mutabili, e queste stesse cose, perocchè veramente quello che è ultimo in Dio, secondo l' ordine logico della mente nostra, è primo rispetto al mondo, è la ragion prima del movimento creativo; ma il grand' uomo, non avendo altro lume che il naturale, corse troppo frettoloso al mondo considerando le cose divine nell' ordine che hanno con questo, senza prima meditare, com' era mestieri, quell' altr' ordine precedente ed assoluto, che quelle hanno tra sè. Onde sebbene ne faccia giustamente stupire l' altezza di quella mente, che chiamò il lume della ragione figliuolo del bene essenziale, similissimo al padre ; tuttavia in un tanto e sì nobilissimo sforzo di sollevarsi alla somma altezza, ci rimane una prova manifesta della limitazione dell' ingegno dell' uomo, il quale per quantunque levasse verso al cielo una mano di gigante, per verità non si potea credere che lo toccasse, ma pure per l' analogia del natural lume, seppe additare dalla lunga un Verbo, ossia un lume eterno, figliuolo del bene essenziale, e anche questo non senza essersi probabilmente aiutato d' antiche tradizioni. La sola parola di Dio stesso vale a guidare per le celesti ragioni l' umana intelligenza, senza smarrirsi, e renderla idonea alla più sublime filosofia. Il punto dunque ove termina la filosofia e onde pure incomincia è l' essere , e il suo ordine intrinseco , cioè le sue tre forme, che si riflettono nel mondo, e costituiscono la base delle categorie a cui tutte le cose si riducono, e diventano le ragioni ultime, intorno alle quali la meditazione filosofica si rivolge. Perocchè nell' essere sotto una prima forma reale è necessario investigare la prima ragione di tutte le realità che costituiscono il mondo reale, nell' essere sotto una prima forma oggettiva è neccessario investigare la prima ragione di tutte le idee e cognizioni che costituiscono il mondo ideale ed intelligibile; nell' essere sotto una prima forma del bene, è necessario investigare la prima ragione di tutte le esigenze e le leggi, di tutte le morali attività co' loro effetti, che costituiscono il mondo morale. Chè l' intrecciamento di questi tre mondi è il creato, e pende dal suo Creatore, a cui somiglia, quasi siccome un frutto dall' albero. E che nella natura delle cose e nella composizione di questo universo si possano facilmente ravvisare calcate queste tre impronte, e quasi solchi di altrettante vie, per le quali il pensatore si conduce a trovare le ultime ragioni delle cose, nel che sta il filosofico esercizio, lo dimostra anche la partizione dell' antica filosofia, da' migliori filosofi distribuita in tre parti, che nominarono « naturale, razionale, e morale (1). » E quantunque lo sviluppo immenso di queste tre membra primitive abbia introdotto in appresso tali e tante suddivisioni, che fecero dimenticare que' tre principali tronchi, aventi la comune radice dell' essere, onde uscirono gli altri rami; tuttavia chi si fa a riandare il cammino percorso, e torna a sintesizzare quello che l' analisi ha moltiplicato e, quasi dicea, sparpagliato, si trova restituito di nuovo a quelle tre parti primitive, a cui noi pure riconducemmo i nostri lavori (1). S. Agostino ci fa riflettere, che quella divisione non fu instituita da' filosofi, ma da essi trovata esistente nella natura delle cose (2), e vi riconosce un cotale vestigio della divina trinità, vi scorge i tre problemi dall' umana scienza non mai sciolti, a dir vero, da' gentili filosofi, ma tuttavia proposti, la cui ultima soluzione s' annoda alla cristiana dottrina delle tre divine persone. Perocchè dice « « avendovi in ciascuna di quelle (tre grandi e generali questioni) una discrepanza moltiplice d' opinioni, tuttavia niuno esita in affermare, che v' ha qualche causa della natura, qualche forma della scienza, qualche somma della vita »(3). » Ecco come la cima più alta della filosofia, quasi vetta d' altissimo monte che si perde nella maestà delle nubi, si continua col lume superno custodito nella cristiana credenza, e questa mette in sul capo a quella un' augusta e celeste corona. Egli è dunque manifesto, che quello che abbiamo detto il secondo elemento della sapienza, LA VIRTU`, e la religione che n' è la perfezione, fa la strada al primo che è LA VERITA`, di cui la Filosofia, come esercizio, è l' investigazione, e la Filosofia, come scienza, è il sistema. Ma la scienza poi dà una nuova forma e più sublime alla stessa sapienza . Perocchè se la sapienza ha per sua base la cognizione della verità, e se questa si può conoscere nella sua integrità formale in due maniere, l' una delle quali è comune a tutti gli uomini, l' altra, riflessa e consapevole, propria sol de' filosofi; convien dire che v' abbiano del pari due maniere di sapienza: una sapienza comune a tutti, che s' edifica sulla cognizione comune, diretta e popolare, quando l' attività libera dell' uomo, senza lasciarsi anneghittire da alcuna tenebra d' affetto, nè sommovere da alcun impulso di cieca passione, cammina nella luce di quella verità che conosce ed ama su tutte le cose, onde il soggetto uomo, che nella volontà dimora, è conformato ed accordato all' oggetto, come due corde d' una stessa cetera; e una sapienza propria del filosofo, che s' edifica, non sulla sola scienza, a dir vero, che rade volte è perfetta ed intera, ma sulla scienza e ad un tempo su quel fondo di cognizioni che in lui rimane, di cui la scienza è come un ricamo a rilievo; quando amando tutto quello che sa di vero, lo sappia in una forma o nell' altra, cerca di realizzarlo tutto, e di rendere quasi sussistente e vivente in se medesimo quella verità che conosce. E quantunque nel viaggio all' alta regione della scienza l' ingegno incontri nuovi pericoli e strane lotte da sostenere con nuove forme d' errori (chè trasportato l' umano ragionamento, spesso ambiguo, ad una riflessione superiore in un campo senza pari più ampio, gode provar le sue forze a scoprire egualmente ed a coprire il vero, e seco stesso combattere, come in vasto mare i venti si sbrigliano con più di libertà e di furore che in un lago angusto); tuttavia e può l' uomo trionfare di tali procelle, se il guida un illimitato amore della verità, e giunto in fine alla scienza, può rendere a quella verità che come scienza possiede e vede perspicua e da molti lati, un più profondo ossequio, e una testimonianza più illustre; e ad essa dare quasi in dono, una porzione più eccellente di se medesimo, qual è la volontà riflessa e consapevole che sorge come nuova potenza in seno alla scienza, e che nel vero, di cui fruisce, rinviene una gioia sua propria, che anch' essa è cognizione, e amore, e nuovo ossequio del vero. E` dunque somministrata dalla Filosofia nuova materia alla Sapienza, che per essa aggrandisce, e nuovo stimolo all' amore della Sapienza. Laonde se la Sapienza che precede, guida l' uomo alla Filosofia, e con questa dimora; la Filosofia da sua parte restituisce l' uomo alla Sapienza che sussegue, e che è maggior della prima. Tali sono le intime e preziose relazioni fra la scienza filosofica e la Sapienza. Invano s' è tentato di sciogliere vincoli così naturali e sì sacri. Ogni qual volta si è voluto separare la scienza dalla virtù morale , e si è preteso che quella dovesse andarsene sola e bastare a se stessa; ella s' è trovata languire e morire nelle mani temerarie che le hanno fatto subire quest' esperimento, come il corpo d' un uomo, a cui si estragga il proprio sangue, per rifondervi forse quello d' un caprone. Chè per verità egli è più facile comporre un essere vivente ed intelligente accozzando insieme elementi materiali per via di chimiche operazioni, che, senza l' amore della verità e della virtù, comporre la Filosofia. Quella è l' illusione del materialista, questo il perpetuo sogno del razionalista. Tanto più che non essendo la Filosofia che una rappresentatrice fedele e quasi una disegnatrice dell' essere (giacchè tutto il resto non è Filosofia, ma sofistica), e l' essere, ordinato nella sua essenza, avendo principio, mezzo e fine, cioè sussistenza, intelligibilità, e amabilità, onde risulta la virtù, e, come sua appendice, la felicità; così essa, la Filosofia, dopo aver ritratto l' ente come principio, e l' ente come mezzo, dee terminare e riposarsi nella scienza della virtù e della felicità, dove pur l' ente, come in termine di sua perfezione, si riposa e si compie; nè la scienza della virtù si rivela a chi le è nemico. Chè, come accade delle sensazioni, le quali niuno potrebbe inventare o immaginare, qualora non ne avesse avuto esperienza, così del pari la sola osservazione ed esperienza è finalmente quella che in un modo positivo ed intimo fa conoscere i fenomeni morali che la natura e l' eccellenza della virtù spiegano e manifestano: il che non può dirsi, almeno in grado eguale, del vizio, il quale ha natura di negativo e di privativo, e però colla notizia del positivo, che è il suo contrario, sufficientemente s' intende. Di che di nuovo si raccoglie, che la disposizione più necessaria allo studio della filosofia consiste in questo, che l' uomo pratichi la virtù, come, nell' ordine d' una scienza e d' una sapienza più elevata, sta scritto: « « Figliuolo che desideri la sapienza, conserva la giustizia, e Iddio te la darà »(1). » E` dunque un distruggere l' uomo il separarne, come vuol fare la scuola tedesca, la parte intellettiva dalla parte attiva e morale, e in quella, cioè nella scienza pura, assorbire anche questa. I primi che fondarono questa scuola, il Kant ed il Fichte, non sapendo spiegare, a cagione del soggettivismo ingozzato a modo di pregiudizio dal loro secolo e non mai digerito, come l' intelligenza potesse conoscere cose diverse dall' uomo; su questa loro ignoranza fondarono il nuovo sistema, e sentenziarono, la ragione esser del tutto incapace di percepire il mondo esterno, e così la dichiararono incapace di fare quello che ella continuamente fa. Ma temendo che gli uomini si spaventassero di soverchio agli assurdi d' una dottrina che, come una Dea irata colla ragione , criticandola, la castigava e riduceva all' impotenza; ricorsero per temperamento all' azione , e in questa riconobbero una cotale comunicazione reale dell' uomo col mondo esterno: di che sotto il nome di ragione pratica restituirono allo spirito umano (però entro una sfera soggettiva) quello che avevano tolto al medesimo sotto il nome di ragione teoretica . Il ripiego non potea durare, chè le incoerenze non durano. Laonde il Schelling, l' Hegel e i loro discepoli abolirono quel dualismo che restava nell' uomo, e più fedeli al principio, che l' uomo non può uscire di sè (del che era prova concludentissima questa che la loro mente ne ignorava il modo, e il decoro d' un professore d' Università voleva ch' egli non ignorasse cosa alcuna, e che piuttosto di confessare la propria ignoranza, negasse imperterrito i fatti più comuni e più evidenti della natura), dissero, che l' azione durava fenomenalmente nell' uomo fino che questi non fosse giunto alla scienza , e propriamente all' idea che sola esiste e diventa uomo, azione, oggetto, soggetto, concetto, natura, Dio, ogni cosa. L' uomo non arriva a conoscere questa gran verità, che l' idea è tutto, fino che la coscienza di lui è ancora immersa e approfondita nel travaglio di pervenirvi, che è successivamente creazione ed annullazione (perocchè non vi ha requie, ma soltanto, come diceva Eraclito, continuo moto); pel qual travaglio l' uomo mai non è, ma sempre diventa , e diventa or pura idea, or nulla, ora dal nulla sorte novellamente uomo, [...OMISSIS...] per rientrare poi tosto nella natura materiale, o indiarsi, o idealizzarsi, o ripiombare di bel nuovo nel gran nulla. Così in questa scienza ogni azione, e con essa ogni moralità, non è più che una passaggera metamorfosi dell' idea, e l' Uomo7idea è a tutte cose superiore, anzi è tutte le cose, nè egli, il tutto, può più ricevere altronde alcuna legge. Sebbene poi disparisca nel nulla anche la coscienza di sè , tuttavia questa sola, appunto perchè non esce di sè, è verace, e la cognizione dell' altre cose, che in Germania si chiama coscienza senza più, deve esser vinta da quella. Perocchè la coscienza di sè , e la coscienza (cognizione dell' altre cose) lottano insieme, secondo la filosofia germanica, al modo degli antropofagi, e colla vittoria che spetta alla prima, questa si mangia saporitamente la seconda. Laonde la coscienza , ossia la cognizione di Dio e de' proprŒ simili, essendo divorata dalla rabbiosa fame della coscienza di sè stesso , che sola rimane soprastante, i doveri morali verso Dio e verso gli uomini sono divorati con essa, e di queste vecchie cose è sparita pur la notizia. Allora l' uomo, coscienza pura di sè stesso, nel che sta l' apice di sua grandezza, è liberato d' ogni obbligazione, salvo che gli resta, non il dovere certamente, ma il piacere di adorare se medesimo; come anche quel nulla , in cui poco stante farà un capitombolo, per riuscirne di nuovo, come dall' ovo primordiale. Le quali non sono conseguenze che noi caviamo: anzi il merito d' averle dedotte appartiene parte allo stesso Hegel, parte poi a' suoi discepoli, che non hanno ancora acquistato alcun merito di essere nominati. E così sotto il nome di scienza e di filosofia, la sofistica in Germania tolse a schernir l' uomo, palleggiandolo fra il nulla e il tutto , senza riposo: coll' uomo poi rimase uno scherno la scienza, la filosofia, la sapienza: tutte cose che di continuo escono dal gran mare del nulla, in cui rifluiscono. Niuna maraviglia, che la voce della filosofia ora in quel paese sembri ammutolita e confusa. Pure la dualità della cognizione e dell' azione che quei sofisti cotanto abborrono, non toglie l' unità dell' essere identico nell' idea e nell' atto, nè impedisce l' unità della sapienza, che dall' intima congiunzione, organata ed armonica, di que' due elementi risulta, vivente non morta, come è inevitabile che si rimanga l' uno, se si spoglia di qualunque pluralità. Nè fra la contemplazione e l' azione v' ha contrarietà di sorte, quasichè questa impedisca la pienezza di quella, come si suppone, chè la mente contempla ugualmente sì nell' uomo che opera, come nell' uomo che non fa nulla: nel primo contempla anche quello che egli stesso fa: niuna cosa rimane esclusa dalla contemplazione, benchè le cose contemplate abbiano poi un' altra forma d' essere che le pone fuori di essa; e questo stesso è la contemplazione che ce lo dice e ce l' accerta. Riassumendo dunque, noi dicevamo, che nella cogniziione della Verità, di cui la scienza è soltanto una forma riflessa, giace il primo elemento della Sapienza; ma questa stessa cognizione non principia ad essere elemento di Sapienza fino che è puramente speculativa, e non ancora assentita ed amata fino che l' uomo, non v' ha aggiunto del suo, fino che la cognizione non è divenuta azione libera; chè la stessa visione del vero è doppia, l' una necessaria, l' altra volontaria e amorosa, alla qual ultima spetta più propriamente il nome ora di contemplazione , ora di cognizione pratica . Laonde c' è una cognizione ed una scienza psicologicamente anteriore a quel punto in cui la Sapienza incomincia. Ora per non lasciare questo discorso imperfetto e l' immagine della sapienza senza capo, conviene che noi facciam passaggio dall' ordine naturale a quell' altro senza pari più sublime, cioè al soprannaturale. Prendiamo il ragionamento del suo principio. L' uomo arriva in due modi all' acquisto delle cognizioni: l' uno, difficile e lento, quand' egli abbandonato a se stesso, senza alcuna educazione ed istruzione, senza poter far uso d' alcun maestro, col proprio ingegno s' avanza, fin dove può, alla scoperta del vero: l' altro facile e spedito, quando sotto la disciplina di maestri apprende dalla loro parola non solo quelle poche verità ch' egli avrebbe potuto scoprire da se medesimo, ma per ordine una copia smisurata di notizie raccolte colle fatiche d' innumerevoli studiosi, e quasi ammassate e trasmesse di secolo in secolo alle successive generazioni, siccome eredità o patrimonio comune dell' umana famiglia. Tutti unanimamente convengono, che l' efficacia di questo secondo modo d' erudirsi sia infinitamente maggiore del primo: e però in tutti i tempi dopo i primissimi v' ebbero maestri e scuole, ne' tempi poi più civili, dove, essendo già maggiore lo sviluppo degl' ingegni individuali, sarebbero parute men necessarie, si riconobbero in quella vece più importanti; e crebbe fuor di misura la sollecitudine d' istituire Università e Licei ed ogni altra maniera di scuole, nelle quali dalla voce di sceltissimi precettori venissero a moltissimi quelle notizie comunicate e propagate. Chè la comunicazione della verità da una mente ad un' altra per mezzo della parola è la via di tutte e più fruttuosa e più spedita, per la quale, con leggera fatica, gli uomini trapassano dall' ignoranza al possesso del sapere. L' autorità dunque è il natural pedagogo, che incammina più direttamente e più pienamente alla scienza: ella inizia, eccita, dirige, arricchisce, rinforza, e quasi moltiplica l' umana intelligenza. Ma egli è evidente, che il maestro non può insegnare quello che non sa: quindi l' importanza che sia dotto. Nè ella è legger cosa al profitto la stima e la fiducia de' discepoli nel proprio istitutore. Che anzi in molti problemi difficili e di sommo momento, gli uomini il vorrebbero avere del tutto infallibile, e lo si augurano onnisciente. Il quale natural desiderio di sapere il vero e saperlo con certezza, che conduce le menti a comporsi l' ideale del maestro a cui appartengano le due doti, dell' infallibilità e dell' onniscienza, suol muovere l' affetto de' discepoli a celebrare con ogni esagerazione la dottrina e l' autorità de' loro precettori; e vediamo non pochi di questi avere in vari tempi conseguita l' appellazione di divini, od altra di pari eccesso: i discepoli poi aver sovente giurato nelle parole de' maestri ed essersi compiaciuti di risolvere le questioni tutte colla solennissima formola dell' ipse dixit . Ma Platone, a cui pure fu dato l' epiteto di divino, ogni qual volta ne' suoi ragionamenti s' abbatte in alcuno di que' rilevantissimi e misteriosi problemi, di cui tutti desiderano sapere la soluzione, perchè da essi dipende l' umana destinazione di que' problemi, pe' quali si coltiva la filosofia non altrimenti che si coltivi l' albero pel suo frutto non s' arrogò mai alcun divino sapere, ed anzi confessò la propria ignoranza, facendo voti che lo stesso Dio s' avvicinasse e rivelasse agli uomini, come quelle cose si stessero, e colla sua autorità infallibile ne desse loro una piena sicurezza (1); chè di queste due cose ad un tempo hanno gli uomini sommo bisogno, e di conoscere la verità di tali questioni, e di conoscerla senza titubanza bastando la sola titubanza a rendergli infelici. Che se Alessandro Magno ringraziava gli Dei dell' averlo fatto nascere in un tempo, in cui viveva Aristotile, quanto non si sarebb' egli tenuto più fortunato, se gli fosse toccato un Dio per maestro? E tutti quelli che conobbero tra i gentili a che caro prezzo di fatiche e di studŒ si prevenga alla verità, tutti quelli che per arrivarvi logorarono la propria vita in lunghi viaggi, in veglie, in privazioni d' ogni maniera, e dopo di tutto non riuscirono che ad opinioni contrastate, a congetture più o meno probabili, e mai alla sicurezza di possederla, tutti questi dico, qual contento, qual giubilo non avrebber provato, se avessero potuto anche un solo istante abboccarsi con Dio medesimo, e dalla sua propria bocca intendere quelle risposte infallibili, e quegli indubitabili ammaestramenti che desideravano! Ed anzi ell' è comune, naturale all' umanità, non declinabile a nessun uomo, ardentissima, inquietissima la brama di pur sapere quali sieno gli esiti finali della virtù e del vizio, e che cosa sarà dell' uomo dopo questa breve vita se sopravviverà l' anima alla dissoluzione del corpo, se sopravvivendo si rimarrà sempre dal corpo divisa; e che farà, che patirà in una eterna esistenza, se sarà felice, o infelice: questioni tutte sulle quali gli uomini nè possono vivere incerti, nè da se stessi con positiva sentenza, e d' alcuna titubanza non indebolita, pronunciare, onde quelle qualunque opinioni, che i filosofi intorno ad esse immaginarono, si rimasero vaghe nella forma, congetturali nella sostanza, molteplici, contraddittorie, prive poi d' autorità, e di stabilità di consenso: e sopra tutto ciò in dominio de' poeti, che favoleggiandole, vie più incredibili le resero, onde i più potenti ingegni per aver pure qualche cosa di positivo e di meno indeterminato s' appigliavano, siccome il naufrago che s' apprende ad ogni fuscello ad ogni foglia che nuota nell' onde, a certe voci antiche, di cui per una popolare tradizione giungea fino ad essi il lontano rumore (1). Qual cosa dunque più conforme al bisogno instante e al voto di tutti gli uomini, che il rinvenire un maestro così eccellente che tutte queste cose sappia egli stesso per iscienza indubitabile, e possa narrare altrui con piena autorità d' esser creduto e facoltà di persuadere? E quale può essere un maestro così fatto, se non Dio stesso? O chi potrebbe avere a dispetto un maestro di tal condizione, o provare rincrescimento, ch' egli discendesse in sulla terra per ammaestrare gli uomini? Chi arrossirebbe di farsene discepolo, chi si chiuderebbe gli orecchi per non udirlo? Certo nessuno, se non fosse venuto a tanta dissennatezza da odiare la luce, e a tanto pervertimento da soffocare in se medesimo il più vivo, l' immortale istinto della natura umana. E` dunque desiderabile a tutti quelli che amano la verità, e cercano la sapienza, che Iddio stesso si renda maestro degli uomini; ed è anco probabile, che, essendo Iddio ottimo e conoscitore de' bisogni e di tutte le tendenze di questa natura umana che è opera sua, l' abbia voluto; nè solo è probabile che l' abbia voluto, ma questo è oggimai il fatto più di tutti i fatti luminosissimo, il quale è risonato in tutti i secoli, ed ha empito della sua virtù tutta la terra. V' ha dunque una scienza soprannaturale e divina, conforme al desiderio dell' umana creatura, e all' esigenza della ragion vacillante, che, dopo aver tentato di scoprire e d' indicare all' uomo la via della felicità, confessava di non rinvenirne alcuna che fosse sicura tra i non prevedibili e fatali avvenimenti della presente vita, d' una vita di cui ella non potea penetrare il mistero, simile ad una catena di sogni, che certamente si dovea rompere, e in breve e in un istante sconosciuto: al quale istante condotta la ragione si vedeva fermata davanti alla ferrea porta della morte senza poterla aprire, e dentro traguardare che v' avesse al di là, quali sedi, quali dimore aspettassero l' anime intellettive, che si sentivano pure immortali. Che se la sapienza fu definita, non a torto, « « la scienza della felicità »(1) » conviene per fermo conchiudere, che quella cognizione soprannaturale, che fu insegnata agli uomini dallo stesso Iddio, fattosi loro maestro, questa cognizione, dico, che sola aperse ai mortali il segreto della morte, e della nuova ed eterna vita, a cui la stessa morte è varco, si meriti ella sola il titolo di sapienza. E via più, che da un tanto maestro l' uomo non impara solamente a conoscere quali beni gli stieno preparati oltre al confine del tempo, ma a quali condizioni egli possa venirne in possessione, e ne apprende l' arte, e ne acquista gli stromenti. E così in questa scuola soprannaturale fu sciolto col fatto un altro altissimo problema, che, nell' ordine naturale, venia proposto e discusso dai più sagaci intelletti, cioè « se la virtù si potesse insegnare. » Del qual problema Platone in più luoghi diede una risoluzione negativa, affermando che la virtù non è cosa che insegnar si possa, come s' insegna la scienza , nè si possano trovare fra gli uomini i maestri di essa, e di conseguente neppure i discepoli, e finalmente che il solo Iddio ne poteva essere e il maestro ad un tempo, e il donatore (1). Nuova potentissima ragione riconosciuta dalla naturale filosofia, per la quale era non pur desiderabile, ma necessario un maestro divino. E a Dio veramente è dato di comunicare ad un tempo e la verità alla mente, e la virtù all' umana volontà. Sapendo ora dunque l' umanità di possedere questo maestro, la scuola del quale non si racchiude in alcun' aula magnifica, o in uno spazioso portico, o in qualche ameno bosco o villa, nè in alcuna città, ma risuona per tutti i luoghi dove risplende il sole, e dove l' aria fa anelare il petto dell' uomo, noi dobbiamo, volendo in qualche modo abbozzare l' immagine della sapienza, accennare più distintamente, che cosa s' insegni, che cosa s' impari in questa scuola, dove entrambi que' due elementi di cui dicevamo risultar la sapienza, si danno gratis a tutti quelli che li desiderano, e così compiuti, come a un Dio che insegna è possibile e condecente. Consideriamo la nuova scienza , a cui in appresso si continuerà spontaneo il discorso della nuova virtù . Noi abbiamo distinto la verità dalle diverse forme , nelle quali ella si presenta alla vista degli uomini. Queste cangiano nelle varie età, e nel vario svolgimento delle facoltà intellettive, di modo che la verità prende delle forme infantili, dell' altre proprie della puerizia, e così dell' adolescenza, della virilità, della vecchiaia, altre nel comune degli uomini, altre ne' soli scienziati. Ma prima di tutte queste forme v' ha la stessa verità, ed ella è quell' essere ideale nel quale tutte le entità sono conoscibili. La verità anteriore alle forme comunica immediatamente coll' uomo, e lo costituisce intelligente. Ora anche qui domanderemo qual è il maestro che insegna all' uomo la verità pura, anteriore alle forme e di tutte poi suscettiva? Qual è il maestro che gli dice questa prima parola, colla quale l' uomo interpreta, ed intende tutte le altre? Nessuno de' mortali insegna a questo modo la verità e se un tale ci fosse, da chi l' avrebbe egli apparata? E come potrebbe comunicarla? colle parole? Ma queste non sono che suoni, che diventano poi segni, non tanto per la virtù e per l' opera di chi le pronuncia, ma assai più per l' opera di chi le ascolta, e le interpreta a se medesimo, e che non potrebbe interpretare ed intendere, se non potesse trasportare la sua mente da' suoni esteriori alla verità significata, che non è ne' suoni, ma che egli si trova dentro nell' anima. Ogni magistero umano dunque suppone prima di sè un magistero divino, il magistero di colui che fu chiamato « « luce vera, che illumina ogni uomo veniente in questo mondo »(1). » Al qual magistero l' uomo crede per natura e non per raziocinio, di manierachè anche nell' ordine naturale, non solo nel soprannaturale, la fede precede la ragione , e s' avvera la sentenza « « se non avrete creduto, non intenderete » ». Ecco il maestro primo, ecco il solo, a cui veramente s' appartenga un tal nome, perchè il solo che comunica la verità, quando gli altri non fanno che ammonire ed eccitare coloro, a cui la verità è già comunicata, a pensarvi, a riflettervi, a considerarla sotto forme speciali. E però a tutta ragione questo maestro represse la boria de' sapienti della terra, dicendo a' suoi discepoli: « « Voi non vogliate chiamarvi maestri, perchè uno solo è il vostro Maestro, e voi tutti siete fratelli »(2). » Il qual precetto fu dato quando Iddio, mostrandosi in forma di maestro visibile, alla prima parola colla quale illuminava l' umana specie nel giorno che la creò col darle ad intuire la verità, aggiunse una seconda parola più sublime assai della prima, ma interna come la prima, verità come la prima, anteriore anch' essa alle forme, come la prima efficace, come la prima ed insieme colla prima luce non bisognevole d' altra luce per vedersi, visibile per se stessa. E a quel modo che la prima parola fu porta che intromise l' uomo nel mondo dell' intelligenza naturale , la seconda è porta che lo introduce in un altro mondo più ampio dell' intelligenza soprannaturale . E quanto si rispondano questi due lumi, e come il metodo col quale viene illuminato l' uomo nell' ordine delle cose soprannaturali proceda identico a quello col quale egli viene illuminato nell' ordine delle cose naturali, ond' apparisce la scuola esser la stessa, lo stesso il maestro, fu da noi prima accennato e sarebbe lungo a pienamente descrivere. Ma osserveremo solamente, che quando Iddio, creando l' uomo, lo ammaestra col lume della ragione, allora in pari tempo egli lo rende atto e ad apprendere da sè più cose che sotto molte forme gli danno a vedere la stessa verità, che senza forme già vede, e a ricevere altresì ammaestramento dalla voce degli altri uomini, e ad ammaestrare altri egli stesso, loro comunicando le cose e le forme da lui conosciute; di che seguita, che la scuola del maestro divino che il primo e il solo comunica la luce del vero, è quella che rende possibili tutte l' altre scuole, o che l' uomo coll' aiuto di quella luce investighi da sè la verità ed ammaestri se stesso, o che sia ammaestrato da altri. Il primo maestro dunque forma tutti gli altri maestri, come pure forma gli stessi discepoli; chè e quelli e questi esistono soltanto in virtù di quel primo tacito, ma potentissimo magistero. Ora il somigliante accade nell' ordine soprannaturale, dove il magistero divino che dà il lume all' anima rende questa idonea ad investigare, apprendere ed insegnare le cose che a quell' ordine appartengono, e così rende possibile anche in quest' ordine un magistero esterno ed umano. E a quegli uomini appunto che furono incaricati d' esercitare quest' umano magistero nell' ordine superiore a quello della natura, a quegli uomini che furono istituiti da Dio stesso maestri delle cose più eccellenti, a tutte le nazioni, e a tutti i secoli, fu detto: « Voi non vogliate chiamarvi maestri, perchè uno solo è il vostro maestro, e voi tutti siete fratelli. »Quest' ammonizione non poteva uscire dalla bocca d' alcuno, che non fosse Dio, e a quelli a cui era data, essa rammentava di continuo, onde derivasse la chiarezza e la potenza della loro parola, che sarebbe pur sempre echeggiata, e sempre intesa di generazione in generazione sino alla dissoluzione del globo: il tuono della quale al di sopra d' ogni vociolina, o ronzio terreno, già per lo spazio di diciannove secoli senz' alcuna interruzione, si propaga. Chè la rivelazione esterna e la predicazione nè sarebbe a sufficienza intesa, nè assentita dagli uomini, nè resa operativa dalla cooperazione della volontà umana, se non fosse a ciascuno di essi interpretata, illustrata ed avvalorata dalla luce interiore del carattere e della grazia . Laonde un dottore che colla mente penetrò più addentro di moltissimi in questo vero, venutegli a mano quelle parole in cui Cristo si chiama « principio che anche parla a voi », così ne scrisse: [...OMISSIS...] Laonde questo stesso uomo sapientissimo dalla cattedra dove sedeva maestro di altissimi veri co' suoi uditori usava un linguaggio nuovo e per umiltà inaudito nelle scuole dei filosofi, dicendo a tutto il suo popolo, ai dotti, e agl' indotti ugualmente: « « Egli è più sicuro, che e noi che parliamo, e voi che ascoltate riconosciamo di essere condiscepoli sotto un solo maestro. Al tutto ella è questa cosa più sicura e giovevole, che voi ascoltiate noi non come maestri, ma come condiscepoli »(2). » Di due parti dunque si compone l' insegnamento soprannaturale del lume interiore e della rivelazione esteriore che la predicazione e il magistero ecclesiastico perpetua nel mondo. E il divino Maestro entrambi le accennò quelle parti, quando interrogato chi fosse, rispose: «PRINCIPIUM, QUI » (ovvero propterea ) «ET LOQUOR VOBIS (1). » Dicendo principium egli espresse il lume interno, che è appunto il principio di ogni verità e cognizione, non potendo la voce corporea esser principio, o comunicare altrui il principio dell' intelligenza, come quella che ha bisogno per essere intesa di trovar già nell' uomo quel primo lume che è chiave ad aprire ed interpretare il significato d' ogni segno sensibile: dicendo poi, qui et loquor vobis , espresse quell' esteriore e sonoro ammaestramento, che all' interno risponde lo svolge, e che egli medesimo, Iddio fatto uomo, volle pure esercitare infra gli uomini, e commettere poi a' suoi Apostoli di tramandare le cose udite da lui, ed intese per lui, agli altri, a cui egli avrebbe continuato il lume, col quale avessero potuto intenderle. Laonde nella parola « principio »è indicata chiaramente la natura divina e il divino magistero: in quel che segue « e perciò parlo a voi », è indicata la natura umana e il magistero umano che dal primo dipende: l' una e l' altra natura nella identica divina persona, l' uno e l' altro magistero dalla stessa persona esercitato, e il secondo veniente come conseguenza dal primo: « « e perciò anche vi parlo; «oti kai lalo umin» (2) »: quasi dicesse: « Io ho la facoltà e il diritto di parlarvi, perchè sono il principio, che v' illumina: non vi potrei parlare esternamente queste cose, se io non fossi quello che ve le fa intendere internamente. » La Filosofia che è l' opera della riflessione , corre il pericolo d' impiccolirsi, come abbiam già osservato, restringendosi dentro la sfera del pensiero riflesso, e negando tutto ciò che è, e vive fuori di esso. Quindi a molti di quelli che la professano, chiusi nell' angustia di quel pensiero speciale col quale filosofeggiano, che essi scambiano col pensiero generale , riesce difficilissimo a riconoscere, che avanti alla stessa riflessione esiste un lume che tocca immediatamente l' anima, un lume comune a tutti gli uomini, non bisognevole di filosofia per risplendere, quando la filosofia ha pur bisogno di lui, siccome la lampada del fuoco, al quale s' accende. Una filosofia, così rannicchiata in se medesima, non può intendere quel magistero soprannaturale di cui parliamo, chè non intende nè manco qual sia la natura del magistero naturale della verità. Ma la scuola germanica impossessatasi, come abbiam detto, di questa cotale ignoranza filosofica, vi fabbricò sopra con tutta la forza e la profondità possibile all' ingegno che lavora sul falso, un compiuto sistema. I discepoli di Hegel intimarono esplicitamente la guerra più accanita a tutto ciò che essi denominarono l' immediato , intendendo sotto questo vocabolo qualche cosa di divino che elevi la mente dell' uomo più su della coscienza scientifica e determinata. Negarono Dio stesso per questa curiosa ragione che « l' idea di Dio non si riflette su di se stessa »; quasichè l' idea di Dio porgesse alla mente un Dio inconsapevole: tanto era loro divenuto invisibile tutto quello che rimanea fuori della riflessione, o che esiste senza di essa! Dicevamo dunque, che l' ordine in cui procede la cognizione delle cose soprannaturali è analogo, e, per così dire, dello stesso stile, all' ordine in cui procede la cognizione delle cose naturali. Nella notizia delle cose naturali c' è un primo lume interiore, e un primo lume interiore c' è pure nella notizia delle cose soprannaturali; quel primo lume è la verità che veste poi varie forme, le quali costituiscono tutte le cognizioni che non eccedono la natura, scientifiche o no, comprese le ultime speculazioni della Filosofia; quest' altro primo lume è ancora la verità che veste varie forme, le quali costituiscono tutte le cognizioni soprannaturali, comprese le più alte contemplazioni della Teologia: quel primo lume è il criterio della naturale certezza, lui si consulta dall' uomo in ogni dubitazione (1); quest' altro primo lume è il criterio prossimo della certezza soprannaturale, lui pure s' interroga da chi vuol conoscere d' una dottrina annunziata in nome di Dio, il vero ed il falso (1); quel primo lume si svolge e per le proprie meditazioni e per la parola altrui; quell' altro primo lume del pari si svolge e si moltiplica o col meditare che l' uomo faccia da sè, o ascoltando l' altrui parola: onde lo spirito di Dio come ancora la sua legge è detta molteplice (2). Nell' uno e nell' altro ordine dunque si riconosce lo stesso disegno, la stessa mano, lo stesso autore, lo stesso maestro, e questo divino. Ma ora in che sta poi la differenza fra le due verità primitive, fra i due ordini di cognizioni? Il primo lume che rende l' anima intelligente è l' essere ideale e indeterminato: l' altro primo lume è ancora l' essere , ma non puramente ideale, ma ben anco sussistente e vivente. L' essere sussistente è Iddio: egli stesso disse « « Io sono l' ESSERE »(3) » Avendo usato il pronome personale IO, egli si manifestò come persona , l' essere come oggetto è il Verbo, e quest' essere oggetto è persona, di cui pure è scritto: « « In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e Dio era il Verbo »(4). » E` quello stesso che altrove chiamò se stesso principio (5): principio d' ogni intelligenza, e d' ogni cognizione: perchè il principio della cognizione è l' oggetto primo, e il primo ed essenziale oggetto che contiene tutti gli oggetti è l' essere: gli altri oggetti del pensiero sono oggetti per l' essere, l' essere è oggetto per se stesso. L' idea dunque è l' essere intuito dall' uomo; ma non è il VERBO; chè non quella, ma questo è sussistenza; quella è l' essere che occulta la sua personalità , e lascia solo trasparire la sua oggettività indeterminata ed impersonale: nella mente, che intuisce l' idea non cade la personalità dell' essere, nè la sussistenza, e perciò ella non vede Iddio: ma chi vede il Verbo, ancorchè per ispecchio e in enimma, vede Iddio. Laonde se la naturale scienza termina, in qualche modo, in quella che Boezio chiama: « sola rerum PRIMAEVA RATIO; » la scienza soprannaturale giunge a quella che è ad un tempo stesso « nullius indigens VIVAX MENS (1). » L' uomo è un soggetto reale : quindi non può fermarsi all' idea, egli aspira a congiungersi col reale. Il reale dato all' uomo nella natura è finito, e l' idea conduce l' uomo a conoscere e ad amare questo reale finito, ma nello stesso tempo glielo mostra finito, ed essendo infinita l' idea gli mostra la possibilità, la necessità d' un altro reale infinito, che non è dato all' uomo. L' uomo a ciò che conosce, estende anche il suo desiderio: questo dunque va all' infinito, a quell' infinito che l' idea gl' indica dover essere, senza il quale nè la potenza dell' idea sarebbe esaurita, nè il conoscimento possibile all' uomo compito, nè il suo desiderio di conoscere, di congiungersi e di godere appagato. Ora questo infinito reale è dato inizialmente all' uomo nel lume soprannaturale, che Iddio gratuitamente gli aggiunge: la percezione di questo lume sostanziale e sussistente è la percezione del divino Verbo; quivi il desiderio riposa, quivi l' uomo, in un cotal modo, anche nella vita presente, si sazia. Il maestro dunque, di cui noi teniamo discorso, ha, fra le altre, questa singolarità che lo distingue da tutti gli altri maestri, che mentre a questi nel trasmettere che fanno a' loro discepoli le varie scienze e discipline ch' essi professano d' insegnare, non cade mai nella mente d' insegnar loro se stessi: e s' alcun d' essi, foss' anco un professore di qualche Università del Settentrione, invasato dal Demonio della vanità, prendesse seriamente ad annunziare dalla cattedra la materia del suo insegnamento in questo modo: « O giovani, io in quest' anno vi darò lezioni sopra me stesso, la scienza che v' insegnerò sarà la scienza della mia propria persona. »Probabilmente quegli uditori, benchè così generosi, così entusiasti de' loro professori, vinti questa volta non dall' ammirazione, ma dalla compassione, andrebbero mestamente ad avvisare il Rettor Magnifico della disgrazia accaduta a quel gran cervello. All' incontro il maestro unico, di cui noi parlavamo, non destò nè compassione, nè riso, dicendo espressamente agli uomini, che la scienza che insegnava, era quella che faceva loro conoscere lui stesso. Invano qualche professore tedesco mostrò dell' invidia di questo parlare divino (1). Gli uomini riconoscono, che quel maestro che loro così s' annunzia è anche il proprio e il massimo oggetto della cognizione e della scienza, un oggetto che nel momento che si comunica, è noto, come quello che per essenza è intelligibile. Quel maestro non ha che a dire: eccomi, vedetemi: e l' uomo è istruito: questa è la vera arte notoria. Chè essendo il maestro di cui parliamo, Iddio, e in Dio contenendosi tutte le cose, anche quelle che non sono Dio, ma create da Dio, poichè anche queste hanno una maniera d' essere in colui che « « porta tutte le cose colla parola della sua virtù »(2), » e tutte le cose essendo in Dio intelligibili, perchè Iddio è intelligibile per essenza, e, in quant' è così intelligibile, si chiama il Verbo; consegue che chi conosce Iddio, il Verbo di Dio, conosce il tutto, perchè il tutto in esso si trova. E niun altro può ascendere ad una scienza compiuta delle cose, se non ascende a colui, nel quale tutte s' accolgono, s' impernano, si collegano, si unificano: nè v' ebbe mai filosofo d' alta mente che non intendesse a sintesizzare le sue cognizioni, riferendo le cose conosciute all' Essere divino, o che credesse di dover aspettar altronde il compimento dello scibile umano, o questo riputasse ultimato e assoluto, finchè, speculando, non fosse siccome rigagnolo ricondotto nel mare dell' essere e della sapienza, ond' era quasi direi evaporato, e poscia condensato in acqua di scienza. L' idea è una forma v“ta, come dicevamo, non contiene l' essere completo , ma una cotal sua delineazione: indica all' uomo, soltanto l' enimma dell' essere completo, non glielo porge perchè non l' ha in se stessa: il Verbo all' opposto, che è il lume soprannaturale, è l' essere completo: ha il compimento di quell' essere, di cui nell' idea vedesi un languido abozzo. Il senso, cioè la facoltà di sentire le cose corporee ed altre incorporee, come l' anima, ma finite, nell' ordine naturale, viene in soccorso dell' intelletto, ossia della facoltà d' intuire l' idea. Ma quanto è povero questo soccorso! Come dice il poeta: [...OMISSIS...] E di vero non v' ha alcun organo o altra facoltà sensoria nella natura dell' uomo che senta Iddio, e perciò rispetto alle cose divine, che sole possono adempire l' idea, questa si riman vota ed impotente. Acciocchè l' opera della creazione acquistasse tutta la sua possibile perfezione, era uopo che nell' essere umano, fornito d' intelligenza per mezzo dell' idea, fosse aggiunto graziosamente un sentimento, il quale s' estendesse altrettanto, quanto l' idea; e come questa si stende al finito ugualmente e all' infinito, ella non poteva essere pienamente soccorsa, e quasi direi, contrabilanciata, se non da un sentimento di pari ampiezza. Ma non poteva Iddio esser contato fra gli enti della natura, di cui egli è il Creatore, e perciò egli rimane sempre distinto da essa, che ha per condizione il limite per la sua qualità di creata. Non potea dunque la natura dell' uomo avere un sentimento di Dio: ma neppure potea rimanere imperfetta l' opera di Dio. Quello dunque che non è racchiuso nella natura, nè alla natura è dovuto, Iddio l' aggiunse all' opera sua mosso unicamente dalla sua propria liberalità e infinita santità. La rivelazione fa conoscere, che Iddio costituì i primi padri del genere umano in istato soprannaturale di grazia. Se non si sapesse che questa rivelazione è vera, quanta sapienza si dovrebbe pure scorgere in essa! quant' armonia e convenienza colle divine perfezioni! Chi avrebbe potuto inventare, una notizia così profondamente ragionevole, così filosofica, che pur fu data agli uomini prima che filosofassero, prima che la scienza fosse trovata! Or poi ancora in questo tardo secolo, che si dice civile e filosofico, v' hanno di quelli, che non sono ancora arrivati ad intendere come sia stato conveniente, e conformissimo ai divini attributi, che il Creatore aggiungesse al natural lume, un altro lume soprannaturale, di quelli che ancora non comprendono come il primo non basti a tutti, perchè non vedono il rapporto tra l' idea e il naturale sentimento, e la sproporzione e insufficienza di questo a quella. E se nè pure adesso, colla natural sapienza, gli uomini giungono a tanto, chi mai in secoli meno colti avrebbe potuto inventare quella rivelazione? Troppo più ci voleva che l' umano ingegno. Ma chi o vede da sè, o gli è fatta vedere quella sproporzione che dicevamo, ben intende, siccome l' uomo, quest' opera sublime dell' essere perfettissimo, se Iddio l' avesse lasciato privo d' un senso soprannaturale, sarebbe riuscito, quasi direi, simile ad un figliuolo nato con una gamba assai lunga, e l' altra corta. La natura umana non aveva di più, non c' era di più nell' essenza di questa natura. Ma questo, che bastava alla natura umana, non bastava a colui, di cui è scritto: « « Tu facesti tutte le cose nella sapienza »(1). » E` dunque la natura dell' uomo quella che, non sapendolo e non pensandoci l' umano individuo, quasi direi, chiede per grazia il soprannaturale, come l' indigente dimanda colla sua sola indigenza: è la ragione, che, avendo un lume, questo le vale a conoscere la mancanza di qualche altro lume che le completi quel primo (benchè non sappia dire a se stessa che cosa quest' altro lume sarà), è il cuore umano che esige di possedere tanto di realità, quanta ne concepisce, e, avendo l' idea, ne concepisce un' infinità confusa, e si slancia nel v“to, con isforzo d' infrangere i termini della natura che gli sembrano angusti. Colui che così fece la natura umana, ne conoscea il voto misterioso, e inesplicabile a lei stessa, già fin da quando l' ebbe formata, e le spiegò egli stesso quel voto, e vi soddisfece: nè permise che l' avversario di questa natura che volea distruggerla, lusingandone l' amor proprio col persuaderla, che potea divenire simile a Dio da se stessa, rendesse inutile l' opera del Creatore. Permise sì che cadesse; ma caduta per la disubbidienza, spogliatasi colle sue mani de' soprannaturali ornamenti, resa di questi incapace ed indegna, vulnerata in tutte le sue potenze, egli la ristorò, e la ripose in una condizione assai più magnifica, e più sublime di prima. E questa fu l' opera non del primo lume della ragion naturale, non dell' idea, ma dell' altro primo lume della ragione soprannaturale, fu l' opera del VERBO di Dio. Quel maestro, che Platone desiderava venisse sopra la terra, per isvelare agli uomini le cose più necessarie e per arrecarne loro la certezza; quel maestro, Iddio, che è ad un tempo lume, oggetto unico ed essenziale dello scibile, persona, Verbo divino, si fece carne ed apparve in mezzo degli uomini, vero uomo anch' egli senza cessare d' esser vero Dio: GESU` Cristo ebbe nome, Salvatore, Unto di Dio. Egli insegnò a conoscere il Padre, avendo detto a chi prestava a lui fede: « « Niuno mai vide Iddio, l' Unigenito che è nel seno del Padre, egli l' enarrò »(1). » E ancora ad uno de' suoi discepoli: « « Filippo, chi vede me, vede anche il Padre »(2). » Ancora, mandò lo Spirito della verità, secondo quello che avea promesso: « « E quando sarà venuto quello Spirito della verità, egli v' insegnerà ogni verità, poichè non parlerà da se stesso, ma parlerà tutte quelle cose che udirà e vi annunzierà le cose avvenire. Egli mi chiarificherà, perocchè riceverà del mio, e lo annunzierà a voi »(3). » Così l' Iddio Uno e Trino fu disvelato agli uomini: il Maestro svelò se stesso, e compì lo scibile nell' umanità. La natura e la scienza aveano incamminato l' uomo all' essere infinito per una triplice via, ma così lunga, che per viaggiare che egli facesse non potea fornirla: si trovò improvvisamente trasportato a quel punto infinitamente distante, a cui implicitamente voleva andare: si trovò in quell' essere infinito che cercava: si trovò quivi per miracolo, non in virtù d' alcun suo ragionamento, ma in virtù della fede. Ei credette quell' Essere [...OMISSIS...] Credette lui ed in lui, ed a lui: e tutto ciò, senz' ancora avvertire qual relazione s' avesse il punto elevato in cui egli già era, colla triplice via per la quale s' era messo col suo ragionamento; ma di poi, lo stesso ragionamento si ripiegò sulla fede, e riconobbe che quel termine, che andava cercando, a cui le tre vie dell' intelligenza convergevano, quel punto unico per infinita distanza inarrivabile, era quello appunto in cui la fede, quasi di sbalzo, l' avea collocato. Per verità l' essere si fa presente all' uomo in una triplice forma, come reale , come idea , come virtù . Ciascuna di queste forme siccome in suo ultimo termine d' attuazione, si riduce nell' infinito essere. L' uomo quasi in un cotal sogno divino, cerca la realità infinita , che non trova in natura; ma ben intende, che se una realità fosse veramente infinita, con tutte le sue condizioni, ella dovrebbe essere lo stesso essere infinito; cerca uno scibile infinito , che nell' idea non ha se non in potenza, ma ancora intende del pari, che se un oggetto per se intelligibile fosse veramente ed attualmente infinito, con tutte le sue condizioni, di nuovo, non potrebbe esser altro che l' essere infinito; cerca finalmente quell' infinito amore , che in lui non è che una capacità d' amare delusa sempre, sempre tradita dalle lusinghe e dall' infedeltà di tutte le cose naturali; ma finalmente, a mente sana, vede quello non esser possibile, se non v' abbia un reale infinito, infinitamente conosciuto, che ne sia l' oggetto amabilissimo, ed intende, che un tale termine dell' amore qualora ci fosse, non potrebbe essere ancora che l' essere stesso infinito, che tutto l' essere, tutto il bene. Ciascuna delle tre forme conduce il pensiero allo stesso termine, all' identico essere infinito. E queste tre vie erano indicate dalle tre summentovate parti della filosofia. Platone sembra aver veduto, che ciascuna di esse dovea terminare in Dio, nel quale riconosceva la « « causa del sussistere delle cose, la ragion dell' intendere, l' ordine del vivere »(1). » Ma chi gliene dava l' accerto? O chi prestava fede alla parola vacillante d' un uomo, che confessava d' aspettar un maestro divino, il quale gli rivelasse di tai cose la verità? E chi, anche credendo o intendendo l' alto concetto di Platone, poteva appagarsi d' un bene di cui gli si rendeva ad un tempo e nota l' esistenza e sentita la privazione? Poichè quello non era più che un modo negativo e indicativo di conoscere Iddio, non un conoscerlo colla percezione, col sentimento, colla fruizione. E poi, sciolto un nodo, un altro ancora più difficile ne usciva: « Se quelle tre cose sono tanto differenti, come si riducono ad una? e se si riducono ad una, come appaiono tanto differenti? »La dottrina dunque della TRINITA`, la dottrina cioè dell' essere uno e trino profondamente, interamente scioglie quel problema dallo spirito umano sempre proposto come un enimma a se stesso, vinto non mai: comunica all' uomo la dottrina dell' essere in tutte le sue forme. La dottrina dunque dell' augustissimo de' misteri discende dal cielo come una cupola d' oro che si colloca in sull' edificio dello scibile naturale, il quale senz' essa resterebbesi discoperto e patente alle piogge ed ai venti, e l' uomo, anche il filosofo, sarebbe condannato a vivere mal pago di sè, siccome colui che cerca continuo quello che non trova giammai. Ecco il soprannaturale della scienza necessario altrettanto che il soprannaturale della vita . Come l' umana vita non è perpetua e felice, ma divien tale in virtù d' un dono soprannaturale, così la scienza umana non è finita ed assoluta, ma divien tale in grazia anch' essa d' un' illustrazione, d' una credenza soprannaturale. Abbiamo detto, che la sapienza ha per sua base una cognizione della verità. Dunque una cognizione nuova della verità porge la base ad una nuova sapienza, una cognizione maggiore ad una sapienza maggiore. La cognizione naturale, qualunque sia la sua forma, rimane imperfetta, unita colla soprannaturale riceve perfezione. Dunque la sapienza umana non può che riuscire imperfetta, un abozzo, una ricerca di sapienza come gli stessi filosofi confessarono (tra i quali il fondatore della scuola italica rifiutò quasi arrogantissimo il nome di sapiente, chiamandosi studioso della sapienza (1)): solo colla cognizione soprannaturale è stato posto il fondamento d' una sapienza nuova, perfetta, che non cerca la verità, ma la possiede e la gode. Veniamo al secondo e formale elemento della sapienza; il quale risiede nella volontà, quando questa, con tutte le sue forze, si volge, assente, aderisce, si conforma, e conforma tutte le potenze, su cui ha impero, alla verità conosciuta, nel che sta il concetto della virtù. Allora l' uomo è virtuoso e bene ordinato, quando distribuisce il suo volontario affetto e l' attività che ne deriva secondo l' ordine oggettivo degli enti, o, come dice S. Agostino: « Haec est perfecta iustitia quae potius potiora, minus minora diligimus (2). » Ora coll' ordine oggettivo , che è la verità, viene talora in contrasto l' ordine soggettivo e limitato della natura umana: in questa collisione l' uomo non può conservarsi giusto senza sacrificio: deve sacrificare ciò che è, o che pare il suo proprio bene all' ordine assoluto, buono e venerando in se medesimo, senza alcuna relazione precisamente soggettiva. Ma se noi esploriamo l' uomo racchiuso dentro i confini della natura, vediamo che l' ordine oggettivo nella sua integrità gli è presente nell' idea; ma non gli è dato nella realità. Chè della realità l' uomo della natura, non percepisce, come dicemmo di sopra, che una parte, la realità finita del Mondo (e neppur tutta, nè pur la maggior parte di questo), laddove nell' idea egli intuisce tutto l' essere ideale. Questo squilibrio fra l' ideale e il reale che rende incompleta la scienza, è quello altresì, che rende impossibile all' uomo la perfetta virtù. Poichè se d' una parte l' idea gli mostra l' ordine intero, universale, assoluto, come una necessità morale, onde non può dissentire senza rendersi ingiusto e colpevole, dall' altra non gli dà la forza operativa, colla quale effettivamente compirlo. Donde mai viene all' uomo la forza? Questa appartiene all' ordine delle cose reali, non a quello delle ideali: alla realità appartiene il fare, all' idealità solamente il mostrare come si convenga fare. Dunque è uopo, che l' uomo trovi la forza in se stesso, o nelle realità esteriori; in una parola in quella sfera di cose reali, che a lui è conceduta. Ma questa sfera di realità è limitatissima, da essa trovasi esclusa la realità infinita, e la maggior parte delle realità finite. La forza dunque, che può attignere l' uomo dalle entità reali a lui concedute per natura, non è proporzionata alla grandezza dell' ordine ideale, che gli sta davanti come legge inesorabile. Che anzi le cose finite percepite dall' uomo, cospirano talora, come dicevamo, contro quella legge, e invece d' aiutarlo a compirla, il tentano a violarla; appunto perchè l' ordine finito che esse presentano, riesce diverso, e perciò assai spesso contrario all' ordine infinito dell' idea. Per sopperire in qualche modo a questa deplorabile mancanza di forze reali, che rendono l' uomo deficiente a realizzare il grand' ordine morale, a cui esser chiamato forma l' alta sua dignità, che cosa fecero i filosofi più eccellenti? Perocchè non parlo di quelli, i quali disperati di poter mettere un accordo fra l' ordine reale e l' ideale, nè volendo, nè potendo rinunziare al primo, cancellarono il secondo, e decretarono che l' uomo si dovesse contentare d' esser materia o senso, e così contro la sua natura s' abbandonasse tranquillamente al piacere dell' oggi, stimolandovi se stesso col pensiero della morte dell' indomani. Non ragionando dunque di questi, domandavamo, come i filosofi più eccellenti s' ingegnassero d' aiutar l' uomo a trovar quelle forze, che a lui negava la natura reale, e che pur gli bisognavano per adempire alla legge dell' ordine ideale. Veramente questi savŒ amatori del bene fecero tutto ciò che potevano fare: accorti che l' uomo domandava in vano la forza morale, di cui abbisognava, a quella porzione d' essere reale, che gli era conceduta, e che questa in vece di somministrargli forze pel bene entrava spesso in contrasto coll' ordine oggettivo, ed accresceva le forze del limitato e cieco istinto soggettivo; s' industriarono d' allontanar l' uomo dalle stesse cose reali e di concentrarlo nell' idea: e questa essi celebrarono come cosa d' infinita bellezza, ed esortarono con tutta la loro eloquenza gli uomini a restringersi nella contemplazione di sì divino lume, e a contentarsi della maravigliosa sua vista, e chiamarsene felici. Acciocchè poi l' uomo non s' impaurisse dell' alto precetto, e non gli paresse, che in vece d' accrescergli le forze per adempire al dovere gli s' imponesse un dovere ancor maggiore; que' filosofi magnificarono le forze dell' umano arbitrio (di cui, con poca coerenza a dir vero, aveano prima temuta la debolezza, e promesso di rinfrancarla) asserendo, che niuna delle altre cose era in potere dell' uomo, ma quella virtù che essi gli prescrivevano, sì: Gli esseri, e i beni reali dunque, onde solo può venire la forza efficacemente pratica al soggetto umano, furono da' migliori filosofi giudicati insufficienti a dare all' uomo quel vigore morale che gli bisognava, anzi reputati causa della morale sua debolezza e degli ostacoli alla virtù; e non restò loro altro scampo, che di chiedere a quella stessa idea, che imponeva il dovere, anche la forza d' adempirlo. Socrate nel «Fedone » di Platone si dilunga a provare la necessità, che ha l' uomo che ama e cerca la sapienza, di ritirarsi del tutto dal reale sensibile , e ricoverarsi nelle idee , come in porto di salvezza, cioè di dividersi coll' astrazione filosofica dal corpo e dalle cose corporee, aspettando il felice momento d' esserne al tutto diviso colla morte. [...OMISSIS...] Tanto era il timore, che le menti più grandi, prive della luce cristiana, prendevano della sinistra influenza che esercitava sull' uomo quella porzione di ente reale, che alla sua percezione è conceduta dalla natura; chè non solo da essa non aspettavano aiuto alcuno all' esercizio della virtù ed all' acquisto della sapienza; ma fino che una tale porzione di ente reale non fosse sottratta all' uomo interamente colla morte, trovavano impossibile per lui l' acquistare quella sapienza che pur tanto desiderava; e quest' era la sapienza naturale , chè altra non ne conoscevano. Laonde lasciavano all' uomo in questa vita la sola speranza d' avvicinarvisi, e questa speranza, a qual condizione? A quella di rinunziare alla realità, quasi avvelenata, di comunicare il meno possibile, e soltanto per estrema necessità, con essa, cercando nelle sole idee un rifugio, un' abitazione segreta, dove vivere occulto, alienato e quasi già morto. E pure quest' era lo sforzo più ammirabile della ragione umana! Essa non poteva salire più in su nè poteva dir cosa nè più vera, nè più ardua; era l' unica soluzione possibile del gran problema. Certo le idee sono cose divine, il solo elemento divino che si rinvenga nella natura, quand' anco si percorra, cercando palmo a palmo, tutto l' universo: e le cose divine non si lasciano posporre a nulla, anzi nulla è ad esse comparabile, tutto vale per esse, tutto diventa spregevole ciò che è contrario ad esse. Questo legge l' intendimento nelle idee, ammira in esse l' autorità, ne contempla l' incomparabil bellezza. E che non hanno osato, che non hanno sofferto alcuni amatori delle idee? Lo abbiamo di sopra avvertito. Archimede non sente l' entrata de' Romani in Siracusa e dà l' esempio di quella forza della mente, che si toglie momentaneamente a tutte le cose presenti ai sensi: i viaggi e la povertà d' Anacarsi; le veglie e le fatiche di Aristotile (1); la dimenticanza del cibo di Carneade (2); le privazioni, le sofferenze di tant' altri, se provano che l' amore al sapere può acquistare al pari d' ogni altra passione una forza presso che infinita nell' uomo, non provano tuttavia che l' uomo abbia mai trovato una piena soddisfazione nè nell' altre ignobili, nè in questa passione del sapere nobilissima. Non può l' uomo mantenersi del continuo attuato nella contemplazione della mente: anzi quanto breve non è il tempo in cui egli valga a sostenersi così assorto? Quanto pochi poi sono coloro che vogliono o possono, postergate le cose sensibili, vivere innamorati unicamente delle idee impalpabili, e quasi in esse sospesi; od abbiano l' agio di cercare e di coltivare questo faticoso diletto della mente? Ed anche questi pochissimi, che con lodevole sforzo s' innalzano alla regione delle idee pure, e vi si mantengono qualche istante per ricader poscia nella regione naturale e ordinaria della realità (3), consegue forse, che, perchè contemplano le idee, secondo quelle regolino e dispongano tutte le azioni reali di cui ordiscono la loro vita? La realità sensibile finita gli aspetta per dar loro battaglia: ella li lascia viaggiare liberamente al mondo ideale, sicura che non gli scappano per questo, e che, dopo una breve lontananza, fanno ad essa ritorno. Come un pescatore che ha preso all' amo un enorme pesce, gli allenta ed allunga il filo, sì che esso può alquanto allargarsi dentro le acque; ma poi più sicuramente sel tira a sè quando è sfinito dalla ferita e dalla fuga; così accade troppo sovente che adoperi coll' uomo la lusinga della sensibile realità; coll' uomo, dico, il quale già fino dal suo nascimento porta seco il seme e il fomite della concupiscenza. Pare a costui di salvarsi dalla seduzione del mondo quando gli riesce di sollevare da esso la propria mente colle più pure astrazioni, e ne vaneggia e ne insuperbisce: ma gli altri uomini intanto ricevono da lui medesimo autorevoli esempi di molte azioni viziose e riprovevoli, e dalle verità, da lui speculate, pare loro che egli non abbia riportato se non quell' orgoglio che lo fa peccare più arditamente. Aveva dunque ragione Platone di confessare che nella presente vita si concepisce bensì una naturale sapienza, ma non si consegue appieno giammai; onde voleva che gli uomini migliori l' aspettassero dopo la morte. E gli stoici stessi, che cotanto esagerarono le forze del libero arbitrio, dubitarono poi o negarono al tutto, che fra gli uomini in alcun luogo, o in alcun tempo, si rinvenisse quel sapiente, che essi concepivano, e magnificamente descrivevano (1). La naturale filosofia rimane dunque convinta e confessa della sua impotenza a rendere l' uomo sapiente, anche di quella sola sapienza, che nel lume della natura si scorge ideata. Iddio maestro degli uomini fece l' una e l' altra cosa ad un tempo, cioè ampliò senza fine il concetto della sapienza, e diede agli uomini il vigore di attuarlo in se medesimi. Onde a buona ragione un Padre della Chiesa osserva, che quelli che furono aiutati dalla fede, poterono fare coll' opera assai più, che non potessero concepire e desiderare i filosofi, o insegnare colle parole (2). E questo, Iddio lo fece col produrre quell' equilibrio che manca nella natura dell' uomo, fra l' idea, e la realità. Perocchè abbiamo detto, che l' idea spazia all' infinito, dando a vedere l' essere universale, e così ancora indicando qual sia l' ordine compiuto dell' essere, al quale deve congiungersi la volontà potenza, che di natura sua segue quella dell' intelletto; e che all' incontro la realità naturale non porge all' uomo che una cotal briciola dell' essere stesso, dove non si trova più l' ordine compiuto ed assoluto, mostrato dall' idea, ma un ordine angusto, quale può racchiudersi in una così piccola parte dell' essere; abbiamo detto ancora che, essendo l' uomo un ente reale, non può esser mosso ad operare che da un reale, quindi non dall' idea, ma o dalla propria sua intima attività e da' suoi proprŒ istinti, o dall' eccitamento del reale esteriore; e che colla forza che ha in sè dell' arbitrio, può, fino a certo termine, attuare la sua mente nell' idea e invaghirsene, ma per breve tempo può stare così attuato, lasciando inerti l' altre potenze, e per uno sforzo difficile, quasi contro natura e di pochissimi; onde tantosto l' altre potenze inferiori rientrano in azione, e vi rientrano spesso irritate dallo stesso ozio in cui giacquero e quasi vogliose di ricattarsene, e allora il reale sensibile pare divenuto più acre stimolatore al disordine che prima non fosse. Se dunque potesse avvenire, che come l' uomo intuisce tutto l' essere ideale in un modo implicito e semplice, il quale in appresso si può esplicare indefinitamente, così pure gli fosse dato a percepire immediatamente tutto l' essere reale in un modo del pari implicito e semplice, atto poi ad esser pure esplicato e svolto all' indefinito, chiaro è che quella grande, immensa esigenza dell' idea, che impone il dovere morale, troverebbe nell' uomo un suo corrispondente, cioè troverebbe un fonte di potenza ugualmente grande ed immensa, idonea ad eseguire l' imposto dovere. Perocchè se ciò avesse luogo, tutte le realità finite si conoscerebbero, o potrebbero conoscersi e considerarsi come parti, ed anzi minime ed evanescenti particelle di tutto l' essere reale, nel quale, come gocce nel mare, si perdono, e allora nel reale dall' uomo posseduto vi avrebbe quell' identico ordine, che nell' idea; e quest' ordine reale darebbe all' uomo eccitamento e valore sufficiente a compiere quell' ideale coll' efficacia della volontà: fra i due ordini, l' ideale e il reale, non sarebbe più alcuna discrepanza, alcuno invincibile contrasto, ma l' uno chiamerebbe l' altro, l' uno coll' altro, quasi direi, si combacierebbe; e la volontà non più divisa infra due che la si contendono, potrebbe darsi tutta con un solo atto ad entrambi, i quali s' unificano nell' identità dell' essere , e quindi la giustizia perfetta, e la sapienza nella pace. Ora il Vangelo è stato pubblicato per far sapere agli uomini, che questa che noi indichiamo, non è una supposizione, non è quello che sarebbe stato solamente desiderabile che Dio facesse, nè tampoco quello, che, essendo conformissimo a' divini attributi, è presumibile che Dio abbia fatto; ma per far loro sapere, che è quello, che Iddio Creatore ed ottimo provvisore del genere umano ha positivamente fatto, e quello che il Vangelo fa in tutti coloro che liberamente lo ricevono: « « E diede loro la potestà di divenire figliuoli di Dio »(1). » Perocchè il Verbo « « è il carattere della sostanza del Padre »(2); » vale a dire è quello pel quale Iddio si rende percettibile, tale essendo la forza della parola greca carattere . Insegnò dunque il Cristianesimo, che il Verbo carattere o faccia di Dio, come vien anco sovente chiamato nelle scritture, s' imprime nelle anime di quelli, che colla fede ricevono il Battesimo di Cristo, a cui volgendosi la volontà e aderendovi, rimane e santificata e giustificata. Onde all' uomo, nel quale è impresso il Verbo e però n' ha la percezione, è con ciò comunicato l' essere nella sua realità totale ed infinita, quantunque in un modo implicito e semplicissimo; come ancor piccolo, ma fertilissimo seme consegnato all' anima da coltivare e da svolgere colla propria sua attività e cooperazione. E così l' uomo non solo ha la completa cognizione, ma ben anco la virtù necessaria per conformare se stesso alla medesima; e quindi non gli mancano più i due elementi della perfetta sapienza. Laonde coerentemente a questa sublime dottrina si trova scritto ne' libri divini: «FONS SAPIENTIAE, VERBUM DEI IN EXCELSIS (1) ». Vero è che nella vita presente, essendo data all' uomo questa realità totale assoluta ed infinita in un modo così implicito e potenziale, ed all' incontro la realità finita del mondo operando sull' uomo in un modo esplicito ed attuale; questa riceve dal modo d' agire un' efficienza maggiore di quella; onde rimane all' uomo la necessità di lottare contro le angustie e le limitazioni della realità finita, che vorrebbe captivarlo esclusivamente a se stessa, impedendolo di darsi al tutto: ma allora il contrasto e la lotta non è più immediatamente fra la realità e l' idea, ma fra la realità finita e la realità infinita, quella premendo l' uomo con un' urgenza maggiore, e questa avvalorandolo e allettandolo a sè con una maggiore dignità e grandezza. Nè senza ragione colui che provvede dall' alto al maggior vantaggio degli uomini, lasciò loro questa difficoltà da superare, acciocchè la virtù e la sapienza sieno un acquisto de' loro generosi sforzi, e non cosa apposta loro, senza loro consenso e cooperazione; consistendo appunto in questo l' apice dell' eccellenza e della gloria dell' uomo, l' essere egli medesimo, in quel modo che può essere, l' autore della propria sapienza e della propria virtù. Iddio dunque rese questo all' uomo, seco congiunto, possibile: lasciò poi a quest' uomo il dovere di ridurre all' atto quella potenza che gli ebbe conferita. Chè la percezione di quella realità infinita, cioè del Verbo divino, può ridursi per la grazia che ne emana; ad un' attualità sempre maggiore, esplicarsi senza misura, e prestare all' uomo tutta la forza morale che gli bisogna, anzi una forza senza alcun paragone superiore a tutto il dolore, a tutto il piacere, con cui la realità finita, ma vivace dell' universo, tenta sedurlo. E tutto ciò è posto in pienissimo potere dell' uomo unito a Dio e assistito da Dio: onde l' apostolo: « « Io posso tutto in quello che mi conforta »(2). » E di questa stessa assistenza di Dio una nuova e profonda dottrina ci recò il Cristianesimo non mai veduta, nè potuta vedere dai filosofi, e tuttavia così consentanea alla natura di Dio ad un tempo e a quella dell' uomo, così coerente a tutte le verità razionali e rivelate, che la ragione stessa non può a meno di approvarla, maravigliata che le sia dato quasi del suo, e pur tale che in se stessa non l' aveva, nè l' avrebbe mai scorto. Poichè, secondo la dottrina di Cristo, quando il Verbo è congiunto coll' uomo, egli vi emette il suo spirito, che santificando la volontà, qualora l' uomo stesso che rimane libero, non vi si opponga, santifica l' uomo. Questa è la prima santificazione, e chiede e rende possibile dopo di sè la cooperazione umana. E` santità , ma non si può ancora dire sapienza ; chè l' uso di questa parola pare riservato a significare un acquisto fatto dall' uomo col suo positivo e manifesto concorso; ma in quella santità sta la sapienza come nel germe. D' allora Iddio e l' uomo operano sempre insieme, qualora l' uomo non isfugga liberamente da così fortunata società. Iddio ha istituito de' mezzi positivi ed esterni che furono denominati sacramenti , ai quali è unita una grazia determinata. L' uomo anch' egli ha la facoltà di porre molti atti di virtù, e, fra questi, quelli del culto interiore ed esteriore, ai quali tutti risponde il frutto d' un accrescimento di grazia interiore. Nell' esercizio di tutta questa attività, in tutto questo lavoro di operazioni divine ed umane, s' aumenta continuamente nell' uomo la comunicazione dello Spirito del Verbo, che è lo spirito della santità e della perfezione. La parola spirito viene acconcissima ad esprimere non solo l' impellente, ma anche l' impulso e quell' istinto operativo d' una natura dotata d' intelletto, quand' ella prende l' impeto del suo operare dalla vivacità e dalla realità della luce che illustra il fondo della sua intelligenza. Nel caso nostro, questa luce è il Verbo, che nell' essenza intellettiva dell' anima dimora, e investe la volontà col suo Spirito, senza bisogno di passare pel mezzo d' alcuna riflessione. Ora questo Spirito del Verbo, abbiamo detto che è anch' egli l' Essere come il Verbo, ma l' Essere sotto un' altra forma, sotto la forma di essere amabile e per sè amato , quindi per se operativo e perfettivo: ha dunque per sua dimora la volontà e per suo effetto e condizione nell' uomo l' azione santa più o meno esplicata. E di più, è rivelato, che egli ha una sussistenza personale , che non si confonde colle altre due persone, onde questa terza procede. I due elementi dunque della sapienza , che abbiamo detto essere cognizione e virtù , quando dall' ordine naturale si trasportano nell' ordine soprannaturale, s' avverano e realizzano in modo così sublime, che l' uno e l' altro si trovano consistere in un cotal contatto e commercio di Dio medesimo: tien luogo della cognizione, il Verbo percepito; tien luogo della virtù lo Spirito Santo vivente ed operante nell' anima umana (1); onde della sapienza, di cui la virtù , come abbiamo detto, è la parte formale, sta scritto: « « Egli stesso » (il Creatore) «la creò nello Spirito Santo »(2); » ed è questo Spirito che combatte a favore dell' uomo e nell' uomo e coll' uomo contro la carne, cioè contro quella porzione di realità finita, che colla sua esclusività minaccia di perturbar l' ordine della realità intera ed infinita (3). Ora lo Spirito divino si esplica nell' uomo co' suoi effetti e doni, ed accompagna l' esplicazione della cognizione, ossia del lume soprannaturale, che ne' battezzati è il divin Verbo. Secondo le quali esplicazioni, i giusti nella Chiesa si dividono in quattro classi. Poichè v' hanno gli uomini manuali ed illetterati, i quali dalla riverenza e dal timore di Dio di cui, per un' intima cognizione, temono e riveriscono la maestà, sono guidati e conservati lontani dal male, e questa prima maniera di sapienza vale più d' ogni scienza di coloro che non ne traggono il frutto dell' onesta vita: onde leggiamo: « « E` migliore quell' uomo che sa meno, ed è men sensato, nel timore (di Dio), di colui che abbonda di senno, e trasgredisce la legge dell' Altissimo »(4). » In costoro non v' ha una cognizione teoretica consapevole e separata dalla pratica, v' ha una sola cognizione, luce ad un tempo ed istinto morale, e, quasi direi, v' ha solo l' arte di fare il bene. Ma quando alcuno di essi, coll' uso della riflessione, s' applica alle lettere, la teoria allora si separa, e comparisce una scienza ideale, che si distingue dalla pietà : quella è pura speculazione, questa azione: e benchè questa pietà derivi da quella scienza e ne riceva la norma, tuttavia non è la scienza che sia la prossima causa dell' azione, ma questa si appoggia immediatamente ad un pratico riconoscimento della verità nella scienza conosciuta. I quali uomini di scienza e di pietà formano una seconda classe di giusti, con una maniera di sapienza più esplicata che non era quella de' primi. Non basta però essere uomo scienziato e pio ad avere la prudenza nel governare spiritualmente gli uomini, ed a compire a loro vantaggio magnanime imprese. Per arrivare a questo più alto grado si esige una perspicacia di consiglio ed un ardire di fortezza : consiglio che consiste nella celerità e nella sicurezza della mente, colla quale si trovano le regole di giudicare ed ordinare le cose (1), e gli spedienti migliori per arrivare al fine, ne' quali spedienti tutte le innumerevoli circostanze di fatto sfuggenti alla vista comune sono già poste nel calcolo e comprese nella risoluzione: fortezza, che giace in una cotal disposizione, per la quale l' uomo si sente maggiore degli impedimenti, non li teme, confida di dominarli coll' altezza del pensiero santo, colla costanza dell' animo, soprattutto colla fiducia in colui che è l' arbitro di tutti i fatti onde colui è mosso ad operare, e onde ripete e il pensiero e la costanza. A questa terza classe di giusti, ne' quali risplende una maniera di sapienza via più esplicata ancora che nelle due precedenti (2), si continua la quarta, che si compone di que' rarissimi, i quali, sollevati su tutte le cose finite, vivono affissati nell' infinità di Dio: e in questa contemplazione della mente riflessamente comunicano con esso Dio, e in lui rifondono se stessi, e le cose dell' universo, e Iddio in essi e per essi nelle cose dell' universo si rifonde; ed indi derivano altresì per la via dell' astrazione, una scienza ideale altissima e nobilissima delle cose divine, ai quali appartiene la più perfetta maniera di sapienza , e alla scienza che ne estraggono, fu riserbato il nome d' intelletto . V' ha qualche cosa di analogo a queste quattro classi di sapienti anche nell' ordine naturale, e non senza ragione, anzi mostrando grande elevatezza d' intendimento, Platone (1), seguito poi nella sostanza da Aristotile (2), volle che cogitazione si chiamasse la scienza delle verità matematiche e delle altre somiglianti, che si deducono, ragionando, da certe supposizioni, ma intelletto la notizia del principio dell' universo, che non si suppone, ma è assolutamente, nel quale hanno il loro essere oggettivo tutte le cose. Tutte queste diverse maniere di Sapienza sono compartite agli uomini da uno stesso ed unico spirito, lo spirito del Verbo. Il qual verbo, essendo l' archetipo eterno dell' infinita sapienza, anzi la sapienza oggettiva ad un tempo e personale, Iddio volle che gli uomini in esso, come in uno individuo della propria specie, vedessero e toccassero, per così dire, sensibilmente l' ideale realizzato di quella sapienza, di cui è capevole l' umanità. Così soddisfece Iddio alla convenienza di aggiungere all' umana natura quel di più che non le poteva appartenere, perchè increato, e di cui tuttavia abbisognava, se doveva raggiungere compiutamente il fine di quella sapienza e di quella soddisfazione che gl' indicava l' idea. Coll' incarnazione del Verbo dunque fu soverchiato il desiderio dell' umana natura, a cui non si poteva affacciare pure il pensiero di tanto mistero: e se era da presumersi che il Creatore dell' uomo avrebbe riempiuto il v“to che restava nella sua idea, cui non empiva il finito; il fatto non solo avverò quella presunzione; ma alla comparsa dell' Uomo7Dio, l' idea stessa divenne la misura buona e pigiata e scossa e traboccante, di cui parla il Vangelo (1). Su quell' uomo dunque, di cui Dio stesso volle costituire la personalità, dovea « « riposare lo spirito del Signore, lo spirito della sapienza e dell' intelletto; lo spirito del consiglio e della fortezza, lo spirito della scienza e della pietà; e riempirlo, lo spirito del timore del Signore »(1). » Nelle quali parole pronunciate più di sette secoli prima della venuta di GESU` Cristo, l' espressione che lo Spirito del Signore si sarebbe riposato in su quell' uomo, trova la sua naturale ragione e compiuta spiegazione nell' unione ipostatica. Chè se il Verbo è la persona divina del Cristo, come il Verbo è divenuto indivisibile dall' assunta umanità, così lo Spirito del Verbo dovea in questa riposare con pienezza; non potendo esso andare e venire, aumentare i doni o diminuirli, siccome è concepibile che avvenga negli altri uomini, i quali rimangono persone umane, o sieno o no congiunte al Verbo, partecipino o no del suo Spirito. E come negli altri uomini, a cui la comunicazione del Verbo è la diffusione dello Spirito, si trova una scala di doni e di perfezioni; la quale principia col timore di Dio, chiamato nelle scritture l' inizio della Sapienza (2), chiamato anche sapienza, perchè n' è la prima maniera (3), e ascende alla scienza e alla pietà, poi al consiglio ed alla fortezza, e finalmente alla sapienza e all' intelletto; così in Cristo (parola che si riferisce appunto all' unzione dello Spirito Santo (4)), in cui tutti questi doni, divisi fra gli uomini, trovavansi uniti, tenevano un ordine logico inverso; per modo che si concepisce in lui prima la più perfetta ed ultimata sapienza, e da questa poi derivarsi l' intelletto, mediante la facoltà della mente umana di Cristo d' intuire in quella sapienza, a sua volontà, l' ordine delle essenze e delle idee; dalla sapienza poi e dall' intelletto derivarsi il consiglio e la fortezza, mediante la facoltà, che aveva pure l' anima di Cristo, di applicare la sapienza e l' intelletto agli ufficŒ del giudicare, dell' ordinare, del governare e dell' operare magnanimamente: da questi quattro doni poi scaturire la scienza e la pietà mediante la facoltà di conoscere le cose generiche e le speciali, e di rivolgerle all' onore ed al culto di Dio; e finalmente risultare da tutte queste cose insieme quell' immenso timore riverenziale della umana natura di Cristo, che, così limitata così angusta, vedevasi accompagnata, empiuta, posseduta, assunta, in una parola, da un ospite di tanta maestà, che, come sua propria persona, la reggeva, la santificava, assolutamente ne disponeva. Tale è il sapiente di Dio! Di quanto non vince egli colla realità il sapiente ideale dell' uomo? Iddio solo poteva esser quello e fu quello che lo ideò ad un tempo, e lo realizzò, lo pose nel mondo sotto gli occhi degli uomini. Il sapiente di Dio fu la sapienza incarnata. A questo sapiente, ossia a questa sapienza incarnata, nove secoli prima che comparisse sulla terra, furono poste in bocca queste parole: [...OMISSIS...] Così Iddio, qual maestro degli uomini parlava alcuni secoli prima che nascesse Platone in Atene ad esprimere il desiderio d' un tal maestro, e a dimostrarne il bisogno in nome della natura umana. E questo maestro, quest' uomo in pari tempo Dio, questo archetipo vivente e palpabile del Savio « « in cui sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza »(2), » quest' incarnata sapienza; questo giusto e santo sin dalla doppia sua eterna e temporale origine, per la stessa sua natura e condizione, da diciannove secoli occupa manifestamente il primo posto fra gli uomini, acquistatolsi, a un nuovo titolo, col merito del suo compiuto sacrifizio. Egli è di necessità il capo dell' umana natura, il principe dell' uman genere, e quantunque principe, servì all' uman genere, e gli ministrò, e ne vinse di più l' ingratitudine col lasciarsi levar la vita, la quale egli depose e riprese da se stesso, per salire appresso a Dio Padre ed essere colassù l' avvocato de' suoi nemici (1). Così l' umanità divisa e sparpagliata dalla morte, effetto del peccato, che la privò del suo padre secondo natura, fu ricondotta all' unità dal vincitore della morte, che le diede per padre il suo proprio unico Padre Iddio, e fu ricostituita sotto il governo d' uno, « « a cui fu data ogni potestà in cielo ed in terra »(2) »: fu riunita ad un capo di tanta eccellenza, a cui non poteva ascendere il suo pensiero, nè estendersi il suo desiderio. Nè questo pensiero, o questo desiderio poteva tampoco ideare o indovinare il modo d' un tale raggiungimento. Chè questo modo (una delle tante invenzioni di Dio a beneficio degli uomini (3)), non fu soltanto un' amicizia, una società, una soggezione, una beneficenza, qual può essere fra uomo ed uomo, di cui l' uomo si forma il concetto; ma di tutt' altra guisa, inescogitabile, divina: fu un raggiungimento di percezione, suggellandosi il Verbo nell' anima, un raggiungimento d' inabitazione, diffondendosi per entro ad essa lo spirito, un raggiungimento fisico per via dell' umanità di Cristo, che con mistero opera ne' sacramenti, e si copre ella stessa d' un sacramento nel cibo eucaristico. Onde gli uomini possono divenire, ove lo vogliano, vere e vive membra di questo corpo, di cui Cristo è capo: e questo capo potè dire colla più rigorosa verità: « « Io sono la vite, voi i tralci: chi si tiene in me ed io in lui, questi porta molto frutto »(4): » su' quali fondamenti, quasi su monti santi innalzò la sua Chiesa. Ma poichè Iddio rispetta la libertà degli uomini, e vuole da essi il consenso e l' accettazione de' suoi benefizŒ, che divengono quasi oggetto d' un contratto gratuito; perciò rimane a loro stessi la scelta fra il nobilissimo posto di figliuoli che è loro offerto nella sua famiglia divina, e la condizione di stranieri o l' ignobilissima di schiavi. La mente dunque (per ricapitolare in parte quello che abbiamo detto) d' ogni cosa o artistica o morale si compone, più o meno perfettamente, un concetto ideale di perfezione; ma poi niun' opera di arte umana compiutamente lo realizza, e quella è molto lodata, che gli s' avvicina. Onde la realizzazione d' ogni ideale rimane sempre per l' uomo un desiderio penoso perchè non è mai soddisfatto: nuova prova che l' idea stende in lui troppo maggior ala, che non la potenza. Ma l' ideale più di tutti all' uomo desiderabile è quello di se stesso, e l' arte massima , quella che intende a realizzarlo. Se non che l' uomo si trova più insufficiente a quest' arte, che a tutte l' altre. L' autore di lui soccorse alla sua creatura così bisognosa per causa della sua stessa grandezza. Tenendo ad esemplare di tutte l' opere sue un ideale senza pari più perfetto di quello che possa cadere in mente umana, non fallisce mai, che non lo adempia. L' uomo ideale è l' ideale sapiente : questo, concepito dagli stoici e da altri filosofi, da nessuno fu realizzato; e secondo la celebre interpretazione data da Socrate all' oracolo di Delfo, il sapientissimo dovea esser colui, che questa sola cosa sapeva, « di non sapere ». L' ideale del sapiente nella mente di Dio fu dunque sulla terra effettuazione. In un sapiente7tipo apparve il tipo dell' uomo. L' umanità trovò in GESU` Cristo l' ideale di se medesima, ma divinizzato, e quest' ideale sollevato alla divinizzazione, lo trovò reale. Il Verbo e lo Spirito Santo tennero luogo in questo sapiente de' due elementi della sapienza, la cognizione , e la virtù . D' amendue fu fatta comunicazione agli uomini. GESU` Cristo disse: « « Io a questo son nato » (come uomo) «e a questo sono venuto nel mondo » (come Dio nell' incarnazione) «di prestare testimonianza alla verità »(1); » e la verità era lo stesso Verbo divino che così favellava, avendo anche detto: « « Io sono la via, la verità e la vita: nessuno viene al Padre se non per me »(2). » Come uomo egli prestava testimonianza in faccia degli uomini, al Verbo divino: come Verbo incarnato, ancora gli rendeva testimonianza, perchè le parole esteriori, con cui ammaestrava gli uomini, si riferivano al lume interiore, e lo esplicavano, lo rendevano accessibile alla riflessione: era la voce del Verbo che suonava per render testimonianza al Verbo, il quale senza suono interiormente illuminava (1). Questo Verbo interiore, a cui dovevano essere riscontrate le voci e le parole esteriori dello stesso Verbo, era il paragone, la riprova di tali parole, che ciascuno, a cui fosse dato quel lume, portava in se medesimo: onde Cristo dopo aver detto d' esser venuto a rendere testimonianza alla verità, immediatamente avea soggiunto: « chiunque trae il suo essere dalla verità, ascolta la mia voce. » [...OMISSIS...] (2). Perocchè la percezione, sebbene imperfetta, del Verbo dà un essere nuovo e più sublime all' uomo, di cui ella è una seconda nascita, nella quale gli uomini « « non nascono dai sangui o dalla volontà della carne o dalla volontà dell' uomo, ma da Dio »(3) »; onde quelli che sono rinati a questa guisa « « hanno la potestà di rendersi figliuoli di Dio »(4) » ascoltando la voce di Cristo. Le parole esterne dunque di Cristo testimoniano del Verbo interiore, e il Verbo interiore , per sè luce dimostra e conferma la verità di quelle parole. E poichè il Verbo è mandato dal Padre per tutto dove è mandato, anche nell' anime, perciò anche il Padre, la cui sussistenza si percepisce nel Verbo, coll' aver mandato questo nel mondo e nelle anime, gli rende testimonianza; onde Cristo disse: « « Io sono, che » (esternamente predicando) «rendo testimonianza di me stesso » (che internamente dimoro nelle anime); «e rende testimonianza di me quegli che mi ha mandato, il Padre »(5). » Perchè « « non può il Figliuolo far cosa alcuna da sè, se non quello che vede fare al Padre »(6), » e però le opere esterne ed interne che io fo, non le fo solo, ma col Padre; il che esprime la perfetta corrispondenza ed unità di natura fra l' intelligibile divino ed il reale divino , a cui è analoga quella che concepisce e desidera la mente umana fra l' idea ed il reale: in quella perfetta corrispondenza di forme, e identità di essere, colloca Cristo la testimonianza pienamente soddisfacente, ch' egli rende alla verità (1). Ma una somigliante corrispondenza che Cristo ci chiama a considerare fra le due prime divine persone, in un modo assoluto ed universale; egli l' annunzia altresì in se medesimo entro l' ordine delle cose morali con quest' altre parole: « « Io sono la via, la verità, e la vita. » » Perocchè la via è la cognizione, l' idea, a cui si riduce ogni legge e comando: i doveri morali tracciano all' uomo la via, per la quale egli arriva al suo fine. Ora nel Verbo stanno tutte le idee, le leggi, le morali necessità: queste sono l' intelletto , che, come dicemmo di sopra, giace nella sapienza , e per la riflessione e per la limitazione che gli viene aggiunta, da quella si separa. La verità poi qui si prende per la realizzazione dell' idea morale o della legge, nel qual senso pure è detto, che « « per Mosè fu data la legge , - per GESU` Cristo è stata fatta la verità »(2) » cioè il pieno adempimento di quella. Poichè GESU` Cristo non essendo venuto a sciogliere la legge, ma ad adempirla (1), fece quello che non avean saputo far gli uomini, pareggiò e superò, colla santità delle sue operazioni, l' ideale della virtù, quale nella legge mosaica era stato delineato davanti agli occhi degli Ebrei, acciocchè il realizzassero. Così, rispetto all' ordine morale, si vide in Cristo restituito l' equilibrio fra l' idea, non l' idea mosaica, ma la sua propria; onde non disse: « la legge mosaica è la via », ma: « Io sono la via », e sono pure la verità delle operazioni a quell' idea pienamente corrispondenti. E quest' equilibrio videsi del pari restituito in tutti quelli che credettero in lui ed a lui, poichè, avendo questi in sè il VERBO IMMANENTE, secondo l' espressione dello stesso Cristo (2) si trasformano, per così dire, in altrettanti Cristi: chè il Verbo anche in essi è via , manifestando ciò che si deve operare, ed è verità , dando loro valore di operarlo. Ed è poi anche vita: poichè consistendo la vita nella produzione d' un sentimento sostanziale o nell' atto di un tal sentimento il Verbo, coll' emettere il suo Spirito, produce un sentimento efficace nell' anima, che innalza questa ad una vita deiforme, la quale le fa riconoscere lo stesso Verbo e fruirne, e poi, di sua natura eterna, cresce e si perfeziona nel tempo e si rivela in beatitudine nell' eternità. Non v' ebbe certo alcun altro maestro fra gli uomini che esercitasse un magistero di tal fatta: tutto quello che insegna il cristianesimo intorno ad esso, è degno di Dio, e talmente n' è degno, che la mente umana, qualunque ideale del sapiente studiasse di comporsi, non potea nè pur da lontano pensarlo: pure se alcuno l' avesse pensato o proposto, sarebbe parso una stravaganza, e non inteso: l' uomo non conosceva a sufficienza Dio e se stesso per potere immaginare ciò che conveniva all' uno in relazione coll' altro: ma quando GESU` Cristo esercitò quel magistero, gli uomini credettero il fatto prima d' averne veduta, e creduta la possibilità (3); era cosa più facile a credersi esistente che possibile. Quando si cangiano profondamente le cose e di conseguente si cangiano profondamente i pensieri degli uomini, e fin anco la maniera del pensare, allora gli stessi vocaboli ammettono nuovi usi, e nuovi significati: si cangiano le lingue, ed anche a questo alluse forse GESU` Cristo, quando promise, che i credenti avrebbero parlato « « nuove lingue »(1), » espressione che pare dire ancora di più, che le lingue diverse dalla propria. Così mentre noi, parlando fin qui secondo l' uso degli uomini, dicevamo che la verità teoreticamente conosciuta, è un elemento di quella qualunque naturale sapienza che è accessibile all' uomo: secondo la nuova lingua, dobbiam dire che quella verità non è più un elemento della sapienza soprannaturale, ma la via che vi conduce, riserbando la parola Verità ad un nuovo e più sublime significato, al significato dell' idea , se si può dir così, realizzata , pienamente compiuta, vivente, non più impersonale, ma una divina persona, nella quale tuttavia si conserva sempre il suo carattere di oggetto, d' intelligibile, in cui si fonda l' analogia che passa fra l' idea , e il Verbo divino . Quindi nella Sapienza di Dio comunicata agli uomini dallo stesso Dio, fatto maestro dell' umanità, non si può più separare il primo elemento, la verità, dal secondo, cioè dalla virtù, benchè si possa mentalmente distinguere; perchè, separato, cambia natura, non è più quel di prima, non è più elemento di quella sapienza; chè separata la verità dalla sua realizzazione, rimane l' idea, e ciò che appartiene alla sapienza soprannaturale dell' uomo non è l' idea, ma il Verbo divino, nel quale però colla sola mente si distingue la via dalla verità . Pure, quantunque questa nuova sapienza sia così una ed indivisibile, ella presenta un doppio aspetto, essendo nella sua unità perfettissima biforme (e potremmo eziandio dire triniforme, se il dichiarare come ciò s' intenda, non ci menasse a lungo, senza che la necessità del ragionamento lo esiga), perocchè, guardata da un lato, ella s' assolve tutta nel nuovo significato che ha ricevuto la parola verità; guardato poi dall' altro lato pure si assolve e comprende tutta sotto il significato della nuova parola carità . Così sono indivisibili ed une nell' essere e nella natura le due persone distinte del Verbo e del suo Spirito. Laonde se la Verità nel nuovo significato esprime Dio nella persona del Verbo, come disse il Verbo stesso; la nuova parola Carità esprime il medesimo Dio nella persona dello Spirito, come è scritto: « « Dio è carità, e chi rimane nella carità rimane in Dio, e Dio in lui »(1) ». E la Verità e la Carità in questo sublime significato si rendono reciprocamente testimonianza, perchè l' una è nell' altra, e niuna delle due fuori dell' altra si trova. Laonde chi ha questa Verità ha con essa la Carità che l' adempie, e chi ha questa Carità ha la Verità adempita. E come non si dà questa Verità alla persona umana, senza l' adempimento dell' opere, così, senza un tale adempimento, non si dà la carità. [...OMISSIS...] Onde quegli che opera il bene, ha la carità, e questi anche conosce la verità; poichè non può conoscerla appieno colui, che non la opera, e però non la sente, e però non ne ha lo spirito che solo fa conoscere una tale sostanziale e soprasostanziale verità; poichè « « lo Spirito è quegli che testifica che Cristo è la VERITA` »(3). » Nella verità dunque è la carità, che l' adempie; onde Cristo pregò il Padre: « « Santificali nella verità; il tuo sermone è la verità »(4) » nella carità poi è la verità adempita: « « Non amiamo colla parola e colla lingua, ma coll' opera e colla verità: da questo conosciamo, di trarre l' essere nostro dalla VERITA` »(5). » Sono dunque due le parole in cui si compendia la scuola di Dio, reso maestro degli uomini, VERITA` e CARITA`; e queste due parole significano cose diverse, ma ciascuna di esse comprende l' altra: in ciascuna è il tutto; ma nella verità è la carità come un' altra, e nella carità è la verità come un' altra: se ciascuna non avesse seco l' altra, non sarebbe più dessa. Come poi la Verità è lo stesso maestro GESU` Cristo, che si comunica all' essenza intellettiva dell' anima, e in pari tempo s' esplica tanto esternamente quanto internamente, cioè tanto al di fuori, nella rivelazione e nella predicazione evangelica che si continua coll' umanità sulla terra, e nella divisione de' ministerŒ; quanto al di dentro, in tutte quelle cognizioni divine che producon la scienza; così del pari la Carità, che è lo Spirito Santo, s' esplica ne' doni che abbiamo enumerati, ne' soprammodo molteplici affetti dell' amore, ne' frutti, nelle grazie, e nelle sante operazioni: di manierachè non è parte dell' attività del discepolo, non potenza, non atto, che non sia accompagnato dal Verbo e dal suo Spirito, e in cui quello e questo non si trovi. E qui si vede non solo il perchè la sapienza cristiana si riduca all' imitazione di Cristo, ma di più come questa imitazione sia possibile agli uomini, e possibile in un modo del tutto singolare e maraviglioso. Se il Maestro di cui si tratta, è di una natura così diversa dall' umana, che egli ha la potestà di entrare e quasi assidersi nell' anima stessa del discepolo , e quinci, come un auriga dal cocchio, guidarne tutte le potenze, ed anzi di più, del suo proprio spirito animarle, e di conseguente, se la sapienza de' discepoli non è che la stessa sapienza divina partecipata, lo stesso maestro, che, entrato in essi, ivi col loro consenso e colla loro adesione, inabita e li fa vivere di sè; quelle tre cose che noi toccavamo non hanno più alcuna difficultà ad essere intese; cioè diventa chiarissimo, come all' imitazione di Cristo si riduca la sapienza soprannaturale degli altri uomini, e come questa imitazione sia possibile, e possibile in una maravigliosa guisa, riscontrandosi una cotale identità di sapienza. Quale umano intelletto potea mai concepire una maniera così stupenda e così sublime d' effettuare quel precetto, che pur giunse a indicare la stessa filosofia: « « Imita Dio? »(1). » Che se l' eterna sapienza, una, semplicissima, sussistente e vivente, Dio e Verbo di Dio, è quella che, sempre identica, realmente è in tutti gli uomini che vi aderiscono (al che son tutti chiamati), e in essi ella vive e regna, volendolo essi medesimi; due conseguenti soprammodo lieti per l' umanità se ne raccolgono: il primo che con ciò questa umanità veramente s' organizza in un solo corpo, con un solo capo divino, e così rimane soddisfatto il profondo e misterioso desiderio col quale da noi s' aspira ad ottenere, senza sapersi poi come, che la moltitudine degl' individui umani imiti ed emuli, colla loro unificazione, la perfetta unità della specie: l' altro, che ogni individuo, essendo in lui Cristo, riceve la dignità di un cotal fine dell' universo, costituisce quasi un centro suo proprio, a cui tutte l' altre cose si riferiscono, reso simile ad un astro, che esercita su tutti gli altri, disseminati nell' immensità dello spazio celeste, come credono gli astronomi, la sua attrazione. Dal che procede ancora la stabilità e il continuo incremento della scuola di Cristo sopra la terra, il quale disse a' suoi discepoli, prima di dipartirsi da loro colla sua esterna presenza: « « Ecco io sono con voi tutti i giorni - fino alla consumazione del secolo »(1) » La propagazione della scuola, ossia della Chiesa di Cristo, di secolo in secolo, di nazione in nazione è l' opera del suo Spirito, l' opera della carità. Questa carità cominciò da Dio Padre: [...OMISSIS...] Il Verbo mandato nell' umanità che assunse, adempì la carità del Padre: [...OMISSIS...] Gli uomini che si fecero discepoli al Verbo incarnato, ricevendolo in se medesimi, ricevettero con esso il principio della stessa carità, e ciascuno, il Verbo in essi ed essi nel Verbo, la esercitano del continuo sopra la terra: [...OMISSIS...] E il discepolo dell' amore: « « Se ci amiamo reciprocamente, Iddio dimora in noi, e la carità di lui in noi è perfetta. Da questo conosciamo di dimorare in lui, ed egli in noi, che egli ci ha dato del suo spirito »(2). » Dimorando dunque il Verbo divino, sebbene invisibile, in terra, nell' anime de' suoi discepoli, e imprimendosi in esse di generazione in generazione, e diffondendovi il suo Spirito, l' opera della sua Chiesa è in ogni tempo nuova e fresca, non può mai invecchiare, ricominciando essa in ogni uomo reso in un cotal modo Cristo, e perciò giustamente questa dottrina non dismette mai il nome di novella buona , ossia d' Evangelio, datole la prima volta che fu annunziata. E se nella lotta che sostiene contro lo spirito del male e la debolezza degli uomini, sembra in alcuni tempi che ne soffra la Chiesa, ed a periodi di splendore succedono periodi di amarezze e d' umiliazioni, questi non sono che momentanei, e passaggeri; ch' ella è una società di tal natura che porta in se medesima la potenza di ristorarsi e di ringiovanirsi, mediante il governo de' pastori co' quali Cristo promise di essere per tutti i secoli, e mediante quella carità ch' egli esercita nell' anime de' suoi, colla quale la fondò da principio; e quindi ancora la potenza d' un incessante progresso. Onde tutti i discepoli di Cristo sono de' sapienti, che fanno di continuo quello che ha fatto Cristo, e che Cristo fa continuamente in essi, cioè proseguono l' opera della Chiesa, e in essa dell' unificazione del genere umano, e, secondo l' espressione di S. Giovanni, sono « « cooperatori della Verità »(3). » In questa carità esercitata nella verità consiste veramente l' opera della sapienza cristiana . Tutti vi sono chiamati: a quelli che rispondono alla chiamata son divisi i ministeri: a taluno è affidata una parte maggiore, ad altri una parte minore dell' opera comune. Presiedono a tutto il lavoro quelli, a cui Cristo ebbe detto: « « Pace a voi: Come il Padre ha mandato me, così anch' io mando voi »(4). » Questi sono i sapienti de' sapienti, i maestri di coloro che sanno. Perocchè tutti i cristiani interiormente sanno; onde un Apostolo scrivea loro: « « Ma quant' è a voi, l' unzione, che avete ricevuta da lui, dimora in voi, e non avete mestieri ch' alcuno v' insegni. Ma come l' unzione di lui v' ammaestra di tutte le cose, e quel di che v' ammaestra è vero, e non menzogna, rimanete in esso, com' ella v' ha insegnato »(1). » E nulladimeno questo stesso Apostolo insegnava ed ammoniva, perocchè non tutti, eziandio che sappiano internamente, sanno anche esternamente, e il Verbo interiore ha bisogno d' essere esplicato dall' esteriore, ed oltracciò anche quegli che sa, può esser sedotto dall' errore, dal quale è difeso, attenendosi a coloro che Cristo mandò appunto, acciocchè insegnino e ministrino esternamente agli uomini lui medesimo. Quanto poi s' estenda questa carità della cristiana sapienza è maraviglioso a pensare. Perocchè ella s' estende appunto altrettanto, quanto la verità. La verità di questa sapienza non ha limiti, come abbiamo veduto: il Maestro dice a' suoi discepoli: « « Oggimai io non chiamerò voi servi, poichè il servo non sa che cosa faccia il suo padrone; ho chiamato voi amici, perchè io feci note a voi tutte quelle cose che io ho udito dal Padre mio »(2), » e di più promette loro il suo Spirito, che tutte queste cose, dette prima da lui, raccenderà loro in mente, e di nuovo insegnerà loro « « ogni verità »(3). » Come poi l' uomo così limitato possa portare tanta mole di verità, l' abbiamo detto, dove abbiamo avvertito, che tutta la verità gli è data in un modo implicito e potenziale, il che S. Giovanni esprime, dicendo che nel cristiano dimora « « il seme del Verbo »(4), » quel seme onde l' uomo è rinato. L' esplicazione poi di questo seme ne' diversi uomini è più o meno, sempre tuttavia, limitata, e si fa in ordine a tutto ciò che è necessario alla natura umana e da questa voluto, cioè alla perfezione morale ed alla felicità dell' uomo. Ora lo stesso ragionamento conviene applicarsi alla carità . Questa di natura sua è in ciascuno de' discepoli universale ed infinita, benchè limitata nella sua esplicazione ed attuazione. E così deve essere, se deve rispondere perfettamente a quella verità, di cui è il nostro discorso, dalla quale, come dicevamo, la carità è indisgiungibile. Poichè la carità non è altro che l' esecuzione e la sostanziazione della verità, onde nelle Scritture si nomina « « la carità della verità »(1), » e si esorta a « « fare la verità nella carità » (2) »: è una verità che si fa, non si conosce solo, come la verità naturale; e si fa colla carità. Or come abbiamo distinta dalla verità naturale e incompleta la verità soprannaturale e sussistente, così anche la carità che a questa corrisponde si distingue dal naturale amore . E non parlo dell' amore naturale soggettivo , vario di genere, e di forma e di costume, il quale non appartiene per sè solo all' ordine morale; ma dell' amore naturale oggettivo che costituisce la naturale virtù. Questo riceve tutte quelle limitazioni e imperfezioni che nella verità naturale e meramente ideale si trovano, ed è oltracciò combattuto e distrutto spesso dall' amore soggettivo che si fa reo con questo stesso combattimento. In fine, quand' anco l' amore naturale oggettivo potesse reggersi così debole e quasi aereo, com' egli è, di fronte a tale avversario violento e disordinato; nè soddisfarebbe al bisogno d' amare che sente il cuore umano, e che tanto si stende quanto l' idea, cioè all' infinito, perchè non v' ha nella natura alcun oggetto infinitamente amabile, nè un tale amore potrebbe esser principio di quell' infinita beneficenza, a cui di nuovo tende l' animo umano. Chè l' amare è voler bene, e non si può volere un bene infinito all' amato, se chi ama non conosce o non ha alcun bene infinito da comunicare. Non potendosi dunque la mente e il cuore umano fermare se non in ciò che è infinito, e perciò il suo fine compiuto potendosi trovar solo in un infinito reale, che l' amor naturale non trova; in questo come in suo fine compiuto non può essere esaurita compiutamente e tranquillamente quella capacità di affetto che il Creatore ha posta nella natura umana. La carità all' incontro trova e possiede il fine assoluto dell' amore che è Dio Uno e Trino. E come l' ama in sè stesso, positivamente e immediatamente conosciuto, così l' ama negli uomini ne' quali egli dimora, e, in un diverso modo, in quelli altresì, ne' quali egli può dimorare, e sono tutti quanti vivono in terra. Laonde la carità di Cristo prende le due forme, della fraternità e dell' umanità . La prima è quella « carità della fraternità »che venia tanto raccomandata a' primi fedeli dagli Apostoli (1), per la quale tutti quelli ne' quali già vive Cristo, si amano d' un amore indicibile, e quasi beatificante, e si prevengono in ogni onore ed aiuto con ogni sacrificio, perchè Cristo, che in essi abita, cresca ne' fratelli e in tutta la comunità. L' umanità poi è quella forma di carità, colla quale si amano gli uomini, non perchè abbiano in sè Cristo, ma perchè, non avendolo ancora, lo possono avere: e questa è il fonte di quello zelo infaticabile della salute delle anime, onde l' uomo desidera e fa quant' è da lui, che tutti quelli che sono fuori ancora della Chiesa di Cristo, vi si aggreghino, e si convertano i peccatori in modo; che, giustificati, Cristo possa di nuovo in essi diffondere il suo spirito, a cui hanno fatto contumelia. E questa è la filantropia cristiana, che tende a giovare in tutti i modi agli uomini, acciocchè vengano a possedere il bene vero, finale, assoluto, infinito, nel cui possesso solamente la natura umana chiama sè stessa soprammodo contenta, priva del quale, non è mai pienamente contenta per qualunque altro bene. Laonde è questa una filantropia ragionevole, non ingannatrice, chè per essa si vuole agli uomini il bene vero, desiderato confusamente per natura, e gli altri beni solo in ordine a questo, contro al qual ordine sarebber mali, eziandio che ritenessero le apparenze ingannevoli di beni: è appunto la filantropia o umanità di Cristo, di cui parla S. Paolo, ove dice: che « « quando apparve la benignità e l' umanità » [...OMISSIS...] «di Dio Salvator nostro, egli ci fece salvi, non per opere di giustizia fatte da noi, ma secondo la sua misericordia »(2) » e di cui parla S. Giovanni, ove pure dice: « « In questo è la carità, non quasi che noi abbiamo amato Dio, ma perchè egli stesso il primo amò noi, e mandò il Figliuol suo, propiziazione de' nostri peccati »(1) » I discepoli dunque che sanno d' essere stati amati da Cristo prima d' esserne degni e acciocchè degni ne divenissero, anch' essi amano gli uomini che non sono ancor degni d' essere cotanto amati, acciocchè diventino degni del soprannaturale amore com' essi, con acquistare la dignità di membra del corpo di Cristo viventi dello stesso spirito di Cristo. La carità dunque ha in sè necessariamente lo spirito di proselitismo, e, in altre parole, il principio d' associazione. S. Giovanni scriveva ai fedeli: « « Noi vi annunziamo quello che abbiamo veduto ed udito, acciocchè anche voi abbiate società con noi, e la nostra società sia col Padre e col Figliuolo di lui GESU` Cristo »(2) » Ed ancora: « « Che se noi camminiamo nella luce, come anch' esso è nella luce, abbiamo fra noi società, e il sangue di GESU` Cristo figliuolo di lui, ci monda da ogni peccato » (3) » La carità è sempre nella luce , perchè la luce è la verità, e la carità è la verità adempita. Abbiamo detto di sopra che la verità sussistente, cioè il Verbo divino, di natura sua associava gli uomini, essendo un identico principio reale e vitale da tutti quelli, che sono in lui, partecipato, e perciò gli uomini congiunti col Verbo rassomigliano quasi ad un grappolo d' uva, in cui tutti gli acini uniti, allo stesso racemo s' attengono, succhiandone coll' umore la vita. Ora la stessa cosa è a dirsi della carità . La quale per sua natura è unione, e unione la più perfetta e sublime, che può in qualche modo dirsi unificazione. Niuna maraviglia dunque, che tosto introdotta nel mondo la carità, l' umanità sentisse un insolito bisogno d' associarsi e incominciasse in essa un movimento, un lavoro tendente a produrre sempre nuove, ora meno, ora più perfette, associazioni. La società grande era stata costituita dallo stesso Maestro, che n' avea posto i due principŒ, della verità e della carità: quest' è la Chiesa cattolica, cioè universale. Come rispetto alla verità ella si compone di maestri e di discepoli in quel modo che abbiamo detto, così rispetto alla carità ella si compone di ministri che comunicano il Verbo e il suo Spirito, per certi mezzi instituiti dal Salvatore e avvalorati dalla sua onnipotenza, e che governano esteriormente tutto il corpo, e di quelli a cui amministrano , di quelli che tale grazia e tal governo ricevono. E poichè la verità e la carità è l' identico bene divino sotto due forme, così gli stessi che come Maestri viarŒ conservano e tramandano la verità, sono quelli altresì che come Vescovi e sacerdoti sacrificano, amministrano i sacramenti e governano: sono gli stessi con due potestà. Ma, come abbiamo detto, in ogni discepolo dimora il Verbo e vi effonde il suo Spirito, di maniera che ciascuno è un cotal centro e fine del tutto, benchè sia anche membro, maggiore o minore, esercente una funzione più o meno importante, del corpo di cui Cristo è il capo. Ciascuno dunque ha il suo lume di verità, e ciascuno ha il suo fuoco di carità: non v' ha pure il minimo cristiano che si tenga nella grazia, il quale non l' abbia. Quindi ciascuno e s' attiene più che mai stretto all' associazione grande essenziale e fondamentale della Chiesa, e ha in sè il principio e l' inclinazione ad altre associazioni benefiche: e più o meno v' inclina, secondo che più o meno egli coopera alla carità, e più o meno questa, per le cognizioni esteriori e pe' doni, in lui s' esplica. Di qui tutte quelle religiose associazioni , le quali si propongono d' esercitare, con più d' attività e d' estensione e di ordine, la carità e la beneficenza verso il prossimo: le quali non sono, come manifestamente apparisce, che propaggini della verità e della carità, radici sempre feconde, e conseguenti naturali e necessari della Scuola, di Dio fatto maestro, e redentore degli uomini, che è la sua Chiesa. Perocchè la carità può essere esercitata da ogni individuo, ma con più frutto da una collezione d' individui associati, cospiranti tutti d' accordo, come un cotale esercito pacifico ben ordinato, istrutto, e disciplinato, nello stesso esercizio. E veramente chi ama una cosa, la ama tutta e non una parte; e come la verità di cui parliamo non ha confini, così la carità pure è di natura sua infinita, nè può mai dire: basta, senza ripugnare a sè medesima: tende dunque al sommo, a fare tutto il bene che ella può. I confini di lei non sono che soggettivi: poichè s' ella si trova nell' uomo ancora implicata ed involta, non può spandersi nell' opere esteriori, e rimane così implicata quanto nell' uomo stesso rimane implicata la verità. Quell' ignoranza dunque, che può trovarsi anche nel cristiano in ordine a quel sapere che appartiene alla riflessione, e la scarsa cooperazione della libera volontà all' esplicazione della verità stessa, sono i due limiti che riceve ne' diversi uomini l' operosità della carità di Cristo. Ma questi limiti possono essere sempre più in là sospinti ed allontanati: e quindi l' indefinito e sempre nuovo svolgimento della carità nel Cristianesimo. Perocchè la carità giugne a far tutto, e con ogni sacrificio. Or tutti i beni, eziandio che temporali, possono inservire al fine de' beni , che è il fine stesso dell' uomo, sul quale, per conghietture o argomentazioni non autorevoli, fu tanto disputato da' filosofi prima di Cristo, senza che mai ne vedessero il chiaro, o convenisser fra loro; ma dopo Cristo a niuno può essere oscuro o dubbioso quale, quel fine, egli sia. Laonde la carità è uno amore, pel quale l' uomo, dimenticando se stesso pe' suoi simili, altro diletto non cerca a se medesimo che quello di procacciar loro ogni bene, con ogni suo studio, fatica e patimento, sia questo bene corporale, intellettuale, o morale: ordinando i due primi all' ultimo, che è il fine degli altri. I quali tre sommi generi di carità, se si considerano attentamente, ritornano alle tre forme dell' essere, la reale, l' ideale, e la morale: e spettano a quelle tre categorie supreme, in cui si riassumono tutte le cose concepibili dalla mente, le quali nelle tre forme primordiali dell' essere si fondano. Onde si vede, che l' ultimo intento della carità è di fare che gli uomini tutti partecipino dell' essere al maggior grado, e in tutt' e tre le sue forme. E come in quest' essere appunto uno e trino si assolve la verità, così nuovamente si raccoglie in che modo la carità termini nella verità, e come pure questa in quella si trasfonda. Ora la compiuta verità è ordinata, perchè l' essere è ordinato; di maniera chè, secondo l' ordine di generazione, precede l' essere reale all' ideale, ed entrambi al morale, che tutto l' essere seco congiunge e perfeziona. Così, allo stesso modo appunto, è ordinata altresì la carità. Di che, ogn' altro amore, che si diparta da quest' ordine, s' oppone all' ordine della verità , e di conseguente convien dire che è falso, ed anzi che benefico, dannoso. Cristo dunque portò il vero amore in terra, il quale non potè essere del tutto vero se non a condizione d' essere altresì sublimissimo e divino, come vi portò la vera sapienza, pure sublimissima e divina; ed a buon diritto egli potè dire, che questo precetto era il suo (1). Come poi la carità s' esercita dai discepoli o separati, o uniti in società; così ella s' esercita del pari a favore d' individui, e a favore di società, quantunque il termine umano della carità sia sempre l' individuo; che le società stesse hanno condizione di mezzi e non di fini, non potendo esse aver altro fine che o il bene degl' individui associati, o d' altri. Quindi nella carità v' ha il principio immortale della ristorazione e della riforma non solo della Chiesa, come abbiam detto parlando della verità, ma ancora della società domestica, essendo principalmente l' educazione opera gratissima alla carità, e della società civile, procacciando la carità, ove ne sieno animati i membri di lei, che essa si fondi sulla giustizia, di cui tempera il rigore, conciliando le opinioni e gl' interessi colla reciproca stima e colle vicendevoli concessioni e ragionevoli transazioni de' cittadini, e soprattutto spuntando l' orgoglio e il dispotismo tanto famigliare e quasi inseparabile da questa potente società, coll' insegnarle che cosa ella sia, cioè unicamente l' ancella, non punto la signora nè della Chiesa, nè della Famiglia, l' una e l' altra delle quali società pel loro concetto a lei precedenti, ella dee riverire come suo proprio fine, e rispettare e servire. Laonde anche la famiglia, e la nazione partecipano di quella immortalità, che la cristiana sapienza comunica a tutte le cose che ella tocca od affetta, e che prima di null' altro ella assicurò di sua propria bocca alla grande scuola da lei aperta, cioè alla Chiesa universale. Ma la carità non si ferma, come dicevamo, nell' uomo, ma termina in Dio; chè ella ama gli uomini o perchè partecipano della divina natura, o perchè ne possono partecipare. Onde come Iddio, maestro del mondo, è la Verità, e questa, nel suo movimento comunicativo agli uomini, termina alla Verità, di maniera che ella è il principio e ad un tempo il termine del divino insegnamento, che in un circolo non già vizioso, ma potente e vitale incessantemente si volge e dimora; così Iddio, Spirito di verità, è la Carità, la quale comunicandosi agli uomini ritorna continuamente in sè stessa, di maniera che, secondo l' osservazione di S. Agostino, si ama in fine lo stesso amore (1), e tutt' è amore, Dio Amore il principio, e Dio Amore il fine. E così disvelato, ed anzi comunicato all' uomo il fine de' beni , furono all' umanità assicurate quelle due cose supreme, ch' ella da sè va sempre, a tastone e nelle tenebre, ricercando, cioè la compiuta virtù e la beata vita . Perocchè quella maniera di vivere e d' operare che si limita, che si ferma per via, che non intende nel fine assoluto di tutte le cose, Iddio, può bene dimostrare in sè stessa qualche similitudine o piuttosto analogia colla virtù, a cui è avviata, e questa similitudine o analogia o avviamento, può esser preso dagli uomini in fallo per la virtù, ma essere la virtù, egli non può, « « nè, siccome dice S. Agostino, è vera sapienza quella, che nelle stesse cose da lei vedute con prudenza, operate con fortezza, raffrenate con temperanza, distribuite con giustizia, non indirizza la sua intenzione a quel fine, nel quale Iddio sarà tutto in tutti, con eternità certa, e con pace perfetta »(2). » Nella quale virtù completa l' uomo trova già su questa terra, in cui tutto è incipiente, nulla consumato, in cui la verità sussistente è percepita come un enigma, in cui la carità è operosa come un esercizio e uno sforzo, trova, dico, su questa terra la vita beata , ravvolta certo in fra quei veli della verità, e in fra quei patimenti della carità, ma pure verissima; chè l' uomo posto in tale condizione dichiara sè a se medesimo contento, e lo dichiara con ogni sincerità. Egli sa di possedere l' infinito, e nella volontà di lui, di cui sente l' infinita amabilità e maestà, come in luogo sicurissimo riposa, e confida d' una speranza, che non può confonderlo: chè anzi egli, educato da Dio medesimo alla generosità de' sentimenti, non si risolve tampoco di preferire l' eterno godere al temporaneo meritare, e o contrabilancia il valore di questi due egualmente infiniti tesori, come una femminella diceva: « o patire o morire », e lo stesso Apostolo mostra esitar nel dubbio, quale de' due gli deva esser più caro (3); ovvero antepone il merito alla stessa visione, come dicea un' altra femminella: « non morire, ma patire », e come il medesimo Apostolo Paolo in un altro luogo: « « Io desideravo di essere anatema da Cristo » (cioè separato dalla vista di lui) «pel bene de' miei fratelli »(1). » Ma se nel tempo della scuola, della palestra, del merito, basta a rendere felice l' umana vita « « quella speranza, » per usar le parole di S. Agostino, «della contemplazione di Dio, la quale ha pur seco dilettevole e certa intelligenza della verità » (2): » cessato il corso del tempo, la verità sussistente, che or è nell' uomo come principio , manifestandosi anche come termine , apre a lui davanti ed offre tutti i tesori eterni, che nella profondità dell' essere reale si nascondono, e così Cristo, secondo la frase ammirabile della Scrittura, restituisce il Regno al Padre già svelato agli uomini (3); e la Carità che alla Verità, da cui è spirata, s' accompagna e si proporziona, rompendo, per così dire, la fornace che comprimea le sue fiamme, innalza ed espande il corno dell' incendio che non consuma, ed avventandosi a tutto l' Essere discoperto, fa che l' uomo di lui viva, quasi d' una vita di fuoco divino ed immortale. La promessa, come chiaramente apparisce, è degna del Maestro, ella è consentanea alla sublimità della scuola: tutto s' attiene, se il maestro è Dio, dunque egli dovea essere tutt' insieme e l' oggetto della dottrina, la verità, e il fonte e l' oggetto della carità, e finalmente anche l' eterno oggetto della beatitudine: qualunque altra scienza, fuori di questa, sarebbe stata inferiore a un tale maestro e a una tale scuola, come qualunque altro fine del mondo sarebbe stato inferiore alla grandezza del Creatore. S. Agostino osserva che v' ha certe cose, l' aver le quali non è altro che il conoscerle; e queste non possono esser sottratte dagli uomini al nostro amore (1). Ma in pari tempo alcune di esse non possano esser conosciute a pieno, e però nè tampoco avute, da chi non ne fruisce, e la fruizione è un atto d' amore; non possono dunque essere avute se non sono conosciute, nè conosciute se non sono amate e godute. Il bene è appunto in tali condizioni: [...OMISSIS...] Dalla qual dottrina applicata alla beata vita si conferma quello che noi dicevamo, cioè: 1 Che nella cognizione della verità s' acchiude la carità , perchè quella essendo un bene, non può essere a pieno conosciuta, se non s' ami e fruisca, e viceversa nella carità s' acchiude necessariamente la cognizione della verità , perchè avere quell' oggetto amabile è un medesimo che conoscerlo. Il che non involge punto alcun vizio di circolo, ma bensì la necessità che verità e carità inabitino, quasi direi, l' una nell' altra, acciocchè possano reciprocamente comunicarsi e completarsi. 2 Che quelle due parole, a cui si riduce tutta la scuola di Cristo, Verità e Carità , non solo contengono la sapienza dell' uomo nella presente vita, ma altresì la beatitudine della futura: di maniera che questo riceve il discepolo da una tale scuola, d' avere in sè una sapienza, che, dopo averlo appagato in mezzo alle sofferenze presenti, e datogli una somma dignità e una somma pace in mezzo alle lotte che intorno a lui s' agitano o dalla natura in perpetui e fatali attriti, o dall' umanità in incessanti e volontari dissidŒ, si rivela colla morte temporale, e si cangia in eterna beatitudine. Laonde siccome il precetto del divino Maestro: « « Amerai il Signore Dio tuo in tutto il cuor tuo, e in tutta l' anima tua, e in tutta la mente tua »(3) » non è solamente un documento di giustizia, ma ancora un avviso di prudenza dato all' uomo, acciocchè egli conosca dove possa rinvenire quella vita di eterna beatitudine, che è l' ultimo de' suoi voti e la somma de' suoi bisogni, e ciò perchè nella perfetta carità si rinviene la compiuta verità; così, simigliantemente, la stessa vita beata gli è mostrata, e quasi a dito indicata dallo stesso divino Maestro, nella perfetta cognizione della verità, la quale non può esser perfetta, se l' uomo ne ignori quella parte che la sola carità gli rivela, avendo egli favellato così: « « Ora questa è la vita eterna, che conoscano te, solo Dio vero, e colui che tu hai mandato, GESU` Cristo »(1). » Riassumendo dunque quello che per noi fu detto fin qui, noi abbiamo distinto la Filosofia come scienza dalla Sapienza ; abbiamo detto, che quella è puramente cognizione, e cognizione sotto la forma speciale di scienza , la qual forma è l' opera della libera riflessione: questa all' opposto risulta da due elementi, della cognizione e della virtù , che traduce la cognizione in azione reale e morale. Abbiam fatto vedere, che come la Filosofia ha per suo oggetto l' intera cognizione che nell' ultime ragioni delle cose si racchiude, così pure quella cognizione che costituisce il primo elemento della sapienza (qualunque forma ella si abbia) non è l' una o l' altra cognizione particolare, ma la cognizione della verità nella sua interezza ed universalità, benchè ella possa trovarsi nell' uomo più o meno ravvolta e quasi in germe, e più o meno svolta ed esplicata: ma che come all' esercizio della virtù, che è il secondo elemento della sapienza, si richiede l' uso della libertà umana, così alla cognizione a cui essa virtù s' appoggia, si richiede sempre qualche grado di riflessivo sviluppamento. Abbiamo veduto ancora, che la cognizione che serve di base alla sapienza, non essendo legata ad alcuna forma, e avendovi negli uomini una cognizione anteriore alla filosofia, e una cognizione scientifica, che è la filosofia stessa, forz' è che v' abbia una Sapienza anteriore alla Filosofia, che può esser posseduta da tutti gli uomini, quantunque illetterati; ed una Sapienza che accompagna la Filosofia, propria de' filosofi che alla verità conosciuta accordano la maniera del vivere e dell' operare, sapienza della prima più luminosa e più sviluppata. Ma dopo di tutto ciò, abbiamo osservato, quanto la cognizione naturale della verità, specialmente quella parte che riguardando gli ultimi destini dell' uomo ha un' importanza unica e incomparabile, rimangasi limitata, oscura, incerta, fallace, senza autorità di persuadere, e però sempre controversa; e come quindi essa non possa collocare un solido e sufficiente fondamento alla morale virtù: indi la necessaria imperfezione dell' umana sapienza. Abbiamo intese le voci della natura e della filosofia, che prima di Cristo, per bocca di Platone, domandava che venisse Dio stesso a disciogliere gli enimmi, da cui l' uomo, anche il più dotto, vedevasi circondato e confuso, e ad ammaestrare con certezza tutti i mortali sulle più importanti e necessarie questioni, disperati di trovarne mai il vero ed il certo, se non dalla bocca di un tal maestro. E dicemmo che Iddio, il quale avea già troppo innanzi veduto il bisogno, udito il voto della sua creatura, si degnò discendere in forma di maestro nel mezzo degli uomini, uomo anch' egli. Fece assai più di tutto quello che l' uomo avea saputo bramare o concepire: non operò secondo la misura dell' uomo, ma secondo la sublime via a lui tracciata da' suoi infiniti ed ininvestigabili attributi. In tutto quello che fece, vinse l' umana previsione coll' opera, col modo, coll' effetto: non si contentò di comunicare all' uomo la scienza , s' incarnò egli medesimo, eterna sapienza , vinse l' umana perversità e l' umana limitazione, che impediva all' uomo la compiuta sapienza: la vinse con quell' atto appunto di sapienza, col quale si lasciò uccidere, e col quale redense il genere umano, e lo incorporò seco, gli diede per vivere della sua propria vita, e per luce della sua propria luce: invitando gli uomini tutti al gran banchetto da lui loro imbandito di nuova ed inescogitabil sapienza, e pascendo quanti tennero il suo generosissimo invito di se medesimo. Platone, come abbiamo veduto, osservava, che chi ama una data cosa, l' ama tutta e dovunque ella sia, e se n' esclude dal suo amore una parte o l' ama in un luogo e non in un altro, non dice più il vero quando dice d' amarla. Onde anche la sapienza o si ama in ogni sua parte e dovunque si ricerca, o non è vero che s' ami. Che converrà dire di coloro, i quali, senza alcun serio esame, anzi disdegnando d' applicarsi allo studio di quanto insegna il Cristianesimo, in cui milioni d' uomini in tutti i secoli asseriscono contenersi una sapienza perfetta insegnata da Dio, limitano il proprio amore e studio a quella qualsiasi natural scienza o sapienza, la quale tostochè tocca il suo più alto punto e non mentisce, si confessa povera ed impotente? Diranno costoro il vero quando si dicono filosofi nel senso d' amatori e cercatori della sapienza? Chi n' è amatore veramente, l' ama tanto più, quant' ella apre e scuopre una maggiore e più eccellente parte di sè; chi n' è vero cercatore, la cerca per tutto e dove la trova, l' abbraccia; ma chi l' ama solo a condizione d' attignerla ad un torbido rigagnolo, e l' odia poi o non la cura nel limpidissimo e copiosissimo suo fonte, costui nè la cerca veramente, nè l' ama. Che se fu lodata la sentenza di Bione, il quale paragonava coloro che, postergata la Filosofia, s' applicavano all' altre scienze, agl' innamorati di Penelope, i quali repulsi dall' eroina sposavano le sue ancelle (1); dopo che nel mondo s' introdusse la Sapienza insegnata da Dio stesso tanto più eccellente della Filosofia, si dovette mutare la similitudine, e trovarne una nuova, riconoscendosi nella serva egiziana d' Abramo Agar il simbolo della Filosofia, e nella sua padrona Sara quello della cristiana Sapienza (2). Che se la serva insolentisce, Abramo la concede in balìa di Sara, ed anco giustamente la licenzia di casa sua. Ignobile cosa è dunque al contrario, per amor della serva a dimettere la padrona, dalla quale sola può nascere la prole della promessa. Nè dovrà mai dirsi amatore della Sapienza colui, che ama solamente quella disciplina che alla Sapienza è serva, e con questa, che spesso s' erige ed insuperbisce contro la sua padrona, adulterando, questa con gran viltà e bassezza d' animo trascura e dispregia. Questi opuscoli filosoficŒ sono stati scritti in diversi tempi e in diverse circostanze ne' momenti avanzati all' Autore dalle altre sue occupazioni. Non si può dunque esigere fra essi una rigorosa connessione, giacchè non furono lavorati sopra alcun disegno generale. Tuttavia sono essi privi al tutto d' una relazione che dia loro qualche unità? Non già; ella v' è: l' Autore non ve l' ha messa, ma ve l' ha trovata; e crede utile il farla osservare anche a' suoi leggitori. Si può dire che i primi quattro Saggi, i quali formano il primo Volume, riguardano tutti la divina Providenza, sebbene non sia ciò indicato dal loro titolo: questa almeno è l' idea dominante in essi, e quella intorno a cui si raggirano, come intorno a loro centro, tutte le altre. Nel primo Saggio si presenta l' uomo applicato al meditare, che dal vedere afflitti talora i buoni ed i pravi rallegrati, tituba quasi nella fede della divina Providenza circa la distribuzione de' beni e de' mali su questa terra: ma diffidando di se stesso, prima di passare ad una vera dubitazione, si fa ad esaminare le forze della propria intelligenza; a riconoscerne i limiti; e a considerare le strade diritte e sicure che il possono condurre alla verità in una ricerca sì spinosa e sì rilevante: le quali strade egli riconosce esser due; l' una più breve e più certa della Rivelazione; l' altra più lunga ed incerta della Ragione, la qual però rendesi luminosa e certa anch' essa, se dal lume rivelato venga irraggiata. Nel Saggio seguente l' uomo si mette in cammino per queste vie, non meno per quella della Rivelazione, che della Ragione; e discuopre, che la divina Sapienza doveva seguire nella dispensazione de' beni e de' mali terreni certe Leggi sublimi, che sfuggono al corto vedere della maggior parte degli uomini, ma che, dov' elle sono vedute, arrecano la più gran pace alla mente che prima titubava per la propria ignoranza, e temeva non forse mancasse un ordine degno di Dio nell' ampio governo del fisico e del morale universo. La Providenza comparisce nel terzo Saggio come quella che avendo educato l' umanità con un fine costante ed infinitamente sublime, e avendo a quest' unico fine tutti gli avvenimenti del mondo o sieno piccioli o sieno grandi preordinati e diretti, si è fatta esemplare, da cui ricopiar devono i pastori de' popoli, i principi delle nazioni, e tutti quelli che influiscono sull' educazione degli uomini, e che Dio chiama a parte della grande sua impresa di realizzare il sistema da lui disegnato ab eterno, e nella creazione cominciato (1). Dopo aver considerata la Providenza come l' esemplare della educazione umana, trapassa nel quarto Saggio (2) a contemplare l' opera della Providenza, cioè l' università di tutte le cose colle loro leggi e nell' immenso loro corso da quelle regolato, come il subbietto generale delle belle arti , quando queste sieno sollevate da terra mediante genŒ possenti e cristiani, e sieno chiamate a diffondere la virtù e la pace fra gli uomini, e la gloria intorno al trono dell' Altissimo. Queste belle arti riformate e battezzate per così dire anch' esse nelle acque della salute, depongono le ultime loro spoglie idolatre al piè della croce: e mutano la falsità nella verità, le passioni turbolente negli affetti celesti, l' ipocrisia nella virtù, e le favole mitologiche ne' grandi misterŒ della fede, dalla cui profonda oscurità tutte emanano le ragioni delle cose create. Egli è rivolto il quinto Saggio (1), col quale comincia il secondo Volume, e che s' intitola « Della Speranza , » a dimostrare le agitazioni del cuore umano, quando rifuggendo dalla patente luce del Cristianesimo, ritorna solitario indietro sui passi già fatti dall' uman genere, e si costituisce isolato fra nazioni pagane, s' abbandona alle loro illusioni, come alle loro abbominazioni: egli percorre tutta la serie degl' inganni; e finalmente cerca orribilmente la requie non mai trovata nell' inganno stesso, che perpetuamente rinasce e perpetuamente svanisce. Infelice! rinunziando alla verità egli avrebbe distrutto se stesso, se non dovesse sopravvivere per iscontrare un debito infinito che ha contratto colla medesima! Ma le illusioni che cominciano all' uomo quel corso che sempre più accelerando, lo precipita finalmente nel sistema omicida del rinascente inganno della Speranza, si nutrono coll' abuso delle cose esterne, ed il seguente Opuscolo si rivolge appunto ad additare i danni del lusso e della moda (2): di quel lusso nella proscrizione del quale l' Evangelio immutabile, che veniva poco fa contraddetto da una Economia politica poco avanzata, ricevette testimonianza dalla stessa scienza economica tosto che si perfezionò: testimonianza dico che conferma il detto di un uomo non parziale della religione « che il cristianesimo il quale sembra non pensare che alla felicità degli uomini nell' altra vita, fa ancora la loro felicità nella presente ». E giacchè i sofismi sul lusso cercano di sostenersi colla falsa definizione della ricchezza , nell' Opuscolo che succede l' autore parla dell' abuso di questa parola, che può servir d' esempio agli infiniti errori ingenerati dai diversi sensi, che gratuitamente si sogliono alle parole attribuire. Nè meno sono cagione d' errore le false definizioni che le inesatte classificazioni , come appare dall' ultimo Opuscolo rivolto ad additare il modo di distinguere con aggiustatezza i varŒ sistemi filosofici (1), perchè si possa parlare di essi con qualche ragione, e non formare perpetuamente di que' ragionamenti vaghi, che con un gran rombo di parole nulla significano, e riescono solo a partorire vane dispute e interminabili contrasti. E come v' ha qualche relazione naturale fra l' un Saggio e l' altro, così pure non sarà difficile scorgere in tutti uno stesso spirito, e quella formale unità che ricevono gli scritti d' un autore, sebbene d' argomenti varissimi, dall' unità indivisibile della mente, nella quale, quasi in una vasta regione dello spirito, tutte le idee si ritrovano e s' incontrano, e nello incontrarsi o sentono d' amarsi e s' uniscono, o di abborrirsi e si ripellono ed escludono scambievolmente. A me pare che i principŒ che noi abbiamo nello spirito, rassomiglino ad altrettanti centri d' attrazione, intorno a' quali s' aggirano un poco di tempo tutte le idee presentate innanzi alla nostra mente fino che si precipitano in essi e ad essi si rannodano: quelli dunque danno un moto regolare, per così dire, alle idee di qualunque maniera elle sieno, e con ciò queste idee si mettono da se stesse in qualche ordine nella mente fornita di principŒ, talora ben anco senza che l' uomo il voglia o il faccia con deliberazione, se pur esse abbiano il tempo bastevole d' essere attratte da que' centri e di finire il loro moto vorticoso unendosi ne' medesimi. Ma se questo avviene in tutti più o meno gli uomini, senza pure ch' essi se n' accorgano, molto più è necessario che ciò accada in chi non iscrive solo quanto a lui suggerisce l' animo all' istante in cui scrive, ma segue de' principŒ generali precedentemente esaminati, fermati, e resi famigliari. Nè egli sarà difficile che il leggitore scorga per questi Saggi le membra sparse del corpo di una Filosofia dall' autore seguita costantemente. Che se si chiede di che genere ella sia, parmi che si possa descrivere, non già nelle sue parti singole, ma nel suo spirito, con pochi cenni, dicendo ch' essa, in sull' orme di sant' Agostino e di san Tommaso, tutte le sue meditazioni rivolge al gran fine di far tornare indietro lo spirito umano da quella falsa strada, nella quale col peccato si mise, e per la quale, allontanandosi da Dio, centro di tutte le cose ed unità fondamentale onde tutto riceve ordine e perfezione, si divagò nella moltiplicità delle sostanze disordinate, quasi brani di un universo crollato, privi del glutine che tutti univa in un' opera sola maravigliosa. Ma chi volesse avere anche fermato con alcune parole lo stesso spirito e la forma di una simile filosofia, basterà ch' egli ritenga due vocaboli, i quali disegnano i suoi due generali caratteri, atti a farla conoscere e contraddistinguere, e questi sono UNITA`, e TOTALITA`. Nessuna filosofia può giammai pienamente conseguire l' uno di questi due caratteri senza l' altro; chè la piena unità delle cose non si può vedere se non da chi risale al loro gran tutto ; nè si abbraccia giammai il tutto , se non si sono concepiti ancora i più intimi cioè gli spirituali legami delle cose, che dall' immenso loro numero ne fanno riuscire mirabilmente una sola. Ma se pure v' avesse una filosofia a cui convenir paresse uno solo di questi due caratteri, non sarebb' ella ancora tale d' affidarsi al suo lume interamente; giacchè l' unità quando non abbraccia in se stessa le cose tutte, non è che una limitazione arbitraria, un timido ristringimento, una povertà di sapere. Ma dov' anco una filosofia aspiri a comprendere in se stessa tutte le cose, ella non sarà più atta per questo a produrre buon frutto, se le considera staccate dalla unità , ma solo varrà a stancare inutilmente l' umana ragione con un travaglio che la vince senza fortificarla, e che l' annoia senza istruirla. Le cose fisiche si raggiungono alle morali, ed è dall' osservazione di noi stessi , che siamo scorti alla filosofia professata dall' autore. L' uomo non ha che a dare uno sguardo sopra se stesso in un istante di calma dalle passioni, per riconoscere la propria debolezza e la propria naturale dipendenza da un altro essere fuori di lui. Così l' occhio se potesse riflettere sopra di se conoscerebbe d' avere una dipendenza naturale dalla luce, giacchè solo colla luce può fare l' atto pel quale egli fu ottimamente costruito. Come questa dipendenza, che l' uomo può conoscere in sè con tanta facilità, lo conduce a conghietturare almeno l' esistenza di quell' essere da cui essenzialmente dipende; così la propria debolezza ed insufficienza, senza quest' essere, lo conduce a riconoscere, che tutto ciò che di grande e di felice egli può desiderare, si riduce appunto al desiderio che quest' essere esista. Finalmente non saprei meglio accennare la dipendenza dell' uomo da altri esseri, che colle parole d' uno scrittore recente, che così si esprime: [...OMISSIS...] Come tale filosofia è l' interprete della natura, così è pure l' interprete dei voti del cuore umano. Ella medita da una parte di unire gli uomini al Creatore, e da un' altra di unirli fra loro. Se colla prima sua cura si fa ministra di pace e di felicità ad ogni individuo; la seconda sua cura è di spargere l' amore fra gli uomini; un amore pieno e profondo; un amore universale e permanente, perchè ha per guida la verità, e per fine la virtù. L' amore che non nasce dalla verità delle cose non è che parziale, e finisce coll' odio; e quello che non mira di condurre gli uomini alla virtù non è che momentaneo. Solo dunque quella filosofia che abbia per caratteri l' unità e la totalità delle cose è la madre di una vera benevolenza, perchè que' due caratteri sono la virtù e la verità! Parve all' autore che una tale teoria fosse quella dell' Evangelio, e che la pratica della medesima fosse l' opera della divina Providenza tendente a far di tutti gli uomini un cuor solo, ed un' anima sola; e di tutta la terra un solo ovile con un solo pastore. Dopo di ciò non sarà maraviglia se l' autore con quella sincerità e con quella gioia che all' uomo cristiano apporta la coscienza d' appartenere alla Chiesa universale che diverrà sempre più quest' ovile, e d' essere sottomesso al suo capo che diverrà vie più questo pastore, sottoponga quanto ha scritto in quest' opera ed in tutte quelle che ha precedentemente pubblicate, al giudicio supremo della santa romana Chiesa. Egli gode di ripetere ciò che altra volta ha stampato « ch' egli non riconosce altra gloria più bella che di professarsi a questa gran madre figliuolo ubbidiente e devoto; e che non credendo di potersi a pieno assicurare del proprio giudizio individuale, revoca già e condanna precedentemente quanto mai fosse per riprovare nella medesima il Sommo Pontefice, il maestro ed il giudice inappellabile costituito da Gesù Cristo, acciocchè tutti gli uomini sulla terra possano con ogni sicurezza ed in qualunque tempo distinguere nella Fede la verità dall' errore, e nella vita il bene dal male. » Questa egli crede che sia la tessera della grande fratellanza de' battezzati. Guai a coloro che seminando l' odio fra gli uomini, raccolgono la discordia e la distruzione! che ricusano di far parte con quelli, che sentendosi nati all' amore, fabbricano la casa comune in sulla pietra, e vi si riposano nella pace e nella unità! Nel Volume presente si contengono due Opuscoli sopra i promessi. Essi non prendono a trattare direttamente nessun nuovo punto di filosofia, ma sono più tosto indirizzati a sgombrare la via dagli ostacoli che si frappongono agli avanzamenti della vera filosofia. Uno di questi ostacoli, e non certo il meno dannoso, è la disacconcia maniera colla quale gli uomini dedicati allo studio talora comunicano insieme i pensieri e le diverse loro opinioni. Questa maniera vorrebbe pur essere serena e tranquilla, quale è necessario di conservare la mente e l' animo, acciocchè sieno idonei alla verità; ma in quella vece è bene spesso commossa, azzuffata e turbolenta; e in molte scritture che si pubblicano presso di noi di letterarie controversie, egli par di vedere anzi le idee sollevate in tumulto a difesa dello scrittore o a rovina dell' avversario, che lo scrittore stesso sorto alla propugnazione delle idee salutari e della verità. E a tor via un vizio così nocevole ai progressi del vero, a torlo via massimamente dalla italiana letteratura, che dovrebb' essere essenzialmente sincera, e gentile, tende uno dei due Opuscoli aggiunti, intitolato: « Galateo de' Letterati . » L' altro, che ha per titolo: « Breve esposizione della filosofia di Melchiorre Gioja (1), » procaccia di mostrare in tutta la sua nudità ed abbiezione la filosofia di Elvezio riprodotta sgraziatamente in veste italiana da tale, che se avesse, in vece di copiar servilmente il male dagli stranieri, ricercata liberamente col suo ingegno la verità, non avrebbe giammai prescelto d' estinguere, quant' era da lui, nell' uomo l' intelligenza riducendola alla sensazione, e la morale rivocandola tutta al piacere. Come tutto ciò che può render nobile la filosofia teoretica, si è la distinzione dell' idea dalla sensazione; così non v' ha nulla nella filosofia morale di elevato e di sublime, che non discenda dalla distinzione fondamentale fra una legge che obbliga, ed una semplice inclinazione che alletta. Se non v' ha nulla nell' umano intelletto che differisca essenzialmente dalla sensazione, non v' ha nè pur nulla che costituisca una differenza essenziale dell' uomo da' bruti; e se non v' ha altra legge morale che l' inclinazione a ciò che è piacevole, è tolto via con questo ogni diritto , e non esiste che un fatto . Una tale filosofia distrugge dunque l' umanità , e non lascia per oggetto della filosofica investigazione che l' animale: ella è dunque falsa, perchè manca di uno de' due caratteri che distinguono la vera filosofia, cioè di quello della TOTALITA`. Ma il carattere della TOTALITA`, com' abbiamo osservato, è congiunto essenzialmente coll' altro della UNITA`; e non può avervi nè pur questo in una dottrina filosofica che si trovi priva di quello. Perciò una materiale filosofia non può congiungere le sue parti ad unità, appunto perchè ciò che rigetta dello scibile umano, ciò che ella non vede, sono « i più intimi, cioè, gli spirituali legami delle cose, che dall' immenso loro numero ne fanno riuscire mirabilmente una sola. » In fatti, riducendo essa alla sensazione corporea tutto ciò che è nello spirito umano, non le resta ad oggetto del suo sapere (benchè, a parlare con coerenza, questo stesso sarebbe impossibile), che la materia, o, per meglio dire, i puri accidenti della materia: e la materia è subbietto di divisione indefinita, e non può somministrare alla mente alcuna nozione di vera unità: gli accidenti perdono anche quella unità che aver potrebbero, ove vengano divisi dal subbietto nel quale esistono, o, per parlare più accuratamente, del quale formano il modo d' esistere (1). Solo lo spirito è il fonte della unità; e solo le essenze che allo spirito risplendono, sono quei legami intimi e spirituali che unizzano, per così dire, le cose, le essenze ond' aver possiamo un subbietto unico, indivisibile, e onde la materia stessa, che di natura sua indefinitamente si moltiplica e sperde, veste una forma semplice e costante, e rendesi idonea a farsi oggetto de' nostri intellettuali concetti e de' nostri ragionamenti. Quindi nella filosofia della sensazione (1) una contraddizione interna ed una pugna continua con se medesima; poichè mentre l' intelletto non può veder nulla se non semplificato nella unità, il filosofo della sensazione all' incontro fa tutti gli sforzi, col suo intelletto medesimo, a persuadervi che non esiste cosa alcuna che sia veramente semplice ed una, s' assottiglia per dimostrarvi di non veder ciò ch' egli vede, e per riuscire a sciogliervi le idee astratte in altrettante collezioni d' individui , e a spezzarvi le idee d' individui in replicate sensazioni . Nè la parte morale della filosofia che tocchiamo, è meno priva de' due caratteri che contraddistinguono una dottrina vera e accomodata a' bisogni della umanità: perocchè essa non può aver quello della TOTALITA` cominciando da una esclusione , cioè escludendo fino la vera idea della obbligazione, e non può aver quello della UNITA` stabilendo una regola della vita variabile, siccom' è il piacere, a seconda de' tempi, de' luoghi, delle abitudini e di accidenti innumerevoli, in una parola de' capricci e degli appetiti umani. E pur sembrerebbe che una filosofia, acciocchè dovesse essere dichiarata falsa e rigettata, bastasse l' averla dimostrata priva di due caratteri essenziali così patenti; e non rimanesse più dubbio in sul danno di lei, dopo aver conosciuto ch' essa da un lato è parziale , cioè tendente ad escludere una parte dell' umano sapere, e conduce all' idiotismo , e fino alla distruzione delle cose , se l' esistenza di queste fosse all' umana ragione abbandonata; e che dall' altro è priva essenzialmente di unità , giacchè non lascia che il senso e distrugge la mente , ed « « è solo colla mente, » come dice S. Agostino, «che si percepisce l' unità »(2). » Similmente pareva, che io non avessi dovuto trovare contraddizione affermando che una vera filosofia doveva essere imparziale , doveva amar tutto e odiar nulla , doveva abbracciare, quanto era da sè, in se medesima tutti gli enti ch' ella potesse conoscere, e tutte le idee che trovasse vere, senza prevenzioni e senza avversioni; e che quando non avesse rifiutato nulla della verità, allora essa sarebbe penetrata fino ne' più intimi e spirituali vincoli delle cose, e mediante questi sarebbe salita ad una sublime unità, per la quale solo le cose sono possibili, giacchè, per citar di nuovo uno de' due lumi che ho segnato per mia guida, « « essere non è altra cosa che essere uno »(1). » Ma non piacque altrui che io predicassi questa dottrina, che è la dottrina dell' amore ; e che altamente, quanto io sapevo, gridassi, che il bisogno presente ed urgente in questo miserabile stato della umanità, era quello di cooperare perchè « « si conducesse l' uomo ad assomigliare il suo spirito all' ordine delle cose fuori di lui, e non ostinarsi a tentar di conformar le cose fuori di lui alle casuali affezioni dello spirito suo »(2) » Nel che io non trovo d' avere peccato, se non forse in una cosa, che in vece di dire la filosofia fornita de' due caratteri summentovati esser quella che io avea tolto a seguire, avrei potuto dire assai meglio, esser quella a cui tende ed anela tutto il secolo nostro, che sembra affaticato e contendente a tornare indietro dalla falsa strada, per la quale correva abbandonato il secolo precedente, e fuggiva, quasi direi, dalla eccellenza della umana natura per rannicchiarsi e racchiudersi tutto nel senso del corpo « « che ignora Iddio »(3). » Perocchè a quelle sentenze che io scriveva nel primo Volume degli Opuscoli, e che provenivano dal desiderio, sebben fornito di poco potere, d' una universale ed immobil sapienza, concordavano i sentimenti di tutti i buoni; tocchi intimamente da tanti mali, e pensosi sui grandi bisogni della umanità. Io predicava TOTALITA` ed UNITA` nell' « Educazione: » e mentre io affermava trovarsi un' educazione fornita di tali caratteri risalendo al modello che Iddio ci presentava nella sua Providenza, la quale non era altro finalmente che una educazione data all' intera umanità (4); altrove assumevasi il concetto medesimo per farlo servire di base appunto ad un' opera rivolta alla riforma della educazione, opera che in Francia si coronava, ed in essa scrivevasi: « « L' opera del perfezionamento consiste per l' uomo nell' imitare il piano della Providenza nel complesso della creazione, e nel compirlo in se medesimo »(1). » Io riprovavo la dottrina de' sofisti, che limitava la coltura umana alle relazioni dell' uomo colla società (2), e lo aggravava d' un fardello di cognizioni positive tanto più pesante, quant' erano staccate fra loro; nè queste si pregiavano nell' armonia che dovea risultare dal lor complesso, ma ciascuna a parte, e per se medesima; e non era io solo che così pensavo, ma altrove pure si riconosceva il medesimo vero; chè forza a conoscerlo l' esperienza di un decadimento precipitoso, sofferto dall' umanità sotto l' educazione materiale de' sofisti, cioè sotto un' educazione parziale e priva di scopo; e così si diceva [...OMISSIS...] Io volevo TOTALITA` ed UNITA` nella enciclopedia delle scienze; e in vece d' un immenso campo sparso di scientifiche ruine, dicevo conforme allo spirito del Cristianesimo il pensiero di Bacone, che mirando nell' opera della divina Providenza, scrivea dell' unione delle scienze: « « Noi meditiamo di fondare nell' intelletto umano un sacro Tempio, il quale rappresenti ed esprima il Mondo »(5). » Questo che io dicevo, e il lamento che io facevo contro a' sofisti de' nostri tempi, i quali ostentando una falsa modestia (1), affermavano che l' uomo non può conoscere quegl' « intimi e spirituali vincoli delle cose », da' quali solo viene alla scienza una certa TOTALITA` ed UNITA`, e senza i quali l' uomo non si appaga della verità, ma cerca di diffondersi nella finzione e fino nella distruzione, è il fatto che si riconosce e si deplora; e anche fuori d' Italia si descrivono gli sforzi de' sofisti per impiccolire la verità. [...OMISSIS...] Come questo fatto non è da me solo veduto, così è veduto parimente quell' altro, che, all' opposto de' sofisti che cercano impoverire il sapere umano e introdurre la guerra delle scienze fisiche a distruzione delle morali, la religione cristiana nel tempo che tutte promuove le scienze, infonde altresì in esse il principio della pace e della UNITA` (2). [...OMISSIS...] Io chiedevo oltre a ciò TOTALITA` ed UNITA` nelle belle arti, e massimamente nella poesia: a tal fine io richiamavo questa a' suoi principŒ, perchè non vagasse più a caso a intrecciar fiori che le appassiscono in mano, ma si rendesse maestra insieme e sollievo di una vita intelligente e affaticata; e trovavo, i principŒ di essa essere stati la meditazione nella divina Providenza, della quale questo universo è un gioco sublime; e questo mio voto, questo mio sentimento si ritrovava poco fa vero, e si ripeteva presso di noi, così favellandosi del padre della greca poesia: [...OMISSIS...] Il poeta e l' artista, che s' innalza alla contemplazione della Providenza nelle opere della natura o ne' fatti degli uomini che egli esprime, in pari tempo ch' egli sublima i suoi concetti, perchè raggiunge la parte col TUTTO (3) e non resta nulla di piccolo o di lieve momento a lui che considera anche ciò che è piccolo per se stesso in una necessaria relazione con ciò che è grande; raccoglie ancora ogni moltiplice varietà in un ordine, in UNA cosa sola; conciossiachè egli ravvisa in checchè avvenga ed in checchè esista, l' opera di un solo autore, un solo disegno, una sola mente immensamente benefica, savia e potente. L' unità trovasi nell' uomo della natura: questi non è ancora diviso e sparso in infiniti oggetti e relazioni parziali; e l' ordine delle sue potenze, che conserva in se medesimo, lo rende atto a sentir l' ordine delle cose esteriori, ed a sollevarsi immediatamente e quasi d' un semplice volo alla prima causa: ma quest' uomo, in uno stato quasi individuale, è abbandonato a se stesso, e soggetto alle illusioni sensibili; dietro a quelle poi si spezza, si moltiplica, si disordina: indi il severo senno ne' primi artisti, e il progresso d' una crescente mollezza ne' posteriori (1). Ma intanto che l' individuo si corrompe, e che la poesia e le arti del bello da un grave carattere e da una elevatezza onde abbracciano l' universalità delle cose, discendono ad affezioni più singolari e arbitrarie, a sensi più minuti e più attenuati (2); i progressi più lenti della società umana (3), ma più costanti, riparano incessantemente alla corruzione individuale, e mentre questa ha percorso forse più volte il suo intero periodo, quella d' un passo uguale procede, senza ritorno, senza che niente valga a metterle intoppo, là dove la guida, sarei per dire, dall' alto cielo un infallibile auriga, cioè ad una meta ch' egli le ha fermato seco medesimo, e che non manifesta ai mortali se non coll' evento (1). Si trovano dunque due contrarŒ andamenti nelle belle arti, rappresentatrici dello stato dell' umanità: l' andamento dell' individuo inclinato a scadere dal totale al parziale, e l' andamento della società che continuamente si estende e si ammigliora per opera della Providenza, e mira a rialzar gl' individui nuovamente dal parziale al totale. Quindi ciò che v' ha di integro e di sapiente in Omero, è dovuto all' individuo della natura: e ciò che v' ha di spirituale e di puro in Virgilio, è dovuto ai progressi della società (2). La spiritualità di Virgilio è l' estremo che toccò giammai la società nel Paganesimo, ma è infinitamente lontana da quella a cui tende la società Cristiana: questa è essenzialmente spirituale e perciò essenzialmente universale, mentre quella non potea che manifestare una tendenza a questa, un desiderio dell' umana natura, un inesplicato bisogno. Perciò quando io dicevo, che le arti e la letteratura dovevano anch' esse ne' nostri tempi vestire quella grandezza e quella spiritualità che rende sì magnifica la società de' credenti (3); io non pronunziava una sentenza mia particolare, non facevo che dichiarare ciò che conviene al mio tempo, che essere l' interprete del mio secolo, il quale anche meglio de' precedenti pare che senta intimamente come il governo del Cristianesimo è una cosa stessa col governo che fa dell' Universo la divina Providenza. E se Virgilio, per esser caro alla maggiore società che fosse fino a quel tempo nel mondo stata, e anche ad una migliore, si partiva, quanto poteva il più, ne' suoi versi, da ciò che è basso e corporeo, e « cercava i più intimi cioè gli spirituali legami delle cose »; noi vediamo che oggidì il sentimento umano via più sublime procede, e dimanda una purezza ed una estensione maggiore: e gli uomini non si appagano più tanto del mondo sensibile, ma esso pare che sia raffreddato al loro senso; e per vagheggiare una felicità, devono uscir co' pensieri dalla terra e dalle sfere degli astri, e cercarla nell' interminabile, nell' eterno, nell' assoluto, in quella UNITA` nella quale la TOTALITA` si contiene. La felicità più spirituale che Virgilio potè descrivere sollevandosi su tutte le ignoranze e le cupidigie umane, fu una quiete sicura, un' abbondanza di sostanze, una fuga dalla vita cittadina per riposare fra i greggi e in mezzo ai campi, ove egli diceva avere Giustizia impresso i suoi estremi vestigi quando abbandonava la terra: [...OMISSIS...] Ma inefficaci a soddisfare l' animo dei presenti uomini sono tali beni, e tali amenità della natura fisica: che dico l' animo? la fantasia medesima di questi non ne è saziata: ella stessa aspira a qualche cosa di morale, che la raggiunga ad un mondo invisibile, il quale contenga la spiegazione e il compimento del visibile. La spiritualità della poesia cristiana, dirò anche della poesia del secolo nostro, può sentirsi in questi versi, paragonandoli a quelli soprarrecati di Virgilio: [...OMISSIS...] Egli è quest' alienazione dalla natura materiale, o almeno questo bisogno di avvivar tutto ciò che è corporeo con legami che lo raggiungano a ciò che è spirituale; è quest' ambizione, direi quasi, di mostrarsi alto da terra, che sembra dover caratterizzare il secolo nel quale già siamo avviati, e che lo diparte dal precedente che ha fatto tutti gli sforzi per rendersi materiale, e non ha potuto. Egli non ha potuto che apparir tale; e perchè ogni apparenza è breve, bastò qualche lustro, acciocchè il mondo materiale ed incredulo, si ritrovasse, maravigliando di se medesimo, e spirituale di nuovo e cristiano. [...OMISSIS...] Quando il poeta o l' artista mira la natura e la storia come opera della Provvidenza, allora gli si dissipano innanzi tutte le irregolarità e le deformità che a primo scontro presenta la realtà delle cose. E` solamente considerando le parti nel tutto , che quelle ricevono un ordine ed una bellezza: indi come io predicavo il bisogno della VERITA` nelle arti cristiane, così additavo la via di trovare in essa una perfetta BELLEZZA: e affermavo, gli uomini non aver bisogno d' inventarne una artificiale e falsa, se non quando non sono ancora atti a vedere la reale e la vera nelle opere del Creatore (2). Ma sono io il solo, il primo a proclamare la verità nelle arti, o non è essa una voce fortissima, universale? non è questo il più manifesto bisogno del tempo così insaziabile di udire fatti, di leggere storie? e nel quale si vuole sommettere fino il Romanzo , opera essenzialmente menzognera, alla verità? e non si finirà forse anche coll' escluderlo dalla letteratura interamente? Non voglio dire che non v' abbia alcuno individuo nel nostro tempo, che a questi veri pur faccia mal viso: tutti quelli che si angustiano nelle cose particolari, senza allargarsi a considerar queste con uno sguardo universale, devono rinvenirle povere, a tale da rendere con esse basso lo stile; non possono che lamentarsi « della trista e fredda realtà delle cose (3), » e correre a racconsolarsi in vane creature della propria fantasia; ed uno di questi, un' anima ardente, che sentiva pure il bisogno di ampiezza, ma non avea trovata la via che il rallargasse nella verità, cercava di associare a questa la finzione, sperando di renderla, con tale giunta, più ampia e più bella; e così, non ha molto, scriveva: [...OMISSIS...] Dico che questa non è voce della presente società, ma voce di un individuo che abbandona i suoi contemporanei per retrogredire fra gli adoratori degl' idoli, senza che abbia però forza di strascinar seco gli uomini del suo tempo. Questi sono v“lti indeclinabilmente all' unità primitiva: l' analisi non parte che da una sintesi precedente; e mentre sembra da questa allontanarsi fino che non è ancora perfetta, a quella si avvicina più che acquista di perfezione, ed in quella ritorna e termina intieramente quando alla sua piena perfezione è pervenuta. Quindi l' arte dell' educazione quanto si farà più adulta, tanto più agognerà di ricondur l' uomo incivilito a que' pochi elementi che pose in esso Iddio con una prima rivelazione, quasi semi di un grande sviluppamento: allora le infinite suddivisioni delle scienze racquisteranno quei vincoli già spezzati con esse, che le ritornino ad una scienza unica, a quella unità di sapere che tanto era cara ai primi sapienti (3): e le arti del bello, queste lingue degli affetti, tenderanno via più ad un amore compiuto, da nessun odio limitato, ad un amore degno dell' uomo perchè figliuolo della verità, e che si sente profondo nei primi poeti (1). Finalmente io dicevo che l' UNITA` delle idee conduce all' UNIONE delle persone, e che la TOTALITA` di quelle può solo congregar queste in una SOCIETA` UNIVERSALE: che se la formazione di tale società travalica le forze degli uomini abbandonati a se stessi, essa non è superiore alle forze di Dio: che onde vien la sapienza, cioè la scienza completa (2), indi viene ancora la CATTOLICA UNITA`: e che quegli potè comandare l' AMORE DEL PROSSIMO, che potè rivelare la VERITA` (3). Ma tutto questo non fui io solo a dirlo; mentre da mille parti si ripetono i veri compresi nelle seguenti non mie parole (1) [...OMISSIS...] La filosofia è la scienza delle ragioni ultime. Le ragioni ultime sono le risposte soddisfacenti che l' uomo dà agli ultimi perchè , coi quali la sua mente interroga se stessa. Vi ha due classi di ragioni ultime: le ragioni di tutto lo scibile, e le ragioni ultime di qualche parte speciale dello scibile. Le ragioni ultime di tutto lo scibile sono le sole veramente ultime, e però costituiscono lo scopo della filosofia generale . Le ragioni ultime di certe determinate parti dello scibile non sono ultime, se non rispetto a tali determinate parti, e costituiscono lo scopo delle filosofie speciali delle singole scienze: la filosofia delle matematiche, la filosofia della fisica, la filosofia della storia, la filosofia della politica, la filosofia dell' arte ecc.. L' uomo che si mette in cammino per investigare le ragioni ultime e soddisfare ai perchè, interrogazioni spontanee della sua mente, non può che cominciare dal riconoscere lo stato delle sue cognizioni e delle sue persuasioni, e quindi muovere all' opera di renderle compiute, a tale che soddisfacciano al bisogno dell' intelligenza, che non si appaga se non rendendosi ragione di tutto ciò che sa; se non rendendosene una ragione così evidente che non abbia bisogno di un' altra, ma ella stessa sia quella, in cui la mente trovi sua quiete. La quiete della mente di cui qui si parla non è che una quiete scientifica , una quiete ottenuta per via di scienza, la quiete che risponde al perchè, col quale interroga se stessa la mente inquisitrice. Ma non è a credersi, che la mente rivolga sempre a se stessa tali interrogazioni: molti uomini non se la fanno; o se ne fanno alcune, ma non tutte quelle che si potrebbero fare. La mente che non interroga se stessa, è quieta, e la mente che interroga se stessa fino a un certo segno e non più in là, è parimenti quieta e tranquilla; tostochè ella ha trovata la risposta a quel limitato numero d' interrogazioni, quantunque non sia pervenuta alle ragioni ultime, delle quali non ha bisogno a conseguire tranquillità. Quindi la scienza delle ragioni ultime, cioè la filosofia, non è necessaria alla quiete delle menti del maggior numero degli uomini, i quali s' appagano mediante una cognizione più limitata. Questa cognizione non ancor filosofica può essere vera e certa e quindi atta a produrre nell' uomo una ragionevolissima persuasione. Ma dato prima un uomo in possesso di persuasioni ferme e certe, senza che egli ancor senta il bisogno d' investigare le ragioni ultime di esse, può in appresso sorgere nella sua mente l' interrogazione degli ultimi perchè. Sarà egli allora inquieto, o in istato d' incertezza, fino che non ha trovate le bramate risposte? Convien qui distinguere fra il riposo della mente e il riposo dell' animo. Alla prima appartiene il ragionamento , alla seconda la persuasione . Queste sono due facoltà diverse grandemente fra loro. Il ragionamento ha qualche cosa di necessario e, per così dire, fatale; la persuasione ha molto del volontario. Laonde possono essere nell' uomo persuasioni fermissime, quantunque l' uomo non sappia darne a se stesso espressa ragione. Di più, fra le persuasioni di cui l' uomo non sa dare a se stesso ragione, ve n' hanno di cieche e di ragionevoli. Le persuasioni cieche sono così arbitrarie, che non s' appoggiano a ragione alcuna, e sono spesso erronee, ma possono anche per accidente esser vere. Le persuasioni ragionevoli, di cui l' uomo non sa dar ragione a se stesso, sono quelle che s' appoggiano ad una ragione solida, dall' uomo direttamente conosciuta e penetrata in modo che gli produce l' assenso, ma di cui egli non ha coscienza, perchè non sa rivolgere la sua riflessione sopra di essa, epperciò non sa esprimerla nè renderla o a se medesimo o agli altri, se ne lo interrogano. Manca dunque qualche cosa alla mente, al ragionamento di quest' uomo; gli manca lo sviluppo della riflessione; ma egli possiede nondimeno la verità e la ferma persuasione della verità, onde l' animo suo è quieto, e può altresì esser quieta la sua mente, se egli non dia alcuna importanza alle interrogazioni interiori di essa, ond' è come se la mente in tal caso non facesse interrogazione alcuna. Ma la mente, come tale, il ragionamento di quest' uomo considerato come ragionamento, e non in ordine alla persuasione e quiete dell' animo nè al possesso della verità e della certezza, non ha tuttavia soddisfatto a pieno a se medesimo, e in questo senso non ha trovato ancora il suo riposo. La filosofia è quella che conduce a ritrovare questo riposo scientifico della mente. Vi ha dunque una cognizione popolare che può essere sufficiente alle esigenze dell' uomo, e vi ha una cognizione filosofica che soddisfa alle esigenze del ragionamento: questa seconda è l' opera della riflessione , sviluppata fino all' invenzione delle ragioni ultime. Per arrivare a questa l' uomo parte dallo stato intellettivo in cui egli si trova. E la prima interrogazione ch' egli fa a se medesimo si è: « Io credo di conoscere molte cose, ma che cosa è questa mia cognizione? non potrei io ingannarmi? perchè mai non potrebb' essere un' illusione tutto ciò che io credo sapere? » Questa domanda lo conduce all' invenzione dell' Ideologia e della Logica , che sono scienze d' intuizione perchè hanno per loro oggetto le idee. IDEOLOGIA. - L' ideologia si propone d' investigare la natura del sapere umano; e la logica si propone di dimostrare che la natura del sapere umano è tale, che non ammette errore: di maniera che ogni errore è da cercarsi fuori della natura del sapere; l' errore non è sapere. Ecco in qual modo procede l' ideologia. Non si può conoscere la natura del sapere umano, se non si osserva tale qual è. L' osservazione adunque interna , quella che affissa l' attenzione nelle cognizioni nostre per rilevare esattamente che cosa sono, è l' istrumento dell' ideologia, è il metodo da tenersi in questa investigazione. A torto direbbesi, che, non essendosi ancor trovata la veracità dell' osservazione, ella non può esserci una scorta fedele; perocchè noi non adoperiamo a principio l' osservazione come mezzo di dimostrare, ma l' adoperiamo provvisoriamente, come mezzo di stabilire ciò che si dovrà poi dimostrare, quando il risultato dell' osservazione, assunto come una mera apparenza, ci si cangerà in vero e certo, perchè in lui stesso troveremo la prova indubitabile della sua verità e certezza, fino a non esser possibile il contrario. Osserviamo adunque attentamente le cognizioni umane. Queste sono innumerevoli. Volendo esaminarle ad una ad una, l' opera sarebbe infinita. D' altra parte noi non cerchiamo quello in cui esse differiscono l' una dall' altra, ma quello in cui esse convengono. Esse convengono nell' esser tutte cognizioni, e ciò che noi vogliamo osservare e meditare si è appunto la natura della cognizione. Egli è dunque uopo, prima di tutto, cercare ciò che abbiano tutte di comune; giacchè questo elemento comune sarà appunto l' essenza della cognizione. Ridotta e concentrata in questo punto la nostra ricerca, io vedo intanto che, per lo meno rispetto ad un numero grandissimo di cognizioni, si avvera che io non le ho se non mediante un atto, col quale io affermo qualche cosa. A ragion d' esempio, io so d' esistere, io so ch' esistono altri esseri simili a me, io so ch' esistono de' corpi estesi, larghi, lunghi e profondi. Non cerco ora se questo mio sapere m' inganni o no; io intanto so tutto questo e cerco di sapere come lo so. Ora io veggo che io non saprei che esiste un solo ente, se io non dicessi, se non avessi mai detto a me stesso, che quell' ente esiste. Sapere dunque che esiste un ente, e dire o pronunciare meco stesso che esiste, è il medesimo. La mia cognizione adunque degli enti reali non è che un' affermazione interna, un giudizio . Conosciuto questo, non mi rimane che ad analizzare un tale giudizio, ad osservarne l' intima sua costituzione: in tal modo avrò forse fatto un passo avanti nella scoperta della natura della stessa cognizione. Quando io dico meco stesso, che esiste un dato ente qualunque particolare e reale, io non intenderei me stesso, non intenderei ciò che dico, se non sapessi già che cosa è ente, che cosa è entità. La notizia dunque dell' entità in universale debb' essere in me, e precedere tutti quei giudizŒ, coi quali dico che qualche ente particolare e reale esiste. Mediante questa prima considerazione, io rilevo che altro è conoscere che cosa sia ente in universale, e altro è conoscere che esiste un ente particolare e reale. Per conoscere che esiste un ente particolare e reale, io ho bisogno di affermarlo a me stesso, come dicevo: ma per sapere semplicemente che cosa è ente, io non ho bisogno di nessuna affermazione , ma d' un altro atto dello spirito che chiamerò intuizione: questa maniera di conoscere per semplice intuizione è al tutto diversa dall' altra maniera di conoscere per affermazione. Sono due maniere di conoscere innegabili, l' una delle quali, cioè quella per intuizione, precede all' altra, cioè a quella per affermazione. Le cognizioni umane adunque si dividono in due grandi classi: cognizioni per affermazione , e cognizioni per intuizione . L' ordine di queste due classi di cognizioni risulta da ciò che è detto; le cognizioni per affermazione non si possono acquistare se non sono precedute da qualche cognizione per intuizione: queste dunque sono anteriori a quelle. Di nuovo dunque, prima di conoscere un ente particolare e reale si deve conoscere l' ente in universale. Esaminiamo la differenza che passa fra l' ente particolare e reale , e l' ente universale . Fin a tanto che io so soltanto che cosa è ente, non so ancora se un ente particolare o reale esista, ma però conosco che cosa è ente. Conoscere che cosa è ente si traduce in questa frase filosofica: conoscere l' essenza dell' ente . Coll' intuizione adunque si conosce l' essenza dell' ente . Ma se io, oltre conoscere l' essenza dell' ente, affermo anche meco stesso, e quindi so che un ente particolare esiste, che cosa so io allora più di prima? Per bene rispondere a questa domanda, debbo meditare sull' atto della mia affermazione, col quale io mi formo questa nuova cognizione, debbo perscrutare la natura e la ragione di essa. Perchè dunque affermo io che un ente esiste? che m' induce a ciò? che cosa è quest' esistere? Egli è certo, che, se non sempre, almeno molte volte, a pronunciare che un ente esiste, io son condotto da un sentimento . Così io son condotto a pronunciare che esistono i corpi esterni mosso dalle sensazioni che mi producono. Son condotto a pronunciare che esiste il mio proprio corpo dai sentimenti speciali che ho di esso. Finalmente son condotto a pronunciare che esisto io stesso pure da un intimo senso. In tutti questi casi adunque, ciò che mi fa dire che esiste un ente particolare e reale, è il sentimento; di maniera che ogni affermazione, ogni giudizio (ne' casi detti), col quale pronunzio e dico a me stesso che esiste un ente particolare e reale, si riduce a questa formola: vi è un sentimento; dunque esiste un ente . Questa formola merita di essere ben meditata ed analizzata. Intanto ella suppone che fra il sentimento e l' esistenza reale v' abbia un nesso necessario, a tal che non si possa dare sentimento senza che vi sia un ente reale: ella suppone dunque che nel sentimento si riscontri in qualche modo realizzata l' essenza dell' ente, che prima si conosceva solo in universale. Dato dunque uno spirito che prima conosca semplicemente l' essenza dell' ente senza sapere se l' ente esiste; e dato poscia che questo spirito riceva, provi, avverta un sentimento, tosto egli afferma che quell' ente di cui prima conosceva l' essenza, anche esiste. Il sentimento dunque è ciò che costituisce la realità degli enti . Ma qui nascono obbiezioni in folla. Primieramente si affaccia al pensiero, che la cognizione dell' ente che precede l' affermazione di un ente reale, riguarda un ente universale, mentre l' ente che si afferma è particolare. A questo si risponde che l' essenza dell' ente che si conosce non è punto universale, ma che la parola universale , che vi si aggiunge, altro non esprime che il modo col quale la si conosce; onde, quando si afferma che quell' essenza è realizzata, non si afferma già che sia realizzato il modo con cui quella essenza si conosce, ma che sia realizzata lei stessa. Insorgono altre difficoltà su ciò che abbiam detto, l' esistenza reale dell' essere trovarsi nel sentimento: primo perchè noi veggiamo che molti sentimenti si cangiano rimanendo identico l' ente subbietto de' medesimi: secondo, perchè i corpi esterni non hanno sentimento, e pure si affermano e si credono esistenti. Ma è da considerarsi quanto alla prima difficoltà, che il subbietto de' sentimenti che si cangiano, è un sentimento egli stesso, altramente non si conoscerebbe; o per evitare ogni discussione su di ciò, è almeno un principio senziente che si riferisce al sentimento, e che perciò da ogni sentimento non si può scompagnare. Quanto poi ai corpi esterni, non per altro si percepiscono, se non perchè agiscono nel nostro sentimento; onde anch' essi si conoscono unicamente per la relazione che hanno col sentimento, in quantochè sono principii attivi modificatori del sentimento, cadono dunque nel sentimento come agenti in esso. Ogni ente reale adunque a noi cognito per esperienza si riduce finalmente al sentimento, o al principio del sentimento, o a certe virtù che agiscono nel sentimento. Per comprendere tutto in una espressione ed evitare ogni lunga discussione, diremo, che ciò che nella percezione degli enti reali si afferma essere un ente, è sempre un' attività sentita . Or proseguiamo l' analisi dell' affermazione degli enti reali. Affermando noi dunque che l' essenza dell' ente è realizzata in un' attività sentita, noi affermiamo che esiste un ente reale. Conoscere adunque l' esistenza di un ente reale, è il medesimo che affermare una specie d' identità fra l' essenza dell' ente e l' attività che nel sentimento si manifesta. Tuttavia quest' identità non è perfetta; conciossiachè in una data attività sentita o senziente non si esaurisce l' essenza dell' ente: quindi innumerabili sentimenti, che ci fanno affermare l' esistenza di altrettanti enti reali, l' uno diverso dall' altro. Di ciascuno affermiamo che esiste, che è un ente: di ciascuno affermiamo la stessa cosa, in ciascuno riconosciamo l' essenza dell' ente. Riconoscere in ciascuno l' essenza dell' ente, è lo stesso che dire che l' essenza di ciascuno di questi enti che affermiamo, è identica coll' essenza dell' ente che conoscevamo prima: eppure sono tutti enti diversi. Dunque convien dire che, sebbene sieno diversi in altro, abbiano però qualche cosa di comune, e questa cosa di comune è l' essenza dell' ente, perocchè sono tutti enti. Si noti che in tutto ciò noi non facciamo che osservare il fatto della cognizione degli enti reali , ed analizzarlo, senza aggiungervi alcun ragionamento. Intanto, dal sapere che in tutta la realità degli enti reali che noi affermiamo, troviamo realizzata l' essenza dell' ente, possiamo meglio intendere in che senso abbiamo detto che l' essenza dell' ente è universale; è universale perchè è atta a realizzarsi in tanti enti particolari; quindi perchè con essa sola noi conosciamo tutti gli enti reali: questa universalità non è in essa, è una sua relazione cogli enti reali. Ma se gli enti che affermiamo, convengono nell' essere enti, ma poi differiscono in altre cose, queste altre cose in cui differiscono, non sono elleno altrettante entità? Certo, se non fossero entità, non sarebbero al tutto. Dunque l' essenza degli enti si realizza anche nelle differenze degli enti. Anche in queste differenze, in quel modo che sono, si scorge l' identica essenza dell' ente. Or come l' identica essenza dell' ente può riscontrarsi realizzata in tanti enti diversi? e non solo in ciò che questi enti hanno di comune, ma anche in ciò che hanno di proprio? Anche a rispondere a ciò altro non ci può aiutare che l' osservazione, la meditazione della cosa: dobbiamo anche qui vedere come la cosa è: non dobbiamo argomentare a priori com' ella possa o debba essere. Ora quest' osservazione filosofica ci dice, che ogni ente reale ed ogni differenza degli enti reali fra loro è sempre una realizzazione dell' essenza a noi conosciuta dell' ente. L' essenza dell' ente è identica, le sue realizzazioni sono molte e varie. Dunque L' essenza dell' ente ha vari gradi e modi di realizzazione; Nessuno di questi gradi e modi finiti di realizzazione esaurisce l' essenza dell' ente, sicchè ella può essere ancora realizzata in altri gradi e modi, non cerco ora se all' infinito. I gradi e modi diversi in cui si realizza l' essenza dell' ente sono limitati, perchè di questi soli parliamo, e queste limitazioni costituiscono la loro differenza. Ora queste limitazioni che cadono negli enti reali non appartengono già all' essenza dell' ente, che anzi sono non7enti. Quindi l' essenza dell' ente si trova realizzata nei vari enti in quanto sono enti, e non in quanto sono non7enti. Questa realizzazione è limitata, e in quanto è limitata cessa l' identità coll' essenza conosciuta dell' ente. L' essenza dunque dell' ente si realizza più o meno, ma in quanto si realizza, vi ha tutta (non totalmente), poichè ella è semplice e indivisibile, allo stesso modo come l' essenza del vino vi è tutta in una goccia di vino, e tutta egualmente in una gran botte. Ciò vuol dire che abbiamo bisogno di tutta l' essenza dell' ente o del vino per conoscere anche una piccola parte dell' ente reale, per esempio del vino. Dalle quali osservazioni si trae la conseguenza, che la quantità è cosa appartenente alla realizzazione dell' ente e non all' essenza dell' ente; ed è da osservarsi, che alla quantità si dee ricorrere per ispiegare le limitazioni, i modi diversi, i gradi, le differenze degli enti, il numero ecc.; cose tutte non appartenenti all' essenza dell' ente, ma alle leggi della sua realizzazione. Si dirà: Se tutte le cose si conoscono mediante l' essenza dell' ente, come poi si conoscono le accennate proprietà negative che non sono nell' essenza dell' ente? e non vi sono forse idee degli enti particolari, delle loro differenze ecc.? Rispondo, che l' essenza dell' ente è quella stessa che fa conoscere tutte le negazioni, perchè la cognizione di esse non consiste in altro, se non nel sapere che sono il contrario, sono negazioni dell' ente, e la negazione di una cosa si sa tostochè si conosce la cosa che si nega. Per altro è da notarsi, che il linguaggio indica con un segno positivo, con una parola tanto l' ente quanto la negazione dell' ente, e l' uomo dice il nulla, il limite, il modo ecc., come dice pure, l' ente. Di che avviene, che quelle cose si rappresentino alla nostra immaginazione come fossero altrettante entità, benchè non siano. Rispondo dunque, che le idee che hanno per oggetto la negazione dell' ente, altro non sono che l' idea dell' ente stesso; più l' atto di negazione che noi facciamo di esso. Quanto poi alle idee di enti particolari composti tutti di positivo e di negativo, cioè di realizzazione e di limitazione, altro esse non sono se non il rapporto fra l' ente reale (o la memoria che abbiamo di esso) e l' essenza dell' ente; di maniera che l' idea di un cavallo, a ragion d' esempio, non è altro se non l' essenza dell' ente in quanto può essere realizzata in un cavallo, l' idea di un uomo non è altro se non l' essenza dell' ente in quanto può essere realizzata in un uomo ecc.. Così il fondamento della cognizione di tutti questi esseri è sempre l' essenza dell' ente; le idee dunque degli enti particolari sono sempre l' idea dell' ente considerata in rapporto con un certo dato grado e modo di realizzazione, onde a propriamente parlare, non si dà che una idea sola, la quale alla mente nostra fa conoscere più enti particolari, e così si cangia in altrettanti concetti , diventa i concetti speciali di tutti questi enti. Ma oltre a tutto ciò, si debbono fare alcune altre considerazioni per coglier bene in che consista quest' identità imperfetta, che noi dicevamo riscontrarsi fra le entità da noi sentite, e l' essenza dell' ente da noi intuita. Dicevamo che le limitazioni non entrano in quest' identità. Or una di queste limitazioni è la contingenza delle cose finite. Quindi la contingenza non si riscontra nell' essenza dell' ente. Di che v' ha anzi sotto questo aspetto opposizione fra l' ente contingente e l' essenza dell' ente, la quale è da noi intuita come immutabile e necessaria. Di più: allorquando noi osserviamo l' identità dell' ente reale contingente coll' essenza dell' ente, noi osserviamo questa identità nella nostra percezione e cognizione, non già nell' ente diviso da essa cognizione, o percezione. Di vero, è nell' ente reale conosciuto che questa identità si trova, si forma; ed è anzi mediante la formazione di questa identità che l' attività sentita si percepisce e conosce. In fatti, fino a tanto che l' attività sentita non è identificata coll' essenza dell' ente, ella non è conosciuta, nè percepita; non è ancora un ente percettibile, un oggetto. Coll' atto dunque della percezione si aggiunge all' attività sentita qualche cosa, e così la si rende un ente percettibile, e quest' è appunto l' ente, di cui il sentimento o l' attività sentita contingente non è che un modo imperfetto, non percettibile in separato dall' ente, ma solo nell' ente oggettivo, come meglio dichiareremo più sotto parlando della percezione [92 7 94]. E sebbene in tal modo concorra la mente a costituire l' ente percepito , l' oggetto; non è men vero ciò che percepisce la mente, perchè la mente stessa sa ciò che vi aggiunge e ciò che le è dato: onde sa la cosa com' è. Da quest' analisi della cognizione nostra degli enti reali si spiega perchè gli uomini sono generalmente persuasi di non conoscere il fondo delle cose, ciò che le fa essere. La ragione di tale ignoranza si è, che nelle attività sentite questo fondo manca, e viene dato loro, per così dire, ad imprestito dalla stessa mente che le percepisce. La mente cioè suppone una radice delle cose contingenti, perchè senza di essa non le potrebbe percepire, ma non determina che cosa sia questa radice, perchè non la percepisce. Il mezzo adunque con cui noi conosciamo le cose reali è l' essenza dell' ente; e perciò l' essenza dell' ente, in quant' è mezzo di conoscere, è detta da noi essere ideale . Ma si noti bene che la parola ideale non significa l' essenza dell' ente, ma significa la dote che ha quest' essenza di farci conoscere le cose reali. Onde, quando noi affermiamo che esiste un ente reale, non affermiamo già l' idealità , non affermiamo ch' egli sia ideale, ma affermiamo che egli ha l' essenza di ente. Ma se noi conosciamo le cose reali coll' essenza, come poi conosciamo l' essenza stessa dell' ente? L' osservazione del fatto ci attesta, che la notizia dell' essenza dell' ente è data al nostro spirito prima di ogni altra cognizione; e se noi ne meditiamo la natura, troviamo di più che non può essere altrimenti, che una tale notizia non si può acquistare e formare per mezzo di alcun' altra, finalmente ch' ella è conoscibile per se stessa. E veramente il fatto ci dice, che l' uomo non comincia ad usare le facoltà del suo spirito, se non in occasione delle sensazioni esterne, e che il pensiero dell' uomo comincia dall' accorgersi che esistono de' corpi, che esiste egli stesso, che esiste qualche cosa di reale. Ora questo primo pensiero non è, come abbiam detto, se non una affermazione, è affermare un ente; il che suppone che si conosca innanzi l' essenza dell' ente [14]. Dunque l' essenza dell' ente è nota all' uomo prima di tutti gli atti del suo pensiero: dunque ella non è acquistata cogli atti del pensiero: ma è data precedentemente dall' autore della natura. Di più, supponiamo che l' uomo non sapesse che cosa è ente; egli non potrebbe mai, per quanti piaceri o dolori sentisse, dire che c' è un ente. Non potrebbe riconoscere che la sensazione suppone un ente, perocchè appunto non saprebbe che cosa sia ente: dunque non conoscerebbe nulla, e non conoscendo nulla, non avrebbe alcuna cosa nota che gli facesse la via a conoscere l' essenza dell' ente. Dunque l' essenza dell' ente non può essere conosciuta per mezzo di altra notizia, ma per se stessa: l' essenza dell' ente adunque è conoscibile per sè ed è il mezzo che fa conoscere tutte le altre cose ; ella è dunque il lume della ragione . In questo senso si dice che l' idea dell' ente è innata , e che è quella forma che dà l' intelligenza. Ma questa parola forma abbisogna di essere chiarita, perchè riceve diversi significati. La parola forma si prende a significare « ciò per cui un ente ha un atto suo proprio primitivo, che lo fa essere quello che è ». Così l' essenza dell' essere conoscibile per se stesso si dice forma dell' anima intelligente , perchè ella è ciò che dà all' anima quell' atto pel quale ella è intelligente. Ma dopo di ciò è da osservarsi che due specie di forme si possono distinguere. Ciò che dà il suo atto primitivo ed essenziale ad un essere, quanto alla nozione della mente, è cosa diversa dall' atto stesso; ma talora ciò che dà l' atto essenziale ad un essere, è parte dell' essere stesso, o si confonde collo stesso atto, rimanendo diviso dall' atto solo mentalmente e per via di astrazione; altre volte è cosa diversa realmente dall' atto, e dall' essere che viene informato. Così la forma di una cosa tagliente, per esempio di un coltello, non è che lo stesso taglio o filo del coltello, e appartiene al coltello, non è cosa da lui diversa. All' incontro la forma di un ferro rovente è il fuoco, cosa diversa dal ferro, e ogni qualvolta due enti si mettono in comunicazione, l' uno diventa la forma dell' altro, in quanto agisce ed entra nella sfera di essere dell' altro. Ora in quale dei due sensi l' essere ideale dicesi forma dell' intelligenza? Convien anche qui osservare e meditare il fatto della cosa. Attentamente osservando troveremo che l' essere ideale è forma dello spirito intelligente solo nel secondo significato e non nel primo. E veramente, sebbene noi arriviamo ad intendere che non siamo esseri intelligenti se non in virtù dell' essenza dell' essere che ci sta presente; tuttavia è impossibile che crediamo, che l' essenza dell' essere sia noi stessi, o che ella formi una parte di noi stessi. Trattasi dunque di una forma diversa da noi. Ciò che mette nell' atto d' intendere il nostro spirito è cosa grandemente da noi distinta, benchè sia in noi (sia a noi presente). Ma non basta. Anche presa la parola forma in questo significato, ella non si applica all' essere ideale, se non in un modo tutto suo proprio, in un modo tutto diverso da quello, in cui due esseri reali che esercitano fra loro reciproche azioni, come il fuoco e il ferro, si possono dire l' un forma o materia dell' altro. E` dunque ben da notarsi che il modo nel quale l' essenza dell' essere diviene forma del nostro spirito, non è punto nè poco simile a quella onde un essere reale diventa forma di un altro essere reale per via di azioni e di reazioni. L' essenza dell' essere diventa forma del nostro spirito unicamente col farsi conoscere, col rivelare la sua naturale conoscibilità; quindi dalla parte del nostro spirito non v' ha niuna reazione. Questo non fa che ricevere: il lume, la notizia che riceve, è ciò che lo rende intelligente: l' essenza dell' essere è semplice, inalterabile, immodificabile, non si può confondere o mescolare con altro: così si rivela, nè si può rivelare altramente. Lo spirito che la intuisce e l' atto dell' intuizione rimane fuori di lei. Lo spirito, intuendo lei, non intuisce se stesso. Quindi è che l' essenza dell' ente prende il nome di oggetto , che è quanto dire cosa contrapposta allo spirito intuente, al quale è riserbato il nome di soggetto . Dal che si vede che quando noi diciamo che l' essere ideale è forma dello spirito, usiamo la parola forma in un significato intieramente diverso ed opposto alle forme kantiane; perocchè le forme di Kant sono tutte soggettive, e la nostra è una forma oggettiva, e anzi oggetto per essenza. L' essenza dunque dell' essere col solo rendersi conoscibile allo spirito lo informa per modo da renderlo intelligente, ossia produce la facoltà d' intendere , perocchè ogni atto d' intendere ha sempre per oggetto l' entità. Tutto l' intendere si riduce ad intuire le essenze degli enti, e a pensare l' ente di cui si conosce l' essenza, realizzato in un dato modo, con certi limiti. L' essenza dell' ente fu da noi chiamata essere ideale : le sue realizzazioni enti reali . Se l' ente ideale si considera in relazione alle possibili sue realizzazioni, chiamasi anche ente possibile . La parola possibile non si applica all' ente come una sua propria qualità, ma unicamente per esprimere ch' egli può essere realizzato. Il che è da osservare attentamente, acciocchè forse non si creda che l' essenza dell' ente sia ella stessa una mera possibilità e nulla più. No: ella è una vera essenza, non è una possibilità di essenza; ma questa essenza può essere realizzata; se non è realizzata, è possibile la sua realizzazione: ecco ciò che significa ente possibile. Essendo poi molti gli esseri reali, e ciascuno di essi avendo un rapporto coll' ente possibile, l' ente possibile, considerato solo in rapporto coi diversi enti reali o realizzabili, diviene l' idea o per dir meglio il concetto di essi: quindi si dice che i concetti , le idee, gli enti ideali, gli enti possibili sono molti, perchè appunto sono tanti quanti sono i modi nei quali l' essenza dell' ente si può realizzare. Cerchiamo ora qual sia la relazione fra gli enti ideali e gli enti reali . Dato che io mi abbia l' ente ideale, io conosco l' essenza dell' ente, ma nulla più: non so ancora se quell' ente di cui conosco l' essenza, sia realizzato. Ciò viene a dire che io non ho ancora verun sentimento o almeno non vi rifletto, perocchè se riflettessi d' aver un sentimento, tosto conoscerei una realità. Ma rimossa da me ogni cognizione di ente reale, e supposto che io sappia solo che cosa è l' ente, senza sapere se è realizzato, l' oggetto della mia mente è forse il nulla? No certo; perocchè in tal caso la mia mente non conoscerebbe nulla, laddove pur conosce l' essenza dell' ente. Se in quel caso l' oggetto della mia mente non è il nulla, sono forse quest' oggetto io stesso? Neppure; perocchè io sono un ente reale, e la mia mente, nel caso posto, ha per oggetto solo l' ente ideale senza alcuna realizzazione; senza che io so troppo bene di non essere l' essenza dell' ente in universale; come pure so che l' essenza dell' ente è l' oggetto che intuisco , mentre io sono il soggetto intuente , e fra intuito e intuente vi ha opposizione: dunque l' uno non è l' altro. Convien dunque dire che non essendo un nulla l' essere ideale intuito dalla mente, e non essendo un ente reale vi abbia un' altra maniera di essere oltre quella della realità, e quindi è forza stabilire che i modi dell' essere sono due, il modo dell' essere ideale , e il modo dell' essere reale . Or posciachè l' uno e l' altro è un vero modo di essere, si possono applicare ad entrambi le parole esistere ed esistenza ; laonde per comodità di parlare giova riserbare al solo modo dell' essere reale le parole sussistere, sussistenza . Egli è chiaro che l' essere ideale, in relazione coll' essere reale, prende la natura di disegno, modello, esemplare, tipo, tutte le quali parole altro finalmente non significano se non mezzi di conoscere, conoscibilità dell' ente idea. Ora se gli enti reali sono limitati e contingenti, egli è chiaro che la loro realità è distinta dall' idea, la quale è immutabile e inalterabile, mentre gli enti reali possono essere e non essere. Quindi altra è la cognizione della loro essenza, altra la cognizione della loro sussistenza. Quella si ha coll' idea , questa coll' affermazione in occasione del sentimento (o di qualche segno che tenga luogo del sentimento). Ma la cognizione della sussistenza di un tal ente suppone che si conosca l' essenza dell' ente almeno in universale. Dato dunque il sentimento in un essere che non conosce che cosa è ente, il sentimento rimane cieco ed inintelligibile perchè non ha ancora ricevuta l' essenza [2.] che lo fa conoscere; l' essere che lo avesse, non affermerebbe un ente reale, perchè non potrebbe riferire il sentimento all' essenza, non direbbe a se stesso che cosa quel sentimento è. Tale è la condizion delle bestie fornite di sentimento, ma prive dell' intuizione dell' essere; perciò incapaci d' interpretare a se stesse i propri sentimenti, di completarli, di affermare, di dire a se stesse che vi sono enti reali. L' uomo all' incontro avendo la notizia dell' ente, tostochè prova i sentimenti, dice subito, che vi sono enti reali. Ma poichè il sentimento è una realità distinta dall' essere che lo fa conoscere, rimane a vedere come l' uomo possa congiungere questi due elementi dell' ente percepito. Affine d' intender ciò, convien ricorrere all' unità dell' uomo , alla semplicità dello spirito umano . Quell' io, quel principio stesso che sa che cosa è ente, è quello che ne prova in se stesso l' azione, giacchè il sentimento è un' azione dell' ente. Fin a tanto che quest' azione o questo sentimento si tiene separato dalla notizia dell' ente, esso è incognito, ma il principio semplicissimo intelligente7senziente non permette, per la sua semplicità, che il sentimento e la notizia dell' ente rimangano separati; l' uomo dunque vede l' ente operare in sè , il che è quanto dire produrre il sentimento. E` l' ente stesso identico che da una parte si manifesta all' uomo come conoscibile , dall' altra come attivo producente il sentimento. Nel che si osservi bene che tutta l' attività dell' ente si riduce alla sua entità; in questa si trova come nel suo fonte; è l' ente stesso attivo, e come tutto l' ente è conoscibile, così tutta l' attività sua in lui è conoscibile; dunque anche il sentimento, che è questa attività, è conoscibile nell' ente. Prima che l' ente operi, tale attività è conoscibile solo in potenza, perchè essa non esiste che in potenza; prima che l' ente operi in un determinato modo (producendo il sentimento), esiste in potenza il modo di tale attività, e non è determinato piuttosto un modo che un altro di essa, quindi l' attività potenziale che si conosce è indeterminata; per questo l' essere ideale si dice essere indeterminato . Taluno potrebbe qui fare la seguente obbiezione. Quando l' uomo afferma un ente, fa un giudizio. Ora per fare un giudizio si debbono conoscere i due termini del giudizio, il predicato ed il soggetto. Ma l' uno dei due termini cioè il sentimento, la realità, nel caso nostro, non si conosce. Dunque non si può fare il giudizio, che si suppone. La qual obbiezione chi ben la consideri, non può aver altra forza se non quella di negare l' appellazion di giudizio all' affermazione, colla quale si affermano, ed affermando si conoscono gli enti reali. Ora quand' anco si togliesse con ragione l' appellazione di giudizio alla detta affermazione, questo non distruggerebbe punto la teoria sopra esposta, cavata dall' osservazione; quand' anco adunque l' obbiezione si ammettesse, riman sempre fermo che sapere che un ente sussiste è un dire, un affermare dentro di sè che quell' ente sussiste, e quindi rimane egualmente ferma l' analisi fatta di questa affermazione, e le conseguenze dedottene. Tuttavia per soddisfare in tutto all' obbiettatore, esaminiamo altresì la nuova questione; se l' affermazione interiore con cui noi conosciamo la sussistenza di un ente, si possa chiamare un giudizio . Egli è certo che fino a tanto che i due elementi della detta affermazione, cioè l' essenza dell' ente e l' attività sentita , si considerano separati l' uno dall' altro, essi non presentano i due elementi necessarŒ alla formazione del giudizio, perocchè l' uno di essi è ancora incognito; di che procede l' obbiezione. Ma se questa obbiezione valesse, non si potrebbe ella fare contro ogni altro giudizio? In fatti in ogni giudizio si avvera, che il giudizio non vi è, e non vi può essere, fino a tanto che i termini del giudizio rimangono separati; e che egli non comincia ad essere, se non allora che i due termini sono già fra loro congiunti. Dunque basta, che i due termini sieno atti a formare un giudizio quando sono già uniti, e non importa se prima di unirsi non sieno termini idonei al giudizio. Convien dunque esaminare nel caso nostro se quei termini che prima del giudizio non sono idonei, coll' unirsi divengano tali; il che non è possibile a concepirsi. E questo è appunto ciò che avviene. Ma prima di dimostrarlo, facciamo alcune altre considerazioni. Perchè si dice, che il predicato ed il soggetto non si possono unire in giudizio, se prima entrambi non sono conosciuti? Perchè si suppone, che il principio che gli unisce, sia l' intelligenza, ossia la volontà intelligente, come avviene nella massima parte de' giudizŒ: ed è indubitato che l' intelligenza non unisce due termini, se non a condizione di prima conoscerli. Ma non potrebbe egli essere, che quello che unisce i due termini non fosse l' intelligenza, ma fosse la stessa natura? Questo è appunto quello che avviene nel caso di cui si tratta, perocchè l' essenza dell' ente , e l' attività sentita non vengono già unite dalla nostra intelligenza, ma dalla nostra natura, come abbiam detto: quella unione dipende dall' unità del soggetto e dall' identità dell' essere conoscibile e dell' essere attivo (sentito). Ora, se la natura unisce questi due elementi, resta a vedere se coll' averli uniti, ella gli abbia resi idonei ad esser termini del giudizio. Per veder ciò, convien prendere la formola di un tal giudizio, e analizzarla nei suoi termini, e considerare se questi termini abbiano la detta idoneità. La formola possiamo enunciarla così: L' ente (di cui io ho notizia) è realizzato in questo sentimento (in quest' attività sentita). Pronunziata dentro me quell' affermazione, io già conosco l' ente reale, conosco che cosa è il sentimento, l' attività sentita, conosco cioè che è un ente: l' elemento dunque che mi era incognito prima di conchiudere l' affermazione, mi è cognito tostochè l' affermazione è chiusa. Dunque, sebbene il sentimento prima dell' unione coll' ente ideale mi fosse incognito e però non atto ancora a divenire uno dei termini del giudizio; tosto che la natura lo mise insieme e lo congiunse coll' ente ideale mediante l' affermazione spontanea, egli è divenuto cognito e quindi idoneo ad essere uno dei termini del giudizio. Se noi vogliamo chiamar soggetto il sentimento o sia la realità, s' intenderà la ragione per la quale abbiamo più volte detto che questa primitiva affermazione, questo primitivo giudizio produce il suo proprio soggetto. Dunque l' affermazione di un ente reale merita l' appellazione di giudizio quand' ella è formata e non prima. Ora la riflessione distingue il predicato ed il soggetto in un giudizio qualunque, analizzando il giudizio già formato, perocchè se non fosse formato, non potrebbe analizzarlo e scomporlo. Mediante questa analisi o scomposizione, colla quale si distingue il predicato dal soggetto, si giugne altresì a formare la definizione del giudizio, dicendo che il giudizio è l' unione logica di un predicato con un soggetto . Ora questa definizione è analitica, è l' opera della riflessione sopra l' affermazione. Perciò la qualificazione di giudizio che si dà ad una affermazione qualunque, è una qualificazione posteriore ad essa, non esprime la sua primitiva origine, ma esprime la sua natura quale apparisce all' analisi ed alla riflessione: queste concepiscono l' affermazione al loro modo, con certa modificazione che viene dalle leggi del loro operare; e questa modificazione è ciò che fa acquistare all' affermazione l' appellazion di giudizio. Ciò che qui diciamo si renderà ancor più chiaro, se si considera, che quando la riflessione, analizzando un giudizio qualunque, distingue in esso il predicato ed il soggetto, ella non separa veramente questi due termini d' infra loro, non li disunisce; perocchè disuniti che fossero, essi perderebbero la qualità di predicato e di soggetto, non sarebbero più termini del giudizio, il giudizio stesso sarebbe distrutto. La riflessione dunque non fa che distinguere i due termini, distinguerli mentalmente; ma sempre lasciandoli congiunti nel giudizio formato e conchiuso appieno; perocchè, solo restando così congiunti, si possono dire predicato e soggetto . E veramente, pigliamo a considerare un giudizio qualunque: per esempio: quest' essere che io veggo è un uomo . Che cosa questo giudizio mi fa conoscere? Che questo essere che io veggo è un uomo. Prima che io avessi pronunciato dentro di me un tal giudizio, io non sapevo che questo essere ch' io veggo, fosse un uomo, poichè il saperlo e il dirlo a me stesso è perfettamente il medesimo. Ebbene, ora analizziamo colla riflessione questo giudizio. Quest' essere è il soggetto, e un uomo è il predicato. Mi si dica: se io considerassi da una parte quest' essere , dall' altra l' uomo in separato, senza punto nè poco badare alla loro relazione, saprei io che quest' essere è il soggetto e che l' uomo è il predicato? No certamente, io nol saprei: quest' essere e l' uomo cesserebbero dall' essere i termini di un giudizio, cesserebbero affatto dall' esser predicato e soggetto. Come diventano dunque predicato e soggetto? Per mezzo del giudizio stesso. Il predicato e il soggetto adunque non esistono prima del giudizio; è il giudizio che li forma, e, dopo che il giudizio gli ha formati, la riflessione li trova nel giudizio. Applichiamo il medesimo ragionamento all' affermazione nostra: l' ente è realizzato in questo sentimento , ossia l' attività di questo sentimento è un ente . Analizzandola, dico che il sentimento è il soggetto, l' esistenza è il predicato: lo dico perchè nel giudizio vi è compresa tale notizia, è il giudizio stesso che me la dà. Ma certamente che se io prendo il sentimento fuori del giudizio, e così distruggo il giudizio, il sentimento non è più soggetto, perchè mi è del tutto incognito. L' obbiezione dunque che si fa, benchè speciosa in apparenza, è priva di valore, partendo dal falso supposto, che il soggetto come soggetto debba esistere prima che si faccia il giudizio, mentre anzi è il giudizio stesso che sempre lo produce. L' unica differenza che passa tra l' affermazione con cui si conoscono gli enti reali e gli altri giudizŒ tutti, si è che negli altri giudizŒ il predicato ed il soggetto, benchè prima del giudizio non siano conosciuti come predicato e come soggetto, pure sono conosciuti dalla mente in altro modo; laddove il soggetto sentimento prima dell' affermazione dell' ente reale non è conosciuto in modo alcuno. Ma questa differenza non fa che il giudizio primitivo sia di diversa natura da tutti gli altri giudizŒ; perocchè la cognizione che negli altri giudizŒ si ha di ciò che poscia diventa soggetto, non è già quella che produce la cognizione che ci apporta il giudizio, anzi su questa cognizione che ci dà il giudizio, niente affatto influisce. Mi spiegherò coll' esempio. Quando io giudico che l' ente che veggo è un uomo, qual è la cognizione che mi apporta questo giudizio? Ella è, che sia un uomo l' ente che veggo. Prima di giudicare mi è dunque affatto incognito che l' ente che veggo, sia un uomo. L' ente che veggo, non lo conosco affatto come uomo; lo conosco come ente veduto. Ora il conoscerlo semplicemente come ente veduto non ha a far niente col conoscerlo siccome uomo: di maniera che io potrei conoscerlo come ente veduto per migliaia d' anni senza mai conoscerlo come uomo: e così avverrebbe, poniamo, se io non avessi alcuna notizia dell' uomo. L' ente dunque da me veduto, benchè cognito sotto un aspetto, è cosa per me affatto incognita prima del giudizio relativamente al predicato uomo ; e però in ogni giudizio avviene che il soggetto come tale, cioè in relazione al predicato, sia incognito prima della formazion del giudizio: l' effetto di ogni giudizio è sempre quello di rendermi cognito ciò che è incognito: il soggetto dunque del giudizio come tale è sempre un incognito che si dee render cognito. Ma nell' affermazione degli enti reali la cognizione che si vuole acquistare, è la primitiva, innanzi alla quale non ve ne può essere un' altra. Quindi in questo giudizio accade che il soggetto considerato prima di formare il giudizio stesso, sia incognito non solo come soggetto e in relazione al predicato, ma ben anco sotto ogni altro rispetto, sia incognito del tutto; perocchè se in qualche modo si conoscesse, già non sarebbe più vero che la cognizione degli enti reali, che s' acquista coll' affermarli, fosse la prima di tutte le cognizioni reali, giacchè precederebbe ad essa quella certa cognizione di ciò che diviene poscia soggetto. Se dunque è vero che ogni giudizio produce una cognizione che prima in noi non era, e se è vero che le cognizioni discendono l' una dall' altra di maniera, che, riascendendo per la scala di esse, se ne dee trovare una prima, la quale non può essere altro che l' affermazione dell' esistenza, necessariamente consegue: 1 che i soggetti di tutti i giudizŒ sono sempre incogniti come soggetti, cioè in relazione al predicato, prima che sia formato il giudizio: 2 che, sebbene prima che sia formato il giudizio, i detti soggetti sieno incogniti come tali, tuttavia si può conoscere di essi qualche altra cosa: 3 che quest' altra cosa che si conosce di essi, è stata conosciuta anch' essa con un giudizio precedente: 4 che risalendo così al primo di tutti i giudizŒ, egli dee avere necessariamente un soggetto, di cui, prima di esso giudizio, non si conosceva nulla affatto, giacchè mancava un giudizio precedente che ce n' avesse potuto dare qualche notizia: 5 che il primo di tutti i giudizŒ è quello con cui conosciamo che esiste qualche ente reale; giacchè tutto ciò che possiamo mai conoscere di un ente reale, suppone sempre che noi prima conosciamo che egli esista: 6 che dunque l' affermazione prima dee formare un soggetto, che prima di essa sia affatto incognito per una legge comune a tutti i giudizŒ. Attesa questa proprietà dell' affermazione degli enti reali, noi abbiamo dato a questo giudizio il nome di sintesi primitiva , e la facoltà dello spirito umano che la forma, l' abbiamo chiamata ragione , la quale è quella forza unica dello spirito che unisce insieme l' essere e il sentimento, e poscia vi usa sopra la riflessione. Noi abbiamo detto che nella sintesi primitiva si può considerare il sentimento come soggetto e l' esistenza come predicato. Non di meno si potrebbe anche dire il contrario considerandosi l' essenza dell' essere come soggetto e la sua realizzazione come predicato. La ragione di questa convertibilità del soggetto e del predicato nella sintesi primitiva si è, perchè ella è un giudizio d' identità [23 7 2.], nel quale si fa un' equazione fra il sentimento e l' essenza dell' essere, mediante l' idea (la conoscibilità di questa). Da tutte le cose dette rimane spiegato che cosa sia la ragione , che cosa sia il lume della ragione , la forma che rende intelligente lo spirito , la facoltà di conoscere . Rimane dunque sciolta altresì la questione dell' origine delle idee. Vi ha un' idea primitiva, quella dell' essere. Con questa si formano i giudizŒ primitivi, si affermano gli esseri reali sentiti, e così si conoscono. I rapporti dell' idea dell' essere cogli enti reali sono i concetti, ossia le idee specifiche degli enti particolari. Su queste idee si esercita l' analisi, la riflessione, l' astrazione ecc., quindi gli astratti e i diversi enti di ragione. Chi vuol seguire la deduzione più divisata delle idee o concetti speciali e generali e di tutte le cognizioni umane, potrà ricorrere al « Nuovo saggio sull' origine delle idee , » e al « Rinnovamento della filosofia in Italia » ecc.. Nelle quali opere si svolge ed applica la teoria ideologica sovra esposta. LOGICA. - La logica è la scienza dell' arte di ragionare. Lo scopo del ragionamento è la certezza: e la certezza è una persuasione ferma, conforme alla verità conosciuta. La logica dunque ha due uffizŒ: dee difendere l' esistenza della verità in generale, e quindi l' efficacia del ragionamento; dee poscia insegnare ad usar il ragionamento in modo, che metta l' uomo in possesso della verità e gliene dia la persuasione, in una parola che gli produca la certezza. Queste sono le due parti della logica, difesa della verità, mezzi di giungere alla verità ed alla certezza. La verità è una qualità della cognizione. La cognizione è vera quando ciò che si conosce, è. Si consideri bene questa definizione della verità. Se la cosa che si conosce, è, ella è vera; dunque la verità si riduce all' essere della cosa che si conosce. L' essere dunque che si conosce, è la verità della cognizione. Ma la forma dell' intelligenza è l' essere , come c' insegna l' ideologia. Dunque la forma dell' intelligenza è la verità. La prima verità dunque è posseduta dallo spirito umano per natura. Questo argomento semplicissimo abbatte quella classe di scettici che negano ogni verità e quell' altra che, o ammettendo o lasciando in dubbio che esista qualche verità, pure negano all' uomo il possesso di ogni verità. Lo stesso argomento si può esporre in altre parole così: Se ciò che conosco, è, io conosco la verità. Ma per natura io intuisco l' essenza dell' essere. Ora l' essenza dell' essere non è altro che l' essere stesso, giacchè il dire essere esclude il non essere. L' essere dunque che io conosco per natura, è: dunque la mia cognizione prima è vera: possiedo una prima verità, poichè ciò che conosco, è. Qui si fa avanti l' idealista trascendentale, e ci dice: La vostra è un' illusione. A voi pare di sapere che cosa sia essere, ma forse nol sapete . Rispondo: L' obbiezione che mi fate, prova chiaramente, che voi non avete inteso la maniera colla quale io testè dimostrai che l' uomo possiede la prima verità; prova che non avete inteso che cosa sia la prima verità di cui si parla, poichè l' obbiezione che voi fate della possibilità di una illusione non cade affatto sulla prima verità. In fatti che cosa significa essere illuso? Significa parere una cosa che non è, o parere una cosa in un modo diverso da quello che è. Ora nè l' una nè l' altra di queste due illusioni può cadere sulla cognizione prima di cui parliamo; ma tutt' al più potranno cadere tali illusioni sulle cognizioni seconde che si vengono formando, per esempio, sulla affermazione degli esseri reali, il che esamineremo a suo tempo. E certo, in generale parlando, quand' io affermo un certo essere reale, non è impossibile la doppia illusione che si obbietta. Io posso cioè affermare un certo essere reale, e questo pure non essere, non sussistere. Posso affermare che un certo essere reale sia in un dato modo, e il medesimo essere in un altro modo. Ma niente di ciò ha luogo rispetto a quella cognizione per la quale io so che cosa sia essere senza più. Dimostriamolo relativamente alla prima illusione. Il sapere semplicemente che cosa è essere, senza aggiungervi alcuna determinazione, e il credere di saperlo, è la medesima cosa: credere di sapere che cosa è essere, è sapere che cosa è essere; e sapere che cosa è essere, è sapere la verità perchè l' essere essenzialmente è. In fatti, riteniamo che sapere che cosa è essere, è sapere la verità. Ciò posto, l' illusione che si oppone, si fa consistere in questo, che si creda forse di sapere, ma che non si sappia che cosa è essere. Ora si consideri bene che sapere che cosa è essere, è la semplice concezione dell' essere, non è affermazione di alcun essere sussistente. E considerato questo, si può egli mover dubbio, che la concezione dell' essere si abbia o non si abbia, senza averla questa concezione? Dubitare che ci sia la concezione dell' essere suppone per data la concezione dell' essere, di cui si dubita. Medesimamente, credere d' aver la concezione dell' essere suppone la concezione dell' essere che è l' oggetto a cui si riferisce quella credenza. L' illusione adunque che si obbietta non è possibile, giacchè non si può favellare della illusorietà della concezione dell' essere senza ammettere già questa concezione di cui si disputa. Tale è la natura delle semplici concezioni, che si hanno o non si hanno; e se non si hanno, non si può credere d' averle, poichè col credere d' averle già si hanno. Veniamo alla seconda illusione, e dimostriamo che neppur essa può cadere nella notizia prima dell' essere. « Voi » si dice « intuite l' essere, ma sapete voi d' intuirlo com' egli è? L' essere non potrebbe essere in un modo diverso da quello in cui vi apparisce? »Questa obbiezione suppone che l' essere abbia modi diversi. Ma per ciò stesso ella non può attaccare la prima intuizione, perocchè in questa prima intuizione l' essere è senza modi. Di nuovo, l' obbiezione adunque non può valere, se non applicata a quelle cognizioni, per le quali l' uomo conosce l' essere vestito di qualche modo particolare. Può allora darsi che l' uomo s' illuda, e che l' essere gli apparisca in un modo, quando in se stesso esiste in un altro modo. Se ciò sia possibile, e fin dove sia possibile, questo si dee esaminare quando si toglie a parlare della verità delle cognizioni speciali, che hanno per loro oggetto esseri determinati. Ma qui nel discorso presente si tratta dell' essere privo al tutto di modi, si tratta della pura e semplice essenza dell' essere stesso; le illusioni adunque che cader possono sui modi dell' essere qui rimangono del tutto escluse, sono impossibili. Per questo dissi in qualche luogo, che la verità evidente ed essenziale dell' essere luce nella sua universalità . Quest' universalità distrugge affatto lo scetticismo trascendentale, il quale suppone gratuitamente che l' intendimento umano abbia delle forme ristrettive e modali, mentre egli ha una sola forma universale, e priva affatto di modi che hanno la loro esistenza solo nel mondo reale. Risulta parimenti da ciò non solo gratuito, ma evidentemente falso e contradittorio, che l' essere nella sua universalità e semplicità sia una produzione soggettiva, cioè una produzione del soggetto uomo; che anzi l' uomo stesso non è che una ristretta, modale e contingente realizzazione dell' essenza dell' essere. Ed ecco che, dopo aver noi stabilito, che lo spirito umano sa che cosa è essere mediante l' osservazione , ignorando tuttavia che questa osservazione fosse un testimonio certo della verità; ora veniamo a giustificare e riconoscere valida l' osservazione, poichè avendo trovato che il risultato dell' osservazione è l' intuizione dell' ente, noi siamo giunti a tale da convincerci della veracità della stessa osservazione, poichè nell' ente intuito abbiamo trovato la luce evidente della verità che esclude ogni possibilità che in tale osservazione entri inganno, errore od illusione di sorte [11]. Le ragioni, colle quali abbiamo disciolte le obbiezioni scettiche degli idealisti trascendentali, e abbiamo provato, che la semplice concezione dell' essere non ci può al tutto ingannare, valgono medesimamente a provare che non può cadere errore di sorta nè meno nei concetti o idee speciali. Perocchè l' errore non potrebbe cadere che o nell' essere ch' esse ci mostrano o nei modi ne' quali ci mostrano l' essere limitato. Ma già vedemmo che nell' essere, se si prescinda dai modi, non ci ha possibilità alcuna d' errore; resta dunque a vedere se potesse avercene nei modi de' medesimi concetti. Or che cosa vuol dire esserci errore ne' modi dell' essere? Vuol dire apparirci un essere vestito di un modo, mentre in se stesso ne ha un altro. La possibilità dunque dell' errore nasce da questo, che un solo essere non può avere nello stesso tempo che un solo modo; onde se noi giudichiamo che ne abbia un altro, il modo che gli attribuiamo, non è; e perciò il nostro è un giudizio falso, un errore. Questa falsità di giudizio accade spesso negli esseri reali, i quali sono limitati ad un solo modo; per esempio, io posso giudicare falsamente che un dato ente sia un uomo mentre egli è una bestia ovvero un ceppo; erro, perchè gli attribuisco un modo non suo. Ma se non si tratta di esseri reali, ma dell' essere semplicemente ideale, la detta condizion dell' errore manca del tutto. Poichè l' essere ideale non è limitato ad un solo modo; ma egli ha potenzialmente tutti i modi, in tutti i modi può esser realizzato: quindi ogni modo che io concepisca dell' essere ideale, è immune da errore, perchè è un modo suo proprio. Questi modi dell' essere ideale sono i concetti, le idee specifiche e generiche: dunque tutte le idee specifiche e generiche sono affatto immuni da errore. Quindi giustamente gli antichi insegnarono che l' errore non può mai stare nell' idee, ma risiede nei giudizi; e che le notizie così dette di semplice intelligenza , sono scevre affatto da ogni errore. Per questo si dice ancora, che le idee sono le verità esemplari, e che le cose (gli enti reali) ricevono la loro verità dalla conformità che hanno colle idee. Se io giudico, a ragion d' esempio, che un dato ente reale è un cavallo, ed è un cavallo, si dice che è un cavallo vero , per dire che corrisponde a quell' idea di cavallo, a quel modo che io gli attribuisco e col quale lo giudico. Ma dicendo noi che nelle semplici idee non può cadere errore, non intendiamo di estender ciò anche alle relazioni delle idee , nelle quali può cadere certamente errore, perchè si affermano con un giudizio che può esser vero o falso. Così, a ragion d' esempio, io erro se giudico che un' idea è inchiusa in un' altra, quand' ella non è; che il due, poniamo, stia tre volte nette nel cinque, quando non vi sta che due e mezzo. Insomma non vi può essere errore, se non v' è giudizio: l' intuizione semplice non ammette errore. E tuttavia non consegue, che in ogni giudizio vi possa essere errore: v' ha anco de' giudizi, ne' quali l' errore è assolutamente impossibile. In fatti, trovato che nell' intuizione dell' essere, universale o speciale, non cade errore, io posso esprimere ciò in forma di giudizio, dicendo appunto non cade errore nelle idee : ho formato con ciò un giudizio immune da errore appunto perchè ciò che esprimo con esso è immune da errore. Allo stesso modo sono immuni da errore tutti que' giudizŒ che altro non esprimono, se non ciò che la mente intuisce; per esempio questi due: l' oggetto del conoscere è l' ente; l' essere e il non essere ad un tempo non è oggetto di cognizione . Queste proposizioni, questi giudizŒ altro non dicono se non ciò che mostra a noi l' intuizione dell' essere. Il primo equivale ad esprimere il fatto che l' essere è l' oggetto essenziale, la forma dell' intelligenza; il secondo altro non significa, se non che se l' essere, oggetto dell' intelligenza, mi è levato via, egli non può ad un tempo esser presente: è ancora la semplice intuizione dell' ente che si dichiara necessaria per conoscere. Quando ciò che si contiene nell' idea si pronunzia in forma di giudizio e s' esprime in una proposizione, allora l' idea, così espressa, prende nome di principio . L' idea è sempre universale in questo senso, che ella può essere realizzata (salve alcune eccezioni che qui si ommettono) più volte. L' idea dell' essere può realizzarsi in tutti i modi; le idee generiche, in molti modi, e così pure le idee specifiche astratte; se l' idea specifica non è astratta, ma piena, di maniera che contenga anche gli accidenti tutti dell' ente, ella può esser realizzata in un modo solo, ma in più individui (salve le dette eccezioni). Perciò le idee si dicono tutte universali . Quindi anche i principii sono giudizi universali, i quali si applicano a molti casi . Per esempio, il principio che dice: l' ente è l' oggetto del conoscere , si applica e si avvera non già in un solo atto del conoscere, ma in tutti affatto gli atti conoscitivi. Il principio di contraddizione: l' essere e il non essere ad un tempo non è oggetto di conoscere , esprime l' assurdo di tutte le proposizioni contradittorie. Assurdo vuol dire inettitudine della proposizione ad essere oggetto di conoscenza. I principii dunque non essendo che le idee intuite, il cui oggetto si pronunzia in forma di giudizio, sono immuni da errore altrettanto quanto le idee stesse. Ma se le idee e i principii dell' umano sapere sono superiori alla sfera dell' errore, che cosa è a dirsi della sintesi primitiva, colla quale si affermano le cose reali che a noi si comunicano nel sentimento? E` ella immune da errore la percezione delle cose reali, per la quale intendiamo appunto un' attività da noi sentita ed affermata come un ente? Nella percezione di un ente reale si debbono distinguere due cose: l' affermazione dell' ente, e l' affermazione del modo dell' ente determinato dal sentimento. Nell' affermazione dell' ente, prescindendo dal suo modo, non può cadere errore, appunto perchè non può cadere errore nell' essenza dell' ente da noi intuita. Affermare l' ente è affermare l' essenza intuita nella sua realizzazione: quest' essenza la conosciamo con evidenza senza possibilità di errore; dunque dobbiamo altresì riconoscerla senza errore, presentandosi ella a noi realizzata. Il modo poi dell' ente è determinato dal sentimento e non dalla nostra intelligenza. Ora è da osservarsi attentamente, che il bambino nelle sue prime percezioni, non afferma già il modo dell' ente, ma si accontenta di affermar l' ente, lasciando che il sentimento lo determini senza occuparsi a misurare questo sentimento, senza dargli un' attenzione intellettiva, senza affermarne i limiti, la forma, le differenze. Non pronunziando dunque nulla sul sentimento che costituisce la realità dell' essere, ma prendendolo solo per una realizzazione modale dell' essere senza più, qualunque ella sia, l' uomo non s' espone a pericolo di alcun errore. Tali percezioni adunque fatte dal bambino o da chicchessia, nelle quali il sentimento non si prende se non come la realizzazione dell' essere senza fermar l' attenzione al suo modo e a' suoi limiti, son tali, che l' errore ne è affatto escluso. Il giudizio adunque che afferma l' esistenza degli esseri reali è immune da errore. Rimane a vedere se sia immune da errore il giudizio che afferma il modo determinato degli esseri reali, cioè che afferma in conseguenza di un dato sentimento che sussista piuttosto un essere che un altro. Si dirà, che l' essenza dell' ente viene da noi aggiunta al sentimento per poterlo affermare e conoscere come ente, e però noi conosciamo nel sentimento ciò che in esso non vi è. Ma si osservi che quest' obbiezione sarebbe assai forte quando fosse vero che noi affermassimo che il sentimento stesso fosse l' essenza dell' ente. Ma noi non facciamo già questo: aggiungiamo bensì l' essenza dell' ente all' attività sentita, per renderla un ente percettibile e conoscibile; ma sappiamo nello stesso tempo, che l' attività sentita da se sola non è l' essenza dell' ente, ma è una sua realizzazione contingente, un suo modo, il termine della sua azione: sicchè l' essenza dell' ente che gli aggiungiamo, non è altro che il mezzo di conoscerla; perocchè l' attività sentita non è conoscibile se non veduta nell' ente. Allo stesso modo, cioè in un modo simile benchè non uguale, noi non possiamo percepire l' accidente senza percepirlo nella sostanza , e tuttavia non c' inganniamo, perchè sappiamo bene che l' accidente non è la sostanza che a lui pure aggiungiamo in percependolo. Dall' istante, che abbiamo detto, che l' attività sentita è l' essere realizzato, egli è chiaro, che in quel modo che è l' attività sentita, in quel modo stesso è realizzato l' essere. Dunque, qualora si verifichi che io, col mio giudizio sul modo dell' essere, altro non fo che pronunciare ed affermare quell' attività che veramente sento nè più nè meno, in tal caso il mio giudizio non può che esser vero. Qui dunque ho trovata la condizione, adempiuta la quale non posso ingannarmi, nè anche nel giudizio che porto circa il modo dell' essere percepito: la condizione si è, che io non affermi altro, se non quello che sento nè più nè meno. Rimane a vedere se questa condizione si avveri sempre necessariamente in tali miei giudizŒ; o per lo contrario non si possa mai avverare; o finalmente se si possa bensì sempre avverare, ma non sempre si avveri. Nel primo caso il mio giudizio sarebbe necessariamente vero: nel secondo sarebbe necessariamente falso: nel terzo potrebbe sempre esser vero se io voglio, se io procedo colle necessarie cautele; ma potrebbe anche esser falso, se io non voglio o procedo incautamente. Ora è manifesto che io non sono necessitato a dir sempre a me stesso precisamente quel che sento. Posso mentire a me stesso; posso dire di sentir più o di sentir meno, di sentire in un modo o di sentire in un altro. Posso prendere un sentimento per un altro, un' immagine, a ragion d' esempio, per una sensione esterna; posso dunque ingannarmi. Ma egli è ancor manifesto che non sono necessitato ad ingannarmi. Chi mi costringe a dire quel che non sento, o a dire di sentir più o di sentir meno o in altro modo da quel che sento? Anzi, se non avessi sperimentato mai che un solo sentimento, mi sarebbe impossibile di fingermene un altro, o di alterarmelo a volontà. Dunque in me vi è la facoltà di affermare il sentimento tale quale lo provo; questa è la facoltà naturale. Se io m' inganno adunque, è perchè non uso della facoltà naturale, ma mi servo anzi di un' altra a turbare e confondere quella. E io posso provare di avere la facoltà naturale di attestare a me stesso nè più nè meno quello che sento, considerando che questa facoltà non è poi ancora che un nuovo uso, un' altra funzione della facoltà che ho detto infallibile, di affermare l' essere senza i suoi modi. Poichè affermare l' essere è riconoscere l' identità fra il sentimento e l' essenza dell' essere: ora, poichè in tutte le attività anche minime del sentimento è realizzato l' essere, dunque posso affermarlo in tutte con infallibil certezza. Ma affermare l' essere in tutte le attività anche minime del sentimento è lo stesso che affermare tutto intero il modo del sentimento nè più nè meno. Dunque non mi manca la facoltà naturale di affermare con sicurezza anche il modo dell' essere, anzi questa facoltà è infallibile, e se m' inganno, il mio errore dee procedere non da questa facoltà, ma da un' altra che ad essa io sostituisco, e che per ora chiamerò semplicemente la facoltà dell' errore . Esclusi dunque i due estremi della verità necessaria e dell' error necessario nel giudizio che io fo intorno al modo dell' essere da me percepito, rimane che qui trattisi di un errore possibile a sfuggirsi, ma possibile anche ad incorrersi. Si può dunque un tale errore evitar sempre? Sì, noi diciamo, purchè vogliamo ed usiamo le cautele a ciò necessarie: ma prima di parlare di queste cautele, facciamo un' osservazione. L' errore di cui qui parliamo, non cade propriamente sulla percezione dell' ente reale. La percezione dell' ente reale è fatta, tostochè noi all' occasione del sentimento l' abbiamo affermato. Sopravviene la riflessione sopra l' ente percepito, che vuol determinare, vuol pronunziare il modo preciso, l' estensione precisa dell' ente percepito: al che fare, oltre portare l' attenzione sul sentimento e su tutte le sue parti, è uopo ricorrere altresì al confronto con altri sentimenti, con altri esseri. La percezione dunque degli enti reali è infallibile; l' errore comincia solo colla riflessione sulla percezione , e s' apre tanto maggior campo all' errore, tanta maggior facilità di errare, quant' è maggiore la riflessione, più elevata, più complicata. Dicevo, che per determinare da noi stessi il modo e la quantità del sentimento, non basta l' osservazione accurata sul medesimo, ma è necessario ricorrere a confronti con altri sentimenti, con esseri altre volte percepiti. La ragione si è, che i giudizŒ che trattano di misura , non cadono mai sulla misura assoluta, ma sempre sulle misure relative. Se l' uomo non percepisse che una data quantità, e non n' avesse un' altra a cui confrontarla, egli non pronuncierebbe su di essa giudizio alcuno, non inventerebbe neppure il vocabolo di quantità per nominarla. Laonde, se si prescinde interamente dalla riflessione che tende a misurare il sentimento mediante confronti, può benissimo concepirsi un' osservazione o attenzione intellettiva portata sul sentimento; ma tale, che non pronunzia niente in separato dalla percezione, e che è tanto infallibile quanto la percezione stessa di cui è parte, onde la percezione può avere due forme che, se vogliamo esprimere con parole, potremo così enunciare: « percezione che pronunzia l' esistenza di un essere reale determinato dal sentimento senza più »; e « percezione che pronunzia la presenza di un essere reale e il sentimento che lo determina senza riferirlo a niun altro sentimento. » L' aver dimostrato, che l' uomo ha una facoltà infallibile della percezione, è bastante contro gli scettici. Quanto poi all' ordine della riflessione, dove l' errore è possibile, posciachè la riflessione è verace o mendace secondo la maniera onde se ne fa uso, perciò appunto fu inventata la Logica, acciocchè ella insegni tal maniera di far uso della riflessione, che ci conduca alla verità, e ci additi come conoscere ed evitare l' errore. Se ben si considera, l' errore è sempre arbitrario, e quindi non è mai il prodotto delle semplici facoltà di conoscere. La riflessione stessa non produce l' errore per sè, ma perchè le si fa dire quello che ella non dice. E veramente la riflessione ha per suo primo oggetto le percezioni, le quali, come vedemmo, non ammettono errore. Questa prima riflessione altro non fa se non dire ciò che si contiene in una o più percezioni; quindi le analizza e le compone: ma se la riflessione dicesse che nella percezione v' è quel che non v' è, in tal caso non sarebbe, propriamente parlando, riflessione, perchè non rifletterebbe sulle percezioni; sarebbe un' altra potenza, che simulerebbe la riflessione; vi avrebbe un mentitore, che direbbe che la riflessione dice quel che non dice. Questo mentitore è certamente l' uomo stesso: egli ha la facoltà di affermare a se stesso ciò che la ragione non gli dice. Questa è la facoltà della persuasione , che si dee distinguere affatto dalla facoltà del ragionamento . Il ragionamento è e debb' essere mezzo di persuasione. Ma la persuasione si forma anche senza ragionamento: si forma una persuasione nel seno dell' uomo che vi sia un ragionamento quando non c' è, che il ragionamento dica una cosa quando non la dice: l' uomo si persuade, dà il suo assenso, giudica non sempre mosso dalla ragione, ma talora dall' istinto, dall' abitudine, dal pregiudizio, dall' affezione, dalla passione. Quindi l' errore s' intromette nell' essere ragionevole, non perchè egli sia ragionevole; chè se fosse solamente ragionevole, non potrebbe mai prendere errore; ma perchè, oltr' essere ragionevole, egli ha altresì la facoltà di giudicare ad arbitrio. Per questo si dice, che la natura dell' errore è di essere volontario. Non avviene tuttavia da questo che l' errore sia sempre peccaminoso o colpevole; ma egli ritiene di quella condizione morale che hanno le cause che lo hanno prodotto. Alla logica appartiene enumerare le cause occasionali ed incentive dell' errore, ed insegnare ad evitarle. Egli è qui chiaro, che per evitare gli errori colpevoli convien ricorrere a rimedŒ morali, convien sanare la volontà disordinata che influisce sulla facoltà della persuasione, traviandola ai suoi colpevoli fini. Le cause fisiche dell' errore, come i morbosi istinti, l' alterazione dell' immaginativa ecc. debbono levarsi con rimedŒ fisici. Se l' errore proviene finalmente da precipitazione ed imprudenza, conviene opporvi de' mezzi prudenziali, delle regole logiche precisamente espresse. La logica non si contenta d' indicare le diverse maniere di rimovere la causa degli errori, ma ella insegna altresì a riconoscerli quando sono già formati e ad emendarli. I sintomi degli errori sono moltissimi. Una specie di questi sintomi si riscontra nella forma verbale dei ragionamenti; e quella parte di logica che addita questa specie di sintomi degli errori, è quella che si chiama sofistica . Ma torniamo alla percezione, che è il solido fondamento di tutto quello scibile che riguarda gli enti reali. Basta qualsivoglia attività sentita acciocchè lo spirito intelligente affermi che sussiste un ente reale. Attività (sentita) e realità è il medesimo: è una forma dell' essere, non è l' essere, il quale vi si aggiunge nella percezione. Le prime attività da noi sentite, dalle quali si suscita la nostra facoltà di giudicare e di affermare la sussistenza di alcuni enti, sono le sensioni corporee. Se noi analizziamo queste sensioni, troviamo in ciascuna di esse tre attività: 1 l' attività che ci modifica senza nostro volere, verso cui noi siamo passivi: 2 la sensione che è l' effetto di quella attività che ci modifica: e 3 noi stessi che siamo modificati. Tuttavia l' attenzione nostra intellettiva non si porta da prima egualmente sopra queste tre attività, ma innanzi tratto su quella che ci modifica, e ad essa si ferma: perciò noi affermiamo prima di tutto i corpi esterni. Quando noi affermiamo i corpi esterni, nella nostra sensione v' ha certamente di più dei corpi esterni, cioè dell' agente che ci modifica; ma noi non ci badiamo. Si deve qui osservare la legge dell' attenzione dello spirito. L' attenzione intellettiva è la forza che dirige ed applica il nostro intendimento, ed ha per suo carattere di poterlo applicare a quell' oggetto che vuole, restringerlo a un solo oggetto, ad una sola parte del sentimento, affermare un oggetto solo alla volta, trascurando tutti gli altri. Non è però a credere, che l' attenzione nell' applicare e concentrare l' intendimento nostro in una sfera più o meno ristretta proceda a caso: ella segue certe leggi costanti, che le vengono imposte in gran parte dalla natura dell' essere; ma non è qui luogo di esporre queste leggi. E` bensì importante ritenere, che per questa proprietà dell' attenzione accade, che la percezione si ristringa ad un solo oggetto, quantunque molti altri possano essere con quello connessi anche necessariamente. Il nesso necessario di due oggetti fra loro non entra nella percezione, e neppure in quel concetto dell' essere che immediatamente si cava dalla percezione. Così quando l' uomo afferma un corpo esterno e quindi lo percepisce, è del tutto falso che colla stessa percezione affermi se stesso, come è falso del pari che la percezione de' corpi esterni debba necessariamente aver seco congiunta la percezione di se stesso. E` dunque un sofisma quello di Fichte che l' uomo percepisca l' io e il non io contemporaneamente e con un solo atto. Onde provenne l' errore di Fichte? Dal non aver egli ben distinto ciò che accade nel sentimento , e ciò che accade nella percezione intellettiva . E` vero verissimo, che nella nostra sensione non vi ha solo l' agente esterno (il mondo esterno), ma ci siamo anche noi stessi che veniamo modificati e limitati: tale è la natura del sentimento corporeo, sempre duplice, risultante dal senziente e dal sentito. Ma altra è la natura del sentimento, ed altra quella della percezione intellettiva. Sebbene nel sentimento concorrano due enti, tuttavia la percezione si restringe ad un solo alla volta, ed è per questo che ella distingue l' uno dall' altro: la percezione termina in ciò che afferma: quando afferma il mondo esterno, termina in esso; se non terminasse in esso, lo confonderebbe con noi stessi, e non lo separerebbe, come lo separa. Dico lo separa , non dico lo distingue : poichè per separarlo basta percepire lui stesso e nulla più; per distinguerlo da noi si dovrebbe negare noi, e quindi aver percepito noi, giacchè non si può negare ciò che non si conosce. E fu appunto l' abuso della parola distinguere che rese specioso il sofisma di Fichte. All' incontro quando si percepisce una cosa sola, ignorando affatto tutte le altre, ella è già separata da tutte le altre senza bisogno che noi positivamente le neghiamo, e da essa le distinguiamo. L' errore di Fichte nacque adunque dall' aver confuso il sentimento colla percezione sensitiva: è ancora un errore dovuto al sensismo. La natura della percezione ben considerata rovescia parimenti il principio di Schelling, che fu rimpastato e riprodotto anche poco fa. Schelling ammise il doppio oggetto della percezione di Fichte, e gliene aggiunse un terzo. L' oggetto della percezione di Fichte, benchè duplice, era finito. Schelling disse che non si potea percepire il finito senza l' infinito , a cui quello si riferiva. Or come Fichte attribuì alla percezione intellettiva ciò che è proprio solo del sentimento ; così Schelling attribuì alla percezione intellettiva ciò che è proprio solo del ragionamento : nè l' uno nè l' altro filosofo conobbe la natura della percezione , la quale si è di limitarsi ad un solo oggetto, senza esser necessitata a distendersi agli oggetti connessi con quello. La percezione termina nell' oggetto finito senza pure considerare che egli sia finito, e che quindi addimandi, per esistere, d' un infinito; termina in esso, senza punto nè poco considerare che sia un effetto, e senza conchiudere ch' egli quindi non può esistere senza una causa: lo considera per un ente, vi aggiunge l' essenza dell' ente senza punto considerare che non sarebbe, diviso dall' essenza dell' ente. Tutte queste sono riflessioni posteriori, sono ragionamenti, che hanno per oggetto la percezione, ma che non sono la stessa percezione. Rimane bensì a vedere, perchè, quantunque nella percezione s' apprenda un oggetto in separato da tutti gli altri, tuttavia poscia il ragionamento conosca che quel dato oggetto, quel reale non può sussistere da se solo, e se è finito, è condizionato necessariamente ad un infinito, se è contingente, ad un necessario che gli sia causa ecc.. Questo avviene perchè la riflessione rivolgendosi sull' oggetto percepito , lo paragona all' essenza dell' essere che è il lume della mente, e a questo paragone tosto conosce, che in quell' ente non è realizzata appieno l' essenza dell' essere; quindi conosce altresì, che il suo sussistere è condizionato ad un altro essere maggiore. Risulta da tutto ciò, che l' ultimo filosofo tedesco di cui abbiam parlato, travide qualche cosa di vero senza poterlo significare con precisione. Si acc“rse, che la mente umana dovea aver presente fin da principio di tutti i suoi ragionari qualche cosa di pieno, di completo, di universale, a cui come a tipo riportasse ciò che è modale, incompleto, relativo; perocchè altrimenti sarebbe stato inesplicabile come l' uomo si fosse accorto che il mondo, a ragion d' esempio, sia contingente, e che domandi una causa, che sia finito, cioè discosto immensamente dall' infinito ecc.. Certo, per conoscere tutto ciò, doveva esistere nella mente umana il tipo perfetto dell' essere che presiedesse a tutti questi giudizŒ. Ma il filosofo tedesco non ha poi saputo distinguere l' intuizione dalla percezione , il modo ideale dell' essere dal modo reale , l' essenza dell' essere dalla sua realizzazione , la ragione della sussistenza dalla sussistenza medesima , ciò che ha l' essere perchè la percezione gliel dà, da ciò che è l' essere . Attribuì dunque alla percezione ciò che appartiene all' intuizione , ossia al confronto del percepito coll' intuìto , confronto che è opera del ragionamento. Conchiuse che lo spirito umano percepiva naturalmente l' assoluto , quando solamente intuiva la ragione assoluta , l' essere ideale. E posciachè nella percezione si hanno gli enti distinti, poichè la distinzione limitante appartiene all' ordine delle realità, perciò volle che nella percezione da lui supposta primitiva e naturale si trovassero già distinti l' io il non io , e l' assoluto essere; laddove nell' essere ideale nulla è distinto, non cade alcuna limitazione, alcun modo: egli è l' essere in una sola forma illimitata. Eppure quest' essere ideale basta alla mente, non solo perchè le si renda possibile la percezione delle cose particolari, ma ben anco per dar le ali al ragionamento, col quale conosca i limiti degli oggetti della percezione e la necessità dell' illimitato e dell' assoluto. Ma noi dobbiamo chiarir meglio le leggi della percezione e del ragionamento, e giustificarle in modo che riescano sufficientemente difese contro alle obbiezioni degli scettici. Cominciamo dalla percezione dei corpi esterni. Quando noi proviamo una sensione che non avevamo prima, la nostra attenzione intellettiva si porta sull' agente, sulla forza che ci modifica. Egli è certo in fatti, che sentiamo in noi stessi una forza la quale non siamo noi: anzi ella è opposta a noi. Noi siamo passivi, ella è attiva. Intanto si osservi qui, che questo fatto basta perchè noi possiamo affermare che esiste un ente, senza che perciò diciamo che quest' ente sia noi. Noi siamo ancora incogniti a noi stessi. E se questo non si vuole ammettere, si prenda pure per una mera supposizione. Dico che, anche supposto che l' attenzione nostra intellettiva non si fermi, non si porti punto sopra noi stessi, ma si concentri nell' agente che opera nel nostro sentimento, noi affermeremo che quell' agente è un ente reale e non lo confonderemo perciò con noi, poichè, quantunque abbiamo il sentimento di noi stessi, tuttavia su questo sentimento, secondo la supposizione fatta, non posiamo la nostra attenzione. Dunque supporre il contrario non è necessario. Or questa natura della percezione limitata sempre ad un solo ente, che perciò appunto non resta mai confuso cogli altri perchè è solo, basta a spiegare come noi conosciamo il mondo corporeo. Le difficoltà che mossero gl' idealisti, nascevano tutte dal considerare i corpi fuori della percezione; nascevano dal non conoscere la natura della percezione, e dall' averne trascurata l' analisi. Certo che se si considera il mondo senza relazione alcuna alla percezione, non potremo saper che esista, perchè è tolto via (mi servirò d' una celebre frase) il ponte di comunicazione fra noi e lui. Questo ponte di comunicazione è la percezione. La percezione ben meditata ed analizzata ci somministra altresì una verità ontologica della più alta importanza, affatto sconosciuta ai sensisti; la quale si è, che un ente entra in un altro colla sua azione, che gli enti in quanto sono agenti, possono benissimo inesistere l' uno nell' altro senza mescolarsi e confondersi insieme, rimanendo essi al tutto distinti, mediante i rapporti contrarŒ d' azione e di passione. Nella percezione dei corpi sentiamo un agente che non siamo noi, e verso il quale noi siamo passivi. Quest' è il fondamento della dimostrazione dell' esistenza d' un essere esteso, il quale non è noi, cioè del corpo. Viene poi un tempo, in cui noi percepiamo anche noi stessi. Io sono persuaso che, sebbene il sentimento ci accompagni sempre, tuttavia noi non abbiamo la percezione intellettiva di noi stessi se non dopo la percezione intellettiva dei corpi. Ma checchessia del tempo in cui ci formiamo la percezione intellettiva di noi stessi, ciò che è importante per la filosofia, si è il ben intendere, che la percezione di noi stessi è una percezione diversa da quella de' corpi; appunto perchè noi stessi siamo diversi dai corpi; una percezione non è l' altra, altrettanto quanto un ente non è l' altro; nè la percezione di un ente ha bisogno per esser tale di negare positivamente gli altri enti, ma solo di affermare l' ente che costituisce il suo oggetto, il quale esclude gli altri per natura, cioè perchè egli non è gli altri, senza bisogno che lo spirito umano si affatichi egli con una negazione ad escluderli. Vero è che noi, dopo che abbiamo percepito il mondo corporeo e noi stessi, possiamo riflettere su queste due percezioni, paragonare fra loro i due enti percepiti, e rilevarne i rapporti. Il paragone non si potrebbe fare se noi non avessimo presente allo spirito l' ente universale, che è la misura di tutti gli enti. Riferendo l' ente reale particolare, limitato, all' essenza dell' ente (sua ragione e principio), noi intendiamo ch' esso non è una realizzazione completa di questa; e riferendo alla medesima altri enti reali particolari, limitati, intendiamo se essi siano una realizzazione d' ugual modo e quantità della precedente, o di modo e di quantità diversa. Se un secondo ente che noi riferiamo all' essenza dell' ente, è una realizzazione uguale di modo e di quantità, lo diciamo ente della medesima specie. Quantunque però fosse uguale in tutto al precedente, tuttavia possiamo accorgerci che egli è un individuo diverso, dall' essere egli oggetto d' un' altra percezione contemporanea alla prima, principio della discernibilità degl' individui . Se fosse oggetto della medesima identica percezione, non sarebbero due individui, ma un solo. Noi conosciamo adunque il numero delle percezioni contemporanee, quando in tutto il resto gli enti individuali sieno affatto uguali (supposizione logicamente possibile): e ciò perchè noi in tal caso possiamo riferire all' ente universale i due o più individui contemporaneamente, al qual lume veggiamo che la realizzazione di due è più che la realizzazione di uno. Così si originano le idee de' numeri , riferendo all' essere ideale più enti contemporaneamente; ben inteso che sopravviene poi l' astrazione (attenzione riflessa limitata a certi elementi osservabili dell' ente), la quale cava i numeri puri . Ma se due enti percepiti si riconoscono differenti non solo perchè si percepiscono con diverse percezioni contemporanee, ma ben anco perchè hanno qualche diversità fra loro o nel modo o nella quantità della loro realizzazione, in tal caso si riconoscono differenti di specie, o, se la specie è la medesima, differenti per qualche diversità accidentale. Il modo diverso della realizzazione costituisce la diversità di specie: la quantità o anche l' attualità diversa è cagione di differenze accidentali. Quando adunque noi riferiamo all' essere universale la percezione dei corpi e di noi stessi, e quindi paragoniamo gli oggetti delle due percezioni, allora troviamo i rapporti di limitazione scambievole fra l' uno e l' altro, e il nostro spirito aggiunge le negazioni e le distinzioni. Allora il mondo corporeo si potrà chiamare un non7io (benchè il concetto dell' io è molto più complicato; ma non vogliamo qui entrare a spiegarne minutamente la formazione); allora si potrà dire, che l' io e il non7io si limitano scambievolmente, e insieme colla percezione dell' io negheremo il corpo, insieme colla percezione del corpo negheremo l' io. Sarà poi necessario, che sopravvenga una riflessione, qualora dal finito intenderemo di argomentare all' infinito. Converrà, che l' attenzione della mente non si fermi più a ciò che hanno di proprio l' io e il non7io; ma piuttosto che consideri ciò che hanno di comune, cioè la limitazione, e dal pensiero del limitato, del contingente ecc. ascenda all' illimitato, al necessario ecc.. Dunque per ascendere al pensiero dell' illimitato, del necessario, dell' assoluto, io non ho bisogno delle due percezioni, ma posso ascendervi ugualmente partendo da ciascuna di esse; perchè ciascuna è limitata, ciascuna contingente, ciascuna relativa. Dunque quell' atto della mente con cui ascendo all' infinito, non è la prima percezione; neppure è quella riflessione con cui paragono la percezione dell' io alla percezione del non7io; ma è una riflessione con cui dai limiti dell' io, o dai limiti del non7io mi slancio ugualmente nell' infinito. Le relazioni adunque degli enti percepiti si conoscono colla riflessione , riferendoli all' ente universale, e avvertendo quanto alla sua pienezza s' accostano, e quanto dalla sua pienezza si discostano. Così è discoperto il fonte di tutti i ragionamenti e il principio supremo sul quale essi si fondano. Se noi vogliamo formolare questo principio, esso si ridurrà al seguente: « Conoscendo lo spirito umano l' essenza dell' ente, egli afferma l' ente nel sentimento; e poscia paragonando e riferendo l' ente affermato all' essenza dell' ente, conosce le sue condizioni, i suoi limiti, le sue relazioni: e quindi mediante nuove riflessioni, riferendo medesimamente all' essenza dell' ente le cognizioni avute, ne cava sempre di nuove. » Fermiamoci a considerare le condizioni degli enti percepiti. Le condizioni alle quali sussistono gli enti reali, sono di due maniere: quelle che cadono nella percezione , e quelle che si rilevano col ragionamento . Per condizioni che cadono nella percezione intendo quelle che rendono l' ente reale atto ad essere percepito. A queste condizioni appartiene il principio di sostanza , che ora noi dobbiamo spiegare. Vedemmo, che in ogni sensione corporea da noi acquistata cadono tre attività: 1 l' attività che ci modifica, 2 la modificazione nostra, e 3 noi stessi modificati. La prima attività è l' oggetto della percezione del corpo: la terza attività è l' oggetto della percezione di noi stessi: riman dunque a considerarsi la seconda attività, la modificazione nostra, che è la sensione medesima. La sensione o modificazion di noi stessi è certo quella che stimola la nostra attenzione intellettiva a percepire i corpi e noi stessi. Ma pure la sensione nostra non è il corpo che la produce. Neppure ella è noi stessi. Che cosa è dunque? La percepiamo noi? Se noi ne consideriamo la natura, ben veggiamo che ella è un atto passivo del nostro sentimento; e che noi stessi siamo un sentimento suscettibile di varie modificazioni. Noi veggiamo ancora, che questa modificazione di noi7sentimento è prodotta dall' azione d' un agente esterno. Ma tutte queste cognizioni intorno alla sensione noi le abbiamo ora per via di riflessione : non cade ella dunque nella percezione? Anche qui è da esaminarsi il fatto per non inventare a capriccio, ossia fingerci la natura delle cose. Ora il fatto ci dice, ch' ella non ci cade e non ci può cader sola . E veramente che cosa è la percezione se non l' affermazione di un ente reale? Ora la sensione sola è ella forse un ente? No certo. Ella non è se non una certa attualità passiva o qualità di un ente. Quindi è, che in occasione delle sensioni noi non percepiamo giammai la sensione sola; percepiamo noi stessi che siamo un ente, e solo unitamente a noi percepiamo la sensione come una modificazione di noi stessi. Quindi si può sciogliere la questione non poco difficile che movono i filosofi; se la percezione degli enti si faccia immediatamente, o per via di ragionamento . La risposta che noi diamo si è, che la percezione degli enti si fa immediatamente, cioè mediante un semplice giudizio , senza ragionamento alcuno. Ma dopo di ciò noi diciamo, che la nostra riflessione che sopravviene, scioglie la percezione in un ragionamento che è creato dalla riflessione stessa, e che non entra a dir vero nella percezione, ma che fa sì, che noi ci persuadiamo, essersi operato un secreto ragionamento nell' atto del percepire, benchè veramente ciò non sia. Il ragionamento nel quale la riflessione traduce la percezione di noi stessi, si è il seguente: Quando lo spirito umano riceve una sensione, tosto s' accorge che v' ha una realità. Ma la realità è sempre un' entità che dee appartenere ad un ente. Ora la mera realità della sensione non è ella stessa un ente. Dunque se v' è questa realità che non può appartenere che ad un ente, ed ella stessa non è un ente, necessariamente dee sussistere un ente a cui essa appartenga, di cui sia un' attualità. Dunque sussiste l' ente. Tale è il ragionamento che sembra formarsi in ogni percezione; ma propriamente parlando esso non è che l' opera della riflessione, che vi pone del suo senza accorgersi. In fatti la percezione è affermazione di un ente. Dunque non v' è percezione se non quando lo spirito ha detto a se stesso che v' ha un ente, ha proferita l' ultima delle proposizioni dell' esposto ragionamento: sussiste l' ente. Le precedenti proposizioni sarebbero adunque precedenti alla percezione. Ma avanti la percezione non si dà ragionamento alcuno; poichè il pensare umano intorno alle realità comincia colla percezione. Dunque l' accennato ragionamento non appartiene propriamente alla percezione, ma è l' opera della riflessione. Come adunque accade la percezione? forse alla cieca? No certamente; anzi in piena luce: tostochè l' uomo sente modificato se stesso, pronunzia l' esistenza di se stesso, perchè altro egli non può pronunziare che l' esistenza di un ente: la prima cosa che vede lo spirito umano, data la sensione, è l' ente in cui sta la sensione, l' ente modificato: prima di percepir l' ente, la sensione non è che sentimento: dato questo sentimento, l' uomo afferma direttamente il suo principio del sentimento, inseparabile dal sentimento, e così inseparabile, che il sentimento non può essere conosciuto come non può esistere senza di lui, che è l' ente nel quale è. Il sentimento adunque move lo spirito umano ad affermare, non il sentimento solo, ma l' essere in cui è il sentimento , e a percepire quindi l' ente e il sentimento nell' ente contemporaneamente. Questa necessità di percepire intellettivamente la sensione nell' ente senziente, e non la sensione sola, formolata in un principio generale, dicesi principio di sostanza , e può esprimersi così: Ogniqualvolta il sentimento è una realità che non costituisce da se sola un ente percettibile, la percezione intellettiva non si limita a quella realità, ma afferma l' ente a cui quella realità appartiene . La realità che non costituisce da se sola un ente percepibile, dicesi accidente; l' ente a cui quella realità appartiene, dicesi rispettivamente sostanza , in quanto è il sostegno prossimo dell' accidente, cioè ciò in cui si conosce e si afferma sussistere l' accidente. Prima di proceder oltre, rispondiamo ad una difficoltà accessoria, che qui può nascere ragionevolmente nella mente del lettore. Questi dirà: voi avete supposto che, date le sensioni, l' uomo percepisca se stesso e le sensioni sue come modificazioni di se stesso. Ma il fatto non va così. Il bambino alle prime sensazioni che riceve, percepisce i corpi piuttosto che se stesso; e le sue stesse sensioni egli attribuisce ai corpi, onde crede che i corpi sieno colorati, saporosi, sonori ecc.. Tale è certamente, rispondo io, il fatto del bambino; e questo stesso è riprova che nel bambino la percezione de' corpi, come ho già detto, precede la percezione di se stesso; ma il principio di sostanza rimane inconcusso. Appunto perchè il bambino non ha ancora la percezion di se stesso, egli è condotto dalla legge del suo intendimento, che ubbidisce al principio di sostanza, ad attribuire a' corpi le sue proprie sensioni; poichè in virtù di questo principio, egli non può percepire le sensioni senza attribuirle ad un ente. Non potendo adunque attribuirle a se stesso, perchè non si è ancor percepito, le attribuisce ai corpi, all' agente straniero, a questo agente che opera in lui e di cui percepisce la forza, l' attività, colà appunto dove sente, nelle stesse sue sensioni, le quali perciò difficilissimamente si posson dividere dall' agente che le produce, richiedendosi a ciò la più attenta riflessione. Si replicherà: dunque il principio di sostanza è fallace, inducendo l' uomo ad attribuire ai corpi come loro accidenti le sue proprie sensioni. Ma la cosa non va così: non è il principio di sostanza che induca l' uomo ad attribuire piuttosto ai corpi che a se stesso le sensioni. Questo principio obbliga solamente l' uomo ad affermare una sostanza, quando egli ha il sentimento degli accidenti, ma non ad affermare una sostanza piuttosto che un' altra. Tocca dunque all' uomo a mettersi in guardia, che la sostanza che afferma, sia quella propria degli accidenti. E se l' uomo commette errore, egli può correggerlo, perchè n' ha la facoltà. Così noi con un' attenta riflessione veniamo a conoscere più tardi, che le sensioni sono accidenti nostri e non accidenti de' corpi, benchè queste sensioni siano da noi sentite insieme e nello stesso luogo dei corpi, in quanto questi corpi sono agenti nel nostro sentimento, che è finalmente il solo concetto che di essi abbiamo. Or basta che noi abbiamo la facoltà di correggere gli errori nei quali incappiamo, perchè restino confutati gli scettici e assicurato a noi stessi il possesso del vero. Che cosa è dunque il principio di sostanza? Non altro che l' applicazione dell' idea dell' ente a quelle realità sentite che da se sole non bastano a formare un ente percettibile: è la legge della percezione. Ma la percezione è infallibile: dunque anche il principio di sostanza è infallibile. Noi diciamo che una data realità sentita, per se stessa non costituisce talora un ente percettibile. Per dir questo egli è necessario che noi sappiamo che cosa costituisca un ente percettibile. Il sapere che cosa costituisce un ente percettibile, è lo stesso che sapere che cosa sia l' essenza dell' ente che si afferma nel sentimento, e ciò noi sappiam per natura. Dunque il principio di sostanza non è altro che l' intuizione che abbiamo dell' essenza dell' ente applicata alle realità: noi possiamo affermarla, date certe realità (sostanze); non possiamo affermarla di altre realità (accidenti), se non unite a quelle prime: siamo guidati a ciò dalla stessa essenza dell' ente che non può essere realizzata in queste seconde senza le prime (il che ci dimostra che l' ente ha un ordine intrinseco). Ma l' intuizione dell' essenza dell' ente non ammette errore, è l' intuizione della verità stessa. Dunque il principio di sostanza non ammette errore, è vero essenzialmente. La condizione adunque della percezione si è che ella non può affermare nel sentimento, se non un ente. La riflessione ha troppe altre condizioni che ella tende ad avverare, ed una di queste condizioni si è il principio di causa , di cui pure dobbiam dimostrare la natura e la veracità. Già abbiam detto in che consiste la riflessione. Ella è un atto, col quale la mente considera gli oggetti della percezione o di riflessioni precedenti, in rispetto all' essenza dell' ente. Parliamo della riflessione di primo ordine, cioè di quella che si rivolge sugli oggetti delle percezioni, e non sugli oggetti di riflessioni precedenti. Quando la riflessione riferisce gli enti percepiti all' essenza dell' ente, allora vede quanto sono limitati, quanto poco prendono dell' essenza dell' ente, quanto loro manca ad avere in sè esaurita l' essenza dell' ente, vede che hanno l' essenza dell' ente, ma non sono questa essenza. Così anche discopre la loro mutua dipendenza; poichè la dipendenza che uno ha da un altro, non è che una specie di limitazione. Altro è dunque ciò che fa sì che gli enti contingenti e limitati sieno enti separati , distinti, altro è ciò che li rende indipendenti . Possono esser enti separati e distinti, quantunque sieno poi dipendenti. Quindi ciascuno di essi, come ente separato, può essere oggetto di una speciale percezione. La sua dipendenza non è l' oggetto della percezione, ma della riflessione. Allora quando si vede cominciare un essere che non esisteva prima, allora quando si vede cominciare una realità, un modo, un accidente nuovo, la riflessione del nostro spirito dice incontanente che dee esservi una causa che ha prodotto quell' ente, quella realità, quel modo, quell' accidente; e chiama effetto tale produzione. Considerando questa operazione dello spirito, si vede che il concetto e il nome di effetto è posteriore al nome di causa. E` solamente dopo che si è conosciuto che un dato ente non potrebbe esistere senza una causa, che egli riceve il nome di effetto. Che cosa vuol dire riconoscere che un ente ebbe una causa? Non vuol dir altro se non riconoscere che quell' ente (la sua essenza) non ha in se stesso la propria sussistenza, e però gli viene di altronde. Venire la sussistenza di un ente non dall' ente stesso ma altronde, è lo stesso che avere una causa. Quando dunque si giudica che un ente dee avere una causa, altro non si fa se non riconoscere che l' ente per sua essenza non ha la sussistenza. Riconoscere che un ente (o una realità spettante ad un ente) non ha la sussistenza per sua propria essenza non è altro che confrontare l' ente reale percepito coll' essenza dell' ente, il che è l' opera, come dicevamo, della riflessione. Una delle condizioni adunque, alle quali opera la riflessione, una delle sue regole impreteribili si è il principio di causa. Dal detto risulta ancora che il principio di causa non è che un' applicazione che fa la riflessione dell' idea dell' essere ad un ente percepito, mediante la quale applicazione rileva, che l' essenza dell' ente percepito non ha in sè la sussistenza, la quale gli viene d' altronde. Dunque il principio di causa è per se stesso infallibile, perchè l' oggetto della percezione è immune da errore, e l' essenza dell' ente a cui lo confronta, è la stessa verità; e altro non trattasi se non di riconoscere, se nell' essenza dell' ente percepito sia compresa o no la realità. Dire che l' essenza di un ente non comprende la sua sussistenza, è quanto dire che l' ente percepito non ha la ragione del proprio esistere in se medesimo, e che è contingente . Col principio di causa l' uomo percorre la serie delle cause seconde; ma poichè le trova tutte contingenti, egli non può fermarsi in esse: la sua riflessione non riposa, se non giunge ad una causa prima, nell' essenza della quale sia compreso il sussistere, e questa è Dio. Il principio di causa che così si svolge e giugne all' ultima sua operazione, fu anche detto da noi principio d' integrazione . L' umanità tutta intiera, per un bisogno della riflessione intelligente, usa del principio d' integrazione con gran celerità, percorre le cause seconde in globo, e per un istinto razionale irresistibile giugne alla cognizione di Dio. Perciò l' esistenza di Dio fu ammessa in tutti i tempi, da tutti i popoli del mondo. La riflessione è guidata ancora da altri principii: ma ogni sua operazione finalmente si riduce al confronto che ella fa di un oggetto conosciuto coll' essere ideale, per vedere quanto e in che modo partecipa dell' essenza dell' essere, e quanto ne ha difetto. Quindi ogni riflessione per se stessa è un istrumento idoneo alla verità, perchè ha per misura delle cose tutte e per tipo la verità. Dimostrata così l' efficacia dell' umano ragionamento, la logica dee insegnarne l' arte. L' arte di ragionare fa sì primieramente che si evitino gli errori; e in secondo luogo, che si giunga con ragionamento a quello scopo che si propone. Si evitano gli errori, quando si procede in modo che la mente nulla affermi gratuitamente, ma la facoltà della persuasione sia sempre guidata dalla ragione , di maniera che ciò che l' uomo dice a se stesso sia sempre per via di puro ragionamento , senza che intervenga l' arbitrio. A questo tendono le quattro regole cartesiane del metodo. Lo scopo che s' intende di ottenere col ragionare è triplice, perchè si può ragionare: 1 per dimostrare la verità e difenderla; 2 per ritrovare nuove verità; 3 per insegnare la verità ad altri. Quindi tre metodi, il metodo dimostrativo , il metodo inquisitivo o inventivo, e il metodo didascalico , ciascuno de' quali ha le sue speciali regole. Il metodo dimostrativo usa di varie forme d' argomentare, ma tutte si riducono a quella del sillogismo. L' artifizio del sillogismo consiste in far vedere che la proposizione che si vuol dimostrare, è già contenuta in un' altra proposizione o evidente, o almeno certa. Il sillogismo si compone di tre proposizioni, l' ultima delle quali si chiama la conclusione o la tesi, e si chiamano premesse le due precedenti. L' una delle due premesse contiene implicitamente la tesi, e l' altra prova che veramente la contiene. La proposizione che si vuol dimostrare esser contenuta nell' altra dee avere identico con questa o il subietto o il predicato. Se il subietto è identico nelle due proposizioni, basta dimostrare che il predicato della tesi è contenuto nel predicato della proposizione assunta. Se è identico il predicato, basta dimostrare che il subietto della tesi è contenuto nel subietto della proposizione assunta. A dimostrare che il predicato o il subietto della tesi è contenuto nel predicato o nel subietto della proposizione assunta, si prende un concetto, che si chiama termine medio, e si mostra che questo s' identifica coll' uno e coll' altro predicato, ovvero coll' uno e coll' altro subietto; con che è dimostrato, che i due subietti pure, ovvero i due predicati s' identificano pel principio: « che due o più cose uguali ad una terza sono uguali fra di loro. » A vedere se un sillogismo sia efficace o abbia qualche vizio, si può applicare questa regola universale: « Il termine medio dee essere d' una comprensione almeno pari a quella del predicato, e d' una estensione almeno pari a quella del subietto della tesi. » Quando non si trova un solo termine medio, che si possa identificare coi due subietti o coi due predicati, se ne può prendere due o più, i quali s' identifichino fra di loro, e il primo d' essi s' identifichi con uno de' due predicati o de' due subietti, e l' ultimo di essi s' identifichi coll' altro de' due predicati o de' due subietti. Allora invece della seconda premessa si ha due o più proposizioni; forma che si chiama sorite . Le premesse devono esser certe acciocchè la conclusione sia necessaria e quindi v' abbia dimostrazione. Se sono soltanto probabili, la conclusione è pure probabile; se sono ipotetiche, tale è pure la conclusione. La dottrina della probabilità è importantissima e moltiplice. Il metodo inquisitivo della verità insegna la maniera di attignerla ai diversi fonti che sono in potere dell' uomo e che si riducono sommariamente a tre: 1 l' autorità e la tradizione; 2 l' osservazione e l' esperienza; 3 il raziocinio; ciascuno dei quali fonti si suddivide in molti. La maniera di applicare le diverse facoltà umane a questi fonti di notizie per attignerle pure ed abbondanti, e la maniera d' adoperare certi mezzi esteriori, che dirigono ed aiutano le facoltà, somministrano una abbondantissima materia a questa parte della logica. Il metodo didascalico è generale o particolare, secondo che contiene i principŒ generali che dirigono quelli che vogliono comunicare altrui la verità, o le regole particolari per insegnare le speciali scienze. Ciascuno de' tre metodi ha un principio supremo che lo dirige. Il principio del metodo dimostrativo è: « data una proposizione certa, è certa anche quella che in essa è implicitamente contenuta. » Il principio del metodo inquisitivo è: « l' idea dell' essere che è il lume della ragione applicato a' nuovi sentimenti, e a notizie già ricevute nel debito modo, produce all' uomo nuove cognizioni. » Il principio del metodo didascalico è: « le verità che si vogliono insegnare, si dispongano in una serie ordinata in guisa, che quelle che precedono, non abbiano bisogno per esser intese di quelle che seguono. » L' Ideologia e la Logica furono da noi dette scienze d' intuizione , perchè trattano del mezzo di conoscere, che è l' essere ideale che s' intuisce. L' uomo, venuto in possesso del mezzo di conoscere, rimane che lo applichi agli enti diversi, e ne cerchi le ultime loro ragioni. Ma la prima di tutte le applicazioni che l' uomo possa fare del mezzo di conoscere agli enti, è mediante la percezione. Conciossiachè se l' intelletto ha per unica sua funzione l' intuire , le funzioni della ragione umana si riducono a queste due percepire e riflettere . Ora l' uomo non può riflettere su cosa alcuna che riguardi gli enti reali, se la percezione non gliene somministra la materia. Tutte le scienze astratte non possono adunque esser legittimamente cavate, se non da ragionamenti , che abbiano per materia gli enti percepiti. Ora, quali sono gli enti che si possono percepire dall' uomo? Tutti quelli e quelli soli, che cadono nel suo sentimento, dove egli trova la realità: se stesso, e il mondo esterno. Le scienze filosofiche adunque di percezione, sono la Psicologia e la Cosmologia . La dottrina cristiana c' insegna, che l' uomo per una comunicazione graziosa riceve anche il sentimento di Dio, col quale egli viene levato all' ordine soprannaturale. La scienza che tratta di questa percezione deiforme, è da noi detta Antropologia soprannaturale: ella eccede i confini della semplice filosofia. PSICOLOGIA. - La Psicologia è la dottrina dell' anima umana. Essa fa tre cose: 1 dichiara qual sia l' essenza dell' anima; 2 descrive il suo sviluppo; 3 ragiona dei destini dell' anima. L' essenza dell' anima si conosce per via di percezione. Se l' anima non si sentisse , non si potrebbe percepire: ma questo è un fatto primitivo, da cui muove il ragionamento dell' anima, che ciascuno sente e percepisce l' anima propria. Lo stesso fatto, enunciato in tutta quella estensione in cui lo porge l' esperienza e la ragione della cosa, è, che senza sentimento nulla si percepisce. In fatti i corpi stessi non si percepirebbero dall' intendimento, se prima non fossero sentiti. Ma fra il sentimento de' corpi e quello che ha ciascuno dell' anima propria, v' ha una gran differenza; chè i corpi si sentono come una cosa straniera, e l' anima come una cosa propria, anzi come noi stessi: i corpi si sentono dall' anima e l' anima si sente da se stessa e per se stessa. Da questa osservazione si ricava tosto una prima definizione dell' anima: perocchè se l' anima si sente per se stessa; dunque ella è per essenza sua sentimento, poichè è il solo sentimento che si sente per se stesso, e se i corpi si sentono dall' anima, e l' anima si sente per se stessa, l' anima è il principio di sentire: « l' anima dunque è un principio di sentire insito nel sentimento. » Ma l' anima umana non sente solamente, ma anche percepisce intellettivamente, percepisce i corpi sentiti, e percepisce se stessa. L' anima umana dunque è un principio ad un tempo sensitivo ed intellettivo. Questo principio sensitivo quando pronuncia se stesso, adopera il vocabolo IO. L' IO dunque è un vocabolo, che esprime l' anima, ma la esprime in quanto pronuncia se stessa, e quindi non l' anima pura, ma l' anima vestita di certe relazioni con se stessa, l' anima in uno stato di sviluppo. Volendo dunque formarci il concetto dell' anima pura, conviene meditare ciò che si contiene nell' IO, e separare nello stesso tempo tutta quella parte che si riconosce come sopraggiunta ed acquisita colle operazioni dell' anima stessa. In questo senso l' IO è il principio e il subietto della Psicologia. Procedendo per questa via il Psicologo, trova coll' aiuto dell' Ideologia una definizione più compiuta dell' anima umana, che si può esprimer così: « L' anima umana è un soggetto o principio intellettivo e sensitivo, che ha per sua natura l' intuizione dell' essere, e un sentimento, il cui termine è esteso; e certe attività conseguenti all' intelligenza ed alla sensitività. » Dalla quale definizione, che ne esprime l' essenza, si deducono le sue proprietà, delle quali sono nobilissime le seguenti: 1) La semplicità , la quale si prova da questo appunto, che l' anima è un principio unico e immune dallo spazio, perchè l' identico principio che sente, è anche quello che intende: perchè l' atto del sentire in opposizione all' esteso sentito, esclude l' estensione per la medesima opposizione: finalmente perchè il principio intelligente riceve la forma dall' idea, cosa immune affatto dallo spazio e dal tempo. 2) L' immortalità , la quale si prova: 1 dall' esser l' anima il principio che dà la vita al corpo; ora l' anima essendo quella che dà la vita, è vita ella stessa; perciò non può cessar d' esser vita se non coll' annullamento, onde da se stessa non può morire, è per sè immortale; e 2 perchè la forma dell' anima intelligente è l' idea eterna ed immutabile. E` vero che, essendo l' anima di natura contingente, potrebb' essere annullata, ma ciò non potrebbe fare che Dio, il quale solo ha virtù di creare e quindi anche d' annullare. Ora Dio niente annulla di quanto ha creato, ripugnando ciò a' suoi attributi, come si dimostra nella Teologia naturale . Abbiamo detto che l' anima è un principio intellettivo e sensitivo, che ha per natura l' intuizione dell' essere e un sentimento il cui termine è esteso. L' essere intuito dall' anima è del tutto indeterminato; quindi, qualora ella non avesse che questo solo, non potrebbe avere alcuna cognizione di cosa determinata, e il suo sviluppo intellettivo sarebbe stato impossibile, non per mancanza di potenza, ma per mancanza di materia. Il creatore vi provvide, dando all' anima quel sentimento il cui termine è l' esteso, dandogli lo spazio ed un corpo. Quel sentimento dell' anima, che ha un termine ossia un sentito esteso, termine che subisce diverse modificazioni, somministra dunque all' anima la materia prima di tutte le sue operazioni intellettive, dalle quali ella poi trae tutte le sue cognizioni: quindi lo svolgersi dello scibile umano. E` dunque un errore quella sentenza di Platone, che considerava il corpo come un impedimento al volo dell' anima: egli è anzi, considerato per sè, lo strumento dello sviluppo e del perfezionamento della medesima. Ma la sentenza di Platone ha la sua verità, se, invece di applicarla alla natura del corpo, s' applica alla corruzione entrata nell' animalità colla prima colpa. Consideriamo ora più attentamente questo termine esteso. Egli è duplice, lo spazio ed il corpo , che è una forza che si diffonde in una parte limitata dello spazio. Lo spazio per sè è immobile, semplice, illimitabile, indivisibile. Ma il corpo è mobile, limitato, divisibile e quindi anche composto. Mediante queste varietà, che subisce di continuo il corpo, accade una continua variazione del termine del sentimento, e quindi la moltiplicità immensa delle sensazioni e delle percezioni, e l' abbondanza della materia prima data all' umano conoscimento. Ma qui nasce da sè la questione, come un sentito esteso possa darsi all' anima, la quale è un principio semplice. E prima di risolvere questa questione, conviene osservare, che i due estremi della proposizione, cioè, che l' anima sia un principio semplice e che essa abbia per termine del suo sentire un esteso, sono un fatto indubitabile; onde, quand' anche l' uomo non potesse giungere a intenderne il come, non per questo se ne potrebbe negare la verità, ma converrebbe confessare anche qui uno di que' molti misterŒ, in cui o niuno degli uomini o pochi sanno penetrare. Venendo dunque alla questione del come, e non parlando che de' corpi, egli è manifesto che quel fatto che si deve spiegare, è duplice anch' esso, perchè l' uomo sente due maniere di corpi ben distinte: sente in primo luogo quel corpo, ch' egli chiama suo proprio, e che l' anima accompagna sempre, in qualunque luogo dello spazio esso si trasporti; e sente i corpi diversi dal suo, ma questi li sente appunto come stranieri; e li sente, perchè modificano con violenza il corpo suo proprio, che solo è continuamente sentito. Qualora dunque fosse spiegato, come l' anima sente continuamente il corpo suo proprio, non sarebbe più tanto difficile a spiegare, come senta i corpi esterni, che modificano lo stesso corpo suo proprio. Infatti è da osservarsi la maniera con cui il principio sensitivo sente il corpo suo proprio. Egli nol sente con una semplice passività, ma con una passività mescolata di molta azione, non solo perchè il sentimento è un atto del principio senziente, e un atto continuo rispetto al corpo suo proprio, ma perchè di più è un atto così potente, che per mezzo di esso il principio senziente, cioè l' anima, modifica ed atteggia continuamente il proprio corpo, e produce in esso molti movimenti e cangiamenti; e il corpo suo proprio come inerte, subisce quest' azione del principio sensitivo, nella quale consiste l' intima unione del detto principio con esso corpo. Ciò posto s' intende come, se in quel corpo, che è in podestà dell' anima, nasca un cangiamento indipendente dall' anima, ed anzi opposto alla sua continua azione, ella senta un contrasto, una violenza, e questo è quanto dire sente un corpo straniero. Dal qual fatto si può raccogliere un principio ontologico, ed è, che un principio senziente oltre il sentire suo proprio e spontaneo, sente anche e riceve in sè una forza straniera, che si oppone all' azione sua istintiva e spontanea, e anche l' aiuta, e ciò senza perdere punto della sua semplicità. Quando poi sia stato spiegato come l' anima senta in sè qualche cosa di straniero a se stessa, il che è quanto dire un' attività, che lotta contro la sua propria, ovvero anche, che stimola la sua propria, allora non sono più difficili a spiegarsi le qualità seconde de' corpi esterni, quali sono i colori, i sapori, gli odori ecc.. Perocchè tutte queste cose appartengono al corpo proprio dell' anima in quanto è termine del suo sentire, e non rimane altra difficoltà, che quella dell' estensione de' corpi; rimane cioè la sola questione che abbiamo prima proposto, come l' anima, essendo un principio semplice, possa aver per termine l' estensione. Ora questa questione, quando si consideri intimamente, non presenta più quella ripugnanza che dimostra nell' apparenza, ed anzi si prova che non può esser altro che così; di maniera che se n' ha infine questo risultato, che « l' esteso continuo non può esistere che in un principio semplice, come termine del suo atto. »Perocchè se così non fosse, non ci sarebbe una ragione della continuità delle parti, che si possono assegnare in tale esteso, giacchè l' esistenza di una parte finisce in lei, e non contiene la ragione dell' altra parte che gli sta aderente. La ragione del continuo non istà dunque nelle singole parti, ma in un principio che abbraccia tutte le parti insieme, e questo semplice. Oltrediciò, le parti stesse, delle quali si supponesse formato il continuo, svanirebbero davanti a chi le cercasse, perchè, essendo l' esteso divisibile all' indefinito, non si possono trovar mai le prime parti, anzi al tutto non esistono. Non è dunque possibile considerare il continuo come un aggregato di parti, eppure ciascuna parte in esso assegnabile col pensiero, è fuori dell' altra, e ha un essere indipendente dall' altra. Convien dunque che tutto insieme il continuo esista con un atto solo nel semplice che lo sente. Proseguendo le ricerche su questa via si riesce ai seguenti risultati: 1 Che il principio senziente, ossia l' anima sensitiva, ha per suo primo termine l' estensione pura, ossia lo spazio immisurato . 2 Che ha per suo secondo termine una forza limitata diffusa nello spazio, la quale perciò è una misura limitata dello spazio, che non rimane tuttavia scisso o discontinuo. Questo è il corpo proprio dell' anima, che viene da lei informato, ed è la sede di tutti i suoi sentimenti corporei. 3 Il corpo proprio dell' anima è sentito da lei con un sentimento fondamentale e sempre identico, benchè sia suscettivo di variazioni ne' suoi accidenti. Il corpo proprio sentito con un tal sentimento fondamentale non ha ancora distinti confini, e perciò non ha figura distinta nel sentimento dell' anima. 4 Questo corpo viene modificato dall' azione di altri corpi esteriori e stranieri all' anima, e queste modificazioni in quanto sono sentite si chiamano sensazioni esterne e sono di diverso genere, secondo i varŒ organi del corpo. Ma tutte queste sensazioni presentano un sentimento esteso solamente in superficie, e mediante queste sensazioni superficiali, il corpo proprio acquista dei limiti ed una figura determinata sentita dall' anima. 5 Il corpo proprio, come pure i corpi esteriori, occupano una sola parte dello spazio, e si possono muovere in esso, cioè cangiar di luogo. Questi movimenti diventano la misura di altrettante parti dello spazio e così si presenta al sentimento, date certe condizioni, uno spazio misurato , che può essere sempre più ingrandito indefinitamente, giacchè v' ha un' indefinita possibilità di movimento. Il principio sensitivo, rispetto al primo de' suoi termini, cioè allo spazio immisurato, non esercita alcuna attività, se non quella di semplicemente averlo per termine senza potergli cagionare alcuna modificazione. Ma rispetto al suo secondo termine, cioè al corpo proprio, egli non è soltanto ricettivo o passivo, ma ben anco attivo; e questa passività e questa attività, reciproca e moltiplice, è diretta da mirabilissime leggi. In quanto il principio, ossia l' anima sensitiva è passiva, si suol dire che è dotata della facoltà di sentire, ossia della sensitività ; in quanto poi è attiva, si suol dire che è dotata dell' istinto . Il primo atto dell' istinto è quello che produce il sentimento, e dicesi istinto vitale ; ma ogni sentimento, suscitato nell' anima, vi produce una nuova attività, e questa seconda attività, che succede ai sentimenti, si chiama istinto sensuale . Mediante questi principŒ, cioè, 1 l' istinto vitale, 2 la sensitività, 3 l' istinto sensuale, si spiegano mirabilmente i fenomeni fisiologici, patologici, e terapeutici dell' animale: onde ha origine la medicina. L' unione del principio animale col suo termine corporeo è così intima, che non si concepisce il principio senza il termine, nè il termine senza il principio; e però quantunque l' uno non sia l' altro, l' uno anzi sia opposto all' altro, tuttavia formano un ente solo, un solo animato, e quando del termine si fa un ente a parte e intieramente separato, non si ha per risultato che un prodotto dell' astrazione. Tuttavia conviene nel termine dell' animale distinguere tre cose, che danno luogo a tre specie di sentimenti: 1 il continuo corporeo , termine del sentimento dell' esteso corporeo ; 2 il movimento intestino degli atomi, o delle molecole, o delle parti dell' esteso corporeo, termine del sentimento d' eccitazione ; 3 la continuazione armonica del detto movimento, termine del sentimento organico . Ora il principio sensitivo può esser privo delle due ultime maniere di sentimento, ma non della prima. Se egli ha soltanto la prima e la seconda maniera di sentire può dirsi animato , ma non animale: il carattere distintivo dell' animale è il sentimento organico, al quale è necessaria una congrua organizzazione. Si può dunque dire che l' animale muore, ma l' animato non muore. Nulladimeno questo subisce delle mutazioni essenziali rispetto alla sua individualità. Le quali si riassumono nelle seguenti leggi: 1 Ogni esteso continuo ha un solo principio sensitivo del continuo. - Dal qual principio procede che qualora più atomi vengano al contatto in modo da formare un solo continuo, i principŒ sensitivi s' unificano, riducendosi in un solo, che ha in sè l' attività di tutti i precedenti non distrutta ma accentrata, e quando il continuo si spezza in più continui, il principio si moltiplica in più principŒ sensitivi. Qui non v' ha divisione o composizione , ma unicamente moltiplicazione e unificazione . 2 Che se il movimento intestino in un dato continuo è parziale, il principio del continuo rimane uno, ma i principŒ del sentimento eccitato si moltiplicano quanti sono i sistemi di movimenti continui. 3 Che se il movimento armonico intestino nelle parti d' un continuo, abbraccia tutto il continuo, v' ha un solo principio senziente di quest' unica armonia, ma se i sistemi de' movimenti armonici nello stesso continuo sono più, v' hanno più principŒ senzienti, cioè tanti quanti sono que' diversi sistemi, benchè tutti abbiano per base, ossia per primo atto, il principio, che abbraccia tutto il continuo. Ma l' anima umana non è soltanto sensitiva, ma ancora intellettiva. Ella è un principio intellettivo e sensitivo ad un tempo. In quanto è un principio sensitivo ha per termine il proprio corpo; ma poichè il principio intellettivo è unificato col sensitivo, di maniera che è un principio solo con due attività, perciò l' anima intellettiva e sensitiva, o in una sola parola l' anima razionale , ha per suo termine il corpo. In quanto è sensitiva, l' ha come termine sentito , in quanto è intellettiva, l' ha come termine inteso: il corpo dunque è un termine dell' anima umana sentito7inteso. V' ha dunque una percezione intellettiva del proprio corpo, primigenia ed immanente, e in questa percezione consiste il nesso fra l' anima umana ed il corpo. Così s' intende il reciproco influsso dell' anima e del corpo; perocchè qualunque realità che abbia natura di principio, è di natura sua attiva, e però agisce secondo certe leggi nel suo termine. Ma poichè per agire in esso, conviene che lo abbia per termine, e non lo può avere se non gli è dato, quindi anche il principio è ricettivo e passivo rispetto al termine, e a quella virtù che gli dà il termine e a quell' altra virtù che gli modifica il termine. Egli è dunque chiaro, che fra l' anima umana e il suo corpo vi ha un commercio o fisico influsso. Come poi il principio intellettivo e il sensitivo sieno un solo principio, non sarà del tutto impossibile il concepirlo, ove, per una semplice supposizione, si considerino prima separati, e poi si supponga che il principio sensitivo, indivisibile dal suo termine, sia dato a percepire al principio intellettivo, e si domandi, che cosa ne dovrà avvenire. Converrà rispondere che il principio intellettivo non potrà percepire il principio sensitivo, se non unendosi strettamente con lui, cioè percependo tutto quello che egli sente, chè la stessa natura del principio sensitivo risulta unicamente da quello che sente. Così i due principŒ diventano un principio solo senza che si distruggano le loro attività. Perocchè due principŒ non possono essere termini l' uno dell' altro, senza che l' uno, cioè il percipiente, acquisti l' attività del percepito; chè la percezione è un nesso fisico, e un' attività non può avere un nesso fisico con un' altra attività che sia principio, senza congiungere a sè la detta attività e il detto principio. Infatti un termine rimane separato dal suo principio unicamente per la loro diversa natura, cioè perchè il termine è esteso, e il principio è semplice; perchè il termine è oggetto, e il principio soggetto; ma se la natura è la stessa, e sono entrambi due principŒ soggettivi, non si può intendere altra congiunzione fisica se non questa, che il percipiente riceva o congiunga a sè l' attività dell' altro principio senziente da lui percepito. Nè viene già per questo, che le due attività si confondano in una terza, ma soltanto, che le due attività, restando distinte, acquistino un solo principio da cui incominciano, benchè l' una subordinata all' altra. Che se dal principio intellettivo, che è il percipiente, si distacca l' attività sensitiva, il che suol avvenire quando il corpo, termine di questo, si disorganizza, e quindi il suo principio sensitivo rimane senza il termine organato che gli è proprio, ond' egli vien meno, allora succede la morte dell' uomo. La Psicologia dopo avere così ragionato dell' essenza dell' anima e della costituzione dell' uomo, passa a ragionare del movimento e dello sviluppo dell' essenza medesima, che dirama la sua attività nelle diverse potenze ed operazioni. E venuta su questo argomento ella fa due lavori, l' uno analitico , col quale deriva dall' essenza dell' anima le facoltà, e distinguendole prima dalla stessa essenza, poscia tra loro e sempre più quasi rami d' un albero, che si moltiplicano quanto più si producono, le enumera e le definisce tutte ordinatamente; l' altro sintetico , col quale raccoglie le leggi , ossia i modi costanti di operare delle dette facoltà. Nel derivare le potenze dall' essenza stessa dell' anima si presentano inevitabilmente delle gravissime questioni ontologiche, a ragion d' esempio: « come si concilii l' unità dell' essenza, e la moltiplicità delle potenze »: - « in che modo v' abbia successione nelle potenze, e permanenza o immutabilità nell' essenza »: - « come l' essenza medesima possa sostenere diversi stati accidentali » - ed altre somiglianti. Mirabili poi sono le leggi colle quali opera l' anima, o immediatamente, o col mezzo delle sue varie potenze. E l' anima essendo una, e questa razionale, dal principio razionale in relazione co' suoi termini devono emanare tutte quelle facoltà che si dicono umane, e le leggi altresì del loro operare. Quindi altre di queste leggi sono psicologiche , e son quelle che procedono dalla natura stessa dell' anima come principio attivo; altre sono ontologiche , e sono quelle che vengono imposte all' anima umana dal suo termine superiore intellettivo, il qual termine è l' ente; altre finalmente sono cosmologiche , e son quelle che vengon imposte all' anima dal suo termine inferiore, cioè dal mondo sensibile. La suprema fra le leggi ontologiche è il principio di cognizione, che si esprime così: « il termine del pensiero è l' ente. » E` incredibile quanto sia feconda e meravigliosa questa legge nelle sue applicazioni. Le leggi cosmologiche altre sono quelle che presiedono al movimento, che dà il termine sensibile allo spirito umano, altre in quelle che determinano la qualità di questo movimento. Le prime si chiamano leggi della mozione , le seconde leggi dell' armonia . Le leggi psicologiche finalmente, cioè quelle che nascono dalla stessa forza dell' animo, si dividono in due classi, perchè altre rispondono alle ontologiche, altre rispondono alle cosmologiche. La Psicologia finalmente tenta di scoprire la destinazione dell' anima umana. Ma ella non può compire questa scoperta coll' uso della sola ragione naturale, ovvero col semplice esame della natura umana. Ella può bensì mediante quest' esame rilevare dove tenda questa natura, ma le rimane ignoto quel di più, che le ha destinato la gratuita liberalità e magnificenza dell' infinito Essere che la creò. Quel solo adunque che risulta dall' esame della natura umana è questo: la prima parte di questa natura è l' intelligenza, e l' intelligenza è fatta per la verità. La seconda parte di questa natura è la volontà, e la volontà è fatta per la virtù: con essa l' uomo aderisce alla verità, la ama in tutte le cose, e così ama tutte le cose secondo la loro verità. Ma questo amore che cerca soddisfarsi negli enti, secondo la verità, vorrebbe pienamente possedere quello che ama, e che gli è bene appunto perchè l' ama. Vi è dunque una terza parte nell' uomo, e questo è il sentimento in tutta l' estensione di questa parola. Il sentimento è una tendenza a godere. La volontà dunque che aderisce alla verità, e però che è virtuosa, la volontà che di conseguente ama tutti gli enti secondo la verità, desidera altresì che tutti questi enti le si dieno a godere, giacchè col godimento si compie il suo conoscimento e il suo amore di essi. Questo è quanto dire che cerca la felicità. Di che si raccoglie, che l' anima tende di sua natura ed è destinata alla sua perfezione, e che questa perfezione consiste nella piena vista della verità, nel pieno esercizio della virtù e nel pieno conseguimento della felicità, triplice fine, triplice destinazione, in cui si trova tuttavia una perfetta unità, poichè non ci può essere un solo di questi tre elementi in modo completo, senza che ci sieno gli altri due: la verità non è veduta ne' suoi intimi visceri, se non da chi l' ama e la gode; nessuno ama pienamente la verità negli enti in cui è attuata, senza che ce la veda e ne goda; nessuno ne gode pienamente ed è felice, se pienamente non l' ama, ed è virtuoso, e pienamente non la vede ed è sapiente. L' uno di questi tre beni implica gli altri due: non sono che tre forme d' un solo ed unico bene. Ma se dall' esame della natura umana risulta che questa è la sua destinazione, come l' uomo ci arriva? Qui ammutolisce l' umana ragione, anzi rimane confusa al vedere, che non trova mai nella vita presente uno stato dell' uomo, che corrisponda pienamente a quel fine, a cui aspira. Da una parte la natura delle umane potenze diligentemente investigata, e i voti incessanti del cuore umano, fanno conoscere alla ragione l' altissimo scopo, a cui è rivolta l' umanità: dall' altra la ragione medesima vede l' umanità in sulla terra ravvolta di continuo nell' ignoranza, ludibrio delle passioni e de' vizŒ, guasta dappertutto e da per tutto infelice; la vita fuggevole siccome un lampo, incerta sempre, sempre una lotta, sempre un sacrificio, la morte di tutti quelli che nascono, chiudere tutto questo dramma. A un tale spettacolo la ragione stessa vacilla, crede d' aver sognato, perde la confidenza in sè medesima. Finalmente quasi facendo uno sforzo si ristora con un' ipotesi consolante, quella della vita futura. Ma l' umana ragione non viene da Dio abbandonata nelle sue esitazioni. Ecco, Iddio rivela all' uomo il secreto della sua bontà creatrice: l' assicura che la teoria ispirata dal sentimento, trovata dalla ragione collo studio e la meditazione dell' umana natura, non mentisce e non l' inganna: sarà adempita, ad essa risponderà fedelmente il fatto in un modo ancor più sublime della stessa teoria: tuttociò, che si manifesta sopra la terra, come un ostacolo e come una smentita data alla ragione, rimane spiegato dalla manifestazione dell' intero disegno del Creatore: diventa in questo disegno un mezzo necessario ed una conferma di quanto insegnò la ragione medesima. L' ipotesi d' un' altra vita è convertita in certezza da una testimonianza infallibile. Quest' altra vita che non ha fine, in cui l' uomo più non muore, ha in se stessa tanta copia di beni e di mali da colmare tutte le disuguaglianze e correggere tutte le irregolarità della vita temporale: in questa stessa Iddio pose i segni di quell' ordine futuro ed eterno: consegnò all' uomo de' mezzi eccellenti e al tutto divini, coll' uso dei quali egli può, volendolo, conseguire quella sublime destinazione, che la ragione soltanto da lontano e imperfettamente indicava. Questa parte dunque della destinazione dell' anima e dell' intero uomo non può essere esaurita nella Psicologia, o nell' Antropologia naturale, ma in un' altra Psicologia o Antropologia, che attigne le sue dottrine dalla bocca di Dio medesimo. COSMOLOGIA. - Questa scienza è la dottrina del mondo. L' abbiamo posta fra le scienze di percezione, perchè sono oggetti di percezione lo spirito umano ed i corpi di cui si compone il mondo. Tuttavia nel gran sistema della creazione v' ha degli altri esseri che non cadono sotto l' esperienza sensibile, e s' inducono per ragionamento; tali sono gli spiriti puri, gli angeli. La cosmologia considera il mondo 1 nel suo tutto, 2 nelle sue parti, in quanto si riferiscono al tutto, 3 nel suo ordine. La cosmologia come dottrina del tutto contingente, tratta 1 della natura dell' essere reale contingente, 2 della sua causa. L' essere contingente non ha in se stesso la ragione della propria esistenza, quindi esige una causa; e poichè niuna parte dell' essere contingente, nè sostanziale nè accidentale, ha in sè la ragione della propria esistenza, quindi esige una causa creatrice: l' essere contingente è dunque tratto ogni istante dal nulla. Altra prova della creazione del mondo si ha dall' analisi della percezione; la quale analisi ci mostra, che tutto ciò che cade nel sentimento (noi stessi e il mondo), non potrebbe esser percepito, il che è quanto dire non sarebbe ente, se la mente stessa non lo vedesse unito all' essenza dell' ente: onde è questa essenza che gli dà l' atto dell' essere quasi a prestito; lo crea. Nella coscienza di noi stessi e di ogni nostra sensione o percezione troviamo una terza prova che l' ente contingente è creato, perchè noi sentiamo di sussistere, ma non sentiamo la forza che ci fa sussistere; perciò sentiamo di non sussistere per noi stessi. La natura dell' essere contingente maggiormente si illustra coll' esposizione delle sue essenziali limitazioni . Dallo studio di queste procedono importantissimi corollarŒ, un de' quali si è la dottrina intorno alla possibilità del male. Dalla dottrina delle limitazioni essenziali dell' universo, la scienza passa a quistioni più elevate. I creabili, ossia i possibili esistono distinti in Dio? e se no, come vengono distinti fuori di Dio? sono essi finiti ovvero infiniti? onde fu mosso Iddio a creare? Egli è impossibile dare una compendiosa esposizione di sì alte questioni colla soluzione delle difficoltà ch' esse ingenerano nella mente. La seconda parte della cosmologia distingue le parti dell' universo, 1 in ispiriti puri, 2 anime, 3 corpi; e tratta di ciascuna di queste parti considerate come parti dell' universo. Finalmente nella terza, in cui si parla dell' ordine dell' universo, si vengono esponendo le leggi cosmiche cioè universali a tutte le cose contingenti; e quindi si compie il discorso, incominciato già nelle parti precedenti, intorno alla bontà del mondo ed a' suoi destini. Ma questi soli cenni bastevolmente dimostrano che la Cosmologia non si può trattare compiutamente, separandola dall' Ontologia e specialmente dalla Teologia. Imperocchè come si può trattare della natura dell' ente in quant' è contingente e limitato, senza trattare ad un tempo o aver trattato dell' ente necessario e illimitato? Come si può trattare della maniera, in cui il mondo cominciò ad esistere, se non si tratta della natura e dell' operare del suo autore? Come si possono intendere le cose in quanto sono temporanee, senza l' intendimento delle cose eterne? Come si può dar ragione degli atti transeunti, senza ricorrere agli atti immanenti? Noi dunque riputiamo impossibile il fare della Cosmologia una scienza compiuta stante da sè; ma crediamo, ch' ella non possa esser altro che una parte d' un' altra scienza superiore, che dà la dottrina dell' ente, sia in astratto ed universale, e sia nel suo atto compiuto ed assoluto. L' intuizione somministra il mezzo del ragionamento; l' intuizione e la percezione somministrano al ragionamento la sua materia . Non si dà ragionamento che non prenda in fine la materia da questi due fonti. Le scienze d' intuizione e di percezione sono scienze di osservazione: osservano ciò che si presenta allo spirito da intuire, ciò che avviene nello stesso spirito, e ciò che avviene nel corpo in quanto egli è un agente nel sentimento. Su queste osservazioni si volge e si rivolge la riflessione, e seguendo la guida di que' principŒ che le somministra il lume dell' essere a cui riferisce ogni cosa, discopre nuove verità, e fin anco argomenta all' esistenza di enti che si sottraggono all' intuizione ed alla percezione. Le scienze filosofiche di ragionamento si dividono in due classi. Le une trattano degli enti come sono, e si dicono ontologiche; le altre trattano degli enti come devono essere, e si dicono deontologiche . SCIENZE ONTOLOGICHE. - Le scienze ontologiche sono due: l' Ontologia propriamente detta, e la Teologia naturale . ONTOLOGIA. - L' ontologia tratta dell' ente considerato in tutta la sua estensione come è all' uomo conosciuto; tratta dell' ente nella sua essenza e nelle tre forme in cui è l' essenza dell' ente, la forma ideale , la forma reale , e la forma morale . L' essenza è identica in tutte e tre queste forme; ma le forme sono distintissime fra loro ed incomunicabili. La forma ideale non può concepirsi senza l' essenza dell' essere, perchè ella è appunto essenza dall' essere, in quant' è conoscibile ; ma la forma reale si concepisce anche priva per sè dell' essenza dell' essere. In tal caso, la forma reale non acquista il nome di ente, nè d' oggetto, e non è concepibile se non perchè vi s' aggiunge l' essenza dell' essere, la quale le dà quell' atto di essere che le mancherebbe. Indi in parte si spiega l' origine dell' essere contingente, la creazione di quest' essere. La forma morale è il rapporto che ha l' essere reale con se stesso mediante l' essere ideale. In quanto l' ente è ideale , in tanto ha la proprietà di esser lume, e di essere oggetto . In quanto l' ente è reale , in tanto ha la proprietà di esser forza e di esser sentimento attivo e individuo, e quindi soggetto . Ma il principio senziente, ossia il soggetto, può avere per suo termine tal cosa che non è lui stesso, come sarebbe l' estensione e il corpo, e questo termine non è oggetto , e non è neppure soggetto , ed è fuori del soggetto, onde si chiama estrasoggetto . Ma questo estrasoggetto, come tale, ha un' esistenza solamente relativa al soggetto, di cui è termine. I modi dunque dell' ente reale sono due, il soggettivo , e l' estrasoggettivo . In quanto l' ente è morale , in tanto ha la proprietà di essere l' atto che mette in armonia il soggetto coll' oggetto, di esser virtù perfezionatrice, compimento del soggetto mediante l' unione e l' adeguamento all' oggetto7beatitudine dell' ente. Qualora gli enti limitati che cadono nella cognizione umana si vogliano classificare nel modo più sommario, tutti si riducono a queste tre ultime classi di enti ideali, enti reali , ed enti morali: di maniera che le tre primordiali forme dell' ente sono anche il fondamento delle categorie . Le categorie sono classi più estese di tutti i generi, e non sono generi e molto meno specie, poichè lo stesso ente che si divide in generi, e in ispecie, appartiene a tutte e tre le categorie. Quando si considera l' ente in tutta la sua estenzione, allora si scorge ch' egli ha un ordine interno , ammirando ed immutabile, di cui l' ontologia copiosamente ragiona. Da quest' ordine si raccoglie, fra le altre, la legge del sintesismo dell' ente ; la quale si manifesta in mille modi; ma principalmente mediante questa verità, che « l' ente non può esistere sotto una sola delle tre forme, se non esiste anche sotto l' altre due, quantunque al pensiero umano l' ente, anche sotto una sola forma, si rappresenti come stante da sè e percettibile in un modo distinto. » L' Ontologia non solo dà la teoria delle tre forme primordiali dell' ente e dell' identità dell' ente in esse, ma distribuisce l' ente medesimo identico sotto le tre forme in generi, specie e individui , e cerca la ragione di questa distribuzione ne' visceri dello stesso ente, colla quale investigazione va trovando in che modo l' ente sia suscettivo di limitazioni, e così spiana la via alla dottrina intorno all' origine dell' ente limitato e contingente, la quale appartiene alla Cosmologia. Ella medesimamente tratta delle proprietà essenziali all' ente, deducendole dal principio di cognizione: « l' ente è l' oggetto del pensiero », applicandolo al ragionamento, mediante quest' altro principio: « quando rimossa una data proprietà, l' ente non si può più pensare, quella proprietà gli è essenziale », che è il principio stesso di cognizione espresso in forma ontologica. Quindi deduce le proprietà ontologiche di cui deve necessariamente partecipare l' ente limitato e contingente, acciocchè sia possibile: dottrina anche questa necessaria alla Cosmologia. TEOLOGIA NATURALE. - Ma il pensiero umano non comprende totalmente l' ente come è in sè: di questo tratta la Teologia. La Teologia dunque è quella scienza che tratta dell' ente come è in sè, in quanto la mente nostra s' accorge che l' ente, oltre quella parte che a noi si manifesta, via più si stende: tratta in somma dell' Essere assoluto, di Dio. L' ente che cade naturalmente sotto l' intuizione dello spirito umano è illimitato, perchè è l' essenza stessa dell' ente, ma non è tuttavia l' ente assoluto, perchè l' intuizione non coglie l' essenza dell' ente, se non sotto una sola delle sue tre forme, sotto la forma ideale. L' ente che cade sotto la percezione dell' uomo non è che la realizzazione parziale dell' ente, realizzazione per sè distinta dall' essenza dell' ente; e il sentimento, materia della percezione, non è che la forma reale dell' ente, di maniera che l' intendimento è costretto, se vuol percepirlo, di comporlo insieme coll' essenza dell' ente, benchè quest' essenza non appartenga propriamente al sentimento contingente, come quella che è eterna. Dunque i materiali che ha l' uomo, su cui appoggiare il suo ragionamento, affine di cavarne una dottrina compiuta dell' ente, sono imperfetti e manchevoli. L' ente dunque nella sua totalità e pienezza non è dato naturalmente all' esperienza dell' uomo, e l' uomo non può sapere come egli sia , benchè egli possa sapere che è in una guisa travalicante l' umana intelligenza. Questa maniera di cognizione dicesi negativa , e tal è la cognizione spettante alla Teologia naturale che tratta dell' ente nella sua assolutezza, dell' ente non come è conosciuto all' uomo, ma come è in se stesso. La Teologia naturale dimostra primieramente l' esistenza di Dio, e ciò per molte vie, fra le quali, le principali si possono ridurre a quattro. La prima dall' essenza dell' ente che si intuisce; dimostrando, ch' ella non è nulla, ma è cosa eterna e necessaria. Ora non potrebbe esser tale s' ella non sussistesse identica anche sotto la forma di realità e di moralità. Ma l' essenza dell' ente è infinita; ed essa esistente sotto le tre forme è l' essere da ogni parte infinito, assoluto, Dio. La seconda dimostrazione dell' esistenza di Dio si trae dalla forma ideale . Questa forma ideale è luce che crea le intelligenze, ed è luce eterna, e oggetto eterno: dunque dev' esserci una mente, un soggetto eterno . Questa luce è illimitata: dunque questo soggetto dee avere una sapienza infinita, e il suo conoscere non dev' essere un atto transeunte, ma in lui tutto deve essere conosciuto per se stesso. Un soggetto che nello stesso tempo esiste come oggetto infinito , ha l' unione massima di lui coll' oggetto, onde è l' atto infinito della bontà o perfezione morale che costituisce la terza forma primordiale dell' essere. Quest' essere è dunque assoluto, è Dio. La terza dimostrazione si trae dall' essere reale percepito dall' uomo, ed è quella che abbiamo accennata, con cui la mente sale dal contingente al necessario, alla prima causa e ragione di tutto [104]. La quarta dimostrazione si deduce dalla forma morale conosciuta all' uomo. Infinita e insuperabile è l' autorità della legge morale, infinito il pregio della virtù e l' ignobilità del vizio. Questa forza obbligante, questa dignità del bene morale, non è nulla, dunque ella è eterna, necessaria, assoluta. Ma nulla sarebbe, se ella non esistesse in un essere assoluto. L' essenza della santità appartiene all' essenza dell' essere, di cui è l' ultimo compimento; come all' essenza dell' essere appartengono l' altre due forme. Vi ha dunque un essere assoluto, Dio. Dimostrata l' esistenza di Dio, la Teologia naturale deve occuparsi a determinare con precisione in che modo l' uomo possa, rimanendo nell' ordine della natura, conoscere Iddio. Ella dimostra che l' uomo non può conoscere Iddio, se non col ragionamento. Non potendo nè intuire nè percepire Iddio naturalmente in questa vita, si rende necessario il ragionamento a discoprirne l' esistenza. Ne discopre l' esistenza, come abbiamo veduto, paragonando l' uomo gli enti che intuisce e che percepisce coll' essenza dell' ente, ed osservando che essi non la esauriscono, e che dall' altra parte ella dev' essere esaurita, realizzata appieno, completata, e ciò per l' esigenza dell' essenza stessa dell' ente che noi intuiamo. Ma di quest' essere assoluto che non intuiamo, che non percepiamo, nulla possiamo sapere di più di quanto ci mostra la stessa esigenza dell' essenza dell' ente, oggetto dell' idea. Questo è il confine della cognizione che possiamo aver di Dio nell' ordine naturale: e perciò la cognizione nostra della divina natura si potrebbe anche chiamare negativa ideale. E una tale esigenza ci dimostra due cose. La prima che non possono appartenere a Dio nè i difetti, nè le limitazioni degli enti che conosciamo. La seconda, che tutti i pregi degli enti che conosciamo devono appartenere a Dio, ma non in quel modo che sono negli enti da noi conosciuti, perchè in tali enti questi pregi sono o contingenti, o limitati, o divisi, e, in una parola, essenzialmente forniti di qualche limitazione o divisione; quando nell' essere supremo devono esistere necessariamente senza divisione e limite, e insomma in tutt' altro modo, o anzi senza modo. Queste due maniere di conoscere la natura dell' ente assoluto si sogliono chiamare via exclusionis , e via eminentiae . Conosciute le maniere per le quali il pensier nostro si forma la dottrina intorno a Dio, convien passare all' esposizione di questa dottrina, la quale considera Iddio in se stesso, e in relazione alle creature come autore del mondo, completando in questa seconda parte ciò che delle operazioni divine ad extra fu detto nella Cosmologia. Iddio considerato in sè è argomento di quella parte della Teologia naturale che tratta dell' essenza divina, della quale prima si espongono gli attributi. Di poi si esamina se l' intelligenza umana, sviluppata e resa potente dalla rivelazione, possa conoscere che l' essenza divina deva essere in tre persone: questione che si risolve affermativamente, come affermativamente fu sciolta da due teologi moderni, il P. Ermenegildo Pini, ed il Mastrofini. Rimane tuttavia ben fermo, che anche la dottrina intorno la Trinità, a cui può giungere la ragione, non è appunto altro che negativa ideale. Trattandosi di Dio come autore delle cose, si ragiona principalmente sulla relazione che ha l' atto creatore coll' atto dell' essenza divina e coll' atto delle stesse creature esistenti. Applicando poi al creatore dell' universo gli attributi dell' infinita potenza, scienza e bontà, di cui s' era parlato, s' entra nell' amplissima dottrina della conservazione e del governo dell' universo, come pure del fine assegnatogli, il cui adempimento non può fallire; e questa parte della Teologia, che contempla nel mondo i vestigi degli attributi di Dio, cioè la Provvidenza che regola gli avvenimenti secondo un eterno disegno, la potenza che li conduce all' adempimento di quel disegno senza vincolare la libertà delle creature intelligenti, e la bontà, la santità e la beatitudine partecipata a queste nature in una misura massima fra le possibili (salvi i divini attributi), che ne è lo scopo finale, forma quello speciale trattato che acconciamente si denomina Teodicea. SCIENZE DEONTOLOGICHE. - Le scienze deontologiche sono tutte quelle che trattano della perfezione dell' ente , e del modo di acquistare o produrre questa perfezione o di perderla. Si può trattare della perfezione degli enti in generale, onde nasce una Deontologia generale , e si può trattare della perfezione propria di ciascuna specie di enti, onde nasce la Deontologia speciale , che in più scienze si divide. DEONTOLOGIA GENERALE. - Gli enti possono considerarsi nella grande unità che formano mediante le loro relazioni scambievoli, di perfezione. Se queste relazioni si classificano secondo le categorie, si avranno tre grandi classi di relazioni: relazioni di perfezione proprie degli enti morali, relazioni di perfezione proprie degli enti intelligenti, relazioni di perfezione proprie degli enti reali, sieno sensitivi, sieno estrasoggettivi . E dissi relazioni proprie degli enti intelligenti, anzichè degli enti ideali, perchè l' ente ideale è propriamente un solo e semplicissimo, onde, quando si prescinde dai soggetti intelligenti e dagli enti reali, egli non ha intrinseche relazioni. Le relazioni di perfezione , disposte nelle accennate tre classi, sono immutabili se si considerano nell' essere supremo, ma, se si considerano nell' essere contingente, possono essere più e meno, e più e meno realizzate. Il loro realizzamento maggiore o minore trae seco altresì la maggiore o minor perfezione degli enti fra cui passano le accennate relazioni. Quindi nell' essere supremo c' è la somma ed immutabile perfezione, perchè le dette relazioni di perfezione sono immutabilmente e compiutamente avverate. L' essere contingente all' opposto è suscettibile d' imperfezione, e di più o men perfezione secondo l' avveramento delle accennate relazioni. Se le relazioni proprie degli enti reali sono appieno avverate, vi ha una perfezione reale: Se sono pienamente avverate le relazioni proprie degli enti intelligenti, vi ha una perfezione intellettuale: Se sono avverate le relazioni proprie degli enti morali, vi ha una perfezione morale. Queste relazioni, nel cui avveramento sta la perfezione dell' essere, hanno dunque un' esigenza sì in se stesse (oggettivamente considerate) che relativamente agli enti che sono i soggetti della perfezione e dell' imperfezione (soggettivamente considerate). Per esigenza oggettiva s' intende quella che concepisce la mente considerando l' essere in se stesso, senza fermarsi alla relazione con un soggetto particolare e reale. L' esigenza soggettiva è quella che concepisce la mente nel soggetto particolare e reale, osservando che la perfezione di questi esige l' avveramento di quella data relazione. La parola esigenza esprime quella necessità che è propria delle condizioni necessarie all' ottenimento di un fine, e che prende natura dal fine stesso. Ora v' ha una necessità reale o fisica, ed è quella esigenza che hanno le relazioni proprie degli enti reali di essere avverate, acciocchè gli enti reali o fisici ottengano la loro perfezione. V' ha una necessità intellettuale, ed è quella esigenza che hanno le relazioni proprie degli enti intellettuali di essere avverate, acciocchè essi ottengano la loro perfezione. V' ha una necessità morale, ed è quella esigenza che hanno le relazioni proprie degli enti morali di essere avverate, acciocchè essi ottengano la propria perfezione. Queste sono le tre necessità deontologiche , diverse dalle necessità ontologiche ; poichè le prime sono necessarie alla perfezione degli enti, le seconde alla loro esistenza. V' ha dunque una necessità fisica ontologica, e una necessità fisica deontologica; una necessità intellettuale ontologica (a cui si riduce anche la necessità logica), ed una necessità intellettuale deontologica; una necessità morale ontologica, ed una necessità morale deontologica. In Dio non cade questa distinzione, perocchè la necessità deontologica è ontologica per l' eccellenza della sua natura. Ma giacchè la perfezione è una forma, e, come abbiam veduto, ci sono forme soggettive e forme oggettive , perciò ci sono pure perfezioni soggettive e perfezioni oggettive . Di più, le forme soggettive, altre hanno una realità distinta dal soggeto informato, altre non sono che un elemento costitutivo dello stesso soggetto informato. Ora la stessa distinzione è da farsi delle perfezioni degli enti. In fatti gli enti reali hanno una perfezione propria, e ne hanno una che ricevono dall' azione scambievole fra loro, conveniente alla loro natura. Da questa scambievole unione ed azione risulta sempre la perfezione degli enti composti. Come la forma che fa esistere le intelligenze è un oggetto, così pure è oggettiva la forma che le perfeziona. Ma la forma che perfeziona gli enti morali, cioè dotati di volontà e di affetto razionale, è soggettiva7oggettiva , poichè la perfezione della volontà sta nel voler bene a tutti gli enti, alla totalità dell' ente, ma distribuendo questo affetto secondo la norma dell' oggetto, ossia, che è il medesimo, secondo il quantitativo di entità misurato negli enti coll' essenza dell' ente, che risplende allo spirito, e che è l' oggetto dello spirito, e la misura universale . L' ente intuito misura i diversi enti; e la volontà sente l' esigenza loro di essere riconosciuti per quel che sono. La volontà non dee opporsi all' intendimento, ma dee compiacersi del vero conosciuto dall' intendimento. Tutti gli enti sono per loro natura beni alla volontà, sono a lei amabili. Ma la volontà, essendo libera, può opporsi a questa legge di natura, e alle entità vere opporre delle entità false, come oggetti del suo amore; può accrescere e diminuire a se stessa le entità, e quindi i beni in opposizione al vero loro essere. Ora così facendo, ella contraddice alla verità, mentisce, fa guerra all' entità, è dunque ingiusta; altera la legge naturale che sta fra lei e gli enti reali, è dunque disordinata, snaturata. La menzogna interna, l' ingiustizia, il disordine volontario è il male morale: il contrario a tutto questo, è il bene. Il male si deve evitare, e il bene seguire. L' obbligazione non è altro che il concetto del male e del bene morale che dimostra all' anima la sua necessità. Fra i beni quello che si presenta più chiaro e più compiuto alla mente è l' ubbidienza all' essere supremo : tra i mali la disubbidienza al medesimo. La verità dunque e l' entità è il primo fonte e il primo nunzio dell' obbligazione; gli enti hanno, rispetto alla volontà, l' esigenza morale. L' esigenza ossia la necessità morale , è dunque diversa grandemente dall' esigenza che traggono seco le relazioni di perfezione degli enti reali e intellettuali; poichè la perfezione degli enti semplicemente reali e degli enti intellettuali non è la perfezione d' una volontà. La perfezione morale all' incontro è la perfezione d' una volontà, e dalla volontà è operata. Ora nella volontà consiste la persona , e la sola persona è vera causa delle azioni, a cui si possono imputare. Sebbene dunque l' ente reale possa essere più o meno perfetto, tuttavia questa perfezione non s' imputa all' ente reale, che n' è il soggetto e non la causa; ma solo si contempla dall' intelletto come una perfezione dell' ente. Lo stesso è a dirsi circa la perfezione dell' essere intellettivo. Sono perfezioni di natura, e non di persona. Quindi, rispetto alla perfezione degli esseri reali ed intellettuali, vi ha una sola esigenza; quella che dice: « acciocchè gli enti reali ed intellettuali siano perfetti, devono essere così e così. » Ma rispetto alla perfezione dell' ente morale concorrono due esigenze, l' una che nasce dall' ente in sè considerato e che dice: « l' entità, la verità dev' essere riconosciuta dalla volontà »: l' altra nasce dalla natura della stessa volontà e dice così: « se la volontà non riconosce l' entità e la verità, essa non ha la perfezione ». La prima è l' obbligazione imposta alla persona dall' esigenza degli enti da lei conosciuti (esigenza oggettiva); la seconda è l' esigenza della volontà stessa considerata come natura suscettibile di perfezione (esigenza soggettiva). La dottrina della perfezione degli enti può dividersi in tre gran parti. La prima descrive l' archetipo di ogni ente, cioè lo stato dell' ente che ha toccato la sua somma perfezione. La seconda descrive le azioni , colle quali si può produrre le perfezioni degli enti. La terza descrive i mezzi , coi quali si può acquistar l' arte delle dette azioni. L' archetipo dell' ente, ossia la perfezione ideale, è l' esemplare e la guida di tutte le arti; le azioni , colle quali si producono le perfezioni degli enti, sono comprese in tutte le arti meccaniche, liberali, intellettuali, morali; i mezzi che conducono a queste arti, costituiscono l' educazione speciale, ossia la scuola delle dette arti. Quindi apparisce l' immensa vastità della Deontologia generale . La Deontologia speciale è più vasta ancora, poichè ce n' è una per ogni specie di enti. E non solo per gli enti naturali , ma ben anco per gli artificiali . E se si parla di quelli di cui è artefice l' uomo, si fanno avanti, tra le arti più nobili, quelle che hanno per iscopo di produrre degli oggetti belli. Ciascuna delle belle arti ha la sua scienza propria; e tutte queste scienze suppongono una scienza del bello in universale, che chiamiamo Callologia, della quale è una parte speciale l' Estetica, che tratta del bello nel sensibile . Ma la Callologia e l' Estetica appartengono prima di tutto alla Deontologia generale, e massimamente a quella parte che descrive gli archetipi degli enti. Noi non ci fermeremo a classificare tutte le scienze deontologiche speciali, ma restringeremo il nostro discorso alla deontologia umana, cioè alla scienza della umana perfezione. L' uomo è un essere reale, intellettuale e morale; quindi partecipa della perfezione propria dei tre modi dell' essere. Ma poichè la perfezione morale è completiva dell' altre, ed ella sola è perfezione personale; perciò la dottrina della perfezione morale è quella che riassume in sè la dottrina dell' umana perfezione. La dottrina dell' umana perfezione presenta alla mente quelle tre stesse parti in cui abbiamo detto dividersi la Deontologia generale, cioè 1 la dottrina dell' archetipo umano , a cui ogni uomo deve procurare di avvicinarsi; 2 la dottrina di quelle azioni, colle quali l' uomo avvicina e conforma se stesso a quell' archetipo; 3 la dottrina de' mezzi ed aiuti, co' quali è stimolato e avvalorato a tali azioni. La prima di queste dottrine dicesi Teletica , la seconda Etica , la terza, cioè la dottrina dei mezzi, si parte in più scienze, perchè l' uomo può acquistare ed applicare questi mezzi a se stesso, e questa scienza dicesi Ascetica; ovvero può applicargli a' suoi simili, eccitandogli e aiutandogli all' acquisto della perfezione umana, e la scienza che insegna ad applicargli all' individuo, dicesi Educazione o Pedagogica; quella che insegna ad applicargli alla società famigliare, acciocchè questa, resa buona, influisca a render buoni gl' individui che la compongono, chiamasi Iconomia; quella che insegna ad applicargli alla società civile, acciocchè anche questa, resa buona, abbonisca i suoi membri, dicesi Politica; quella finalmente che insegna ad applicargli alla società teocratica del genere umano, dicesi Cosmopolitica . TELETICA. - La scienza che descrive l' uomo perfetto come un archetipo, non fu ancora scritta nè tentata, ed ella non potrebbe essere prima che tutte l' altre scienze intorno all' uomo giungano alla loro perfezione; e neppur allora questa scienza sarà mai compiuta. Massimamente che l' uomo al presente è decaduto e la sua natura non fu pura giammai, nè era conveniente che tale fosse lasciata, onde fu sempre mista col divino e col soprannaturale; e ciò che può divenir l' uomo più perfetto in quest' ordine doppio, voglio dire naturale e soprannaturale, è cosa che vince o sfugge il pensiero stesso dell' uomo, e però non può essere compiutamente raggiunto dall' umana filosofia. Ma invece d' avere questo archetipo descritto in parole e consegnato alla morta lettera de' libri, Iddio stesso pose innanzi all' uomo il suo archetipo vivente, e questi è GESU` Cristo, Capo e Signore dell' uman genere. ETICA. - L' uomo dee esser buono e non cattivo: la bontà dell' uomo consiste nella bontà della sua volontà; poichè egli è evidente, che colui che ha una volontà pienamente buona, è uomo buono. Ora la bontà dell' uomo, e non delle cose sue, dicesi bontà morale , e quella qualità della volontà umana, per la quale l' uomo è buono, dicesi bene morale , ovvero bene onesto; e di questo bene tratta l' Etica. L' Etica dunque è la scienza che tratta del bene onesto . Il filosofo morale fa tre cose; 1 analizza il concetto del bene onesto, distinguendone gli elementi, e poi li raccoglie tutti in una definizione scientifica; 2 cerca di conoscere in che modo, cioè con quali atti volontarŒ e liberi e con quali abiti l' uomo il possa conseguire, e per lo contrario in che modo e con quali azioni lo perda, rendendosi malvagio; 3 quanta sia l' eccellenza e la preziosità del bene onesto, senza del quale gli altri non sono veri beni per l' uomo. Quindi l' Etica si divide in tre parti. La prima tratta della natura del bene onesto , e dicesi Etica generale , perchè non discende a nessuno di quegli abiti o atti speciali, ne' quali il bene onesto si trasfonde; ma parla di quella condizione che tutti gli abiti e tutti gli atti devono avere per essere onesti. La seconda tratta de' modi del bene onesto ; e dicesi Etica speciale , perchè lo considera negli abiti ed atti speciali che lo partecipano. La terza tratta dell' eccellenza del bene onesto; e dicesi Eudemonologia dell' Etica , perchè l' eccellenza del bene onesto si scorge singolarmente nel vedere resa da lui perfetta e felice la natura intelligente e volitiva. Etica generale . - Dovendo dunque la prima parte dell' Etica trattare del bene onesto, ella ne investiga gli elementi, i quali sono tre, la volontà e libertà , la legge , e la conformità della volontà e libertà colla legge . Trattando della volontà, l' Etica s' appropria una parte dell' Antropologia o della Psicologia, trattando del potere della volontà sulle altre potenze dell' uomo, de' confini di questo potere e della libertà di cui è fornita, per la quale diventa causa responsabile delle azioni. Parlando della legge (Nomologia), la definisce da principio in un senso larghissimo, come il principio dell' obbligazione . Cerca in appresso quale sia la prima di tutte le leggi, cioè quale il primo principio dell' obbligazione espresso in una formola logicamente anteriore a tutte le altre, di modochè ella esprima l' essenza stessa dell' obbligazione, nel primo atto in cui all' uomo si manifesta, senza che questi abbia bisogno di cercarne una ragione ulteriore. E poichè il lume della ragione e della volontà umana è l' essere ; quindi apparisce, che la prima formola dell' obbligazione evidente per se medesima, si è: « Segui il lume della ragione », ovvero: « Riconosci l' essere »Conoscere è l' atto della ragione, ed appartiene sempre all' ordine teoretico ; riconoscere spesso è l' atto corrispondente della volontà, ed appartiene all' ordine pratico . Ma l' essere ha un ordine in se medesimo, onde avviene che certi esseri sieno maggiori e più eccellenti di altri ed abbiano maggior dignità, e quest' ordine è quello che deve essere riconosciuto dalla volontà, onde la formola dell' obbligazione universale, ossia il principio dell' Etica può anche esprimersi così: « riconosci l' essere qual' è nel suo ordine ». L' atto della ricognizione pratica è quello in cui nasce la stima proporzionata al grado dell' essere, e alla stima tien dietro un' eguale quantità di amore, che si diffonde anch' egli proporzionatamente su tutti gli enti, e all' amore tengon dietro, o per mezzo di decreti della volontà, o senza decreti espressi, le operazioni esteriori ordinate in conformità di quell' amore, le quali rendono decente e armoniosa tutta la vita dell' uomo virtuoso. Ma fra gli esseri, Iddio è assoluto principio e fine di tutti gli altri: egli dunque è il fine ultimo altresì della volontà e de' suoi atti nell' uomo onesto, il fine ultimo in cui tende ogni ricognizione, ogni stima, ogni amore, ogni azione umana: indi la Religione, come morale ultimata e sollevata all' ultimo suo stato di compitezza, nel quale ogni dovere diventa sacro, ogni virtù diventa santità. Come dunque tutti gli esseri procedono da Dio per la creazione e da lui dipendono per la conservazione, così a lui tutti devono riferirsi, e alla volontà divina tutte le volontà conformarsi. E la volontà divina diviene altresì il fonte della legislazione positiva, cioè di quelle leggi che sono positivamente manifestate da Dio agli uomini. L' Etica indica la differenza fra la legge naturale e la positiva , e mostra come il rispetto dovuto a questa procede da quella. Dopo i doveri verso Dio, vengono i doveri verso le create intelligenze, i doveri che ciascun uomo ha verso i suoi simili, quantunque questi sieno subordinati ai doveri verso Dio, come i creati sono subordinati al creante; tuttavia anche gli uomini sono oggetti di doveri morali, come quelli che hanno ragione di fine, ed hanno ragione di fine, perchè sono forniti d' intelligenza e nell' intelligenza c' è l' essere ideale, il quale è un elemento divino. Infatti la volontà che è la facoltà attiva dell' intelligenza, non può avere per suo fine e per suo bene, se non qualche cosa d' infinito e di divino: onde procede quella sentenza che « la morale abbraccia sempre in qualche modo l' essere nel suo tutto. » Svolgendo il secondo elemento del bene morale cioè la legge, l' Etica insegna ancora ad applicarla ai casi speciali, onde la logica speciale sua propria che tratta principalmente della coscienza morale. Quivi si danno le regole per applicare le leggi alle azioni particolari, e specialmente al caso, in cui si dubiti della legge. La regola principale da applicarsi a questo caso è la seguente: « se si dubita dell' esistenza della legge positiva e non si può sciogliere il dubbio, la legge non obbliga, se poi si dubita in una materia appartenente alla legge naturale in modo che il dubbio cada sopra un male intrinseco all' azione, deve evitarsi il pericolo di questo male. » Venendo poi al terzo elemento, cioè alla relazione fra la volontà e la legge, l' Etica espone tutti i modi, in cui questa relazione può variare, e descrive i diversi stati buoni o rei in cui entra la volontà e la libertà umana, e l' uomo stesso mediante tali variazioni. Etica speciale . - Trattando questa seconda parte dell' Etica delle forme speciali del bene e del male morale, comincia dal distinguere l' atto e l' abito , mostrando la varia moralità di cui l' uno e l' altro è suscettivo. Quindi passa ad esporre gli officŒ speciali verso la divinità e verso l' umanità. Riguardo a questi ultimi, l' uomo deve rispettare ed onorare la natura umana in se stesso e ne' suoi simili: deve rispettarla negli individui e nelle diverse società o naturali o artificiali, nelle quali gli uomini si uniscono. Tutte le relazioni sociali prestano occasione all' esistenza di officŒ morali. Tratta in appresso degli abiti , e quindi di tutte le speciali virtù e di tutti i speciali vizŒ . Ragiona ancora de' mezzi co' quali può evitarsi il male e procacciarsi il bene morale, alla qual parte come abbiam veduto, si suol dare il nome d' Ascetica. Eudemonologia dell' Etica . - Questa terza parte finalmente considera l' eccellenza del bene morale e la turpitudine del male morale: mostra che l' una e l' altra è infinita: descrive la dignità e la gioia dell' anima virtuosa, l' ignobilità e la miseria della viziosa: prova che niun uomo veramente virtuoso è infelice, niun malvagio felice: apre quindi la fiducia e l' aspettazione, che giace nel cuor umano, che la virtù abbia premio eterno, il vizio eterno castigo: lo prova co' divini attributi: e dopo aver condotto l' uomo fin qui, quasi pedagogo, il savio filosofo consegna il suo alunno nelle mani d' una maestra più sublime, la Rivelazione. DIRITTO RAZIONALE. - Dall' Etica procede l' amplissima scienza del Diritto razionale: questo nasce dalla protezione, che l' Etica, ossia la legge morale, dà al bene utile , e più generalmente a tutti i beni eudemonologici, di cui possono fruire gli uomini. Infatti uno dei doveri etici è quello che l' uomo non noccia al suo simile: i giureconsulti romani l' espressero colla formola neminem laedere . Nessun uomo dunque può pregiudicare al bene che ha il suo simile. Ora l' uomo che ha questo bene, il quale, in virtù della legge morale non può esser toccato da nissuno, dicesi che ha un diritto . Se l' uomo che ha questo diritto, non avesse la facoltà di cavarne dell' utilità a se stesso, non ci sarebbe più nè il bene, oggetto del diritto, nè il diritto stesso. Il diritto dunque subiettivamente, cioè in rispetto al subietto che lo possiede, è una facoltà eudemonologica, protetta dalla legge morale. E dall' esser questo bene eudemonologico protetto dalla legge morale, egli acquista una certa dignità morale, e colui che lo possiede acquista la potestà di difenderlo contro quelli che glielo volessero rapire, o comechessia deteriorare. La scienza del Diritto quindi si occupa 1 In classificare tutti que' beni che possono esser oggetto o materia di diritto: 2 In determinare qual sia la protezione che la legge morale loro accorda, fin dove s' estenda e a quali condizioni: 3 In decidere i casi dubbŒ, cioè quelli che nascono per la collizione apparente dei diritti: 4 In determinare altresì fin dove sia autorizzata la difesa de' diritti dalla stessa legge morale, e in quali circostanze e condizioni ella sia legittima: 5 Finalmente tratta della soddisfazione e del risarcimento de' diritti violati, e però de' danni e delle ingiurie. Tutti i beni ed i diritti che ha l' uomo in relazione co' suoi simili, ricevono due forme, che diventano la base della suprema classificazione dei diritti medesimi: la libertà , e la proprietà . La libertà è quella potestà che ciascuno ha d' usare di tutte le sue potenze, fino a tanto che non entra nella sfera de' diritti altrui, cioè che non tocca i beni che hanno già i suoi simili. La proprietà è l' unione de' beni coll' uomo: questa unione riposa sopra una legge psicologica, la quale fa sì che l' uomo possa unire a sè delle cose diverse da sè, quasi a somiglianza di quell' unione che ha il suo corpo coll' anima sua. Quest' unione permanente si fa per via di sentimento e per via d' intelligenza; per via di sentimento anche le bestie uniscono a sè delle cose esteriori: così sono uniti i figliuoli alla madre, i cibi che hanno presenti o che raccolgono, i nidi e le abitazioni ed altre cose che talora si contendono tra loro a morte, e così hanno una certa proprietà, ma non morale nè giuridica. L' uomo unisce a sè le cose per vincolo naturale e di sentimento ed anche pel vincolo che vi soprappone l' intelligenza, per mezzo della quale l' uomo fa assegnamento su molte cose esterne e le riserva agli usi futuri. Questa ancora è una certa proprietà, ma non quella proprietà che costituisce il diritto. Ma quando al vincolo del sentimento e a quello dell' intelligenza s' aggiunge il vincolo morale , allora la proprietà è convertita in diritto. Ora questo vincolo consiste, come dicevamo, nella protezione che la legge morale accorda ai due primi vincoli, imponendo agli altri uomini l' obbligazione di rispettarli: la ragion morale poi impone questa obbligazione, quando que' due primi vincoli fra l' uomo e le cose sono stati stretti mediante la libertà giuridica, cioè senza dividere le cose appropriatesi da altri uomini, a cui fossero già unite. E una tale obbligazione nasce da questo: il dividere ciò che l' uomo ha seco unito d' affetto e d' intelligenza, è un cagionarli dolore, un fargli male; ma non si può far male altrui per far bene a se stesso; dunque la ragion morale vieta di offendere l' altrui proprietà. Il subietto dei diritti può essere l' uomo individuo considerato in relazione co' suoi simili, e l' uomo sociale . Quindi la scienza del diritto ha due parti, che sono il diritto individuale e il diritto sociale . Il diritto individuale ragiona di tre cose, cioè: 1 De' diritti connaturali e de' diritti acquisiti, descrivendone la natura e le condizioni, i titoli e i modi d' acquisto: 2 Della trasmissione de' diritti e delle modificazioni che ad essi derivano: 3 Delle alterazioni de' diritti altrui e delle obbligazioni e modificazioni de' diritti scambievoli che ne conseguono. Il diritto sociale nasce dall' individuale , perchè nasce dal fatto dell' associazione, e la facoltà di associarsi onestamente fra loro è un diritto connaturale di tutti gl' individui umani, il quale non viene limitato se non dalla circostanza, che la nuova associazione entri a perturbare un' altra associazione precedente e già in attuale possesso. Il diritto sociale è universale , e particolare . Il diritto sociale universale considera i diritti e i doveri che nascono dal fatto di un' associazione qualunque, e questo è interno fra i membri della società, o esterno tra la società di cui si tratta e le altre società, o anche tra essa e gl' individui che sono fuori della medesima. Il diritto interno si divide naturalmente in tre parti, le quali trattano: 1 Del diritto signorile , in quanto si mescola col diritto governativo. 2 Del diritto politico o governativo, che è quanto dire de' diritti e delle obbligazioni di chi governa e amministra la società. 3 Del diritto comunale , che espone i diritti e le obbligazioni comuni a tutti i membri della società. Questa stessa divisione s' applica al diritto sociale particolare , essendoci in ogni società quelle tre maniere di diritti e di obbligazioni sociali. E ci possono essere innumerevoli società, ciascuna delle quali ha il suo diritto che risulta da un' applicazione de' principŒ esposti nel diritto sociale universale ; ma v' hanno tre società che sono necessarie al genere umano e l' organizzano, la perfezione delle quali dee ricondurre il genere umano alla sua primitiva unità e renderlo come una sola famiglia ordinatissima. Queste tre società sono la Teocratica , che è naturale7divina; la Domestica che è naturale umana, e si biparte nella Coniugale e nella Parentale; e la Civile che è una società artificiale, ma necessaria al bene dell' umana specie. Il diritto particolare di queste tre società dà luogo a tre trattati di altissima rilevanza. La società Teocratica è o iniziale, e avvincola gli uomini per via della morale e della religione naturale; ovvero perfetta, ed è la Chiesa Cattolica che avvincola oltracciò e stringe gli uomini con de' legami positivi d' una religione e d' una morale rivelata e soprannaturale. Anche qui c' è un diritto signorile , un diritto governativo , e un diritto comunale . Il diritto della società domestica è duplice, come dicevamo, quello che riguarda i coniugi , e tratta della natura del matrimonio e delle sue condizioni, della maniera di stringerlo e dei diritti e delle obbligazioni de' coniugi: e quello che riguarda i genitori e i figliuoli , e tratta pure de' diritti reciproci e delle obbligazioni reciproche che vi corrispondono, avuto riguardo altresì alle morali. Il diritto particolare della società civile ne espone la natura e l' origine, e quindi le tre parti della signoria , del governo e della cittadinanza , assegnando i diritti e le obbligazioni di ciascheduna, e, rispetto a questo diritto, potendo la società civile essere costituita a varie forme e provveduta di varŒ organi e funzioni, può darsi una teoria generale di diritto nazionale per tutte le società civili, avuto riguardo solo a ciò che è a queste essenziale e comune, e una teoria di diritto per ogni forma diversa che potesse prendere il corpo civile. Ma a tutto ciò sopravvanza ancora una ricerca più elevata, quando si domanda: « data che fosse una moltitudine, e questa non costituita ancora a società civile, la quale avesse incaricato un filosofo di darle una costituzione, quale sarebbe la costituzione che se le dovesse prescrivere, traendola dai soli principŒ di giustizia e fatta interamente astrazione da ogni riguardo politico ». Perocchè tale e tanta è la virtù e la fecondità dei principŒ della giustizia, che quando si deducono da essi le illazioni che ne procedono (al che si richiede certamente una mente costante), queste sole ci darebbero tutte le leggi anche politiche, colle quali si può organare internamente una nazione, colla massima probabilità di concordia e di prosperità. E sta qui la congiunzione fra le scienze giuridiche e le politiche . Finalmente il diritto esterno , o comune ad ogni società, o particolare di ciascuna di esse, non è che un' applicazione del diritto individuale, considerandosi le società come altrettanti individui. DOTTRINA DE' MEZZI. - Ascetica . - L' Ascetica non può fare una scienza separata dall' Etica, perchè argomento dell' Etica è l' obbligazione morale e la virtù non solo ne' loro concetti universali, ma anche ne' loro atti più speciali; ed è manifesto, che i mezzi e gli aiuti alla virtù sono materia d' obbligazione per l' uomo, e il procacciarsegli e l' usarli convenevolmente sono atti virtuosi, a cui certe virtù si riferiscono. Pedagogica . - Questa scienza tratta dell' arte dell' educazione umana. L' uomo è educato parte da se stesso, parte dalla società domestica, a cui riduciamo ancora l' educazione che riceve da' precettori che suppliscono all' ufficio dei genitori o cooperano con essi, parte dall' influenza che esercita sopra di lui la società civile in cui nasce e cresce, e parte dall' influenza che esercita sopra di lui la società teocratica. Onde questa scienza s' estende a molti trattati, e tali sono quello dell' educazione di se stesso , dell' educazione domestica , della magistrale , dell' educazione civile , e dell' educazione ecclesiastica . E a tutti questi si dee aggiungere un trattato che ha subietto magnifico, vogliam dire il trattato dell' Educazione provvidenziale , cioè di quella con cui Iddio, ordinando e disponendo gli avvenimenti, educò il genere umano e l' educa di continuo e gl' individui stessi. Ciascuno di questi trattati naturalmente si divide in tre parti, potendo l' uomo ricevere educazione rispetto alla sua parte morale, alla sua parte intellettuale e alla sua parte fisica. Ma l' educazione dell' individuo umano dee avere una perfetta unità, ed è un grand' errore il credere che l' educazione fisica, intellettuale e morale sieno tre cose separate e indipendenti. Quindi la prima regola dell' arte pedagogica, che è quella dell' unità . Uno è il bene umano a cui dee tendere l' educazione, e questo è il morale. Tale è il fine. Non conviene dunque che si dia un' educazione intellettuale o fisica disgiunta dalla morale, ma conviene che si dieno queste come mezzi di quella, per modo che niuna cognizione o dote intellettiva e niuna abilità corporale si promova in colui che s' educa, se in pari tempo non si subordina alla sua morale perfezione. E tutto ciò che fa l' educatore, tutti i mezzi che impiega nell' educare devono con una perfetta coerenza e costanza a questo fine ordinarsi. Tale è il principio della pedagogica. Iconomia - L' Iconomia tratta del governo della famiglia, ne indica la costituzione e le leggi reali e quasi direi meccaniche del suo movimento, sia verso la perfezione, sia a ritroso di questa, leggi che nascono dalla sua naturale costituzione. La famiglia ha dei costitutivi essenziali: oltre di questi ne ha di quelli che sono necessarŒ alla sua prosperità e che fluiscono dalle stesse leggi reali che accennavamo. Uno di questi è il principio seguente: « dee esservi equilibrio fra il numero delle persone che la compongono e i mezzi di sostentamento ». Di poi espone i principŒ dell' arte di governarla in modo che prosperi. E questa stessa prosperità vuol essere ordinata ad avvicinare gl' individui che la compongono, alla perfezione e felicità umana. Il governo della famiglia che si descrive, è quello che nasce dall' uso de' mezzi che presta la società domestica, e principalmente del potere proprio del governo famigliare. Il governatore, cioè il padre di famiglia, dee stendere le sue vedute fuori della famiglia stessa formando tali individui che sappiano mantenere la concordia e l' armonia colle altre società domestiche, colla civile e colla teocratica. Una delle malattie proprie di questa società è l' egoismo famigliare : la malattia opposta è l' individualismo . La famiglia, affetta dal primo di questi due morbi, si rende guerriera e s' espone al rischio delle guerre, onde può esser distrutta per violenza o divenire dominante: la famiglia affetta dal secondo si discioglie, o perisce per interna discordia. L' Iconomia addita i caratteri di tali malattie proprie della famiglia, e insegna il modo di preservarnela. Politica - E` la scienza dell' arte del governo civile. Si devono distinguere le scienze politiche particolari dalla Filosofia della politica . Ciascuna di quelle tratta d' un elemento o d' uno de' mezzi , con cui si governa la società civile; ma questa cerca l' ultime ragioni dell' arte. Le ultime ragioni sono primieramente i criterŒ politici , cioè quelle regole supreme che insegnano a valutare il vero valore di tutti i mezzi ed espedienti a cui ricorre l' uomo di stato nel governo della società civile. I criterŒ politici si dividono in quattro classi, che scaturiscono dal considerare la società civile come un corpo che si dee sospingere verso un termine dato. La teoria di questa operazione risulta: Dal considerarsi il termine , a cui si dee sospingere il detto corpo - Così la Filosofia della Politica dee prima di tutto investigare, qual sia il fine verso al quale dee muoversi incessantemente la civil società; e questo è la prosperità pubblica, che risulta come da cause, dalla giustizia e dalla concordia de' cittadini . Quindi i criterŒ tratti dal fine della società civile, i quali si riducono a questi due: a) Rivolgere il governo a mantenere e convalidare quella forza prevalente, a cui è appoggiata l' esistenza della società; e questa forza prevalente, cangia secondo i diversi periodi di vita che la società civile percorre. Quindi la teoria di questi cangiamenti. In altre parole, questo criterio s' esprime brevemente così: « aver cura della sostanza della società civile e trascurare gli accidenti ». b) Rivolgere il governo a fare che i cittadini ottengano la prosperità temporale nella moralità, ossia a fare che la prosperità temporale produca il bene proprio della natura umana, del quale solo l' uomo s' appaga. I cittadini appagati sono tranquilli e concordi. Dal considerarsi la natura dello stesso corpo. - Così la Filosofia della Politica dee investigare la natura della società civile e la sua natural costruzione e dedurne questa regola: « quella politica che avvicina la società civile alla sua costruzione naturale e regolare, è buona, quella che ne l' allontana, è cattiva ». La natural costruzione della società civile risulta da alcuni equilibrŒ che sono i seguenti: a) Equilibrio fra la popolazione e la ricchezza. b) Equilibrio fra la ricchezza e il potere civile. c) Equilibrio fra il potere civile e la forza materiale. d) Equilibrio fra il potere civile e militare, e la scienza. e) Equilibrio fra la scienza e la virtù. I criterŒ politici di questa classe si riassumono in questa formola: « tutti i mezzi politici che avvicinano la società civile ai cinque equilibrŒ sopra indicati, sono buoni, quelli che ne l' allontanano, sono cattivi ». Dal considerarsi le leggi del movimento . - Così la Filosofia della Politica deve considerare nella storia le leggi, secondo le quali si muovono le società civili; pensiero dovuto a Giovambattista Vico, che potè indicarlo, non isvolgerlo a sufficienza, per la profondità delle meditazioni che si richiede a colorirlo e incarnarlo mediante sagaci osservazioni sulle diverse trasformazioni subìte da ciascun popolo della terra. Quindi de' criterŒ politici che si riducono a questa formola: « i mezzi politici che stanno in armonia colle leggi del movimento naturale delle società civili, sono buoni; gli altri come contrari alla natura, sono cattivi. » Dal considerarsi le forze atte a spingere i corpi. - Così la Filosofia della Politica dee valutare le forze, per le quali la società civile è sospinta verso il bene. Questa valutazione esige molta sagacità e una gran potenza d' astrazione, perchè ci sono delle forze dirette e delle indirette , e queste ultime sfuggono alla attenzione, e sono quelle che producono i maggiori effetti. Da questo fonte si deducono de' criterŒ politici che tutti si riassumono in questa formola: « I mezzi politici, che con minor dispendio e con minor azione ottengono un effetto più grande di bene sociale, sono i migliori. » Scoperti così i sommi criterŒ politici, che sono le ultime ragioni di quest' arte e costituiscono la Filosofia civile , rimane a farne l' applicazione, cioè a valutare con essi il vero valore rispettivo di tutti i mezzi politici somministrati dalle particolari scienze politiche, ricerca che conduce a questo risultato: « La Religione e propriamente il Cattolicismo è il mezzo politico di maggior valore, quello che tempera ed armoneggia tutti gli altri. » Cosmopolitica . - Questa scienza è la teoria del governo della società teocratica, come quella da cui sola può venire l' unità del genere umano e la sua organizzazione compiuta. La filosofia spinge avanti tutte queste ricerche fino a tanto che la mente umana trovi il suo pieno soddisfacimento, il suo riposo. La mente trova questo riposo, quando ella è giunta a discoprire le ultime ragioni a cui ella possa giungere, e s' è persuasa ad evidenza, ch' esse sono veramente le ultime, ch' ella non può in alcun modo andare al di là. Ora poi queste ragioni ultime, rinvenute che siano, rispondono altresì ai supremi bisogni dell' animo umano. E tale è il frutto della filosofia. Se il fine della filosofia è di trovar quiete e riposo alla curiosità della mente, il suo frutto più prezioso ancora è di assicurare l' animo umano della possibilità che egli giunga al compimento di tutti i suoi desiderŒ, di togliergli intorno a ciò ogni incertezza, e di additargli quella sicura via, per la quale egli giunga alla cima a cui tende. La qual via lo conduce a Dio, a cui il consumato filosofo si dà ad ammaestrare come discepolo, ed a perfezionare come creatura. Tale è il fine della filosofia, tale il suo frutto. Ma se invece di considerare la scienza , si vuol considerare la scuola della filosofia , ella in tal caso diventa la vera pedagogia dello spirito umano , della mente cui manoduce alla scienza più compiuta, e dell' animo a' cui affetti svela innanzi il più compiuto bene. Sotto il quale aspetto d' una pedagogica dell' umanità la filosofia è concepita da Platone. Mi parrebbe essere troppo scortese, se non ringraziassi V. S. del dono, che non posso dubitare venirmi da lei, del primo dei suoi discorsi sulla necessità di restaurare nelle scuole italiane la clinica Ippocratica , e del suo « Saggio intorno al fondamento, al progresso ed al sistema dell' umana conoscenza »; ma la sola stima, che m' ha ingenerato della sua persona la lettura di queste sue produzioni scientifiche, è quella che mi muove, non dirò a scriverle il mio giudizio di quest' ultima, com' ella mi chiede nella scritta appostavi, ma piuttosto a sottometterle qualche osservazione su di ciò che tanto gentilmente ella dice del mio sistema filosofico. Prima però non posso tacerle il grato sentimento, che in me cagionò la lettura del suo discorso contro la dottrina eccitabilistica, persuasissimo, come sono, che anche in medicina, del pari che nelle altre scienze tutte, la presunzione de' moderni abbia ingiustamente dispregiata l' antica sapienza, o, a dir meglio, la sapienza tradizionale de' secoli. E riconoscendo l' acutezza delle sue vedute e il suo modo complessivo di pensare, più volte nacque in me il desiderio, che ella, come giudice competente, vedesse ed esaminasse quelle cose, che io dissi nell' « Antropologia » sull' animalità, certo che dal suo giudizio se ne potrebbe vantaggiare la scienza. Io ho sempre avuto in sospetto la teoria browniana, qualunque fosse la foggia ch' ella vestisse dopo il primo suo autore, parendomi che quella teoria supponga troppo men complicata la natura ch' essa non è, e troppo facil cosa l' arte medica. Quanto poi alla sua sentenza sulla natura della vita, penso che ella dovesse riscontrare qualche cosa di analogo al suo concetto in quella mia « Antropologia . » Nella quale tuttavia io proposi due maniere di definire la vita che mi sembrano necessarie indispensabilmente a distinguersi, per trovare l' anello di congiunzione fra la Fisiologia e la Metafisica: l' una delle quali tende a definire la vita da' fenomeni soggettivi (di sentimento), e l' altra da' fenomeni estrasoggettivi (d' osservazione esterna); nè so, che questa doppia maniera di concepire e definire la vita sia stata da altri notata o svolta a quel modo che io ho procurato di fare; e molto mi piacerebbe, se ella si compiacesse di considerarla. Ora eccomi ad esporle le osservazioni che le dicevo sulla maniera, ond' ella, nel suo « Saggio » intorno all' umana conoscenza, concepisce il mio sistema filosofico. Mi permetta che affin di procedere con chiarezza maggiore io richiami le sue parole. Dopo aver ella dichiarato di trovarsi meco d' accordo in « riconoscere nella origine dell' umano sapere la concorrenza di elementi sperimentali ed intellettuali insieme », soggiunge così: « Se non che, rispetto alla teorica da lui esposta, dobbiamo dichiarare, non esserci stato possibile di convincerci che tutto il dato, che vien posto dall' intelligenza nella formazione delle conoscenze, si riduca all' idea dell' ente in universale: siccome egli fermamente mantiene in tutti i suoi trattati. » Da queste parole potrebbe credersi, che nella formazione della conoscenza il soggetto uomo, secondo me, non mettesse del suo, se non l' idea dell' ente in universale, il quale dicesi suo solo perchè lo possiede e ne fa uso, benchè non costituisca alcuna parte del soggetto medesimo. Ma qualora si dovessero intendere a questo modo le sue parole, esse non renderebbero la mia mente, anzi se ne dipartirebbero d' assai. Perocchè, io fo risultare la conoscenza (non però ogni conoscenza) da tre, e non da due sole specie ben distinte di elementi, cioè 1 da elementi esterni, estrasoggettivi ; 2 da elementi soggettivi , che sono le leggi venienti dalla natura del soggetto conoscente; 3 da elementi oggettivi , che si riducono poi all' essere , di cui abbiamo, com' io penso, un' immanente intuizione. Vede ella dunque che alle leggi che emanano dalla natura del soggetto , io fo assai volentieri una buona parte nell' opera della formazione della conoscenza umana; e che da queste leggi soggettive io distinguo al tutto l' oggetto , cioè l' essere , il quale non emana punto dall' uomo, soggetto; nè può ricevere da lui alcuna vera passione, ma vien dato all' uomo dal di fuori, cioè da Dio, viene mostrato all' uomo, e il mostrarglielo è il medesimo che dargli il lume d' intendere tutte le cose, in una parola renderlo un essere intelligente. Per me, niuna mente può intendere mai altro che essere, non può ragionare d' altro che di essere, non può affermare altro che essere, sicchè l' essere è essenzialmente l' oggetto intuibile, e perciò il lume dell' intelligenza, tolto il quale essa non può più nè intendere, nè affermare, nè giudicar cosa alcuna, e però ella stessa non esiste oggimai più. L' intuizione dell' essere dunque non forma solo l' intelligenza umana, ma tutte le intelligenze che sono o sono possibili. All' incontro le leggi soggettive , che procedono dalla nostra natura umana e che costituiscono la seconda specie d' elementi che entrano nella formazione del sapere, sono quelle che determinano la conoscenza umana , ossia che danno alla nostra conoscenza quel carattere distintivo, che la separa da quella di tutti gli altri esseri intelligenti che sussistono o possono sussistere d' altra fatta diversa dall' uomo. Sono queste leggi soggettive, che mettono que' limiti alla conoscenza, di cui io ho parlato nel « Saggio sui confini dell' umana ragione » ecc.; e son pur esse quelle, che danno alla conoscenza dell' uomo una conformazione speciale, configurando, per così dire, e insieme concorrendo a produrre la materia del conoscere, e il contenuto stesso della conoscenza, di che ho parlato nel « Nuovo saggio , » nel « Rinnovamento » e nell' « Antropologia . » Mi sono poi occupato in queste stesse opere a dimostrare, che questa parte soggettiva che entra nella conoscenza dell' uomo, non toglie punto a questa la sua veracità; perchè rimane sempre in fondo d' ogni conoscimento un elemento assoluto che è l' essere, il quale è sincerissima luce, che aiuta l' uomo stesso a distinguere la parte oggettiva dalla soggettiva della sua propria cognizione, e dichiara quella assolutamente vera, e questa vera relativamente. Dalle quali cose, ella può in parte rilevare, com' io la senta di quanto dice in appresso, cioè che l' idea dell' essere in universale non costituisca un elemento positivo della intelligenza: « ma invece ci è sembrato, continua, che la suddetta idea (se pure idea nel nostro senso può essere appellata) si risolva nella legge fondamentale dello spirito, per la quale siamo costretti, indipendentemente da ogni principio logico, di congiungere universalmente all' ideale il reale (sussistente o possibile), come termini correlativi intra loro per modo, che il primo non può essere senza il secondo: talchè l' essere è la relazione delle cose, delle loro sostanze, delle loro cause e de' loro fini colle idee delle medesime ». Su queste parole, devo primieramente avvertire, ch' io non potrei dividere il reale, come par ch' ella faccia, in sussistente e possibile ; conciossiachè, alla mia maniera di concepire, il reale in se stesso non è altro che il sussistente, e l' ideale non è altro che il possibile, benchè io accordi che nella mente fra questi due modi di essere passi una relazione, per la quale il reale si può considerare nel possibile e viceversa, relazione che io chiamo inesistenza . La possibilità della cosa non è dunque altro agli occhi miei che la cosa stessa intuita dalla mente nella sua essenza , quando la mente non giudica ancora, che la cosa intuìta realmente sussista. Vero è, che quando la mente contempla l' essenza d' una cosa, nè pur vi aggiunge necessariamente un espresso giudizio sulla sua possibilità; e però accordo, che, chiamando io poi la cosa stessa possibile , aggiungo, con questa denominazione posteriore, una relazione all' essenza della cosa: ma questa però è una relazione, che non ha bisogno d' altro che dell' essenza della cosa intuita, è una di quelle relazioni che sono in se stesse negative e che acquistano una forma positiva soltanto dalle leggi soggettive del pensare. Quanto poi al chiamare l' ideale e il reale « termini correlativi intra loro per modo che il primo non può essere senza il secondo », io l' ammetto nel modo che dirò appresso: ma io aggiungo di più, che la correlazione di que' termini è tanto necessaria, che nè pure il secondo può essere senza il primo, cioè il reale non può essere senza l' ideale. Il che è vero ogni qualvolta per reale s' intenda un oggetto e non un mero soggetto; perchè l' esistenza soggettiva non richiede per immediata necessità l' oggettiva, benchè tuttavia si dimostri con un ragionamento ontologico, che finalmente la richiede. Dicevo dunque, che un reale non può esistere come oggetto, se non a condizione che ci sia una mente, la quale lo riferisca all' idea, e così gli dia l' oggettività. Se ella considera, che l' idea e il possibile sono appunto il medesimo, per usare una frase scolastica re sed non ratione , troverà innegabile questa mia proposizione; conciossiachè egli è innegabile che niente può sussistere, se non a condizione che sia possibile. Vengo a dire in che senso io ammetta, che neppure l' essere ideale possa stare senza un reale. L' essere ideale è l' essere possibile in quant' è intuito, o, se si vuol meglio, è l' essenza dell' essere non necessario. Lo stesso concetto dunque dell' essere ideale involge il termine correlativo d' una mente che lo intuisca. Ora la mente è un soggetto reale; dunque l' ideale non può stare senza il reale. Per questo modo, io ho dimostrato nel « Nuovo saggio » l' esistenza di Dio, cioè d' una Mente Eterna, in cui sia l' essere ideale o, più pienamente, l' essere oggettivo , parimente eterno. Ella vede oggimai in qual senso io faccia strettamente correlativi l' essere ideale e l' essere reale , e d' una relazione al tutto scambievole: di più, avrà osservato che nelle mie opere, io ammetto una terza forma primordiale dell' essere, che chiamo essere morale , e che fo correlativa anch' essa alle due prime. Ciascuno di questi tre termini è correlativo reciprocamente agli altri due, di maniera che, se tutti e tre s' ammettono, ciascuno esiste dagli altri distinto; se uno solo si toglie, nè pur gli altri due sono più, cessano tutti a un tratto. In una parola, l' essere non può essere che uno e trino. In qual maniera poi lungamente diversa questa unità e trinità dell' essere s' applichi al Creatore ed alle creature, ella è cosa che io tratto nell' Ontologia e nella Teologia naturale. Che se poi ella mi chieda, se indi forse non ne venga una legge fondamentale dello spirito, per la quale esso spirito sia necessitato di congiungere que' termini correlativi, rispondo di sì; ma questa legge è imposta allo spirito dal sintesismo di que' termini; e non è già, che il sintesismo di que' termini venga da una legge dello spirito, che ad essi preceda: lo spirito riceve le leggi dalla natura dell' ente che intuisce, e non viceversa la natura dell' ente intuìto è determinata dalle leggi dello spirito. A questa sola condizione, secondo quello che a me pare, ci possiamo salvare dallo scetticismo, e perciò appunto tentai di dimostrare rigorosamente quella proposizione in più scritti, fra' quali nel Dialogo intitolato: «il Moschini , » che mi prendo la libertà d' inviarle insieme con due altri opuscoli. Finalmente ella definisce l' essere così: « l' essere è la relazione delle cose, delle loro sostanze, delle loro cause, e de' loro fini colle idee delle medesime. »Ma tutt' all' incontro, io dico, le cose sono essere, le sostanze sono essere, le cause sono essere, i fini delle cose, qualora si parli de' fini interni cioè della perfezion delle cose, sono parimente essere: dunque l' essere non può dirsi la relazione delle cose ec. colle idee; chè ne uscirebbe questo, che l' essere fosse la relazione dell' essere coll' essere, definizione mostruosa, e tuttavia, in tutt' altro senso, vera. V' ha di più: che cosa sono le idee? Ecco la gran questione: sta qui a mio avviso, il problema della filosofia. L' idea per me è lo stesso essere contemplato dalla mente nella sua idealità: ella è dunque di nuovo, l' essere: per me l' essere in quanto luce alla mente umana, prende il nome d' idea , e in quanto opera nel sentimento, prende il nome di realità , o se si vuole di cosa in senso stretto. La definizione dunque dell' essere, che ella dà con benevolo intendimento d' interpetrare in senso plausibile la mia mente, non potrebbe da me accettarsi secondo la mia maniera di concepire e di parlare, giacchè tradotte quelle sue parole nel mio linguaggio verrebbero a suonare che l' essere è la relazione dell' essere coll' essere. E tuttavia io non ricuso di ricever per buono il detto da lei citato degli scolastici, che il vero e l' ente sono tra lor convertibili, purchè un tal detto convenientemente si spieghi. Per me la verità è lo stesso essere ideale in quanto egli rende conoscibili le cose reali, e però in quant' è lume, tipo od esemplare all' artefice che ha virtù di produrle, ed è regola o norma al critico che vuol giudicare, se sono bene prodotte. Il vero adunque si converte coll' ente , perchè il vero non è altro che l' ente stesso ideale assunto agli indicati ufficŒ. Nè si vuol da questo menomamente inferire, che l' essere intuito dalla mente sia un' astrazione: perocchè l' atto dell' astrazione non si può fare che sopra enti già concepiti: e però la concezione degli enti è manifestamente anteriore all' astrazione che si fa su di essi, e la concezione degli enti suppone che l' uomo sappia già che cosa sia essere . Io stabilisco dunque che l' intuizione dell' essere privo di determinazioni generali e speciali preceda alla concezione degli enti, e questa all' astrazione; benchè da principio quell' intuizione sia in noi senza che n' abbiamo coscienza. Conciossiachè io stimo, che di nessuna cosa che passa in noi, abbiamo coscienza, se non per un atto di riflessione che noi facciamo sopra di quella; il qual atto nol facciamo sempre, e però assai cose ci rimangono nell' animo senza che n' abbiamo coscienza alcuna, e in tale stato ci restano o per sempre, o per molto tempo. Laonde, acciocchè io mi renda consapevole d' intuire l' essere, devo certamente riflettere sopra questa intuizione. E perchè i concetti delle cose a me venuti coll' uso delle sensazioni non contengono puramente l' essere, ma il contengono vestito di certe determinazioni, riflettendo sopra di quelli, io non posso trovare l' essere puro, se non astraggo dalle determinazioni che il limitano; e così avviene, che l' astrazione mi sia necessaria, non acciocchè io mi abbia l' intuizione dell' essere puro che precede a tutto, ma acciocchè io mi renda consapevole d' averla. Di che posi per motto del « Nuovo saggio » quelle parole di S. Agostino: « commonebo, si potero, ut videre te videas . » So per altro benissimo qual sia la difficoltà maggiore, che incontra questa teoria. Ella si è il non potersi da molti concepire, che l' oggetto ideale non sia una produzione della mente, ma qualche cos' altro. Che la cosa ideale sia altro dalla cosa reale, questo s' intende; ma che essendo diversa dalla cosa reale, non sia poi una produzione della mente, questo pare a molti inesplicabile. E pure io sostengo, che la cosa ideale non è certamente la cosa reale , e non è neppure una produzione della mente. - Che cosa è dunque? - E` una cosa eterna, dico io, che illumina la mente, è un modo primitivo dell' essere che in Dio stesso ha la sua sede; questo modo primitivo dell' essere intuibile dalle menti è lume essenziale , è ciò che forma l' essenza del conoscere: tutto ciò mi dà il fatto della cosa bene osservato, ed io non mi posso dipartire dal fatto. L' essere in quanto è ideale, esiste in un modo così diverso dall' essere in quant' è reale, che fra l' un modo e l' altro non v' ha nulla di comune , ma tutto è differenza; il che io esprimo dicendo, che sono categoricamente differenti, e tuttavia l' essere è il medesimo. La difficoltà d' entrare in queste sentenze, nasce dall' estrema malagevolezza che si prova in ammettere, che oltre il reale, v' abbia un altro modo di essere; si vorrebbe ridur tutto al reale e a modificazioni o produzioni del reale; e ciò che non si riduce a questo, credesi doversi chiamar nulla; pregiudizio veniente dal trovarsi la mente umana tanto impacciata colle realità corporee. Per altro, voglia ella considerare, mio chiarissimo signor Dottore, quello che le dicevo, che l' essere ideale, solo ammesso in questo modo, spiega l' essenza del conoscere . E` appunto il conoscere, che si suppone sempre per dato, e si crede che questo gran fatto del conoscere non abbia bisogno di spiegazione. All' incontro devo ripetere che il gran problema della filosofia sta tutto in questa domanda: « Che cosa è il conoscere? »La quale si riduce a quest' altra: « Che cosa è l' idea? »; che è appunto ciò che fa conoscere. E avverta bene, che non trattasi di spiegar questo o quell' altro atto di conoscere, ma semplicemente il conoscere. All' incontro i filosofi nostri si occupano a spiegare gli atti particolari del conoscere, senza che essi s' addieno del bisogno di spiegare il conoscere stesso che essi suppongono come cosa naturalissima ed evidente. Suppongono, così facendo, quello che è in questione, quello che contiene tutta la difficoltà della filosofia, e dopo di ciò hanno un bel fare; perocchè si spacciano certo più o meno agevolmente dall' altre difficoltà che non appartengono alla questione principale. Questo schizzar di mano a' filosofi la vera questione apparisce ugualmente, osservando, ch' essi non muovono discorso che non suppongano fino a principio per belli e dati gli oggetti della conoscenza. A chi mai viene in mente di trattenersi a spiegare, come si dieno oggetti di conoscere? E dati oggetti di conoscere, è data certamente la conoscenza, perocchè sono essi che la fanno; ma resta a vedersi, come una cosa può essere oggetto di conoscere. Ci toglie l' intelligenza di questo problema la stessa natura del linguaggio, che suppone sempre il conoscere, essendo esso stesso una conseguenza e una produzione del conoscere, e però quando si formò il linguaggio, gli oggetti di conoscere già esistevano. Il linguaggio dunque parla di oggetti di conoscere già formati, e però col suo aiuto non si può trovar via da spiegare come si formino; e per giungere a questo, è uopo ricorrere alla tacitissima meditazione della mente. Mi spiegherò con un esempio. Di sopra dicevo: il problema della filosofia consistere in ispiegare, come una cosa possa essere oggetto di conoscere. Ora ecco, che l' imperfezion del linguaggio non m' aiutò tampoco ad esprimere ciò che volevo con precisione, perocchè dicendo cosa , ho già detto oggetto; e se una cosa è un oggetto, non v' ha certo più difficoltà a spiegare come un oggetto possa essere un oggetto . Ma io volevo parlare di una cosa in quel modo di essere, ch' ella si ha, prima che sia fatta oggetto di conoscere, ossia prescindendo al tutto dalla sua oggettività. E per esprimere la cosa secondo tal sua maniera d' esistere non oggettiva, niuna lingua fornisce parola alcuna, perocchè tutte le parole sono state imposte alle cose in quanto queste erano già divenute oggetti di conoscere, nè potea farsi altramente. Laonde solo colla mente che medita e trova, dovere aver le cose un modo diverso dall' oggettivo, si può giungere a vedere quanto sia necessario e difficile lo spiegare, come ciò che non è in se stesso oggetto della mente, divenga poi tale. Ben mi persuado, che ella colla perspicacia della sua mente, pensandovi seriamente, conoscerà quanto tutto questo sia vero; e quindi s' accorgerà come la questione primaria non viene affrontata, ma supposta e trapassata anche nelle parole che ella dice al II (del) suo « Saggio . » « Per questa legge primordiale che governa l' attività della intelligenza, lo spirito umano è costretto di ricercare in qualunque oggetto sperimentale, ed in un modo non accidentale, ma preordinato ed immutabile, la sua causa ed il suo fine ». Cominciando così la teoria della conoscenza col dire, che lo spirito umano è costretto di ricercare queste cose, ella suppone che le possa ricercare e conoscere: quando tutto il nodo della questione sta veramente in definire come ciò sia possibile, a quali condizioni lo spirito possa conoscere, e più brevemente, che cosa sia il conoscere. Perocchè se mi si dà già a principio il conoscere, in tal caso certo non mi resterà più altro carico, che quel solo di definire le leggi, che lo spirito segue ne' suoi varŒ conoscimenti, che è un problema secondario, e non mai il primario. - Ancora, quando ella ammette fin da principio oggetti sperimentali , il gran problema è trapassato via; perocchè questo, come dicevo, riducesi tutto a mostrare come il reale diventi oggetto . Poichè il reale non è oggetto per se stesso, ma è solo soggetto o appartenenza del soggetto ; ma a noi sembra oggetto per sè, perchè sogliamo parlare sempre del reale conosciuto , e pensiamo quello che parliamo. E qui le dirò di più, che senza ascendere alla prima questione, che investiga che cosa sia il lume della mente, e che trova e ravvisa un modo d' esister dell' essere, diverso dal reale, un modo essenzialmente oggettivo e che oggettivizza il reale quando a lui mentalmente si congiunge, non si può, a parer mio, difendersi dallo scetticismo. Non è sufficiente il dire, che la legge preordinata e immutabile colla quale la mente in ogni cosa cerca sostanza, causa e fine, non inganna l' uomo, ma il conduce alla verità e a concepir le cose così come sono, essendo ella posta da Dio. Lo scettico risponde: provatemelo; e con questa sola parola atterra l' argomento; perocchè se per provarlo si ricorre al fatto, questo ci dice bene, che la mente opera così, ma non ci può mica dire, se ella, così operando, non sia avvolta forse in un' illusione trascendentale. Nè pure si può ricorrere alla veracità e bontà di Dio; perocchè lo scettico replica tosto: provatemi prima che si possa conoscere che Dio esiste. Egli è dunque necessario di mostrare agli scettici prima di tutto in che consista l' essenza del conoscere , e dimostrare che questa essenza non può essere impugnata, perocchè coll' atto dell' impugnarsi la si pone. E questa è sola proprietà dell' essere possibile ; perocchè se quest' essere si nega, dunque è possibile, conciossiachè non si nega mai l' impossibile, e se si negasse, resterebbe il possibile, in virtù della doppia negazione. Su questo punto fermo a me è paruto di dover piantare la certezza dello scibile umano. Ogni legge soggettiva, se emana dal soggetto, non può avere le proprietà del vero; e se è preordinata da Dio, non può essere il primo vero, giacchè prima di essa si dee provare questa sua preordinazione, la quale non può esser provata per essa, senza cadere in un circolo: si dee dunque ricorrere ad un altro principio più evidente. Finalmente, le osserverò ancora, che la legge da lei ingegnosamente annunziata, onde lo spirito cerca in tutto sostanza, causa e fine, suppone la cognizione dell' essere . Perocchè quando io dico: « dato l' accidente, vi dee essere la sostanza, »traducendo queste parole in altre vengo a dire: « tale è la natura dell' essere che se fosse semplicemente accidente, non sarebbe essere, e perciò: non v' è essere se non a condizione che vi sia sostanza ». Quando dico: « ciò che comincia ha avuto una causa »; io non fo che affermare di nuovo, essere impossibile un ente cominciante senza causa. Affermo che ciò ripugna alla natura dell' essere; nè potrei dir ciò se non conoscessi la natura dell' essere. Quando poi dico: « ogni ente dee avere un fine »; di nuovo la mia asserzione suppone, che io sappia che cosa deva aver l' ente, ossia suppone, che la natura dell' ente mi sia nota a segno, che io possa dire che cosa egli deva avere. La necessità dunque di causa, di sostanza e di fine emana dalla natura dell' ente a me preconosciuta; nè l' uomo potrebbe sentire quella necessità, se egli non conoscesse questa natura, se non conoscesse quello che io chiamo l' ordine intrinseco dell' essere , il quale ci si rileva nell' essere stesso e coll' essere stesso, quando questo si applica alla realità. Se dunque lo spirito è costretto di cercare in ogni cosa sostanza, causa e fine, io conchiudo: dunque conosce l' essere immediatamente, e, conoscendolo, ne sa le esigenze; dunque anteriormente alla legge che costringe lo spirito a cercar quelle cose nell' essere, è l' intuizione dell' essere stesso; dunque la legge dell' intelligenza sagacemente da lei sviluppata è natural conseguenza di quella notizia dell' essere , senza la quale lo spirito umano niente può vedere, niente pronunciare. Le quali mie osservazioni ella vorrà, spero, chiarissimo sig. Dottore, ricevere cortesemente e come un monumento dell' alta stima che le professo e colla quale sono ec.. Una filosofia la quale non tenda al miglioramento dell' uomo, è vana. Ed oseremo anche dire di più, essa è falsa; poichè la verità migliora sempre l' uomo. Vero è, che l' uomo abusa delle stesse verità: egli fa servire la verità all' errore ed alla propria perversione. Ma ciò nasce da questo, che la verità di cui fa sì deplorabile abuso, non è intera; poichè la verità, quando è intera, esclude necessariamente ogni errore; e però si può odiarla, ma non abusare di essa, non farla servire alla distruzione di alcuna altra verità; conciossiachè essa le comprende tutte e le comprende fornite di una cotal luce di evidenza. Egli è dunque necessario che la filosofia presenti una verità intera; cioè un complesso di verità ben ordinate; dappoichè anche l' ordine è una verità. E non si vuol già dire con questo che un tale adunamento di verità comprenda tutti i veri, tratti fuori, l' un dopo l' altro, per singulo; il che ognun vede essere impossibile: ma bensì che i veri singolari sieno virtualmente compresi nella università de' principŒ che tutti li portano in sè; e di sè all' uopo ingenerano le innumerabili conseguenze, ove sieno alla diversità delle cose applicati. Ma s' abbia pure il filosofo messo nell' animo il nobile proponimento di volere abbracciarsi a tutta intera la verità e di essa far subbietto alla sua filosofia; e d' acconciarla in ogni modo migliore che egli possa, al conoscimento ed al miglioramento dell' uomo. Egli deve ancora conoscere le sue forze, affinchè non gli accada di presumere: egli deve sapere che la filosofia non basta a conseguire che l' uomo veramente si ammigliori. La filosofia non può essere che una parte degli aiuti che si prestano all' uomo, perchè egli si ammigliori e perfezioni. Quand' anche la filosofia sia resa una esposizione della verità nella sua universalità e interezza, ancora, come dicevamo, la verità può essere odiata dall' uomo; e l' uomo può trovare in quest' odio, l' estremo del suo corrompimento. Perocchè la verità appartiene alla intelligenza, ma la virtù appartiene alla volontà; ed è a quest' ultima potenza che spetta il vero miglioramento e perfezionamento umano. Ora della volontà è proprio l' operare e dell' intelletto il conoscere. Egli convien dunque che l' educazione nel tempo stesso che illustra l' intelletto, dandogli il pascolo di una sana filosofia, allevi e pieghi altresì al bene la volontà coll' esercizio delle buone azioni, le quali si cangiano in buone abitudini che pigliano nome di virtù. Di qui è che gli antichi, non sofferendo che queste due cose stessero scompagnate, le congiungevano insieme, applicando all' una e all' altra il solo nome di filosofia che poi definivano « lo studio e l' amore della sapienza ». Ma l' uso ha poscia ristretto il significato della parola filosofia alla sola prima di queste due cose, cioè a significare il complesso delle verità generali e supreme che debbono illustrare e annobilire l' umano intendimento. E non basta sola questa riflessione a conoscere ed a definire l' ufficio della filosofia, e la parte che essa può avere nel miglioramento dell' uomo. Conviene di più considerare la scienza filosofica nel sistema cattolico. E diciamo nel sistema cattolico, poichè supponiamo di parlare a' cattolici. Che se dovessimo parlare ad altri, noi dovremmo condurre il discorso assai più dalla lunga; perocchè ci sarebbe necessario a far intendere il nostro concetto, di provar prima la verità della Cattolica Religione, e solo di poi scendere a vedere che parte si abbia la filosofia nel tutto dell' umano perfezionamento. Conciossiachè nel solo vero Cristianesimo l' uomo viene considerato nel suo intero, e non parzialmente. E dove l' uomo non si consideri nella sua integrità; cioè fornito di tutte le sue reali condizioni e relazioni, non è possibile il determinare la ragione di una sua parte al tutto; perocchè egli è sempre uopo conoscere il tutto, onde conoscere la ragione comparativa della parte. Il perchè, in ragione di metodo, noi così avvisiamo, che non si possa assegnare il suo posto e il suo ufficio alla filosofia, se non si considera l' uomo del Cattolicismo; cioè di quel sistema religioso che determina pienamente i rapporti di esso uomo con Dio, che è l' essere assoluto, da cui l' uomo con tutte insieme le cose ha l' esistere; e da una continua provvidenza del quale viene, senza alcuna posa o rallentamento, condotto e governato. Poniamo dunque vero il Cattolicismo: il che tanto più si conviene a noi, che viviamo in una nazione eminentemente cattolica, e che della fede e della pietà ha fatto il suo più nobile vanto. Or, secondo i principŒ di questo sistema, cerchiamo di definire qual parte aver debba la filosofia nel miglioramento e perfezionamento dell' uomo. Fu innanzi detto che la buona filosofia presenta all' intendimento la Verità nel suo modo intera: ma ciò vuolsi intendere con certa limitazione: perocchè anche la Rivelazione parla all' uomo di verità; e la Grazia stessa, secondo la cattolica dottrina, è lume che vien dato alla mente. Il perfezionamento dell' uomo adunque, anche considerato solo dalla parte dell' intelletto, non viene compiuto, secondo i principŒ del Cristianesimo, se non dalla Religione. La filosofia si limita ad illustrare l' intelletto umano nell' ordine naturale; ma la parola del Cristo è quella che trasporta l' uomo in un ordine soprannaturale, in una regione al tutto divina; e che per tal modo consuma la sua perfezione. Egli è dunque a vedere che cosa sia l' ordine naturale e che cosa sia l' ordine soprannaturale ; e quale relazione si abbia l' uno all' altro; e quindi medesimo, di che fatta miglioramento possa aver l' uomo dal sapere, nell' ordine della natura, e di che fatta perfezionamento possa aver dalla Fede, nell' ordine della Grazia. Ora ecco brevemente questo rapporto: noi lo esponiamo come un risultamento datoci dalla propria indole della filosofia e della Religione. Il principio della filosofia, siccome abbiam detto, è la VERITA`, e il principio della Grazia è pure la VERITA`. Ma la filosofia, parlando della verità, non ce ne parla come di un essere reale e sussistente; ce ne parla solo come di un essere mentale, di un' idea, o, vogliasi ancora, di un' astrazione. Vero è che i filosofi che si levarono più alto nella contemplazione, rimasero sommamente maravigliati e stupiti in considerando la forza delle idee, le quali pure al comune degli uomini, occupati delle sensazioni e delle entità materiali, non sembrano che tenuissime forme e non degne di speciale meditazione: e nella forza delle idee videro contenersi le ragioni e i principŒ eterni di tutte le cose, le basi invariabili, per così dire, dell' universo variabile; sicchè giunsero a dire che le idee sole erano cose realissime, e, trapassando ogni confine, le divinizzarono. Ma lasciando da parte questa sciaurata idolatria delle idee, che fu lo scoglio a cui ruppero tutti i più grandi ingegni che navigarono senza la guida del Cristo, non esclusi quelli de' nostri tempi (1), e fermandosi là dove dissero che le idee sono le cose realissime (2), noi osserviamo che essi però non poterono mai negare la diversità fra le idee e le sostanze sussistenti; e non poterono dare a quelle l' efficacia propria di queste; come, a ragion d' esempio, non poteron mai sostenere che l' idea di un cibo tolga la fame siccome fa un cibo reale e sostanziale. Laonde, checchè dicessero e speculassero nobilmente i filosofi sulla natura delle idee, esse rimasero però idee; e non poterono essere sollevate, con tutti i loro sforzi, a stato di cosa reale. Di che avviene che non potendosi concepire la verità de' filosofi se non come un' idea indeterminata, egli è manifesto che il principio della filosofia non è, e non può esser più di un essere ideale . Ma anche la Religione del Cristo parlò alla terra, come dicevamo, di Verità: ed ella anzi si annunzia come quella che sola comprende la pienezza della verità (3): la Verità è finalmente il fonte, il principio immediato, da cui dice scaturire la sua dottrina. Ma la Religione Cristiana ci parla della verità ben in altro modo da quello in che ci parla di lei la filosofia: essa non ci presenta la Verità come un essere meramente ideale; essa ci dice anzi che la Verità, da cui ella nasce come da suo prossimo principio, è una cosa reale, una sostanza, una persona; la quale persona di più si è congiunta in un modo ineffabile, e per non dividersi quindi giammai, colla natura umana. Questa maniera di parlare è certamente misteriosa e arcana alla ragione nostra, che non è avvezza di considerare la Verità, se non come una astrazione, o certo come una idea, e che non trova modo alcuno da vedere come ciò che è un essere ideale possa anche sussistere in se medesimo, essere una sostanziale e reale persona. Ma questo che è superiore al concepimento naturale dell' uomo, è appunto il mistero della Fede ; ed il solido fondamento, in cui l' edificio tutto intero della Cristiana Religione posa e si eleva. Or ecco dunque ciò che hanno di comune e ciò che hanno di diverso i principŒ della filosofia e della Religione di GESU` Cristo: hanno di comune che l' uno e l' altro principio è la Verità; ma hanno di diverso questo, che la Verità, in quanto è lume naturale dell' uomo e serve di principio alla filosofia, non si presenta a noi che sotto una forma puramente ideale; là dove la Verità, in quanto è lume soprannaturale e principio della Religione Cristiana, si presenta sotto una forma anche reale e compiuta. E volendosi da noi cercare quale sia quella prima ed essenziale Verità che si fa principio alle filosofiche cognizioni, che è quanto dire, a tutto il sapere naturale, egli è evidente che questa non può essere nessun vero particolare; poichè nessun vero particolare è il primo vero, ed ha la ragione sua in un altro vero a lui anteriore e più di lui universale. Di che viene che la prima verità esser debba universalissima; che è quanto dire la verità stessa, e questa indeterminata, ossia l' essere ideale il più universale e indeterminato. L' essere stesso adunque intuìto naturalmente dall' anima, è il principio della filosofia, come con più altri ragionamenti si potrebbe chiaramente dimostrare (1). Ed ora l' essere è anche il nome che esprime l' essenza di Dio nelle divine Scritture: « « Io sono l' ENTE, » dice Dio nell' Esodo: «Ego eimi o on» », secondo la traduzione dei Settanta. Si veda coerenza! il principio della filosofia è il lume della ragione; il principio della Fede è Dio stesso; quello è la Verità, ma solo ideale; questo è la Verità, ma sussistente. La Verità della filosofia è l' Essere , e la Scrittura dice che Iddio è appunto l' Essere . L' essere della filosofia è ideale e indeterminato; l' essere della Fede è anche reale e d' ogni lato completo. Considerando la natura dell' essere ideale , si trova che egli è bensì l' essere , ma veduto imperfettamente; veduto senza i suoi termini, e solo nel suo principio. All' incontro Iddio è l' Essere assoluto e d' ogni lato compiuto. Questo ci scorge a vedere la relazione della filosofia colla Dottrina rivelata, deducendola dalla relazione che hanno infra loro il principio dell' una e il principio dell' altra. Tale relazione consiste in ciò che il lume naturale è un cotal cominciamento di quel lume che si ha completo solo nella Rivelazione. Giacchè quell' essere stesso che, come dicemmo, perfetto è il grande Oggetto della Fede, veduto inizialmente e imperfettamente come il vediamo per natura, è ciò che costituisce il lume della ragione. Egli è perciò che le divine Scritture, parlando del Verbo di Dio, Verità sussistente, Essere completo, dicono che è desso: « « Quegli che illumina ogni uomo veniente in questo mondo » » Il che è quanto dire che il lume naturale è una imperfetta partecipazione dello stesso Verbo divino. Questa dottrina si trova da un capo all' altro de' Sacri Libri; e non sarebbe difficile raccogliere una quantità di testimonianze, cavate dagli scrittori ecclesiastici di tutti i secoli, i quali si tramandarono da uno in altro come un vero tradizionale, che « la verità naturalmente veduta dagli uomini, è una parte, un riflesso, un raggio della Verità, che è Dio medesimo »(1). Una filosofia dunque sana e vera la quale possa adempiere l' ufficio di migliorare gli uomini: primo, non potrà mai venire in collisione colla Religione del divino Maestro; secondo, dovrà riguardare la Fede, come quella che compisce ciò che a lei manca, e riverirla, come sua maggiore; terzo, dovrà preparare la via alla Fede, abbozzando, per così dire, nell' uomo quel disegno di perfezione che alla sola Fede e alla sola Grazia è possibile di condurre a finimento. Ora rimane a vedere come possa la filosofia procedere, volendo por mano a tale opra che a lei è commessa. Noi abbiamo detto che la Verità è sempre di sua natura perfezionatrice dell' uomo; ma che solo la Verità intera chiude al tutto le porte all' errore. Una filosofia adunque salutare deve allargarsi, deve esser mossa da un amore, da una tendenza ad abbracciare la Verità tutta quanta ella è ampia. Egli è solo con questo vastissimo ed onestissimo desiderio che la filosofia si rende giusta verso la Verità: perocchè il rendersi esclusiva e il rifiutare l' una o l' altra parte di verità, è già una ingiustizia che si commette contro l' essenza della Verità: e il cominciare da un' ingiustizia non è migliorarsi. Tutta la Verità è tutto l' Essere, in quanto è concepito dalla mente. Ora l' Essere ha tre forme primordiali: perocchè ci si presenta sotto la forma d' idea ; sotto quella di realtà : e finalmente sotto forma di congiunzione fra la realtà e l' idea . A queste tre forme, noi diamo i nomi di Essere ideale, Essere reale ed Essere morale . Ora, l' Essere contemplato in ciascuna di queste sue forme si fa subbietto alle prime tre scienze filosofiche, le quali si possono nominare Ideologia, Dinamilogia (1) e Agatologia . Queste tre scienze debbono formare un' ampia e solida base di tutto l' edificio filosofico. Ma sia che si consideri l' essere prescindendo dalle sue forme, sia che lo si consideri in ciascuna di esse, egli si presenta alla considerazione della mente sotto due rispetti distintissimi. Poichè la mente, o lo riguarda in universale e ne rinviene una teoria, a cui dà il nome di ONTOLOGIA, ovvero cerca l' archetipo dell' essere stesso, ed allora rinviene un' altra teoria, che è quella dell' essere assoluto, a cui dà il nome di TEOLOGIA (1). Tutte due queste grandi teorie trattano dell' essere, tanto nella sua unità, quanto nella sua trinità, cioè in ciascuna delle sue tre forme; ma l' Ontologia considera l' essere a quel modo che può, cercandone la natura unicamente nell' idea o concetto del medesimo; laddove la Teologia, investiga l' essere, quasi direi, concretato e attuato fino all' ultima sua perfezione, onde tratta di Dio. Queste due teorie abbracciano in se stesse le tre scienze nominate, nelle quali come in altrettante loro parti si dividono; laonde c' è una Ideologia, una Dinamilogia ed una Agatologia Ontologica , ed un' altra Ideologia, un' altra Dinamilogia e un' altra Agatologia Teologica . Convien considerare qui l' ordine di queste tre scienze. E` manifesto che non si può ragionare di quella forma che dà all' Essere l' atto suo perfettissimo, di che tratta l' Agatologia , senza che si conosca prima l' Essere in quanto è reale e in quanto è ideale; conciossiachè la perfezione dell' atto dell' Essere nasce dall' individua e perfetta congiunzione di queste due forme della idealità e della realtà: che perciò di queste si deve aver parlato prima che della loro relazione o unione. Ma egli non è difficile ancora a conoscere che dell' Essere reale , del quale tratta la Dinamilogia , non si può tenere alcun ragionamento, se non dopo aver messa fuori la dottrina intorno all' Essere ideale , che è contenuta nella Ideologia; perocchè nessun Essere ideale da noi si conosce se non coll' aiuto delle idee . E perciò il discorso delle idee è indubitatamente quello, da che dee muovere tutta la filosofia, ed, anzi meglio, tutto il sapere umano. E anche, vi ha egli sapere senza idee? e se ogni sapere dipende dalle idee, qual valore avrà egli, ove restasse il dubbio che le idee c' ingannassero? Conviene dunque sapere prima di tutto: « se le idee che sono il mezzo del saper nostro c' ingannano o ci dicono il vero ». E per sapere se le idee non c' ingannino, ma s' abbiano quella autorità che gli uomini sogliono attribuire loro, a cui dover credere sempre, conviene disaminarne la natura; e la natura delle idee non si mette ad esame e non si conosce se non investigandone l' origine, del che principalmente tratta l' Ideologia . La quale scienza nelle sue ricerche giunge ultimamente a conoscere che non avvi, propriamente parlando, nella mente umana, se non un' idea sola, colla quale e nella quale si vedono tutte le cose; e questa è l' idea dell' Essere in universale ; ed è il proprio lume della mente, e in essa si trova l' evidenza e la necessità della cognizione; sicchè ella costituisce finalmente un tal criterio di certezza , che rende impossibile ogni dubitazione. Con che è posta la pietra fondamentale della Logica che distrugge ogni maniera di scetticismo, e insegna l' arte di ragionare, o sia, di applicar l' idea ad ogni maniera di cose; perocchè il ragionare non è che una continua applicazione dell' idea dell' Essere in universale; e così la Logica nasce figlia primogenita alla Ideologia; e occupar deve il secondo posto nell' albero delle scienze. Conciossiachè è tale l' incatenamento del sapere umano, che una scienza ci rimanda a cercare il suo perchè nella scienza ad essa anteriore. Or la ragione di una cognizione non è che un' altra cognizione, un' idea più generale; di che la prima ragione di tutte le cognizioni non è che l' idea più universale di tutte. Per la qual cosa l' Ideologia e la Logica che trattano dell' idea dell' Essere universale, la prima considerandola come il Fonte delle idee, e la seconda, come il Criterio della certezza, sono di loro natura le prime scienze. E per la medesima cagione definendosi da noi la Filosofia per la scienza delle prime ragioni , egli è manifesto che quelle scienze che trattano della primissima ragione, debbono essere quelle, onde la filosofia stessa incominci. Egli è vero che in ogni disciplina c' è quella idea che ne forma la prima ragione, e che per conseguente c' è la filosofia di ogni genere di sapere. Così c' è una filosofia della fisica, una filosofia della matematica, una filosofia della giurisprudenza, una filosofia della politica, e via dicendo. Ma le ragioni prime di queste scienze non sono prime che relativamente ai particolari complessi di cognizioni che costituiscono esse scienze; laddove l' idea dell' Essere in universale che si fa subbietto alla Ideologia ed alla Logica , è la ragione prima relativamente a tutto lo scibile. Il perchè questa parte si potrebbe anche acconciamente chiamare la filosofia della filosofia. Ad essa poi continuar si deve la Dinamilogia e l' Agatologia , perchè la dottrina dell' Essere si spieghi sotto tutte le sue forme primigenie. Egli è evidente che se non si premette la teoria dell' Essere universale, non si può parlare con sicurezza di nessun essere particolare; e che perciò non si può neppur conoscere l' uomo; poichè anch' egli non è più di un essere particolare. E in vero, chi sottilmente considera, vedrà che i principali e più perniciosi errori presi da' filosofi intorno all' umana natura, ebbero origine dal non aver essi considerata prima nell' uomo la natura dell' Essere universale. Perocchè di qui avvenne che non conobbero il rapporto che ha l' uomo con tutto l' Essere; di che il collocarono in posto non suo; come segnatamente accade a coloro che fecero dell' uomo il centro dell' universo. Con che introdussero nella filosofia teoretica il Panteismo e l' Ateismo, e nella pratica il Filantropismo e l' Epicureismo (1). Or la scienza della natura umana si può chiamare acconciamente Antropologia , la quale deve considerare l' uomo non meno nella sua parte animale, che relativamente al suo spirito, e finalmente nel soggetto in cui convengono l' animalità e l' intelligenza. E questa dottrina dell' uomo egli è manifesto che deve essere la prima nell' ordine delle scienze particolari; chè, come dicevamo a principio, tutto ciò che noi cerchiamo colla filosofia non è finalmente che il miglioramento di noi stessi . Sicchè non c' è altra cagione per la quale noi differiamo a parlar dell' uomo fin dopo aver compiuto il discorso dell' Essere in universale, se non questa, che ci era impossibile il parlarne prima convenevolmente; poichè a chi vuole investigare la natura d' un essere particolare, conviene che sia prima venuto in possesso de' principŒ che scaturiscono dalla dottrina dell' Essere in universale per siffatto modo, che si possono considerare quelle scienze nelle quali viene ordinata una tale dottrina, quasi come una cotal grande Prefazione al trattato dell' uomo. Ora dunque venuti noi a parlare dell' uomo, e della sua perfezione, scopo della scienza, la prima cosa conviene sicuramente conoscerne la natura , come detto è, ciò che fa l' Antropologia: ma tosto appresso conviene cavare dalla teoria della sua natura la scienza delle sue tendenze , la quale noi chiamiamo Eudemonologia , che viene a dire « discorso della felicità »; poichè tutte le tendenze umane vanno finalmente a parare nel desiderio d' essere felice; sicchè la teoria della felicità comprende naturalmente quella delle tendenze dell' uomo. Incontro alle quali tendenze, quasi freno, o, a dir meglio, regolamento, stanno i doveri morali scritti nel cuore dell' uomo, e raccolti dall' Etica ; dalla quale noi pensiamo util cosa, che si derivasse e cavasse poi a parte un trattato de' diritti naturali che sia fondamento alla civile legislazione (1). Ma non basta aver veduta la natura umana, le sue tendenze , i doveri , i diritti , e aver considerato tutte queste cose ne' brevi ed angusti fatti dell' individuo; è necessario di più vederli, quasi riportati sopra una scala maggiore, ne' fatti del genere umano: il che dà luogo ad una Storia filosofica della Umanità; nella quale apparisca principalmente quali sieno le leggi immutabili venienti dalle proprietà della natura umana, alle quali è soggetto tutto lo sviluppo e il perfezionamento successivo della umanità (2). La qual cognizione ci lastrica ultimamente la via a poter entrare sicuramente nel trattato de' mezzi pe' quali l' umanità si viene sviluppando e perfezionando, i quali mezzi, ridotti ai sommi ed universali, sono tre (diciamo de' principali, che non si possono del tutto omettere in un corso scolastico), cioè a dire la società domestica , la società civile , e l' educazione , che, sebbene sia anche l' ufficio dell' una e dell' altra società, tuttavia si può anche considerare come un magistero che sta da sè; poichè non è nuovo, che uomini amatori de' loro simili abbiano allevati i fanciulli altrui con amore di padri, e senza averne ricevuto commessione o eccitamento o mercede da nessuna umana potestà. I quali tre sommi mezzi si rendono per tal guisa argomento di tre nobilissimi trattati filosofici che si volgono intorno all' ottimo ordinamento della società domestica, e all' ottimo ordinamento della società civile, e finalmente all' ottima educazione; trattati si possono acconciamente denominare, come furono denominati dagli antichi, Iconomia , o con altro simile nome migliore (1), Politica , e Pedagogica . Or così assolvesi il corso delle principali scienze filosofiche, v“lte all' umano miglioramento le quali dovrebbero entrare nell' istituzione filosofica, da darsi alla nostra gioventù nell' Accademia. Le quali, riassumendole qui brevemente, si compongono di due serie, cioè; La serie di quelle scienze filosofiche che trattano dell' ESSERE stesso; e La serie di quelle scienze che trattano in particolare dell' UOMO. La prima serie ne contiene quattro: primo, l' Ideologia; secondo, la Logica; terzo, l' Ontologia; quarto la Teologia naturale. La seconda ne contiene otto: primo, l' Antropologia; secondo, l' Eudemonologia; terzo, l' Etica; quarto, il Diritto razionale; quinto, la Storia dell' umanità; sesto, l' Iconomia; settimo, la Politica; ottavo, la Pedagogica. La quale distribuzione può essere facilmente variata, nè certo comprende tutto il ciclo delle scienze filosofiche (2); ma solo ci parve sufficiente e ad un tempo necessaria, acciocchè la facoltà filosofica acquisti nelle nostre Università quella dignità e quell' ampiezza, che le è dovuta, e da cui siamo cotanto lontani, dignità ed ampiezza, mancando la quale lo spirito della gioventù studiosa non si può elevare, ne' tempi nostri, ad un alto sentire e ad un generoso pensare, nè trovarsi a sufficienza armata contro il sofisma, nè bene intendere quale ha il cammino pel quale la scienza conduce alla virtù. Fra le molte obbligazioni, che mi legano a Monsignor Ostini, non è picciola questa d' avere eccitato Lei a scrivermi, e così dato a me l' occasione d' entrare in corrispondenza colla sua rispettabile e dotta persona. Se non che in questo stesso non mi manca cagione di muovere qualche lagno coll' egregio Ostini. La gentilezza di Monsignore me le debbe aver dipinto troppo altra cosa da quel ch' io sono, e fors' anco per un qualche gran baccalare in filosofia: il vedo dalla sua lettera troppo cortese e vantaggiata pe' pari miei. E però La prego prima di tutto di smettere sì falsa opinione, venutale dall' altrui amicizia, e dalla sua propria bontà, non solo per ben mio, acciocchè io non m' abbia poi a vergognare d' essere conosciuto molto diverso alle prove; ma ancora per ben suo, acciocchè Ella non s' abbia a trovare ingannato in sul meglio; ciò che a ciascuno dispiace. Ed ora sono con Lei. Le questioni filosofiche che mi propone nella sua lettera, come Ella medesima ben vede, potrebbero essere soggetto non che di una lettera famigliare, ma di un libro, anzi di molti. Ella sa quanto le varie parti della filosofia sieno connesse tra loro, come ciascuna riceva lume da tutte l' altre; ed appena che io mi creda potersi rendere al tutto chiara qualche verità, quand' ella non si mostra a suo luogo, non s' espone insieme con tutto il sistema delle verità, a cui quella appartiene: ciascuna di queste verità, è piccolo membro a un gran tutto; nè s' intende a fondo, se non si concepisce non solo la sua natura, dirò così, ma ben anche le sue relazioni, que' veri che la precedono e quelli che la susseguono, e de' quali essa o è la ragione, o la conseguenza. E tuttavia non posso negarmele a esporle con brevità alcune cose che io penserei sulle questioni proposte, pregandola, non già a ricevere queste mie considerazioni, come quelle che a me soddisfacciano compiutamente, e molto meno come quelle che esauriscano le importantissime risposte da Lei desiderate, ma solamente come quelle, che mi concede una lettera famigliare e la brevità del tempo. La sua prima dimanda riguarda la classificazione dei sistemi filosofici. Mi sembra, a questo proposito, che i sistemi filosofici si possano classificare in due maniere: 1 o col nome de' loro inventori, 2 o colla diversità de' principŒ che pongono. Ella mostra nella sua lettera di seguire il primo metodo. Ma sebbene io al tutto non lo rigetti, tuttavia mi pare ch' esso non potrà mai essere recato a quella esattezza, e fornito di quella distinzione precisa che nelle dottrine filosofiche è desiderabile e necessaria. E` bensì semplice, e, come il primo che viene alla mente, fu comunemente adoperato. Ma questa divisione mi pare che riposi, se le debbo dire il vero, in quel soverchio d' autorità, che in altri tempi fu conceduto ad alcuni maestri, i quali per le loro dottrine essendosi partiti dal comune degli uomini, furono dagli uomini, veggendoli sì alti, venerati quasi altrettante deità. E di questo soverchio d' autorità dubito non forse ancora si ritenga l' effetto nel tempo nostro, senza che noi pure ce ne avvediamo, e bene spesso anche maritando questo difetto col suo opposto, cioè con quello di una franchezza soverchia in portare giudizio d' uomini grandissimi certamente, e delle dottrine loro, giacchè nello spirito umano simili contraddizioni non sono rare. E veramente questo modo di partire e contrassegnare le filosofie co' nomi degli inventori, suppone che i diversi maestri ed inventori di esse sieno sempre coerenti con se medesimi per tal maniera, che l' uno s' abbia un corpo di dottrine al tutto compaginato e perfetto, e diviso da tutti gli altri corpi o sistemi di dottrine. E comunemente quelli che hanno voce di fondatori di cotesti sistemi, procedono così alti nelle loro promesse, almeno in tutta quella parte nella quale confutano le dottrine altrui, che mostrano di non volere aver nulla di comune cogli altri, e presumono di avere cavata tutta intera da sè soli, quasi facendola esister dal nulla, la filosofia. Promesse di presunzione umana! Se noi gli esaminiamo imparzialmente, massimamente là dove, dopo aver distrutti gli altrui sistemi, cominciano a edificare i proprŒ, vediamo che, per quanto procurino di dividersi dagli altri con una nuova disposizione di cose, vengono però sempre (negandolo essi) presso a poco negli stessi sentimenti: e talora ponendo alcun principio diverso, non consentanee al principio deducono le conseguenze, ed entrano, senza pure avvedersene, nel sistema altrui. Per quanto io abbia riflettuto, non mi è occorso giammai di vedere un sistema al tutto compaginato e stretto con se medesimo e perfetto: almeno mi riesce impossibile il credermi in caso di affermare, che questo sistema ci sia: per dir ciò dovrei credere, che ci sia qualche libro, il quale contenga tutti i principŒ necessarŒ per isciogliere qualunque problema di filosofia. Come dunque i nomi di due filosofi sono totalmente diversi l' uno dall' altro; così venendo a classificare i sistemi secondo questi nomi, sembra che si supponga, i sistemi stessi essere interamente l' uno dall' altro diversi, ciò che non si avvera o difficilmente si può verificare, essendo tanto vasta la filosofia. Di vero la filosofia, e anche, se vogliamo, la sola metafisica è un aggregato di più scienze (1); e quando anche due filosofi in alcuna di queste scienze realmente e non di sole parole discordassero, potrebbero concordare in qualche altra: laonde co' nomi degli autori potrò bensì distinguere materialmente i libri delle filosofie, ma non mai formalmente le stesse filosofie. Poichè quando si vogliono dividere le specie, non deve entrare nell' una quello che nell' altra; altrimenti non sono ben divise. Però sono venuto più volte in questo pensiero, che non si possa aver giammai una classificazione perfetta ed una storia della filosofia, fino a che non è stata fermata la perfezione stessa della filosofia. Allora raffrontando alla perfetta filosofia le altre non perfette o false, si potrà determinare in quali parti discordino: e di ciascuna discordanza si potrà formare la base d' un sistema falso, e quasi il germe di tutto il sistema (1). Ma perchè queste cose sieno chiarite di alcuno esempio, prendiamo non già tutta la filosofia, poichè non è stata ancora ridotta ad un semplice principio, e non viene significata con questa parola una scienza sola; ma prendiamo una parte della filosofia, che da un solo principio, o da una sola questione dipenda. E sia quella di cui più si occupa oggidì il mondo, e che Ella mi tocca nella sua lettera, dell' origine delle idee. Questa si riduce ad un solo principio, o per dir meglio ad una sola dimanda: In che modo lo spirito nostro venga in possesso delle idee . Le farò una classificazione di alcune delle principali opinioni tenute sulla questione. Queste opinioni diverse o questi principŒ diversi, riducendosi ad un solo oggetto, diventano naturalmente germi di varŒ sistemi, i quali, sieno o non sieno abbracciati dagli autori, sono però fra di loro totalmente diversi, perchè sono figli di un principio solo, totalmente diverso. E primieramente osservo che alcuni filosofi si sono il più occupati ad esaminare la potenza di produrre o d' avere le cognizioni delle cose e le idee: altri hanno fermata maggiormente la loro attenzione sui mezzi o aiuti esterni di cui quella potenza ha bisogno per operare. I sistemi dunque sull' origine delle idee si possono dividere da questi due capi di divergenti opinioni; A. dalla differenza delle opinioni de' filosofi intorno la potenza di conoscere; B. e dalla differenza delle opinioni intorno gli aiuti esterni dalla potenza di conoscere. - Cominciando dal primo capo. Alcuni pensarono che bastasse dare all' anima una potenza o facoltà, e per oggetto di questa potenza le sensazioni ricevute per gli organi corporei. Così prima delle sensazioni, non posero nello spirito umano nessuna traccia di cognizione. Di questi, Ella vede, è il Locke, il Condillac ecc.. Altri dissero che la facoltà di pensare non bastava concepirla nell' uomo prima del suo sviluppo, come una mera potenza, ma bisognava darle qualche traccia di cognizione non ricevuta da' sensi, lasciando poi d' esaminare se questa cognizione innata formasse parte essenziale e s' immedesimasse colla stessa facoltà di pensare, e si dovesse distinguere fra la facoltà di pensare e questa innata cognizione. Ad ogni modo costoro, non si appagavano di considerare la facoltà di pensare come una potenza in genere e quasi diremo di natura incognita, come i Lockiani; ma volevano protrarre più innanzi la loro investigazione (1), e non sembrava loro di essere ancor giunti a spiegare l' origine delle idee coll' ammettere semplicemente una facoltà di conoscere nell' anima umana; a loro pareva necessario a tal uopo di entrare ancora a determinarne la natura e le leggi, ricercando quale ella doveva essere questa facoltà per poter servire all' ufficio, che le si attribuiva, di pensare alle cose e quindi averne le idee. Ora a taluno parve che in nessuna maniera si poteva spiegare come sì fatta potenza fosse atta al suo fine, se non se la immaginava d' una natura particolare, e tale ch' ella portasse in qualche maniera seco gli oggetti suoi fino dall' istante ch' ella cominciava ad esistere. Ed in questo risultato convenivano moltissimi ingegni di gran valore, i quali avevano profondamente pensato al modo onde questa potenza di conoscere potesse fare le operazioni che fa, e l' avevano seguita col pensiero in tutti i suoi passi. Ma sebbene tutti questi convenissero che non si sapeva intendere in nessun modo come la facoltà di pensare potesse fare le operazioni ch' ella fa, se gli oggetti suoi ella non portasse in qualche maniera già seco fino dal suo esistere; tuttavia questi si dividevano di parere quando si trattava di definire quale fosse questa maniera , ond' essa avea seco uniti i suoi oggetti immobilmente ed originariamente. Quindi altri dicevano necessario ch' ella avesse a dirittura unite, o per sè o per una cotal giunta, le idee medesime delle cose: sia poi che ciò pensassero veramente, o piuttosto che così dicessero parlando impropriamente per non trovare la via d' esprimere con più esattezza ciò che concepivano nell' animo. E qui ella ravvisa Cartesio e molti Cartesiani. Ma ad alcun altro, parendo da una parte necessarie queste idee innate a spiegare i fatti del pensiero, dall' altra non sapendo come ammetterle al modo di Cartesio, perchè la coscienza non ne somministra argomento, sembrò più ragionevole di ridurre queste idee innate a piccolissimi sentimenti non avvertiti dall' anima, che riceve però impulso da essi ad operare secondo quelle forme quasi solo delineate in essa con lievissimi vestigi, e credettero costoro, che intravedesse questo vero Platone in quella sua reminiscenza, e che solamente a lui mancasse di aggiungere alla reminiscenza il presentimento . Spiegavano l' esistenza di queste idee non avvertite nell' anima nostra colla similitudine d' una statua, la quale esiste in un pezzo di marmo ancora rozzo, tracciata in esso dalle vene naturali del medesimo (1): e facevano poi che il pensiero tutto si creasse per una forza dell' anima determinata col presentimento o coll' instinto alle idee. E parmi questo il sistema di Leibnizio. Kant può avere avuto da questi instinti, onde Leibnizio faceva l' anima mossa alle idee (1) (quasi queste idee stesse fossero potenze separate che si riducessero all' atto per una forza loro intrinseca), il primo concetto delle sue forme innate, le quali non sono altro che determinazioni dello spirito venute a lui dalla sua propria natura, per le quali egli è costretto a veder le cose in un determinato modo subbiettivo, vestendo tutti gli oggetti sì del senso esterno che del senso interno, come dell' intelletto e della ragione (secondo la divisione ch' egli fa delle facoltà dell' anima), di queste forme, o per dir meglio considerando tutte le cognizioni come fenomeni dello spirito. A questo viene Kant; e finalmente Ella comprende come abbia chiamato filosofia trascendentale la sua dottrina, giacchè parla della forma di cui tutte le nostre possibili cognizioni necessariamente sono vestite, della quale perciò non le possiamo giammai svestire; sicchè il parlare di esse piglia un oggetto che transcende lo stesso conoscere; e vede ancora perchè la sua principale opera egli la denomini: « Critica della ragione pura; » assumendo a fare la critica alla stessa ragione, e a sciorre la questione, prima di tutto, se questa stessa critica sia possibile. Questi quattro sistemi differiscono, come dicevamo, dal diverso modo onde considerano la facoltà di conoscere: il primo restrigendosi a considerarla come una mera potenza di conoscere, senza esiger più oltre; gli altri tre giudicando necessario di considerare altresì questa potenza nella sua peculiar natura: e fra questi il primo pretendendo che in essa sia necessario di supporre ancora delle idee al tutto formate; il secondo insegnando che bastino certe potenze che si attuano quasi per via di certi instinti primitivi; il terzo finalmente trovando necessario concepire la ragione fornita di modi o forme venienti dalla sua stessa natura; e dicendo questi tre d' accordo, che non può spiegarsi come l' uomo si procuri le cognizioni col solo immaginare una potenza conoscitiva, se anche non se ne disamina la natura. B - L' altra classe d' ideologi si divide non tanto per la diversità nella quale considerano la stessa facoltà di pensare, quanto per la diversità, nella quale considerano la necessità d' oggetti primitivi, su cui operando la facoltà di conoscere, ecciti o formi o crei a se medesima le cognizioni. E di questi alcuno vuole che non bastino le sensazioni ricevute per gli organi corporei; ma gli oggetti da cui viene affetta la facoltà di conoscere, e da' quali colla sua attività crea a se medesima la scienza, sieno, oltre le sensazioni, tutti i sentimenti interni: ed Ella riconoscerà in questo, per nominare alcun recente, il Laromiguiere. Altri esigono, oltre gli esterni sensibili influenti sull' animo, un continuo lume della divinità che a lei risplenda: e qui vede l' italiano cappuccino Giovenale della Valle di Non, il Tomassino e il Malebranche ec.. E Platone aveva certo veduto il sistema di Malebranche, e travalicatolo, aggiungendo i molti lumi delle sue idee eterne sussistenti quasi esseri al di fuori della divinità, emendato in questo da S. Agostino, che fece la via a tre nominati filosofi. Alcuni poi (massimamente tra' moderni) non contenti di questi varŒ pensamenti, giunsero a credere che alla facoltà di conoscere, oltre le sensazioni, ci voleva un altro aiuto anch' esso esteriore fra il sensibile , dirò così, e l' intelligibile , cioè una favella , e dissero che l' uomo non poteva accorgersi del suo pensare giammai, senz' avere l' espression del pensare. Di cui nacque al visconte di Bonald il suo sistema. E si avvicinano a lui alcune sentenze di Platone e di Socrate; e molti altri lo avevano già prima intravveduto. Tra' quali il vide, prima del Bonald, un Italiano che ne fece pur troppo abuso [...OMISSIS...] Tutti e due conoscono l' assoluto bisogno del parlare per dar origine al pensiero: se non che il secondo non vede da questo di necessità assoluta, che il parlare sia venuto all' uomo dalla tradizione; mentre il Bonald crede con ciò stesso definito, che come la facoltà di parlare è in noi nativa, così l' arte di parlare sia in noi acquistata: quantunque poi dica: [...OMISSIS...] Questi altri quattro sistemi dunque differiscono dalla varietà degli oggetti ed aiuti, da cui credono che debba essere assistita la facoltà nostra di pensare, perchè ella giunga all' atto del pensare. Ora essendo questa questione dell' origine delle idee unica e semplice, si possono benissimo, com' Ella vede, classificare con tutta esattezza i diversi sistemi sulla medesima anche per mezzo de' nomi degli autori, senza dare loro una soverchia autorità, e presupporli infallibili nel tirare le conseguenze dai diversi principii. E` dunque necessario, prima di classificare i sistemi della filosofia, o di qualunque altra scienza, di ridur quelli ad un principio solo, o se questo non si può, di ridurli a quel minor numero di principii che è possibile, e poi per ogni principio fare una diversa classificazione. In tal caso poichè da un semplice principio nasce un sistema di conseguenze direi quasi infinite, quando io ho classificati i principii, vengo ad avere ancora classificato accuratamente i sistemi che o sono stati giustamente tirati da tali principii, ovvero si possono tirare da quelli. Non m' allungo con altri esempi per non essere infinito: ma dirò solo, che chi volesse classificare i sistemi secondo i sommi criterii della certezza, allora avrebbe un' altra questione pure semplice onde potrebbe cavare una esatta classificazione. Che se poi dimostrasse, che tanto la questione dell' origine delle idee, come la questione del sommo criterio della certezza dipendono da un solo principio antecedente, allora avrebbe trovato il modo di distinguere con una classificazione i sistemi che vengono dalle due proposte questioni, non formando esse in questo caso se non due parti di un altro sistema maggiore. E facilmente Ella da questo intende, come, se tutta la filosofia potesse ridursi ad un solo principio, allora si potrebbe ben classificare tutta la filosofia con una sola classificazione, bastando distinguere accuratamente le diverse opinioni sul principio da cui dipende. Ma è tempo che io passi a dire una parola sulla seconda richiesta che Ella mi fa, colla quale aspetta la mia opinione sopra i vari sistemi della filosofia. Ella vede, che la risposta che io le posso fare, dipende strettamente dalla prima che le ho fatto. Sarebbe forse possibile rispondere bene o male sopra qualche punto della filosofia particolare; ma sopra i vari sistemi di tutta la filosofia, non mi pare che si possa dir nulla di fermo e senza equivoco, mentre trovo, come dissi, tanta difficoltà solo in convenire in che differiscano questi sistemi. D' altra parte, per mio credere, non si può giudicare con sicurezza e senza presunzione degli altrui sistemi, se non per mezzo di un altro sistema già formato, pel quale sia venuta in animo grandissima persuasione di aver conseguito la verità che è sola giudice dell' errore: e quand' anche alcuno fosse venuto a questo, sarebbe cosa assai ardua esporlo chiaramente nelle angustie di una lettera. Mi conceda dunque che in luogo di risposta io attenda piuttosto l' indicazione di qualche questione particolare, sopra la quale Ella desiderasse sentire quello che mai mi riuscisse dirle: e per questa le faccio una sola osservazione generale. Io credo giovevole e modesta cosa considerare i sistemi de' filosofi coll' occhio più favorevole. Mi è paruto di vedere che quasi sempre essi sieno caduti in errore per imperfezione d' idee, non per isbaglio nel ragionamento: e però che tante volte bastasse aggiungere in luogo di mutare, e ricondurre alla naturale interezza i germi che essi hanno posti in luogo di distruggerli e gettarli di nuovo. Molte volte ancora due filosofi trattano di un argomento diverso e credono di trattare lo stesso argomento, e vengono alle mani come inimici; mentre che l' uno batte una strada e l' altro ne batte un' altra, senza incontrarsi: l' uno chiarisce un punto dell' umano sapere, l' altro ne chiarisce un altro a quello contiguo bensì, ma che non è quello: e perchè sono nello stesso territorio, ma sopra un' altra parte di esso, si avvisano di combattere insieme per lo stesso punto di terra. Li conduce a questo, confessiamolo ingenuamente, mio caro signore ed amico, quella presunzione e quella baldanza che tanto insensatamente entra nell' animo dell' uomo che aspira al conquisto della scienza, senza aver ricevuto e portato il soave giogo della verità. Però mi riesce dolorosa cosa e importevole il vedere come tutti quasi i filosofi si assaliscano e mordano scambievolmente, vogliano che tutto sia nuovo ne' loro libri; e basta che rinvengano nuove vesti ad un antico pensiero, per dichiararsi creatori di un nuovo sistema, e scopritori di una verità non isplenduta giammai agli occhi degli uomini che gli hanno in terra preceduti. E queste male disposizioni sì proprie de' mortali non è a dire quanto impediscano i progressi del vero sapere, e colla discordia delle sette, quante verità venute all' aperto non rimettano forse per secoli novellamente sotterra colla derisione e collo spregio del sistema nel quale erano contenute. Cosa lontanissima dal dolce e concorde spirito che mette in noi sola la Religione della verità! E così non facevano il grande Agostino ed il gran Tommaso, nè alcuno de' sommi splendori della Chiesa, che appunto per questo sono dalla piccolezza infinita degli uomini tenuti meno in pregio di filosofi e men seguìti perchè non hanno spacciato se stessi a fondatori di sistemi, paghi di contemplare l' intero e illimitato corpo bellissimo della verità. Ed Ella vede che con questo stesso io ho cominciato a rispondere alla sua terza interrogazione: Come arrivare alla scoperta del vero. La bella forma dell' animo, mi pare senza alcun dubbio, la migliore di tutte le disposizioni: di poi l' elevatezza della mente: la perpetua coerenza e profonda cognizione della Religione cristiana, che quanto più si studia, più fa crescer l' ali all' ingegno e spiegarle ai metafisici voli: nel medesimo tempo la libertà dai ceppi tutti che mette al progresso dell' ingegno la piccolezza degli uomini: avvezzarsi a contemplare le idee stesse prive dell' involucro delle parole, degli schemi, de' metodi: sapere avvisare la verità sotto qualunque forma e colore; amarla sotto tutti: abborrire la setta e il sistema in quanto limita queste forme della verità, e studiare assai nelle parole. Nelle parole (questo vero discende dalle osservazioni di Bonald, e prima sonava alto nel Vico) nelle parole sono contenute le scienze delle nazioni: però guardarsi dall' alterarne il senso fisso loro dai popoli, dirò di più dalla Provvidenza, da Dio: la proprietà delle parole strettamente conservata è l' unico mezzo alla chiarezza delle idee, a fissarle, a concordarle. Di questa proprietà fu sottilissimo investigatore, e fermissimo mantenitore S. Tommaso. Il volere alterare il valore delle parole fu l' arte di molti antichi e moderni sofisti, e di molti filosofi profani: appena s' inganna il mondo se non con questa alterazione: di quasi tutte le parole filosofiche e politiche si abusò, e a mostramento di ciò furon fatti molti scritti. Chi osservasse gli errori venuti dall' abuso della parola NATURA nella scienza del diritto e della morale, delle parole SENSAZIONE, PIACERE, DOLORE nella metafisica, delle parole UGUAGLIANZA e LIBERTA` nella politica, della parola RICCHEZZA nella economia, e di molte altre consimili, alle quali comunemente non si fece che aggiungere un senso più esteso del senso dato loro dal comune uso, avrebbe raccolto le origini d' incredibili inganni alla mente, e d' incredibili guai alla Umanità. Ella poi non sarà pago a queste generali avvertenze, già troppo a Lei note, per lo conseguimento del vero: vorrà di più, che io le additi qualche grave scrittore da mettersi innanzi quasi scorta ai passi nel malagevole ed inviluppato cammino. E lo farei ben volentieri, ma voglio riservarmi questa cosa dopo che Ella mi avrà appagato sopra i concetti di S. Tommaso intorno all' origine delle idee: perocchè non essendo giusto che un solo sia quello che spende, m' aspetto in cambio di questo povero scritto, questa moneta da Lei. Avrò allora di ciò occasione più opportuna. Hegel è il bisnipote di Kant, patriarca della moderna filosofia tedesca. Il filosofo di Koenisberga dalla meditazione di un principio noto avanti di lui, che lo spirito umano pensa in modo conforme alle sue proprie leggi, ne trasse quella filosofia che egli denomina critica , perchè assume di portar giudizio della stessa ragione umana; e il giudizio riuscì a dichiarare questa ragione impotente a conoscere, se gli oggetti del pensiero sieno tali in sè stessi, quali col pensiero appariscono. Egli sostenne che, se la mente umana li concepisce secondo le proprie leggi soggettive, ella dunque non può pronunciare che sieno quali le appariscono, ma nè pur negarlo. All' incontro Fichte, suo discepolo dallo stesso principio che la mente opera secondo le proprie leggi dedusse, che tutto ciò che conosceva la mente doveva essere produzione della mente stessa; e quindi assolutamente negò, che gli oggetti concepiti fossero in sè stessi quali appariscono. Il qual sistema veniva da lui rappresentato come la genuina interpretazione della dottrina del suo maestro. Ma il suo maestro Kant disdisse l' interpretazione; poichè infatti altra cosa è che le conclusioni della mente, dipendendo dalle leggi della mente stessa, non abbiano valor di conchiudere su quell' essere che gli oggetti possono avere in se stessi, ed altro è l' affermare a dirittura, che in se stessi non abbiano essere alcuno, ma sieno mere produzioni e modificazioni soggettive. Così il sistema di Fichte fu diverso da quello di Kant, come figlio che traligna dal padre. Ma venne Schelling, e allevato alla scuola di Fichte argomentò che se l' oggetto era produzion del soggetto, dovea col soggetto stesso identificarsi; giacchè niuna cosa genera altra natura da sè diversa; e poi facil cosa è conoscere, che nè il soggetto può stare senza l' oggetto, nè l' oggetto senza il soggetto, onde d' entrambi fece una cosa sola: di più, a lui parve impossibile immaginare un soggetto, che non fosse a un tempo stesso oggetto, e immaginare un oggetto che non fosse a un tempo stesso soggetto, onde diede al suo sistema il titolo di Teoria della identità assoluta . Così questo filosofo tedesco, che a Kant quasi è nipote, si trovò pervenuto a quella tesi, colla quale aveva esordito la filosofia eleatica in Italia per mezzo di Parmenide. Ma qui non ristette il movimento filosofico impresso da Kant nella Germania; poichè, ridotte le cose tutte, che posson essere oggetto della mente, all' unità ed alla identità, fu facile ad Hegel dedurre che quest' unica ed identica cosa, a cui tutte le cose riduconsi, altro non poteva essere che l' idea. E l' argomento di Hegel, considerato in suo fondo e ristretto in poco, riducesi a questo: L' uomo non può pensare nè parlare di cosa alcuna che non sia oggetto del pensiero. Ma l' oggetto del pensiero è l' idea: dunque tutte le cose si riducono all' idea. Ma posciacchè le cose sono varie ed opposte ed anche contrarie fra loro; quindi l' idea è quella stessa che prende diverse forme anche opposte e contrarie, e che va trasformandosi con leggi a lei intrinseche, in tutte le cose. Ella diventa soggetto ed oggetto, realità ed idealità, ente e nulla, relativo ed assoluto, tempo ed eternità; e in questo diventare appunto, che è il mezzo fra il nulla e l' essere, consiste la propria sua essenza. Ella ha quindi due movimenti, per l' uno dei quali s' accosta continuamente al nulla, per l' altro de' quali s' accosta continuamente all' infinito ed all' assoluto. Lo sviluppo della virtù intrinseca di quest' idea è ciò che forma l' argomento di tutta la dottrina hegeliana. In questo quarto discendente di Kant ora dorme il suo sonno la germanica filosofia. Approfittando della licenza, ch' Ella mi dà di sottoporle alcune osservazioni sulla storia della Filosofia da Lei trattata ne' Supplementi al Manuale del Tennemann, non mi sta nell' animo nè di rilevare le bellezze del suo lavoro, nè i difetti. Solamente è mio intendimento di toccare qua e colà alcune pochissime cose, quasi a modo di questione o di domanda, le quali quando ben si chiarissero, crederei poter giovare a condurre una storia della Filosofia, se non anco essere alla perfezione di essa indispensabili. E a ciò fare muovemi il desiderio di veder uscire dalla sua penna una storia degli sforzi, che fecero gl' Italiani al nobilissimo fine di fondare una costante, vera e salutare filosofia, di che già Ella mostrò al pubblico un tentativo col quarto de' suoi Supplementi. E questo mio patrio desiderio non toglie, che io non sappia esser la filosofia universale come la verità che contempla: e però dover essere universale, e non circoscritta da monti e da mari, da costumi e da idiomi, anche la storia completa delle filosofiche investigazioni. Ma questa è tal' opera, alla quale fin quì le forze di molti dottissimi si mostrarono inferiori; e credo che allora solo e non prima potrà avvicinare il suo perfezionamento, quando sarà resa perfetta la stessa filosofia. D' altra parte la Storia della Filosofia Italiana, che io desidererei vedere scritta con somma imparzialità e diligenza, vien da me concepita per nulla più, che per una cotale esortazione a' nostri concittadini di coltivare la sana filosofia col lume de' patri esempi. Al qual fine certo dovrebbesi vedere in questa istoria e i pericoli de' viaggi filosofici tentati dall' ingegno umano, e gli ardiri e i naufragi e le felici scoperte. Conciossiachè se alla storia manca questo, e se, senza alcuno discernimento, essa accozza gli uomini grandi ed originali col minuto volgo de' filosofi, se non divide la buon' audacia delle investigazioni dalla temerità, se non insegna chi furono quelli che pervennero al vero, e quelli che perirono sul cammino prima di giungervi, quali altresì ordinarono il regno della filosofia, e quali lo scomposero, quali finalmente con nuove e più savie leggi il riordinarono; non solo riesce essa fredda e inutile, ma perniciosa. Di che Ella vede come la storia della filosofia patria, che da Lei o da' suoi pari desidero, non è lavoro meramente erudito, ma sapiente e morale. E ad aiutare questo lavoro sian volte le poche osservazioni, che io intendo proporle, le quali a un tempo tendono a rettificare alcuni concetti filosofici, senza i quali parrebbe senz' occhi una storia della filosofia. E le dirò che prima posi l' occhio sulla maniera, secondo la quale Ella classifica i sistemi filosofici (1). Qui veramente mi nasce dubbio, se volendosi che tutto il compartimento della storia sia guidato e ordinato secondo una classificazione de' sistemi, non sarebbe stato più spediente di esporre quella classificazione e dichiararla a principio, anzichè nella fine della storia. Perocchè intervenendo di continuo il bisogno nella storica narrazione di richiamarsi a quella classificazione, egli par richiesto dal metodo che il lettore n' abbia ricevuta già da prima la notizia. Ma lasciando io ciò, mi cade di proporle un' altra questione. « Se egli si stia bene ad uno storico della filosofia, volendo distribuire in varie classi i filosofi, il dar loro un nome ch' essi non diedero a sè medesimi. » Io accordo pienamente, che v' abbia luogo a far ciò, ma ad una condizione; ed è, che quando pongo un nome ad un filosofo non datosi da sè stesso, io provi altresì con argomenti irrefragabili, e co' luoghi delle sue opere, che gli appartiene quel nome. Conciossiachè se il nome sistematico che s' impone ad un filosofo, non garbasse per avventura al filosofo stesso, questi avrebbe buona ragione di querelarsi allo storico, vedendosi dato gratuitamente un' appellazione, che non crede convenirsegli. E qui, mio stimatissimo Professore, io stesso debbo far querela con lei, essendole piaciuto di collocarmi nella setta o classe de' Razionalisti , e degl' Idealisti , quand' io non so per avventura di essere nè razionalista, nè idealista: e sarebbe un po' strano il caso, che io stesso ignorassi il mio nome, e che altri lo si sapesse. Il che se fosse, parrebbemi esser divenuto simile a colui, a cui degli solazzevoli uomini diedero a intendere, ch' egli non si chiamava Pietro, com' ei sosteneva, ma si chiamava Paolo, come non s' era fino allora udito mai appellar da veruno. E vedo io bene, ch' Ella mi viene poscia scusando e difendendo dalla mala impressione, che potrebbero dare que' nomi appostimi, attribuendo loro un cotal nuovo significato (1); ma ciò appunto mi dà occasione di proporle una terza quistione. E la questione si è « Se uno storico della filosofia possa mutare il significato ai nomi, che contradistinguono i sistemi nell' uso comune. » A ragion d' esempio: che cosa s' intende di significare oggidì nell' uso comune colla voce Razionalismo , se non quel sistema, che non pure esige una ragion chiara prima di dare l' assenso (il che non eccede il voluto dalla buona logica), ma che esige oltracciò una ragione riflessa? Di più, che esige oltre la prova, che una cosa sia, anche di comprendere la cosa stessa, prima di ammettere semplicemente che ella sia? O se si vuole definirlo in modo più elevato, quel sistema, che non riconosce alcun elemento che s' appareggi in altezza alle idee , di maniera che ad esse sieno inferiori e sottomesse tutte le cose? (2) Sicchè dicesi Razionalismo teologico quello di molti moderni protestanti, che rifiutano ogni misterio superiore alla ragione umana: e dicesi Razionalismo filosofico quello di Hegel, a ragion di esempio, che tutto dà all' elemento razionale. Ma da ciò appunto si vede come il mio sistema non solo differisca dal Razionalismo , ma di più come sia fors' anche il solo che l' abbatte fino dalle radici: perocchè il mio sistema pone ad una stessa altezza colle idee due elementi diversi dalle idee, e altrettanto supremi quanto le idee medesime; avendo io stabilito (nè so chi altri il facesse prima di me esplicitamente) l' Essere aver tre forme, o modi primordiali, l' idealità , la realtà e la moralità , nessun de' quali sottostà all' altro, ma ciascuno è primo, ciascuno incomunicabile, sebbene si leghino tuttavia nell' essere sempre il medesimo e identico in tutti e tre que' modi. I quali sono poi le tre mie somme categorie , a cui richiamo tutte le cose. Laonde tanto è lungi che io riduca tutto alla ragione, che anzi sono forse l' unico che abbia trovato qualche cosa che l' altezza della ragione possa emulare, e con essa per così dire aver comune l' impero. Quanto poi alla parola Idealismo , che Ella applica al mio sistema, e chi non sa, ch' essa fu sempre adoperata a indicare quei sistemi che negano la realità esteriore od anche l' esterior valore de' concetti della ragione? In che guisa adunque può darsi un idealista oggettivo7reale , come le piace chiamar me, quando quella denominazione nell' uso comune equivalerebbe a quest' altra d' Idealista7non7Idealista? La quale mia osservazione, parmi, rendesi degna di maggiore attenzione, quando Ella voglia considerare il pericolo, nel quale facilmente incappa colui, che aggiunge alle parole delle arbitrarie definizioni. E il pericolo che io noto, è quello appunto di contradirsi. Gliene darò, se mi permette, un altro esempio. Qual' è la definizione ch' Ella propone dell' Empirismo? La seguente. « « L' Empirismo è il sistema, che fonda la cognizione filosofica sull' esperienza sì esterna che interna, ovvero sul semplice fenomeno, o sulla sola apparenza delle cose »(1). » Or quì chiaramente Ella stabilisce, che l' Empirismo è quel sistema, che fonda la cognizione filosofica sulla sola apparenza delle cose, di maniera che se vi avesse un sistema, il qual fondasse la conoscenza filosofica sopra qualche altra cosa, oltre la sola apparenza delle cose, questo sistema non sarebbe più Empirismo. Bene stà: e che cosa è, secondo Lei, il Razionalismo ? Ella lo definisce. « « Il Razionalismo nel senso più largo od esteso è il sistema, che pretende la ragione umana capace per sè sola di conoscere l' essenza od i principii delle cose »(1). » Di questa definizione si vede, che il Razionalismo, secondo Lei, usa della sola ragione a conoscere l' essenza od i principii delle cose: di maniera che se vi avesse un sistema che usasse di qualche altra cosa a conoscere l' essenza ed i principii delle cose, non si potrebbe più chiamare Razionalismo. Or bene riteniamo queste sue definizioni, e vediamo come si accordino coll' altra definizione ch' Ella dà dell' Eccletismo in senso esteso ed universale. « « L' Eccletismo, Ella dice, nel senso più esteso ed universale è il sistema che fonda la cognizione filosofica sull' Empirismo e sul Razionalismo »(2). » Ma se l' Empirismo fonda la cognizione filosofica sulla sola apparenza delle cose, e se il Razionalismo non adopera che la sola ragione, che cosa sarà l' Eccletismo? L' Eccletismo sarà in questo caso « il sistema che fonda la cognizione filosofica sulla sola apparenza, e nello stesso tempo che non contento dell' apparenza delle cose, cerca d' investigarne l' essenza e i principii colla sola ragione. » Vede Ella a che si riduce questo suo Eccletismo? Quello poi ch' Ella aggiunge al paragrafo 474, dove pare che voglia conciliare il Razionalismo coll' Empirismo, non fa che intricare maggiormente la matassa. Perocchè Ella dice che nell' Empirismo tagliasi fuori di botto ogni razionalismo, cessando a rigore di termini l' Empirismo dal momento che si trapassa il fenomeno, o s' inoltra nelle speculazioni della ragione. Di che consegue esser giusto il seguente ragionamento. « O nel suo Eccletismo si trapassa il fenomeno o no. Se si trapassa il fenomeno, non c' è più Empirismo; se non si trapassa, rimane l' Empirismo solo senza il Razionalismo. »Dunque il suo Eccletismo è un Sincretismo che raccozza dogmi contradicenti, e il Sincretismo è nulla. Non voglio io attribuire a Lei questi assurdi, ma li attribuisco bensì alle sue definizioni. E io penso che il suo buon giudizio, meditandovi un poco, ne converrà meco pienamente. E perchè Ella vi mediti, non aggiungo di più a queste poche cose, che ho voluto esporle pel desiderio grande che ho, che si chiarisca la verità, e che ci avviciniamo, se possibil fosse, all' unanimità del sentire: al che è mezzo efficace la libera discussione, e dirò anche una censura severa e santa, che per amore e non per odio l' uno all' altro ci facciamo. Laonde Ella voglia ricevere con benignità questi cenni, e voglia liberamente ammonirmi se sono in errore. Voi volete saper da me, che cosa mi paia di quell' articolo intorno al « Saggio sull' origine delle idee , » che fu inserito tempo fa nel « Tiroler7Bothe , » e che ora ricomparisce nel « Messaggiere Tirolese , » tradotto in italiano dal professore Stoffella. E` cosa dilicata, mio caro maestro, il parlare d' un articolo di giornale, che fa la critica ad un proprio libro, chè nella materia de' nostri biasimi, e meno ancora in quella delle nostre lodi, non ci concede l' equità, nè la prudenza, nè la modestia, che noi c' intromettiamo, essendo gli altri i giudici nostri e noi le parti. Vero è, che ove la causa non è personale, ma è quella grave e comune della verità, non dobbiamo nè anco ritirarci dal più oltre agitarla per una falsa dilicatezza o soverchio timore, non forse altri attribuisca all' amor proprio nostro quello che pur ci viene suggerito da zelo buono del santissimo vero. E questa considerazione appunto mi move a contentarvi, e dirvi schiettamente ciò che io penso su alcun tratto di quell' articolo; perocchè, lasciate al tutto da parte le lodi di cui mi è largo il suo autore, e le quali vere o false che sieno, danno però mostra di animo inclinato alla benevolenza, come quelle che sono verso uno incognito (chè da un animo maligno nè anco la verità colla sua infinita bellezza sa riscotere una parola di approvazione, e un cenno gentile), io non vi dirò se non ciò, che mi sia paruto di quella parte, che tocca la questione delle idee, e la scienza filosofica, a cui tale questione appartiene. Sebbene io non dirò forse cosa, che voi non possiate aver detto prima a voi stesso, come quegli che siete entrato assai dentro e fattovi domestico nelle dottrine del « Saggio , » al trovamento delle quali voi stesso mi avviaste in que' begli anni, ne' quali mi aveste a discepolo nelle filosofiche scienze. Ben mi duole, che il dotto estensore dell' articolo non siasi potuto mettere in un esame dell' opera, e gli sia convenuto restringersi a darne solo un cenno, e gittare un solo dubbio sulla sostanza di essa; chè un cenno, un dubbio non mi dà buona presa da poterne io parlare con sicurezza, dovendomi rimanere in forse, se io pur intenda il concetto che l' estensore voleva al pubblico manifestare. Vi dirò bensì, che mi produsse un grato sentimento l' equità dello scrittore tedesco, ove, parendogli riuscire chiara l' elocuzione del « Nuovo Saggio » anche a svolgere questioni difficili e astratte, egli non dubitò di proporre quella chiarezza come un esempio imitabile ai filosofi della Germania. E veramente mi è avviso, che questo sia un punto principalissimo, se si vuole venire mai in accordo e consension di pareri, l' esser chiaro: e quel poco studio che io ho fatto nelle filosofie m' ha pienamente convinto, che il battagliare de' filosofi tra loro nasce le gran volte dal non intendersi; e che non ci può essere cura e diligenza tanto ben posta, quanto nell' usare parole e locuzioni chiarissime; nè si perverrà a trovare questa chiarissima sposizione, senza che ad un tempo non si pervenga a chiarire a se medesimo le proprie idee, o laddove non vi si giunga, varrà ciò a far conoscere, dalla fatica insormontabile che s' incontra a riuscir chiari, che le idee nostre sono sì implicate ed oscure, che non le possiamo a noi medesimi decifrare; il che avventurosamente insegnerebbe a molti scrittori di por giù la penna, e questa loro prudenza libererebbe il mondo d' un gran numero di noie e di errori, che si pescano sempre dove ci ha un fondo più scuro. E` però sfuggita una parola all' autore dell' articolo che contraddice senza ch' egli punto se ne avveda, al desiderio di questa bella chiarezza di stile, voglio dire quella colla quale afferma, che ogni astratto pensatore « dee da se stesso crearsi un peculiar linguaggio »: opinione pur troppo comunemente invalsa nella Germania, ma, ove senza pregiudizio si consideri, al tutto erronea. Che anzi il vezzo, che hanno preso que' filosofi di voler ciascuno riformare il linguaggio della filosofia è, a non dubitarsi, la principale cagione di quella tanta oscurità, che da' loro stessi nazionali è riconosciuta e confessata. Dovremo dunque nella nostra propria terra per essere filosofi farci barbari e forestieri? In questo dividerci dal comune modo di favellare, e farci una lingua o anzi un gergo da noi, più errori, o anche segreti suggerimenti delle nostre passioni, ci covano. Primieramente un errore, un suggerimento, per dirlo aperto, del nostro orgoglio è quello, che ci mette in cuore la lusinga vana di doverci sollevar noi tanto colle nostre speculazioni al di sopra della linea comune degli altri uomini, da potere, anzi da essere in necessità di rinunziare alla comune favella e perciò medesimo alle comuni idee, e di crearci una cotal lingua divina da noi medesimi, fatti simili agli Dei d' Omero, che chiamavano le cose con nomi diversi da quelli, con cui le chiamavano i mortali. Eh! non ci ha questa sì grande differenza da uomo a uomo, se la nostra vanità non ce la pone, che l' uno sia una divinità all' altro; ed è proverbio italiano e bello quello che dice, che tanto sa altri quanto altri . Riflettete ancora, che le idee, che ciascuno di noi ha ricevute per tradizione, dalla società umana in cui è nato e fu educato, col mezzo della comune favella e con essa stanno individuamente congiunte, sono quelle, colle quali, come con istrumenti, ciascuno di noi pensa, sono la materia, oltre alla quale i pensieri nostri finalmente non escono, e quindi sono tutto il fondo della filosofia. Sicchè le grandi e fondamentali verità il filosofo non fa che analizzarle, e trarle in maggior lume; ma esse non compariscono già al mondo la prima volta ne' libri de' filosofi, sì bene stanno depositate nelle tradizioni e nelle lingue, e i filosofi le prendono dal tesoro comune; e sfido qualsiasi de' filosofi tanto tedeschi, quanto italiani o d' altra nazione, a indicarmi d' aver egli il primo fatta comparire ne' suoi libri una sola verità fondamentale veramente nuova, e incognita prima di lui: sicchè altro sono le parole, altro i fatti di que' filosofi, che tutto vogliono innovare; altro ciò che promettono, e altro ciò che mantengono. E voi ben sapete, che io non ispingo però questa dottrina in quell' eccesso, nel quale la spinsero alcuni recenti filosofi francesi, ma che solamente io sostengo, che tanto di verità noi dobbiamo ricevere dalla società, o più in generale parlando, da un maestro al di fuori di noi per poter filosofare, quanto di lingua per poter favellare; e quanto sia questo tanto di lingua l' ho mostrato e definito nel « N. Saggio (1) » come ho mostrato nell' opera stessa in che modo io intenda e ristringa la dottrina del senso comune (2). Ma questo tanto di sapere e di lingua ciascuno di noi il riceviamo, come seme che feconda il nostro intelletto, dalla società degli uomini; e la società umana l' ha ricevuto da Dio, che le ha incumbenza di conservare e di travasare d' una in altra generazione questo deposito preziosissimo delle prime ed elementari verità. Ed acciocchè l' umanità, come debole ch' ella è, non manchi a questo suo ufficio, acciocchè le verità supreme sieno immobilmente fisse nel genere umano, e sieno anche sviluppate incessantemente, e rese fruttifere, la Provvidenza ne ha dato una speciale missione al Cristianesimo, che l' adempie da tanti secoli. Dal che si vede, che non furono bene comprese quelle mie parole, colle quali io ho dichiarato, che l' « Opera sulle idee » non intendevo che appartenesse ad una filosofia « inquisitiva di nuove verità, ma più tosto a quel genere che travaglia d' aggiungere chiarezza e sviluppamento a delle verità già universalmente conosciute. »Volevo io mostrare con quelle parole la poca fede, che io ponevo in una filosofia che fosse nuova e tutta invenzione d' un individuo; e come io non riconoscevo altra dottrina vera, autorevole e salutare, se non quella, che ha le sue radici, cioè le sue prime verità, nel senso comune degli uomini, e nel deposito dell' ereditaria sapienza, di cui l' umanità è e fu sempre in possesso, a cui non si può aggiungere se non ciò, che ci dà l' analisi e la riflessione, un più alto grado di luce, delle nuove conseguenze, delle nuove applicazioni. Il perchè io venivo con quelle parole a dire, che il far altro non era possibile nè a me, nè a chicchessia de' mortali, e il commentario e la prova di questa mia sentenza è sparsa in tutta l' opera (1). Oltre di ciò sulla lingua, che è essenzialmente l' espressione della società e non mai dell' individuo, se pure un individuo non vuol parlare con solo se stesso, ha diritto la sola società, e solo essa conserva e modifica il valore de' vocaboli, e perciò il valore d' un vocabolo non sancito dall' uso, quem penes , come fu detto sempre, est arbitrium et ius et norma loquendi , è un valore nullo, come di moneta, che non ha corso. Indi è che anche una menoma deviazione dal valor corrente della parola si reputa a peccato negli scrittori, e che l' usare tutte le parole diligentissimamente in quel significato, che l' uso comune loro stabilisce, forma quell' altissima lode delle scritture, che dicesi della proprietà , colla quale solo si ottiene la chiarezza e si tocca l' eccellenza dello scrivere. Ma quanti mali all' incontro non nascono dall' improprietà nell' uso delle parole? In prima le ambiguità, gli equivoci, un dettato incerto e vago, che non rende l' idea nell' altrui mente, se pure chi scrive in tal modo ebbe egli stesso mai in capo un' idea precisa da potere comunicare altrui. Poichè, come diceva Socrate, e questo il batteva fortemente contro a' Sofisti del suo tempo, chi pensa bene, parla bene, chi ha chiarite a se stesso le cose, sa metterle altresì in parole chiare e proprie: chè il nesso delle parole colle idee è sì stretto, che senza aver le parole, cioè senza averle ricevute dalla società, non si possono a mala pena avere le corrispondenti idee. Di che era divenuto fermissima legge anche appresso gli scolastici il dover conservare la proprietà delle parole, vedendo essi, che da questo dipendeva il potersi ben riuscire a insegnare, e fermare la verità e por termine alle questioni. E quel grande ingegno italiano, cui commenda l' autore dell' articolo, S. Tommaso d' Aquino, in più luoghi insegna e stabilisce come importantissimo principio per venire alla verità, e poterla mantenere e difendere, quello di osservare l' uso corrente delle parole e fedelissimamente seguirlo: « Significatio nominis » dic' egli, « accipienda est ab eo quod intendunt communiter loquentes (1) » Il perchè credo di poter dire, che il vedere uno scrittore che usa delle parole con tutt' altro significato da quello, nel quale le prendono gli uomini (2), e che con queste, come note magiche, vi parla da oracolo, e non consente, che alcuno sia con lui d' accordo, ma tutti hanno avuto torto, nè vi fu alcuno che abbia saputo un acca prima di lui, a cui avvenne il primo di trovar le vere basi della filosofia, e ricostruirla dall' imo al sommo; un tale, dico, ha tutto l' aspetto di essere un prestigiatore, o un cantambanco, o certo un uomo, che scoppia di boria, e che è voto di vero sapere. Veramente a certi volghi, e non però al volgo italiano, fa grande impressione il sentire un ardito pronunziare dal tripode, e spacciarsi per qualchecosa di più che tutti insieme gli altri uomini, per da più dell' intero genere umano, e a cui perciò si convenga anche d' avere lingua nuova, originale, e non imbrattare le sapientissime labbra col parlare comune della mandra umana; ma quest' impressione di stupore che fa in alcuni volghi, come dicevo, e nella parte superficiale de' letterati, la qual si guida non a stima di giudizio, ma di rumore, che si leva appunto per cotali stranezze di filosofi; è però tale, che il tempo la cancella, e la cancella per sempre, e con derisione di chi ne fu il zimbello, e del ventoso filosofante, che da tanto alto mandò fuori i vocaboli misteriosi, e nulla veramente di chiaro significanti a chi ebbe la semplicità di ascoltarlo e stupirsene. Il perchè se un uomo, il quale non si lascia imporre dall' apparenza, e che abbia digerito l' ebbrezza della maraviglia che gli avea cagionato da prima uno stile arcano, e promettitore di secreti inauditi, venga fuor di cerimonia e di contegno a fare metter giù il pallio filosofico e la barba, per così dire, a que' sistemi e snudarli e interrogarli a voler dire in latino chiaro ciò ch' essi si vogliano, ciò che essi s' intendano; riesce questi a cavarne di sotto a quelli enimmi delle verità non già arcane e peregrine, ma anzi volgari e notissime, mescolate pure con dei volgarissimi errori, con infinite inesattezze, e con una buona parte di sentenze senza significato, a tale, che l' autore medesimo non seppe ciò che s' abbia voluto dire con esse. L' affettazione dunque d' usar parole nuove o di nuovo significato il più delle volte è un' arte di coprire la propria ignoranza, e d' eccitare maraviglia in altrui, e trarne nome di originalità con pochissimo di sapere e con una testa oltre modo confusa. E non è quindi difficile a' filosofi di una tal mena inventare sempre de' nuovi e nuovi sistemi, i quali, a sentir essi, ve li danno per cosa, di che non s' ebbe mai al mondo sentore, giacchè basta arzigogolare colle parole per venirne a capo, e dei nuovi arbitrŒ, delle nuove improprietà, in somma un impasto nuovo di linguaggio, e se fa bisogno un nuovo rafel maì amech zabi almi , ed eccovi un sistema. E dopo ciò non vi farà maraviglia, se io oso dirvi, che de' tanti sistemi filosofici, che sono usciti in Germania questi ultimi sessanta o settant' anni, da che questa nazione ha preso un nuovo modo di filosofare, ognun dei quali vuol esser unico; appena che due o tre ve n' abbiano, i quali differiscano realmente fra di sè nelle basi, e non di sole parole (1). Ma v' ha di più ancora: un nuovo linguaggio individuale, arbitrario, non solo è il più sovente l' espressione propria di alcun di coloro, a cui si potrebbe rivolgere quel, o anima confusa , che rivolge Dante a Nembrotte; non solo è lo stromento dell' orgoglio sempre solennissimo ciurmadore degli uomini, il qual coi misterŒ e col prometter d' occultare sotto a' misterŒ de' tesori di peregrina sapienza e non mai trarli all' aperto, tenta di preoccupar gli animi della moltitudine e ingenerare in essi un gran concetto di sè; non solo è l' unico stromento acconcio alla fondazione di sette filosofiche (e di sette a dir vero la stagione dovrebbe esser finita); ma egli è qualche cosa di più pericoloso , e di più sospetto ancora: il debbo io dire? debbo io dire ciò che l' esperienza ci ha insegnato a nostro sì grande costo? il dirò spacciatamente a voi, mio caro amico, ed è questo, che il tramutar senso a' vocaboli e un fraseggiar nuovo fu un' arte di fare smarrire, e rimescolare nelle menti degli uomini le antiche e giuste nozioni delle cose, di alterare i costumi, di turbare le cose pubbliche, di distruggere la religione, quella religione, che antica come il mondo, gode pure di un linguaggio antichissimo, e nella sua sostanza, almeno ne' suoi solenni vocaboli e maniere, inalterabile. E non è egli così? Date uno sguardo alle cose de' nostri tempi, e vedrete, che tutte le sette politiche come tutte le sette religiose adoperarono per farsi largo un linguaggio inaudito, loro proprio, e senza di questo non avrebbero certamente potuto ingannare tanto, e tanto universalmente ed infelicemente gli uomini (1). Chiarezza adunque, chiarezza, da lungi i misteri filosofici, da lungi i detti da oracolo, e quel parlar in calmone, che i fiorentini sogliono anche dire furbesco. E per seguitare della chiarezza necessaria nelle trattazioni filosofiche, una cagione di oscurità e del fraintendersi è ancora l' uso soverchio di maniere metaforiche là dove farebbe bisogno un parlar piano e proprio. E a dirvi il vero, per questo appunto è, che io non posso con sicurezza intendere, che cosa voglia dire l' estensore dell' articolo quando parlando del « Nuovo Saggio » mette dubbio; « se il punto di vista, al quale si leva l' autore trovisi veramente a quell' altezza speculativa, dalla quale soltanto si può aspettare una soluzione del tutto soddisfacente. »Quel punto di vista , quell' altezza speculativa , quel del tutto soddisfacente sono altrettante espressioni, che m' imbarazzano. Se egli mi avesse detto: « questa proposizione è vera, o questa è falsa »: io avrei inteso perfettamente ciò che egli voleva dirmi, ed allora io avrei potuto cavar profitto studiando di verificar meglio quella parte, che mi veniva additata come dubbiosa; ma parlandomi di altezza speculativa , io confesso di non saper più che mi si voglia dire; e perciò non sono in caso di approfittare della censura. Farà maraviglia questa mia osservazione, come quella che va a toccare delle espressioni assai frequentemente usate, ma non è egli da credere, che tanto sieno usate da taluni appunto perchè non contengono nessuno ben certo significato? Esse valgono a far credere ai lettori che si dica molto, perchè presentano un senso ravvolto in una nube, dentro la quale l' amor proprio di ciascuno spera di dovervi trovare qualche cosa di prezioso, e non ha coraggio di confessare a se stesso la propria incapacità di trovarci pur niente di solido. E` però vero, che quel passo sembra ricevere qualche lume dalle parole che seguono, e sono queste: [...OMISSIS...] Ma anche queste parole essendo così sfornite d' ogni prova, e così nudamente dette, non mi lasciano assicurare di bene entrare io nella mente di chi le disse. Tuttavia tenterò d' interpretarle a me stesso, e di farci sopra alcune osservazioni, prese in quel senso, che a me rendono. In primo luogo sembra da queste ultime parole, che l' estensore metta per cosa risoluta, e oggimai così certa da non dubitarsene, che la facoltà di percepire le cose particolari e la facoltà di percepire (com' egli dice) le cose universali non sieno punto due facoltà, ma una facoltà sola. Ma d' altro lato non sembra impossibile, ch' egli voglia torre ogni distinzione e diversità fra la facoltà de' particolari, e quella degli universali? Onde si distinguono le facoltà tra di loro? Fu sempre detto, dai loro oggetti, i quali se sono distinti, conviene che sieno distinte anche le facoltà, che a quegli oggetti si riferiscono. Converrebbe dunque dimostrare, che tra il particolare e l' universale, non v' avesse alcuna distinzione, non passasse alcuna differenza a poter dire, che le loro facoltà non sieno diverse, ma una facoltà sola. E se il particolare e l' universale fossero la medesima cosa, ne verrebbe, che si potrebbe l' uno prendere per l' altro, e dire che il particolare sia l' universale, e che l' universale sia il particolare, cosa mostruosa e contraddittoria ne' termini, perocchè solo a osservar la nozione che rendono alla nostra mente queste due parole, ognun vede, che la voce particolare esprime un concetto che è in opposizione appunto a quello della voce universale, e viceversa; sicchè l' una non è solo diversa, ma ben anche contraria dell' altra. Non posso dunque credere, che l' estensore abbia voluto negarmi ogni qualsiasi distinzione e diversità fra le facoltà dei particolari e degli universali. M' ingegnerò dunque di prendere le sue parole in altro senso, e di temperarle da quella sentenza rigorosa che pure proferiscono, e penserò che egli voglia dire, che il particolare e l' universale, sebbene opposti fra loro, hanno un cotal rapporto, sicchè l' uno viene dall' altro, o tutti due da un terzo elemento. Dove questo sia il suo pensiero, io gli propongo le osservazioni seguenti. Egli in prima non può dedurre l' universale dal particolare; chè così facendo si aggregherebbe alla fazione de' sensisti e de' materialisti; tutto l' errore de' quali consiste nell' imaginarsi di poter dedurre dalle particolari sensazioni gli oggetti essenzialmente universali della mente, giacchè la facoltà prima de' particolari non è che il senso, e la facoltà degli universali non è che l' intelletto: due facoltà che i sensisti confondono in una. Ma di questa fazione mostra già l' estensore di non avere alcuna stima, e però non posso attribuirgli un tal sentimento. Non credo nè pure di potergli attribuire il pensiero, col quale egli voglia dedurre dagli universali i particolari, chè non mi è noto, che nella mente di alcun filosofo sia mai caduta una stranezza simile di affermare, che l' uomo percepisca i particolari, non con un senso che ad essi presieda, ma deducendoli per astratto ragionamento, e quasi indovinandoli dalle idee universali della sua mente. Conciossiachè conviene osservare, che qui parliamo de' particolari e degli universali solo in quanto sono gli oggetti delle percezioni dello spirito umano. Troverò io meglio il suo concetto, se supporrò, che egli voglia dire, che tanto gli universali, quanto i particolari scaturiscano da un terzo elemento, come da una fonte comune? Ma questo terzo elemento, mi si dica, sarà egli un universale, o sarà un particolare? perocchè non so che cosa ci possa avere di mezzo fra il particolare e l' universale, nè posso in alcuna maniera concepire un oggetto, che non sia nè particolare nè universale. S' egli dunque è un particolare che produce l' universale, ricaderemo nel sistema dei sensisti, e s' egli è un universale che produce un particolare, verremo ad abbandonarci ad un sistema così assurdo, che non ha bisogno di confutazione. Ma forse egli voleva dire, che considerando noi in questo ragionamento il particolare e l' universale in quanto sono oggetti, o anzi termini dello spirito umano (1), egli non è però assurdo il supporre, e non è impossibile il pensare, che tutti e due questi termini dello spirito sieno prodotti da un terzo elemento, non oggetto e non termine dello spirito, e perciò non apparente allo spirito. In tal caso noi siamo usciti oggimai dall' ordine logico , e siamo entrati nell' ordine ontologico , cioè a dire, siamo usciti dagli oggetti del pensiere umano, e siamo venuti ad un che incognito, che li produce: ora una cosa incognita, una cosa fuori del nostro spirito, fuori della nostra sensitività e della nostra intelligenza, non può in alcun modo costituire una facoltà dello spirito stesso; e perciò questo terzo elemento, questa entità, quand' anco ci fosse, non potrebbe costituire una facoltà superiore a quelle degli universali e de' particolari, sicchè queste da quella uscissero e in quella si unificassero. Vado bensì meco medesimo indovinando che questo terzo elemento sia per l' estensore dell' Articolo la coscienza (noi diremmo il sentimento), i fatti della quale pare a lui non essersi da me considerati quanto sarebbe bisognato nella loro connessione e nella loro più elevata unità; volendo così dall' ordine logico trasportarci all' ordine psicologico , cioè a cercare la spiegazione delle facoltà nel fondo dell' anima stessa, come molti filosofi, massime della scuola tedesca, vanno dicendo. Ma se a questa schiera egli pensa d' aggiungersi, non mi sarebbe punto difficile il fargli osservare i luoghi del « Nuovo Saggio , » dove si dimostra, che un tale pensamento è insostenibile in se medesimo, e scettico nelle sue conseguenze (1). Ma in luogo di ciò, a me basterà di eccitarlo a fare la seguente riflessione. La coscienza, come si suol prendere da' tedeschi, è un sentimento , appartiene quindi alla facoltà di sentire, o anzi, è ella stessa la grande e universale facoltà di sentire dello spirito umano. Ora, se noi consideriamo il sentire come tale, egli non è nulla più che la facoltà de' particolari, giacchè il soggetto senziente uomo è un particolare, e ogni sensazione è una modificazione di questo soggetto particolare, che a suo tempo si chiama IO, e perciò essa è particolare. Perchè adunque la facoltà di sentire passi agli universali, conviene, che le si sopraggiunga qualche cosa, cioè che gli venga posto un oggetto in contrapposizione di lei, soggetto. In tal caso essa non è oggimai pura e semplice facoltà di sentire , ma è divenuta facoltà intellettiva , ed è questa appunto la maniera, ond' io faccio nascere nell' uomo l' intelligenza, cioè col sopraggiungersi d' un oggetto al soggetto , coll' esser dato alla facoltà di sentire universale dell' uomo un termine diverso dal soggetto stesso e da lui indipendente, e quindi coll' acquistare che fa il principio sensitivo dell' uomo una modificazione essenziale, in virtù della quale estende la sua forza fuori di tutto ciò, che racchiude la nozione d' un sentimento puramente soggettivo. La coscienza dunque, a parlare con proprietà, un sentimento puramente soggettivo, appartiene solo alla facoltà de' particolari, e chi volesse da questo trarne la percezione degli universali ricaderebbe in quel sistema, che trae l' universale dal particolare, che è quanto dire, l' idea dalla sensazione, sistema sensistico e materiale (1). Egli è bensì vero, che alcuni filosofi danno alla forza primitiva dell' anima un atto creatore, col quale il soggetto stesso pone il suo oggetto, lo spinge e, quasi direi, lo slancia fuori di sè senza preciderlo da sè, ma mettendolo in opposizione a sè, come termine della sua contemplazione. Ma, oltre che questo sistema è panteistico , ed io l' ho già confutato a lungo (2), non se ne può dare la minima prova, che abbia pur solo del verisimile, e in qualunque caso, egli non può tener luogo, che di una ipotesi, conciossiachè i fatti appunto della coscienza, sieno esterni, sieno interni, non dicono nulla di questo, ma dicono anzi tutto il contrario, poichè la coscienza ci dice, che nella percezione degli oggetti noi siamo i passivi , e gli oggetti sono gli attivi , noi siamo dipendenti, quelli a cui viene imposta la legge; e gli oggetti sono indipendenti, e quelli che impongono la legge. Nè si dica che il concetto di passività involge una specie sua propria di attività; poichè questa attività non è finalmente che quella, per la quale il soggetto paziente esiste e patisce. Ci perderemmo dunque in una filosofia puramente fantastica, se, abbandonato il filo dell' esperienza interna ed esterna e le deposizioni chiare della coscienza, noi volessimo supporre un' operazione arcana nell' intimo dell' anima senza averne la minima prova, ed il minimo reale indizio. Concludiamo dunque da tutto ciò, che non c' è alcuna via da identificare nell' uomo la facoltà di percepire i particolari e la facoltà di percepire gli universali, e che non si può negare che queste non abbiano una diversità reale fra loro. Ma dopo di ciò, se queste facoltà, cioè il senso e l' intelletto, sono diverse, e non si possono confondere; saranno esse anche prive d' ogni rapporto fra loro? non hanno forse una comune radice? non si rassomigliano in cosa alcuna? A tutte queste domande ho risposto lungamente nell' opera, e voi bene vi ricorderete d' averci trovate le seguenti dottrine. In primo luogo, tutte le facoltà, ove le consideriamo dalla parte del soggetto, si unificano, ed hanno per radice comune, il soggetto, il quale è perfettamente uno e il medesimo (1). Quindi c' è un' attività radicale nel soggetto uomo, la quale è identica in tutte le facoltà, che traggono da lei, come altrettante attuazioni d' una medesima potenza; e quest' attività è l' anima stessa, che, come dice Dante, [...OMISSIS...] In secondo luogo, l' attività d' un soggetto, considerata da sola, è un sentimento , pel quale il soggetto sente se stesso, o a dir più vero, sente il modo del proprio essere, sicchè essendo moltiplici i modi dell' essere d' un soggetto senziente, anche quella facoltà da una si fa più, secondo i diversi termini delle sue operazioni: indi si partono non formalmente, ma per la diversa materia, quelli che si chiamano i cinque sensi del corpo, e queste attuazioni diverse della sensitività radicale si possono considerare bensì come altrettante facoltà, ma non però così distinte, che non abbiano sempre il soggetto per loro termine ne' suoi varŒ modi (3). All' opposto questa attività di sentire riceve una nuova funzione, infinitamente più nobile di tutte queste, quand' ella non termina più, come dicea, nel soggetto ; ma un oggetto le è dato da contemplare. Ella allora è maravigliosamente nobilitata da questo suo termine distinto essenzialmente da lei, e che non si può intuire se non distinto; di che al sentimento accade una preclara trasformazione, cioè quella di rendersi intelligente. Questa intelligenza, che viene aggiunta al soggetto col pur presentarsi e giungersi a lui come termine un oggetto, è tale, che il soggetto non potea mai darla a se stesso, perchè l' intelligenza richiede qualche cosa di essenzialmente diverso dal soggetto: e quindi il soggetto dovea ricevere l' intelligenza da qualche cosa diversa e maggiore di sè, da una cosa, che fosse per la propria essenza intelligibile, la quale perciò non potea esser sentita senza esser ad un tempo intesa, il che facea sì che resa termine dell' attività sensitiva, ella traeva quella attività ad una nuovissima e maravigliosissima operazione. Per tal modo è che io faccio nascere, ed uscire l' intelligenza umana dal senso universale, ma non dal senso solo, bensì da una operazione, che viene fatta dall' esterno del soggetto uomo, da una virtù, a cui l' uomo non può resistere, e che nel rendersi recettivo, nel cedere, nel darsi vinto, forma, e crea in lui ciò che aver ci può di più elevato, e di più sublime (1). Dalla parte dunque del soggetto le facoltà si unificano e radicano tutte nel medesimo, e anzi rimarrebbero una facoltà sola specificamente, se al soggetto null' altro si aggiungesse, e tutto terminasse in lui. Ma se questa universale facoltà di sentire che costituisce il soggetto stesso, esce dal soggetto, e l' abbandona per l' oggetto, qual forza ne la trae fuori? che cosa è questo oggetto, che a lei si presenta? questo termine, che, essendo egli essenzialmente conoscibile, dà l' intelligenza coll' esser sentito, e quindi egli, il primo inteso da questa intelligenza da lui per tal modo creata, rende intelligibile, per partecipazione della sua luce, anche tutte l' altre cose solo sensibili? Questa ricerca ho fatto in tutta l' opera sulle idee, ed il risultato si fu, che questo termine dello spirito umano è l' ENTE; e che prima l' uomo vede quest' ente in universale, e in uno stato puramente ideale. Indi col mezzo suo intende anche le altre cose, perocchè l' intelligibilità di queste non consiste se non nel rapporto che esse hanno appunto coll' ente stesso (1). Il risultato si fu ancora, che quest' azione che soffre dall' esterno lo spirito umano, è irresistibile e superiore a qualunque forza: che l' oggetto, l' ente è la stessa VERITA`, l' unica forma della ragione, il fonte della morale , cioè la legge suprema non solo de' pensieri, ma anche delle azioni umane (2), il criterio della « certezza (3), » il principio della « bellezza (4), » e ciò che il volgo chiama assai propriamente il « lume della ragione (5). » Risultò medesimamente dalle mie ricerche, che quest' ente è la causa esemplare delle cose, è l' universale, il necessario, e quindi il fonte di ogni universalità, e di ogni necessità (6); che egli finalmente è immutabile, eterno, infinito (7); e tutto questo che egli mostra non è apparenza ingannevole, poichè quest' ente non può apparirci diverso da quello che è, ed è essenzialmente ed evidentemente veritiero, appunto perchè è la verità; e per ultimo risultò, che sebbene da noi non si veda l' ente nella sua sussistenza , ma solo nell' idea tuttavia non può non sussistere anche in se medesimo, e in questa sua sussistenza considerato è la causa efficiente del tutto, l' ente degli enti, l' unico assoluto, Iddio (.). Così l' Ideologìa mi condusse a mano fuori della mente, e fece che mi ritrovassi sul limitare dell' Ontologìa, ove il discorso non cade più sulle idee , ma sulle stesse cose . Ed è nell' Ontologìa , non ancora da me pubblicata, che io richiamo alla sua vera ed altissima unità anche il mondo reale, come coll' Ideologìa ho richiamato all' unità sua il mondo ideale, per dover poi nella Teologìa naturale congiungere, cioè, far dipendere i due mondi reale e ideale da un solo e medesimo punto, cioè da quell' ente degli enti, nel quale la verità , ossia l' essere mentale, diventa una persona indivisa dalla divina sostanza. Non so, se forse l' Estensore dell' Articolo alludeva a qualche cosa di simile a questo, quando egli desiderava, che io avessi considerati i fatti della coscienza nella loro più elevata unità ; ma in tal caso, come abbiamo veduto di sopra, questa unità è fuori della coscienza, è fuori dell' ambito della ideologìa , ed appartiene all' ontologìa , e si consuma nella teologìa naturale . Per tornare dunque a quella unità di sentimento, che solo è ragionevole di cercare nel « Saggio sull' origine delle Idee , » voi certamente, che molto addentro siete entrato nello studio di esso, vi sarete avveduto di questa strettissima connessione soggettiva, che io pongo tra la facoltà dell' intelletto , e del senso preso in generale , e non solamente preso per quel ramo del sentire corporeo. Ma oltre di ciò ci avrete ancora trovato di più, che io riduco alla unità medesima anche la terza delle facoltà fondamentali dell' uomo, cioè la ragione , facoltà media fra l' intelletto ed il senso . Non vi sarà sfuggito, che anzi non altrove io fondo la possibilità e la propria natura della ragione , se non nell' identità del sentimento e della coscienza del soggetto sensitivo ad un tempo ed intellettivo , sicchè la funzione della ragione io la riduco ad essere la visione delle relazioni fra le sensazioni e le intellezioni; e l' indole propria di ogni idea, che non sia la suprema, semplicissima di sua natura e tutta forma, in quella d' essere un rapporto veduto fra la sensazione stessa, materia , e l' essere in universale, forma , e lume della mente (1). Tre dunque sono le facoltà specificamente diverse nell' uomo, il senso , l' intelletto , e la ragione ; ma l' uomo non è già una facoltà, ma il soggetto unico di quelle tre facoltà: ecco l' unità , a cui si richiamano tutti i fatti della coscienza. Vi risovverrete, che questa dottrina sparsa per tutta l' opera, viene in fine d' essa riepilogata nel seguente passo: « « Nella coscienza esistono tutte queste potenze avanti le loro operazioni, cioè il sentimento di me col mio corpo (sensitività) e l' intelletto . Questa coscienza, perfettamente una, unisce la sensitività, e l' intelletto. Ella ha altresì un' attività, quasi direi, una vista spirituale, colla quale ne vede il rapporto: quest' attività è ciò che costituisce la sintesi primitiva . Se noi consideriamo più generalmente questa attività nascente dall' unità della coscienza, in quanto cioè ella è atta a vedere i rapporti in generale, ella è la ragione , e la sintesi primitiva diventa la prima operazione della ragione »(1). » Una unità maggiore di coscienza e di sentimento dell' identità non si può dare, e questa è quella semplicità, a cui mi sembra d' aver richiamata con evidenza la scienza del pensiero. Io aggradirò, che voi mi diciate schiettamente il vostro parere su queste mie osservazioni, che vi mando per ubbidirvi. Addio. La ringrazio della pregiata sua piena di sagacità, e di quello spirito conciliatore; che se fosse in tutti gli studianti, tanto gioverebbe ai progressi della filosofia, della sapienza e della stessa virtù. Cercherò di chiarire in breve alcune cose ch' Ella mi propone. Prima di tutto è da porre attenzione al senso, nel quale io uso il vocabolo reale o realità. Io mi accorgo che molti intendono per cosa reale una cosa vera o veramente esistente. Ma non è questo il senso che io aggiungo a quella parola. Il reale per me non è che un modo dell' essere , non è l' essere stesso. Io sostengo che l' essere identico è in tre modi o maniere diverse, che io denomino ideale, reale, morale . Lasciamo da canto il morale a fine di semplificare il discorso; dico che l' essere identico si trova tanto nell' idealità quanto nella realità, ma in altro modo. Sia dunque che l' essere si prenda nella sua forma ideale, o che si prenda nella sua forma reale, egli è verissimamente ed è sempre lo stesso essere. Convien dunque con somma diligenza meditare sulla diversità che ha l' essere in queste due forme, nelle quali si presenta, e nell' una delle quali non è più nè meno che nell' altra. Una delle diversità estrinseche, per così dire, che separa l' essere ideale dal reale , si è che l' essere ideale è sempre necessario , laddove l' essere reale non è sempre necessario, ma ora è contingente, ora è necessario. E` facile il dimostrare che l' essere ideale è sempre necessario, sol che si faccia osservare che anche l' idea del contingente è necessaria ed eterna. Ella vede dunque che, secondo la mia maniera di parlare (dalla quale a dir vero non trovo che si possa prescindere), quantunque l' essere ideale sia verissimamente ed anco necessariamente, non si può inferirne che sia reale; chè sarebbe contraddizione il dire che ciò che è ideale, è reale, o viceversa, essendo queste due forme incomunicabili, o inconfusibili. Ella mi domanderà qual sia il carattere, che distingue queste due forme l' una dall' altra. Rispondo, che queste due forme si distinguono come l' idea si distingue dal sentimento , o sia che il carattere dell' essere ideale è quello di far conoscere semplicemente, senza aver alcun' altra azione di sorte; quando il carattere dell' essere reale è quello di agire , producendo o modificando il sentimento. Ancora: l' essere reale è soggettivo , l' ideale sempre oggettivo: l' oggetto si può unire col soggetto, anzi si deve; ma non si può mai confondere con esso. Avverta che per me un soggetto è sempre un sentimento, e il reale è sempre anch' esso il sentimento, o ciò che agisce nel sentimento: l' idea non è mai un sentimento, e qualora si voglia dire che modifichi il soggetto che la intuisce e produca in essa qualche sentimento, tuttavia questa modificazione, di natura sua propria, distinta da tutte le altre, non è l' idea. Del resto, ripeto, che nell' ideale c' è tutto ciò che nel reale, meno la realtà; e nel reale c' è, o ci può essere tutto ciò che nell' ideale, meno la idealità: le sole forme, i modi soli si escludono: il contenuto di esse è l' essere identico . I filosofi tedeschi, e specialmente Hegel, hanno fatti sforzi maravigliosi per trovare un punto, che congiungesse l' oggettivo col soggettivo, cui chiamarono punto d' indifferenza [...OMISSIS...] di cui quest' ultimo filosofo volle fare il fondamento e l' origine di tutte le cose. Vani sforzi! Non videro que' pensatori, che avanti l' oggettivo e il soggettivo, l' ideale e il reale, non c' è nulla, nulla affatto; che, l' essere è l' essenza identica d' entrambi. Ella avrà forse colto questa teoria nelle mie opere, ed esige, parmi, attentissima meditazione a concepirla sì nettamente da non falsarla con alcun' altra, e da poter trovarvi le conseguenze di cui va gravida. Ora venendo più da vicino alla nostra quistione: se d' innanzi alla mente umana stia sempre Iddio collocato, l' essere assoluto; rispondo facendo primieramente osservare, che stare presente alla mente umana non vuol dir altro se non esser dalla mente intuìto , di maniera che ciò che non fosse dalla mente intuìto si dovrebbe dire che non le è presente. In secondo luogo osservo che la parola Dio nel comune significato non indica solamente un essere necessario, ma indica di più un essere reale, indica l' essere reale infinito; epperò necessario. Ora che stia d' innanzi alla mente nostra di continuo l' essere necessario è quello che io sempre sostengo in tutte le opere mie; ma che stia presente alla mente, cioè che sia intuìto continuamente dalla mente quest' essere necessario nella sua forma di realità, questo è quello che nego non solo per l' assurdo teologico che ne verrebbe, ammettendolo; giacchè in tal guisa noi vedremmo Iddio per natura; ma di più per la semplicissima ragione che l' osservazione interna del fatto del nostro spirito ci dichiara che noi non abbiamo quella percezione della realità divina; la quale d' altra parte non è necessaria a spiegare l' origine delle nostre idee, al che ci bisogna solo l' essere ideale per sè noto, per sè lume: e finalmente per una terza ragione, cioè perchè la realtà divina non appartiene all' ordine delle idee, ma all' ordine de' sentimenti, ne' quali solo comunicandosi a noi, si può da noi percepire e dalla facoltà nostra del giudizio affermare. Nulladimeno dall' essere , che sta innanzi alla mente nostra nella sua forma ideale , possiamo passare per via di argomentazione a conchiudere, che quell' essere identico che a noi si comunica come ideale, dev' essere in se stesso anche reale, e un reale necessario e infinito altrettanto che ideale, benchè questa sua realità a noi sia nascosta nell' ordine della natura; conciossiachè nel semplice ordine naturale noi non possiamo percepire che una realità finita; e la percezione della realità infinita è poi ciò che costituisce l' ordine soprannaturale . Trovando mediante tale argomentazione la necessità d' un reale infinito, noi abbiamo dimostrato l' esistenza di Dio a priori; perocchè gli uomini in tutte le lingue intendono ed hanno sempre inteso di significare colla parola Dio non l' essere ideale, ma l' essere reale infinito. Di che ella vede che il non poter applicarsi il nome di Dio all' essere ideale, che noi naturalmente vediamo, non fa sì ch' egli sia perciò diverso da Dio, in se stesso, ma solo che a noi appaia diverso, attesa la limitazione nostra, e il modo parziale con cui ci viene comunicato. Mi spiegherò con un esempio: io vedo da lungi una piccola macchia nera; questa macchia si muove: mi si avvicina: finalmente scorgo che è uomo. Quando io vedea la macchia nera, ma non distinguevo ancora che fosse un uomo, io non potea dire di vedere un uomo, poichè ciò che a me appariva non era punto un uomo; era una macchia nera; ma in quel punto in cui ho cominciato a distinguere le forme umane in quella macchia, io ho potuto dire: vedo un uomo. L' oggetto in se stesso era sempre il medesimo; ma non così l' oggetto a me apparente; prima era una macchia, poi era un uomo. Applichi la similitudine: l' essere infinito è identico tanto nella sua forma ideale quanto nella sua forma reale; ma fino che io lo vedo nella sua forma ideale solamente, non vedo Iddio: vedo Iddio tosto che lo vedo nella sua forma reale: ma non è tanto l' oggetto che varia, quanto la visione dell' oggetto. Questa similitudine non è adequata da tutti i suoi lati; ma fa intendere bastantemente il mio pensiero....... Ricondottomi a Stresa dopo lunga assenza, vi ho trovato la sua « Introduzione alla Filosofia razionale » da Lei gentilmente speditami, e poco stante ebbi la cortese sua lettera, in cui mi chiede qualche parere sulla medesima. Ho letto con piacere non piccolo quella sua operetta, scorgendovi da per tutto la penetrazione del suo ingegno e i vestigi di una non leggera meditazione. Laonde devo sinceramente congratularmi con essolei d' un lavoro che le dee far grande onore. Non le parlerò delle osservazioni che Ella fa sul sistema ideologico contenuto nel « Nuovo Saggio » e che tutte mostrano la rettitudine dell' animo suo e la persuasione sincera di ciò che dice, ma non posso tacere del tutto del sospetto di Panteismo ch' ella mostra di prenderne e dell' accusa ch' ella gli dà d' impotenza a dimostrare l' esistenza reale de' corpi. L' amor suo sincerissimo alla verità dee liberarla a mio credere da ogni timore, che, nella conseguenza del sistema, possa uscirne un panteismo sol che consideri quanto segue. Niun altro sistema, a me pare, pone più gran divisione fra l' essere ideale e l' essere reale . Ora l' essere ideale è necessario ed eterno, quando all' opposto l' essere reale non è essenzialmente necessario ed eterno, avendovi un mondo contingente e soggetto alla limitazione del tempo. Ora essendo l' essere ideale essenzialmente necessario ed eterno, ne viene ch' egli debba ridursi in Dio, ed essendovi in Dio un' unità perfetta, niuna maraviglia è, che anche nell' essere ideale si trovi un' unità perfettissima, cioè che tutte le idee si riducano ad una sola. Se fra le idee ci fosse una real distinzione, una real distinzione ci sarebbe in Dio, il che pregiudicherebbe alla divina semplicità. All' incontro l' essere reale contingente non potendosi ridurre in Dio, nè pure esige l' unità e la semplicità propria del mondo ideale e divino. E tutto ciò è confermato dall' osservazione interna ed esterna; poichè è l' osservazione interna che ci persuade le molte idee non esser altro, che lo stesso lume applicato a conoscere cose diverse: la moltiplicità delle cose reali moltiplica le idee in questo senso, che moltiplica i rapporti fra essi e l' unica idea; avendo io già dimostrato che tutte l' altre idee, eccetto quella dell' essere, non sono che rapporti delle cose con essa idea unica dell' essere ( « Rinnovam . » L. III c. LII). L' osservazione poi esterna ci dimostra la moltiplicità e la limitazione delle cose esteriori, le quali per ciò stesso non si possono in alcun modo confondere con Dio. Di qui risulta, che dall' unicità, che si trova nelle idee, non si può argomentare all' unicità delle cose esterne contingenti, perocchè l' essere ideale è tanto distinto dall' essere reale e contingente, quanto è distinto Iddio dalle creature. All' incontro il vedersi che quell' unica idea si moltiplica, secondochè fa conoscere ora una cosa ora l' altra, dimostra manifestamente la moltiplicità delle cose reali, moltiplicità e limitazione che si trova così dimostrata nel seno stesso del mio sistema. Venendo ora alla obbiezione, che ella fa alla dimostrazione dell' esistenza reale de' corpi , devo confessare che la riflession sua sarebbe giusta qualora quella dimostrazione si appoggiasse, come Ella suppone, all' erroneo principio che un essere illimitato non possa mai produrre effetti limitati . Ma se ella attentamente considera, vedrà che la dimostrazion mia fondasi anzi interamente sull' analisi del concetto di corpo, per la quale io stabilisco che il corpo è quell' agente sull' anima, che l' anima sente nello spazio : e la sostanza corporea non è nè più nè meno di quest' agente. Ora quest' agente sentito immediatamente dall' anima e nell' anima, e avente il modo della estensione, è una sostanza limitata , e perciò non può essere Dio. Merita nome di sostanza , perocchè si concepisce da sè solo senza che il pensiero nostro per concepirlo debba far ricorso ad altro; e questa sostanza è limitata , perchè in tanto è sostanza, in quanto agisce, e in quanto agisce è limitata ed estesa, onde non è Dio. Conviene formarsi una giusta idea della sostanza, riducendola sempre ad un atto, il quale, qualor si considera sotto l' aspetto di principio , dicesi agente , e qualora si considera come cosa che si lascia concepire da se stessa senza bisogno d' altro, dicesi sostanza . La prego di dare la sua attenzione a tutto ciò, e mi persuado, ch' Ella, cercatore della sola verità, rimarrà soddisfatta. Così pure io credo ch' Ella si persuaderà, che non ci sono nè idee nè cose essenzialmente contrarie fra loro; giacchè tutte le idee convengono nell' essere ideale, e tutte le cose partecipano dell' essere reale, e però in quanto sono, non sono contrarie. Finalmente bramerei ch' ella facesse uso dell' edizione milanese del « Nuovo Saggio , » parendomi dal passo ch' ella cita a faccia 124 7 125, ch' ella adoperi l' edizione romana. Veramente dee essere corso errore di citazione, e però non ho potuto riscontrare il passo citato; ma ritengo che nella edizione milanese sia stampato extrasoggettiva in vece di oggettiva , giacchè sensazione oggettiva , a dir vero, non è una frase propria. Non tardo a ubbidire al suo desiderio d' avere qualche dichiarazione intorno all' opinione da me professata in quel luogo del « Nuovo Saggio , » dove dico, che niuna cosa si predica di Dio univocamente, eccetto l' essere. E prima mi compiaccio che a Lei già non sia sfuggita la ragione di quella sentenza, che privilegia l' essere così fuori di tutti gli altri predicati; poichè, com' Ella dice, qui trattasi dell' essere comunissimo ammesso da tutte le scuole, il quale non sarebbe più comunissimo, se non si applicasse sì bene all' essere necessario, come al contingente. Il che apparisce vieppiù chiaro, se si considera che l' esistenza delle cose non si conosce in alcun altro modo, che con una sola idea, quella dell' esistenza; e quest' idea dell' esistenza è quella nè più nè meno, che chiamiamo anche idea dell' essere, come ci siamo già dichiarati. O sarà egli vero che l' esistenza di Dio non si conosca coll' idea di esistenza, colla quale conosciamo l' esistenza delle cose? Se non conoscessimo l' esistenza di Dio coll' idea d' esistenza, in qual altro modo la potremmo conoscere? O non è egli evidentemente assurdo il dire che senza l' idea di esistenza conosciamo l' esistenza di Dio? Se dunque è per lo contrario manifesto, che conosciamo l' esistenza di Dio coll' idea di esistenza, e coll' idea di esistenza conosciamo pure l' esistenza delle creature; non è egli vero che predichiamo l' esistenza dell' uno e dell' altre, mediante un' identica idea? Dove si noti, che l' idea di esistenza è semplicissima, non acchiudendo alcuno dei modi dell' essere, e però non può avere che un solo e semplicissimo significato la parola che la esprime: ond' è manifestamente assurdo ch' ella possa essere equivocamente predicata di checchessia. Ogni cosa qualsiasi o è o non è, senza mezzo. Rispondere che una cosa può essere in un modo e tal' altra in un altro è non aver intesa la questione; Chè non trattasi del modo dell' essere , ma dell' essere stesso separato da tutti i suoi modi e da tutti i suoi termini; di quell' essere che noi pronunciamo, affermando che una cosa è. Voi dunque siete scotista, mi si dirà - Il dir questo sarebbe un tirare conseguenze a precipizio. Le confesso che entro assai di mala voglia nelle questioni storiche, bramando che queste sieno tenute affatto in disparte dalle filosofiche. Io amo assai più di cercare la verità in filosofia e di studiarmi di attenermi ad essa, di quello che sia d' investigare se il tale o il tal altro autore, la tale o la tal' altra scuola la tiene con me, o contro di me. D' altra parte la quistione filosofica è semplice; e i passi che si fanno in essa, se pur si fanno, possono assicurarsi per via di giusto raziocinio. La questione storica è laboriosissima e può divenire interminabile, se si tratta d' interpretare autori, che hanno scritto un gran numero di volumi nelle diverse età di loro vita, e più ancora se si tratta di sapere che cosa tiene un' intera scuola composta d' un gran numero di scrittori che si esprimono diversamente, e che molte volte fra loro stessi dividonsi. Ed è per questo che io non amo chiamarmi piuttosto scotista che tomista o con altra tale denominazione che agli occhi miei non ha un preciso valore. Tuttavia confesso, che molte ragioni mi traggono talora in quistioni che appartengono alla storia delle opinioni e delle sentenze de' grandi filosofi o teologi. Ma quando sono a ciò fare o condotto o sedotto, allora io procuro d' interpretare la mente de' grandi uomini, che sembrano battagliare fra loro, in modo da conciliarli insieme quant' è mai possibile, standomi soprattutto ferma questa persuasione nell' animo, che difficilmente i sani e sommi intelletti vanno discordi fra loro, in ciò che sicuramente affermano, più che nell' apparenza. E parmi che i tentativi da me fatti in ciò sieno riusciti così, che mi confermarono in quel mio sentire. Adunque io credo che nella questione presente « se l' essere ideale si predichi di Dio e delle creature in un modo univoco od equivoco »ci abbia tra la scuola degli scotisti e de' tomisti una facile concilazione. Io gliela proporrò ed ella ne giudichi. Primieramente è da considerare, che il predicare l' essere di Dio e delle creature è operazione della mente umana, la quale distingue il predicato dal soggetto e quindi gli accoppia insieme. Questo modo di fare viene dalla limitazione della ragione umana: chè certa cosa è, che in Dio non c' è alcuna reale distinzione tra ciò che esprime il nostro predicato e ciò che esprime il nostro soggetto. La questione dunque è tutta racchiusa nella sfera del predicare e del concepire umano. Onde se ne avessimo la soluzione affermativa, cioè se risultasse che l' uomo predica di Dio e della creatura l' essere unicamente, non ne verrebbe mica da questo che l' essere in Dio e nella creatura fosse il medesimo, ma ne verrebbe solo la conseguenza, che l' uomo per la sua limitazione predicherebbe dell' uno e dell' altro il medesimo essere, o per dir meglio, l' essere in un medesimo senso, quantunque lo stesso uomo poi sapesse che una tale predicazione è difettosa, e che la mente umana l' adopera per non averne altra. La questione dunque si riduce tutta a sapere, se quando l' uomo dice: « Esiste Iddio », e quando dice: « Esiste il mondo », egli, l' uomo, intenda di esprimere colla parola esiste la stessa cosa o una cosa diversa. Se dunque egli è certo, come dicevamo, che l' idea di esistenza non determina punto i modi della esistenza stessa, ma è l' esistenza precisa da tutti i suoi modi; è manifesto altresì, che l' uomo in quelle due proposizioni intende di predicare di Dio e delle creature l' istessa cosa, cioè la pura e nuda esistenza. Ora la differenza fra l' essere di Dio e quello delle creature riguarda il modo di essere e non l' essere puramente preso nella sua astratta universalità. L' uomo dunque, legato com' è ad un modo di concepire suo proprio, predica questo essere puro di Dio e delle creature univocamente, appunto perchè, quando dice che Iddio esiste, lascia affatto da parte la questione del modo di sua esistenza. Si opporrà che l' uomo, facendo così, erra, perchè attribuisce a Dio un' esistenza astratta, quando in Dio non c' è distinzione alcuna tra l' essere e la natura. Ma quantunque sia vero, che in Dio non ci sia distinzione alcuna fra l' essere e la natura; tuttavia non è mica vero che l' uomo erri, quando predica di Dio l' esistenza, perchè in tal caso sarebbe falsa la proposizione: « Iddio esiste », o vero « Iddio è », la quale è manifestamente vera. E che l' uomo non erri formando questa proposizione, si vede da questo. Acciocchè l' uomo errasse, egli dovrebbe negare il vero. Ma l' uomo pronunziando che « Iddio è »ovvero « esiste », non nega mica il vero, cioè non nega con questa sua proposizione, che l' essere di Dio sia identico colla sua natura, ma altro non fa, che lasciare al tutto da parte la questione di questa identità, restringendo la sua attenzione all' esistenza senza più. E` dunque quello dell' uomo un modo limitato e imperfetto di concepire le cose divine, ma non erroneo. Poichè se l' uomo stesso, dopo aver detto che « Iddio è », s' inoltra colle sue ricerche e va investigando la maniera nella quale Iddio è, arriva ben presto a trovare quest' altra proposizione: « l' essere di Dio è la stessa sua natura »; e questa proposizione non è punto contraddittoria colla prima; che anzi ne è il compimento ed il perfezionamento: il che dimostra che anche la prima è vera, benchè sia insufficiente ad esprimere la dottrina intorno all' essere divino. Ora Ella ben si accorge, che tutta questa è dottrina bellissima di S. Tommaso, e che perciò è al tutto secondo la mente dell' angelico dottore il dire, che si predica univocamente l' essere di Dio e delle creature, quando per essere s' intenda l' essere comunissimo ossia la pura esistenza, come noi intendiamo. Ella vede che la verità della proposizione « Iddio è »o « Iddio esiste », è da desumersi dal puro fatto del significato che l' uomo aggiunge alla parola è , secondo il principio dello stesso Acquinate che « ad veritatem locutionum non solum oportet considerare res significatas, sed etiam modum significandi (S. I, XXXIX, v.) » Ella vede dunque che la conciliazione fra S. Tommaso e Scoto su questo punto non è difficile. Cerchiamo di metterla ancora più in chiaro. S. Tommaso dà due significati alla parola ente: egli dice che con questa parola talora s' intende l' essenza delle cose , e in tal caso si parte ne' dieci predicamenti d' Aristotele; e talora significa un concetto formato dall' anima stessa (S. I, III, IV, ad 2, XLVIII, II ad 2, in I Sent. D. XIX, q. V a I, ad 1 e in molti altri luoghi). Dice ancora, che l' ente, preso nel primo significato, appartiene alla questione che ricerca; quid est? Ma l' ente preso nel secondo significato appartiene alla questione che ricerca; an est? (in II Sent. D. XXXIV, I, in III D. VI, q. II a II). Dunque l' essere si può predicare di Dio nel primo significato, in quanto l' essere esprime il quid est di Dio, come nella proposizione; Deus est ens; e in questo significato l' essere si predica di Dio e delle creature equivocamente, o, se vuolsi, soltanto analogicamente, onde traducendo la proposizione in italiano riuscirebbe a questa forma: « Iddio è l' ente ». Il che non potrebbe mai dirsi della creatura, della quale potrebbesi dire solamente: « la creatura è un ente ». Ma l' essere si può predicare di Dio anche nel secondo significato, in quanto l' essere esprime; an est , come nella proposizione: Deus est; e in questo significato che esprime un concetto della mente, una maniera umana ma vera di concepire, l' essere si predica di Dio e delle creature univocamente. E che questa sia la vera dottrina dell' Angelico, Ella potrà rilevarlo altresì dal considerare semplicemente, che l' acutissimo nostro Dottore sostiene, che l' uomo possa benissimo conoscere; an Deus sit , ma che non possa mica conoscere positivamente; quid Deus sit , ovvero quomodo sit . Il che dimostra, che quando si predica di Dio l' essere preso nel significato di pura esistenza, che è concetto e lume della mente, allora l' uomo conosce benissimo il predicato che egli dà a Dio: laddove quando si predica di Dio l' essere preso nel significato di essenza, l' uomo non sa positivamente, ma solo negativamente ciò che predica di Dio. E perchè questa differenza? Certo perchè quando diciamo semplicemente che Iddio è od esiste , predichiamo di Dio l' essere che non supera l' ordine della natura, nè eccede il lume della ragione; e però è quell' essere che si pronuncia egualmente di Dio e delle cose naturali; laddove quando, predicando di Dio l' essere intendiamo di affermare la sua essenza, e non meramente la sua esistenza, allora parliamo dell' essere proprio di lui, e non comune alle creature; perciò non predicabile di queste nel senso stesso. Ella vede dunque che quando gli Scotisti sostengono che l' essere si predica di Dio e delle creature univocamente, essi hanno ragione, e sono d' accordo con S. Tommaso, purchè intendano dell' essere nel significato di pura esistenza, come l' intendiamo noi. Ed è perciò che nel « Nuovo Saggio , » quando professai questa sentenza, mi sono dato cura di esprimere, che intendevo dell' essere puro senza i suoi termini, acciocchè non nascesse equivoco, o io sembrassi in ciò contraddire all' Angelico Dottore. E certo sarebbe errore gravissimo il dire, che l' essere, in quanto esprime essenza, e non semplice e pura esistenza, si predicasse univocamente di Dio e delle creature; perciocchè in tal modo l' essenza di Dio e l' essenza delle creature sarebbe la stessa, il che è quanto dire, noi cadremmo nel mostruosissimo panteismo. Affine di combattere questo errore, che corrode le moderne filosofie, io scrissi il « Nuovo Saggio »; dove, prendendo il male dalla radice, dimostrai, che il mezzo, col quale l' uomo conosce tutte le cose, è l' essere purissimo e comunissimo, il quale forma il lume della ragione umana. Quest' essere purissimo e comunissimo è appunto l' ente preso nel secondo dei due significati di S. Tommaso, esprimente, come S. Tommaso dice, un concetto della mente. Con quest' idea o concetto l' uomo afferma la semplice esistenza, e non ancora l' essenza propria delle cose. Ora poniamo che invece di stabilire questo vero datomi anche dall' esperienza interna, io avessi stabilito, che il mezzo, con cui l' uomo conosce ed afferma le cose, fosse Iddio stesso, cioè l' essere inteso nel primo significato di S. Tommaso, che esprime la natura divina: in tal caso il panteismo sarebbe stato inevitabile, poichè ogniqualvolta l' uomo avesse predicato delle cose contingenti l' essere, egli avrebbe dato la natura divina alle cose; avrebbe affermato tutte le cose esser Dio, appunto perchè avrebbe predicato univocamente di Dio e delle cose l' essere preso nel primo significato di S. Tommaso. Il che se avesse considerato attentamente il signor Abate Gioberti, non avrebbe sostituito l' intuito di Dio all' intuito dell' essere ideale ed universale, aprendo così la porta amplissima al panteismo, con tutta la buona volontà di combatterlo. Non è facile il dire con brevi parole, in che differisca la filosofia da me proposta da quella del signor Cousin. Tuttavia, lasciando quanto n' ho già detto, e che voi avrete probabilmente letto (1), noterò alcune delle principali differenze, in che le due filosofie grandemente si dispaiono. E, per avere un confine al mio dire, io mi propongo di non uscire dal libro poco fa pubblicato dal Garnier, che contiene il Corso delle Lezioni date dal signor Cousin nel 1.1., e che fu pubblicato coll' approvazione dello stesso chiarissimo professore (2). In questo libro ci sono de' brani, dove il signor Cousin compendia se stesso; i quali, raccogliendo in breve e fedelmente la sua dottrina, potranno servire di solido fondamento alle nostre osservazioni. E appunto in uno di tali sunti, che il professore fa del proprio sistema, io mi scontro alla Lezione VI; e da esso incomincerò; udiamone, senza perder tempo, le prime parole. « Noi siamo partiti dai presenti dati della coscienza umana, e colle indicazioni forniteci da tali dati, noi ci siam provati a raccapezzare l' origine di que' dati, cioè a dire lo stato primitivo dell' intelligenza. » Questo è il vero, anzi l' unico metodo di filosofare sullo spirito umano: egli è quello, a cui io mi sono sempre attenuto, e dove vi ha unanimità nelle due filosofie. La differenza fra noi non principia se non quando si viene ad applicare il metodo; e i risultamenti che se n' hanno, non poco diversano fra di loro. « Noi abbiamo fermato, continua il professore, che il primo fatto della coscienza si compone di due elementi variabili, e d' un terzo reale come gli altri due, ma invariabile, cioè a dire del ME, della natura esteriore (1), e dell' essere universale e assoluto. Noi abbiamo detto, che la filosofia si pone al punto di veduta riflesso, e comincia per conseguente dalla riflessione; ma che la vita intellettuale dell' umanità è tratta in moto dalla spontaneità, e che la spontaneità e la riflessione non contengono nè più nè meno elementi l' una che l' altra. » Ora noi siamo d' accordo in ammettere che la filosofia comincia dalla riflessione, e che alla riflessione precede una vita intellettiva spontanea. Ma già cominciamo a differire circa la natura della spontaneità , e circa il numero e la qualità degli elementi onde si vuol composto il suo oggetto. A sporre con chiarezza queste differenze è uopo che noi riprendiamo quel primo fatto della coscienza, onde il professore muove il suo ragionare. Che cosa è dunque la coscienza pel professor Cousin? Udiamo lui stesso a definircela: [...OMISSIS...] Secondo il professore dunque non si può dare alcun atto intellettivo, senza che esso abbia la coscienza di sè. La mia opinione si allontana grandemente da questa dottrina: io convengo con lui in affermare che la coscienza non è una facoltà speciale, e che ogni coscienza è un prodotto dell' attività intellettiva; ma io nego al tutto, che ciascun atto dell' intelletto involga una veduta inevitabile di se stesso, e però la coscienza di se stesso. Io dico, che la coscienza si produce in noi a due condizioni; cioè 1 a condizione che noi abbiamo un sentimento (chè per me il sentimento è sempre diverso dalla coscienza), 2 a condizione che noi facciamo un atto intellettivo, il quale abbia per oggetto quel sentimento. Se io ho un dolore, e se io penso a questo dolore, tostochè io ci penso, ho coscienza del dolore; ma se io non ci pensassi punto nè poco, avrei bensì il sentimento, non ancora la coscienza del dolore. Ma poichè è sommamente naturale nell' uomo, massime già sviluppato, che il dolore attragga subitamente a sè il pensiero, perciò si confonde assai facilmente il sentimento del dolore colla coscienza del dolore, e si crede che una cosa sia l' altra. Ne' bruti all' incontro, ne' quali non si dà pensiero , ma solo senso , può concedersi il sentimento doloroso, ma in nessuna maniera la coscienza del dolore. Quello che dissi del dolore, dicasi di ogni altra operazione umana. Qualsivoglia operazione umana, o appartenga ella all' ordine sensitivo, o a quello dell' intelligenza, involge un sentimento nell' umano soggetto che la fa; poichè l' uomo è un soggetto essenzialmente sensitivo, e ogni modificazione di un tal soggetto è sensibile. Perciò anche tutti gli atti dell' intelligenza involgono un sentimento, sebbene talora tenuissimo e non avvertibile di leggieri; ma non avviene per questo, che involgano la coscienza di se stessi. La coscienza di un atto nostro intellettivo non è dunque contemporanea all' atto stesso, ma posteriore ad esso: s' acquista, e s' acquista non col medesimo atto intellettivo che è l' oggetto della coscienza, ma con un altro atto pure intellettivo, che si volge sopra il primo. Quando io penso a' miei pensieri, allora io acquisto la coscienza de' miei pensieri; ma io posso avere de' pensieri in me, senza che io punto nè poco ci rifletta, e però senza che io m' abbia di essi coscienza. Egli parrà bene strano a noi questo fatto; ci ha la sua ragione, perchè a noi paia strano. Per altro la natura, per misteriosa che sia, è fatta così, e bisogna pigliarla come è fatta. Egli è vero che molte volte a me torna facilissimo il riflettere a' miei pensieri, e che, riflettendovi, io n' acquisto immantinente coscienza. Acciocchè io faccia ciò, basta la più lieve cagione che mi richiami sopra me stesso. Ma appunto per ciò, che questa coscienza de' proprŒ pensieri s' acquista in un istante impercettibile, s' acquista quando si voglia, purchè si voglia; appunto perciò avviene che si trascuri la distinzione fra un atto dell' intelligenza e la coscienza del medesimo atto, che tien dietro a lui così celere e a lui legasi così stretta, e che vengasi a credere falsamente, che ogni atto dell' intelligenza per sua propria natura conosca se stesso. All' incontro io ho stabilito in molti luoghi delle mie opere la proposizione direttamente contraria, cioè che « ogni atto dell' intelligenza mi fa conoscere il suo oggetto, ma è incognito a se medesimo. » Dissi, che molte volte è facile ed istantaneo l' acquistare la coscienza de' nostri pensieri e de' nostri sentimenti; ma qui devo limitare anche più questa mia affermazione. E certo, molte e molte volte sono in noi de' pensieri, sono de' sentimenti, e fin anco delle sensazioni corporee, di cui ci è difficilissimo aver coscienza. La prova di ciò si è quella sentenza, « Conosci te stesso »; che fu riputato da tutta l' antichità il più importante e il più difficile precetto della morale filosofia. Se la coscienza di tutto ciò che passa in noi, fosse sempre facile ad acquistarsi, se ogni nostro pensamento racchiudesse la coscienza di se stesso, niuno avrebbe bisogno di studiare gran fatto per discoprire a se stesso le proprie propensioni e tutto ciò che passa nella sua mente: non direbbesi che il cuore umano racchiude dei profondi secreti, che l' uomo è un mistero a se stesso: la filosofia, almeno in quella parte che riguarda l' uomo, non sarebbe più una scienza; nè potrebbe cader mai discrepanza nelle opinioni risguardanti le origini de' nostri pensieri e quelle delle nostre affezioni, la qual discrepanza pure è tanta. Ma il fatto si è, che, per aver coscienza di ciò che passa nell' intendimento nostro e nel nostro cuore, c' è bisogno assai sovente di una lunga riflessione, e non ne veniamo tuttavia a capo perfettamente. Pure quelli che acquistarono l' abito di dirigere la propria riflessione sopra di sè, quelli che più costantemente s' applicano all' esame del loro interno, trovano meglio degli altri, e ogni dì s' accorgono di qualche nuovo fenomeno, di qualche nuovo pensiero, di qualche nuova legge del proprio sentire e del proprio pensare, di cui prima non avean preso sentore. Ora, se fa bisogno tanta attenzione e tanta riflessione sopra di noi, a renderci consapevoli di quanto ci passa nella mente e nel cuore, non è dunque vero, che la ragione per la quale la coscienza nostra è spesso vaga e indeterminata, sia, perchè, come vuole il signor Cousin, l' attività stessa intellettuale è indeterminata e vaga; e che ogni qualvolta l' azione dell' intelligenza è chiara e precisa, n' è pure precisa e chiara la coscienza. Questo è un errore, che viene dal precedente. L' uomo, cominciando a ragionare, muove dallo stato in cui si trova. Egli comincia a riflettere sopra di sè. E queste prime riflessioni gli danno una coscienza ancora indeterminata e vaga dei proprŒ pensieri. Da questo egli tosto conchiude, che i suoi pensieri sono vaghi e indeterminati. Ma questa conclusione è sbagliata. Egli prende la coscienza de' suoi pensieri pe' pensieri stessi: egli prende la coscienza dello stato della sua intelligenza, per lo stato medesimo dell' intelligenza. E un tale sbaglio gli è ben naturale; chè l' uomo non conosce i proprŒ pensieri, se non per la coscienza de' medesimi, ottenuta mediante riflessione. Egli parla dunque de' pensieri, solamente in quanto gli sono noti mediante la coscienza ch' egli ne ha. Ora se la riflessione è imperfetta, la coscienza di que' pensieri rimansi imperfetta, vaga, indeterminata; conchiude dunque, che i suoi pensieri realmente sono vaghi e indeterminati. Ma porti quest' uomo più oltre le sue riflessioni: continui a meditare sopra i proprŒ pensieri: egli ci vede quello che prima non ci vedea: ci trova un ordine: ci trova delle leggi: vede che gli uni nascono dagli altri, alcuni esser derivati, altri primitivi: segna le differenze fra loro, le differenze degli oggetti stessi de' pensieri. Tutti questi studŒ sopra qual libro li fece egli un tal uomo? Sopra se stesso, sopra la pagina scritta, per così dire, della propria mente. Se ci ha osservate tante cose, se ci ha trovato un ordine così distinto, così preciso, così luminoso, potea trovarcelo egli, se non ci fosse stato? Dunque c' era già ne' suoi pensieri primitivi tutto ciò che ci ha poscia trovato colla riflessione; c' era certamente; ma tutto ciò era privo di coscienza, appunto perchè non era sopravvenuta la riflessione a formare la coscienza. E bene, quest' uomo, dopo aver tanto riflettuto sopra se stesso, dopo essere stato sì a lungo spettatore di ciò che passa nell' anima sua, che cosa dice? che conchiude? Ora sì, dice egli a se medesimo, io ho chiariti i miei pensieri: la mia intelligenza si è resa determinata e precisa; ed è perciò, che anche la mia coscienza di essa è piena di lume e di precisione. Quest' ultima conclusione ch' egli ne tira, è lo stesso sbaglio ch' egli commise quando giudicò i suoi pensieri oscuri, perchè oscura ne avea la coscienza. La coscienza non si è resa chiara perchè i suoi pensieri si sieno chiariti e distinti: i pensieri anteriori alla coscienza erano già distinti e chiari altrettanto quanto dopo la formazione di essa; ma la loro distinzione, la loro chiarezza non era passata ancora nella coscienza, e però non era avvertita dall' uomo, il quale, non avvertendola, la negava. Dunque, se quest' uomo voglia considerare che tutta quella chiarezza e quella luce, che dice d' aver guadagnato, non è che l' effetto dell' attenzione e della riflession sua posta sui primi suoi pensieri, egli si accorgerà facilmente, che la luce era precedente alla sua coscienza, sebbene egli non se ne potea accorgere prima che la coscienza stessa se ne fosse formata. Così colui che volge gli occhi alla chiarezza del sole, non giudica temerariamente, se dice che il sole esisteva prima che fosse da lui riguardato: e a chi gli dimandasse: « Come potete sapere che il sole sia prima di quell' istante nel quale voi lo vedeste, quando prima di quell' istante voi non l' avete veduto? »: può rispondere ragionevolmente: « Io so che il sole è precedente all' atto con cui io lo vidi, non perchè io prima il vedessi, ma per la natura di quest' atto stesso, che suppone precedente il sole, giacchè non si può vedere ciò che non è ». Concludiamo circa la dottrina intorno alla coscienza: le differenze fra il signor Cousin e me sono due: 1 Egli suppone, ciò che non prova, che l' attività intellettuale involga seco inevitabilmente la coscienza; quando io dico che l' attività intellettuale, come ogni altra attività umana, involge bensì un sentimento , ma non la coscienza . 2 Egli dice che i gradi d' indeterminato e di vago che ha la coscienza de' nostri pensieri, dipendono unicamente dall' indeterminato e dal vago che hanno i nostri pensieri; là dove io dico, che la chiarezza e la determinazione di quelli e di questa dipendono da cagioni al tutto diverse; dico che i pensieri anteriori alla coscienza possono essere chiari e distintissimi, e questa tuttavia esser vaga, indistinta e fin anche nulla; e che la chiarezza e la distinzione della coscienza si vanno aumentando mediante l' opera della riflessione, quando i pensieri primitivi non dipendono dalla riflessione, ma dalla intelligenza spontanea, o diretta. Il signor Cousin sembra venire con noi, là dove definisce la coscienza così « « La vita intellettuale, raddoppiandosi sopra se stessa, costituisce ciò che si chiama coscienza »(1) » Questo è appunto ciò che diciamo noi: da cui ne induciamo la conseguenza, che dunque la coscienza non c' è, prima che la vita intellettuale, raddoppiandosi sopra se stessa, la costituisca. Ma con una contraddizione egli ne deduce in quella vece tutto l' opposto, continuandosi a dire così: « « Come questa vita è doppia, si può dire che ci abbiano due coscienze, la coscienza spontanea e la coscienza volontaria e riflessa »(2). » Ora noi con sua buona pace replichiamo, che se ciò che costituisce la coscienza è il raddoppiamento della vita intellettuale sopra di sè, com' egli stesso afferma; a costituire due coscienze sarebbe bisogno non già solo una doppia vita, ma un doppio raddoppiamento della vita, e perciò una quadruplice vita. Ma io voglio spingere più avanti questa osservazione; voglio mostrare, come questo primo errore intorno la coscienza ne conduca dietro a sè necessariamente degli altri: e tanta è la forza dell' errore, tanta è la violenza che esercita negl' ingegni più conseguenti, che li trascina ove vuole, che li caccia anche là dov' essi meno bramerebbero di pervenire. Quale spettacolo più strano, che il vedere il signor Cousin ritornato Condillachiano? So bene, che al solo annunziare una cosa simigliante, ciascuno esclama al paradosso; ma per dirlo di nuovo, a quali passi un error solo non sa condurre la mente d' un filosofo? Consideriamo bene l' errore del signor Cousin da noi accennato; consiste nel confondere due elementi in uno solo, cioè il sentimento colla coscienza . Il signor Cousin vide che ogni atto intellettivo involge un sentimento; dunque, conchiuse, non si dà un atto intellettivo senza la coscienza di sè; dunque ci sarà una coscienza spontanea e una coscienza riflessa, come ci sono degli atti intellettivi spontanei e degli atti intellettivi riflessi: questo è l' error primo. Ma se il sentimento si confonde colla coscienza , la conseguenza è irrepugnabile: dappertutto dove c' è sentimento, ci sarà coscienza. Dunque anche nella sensazione animale ci sarà coscienza. Ma la coscienza appartiene alla vita intellettiva, anzi è un raddoppiamento della vita intellettiva; dunque anche nella sensazione animale ci sarà vita intellettiva, ci sarà un raddoppiamento di vita intellettiva. Non siamo noi arrivati sul territorio di Condillac? Che cosa è il Condillachismo nel suo fondo, se non il sistema che confonde il sentire coll' intendere ? o che se non li confonde, non li distingue essenzialmente? Che cos' è, se non il sistema che dà allo stesso senso corporeo il potere di giudicare? Abbiamo dunque detto una cosa troppo lontana dal vero, quando abbiamo paragonato Cousin a Condillac? Il professore di Parigi non si fa indietro da tutte le accennate conseguenze, anzi le confessa, le riceve espressamente: udiamo le sue proprie parole: « « La sensazione è ella l' impressione organica? Non contiene ella un elemento intellettivo? »(1). » Ecco fatto entrare nella stessa essenza del sentire un principio, che appartiene all' intelletto: proseguiamo: « « Se non ci fosse stato movimento organico, senza dubbio non ci avrebbe nè piacere nè dolore; ma se il ME non pigliasse cognizione di questo movimento, il piacere e il dolore non esisterebbe »(2). » Ecco come il professor di Parigi, non diversamente dal Condillac, insegna, che non si dà nè piacere nè dolore senza cognizione. Di che viene il conseguente, che anche alle bestie è uopo dare intelletto, quando non voglia adunarsi co' Cartesiani, facendole macchine. Continua ancora: « « Egli è dunque mestieri che il fenomeno passivo dell' irritazione organica faccia giocare l' attività del ME, in altre parole svegli la coscienza , acciocchè si produca la sensazione »(1). » Ecco come coscienza e sensazione o è il medesimo, o almeno sono indivisamente associate, di guisa che la sensazione non si può produrre senza la coscienza, a malgrado che il professore abbia dichiarato, che la coscienza appartiene alla vita intellettiva. Di più ancora (s' oda bene, non è il Condillac che parla, ma il Cousin): « « Conoscere è giudicare; e come sentire è conoscere che si sente, così sentire può dirsi che sia giudicare »(2). » E se vogliasi udire il Cousin divenuto più condillachiano di Condillac medesimo, continuiamo tuttavia: « « Il giudizio è l' elemento intellettuale della sensazione; e non è un giudizio solo, ma molti che figurano nel fenomeno sensibile; io potrei mostrare che non ci ha sensazione senza un giudizio sul tempo, sulla sostanza, sullo spazio, sulla causa, ecc. »(3). » La confusione, cioè l' assorbimento de' due elementi è completo; tutto ciò che si trova nell' intelletto di più sublime, avvi già precedentemente, secondo il professore, nel fenomeno della sensazione. Il Condillac non è mai stato tanto sensista: poichè sebbene attribuisca tutto alla sensazione, tuttavia non seppe riconoscere così espressamente nella sensazione le più nobili parti della intelligenza: il Cousin fece una più piena indagine di questa sublime facoltà, innalzonne i pregi fino alle stelle, ma tutto ciò per farne poi un omaggio, un sacrifizio al fenomeno della sensazione corporea! Dopo di ciò, non ci sarà più difficile a formarci il concetto di quella facoltà che il signor Cousin appella spontaneità . Essa non può esser per lui, se non quell' attività del ME, che viene tratta in movimento dall' irritazione organica, e che così produce la sensazione , quella sensazione che si confonde colla coscienza, e che chiude nel suo seno i giudizŒ intorno al tempo, alla sostanza, allo spazio, alla causa e a tutte l' altre categorie. Sicchè dopo aver parlato della sensazione, dopo aver detto che sentire è giudicare di tutte queste cose, conchiude: [...OMISSIS...] Che cosa dunque è a dirsi? Che tutta la differenza fra quelli che si chiamavano sensisti ed il signor Cousin consisterà in questo, che per quelli la sensazione è un fatto passivo , quando per il signor Cousin è un fatto attivo (2). Se abbiano ragione i primi o il secondo in questa questione, o se forse agli uni e all' altro manchi qualche cosa, io non vo' qui ricercare; ben dico, che i così detti sensisti, sotto le antiche forme, ed il signor Cousin convengono finalmente in questo, di riconoscere la sensazione corporea come il principio di tutta l' umana cognizione e di tutta l' umana intelligenza. Che se questa parola, sensista , segna un filosofo che riduce tutta l' umana conoscenza alla sensazione, non so come questo stesso nome non appartenga al signor Cousin; chè egli non ha già tolto via a questa maniera il principio del sensismo, ma solo modificatolo, vestitolo di nuove forme più ricche e maestose; non ha stabilito un principio del conoscere diverso da quello del sentire; ma riducendo ogni cosa al principio del sentire, s' è contentato di osservare, che il sentire procede dall' attività del ME, e che non è un fenomeno meramente passivo. Coscienza adunque e sensazione, sensazione e intelligenza si confondono nel sistema del signor Cousin, e la spontaneità per lui non è che il principio della sensazione, e perciò della cognizione, principio attivo, che somministra tutti i dati sopra i quali poi si rivolge e lavora la riflessione. Ma qui, dopo che noi abbiamo raffrontato il signor Cousin al Condillac, possiamo medesimamente avvicinarlo al Cartesio. Il Condillac comincia dal sentire , e il Cousin pure comincia dal sentire. Il Cartesio all' incontro comincia dal pensare: « « Io penso; dunque esisto. » » Ma il Cousin non ricusa; si accompagna tosto con Renato Cartesio: e gli è tanto più facile, quanto che se n' è già preparata la strada, dicendo, che nel sentire c' è il pensare , che chi sente giudica, e giudica del tempo, della sostanza, dello spazio, della causa, ec.. Il Cartesio non dimanda pur tanto; ma a fine di non perdere una sì buona compagnia com' è quella del Cartesio, il signor Cousin riterrà anche un poco i suoi passi, e si comporrà con lui. Udiamolo: [...OMISSIS...] Riceve dunque il signor Cousin per buono il principio di partenza cartesiano, cioè il giudizio , senza aver bisogno per questo di rinunziare al principio di partenza de' sensisti, ciò è la sensazione: poichè nel seno della sensazione egli colloca il giudizio, imitando il Condillac. Solamente che a questo giudizio sensitivo trova di dovere attribuire assai più che non facesse il Condillac medesimo, cominciando il movimento dello spirito umano pel Cousin da un giudizio assai più complicato che non fosse quello del Cartesio. L' editore delle sue lezioni, Garnier, così espone il pensiero di lui: « « Il professore mostra che le idee ci vengono simultaneamente e in correlazione le une colle altre, e che così il giudizio trovasi al cominciamento delle operazioni intellettive »(2). » Questo sistema de' correlativi è quello che in Germania si chiama sintetismo; e il professor Cousin cel fa diventare uno sviluppo del principio del Condillac. Dopo di tutto ciò, voi stesso direte quanto da queste sentenze del signor Cousin si allontani la mia maniera di pensare. Io non riconosco nella sensazione corporea alcun elemento intellettivo; e l' anello che unisce i due ordini della sensazione e della intelligenza per me non è che il soggetto unico, e ad un tempo sensitivo ed intellettivo. L' unità del soggetto , cioè l' unità del ME, è il ponte di comunicazione, se volete che così mi esprima, fra il mondo dell' intelligenza e quello de' sensi. Ma sentire ed intendere rimangono sempre nella mia filosofia due essenze separate, com' è separato l' essere reale e l' essere ideale , quantunque la realità e l' idealità siano forme fra loro incomunicabili d' un medesimo essere. Quanto poi alla spontaneità , questa parola per me non esprime una facoltà, ma un modo di operare delle facoltà. Questo modo spontaneo può appartenere tanto alle facoltà sensitive, quanto alle facoltà intellettive, ed è il contrario del violento. Quando noi operiamo senza un motivo preconcepito e predeterminato, diciamo di operare spontaneamente: la nostra natura è quella che opera; l' attività di questa natura o è attuata da una legge intrinseca costitutiva di lei, come avviene in quello che noi sogliamo chiamare sentimento fondamentale e nell' intuizione primitiva dell' essere ; ovvero è invitata all' atto da qualche esteriore cagione, come avviene nelle sensazioni acquisite, e ne' primi pensieri che costituiscono quella che noi chiamiamo cognizione diretta . Nell' uno e nell' altro caso c' è la spontaneità , cioè l' operare spontaneo della natura umana. Distinguiamo dunque due spontaneità; l' una originaria , e costituisce l' atto immanente del soggetto sensitivo e intellettivo, col qual atto questo soggetto è posto; l' altra avventizia , e sempre parziale, che muove i primi passi dell' umano sviluppamento. Di più, tanto la spontaneità originaria, quanto l' avventizia, è sensitiva e intellettiva; chè così il senso, come l' intendimento, hanno spesso un movimento spontaneo, date le condizioni richieste. Pel professore Cousin all' incontro, non c' è che una spontaneità sola, sensitiva per essenza e insieme necessariamente intellettiva, e questa spontaneità non ha alcun atto originario e immanente, ma opera all' occasione dell' irritazione organica, non senza somiglianza all' operare della statua del Condillac. Era necessario di premettersi tutto questo, a spiegare chiaramente che cosa voglia dire il signor Cousin, quando nomina il primo fatto della coscienza . Noi dobbiamo ora parlar di proposito di questo primo fatto della coscienza: dobbiamo vedere come egli lo trova, questo primo fatto, come lo analizza, e se giustifica bene tutte le cose che afferma contenersi in esso. Già l' ho detto: egli arriva al primo fatto della coscienza spontanea, partendo dal punto di vista riflesso. Ma come dalla riflessione discende egli al fatto della coscienza spontanea? Come giustifica questo passaggio? Lo giustifica appoggiandosi al seguente ragionamento: Avanti la riflessione « « c' è la vita umana, la vita non distinta, oscura, spontanea. La riflessione presuppone l' esistenza d' un oggetto sul quale ella cade, e che per conseguente è anteriore. - Così lo stato primitivo dell' intelligenza non contiene niente di più dello stato attuale, ma nè anche contiene niente di meno »(1). » Ed è verissimo, che la riflessione non potrebbe operare se non avesse un oggetto sul quale rivolgersi, e che quest' oggetto dee essere in noi precedente a quell' atto della riflessione; ma ne viene forse, che la riflessione possa cogliere tutto ciò che c' è in noi di precedente ad essa? non possono rimanere in noi delle cose che spesso sfuggono alla nostra riflessione? Se ciò può essere (ed ognuno può attestarlo, per poco che consideri come avvengano le cose in se medesimo), non è dunque vero che nell' ordine della riflessione debba trovarsi tutto ciò che c' è nello stato primitivo, e niente di meno. In secondo luogo, quando io rifletto sopra di me medesimo, cioè sopra i miei pensieri e sopra le mie affezioni, non è mica necessario che gli oggetti, a cui volgo la riflessione, si trovino tutti nello stato primitivo della mia mente; poichè questi oggetti, a cui io rifletto, possono essere essi stessi prodotti da altre riflessioni. Non conviene dunque parlare d' uno stato di riflessione solo; chè ci hanno diversi stati riflessi della nostra mente, come ci hanno diversi ordini di riflessioni. Egli è dunque solamente vero questo, che nel primo ordine di riflessione, prossimo all' ordine della cognizione diretta e spontanea, non ci può esser niente di nuovo, che precedentemente non si trovi in essa cognizione primitiva o diretta; senza però che si possa dire il medesimo degli altri ordini superiori di riflessione; posciachè gli oggetti di queste riflessioni ulteriori sono in gran parte anch' essi delle cognizioni già riflesse. Questa avvertenza dimostra che per conoscere ciò che appartenga allo stato primitivo, non si può partire dal principio, che tutto ciò che abbiamo nello stato presente della mente nostra sia contenuto nello stato primitivo; perchè lo stato nostro presente è il prodotto d' un gran numero di riflessioni. In terzo luogo, a qual condizione si può egli passare dallo stato presente di riflessione allo stato primitivo? Il signor Cousin dice, che noi possiamo passarvi, a condizione di far uso delle induzioni logiche le più legittime. [...OMISSIS...] Ma qui il professore si avvolge manifestamente in un circolo. Poichè a qual fine cerca egli il fatto spontaneo? Al fine di cominciare da esso la filosofia: e però al fine d' indurre da esso anche le regole logiche. L' abbiamo già innanzi udito accordare a Cartesio, che il principio di contraddizione, il primo di tutti i principŒ logici, è posteriore alla percezione dell' IO; e che: l' IO penso, dunque esisto, non suppone prima la proposizione generale: Tutto ciò che pensa, esiste ». Ora come dunque per trovare e raggiungere il fatto spontaneo, ricorre poi alle regole logiche e ne fa uso come fossero già trovate? Da una parte, egli fa partire la filosofia dal fatto spontaneo, perchè, dice, « « non si tratta più oggidì di porre degli assiomi e delle formole logiche, di cui non si verificò ancora la legittimità e di produrre, componendole insieme, una filosofia nominale; bisogna partire dalle realità stesse »(1) » dall' altra parte, per arrivare alle realità, egli non ha più scrupolo di passare per le regole logiche. Egli è bensì vero, che il signor Cousin immediatamente parte dalla realità del pensiero riflesso; ma ciò fa unicamente per arrivare col mezzo di logiche induzioni alla realità del pensiero spontaneo: ed è in questa realità del pensiero spontaneo, che pone il fondamento delle regole logiche e la legittimità delle logiche induzioni! Non è questo un circolo manifesto? All' incontro, voi potrete, esaminando il sistema da me proposto, convincervi, ch' esso non involge mai somiglianti petizioni di principŒ, da cui non so veramente qual altro sistema vada interamente esente. Finalmente, è vero che il signor Cousin nomina spesso fatto spontaneo, stato primitivo, ecc.; ma egli poi non si cura di darcene una descrizione diligente e determinata. Quindi riman difficile il conoscere che cosa intenda precisamente colla espressione di stato primitivo. Se si considera che stato primitivo è per lui lo stato della spontaneità, e che la sua spontaneità è l' opposto della riflessione, conchiuderebbesi che il suo stato primitivo fosse quello in cui la mente umana si trova prima di ogni riflessione. Ma primieramente lo stato della mente anteriore al movimento della riflessione, non è mica uno stato unico e semplice, ma uno stato vario e molteplice; giacchè l' uomo può fare più e meno degli atti diretti colle sue facoltà, prima ancora che sopravvenga nessuna riflessione. Converrebbe dunque sapere, se l' analisi del signor Cousin cada sopra ciascun atto spontaneo, ovvero se cada sopra il complesso degli atti spontanei, che possono precedere la riflessione. In questo secondo caso, l' oggetto da analizzarsi è vago e molteplice, come dicevo; nè ci si può applicare l' analisi, prima di determinarlo. Se poi intende di parlare di ciascun atto spontaneo, ell' è manifesta l' improprietà di chiamare stato primitivo un atto; conciossiachè un atto non è uno stato . Ma via, lasciando l' improprietà della parola, il contesto dimostra bene, che trattasi di analizzare un atto della spontaneità, e non uno stato . Ora a raggiungere questo atto che si dee analizzare, si pretende di pervenire mediante induzioni logiche. Abbiamo notato, che un filosofo che vuol dedurre dall' analisi del fatto spontaneo le stesse regole logiche, non ha diritto a questo passaggio, non potendo usare di quelle regole che ancora non ha dedotto; ma il professore non si contenta d' usurparsi questo diritto, non è pago di passare dalla riflessione all' atto della spontaneità, pretende di più di passare anco dall' atto spontaneo allo stato dell' uomo anteriore a quest' atto. Io credo che molto più difficile gli sarà il legittimare questo secondo passaggio, che non il primo. E in fatto, io non trovo ch' egli in niun luogo s' adoperi a rigorosamente dimostrare, come dovrebbe, la possibilità e la legittimità di un tal passaggio; ma trovo anzi, che colla più grande confidenza mette avanti alcune affermazioni generali, e, com' elle fossero indubitabili e non bisognose di prove, ci fabbrica sopra quello che più gli piace. Una di queste affermazioni gratuite è la definizione della vita intellettiva , tratta dalla definizione della vita organica; dove si vede, per dirlo di nuovo, la base sensistica del sistema di questo filosofo, che tanto si piace delle frasi platoniche. Si oda attentamente tutto il brano, al quale noi facciamo allusione. [...OMISSIS...] In questo brano dunque il signor Cousin non contento di esser passato dallo stato di riflessione allo stato spontaneo, ci assicura di conoscere anche lo stato dell' uomo che ha preceduto lo stato spontaneo. Ci assicura che l' uomo, nello stato in cui fu per lungo tempo innanzi alla spontaneità, era un essere fisiologico e nulla più; la sua vita era per lungo tempo non diversa dalla vita del mondo; i suoi movimenti erano quelli della natura materiale; il mondo non era per lui se non in quel modo che è per la pianta! Ci sia permesso di fare qui un' osservazione su questo sistema eclettico . Il signor Cousin distingue tre stati nell' uomo: 1 lo stato anteriore alla spontaneità, 2 lo stato spontaneo, 3 lo stato riflesso. Se il signor Cousin parla dello stato anteriore alla spontaneità, egli applica all' uomo le frasi stesse che gli applicano i materialisti . Se egli parla dello stato spontaneo, e del principio della vita intellettiva, egli applica all' uomo le frasi colle quali ne parlano i sensisti . Se poi parla dello stato riflesso , o anche se fa l' analisi del fatto spontaneo, egli adopera la lingua di Cartesio e di Platone. Io stimo che sarebbe troppo difficile al signor Cousin evitare la taccia di quel sincretismo , che è certamente diverso dall' eclettismo , sebbene da questo non sia difficile lo sdrucciolo a quello. Ma lasciando ciò, io torno a dire che tutto il ragionamento del signor Cousin intorno allo stato dell' uomo anteriore alla spontaneità e intorno alla natura della vita intellettiva, è interamente gratuito. Questo solo esser gratuito è motivo sufficiente a doversi logicamente rigettare perchè mancano appunto quelle induzioni logiche a cui si appella. Che se bramate di più, lo potete vedere nel « Nuovo Saggio , » e negli altri miei scritti filosofici direttamente combattuto. L' errore principale consiste nella confusione delle due vite sensitiva e intellettiva . Io lascio da parte la vita della natura materiale e quella della pianta, che supponendosi del tutto insensitiva non merita il nome di vita. Ora quanto alla vita sensitiva, egli è vero che in essa trovasi una specie di lotta e di opposizione. Se dunque si confonde con essa la vita intellettiva, cadesi di necessità nell' errore di trovare una lotta anche intellettiva. Il sensismo dunque di Cousin, cioè la confusione della sensitività coll' intelligenza, è la base erronea su cui fabbrica l' ipotesi d' uno stato puramente fisiologico dell' uomo anteriore alla spontaneità, stato privo non solo d' intelligenza, ma ancora di sensazione, come quel della pianta, nel quale il signor Cousin afferma che passi e si agiti lungo tempo l' UOMO! Voi sapete, che, secondo il mio sistema, l' essenza dell' uomo è riposta nel sentimento che chiamo fondamentale, e che come non ci fu mai tempo in cui l' uomo non sentisse, dopo che fu generato, così non ci fu mai tempo in cui non avesse la vita intellettiva, fatta da me consistere nell' intuizione immanente dell' essere. Nel sistema del signor Cousin supponesi (poichè siamo sempre nel regno delle supposizioni ), che dopo essere stato generato l' uomo, ed esser vissuto lungamente della vita della materia (cioè della vita di ciò che non ha vita); dopo essere stato lungamente privo di senso come la pianta, e per ciò stesso privo del ME (che è quanto dire privo di SE` stesso!), finalmente fosse sonata un' ora, un' ora da vero solenne, in cui quest' uomo tolse a muoversi del proprio movimento, a porre se stesso, ad opporsi alla natura. Se questo fatto fosse vero, sarebbe l' avvenimento il più nuovo e il più straordinario che si potesse concepire; e per dare a credere un avvenimento così nuovo, così straordinario, converrebbe (in mancanza di testimonŒ oculari) addurre almeno una ragione del perchè l' uomo, dopo essersi agitato lungamente nel seno dell' universo senza conoscerlo, si sia risoluto a muoversi del proprio movimento, e a porre se stesso. Che almeno di un fatto così portentoso ci sia mostrata la possibilità; che almeno ci sia espresso con maniere di dire sì chiare da poter noi concepirlo. Da vero che questo non s' è fatto. Dicesi che quest' uomo senza senso si è agitato lungamente nell' universo: ma se il senso non c' è, non può intendersi che d' una agitazione di particelle materiali: e se qui si tratta unicamente di un' agitazione di particelle materiali, non trattasi adunque più dell' agitazione di un uomo, quando non vogliasi dire che delle particelle materiali siano un uomo. In tal caso resta a vedere come queste particelle materiali, dopo essersi agitate senza sentirsi e senza conoscersi, finalmente si sieno risolute di moversi del loro proprio movimento; e come commovendosi del loro proprio movimento, sieno diventate ad un tempo senzienti ed intelligenti . Nè pure è chiara ed atta a concepirsi quella frase, che « l' uomo abbia mosso se stesso », quando se stesso ancora non era, poichè il SE` di quest' uomo è pronome personale altrettanto quanto il ME, il qual ME si dice che non era ancora in quell' uomo, ma che cominciò ad esistere col movimento e col combattimento contro la natura. Moversi, combattere , ed altrettali vocaboli metaforici non s' intendono, se non si suppone un ME che si muove e che combatte; e in questo caso la vita sta nel ME e non nel moto, o nel combattimento di un ME che fosse morto. Tutte queste frasi dunque involgono seco assurdi manifesti, e però non sono concepibili. Ora egli è ben evidente, che una dottrina filosofica prima di tutto dee esser atta a concepirsi, e poscia dee esser provata; due condizioni che mancano alla filosofia del signor Cousin. Ma egli è uopo, che, dopo aver noi parlato dello stato dell' uomo supposto dal signor Cousin anteriore alla spontaneità, ci fermiamo a udire la descrizione che egli ci dà dello stato spontaneo, detto da lui anche stato primitivo . « « Da prima, dice, il ME per la sua natural forza compie un atto ch' egli non ha nè preveduto, nè voluto; e in quest' atto il ME non può non appercepire se stesso, ma egli si trova senza cercarsi »(1). » Da queste parole vedesi, che l' atto spontaneo è un atto del ME: il ME agisce per la forza sua naturale (or non si sa come stia tanto tempo senza agire, se la forza gli è naturale), e agendo trova se stesso senza cercarsi. Il ME dunque esisteva prima di agire, poichè non avrebbe potuto agire se non fosse esistito; non avrebbe potuto trovarsi, se non fosse stato. Come dunque farà il signor Cousin a conciliarsi seco stesso, a conciliare queste sue parole con quelle altre, nelle quali insegnò che l' uomo prima di agire sta per lungo tempo nella condizion della pianta, « « e che il ME non esiste che pel combattimento, cioè per l' atto con cui oppone la natura a se stesso? »(1) » Seguita a descrivere l' atto della spontaneità: « « Il ME, trovando se stesso, trova anche la sensazione ch' egli non ha fatta, e per conseguente la natura esteriore, ch' egli reputa NON7ME; ed egli appercepisce il ME e il NON7ME come limitantisi mutuamente: in fine travede un essere nel quale il suo pensiero s' affonda, senza trovarvi limite »(2) » Qui il signor Cousin ha bisogno di nuove conciliazioni con se stesso. Dice che il ME trova la sensazione; dunque la sensazione esisteva prima dell' atto spontaneo: come dunque dice altrove, che l' uomo prima di quest' atto non sente, e che fa bisogno « « che si svegli la coscienza (propria dell' ordine intellettuale) acciocchè la sensazione si produca? »(3) » Dice che il ME trova la sensazione, ch' egli non ha fatta: come dunque s' accorda con ciò che dice altrove, che « « la sensazione stessa è un fatto attivo? »(4) » Come l' attribuisce alla forza attiva del ME, dichiarando fin anco, che è uopo che ci abbia cognizione, acciocchè ci abbia sensazione, piacere, dolore? (5) Di più, il ME agisce; il ME si trova; il ME trova la sensazione ch' egli non ha fatta, e per conseguenza trova la natura esteriore. Ma se trova la natura esteriore per conseguenza , dunque la deduce per ragionamento; la trova perchè egli trova la sensazione che non ha fatta; e perchè non l' ha fatta, giudica che la natura esteriore è NON7ME. Ora questo è un ragionamento: qui si dà successione; si danno principŒ, induzioni, conseguenze. Non è dunque vero che quest' atto della spontaneità sia un atto solo, ma egli si compone d' una successione di atti parte sensitivi e parte intellettivi. Questi atti si succederanno rapidamente quanto si voglia; alcuni di essi coesisteranno; ma egli sarà sempre proprio del filosofo il distinguerli accuratamente, il separare i primi dai secondi e dai terzi, e non farne un atto solo, come pretende il signor Cousin. E non è egli medesimo che dice: « « L' idea della causa ME precede l' idea della causa NON7ME; poichè niente precede l' idea del ME: ella è il centro, onde tutte l' altre sono raggi? »(6) » Se dunque le altre idee sono raggi che escono dall' idea del ME come da centro, devono essere a quella posteriori. Di più, io vedo bene, come non vi possano essere i raggi se non vi è il centro; ma io posso concepire, in qualche modo, il centro senza i raggi. Non è dunque vero che l' idea del ME e del NON7ME siano al tutto correlative. Io accordo che una correlazione si trovi, ove si consideri il ME semplicemente come il principio della sensitività animale; ma nego ch' ella si trovi nel ME considerato come un essere intelligente: anche questo errore dunque del signor Cousin nasce a lui dall' aver adunate insieme la sensitività e l' intelligenza , e parlato di questa colle frasi che non convengono che a quella sola. Per altro ripeto, che la mente del signor Cousin non essendo fatta per radere il terreno co' sensisti, se il fa talora, è costretto di espiare il fallo con una felice contraddizione. Tale io stimo esser quella dove, dopo aver analizzato il fatto della spontaneità come fosse un atto solo, avvolgente tre idee correlative, fa poi che queste idee sieno figlie di tre facoltà diverse, quasichè se sono diverse tra loro le facoltà che a quell' atto concorrono, non sia per sè evidente, che non trattasi più d' un atto solo, ma di molti specificamente distinti e aventi un ordine fra essi (1). Egli è appunto quest' ordine che hanno tra loro i fatti primitivi dello sviluppo umano, che gli sarebbe bisognato attentamente considerare, e che l' avrebbe potuto guardare da molti sbagli: ne accennerò uno de' più importanti. Avendo egli confusi questi atti diversi in un atto solo avente un triplice oggetto, cioè il ME, la natura e l' infinito, egli ne trasse per conseguenza, che niuno di questi oggetti potea stare senza gli altri due. Veramente tale conseguenza non sarebbe stata neppure necessaria, quand' anche quei tre oggetti fossero contemporanei, e condizioni all' atto della spontaneità. Ma riprenderemo poscia questo mancamento logico: or ci basti di far osservare l' errore. Consideriamolo nelle sue stesse parole. « « L' appercezione di quest' ultimo termine (cioè dell' infinito) rende sola possibile l' appercezione del finito, come alla sua volta la veduta del finito è la condizione indispensabile della veduta dell' infinito. - Ogni fatto intellettuale riflesso può dunque esporsi sotto questa formola: Non si dà finito senza infinito, e reciprocamente; e nel seno del finito non si dà ME senza il NON7ME, e non si dà il NON7ME senza il ME: tale è il cominciamento e la fine della vita filosofica »(1) » Questi tre elementi trovati nell' atto riflesso, li pone anche nell' atto spontaneo, e dal trovarsi uniti nel pensiero, com' egli crede, passa ad una conclusione ontologica, affermando che sono indivisamente congiunti anche in se stessi. Quindi l' immenso errore che l' infinito abbia bisogno del finito per esistere, il necessario del contingente, la sostanza dell' accidente, ec.. « « Noi abbiamo veduto, dice, che la causa suppone la sostanza , e che la sostanza non ci è manifestata che per l' accidente. La loro apparizione nella coscienza è dunque simultanea, e la loro simultaneità nella coscienza non è che il riflesso della loro coesistenza reale al di fuori di noi: in effetto, se la causalità suppone l' essere, l' essere alla sua volta non esiste che a condizione d' agire, cioè a dire d' esser causa. Così, tanto in ontologia, quanto in psicologia, l' essere e la causa sono inseparabili, poichè l' accidente o il modo implica l' intervenzion della causa, ed egli è impossibile di concepire o l' accidente senza l' essere, o l' essere senza l' accidente »(2) » Ma qui primieramente ci ha un salto mortale dall' ordine psicologico all' ordine ontologico . Dall' essere due cose nella nostra coscienza simultanee, non si può inferire logicamente, che sieno simultanee anche in fatto. « La loro simultaneità nella coscienza, dice il professore, non è che il riflesso della loro coesistenza reale fuori di noi. »Questa parola riflesso è una metafora e non più: e una metafora non ha valore in filosofia. Perchè l' argomentazione del signor Cousin fosse efficace, essa non dovrebbe essere appoggiata sul semplice fatto della simultaneità di quelle due idee nella nostra coscienza (fatto d' altra parte non provato), ma dovrebbe avere per sostegno la necessità logica, cioè dovrebbe dimostrarsi che il concetto dell' infinito racchiude o più tosto chiama od esige come correlativo il concetto del finito . Ora primieramente il signor Cousin non ha diritto di usare delle regole logiche, pretendendo egli di dedurle da fatti reali. Perciò non può, senza petizione di principio, ammetterle già in principio della sua filosofia. In secondo luogo, egli potrà provare bensì che il finito ha bisogno dell' infinito per essere concepito; ma in niuna maniera potrà logicamente provare che l' infinito abbia bisogno del finito per esistere. Se mi dirà che l' uomo non si forma l' idea dell' infinito che levando i limiti alle cose finite, egli prima di tutto dovrà abbandonare il suo sistema, facendo che l' idea dell' infinito sia un' idea ben posteriore a quella del finito. In secondo luogo, egli non avrà risposto punto nè poco alla questione. Poichè egli mi avrà ben detto come l' uomo, intelligenza limitata com' è, proceda nel formarsi l' idea dell' infinito; ma non mi avrà mica dimostrato con questo, essere assurdo il pensare, che l' infinito sussista senza aver a fronte il finito, quasichè non sia più tosto assurdo il dire, che l' infinito sia condizionato nella sua esistenza dal finito, o quasichè non cessasse d' essere infinito ciò che dipende necessariamente dal finito. Dice il professore, che « l' essere non esiste se non a condizione di agire, cioè di esser causa. »Ma egli confonde due cose ben diverse, l' agire e l' esser causa . L' esser causa è quanto un produrre qualche cosa diverso da sè; ma l' essere può agire , senza produr nulla da sè diverso: lo stesso esistere è un' azione, lo stesso concetto dell' essere è quello di un atto primo; e i teologi assai acconciamente dicono, che Iddio è atto purissimo appunto perchè è purissimo essere; e tuttavia non l' obbligano per questo a produrre nulla fuori di sè, nulla di contingente e di finito. Se il concetto dell' essere involgesse quello di causa, come vuole il signor Cousin, se l' essere non fosse se non a condizione di produrre qualche cosa da sè diverso, niun ente potrebbe esistere nè anche un istante senza produrre, poichè ciò che è assurdo non può aver luogo nè pure per un istante. Il sostenere che fa il nostro professore, che non si può dar l' essere senza che si dia l' accidente, è un errore che lo conduce alle più strane conseguenze: dopo avere reso coeterno all' essere infinito il finito, cosa che conduce a stabilire l' eternità del mondo, egli arriva fino ad ammettere degli accidenti in Dio, proposizione non meno erronea in teologia che in filosofia (1). Tutte queste stranezze, chè con altro nome non saprei chiamarle, sono inevitabili, dopo aversi posto per base della filosofia quell' atto della spontaneità, concepito alla foggia del signor Cousin. Egli è vero, che nel mio sistema s' annunzia un fatto simile; ma questo fatto non è per me primitivo, non è unico e semplice, non involge in se stesso la necessità che vi suppone il signor Cousin. Il fatto di cui parlo, che corrisponde al fatto spontaneo del signor Cousin, e che forse fu quello che, male osservandolo, l' ha traviato, è la percezione . Noi abbiamo analizzata lungamente la percezione intellettiva , e abbiamo mostrato ch' ella si compone delle seguenti parti: 1 della sensazione animale (lasciando ora da parte l' irritazione organica, che non è che una circostanza concomitante fuori del fatto della sensazione); 2 dell' intuizione dell' essere in universale; 3 dell' affermazione , o giudizio di una realità agente in noi. Abbiamo veduto che queste tre parti sono tre atti distinti dello spirito umano appartenenti a tre distinte potenze. Il loro ordine si è, che ciascuno de' due primi è indipendente dagli altri due; ma il terzo non può compirsi senza i due primi, perchè pone una relazione fra i due primi: cioè vi può essere sensazione animale senza intuizione e senza giudizio; vi può essere intuizione senza sensazione e senza giudizio; ma non vi può essere giudizio senza che v' abbia prima sensazione e intuizione, che costituiscono la materia e la forma del giudizio e della percezione stessa. Io ho poi analizzata ciascuna di queste tre parti della percezione intellettiva. Nella sensazione ho trovato qualche cosa di permanente e qualche cosa di variabile . Ciò che è permanente nella sensazione fu appellato da me sentimento fondamentale: le modificazioni del sentimento fondamentale, che è la parte variabile, furono dette sensazioni acquisite , o semplicemente, sensazioni . Di più, tanto nel sentimento fondamentale, quanto nelle sue modificazioni, ho trovato un principio senziente, il quale viene appellato poscia dall' intelletto, che lo concepisce, col monosillabo IO. Ho trovato una passività di questo IO, un agente diverso dall' IO, un NON7IO. Ho dunque riconosciuto nell' ordine della sensazione una opposizione dell' IO e del NON7IO, e, se si vuole, anco una specie di lotta fra loro. La sensazione dunque per noi è duplice; ma non è niente più che duplice. Ma ora si applichi alla sensazione l' intelligenza. Questa giudica tantosto, data la sensazione acquisita, che ci sia una realità, o un agente, che è quanto dire, percepisce la realità esterna. Ma questo giudizio, o sia percezione, non prende già per oggetto il ME, ma il solo NON7ME, di cui così acquista l' idea . Ora a qual condizione può l' intelligenza acquistare quest' idea, formare questo giudizio? Questo giudizio non è se non l' affermazione che esiste una realità. Esso non può dunque farsi se non a condizione che l' intelligenza abbia l' intuizione dell' essere , ossia dell' esistenza; a condizione cioè ch' ella riconosca un essere in quel principio che agisce nella sensazione. Ora io provai che quest' essere che ella intuisce antecedentemente alle sensazioni acquisite, è universale, e perciò infinito , sebbene non gli appartenga propriamente il titolo di essere assoluto (1). La percezione dunque della realità esterna non si ha se non a condizione dell' IO e del NON7IO, del finito e dell' infinito. Ma l' IO non è in questa percezione un' idea , ma un sentimento: il NON7IO è prima un sentimento, di cui poscia l' uomo si forma l' idea compiendo il giudizio, e con esso la percezione. L' intuizione dell' essere è idea , ma non più; non è idea dell' essere assoluto. Di più, questo fatto complesso della percezione spontanea, oltre non esser semplice, non prova in alcun modo, che il finito e l' infinito siano condizioni uno dell' altro; e se un fatto potesse essere fondamento d' una necessità, proverebbe unicamente, che il finito non si può concepire senza l' infinito, non viceversa. Finalmente io ho mostrato che questo fatto della percezione, sebbene sia quello onde comincia a svolgersi l' umano intendimento, e perciò corrisponda al fatto spontaneo del Cousin, tuttavia non è primitivo assolutamente. Antecedentemente alla percezione , l' uomo non è un essere fisiologico come la pianta, non vive della sola vita della materia: anche allora egli ha una doppia vita, una vita sensitiva e una vita intellettiva. Questa doppia vita è ciò che lo costituisce, ciò che forma la sua propria essenza. L' uomo è sentimento ed intelligenza; egli dunque sempre sente e sempre intende; ma nel suo primo stato il suo sentire è equabile e senza variazione. Un tal sentire non può tirare a sè l' attenzione intellettiva: egli dunque non ha coscienza del suo sentire. Questa maniera di sentire la chiamo sentimento fondamentale . L' uomo anche intende tosto che è; che anzi questo intendere è il suo essere; ma questo intendere non ha oggetti finiti, non ha moltiplicità, non ha differenze: ha solo un oggetto equabile e senza limiti. Un tale oggetto, che non subisce variazione, non può eccitare la curiosità, nè muovere la riflessione. Non può che costituire una contemplazione immobile, uniforme, senza gradi e senza moto. Questo intendere dunque dee essere privo di coscienza , e non può cagionare nell' uomo niuna attività parziale. Il pensiero, equabilmente e immobilmente sparso nell' infinito, non può concentrarsi in cosa alcuna distinta. L' intelligenza insomma essenziale all' uomo è formata dall' intuizione dell' essere in universale . Da tutto ciò voi potete vedere in che differisca il mio sistema filosofico da quello dell' eloquente professore di Parigi, il signor Cousin.

Sulle categorie e la dialettica

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

E a tutta questa dottrina si riduce la sentenza tanto sagacemente svolta da Platone medesimo nel Parmenide e altrove, e che forma il punto eminente della sua filosofia, dialettica ed ontologica ad un tempo, che l' uno lasciato solo (la pura unità I significato) non poteva esistere, anzi era uguale al nulla, e però il «to hen» e il «ta polla» erano indisgiungibili, e questo in seno di quello essenzialmente contenuto. E vedesi qui stesso l' origine della doppia materia platonica, l' una reale, l' altra ideale. Poichè da Aristotele si rileva che Platone ammetteva una materia chiamata da lui « il grande e il piccolo », che colla partecipazione dell' uno diveniva specie o numeri (1); e Simplicio dice che poneva un indefinito anche negli intelligibili (2). Or abbiam veduto che dall' uno indefinito la mente, secondo Platone, prima trova un' idea, poi due o tre, ed ei vuole che essa non si fermi a sapere soltanto che c' è in esso un numero indefinito d' idee (grande o piccolo), ma che ne rilevi il numero definito fino all' ultimo. Così la mente dall' uno ritrae un numero prima indefinito (grande o piccolo), e poi un numero definito, e questo, partecipando l' unità (senza la quale non sarebbe numero), è la specie (3). Il numero dunque, fino a tanto che è ancora indefinito e sommerso nell' uno primo, è l' indefinito intelligibile, ossia la materia ideale; quello poi che resta, trovate tutte le unità che costituiscono il numero determinato, è la realità pura, ossia la materia reale . Ci sono dunque per Platone tre indefiniti: l' uno indefinito , che è l' uno in quanto ha nel suo seno ogni altro indefinito, e risponde all' «apeiron en dynamei» di Proclo; il numero indefinito , o la materia ideale, che risponde all' «apeiron en poso»; e il quanto indefinito , o la materia reale, che risponde all' «apeiron en peliko». Colla quale distinzione ha una stretta analogia la dottrina di Archita intorno al quanto , che da Filolao (e probabilmente anche da Archita) s' attribuiva, come vedemmo, all' indefinito. Poichè questo pitagorico, di cui Platone comperò a caro prezzo i libri, per testimonianza di Simplicio distingueva il quanto in tre generi: 1 il quanto di tendenza, o di gravità; 2 il quanto di grandezza, o di quantità continua; 3 il quanto di numero, o di quantità discreta (1). Di che si vede ragione, come la scienza del quanto, la matematica (2), penetrasse dentro la metafisica di Platone seguace dei Pitagorici, e fosse cotanto da queste scuole reputata. Ci pare dunque indubitato doversi distinguere l' uno indefinito di Platone dalla materia ideale e dalla materia reale nel suo seno contenuta potenzialmente «en dynamei», e, dipartendoci in questo da Goffredo Stallbaum, crediamo che, quando l' Ateniese filosofo comincia nel Parmenide a rimuovere dall' uno ogni moltiplicità, non parli dell' uno primo indefinito rispetto alla mente nostra e a quel che contiene, ma parli dell' unità astratta (I significato), e voglia dimostrare che così sola e nuda involge contraddizione, di maniera che rimarrebbe nulla. Rimane dunque a cercare che cosa sia la materia ideale secondo Platone. Ora essendo quella in cui si trovano poi i numeri, cioè le specie distinte, ma in cui non ci sono attualmente; convien dire ch' essa sia l' idea senza determinazioni di sorte, e questa risponde appunto a quella che noi chiamiamo « idea dell' essere indeterminato », ossia « essere ideale ». Così Platone avrebbe distinto « l' essere ideale »dall' Uno primo, che l' ha nel suo seno, come ha pure nel suo seno l' indefinita realità, cioè da Dio. Colla dialettica poi, presa nel senso di Platone, si trovano nell' idea universale le specie, ciascuna delle quali è un numero. Ma l' Uno primo è quello dove risiede l' unità come in proprio fonte, cioè l' essenza; e da quest' Uno primo si comunica la forma d' unità alla stessa materia ideale, e alle determinazioni di essa, cioè alle specie, o numeri, che così vengono collegati o contenuti nell' unità, e sono primamente specie, poi forme o essenze delle cose. Nell' Uno primo dunque e massimo si trovano immersi i primi elementi di tutte le cose mondiali, che sono: 1 l' indefinito, il più , grande e piccolo; 2 l' uno. Questi sono i due che nomina Aristotele, da cui dice secondo Platone, non dissomigliantemente dai Pitagorici, farsi le specie e le cose. Già Filolao aveva chiamato il primo «ta polla» e «thateron», e il secondo «to hen» e «tauton», denominazioni così spesso usate da Platone; e aveva detto [...OMISSIS...] . I numeri non informati dall' unità, sono le determinazioni, i determinanti; l' unità, che le lega insieme, è l' essenza, l' ente, «to on», come risulta dal luogo citato d' Aristotele. L' unione dell' essenza colle determinazioni è l' ente definito che ne consegue, chiamato da Platone nel « Filebo » «xymmisgomenon». Ma oltre questo composto, che risponde alla triade, o numero perfetto dei Pitagorici, c' è il quarto principio, la causa dell' unione [...OMISSIS...] , la quale è l' Uno primo, come vedemmo. L' uno dunque per Platone era: 1 uno in sè (l' uno nel II significato, avente un subietto indeterminato, la diade); 2 era uno causa , o potenza d' emanare l' altro (l' uno nel V significato, come principio dei numeri e delle cose); 3 era uno in altro , quando diveniva forma o essenza dei numeri e delle cose, e in quest' ultimo stato l' uno si considerava come fine o finiente (l' uno nel III significato), o come il tutto di ciascun numero o di ciascuna cosa (l' uno nel IV significato, vedi p. 6 7 7). L' uno nel primo e nel secondo di questi significati non distinti dai primi Pitagorici era l' «arithmos artioperissos» (1), benchè quelli negassero all' uno la denominazione di numero il «to proton hen» dei più recenti (2). Ci riserbiamo a mostrare altrove come i Pitagorici traessero i loro due principii, il finiente e l' indefinito , da tradizioni orientali, che ascendono fino ai primi Camiti che introdussero in Babilonia l' adorazione dei due principii, il maschile e il femminile , fondamento del primo ciclo dell' idolatria, culto che non cessò più mai fino che l' idolatria non cessò per la luce cristiana «( Teos., Ontol. categ.; Teos. , vol. IV, n. 102) ». Qui mi basta osservare che la dottrina di quei due principii, e la dottrina dei numeri che vi si riferisce, apparteneva all' Ontologia universale, cioè alla teoria dell' essere senza distinzione delle sue forme o categorie, e però: 1 Non conoscendosi ancora le primitive forme dell' essere, e da queste prescindendosi necessariamente, quella dottrina astratta conveniva ugualmente all' essere nella sua forma ideale, all' essere nella sua forma reale, e all' essere nella sua forma morale. Quindi, applicandosi senza distinzione all' essere sotto l' una o l' altra forma, ne nasceva necessariamente una moltiplicità di sensi apparentemente diversi e contrarii, e non c' era un filo che conducesse alla conciliazione (il quale non poteva essere che la distinzione delle forme primitive): indi la confusione sempre crescente del sistema, e i dissidii dei filosofi, che non potevano intendersi nè tra loro, nè con sè stessi; 2 Rimanendo quei principii nelle astrazioni, erano puramente formali, ed applicabili ugualmente alla dottrina di Dio, dell' Uomo o del Mondo; e quindi non potevano far conoscere il proprio di Dio, e il proprio del Mondo: onde ne nasceva facilmente la confusione della natura dell' uno colla natura dell' altro. Poichè si voleva (il che è proprio necessariamente d' ogni sistema filosofico), che con quei soli principii tutto si spiegasse; onde alla forma delle cognizioni riducevasi violentemente la materia: il che apparisce fino dai Pitagorici primi, che prendevano i numeri per le stesse cose reali (1). Non potevano dunque esser queste le vere categorie , od ultime classi delle entità; poichè i due principii pitagorici ripetendosi in ciascuna delle tre forme dell' essere come vedemmo, supponevano una classificazione anteriore ad essi. Laerzio nomina Clinomaco Furio, appartenente alla scuola di Megara, come il primo che scrivesse dei predicati [...OMISSIS...] , ed Archita poi scrisse il primo delle categorie [...OMISSIS...] . Dexippo Erennio ateniese (3) e Simplicio ne parlano, e quest' ultimo aggiunge, che Archita tarentino, prima d' Aristotele, divise l' ente in dieci generi, nel suo libro « «peri tu pantos» (4) »; ma Temistio attribuisce quest' opera ad un altro Archita posteriore ad Aristotele (5). Avendo pensato Archita, che l' Universo non poteva constare nè di soli finienti, nè di soli indefiniti, ma di composti degli uni e degli altri, onde diceva, che al composto appartiene massimamente l' esser sostanza (1), sentenza che Aristotele ripete come sua propria (2), poteva ridurre in sommi generi gli enti composti, di cui risulta l' Universo, distinguendo in ciascuno di essi i due elementi. Dexippo Erennio (3) osserva che Aristotele, dando il secondo luogo tra le categorie alla quantità , s' allontanava da Archita che poneva in secondo luogo la qualità , il che approva Plotino. In generale i Pitagorici, di mano in mano che applicavano i loro due principii a diversi generi di cose esistenti e in esse le riscontravano, davano loro un altro nome; e così nacquero quelle categorie, o principii, di cui parla Aristotele (4). Questa classificazione aveva il vantaggio d' esser dedotta da un solo principio, di cui mancano le Aristoteliche: che è la censura, che giustamente gli fece il Kant (5). Ma da prima, stabilito che tutti gli enti mondiali abbiano in sè l' opposizione dei due principii, furono nominate alcune di queste coppie come venivano, e senza assegnarne il numero preciso: e questo fece Alcmeone di Crotona, che viveva ai tempi di Pitagora già vecchio (6). Ma i Pitagorici poi ridussero al numero dieci tali coppie, che così da Aristotele s' annoverano: [...OMISSIS...] . A me pare, che niente altro sieno queste dieci coppie di principii se non i due originarii di Pitagora, cioè, il finimento e l' indefinito , applicati a generi di cose i più comuni e facili a presentarsi. Perchè poi si ponessero dieci coppie piuttosto che altro numero, niuna ragione intrinseca si vede nella loro deduzione, ma sembra essersi scelto questo numero per l' opinione che il numero dieci contenesse in sè tutte le cose; onde, come osserva Aristotele stesso, quando la natura non si prestava a numeri prestabiliti dai Pitagorici, essi facevano violenza alla natura, per farla ubbidire al loro sistema numerico (1). La prima coppia adunque, il finimento e l' indefinito , era come il tema di tutta la serie, i due principii universali privi ancora d' ogni applicazione. La prima applicazione si faceva agli elementi dei numeri, come principii di tutte le cose, e se n' aveva il dispari e il pari; l' uno finiente, e l' altro indefinito subietto di divisione (2). Doveva pure l' indeterminato o indefinito presentarsi alla mente in due modi, cioè or nell' uno or nell' altro, senza da principio accorgersi che fossero due. Poichè da una parte un ente qualunque privo di determinazioni è indefinito; e dall' altra le determinazioni stesse, quando rimangono slegate prive d' un subietto, sono anch' esse un indeterminato o un indefinito. Quindi, tanto il concetto d' indeterminato o determinabile, quanto quello di determinante, diveniva duplice, poichè: 1 c' era il concetto di ente indeterminato, a cui corrispondevano le sue determinazioni come determinante; e 2 il concetto di determinazioni slegate prive dell' ente, che costituivano esse pure una pluralità indeterminata, a cui corrispondeva l' ente o l' essenza come determinante e riducente ad unità. Così l' ente e le determinazioni si determinavano reciprocamente. Non mi pare improbabile che, quando i Pitagorici pigliavano l' impari come determinante nella seconda coppia, e il pari come infinito determinabile, nel primo vedessero la determinazione dell' ente, e nel pari l' ente indeterminato, onde il pari pitagorico è chiamato da Aristotele « la diade come uno », perchè in questo pari vedevano l' ente privo di determinazioni. All' incontro, quando nella terza coppia ponevano l' uno come determinante e la pluralità come infinito determinabile, nell' uno concepissero l' ente in quanto determina e unisce la pluralità delle sue determinazioni. Avendo dunque concepito Platone il determinante e l' indefinito determinabile sotto questo secondo aspetto, egli pose l' essenza e l' ente, cioè l' uno come determinante, e la diade, la pluralità, il grande e piccolo, come indefinito determinabile. Dal che risulta, che Platone non avrebbe già scambiata, come dice Aristotele, la diade come uno dei Pitagorici nel « grande e piccolo »; ma si sarebbe appigliato alla terza coppia delle opposizioni pitagoriche anzichè alla seconda. La quarta coppia, « il destro e il sinistro », è un' applicazione de' concetti di finiente e d' indefinito alle relazioni di luogo, e risponde alla settima categoria d' Aristotele ( «keisthai»). Pigliavasi il destro come il lato più nobile o la situazione più perfetta delle cose, e il sinistro il contrario; e riputavasi mancante di determinazione il sinistro, perchè si considera sempre la determinazione come perfezionante; onde le determinazioni che rendevano imperfette le cose, non si consideravano come determinanti, ma come bisognose d' essere determinate. Onde la materia, a ragion d' esempio, sciolta e disordinata consideravasi come informe , benchè informe al tutto non potesse essere; ma andava priva di quella forma e determinazione che doveva avere (1). Nella quinta coppia, « il maschile e il femminile », si vedono applicati i concetti primitivi di determinante e indeterminato alla generazione e ad ogni produzione; e ben dimostrano l' origine antichissima del sistema, essendo i due principii, l' attivo e il passivo, rappresentati nel maschio e nella femmina, i più antichi Iddii dell' umana superstizione. Nella sesta coppia, « il quieto e il mosso », i concetti di finiente e d' indefinito s' applicano a uno de' fenomeni più importanti e universali, qual è quello del moto , preso in senso generalissimo che rappresenta ogni mutazione. Il moto , ossia la mutazione, fin che dura, è indeterminata, moltiplice, variabile: la quiete si prendeva come il termine del moto, quello che determinava il subietto che si move ad una condizione stabile e certa. Da questa coppia di principŒ traggono origine le tante discussioni de' primi filosofi per sapere « se tutto si movea », come pretendeva Eraclito ammettendo solo il principio dell' indeterminato , o « tutto stava », come sostenevano gli Eleati ammettendo il solo principio del determinato , ovvero « se tutto che ci avea nell' universo fosse moto e quiete », come insegnavano i Pitagorici co' loro due principŒ. Alla rettezza e stortezza delle linee si vedono applicati nella settima coppia i concetti di finiente e indefinito, considerandosi la stortura come una mancanza di perfezione, e una moltiplicità indeterminata, essendo una la retta, molte le curve. La curva dunque si considerava come bisognevole di ricevere il finimento della rettitudine. Nell' ottava coppia s' applicano gli stessi concetti alla luce e alla tenebra, presa quella e questa in senso latissimo, e però altresì come indicanti lo scibile e l' ignoranza. La tenebra presenta uno spazio dove niente è determinato o definito: la luce, facendo vedere lo spazio buio, gli dà le forme e lo determina. Questo ci chiama alla mente la specie «eidos, idea» di Platone, il viso di Cicerone. Le specie risultano per Platone dalla materia ideale che venendo determinata presenta alla mente un visibile, un apparente, una specie in somma: così gli enti speciali escono dall' oscurità primitiva dell' indefinito in cui giacciono. Non è che l' idea dell' essere, la materia ideale di Platone, sia tenebra rispetto a sè; ma nasconde ogni ente determinato nel suo seno: e però quest' ente, fino a che non riceve le determinazioni, è come sepolto in fitta notte. Viene la nona coppia, « il male e il bene », quello considerato come indefinito, cioè come una privazione delle determinazioni che dovrebbe avere. Mi sembra Aristotele aver tratto il suo principio della privazione da questo appunto, che i Pitagorici considerarono come privo di determinazioni tutto ciò che era difettoso, come vedemmo anche parlando della quarta e settima coppia. Finalmente nella decima coppia s' applicarono i due principŒ alle figure geometriche, e si considerò il parallelogramma come indefinito, perchè si può estendere da un verso più che dall' altro senza misura determinata, laddove il quadrato ha una proporzione stabile d' uguaglianza tra i suoi lati. Non si deve confondere la questione degli elementi degli enti con quella delle classi degli enti . L' espressione « elementi degli enti », ontologicamente presi, importa che per elemento s' intenda ciò che non è un ente da sè, ma è uno degl' ingredienti di cui qualche ente si costituisce (2). I primi Italici, come risulta dal capo precedente, s' applicarono piuttosto alla questione degli elementi, seguendo l' avviamento degli Ionici, che non a quella della classificazione degli enti. Ed era facile il confonder quella con questa, come le confuse Aristotele stesso, che nelle Categorie, cui chiama anche « generi dell' ente », divide l' ente in sostanza e accidente , i quali son due elementi di cui si compongono o tutti o certo molti degli enti finiti. Nasceva questa confusione dall' ambiguità della espressione « generi degli enti », che sembrava dover significare « delle classi generiche degli enti », e anche « delle qualità universali »che si predicano di molti enti. Ora la qualità universale non è l' ente, ma solo qualche cosa che all' ente appartiene (1). E però Aristotele stesso non ricusa assolutamente di chiamare elemento « « quello che è al sommo grado universale, poichè è uno e semplice in molti, o in tutti, o in moltissimi » ». [...OMISSIS...] . Il qual luogo è consentaneo al suo sistema, che in opposizione a Platone nega l' esistenza delle idee separate dalle cose, e però non possono essere che appartenenze (elementi) delle cose stesse. I quattro principŒ dunque de' Pitagorici e di Platone, che si considerano come classi o sommi generi degli enti, non sono propriamente tali: ma i due primi, la monade e la diade, sono elementi; la triade, cioè il definito, o, come lo chiama Platone, «to xymmisgomenon», è l' ente finito; il quarto principio poi, o la causa, è l' ente infinito. Onde, a propriamente parlare, due sono le supreme classi o categorie platoniche: quella dell' ente finito , che consta de' due accennati elementi; e quella dell' ente infinito che è uno perfettamente. Ma si possono nondimeno chiamare tutt' insieme i quattro cogitabili pitagorici. Di più abbiamo indicato come Platone concepisca quest' ente Uno, causa di ogni ente finito, che è chiamato anche semplicemente l' Uno. Quest' Uno, come abbiamo veduto, ha nel suo seno indivisibilmente uniti i due elementi dell' ente finito, cioè il finimento e l' indefinito (quest' è il grande e piccolo): il primo quand' è uscito è il quale , il secondo è il quanto . Il che rammenta l' ordine delle categorie d' Archita (se si dee credere a Dexippo, Simplicio, e Boezio), che poneva la qualità come la seconda, e la quantità come la terza: ordine, cui Aristotele disse rovesciato, che pose la quantità ( «poson») come la categoria prossima alla sostanza, e appresso ad essa la qualità ( «poion») (1). Ma Plotino preferisce l' ordine d' Archita e di Platone, che è consentaneo al pitagorico. L' inversione per altro che s' attribuisce ad Aristotele, se pur è vera (1), si potrebbe spiegare così, che, dipendendo la qualità dalle forme e dalle idee e la quantità dalla materia, nel sistema Aristotelico, in cui si negano le idee separate dalla materia, esse doveano collocarsi dopo di questa, di cui sono, quasi direbbesi, un atto accidentale, di cui la stessa materia è il subietto. L' Uno dunque causa prima, è l' uno nel secondo significato, a cui si dà un subietto massimo. In questo subietto massimo c' è il bene, che avendo natura diffusiva, fa sì che un tal uno emani i due elementi: 1 il finimento, 2 l' indefinito, e di essi componga gli enti mondiali (2). Il finimento, per Platone, è l' idea specifica , che unita all' indefinito diviene forma: questa forma rispetto alle menti è la specie che rende visibili, cioè intelligibili gli enti: l' indefinito è la materia, cioè quell' elemento che ricevendo la forma diviene un subietto reale, e insieme colla forma costituisce l' ente. Ma l' idea stessa procede dall' Uno supremo per gradi: poichè anch' essa primamente è indefinita e indeterminata, materia ideale (a cui risponde il nostro essere ideale ); e questa materia ideale è una pluralità indefinita e confusa, il numero indeterminato o piuttosto potenziale. Ha bisogno dunque questa materia ideale di essere determinata, ossia di ricevere anch' essa una forma. Ora questa forma è l' uno partecipato dall' Uno supremo. Ma quest' uno partecipato [...OMISSIS...] raccoglie in sè e unifica più o meno di quella pluralità indefinita e confusa che è nella materia ideale, e che anche si chiama « il grande e piccolo », e stringe piuttosto questa parte che quell' altra; onde dall' applicazione varia dell' uno a quella pluralità indefinita, che è nella materia ideale, s' hanno i numeri determinati e le specie , e queste specie così costituite sono anch' esse forme all' ultima materia, cioè alla materia reale. Ora questa materia reale , benchè non abbia più numeri nel suo seno, pure ha una quantità indefinita , e però anche ad essa spetta la denominazione di « grande e piccolo ». Le specie dunque o numeri come forme s' applicano e congiungono a un quanto maggiore o minore della materia reale, e così producono i varŒ enti reali, di cui l' universo si compone [...OMISSIS...] . Questa è una deduzione ontologica degli enti mondiali dalla prima causa, ma è proprio di Platone l' avervi aggiunto la dialettica (1), parte simile, parte dissimile da quella. Poichè anche quello, che in suo essere è già formato e definito, al primo affacciarsi della mente umana si presenta come un uno indefinito, e questo risponde all' indefinito come uno [...OMISSIS...] de' Pitagorici, da distinguersi dall' Uno primo e assoluto, causa di tutto. Circa l' uno indefinito dunque, che si presenta alla mente, la dialettica di Platone fece due cose: 1 Scompose l' uno dall' indefinito e mostrò che a) l' uno separato così da ogn' altra cosa, cioè la pura unità astratta , non potea concepirsi eistente, senza incorrere in quelle contraddizioni che svolge nella prima parte del Parmenide; b) l' indefinito così separato dall' uno rimanea pure per sè inintelligibile, e quindi anche impossibile. 2 Insegnò ad esercitare sovr' esso, cioè sopra l' uno dialettico, l' analisi, e ciò in due modi: a) trovando in esso tutto ciò che ci si potea distinguere; quindi in ogni genere, che è appunto un uno dialetticamente indefinito , tutte le specie, e nelle specie tutte le qualità distinguibili: queste qualità distinguibili informate dall' uno costituivano un numero solo, che era la stessa specie, e perciò diceva che la specie è un numero informato dall' unità; b) e trovando finalmente sotto le specie gl' individui reali, che divisi dalle specie rimanevano indefinibili, niun altro numero potendosi trovare in essi: e quindi ad essi cessava ogni analisi del pensiero, rimanendo così nel fondo della speculazione una materia (realità) oscura, non atta più ad essere intesa, venendo tutta la luce dalle sole specie (1). Dalle quali cose si raccolgono i diversi significati in cui è preso l' uno da Platone, cioè: 1 l' uno puramente mentale , com' unità formale, separata da ogni pluralità, prodotto soltanto dal pensiero astraente; 2 l' uno dialettico , l' uno indefinito (genere più o meno esteso), su cui s' esercita l' analisi dialettica; principio de' numeri o specie , e per mezzo di queste e della materia reale principio degli enti reali definiti; 3 l' uno partecipato dalle specie, costituente le essenze speciali , che sono poi partecipate dagli enti reali (individui); 4 l' uno primo e supremo , causa suprema, Dio. Ora Platone, che alla dialettica riduce tutta la professione del filosofo (2), parla degli enti alternativamente, ora in modo dialettico, ora in modo ontologico, e ciò perchè, come dice Aristotele, [...OMISSIS...] . Il che però non vuol dire che il modo di essere delle cose sia uguale in tutto al modo di concepire della mente umana. E questa è una delle cause dell' oscurità di Platone e di Aristotele stesso, parlando questi filosofi ad esempio di quelli che li precedettero con principŒ così universali e formali, che convenissero ugualmente al concepire e all' essere delle cose; onde, quando applicano al primo lo stesso linguaggio, e poi l' applicano al secondo, esso cangia di significato, e diventa equivoco ed analogico: oltre altre difficoltà e ambiguità che nascono per via. Applicando dunque questa osservazione ai diversi significati ne' quali Platone adopera il vocabolo uno , «hen», consideriamo l' uno dialettico . L' uno dialettico, cioè quello su cui Platone insegna ad esercitarsi l' analisi dialettica, è duplice, com' è duplice la materia: talora prende a subietto dell' analisi l' uno che ha nel suo seno la materia ideale, talora l' uno che ha nel suo seno anche la materia reale e sensibile: indefinita l' una e l' altra: dal primo si traggono le specie o numeri, dal secondo, colla partecipazione di queste, gli enti reali. Quindi l' analisi dialettica finisce in due modi: 1 quando nell' uno dialettico ideale , dopo aver trovate tutte le differenze o specie elementari, finisce nelle ultime unità (specie piene), non restando più in queste ultime unità che la materia ideale vestita d' unità, cioè l' indefinito che rimane in fine indefinibile: 2 quando nell' uno dialettico reale , dopo aver trovate pure le differenze, generi, specie, fino a quella che noi chiamiamo specie piena e che non ammette altre specie inferiori, rimane questa partecipata dalla realità, cioè s' è pervenuto col pensiero agl' individui reali, nei quali non c' è più altro da distinguere, rimanendo così nel fondo alla speculazione la materia pure indefinibile. Comincia dunque la dialettica ad esercitarsi sull' indefinito e finisce pure nell' indefinito. L' indefinito, da cui comincia, è definibile, e quest' è quello che dà occasione al lavoro dialettico; l' indefinito, in cui termina il lavoro dialettico, è l' indefinibile, puramente materia. Ma la materia ideale è fonte di luce intellettiva, la materia reale di tenebre; e questo risponde all' ottava coppia delle categorie pitagoriche, luce, tenebra [...OMISSIS...] . La materia ideale ontologicamente ha in sè tutte le specie o numeri definiti, ma questi per l' uomo rimangono nascosti a principio, cioè quella presentasi all' uomo come indefinita. Quindi c' è bisogno che la mente umana trovi tali specie o numeri. Trovate queste specie , ciascuna delle quali raccoglie in sè un certo numero di qualità e differenze, la riflessione filosofica considera che, se il numero trovato non fosse tenuto insieme dall' unità , quel numero rimarrebbe indefinito, e come tale oscuro; non sarebbe ancora specie , che vuol dire visibile, intelligibile (1). Conchiude dunque che il numero partecipando dell' unità come sua forma diventa specie . La materia reale all' incontro, non avendo in sè alcun numero, ha bisogno di parteciparlo, il che da' Pitagorici dicevasi un' imitazione de' numeri ( «mimesis»), perchè la materia stessa a' numeri si conforma; da Platone poi fu detta partecipazione delle specie (2) ( «methexis»), onde le specie rimanevano distinte dalle cose , come il partecipabile dal partecipante . Non dunque il solo uno , non la sola materia era per Platone il subietto dialettico, chè que' due elementi così staccati rimanevano infecondi; ma sì l' uno , per la mente, indefinito , cioè avente nel suo seno una materia ancora indefinita. Da quest' uno si deducevano dialetticamente degli altri uni simili al primo; per esempio, se era un genere quello su cui s' esercitava la dialettica, si deducevano le specie. E dico uni simili al primo, in quanto che gli uni dedotti contenevano anch' essi i due elementi del primo, cioè si componevano: 1 di materia (essenza indefinita); 2 d' unità che costringeva quella e l' informava. Ma le ultime unità non potendo più produrre di sè altre unità, essendo così il numero esaurito, contenevano soltanto i detti due elementi, che in tutte le unità ricompariscono. Ora l' uno dialettico , cioè quello che il filosofo pigliava a esercitarvi sopra l' analisi, variava, poichè esso non indica un oggetto fisso, ma un genere d' uni dialettici: su qualunque di questi uni che il filosofo potesse prendere a considerare, ei dovea esercitare la dialettica allo stesso modo, colle stesse operazioni. Potea dunque il filosofo prendere un uno dialettico più o men copioso, e trovarci un numero più o men grande: fin qui la dialettica. Vediamo ora dove cominciava l' ontologia, e da quella c' era il passaggio a questa. Quando il filosofo, in vece di prendere un uno qualunque a caso per esercizio dialettico, sceglie, tra questi uni possibili ad analizzare, quello la cui analisi fa conoscere l' intima costituzione dell' essere o dell' ente come tale, allora dalla dialettica stessa egli è introdotto sul territorio dell' ontologia. E, rilevato una volta che la costituzione dell' ente deve essere necessaria, tale cioè che, supposto in essa un qualche cangiamento, l' ente rimarrebbe annullato; è facile altresì conoscere che, trovata una proprietà dell' ente, qualunque questa fosse, essa non si può rimaner sola, ma deve involgere la condizione di tutte l' altre, chè da tutte insieme risulta quella costituzione necessaria dell' ente. Ora la prima proprietà dell' ente e la più semplice e facile a concepirsi dalla mente, è che sia uno . Dalla meditazione dunque del puro uno si potea pervenire ragionando a trovare tutte l' altre proprietà elementari dell' ente, e questo è quello che fa Platone nel « Parmenide » e nel « Sofista » di proposito, e su cui torna spesso negli altri dialoghi. Nella seconda parte del « Parmenide » (1), Platone stabilisce l' ipotesi che l' uno sia; e, dato per vero che sia, arguisce dall' esserci l' uno , che è necessario che ci siano i molti come sua condizione, altramente non sarebbe, contro l' ipotesi assunta che sia. Questa è la prima e fondamentale Antinomìa del sistema di Platone, ed è la terza coppia delle dieci che Aristotele attribuisce ad alcuni Pitagorici, «hen kai plethos». Egli move dal principio, che se l' uno è, dee partecipare dell' essenza , cioè dell' essere: onde già si distinguono colla mente due elementi: 1 l' essere, l' essenza, la materia; 2 l' unità, l' uno. L' uno è il finimento, secondo Platone, l' essenza è l' indefinito: la prima coppia, «peras kai apeiron», delle dieci pitagoriche. Di che conchiude, che quell' uno, poichè ha l' essere, è un ente; e questo ente è un tutto avente due parti elementari, l' uno e l' essere, che diventano due suoi predicati , potendosi predicare di quell' ente tanto l' uno quanto l' essere. E questi sono i due predicati ( «kategoremata») fondamentali di Platone. Qui dunque abbiamo già tre cose distinte colla mente: il tutto, e le due parti «to hen kai to on». Ma, quando la mente considera queste due parti dell' ente uno o dell' uno ente ( «tu henos ontos»), può ella considerarle separatamente senza che, quando pensa l' uno come parte, nol pensi esistente come tale, e quando pensa l' ente pure come parte dell' ente uno, nol pensi uno? Impossibile. Dal che conchiude Platone che l' uno involge in sè una moltitudine infinita ( «apeiron plethos»), poichè, essendo per necessità uno ed ente, cioè avendo due elementi in sè, e ciascuno di questi dovendo anch' essi avere l' unità e l' esistenza come loro elementi, essendo queste condizioni senza le quali non si potrebbero concepire, risulta che col ripetere lo stesso discorso si potrebbero distinguere elementi all' infinito. Di più ne trae la prima Antinomia speciale: cioè nell' uno essente ci sono necessariamente in un modo implicito tutti i numeri pari e dispari, la seconda coppia pitagorica «peritton kai artion». Poichè, dice, se due sono gli elementi dell' uno ente , cioè l' uno e l' ente (e il medesimo convien dirsi di ciascun elemento considerato da sè), dunque c' è nell' uno il due. Ma poichè quegli elementi sono congiunti da un nesso indissolubile, il qual nesso è un terzo elemento, dunque c' è anche il tre. C' è dunque il pari e il dispari [...OMISSIS...] . Di più, nel due c' è due volte l' uno, e nel tre tre volte . Ci sono dunque dentro i concetti di due e di tre , e di due volte e di tre volte . Onde c' è il due replicato, perchè c' è il due , e il concetto della duplicazione dell' uno; e c' è il tre triplicato, perchè c' è il tre, e il concetto della triplicazione dell' uno. Di conseguente c' è anche il concetto di tre esistenti e di duplicazione, e di due esistenti e di triplicazione; e perciò c' è il concetto di tre due volte, e di due volte tre, e però i pari presi un numero pari, e i dispari presi un numero dispari, e i dispari presi un numero pari, e i pari presi un numero dispari: onde non resta escluso nessun numero, ma tutti si trovano nel seno dell' unità esistente (1). Abbiamo veduto e risulta da tutto questo discorso che ciò che Platone chiama « essenza », «usia», è quello che noi chiamiamo « essere ideale », considerata da Platone come la materia universale delle idee di cui l' uno è la forma. Ora da quello che segue s' intende perchè egli dava a questa materia delle idee la denominazione di « grande e piccolo ». Egli ha dimostrato, che l' uno non può esistere come uno puramente, perchè non esisterebbe se non avesse l' essere, cioè l' essenza, che è qualche cosa di diverso dal puro uno: del pari l' essenza non può esistere senz' esser una: di che viene che l' essenza è il principio della moltiplicazione dell' uno, occupando ella, dopo l' uno, il secondo posto, e così meritando il nome di diade. Questo ragionamento, col quale Platone speculando sul puro concetto di uno, e preso per ipotesi che sia, trova per sua condizione prima la diade, e poi la moltiplicazione indefinita per mezzo di questa, merita d' essere da noi attentamente considerato. Dopo aver dunque dimostrato che nell' uno essente si trova logicamente il concetto di tutti i numeri essenti anch' essi, prosegue così: [...OMISSIS...] . Dove si trova la vera spiegazione del perchè Platone chiamava la materia ideale « il grande e piccolo », e mi fa maraviglia che Aristotele non l' accenni, e che un passo sì chiaro sia sfuggito a molti eruditi, che hanno cercato la ragione di quella denominazione (1). Poichè l' essenza, come in appresso dimostra, non potendo stare senza l' uno, e nell' uno essente essendoci i molti, conviene che l' essenza sia tra questi molti, grandi e piccoli, distribuita, e che non possa stare di conseguenza senza il grande e il piccolo. Ed essendo ella stessa quella che mette nell' uno la pluralità, consegue che da lei si deva ripetere il grande e il piccolo, e che con questa denominazione si chiami. Essendo dunque l' essenza distribuita in parti, e non potendo essere ciascuna parte se non sia una, conchiude che « « lo stesso uno, distribuito dall' essenza, sia molti e un' indefinita moltitudine » (2) »; e non solo l' ente uno ( «to on hen»), « « ma lo stesso uno ( «auto to hen») sia molti » », poichè « « nè l' ente può mancare mai all' uno, nè « l' uno all' ente, ma questi due piuttosto in tutto s' adeguano »(3) ». Così si spiega, secondo Platone, l' origine dei numeri dall' uno mediante l' essenza seco indivisibilmente congiunta, cioè mediante l' essere, che pur è diverso dall' uno. Trovata nell' uno essente la moltiplicità, è trovato il concetto di parte , perchè tutti gli elementi, di cui consta l' uno, sono come parti di lui. Di conseguente anche il concetto di tutto , perchè l' uno è il tutto di queste parti. Ora il contenente ( «to periechon») è il termine, il finimento ( «peras») del contenuto (4): dunque l' uno come tutto, e però contenente, è il termine, il finimento del più, perchè lo comprende e lo unifica in sè; il che fa ben intendere in che modo Platone diceva, come ripete Aristotele senza spiegarlo, che l' uno è la forma delle specie e de' numeri. E che l' uno sia tutto e parte, contenente e contenuto è la seconda Antinomìa speciale. Di qui Platone deduce che l' uno essente è determinato e indeterminato ad un tempo sotto diversi aspetti (ed è la terza Antinomìa speciale): poichè è determinato in quanto che il complesso delle parti o elementi che contiene sono raccolti e compresi nell' uno tutto, ed è indeterminato in quanto che la moltitudine che contiene da sè presa è indeterminata. [...OMISSIS...] Dal che si conferma quello che dicevamo, cioè: 1 Che l' uno per Platone è per sè solo un concetto anteriore a quello degli elementi del Mondo; 2 Che esso è anche definiente ( «to perainon»), e perciò fine o termine ( «peras»), in quanto comprende in sè l' altre cose (1 elemento); 3 E` anche molti , e in quant' è molti contiene la moltitudine indefinita, e perciò è «apeiron plethei» (2 elemento); 4 Se questa moltitudine indefinita si considera da sè, facendo astrazione dall' uno che la contiene, essa rimane l' indefinita diade, il grande e il piccolo; 5 Quest' indefinita moltitudine è l' essere che si distribuisce secondo le parti grandi e piccole, più o meno numerose. E` da considerare che questi discorsi sono messi da Platone in bocca a Parmenide, e che uno degli scopi di tutto il dialogo è quello di dimostrare, contro i Megarici, che la dottrina eleatica, esposta che fosse con una logica esatta, riusciva la medesima con quella da lui professata, e che non si poteva intendere altramente, qualora si volesse mantenere la coerenza del raziocinio: altramente diventava assurda e non si potea più sostenere. Partendo dunque dal principio di Parmenide che l' ente sia [...OMISSIS...] , e che sia uno [...OMISSIS...] ; spiega sotto quali diversi aspetti Parmenide potesse ammettere che l' ente uno fosse ad un tempo determinato e indeterminato. Ora, continuandosi a tener dietro al carme « «peri physeos» » e dandogli un' interpretazione ragionevole, Platone non ricusa d' attribuire all' ente uno la figura, giacchè Parmenide nel suo carme lo vuole sferico, della quale sentenza si giova altrove Platone per dimostrare che deve contenere una pluralità (2), attirando anche con questo uncino la sentenza eleatica dell' uno, alla sua dell' Uno molti. Dopo aver dunque provato, che l' uno è un tutto determinato in questo senso, che la moltitudine che contiene, e che è lui stesso, è sempre contenuta dall' uno, nè sta mai da sè sola (se non per un' astrazione della mente), e però è compartita e distribuita in moltissime parti [...OMISSIS...] grandi e piccole, deduce che questo tutto determinato dee avere i suoi estremi, e principio, mezzo, e fine, e il mezzo essendo equidistante dagli estremi, dee essere partecipe di figura, sia poi retta o rotonda o mista (1), dove si può rammentare la decima coppia pitagorica [...OMISSIS...] , e nello stesso tempo la forma sferica data all' ente da Parmenide; Platone abbraccia tutte le figure rammentate dai suoi predecessori, e v' aggiunge non senza significato la mista , che è come mediatrice e vincolo delle due prime. Questa figura, data da Platone all' ente, da alcuni interpreti s' intende detto in senso metaforico a quel modo che i logici danno l' estensione alle idee (2), mossi specialmente dal considerare che Platone vuole che il filosofo rimova nello studio dei numeri e delle figure geometriche ogni materia corporea (3). Il che però non appaga pienamente, chè rimane lo spazio figurabile ammesso da Platone come medio tra le idee ed i corpi. Credo doversi piuttosto considerare, che qui Platone parla dell' uno ente vago e informativo (4); e lo considera sotto i varŒ suoi aspetti, ora in sè, ora come partecipabile delle cose reali. Dicendo dunque, non che l' ente sia figura, ma che sia « partecipe della figura », reputò doversi intendere che l' ente è tale che « può partecipare anche della figura ». E parmi indubitato che Platone tra la materia ideale e la materia corporea ammetteva una terza materia, cioè la matematica , e però un terzo indefinito, che era lo spazio, del quale ricevendo il finimento, venivano le figure geometriche , poichè facendo egli venir tutto da' due elementi, anche le figure geometriche, è conseguente che avessero il loro indefinito e il loro finimento: e anche in questi per la stessa ragione si trovava l' uno finiente, e il più definibile. Essendo dunque l' uno essente necessariamente un tutto con pluralità di parti nel suo seno, e con principio, mezzo e fine, qualora si supponga informativo d' una materia a ciò acconcia cioè spaziosa, era suscettibile di figura, cioè di esistere come figurato: e questo è il nesso che in Platone congiunge la Geometria alla Metafisica (1). Passa a dimostrare un' altra proprietà dell' uno essente, quella ch' egli è in sè, ed è in altro; ed è una quarta Antinomìa speciale. E lo dimostra partendo da due concetti, che convengono all' uno. Poichè l' uno si può prendere 1 come tutto, 2 come le parti unite [...OMISSIS...] . Ora l' uno, preso come il complesso delle parti, e contenuto nell' uno preso come tutto; perchè le parti sono nel tutto: dunque l' uno è in se stesso, l' uno è nell' uno [...OMISSIS...] . Il che s' intende non solo di tutte le parti, ma anche d' un gruppo d' esse, e di ciascuna, perchè ciascuna è un uno contenuto nell' uno tutto . Ma l' uno preso come tutto , non è nell' uno preso come parti unite, dunque l' uno non è nell' uno, dunque è in altro. Questa illazione, che non essendo l' uno tutto contenuto nell' uno parti, dunque deve essere in altro, dimostra che si considerava il dove come una proprietà essenziale dell' ente. Poichè domanda Platone: « « Se non fosse dovechessia, non sarebbe egli nulla? »(3) ». E si fa rispondere: « necessariamente ». Quindi l' origine della categoria aristotelica «to pu». Ristretta questa a significare un luogo nello spazio, non è ontologica se non potenzialmente; non essendo necessario che l' ente sia in un luogo, il che appartiene solo a quegli enti speciali che sono o agiscono di necessità nello spazio. Ma potenzialmente è ontologica in questo senso, che non ripugna all' uno informativo, ch' egli informi una materia estesa o avente coll' estensione una relazione necessaria (1). Ma è da considerarsi di più, che gli antichi, come al moto , così al dove davano un significato più esteso che quello che si restringe allo spazio o a' corpi; onde rimane a cercare che cosa sia quest' altro, in cui dice Platone che dee essere l' uno ente considerato nel suo concetto di tutto (2): e viene in mente di togliere la risposta da quello che dice Dante dell' Empireo: [...OMISSIS...] . E che così l' intenda Platone si ha manifesto dal Timeo, dove Dio è chiamato «o to pan xynistas» (4), come altrove è da lui chiamato mente «nus» (5), e ragione «logos» (6). Onde dice, l' universo reale esser fatto sull' esemplare di quello che nella sola ragione e nella sapienza si contiene, [...OMISSIS...] . E ancora dice, che il Mondo reale fu fatto da Dio come un solo vivente simile al Mondo intelligibile che è pure un solo animale intelligibile, il quale contiene tutti gli altri animali come parti « « secondo l' uno e secondo i generi » » [...OMISSIS...] ; il mondo intelligibile poi, essenza del reale, è contenuto nella mente divina. Onde non rimane a dubitare che il contenente del tutto reale sia il tutto intelligibile, che lo informa e che nella divina mente rimane. Dall' esser poi l' uno sotto il rispetto materiale, cioè delle parti, in se stesso, cioè nell' uno formale; e sotto il rispetto formale, cioè come tutto contenente le parti, in altro, cioè nella mente di Dio: deduce Platone che l' uno essente ha due altre proprietà apparentemente opposte, cioè quella di stare , e quella di moversi (quinta Antinomìa speciale), che risponde alla sesta coppia pitagorica [...OMISSIS...] : dove la quiete e il moto sono concetti presi in senso universalissimo, non nel senso ristretto di moto locale, che è soltanto una specie de' varŒ moti che distinguevano gli antichi. Dice dunque che l' uno sta in quanto è in se stesso, e si move in quanto è in un altro. [...OMISSIS...] . Il che così si può intendere: « Le parti, cioè gli uni inferiori, essendo nell' uno tutto, ricevono da quest' uno tutto la loro stabilità, perchè sono in esso come uno nell' uno; ma l' uno, secondo il concetto di tutto, essendo in altro, cioè nella mente divina, conviene che di continuo si discerna da essa, e perciò da essa emani continuamente come forma, cioè come quell' uno che tutto contiene ed aduna »(uno nel IV significato). Ond' anche deduce che l' uno, rispetto a sè, è il medesimo ed è diverso; e così rispetto all' altre cose, cioè al più, è il medesimo ed è diverso (sesta Antinomìa speciale). Rispetto a sè, lo prova in questo modo. La relazione possibile d' una cosa ad un' altra non può esser che quadruplice: 1 o che sia la medesima; 2 o un' altra; 3 o sua parte; 4 o suo tutto: chè la parte non è nè un medesimo nè un diverso dal tutto, e così il tutto non è nè un medesimo nè un diverso dalla parte. Ora lo stesso uno non è nè parte di se stesso, nè tutto di se stesso, quasi di parti; nè l' uno è altro dall' uno. Dunque egli è il medesimo con se stesso . Ma sotto un altro aspetto è anche diverso da se stesso, cioè sotto l' aspetto di tutto che unisce in se le parti. Poichè come tale abbiam veduto lui non essere nelle parti, cioè nell' uno materiale, ma in altro. Ora quello che esiste in un altro diverso da sè, è uopo che sia un altro diverso da sè [...OMISSIS...] . Il che viene a dire che l' uno tutto, forma delle cose, come essente nella mente divina, è diverso dall' uno stesso emanato da quella mente, e imposto come forma alle cose, ha un altro modo di essere. Onde l' uno non solo è il medesimo a se stesso, ma anche da sè diverso. Rispetto all' altre cose prova del pari che l' uno è il medesimo con esse, e con esse diverso. Poichè quali sono l' altre cose? quelle che non sono uno. Ma l' uno è diverso da ciò che non è uno. Dunque l' uno è un diverso all' altre cose, cioè al non uno. Ma in un altro aspetto l' uno è anche il medesimo coll' altre cose che non sono uno. E lo prova dimostrando: 1 che l' uno non può esser qualche cos' altro dal non uno; 2 che non può esser sua parte; 3 e non può esser suo tutto: di che conchiude che l' uno dee essere il medesimo col non uno . Prova che non è altro dalle due nozioni d' identico e di diverso . Il diverso, dice, non può esistere nell' identico in quant' è identico, nè pure un istante. Ma le cose che sono, sono identiche finchè sono quelle che sono. Dunque in niuna di quelle cose che sono [...OMISSIS...] può esistere l' altro. Dunque l' altro non può esistere nell' uno essente, e però nè pure nel non uno; poichè se in questo ci fosse, già ci sarebbe anche nell' uno, chè il predicato diverso è reciproco (1). Di poi dimostra, che l' uno non può essere parimente una parte del non uno, e nè pure tutto del non uno, perchè in tal caso il non uno parteciperebbe dell' uno (2), e così cesserebbe d' esser non uno, contro l' ipotesi. Dal che conchiude che, se l' uno non ha la relazione di diversità dal non uno, nè quella di parte, nè quella di tutto, per modo che il non uno, restando non uno, sia una sua parte; rimane che l' uno sia il medesimo col non uno . La qual conclusione, benchè sembri strana, consuona però col principio messo da prima, cioè che tutte le parti insieme sia l' uno. Ora le parti in quanto sono moltiplici sono non uno: dunque il non uno è il medesimo uno. Il che è quanto un dire: « la domanda se l' uno sia diverso o identico col non uno, non può farsi, se si supponga che il non uno non esista, sia nulla: voi supponete dunque che il non uno sia qualche cosa: ma non può esser qualche cosa se non per l' uno che non abbandona mai l' esistente. Ora se il non uno esiste e quindi è uno, già si vede che esso è uguale all' uno, perchè altro non può essere che le parti informate dall' uno. Laonde le parti informate dall' uno, e quindi essenti, se si considerano puramente come parti, astraendo dall' uno; ma non negandolo di esse, sono non uno; ma se si considera come il non uno possa esistere, ritornasi col pensiero all' uno, poichè si vede che la condizione della loro esistenza è che sieno uno. Sotto questo aspetto dunque l' uno vedesi uguale a ciò che si dice non uno ». Trae di qui un' altra proprietà dell' uno, e una settima Antinomìa, attesi i varŒ suoi aspetti, cioè ch' egli è simile e dissimile a se stesso; ed è pure simile e dissimile all' altre cose . E primamente prova che l' uno è simile e dissimile all' altre cose che non sono uno, dall' esser ad esse diverso ed identico, nel modo detto di sopra. Essendo altro, ossia diverso dall' altre cose, l' altre cose sono altro, ossia diverse da lui (1). Dunque l' uno e il non uno, essendo reciprocamente altro, hanno questo di simile d' esser altro , perchè l' uno e il non uno partecipano della forma della alterità, ossia della diversità. Qui si vede come ciò che è dissimile, qual è il diverso, diventa simile, mediante una riflessione più elevata della mente, che fa della diversità stessa una forma astratta e perciò unica, applicabile a più subietti, i quali coll' applicazione di quell' unica forma diventano due, cioè diversi e dissimili. Infatti i subietti diversi ed altri l' un dall' altro, non si potrebbero riconoscere tali, se la mente non li considerasse mediante una sola idea; poichè nessun paragone ella può fare, sia per unire, sia per dividere più cose, se non applica loro un' idea comune «( Ideol. , 1.0 7 1.7) ». Il che prova di nuovo, che il più (il quale non si concepisce se non mediante la compresenza di più cose davanti alla mente, e però un certo confronto che le distingue tra loro e non le lasci confondere) (1), non si può intendere se non nell' uno e per l' uno. Ora, poichè fu dimostrato anche che l' uno è identico e diverso da ciò che non è uno, e che ciò che non è uno è del pari identico e diverso da ciò che è uno, sèguita che, se l' uno si considera in quanto è identico al non uno, e il non uno in quanto è diverso dall' uno, non si rassomigliano punto (2); e lo stesso si conchiude, se si considera il non uno in quant' è identico, e l' uno in quant' è diverso (3). Sotto queste considerazioni l' uno e l' altro sono dunque dissimili. E avendo dimostrato prima che l' uno, anche rispetto a sè, è identico e diverso, risulta ch' egli è simile e dissimile rispetto a sè, poichè quelle due proprietà sono contrarie, e però in quanto si paragonano quelle due proprietà si trova dissimile, ma se si considera che l' una è contraria all' altra, si trova simile a se stesso, perchè come identico è diverso dal diverso, e come diverso è diverso dall' identico: dunque ciascuna si paragona all' altra con una idea riflessa superiore che rende simili quelle due proprietà contrarie, appunto per questo che l' una e l' altra ha la forma della contrarietà alla sua opposta. Un' altra proprietà dell' uno essente, che s' inferisce dalle precedenti, si è, che l' uno tocca e non tocca se stesso, tocca e non tocca l' altre cose, ed è una ottava Antinomìa. E anche qui, come abbiamo detto d' altri vocaboli tratti dalle cose corporee, non si deve menomamente pensare che si parli d' un toccamento materiale; ma con questa parola non vuole indicare il filosofo se non la prossimità e l' aderenza d' un uno essente a se stesso e a ciò che non è uno. E dice, che sotto un aspetto e preso in un significato, l' uno essente è aderente all' uno essente, e a ciò che non è l' uno essente, il non uno, il più; e sotto un altro aspetto e in un altro significato, non è aderente. Il che, ragionando dalle cose dette deduce così. Si è veduto, che l' uno preso per tutte le parti è nell' uno preso sotto il concetto di tutto che le raccoglie. Se dunque l' uno preso nel primo senso è nell' uno preso nel secondo, l' uno dunque tocca l' uno, è aderente a se stesso; e lo stesso dicasi se per uno si prenda ciascuna parte, che, come vedemmo, deve partecipare dell' uno. Ma se l' uno in tal modo considerato è in se stesso e tocca se stesso, egli non tocca l' altre cose, appunto perchè si considera come essente in se stesso e non nell' altre cose. Ma abbiamo anche veduto che l' uno sotto l' aspetto di tutto è in altro ( «en hetero») (1): in quanto dunque l' uno è in altro o negli altri, intanto tocca gli altri, loro aderisce. Se quest' altro si deve intendere, come l' abbiamo noi inteso prima, la stessa mente divina, risulta da tutta questa dottrina che gli uni enti reali, sarebbero e toccherebbero l' uno supremo, Dio; e non viceversa. Così la specie non tocca l' ente reale; e questo spiega come le specie si dicono da Platone separate, benchè l' ente reale tocchi la specie di cui è informato e in cui è come in se stesso; e così pure Iddio non tocca la specie, ma la specie tocca Iddio, perchè essa è in lui, come in un altro, essente. Ma quando si dice l' uno e l' altro , quest' altro è relativo all' uno emanato da Dio come elemento ( «peras»), e però s' applica non solo a Dio da cui è emanato, ma anche alla materia ideale o reale ( «apeiron»). Questa, considerata recisa dall' unità ( «dyas»), non partecipa menomamente dell' uno, e però nè pure del numero; e però, fino che si considera in questo stato, non tocca l' uno, nè è da lui toccata, perchè non è ancora da lui informata: e quand' anco la materia si considerasse come uno, rimanendo quest' uno solo, e non potendosi distinguere in essa il due o altro numero definito, non ci sarebbe tatto, perchè questo non ci può essere se non tra due o più cose, tra le quali i toccamenti possibili sono tanti, quante le cose stesse, meno uno: di che apparisce di nuovo che l' uno rimane escluso dal toccamento. Dunque in questo senso nè l' uno tocca l' altre cose, nè l' altre cose toccano l' uno (1). Un' altra proprietà, e una nona Antinomìa dell' uno , conseguente alle trovate fin qui, si è, ch' egli, sotto diversi aspetti, è maggiore, minore ed uguale a se stesso e all' altre cose. La chiave di questa nona Antinomìa si è, che una proprietà può essere assoluta o relativa alla sua contraria. Ora la grandezza e la piccolezza sono proprietà relative, e non c' è una grandezza o una piccolezza assoluta, e perciò l' uno per sè è privo di grandezza e di piccolezza [...OMISSIS...] . Quindi è facile dimostrare, che l' uno e l' altro non possono essere maggiori e minori assolutamente, cioè per le loro proprie essenze [...OMISSIS...] : e in quanto manca loro una piccolezza e una grandezza assoluta, in tanto l' uno può dirsi uguale a se stesso e all' altre cose, cioè nè piccolo, nè grande, non maggiore, nè minore. Ma se si prende la grandezza e la piccolezza per qualità relative, quali sono, in tal caso si può dimandare se nell' uno e nell' altro ci sieno anche, oltre i concetti trovati fin qui, il concetto di questa relazione di grande e di piccolo, di maggiore e di minore. Ora questi concetti appunto ci si trovano. Poichè abbiamo veduto, che tutte le parti insieme sono l' uno (uno materiale), e che quest' uno è contenuto nell' uno come tutto (uno formale). Ora il contenente si concepisce come maggiore del contenuto, e quindi la forma maggiore della realità. Ma anche l' uno come tutto è in un altro (in Dio, Uno supremo) (3). In quanto dunque l' uno tutto è contenuto in quest' altro, egli è minore dell' altro. L' analisi dunque dell' uno dà, ch' egli, secondo diversi aspetti, sia maggiore e minore di se stesso e dell' altro, e sia anche uguale a se stesso ed all' altro. Veduto questo circa la relazione di quantità in generale, Platone applica la dottrina alla quantità discreta, e dice, che se l' uno è uguale, e maggiore, e minore di se stesso e dell' altre cose; dunque deve essere anche più e meno di numero, poichè l' eguale ha un egual numero di misure e di parti, e il maggiore ne ha più, il minore ne ha meno. Dal numero passa al tempo , e dimostra la decima Antinomìa speciale, che cioè l' uno: 1 è più vecchio e più giovane di se stesso, e non è nè più vecchio nè più giovane; 2 è più vecchio e più giovane dell' altre cose, e non è tale; 3 diventa più vecchio e più giovane di se stesso, e non diventa tale; 4 diventa più vecchio e più giovane dell' altre cose, e non diventa tale. Se l' uno è, come vedemmo, gli compete l' essere ( «einai»). Ma essere non è altro che partecipare dell' essenza col tempo presente (1), come pure lo stesso era ( «to en»), e lo stesso sarà ( «to estai») è partecipazione dell' essenza. Ma il tempo fluisce: dunque l' uno essente diventa sempre più vecchio di se stesso, cioè di quel che era. Ma il più vecchio è relativo al più giovane. L' uno essente dunque diventa più vecchio di se stesso, diventando più giovane. Ma l' uno ente che dal passato viene e tocca il presente, in questo momento in cui è presente non diventa già più vecchio e più giovane di se stesso, ma è già tale. Dunque non solo l' uno ente diventa più vecchio e più giovane di se stesso, ma anche è . Ma il presente sta sempre coll' uno, perchè, per quanto questi trascorra, sempre è presente. Dunque sempre e si fa ed è più vecchio e più giovane di se stesso. Ma se poi si considera, che tutto il tempo non ha una durata, nè maggiore, nè minore di quella dell' uno, si vede che l' uno non si fa, e non è, nè più vecchio, nè più giovane di se stesso, perchè ha tant' età appunto, quant' è quella di tutto il tempo, nè più, nè meno. Quest' Antinomìa ha per fondamento l' uno essente considerato nella sua identità , e nelle sue modificazioni . Poichè, in quant' è semplicemente identico, egli ha una durata unica e indivisibile, e però non gli si può applicare una misura d' età. Ma in quanto si modifica, egli identico con una modificazione è anteriore o posteriore, più vecchio o più giovane di se stesso identico, ma con un' altra modificazione. Per ciò che riguarda gli altri, avverte Platone, che qui si parla di altri in plurale, e non di altro in singolare [...OMISSIS...] : il che ben dimostra ch' egli distingueva tra «heteron» e «hetera» (benchè poi non mantenesse sempre questa proprietà di parlare); il che conferma l' opinione da noi più sopra annunziata, che egli distinguesse due altri , quello in cui era contenuto l' uno come tutto, l' idea o forma di tutte le parti, ed era Dio come altro dall' uno emanato; e quello che era contenuto da quest' ultimo, ed erano le parti insieme prese. L' altro dunque preso come le parti insieme, ossia gli altri, dice, sono più che non sia l' uno. Ora in una pluralità il minor numero è anteriore al maggiore, e l' uno è anteriore e perciò più vecchio di tutta la serie: dunque l' uno è più vecchio (almeno secondo la priorità logica) dell' altre cose. Onde conchiude: [...OMISSIS...] : dove si vede che parla dell' « uno indefinito », cioè dell' uno che ha nel suo seno la materia non ancora vestita di numeri ossia di specie, il qual pure lo considera come principio de' numeri di quest' uno uscito il primo nella formazione dell' universo (almeno secondo l' ordine logico) dal seno di Dio: [...OMISSIS...] . Ma se invece di quest' uno materiale, si considera l' uno come tutto, cioè come forma del precedente, l' uno è posteriore all' altre cose, perchè il tutto non c' è, fino che tutte l' altre cose, sino all' ultima, non ci sieno, e però l' altre cose sono anteriori e più vecchie dell' uno, e l' uno più giovane. Ma anche ciascuna parte è una: dunque l' uno nasce ed è coevo alle parti, e perciò, secondo questo aspetto [...OMISSIS...] non è nè più vecchio, nè più giovane dell' altre cose. Dopo avere per questo modo provato che l' uno è più giovane, e più vecchio, e d' uguale età dell' altre cose, passa di più a provare che egli può e non può diventare più giovane e più vecchio delle altre cose. Prova che l' altre cose non possono diventare nè più vecchie, nè più giovani dell' uno di quel che sono (2), osservando che se a cose disuguali s' aggiunge cose uguali, rimangono disuguali come prima, e però passando un egual tempo per le cose e per l' uno, la differenza aritmetica dell' età loro rimane la stessa. Ma se si considera la proporzione geometrica , quando a due tempi disuguali s' aggiugne uno spazio di tempo uguale diminuisce, la ragione nella quale sono differenti; e però pare che si diminuisca l' antichità dell' uno, e rispettivamente la gioventù dell' altro, onde quel che era più giovane comparativamente al più vecchio diventa più vecchio, e quel che era più vecchio comparativamente al più giovane diventa più giovane (1). E poichè l' uno e i molti sono reciprocamente più vecchi, ed anche più giovani, lo stesso discorso vale in entrambi i casi. Ma in quanto sono uguali d' età rimangono uguali coll' aggiungersi una ugual porzione di tempo, sia che si consideri la ragione aritmetica, ossia la ragione geometrica. Avendo dunque detto che il tempo è una proprietà dell' essenza, cioè dell' essere partecipato dall' uno, e che perciò l' uno è e diviene più vecchio e più giovane di se stesso e dell' altre cose, conchiude che l' uno, se è, cioè se ha l' essenza, è partecipe del passato, del presente e del futuro, che era, ed è, e sarà, e diventava, e diventa, e diventerà. Il che fa sì che a lui e di lui possa essere qualche cosa; e che anche questo sia stato, e sia, e sia per essere. E ciò che c' è di lui è la scienza, e l' opinione, e il senso: a lui poi è il nome e il discorso , poichè lo si nomina e se ne discorre. Dove si vede che Platone mette per condizione della scienza, e dell' opinione, e del senso, e dei nomi o segni, e del discorso, il tempo come inerente all' essere. Il che ben dimostra, onde Platone traesse la ragione, o la condizione dei predicabili e dei predicamenti, e di tutto il sapere di predicazione: questa condizione e ragione è per lui il tempo; e però un tal conoscere appartiene alle cose temporanee, e non alle sempiterne, di cui è proprio il sapere per intuizione o il sapere per sè. Poichè, se non ci fosse tempo, cioè il rapporto tra l' identità e la mutazione «( Psicol. , 1139 7 1171) », il conoscere umano non potrebbe essere discorsivo, com' egli è; e non si potrebbe predicare dell' ente cos' alcuna, o cos' alcuna attribuire all' ente; non si potrebbe dunque avere la scienza umana, che in quant' è riflessa e filosofica (la quale propriamente si chiama scienza, «episteme») esige le definizioni; e molto meno si potrebbe opinare; nè il principio sensitivo avere più sensazioni, e immutazioni; e di conseguente non ci sarebbero i nomi e la lingua. Convien dunque dire che, secondo Platone, i predicabili e i predicamenti appartengano al Mondo che ha presente, passato e futuro: all' ente in quanto, ritenendo qualche cosa d' identico, subisce successive mutazioni; e non all' ente in quant' è immutabile e sempiterno. Il che quanto sia vero apparisce dalla Teoria delle Categorie che noi daremo in appresso, dove vedremo che i generi degli enti non possono abbracciar tutto l' ente, ma nel solo ente limitato si trovano. Se noi dunque vogliamo distribuire in una tavola sinottica tutti questi elementi trovati da Platone, coll' analisi nell' uno essente, avremo la seguente distribuzione: Uno essente 1 Uno Essenza, contenente una pluralità indefinita, il grande e il piccolo. 2 Dispari Pari. 3 Parte Tutto. 4 Determinato Indeterminato. 5 In sè In altro. 6 Stante Moventesi. 7 Medesimo Diverso, rispetto a sè e rispetto all' altre cose. . Simile Dissimile, a se stesso e all' altre cose. 9 Toccante Non toccante, se stesso e l' altre cose. 10 Maggiore Minore ed Uguale, a se stesso e all' altre cose: a ) di grandezza, b ) di numero, c ) di età (tempo) (1). Tutte queste cose pertanto distinse Platone dialetticamente analizzando l' uno essente , ma vago e informativo: onde prende ora l' una condizione ora l' altra, anche opposta, secondo la materia che informa: le quali cose si possono considerare come elementi dell' ente, non elementi puramente materiali, ma elementi o costitutivi in un senso estesissimo. Ma sono essi anche generi? E se sono generi degli enti , come sono anche elementi dell' ente? Platone non dubita di chiamarli generi (1) di enti, perchè per ente intende tutto ciò che è, tutto ciò che mostra in sè d' avere una qualche potenza anche minima di patire e d' agire (2). Onde ogni atto o potenza in questo senso è considerato come ente, cioè come essente, benchè non sia un ente compiuto, che stia e si concepisca stare da sè. In questo senso dunque gli elementi sono generi di enti, noi diremmo d' entità. Si comprende dunque, secondo questa maniera di parlare degli antichi, che pigliavano «on» come participio, non solo ciò che esprime il nome sostantivo di ente , ma ciò che la mente anche per via d' astrazione considera a parte del resto, a ragion d' esempio l' accidente (enti mentali), e gli dà un nome suo proprio. Onde per provare che tali cose sono enti, cioè entità, Platone ricorre appunto ai nomi, e dice: [...OMISSIS...] . Di che deduce che tali enti o essenti hanno una comunicazione tra loro, perchè molti si predicano d' un solo; ma questa comunione [...OMISSIS...] è regolata di modo che nè tutti gli enti sono divisi l' uno dall' altro, nè tutti si comunicano alla rinfusa con tutti gli altri (due sistemi filosofici che combatte Platone), ma alcuni si congiungono ed altri no, onde è necessaria un' arte a distinguere quali sì, e quali no. Avendo dunque Platone definito l' ente dall' attività, di maniera che sia tutto ciò che ha attività anche minima [...OMISSIS...] , ne viene che sia proprio dell' ente il moto nel senso estesissimo (l' azione). Ma se fosse tutto moto non sarebbe, onde secondo qualche rispetto, deve convenirgli anche la quiete . Quindi due generi di enti, che si affanno e congiungono all' ente preso secondo il puro concetto di ente, il moto e la quiete. Ma il moto esclude la quiete: dunque questi due generi non comunicano insieme. Se non comunicano, l' uno è identico a se stesso e diverso dall' altro; e se convengono entrambi all' ente, dunque gli conviene anche l' identità e l' alterità, due altri generi. Qui dunque si distinguono cinque generi: l' ente, il moto, la quiete, l' identità e l' alterità, i quali da Plotino (2) e da altri Platonici (3) sono considerati come le cinque Categorie di Platone. Queste però non sono che la sesta e la settima coppia di quelle che enumera nel « Parmenide » (4), quantunque da queste, se rettamente si considera, si possono dedurre tutte le altre: chè già si vede che il moto, cioè l' azione, è necessario di porsi a principio se dall' ente uno si vuol dedurre, coll' operazione della mente, i suoi elementi, giacchè questo stesso d' aver la potenza di distinguersi colla mente dall' ente si concepisce come una cotale loro attività o movimento. Così si moltiplica l' essenza e ne viene il numero, da cui tutto il resto. Platone dunque, distinti nel « Sofista » questi che chiama cinque generi, prova che non possono unirsi a caso tutti con tutti; chè i contraddittorŒ, come il moto e la quiete, l' identità e la diversità, ricusano ogni congiunzione. Ma è ugualmente erroneo il dire che ciascuno si rimanga interamente separato dagli altri; poichè, separato l' ente dagli altri quattro, questi non sono più, e non rimane nè pur il concetto di ente che suppone un' attività e una stabilità, cioè d' esser unito col moto e colla quiete. Oltre di ciò, dice, continuando a confutare questi secondi (i Megarici), che non potrebbe più esserci discorso se non si potesse predicare una cosa d' un' altra; onde, essendo obbligato a far ciò gli avversarŒ, se pur vogliono parlare « « hanno in casa il nemico e l' avversario che dentro si fa sentire » », cioè si contraddicono col pure aprir bocca e pronunciare un giudizio (1). Dove si vede l' origine del concetto di categoria suggerito naturalmente dalla questione de' generi degli enti. Poichè, considerandosi per enti gli elementi che li costituiscono, come fa Platone, e questi riducendosi a generi, conveniva dimandare, se e come questi generi s' uniscano tra di loro: il che era quanto un chiedere « come si possano predicare gli uni degli altri ». Si vede ancora come sull' ali della dialettica egli ascendeva alle dottrine ontologiche (1), nè altre ne può aver l' uomo, se alquanto s' estende il significato di dialettica. Dimostrato dunque con somma sagacità ed evidenza che i cinque concetti sono tutti distinti e l' uno non è l' altro, prova pure che i contraddittorii non hanno comunione insieme, e che però non si possono congiungere il moto e la quiete, l' altro e l' identico; ma che si congiungono quelli che non si contraddicono, onde il moto e la quiete ciascuno partecipa dell' identico e del diverso e tutti quattro partecipano dell' ente, chè altramente non sarebbero nè si potrebbero concepire, e l' ente partecipa di tutti quattro. Poichè distingue tra ciò che è ciascuno, e ciò di cui partecipa: niuno può congiungersi col contrario a ciò che egli è, ma rimanendo ciò che è, può partecipare di ciò che non è lui. Quindi deduce il concetto del non ente: poichè, avendo mostrato che l' ente è un concetto diverso dagli altri quattro del moto, della quiete, dell' identico e del diverso, consegue che questi sieno non ente , cioè entità diverse dall' ente (2). Ma poichè queste quattro cose sono (3), e che se non fossero, non si potrebbero concepire, perciò anche del non ente si predica l' ente. Di che conchiude che [...OMISSIS...] : perchè queste specie che si possano attribuire all' ente, benchè si possano ridurre ad alcuni generi massimi, pure sono innumerevoli. Ma poichè il concetto dell' ente è diverso dagli altri, consegue che quante sono queste cose, altrettante l' ente non sia. E poichè ciascuna dell' altre cose è non ente, l' ente stesso è uno [...OMISSIS...] , e non è l' altre cose numero infinito [...OMISSIS...] . Infatti, spogliato l' ente di tutto ciò che di lui si predica, non rimane più nè attività, nè quiete nel termine dell' atto, nè si può paragonare con se stesso e dirsi identico, nè paragonare co' suoi predicati e dirsi diverso, e però l' unico concetto che rimane è quello dell' uno. E questo concetto dell' uno è quello che prese ad analizzare nel « Parmenide », dimostrando prima che se si lascia così scarno e solitario, non potendosi di lui predicare nè pure l' esistenza, non può stare, non è al tutto (che è la prima delle due fondamentali ipotesi intorno a cui s' aggira la dialettica nel « Parmenide »): se poi si predica di lui l' esistenza (seconda ipotesi) già si considera in relazione con un altro, che è da lui informato o unificato, e che non si concepisce senz' essere unificato, cioè senza che di lui stesso si predichi l' uno, di maniera che l' uno e l' esistenza sono predicati reciproci. Ma, posto ciò, s' ha già l' uno informativo dell' altro; e data questa prima universalissima dualità d' elementi, cercando tutte le passioni che può subire quest' uno informativo senza cessar d' esser tale, se ne traggono tutti que' generi che furono enumerati nel « Parmenide », da' quali innumerevoli altre specie. La dottrina dunque dell' uno e più , ne' due dialoghi del Parmenide e del Sofista, è la medesima. Ma, mentre in quello introducendo a parlare Parmenide stesso vuol dimostrare che dagli stessi principii conceduti dall' Eleate, a filo di logica, si può cavare, contro di lui, che l' uno e l' ente non è il medesimo, e che da questa prima dualità d' elementi procede una pluralità senza limite; nel « Sofista » dichiara espressamente di confutare l' errore di Parmenide, il quale, avendo posto esclusivamente il pensiero alla natura dell' ente e consideratolo come identico all' uno, non badò alla pluralità, innegabile anch' essa perchè contenuta nel seno dell' ente uno. E il primo passo è appunto questo, di dimostrare, che l' uno e l' ente sono due concetti diversi, benchè indissolubilmente legati insieme. Se sono due, l' uno non è l' altro reciprocamente. Se l' uno non è l ente, dunque l' ente è non uno, materia. Se l' uno non è l' ente, dunque l' uno è non ente come forma. Ma, quantunque il fondo della dottrina e l' argomentazione dialettica sia la medesima ne' due dialoghi, tuttavia in questo differiscono: che nel « Parmenide », come conveniva al principale interlocutore, comincia dall' uno puro e ne presenta le passioni; nel « Sofista » comincia dall' ente informato dall' uno (1), e dice che, se si spoglia l' ente di tutti i suoi predicati, rimane il puro uno , quello della prima ipotesi del Parmenide; se poi si considera co' suoi predicati, se ne trovano prima quattro massimi che sono l' attività, la quiete, l' identità, e la diversità. Ciascuno de' quali dà un concetto diverso dall' ente uno, onde sono non ente. Il non ente dunque del Parmenide e quello del Sofista, benchè ricevano la stessa definizione generica, cioè « ciò che non è ente », cangia alquanto di specie: perchè nel « Parmenide » talora il non ente è « tutto ciò che non è ente »anche l' uno; quando nel « Sofista » il non ente è « ciò che non è ente uno », come sono i quattro « predicati massimi, ne' quali non c' entra il predicato dell' uno, perchè rimane unito all' ente contrapposto a que' predicati »(1). Dimostra dunque nel « Sofista » contro « Parmenide » che l' ente uno non esclude la pluralità, cioè l' altro , ossia il non ente. Poichè, dice l' Ospite d' Elea, che ci tiene le prime parti [...OMISSIS...] . E dopo avere illustrata questa tesi con esempi, mostrando che ciò che si dice « non bello », « non grande », « non giusto », non è già nulla, ma bensì tutto quello che è diverso dal bello, dal grande, dal giusto; e così parimente il « non ente », non è nulla, ma tutto ciò che non è il concetto stesso dell' ente: e però che anche il non ente, è in qualche modo, ed è l' essenza dello stesso ente [...OMISSIS...] , ed ha una sua ferma natura [...OMISSIS...] ; dopo tutto ciò, dico, l' Ospite d' Elea soggiunge: [...OMISSIS...] . E Teeteto mostra di non essersene accorto, perchè s' era partito dall' ente uno di Parmenide, e per illazioni d' una logica irrepugnabile s' era pervenuto al non ente, negato da Parmenide, di cui l' Ospite Eleate reca i versi. Quello adunque che aggiunse Platone alla filosofia d' Elea è il non ente e le specie del non ente, come dichiara in appresso (1). Laonde un uno qualunque si può predicare che è, e si può predicare dell' altre cose. In quanto si predica che è, dicesi ente: e quest' è l' ente del Sofista, che risponde alla sostanza o al supposito d' Aristotele. Ma l' altre cose che si predicano di quest' uno ente, paragonate all' ente che s' è già predicato, è non ente, e questo non ente del Sofista risponde all' altre nove categorie aristoteliche che si dicono abbracciare gli accidenti (2). Dalla dialettica dunque, cioè dal considerare come nell' umano discorso si predicano alcune idee di altre, ma non tutte di tutte, e alcune si negano di alcune altre, pervenne Platone a stabilire che il concetto dell' ente, quantunque non potesse sussistere da se solo ma avea bisogno d' altri concetti che lo determinassero, tuttavia si distingueva colla mente dagli altri concetti, e questi non erano lui, onde si potevano dire non enti, in opposizione al concetto puro dell' ente; poichè il dire che sono altri concetti diversi da quello dell' ente, e il dire che sono non enti, è il medesimo. E a quell' analisi Platone pervenne spinto dal bisogno di confutare i sofisti (onde da essi intitolò il dialogo), i quali argomentavano: « Il non ente è nulla e però non si può esprimere con alcuna locuzione: dunque tuttociò che si dice è: si dice sempre il vero, e qualunque discorso si faccia intorno a qualunque cosa non può esser mai falso ». Fu dunque obbligato Platone a investigare la natura del non ente, e mostrare che non era nulla, e si potea pronunciare, e distinguere dall' ente. Ogni qualvolta dunque il discorso dice ente a quello che è, non ente , o viceversa, è fallace e mentitore. Così la sofistica fu recisa fino dalla sua più profonda radice. Ma noi dicevamo che questa investigazione dialettica condusse Platone all' Ontologia, e aggiungiamo ora in più modi. Primo perchè l' Ontologia trattando dell' essere in tutta la sua ampiezza, conviene che lo consideri anche nelle sue relazioni colla mente; ed essendo noi uomini quegli che speculiamo intorno agli enti, anche colla nostra mente umana. Secondo, perchè le idee, essendo sole quelle che somministrano il concetto dell' immutabilità e della eternità dell' essere, sono il fonte della dottrina intorno alla natura di questo: onde avviene che, conosciuta questa stabilità e necessità che nell' essere ideale si riconosce, anche la dialettica, ossia il ragionamento che vi ci ha condotti, trova nell' essere stesso per sè considerato la sua fermezza e immobile consistenza: il che non manca mai di far notare Platone, come là dove, distinto il mondo intelligibile dal reale che lo realizza quasi sua materia, deduce da quello il ragionamento necessario e apodittico, e da questo l' opinione , ossia l' elemento mutabile e materiale del ragionamento medesimo (1); [...OMISSIS...] : come sta l' essere ideale al reale, così sta il discorso assolutamente vero, che si fonda su quella, al discorso opinativo o verisimile, esprimente la persuasione che s' acquista colle percezioni sensibili di questo. In terzo luogo, già vedemmo che l' analisi dialettica dell' uno conduce al concetto di tutto, sia reale sia ideale; e questo alla mente divina, in cui solo può consistere simultaneamente in quella grande unità che gli è necessaria. In quarto luogo finalmente osservammo, che, se in vece di prendere a subietto del lavoro dialettico l' uno segregato da tutto il resto o l' uno informativo di tutto il resto, si prende l' uno anteriore a tutti gli altri contenente tutto da cui tutti gli altri uni procedono, altro non si fa colla dialettica stessa che considerare quello che a Dio convenga e che non gli convenga. Onde, trapassata la stessa Ontologia, siamo pervenuti alla Teosofia. Al che appunto s' appresero i neoplatonici (1). Plotino, che per acutezza e originalità va ad essi anteposto, considera i cinque generi, enumerati da Platone nel « Sofista » e altrove (2), come i sommi; e vuole che siano ad un tempo elementi e generi del mondo intelligibile (1), ma sotto un diverso aspetto: elementi dell' ente, in quanto si trovano e distinguono dall' intelligenza in ogni ente; generi , in quanto si considerano, ognuno da sè, come aventi delle specie subordinate. Il che per intendere come sia, dobbiamo prendere il discorso più da lungi, ed esporre come Plotino escluda, dal novero de' sommi generi, tutti quelli che Aristotele ed altri posero come tali. Egli dunque domanda in prima, se l' uno forse non si potesse computare tra' sommi generi: e lo esclude, percorrendo i suoi significati (2). Il primo significato da Plotino indicato è quello dell' uno puro [...OMISSIS...] , a cui nulla s' aggiunga, nè anima, nè intelletto, nè altro (e quest' è l' uno della prima ipotesi del Parmenide): esso non può esser predicato di nulla, e però non è una qualità generica, un genere. Il secondo significato è l' uno aderente all' ente, «to hen on», l' uno della seconda ipotesi del Parmenide. Ora questo già non è più lo stesso uno logicamente primo [...OMISSIS...] . Di poi l' uno, sia aderente all' ente o no, se si considera nel suo concetto di uno, non può esser genere, perchè il genere riceve in sè differenze, e con esse produce le specie nelle quali egli rimane, perchè rimane nelle specie la qualità generica; all' incontro se l' uno ammettesse differenze, si distruggerebbe, perchè, cessando d' esser uno, diverrebbe molti. I contraddittorii , come dimostrò Platone nel « Sofista », non si possono unire, ma solo i diversi . Ora al puro uno, il due e qualunque pluralità è contraddittoria (3). Il terzo significato dell' uno è che valga il medesimo che ente , nel qual caso, poichè si considera l' ente tra i cinque generi, così anche l' uno. Ma, risponde Plotino, che con ciò non s' avrebbe aggiunto all' ente che un nome di più, e non sarebbe mai l' uno primo e puro, l' uno come semplicemente uno, o l' uno distinto dall' ente coll' intelligenza. Ma non si potrebbe considerare come primo uno quello coll' ente, come ente dicesi da prima quello che è congiunto coll' uno, benchè ci sia un concetto anteriore, quello dell' uno? - Ciò che è superiore all' ente, risponde, non è a dirsi ente; laddove quell' uno che è anteriore all' uno ente, non può dirsi che uno. Onde questo è da prima uno. - Nella quale risposta si vede, che la parola ente è presa nel significato, in cui si prende nel « Sofista », dove si considera l' ente come un genere opposto all' altro genere del non ente (che abbraccia nel suo seno i quattro generi minori), cioè è presa come l' ente diviso colla mente dai suoi termini e dalle sue attribuzioni, e ritenuto il solo preciso concetto d' essente. Poichè, in questo significato di «usia» indefinita qual materia ideale, si può benissimo concepire che ei abbia un concetto anteriore, in via d' astrazione, all' ente, qual è quello dell' uno, appunto perchè concetto più astratto «( Ideol. , 575 7 5.1) » e formale dell' essente o dell' esistenza. Ma l' essere, come atto e non come materia , è anteriore a tutto, ed è forma d' ogni concetto dell' uno stesso: il che non considerarono bastevolmente i Platonici. Stabilisce di poi Plotino il principio, che « « non tutto quello che è comune in molti è genere » » [...OMISSIS...] , ma può esser principio o elemento e non genere; ma solo quello è genere che riceve in sè differenze e ha specie, e si predica delle specie come loro quiddità comune. [...OMISSIS...] L' uno dunque non si predica come quiddità d' alcuna specie, benchè inesista in ciascuna specie e in ciascun individuo, e non produce di sè nè ammette in sè le loro differenze. Un' altra proprietà del genere si è che egli sia ugualmente in tutte le specie. L' uno all' incontro, che s' attribuisce a tutte le cose, non è ugualmente in esse, ma più e meno: dunque non ha la proprietà de' generi. Vero è, che anche l' ente è più e meno, ma l' uno è partecipato variamente anche da quelle cose che sono ente ugualmente (2). Così l' esercito e la casa sono enti ugualmente, dice Plotino, e pure questa ha più unità di quello. Osserva poi, che « « ogni cosa non ha sola la tendenza ad essere, ma ad essere col bene » », ed è tanto più col bene, quanto più ha d' unità: e questo non meno nella natura che nell' arte. Onde conchiude che, tendendo tutte le cose all' uno e a imitare quello che è il medesimo [...OMISSIS...] , tendono al bene, è che l' uno è il bene (3). Cominciando dunque tutte le cose dall' uno, e in esso tendendo come in loro bene (4), l' uno è principio e fine de' generi, ma niuno di essi. Del rimanente qui e da per tutto Plotino confonde manifestamente l' uno, che è un carattere astratto del bene, col bene stesso: e non s' accorge che l' uno puro, senz' esser altro che uno, lungi d' essere il sommo bene è un vòto concetto; come accadde a' moderni, i quali spogliato il pensare d' ogni suo oggetto, credettero d' aver trovato il sommo pensiero «( Ideol. p. 1426 7 2.) ». Nondimeno nell' aver Plotino escluso il bene da' sommi generi, travide una verità. Poichè veramente il bene appartiene alla terza delle supreme forme dell' essere, come vedremo, ed eccede tutti i generi. Escluso dunque l' uno e il bene da' sommi generi, Plotino toglie a dimostrare che nè pure la quantità , la qualità e la relazione si devono computare tra essi. Non la quantità, perchè la prima quantità è il numero , venendo da questo tutte l' altre, e il numero è posteriore logicamente a' cinque generi. Poichè il moto, lo stato, l' identità e la diversità, sono insieme coll' ente come suoi elementi intrinseci, non come accidenti che a lui sopravvengono e lo qualifichino, o lo compiano; ma l' ente non è senza essi, costituendo essi l' ordine intrinseco di lui [...OMISSIS...] . Poichè il moto è lo stesso atto dell' ente, e lo stato non è già una sua passione, e l' essere identico e diverso non sono proprietà posteriori all' ente, perchè l' ente non divenne molti, ma era molti pur coll' esser ente, ond' avea identità e diversità. All' incontro il numero, e ogn' altra quantità che dal numero deriva, e la qualità e la relazione non entrano a costituir l' ente, ma sono posteriori e accidentali al medesimo. Nel che sembra esserci una contraddizione, perchè, se l' uno ente è per sè molti, come non ci sarà il numero? Laonde Platone nella stessa essenza ( «to on») pone latente un numero indefinito. Ma Plotino considera il numero attuale in tutta la sua estensione, onde dice che [...OMISSIS...] . Fa dunque derivare il numero dal moto , come l' unità numerica dallo stato dell' ente; e ne ripone l' essenza in una certa mistione di moto e di stato [...OMISSIS...] . Il che però ci sembra implicato di molti equivoci. Poichè se l' ente è un primo genere; il moto, ossia l' atto, il secondo; lo stato il terzo; l' identità e la diversità il quarto e il quinto: se qui non ci sono tutti i numeri, c' è però fino al numero cinque; e così ci sono abbondantemente gli elementi di tutti gli altri numeri, come anco dimostra Platone nel « Parmenide ». Deve dunque intendersi, ciò che Plotino dice della posteriorità del numero, della proprietà che ha il numero d' accrescersi sempre alla nostra ragione successiva e computatrice; e non d' un numero speciale che è inerente ai sommi generi ed elementi dell' ente. Di poi esclude da' sommi generi la relazione , perchè è posteriore ai termini tra cui passa la relazione: e così pure il dove che importa composizione d' una cosa in un' altra; mentre, dic' egli, [...OMISSIS...] : e perciò esclude il luogo, e il tempo. Il fare poi e il patire sono specie di moto , e così l' avere e l' atteggiarsi inchiudono una duplicità o triplicità, e però non sono primi generi. Ma sarebbe difficile il dire come l' alterità non involga una relazione, se non si restringa il significato di relazione (5). Esclude da' sommi generi di poi la bellezza, distinguendo quattro significati. Poichè, o s' intende la prima bellezza [...OMISSIS...] , e in tal caso è lo stesso uno e lo stesso bene. O s' intende quel bello che rifulge nelle idee, e questo, non essendo in tutte uguale, non può costituire un genere, oltrecchè è posteriore all' ente. O per bello s' intende la stessa essenza , e in tal caso è già computato in questa che è il primo genere (l' ente). O s' intende il bello che affetta noi che lo contempliamo, e in tal caso è movimento e in questo genere contenuto. Riduce pure la scienza al genere del moto; e dice potersi ella ridurre anche a quello dello stato , o ad entrambi: nel qual caso, essendo un misto di due generi, è posteriore. Esclude ancora la mente ( «nus») da' generi, come quella che è lo stesso ente da tutti i generi composta [...OMISSIS...] . E qui si vede come Plotino vuole, che i cinque generi del mondo intelligibile sieno elementi. Sono, dice, elementi della mente, e d' ogni mente [...OMISSIS...] , poichè questa è l' ente intelligente che unisce in sè gli altri quattro generi [...OMISSIS...] . Ma come da questi sommi generi provengono le specie? le specie, dico, dell' ente, del moto, dello stato dell' identità e della diversità? Plotino si sforza di rispondere a questo nel modo seguente. Primieramente, dice, come la scienza è una, e tuttavia ci sono molte scienze, che sono specie e parti di quella; così v' è una mente di cui l' altre sono specie e parti. La scienza una ha in potenza tutte le altre, ed è in potenza tutte le altre [...OMISSIS...] . Così, se facciamo astrazione da tutti gli oggetti speciali della mente, noi avvisiamo al concetto di una mente generica (1), che non ha niun oggetto speciale, ma che gli ha tutti potenzialmente. E` il pensare come pensare del Bardili «( Ideol. 1420 e nota) ». Questa mente non è nessuna mente particolare [...OMISSIS...] . Ma, come le scienze particolari sono qualche cosa in atto proprio della scienza una ed universale, e questa oltrediciò è tutta in potenza; così l' altre menti, che hanno oggetti generici o speciali, sono altrettanti atti della mente una in potenza; poichè, quando questa esce a' suoi atti, diviene quelle senza cessare d' essere ciò che era prima. L' ente dunque è la mente: e, avendo egli il movimento che è il secondo genere, mediante questo produce le specie. Fino dunque che l' ente mente è in potenza, è mente universale, superiore alle menti speciali che si generano per l' atto di quella. [...OMISSIS...] . Esister dunque in sè la gran mente [...OMISSIS...] , ed esistere in sè le singole menti; ma aver queste un' intima congiunzione e derivazione da quella, che le produce col passare a' suoi atti, cioè determinando i suoi oggetti per la virtù che ha insita del movimento. Quindi quella è la causa di queste. Le difficoltà di questo sistema sono manifestamente due: 1 Che quella che si chiama la gran mente e si fa causa dell' altre, essendo generica e in potenza, è più imperfetta d' una mente, che, poste l' altre cose uguali [...OMISSIS...] , fosse in atto; 2 Che non è spiegato come le menti inferiori possano avere un' esistenza a sè, se nascono col solo determinarsi quell' oggetto universale che si dà alla gran mente, dove si suppongono tutte le specie solo virtualmente comprese (1). Viene agli altri generi. Posto che la mente, la quale contiene tutto in potenza, ha il movimento consistente nell' atto del contemplare, ella può passare a tutti gli atti mentali possibili, e così infinite forze si spiegano all' occhio di questa mente: quindi il numero, la stessa infinità e la stessa grandezza [...OMISSIS...] . Questo movimento, che non è il primo essenziale ed elementare all' ente, ma una continuazione posteriore, manifesta già il quale e il quanto come determinazioni che s' aggiungono. Ora in tutti questi atti c' è la quiete e il moto , che così si specificano; ed essendovi il numero e il quanto, ed il quale altresì, c' è di necessità ancora l' identità e la diversità specificata. Dal concorrere in uno poi il quanto e il quale, Plotino fa venire la figura (1), e coll' intervento della diversità , che divide in più il quanto e il quale, le differenti figure e l' altre qualità tutte logicamente posteriori. La mente dunque è l' ente (primo genere) che ha unito a sè gli altri quattro e che abbraccia colla contemplazione tutti gl' intelligibili, tutte le idee, che ne' quattro generi si riducono. Questa è la prima e assoluta mente. Ma osserva Plotino che la mente umana discorre e scopre una cosa dall' altra: quest' è dunque una seconda mente, diversa da quella prima che con un' azione permanente, e senza discorso, ogni cosa abbraccia. Ora è evidente, che « « a quel modo che un acerrimo intendimento ottimamente argomenta, a quel modo appunto sono tutte le cose nelle ragioni antecedenti ad ogni argomentazione »(2) », poichè se così non fossero, non sarebbero vere le cose argomentate. Non si può dunque argomentare, cioè da una verità discoprirne un' altra, se queste verità tutte già non fossero ab eterno prima dell' argomentazione. Di che deduce che la mente umana o la mente ragionante presuppone dinanzi a sè una prima mente, la quale, non discorrendo o argomentando, ha semplicemente tutte le cose presenti, e che da questa la mente deve derivare (3). Ma come proviene questa seconda mente dalla prima? Ecco il gran nodo, il mistero della creazione. Plotino cerca di penetrarlo in questo modo. In quanto la mente, l' ente coi generi, non ha ancora che il primo atto, l' oggetto del quale sono i generi; in tanto è la prima mente (1). Ma in quanto la sua azione, continua e permanente, passa ai generi inferiori e di mano in mano alle specie; quel primo atto si moltiplica, specifica, determina, e dall' esistere nel tutto passa ad esistere nelle parti. Esistere nelle parti forma un altro modo di esistere diverso da quello che consiste nell' esistere nel tutto: e così la mente esistente nelle parti non è più la mente esistente nel tutto, ma è un' altra mente, le menti seconde. Tutte queste menti seconde però sono nella prima: ma, in quanto sono nella prima, concorrono a formarla, in quanto che in essa non avendo l' esistenza propria e separata sono tutte insieme la prima (2). Ma, in quanto sono parti, e come tali aventi un' esistenza propria, non sono la prima, ma altre da quella. Così il primo ente è uno e molti: e allo stesso modo ciascuno dei secondi enti e delle seconde menti (chè sono tra i molti dell' uno primo) è uno e molti. Ma conviene dichiarare in che modo. La prima mente produce le altre coll' azione colla quale determina i generi sommi ad essa essenziali in generi minori e in ispecie. Quella stessa successione dunque, che hanno dialetticamente i generi massimi fino alle ultime più ristrette specie, si vuole che esprima la successiva produzione de' diversi ordini di intelligenze. Questo stesso è il principio da cui si trassero le genealogie degli Eoni de' Gnostici, che sforniti d' ogni vigoroso raziocinio e impostori di professione, ad arbitrio d' una sregolata imaginazione, empirono la filosofia di tanti sogni d' empietà e corruttele. Il qual delirio non potea piacere al forte ingegno del filosofo Licopolitano, che confutò co' suoi scritti alcuni dei loro errori (1). Ma il principio del suo sistema è somigliante: diversa solo la derivazione degli enti dal primo. Poichè, come abbiamo veduto, sopra tutti i generi pone l' uno ( «to hen, to proton»), intorno al quale cade spesso nell' illusione dialettica de' razionalisti, a' quali, osservando essi che aggiungendo all' uno qualche cosa per via di predicazione lo limitano (1), sembra d' aver trovato il sommo, quando coll' astrazione sono giunti a concepire nudamente l' uno; quasi che questa stessa parola potesse indicar altro che il puro vuoto de' concetti, una pura forma mentale senza contenuto. Ma si contraddicono immediatamente appresso, chiamandolo appunto il primo , il sommo , il bene ( «to agathon»), come fa appunto Plotino, quasi che questo non fosse un predicare qualche cosa di quell' Uno, che pure doveva essere puro uno di cui nulla si predicasse (2). Da quest' Uno vien prima la Mente universale; da questa l' Anima universale; da questa le anime speciali; da queste la Natura (il principio animale); da questa la vita che si svolge, o il generato; e prima il Tempo, la Moltitudine, il Luogo ( «o topos»); e infine la Materia, male e caligine. Ma, come dall' Uno viene la Mente universale? Esso non ha nessun' azione, secondo Plotino, il qual teme che dandogli qualche azione già svanirebbe il concetto del puro uno ( «to haplos en») (3), e vi s' introdurrebbe un altro. Quest' uno non può dunque nè fare (4), nè pensare, nè essere (5), chè avrebbe i generi distinti in sè stesso: e il levargli anche l' essere e concepirlo superiore all' essere, è il punto più alto della speculazione (6). Come dunque riesce la mente universale? Plotino risponde per una certa esuberanza , o ridondanza (1), o profluenza [...OMISSIS...] , come il fiume dalla fonte (2), o come la vita, che si espande dal suo principio e quasi dalla radice ai rami d' un grand' albero [...OMISSIS...] , o come un fulgore, una corruscazione [...OMISSIS...] , da per tutto diffusa: similitudini o analogie del tutto insufficienti a dimostrare, come nell' uno non ci sia nè essere, nè azione, e tuttavia produca, e produca cosa che non ha identità con lui. Il fondo del pensiero plotiniano, a cui si riduce pur quello de' neoplatonici, è questo: In ciò che è assolutamente primo, non ci possono essere differenze di sorta, perchè, se ci fossero differenze, quale di esse sarebbe la prima? O questa ci sarebbe, o niuna sarebbe logicamente antecedente all' altra, ma tutte pari. Se una fosse la prima, questa solo sarebbe l' assolutamente primo; se fossero tutte pari, niuna sarebbe la prima: ma nè pure tutte insieme costituirebbero un primo, perchè la moltiplicità è posteriore logicamente all' unità. Ma l' ente e l' essere (chè questi due si prendono spesso da Plotino come sinonimi), l' azione, la quiete, e gli altri generi, costituiscono altrettante differenze tra loro. L' assolutamente primo dunque dee essere anteriore a queste cose, superiore al bello ( «hyperkalon») e a tutte l' altre cose ottime ( «hyper ton ariston»). Ciò che vi ha d' erroneo in questo ragionamento è la sua base male scelta. Poichè questa base è il principio: « la moltiplicità è posteriore logicamente all' unità »; principio vero in sè, ma male scelto, come dicevamo, per farlo servire a base d' una ontologia. Poichè l' ordine logico è un ordine parziale e formale, che non abbraccia tutto l' ordine dell' essere. Laonde si sarebbe dovuto provare che ciò che logicamente è anteriore, fosse anteriore anche nel fatto. Ma questo si suppone senza provarlo. Giace dunque il sistema sopra una base ipotetica, e però in aria. Le contraddizioni, in cui cade Plotino e tutto il neoplatonismo, ben dimostrano che la ragione protestava in essi contro il loro sistema. A ragion d' esempio Plotino non può concepir l' ente , senza concepirlo uno e molti [...OMISSIS...] , di maniera che l' unità e la moltiplicità è contemporanea all' ente. Questo lo conduce a dire, che l' uno non è ente, perchè non ha moltiplicità alcuna, ma è superiore all' ente: poi quando parla dell' ente, mostra di dubitarne, sentendo la necessità di definire che cosa intenda per ente [...OMISSIS...] , e di qual ente parli [...OMISSIS...] , mostrando così che l' ente può prendersi in un' estensione maggiore, dalla quale non si può sottrarre nè pure l' uno, se dev' essere qualche cosa. Ora questo scambio, di ciò che è logico per ciò che è ontologico, vizia tutto il sistema di Plotino e di tutti i neoplatonici. L' egizio nostro filosofo, secondo questa maniera di ragionare è obbligato di fare, che la prima mente, la quale esce dal primo uno come un suo splendore, altro non sia che l' ente coll' unione degli altri quattro generi, e di negare che in esso cadano altre differenze che queste cinque. Poichè introducendosi delle differenze in ciascun genere, di modo che se n' abbiano generi minori e specie, già non è più quel desso ma un altro. Per quanto sia sbagliata questa maniera di ragionare dall' ente logico all' ente subiettivo, essa però non ci obbliga di dare a Plotino la taccia di Panteista. Poichè egli viene a distinguere le diverse generazioni di cose con questo ragionamento: Iddio è quell' uno in cui non cadono differenze; Quando dunque nascono in lui per la sua continua attività i generi, questi non sono lui, perchè non ammettono la sua definizione. Del pari: La prima Mente non è che l' ente contemplante i cinque generi, senza che in ciascun genere cadano differenze; Ma tostochè essa mente per la sua attività quasi lampeggia in ciascun genere differenze, di maniera che quei generi si rompono in generi minori e in ispecie, la mente che contempla questi generi minori e queste specie non è più quella di prima, ma un' altra attività che alla prima si continua. Questa seconda mente non è la prima, ma un' altra, perchè a questa non compete la definizione e però nè manco la natura espressa nella definizione della prima. Laonde, non uscendo nulla dal primo Uno, nè dalla prima Mente, senza che ciò che esce tosto non perda l' identità col fonte da cui è uscito (1); procede che ci intervenga una specie di creazione, e che la prima Mente sia essenzialmente diversa dall' Uno primo, e che la seconda Mente, o Anima universale, sia essenzialmente diversa dalla prima Mente. E lo stesso si può argomentare circa le altre emanazioni. Non crediamo dunque che si possa accusare il sistema Plotiniano di Panteismo (2); ma egli è chiaro che non evita questa colpa, senza incorrere in altre non meno gravi. Poichè primieramente le definizioni del primo Uno e della prima Mente, ecc., sono arbitrarie e insufficienti a esprimere la natura divina e l' altre che si vogliono definire. In secondo luogo il Dio di Plotino, detto ugualmente l' Uno, il Primo, il Bene, è un Dio imperfetto, e non si può descriverlo perfetto se non con un sofisma. Il sofisma è questo: « « L' Uno non appetisce nulla, non conosce nulla: dunque è sufficiente a sè stesso: non gli manca cosa alcuna. All' incontro l' altre cose, la Mente, l' Anima ecc., appetiscono l' Uno, cioè il Bene: e però per sè sono deficienti e non sono prime »(1) ». Il vizio della quale argomentazione sta nel doppio concetto che può avere la frase « esser sufficiente a sè stesso »: perchè questa può intendersi d' una sufficienza reale e piena, e in tal caso non è sufficiente a sè stesso se non quello che è tutto sentimento, tutto intelligenza, tutto essere; e può intendersi d' una sufficienza dialettica e vuota di tutto, in quanto un concetto semplicissimo, privo d' ogni attribuzione, come quello del puro uno, non s' intende come possa aver bisogno d' altro, essendosi recise da lui colla mente tutte le relazioni e congiunzioni con ogni altro concetto (2). Per questa stessa ragione il Dio di Plotino è ridotto ad una vanissima ed astrattissima potenzialità: e però egli, negandogli tutto, lo chiama appunto « la potenza di tutte le cose » [...OMISSIS...] , e l' « indefinito » «aoriston» (2), e non senza contraddirsi vuole che unità così vuota sia causa di tutte le cause (3). In terzo luogo la Mente, che è il secondo principio che viene immediatamente dall' Uno, e che è la causa che fa tutte le cose, il Demiurgo del Timeo (4), è anch' essa potenziale e imperfetta, perchè è l' ente co' quattro generi (5), senza alcun altra distinzione, onde non può contenersi in essa che una cognizione generica, per ciò stesso imperfetta. Ma come fa tutte le cose la Mente? Allo stesso modo come l' Uno fa la Mente. Quando la mente è perfetta, cioè pienamente costituita da' cinque generi [...OMISSIS...] , ella continua a contemplare, e contemplando divide i sommi generi in generi minori e in ispecie. Ora questa virtù cogitativa, che procede alla divisione de' generi primi, non è più la mente; perchè la mente, secondo la definizione, è la virtù contemplatrice de' soli generi: dunque è un altro: quest' altro è l' Anima; l' anima universale, i cui oggetti sono tutti i generi minori e le specie distinte (6). E fin qui, dice Plotino, vanno le cose divine (1): a questi tre principii Uno, Mente ed Anima si riducono: perchè l' Anima è costituita dalle specie, onde al pari della mente la chiama specie (2), quando continuando ad operare ed andando quindi colla sua azione fuori di sè, fuori da quello che la costituisce secondo la definizione; esaurite tutte le idee che sono per sè sempiterne: fa che sussista un altro diverso da sè e dalle idee: quest' altro non può esser più idea, ma la stessa realità del mondo mutabile e al rivolgersi del tempo subordinato: perciò non divino. Si deve osservare che l' operante in tutta questa derivazione è sempre l' Uno: il primo atto del quale lo costituisce; il secondo, eccedendo la sua costituzione e natura, non è più lui ma la Mente; il terzo, cioè quello che esce dalla Mente già costituita, non potendo esser la Mente perchè eccede dalla sua costituzione, è l' Anima; il quarto che esce dall' Anima già costituita, eccedendo dalla natura dell' Anima, non è più cosa che appartenga al mondo ideale, ma è il Mondo reale. Quindi tutte queste cose nel sistema di Plotino sono intimamente connesse e congiunte fisicamente come una continuazione di moto , cioè d' azione. Onde parlando della Mente dice che [...OMISSIS...] , quasi dica, che basta il trovarvi che fa il nostro pensiero una diversità qualunque perchè in quest' ordine di cose si debba considerare come un' altra sostanza o ipostasi. E lo stesso dice dell' Anima rispetto alla Mente (2). Il qual pensiero non si può negare che sia acutissimo, perchè trattandosi di nature pure e semplicissime, che non ammettono nulla d' accidentale, se qualche cosa vi s' aggiunge è perita l' identità, e la cosa aggiunta dee costituire un altro subietto diverso dal primo. Ma per ciò stesso rimane l' imperfezione nel primo, che essendo diverso non può essere perfezionato dal secondo: e questo è uno de' fondamentali errori, che vogliam notato nella dottrina di questo filosofo, essendo al tutto insufficienti quelle molte frasi che spesso adopera per schermirsi da questa terribile difficoltà, che da per tutto il persegue. Continuando dunque noi ad esporre questo ingegnosissimo sistema, per quanto la sua incoerenza il permette, facciamo osservare, che da esso risulta che la Mente sia quasi un' imagine o similitudine del primo Uno, e l' Anima un' imagine o similitudine della Mente; poichè nei generi, che costituiscono la Mente, c' è l' Uno; e nelle specie, che costituiscono l' Anima, sono i generi: onde come in uno specchio l' Uno si riflette nella Mente, e la Mente nell' Anima. L' Uno, tosto che fa un atto diverso dall' Uno, non è più uno, ma è la Mente; e questo primo atto, che è la Mente, è la contemplazione de' generi che distingue in sè. Quest' atto dunque, che è nell' Uno, non è l' Uno, ma già è la Mente. La Mente, trovandosi media tra l' Uno e l' Anima, ha come due atti: col primo riceve ed è l' atto con cui essa è, e coll' altro dà; col primo è generata, coll' altro genera, ed è l' atto con cui, contemplando sè stessa ne' generi che la costituiscono, vede i generi inferiori e le specie. Quest' atto, che è nella Mente, non è la Mente, ma l' Anima. L' Anima, trovandosi pure media tra la Mente e la Natura, ha primieramente due atti: costitutivo di sè l' uno, l' altro comunicativo: il primo veniente dalla Mente, il secondo dall' Anima stessa che contemplando sè stessa, cioè le specie tutte, vede in esse la realità (1). Ma quest' atto che viene dall' Anima ed è in essa, non è più essa, ma è la Natura. Oltrediciò continua la potenza nella Mente, già generata, tanto da affissarsi nell' Uno quanto d' affissarsi in sè stessa; ma nè l' uno nè l' altro atto la fa uscire dal divino: e però, benchè l' affissarsi nell' Uno sia quello che la costituisce nella sua eccellenza, pure anche coll' affissarsi in sè stessa non si deteriora. Del pari l' Anima coll' affissarsi nella Mente è costituita nella sua propria eccellenza, ma dopo d' avere, coll' affissarsi in sè stessa, prodotta la Natura sensibile, può in questa immergersi colla contemplazione: nel qual caso, uscendo dal divino, si deteriora. Tutto dunque si genera per via di contemplazione ( «ek theorias»), e non solo le idee, ma le cose stesse naturali sono teoremi ( «theoremata»), cioè contemplati (2); e la Natura reale operando non fa che contemplare le varie forme di cui si veste e in cui si pone. Come dunque dall' Anima esce la Natura reale? L' Anima, il complesso delle specie, il mondo intelligibile ultimato, ha la virtù di contemplare; contemplando opera; operando produce: dopo dunque che l' Anima è costituita, la sua contemplazione di sè non può più produrre specie: sorge dunque un altro da sè, che è la Natura reale. Non sarà disutile intendere il pensiero di Plotino esposto da Marsiglio: [...OMISSIS...] . La prima Anima dunque è separata dalla materia: ma, come l' intende Marsiglio, contemplando sè stessa in quanto è essenza, comparisce la materia , essendo esaurita tutta la distinzione e la serie delle specie; e in quant' è intelligenza, comparisce la forma incorporea , cioè l' Anima vegetale del Mondo, intelligente anche questa: i quali due principii uniti insieme compongono il Mondo temporaneo. Nella materia finisce l' atto della contemplazione: essa è venuta dall' essenza, ma già non è più essenza (non più ente), perchè l' essenza è sempre una specie o idea. All' incontro l' Anima vegetale del Mondo, che è la prima forma della materia, a questa unita, svolge di sè, contemplando ancora, la natura genitale, e questa la natura sensibile, l' una e l' altra delle quali è come una vita evoluta [...OMISSIS...] , e questa produce le forme ultime puramente corporee (3) sempre per uno svolgimento [...OMISSIS...] . L' anima vegetale dunque contemplando opera come vita genitale e sensibile (onde il tempo), e dominando la materia informe (prodotta insieme con essa dall' Anima prima), le dà e rimuta le forme corporee, onde la moltitudine e il moto locale, e gl' individui viventi ed intelligenti, gli uomini, gli animali, le piante. In questi ultimi prevale più la materia che ne' primi. Ma conviene che più particolarmente noi vediamo in che maniera, secondo Plotino, si originino l' anime umane. Stabilisce in prima questo filosofo, che tanto la Mente quanto l' Anima prima, universale, separata, sia ad un tempo una e molte, come provò Platone che l' ente è uno e molti. [...OMISSIS...] Poichè, componendosi la Mente da' cinque generi, e questi trovandosi in tutte le specie in cui si dividono; per partecipazione in tutte queste si moltiplica la mente, come l' essenza del fuoco che si trova in tutti i fuochi grandi e piccoli, secondo la similitudine che Plotino soggiunge (2). Così l' Anima, che è la contemplazione de' generi minori e delle specie, si moltiplica secondo che gli anelli della gerarchia ideale l' uno dagli altri escono, e tuttavia queste molte anime si riducono ad una sol' anima contemplante. L' ultima di queste produce l' Anima vegetale della Natura. Ora qual è l' Anima umana? Plotino, quasi dubitando, dice: [...OMISSIS...] . Quando dunque nel continuo operare delle cause si giunge all' Anima prima, o Mondo intelligibile, e questa contemplando sè stessa produce la materia e l' Anima vegetale svolgentesi nella vita genitale e sensibile; in questa rimane il mondo intelligibile delle specie, come in queste rimane la Mente o i generi, e in quest' ultima l' Uno o il bene. Ma l' anima vegetale operando nella materia genera e s' individua, e la più eccellente di queste generazioni è quella dell' uomo, in cui è l' Anima umana. Di qui il principio dell' Etica Plotiniana, che consiste nel dovere di contemplare praticamente ciò che è migliore e ottimo. Poichè, se l' Anima umana si compone delle parti accennate, non è difficile l' intendere come, in quant' è in essa l' anima separata, si tenga nel mondo intelligibile; e, in quant' è anima vegetale, sia tratta dalla sua propria natura verso il sensibile e materiale. Ora, come il primo moto all' insù la rivolge verso il bene, così il secondo moto all' ingiù verso il male: e secondo che ella è più forte, o più debole, il che dipende dalla generazione, tende al bene, o si abbandona volontariamente alla materia: col qual sistema di cause naturali tutte così incatenate non si vede come si possa, senza incoerenza, salvare la libertà umana (2). S' avvicina Plotino all' errore de' due principii, ossia cade in un errore affine, quando ripone nella materia lo stesso male per sè «tuto to ontos kakon» (1). Errore veniente dal primo: poichè, come Plotino pose qualche cosa al di sopra dell' essere, cioè l' uno, il Bene; così doveva collocare altresì qualche cosa al disotto dell' essere medesimo, la materia, priva d' ogni unità e d' ogni forma, il Male. Di maniera che fece l' Essere medio tra il Bene e il Male, partecipe dell' uno e dell' altro. Ma come questo era un tentativo intemperante d' ingegno di oltrepassare i limiti dell' essere «( Logic. , n. 11.4) », il che accade a tutti i filosofi unitari; così vien meno a tali speculazioni esorbitanti e la possibilità di concepire ciò che vogliono e d' esprimere i loro pretesi concetti in parole. Onde come, quando Plotino parla dell' Uno, è costretto dall' intrinseca necessità di attribuirgli quell' essere, ossia quell' essenza che pure gli toglie; così cade nella medesima incoerenza parlando della materia, di che in fatto non potrebbe parlare, se non le attribuisse qualche essenza o qualche modo d' essere (2). L' anima poi s' infetta e accoglie il male contemplando la materia (1). Ma questo le accade non per quella contemplazione di sè, per la quale la materia si produce, ma per una contemplazione posteriore; chè l' anima è per sè buona, e il male le accade come accidente. Ma onde questa contemplazione posteriore della tenebrosa materia? Dalla debolezza di quell' anima che ha immediatamente generato la materia, come ultima produzione del tutto. Onde poi questa debolezza? Venuta la catena delle cause all' ultimo anello, e all' infimo prodotto la materia; questa non può più produrre cosa alcuna, perchè in essa è esaurita ogni attività produttrice: non potendo dunque più progredire avanti, la materia tenta di tornare indietro, e d' invadere procacemente quell' anima che l' ha prodotta, e per mezzo di questo ritorno abbracciandosi quasi all' Anima, da questa acquista le forme, e ne nascono le potenze vegetali, generative e sensibili. [...OMISSIS...] . Nel qual luogo Plotino non solo dà l' esistere alla materia, coll' accennata incoerenza, ma anche il conato e l' azione d' introdursi nell' anima, producendo così la generazione , che è il modo col quale l' Anima s' unisce stabilmente alla materia. Quindi, benchè il male venga, secondo Plotino, come ultimo e necessario effetto di quella serie di cause, che incominciano dal Bene, onde non si può dire che ammetta i due principii indipendenti de' Manichei; tuttavia cade in due gravissimi errori: il primo che il male sia qualche cosa di reale, com' è la materia, e che questo reale sia una produzione necessaria e diretta di Dio medesimo. Certo egli suppone, che, col semplice generare la materia, l' Anima non si renda mala; ma ella però genera il suo nemico, il male: che invadendola, e così dando luogo alla generazione, la fa cadere e macchiarsi. Da tutto questo apparisce quali sieno le categorie, secondo Plotino. Egli concepisce le categorie come sommi generi, e nello stesso tempo come principii elementari dell' ente. Al di sopra e al di sotto dell' ente e de' suoi principii categorici, egli pone qualche cosa: cioè al di sopra, il Bene o l' Uno, e al di sotto, il Male o la Materia. Fra questi due estremi, pone due enti medii (1), la Mente e l' Anima; la prima delle quali comunica da una parte immediatamente col Bene, da cui esiste; dall' altra coll' Anima cui produce: la seconda, da una parte comunica immediatamente colla Mente da cui pure esiste; dall' altra col Male, cioè colla Materia, cui produce. I sommi generi o categorie sono nella Mente e la costituiscono; le specie che ne derivano sono nell' Anima e del pari la costituiscono: l' una e l' altra una e molte. I detti generi e ad un tempo principŒ sono cinque: l' ente, il moto, la quiete, la diversità e l' identità, da Platone enumerati già nel Sofista, e altrove. Il difetto delle categorie di Plotino, come pure di tutti i Neoplatonici, si è quello di avere classificato con esse l' ente ideale , e non l' ente in tutta la sua generalità. In fatti i cinque generi da esso enumerati sono generi d' idee e non di cose: essi non possono sussistere in sè gli uni dagli altri separati, onde fu obbligato ad unirli in un ente compiuto, la Mente. Plotino risponde che, in quanto sono uniti insieme e così costituiscono la Mente, sono posteriori, perchè il composto è posteriore al semplice, il più all' uno: e però se si classificano gli enti composti, non si hanno più de' generi sommi, ma de' posteriori. Questo è specioso, ma erroneo, perchè procede dall' errore dell' Unitarismo, che confuteremo dove esporremo la teoria delle categorie e ne' libri ontologici, che verranno appresso. Oltre altri errori indicati nell' esposizione che abbiamo fatta del sistema plotiniano, quello che nasce dalla stessa origine si è che Plotino, al pari degli altri antichi, non raggiunse la distinzione tra l' esistenza obiettiva e l' esistenza subiettiva: onde dall' una passa all' altra senza addarsi dell' abisso che le separa. E non è che egli non ne veda una distinzione di concetto, ma non s' accorge che nelle idee (e dicendosi idee si parla de' possibili intuiti dall' uomo) non compariscono se non dotate di un' esistenza obiettiva senza subiettività alcuna, e in vece d' osservar queste come sono, argomenta come devono essere, salendo colla speculazione alla prima Mente, della quale l' Anima è il verbo [...OMISSIS...] e l' imagine [...OMISSIS...] . Ora la prima Mente è l' unione dei cinque generi, e però è un composto, secondo Plotino, delle cinque prime idee generiche. Ma è costretto tantosto a prendere queste cinque idee generiche come cose reali, cioè a dar loro anche un' esistenza subiettiva, altrimenti si rimarrebbero sterili e prive d' ogni azione. Dice dunque di questa sua Mente, risultante da' cinque generi: [...OMISSIS...] . Sul qual passo sono da osservare più cose: 1 Quando Plotino distinse dall' Uno la Mente e dalla Mente l' Anima, disse che la differenza si riduceva a una pura alterità. Qui all' incontro l' alterità non produce diversa ipostasi, ma una sola Mente: incoerenza, che non si vede come evitarsi; 2 Riconosce Plotino che non ci potrebbe essere intelligenza senza una dualità, cioè un intelligente e un inteso, il che è un vero prezioso. Ma poi non s' accorge dell' assurdo di lasciare il suo Uno (Dio) privo irremediabilmente di intelligenza, a cui si può applicare quello, che egli trova assurdo per la Mente, [...OMISSIS...] ; 3 E` vero, che non si dà intelligenza senza questa dualità d' un intelligente e d' un inteso; ma nelle idee, come sono i generi, questa dualità non si trova. In fatti l' idea, o specifica, o generica, o universale, presenta un inteso, ma quello che la intuisce e la intende è l' uomo reale, il quale non è un' idea. Allo incontro non si può concepire un' idea che intenda sè stessa, senza che cessi d' essere idea e diventi una persona. Se dunque ciò, su cui Plotino specula, sono le idee che hanno un' esistenza puramente obiettiva, con qual diritto o per via di qual ragionamento passa egli a trovare un' esistenza anche subiettiva, che è quanto dire una persona intelligente? Confonde dunque le idee colla Mente che intuisce le idee. Ed essendo le idee molte, da questo trae che la Mente non è solo una, ma anche molte. Ma se si concede che molte menti ci sieno, perchè ci sono molte idee, non rimane per questo provato che la Mente sia una. Che anzi facendo risultare la mente da cinque idee generiche o categorie, non si vede alcuna via di fare che queste cinque formino una sola ipostasi, se non ricorrendo a qualche attività straniera alle cinque idee, che le tenga insieme e le contenga. Dirà Plotino, che questo è l' Uno; ma in tal caso l' esistente subiettivo che intende sarebbe l' Uno, e questo solo sarebbe la Mente, e intenderebbe cinque cose, intese e non anco intelligenti. Ovvero se queste cinque cose intendessero, sarebbero cinque menti, cinque ipostasi, e non una sola. E lo stesso è da dire dell' Anima, che egli fa constare di generi inferiori ai primi, e di specie. Poichè questo ha di proprio ogni subietto di esser uno, e di non poter essere più subietti, nè risultare da più subietti, benchè nello stesso subietto più cose si possano distinguere col pensiero, ma non mai più subietti. Onde, od ogni specie è anche un subietto intelligente, e in tal caso i subietti che si chiamano anime intelligenti non sono una, ma più: o le specie non sono subietti intelligenti, ma solo obietti intesi, ed in questo caso, conviene di nuovo trovare il subietto unico nel primo Uno, e questa sola sarebbe l' ipostasi intelligente, questa sola l' Anima che intenderebbe ugualmente e identica i generi, e ne' generi le specie. Forse Plotino replicherà che, altro essendo l' Uno considerato come puro Uno, altro quell' atto dell' Uno che contempla i generi, altro quello che contempla le specie, questi tre atti fanno che si distingua l' Uno in tre subietti. Ma non ogni alterità, a giudizio di Plotino stesso, costituisce un subietto diverso, altramente i cinque generi, e gli altri minori, e le specie, sarebbero altrettanti subietti diversi. Ora nè i generi, nè le specie, che come obietti sono diversi, hanno subiettività alcuna in sè che gli unisca. Nè si può conoscere che sieno più, se non c' è un subietto unico che ne contenga la loro pluralità, e che sia da questa diverso, nè un subietto può conoscere le specie se non ne' generi: e però il subietto, che conosce queste, deve essere identico a quello che conosce i generi. E, se ci fosse un subietto che conoscesse i soli generi e non le specie, come si troverebbe poi quello, che conoscesse le specie, se le specie stesse, molte come sono, quand' anco fossero subietti, sarebbero molte e non una? e una sola non si potrebbe nè pure conoscere come specie? Che se poi Plotino fosse pervenuto a ridurre le idee ad una sola, al che non giunse, qual poi sarebbe il principio della loro moltiplicazione? Questo non può essere, come noi abbiamo mostrato nella « Ideologia (n. 1449) », che un elemento di diversa natura dalle idee stesse, elemento variabile, a cui la idea si congiunge, cioè la realità; ma in tal caso, questa sta di fronte alle idee da loro originalmente indipendente, e non può venire, come la fa venire Plotino, dalle idee stesse già moltiplicate fino all' ultime loro specie. Onde anche per questa ragione si prova assurdo che la materia , e in universale la realità , dalle idee stesse sia generata; quand' anzi l' idea stessa rimarrebbe sterile, e non si potrebbe moltiplicare senza di questa. Se di più Plotino avesse veduto non solo che c' è un' idea sola anteriore ai generi e alle specie, ma che quest' idea dee avere una subiettiva sussistenza; in tal caso avrebbe dovuto conchiudere, che in un tale essere (al tutto diverso dalle idee che l' uomo intuisce), si trovavano due principii irreducibili: cioè l' intelligibile e il sussistente, e un solo e identico essere in entrambi: e così avrebbe conosciuto che l' essere primo non può essere Uno puro, ma un essere con una doppia forma, e avrebbe scoperte le due prime supreme forme dell' essere, e, come diremo, le due prime categorie. 4 Dalle quali cose si scorge che la maniera di filosofare di Plotino pecca per una gran mancanza di raziocinio dialettico (comune difetto de' nuovi platonici), onde asserisce le cose più gravi, e procede di asserzione in asserzione, senza rendersene esatto conto o darne qualche prova al lettore, contentandosi di leggiere e sottintese analogie per dedurne gravissime e paradossali conseguenze, che avrebbero bisogno di aperti e rigorosissimi raziocinŒ a persuadersi, facendosi altresì caso delle possibili obbiezioni. Questa sicurezza e autorevolezza di procedere, che, tenendo nascosta la catena logica, pretende da' suoi lettori che la indovinino da sè stessi e non ci facciano mai sopra difficoltà, è la stessa che quella che si vede nell' Hegel, e in tutti i filosofi entusiasti e imaginosi, i quali vogliono colla loro oscurità e misticismo imporre al pubblico, e captivarlo al loro carro trionfale; 5 Ma invano: il pensatore trova facilmente che tutti cotesti sistemi e in particolare quello di Plotino sono ipotetici, nè dicono esplicitamente il principio su cui si fondano, ma, senza accorgersene essi medesimi, lo suppongono; onde il principio, la base vera del sistema rimane sempre fuori del sistema; il che toglie loro l' esser sistemi. Così Plotino che descrive l' uscita di tutte le cose dall' Uno, e prima della Mente, poi dell' Anima o Mondo intelligibile, e finalmente del Mondo sensibile, non adduce alcuna ragione sufficiente per la quale i continui prodotti abbiano quel numero preciso d' anelli, e non più nè meno; e perchè l' Anima, a ragion d' esempio, s' esaurisca colle specie ultime, e perchè subito dopo ne esca il Mondo sensibile, e perchè tutto si fermi alla fine nella Materia. Ora qual è questo perchè? Certamente è questo che nella serie delle specie quando il nostro pensiero perviene a quelle che sono pienamente determinate (dette da noi specie piene, «Ideol. , n. 650 »), allora non sono più concepibili altre determinazioni, e quando si perviene alla materia, non si concepisce più nulla dopo di essa. Così appunto Plotino dice che la Mente ha in sè tutte le cose [...OMISSIS...] . Ora, in questo discorso, tutte le cose , [...OMISSIS...] , sono supposte dal sistema, e non ispiegate. Come dite voi che la Mente comprende tutte le cose, se non so ancora che ci sieno le cose, e che cosa importi questo tutte? Voi cominciate dall' abbracciarle tutte in una parola, e non fate difficoltà alcuna ad ammetterle, nè mi dite prima come sieno, o perchè sieno: e quindi la vostra filosofia parte da un tutto supposto. [...OMISSIS...] Ma che cosa è questo « tutto ciò che c' è di enti? » «pan ton onton». Voi non me lo dite: supponete sempre « tutto ciò che c' è di enti », quando sarebbe pur quello, che dovreste spiegare, e supponete di conoscerlo appieno pronunciando la sentenza che « tutto ciò che c' è di enti dee avere la sua operazione ». Appresso ancora viene questa sentenza: [...OMISSIS...] . Qui di nuovo si suppone conosciuto l' essere nel suo ordine intrinseco, e conosciuto tutto l' essere, e da questo presupposto, che è tutto il sistema, si trae il sistema, si decide che l' essere non può per sua natura fermarsi nell' intelligibile, benchè si abbia detto prima che nell' intelligibile c' è già tutto, che è possibile di farsi altro ed altro, che perciò quest' altro si dee fare, che ciò che si fa dee essere sempre un minore, e che essendovi l' anteriore, dee di conseguenza uscirne tutta la serie, fino all' ultimo anello che è la materia; senza mai dire perchè l' essere sia così fatto, e perchè l' ultima dell' essere sia la materia. Tutto il sistema dunque è basato sopra un sott' inteso, cioè sopra la natura dell' essere, che si suppone fatta in una data maniera, senza alcun esplicito esame, nè alcuna prova; e su questa supposizione poi s' argomenta a quello che di necessità deva fare l' essere, acciocchè risponda al sistema del filosofo. E tuttavia, benchè si tragga tutto dalla totalità dell' essere supposta in un modo supposto, si osa dire che c' è qualche cosa al di sopra e al di sotto dell' essere stesso! Ci ha dunque abuso di speculazione per mancanza di vera e compiuta speculazione. Finalmente stimo di non dover preterire del tutto la scuola de' Neo7platonici intorno alle derivazioni e partizioni dell' ente. Ella si può dividere certamente in più sˆtte, delle quali una fu quella de' Gnostici. Come furono divisi i Gnostici in due grandi classi, degli unitari cioè che derivavano ogni cosa da un solo principio, e dei dualisti , che ponevano due principŒ eterni: Iddio e la materia; così si potrebbero classificare anche i filosofi Alessandrini in generale (1). Lasciando noi i dualisti, si può compendiare in questo modo la teoria dei Neo7platonici unitari: « Tutte le cose, superiori ed inferiori, divine ed umane, eterne e temporali, fluiscono da un medesimo principio, e sono tenute insieme da un solo vincolo: le nature vanno compartite in diverse cerchie, secondo i gradi della loro eccellenza: le cerchie si allargano secondo l' imperfezione degli enti che contengono: l' infimo grado è occupato dalla materia ossia dal mondo sensibile: una cerchia più su stanno gli enti forniti di spirito e d' animo, quali sono le forze della natura, le anime, i demoni: superiormente a questi si trovano i generi delle cose intelligibili, ossia le idee: tiene il luogo supremo una tale natura, che abbraccia colla sua virtù, e collega in sè i generi tutti delle cose e le forze diffuse per l' universo. Tutte queste maniere di ente sono così distinte per natura come la mente nostra le concepisce distinte. « Causa di tutta questa piramide o piuttosto cono di enti è quella somma natura, che ne tiene la cima, dalla quale come da fonte emanano le cose riversandosi e cadendo da quello stato puro e divino in condizione più abbietta dalla regione intelligibile nell' umile e terrena feccia quasi sommerse. « Ora quella natura suprema, fonte dell' altre, contiene nel suo seno tutti i contrarii generi delle cose congiunti, avvincolati in uno, e indistinti: e però è uno e molti ad un tempo ( «en polla»), immoto e mobile, principio di natura e tuttavia natura perfetta e completa, dotato di mente e cotale, che in esso si stringono in uno il principio del pensare ( «o nus»), l' azione del pensare ( «noesis»), e il termine od oggetto del pensare ( «noeton»): la chiamano poi perfettamente ente ( «to pantelos on»), e per eccellenza l' intelligibile ( «to noeton»). Laonde, benchè questa natura sia una e tutta, può non di meno dividersi quasi in parti, ma non però separarsi ( «ameristos merizesthai»), ravvisandosi in essa l' ente uno ( «hen on») e i molti ( «plethos»), e il vincolo che lega l' uno co' molti. Così si rinvengono tre cose, i diversi generi, «ta polla», l' uno che li collega, «to on», la punta o supremo fastigio e fonte dell' universo, l' ente per sè, l' ente unico, che unicamente è «to on, monadikos on» »(1). Tutte queste cose i Neoplatonici le dicono più tosto sentenziando che ragionando, e più tosto come effati arcani che come dottrine esplicate. E questo è il carattere di tale scuola, opposto a quello della filosofia di Platone stesso. Perocchè il filosofare di questo grand' uomo è un continuo dialettizzare; quando ciò che si desidera nei libri de' nuovi Platonici è appunto quel far dialettico che analizzando e provando stringe. Quest' è forse difetto generale de' discepoli, i quali da' loro maestri si contentano di t“rre le conclusioni alleggerendosi della fatica de' loro ragionamenti, supponendo quelle provate: e così poscia si ripetono come affermazioni sorrette dall' autorità, non giustificate dalla ragione. Al qual modo di filosofare si diedero specialmente i filosofi Alessandrini pel gusto che trovarono nelle dottrine orientali, le quali non sono ragionate e dialettiche, ma autoritative, brevi e apoftegmatiche. Quindi ne' sistemi de' Neoplatonici manca il nesso delle sentenze, cioè si preteriscono quelle questioni che cercano come una cosa venga dall' altra, e che pur sono quelle sole che potrebbero dare alla dottrina luce e forza a persuadere. Manca dunque in tali sistemi quello appunto che per essi si cerca, e si ha diritto d' avere. A ragion d' esempio, quando i Neoplatonici dicono, avervi una natura suprema, la quale è uno e molti ad un tempo, immota e mobile, principio di natura e tuttavia natura perfetta, e in fine contenente tutti i contrari generi delle cose, avvincolati in uno ed indistinti, credono d' avervi bastevolmente ammaestrati. Ma il fatto sta, che ancor mancano interamente, non sono neppure accennate le questioni vitali che possono contenere qualche verace ammaestramento per noi. Perocchè queste questioni sono, come l' uno possa esser molti? come il mobile possa esser immobile? come ciò che è principio di natura possa esser la stessa natura? come i contrarii generi ed anzi le contraddizioni stesse possano giacere nell' ente medesimo semplicissimo? Queste questioni di somma importanza e difficoltà non si possono ammettere, non si possono evitare da un filosofo, come si eviterebbe da un debitore per via l' incontro di un creditore: ci si affacciano dappertutto importune con quel terribile - Come? in bocca: e se noi facciamo i sordi, o non rispondiamo per villania, restiamo puniti da noi stessi privandoci della sapienza filosofica che cercavamo. Che fanno adunque i Neoplatonici? Confessare aperto di non potersi spacciare da quelle questioni, sarebbe un andare troppo manifestamente contro il loro intento, che è quello di filosofare delle altissime cose. Essi dunque pigliano la via di mezzo, che è bensì più corta, ma non li conduce al termine: nè si propongono quelle questioni direttamente pigliandole a svolgere per disteso, nè le lasciano del tutto insolute; ma le risolvono per incidenza, e come a caso, sempre sentenziando invece che ragionando e deducendo. Trattasi, poniamo il caso, della questione Come l' uno sia i molti? Essi la risolvono dicendovi che « l' Uno scade dal suo « stato puro e divino in una condizione più abbietta », e così credono d' avervi pienamente soddisfatto. Ma chi mai non vede, che la difficoltà non è tolta con ciò, ma mutata in altra, e travasata di alcune parole in altre parole? Perocchè il difficile sta appunto qui nel sapere come l' uno, la natura prima e suprema, possa scadere dall' esser suo, e scadendo dall' esser suo non cessi di essere quello che è; come ella si possa trasformare, e tuttavia rimanere identica; come possa emanare di sè qualche cosa e tuttavia non diminuire; possa o parte di sè stessa o tutta sè stessa scendere a stato inferiore, e tuttavia nulla perdere di sua primitiva eccellenza. Ecco le questioni, che i Neoplatonici non risolvono: è sempre il gran problema dell' Ontologia che si affaccia per tutto, e che s' indura come diamante all' umano ingegno. Ma restringendosi a parlar solo delle categorie de' nuovi Platonici, essi le riducevano a tre, come vedemmo, cioè all' ente per sè, ai molti, e all' uno che legava ed identificava l' ente per sè ed i molti. Ora quel vincolo che lega l' uno e i molti rimane primieramente personaggio incognito, e però rimane incerto se possa fare una categoria da sè, o piuttosto appartenere ad un' altra categoria, per esempio, a quella de' molti: nè si vede qual vincolo possa avervi tra l' uno e i molti: che non sia egli stesso o uno o molti. D' altra parte i Platonici identificano l' uno coll' ente per sè, e così sono astretti a parlare dell' uno in due diversi significati, o come identico all' ente perfetto, o come vincolo dell' ente perfetto e dei molti. In secondo luogo l' uno non può costituire, propriamente parlando, una categoria; conciossiachè niuna cosa può essere se non è una, e però le cose tutte, niuna eccettuata, apparterrebbero alla categoria dell' uno. In terzo luogo i molti neppur essi possono dar nome ad una categoria; poichè o si parla de' molti presi singolarmente, e in tal caso ciascuno individuo è uno e non molti, appartiene alla categoria dell' uno, e non a quella di molti: o i molti s' intendono complessivamente, e in tal caso sono un complesso unico, che per la sua unità appartiene ancora alla categoria dell' uno. Se poi i molti si considerano ad un tempo nell' unico loro complesso e negl' individui che il formano; allora la parola molti non significa che quella relazione di somiglianza che hanno più singoli individui, onde dànno l' idea di numero; e così a questa categoria non apparterrebbero che le relazioni di somiglianza, per le quali si classificano gli enti, le quali relazioni di somiglianza non possono classificare una classe di enti, una categoria, ma piuttosto sono il fondamento di tutte le classi. Se poi per molti s' intende quella moltiplicità che si trova nel medesimo ente; neppur questa può costituire alcuna categoria, almeno se non si determina la natura di questa moltiplicità; e il determinar questa natura è di quelle questioni appunto che si trapassano dai nostri filosofi, quando dovrebbero in esse porre ogni sforzo d' ingegno. E veramente se si parla d' una moltiplicità qualunque, egli è indubitato, che ogni ente ha qualche moltiplicità: e, come la fede pone tre persone nello stesso Dio, così la ragione non può dimostrare in ciò alcun assurdo. Onde per nessun verso l' ente uno e il molti dei Neoplatonici possono pigliarsi per vere categorie. L' affinità e continuità delle sentenze ci persuase che riuscirebbe più naturale e facile la nostra esposizione raggiungendo Plotino a Platone. Ora dobbiamo tornare ad Aristotele, che esige una speciale attenzione. Aristotele è indubitatamente il più grande tra i discepoli di Platone, e se non lo arriva per elevatezza di mente, non gli sta addietro per sottigliezza, ed ha il merito grandissimo di avere ridotta a scienza la sillogistica «( Logic. , n. 26) », e d' averci lasciato de' libri, o de' commentari su tutte quasi le parti della filosofia. Sono ben lontani per lo più cotesti scritti aristotelici d' esser condotti, come si crede da molti, con un ordine rigorosamente scientifico. Anzi essi sottintendono sempre la scuola vocale (2), e per lo più disputano di questioni che dovevano esser vivissime a quel tempo tra i discepoli di Platone: questioni che talora conviene indovinare, per bene intendere a che miri e che voglia dire Aristotele, e in che stia la forza de' suoi ragionamenti. Nondimeno l' estensione e la varietà delle materie toccate nelle diverse opere di Aristotele, e l' aver egli approfittato di tutti i suoi predecessori, massimamente delle dispute che ebbero luogo nella scuola di Platone, ci consigliano ad esporre il suo sistema alquanto più copiosamente che non abbiamo fatto co' precedenti. L' ente può essere considerato in sè stesso, secondo che viene appreso in diversi modi e dalle diverse facoltà dello spirito umano, e secondo che è significato nel linguaggio. Quindi si presenta una triplice partizione dell' ente, verbale, dialettica e fisica . I filosofi precedenti a Platone, come i Pitagorici, privi ancora della dialettica e della logica, o avendola solo com' arte, non come scienza, non poterono accorgersi di questa triplice classificazione, e però le loro categorie altro non furono che certe classi, nelle quali l' ente alla rinfusa si prende ora sotto un aspetto ora sotto un altro. A Socrate e a Platone è dovuta principalmente la Dialettica e Logica riflessa e scientifica. Ma come l' entusiasmo, che suole accompagnare ogni invenzione, esagera ciò che s' inventa, la novità della vista rapendo quasi estatica a sè la mente; non è meraviglia che in Platone la Dialettica e la Logica traessero a sè ed assorbissero tutta la filosofia. Le categorie così divennero una classificazione ristretta agli enti ideali e mentali, e l' ente reale non ebbe in esse l' importanza che gli è dovuta. Quindi non pare del tutto aliena dal vero la critica che Aristotele fa a' filosofi più recenti (e vuol alludere certamente a Platone), là dove osserva, che essi [...OMISSIS...] . Ma seppe poi Aristotele stesso andare immune da una censura, se non uguale, simile a quella che egli fa al suo maestro? Certo, egli pose molta attenzione nella necessità di trovare una causa al moto, che non si poteva trovare nelle pure idee: e quindi, facendo un passo indietro, l' accompagnò agli antichi, che non separavano le idee da' reali, come dice egli stesso (1), e in questi soli vedevano le sostanze. Ma rivolgendosi alla considerazione de' reali, quasi abbandonati da Platone, disconobbe in parte la natura delle idee o specie, che rinchiuse nè reali, benchè finiti; e, rispetto a questo, cadde nell' eccesso contrario a quello che egli attribuisce a Platone. Di poi, riducendo a forme scientifiche la Dialettica del suo maestro, empì la filosofia d' entità di ragione , e a una classificazione di queste si riducono le sue categorie. Come dunque Platone diede un' attenzione troppo esclusiva alle idee , così Aristotele la diede pure troppo esclusiva alle entità mentali: e però nè l' uno nè l' altro uscirono bastevolmente, colla meditazione filosofica, dalla mente umana. La realità dell' ente finito nondimeno prende in Aristotele un posto alquanto più importante che in Platone. Sebbene dunque nè pure in Aristotele sieno tenute costantemente distinte le tre partizioni dell' ente sopraccennate, tuttavia confusamente ci appariscono; e però noi raccoglieremo da' libri di questo filosofo, e distribuiremo a parte, quello che a ciascuna di esse appartiene. Coglieremo quest' occasione altresì per fare su ciascuna di esse delle riflessioni non solo v“lte a distinguere quello che ci sembra inesatto, ma a perfezionare anche quello che ci sembra esatto e vero: il che ci risparmierà il dover ripetere le stesse cose altrove. Quando il linguaggio esprime fedelmente e senza equivoci i pensieri di chi parla, allora la partizione dialettica dell' ente e la partizione logica sono la medesima. Ma quando il linguaggio induce nell' animo altri concetti da quelli che naturalmente e logicamente si dovrebbero avere delle entità che vengono espresse, o connessi altrimenti, allora si manifesta la necessità di far notare nell' uso delle parole tutti que' casi, ne' quali i concetti e i pensieri umani non sono significati dalla lettera; al qual fine Aristotele scrisse i due libri « Dell' Interpretazione ». Egli trattò ancora più ampiamente la parte dialettica nei quattro libri che abbiamo sotto il titolo d' « Analitici », i quali risolvono gli argomenti nelle legittime loro forme sillogistiche, e si dividono in priori e posteriori . Noi non abbiamo bisogno di fare qui l' analisi di tali libri, che non si limitano solamente a dimostrare quando il linguaggio generi nella nostra mente nuove maniere di concepire e di connettere le entità, difformi da' concetti e dalle connessioni naturali; ma svolgono altresì tutte le fallacie delle argomentazioni: su di che questo filosofo ritorna in altri scritti ancora. All' uopo nostro ci limiteremo ad accennare quanto egli tocca in principio all' opera de' « Predicamenti » o Categorie; poichè qui egli incomincia ad avvertire appunto que' principali modi, nei quali il linguaggio devia dal rendere i precisi concetti della mente; onde se non si correggono coll' arte d' interpretarlo, facilmente si pigliano da esso concezioni assurde e nessi inestricabili; il che renderebbe impossibile la soluzione del problema ontologico. Questo esige prima di tutto che si dissolvano gli enti fattizi, di cui la ragione sufficiente sta appunto nella fattura e nella composizione che si genera nella mente a cagione del segno esterno. Osserva dunque Aristotele che le essenze (1), significate da nomi comuni, or sono della stessa, ora di altra natura: i primi nomi li chiama univoci ( «synonyma»), i secondi equivoci ( «omonyma»). Così il nome animale in quant' è comune all' uomo e al bruto è univoco, perchè significa la stessa essenza, l' animalità: ma il nome uomo , in quant' è applicato ad un uomo vero e ad un uomo dipinto, è equivoco, perchè il solo nome è comune, ma i concetti significati sono diversi (1). Dove si vede che l' essere un nome univoco od equivoco non appartiene al nome in se stesso, ma all' applicazione e all' uso che se ne fa. Di che avviene, che lo stesso nome si adoperi ora univocamente , ed ora equivocamente (2). Cadrebbe dunque in errore colui che, dall' unità soltanto del nome che si dà a più essenze, inducesse l' unità dell' essenza o del concetto; come cadrebbe in errore colui che inducesse la pluralità delle essenze o de' concetti da più sinonimi. Una dunque delle prime regole logiche ed ontologiche deve esser quella di ridurre, prima di tutto, il discorso al suo vero significato, di spogliare i concetti e gli enti dalle vestimenta delle parole, figgendo la mente in quelli anzi che in questi ( Logic. , n. 972). Il non aver fatto questo abbastanza, fu sempre la rovina della dialettica, degenerante in sofistica, tostochè essa, invece di attenersi a' concetti, si legò co' denti alle parole, prendendole per altrettanti concetti: e l' uggia che s' era messa di maneggiar quest' arme delle forme verbali non solo in assalire, ma ancora in difendere il vero, scemò forza a' difensori, e l' accrebbe agli assalitori. Nomi equivoci adunque, ovvero omonimi , si dicono quelli che s' accomunano a due essenze o a due concetti diversi. Gli Scolastici osservarono che, tra' nomi comuni a concetti diversi, alcuni sono tali che s' accomunano a concetti che non hanno alcun ordine o rispetto tra loro, altri a concetti che hanno qualche ordine o rispetto tra loro. A' primi lasciarono la denominazione di nomi equivoci , ai secondi diedero la denominazione di nomi analogici . Ma, ogniqualvolta un nome fu trasportato ed esteso dall' uso da un significato ad un altro, i concetti significati da quel nome hanno sempre tra loro qualche ordine o rispetto; e lo stesso esempio che arreca Aristotele de' nomi equivoci, cioè della voce uomo applicato all' uomo vero e all' uomo dipinto, segna due concetti che hanno similitudine nella forma e nel colore, benchè non così nella essenza significata dalla parola uomo . Ciò non può avvenire se non rispetto a que' nomi che casualmente significano cose diverse: per esempio, esse che vale essere ed anche mangiare; jus che vale diritto ed anche brodo , ecc.. Onde i greci filosofi distinsero i nomi equivoci primieramente in due classi, nell' una riponendo quelli che sono tali a casu , nell' altra quelli che sono tali a consilio . E così anco S. Tommaso chiama puramente equivoci quelli che sono tali per caso, e non quelli che sono equivoci per consiglio degl' imponitori (1). Questi ultimi senza distinzione vengono detti analogici dagli Scolastici. I filosofi greci divisero gli equivoci a consilio in tre classi: I Quelli, la cui denominazione comune esprime varie loro relazioni di dipendenza con uno stesso oggetto a cui primieramente spetta il nome [...OMISSIS...] . Così si dirà rodente tanto una sega, quanto un torrente, per la relazione di similitudine che entrambi hanno coll' atto del rodere; II Quelli, la cui relazione comune esprime varie relazioni di ordine ad un fine od effetto [...OMISSIS...] . Così si dirà medicinale tanto una radice, quanto uno stromento, o un esercizio, perchè ciascuna di queste tre cose sono ordinate all' effetto di restituire la sanità; III Quelli, la cui denominazione è comune a ragione della proporzione che hanno tra loro, e questi sono quelli a cui gli antichi riserbarono il nome di analogici (2), come si può vedere presso Ammonio e Simplicio, dove espongono la definizione dei nomi equivoci data da Aristotele (1). Così la denominazione di piede data al piè dell' uomo e al piè del letto, osserva Ammonio, è analogica; perchè il piè del letto sta al letto, come il piè dell' uomo all' uomo, cioè a dire l' uno e l' altro sono nella parte inferiore e servono a sostenerlo (2). Pure il restringere la parola analogia al semplice significato di proporzione, fa sì che rimane imperfetta la classificazione dei nomi equivoci. La primitiva origine di quella parola ha un significato più ampio della latina parola proportio; e se fu ristretto a indicare proporzione, anche in questo vocabolo, come in tanti altri, rimase imperfetta la lingua filosofica. E veramente la proporzione non appartiene che alla quantità, ed è determinata; l' analogia si rinviene anche tra le qualità, e le essenze, e le sostanze stesse, a tale che non si può determinare. E però il parlare dell' analogia, movendo unicamente dalla proporzione che passa tra diverse quantità e ragioni di quantità, fa sì che la parola analogia non convenga più in senso proprio e rigoroso a que' ragionamenti, che trattano delle cose spirituali, e massimamente delle divine, in cui non cade la quantità; ovvero che volendola a ciò usare si trasportino nel discorso ontologico i concetti limitati tolti all' estensione, allo spazio, ed al tempo. Laonde noi crediamo che si deva rendere più esatto e perfetto il linguaggio riguardante la classificazione de' nomi comuni; e che ciò si ottenga classificandoli in questo modo: Classificazione de' nomi comuni . I Classe . - Nomi comuni presi in senso proprio, e significanti un' unica essenza, applicabili a più individui, i nomi univoci (1); II Classe . - Nomi comuni presi in senso proprio, e significanti più essenze per puro accidente, essendo stati imposti ad una essenza senza riguardo all' altra, onde significano ciascuna essenza in senso proprio. Così Tigri significa il fiume, e significa anche animali feroci. Quando si dice Tigri per significare il fiume la parola è usata in senso proprio; quando si dice tigri per significare animali feroci, la si dice pure in senso proprio, senza alcuna considerazione al fiume di questo nome: aequivoci a casu; III Classe . - Nomi comuni imposti a più essenze diverse a bel consiglio, acciocchè col richiamare alla mente una di quelle essenze più note, udendosi il nome imposto all' altra meno nota o men vivamente conosciuta, questa s' intenda meglio per via di quella. Traslati, aequivoci a consilio . Ora quest' ultima classe è quella che importa diligentemente suddividere; e noi crediamo di poterne fare sei generi de' nomi metaforici, metonimici, causali, effettuali, proporzionali ed analogici . Egli è mestieri definire il carattere di tutte queste maniere di nomi traslati. 1 GENERE - Nomi metaforici . - Restringiamo questa denominazione a que' nomi che esprimono una qualche entità sensibile o vivamente conosciuta, e che si trasportano a significare una simile entità in altro subietto, dove la stessa entità trovasi in grado inferiore meno sensibile, affine di render questa più viva ed esagerarla. Così di un uomo sagace si dirà che ha uno sguardo acutissimo, trasportando l' entità dello sguardo acuto proprio dell' occhio corporeo ad una simile qualità che è nell' intendimento; perchè quella qualità, essendo più nota e viva perchè sensibile, aiuta a fare intendere la qualità dell' intendimento non sensibile, e però non vivamente conosciuta. Le metafore sono suggerite all' uomo dalla facoltà d' imaginare, e da quella legge del pensare umano, per la quale l' uomo vuole rendere a se stesso sensibili e vestire d' imagini le idee. I detti nomi applicati a significare sì un' entità in senso proprio e sì una entità in senso metaforico e rappresentativo, diconsi usati equivocamente a bel consiglio. 2 GENERE - Nomi metonimici . - Sotto questa denominazione comprendiamo tutti quelli, co' quali, volendo richiamare alla mente altrui un' entità, invece di indicarla col suo proprio nome, la indichiamo con un altro, che non esprime cosa simile come fa la metafora, ma tale però che per mezzo di essa incontanente soccorre alla mente altrui l' entità che vogliamo esprimere, principalmente coll' aiuto del contesto del discorso. Quindi diciamo or la parte pel tutto, ora una qualità per una sostanza, e viceversa una sostanza per una qualità, ora il contenente pel contenuto, ora un indizio o segno qualunque arbitrario, bastevole, pel contesto del discorso, a risvegliare nella mente ciò che vogliamo. Le metonimie sono suggerite all' uomo dalle facoltà dell' associazione delle idee, e da quella legge per la quale colui che parla è mosso a dire il menomo possibile per ottenere d' essere inteso, il che è anche un fonte dell' eleganza del discorso, e chi ascolta ama quell' eleganza, nè vuole udir tutto espresso, ma trovare qualche cosa da sè, e così non fare meramente il passivo, ma l' attivo. Le metonimie e le metafore s' uniscono talora in una sola parola, a ragion d' esempio il chiamare tigre un uomo crudele involge una metonimia, pigliandosi la tigre per esprimere la sua qualità d' esser crudele, ed una metafora venendo applicata ad uomo. I vocaboli adunque applicati ad un oggetto in senso proprio e ad un altro in senso metonimico, sono una seconda classe di nomi usati equivocamente a bel consiglio. 3 GENERE - Nomi proporzionali . - Questi sono quelli che gli antichi chiamavano analoghi , presa la parola analogia in senso ristretto per proporzione (1); ma poichè la proporzione non è che una speciale convenienza che si trova nelle quantità e ne' numeri, perciò è da separare questa specie di convenienza dalle altre, che verranno appresso; senza di che non si riuscirebbe giammai ad avere un linguaggio preciso applicabile alle cose divine. A ragion d' esempio, il definire gli analoghi per quelle cose che hanno proporzioni simili, e poscia il dire che la scienza si predica di Dio e dell' uomo analogicamente, riesce un favellare inesatto. Perocchè non è mica vero che quella proporzione che ha la scienza dell' uomo all' uomo, l' abbia pure la scienza di Dio a Dio; giacchè la scienza dell' uomo sta all' uomo come un abito al soggetto, quando la scienza di Dio sta a Dio con relazione d' identità. Noi diremo dunque proporzionali i nomi in quanto s' applicano ad oggetti di diversa natura, per cagione della ugual proporzione che ha ad essi ciò che loro s' attribuisce. Così quando diciamo il piè dell' uomo, e il piè dell' albero, o del monte, o del letto; noi abbiamo usato lo stesso nome a indicare più cose aventi la stessa proporzione ai subietti, di cui si dicono. I nomi proporzionali si possono pigliare come una suddivisione di metaforici, ma meglio si distinguono da essi per questo: che i metaforici così si chiamano, perchè sono nomi di cosa più nota e vivamente conosciuta applicati a significar cosa simile, ma men nota; laddove i nomi proporzionali non si fondano nella semplice somiglianza , ma nella somiglianza o uguaglianza di proporzione . 4 GENERE - Nomi effettuali . - Così chiamiamo quelli, che esprimendo il nome d' una causa, si applicano a significare un effetto. Così si dice un « uomo sano », e si dice pure una « cera sana », per dire che quella cera è tale, che apparisce come effetto, e quindi indizio, della salute che gode l' uomo. Questi nomi, appartenenti in senso proprio alla causa, ma applicati a significare l' effetto, sono quegli che gli antichi dicevano equivoci ab uno . I nomi effettuali si possono pigliare come una suddivisione de' metonimici, ma meglio si distinguono per questo, che nella metonimia si pone la causa per indicare l' effetto unicamente come un segno di questo, senza che sia espressa nel vocabolo la relazione. Così quando i latini chiamano Bacco il vino, e Cerere il pane, non esprimono mica con ciò che il vino sia invenzione di Bacco, o le biade di Cerere. Ma dicendo sana la cera d' un uomo, si fa intendere la relazione di questo effetto colla sanità che n' è la causa, e però senza conoscerne la causa non si può intendere il vocabolo; laddove si può sapere che pieno di Bacco, vuol dire pieno di vino, ignorando chi sia stato Bacco, e che abbia fatto, essendo un nome proprio, non avente, come tale, relazione al vino. 5 GENERE - Nomi causali . - I vocaboli acquistano questa appellazione, quando si vuol esprimere la causa, e lo si fa applicandole il nome dell' effetto. Così dicendo sano l' uomo, e sano il cibo o la medicina, il vocabolo sano è usato equivocamente: perchè applicato all' uomo è in senso proprio; e s' applica al cibo, o alla medicina, perchè la medicina o il cibo è cagione della sanità che è nell' uomo. La qual maniera di predicazione equivoca è quella, per la quale i greci filosofi dicevano tali nomi equivoci ad unum . Anche questi si possono pigliare come suddivisione dei metonimici; ma è da fare un' osservazione simile alla precedente, cioè si possono distinguere da' puri metonimici in questo: che, per essere un nome metonimico, basta che esprima la causa per via dell' effetto come un segno o indizio di lei, senza che nell' applicazione del nome sia espressa la relazione dell' effetto alla causa, laddove i nomi causali esprimono questa relazione, nè si possono intendere senza conoscerla. Così dicendosi, che viene punito il delitto , o premiata la virtù, si prende il delitto e la virtù pe' delinquenti o pe' virtuosi, e questa relazione è compresa nel contesto del discorso. 6 GENERE - Nomi analogici o indeterminatamente proporzionali . - Riserbiamo questa denominazione a que' nomi, i quali in senso proprio significano qualche cosa che positivamente conosciamo, e che si trasferiscono a qualche cosa che conosciamo negativamente, a cagione delle relazioni che la cosa cognita ha coll' incognita con una certa proporzione che non si può determinare, o che è del tutto indeterminabile. Così il cieco applica i vocaboli tolti dalle sensazioni dell' udito a favellare de' colori; e il suo discorso ha qualche cosa di vero, riferendosi all' effetto, in qualche modo simile che producono nell' animo umano o d' allegrezza, o di tristezza certi suoni e certi colori. L' analogia dunque si fonda su tutte quelle relazioni che possono cadere ed esser da noi conosciute tra le cose, di cui abbiamo cognizione e percezion positiva, e le cose, di cui non abbiamo che cognizione ideale negativa. Raccogliere tutte queste relazioni accuratamente e classificarle condurrebbe a distinguere le diverse specie di analogia, e di nomi analogici. Ma quello che sommamente importa, e che non vogliamo qui trapassare, si è il distinguere con accuratezza le due principali specie di analogia, di cui favelliamo; perocchè ci bisogna distinguere queste due specie a spianarci il cammino per favellare esattamente delle cose divine. Convien dunque osservare, che, quando noi applichiamo un vocabolo agli oggetti positivamente conosciuti, possiamo con questo vocabolo significare due maniere di cose: 1 possiamo significare tal cosa dell' oggetto conosciuto, la quale non appartiene all' essenza dell' essere stesso assoluto: per es., il colore od altra cosa materiale per nessun modo appartiene a tale essenza; 2 e possiamo significare tal cosa, che per via d' argomentazione intendiamo dover appartenere all' essenza dell' essere assoluto, poichè altramente tal essere ci riuscirebbe manchevole, ma non sappiamo in che modo le appartenga. Così la scienza, la potenza, la bontà, ecc., bene intendiamo, che devono appartenere all' essere assoluto, giacchè un essere che fosse privo di tali pregi sarebbe imperfettissimo, e però non pieno nè assoluto. Ma quantunque tali vocaboli esprimano doti e pregi dell' essere stesso assoluto, tuttavia non ce ne formiamo il concetto positivo, se non in quanto vediamo realizzate quelle doti, pregi, o qualità in esseri limitati, che cadono sotto la nostra percezione, cioè negli uomini. E poichè il positivo della cognizione si trae unicamente dalla percezione, perciò la parte positiva della cognizione che noi aver possiamo della scienza, della potenza, della bontà, ecc., è limitata a quel modo nel quale tali doti sono partecipate dall' ente finito umano, e quindi anche i vocaboli, che le esprimono, non significano quel modo di essere che tali doti hanno nell' essere assoluto, ma quel modo di essere che tali doti tengono nell' uomo, in cui solo si percepiscono. Di che avviene, che così fatti vocaboli, applicati alla Divinità, sono inetti ad esprimerne adeguatamente la natura, appunto perchè i concetti positivi, che significano, sono tratti da cose contingenti e limitate; onde si dice che tali qualità si predicano di Dio analogicamente . Quelle cose adunque che conosciamo positivamente, ma che sono tali che non appartengono alla natura dell' essere assoluto, non si possono predicare di Dio analogicamente, ma solo metaforicamente (1), come accade quando si attribuiscono a Dio il volto, le mani od i piedi. Ma quelle cose che di natura loro s' intende dover appartenere all' essere assoluto, queste si attribuiscono a Dio analogicamente a cagione della limitazione in cui tali cose sono dall' uomo percepite. Si distingua adunque in così fatti pregi la cosa , dal modo della cosa . La cosa, in sè stessa considerata, è assoluta ed infinita; ma il modo, nel quale l' uomo la vede, è limitato e finito: la cosa adunque si predica di Dio veramente; ma il modo, con cui l' uomo la percepisce, si predica di Dio solo analogicamente. E poichè l' uomo non può svestire interamente la cosa dal modo limitato, nel quale la percepisce, senza che gliene venga meno il concetto positivo; perciò si dice in generale, che tali doti e pregi sono predicati di Dio analogicamente. Sei adunque sono le predicazioni traslate: la metaforica, la metonimica, la proporzionale, l' effettuale, la causale e l' analogica. Alcuni latini scrittori della scuola, come dicevamo, compresero tutti questi sei generi, che appartengono all' equivocazione detta a consilio , sotto il titolo di predicazione analogica. All' incontro i commentatori greci d' Aristotele riservarono il titolo di analogici al solo terzo genere di nomi, quello de' proporzionali. Questa discrepanza di linguaggio generò confusione nelle dispute, delle quali le scuole si trovarono infine stanche e svogliate. Classificando accuratamente le diverse specie di predicazione, come abbiam tentato di fare, s' appiana la via necessaria per arrivare ad intenderci. E` ancora da avvertire, che ogni nome ha un primo ed unico significato, cioè significa una sola essenza applicato agli individui della quale esso ha un senso univoco; ed è questo che poi si trasporta a significare altro, e diviene equivoco a consilio, ossia traslato (2). Si dee dunque distinguere l' equivocazione traslata del vocabolo proprio e trasferito ad altro oggetto, dall' equivocazione traslata del vocabolo relativamente a' diversi oggetti, a cui significare fu trasferito. Nel primo caso i due oggetti significati, l' uno in senso proprio, l' altro in senso traslato, hanno un ordine tra loro, come a ragion d' esempio nel vocabolo ente applicato alla sostanza ed all' accidente; nel secondo caso i due oggetti, significati entrambi traslatamente, non hanno un ordine espresso dal vocabolo, ma hanno un ordine ad un terzo oggetto a cui si riferiscono, come il vocabolo ente applicato a più accidenti. Chiameremo i primi equivoci diretti , i secondi equivoci laterali . Negli uni e negli altri si dee distinguere la prima essenza a cui appartiene il vocabolo in senso proprio: ne' primi equivoci diretti si paragona questo significato proprio co' significati traslati; negli equivoci laterali il vocabolo in senso proprio è supposto, e si paragona i diversi traslati tra loro. Benchè questa doppia maniera di equivocazione abbia luogo in tutti i sei generi, tuttavia noi parleremo solo dell' analogia . Il nome della essenza in senso proprio paragonato co' suoi analoghi si può chiamare analogante , e i nomi delle essenze che hanno con essolei analogia, si possono chiamare analogati . Quindi la prima specie degli analoghi abbraccia l' analogante coll' analogato; e questa analogia non corre che tra due soli termini: la seconda specie degli analoghi è quella che abbraccia più analogati, escluso l' analogante; e questi analogati non si restringono a due, ma possono esser più indeterminatamente (3). Si può dire che nelle mani di Aristotele ogni partizione dell' ente sia logica, perchè anche allora che lo considera e parte fisicamente, lo riferisce sempre agli atti e alle forme cogitative. La scienza, a cui Aristotele pose più attenzione, è quella di predicazione; trascurò alquanto quella d' intuizione , di cui s' occupò cotanto Platone. Si può forse dire che di qui provengano le differenze che si osservano tra quelle due filosofie, delle quali differenze parleremo in appresso. Il principio, secondo il quale Aristotele divide costantemente l' ente, è l' analisi della proposizione. Egli aveva acutamente osservato che tutti i verbi, che s' adoperano nelle proposizioni, si possono sempre ridurre al verbo essere, riuscendo al medesimo il dire: « quest' uomo cammina o è camminante », e si dica il medesimo d' ogni altra proposizione (1). Predicandosi dunque sempre l' essere in tutte le proposizioni, credette che queste potessero somministrare ogni partizione dell' essere. Aristotele dunque accintosi all' analisi della proposizione, ossia della predicazione, distinse tre cose: 1 Il modo con cui si predica, ossia la natura del subietto considerato in relazione col predicato; 2 La cosa o entità che si predica; 3 Il valore della copula, che è la predicazione stessa. I Circa il modo con cui si predica, Aristotele distinse l' essere che si predica per accidente , [...OMISSIS...] , dall' essere che si predica per sè , [...OMISSIS...] . Ma queste espressioni non hanno tutta l' esattezza logica: al predicarsi una cosa di un' altra per sè corrisponde il predicarsi una cosa di un' altra per un' altra, cioè per una ragione ad essa straniera; e il predicarsi una cosa di un' altra sostanzialmente o essenzialmente corrisponde al predicarsi accidentalmente (3). A ragion d' esempio dicendosi d' un uomo che è musico, la qualità, benchè accidentale, d' esser musico appartiene all' uomo come uomo, e quindi per sè; all' incontro dicendosi d' un musico che è giusto, la qualità accidentale d' esser giusto non appartiene per sè al musico, cioè al musico in quant' è musico (in senso diviso), ma al musico in quant' è uomo (in senso composto, « Logic. , p. 101 »), e però gli appartiene per un altro, aliena vi . Dicendosi poi « colui che ride è uomo », la qualità d' esser uomo appartiene all' ente che ride, essenzialmente , ma non gli appartiene per sè , ma per un altro, cioè per la connessione che ha il ridere coll' essenza dell' uomo; poichè la ragione fisica per cui ride è l' esser uomo, e non viceversa; se non in una relazione dialettica, in quanto che il concetto del ridere inchiude quello di uomo. Altro è dunque il predicarsi per accidente , altro il predicarsi per altro: il predicarsi per accidente, è quando « il predicato è un accidente del subietto ». Ma questo predicato accidentale può convenire al subietto per sè, e può convenirgli per un altro: gli conviene per sè , se è un accidente di quel subietto preso questo in senso preciso; gli conviene per un altro, se non convenendo al subietto in senso rigoroso e preciso, conviene però a ciò che involge il subietto, per esempio, al subietto in senso composto, come denominazione d' un altro; o al subietto accidentale, come quello che suppone e richiama la sostanza. Del pari, altro è predicarsi essenzialmente ed altro è predicarsi per sè. Si predica essenzialmente, quando il predicato costituisce tutto o parte dell' essenza del subietto; e questo in due modi, poichè: 1 o il subietto è reale, e allora il predicato è un equivalente; 2 o il subietto è dialettico, e allora il predicato non è un equivalente del subietto in senso preciso, ma del subietto in senso composto, nel qual caso può il predicato essere una sostanza o un subietto reale, come: « chi ride è uomo »; e dicesi anche predicarsi sostanzialmente , e risponde alla terza maniera di predicazione accidentale degli Scolastici. Questi quattro modi dunque di predicazione si devono accuratamente distinguere (1). II Ora la predicazione per altro è posteriore alla predicazione per sè: onde, volendosi enumerare i primi generi de' predicati, che così intende Aristotele le Categorie, queste sono da lui chiamate predicamenti per sè. Ma egli confonde manifestamente il predicarsi accidentalmente , e il predicarsi per altro , come dicevamo. Poichè, dopo aver distinti i tre modi di predicazione per accidente [...OMISSIS...] . E a queste otto, nel libro delle categorie, aggiunge le due altre dell' essere situato e dell' avere , con che le categorie diventano dieci, e considera questi dieci predicati per sè, senza congiunzione [...OMISSIS...] . Apparisce dunque dalle stesse parole d' Aristotele: 1 Ch' egli colle dieci categorie intende classificare « le cose che si dicono »( «ta legomena»), come indica anche il nome di categorie o predicazioni. Ma poichè queste possono esser considerate come predicati, e come tali già congiunti con subietto, ( «ta kategorumena»); ovvero considerate sciolte, l' una a parte dall' altra, in quest' ultimo modo considerate, le chiama «kategoriai». 2 Che queste indicano altrettanti modi di essere: onde Aristotele non classifica veramente con esse gli enti, nè i principii degli enti, ma i modi più generici dell' ente (2). 3 Che esse significano i predicati che convengono all' ente per sè , e non per altro; di maniera che l' essenza sostanziale, il quanto, il quale, la relazione, convengono all' ente per la sua propria virtù, e non per una virtù straniera all' ente; il che avverebbe, se il quale si predicasse del quanto o del relativo. Così l' essere un ente grande o piccolo non conviene all' ente per sè, ma all' ente che è quanto è (3). Che dunque i predicabili significhino lo stesso essere in dieci modi diversi, questo s' intende. Ma anche qui Aristotele lascia da parte la cognizione intuitiva dell' essere, e tutto deriva da quella di predicazione . Ora l' essere è prima della predicazione, ed egli si divide indipendentemente da questa. Le dieci Categorie sono dieci idee che s' intuiscono, e intuite si predicano. Quando si predicano, sono già divise. Ma per Aristotele prima sono predicati, e poi astratti, benchè di natura sua dichiari anteriore la specie alla materia. Astratti poi non può ancora Aristotele contemplarli così semplici nella loro oggettività (1): li considera dunque come subietti di cui si predica in diversi modi l' essere. Il riconoscere nondimeno che sono « essere per sè », è lo stesso che confessare che non ricevono l' essere dall' atto della predicazione, e questo assegna loro un luogo elevato simile a quello che avea destinato loro Platone. Se dunque si considerano le Categorie come semplici ed incomplesse, [...OMISSIS...] , altro non presentano che una classificazione, benchè imperfetta, dell' essere ideale. Ma egli vuol considerare sempre gli universali nei singolari , poichè per lui questi soli sussistono: quindi i suoi universali doveano essere di loro natura predicabili , chè solo per via di predicazione le specie s' apprendono congiunte alle cose reali. Pure quest' operazione della mente, che si chiama predicazione , non produce punto le specie o le essenze ideali, ma non fa che usare di queste. Queste dunque sono prima idee o intelligibili, e di poi predicabili. Onde coll' aggiungere la predicazione, altro non si fa che guastare il concetto di esse idee, confondendolo con qualche cosa di soggettivo non appartenente alla natura della medesima. Di più: questa mescolanza dell' operazione soggettiva della predicazione colle idee non è necessaria, nè pure secondo il sistema d' Aristotele; poichè, sebbene egli nega l' esistenza dei generi in sè, ammette però che esistano da sè soli e separati dalla materia nella mente: e questo basta, perchè se ne possa parlare come d' intuiti, senza mescolarvi nulla di soggettivo. III La terza cosa che distinse Aristotele nelle proposizioni, si è il valore della copula, che si riduce sempre al verbo E`. Questo verbo dunque secondo Aristotele: a ) Può significare tanto che ciò che si predica sia in potenza, quanto che ciò che si predica sia in atto. Da questo trae la distinzione dell' essere in potenza e dell' essere in atto: e questa partizione dell' essere l' applica alle Categorie , che è quanto dire a tutti i predicabili. [...OMISSIS...] Con questo riconosce che il possibile e il sussistente è essere egualmente, e, come altrove dice, il medesimo essere; e che le Categorie per conseguente appartengono ugualmente all' ordine delle cose possibili ed ideali, e all' ordine delle cose sussistenti o reali. b) Essere od è , può significare ancora il vero; come non essere o non è il falso: [...OMISSIS...] . L' essere nel significato a ) afferma (o nega) qualche cosa in sè: l' essere nel significato b ) afferma qualche cosa nella mente; poichè il vero e il falso esiste, secondo Aristotele, soltanto nella mente. Col primo di questi due significati del verbo E` si pone qualche cosa in fatto come quando si dice « l' uomo è un animale »; coll' altro non si pone nulla in fatto, ma si esprime solamente che è vero o falso ciò che si afferma, come: « Colui è cieco », che viene a dire esser vero che colui è cieco; benchè col predicare la cecità non si ponga nulla in fatto, anzi si tolga un' entità positiva, qual è il vedere. Quindi la divisione celebre presso gli Scolastici dell' ens extra animam , e dell' ens in anima (3). S. Tommaso dichiara, secondo la mente di Aristotele, questi due significati del verbo E`, così: [...OMISSIS...] . Ma come avvien egli che il verbo E` possa significare la verità della proposizione, a ragione d' esempio, che nella proposizione: « Quest' uomo E` cieco », il verbo E` possa aver forza, come se si dicesse: « E` vero che quest' uomo E` cieco? ». Poichè la proposizione, così ridotta, altro non fa che introdurre due volte il verbo E`, e tutte e due le volte non può significare la verità della proposizione; chè in tal caso, nel risolverne il valore, si dovrebbe formare una proposizione, che andrebbe all' infinito, sostituendo al verbo E` l' equivalente « E` vero », venendosi a dire: « E` vero che E` vero, che E` vero, ecc. »; e senza venir mai all' ultima particola della proposizione « E` cieco ». Dunque in questa ultima particola il verbo E` non significa E` vero; ma significa l' affermazione di un non7ente. Non si può adunque rendere ragione di tali affermazioni, se non si parla della facoltà che ha lo spirito di affermare; e se non si dimostra che l' affermare non è un costituire un oggetto, ma è un disporre il soggetto intelligente in un dato modo verso un oggetto dato dall' intuizione. E questa disposizione e atteggiamento è appunto lo stesso atto dell' affermazione. Di che anche questo è una prova, che la negazione , la quale non pone nessun ente ma lo rimove, esige un atto simile e contiene un simile atteggiamento dell' animo. E veramente non si può affermare o negare senza conoscere l' essenza che si afferma o si nega: ora l' essenza è l' oggetto dato dall' intuizione. Ma affermando o negando un oggetto, o qualche cosa dell' oggetto, l' oggetto si viene a involgere nell' atto affermante o negante dello spirito. Onde, sopravvenendo la riflessione, questa contempla lo stesso oggetto vestito della negazione o dell' affermazione dello spirito; ed allora non è più l' oggetto puro, ma un oggetto che, parte è dato allo spirito indipendentemente dalle operazioni dello spirito, parte è lavorato dallo spirito stesso affermante o negante. Così la cecità è l' oggetto, cioè il vedere (presentato puramente nella sua essenza dall' intuizione) congiunto colla negazione. Tutti gli enti negativi o privativi sono formati in questo modo dallo spirito. Sorge quindi una riflessione d' altro ordine più elevato, la quale, esercitando l' azione sopra l' oggetto così lavorato, separa in essa la stessa affermazione o la stessa negazione, e forma degli astratti enti negativi e privativi; ed allora inventa de' vocaboli che li segnino. Così il vocabolo CECITA` significa l' astratto di un ente negativo. Questi enti negativi concreti ed astratti sono due classi di quegli che si chiamano enti di ragione , od enti razionali . Ora Aristotele non pervenne a conoscere la vera generazione degli enti razionali, nè seppe accuratamente descriverli come gli sarebbe bisognato. A tal fine conveniva che avesse investigato la natura di questa singolare facoltà dell' intendimento umano di vestire gli enti delle sue proprie disposizioni, e di convertire poscia a sè stesso queste disposizioni soggettive in enti, significandoli con parole simili a quelle che usa per significare gli enti veramente oggettivi. Noi crediamo bene di cogliere l' occasione di questa critica, che per noi si fa alla partizione che Aristotele fa dell' ente di ragione, per dare la classificazione degli enti razionali , come prima abbiamo fatto de' nomi che si possono dire enti dialettici . Aristotele conobbe chiaramente quell' ente razionale che nasce dalla negazione e quello che nasce dalla relazione . S. Tommaso accenna queste due fonti degli enti di ragione (1). Egli circa le relazioni osserva, che queste non sono sempre puri enti di ragione, ma talora sono realità (2) inerenti agli enti, come accade quando gli enti inclinano l' uno all' altro, o hanno azione o passione tra loro (3). Quindi è che talora la relazione reale è d' una parte sola, se una parte sola è ordinata all' altra, e all' altra tendente, e dall' altra dipendente, ma non viceversa, rimanendo dall' altra parte una relazione di pura ragione (4). Ma il filosofo delle scuole non considerò abbastanza in questo fatto degli enti di ragione due cose sommamente importanti: La prima , che gli enti di ragione altri sono astratti e puri come dicemmo della cecità; ed altri sono inerenti ai nostri concetti degli enti reali, come l' uomo cieco . Questi secondi sfuggono dall' attenzione filosofica facilmente: onde avviene che si parli di entità reali, come fossero per intiero reali fuori della mente; quando sono pure un composto di entità reali fuori della mente e di entità di ragione lavorate e messe loro intorno quasi come una rete dalle operazioni diverse dall' umana intelligenza, siccome abbiamo veduto essere l' ente espresso dal vocabolo IO «( Psicol. , pag. 61 e seg.) », e siccome vedremo anche in appresso, parlando delle Categorie. La seconda cosa, non osservata abbastanza, si è la differenza che passa tra l' ente ideale e l' ente razionale . L' ente razionale è produzione soggettiva della mente, come abbiamo detto: quando all' opposto l' ente ideale è per sè oggetto , ed è affatto indipendente dalla mente dell' uomo, e distinto da ogni mente, benchè escluda la realità ed abbia per sua natura la proprietà d' insiedere nella mente. La mente poi è un ente reale: e però tra l' ente ideale e l' ente reale passa una relazione essenziale , la quale non è nè pur essa un ente di ragione, non una produzione dell' intelligenza soggettiva, ma una congiunzione effettiva . Ora la mente, o, per dir meglio, il soggetto intelligente, essendo suscettibile di sentimenti, ed essendo egli stesso un sentimento primo e sostanziale, vede il reale, cioè il sentito e percepito sensitivamente, nell' ideale; chè ogni reale sentito segna nell' ideale un suo corrispondente, e così l' ideale si manifesta come tipo delle cose reali. Questa visione del reale nell' ideale è un' operazione della mente, e si scorge: 1 Nella percezione intellettiva, nella quale la mente dell' ideale e del reale fa un ente solo conosciuto; 2 Nell' idea specifica, nella quale si vede il reale nell' idea, ma solo come possibile, e non ancora come sussistente. Ora, quantunque la percezione e l' intuizione dell' idea specifica sieno operazioni della mente; tuttavia non si può dire che gli oggetti proprii di queste operazioni sieno enti di ragione . Poichè nella percezione: 1 c' è l' ente ideale, che è per sè oggettivo; 2 c' è il reale, che non è prodotto dalla mente, ma dato nel sentimento; 3 e c' è l' unione di questi due elementi, che si fa per una operazione della mente, ma per una operazione determinata dal rapporto o nesso essenziale che passa tra l' ideale e il reale, e che la mente non fa che vedere. Vero è che un tale rapporto suppone la mente, ma questa esigenza della mente si riduce a quella che ha l' essere ideale di trovarsi in una mente, e il reale d' essere o ridursi in un sentimento; onde l' esigenza della mente e del suo atto è un' esigenza ontologica, cioè uscente dalla natura stessa e dall' ordine intrinseco dell' ente; e però tale rapporto non è produzione soggettiva della mente umana, ma più tosto è analogo alla creazione, la quale, quantunque si faccia mediante il Verbo divino, tuttavia il prodotto è reale. Quanto poi all' idea specifica , ella non è che l' essere ideale considerato in rapporto con un reale possibile, rappresentato da vestigŒ o immagini del reale; e però si deve dire quello stesso che si disse della percezione. Tuttavia nella percezione e nell' idea specifica c' è di soggettivo l' affermazione o la negazione della realità; ma questo elemento soggettivo non è per sè l' oggetto di tali operazioni, e però non si può dire ente di ragione. Che se si considera l' affermazione stessa e la negazione come operazione del soggetto, in tal caso quelli si conoscono come entità reali, cioè come reali atti del soggetto intelligente, e però ancora non sono enti di ragione. Gli enti adunque che propriamente meritano d' essere appellati razionali , come quelli che si producono dalle operazioni della ragione senza che abbiano una reale esistenza in sè, si dividono primieramente nelle due classi indicate: che alcuni sono meri enti di ragione, quasi finzioni della ragione stessa; altri sono misti, cioè parte sono enti di ragione, e parte sono enti oggettivi, ovvero anche reali. I meri enti di ragione sono prodotti dalle seguenti operazioni della ragione: I Negare ; II Dividere ciò che nell' ente oggettivo o nell' ente reale è unito; III Riferire una cosa ad un' altra, trattandosi di cose non ordinate tra loro per via di nessi reali attivi o passivi; IV Comporre ciò che non è composto in sè stesso; V Analogare; VI Sostanziare ciò che non è sostanza; VII Suppositare . Dal che si vede, che gli enti di ragione appartengono tutti alla scienza di predicazione, e non alla scienza oggettiva. Facciamo un cenno degli enti di ragione che vengono prodotti da ciascuna di quelle operazioni. I Negare - Produce gli enti negativi . - La ragione avendo facoltà di asserire e di predicare, ha quella altresì di negare ciò che ha asserito e predicato, o che potrebbe asserire e predicare. Talora la negazione non è compiuta, e in tal caso si risolve in una limitazione, e si riduce al DIVIDERE. Ma i limiti e le privazioni delle cose, concepiti astrattamente, sono enti negativi con qualche relazione alla cosa limitata. Talora la negazione è completa, ed in tal caso l' ente ch' essa produce è il nulla : il quale pure suole rivestire varie relazioni, quasi termine delle limitazioni da una parte, e termine dell' entità che comincia dall' altra. Questi enti negativi non involgono errore se si prendono per quello che sono; ma la mente erra quando li prende per cose positive che non sono. II Dividere - Elementi formali (2) di un ente . - In un ente semplice ed indivisibile per sè stesso la mente distingue più cose, le quali non si trovano separate in natura, onde la separazione è posta dall' atto della mente. Ma questa separazione mentale è di due specie: a ) Talora i due o più elementi formali, distinti dalla mente in un oggetto, quantunque non separabili, cioè tali che l' uno non può esistere senza l' altro, sono distinti nell' oggetto stesso, di maniera che l' uno non è l' altro, nè entra nell' altro, ma sono legati insieme per una specie di relazione essenziale . Così nel sentimento si distingue il principio ed il termine, il senziente e il sentito, benchè non possano separarsi senza annullarsi, e senza annullare il sentimento che essi costituiscono. In questo caso la distinzione che fa la mente è in sè vera, e a quest' ente di ragione risponde una realità nella natura della cosa. Ma se la mente, oltre giudicarli distinti , trapassa a giudicare che esistano separati , o che l' uno di essi può star senza l' altro; in tal caso, alla prima distinzione che è vera, si aggiunge un giudizio falso, un errore. A questa specie si riducono tutte quelle cose che sintesizzano, come gli organi di un unico organismo, i quali non esistono come tali, che per ragione del tutto, e dal tutto non si possono dividere; l' intelligente e l' inteso, i termini correlativi, le tre forme dell' essere, ecc.. b ) Talora i due o più elementi inseparabili sono bensì distinti nell' oggetto, ma l' uno di essi entra nell' altro, e non viceversa. Così, quando la mente in un individuo da lei percepito distingue ciò che è proprio, ciò che è specifico, e ciò che è generico; allora il concetto di ciò che è specifico contiene in sè virtualmente anche ciò che è proprio, e il concetto di ciò che è generico contiene virtualmente ciò che è specifico; ma non viceversa. All' incontro, se la mente non guarda ciò che questi concetti contengono virtualmente, ma ciò che si trova nella realità propria, nella realità specifica, e nella realità generica; se n' ha il contrario: perocchè in un reale, che ha tutto ciò che gli spetta in proprio, è conseguentemente realizzato anche ciò che esprime la sua specie ed il suo genere; e in quanto si considera realizzato in esso ciò che è specifico, già si contiene realizzato anche ciò che è generico (1). In tutte queste distinzioni che fa l' umana ragione si crea degli enti di ragione, i quali non si dee già credere che sieno chimerici e vani, ed errano quei filosofi, che dicono, parlando anche in questo ambiguamente, che tali idee non hanno alcun valore obiettivo; poichè, se la mente con esse non considera e pensa tutto intiero l' oggetto, lo considera nondimeno e lo pensa ne' suoi formali elementi, realizzabili o realizzati nel tutto. La mente adunque non erra con queste distinzioni logiche; ma incomincia ad errare quand' ella vi sopraggiunge dei giudizi arbitrarii, coi quali si dà a credere, che quelli che non sono che elementi formali dell' oggetto, sieno altrettanti oggetti compiuti. III Riferire - Relazioni razionali . - Di queste abbiamo accennato di sopra. Le relazioni possono essere classificate anch' esse in generi e specie, e questi generi e specie sono come elementi formali delle relazioni medesime. IV Comporre - Unioni razionali . - Queste si fanno per lo più per via di relazione; ma la mente in generale ha la facoltà di considerare qualsivoglia complesso di cose eterogenee come una sola unità . Quindi le idee complesse razionali . V Analogare - Attributi . - Trattandosi di oggetti che la mente conosce solo negativamente, ell' è costretta attribuir loro, per via di certa analogia, le proprietà delle cose ch' ella positivamente conosce, e queste proprietà, in quanto sono predicate analogicamente dell' oggetto ignorato, diconsi attributi . Così il cieco nato dà le proprietà dei suoni ai colori di cui sente ragionare, e dirà il color rosso dover esser simile ad una voce soprana, ed il nero ad una voce bassa. E così pure è che noi parliamo di Dio, trasportando in lui le perfezioni che conosciamo nella natura. Questa maniera di ragionare non induce alcun errore, qualora la mente che l' usa, sappia in pari tempo, che tali sue predicazioni sono meramente analogiche. VI Sostanziare - Esseri immaginarii . - Un' altra classe di enti di ragione sono quelli, che la mente compone di altri enti da lei conosciuti: e a questi appartengono le personificazioni, le mitologie o le favole, e gli enti ipotetici che per qualsivoglia ragione l' uomo introduce nel suo discorso. Questi esseri sono falsi ed erronei, e non hanno valore oggettivo in sè stessi, ma se l' uomo conosce la loro falsità, o ipoteticità, con ciò stesso sfugge all' errore, riconoscendolo. VII Suppositare - Enti suppositati . - Se, colla facoltà di astrarre e di distinguere, la mente umana produce quegli enti di ragione, che abbiamo detti elementi formali , e relazioni , ecc., colla facoltà d' analogare altri enti di ragione che diciamo attributi , e colla facoltà persuasiva ed assertiva gli enti immaginarii ed i negativi , colla intuizione si procaccia le idee; colla facoltà stessa di ragionare produce poi questa settima classe di enti di ragione, che diciamo suppositati , cioè presi per supposti . Ed ecco ond' ella è mossa a costituirli. Prima legge di operare della mente è il principio di cognizione, il quale la obbliga a concepire, tutto ciò che concepisce, come un ente; giacchè quel principio dice: « l' oggetto dell' intelligenza è l' ente ». Ora tale è la natura dell' ente che non si può concepire, se non si concepisce in esso un atto primo. Quindi accade, che anche gli enti di ragione, i quali non hanno la natura d' atti primi, ma o sono semplici elementi di tali atti, o sono atti secondi, o sono negazioni di atti, non si possono concepire dalla mente, se ella non li veste della forma di enti, e perciò di atti primi, senza di che ella non potrebbe pronunciarli così separati e divisi dall' ente. Al che le prestano gran servizio i vocaboli e gli altri segni sensibili: i quali, non rappresentando la cosa segnata nella sua natura, ma solo indicandola, non porgono all' attenzione di chi gli usa la distinzione che passa tra gli enti reali e compiuti, e gli enti di ragione. Onde venendo tutti significati per egual modo, anche gli enti di ragione passano mescolati e indistinti insieme cogli enti compiuti e reali, e sostengono, per così dire, la persona di questi. Nel che la mente non prende errore, se ella non sa qual sia il personaggio che giuocano tali enti in sulla scena del suo pensiero. Posto adunque che la mente è obbligata di considerare gli enti di ragione come enti in sè, niuna meraviglia è, ch' ella li prenda nel ragionamento a suppositi: e questi sono quelli che più sopra abbiamo appellati subietti dialettici . Noi intendiamo sotto l' espressione di partizione fisica tutte quelle distinzioni dell' ente, che non hanno per loro fondamento il linguaggio, nè le operazioni subiettive della mente umana, ma che sono nell' ente stesso, sia reale, sia ideale. La prima divisione, che sotto questo punto di vista si presenta in Aristotele, si è dell' ente singolare e in sè sussistente, e dell' essere universale , che non esiste separato e per sè, ma nelle cose come forma della materia, e nella mente come specie, separate dalla materia corporea, ma non da una sostanziale intuizione. L' ente singolare sussistente è la SOSTANZA, ossia l' ousia prima, [...OMISSIS...] : l' ente universale si riduce da Aristotele, come a sommi generi, alle Categorie. L' ente singolare e sussistente, cioè la sostanza prima, è triplice: 1 l' una sensibile e corruttibile; 2 la seconda sensibile e mobile, ma incorruttibile (gli astri); 3 la terza insensibile, incorruttibile e immobile, il primo motore (2). L' ente universale non è per Aristotele un ente sussistente, ma inseparato dal singolare: tuttavia esso considera le dieci categorie, in cui lo riparte, come i dieci generi supremi dell' ente (3). Conviene dunque che noi esaminiamo diligentemente questa partizione. La dottrina delle Categorie Aristoteliche soggiacque a diverse interpretazioni, ciascuna delle quali potrebbe subire una critica speciale; ma la prima osservazione è questa appunto d' essere da Aristotele esposta in un modo pieno d' incertezze e d' anfibologie, onde le varie interpretazioni. Pure, aderendo alla lettera d' Aristotele, ella apparisce meno imperfetta che pigliandola come fu intesa dagli scoliasti greci, e da' loro discepoli gli Scolastici. Partendo dunque dal principio che Aristotele, colle categorie non volle far altro che classificare i sommi modi dell' ente secando ne' suoi elementi il linguaggio e cercando in questo i più generici e primi predicati dell' ente (1), non farà più meraviglia, che nella tavola delle categorie aristoteliche non si trovi nè l' ente , nè la materia . Nè l' uno nè l' altra poteva trovarci luogo: non l' ente , perchè egli non è un modo, ma quello che di tutti i modi è suscettivo, e quindi di tutti i predicati; non la materia perchè nè pur essa è un modo dell' ente, ma, secondo Aristotele, il substrato ( «hypokeimenon») di tutti, e quella che sostiene tutti i modi. Io non intendo qui ricercare, se la materia e l' ente (privo de' suoi modi) fosse per Aristotele il medesimo: certo è, che Platone stesso prende l' «usia», ovvero l' «on», come l' indeterminato, l' informe, e in una parola la materia; se non che egli distingue, come vedemmo, tre materie, l' ideale , la spaziosa e la corporea , onde i suoi tre sommi generi degli enti. Aristotele dunque dice, che [...OMISSIS...] . Riconosce dunque Aristotele, che la specie e la materia sono di diverso genere tra loro, perchè non si possono condurre a un medesimo, rimanendo sempre distinte. Ma oltre questi due primi generi, distingue quelli che si formano dalle categorie dell' ente [...OMISSIS...] . Ma che sono questi schemi di categorie dell' ente? e che cosa è l' ente di cui sono categorie? E se anche la specie e la materia sono generi, non diventeranno dodici i generi anzichè dieci? Per rispondere a queste domande, conviene osservare che per Aristotele ogni genere è una specie (2), onde nomina spesso anche « « la specie della materia » » (3). Ma la materia stessa non è una specie, ma una natura contrapposta e irreducibile alla specie. Conviene dunque, che anch' egli ammetta due principŒ , che infine, con qualunque nome si chiamino, sono sempre quelli de' pitagorici: l' indeterminato e il determinante. L' indeterminato, cioè la materia, non ha numero, perchè non ha specie, e quando riceve la specie, allora solo si figura e distingue: la specie all' incontro, che è il determinante, ha numero, cioè ci sono diverse specie. Ricercando quali sieno, si viene a scoprire una gerarchia di specie, nella quale si distribuiscono in più e meno estese, e quelle contengono queste. Ma le più estese di tutte non sono contenute in altre d' estensione maggiore, appunto perchè sono le più estese. Rimane dunque a cercare, se le più estese di tutte, irreducibili ad altre, sieno una sola, o più; e questa è la ricerca delle Categorie, come le concepisce Aristotele. Onde « il diverso schema della categoria dell' ente », equivale a dire « la diversa specie che si può predicare dell' ente »: l' ente poi, che è il subietto della predicazione, è la materia di cui, avendo già ricevuto la specie, questa si può predicare (1). Rispose dunque Aristotele, che le specie più estese, e irreducibili, non sono una sola, ma dieci: e così stabili le sue dieci Categorie. Lasciati dunque da parte gli altri significati, in cui si prende la parola genere (2), Aristotele nelle categorie parla di « « quelli che ammettono differenze » ». [...OMISSIS...] Il genere categorico dunque si considera da Aristotele, come materia rispetto alla specie , e subietto delle differenze . Ma il subietto stesso e la materia prendono significati diversi tanto presso Platone, quanto presso il suo discepolo. Onde questi generi, ciascuno de' quali è detto « come materia »( «hos hyle»), si distinguono secondo che « « il subietto primo, ossia la soggiacente materia, è diverso »(4) »: di che deduce, che « la specie e la materia sono generi diversi », perchè, tanto la specie, quanto la materia, sono subietti diversi irreducibili l' un all' altro. Dove la parola « materia »qui ha mutato di significato, cioè ne ha preso uno più ristretto, ha preso il significato di « materia reale ». Checchè dunque dica altrove Aristotele circa la doppia materia ammessa da Platone, cioè l' ideale e la reale, egli cade nella stessa distinzione: poichè, se ogni genere si considera come materia, «hos hyle», e se due generi sono « la specie e la materia », convien dire che ci sia una materia ideale , che costituisce il genere delle specie, e una materia reale , che costituisce un altro genere. E questi sono veramente i sommi generi d' Aristotele del tutto irreducibili. Ma qual genere può costituire la materia reale? Se al genere, secondo lo stesso Aristotele, sono necessarie le differenze [...OMISSIS...] , come la materia, priva delle specie, avrà differenze? In nessun modo, differenze che abbiano un subietto identico; e altramente non sarebbero differenze. Per questo Aristotele, benchè chiami un genere la materia, non l' annovera co' sommi generi, cioè colle Categorie. Il che dimostra, che prenda la parola genere in due sensi diversi. Altro è dunque il genere che si definisce: « quello che è primo come subietto, e non si riduce ad un altro », e questa definizione conviene alla materia, che non si può ridurre alla specie: altro è il genere che si definisce: « il subietto delle differenze », e questa definizione non conviene ala materia (1), ma a quei generi ch' egli chiamò Categorie, poichè questi sono « i primi subietti delle differenze », che uniti a queste costituiscono i generi minori e le specie, e queste sottostanno come loro materia. Le Categorie dunque non appartengono alla materia reale, ma all' ideale, e sono le specie più estese , secondo Aristotele, e però le meno determinate e comprensive. Dal che si deriva primieramente, che Aristotele non ravvisò col suo pensiero la materia ideale in tutta la sua universalità, la quale non è altro che l' essere ideale (1), poichè, se l' avesse bene ravvisata col suo pensiero, egli si sarebbe avveduto ch' ella è una specie più estesa de' suoi dieci generi, e avrebbe ridotto questi a quella come a loro sommo ed unico genere, se così si vuol chiamare, perchè subietto dialettico irreducibile ad alcun altro, e suscettivo di tutte le differenze o determinazioni. Conviene dunque riconoscere che Aristotele ammette primieramente due principii (a cui aggiunge poi per terzo la privazione «he steresis») che non si fanno (2), la materia e la specie , e quest' ultima si parte, come nei sommi suoi generi , nelle Categorie: la prima poi è il principio, da cui vengono, non i generi, ma gl' individui , supposta la forma o specie. Ma risultando dall' unione di questi due principii, materia e specie, la sostanza; rimane a vedere come questa possa tuttavia annoverarsi tra le categorie: a tal fine dobbiamo ritornare alla dottrina aristotelica, che riguarda la sostanza. Primieramente dunque la sostanza è il primo, come dicevamo, della filosofia aristotelica, perchè di tutte le entità sono prime le sostanze, [...OMISSIS...] . E questa sostanza, che costituisce il primo filosofico d' Aristotele, non è l' idea di sostanza (essenza sostanziale), nè pur l' idea piena; ma la stessa sostanza reale. Questo suo concetto il dichiara, tra gli altri luoghi, nel libro delle « Categorie », dove parla della sostanza (4). [...OMISSIS...] Non poteva designarsi in un modo più preciso la sostanza individua e reale; perchè, essendo questa il subietto reale a cui convengono i predicati, è chiaro che dire: o che il subietto è nel subietto, o che il subietto si predica del subietto, altro non sarebbe che una logomachia assurda. Questa sostanza dunque, ovvero «usia» prima , non può essere la sostanza categorica, perchè le « Categorie » sono i sommi predicabili (1). Appresso, di quella sostanza che appartiene alle Categorie, e che è l' idea o specie di sostanza, o l' essenza sostanziale, soggiunge così: [...OMISSIS...] . Non dunque la sostanza reale, ma le specie e i generi della sostanza, dette da noi anche essenze sostanziali, si riducono, come all' idea più generale, alla categoria aristotelica della sostanza; dappoichè la sostanza categorica, come l' altre categorie sono comuni , dicendo Aristotele, che « « fuori della sostanza e dell' altre cose che si predicano, niente v' ha di comune »(3) ». Convien dunque conchiudere, che le Categorie aristoteliche non sono punto una partizione dell' ente in tutta l' estensione della parola, ma una semplice classificazione degli universali, ossia delle idee. Di poi è necessario osservare su questa classificazione quanto segue: 1 Niuna delle dieci categorie esprime puramente l' ente qual è in sè, non involto nelle operazioni della mente; ma tutte significano enti misti d' entità in sè, e d' entità prodotta dalle operazioni della mente. Per convincersene si consideri che i dieci predicamenti, secondo gli Scoliasti, si riducono: 1 alla sostanza, 2 agli accidenti distribuiti in nove classi (1). Ora la sostanza è un vocabolo che nomina l' ente con una relazione agli accidenti che sono in essa; e questa relazione è un ente razionale. Di più la parola sostanza divide l' ente da' suoi accidenti. Ma questa divisione e separazione è l' opera della mente: non trovasi nella natura delle cose, dove, quantunque ci sia distinzione, non vi ha separazione, cioè non c' è sostanza (propriamente detta) divisa dagli accidenti, nè ci hanno accidenti divisi dalla sostanza; ma la sostanza e gli accidenti formano un ente solo perfetto. Nei dieci predicamenti non si parte dunque l' ente puro, qual è in natura, nè l' ente qual è nella mente intuente; ma quell' ente artefatto dalle operazioni della mente stessa, da appendici che spettano alla condizione dell' ente razionale. Insomma sostanza ed accidente si possono dire elementi dell' ente finito, ma non enti compiuti. 2 Dalle Categorie aristoteliche rimane escluso l' ente assoluto . La parola sostanza , involgendo una relazione coll' accidente, non si può in senso proprio applicare che a quell' ente che è suscettivo di accidenti. Ma l' ente assoluto non ha accidenti: dunque il suo essere non si può in senso univoco e proprio chiamare sostanza, ma semplicemente ente . Oltre di ciò l' Ente assoluto, essendo singolare, non si può predicare di cosa alcuna, e però non appartiene al novero delle Categorie; ma è un' ousia prima. 3 Manca ancora nelle Categorie la sussistenza, «ypostasis», e la persona, «prosopon» (1). E qui è da notarsi, che i greci filosofi non isvilupparono mai il concetto di persona; e questo stesso vocabolo, nel senso filosofico, è dovuto ai dottori ecclesiastici, i quali n' abbisognarono per esprimere la sublime dottrina della Trinità, facendo con ciò grandissima giunta alla filosofia. 4 Manca oltreacciò per intero nelle Categorie aristoteliche l' essere morale , che è pure una forma primitiva dell' essere, la quale con niun' altra si può confondere o ridurre a nessun altro genere. 5 La categoria del luogo, «pu», porge due osservazioni a farsi: la prima, che altro è il luogo , altro lo spazio . Il luogo è una determinata parte dello spazio considerata in relazione dei corpi reali o immaginarii, che la occupano. Quindi il luogo non è che una relazione contenuta nella categoria «pros ti», laddove lo spazio è, sotto un certo aspetto, assoluto. Forse i greci non avevano una parola che significasse l' equivalente del nostro spazio puro ed assoluto, perocchè «diastema», non significa spazio, ma intervallo, o spazio limitato. S' avvicina però a significare lo spazio puro la parola «ekteneia», che vale estensione, benchè in greco, se non erro, ha più forza di significare l' atto dello estendersi, che lo spazio esteso; e così pure la parola «syneches», che suona continuo , e fu usata dagli Eleati appunto a significare il continuo esteso dell' universo, e finalmente la parola «chora» che vale recettacolo , e che io credo veramente sia adoperata da Platone per indicare lo spazio, benchè non senza una relazione al corpo in esso contenuto. Ma la ragione principale, per la quale Aristotele introducesse nelle sue Categorie il luogo e non lo spazio, probabilmente si è perchè avendo egli considerato nelle Categorie altrettanti modi di predicare, doveva fermarsi al luogo che si predica de' corpi, anzichè allo spazio illimitato che non si predica de' corpi. E tuttavia tra lo spazio illimitato, e il luogo (spazio relativo), c' è ancora lo spazio limitato occupato da' corpi (spazio limitato), il quale si predica de' corpi. Perchè l' ha dunque omesso il nostro filosofo? Si può rispondere che l' abbia compreso nella categoria della quantità «to poson». 6 Le categorie del luogo ( «pu»), e della situazione ( «keisthai») non sono modi con cui si predica l' ente in universale, ma un ente particolare, cioè l' ente esteso e corporeo. Ora le Categorie, nel senso d' Aristotele, non sembrano descrivere quante maniere si possano predicare le particolari specie di enti, nel qual caso il loro numero dovrebbe crescere pressochè all' infinito; ma sì quante sieno le maniere generalissime di predicare. Ora questo prendere l' ente esteso quasi fosse universale, quasi il luogo e la situazione propria dei corpi fossero predicamenti di ogni ente, dimostra, come la mente del filosofo era legata ai sensi ed agli enti corporei. Onde la sua ontologia riuscì angusta, perchè cavata principalmente dalla considerazione dell' infima specie degli enti, quali sono i corporei, anzichè dalla considerazione dell' ente in se stesso, senza restrinzioni positive ed arbitrarie. 7 Se tutte le Categorie di Aristotele sono enti involti in appendici provenienti dalle operazioni dell' intendimento, alcune sono al tutto enti razionali come la quarta, che è la relazione «pros ti». Vero è, che ci hanno certe relazioni oggettive: ma, oltre che il filosofo qui non le distingue dall' altre giacchè il «pros ti» abbraccia tutte le relazioni senza distinzione, è da considerarsi di più, che le tre ultime categorie ch' egli enumera l' avere , il fare , e il patire ( «echein, poiein, paschein»), sono relazioni reali. Onde da una parte la divisione delle categorie riesce imperfetta, perchè nella quarta «pros ti» già queste tre ultime si contengono; dall' altra, se queste categorie si escludono dalla categoria della relazione, questa non abbraccia quasi più altro che meri enti di ragione. Se non che, volendo enumerare le relazioni reali a parte, ne avrebbe dovuto aggiungere molte che omise, e principalmente il ricevere , che Aristotele confonde bene spesso col patire , ma a torto, perchè il patire involge il concetto d' una modificazione che l' agente produce nel subietto paziente; laddove il ricevere semplicemente non acchiude questo concetto, potendo il ricevente ricevere senz' esserne egli stesso modificato. Che se di più si considera la spiegazione che il nostro stesso filosofo dà delle Categorie, vedesi che egli riduce alla categoria della relazione anche la quantità comparativa, come il maggiore, il doppio ecc., e la posizione. Distingue adunque i varii aspetti, sotto i quali lo spirito considera le stesse cose, e ne forma varie categorie (1). Onde dice che il giacimento e la sessione , e gli altri atteggiamenti , sono ad altro; cioè esprimono relazioni: ma il giacere , lo stare , il sedere , ecc., non sono relazioni, ma sono denominati dalle posizioni rispettive le quali sono relazioni. Il che dimostra che la distinzione delle Categorie è tutta dialettica , come deve essere, perchè tolta dal predicare, sicchè esse si distinguono secondo il senso preciso delle parole, e però secondo le relazioni mentali significate dalle parole, di maniera che la posizione, per es., la giacitura, ecc. appartiene ad una categoria, cioè alla categoria «pros ti», e all' incontro lo stare, il giacere, ecc. appartiene ad un' altra categoria, cioè alla categoria «keisthai». E osserveremo anche qui di passaggio la somma diligenza che è necessario adoperare in tradurre un autore così dialettico, perchè, sostituendo una forma all' altra di dire, perisce spesso il vero sentimento che voleva esprimere il filosofo. La stessa cosa può appartenere a più predicamenti, secondo l' aspetto in cui la si considera e il modo con cui ella verbalmente s' esprime. Prendiamo l' esempio dall' ottava categoria «echein», che da alcuni si traduce impropriamente habitus . Se si considera e si esprime AVERE, l' abito appartiene all' ottavo predicamento «echein»; se l' abito si considera come una relazione a chi lo ha, appartiene al quarto predicamento «pros ti», come si rileva dal capo III del libro « Dei Predicamenti »; se si considera come un abito che affetta e qualifica chi lo ha (il che accade specialmente degli abiti spirituali), appartiene al terzo predicamento «to poion», come pure si dice nel capo 4 del citato libro. Laonde Aristotele nell' opera « Dei Predicamenti » fin da principio definì quali sieno i nomi denominativi, cioè quelli che vengono imposti agli enti da qualche cosa di accidentale, come grammatico da grammatica, e però sono casualmente differenti dai predicamenti, dunque si denominano le cose, e le cose stesse così denominate cangiano talor di predicamenti. Affine adunque d' intendere i predicamenti, giova aggiunger loro il verbo essere che esprima la forma della predicazione, come nella seguente: «e usia» «to poson» «to poion» «pros ti» «pu» «pote» «keisthai» «echein» «poiein» «paschein» Le Categorie dunque d' Aristotele non compartiscono l' ente, ma distinguono i modi di predicare qualche cosa dell' ente, e quindi i concetti diversi, secondo i quali si considerano gli enti. Di più Aristotele distingue il modo di predicare una cosa d' un' altra da ciò che si predica . I modi di predicare li chiama predicamenti o categorie , e ciò di cui in ciascun modo si predica, li chiama predicabili o categoremi. I predicabili, di cui parla ne' libri « De' luoghi » si riducono a quattro: il termine , il proprio , il genere , l' accidente: e sotto il genere comprende la differenza specifica e la specie, che è lo stesso genere coll' aggiunta della differenza. Dice adunque, che in ciascun dei detti modi di predicare si possono predicare quattro cose: il termine , cioè la quiddità della cosa, o il proprio , cioè una tale qualità che sia propria di quella sola cosa di cui si parla, come dell' uomo aver la facoltà d' imparare la grammatica (il che non costituisce l' essenza dell' uomo, ma è sempre unito all' essenza), o il genere colle differenze e le specie, o l' accidente (1). Questi predicabili o ricevono le loro determinazioni da questi quattro predicabili (2). Per esempio, se noi prendiamo il predicamento quale , questo quale si può definire, o esprimendone l' essenza (predicabile «Horos») o esprimendo qualche sua proprietà che non è però la sua essenza, ma conseguente ad essa (predicabile «idion»), si può ancora definire genericamente (predicabile «genos»), si può definire specificamente cioè col genere e colla differenza (predicabile «eidos», e «diafora»), e si può definire indicando solo qualche suo accidente (predicabile «symbebekos»). E così i predicabili si possono applicare alla definizione dei predicamenti . Concludiamo, le Categorie aristoteliche non danno una partizione ontologica dell' ente, ma dialettica; ed anche questa manchevole. Non soddisfanno dunque alle esigenze dell' Ontologia. L' aristotelismo, prevalso nelle scuole, racchiuse gl' ingegni entro il circolo delle partizioni dialettiche, e se alcuno tentò di uscire da quella cerchia, e spaziare negli ordini degli enti, non gli riuscì bene l' audacia, impotente a vincere le difficoltà del cammino scientifico, non tracciato quasi da piede alcuno, e la guerra degli uomini. Onde, quantunque nella storia della Filosofia si trovino molti tentativi dialettici sforzi di classificare più ampiamente che non aveva fatto Aristotele i concetti generali delle cose, componendo arti magne e mnemoniche e lingue universali, da Raimondo Lullo specialmente sino a Leibnizio; tuttavia invano si cercherebbe ne' lavori anteriori al passato secolo qualche veduta nuova ed originale sulla partizione ontologica dell' ente. Conviene dunque discendere fino al Kant, il quale tuttavia dichiara, che il suo scopo nel disegnare le Categorie è quel medesimo ch' ebbe Aristotele (1). E di vero, che anche la partizione del Kant sia dialettica anzichè ontologica , si rileva da questo, ch' egli parte dal principio che « pensare è giudicare », come Aristotele parte dal principio che « i modi del predicare sono i modi dell' essere ». I due filosofi in questo vanno a pieno d' accordo. E che « pensare sia giudicare », noi l' accordiamo (2), perocchè pensare è propriamente usare della facoltà del pensiero. Ora analizzando l' atto del pensiero trovasi che questo suppone una facoltà innata, e che questa suppone l' intuizione primitiva ed immanente dell' essere. Così dal pensare, cioè dal giudicare, il Kant si sarebbe potuto sollevare alla vera teoria dell' umana intelligenza. Ma, invece di ricercare le condizioni del pensiero le vere anticipazioni, egli s' occupò unicamente, come avea pure fatto Aristotele, delle forme del pensiero, e credette avere esaurito il suo argomento, quando le avesse diligentemente classificate e distinte. E come Aristotele prese a classificare gli enti misti di entità a parte sui e di operazioni mentali, senza accorgersi di tale mistura, così pure fece il Kant; ma con questa differenza, che quella parte, che gli enti aristotelici aveano d' attorno pel lavorìo soggettivo della mente, fu presa dallo Stagirita come fosse anch' essa entità vera a parte sui; laddove Kant, eguale ad Aristotele nel tenere le due parti confuse, prese anche la parte, che era vera entità a parte sui , per cosa soggettiva, razionale, dalla mente lavorata e prodotta. Onde il dialettico Kant diede nell' eccesso opposto a quello in cui avea peccato il dialettico Aristotele. Il Kant s' accorse che le cognizioni che cadono nell' umana mente, altre sono necessarie ed universali, altre sono contingenti e particolari. Que' giudizi , che non ponno intendersi se non concependo la necessità e l' universalità, li chiamò a priori , e se non sono dedotti da niun elemento empirico precedente, li disse a priori puri: que' giudizi che si ponno intendere senza ricorrere alla necessità ed universalità, egli li nominò a posteriori . Fin qui niente accade da osservare. Ma quando viene a determinare onde nasca la necessità e l' universalità da una parte, la contingenza e la particolarità dall' altra, allora egli stabilisce un criterio evidentemente erroneo, il quale, come è il fonte del criticismo, così pure è il fonte dell' erroneità di tale sistema. Il principio è questo: [...OMISSIS...] . Egli è pur singolare a vedere con quale leggerezza e sicurtà Kant ammette questo principio. Egli avrebbe dovuto darsi tutta la cura di provarlo con dimostrazione rigorosa, giacchè trattasi del fondamento unico su cui posa tutto l' edificio della sua filosofia. E pure nulla di questo. - Egli lo introduce a principio nel discorso quasi per incidenza (3) come cosa che viene da sè, su cui non si aspetta dal lettore la minima opposizione. [...OMISSIS...] Egli dunque dà per cosa certissima che, se qualche cosa vi ha nelle cognizioni umane che non venga dall' esperienza, debba necessariamente esser prodotta dalla stessa nostra facoltà di conoscere, e che le cognizioni umane non possano avere alcun altro fonte fuori di questi due: 1 i sensi , e 2 la stessa facoltà di conoscere . Tuttavia se egli avesse indagato la natura della facoltà di conoscere, non già dalle supposte produzioni di lei, ma dal rapporto che passa tra lei ed i suoi oggetti necessarii, egli avrebbe trovato ancora il varco d' uscire dal labirinto del soggettivismo. Ma vi si perdette irrimediabilmente, posciachè prese la facoltà di conoscere unicamente come attività del soggetto, o mosse da un principio anticipato, ch' ella producesse a sè stessa tutto ciò che si trova nelle sue cognizioni, e che non viene dato dai sensi. Questo è il pregiudizio della filosofia Kantiana, il postulato arbitrario, il punto in aria a cui il filosofo appoggia la leva per muovere da' suoi cardini il mondo scientifico. Posto che ciò che si trova nelle cognizioni umane travalicante il confine dell' esperienza è una mera produzione della facoltà di conoscere, ne consegue necessariamente, che ad indagare la natura di tale facoltà basti occuparsi in enumerare con accuratezza e classificare queste sue produzioni. Tale adunque fu il campo, in cui si esercitò il filosofo di K”nisberga. Quel pregiudizio fondamentale gli prescriveva il cammino da tenersi nell' investigare la natura dell' intelligenza, e quindi lo impediva d' investigare questa natura per altra via che la segnata da quel pregiudizio stesso. Quindi la natura della facoltà di conoscere rimase incognita a Kant, il quale non fece che ricevere la descrizione di questa facoltà quale gliela dava il mentovato pregiudizio ch' ella fosse la causa producente di ciò che si conosce oltre i limiti dell' esperienza. Egli è ancora singolare a vedere, quanta fiducia dimostri questo filosofo ne' dati dei sensi, e quanto poca, anzi nulla, ei ne conservi pei dati dell' intelligenza. Questo è il costante carattere de' sensisti: ai sensi essi credono ciecamente: le loro deposizioni sono le sole oggettive, come espressamente dice fra noi il Galuppi: l' intelligenza sola non ha alcuna virtù di cogliere dei veri oggetti, ma sol de' fenomeni. Favellando di ciò che l' intelligenza crede conoscere al di là dell' esperienza, ei la rassomiglia alla colomba che sentendo la resistenza dell' aria s' immaginasse di volare più facilmente e liberamente nel vuoto. [...OMISSIS...] Nel qual discorso si ammette come indubitato che il sensibile sia il solo punto d' appoggio che abbiano le ali dell' intelletto, e che senza il sensibile l' intelligenza non trova che campi vuoti. Non sono questi i soliti pregiudizi volgari dei sensisti? i quali non si son saputi svestire nè pure da colui che pretese di darci un sistema di filosofia trascendentale! E veramente, che questo sia pregiudizio, fede cieca e volgare ai sensi, incredulità arbitraria e parimenti cieca alla deposizione dell' intelligenza, si può desumere da questa riflessione: Non meno il senso che l' intelligenza sono potenze dell' uomo; Non meno il senso che l' intelligenza hanno dei loro proprŒ termini, cioè il senso ha i termini sensibili, l' intelligenza i termini intelligibili; Non meno il senso che l' intelligenza ha questa legge che non percepisce il suo termine, se non a condizione che egli sia congiunto colla sua potenza: di maniera che egli è un pregiudizio volgarissimo il credere che il senso percepisca i suoi termini in quanto sono staccati da lui, e in questo senso esterni; onde se per esterni si intende staccati dalla potenza, è falso che il senso percepisca meglio che l' intelligenza un' entità esteriore. Se adunque la condizione delle due potenze in tutte queste condizioni è uguale, perchè mai, se non per un mero arbitrio, si dichiara che il senso ha virtù di percepire veri oggetti, e non così l' intelligenza? Questo è il medesimo che sragionare in questo modo: [...OMISSIS...] . Ma onde si prova la minore di questo sillogismo? Da nessuna parte, per nessuna via. - Essa non è che l' espressione della profonda INCREDULITA` che si è messa negli animi alle cose sopra sensibili; la prova evidente della corruzione e DELLA MATERIALITA` DEL SECOLO. Se invece di asserire ciò che detta l' incredulità preconcepita alle cose spirituali, si volesse veramente ragionare e filosofare, si perverrebbe ad un risultamento assai diverso; cioè si conoscerebbe: 1 Che il senso non attesta nulla per sè solo, e non ha alcuna virtù oggettiva perchè esso ha termini, ma non oggetti: 2 Che è solo l' intelligenza quella che vede i fenomeni e le entità sensibili nel vero oggetto intelligibile, l' ente da lei intuìto fuori di tutti i sensi corporei, e così gli oggettivizza, ossia li conosce come enti, come oggetti distinti dalla facoltà; 3 Che la intelligenza per conseguenza ha un oggetto al tutto superiore al mondo sensibile, e che quello è il solo vero oggetto dal quale viene l' oggettività alle stesse entità sensibili; 4 Che la sola intelligenza perciò ha vera virtù oggettiva, cioè ella sola è la facoltà di farci conoscere con certezza le cose come sono in sè, e distinguere da noi stessi quelle che sono da noi distinte. I sensisti adunque, e Kant con essi, cadono fra l' altre in questa inconseguenza, che prestano tutta fede alla ragione quando ci asserisce qualche cosa intorno agli oggetti sensibili, e le negano fede quando con eguale o ancor maggior asseveranza ella ci asserisce qualche cosa intorno agli oggetti intelligibili; quasi che una stessa facoltà potesse essere ad un tempo e verace e menzognera secondo il bel piacere de' filosofi materiali. Per altro, quello che è ancor più assurdo si è il dilemma Kantiano: che ciò che non viene dall' esperienza debba venire dal soggetto intelligente; e però che non venendo dall' esperienza dei sensi il necessario e l' universale, questo dee venire dal fondo dell' uomo stesso. Questo argomento si potrebbe rovesciare, e riterrebbe lo stesso valore del precedente, dicendo: « Il necessario e l' universale non può venire dal soggetto intelligente, perchè questo non è nè necessario nè universale; dunque deve venire dall' esperienza ». Questo « dunque deve venire dall' esperienza », vale altrettanto del primo « dunque deve venire dal fondo dell' uomo ». L' uno e l' altro nulla provano, anzi sono manifestamente erronei. La radice di questo errore, si è il non distinguersi la facoltà dell' umana intelligenza dagli oggetti dell' intelligenza: quella è contingente e particolare, questi sono necessarii ed universali. Questi dunque non possono venire da quella, perchè l' effetto non può essere maggiore della sua causa (1). Ma datemi un uomo pregiudicato, un uomo che già precedentemente abbia invincibile ripugnanza (benchè non sorretta da ragione alcuna) ad ammettere oggetti intelligibili diversi da' sensibili. Questi che farà? Si getterà ad asserirvi francamente (perchè tali prevenuti asseriscono, non ragionano), che quelle qualità di universalità e di necessità non possono essere che apparenti, il che è quanto dire che si potrebbe pensare che l' ente non fosse ente, o che si potrebbe pensare qualche cosa fuori dell' ente, distruggendo così tutti i principŒ della ragione. Se Kant, o piuttosto il suo secolo e il suo paese non avessero rotto il filo della tradizione filosofica, egli avrebbe potuto imparare da que' pensatori che vissero molti secoli prima, che vi ha ripugnanza intrinseca in fare che « la natura contingente produca il necessario, l' universale, l' eterno », caratteri di cui sono forniti gli esseri ideali, e che, o convien negare i principŒ della ragione, e perciò rinunciare del tutto a filosofare, giacchè in qualsiasi modo si filosofa, si fa sempre usando di que' principii; o convien cercare altronde l' origine degli oggetti ideali, e de' loro eccelsi attributi. Io ho già citato altrove questo passo della sublime operetta che ha per titolo « Itinerario della mente a Dio », che qui riproduco: [...OMISSIS...] . Il quale argomento è così evidente, che nessun sofisma il potrà abbattere giammai. Malebranche ripetè questo argomento, ma avendo confuso l' oggetto eterno , che lo spirito nostro vede, col soggetto eterno (i quali sono una cosa in sè, ma sono due cose rispetto al nostro spirito) preparò la via a' moderni soggettivisti. [...OMISSIS...] Ma il Malebranche altrove sostituisce alle idee la sapienza di Dio; la quale appartiene a Dio, concepito come soggetto. La sapienza divina ha per termine le idee, o piuttosto il Verbo divino; e noi non vediamo mica la sapienza divina naturalmente, ma vediamo le idee nostre, le quali, senza la divisione che hanno nella mente nostra, nel Verbo divino con unità perfettissima si contengono. Onde, quantunque sia vero che noi siamo illuminati dal Verbo, non è però vero che vediamo per natura lo stesso Verbo, o il modo col quale le idee si unificano nel Verbo. Epperò nè pure è vero che vediamo la sostanza divina, o le idee nostre quali sono nella divina sostanza. Conosciuto il vizio radicale della filosofia critica; conosciuto com' ella si eriga sulla fracida base di un pregiudizio materiale e cieco: vano è sperare di trovare in essa una buona Ontologia. Tuttavia vediam brevemente quali sieno le partizioni dell' ente, che questo filosofo ci viene proponendo. L' ente di Kant, parte prodotto, parte dipendente dalle facoltà dell' uomo, dovea partirsi come queste facoltà; le quali egli riduce a tre: Senso, Intelletto, Ragione . L' Estetica trascendentale, cioè la dottrina della sensitività, ci sembra la parte migliore della « Critica della Ragione pura ». Ma ella soggiace tuttavia alle seguenti opposizioni: 1 Kant, seguitando non pochi filosofi che il precedettero (1), considerò lo spazio ed il tempo come fossero cose della stessa condizione: e dichiarò il primo forma della sensitività esterna, e il secondo forma della sensitività interna. Ma il tempo non si riferisce meno agli enti esterni, cioè a quelli che sono nello spazio, che agli enti spirituali, come sarebbe l' anima nostra e le sue modificazioni: dunque se fosse forma della sensitività, egli dovrebbe esserlo non meno dell' esterna che dell' interna. 2 Il tempo non si può pensare se non come una successione di cose almeno possibili; e se non si pensa questa possibilità, non si pensa al tempo: laddove io posso pensare lo spazio, non già senza la possibilità de' corpi, ma bensì senza pensare alla possibilità de' corpi, come un' estensione illimitata vacua del tutto (2). Quindi il concetto del tempo stà essenzialmente nella relazione di più cose che si succedono. All' incontro lo spazio si concepisce immobile, indivisibile, uniforme, senza alcuna necessaria relazione ai corpi. Il tempo adunque come concetto, consistendo in una relazione, esige un oggetto intellettuale; perocchè ogni relazione tra più cose che non agiscano tra loro, appartiene alla mente, appartiene cioè all' ordine che hanno le cose nella mente «(V. Antrop. , p. 276, 277) ». 3 Se poi si cerca in che consista tale relazione, ella si trova nella limitazione e mutabilità delle cose contingenti, riferita dalla mente all' illimitazione, immutabilità, ed eternità dell' ente, col quale conosciamo le cose. Ma questa eternità dell' ente che sta innanzi alle menti, benchè necessaria a concepire il tempo come termine di confronto, tuttavia non è lo stesso tempo. Laonde quel tempo puro di cui parla Kant come necessario a conoscere il tempo empirico, non è il tempo, ma è la stessa eternità dell' ente di cui noi abbiamo l' intuito, alla quale noi confrontiamo le cose variabili, o possibili o reali. Imperocchè veramente noi non potremmo dire che le cose si succedono, non potremmo concepire la successione, se non avessimo prima concepita la non successione, cioè la stabile presenza dell' ente; quel concetto supponendo questo come un suo relativo antecedente. Noi abbiamo già dimostrato nella « Psicologia » che la successione non può essere concepita, se non è tutta simultaneamente presente allo spirito: il concetto dunque della successione dimanda un modo di concepire simultaneo ed immobile, e questo ci viene dalla natura dell' ente intuìto che è fuori dello spazio e del tempo «( Psicol., p. 1179) (1) ». Il tempo astratto dalle cose è un ente di ragione, un vero concetto astratto e composto; ma il tempo affermato nelle cose è un' entità mista consistente in « un rapporto differenziale che hanno le cose contingenti da noi concepite coll' essere immutabile da noi intuìto, il qual rapporto sta nel riconoscere la successione di quelle nella presenzialità di questo ». 4 All' incontro lo spazio ha egli natura di concetto intellettivo? Quei filosofi che l' asseriscono come Kant (1), confondono il concetto dello spazio collo spazio. Che lo spazio abbia un concetto come l' hanno tutti i corpi, ciò è indubitato; ma che lo spazio stesso sia un concetto, questo è falso. 5 Kant dice che [...OMISSIS...] , e con ciò intende provare la necessità dello spazio, e quindi la sua provenienza soggettiva. Ma egli è falso, che non si possa prescindere col pensiero dallo spazio. Quand' io penso ad un' idea, o ad uno spirito, non penso allo spazio. Ora non potrei io limitare il mio pensiero a pensare a tali cose immuni affatto di spazio? E non posso anche concepire la possibilità che Iddio avesse prodotti de' soli spiriti, i quali non pensassero che a cose spirituali, nel qual caso egli non avrebbe creato lo spazio. Niente di ripugnante in ciò. Lo spazio adunque non è necessario, ma contingente, e creato. Che cosa è adunque lo spazio? Egli è un termine del nostro sentimento fondamentale; è una realità: egli appartiene dunque alla potenza della sensitività corporea come un' antecedente e condizion sua necessaria; è una forma, ma forma distinta dalla stessa sensitività, come più a lungo abbiam detto nell' « Antropologia » e nella « Psicologia » «( Antrop. , II; Psic. p. 554 e seg.) ». 6 Finalmente Kant crede che senza spazio e tempo non si possa pensare, non si possa avere alcun oggetto nel pensiero, e che per ciò essi si trovino in tutti i concetti dell' intendimento (1). Ma benchè ad assentire a questa dottrina siano inclinati gli uomini, perchè la loro attenzione è assorbita, quasi direi, dai corpi e dai loro fenomeni; tuttavia non lice ad un filosofo procedere così materialmente da non intendere che la mente pensa alle essenze le quali sono per sè oggetti, e sono tuttavia immuni da ogni spazio e da ogni tempo. Dal quale errore di fatto Kant ritrasse un grande svantaggio nella deduzione delle sue categorie, perocchè egli non pensò a classificare in esse se non gli oggetti che soggiacciono allo spazio e al tempo, come tosto vedremo (1). Veniamo ora alla derivazione de' concetti fondamentali della mente che Kant appella categorie. Kant primieramente confonde i giudizi co' concetti , descrivendo quelli come un' aggregazione di questi. Egli è prezzo dell' opera, che noi qui esaminiamo con qualche diligenza la dottrina Kantiana del giudizio, onde il nostro filosofo deduce tutta quanta la sua teoria filosofica, discoprendo i vizŒ di questa teoria nella loro radice, dopo avere svelati quelli che giaciono ne' preliminari di lei. A tal fine esponiamo la dottrina del giudizio colle parole stesse di Kant. [...OMISSIS...] . Egli prende quindi a classificare queste funzioni dell' unità nel giudizio , e ne fa uscire quattro generi dei giudizŒ, suddiviso ciascuno in tre specie, e così trova dodici classi di giudizŒ, ciascun de' quali somministra un attributo generale; e questi dodici attributi sono i dodici concetti fondamentali , ossia le dodici categorie di Kant. Ora ecco i vizŒ radicali di questo che egli chiama « « filo conduttore per iscoprire i concetti puri dell' intendimento » ». 1 Dicendo Kant che giudicare (sinonimo di pensare) è conoscere per via di concetti, egli omette nella definizione del giudizio quell' elemento che ne costituisce l' essenza, voglio dire la copula. La copula di ogni giudizio, anche del giudizio negativo, si riduce all' affermazione , onde fu detto giustamente che giudicare è affermare . Quindi è del tutto falso, che giudicare sia conoscere per via di concetti: anzi il vero si è che « « giudicare è conoscere per via di affermazione, o, se si vuole un termine più generale, per via di predicazione » ». Nell' atto di affermare o di predicare sta l' essenza del giudizio. Ora il conoscere per via di concetti, e il conoscere per via di affermazione, sono cose distintissime, e costituiscono le due grandi classi del sapere umano che abbracciano « le cognizioni ideali », o, come noi sogliamo anche chiamarle, intuitive, le quali sono quelle che si hanno per via d' idee o di concetti; e « cognizioni di predicazione »; alle quali soltanto appartengono i giudizŒ «( Psicol. , n. 1006 e seg.) ». 2 Non avendo Kant conosciuta la differenza essenziale che passa fra il conoscere per concetto, e il conoscere per affermazione, egli disse che [...OMISSIS...] . Se ogni cognizione umana fosse un conoscere per meri concetti, nulla si conoscerebbe per via di giudizio ossia per via di affermazione. All' incontro Kant dice ancora, che tutto si conosce per via di giudizŒ. Ella è questa in se stessa una patente contraddizione; la quale nasce dalla confusione fatta da questo filosofo tra concetti e giudizŒ; avendo egli nel seno dei concetti introdotti, senz' accorgersi, i giudizŒ. All' incontro concetto e affermazione sono cose affatto distinte: il concetto pone innanzi alla mente l' essenza delle cose racchiusa nel concetto, e questa essenza è data all' uomo, non già formata dall' operazione dello spirito stesso: l' uomo non fa che intuirla tale quale gli è data (1). Erra dunque grandemente Kant sopprimendo una delle due grandi classi del conoscere umano; cioè confondendole in una, ed a quest' una concedendo gli attributi di entrambe. 3 Ma onde una tanta confusione in un pensatore così profondo? - Dal sensismo del suo secolo; ed ecco in che modo ella provenne. I sensisti non arrivano mai e non possono arrivare ad intendere la natura del concetto, perocchè essi non riconoscono altri oggetti che quelli somministrati dall' esperienza dei sensi. Kant professa espressamente questa dottrina, e con essa incomincia la sua « Critica della Ragion Pura », ammettendola come cosa fuori di controversia, e non bisognevole di prova alcuna (2). Or tutto il criticismo non è altro in fine, che lo sviluppo di questa prima proposizione sensistica introdotta senza la menoma prova. Posto adunque che non si abbiano altri oggetti de' sensi, ne seguiva che nè pure fossero possibili de' veri concetti, perocchè concetti senza oggetto alcuno, sono un bel nulla. Per essere coerenti conveniva adunque negare affatto l' esistenza de' concetti, come fecero altri sensisti. Ma fra i sensisti ve n' ebbero alcuni a cui ripugnò di negare affatto i concetti, i quali sono ammessi da tutto il mondo, e la cui esistenza è troppo evidente; e di questi uno fu Kant. Che fecero adunque questi sensisti? Falsarono la definizione de' concetti: ne ritennero il nome, ma ne descrissero la natura tutto in servizio del sensismo da essi professato. Ecco in che modo alcuni pretesero che i concetti non fossero che collezioni d' individui (1). Kant venne allo stesso, ma il disse più oscuramente, usando il suo solito stile. Disse cioè, che i concetti contenevano in sè un moltiplice , una varietà, [...OMISSIS...] cioè tutti gli oggetti a cui si possono riferire; e che era lo spirito quello che esercitando una sua propria funzione (2) dava l' unità a quel vario moltiplice. Egli parla a lungo di questa sintesi che vi fa nascere dall' unità della coscienza del soggetto percipiente; il che se fosse, non si avrebbe che un concetto solo. Perchè il soggetto percipiente è un solo, Egli non considera che avanti il molteplice deve essere il semplice, e che ogni semplice basta a fare che l' intendimento intuisca un concetto. Egli non considera che l' essere ogni concetto generale non vuol dire che egli sia moltiplice, come diremo tantosto; nè s' accorge che l' introdurre una facoltà della rappresentazione è un pregiudicare la questione, perchè si tratta appunto di questo, come sia possibile la rappresentazione; e prima ancora, che cosa sia la rappresentazione, qual sia la natura di questa facoltà supposta di rappresentarsi le cose. 4 Ma per venire a quel che dicevamo, egli è un errore di tutti i sensisti il prendere la generalità propria de' concetti per una loro moltiplicità. Generalità e moltiplicità sono cose non solo diverse, ma opposte. Quello che è moltiplice, non può esser generale in quant' è moltiplice, perocchè la nozione del moltiplice non dà che un aggregato di particolari, a ciascuno de' quali manca la generalità. Il solo semplice può avere la dote della generalità . Per convincersene basta osservare attentamente in che consista la generalità de' concetti, e si vedrà che un concetto benchè generale è semplicissimo. In fatti che cosa vuol dire un concetto generale? Non vuol dire altro se non che con quel concetto si conoscono infiniti individui possibili: per esempio, col concetto uomo io conosco tutti gli uomini possibili in quanto sono uomini. Ma qui si noti: tutti questi che si conoscono, esistono fuori del concetto; ma tutti hanno la stessa relazione col concetto come col loro tipo comune. La pluralità dunque non è nel concetto, ma è negli individui che si conoscono col concetto, e che non sono il concetto. Confondere gl' individui conosciuti col concetto che li fa conoscere, attribuire la pluralità di quelli a questo, che, benchè semplicissimo, li rende noti, è il perpetuo errore de' sensisti, l' errore dominante nel sistema di Kant. La generalità dunque, ovvero universalità del concetto non è alcuna pluralità, ma non altro significa se non che quel concetto ha una relazione identica con molti individui, e questa relazione consiste nell' essere egli la loro comune intelligibilità. Sono adunque affatto erronee le sopradditate parole di Kant: [...OMISSIS...] . E veramente il concetto di corpo non significa mica un metallo, in quanto è metallo, ma significa un metallo in quanto è corpo. Laonde la rappresentazione del metallo come metallo non entra mica nel concetto di corpo. Onde quantunque col concetto, di corpo si possano conoscere tutti i corpi, tuttavia non si possono mica conoscere le loro differenze, nè distinguere un corpo dall' altro: perocchè a qualunque oggetto si riferisca quel concetto, altro mai non dà che una rappresentazione sola, quella di corpo; e se voglio conoscere il metallo o altra specie di corpo ho bisogno di altri concetti. Onde niun concetto fa conoscere altro se non una sola essenza: e se fa conoscere più essenze, non è un concetto solo, ma più concetti composti. Onde il dire che un concetto contiene in sè altre rappresentazioni, è un confondere un concetto con altri concetti che si possono benissimo aggiungere al primo, ma che non sono il primo. Ogni concetto adunque è semplice come tale, ed è universale in questo senso che l' essenza, cui rappresenta, può essere realizzata replicatamente senza fine; e tutte queste realità, in quanto realizzano quest' essenza, con quella sola e semplice essenza possono essere conosciute. 5 Trasportando adunque Kant nei concetti le proprietà dei reali, che coi giudizŒ si conoscono, come la plurità e la varietà, non è maraviglia ch' egli non potesse più distinguere la scienza che si ha per via di concetti, dalla scienza che si ha per via di giudizŒ; e che definisse il pensare, cioè il giudicare, un conoscere per concetti. Non riguardò adunque più il concetto se non come un elemento del giudizio, che però dall' analisi del giudizio si doveva desumere, definendo il concetto unicamente come « l' attributo di un giudizio possibile », e così disconoscendo che il concetto, come tale, ha un valore suo proprio antecedente al giudizio; giacchè il giudizio non è che un' applicazione di esso. A torto adunque egli considerò come « « filo conduttore a discoprire i concetti dall' intendimento la classificazione dei giudizŒ » »; quando anzi la classificazione dei concetti si potrebbe pigliare a filo conduttore per discoprire quali esser possano i giudizŒ. L' aver dunque sommessi i concetti ai giudizŒ, pose Kant sopra una falsa strada, e gli impedì interamente di conoscere la vera natura oggettiva de' concetti, e dell' intuizione che fa di essi la mente. Ma qual fu la classificazione dei giudizŒ di Kant? Fu qual dovea essere, erronea del tutto, dopo che avea attribuito ai concetti le proprietà dei giudizŒ, e a' giudizŒ le proprietà dei concetti, e confusa in una parola l' indole degli uni coll' indole degli altri. Acciocchè le nostre osservazioni riescano più chiare, sommettiamo prima agli occhi del lettore la tavola Kantiana delle diverse maniere di giudizŒ. Ed è la seguente: [...OMISSIS...] 1 Queste quattro grandi classi di giudizŒ ci sono date da Kant sulla sua parola, poichè non fa alcun ragionamento che provi che questa classificazione sia legittima e completa. 2 Che i giudizŒ abbiano qualità , questo è manifesto, ma che i giudizŒ abbiano quantità, relazione e modalità , questo è evidentemente falso. Quando si sono tratte fuori tutte le qualità de' giudizŒ, la loro classificazione è compiuta. Altro è la classificazione de' giudizŒ, altro la classificazione degli oggetti loro. Se noi diremo che i giudizŒ sono affermativi, negativi, limitativi , avremo in qualche modo classificati i giudizŒ; che se vogliamo classificare gli oggetti de' giudizŒ, questi oggetti possono benissimo avere un quanto , un quale , una relazione , ed un modo . Ma ella è regola logica, che « ogni retta classificazione deve avere una base sola »; e quella di Kant varia di base. Perocchè la divisione de' giudizŒ in affermativi, negativi e limitativi ha per base la diversità della copula che costituisce formalmente il giudizio; all' incontro la divisione de' giudizŒ in generali, particolari e singolari, ha per base l' oggetto, ossia la materia del giudizio. Variano adunque le basi della classificazione. D' altra parte, se un giudizio afferma, egli appartiene alla stessa specie, qualunque sia l' oggetto affermato; il contenuto del giudizio non cangia punto la sua specie, e però non può costituire una nuova classe. La quale osservazione non isfuggì interamente alla sagacità di Kant: ma ei pretese giustificarsi dicendo, che non considerava i giudizŒ, come giudizŒ, ma come semplici cognizioni (1). Il che è scusa vana, e di quelle che impacciano il processo del discorso filosofico. Perocchè altro è classificare le cognizioni , altro i giudizŒ: e se voi distinguete quelle da questi, e volete classificar quelle, perchè vi occupate a classificar questi? Si sente da per tutto l' imbarazzo con cui procede Kant, pel principio sistematico di confondere la natura de' concetti colla natura de' giudizŒ. Questa avvertenza cade in acconcio sovente ne' ragionamenti di Kant. 3 Nella tavola di Kant entrano giudizŒ semplici , e giudizŒ composti di più giudizŒ. Così il giudizio problematico « se vi ha una giustizia eterna, il vizioso sarà punito », altro non è che la relazione fra due giudizŒ affermata con un terzo giudizio che si può esprimere così: « l' esserci una giustizia eterna, e l' esser punito il vizioso, sono due concetti conseguenti ». Ma i giudizŒ semplici ed i giudizŒ composti non debbono confondersi insieme, perchè « ella è pure regola logica che deve esser unico l' oggetto che si divide o classifica ». Quindi volendo dividere i giudizŒ in genere, prima di tutto conveniva partirli in I semplici, e II composti; e poscia dare separatamente la sotto7classificazione degli uni e degli altri. 4 Un' altra regola logica, che presiede alla retta classificazione, si è che « un membro della divisione non deve entrare nell' altro ». Ma nella tavola de' giudizŒ data da Kant i giudizŒ categorici ed i giudizŒ assertorii entrano evidentemente ne' giudizŒ affermativi , e così pure i giudizŒ che Kant chiama generali, particolari , e singolari non possono essere che una suddivisione di giudizŒ affermativi. Molt' altre osservazioni si potrebbero fare sulla tavola de' giudizŒ data da Kant, ma per istudio di brevità lasciandole, coglieremo in quella vece l' occasione di porgere qui un' altra tavola della classificazione de' giudizŒ, senza spirito di sistema, dal confronto della quale si potranno facilmente distinguere i varŒ errori della classificazione Kantiana. Come ogni giudizio ha tre parti, il soggetto, la copula e il predicato, così la divisione de' giudizŒ deve esser triplice. [...OMISSIS...] I rapporti d' una classificazione coll' altra non sono difficili a rilevarsi, ma noi gli intralasciamo non iscrivendo noi ora una Logica . Tornando ora dunque a Kant, dalle predette forme de' giudizŒ egli cava i suoi concetti fondamentali, come li chiama, ossia categorie, che ei definisce altrettanti attributi di giudizŒ possibili; le quali categorie sono le dodici seguenti: unità, pluralità, totalità (quantità); realità, negazione, limitazione (qualità); inerenza e sostanza, causalità e dipendenza, comunità ossia reciprocità tra l' agente e il paziente (relazione); possibilità e impossibilità, esistenza e non esistenza, necessità e contingenza (modalità). Noi abbiamo esaminata la classificazione di queste forme in un luogo del « Nuovo Saggio », a cui rimandiamo il lettore (1). Di più dalla critica, che testè abbiamo fatta delle classificazioni de' giudizŒ, risulta quanto esse, come loro legittime figliuole, devano essere manchevoli. Riporteremo adunque soltanto l' avvertenza che quella divisione di forme, secondo lo stesso scopo dell' autore, non è ontologica , ma puramente dialettica, e però ella è tale che non ci può somministrare in modo alcuno la partizione dell' ente o le sue passioni. Il che riceve conferma da questo, che essendoci elle date come altrettanti attributi , ossia predicati de' giudizŒ, esse escludono di considerare il soggetto come soggetto; quando pure il soggetto, se è reale, è la base di ogni entità. Oltre a ciò in esse non apparisce alcun ordine tra le varie classi, nè si trova perchè siano così distribuite. Certo che se si fosse trattato di porgere una tavola di categorie ontologiche , non conveniva cominciare dalla quantità, la quale suppone antecedentemente la sostanza, e una sostanza reale, e di più una sostanza determinata, cioè quella che riceve il più e il meno. S' aggiunge che le forme di Kant non comprendono che concetti ideali, negativi; sicchè il positivo dell' ente, che consiste nella realità del sentimento, non si trova affatto. Perocchè la parola realità , che è la quarta categoria, si è presa in senso improprio, non per accennare la realità che si manifesta nel sentimento, ma per indicare l' affermazione che fa lo spirito pronunciando un giudizio. Ora in una tavola di categorie veramente ontologiche non può mancare il più, qual è il positivo dell' ente, ossia la sua vera realità sentimentale. Ancora, le tre categorie di relazione non esauriscono tutte le forme della relazione. Poichè primieramente mancano tutte le relazioni ideali, come la dipendenza della conseguenza del principio; mancano tutte le relazioni nazionali, come la congiunzione di un predicato ad un soggetto dialettico, la qual congiunzione non si fa per via d' inerenza, come, per es., dicendo « il giudizio è un' operazione della mente », non è mica che l' operazione sia inerente al giudizio, perchè ella è identica col giudizio, il quale è quel luogo logico chiamato «Horos» da Aristotele. Ancora, la nona categoria dimostra il pregiudizio che l' azione e la passione siano reciproche; quando ci sono passioni ed azioni che non finiscono in un solo soggetto (1). Ancora, l' undecima categoria, cioè l' esistenza , è un genere che si suddivide nelle due specie di esistenza necessaria , ed esistenza non necessaria ma contingente: e però le tre ultime categorie non si dividono ex aequo come esigono i logici. Ma sarei infinito se volessi continuarmi in tutti i difetti delle categorie Kantiane; veniamo dunque alle idee della ragione. Come Kant derivò i concetti dell' intelletto da giudizŒ (1), così egli tolse a dedurre le idee trascendentali da raziocinŒ (2). L' unire la varietà dell' intuizione (percezione soggettiva) e farne uscire i concetti, è secondo Kant la funzione dell' intelletto , e chiama questo risultato la sintesi dell' intuizione. Noi abbiamo veduto, che v' ha qui un grande errore in darsi a credere che nel concetto vi abbia l' unificazione di una varietà; anzi niuna varietà cade nel concetto per quantunque generale; ma la varietà e la moltiplicità sta tutta fuori del concetto, cioè nelle relazioni che questo ha coi varŒ oggetti, ch' egli può farci conoscere sotto l' identica ragione. L' unire la varietà de' concetti facendone uscire uno della massima generalità il quale stabilisca la maggiore di un sillogismo, e così si possa ragionare, è la funzione della ragione. Il raziocinio per Kant è « « un giudizio ( conseguenza ) che viene determinato (cioè reso necessario) da un altro giudizio dato più generale ( maggiore ), mediante una condizione ( minore ) » ». Per es., « Caio è mortale »: è un giudizio che viene reso necessario dal più generale « l' uomo è mortale », mediante la condizione che Caio sia uomo. Ma anche la maggiore del sillogismo può essere condizionata, cioè discendere da un' altra proposizione più estesa, mediante una condizione sua propria. Onde non si può giungere ad una cognizione assoluta , se non percorrendo ed abbracciando tutta la serie delle condizioni, trovando così l' incondizionato. Quest' è quello che esige la ragione, nè si può accontentare d' una cognizione condizionata, la quale è nulla senza la sua condizione. Ora questa funzione della ragione , per la quale ella sintetizza i concetti, come l' intelletto sintetizzò le intuizioni della sensitività, conduce a tre oggetti , condizioni ultime del ragionamento. Ma non si creda per questo che Kant attribuisca per ciò alla ragione alcuna virtù di far conoscere questi oggetti veramente, quasi fossero oggetti in sè indipendenti dalla funzione predetta della ragione: nulla di ciò; essi non sono che illusioni . E qual ragione adduce di questa impotenza della ragione? Sempre il primo pregiudizio, la proposizione gratuita, supposta senza prove fino a principio dell' opera, cioè, che la sola sensitività dà all' uomo veramente oggetti. Dunque, allorquando l' intelletto o la ragione presentano oggetti, questi non possono essere altro che illusioni poichè non sono dati dalla sensitività!!! La sensitività ha l' esclusiva virtù di dare oggetti presso questi signori; e se poi cercate il perchè, non ne trovate altro, se non il fatto che la sensitività, colle sue prevalenti impressioni, li fa acciecati e legati al suo carro trionfale. Ma seguiamo la deduzione delle tre idee trascendentali della Ragione Kantiana. La ragione mediante il sillogismo lega i concetti trovando che l' uno è vero perchè contenuto nell' altro dato mediante la condizione ossia il termine medio. Consistendo dunque il raziocinio nella relazione di un giudizio con un altro, converrà ricorrere alla categoria della relazione per classificarli. Questa si divide in tre forme: 1 d' inerenza e sostanza; 2 di causa ed effetto; 3 di reciproca azione. Benchè con qualche stiracchiatura (1) queste tre categorie pretese Kant di dedurle dalle tre classi di giudizŒ categorici, ipotetici , e disgiuntivi , le quali appellazioni segnano di conseguente anche le tre supreme classi di raziocinŒ. Or dunque, ragiona Kant, esigendo la ragione di pervenire alla cognizione incondizionata, dee pervenire a ciò che dia unità a tutta la serie delle condizioni in ciascuna di quelle tre maniere di relazioni. Or quanto alla prima, che è quella d' inerenza e di soggetto, la ragione perviene all' unità assoluta e incondizionata del soggetto pensante , argomento della Psicologia; quanto alla seconda di causa e d' effetto, perviene all' unità assoluta della serie delle condizioni de' fenomeni , argomento della Cosmologia; quanto alla terza di reciproca azione o d' enumerazione de' possibili, perviene all' unità assoluta delle condizioni di tutti gli oggetti del pensiero in generale, argomento della Teologia trascendentale. Quest' è quanto dire che l' idea dell' Anima intelligente, del Mondo, e di Dio, sono condizioni ultime assolute di tutti i raziocinŒ. E questo è vero. Ma ciò che non intende Kant, si è, che queste idee non sono condizioni del pensare, se non dato che realmente vi abbia l' anima, il mondo e Dio; e che non siano mica illusioni trascendentali. Perocchè, se fossero tali, l' anima, il mondo, e Dio, non vi sarebbero veramente; e così non vi sarebbe veramente il pensare, mancando la sua condizione. Ma, che il pensare vi sia, non è negato nè pure da Kant, il quale gli toglie bensì la virtù di provare l' esistenza degli oggetti, ma non quella di essere; onde noi abbiamo stabilito nel « Nuovo Saggio » il principio che: [...OMISSIS...] . Ma Kant, volendo dimostrare che quelle idee, o più veramente giudizŒ , nulla provano sulla reale esistenza dei loro oggetti; prende audacemente a dimostrare, che la ragione ammette tali oggetti non per veri ragionamenti, ma per via di certi paralogismi, o inevitabili sofismi, non già dell' uomo ragionante, ma della ragione stessa; di modo che questa non è solo impotente , ma essenzialmente mendace (2); il che se fosse, la natura stessa della ragione sarebbe cattiva. Il Manicheismo adunque è nel sistema di Kant. Ma egli è pur singolare a vedere come un individuo pretende di convincere di menzogna la ragione stessa degli uomini nella sua propria natura! Perocchè, o quest' uomo in far ciò usa della ragione, e usandone mostra di credere ch' ella è verace, ovvero intende di mentire egli stesso (e, s' egli mente, la ragione è giustificata); ovvero egli si fa un Dio, cioè un Dio falso, che prende a calunniare le opere del Dio vero. La superbia di Satana è dunque ancora nel sistema di Kant. Ma seguiamolo un poco nei suoi deliri. Espone prima il paralogismo , com' ei lo chiama, della ragion pura , cioè il sofisma con cui egli pretende che la ragione inganni l' uomo quando ella gli dice che v' ha un soggetto che pensa. Il preteso paralogismo, secondo lui, è questo: « Ciò che non può essere concepito che come soggetto non esiste che come soggetto, e perciò è sostanza; Ma un essere pensante, considerato semplicemente come tale, non può essere pensato che come soggetto; Dunque egli non esiste che come tale, cioè come sostanza ». Ora il Kant dice che questa conclusione è dedotta per sophisma figurae dictionis . E la prova ch' egli dà del suo asserto, ridotta a poche parole, è la seguente: « La sola intuizione, cioè la sola percezione de' sensi, somministra de' veri oggetti. Quindi la maggiore del sillogismo sarebbe una, se il soggetto concepito come soggetto potesse essere dato dall' intuizione sensitiva. Ma nella minore si parla di un soggetto, che non è dato e non può esser dato dall' intuizione sensitiva, ma è solo considerato per tale dal pensiero e dall' unità della coscienza. E però, non essendo un tal soggetto dato dalla intuizione sensitiva, egli non può essere un oggetto reale; ma solo un' apparenza o illusione trascendentale ». Muove sempre adunque il nostro filosofo dal suo diletto pregiudizio sensistico, che il solo senso somministra veri oggetti, e se ciò gli si accorda, egli ha ragione. Ma poichè per contrario questo sensismo è al tutto erroneo; convien dire che il paralogismo è del filosofo, e non della ragione stessa, con cui il filosofo si compiace di mettersi in lotta. D' altra parte egli ancora ignora, che nel sentimento vi ha sempre qualche cosa di sostanziale, e non dei puri fenomeni; e che questo vale specialmente pel sentimento interno che l' anima ha di sè stessa. Egli non punto osserva che nel sentimento suo proprio l' anima e sente la varietà delle sue modificazioni, e sente sè stessa soggetto unico e identico di esse; e questa parte del sentimento ha tutto ciò che racchiude una definizione legittima, e non già arbitraria, della sostanza «( Psicol. , p. 104) ». Dopo aver dunque Kant preteso di dimostrare, che non già l' umano individuo, ma la stessa ragione umana per sua natura paralogizza quando cerca di stabilire l' unità assoluta, incondizionata del soggetto pensante; egli passa a criticare i passi della ragione , quand' ella giunge all' unità assoluta della serie delle condizioni dei fenomeni , cioè del Mondo. E qui deride e sossanna la ragione umana più atrocemente ancora. Perocchè egli dice che il paralogismo, col quale la ragione stabilisce l' esistenza d' un soggetto pensante, almeno produce un' apparenza in un solo senso, senza che produca in pari tempo un' apparenza contraria. [...OMISSIS...] All' incontro quando la ragione cerca l' unità assoluta delle condizioni de' fenomeni (mondiali), allora ella produce a sè stessa non solo apparenze, ma apparenze contrarie, cioè intrinsecamente si contraddice. Egli stabilisce quattro di queste contraddizioni della ragione circa il mondo, che egli chiama antinomie, ossia conflitto di tesi apparentemente dogmatiche. Kant adunque pretende di cogliere in contraddizione la ragione stessa , e per coglierla con sicurezza, che cosa fa? Le mette egli stesso in bocca le parole che ella deve dire per contraddirsi: la fa parlare come egli vuole. Questa impresa suppone due cose non piccole: 1 La prima che al filosofo sia facile il mettersi in persona della ragione umana, e parlare proprio colla bocca di lei: il filosofo nostro, se è di buona fede, deve essere intimamente persuaso, di conoscere perfettamente ciò che direbbe la ragione in persona, se ella fosse una persona che potesse parlare. 2 La seconda, che al filosofo sia possibile, dopo essersi messo in persona della ragione e stabilito quello che la ragione stessa direbbe se parlasse colla sua bocca, di sollevarsi AL DI SOPRA DELLA RAGIONE, e, chiamatala al suo tribunale, convincerla di aver dette delle contraddizioni. L' alta persuasione che dimostra Kant di sè stesso arriva a tutto ciò, ed ecco adunque, come la ragione umana parla per la bocca di Kant, suo (1) critico e maestro a bacchetta. [...OMISSIS...] A confutare queste pretese contraddizioni della ragione basta solo una parola: la ragione non parla così. Perocchè certo Kant in nessuna maniera può dimostrare direttamente, che così appunto parli la ragione com' egli la fa parlare. Che se egli non ispaccia più l' autorità della ragione stessa , ma discende a provare con suoi propri ragionamenti prima la tesi, e poi l' antitesi, in tal caso non è più la ragione, ma è egli stesso che si contraddice; almeno il certo ed evidente risultato delle antinomie si è questo, che « l' uomo individuo, chiamato Emanuele Kant, non giunse colla forza del suo ingegno a dissipare quelle contraddizioni, sieno poi esse vere od apparenti ». Che dunque le antinomie provino ad evidenza la limitazione dell' ingegno di Kant, questo è indubitato; ma non è egualmente indubitato che provino la limitazione della ragione stessa, come pretende Kant che provino per uno scambietto, e molto meno la sua intrinseca lotta, che la renderebbe positivamente stolta e suicida. Se quelle contraddizioni o antinomie fossero proprie della stessa ragione, (il che veramente asserì Kant ma nol provò, perchè non poteva in modo alcuno provarlo), in tal caso noi non apriremmo bocca, perchè non vorremmo metterci in lotta colla ragione nè pure per difenderla dal suo proprio furore, (il che d' altra parte ci sarebbe impossibile), e ci rassegneremmo ad essere anche noi stolti, avendo una ragione stolta, come gli altri uomini: se pure alla ragione, che si è contraddetta una volta, non fosse piaciuto di contraddire ancora le sue contraddizioni; il che non sarebbe impossibile, giacchè se nell' essenza della ragione umana è la contraddizione; chi mai potrebbe mettere un limite alle sue contraddizioni, che dovrebbero forse essere altrettante quanti i suoi atti? Ma posciachè le contraddizioni o antinomie non della ragione, ma sono di un uomo che si chiama Kant, il quale introdusse sulla scena la ragione personificata facendola parlare, quasi come dei proprii rispettabili personaggi suol fare il burattinaio; noi non temiamo punto di entrare a vedere se sia possibile di uscire dall' intrico, in cui questo uomo si confessò preso quasi fra l' uscio e il muro. Ripigliamo dunque ad una ad una le tesi e le antitesi, e mettiamo a prova il valore degli argomenti coi quali Kant intende provare le une e le altre. La prima tesi si è che « « il mondo abbia cominciato, e che lo spazio sia finito » ». Che il mondo abbia cominciato, si prova da Kant discretamente; e noi l' ammettiamo pel suo e per altri argomenti. Che lo spazio sia finito, Kant lo prova dalla supposizione che egli fa, che lo spazio non sia altro che un aggregato di parti, e che lo spirito acquista il concetto dello spazio con unire successivamente queste parti. Ma noi neghiamo affatto che lo spazio puro abbia parti, diciamo anche ch' egli è per sè semplicissimo e indivisibile, e termine del nostro sentimento fondamentale. Le parti appartengono ai corpi ed alle sensazioni prodotte da corpi, come sono le superficie ed altre astrazioni fatte sui corpi come le linee ed i punti. Onde l' argomento di Kant prova che sia limitato quello spazio che è occupato da corpi, o che è segnato dal nostro spirito per via di solidi, superficie, linee, e punti mobili; e questo spazio appunto perchè è limitato e misurato non può essere infinito. Ma niente vieta, che lo spazio puro come termine di un sentimento fondamentale sia infinito. L' antitesi opposta, si è che « « il mondo non abbia principio, quanto al tempo, nè confine quanto allo spazio » ». E circa i confini dello spazio noi vedemmo che convien distinguere: lo spazio, quale spazio puro, non ha confini come dicemmo, e come dimostrano anche gli argomenti che per provare quest' antitesi adduce Kant; all' incontro lo spazio occupato dai corpi ha confini, come anco provano gli argomenti addotti precedentemente da Kant per provare la tesi. Onde il sofisma kantiano qui si rileva in questo, che ora si parla dello spazio quale i corpi limitati lo somministrano all' osservazione dello spirito nostro, ora si parla dello spazio quale è termine del sentimento fondamentale. Si cangia dunque il soggetto delle due proposizioni opposte, e si vuol far credere che sia il medesimo. A provar poi che il mondo non può aver cominciato, Kant parte da questa proposizione che « « il cominciamento è un' esistenza preceduta da un tempo, in cui la cosa ancor non è » ». Ma questa proposizione è falsa, perocchè il cominciamento d' una cosa può essere preceduto da un tempo, se avanti di essa v' ebbero altre cose; ma se non v' ebbe avanti di lei niuna cosa, come è nel fatto del Mondo, cioè del complesso di tutte le cose contingenti, non vi è tempo innanzi a quel cominciamento, perchè non vi ha successione. Ma Kant dirà, « « che si può immaginare una successione e questa possibile successione è il tempo di cui parla » ». Rispondo, essere vero che a questo tempo o successione immaginaria non si può prescrivere confini determinati; ma questo non fa che un tal tempo possibile sia infinito , ma solamente indefinito , a quel modo appunto che alla quantità possibile della materia corporea, come pure al numero, non si può assegnare un termine, perchè si può sempre immaginare accresciuta, e a qualunque numero si può sempre aggiungere un' unità: il che è quello che S. Tommaso chiama infinito in potenza e non in atto, il quale non è veramente infinito. In secondo luogo, il tempo ossia una successione che si può immaginare come possibile prima del cominciamento del mondo, non appartiene al mondo, al quale appartiene solo il tempo proprio de' reali; e quindi non toglie che il mondo abbia incominciato ad esistere. Il tempo possibile appartiene dunque al mondo delle idee, il quale è nel suo fondo eterno, e non mai cominciato. Quindi il sofisma di Kant consiste anche qui nel mutare il soggetto della proposizione; perocchè con una dice « che è incominciato il tempo reale »; coll' altra, « che non è incominciato il tempo possibile »; le quali proposizioni così spiegate, come debbono essere, cessano di costituire una antinomia. La seconda tesi si è: « « che ogni sostanza composta è composta di semplici, e non esistono che semplici o composti di semplici » ». Primieramente questa tesi è ambigua, e però acconcia al sofista. E` ambigua, perchè la parola semplice ha più significati, e almeno questi due: 1 senza estensione , 2 senza pluralità . Ora, se per semplice s' intende senza pluralità e però si fa equivalere ad uno , egli è chiaro e non bisognevole di prova, che ogni sostanza composta è composta di semplici, perchè questa proposizione è identica a quest' altra « ogni pluralità è composta di unità ». Ma se per semplice s' intende privo di estensione , in tal caso non ogni sostanza composta è composta di semplici, ma di parti estese. Così un corpo è un aggregato di elementi estesi e continui: ma questi elementi, benchè estesi, non sono però composti, nè hanno parti in atto, essendo un puro sbaglio di Kant (comune però ai suoi maestri o condiscepoli, i sensisti) il credere che l' estensione sia un' aggregazione di parti; quando anzi il vero si è, che l' estensione continua, come tale, non ha parti in atto, ed ha solo parti in potenza (le quali non sono parti reali), cioè ha solo parti immaginate dalla mente, la quale può suddividere il continuo indefinitamente, senza che ciò che le rimane cessi mai d' essere continuo, come abbiamo altrove spiegato; onde l' esteso continuo si deve dir semplice, qualora per semplice s' intenda privo di parti e di pluralità. Ma più estesi continui corporei possono, venuti al contatto, comporre un continuo solo, il quale è composto di semplici estesi, benchè senza parti. Queste parti poi del composto non sono determinate dall' estensione, la quale è semplice anche nel composto continuo; ma dalle forze dei singoli estesi, ciascuna delle quali forze, diffondendosi in un piccolo spazio determinato e circoscritto, rimane in qualche modo distinta da tutte le altre. Se poi si parla di semplici volendo significare inestesi, niente ripugna che un inesteso com' è l' anima venga in composizione con un esteso com' è il corpo ed anco con un aggregato d' estesi, com' è il corpo organico composto di molti elementi estesi. Onde questa maniera di composizione risulta da una sostanza semplice (inestesa) con una sostanza non semplice (estesa e composta di estesi). Onde in questo senso è falsa la tesi che non esistano che semplici, e composti di semplici. Finalmente erra di nuovo Kant quando pretende che « « la composizione non è che lo stato esteriore, una mera relazione accidentale delle sostanze » ». Anzi vi ha una composizione sostanziale , ignorata interamente da' sensisti, ma data manifestamente nella natura per modo che « « il composto è sostanzialmente diverso da' suoi componenti » », ossia ha un' altra forma sostanziale «( Psicologia , n. 204, seg.) ». Così il corpo, considerato come semplice materia, e il corpo animato, è sostanzialmente diverso, perchè ha una diversa forma sostanziale. Veniamo ora all' antitesi , la quale si è che « « niuna cosa è composta nel mondo di parti semplici, e nulla esiste di semplice » ». Questa tesi Kant si fa a provarla con due argomenti i più sgangherati. Il primo muove da questa proposizione che « ogni composizione di sostanze non è possibile che nello spazio », la quale è gratuita e falsa. Perocchè l' unione dell' anima col corpo non si fa nello spazio (benchè nello spazio si manifesti); ma si fa nella percezione fondamentale dell' anima, la qual percezione è semplicissima, come abbiamo provato nella « Psicologia », n. 264 seg.. Nè gli basta a condurre a fine la sua prova questo errore, se non vi aggiunge anche quest' altro « « che tutto ciò che occupa uno spazio comprende diversità d' elementi l' uno fuori dell' altro » »: mentre il vero si è che in esteso continuo non vi sono elementi reali ma solo potenziali come abbiamo detto; e però egli non è punto nè poco composto quanto allo spazio. Tutti i fondamenti adunque della sua prima prova vanno in fumo. Il secondo argomento che adduce è questo: « « Il semplice non può essere dato dalla percezione de' sensi; ma la sola percezione sensibile (ch' egli chiama intuizione) dà degli oggetti, e senza questi non ci hanno che idee; dunque noi non possiamo dimostrare che vi abbiano semplici nella natura, ma solo idee di semplici » ». Ognuno vede, che la minore di questo argomento, è il solito pregiudizio sensistico, su cui il Kant fabbrica tutta la sua dottrina. Ciò che abbiamo detto innanzi basta a distruggerla. In secondo luogo egli parla di idee . Ma queste idee son esse semplici o composte? sono nulla o qualche cosa? sono enti corporei nello spazio o enti fuori dello spazio? Questo è ciò che il nostro filosofo stima bene di non dire; ma che il discreto lettore può dire nondimeno a sè, malgrado del suo silenzio. La terza tesi si è che « « la sola causalità secondo le leggi della natura non basta a spiegare i fenomeni, ma vi si esige di più una causalità per libertà » ». L' argomento da lui addotto è efficacissimo a provare questa tesi, il quale consiste in dimostrare che colla sola causalità fisica e non libera si avrebbe un ricorso di cause all' infinito, di cui non si potrebbe aver mai l' ultima, e quindi non si troverebbe mai la spiegazione, ossia la ragione sufficiente de' fenomeni. L' accordiamo completamente. Ma vien l' antitesi negante la libertà; e per istabilirla muove l' argomento da questo principio: « « Ogni cominciamento d' azione suppone uno stato anteriore della causa non ancor operante, onde conchiude che mancherebbe la ragione sufficiente che determinasse la spontaneità della causa ad operare più tosto che a non operare » ». Ma il principio non è applicabile, perchè si può concepire benissimo un' azione che non sia cominciata, e che faccia cominciare l' effetto: sicchè vi abbia il cominciamento nell' effetto e non nell' azione della causa. Così Iddio può e dee aver creato il mondo con un' azione che non ha mai cominciato, con un' azione eterna: e con quest' azione eterna produsse il cominciamento delle cose che sono l' effetto di quella azione. Un secondo errore contiene il ragionamento con cui Kant pretende provare questa sua antitesi, ed è che se vi ha la libertà, questa opererebbe ciecamente , perchè non avrebbe una causa determinante . Qui il filosofo confonde la causa efficiente , colla ragion sufficiente . La libertà non è certamente determinata ad agire dall' azione d' una causa efficiente che la distruggerebbe; ma non opera tuttavia alla cieca , ma sempre col lume di una ragione sufficiente . Ma perchè la ragion sufficiente non opera alla foggia della materia, perciò i sensisti non sanno intendere il modo del suo operare, conciliabilissimo colla libertà. Finalmente noi abbiamo dimostrato ancora, che ogni causa efficiente ha un suo oggetto, e che la libertà ha anch' essa un suo unico oggetto, e quest' oggetto è la scelta tra due volizioni. Onde la libertà è anch' essa una causa efficiente, ma d' indole speciale, perchè ha un oggetto tutto speciale (1). La quarta tesi stabilisce: « « che il mondo si riferisce a un essere assolutamente necessario » ». Ora Kant dice con ragione: « « che ogni condizionato presuppone, rispetto alla sua esistenza, una serie completa di condizioni fino all' incondizionato assoluto, che solo è necessario assolutamente » ». Fin qui siamo, press' a poco, d' accordo. Ma poi soggiunge, che questo assolutamente incondizionato dee essere nel mondo sensibile: e qui comincia il sofisma. Poichè egli muove a ragionare da questo falso principio: « « che il cominciamento d' una successione non può essere determinato se non per via di ciò che precede quanto al tempo » ». Ora questo principio è falso; perocchè il cominciamento d' una successione (nel tempo) può essere anzi determinato da un atto fuori del tempo, e che si fa nell' eternità; come abbiamo detto poco innanzi. Onde non si può trarre in alcun modo la conseguenza che vuol Kant, cioè, che l' assoluto che spiega l' esistenza del mondo appartenga al tempo, e quindi al mondo. L' antitesi poi di questa tesi, secondo il Kant, si è « « che non esiste niun ente assolutamente necessario » ». Questa antitesi viene dedotta dagli errori spacciati precedentemente dal nostro filosofo come verità lampanti. Toglie prima a provare, che l' ente assoluto non può essere nel mondo; perchè in tal caso l' ente assoluto, o sarebbe il primo anello della serie degli avvenimenti successivi, e in tal caso sarebbe senza causa, e non ispiegherebbe il tempo a lui precedente, e la serie degli avvenimenti andrebbe ad un regresso infinito, ed ella non sarebbe necessaria, perchè niuno de' suoi anelli sarebbe necessario. Fin qui il ragionamento corre e vale a distruggere l' errore della tesi, che l' assoluto si contenga nel mondo sensibile. Ma viene poi a provare, che l' ente assoluto non può trovarsi nè pure fuori del mondo: perchè, se la causa del mondo fosse fuori del mondo, per dare a questo il principio essa « « dovrebbe cominciare ad agire, e « la sua causalità così avrebbe luogo nel tempo » ». Quindi questo essere come causa formerebbe parte della serie de' fenomeni successivi del mondo, contro il supposto dalla proposizione. Ma, come abbiamo detto di sopra, si nega al tutto che la causa assoluta comincii ad agire, poichè ella opera con un atto eterno; come si nega al tutto ch' ella, qual causa, abbia luogo nel tempo; perchè il tempo stesso è l' effetto di quella causa; e però ella è affatto immune dal tempo ch' ella produce, producendo il mondo. Tali sono le famose antinomie della Ragion Pura di Kant. Non sono, no, antinomie della ragione; sono proprio antinomie e contraddizioni del sofista che potè sedurre e traviare forse per secoli la Germania. Gli argomenti con cui egli le fortifica non sono nè pure di sua invenzione: sono gli argomenti prodotti e riprodotti dagli empii di tutti i secoli: egli non fece che vestirli d' una misteriosa e solenne oscurità, di un gergo che ebbe un potere magico d' incantare tanti spiriti della sua nazione. Ma io voglio qui notare di più una peculiar lotta che si manifesta nelle varie tendenze di questo sofista speculativamente ATEO, checchè egli si dica, anzi il MAGGIOR ATEO che nel campo della filosofia sia comparso nel secolo XVIII. Egli dunque ha due tendenze: 1 La prima è di sollevar sè stesso sopra la ragione, giudicandola dall' alto del suo tribunale, o più tosto schernendola come una stolta, piena di contraddizioni, e questa tendenza domina in tutta l' opera dal frontispizio « « Critica della Ragione Pura » » fino all' ultima parola. 2 La seconda si è di dimostrare, che l' uomo era chiuso nella sfera della sensitività fisica che sola gli somministra oggetti reali: qui, nel senso fisico, finisce la cognizione umana: di che consegue che negli oggetti de' sensi, nella materia, sia riposto anche il fine dell' uomo. La ragione in fatti, secondo Kant, è una servetta civettella dei sensi: ella non vale se non a farci conoscere viemeglio gli oggetti sensibili, ad unirli, ed a fornirci certe regole utili per dirigere la nostra condotta rispetto a quelli. Ed unicamente per questo fine la ragione ricorre all' idea dell' anima, del mondo e di Dio, siccome a finzioni utili, per concepir meglio gli oggetti dell' esperienza sensibile, e guidarci nel farne uso più utilmente. Kant dichiara assai frequente quest' ultimo fine della sua filosofia speculativa: [...OMISSIS...] . Tali sono le due tendenze della filosofia di Kant, ma Kant, più sagace della sua filosofia, s' accorge che le due tendenze non istanno bene in pace fra loro. Perocchè se la ragione è piena essenzialmente di contraddizioni, se sta del continuo in sul ludificare la mente umana, come potrà essa pur servire all' uomo di guida nell' uso delle cose sensibili? Il filosofo dunque, impegnatosi a mostrare la ragione paralogizzatrice, contraddittoria seco stessa, prestigiatrice rispetto a tutto ciò che eccede la sfera de' sensi corporei, e com' egli dice, l' esperienza; è del pari impegnato a difendere il valore della ragione in tutto ciò che si contiene entro questa sfera del suo uso empirico, ed a sostenere, che gli stessi sofismi della ragione, le stesse illusioni ch' ella ingerisce nell' uomo, sono come a dire pie frodi, cioè hanno un fine utile all' uomo stesso. Allora quando il nostro filosofo è occupato dal pensiero di difendere in questo senso la ragione, egli ragiona così: [...OMISSIS...] . Dunque il paralogismo e le antinomie, che avete prima attribuite alla ragione, non sono proprie della ragione, ma dell' abuso che voi avete fatto di essa: [...OMISSIS...] . E perchè mai? Se l' idea di un essere non ha alcun valore oggettivo, come potete voi dimostrare che la ragione non ci illuda? Vedo bene che voi negate solo che la ragione ci illuda primitivamente , e con questo accordate che ci illude posteriormente. Ma dove fondate voi questa distinzione? Non è ella arbitraria come tutto il resto delle vostre dottrine? [...OMISSIS...] Onde questo ottimo? Forse, anche questa vostra probabilità d' ottimista, potete voi dedurla da altro fonte che da quella ragione stessa, che non ha alcun valore di provare oggettivamente, e tuttavia somministra delle regole suppositorie atte unicamente a compire la sintesi della varietà esperimentale? E in tal caso, che vale questa vostra probabilità? Non è ella una nuova illusione? E con un' illusione volete voi dissipare l' illusione? [...OMISSIS...] . Parole degnissime di tutta la vostra attenzione, o lettori. Deh! con che tuono di severo cipiglio non garrisce qui Kant i sofisti, i quali danno biasimo e mala voce a quella ragione, a cui come ad ammirabile sofisticatrice e lor degnissima madre essi debbono la loro esistenza e la loro coltura! Quale ingratitudine non usano i sofisti colla ragione! E` vero, che la ragione è per sè fonte d' assurdi e di contraddizioni infinite; ma i sofisti, che ne fanno uso, hanno essi il diritto di menar contr' essa tanto schiamazzo? Se ella inganna e delude, ha però un suo secreto fine in far ciò, e dispiega un' azione oltremodo benefica, la quale consiste in conservare appunto al mondo i sofisti, e dar loro quella cultura per la quale conoscendo di essere da essa ingannati, la mordono, senza badare a quel gran secreto ch' ella ha nell' ingannarli, che è di farli esistere!!! Dopo di ciò veniamo all' ultima parte della satira che Kant tanto industriosamente compose della Ragione. La ragione che dialetticizza, come vedemmo, si propone tre scopi: di pervenire all' unità assoluta incondizionata del soggetto pensante , ed ella non ci perviene se non per via di un paralogismo, che le fa credere che esista realmente un' anima pensante; di pervenire all' unità assoluta delle condizioni de' fenomeni mondiali , e a questo non perviene nè manco per via di paralogismi, ma in questa vece cade necessariamente in quattro contraddizioni o antinomie, provando a sè stessa il pro ed il contra della stessa proposizione; di pervenire finalmente all' unità assoluta delle condizioni di tutti gli oggetti del pensiero , e rispetto a questo suo terzo e più sublime scopo ella non è più fortunata che rispetto a' precedenti, perchè cade in una illusione trascendentale che le fa credere che esista un essere intelligente suprema causa di tutte le cose. Ma qui entra Kant a soccorrerla, e come egli la liberò dalle illusioni precedenti, così ora la libera dall' illusione di ammettere l' esistenza di un essere supremo. A tal fine Kant, movendo dal suo solito principio che qualsivoglia ragionamento della ragione non può avere alcun valore oggettivo perchè la sola esperienza de' sensi è atta a somministrare de' reali oggetti, e Iddio non cade sotto i sensi, si fa a dichiarare inefficaci l' uno dopo l' altro tutti gli argomenti coi quali si credette fin qui poter provare l' esistenza di Dio. Così Kant s' applaude d' aver tratto d' inganno la ragione! Ma se Iddio non esiste, o la ragione almeno non può provarne l' esistenza, in che maniera soddisferà alla sua esigenza di ridurre ad unità assoluta la serie delle condizioni di tutti gli oggetti del pensiero? Kant crede che a ciò basti il fingere che vi sia Iddio: quest' idea, chiamata da lui Ideale, secondo Kant può servire di regola alla ragione per riuscire a quella unità. Ma se Iddio è quello che dà unità alle condizioni di tutti gli oggetti del pensiero, e tuttavia non esiste veramente; dunque nè pure quest' unità sarà verace, ma sarà finta e illusoria. A questa difficoltà Kant in sostanza risponde consigliando la ragione a rinunziare a questa sua esigenza di trovare l' unità assoluta delle condizioni degli oggetti del pensare. Perocchè egli dice, che questo bisogno è più tosto un bisogno pratico che speculativo; e che certo, se si vuol soddisfare ad esso, conviene ammettere l' esistenza di Dio. [...OMISSIS...] Per tal modo da prima era la ragione pura quella che esigeva un' unità assoluta di tutte le condizioni degli oggetti del pensiero: ma, posciachè questa esigenza conduce invittamente all' esistenza di Dio, ora si vuole che questa esigenza sia più tosto un cotal impegno o bisogno pratico, quasichè la ragione speculativa ne possa e ne debba far senza. Perchè dunque tante parole sparse innanzi per dimostrare che la ragione pura ha quella esigenza? Per eludere questa esigenza prima confessata e lungamente stabilita della ragione pura, Kant aggiunge, che, quantunque gli enti limitati non mostrino d' aver in sè stessi le condizioni della loro esistenza, tuttavia non si può dire per questo, che essi sieno condizionati. [...OMISSIS...] Il che è quanto dire, che più tosto che ammettere l' esistenza di Dio, si può ammettere il sistema degli atomi d' Epicuro, il concetto de' quali non li mostra a dir vero necessari, ma tuttavia si potrebbero presentare come necessariamente incondizionati!! Ma dove dunque si troverà questa loro necessità, e incondizionalità, se non si trova nella loro idea? Se l' idea di essi non ce la presenta, conviene dunque che sia fuori di essi, e se è fuori di essi, dunque la necessità e la incondizionalità sta nel concetto d' un altro ente, e non nel concetto delle cose finite. Ritorna dunque il bisogno di un Dio per chi non vuole rinunziare alla ragione. In appresso Kant passa a sostenere, che, quantunque l' idea di Dio non provi l' esistenza di alcun essere realmente esistente, tuttavia è un' idea buona per la pratica. [...OMISSIS...] Ma quali sono i principii del suo giudizio? Sono, che l' esistenza di Dio è una illusione trascendentale. Non conosciamo dunque niente di migliore dell' illusione? Convien dunque lasciarsi illudere per soddisfare al dovere di scegliere? Vi può essere un dovere morale che ci obblighi ad abbandonarci all' illusione? E a mentire a noi stessi pigliando come certe le nostre convinzioni imperfette? Che cosa è quest' addizione pratica che possa aggiunger peso agli argomenti che non han peso, se non l' addizione di una menzogna interiore? Quale filosofia può esser quella, che pone la necessità della menzogna interna come base della morale? Chi ha detto a Kant, che la ragione sia un giudice sommamente equo, se è ingannatrice? E che non le rimanga come giustificarsi se commette il peccato di sottrarsi a' propri inganni? Sebbene adunque in niuna parte della sua filosofia Kant possa fuggire le contraddizioni, tuttavia in niuna parte lotta tanto e combatte seco stesso, quanto dove parla della dimostrazione dell' esistenza di Dio. Perocchè prima confessa, che la ragione la esige per trovare l' unità delle condizioni degli oggetti del pensiero; poscia questa esigenza , ora non c' è più, perchè si possano rappresentare come incondizionati gli stessi enti limitati, come Epicuro faceva de' suoi atomi; ora dice, che questa esigenza non è propriamente una prova dell' esistenza di Dio, ma piuttosto un bisogno, un interesse che conduce ad aggiungere qualche cosa alla speculazione; ora finalmente la ammette di nuovo, ma soggiunge che « « la necessità assoluta dei giudizŒ non è la necessità assoluta delle cose »(1) »: il che è quanto dire, che la necessità assoluta de' giudizi non è necessità assoluta, perchè se un giudizio, col quale afferma l' esistenza di un ente, fosse assolutamente necessario, certo dovrebbe essere assolutamente necessaria l' esistenza dell' ente che con quel giudizio viene affermato; perocchè se questa esistenza potesse mancare, il giudizio che lo pone non sarebbe assolutamente necessario perchè sarebbe falso. Lasciando dunque da parte tutte queste appena credibili aberrazioni del sofista, vediamo come egli espone la necessità del suo Dio, che per lui è un' idea vuota di oggetto reale. Noi crediamo di trattenerci ad esporre questo suo ragionamento, perchè egli contiene non già una dimostrazione dell' esistenza di Dio ma bensì una dimostrazione della necessità dell' essere ideale , lume dell' umana mente; onde pigliandola così ella viene a darci una conferma della nostra teoria dell' essere in universale, mostrando la necessità d' ammetterla come ragione sufficiente di tutti i concetti dell' umana mente. Kant espose il problema della ragione così: « « trovare l' unità assoluta delle condizioni di tutti gli oggetti dell' umano pensiero » ». Ma fino da principio egli pregiudicò la soluzione di questo problema collo stabilire gratuitamente che « il solo senso fisico somministra all' uomo oggetti », e tutte le altre facoltà non hanno altra virtù che di lavorare intorno agli oggetti de' sensi, dovendosi considerare come illusioni trascendentali gli oggetti che esse mai presentassero all' uomo. Kant si tolse con ciò di filosofare liberamente, legato alla catena de' suoi sofismi. Egli distinse adunque: 1 Le intuizioni (percezioni) de' sensi; 2 i concetti dell' intelletto; 3 le idee della ragione; 4 l' ideale. Disse dunque: 1 Che i concetti non possono rappresentare un oggetto senza le condizioni della sensitività, mancando loro le condizioni della realità oggettiva e non trovandosi in essi che la semplice forma del pensare (1). 2 Che le idee sono ancora più lontane dalla realità oggettiva; perocchè esse hanno per loro immediato oggetto i concetti, ai quali cercano di dare unità sistematica. 3 Finalmente l' ideale è ancor più lontano dalla verità oggettiva; perocchè per ideale intende un prototipo di perfezione nel quale sono suppositate le idee, consistendo l' ideale d' ogni spezie in un individuo, a cui di tutti gli attributi opposti se ne dà uno, quello che è richiesto a renderlo quanto mai si può concepire più perfetto. [...OMISSIS...] Questo è in sostanza uno degli argomenti da noi usati per provare che tutti i pensieri, tutte le operazioni della mente umana esigono avanti di sè l' intuizione dell' essere universale , perocchè tutti gli altri concetti altro non sono che determinazioni e limitazioni di quest' essere, e l' universale, l' indeterminato, l' illimitato dee precedere agli atti limitanti, determinanti, particolareggianti. Onde Kant qui mostra d' aver approssimata la verità; ma egli determinò male quale fosse l' essere universale che serve di fondamento alle determinazioni delle cose . Egli confonde l' ideale col reale; perocchè: 1 La parola sostrato propriamente appartiene alle sostanze, e non può esser applicato all' essere in universale, che come un certo traslato. 2 Egli parla di determinazione di cose , e non di concetti e di idee; ma egli dovea in ogni caso aggiungere, che si tratta di cose possibili e non reali. Queste cose possibili si distinguono bensì da' concetti astratti , ma finalmente sono anch' esse concetti, perocchè una cosa possibile è un concetto o un' idea. Se Kant avesse parlato con proprietà, non avrebbe avuto dopo da disfare il fatto; perocchè dopo aver parlato qui di cose , toglie in appresso a dimostrare, che queste cose sono oggetti della ragione, che non hanno alcuna realità, e che si prendono come oggetti ideali per un' illusione trascendentale. All' opposto il vero si è, che niun uomo di buon senso prende nè le idee, nè gli ideali, nè le cose possibili per oggetti reali . Ma se la ragione è impotente di somministrare all' uomo oggetti reali per via d' idee e di concetti; ella può però somministrargliene per via di argomentazioni , cioè di giudizŒ incatenati fra loro; la qual maniera di conoscere non appartiene alle idee, a cui solo Kant pone mente. Questo filosofo dunque sbaglia: 1 nel credere che gli uomini diano alle idee ed a' concetti la virtù di porgere oggetti reali , mentre tutto il mondo non dà loro altra virtù ed officio che di porgere oggetti verissimi sì, ma ideali e possibili; 2 nell' affaticarsi a distruggere questo errore comune che non esiste se non nella mente di Kant; 3 nel voler indurre dal valor meramente ideale delle idee e de' concetti, che anche i giudizŒ ed i raziocinŒ sieno limitati ad avere un valore meramente ideale, senza che possano provare l' esistenza d' oggetti reali; 4 e poichè il ragionamento, quando prova l' esistenza di un ente reale che non cade sotto i sensi, vale bensì a provarci la detta esistenza, ma non a farci conoscere la positiva essenza di quest' oggetto; erra Kant di nuovo nel pretendere di dedurre l' impotenza di provarci l' esistenza di un ente, dall' impotenza di farcene conoscere l' essenza (1). 3 Egli dice che il fondamento delle determinazioni dee contenere in qualche modo la provigione della materia , onde possono esser presi tutti i predicati delle cose; ma qui l' uso della parola materia è di nuovo improprio e capzioso, perchè la materia in senso proprio spetta alla realità: all' incontro i predicati appartengono all' ordine delle idee, e però alla forma, trattandosi di cose possibili. Riconosce adunque Kant la necessità di un' idea, fondamento di tutti i concetti determinati; e noi pigliamo in tanto a conto questa concessione. Egli riconosce altresì che quest' idea , cui nomina anche essere primitivo, è semplice. [...OMISSIS...] Or l' aver conosciuto, che il fondamento di ogni determinazione ideale dee essere un' idea primitiva e semplice, avrebbe dovuto guardare Kant dall' errore di esigere per fondamento di detta determinazione anzi un ideale che un' idea . Perocchè l' ideale è un ente particolare perfetto (2); e i predicati di un ente particolare perfetto, benchè concepito come possibile, sono suoi proprii, esclusivamente suoi; onde non si possono prendere da lui senza privarli dell' adesione che hanno con lui, e così renderli prima idee , cioè generali. Onde egli è una manifesta incongruenza riconoscere la necessità di un fondamento delle determinazioni tutte, e voler poi che questo fondamento sia un ideale, cioè un particolare. Perocchè, se questo ente particolare è l' ideale del sapiente, e se voglio determinare un altro essere col predicato della sapienza; io debbo prendere la sapienza in genere, e non mica la sapienza di quell' ideale del sapiente, la quale è unita a lui per modo, che, se da lui la stacco colla mente, non è più sua, ma è la sapienza in generale. Della quale difficoltà lo stesso Kant ebbe sentore; e fu costretto a confessare che la determinazione non potea considerarsi come una CIRCOSCRIZIONE di quell' ideale; ma quindi cadde nell' assurdo che è via al panteismo, cioè che ella fosse uno sviluppo di quest' ideale stesso, quasichè un ideale, se è ideale e però perfetto, si possa concepire come bisognoso o suscettibile di qualche sviluppo (1). Il che però non vedo come s' accordi con quello che egli aveva detto poco innanzi, [...OMISSIS...] . Lasciando però da parte questa contraddizione, Kant aveva riconosciuto che « « il concetto universale d' una realità in generale non può esser diviso a priori , perchè senza l' esperienza non si conoscono specie determinate di realità comprese sotto quel genere » ». La quale riflessione l' avrebbe condotto dirittamente al vero, se l' avesse scorto a conchiudere, che dunque le determinazioni speciali (almeno le determinazioni positive) non poteano esser date dall' idea che serve loro di fondamento, ma dalla sensitività stessa. Con questo sarebbe venuto a conoscere, che il fondamento di tutte le determinazioni non dovea essere un ideale, ma bensì un' idea, e propriamente l' idea dell' essere indeterminato suscettibile per ciò appunto di determinazioni e di limiti. Ma l' impegno del nostro sofista era preso; egli volea convertire forzatamente quest' idea in Dio, per aver poscia il piacere di disfare questo Dio; il che gli dovea esser facile, perocchè è facile a disfare il mal fatto. Concludiamo: la partizione dell' ente tentata da Kant è dialettica come quella di Aristotile, e non ontologica: ella è di più soggettiva, e fatta d' un lavorìo tutt' a filagrana di sofismi. I fonti logici di un sistema così profondamente erroneo furono due: 1 Il sensismo , cioè il pregiudizio che i soli sensi dessero all' uomo degli oggetti reali: onde venne a Kant l' assunto di dover spiegare tutte le operazioni dell' intelligenza umana in modo che ella non dovesse mai dare all' uomo alcun oggetto, e posciachè ella pur ne dà, di spiegar questo fatto come una illusione. Allo svolgimento di tale assunto si riduce tutto l' idealismo trascendentale. 2 L' astrattismo , cioè il falso metodo di racchiudere la filosofia in pure astrazioni, presupponendo che il problema di essa consista nell' isolare da tutto il rimanente l' elemento razionale puro; il che diviene errore e fonte d' errori, tostochè, invece di considerare l' elemento razionale puro come parte di un tutto da cui è indivisibile, si considera come un tutto egli stesso, atto a dare argomento ad una scienza completa, come pare a Kant «( Psicol. , 1 7 5) » (1). Per soddisfare alle esigenze del principio della ragion sufficiente , i filosofi tedeschi lavorarono i loro sistemi da Kant fino a Hegel. Kant imbevuto del sensismo del suo tempo aveva accordato, senza credere necessario di addurne alcuna prova, che la sensitività fisica somministrava all' uomo oggetti reali, ed era essa la sola facoltà che avesse un tal privilegio. Tuttavia distinse la materia dell' oggetto sensibile dalla forma . Questa ei pretese che venisse dallo spirito, il qual vestiva la materia data dalla sensitività, delle due forme dello spazio e del tempo. Ma in quanto alla materia egli la lasciava come un fatto (empirico). Quindi nel sistema Kantiano rimaneva una dualità; perchè la materia sensibile (vera od apparente) non si poteva ridurre allo spirito come a suoncava la ragione sufficiente di questa dualità: e quindi si argomentò di ridurre ogni cosa ad un principio solo, che contenesse la ragione sufficiente di tutto. Questo filosofo tuttavia non osservò (ed è comune questa inavvertenza a tutti i filosofi della Germania) che, quand' anco venisse fatto di ridurre la pluralità all' unità, non è per questo solo soddisfatto all' esigenza del principio della ragion sufficiente, se non si perviene a tale unità, il concetto della quale contenga in sè la ragione di sè stesso. Così appunto quando Kant uscì a dire, che, quantunque la serie degli eventi mondiali non dimostrino in sè stessi la ragione di sè, o, secondo la sua maniera di parlare, non contengano la condizione della propria esistenza, tuttavia non si può per questo dire che essi non sieno incondizionati, perocchè si potrebbero concepire come assolutamente necessari; mostrò assai chiaro di non capire che cosa significhi ragion sufficiente: perocchè, se l' avesse inteso, avrebbe in pari tempo conosciuto, che ciò che non dimostra nel suo concetto la ragione e la condizione della propria esistenza, o del modo di essa, non l' ha. Perocchè avere in sè la ragion sufficiente, significa essere questa contenuta nel concetto della cosa; giacchè se è fuori del concetto delle cose, è fuori della cosa. Quando dunque un ente non ha la ragione sufficiente di sè nel proprio concetto, e conviene però cercarla altrove; il filosofo non può mica appiccicargliela, come dipendesse da lui il dargliela o il togliergliela: nè può neppure asserire la possibilità che esso l' abbia, contro il fatto che attesta non averla. Or tutto lo studio di Fichte si riduce a trovare un ente, a cui si riducano tutti gli enti; e trovato quest' ente dichiararlo arbitrariamente assoluto, quantunque il suo concetto non sia che quello di un ente condizionato , privo della ragion di sè stesso. Al che s' aggiunga un' altra riflessione preliminare. Tutto l' intento de' sistemi tedeschi, come dicemmo, è quello di trovare una ragion sufficiente della pluralità dell' ente. Ora questo intento suppone, che la stella polare, a cui affidano il corso de' loro ragionamenti, è il principio della ragion sufficiente . Ottimamente. Ma questo è un supporre la validità ed efficacia di questo principio; perocchè a tale validità ed efficacia è condizionato il valore di tutti i loro ragionari. Peccano adunque tutte queste filosofie di petizione di principio; perchè suppongono valido a conchiudere il vero un principio della ragione, mentre essi si propongono or di far la critica della ragione stessa, o di svolgere come nascono i principii della ragione, e come collo svolgimento del pensiero la pluralità stessa degli enti si va producendo. Il che dimostra, che evitare il circolo in filosofia non si può ricominciando di botto dall' ontologia , e che convien muovere anzi dall' ideologia , onde provvedersi di que' principii di ragionare che sono poscia gli stromenti co' quali la stessa ontologia si può edificare (1). Intanto, affine di portare un giusto giudizio de' sistemi tedeschi e de' sistemi ontologici in generale, è da fermare questo principio, che « il loro intento si è quello di dare una ragione sufficiente di tutte le maniere di esistenze »(2). Perocchè, conosciuto questo, noi possiamo esigere, che tali filosofi niente avanzino che sia privo di ragione sufficiente; giacchè, se lo facessero, mancherebbero al loro intento, e sarebbero in contraddizione seco stessi. Fichte adunque per trovare la ragione sufficiente della dualità che restava nel sistema di Kant, pretese che tutto quanto cade nel pensiero, e perciò l' uomo, il mondo, e Dio stesso, conveniva ridursi al solo IO. Egli moveva da questo principio: « tutto si deve rinvenire nella coscienza empirica », e biasimava Spinoza unicamente perchè fosse uscito da questo limite, dove l' uomo è racchiuso. [...OMISSIS...] Il principio, che non si deve uscire dalla coscienza empirica, è certamente specioso. Ma in prima quella parola empirica , che vi aggiunsero i tedeschi, è superflua e dannosa; superflua, perocchè empirica vale sperimentale, e la coscienza è sperimentale di sua natura, giacchè ognuno esperimenta ciò di cui è conscio; dannosa, perchè presuppone l' errore che v' abbia una coscienza non sperimentale, quasichè avere coscienza non fosse una vera sperienza. E quest' errore, insieme col vocabolo male appropriato, schizza appunto nelle filosofie tedesche, le quali tutte per poco presuppongono una coscienza diversa dalla sperimentale, che chiamano ora razionale, ora trascendentale, e che non è coscienza, ma piuttosto un cotal essere finto dall' immaginazione. Ora del principio, che non si deve uscire dalla coscienza, abusano gli idealisti; e della distinzione di due coscienze, l' una sperimentale, l' altra trascendentale, abusano quelli che volendo essere idealisti, pure intendono che al di là de' sensi e delle idee l' uomo ammette qualche cosa, e lo vogliono spiegare senza cessare di essere idealisti, tra' quali ultimi è Fichte. Vediamo adunque in che senso possa esser vero il principio, che non si deve uscire dalla coscienza, e quale ne sia l' abuso che ne fanno gl' idealisti trascendentali. Quest' abuso nasce dall' aggiungere a quel principio altri principii arbitrari, per esempio che un ente non possa inesistere in un altro, rimanendo distinto da quello in cui si trova. Questo principio è supposto gratuitamente da tali filosofi, quando, se avessero voluto consultare puramente la coscienza, questa stessa avrebbe loro data la prova della sua erroneità. La coscienza infatti suppone una dualità, il soggetto e l' oggetto, e suppone che l' oggetto sia nel soggetto, non in senso materiale, quasi come le frutta sono in un paniere, ma nel senso intellettivo, che altro non significa che l' oggetto è presente al soggetto e da lui conosciuto. Questo viene accordato anche da Fichte; ma egli coglie da questo appunto cagione d' uscire dalla coscienza, dicendo che questa dualità non si può spiegare, se non supponendo, che innanzi al soggetto ed all' oggetto v' abbia un punto d' indifferenza, dove si trovi la cagione del soggetto e dell' oggetto medesimo, nel quale punto d' indifferenza egli colloca la sua coscienza pura in contraddizione della coscienza empirica. Ma questa coscienza pura non è coscienza, se teniamo fermo quello che lo stesso Fichte ci ha accordato, cioè che la coscienza esiga un soggetto ed un oggetto. E in vero qual coscienza vi può essere, dove manca il principio che sia consapevole, e manca ciò di cui tal principio possa essere consapevole? La coscienza pura adunque supposta da Fichte come un antecedente alla coscienza empirica, non essendo per niun modo coscienza, sarà tutt' altro, se ella esiste; e questo è quanto dire, che il filosofo è uscito dalla sfera della coscienza, in cui si proponeva di rimanere. Nè basta a trattenerlo il puro nome di coscienza attribuito a quel supposto punto d' indifferenza, quando tal nome non gli conviene. La coscienza adunque suppone un soggetto ed un oggetto, ma non in ogni coscienza cade il soggetto, il quale non ha coscienza di sè che per riflessione, come lo stesso Fichte ci accorda, e però ha bisogno di essere oggettivato acciocchè egli diventi oggetto di coscienza. Nella coscienza adunque, propriamente parlando, non cadono che gli oggetti. Ma la coscienza stessa ci dice che un oggetto non è l' altro, nè si può coll' altro confondere od immedesimare. Ora gli oggetti che cadono nella coscienza sono innumerevoli, e tra questi vi è anche il soggetto che allor si rende consapevole di sè stesso, e ben presto si pronuncia col monosillabo IO. Or come la coscienza ci dà la distinzione di tutti i suoi oggetti, così ci dà la distinzione dell' IO da tutti gli altri innumerevoli oggetti che alla coscienza appartengono. La coscienza dell' IO ci dice bensì, che quest' io è il principio consapevole, ma ci dice in pari tempo, ch' egli, principio consapevole, è un solo di tutti gli innumerevoli oggetti della coscienza, ci dice che l' IO ha una relazione con tutti gli oggetti, ma che non ha la loro natura, che anzi la natura degli altri oggetti è essenzialmente e incomunicabilmente distinta dalla natura dell' IO. Così, quando io affermo me stesso da una parte, e dall' altra affermo un cavallo, una stella, o Dio stesso, è la coscienza, che ho di tutte queste cose, che mi fa conoscere la loro differenza, e m' attesta, che l' essenza del cavallo, o dell' astro, o di Dio, è un' essenza diversa di quella del me, affermante tali cose, e che perciò, se voglio ascoltare la coscienza, debbo prendere tutte queste cose per enti diversi. Vero è, che sono sempre io quell' istesso, che le conosco tutte, il che non vuol dir altro, se non che io ho con tutte la relazione di conoscenza. Ma quella coscienza che mi dice ciò, mi dice del pari che questa relazione non consiste in una identità di natura, ma bensì mi dice che quella relazione non potrebbe essere senza che la natura e gli enti fossero diversi. Onde, sebbene sia vero che per ispiegare la coscienza debbo supporre che un solo sia il principio consapevole, e questa unità di principio mi è attestata dalla coscienza; tuttavia tanto è lungi che sia necessario, per ispiegare la coscienza come vuol Fichte, di condurre tutti i diversi enti ad un solo ente, cioè all' IO, che anzi in nessuna maniera la coscienza umana potrebbe essere spiegata, se non si suppone diversità di enti, cioè se non si suppone, che quelli enti, che sono distinti dalla coscienza, siano distinti realmente. Fichte adunque cozza direttamente contro il principio di tutta la sua filosofia, che, come dicevamo, è quello della ragion sufficiente; perocchè, mentre egli crede di trovare la ragion sufficiente della coscienza nel ridurre tutti gli enti che cadono in essa ad un solo, il vero si è che con una tale riduzione, d' altra parte immaginaria e ipotetica, si distrugge bensì la coscienza, ma non la si spiega, essendo condizione indispensabile della coscienza la pluralità dei suoi oggetti, e l' unità solo di quell' oggetto che è anche soggetto. Fichte è infedele al suo principio di non dovere uscire dalla coscienza anche in un altro modo, cioè distinguendo, oltre la coscienza empirica, una coscienza razionale, la quale egli pretende di ritrovare nella coscienza empirica. Ma come ve la trova? Unicamente per questo argomento ch' ella è necessaria per ispiegare la coscienza empirica . E` dunque una argomentazione che adopera Fichte, colla quale argomentazione parte dalla coscienza empirica in virtù del principio della ragione sufficiente, e viene a questa pretesa coscienza razionale . Ma qual è questa nuova coscienza? questa cotale superfetazione della coscienza empirica? E` quel punto d' indifferenza di cui abbiamo parlato dove non v' ha nè oggetto nè soggetto. Ma senza oggetto e senza soggetto vi ha egli coscienza? No certamente; non resta dunque che una chimera; ovvero un' entità a cui non si può applicare il nome di coscienza, perocchè non vi si trova nè chi sia consapevole, nè ciò di cui possa esser consapevole. Con eguale improprietà egli dà il nome di IO a quella inconsapevole coscienza, cioè non coscienza, ch' egli suppone esistere anteriormente alla vera coscienza che è coscienza empirica; dico la coscienza empirica, cioè sperimentale, in tutta l' ampiezza della parola, non limitata alla sola esperienza degli organi sensorii. Onde pone due IO: l' IO assoluto, e l' IO empirico posto dall' Io assoluto. Ma se vi ha un principio che pone l' Io empirico, questo principio non può essere una coscienza, nè cadere nella coscienza; e però non sarà mai, e poi mai un Io; giacchè l' Io è per sua propria essenza una consapevolezza. Qualora adunque noi vorremo riconoscere per buoni gli argomenti di Fichte, questi ci condurranno alla necessità di riconoscere che l' Io, ossia la consapevolezza d' un principio d' azione intellettiva che pronunzia sè stesso, non può spiegarsi se non si ammette qualche cosa che sia anteriore all' Io, ed alla coscienza, e fin qui l' argomento corre. Lo stesso Fichte dice, che prima che noi venissimo al pensiero della riflessione, si erano succedute nel nostro spirito diverse operazioni spirituali, ma noi non ne fummo consapevoli. Solo ritornando lo spirito in sè, egli PONE SE` STESSO come un essere riflettente e pensante, ed allor solo ci rendiamo conscii di noi medesimi. [...OMISSIS...] Ottimamente: ma ciò che si trova d' antecedente alla riflessione non è mica per questo un' altra coscienza, non è un altro Io; ma è semplicemente uno spirito inconsapevole di sè stesso, e che non pronuncia punto sè stesso; perocchè altro è lo spirito intelligente, il quale è dato dalla natura, altro è l' Io , il quale è quello spirito già sviluppato e però artificiato «( Psicol. 67 7 .1) ». Ma da che fu mosso Fichte a dare il nome di Io a ciò che si trova nell' uomo di antecedente alla coscienza, e però di antecedente all' Io, onde cadde nell' assurdo d' ammettere due Io nello stesso soggetto? (1). Da quel principio male applicato che « tutto si deve rinvenire nella coscienza ». Ora la coscienza stessa lo conduceva fuori di sè, dimostrando d' essere fattizia, e d' aver bisogno d' una causa e di un' azione che la ponesse in essere. La verità del principio della ragione sufficiente risplendeva, e l' uomo poteva rendersi anche consapevole di questo splendore, e questo principio movente di tutta la filosofia conduceva a qualche cosa di anteriore alla coscienza. Ma poichè si era messo il chiodo di non doversi uscire da questa; però se ne usciva, e poi per non confessare d' esser uscito si copriva l' incongruenza con parole appiccicate, dando il nome d' Io e di coscienza a ciò che non era nè Io, nè coscienza. Quel principio adunque non è vero, se non inteso così « di dover muovere il ragionamento nostro dalla coscienza », ma non così « di dover fermarsi entro i cancelli della coscienza ». Questa seconda è la parte falsa, la giunta arbitraria de' sensisti e degli idealisti. Ma ond' avviene ciò, che la coscienza stessa conduca l' uomo fuori di sè, e il conduca a conoscere cose che non cadono in essa? Da questo che la coscienza è essenzialmente intellettiva, sorgendo in noi mediante una riflessione del pensiero sopra il soggetto pensante. Ora la natura dell' intelletto è tale, come abbiamo veduto, che mette l' essere intelligente in comunicazione (intellettuale) con cose diverse da sè. Nell' intelligenza vi è l' identità e il diverso, dato in natura; cioè vi è il principio intelligente, il quale è sempre identico a sè stesso in tutte le sue operazioni, e vi è il termine, ossia l' oggetto inteso, il quale è contrapposto al soggetto intelligente; e quest' oggetto inteso può essere qualsivoglia cose al tutto diverse dall' ente intelligente. Così nella natura intima dell' intellezione convien cercare il punto di comunicazione fra l' intelligente e gli enti da lui intesi; i quali hanno un loro modo d' INESISTERE NELL' INTELLIGENTE senza punto confondersi con lui, anzi da lui distinguendosi. Tale è il fatto , contro al quale non vale argomento alcuno, e molto meno l' argomento dell' analogia co' corpi e colla materia. Perocchè la immensa ripugnanza che hanno tutte le specie de' sensisti ad ammettere semplicemente un tal fatto, non procede da altro che da un argomentar che fanno per analogia a quel che vedono avvenir ne' corpi. Il quale argomento si riduce a questo: « un corpo non può inesistere nell' altro, dunque nessun ente può inesistere nell' altro »: dove la conseguenza è troppo più ampia delle premesse, e però vi ha il difetto logico della falsa induzione. Di più l' intelligenza non ha solamente ad oggetti suoi gli enti particolari, ma prima di tutto l' essere in universale , il quale colla sua universalità collega in varŒ modi gli enti tutti fra loro, onde nascono i principŒ del ragionamento , fra' quali uno è quello della ragion sufficiente , che produce nell' uomo il bisogno di filosofare. Or l' uso di questi principŒ, che suppongono il nesso degli enti dato allo spirito umano per natura nel primo suo oggetto, ci conduce da un ente all' altro, e talor anco dall' ente cognito all' incognito. Seguendo dunque il ragionamento là dove egli muove i passi, lo spirito nostro esce dalla coscienza, cioè a dire, non prende la sola coscienza per oggetto del suo pensare, ma altri ed altri oggetti. Fichte fa questo ragionamento: [...OMISSIS...] . Io non so se si possa dare un ragionamento più contraddittorio di questo. Si comincia dal dire che l' Io è una coscienza, e si finisce col provare che deve esistere un Io che non può venire a coscienza! Il ragionamento anzi prova che non v' ha un Io solo, come v' ha una sola coscienza; ma che anteriormente a questa coscienza, e prima che l' uomo pronunci questa parola Io, vi è l' uomo senza coscienza, e che non è propriamente Io in senso diviso, come dicono i logici, ma solo in senso composto (1). La proposizione: « Io so di me solo in quanto io sono, e io sono in quanto io so di me », contiene appunto il sofisma che i logici dicono compositionis et divisionis; perocchè nella proposizione « Io sono in quanto so di me », la parola Io può avere due significati: può significare semplicemente l' uomo (dove l' Io è preso in senso composto), e viene a dire, « quell' uomo che poi pronuncia Io », nel qual senso si chiama un Io l' uomo, non perchè col solo esser l' uomo sia un Io, ma perchè all' essere di quest' uomo s' aggiunse poscia l' Io; e può significare l' uomo avente la coscienza, e pronunciante l' Io (dove l' Io è preso in senso diviso), venendo propriamente a significare non l' uomo, ma la sua coscienza, l' uomo in quant' è consapevole. E` dunque vero che « Io, come coscienza di me, come uomo conscio, sono in quanto so di me »; ma non è mica vero che « Io, come uomo semplicemente, sono in quanto so di me », perchè anzi sono anche senza saper di me, ed ero prima che acquistassi alcuna coscienza, e dicessi Io. Quella proposizione adunque non prova, che l' uomo ponga sè stesso; prova solo, che l' uomo pone l' Io, cioè la coscienza di sè, quando dice me (2). L' Io adunque precisamente non è l' uomo, ma è un accidente dell' uomo, senza il quale sta l' uomo; è una produzione della riflessione, una cognizione acquisita; e non più. Fichte all' incontro confuse questa produzione accidentale colla sostanza dell' uomo, e suppose che l' uomo non fosse prima che ponesse sè stesso; quindi, in luogo di cavarne che l' uomo produce ne' suoi atti la cognizione di sè, ne cavò l' assurdo che produce sè stesso, che è la sua propria causa. La conclusione adunque di Fichte: « « Il mio Io è dunque solo in quanto egli si pone ed in quanto egli è attivo: l' azione è il carattere fondamentale dell' Io » », non hanno valore, se non tradotte in quest' altre: La coscienza di me stesso comincia in me con un atto mio proprio di riflessione, e però l' azione è il suo carattere fondamentale, perchè la riflessione è un' azione. Del resto avrebbe potuto dire di più, che il carattere di ogni ente è un' azione , presa questa parola in senso generalissimo, perchè l' essere stesso è un atto; e quest' atto in qualche modo pone l' essere, potendosi coll' astrazione distinguere in quest' atto il principio ed il termine, col quale la forma è già posta, fatta sussistere. Tale risultato dà l' analisi di ogni ente, e però non è maraviglia che ciò si avveri anche della coscienza, anche dell' uomo anteriore alla coscienza. Ma egli sarebbe pure un grande abuso d' astrazione il prendere il mero principio dell' atto per l' atto stesso, o per un atto compito e che possa stare da sè: valendo qui assai bene l' adagio scolastico, che « in actu actus nondum est actus ». V' ha poi una somma inesattezza di favellare, cagione ed effetto di gravissimi errori, in quelle parole che « « non v' ha coscienza se non si divide in soggetto ed oggetto, in ispirito e natura » ». Primieramente può cadere nella coscienza il solo oggetto, e non il soggetto; cioè io posso esser consapevole di qualche oggetto reale o possibile diverso da me, senz' avere alcuna attuale consapevolezza di me stesso, senza riflettere su di me nè punto nè poco. In secondo luogo, l' oggetto, di cui sono consapevole, potrebbe essere uno spirito, potrei essere io stesso; e in tal caso la natura sensibile (in quant' è contrapposta allo spirito) non cadrebbe punto nella coscienza. Onde la natura, il mondo, non è necessaria a spiegare la esistenza di una coscienza e di un Io. Questa considerazione è importantissima. Perocchè Fichte argomenta appunto così: [...OMISSIS...] . Ora, lasciando ciò che diremo appresso, noi neghiamo che la natura, il mondo, sia condizione senza la quale l' Io non possa avere coscienza; purchè gli sieno dati altri oggetti, poniamo oggetti spirituali, od oggetti anche meramente possibili. Onde il principio della ragion sufficiente non richiede assolutamente l' esistenza del mondo a far che l' Io acquisti coscienza, potendo egli a ciò venire per altre vie. In terzo luogo è del tutto falso, che la coscienza si divida in soggetto ed oggetto. Anzi la coscienza stessa ci attesta, che tanto il soggetto quanto l' oggetto non sono la coscienza, e molto meno due parti in cui ella si divide. In quanto al soggetto la coscienza ci dice, ch' egli è quello che è consapevole, ma non è la stessa coscienza, l' atto della consapevolezza. Il soggetto è il principio di quest' atto riflesso che consapevolezza si chiama, come è il principio di molti altri atti diversi da quello della coscienza. Fra gli atti del soggetto, ed il soggetto stesso, vi ha dunque una distinzione reale: gli atti del soggetto sono accidenti senza i quali il soggetto può essere. Tale è la coscienza; il soggetto può esser senza di essa; ma non può il soggetto essere senza sè stesso: egli è atto primo, di cui gli atti secondi sono derivazioni. Molto meno l' oggetto può essere la coscienza o parte di lei. Anzi è la coscienza stessa che ci attesta, che altro è lei stessa, altro i suoi oggetti; altro l' atto con cui ci rendiamo consapevoli, altro ciò di cui ci rendiamo consapevoli. La coscienza è un nostro atto o abito; ma l' oggetto, di cui ci rendiamo consapevoli, non è mica sempre un nostro atto, o un nostro abito. Se io sono consapevole di pensare una montagna, sono consapevole in pari tempo che la montagna pensata non è mica l' atto del mio pensiero, o la riflessione sullo stesso (la coscienza). Ma, che cosa fanno i sensisti? Dopo aver appellato alla coscienza, rinnegano tutte queste deposizioni della coscienza, e vi dicono che non possono essere vere , ve lo dicono sulla fede della loro parola, ve lo dicono a priori; anzi vi accertano che sono tutte illusioni, e che non esiste altro che la coscienza, e che il soggetto e l' oggetto sono parti di lei: a malgrado che di ciò non siamo consapevoli; anzi a malgrado che siamo consapevoli del contrario: quasi che, se fossero veramente parti della coscienza, la coscienza stessa nol dovesse sapere ed attestare. Dobbiamo dunque concludere esser falso il principio, « che l' azione di porre sè stesso supponga un Io puro ed assoluto »; quest' azione altro non suppone, che uno spirito che afferma sè stesso, ed affermandosi si conosce. Onde, in quant' è conoscente in atto di sè, egli si pone, ma questo è un suo essere accidentale; e però non pone la propria sostanza: ma nella propria sostanza pone un accidente coll' atto del conoscere. Quando poi si è posto e denominato Io , allora questo spirito, che acquistò tale modificazione accidentale e la denominazione d' Io, con un' altra riflessione sopra l' Io , pone di nuovo l' Io; ma il ponente non è un altro spirito, un' altra sostanza; ma lo stesso spirito di prima, identico. Onde, come le riflessioni sono innumerevoli, così le affermazioni di sè; e ogni volta che afferma sè l' uomo afferma un sè identico nella sostanza; ma modificato nella cognizione, perchè l' affermato è uno spirito che acquistò nuova cognizione mediante una nuova riflessione. E` dunque falso che l' Io ponga sè stesso, essendo vero solamente, che lo spirito pone l' Io presso quest' Io come significativo di quella coscienza, che non è l' essere dello spirito, come vuol Fichte, ma è puramente un suo accidente, la cognizione di sè, la quale può essere e non essere senza che lo spirito cessi di essere, benchè questo spirito la formi quando, conoscendo sè stesso, dice Io. E` falso parimente, che si abbiano due Io nello stesso uomo, l' uno ponente e puro, l' altro posto ed empirico. Ed essendo queste due falsità manifeste, qui potremmo chiudere il discorso sul sistema di Amadeo Fichte. Ma giova seguirlo nei suoi traviamenti. [...OMISSIS...] E certo, se qualche cosa potesse essere causa di sè, egli avrebbe in qualche modo in sè la propria ragione sufficiente: ma essendo una proposizione contraddittoria che chi ancora non è si dia l' esistenza, perciò cade tutto quel ragionamento. Que' filosofi nondimeno, che non hanno timore d' involgersi in perpetue contraddizioni, lungi dal trovar strano che un ente che ancor non è dia a sè stesso l' esistenza, o, come essi dicono, si ponga, vanno avanti, anzi più innanzi, e ne deducono che il nulla è cagione del tutto , creando così quel sistema che fu detto del nullismo. Costoro 1 partono sempre dal principio, che l' essere umano consista nell' atto o stato della propria coscienza; indi deducono che l' uomo prima della coscienza, essendo privo di essere, è NULLA. 2 Ma la coscienza è un atto dell' uomo stesso riflettente sul proprio essere dunque il NULLA, cioè quell' uomo che era nulla, ha dato l' essere a sè stesso, e diventò il creatore di sè medesimo. Essi negano adunque di riconoscere alcun essere avanti la coscienza, avanti alla quale pongono solo il nulla: confondendo essi il conoscere coll' essere dell' uomo; per uno strano abuso di astrazione, mediante la quale isolano il pensiero riflesso dall' uomo; e prendono quel pensiero così isolato come fosse tutto l' uomo in corpo ed anima. Il sistema del nullismo hegeliano è natìo dal sistema di Fichte come una naturalissima deduzione, ma egli è pur singolare a vedere la sorte dell' errore. Fichte insegna, che v' ha un Io assoluto che pone l' Io empirico , dove si trovano tutte le cose, il Mondo stesso; così fa dell' Io un essere infinito, Creatore, Dio. Ebbene viene Hegel: e accettando tutto il ragionamento di Fichte, ne conclude, che questo Io assoluto ed infinito è il NULLA; perocchè, se deve porre ogni cosa, anche sè stesso, dunque nell' atto di porsi, nulla è ancor posto, nè pure l' Io che pone; perocchè, se fosse posto, non avrebbe bisogno di porsi. Dunque il Dio di Fichte s' è cangiato d' un tratto logicamente nel NULLA di Hegel. Tanto è vero che le conseguenze di un errore conducono agli errori opposti, e le conseguenze di un assurdo conducono agli assurdi. La grandezza di questa filosofia sta appunto nella mostruosa grandezza degli assurdi, e quel certo attraente che esercitano sugli spiriti dipende dalla « Logica » che incatena l' uno coll' altro gli assurdi più contrari. Perocchè nei loro autori si scorge un gran potere di logica in rendere fecondi tali assurdi, che non si possono ammettere in modo alcuno senza aver prima rinunciato ad ogni logica. Del resto, se si considera che, non solo rispetto allo spirito umano, ma altresì rispetto ad ogni ente contingente, si concepisce la sua sussistenza come un atto avente un principio ed un termine, se si astrae il principio dal termine, questo principio astratto non esiste veramente, appunto perchè è un astratto. Indi prendono appicco i nullisti a dire che è nulla , e che dal nulla venne l' ente; perchè l' ente fu posto veramente in virtù del principio del suo atto. Questo astratto principio risponde in qualche modo alla materia prima degli antichi, che è nulla in atto e tutto in potenza. Ma tutta questa macchina cade a terra dal solo osservare, che il principio dell' atto costituente un essere non esiste punto separato dal suo termine; ma con esso e insieme con esso non è nulla. E` dunque abuso d' astrazione, che diede corpo a tali larve filosofiche. D' altra parte se si vuol riconoscere la ragione sufficiente dell' esistenza del termine nel principio dell' atto della sussistenza; non è già che si possa riconoscere in questo principio la ragione sufficiente di tutto l' ente; perocchè lo stesso principio dell' atto ha bisogno d' un' altra ragione che ne spieghi la sussistenza; perocchè il suo concetto non la contiene; potendo essere e non essere. Applichiamo quest' osservazione all' Io di Fichte che pone sè stesso. Quest' Io altro non è che il principio dell' atto di cui l' Io posto è il termine. Così lo descrive lo stesso Fichte, quando dice, che l' Io puro è superiore all' Io empirico, dove cade la differenza del soggetto e dell' oggetto, perocchè è l' origine di questo, e però lo chiama punto d' indifferenza . [...OMISSIS...] Ebbene, se quest' io è il principio dell' atto, pel quale sussiste l' Io termine di quest' atto; dunque egli si potrà bensì considerare come la ragione sufficiente del suo termine, ma non di tutto quell' ente che si chiama Io, e che come ogni altro si compone di principio e di termine. Rimane adunque a cercare ancora una ragione sufficiente di quel principio dell' atto che fa sussistere l' Io, perocchè quel principio non ha già in sè questa ragione sufficiente; giacchè, se l' avesse in sè, sarebbe racchiusa nel suo concetto. Ma il concetto del principio di quest' atto ci dimostra anzi, che si può egualmente pensare che esista o non esista; e però conviene cercare altrove la ragione sufficiente che spieghi perchè esista più tosto del suo contrario. Il che è quanto dire che il principio della ragione sufficiente dell' esistenza dell' umana coscienza non si può acquetare nell' Io puro ed astratto di Fichte; ma esige un' altra ragione fuori al tutto dell' Io umano, e veramente assoluta, la qual ragione è IDDIO. Ma egli è uopo che noi esaminiamo qui con qualche accuratezza gli argomenti da' quali Fichte fu indotto a credere, che affermare sia un porre, un creare. Questa sentenza già veniva qual conseguenza direttissima del pregiudizio degli idealisti, che niente possa essere fuori della mente dell' uomo. Ma Fichte adduce altre prove, e queste noi dobbiamo porre a disamina. I Argomento di Fichte . - [...OMISSIS...] . Giudizio sul detto argomento . - Esso è difettoso pe' seguenti capi: 1 L' Io non può porsi prima d' esistere: dunque non v' è un Io che ponga sè stesso; 2 la coscienza di sè può aversi senza bisogno che esista il mondo materiale; 3 Quando anco la coscienza non potesse essere senza il mondo, ciò non prova che l' Io ponga il mondo, ma solo che affermi il mondo già per sè esistente; 4 Il NON7IO non è il mondo; perocchè il Non7Io è una semplice negazione, e il mondo è cosa positiva; 5 Il mondo esterno (che il Fichte chiama la NATURA) è limitato; ma non viene da questo la limitazione dell' Io ; perocchè potrebbe esservi uno spirito che conoscesse il limitato, senza che per ciò fosse limitato egli stesso; 6 E` falso anche il principio presupposto da Fichte « che l' azione non si possa concepire senza una resistenza »; così si concepisce la creazione che è la massima azione; 7 Quand' anco l' azione avesse bisogno d' una resistenza per esercitarsi, ciò non proverebbe che questa resistenza la creasse ella a sè stessa; anzi, come cosa a lei opposta, le dee venire altronde. II Altro suo argomento . - Senza ammettere che l' Io ponga il mondo, non si può spiegare l' azione che l' Io esercita sul mondo. [...OMISSIS...] Giudizio sull' argomento . - Esso pecca in molti punti, cioè: 1 Niuno dice che Io sia unicamente un essere passivo, ma passivo in parte e in parte attivo: onde, enumerando gli assurdi che ne verrebbero dal far l' uomo del tutto passivo, il filosofo combatte avversarŒ che non esistono, e non tocca quelli che veramente esistono. 2 L' uomo non preforma, e non precrea il mondo, quando concepisce un ideale, a cui s' ingegna poscia di modificare il mondo. Tanto è lungi che l' uomo possa nulla sulla sostanza del mondo, ch' egli non può levare nè aggiungere al mondo la menoma particella di materia; benchè potrebbe concepirla diminuita od accresciuta, colla sua mente, in un qualunque ideale ch' egli si formasse. Ma l' uomo stesso, fino a che non ha perduto il senno, non potrebbe neppure concepire la menoma speranza di realizzare un ideale, nel quale si dovesse aggiungere al mondo o togliere un atomo. Che anzi il potere dell' uomo è limitatissimo, non solo sulla sostanza materiale, ma ben anche a modificarla; sicchè le modificazioni, che tutto il poter dell' uomo può cagionare sullo stato dell' universo, valgono presso che zero, computato l' universo intiero. Ora questa limitazione del potere dell' uomo sul mondo non trova alcuna ragione sufficiente nel sistema di Fichte; e tanto meno se si suppone che l' Io ponente sia un Io assoluto ed infinito. 3 Fichte trova impossibile che, se l' uomo rispetto al mondo è passivo, diventi poi attivo. Ma, primieramente, in ciò non vi ha la menoma contraddizione, perocchè l' uomo non è mica attivo sul mondo collo stesso atto con cui è passivo. Non si possono negare all' Io moltiplicità di oggetti, di atti, di facoltà, di leggi. Non v' ha dunque contraddizione che secondo gli uni sia passivo, e secondo gli altri attivo. Di poi, qui non si tratta di vedere, che cosa sia possibile, ma quale sia la cosa nel fatto. In terzo luogo, esclude forse il Fichte una limitazione posta all' operare dell' Io? una resistenza, un freno posto alla sua tendenza? Non già; ma, credendo di spiegarla, egli vuole che l' Io stesso produca a sè la resistenza e l' opposizione. Con questo sistema, alla prima difficoltà se n' aggiunge un' altra. Perocchè, se prima era difficile intendere come l' attività dell' Io potesse trovare una resistenza nel mondo, ora rimane questo a spiegarsi; ma s' aggiunge di più la difficoltà molto maggiore come sia possibile che l' Io stesso sia l' autore d' un ente che gli resiste e lo limita. Ricorrerà l' idealista al solito rifugio, che la resistenza è una pura illusione? Non può, perchè ha dedotta la necessità della resistenza come condizione dell' azione e della coscienza che l' Io vuol porre. E quanto poi non è arbitraria e strana quest' appendice, che l' Io, creando a sè la resistenza, cioè il mondo, si riserbò il potere di cangiarlo e di modificarlo! Vi ha forse una ragione sufficiente di ciò? E qual ragione sufficiente può assegnare il filosofo nostro, perchè l' Io si sia riserbato questa quantità determinata di potere, nè più nè meno? e se ne sia riserbata una quantità così piccola, che è nulla verso la potenza con cui il mondo resiste a' suoi disegni? E riserbandosi questo minimo grado di potenza sulla sua creatura, ha dunque rinunziato per sempre ad averne un grado di più? Il creatore potè abdicare così per sempre la sua onnipotenza? Avrà egli creato un complesso di esseri più potenti di lui? Non potrà annullare nè accrescere il numero delle sue creature? Non potrà più riassumere il suo maraviglioso potere? Non solo l' avrà perduto di diritto, ma anche di fatto? L' infinito sarà scaduto ad una condizione inferiore del finito da lui prodotto? E s' ella è così, dove oggimai si trova l' Io assoluto ed infinito? E` perito per sempre, come quegli animali che generando de' loro simili muoiono nell' atto della generazione. Mentre adunque Fichte inventa un sistema per assegnare delle ragioni sufficienti al fatto della coscienza, egli dà per ragioni altri fatti da lui supposti e disdetti dalla coscienza, i quali hanno bisogno assai più de' primi di spiegazione, ed anzi sono del tutto inesplicabili. Ed è poi lepido il modo facilissimo col quale fa comparire l' individuo umano al mondo! [...OMISSIS...] Vi par egli questa filosofia? non è ella una descrizione accurata e filosofica della maniera con cui l' uomo si pone da sè stesso? Ora sentitene la spiegazione: [...OMISSIS...] . Ecco adunque come i filosofi trascendentali descrivono i fatti, ecco come li spiegano. Li descrivono prima come produzioni di un Io precedente senza coscienza di sè, e tuttavia ASSOLUTO e INFINITO. Veramente chi ha coscienza (presso di loro sarebbe l' Io empirico) è qualche cosa di più di quello che non ne ha. Ma il loro assoluto, il loro infinito, il loro DIO, non ha coscienza, sì va travagliandosi per cavarla dalle proprie viscere, benchè il parto riesca sempre imperfetto. Così doveva essere, acciocchè un tal Dio potesse convertirsi nel nulla colla stessa facilità (mi si perdoni il paragone) con cui si rivolta la frittata nella padella. Quando poi vengono alla spiegazione, essi hanno alla mano la ragione sufficiente con ogni facilità, dandovela in questa o consimili parole: « era necessario che così avvenisse: l' Io doveva così operare: ne aveva proprio bisogno per porre sè medesimo: è una legge della sua coscienza »: quasichè, quando il filosofo dichiara una cosa necessaria, ella sia tale anche in fatto. Ma la necessità, dico io, convien provarla, convien trovarla nel concetto della cosa, e non fingerla, o introdurla a capriccio per un cotal puntello al proprio sistema. D' altra parte Fichte dice: « « Tostochè l' Io comparve a sè stesso nel mondo, egli dovette per legge della sua coscienza imaginare i suoi genitori e i suoi antenati » ». Ma datemi un poco la ragione sufficiente: 1 Perchè l' Io sia comparso nel mondo più tosto in un tempo che in un altro? perchè non prima, o non dipoi? 2 Perchè egli abbia creati questi fra' suoi genitori più tosto che altri, cioè genitori di tale età, fattezze, condizioni? perchè non gli si rappresentarono giovani anzi che vecchi, belli anzi che deformi, nobili e ricchi anzi che ignobili e poveri, buoni, anzi che malvagi ecc.? Dove trovate voi la ragione sufficiente di tutto ciò nel vostro sistema? E perchè certi fanciulli nascono orfani di padre, e non compare loro più la madre, morta nel darli alla luce? 3 Perchè l' Io non pone e crea sempre questa stessa linea d' antenati? ma conosce una serie più o meno lunga, e intende finalmente che la serie anche degli antenati incogniti non va più di là d' un certo termine? Nel sistema di Fichte la storia intera dell' umanità è una produzione dell' Io. Ma perchè mai inventò egli la storia in un modo piuttosto che in un altro? Quali ragioni sufficienti saprebbe addurre il nostro filosofo che spiegassero tutti gli accidenti storici che non mostrano alcuna necessità in sè stessi? Vi hanno molti concetti affini, i quali si confondono facilmente: i filosofi tedeschi, che hanno difetto d' analisi, traggono da una continua sostituzione di concetti gli oscuri loro sistemi: ciascuno de' concetti, di cui fanno uso, sarebbe importante e fecondo; ma, scambiati gli uni per gli altri, mescolano insieme la loro fecondità per modo che ne riesca un viluppo sottilissimo e un bastardume d' ogni generazione di piante che senza regola si aggraticciano ed impediscono. Il concetto di un Io assoluto produttore dell' Io empirico, in Fichte non è mai il medesimo; ma ora ei pone quell' assolutità in una cosa ora in un' altra. 1 Abbiamo veduto che l' ebbe posto in questo, che l' Io pone sè stesso. « Ma, non potendo avere tale proposizione alcun senso, s' ella non s' intenda così, che il principio di quell' atto, onde un ente (nel caso nostro l' Io) sussiste, pone il suo termine; questa proposizione nè ci conduce ad un Io, ma ad un principio di atto; nè ci conduce ad un principio necessario, ma contingente, e tale da supporre una ragione sufficiente fuori di sè. 2 Fichte dice ancora, che il carattere della ragione è il semplice porre in sè e per sè; e che in questa operazione si dee ravvisare la sua assolutità. In questo detto di Fichte v' ha della profondità, cioè vi hanno le vestigia di un ingegno che vide un nodo difficile, benchè nol sapesse superare; e già il solo vedere dove giaccia il difficile, suppone un pensare che non si trattiene alla superficie. Spieghiamoci. Il porre di Fichte altro non è che l' affermare . Quando l' uomo afferma, egli sa che una cosa sussiste; prima che l' affermi, egli è per lui come se quella cosa non sussistesse. Ma che cosa è questo affermare? Agli occhi di Fichte fu un porre gli esseri, un crearli; e ciò perchè altramente si sarebbero dovuti ammettere come esistenti esseri fuori della sfera del pensiero; e s' era messo il chiodo (tutto ad arbitrio) che non si dovesse uscire dal pensiero; non si dovesse uscire dalla coscienza: benchè pur si usciva (ed era contraddizione manifesta) col supporre un Io anteriore alla coscienza e causa di questa (1). Intanto però non si considerava, che è la coscienza stessa quella che ci dice che ella non crea le cose, ma non fa che affermarle; e l' analisi dell' affermazione importa il precedente concetto dell' esistenza; non potendosi affermare quella che già non esiste. Considerare adunque l' affermazione come una creazione, è un contraddire ad un tempo alla coscienza, e al concetto di questa operazione dello spirito che affermazione si chiama. Se affermando noi creassimo l' ente affermato, certamente lo sapremmo; noi avremmo il convincimento che l' ente affermato non esiste, se non nel momento dell' affermazione, e che cessando noi d' affermarlo, egli rientrerebbe nel suo nulla. All' incontro, noi, cioè tutti gli uomini, siamo intimamente persuasi, che l' ente non dipende punto dalla nostra affermazione, e che egli ha de' caratteri opposti a questa: per esempio egli ha il carattere di stabilità , quando l' affermazione è transeunte e momentanea; onde nell' effetto vi sarebbe assai più che nella causa: e quindi è impossibile trovare nell' affermazione la ragione sufficiente della sussistenza degli enti. E non di meno l' affermazione , colla quale noi ci persuadiamo della sussistenza degli esseri, è una operazione assai misteriosa; e l' aver veduto ch' ella non è di facile spiegazione, è ciò che ci fa lodare di profondità il pensiero di Fichte. Il misterioso, ch' ella contiene tale operazione, sta in questo, che per essa l' ente non è da noi conosciuto di più: giacchè l' ente si conosce coll' idea, e non con l' affermazione; giacchè quando si dice ente , si dice la sua essenza . E pure l' affermazione non è inutile al conoscer nostro: che cosa dunque conosciamo per essa? Primieramente non si dee mettere a suo conto l' occasione ch' ella ci porge di avere l' idea determinata dall' ente, perchè questa cognizione non ha propriamente la causa formale nell' atto di affermare; ma solo prende da quest' atto l' occasione, mediante il sentimento che serve di termine a cui si riferisce l' essere universale e così lo si limita. Rimane adunque che l' affermazione per sè altro non ci faccia conoscere se non la sussistenza di quell' ente di cui ci occasiona l' idea; idea che ci è data, come da vera causa, dall' intuizione dell' essere, e dal riferirlo che noi facciamo al sentimento. Ma che è la sussistenza dell' ente che non si trova nell' essenza (parlando di contingenti)? Altro non è che l' atto proprio dell' ente stesso, mentre l' essenza non è che l' ente in potenza. Ora quest' atto ha un rapporto reale con noi, o d' identità (se siam noi stessi l' ente di cui si tratta), o d' azione. Questa relazione reale , non essenziale all' ente, anzi contingente, è quello che si afferma. Coll' affermazione adunque, trattandosi di enti contingenti, si conosce non la loro essenza eterna e necessaria, ond' hanno il nome di enti; ma il loro atto contingente, la loro realità: in una parola non ciò che sono di diritto, per così dire, ma ciò che sono di fatto. Quel misterioso adunque, che si trova nella natura dell' affermazione, si riduce tutto al misterioso che si trova nella distinzione fra l' essenza dell' ente contingente e la sua realizzazione , o atto proprio dell' ente stesso. Or, quando noi abbiam detto che l' affermazione nostra non può esser quella che fa sussistere l' ente, perchè noi affermiamo un ente stabile e permanente anche oltre l' atto dell' affermazione; Fichte non ci può mica dire, che quest' è un' illusione trascendentale. Egli è singolare a vedere quanto venga comoda questa scappata a' filosofi della scuola tedesca. Ogni qualvolta vien loro fra i piedi qualche cosa che gl' imbarazza, se ne distrigano con tutta disinvoltura dicendo « quest' è un' illusione trascendentale ». Ma pure Fichte non può dir questo nel caso nostro; ed ecco perchè. Fichte e i fichtiani ragionano così: « Kant ha smembrato il pensiero, come pensiero, in antinomie, categorie ed altro, e in vece di verità ci ha lasciato contraddizioni. Se dunque cotesto smembramento del pensare non conduce che a contraddizioni, sèguita che si debba battere un' altra via per giungere alla verità, cioè la via del semplice affermare. La ragione, questa facoltà spirituale piena d' interna unità, non può condurre a contraddizioni (1). Il pensiero adunque non dee esser una proprietà suprema della ragione, ma solo una proprietà inferiore. Il semplice porre (affermare) in sè e per sè , o l' asserire senza più, è il carattere supremo della ragione, potendosi indi spiegare il pensare con tutte le sue contraddizioni »(2). Fichte adunque: I Confessa che la ragione non può contraddirsi nè illudersi; II Pone l' atto della ragione nel puro affermare . Dunque in questo affermare non può cader inganno. Dunque (per tornare a ciò che poc' anzi, p. 232, dicevamo: non potere Fichte in ciò imputarci di illusione trascendentale) la ragione, quando afferma un ente come cosa stabile e indipendente dalla stessa sua affermazione, non può farci cadere in alcuna illusione trascendentale: dunque ella non crea gli enti, ma li conosce già esistenti: dunque v' ha qualche cosa fuori della ragione umana, e in essa non si può trovar tutto, se ad essa medesima prestasi fede. Nè si può dire che l' affermazione non sia pura quando attesta tutto ciò: perocchè ella lo attesta sempre per tutti gli oggetti affermati, com' è suo proprio intrinseco carattere; senza il quale ella punto non sarebbe. III Ma Fichte poi attribuisce al suo porre in sè e per sè , che è l' azione essenziale della ragione, un altro senso; dal quale prende nuovo argomento per dichiararla assoluta e creatrice delle cose. Egli dice « che ogni tendenza dell' Io va a parare a quel punto, dove esso può sollevarsi dal pensiero e dal mondo ad un essere puro ed assoluto », il che è quanto dire che l' uomo non è pago se non si solleva all' infinito. Di che deduce che l' Io stesso, che ha questa tendenza, è infinito, assoluto. « L' Io si sente assoluto (così ragiona Fichte), e però indipendente dal mondo; egli tenta di strapparsi via dal mondo, e avvicinarsi allo stato assoluto. L' Io assoluto è quella idea che serve di base alle esigenze pratiche dell' Io « di comprendere in sè ogni realità », e di assolvere l' infinità. L' Io tende ad essere realmente assoluto, ma si trova in ogni momento limitato. Questa tendenza unita al sentimento di limitazione è la ruota che muove lo spirito umano, la quale non può fermarsi, ma trae l' uomo da uno stato all' altro; ella è la causa per cui l' uomo abbozza ideali di sè e del mondo, riformando sè e il mondo su di essi. Tendendo l' Io ad una assoluta illimitazione, egli dirige i suoi sforzi a t“r via la tendenza stessa; perocchè là, dove è tendenza, ivi è limitazione. Per questa tendenza di annullare ogni tendenza, mostra il carattere soprasensuale dell' Io: solo a questa condizione l' Io è assoluto. Tutta la moltitudine degl' ideali, tutte le immaginazioni d' una bella fantasia, traggon l' origine da questo carattere assoluto dell' Io. Ma questo carattere non è del tutto reale; esso è per ora un ideale che l' Io ha di sè, e giusta il carattere dell' Io resterà sempre un Ideale. Solo adunque in quanto l' uomo ha in sè l' idea dell' assoluto, e cerca in essa il proprio carattere fondamentale, egli è capace di poesia e di arte. Ma ancor egli sente che l' assoluto, suo carattere, lo muove alla moralità . Poichè l' uomo, ispirato da questa idea di assolutezza, disprezza e deve disprezzare tutti i motivi sensuali delle sue azioni, ed esercitare il dovere solo pel dovere: l' idea dunque del soprasensuale assoluto è il punto, donde parte ogni coscienza, e dove ogni coscienza di nuovo ritorna e si concentra. Qui si rileva l' errore capitale di Fichte e di tutti i filosofi trascendentali della Germania. Essi dicono in sostanza: « l' Io tende ad uscire dai suoi limiti; dunque ha un ideale di sè, un' idea dell' illimitato ed assoluto essere. Ma l' idea è un Io: dunque vi ha un Io7idea illimitato ed assoluto ». L' errore sta sempre nel confondere l' idea coll' Io, l' oggetto col soggetto. Si accorda che l' Io abbia l' intuizione di un essere illimitato, ideale; ma si nega che quest' essere ideale senza limiti sia lo stesso Io; perchè l' oggetto intuìto, non è il soggetto intuente. Il soggetto intuente, cioè l' Io, è quello che fa l' atto dell' intuire; ma chi mai dirà, che l' idea, che l' oggetto intuìto sia quello che fa quest' atto? Se l' oggetto intuìto è quello che intuisce, egli cessa, in quanto fa quest' atto, di essere oggetto intuìto, perchè l' intuìto e l' intuente sono relazioni che si escludono reciprocamente. Fichte dice, che, se si pone che l' oggetto sia diverso dal soggetto, non si trova più il nesso tra l' uno e l' altro; e che perciò conviene supporre, che il soggetto stesso si trasformi in oggetto, e rappresenti come due personaggi. - Ma questo è un correre a precipizio. Poichè: 1 Se non trovate il nesso che congiunga il soggetto coll' oggetto, in tal caso vi resta a confessare la vostra ignoranza, senza negare quel nesso che è un fatto evidentissimo. Per altro quel nesso si trova nell' atto della cognizione . D' altra parte, niuno può dimostrare alcuna ripugnanza nel concetto di più enti comunicanti insieme secondo la propria natura; 2 Il ripiego di Fichte, invece di sciogliere il nodo, lo taglia, negando che vi abbia un nesso reale, e dichiarandolo arbitrariamente illusorio; 3 Che anzi nè pure è vero che tagli il nodo: perocchè, dopo la spiegazione che pretende darne il nostro filosofo, quel nodo si rimane saldo come prima, anzi più involuto e aggruppato di prima. E veramente la spiegazione di Fichte si riduce a dire, che l' oggetto è solo apparentemente oggetto, ma realmente è anch' egli soggetto. E bene sia così: rimane però che quest' oggetto, in quanto è apparente, il che è un dire, in quant' è oggetto, non sia il soggetto. Vi ha dunque un nesso tra il soggetto reale e l' oggetto apparente, che rimane intieramente a spiegare, e che non si spiega già col distruggere l' oggetto facendolo rientrare nel soggetto. Sono adunque questioni che si confondono malamente insieme queste: Qual è la natura dell' oggetto? E` ella reale od apparente? Come può darsi un nesso tra l' oggetto (reale od apparente) e il soggetto? - Nè la soluzione dell' una è la soluzione dell' altra. Or non vale il dire, che, producendo il soggetto a sè stesso l' oggetto, produce anche il nesso che lega seco quell' oggetto. Perocchè con ciò altro non si farebbe, che di nuovo confondere due questioni differenti, cioè: a) Qual sia l' origine, la causa di quel nesso? b) Qual sia la natura di quel nesso? E` ella ripugnante questa natura o no? Da qualunque causa sia stato prodotto quel nesso, egli esiste: sia egli apparente o reale, esiste tuttavia. Ciò che si dee spiegare non è già la sua causa occulta; ma la sua natura manifesta , che sta nel fatto lampante della umana cognizione. Se l' Io occultamente produsse l' oggetto, questa produzione occulta non è il nesso che si vuole spiegare, perchè questo nesso è palese; e quella produzione perciò è esclusa dal nesso, e a lui anteriore. Se dunque Fichte immaginò quella produzione occulta come un' ipotesi atta a spiegare un tal nesso, dall' istante che è provato che quella ipotesi (d' altra parte mostruosa) non vale a spiegarlo, ella cade, e con essa tutto il sistema. L' errore fondamentale adunque di Fichte, come di tutta la scuola a cui appartiene, è di non poter intendere l' esistenza di un oggetto distinto essenzialmente dallo spirito che lo intuisce: e dal non poterlo intendere, argomentare che dunque l' oggetto dee incorporarsi occultamente col soggetto; imponendo così alla natura quelle leggi, che loro detta il non sapere. Dopo la pubblicazione del « Nuovo Saggio » e di altri miei lavori, ne' quali tolsi a dimostrare 1 che l' oggetto non si confonde col soggetto, e che questo fatto ideologico della distinzione dell' oggetto dal soggetto toglie via lo scetticismo, inevitabile a' sensisti e soggettivisti, i quali li confondono; 2 che l' oggetto per essenza s' intuisce dall' uomo per natura, ed è l' essere in universale: uno scrittore italiano affermò con forza il principio, che l' oggetto , distinto dallo spirito che l' intuisce, doveva essere la base del sapere e della certezza, e di questo ci congratuliamo; ma, nello stesso tempo che in questo vero egli conviene meco, stimò bene di farmi il viso dell' armi, e darsi la pena di scrivere diversi volumi per dimostrare, che io sono al tutto psicologista, ed egli solo è il vero ontologista. Perocchè egli scrive: [...OMISSIS...] . Questo scrittore credette di raggiustare il mio sistema col dire, che l' oggetto dell' intuizione che ha l' uomo per natura non è l' idea dell' ente, ossia l' ente ideale; ma che è l' ente reale , che contiene in sè ogni realità: perocchè, egli dice, l' ente ideale e comunissimo, se non è anche reale, s' immedesima col soggetto uomo (1). Così egli viene ad accordare di necessità a Fichte e agl' idealisti della Germania (che per altro si mostra persuaso di combattere vittoriosamente), che l' oggetto ideale , la pura idea , s' immedesima collo spirito; e però in questa parte diviene con essi idealista trascendentale. Dall' altra parte egli ammette coi sensisti, che il solo reale sia veramente oggetto, e con ciò pecca manifestamente di sensismo. Ben è vero che il reale può essere conosciuto e però può diventare oggetto della mente (il che noi diciamo oggettivare ), ma non è già vero, che sia conosciuto per sè stesso senza l' idea. Onde non essendo conosciuto per sè stesso, non è per sè oggetto della conoscenza. Laddove l' idea è conosciuta per sè, giacchè idea importa cosa intuìta, onde ella è per sè stessa oggetto, ed è quella che unendosi al reale lo rende conoscibile. Il vero oggetto adunque è l' idea; e questa poi partecipa l' oggettività al reale, a cui ella si unisce nella cognizione. Il supporre adunque che l' oggetto primo della mente sia il reale , è una eredità del sensismo. Essendo adunque dinanzi alla mente umana l' essere in universale , e mediante quest' essere illimitato giungendo l' uomo a conoscere la perfezione degli esseri, ed a produrre a sè stesso gl' ideali delle loro perfezioni; certo, dee suscitarsi in esso il desiderio di rendersi perfetto, e di toglier da sè, per quanto gli è possibile, i limiti: il che egli poscia giugne ad intendere che non può conseguire se non mediante l' unione coll' essere supremo ed infinito, dove, cessati tutti i limiti, è la pienezza dell' Essere realizzata: in una parola mediante l' unione con Dio. Ma egli non arriva mai naturalmente a concepire il desiderio, come suppone Fichte, di rendere Dio sè stesso; il qual desiderio mostruosissimo altro non sarebbe, che la massima inversione e perversione della propria natura, la massima immoralità e insieme la massima stoltezza. Lungi adunque d' avere Fichte osservata la natura umana, com' egli si proponeva, e conoscerne gl' interessi recessi; egli non pervenne punto a conoscerla, e confuse l' ultimo decadimento di essa, qual è l' orgoglio di divenire una Divinità, col supremo innalzamento a cui aspira, qual è la massima sommissione e umiliazione alla Divinità: perocchè l' ideale dell' uomo, l' uomo perfettissimo, è l' uomo che riconosce sè stesso nulla dinanzi al tutto che è Dio, onde sente d' avere ogni cosa ricevuto. Quanto è adunque illegittimo interprete del voto della natura umana quel filosofo, il quale prende per ideale dell' uomo l' angelo ribelle! Fichte distingue il suo sistema da quello degli Stoici così: [...OMISSIS...] . Colle quali parole voleva dire, che la coscienza essendo limitata, e non potendo mai pervenire a levare da sè tutti i limiti, essa coscienza, che è l' Io empirico, non può esser Dio, ma solo tende a rendersi uguale a Dio. Ma che cosa è questo Dio di Fichte? E` l' idea infinita dell' Io; quello che chiama Io puro, e che pone l' Io empirico: ponendo questo Dio non si esce dall' Io umano. E` un Dio ideale che continuamente tende a realizzare sè stesso, ed è impotente a segno che non arriva mai: onde stabilisce questo filosofo una perfettibilità eterna dell' uomo; e nello sforzo continuo di giugnere alla perfezione, senza mai pervenirvi intieramente, egli pone l' umana destinazione . Qui si vede comparire in altra forma il sistema della speranza sempre ingannevole di Foscolo (1). Ora egli è falso, per dirlo di nuovo, che l' uomo tenda a divenire un Dio realizzato; come è falso che l' ideale dell' uomo sia quello di un Io senza limitazioni di sorte alcuna; giacchè, togliendo all' Io tutte le limitazioni, egli perderebbe affatto la propria identità, e diverrebbe un altro essere: nè egli è possibile che l' Io desideri di perdere l' identità sua propria; quando anzi è vero che ogni essere intelligente brama bensì di perfezionarsi nella sua natura, ma non brama cangiar natura; la cui brama avrebbe d' altra parte per oggetto un assurdo. Dall' esame de' principii accennati di Fichte vedesi che la filosofia da lui proposta manca di solidi fondamenti. Vedesi del pari che questo filosofo, volendo stabilire un essere assoluto che contenesse la ragione di tutte le cose, e d' altra parte non volendo uscire dell' uomo, pel pregiudizio sensistico ed idealistico; ricorse ad un Io, che non può essere in alcun modo assoluto, infinito, ragione delle cose, Iddio. E veramente: I Quest' Io puro di Fichte non ha coscienza, appartenendo la coscienza all' Io empirico. Ma un assoluto, e un Dio senza coscienza, non può essere un assoluto, e un Dio; ma piuttosto uno stipite. II L' Io puro di Fichte non può esser libero , perchè la vera libertà è una dote propria della volontà , e la volontà non esiste se non qual conseguente de' beni conosciuti. Ma l' Io puro non conosce come tale cosa alcuna, e perciò egli opera del tutto alla cieca, e necessariamente. Abusa dunque il filosofo nostro, seguìto in questo da Schelling e dagli altri trascendentali, quando pretende che l' Io sia sommamente libero appunto perchè pone sè stesso. Schelling così esprime questo pensiero: [...OMISSIS...] . 1 Ora, se l' Io si conosce perchè si determina, dunque innanzi a tale determinazione non vi ha cognizione, e però nè pur volontà, e meno libertà (se per libertà s' intende una dote della volontà). La libertà dunque di cui parla qui Schelling è una cieca necessità. 2 Si dice che la determinazione che prende l' Io non ha fondamento ulteriore: ma le determinazioni che non abbiano per loro fondamento una ragione , sono cieche: la volontà stessa di Dio dee essere sempre guidata da un lume intellettivo: onde non è già un pregio, ma un difetto l' attribuire ad un ente il determinarsi senza cognizione e senza ragione; 3 Il dire che non ci possiamo innalzare al di sopra di quest' azione, è un parlare così improprio, che assai più vero sarebbe dire il contrario, cioè che non ci possiamo abbassare al di sotto di quest' azione. Che se egli sembra che l' astrazione non possa andare più là nell' operazione descritta da Schelling (benchè nè pur questo sia vero); in tal caso è da osservare che l' astrazione non ci conduce mica sempre ad esseri più nobili e perfetti, ma piuttosto ad esseri più imperfetti. 4 I nostri idealisti affermano che « isolandosi da ogni oggetto lo spirito non trova più che sè stesso »: ma essi non riflettono che cosa si esige acciocchè lo spirito possa trovar sè stesso, perchè non analizzano questa operazione. Lo spirito non trova sè stesso se non percipendosi. Ma non si può percepire, se non si afferma come un ente; e non può affermarsi come ente, se non sa che cosa sia ente . Ora sapere che cosa sia ente, è lo stesso che avere l' idea dell' ente. Lo spirito adunque non può trovar sè stesso, se non ha presente l' ente come suo oggetto. E veramente lo spirito è un soggetto, e non comincia a divenire oggetto a sè stesso, se non si contempla nell' essere , e così si oggettivizza, partecipando dell' oggettività essenziale dell' essere stesso. L' immaginarsi adunque che lo spirito possa percepir sè stesso, o sia trovarsi, astraendo da tutti gli oggetti, è un errore proveniente da difetto di scienza ideologica; lo spirito non può percepire e trovar nulla, se non col mezzo dell' idea dell' ente, che è l' oggetto per essenza: tolta via la quale idea lo spirito è nelle tenebre; non conosce più nulla, nè sè stesso nè l' altre cose. Anzi lo spirito così accecato cessa d' essere spirito intelligente; molto meno può essere qualche cosa di assoluto. Egli è poi strano che i filosofi tedeschi diano il potere all' astrazione di trovare o di creare l' assoluto , quando l' astrazione niente trova nè crea; ma solo separa; e si esercita sopra un oggetto già percepito. Che cosa può fare dunque l' astrazione rispetto allo spirito? Separarlo dagli oggetti reali che non sono lui stesso. Che ci rimane allora? Lo spirito solo; quello spirito che si aveva anco innanzi: con ciò non si è innalzato sopra il finito, ma s' è spogliato di tutte le sue cognizioni; e però non resta punto migliorato, anzi deteriorato all' ultimo grado. Perciò noi dicevamo, che questa astrazione non innalza lo spirito, ma lo abbassa tanto che non si può di più. 5 Vero è, che con ciò si vuol pervenire all' atto primo dello spirito. Ottimamente, ma quest' atto primo, col quale lo spirito esiste, nol fa certo volontariamente, perchè non conosce ancor nulla, non potendo conoscere nè operare prima di esistere; il perchè quest' atto non si può chiamare volere , se non abusando de' termini della scienza. Nè pure lo spirito si determina ad esistere da sè stesso, perchè non può determinarsi se prima non esiste. Quindi egli è necessario che un altro essere lo determini ad esistere, e quest' essere è DIO. Conviene adunque ricorrere ad un essere che stà al di fuori dell' IO umano per rinvenire la ragione sufficiente di questo, e sono al tutto inutili gli sforzi de' trascendentali (1) per racchiudere l' uomo in sè stesso. L' illusione di questi filosofi consiste nel confondere: a ) La prima condizione del conoscere umano col primo oggetto della conoscenza. La prima condizione del conoscere è che esista lo spirito; ma non ne vien mica per questo, che l' atto con cui esiste lo spirito sia il primo oggetto della conoscenza. L' uomo ha un primo oggetto della conoscenza (l' essere), per mezzo del quale conosce la condizione del suo atto di conoscere , e distingue tanto bene quest' atto dall' oggetto , che quello lo ravvisa contingente, e questo necessario. L' atto del conoscere, nè pure l' atto dell' esser umano, non è assoluto; ma l' assoluto conviene cercarlo nel primo oggetto del conoscere compiuto e realizzato. b ) Essi confondono ancora ciò che è il primo nell' essere dell' uomo con ciò che è assoluto , ragionando in sostanza così: « L' atto dell' esistere umano è il primo di tutti gli atti che fa l' uomo. Ma fuori dell' uomo non v' ha nulla, pel pregiudizio sensistico. Dunque quell' atto deve essere la ragione di tutte le cose, l' assoluto ». Ma la minore del sillogismo è falsa. E se fosse vera, sarebbe ancor falsa la conseguenza, giacchè non se ne potrebbe cavar altro, se non che la ragione sufficiente, l' assoluto, manca del tutto, riuscendone quest' argomento: « L' atto dell' esistere umano è il primo degli atti umani. Ma non vi ha nulla fuori dell' uomo, e l' atto dell' esistere umano è di fatto contingente. Dunque manca l' assoluto, la ragion sufficiente degli atti umani ». A cui si deve far susseguire quest' altra proposizione: « Ora la ragion sufficiente ci dee essere: dunque è falso quest' argomento ». 6 Uno spirito che opera ciecamente, non può avere alcuna regola sua propria, perchè la regola non è tale se non si conosce, e lo spirito di Fichte e di Schelling si suppone aver annientati tutti gli oggetti del suo conoscere. E noi potremmo recare più innanzi questa enumerazione di assurdi, se fosse prezzo dell' opera. III L' assoluto di Fichte e de' filosofi che sono andati sulla sua via è un assoluto in potenza; perchè è un Io che ha bisogno di porre sè stesso, e che quando si pone diventa empirico. Ma ciò che è in potenza è ciò che vi ha di più imperfetto, e somiglia alla materia prima, che rappresenta il più basso grado dell' essere. Se non che gli antichi intendevano, che quello che non ha già in sè stesso l' atto dell' esistere, dee riceverlo da altro; e però niuno mai sognò che la materia prima dèsse a sè stessa la forma. Ma ben sognarono questo assurdo i trascendentali della Germania, i quali, ad un principio che non è ancor posto, accordarono la virtù creatrice. IV L' assoluto di Fichte, a cui si attribuisce il poter creatore, è impotente , perchè si sforza di porre sè stesso in un modo incondizionato, e non vi perviene giammai. Ma l' assoluto essere esclude il difetto dell' impotenza. V L' assoluto di Fichte è perfettibile , senza che giammai possa raggiungere la sua propria perfezione ponendosi compiutamente: ma un ente che è, e rimane sempre imperfetto e limitato, non può essere assoluto. Non v' ha dunque un Io umano che sia un ente assoluto . Ora la ragione sufficiente di tutte le cose non si può ritrovare se non in un ente da ogni parte assoluto. Dunque la filosofia trascendentale, che ha preso l' assunto di trovare una ragione sufficiente di tutte le passioni e i modi dell' ente, ha pienamente fallito al suo scopo; ella ha dichiarato assoluto quello che non è, nè può diventarlo per l' affermazione di un filosofo: ella s' è chiusa nell' uomo, cioè nel contingente, e per quantunque astrazioni ci abbia fatto sopra, per quanto l' abbia distillato nelle vane storte della sua imaginativa, non n' ha cavato altro che contingente. Per quantunque Fichte abbia tolto a filosofare, prevenuto dal pregiudizio degli idealisti « che l' uomo non può conoscer nulla, se non ciò che ha in sè, e che tutto ciò che l' uomo ha in sè è parte dell' uomo »; per quantunque la sua nobile intelligenza si fosse resa schiava di un principio sì gratuito e sì falso, e strascinando sì pesante catena non potesse correre nè camminare liberamente; per quantunque si sforzasse di far apparire più ampio che non fosse il breve spazio della prigione dove s' era chiuso da sè stesso, col far per essa mille giri e rigiri circolari: egli era impossibile che finalmente non ci sentisse l' angustia del luogo, e non gli venisse voglia di atterrare le mura della povera natura umana, o di farvi un buco almeno per ispiarvi fuori e godervi la bellezza dell' immenso campo del cielo. Egli era stato costretto a stabilire un Io che non aveva più niente dell' Io umano, e di dare a quest' Io le prerogative opposte a quelle dell' uomo; e tuttavia il pregiudizio, che serviva di base e di tema a tutta la sua filosofia, lo costringeva ad affermare che quest' Io era l' uomo, o parte dell' uomo; quasichè coll' affermarlo potesse un filosofo far che fosse quel che non è. Era stato spinto fino ad affermare, che quel suo Io « non era già l' Io individuale proprio di questa o di quella persona, ma un Io elevato sopra ogni individualità, sopra ogni soggettività ed oggettività: un Io comune a tutte le idee razionali; non già l' Io di Kant, ma l' Io di tutte le possibili intelligenze ». Confessava egli bensì che non se ne potea provare direttamente l' esistenza, e che tutta la dimostrazione indiretta che se ne potea dare stava in questo che « quell' Io DOVEA esser presupposto, perchè altramente non si poteva spiegare la coscienza ». Onde, mentre l' Io evidentemente esprime un individuo che pronunzia sè stesso, Fichte era costretto, per non abbandonare il sistema, a dire che il suo Io non era individuo, togliendogli così ciò che forma l' essenza dell' Io. Quando un uomo di mente è pervenuto a sì sformati paradossi, e a contraddizioni sì intrinseche e manifeste, per quantunque sia dominato da pregiudizŒ bevuti da' suoi maestri, se di gran mente è fornito, non può a meno di ridestarsi; ed è vicino a mutar sistema. Infatti, che mai si esigeva acciocchè Fichte il mutasse? Nulla più che di cambiare una parola. Egli era già in fatti uscito dall' uomo, perchè l' Io a cui ricorreva per ispiegare l' esistenza dell' uomo, niente aveva più di ciò che costituisce l' uomo: ed aveva ciò che non potea aver l' uomo, come la necessità e gli altri attributi divini. Bastava dunque, che mutasse nome a quest' Io, e non chiamandolo più uomo confessasse che era Dio; e gli togliesse d' attorno quelle imperfezioni, e per così dire quelle immondezze che gli erano restate appiccicate nel parto impuro e laborioso pel quale si era fatto nascere dai visceri della natura umana. Così fece Fichte, e nella sua nuova opera intitolata « Sistematica » (1), alla parola Io sostituì finalmente la parola Dio . Se questo filosofo avesse potuto vivere una vita due volte più lunga, io credo, che, come rinvenne da questo error capitale, così egli sarebbe rinvenuto dagli altri; perocchè quando un ingegno comincia a volgersi verso la verità, egli va innanzi per quella via e non è più pago se non la fornisce. Ammise adunque il nostro filosofo Dio, non più come un' astrazione, un' idea morta, ma come un essere vivente. Col suo essere è dato tutto l' essere, ed ogni altro essere possibile. Ma come nascon da Dio le cose? Ecco lo scoglio perpetuo di que' filosofi che hanno voluto vedere il fondo di tanto secreto. Fichte adunque pose Iddio , e una estrinsecazione di Dio . L' essere di Dio avente quasi due facce: la faccia interna, accessibile solo al pensiero; e la faccia esterna che viene anche chiamata dal filosofo « « l' essere di Dio fuori del suo essere » ». Questo essere di Dio fuori del suo essere è anche detto il sapere di Dio, e appellato lo schema , equivalente nel linguaggio di Fichte ad imagine . Questo solo schema di Dio può essere fuori di Dio, non propriamente come un effetto, ma come conseguenza immediata del suo essere: quindi è lo spirito umano ed il mondo. In una parola tutto quello che nel primo suo sistema Fichte aveva detto dell' Io puro, nel secondo lo dice di Dio; il che dimostra aver compreso il nostro filosofo, che non si potea ridurre l' Io empirico all' Io puro senza fargli perdere la sua identità, senza cessare di essere Io. Ma rimase infitto anche nel secondo sistema l' errore di fare che il mondo fosse qualche cosa della divina natura. Rixner nel suo « Manuale della Storia della Filosofia » espone così questa specie di emanazione o di panteismo a cui s' abbattè Fichte quando riconobbe l' insufficienza del suo primo sistema. [...OMISSIS...] Si asserisce, che la vita divina diventa vita che si sviluppa nel tempo: ma che cosa vuol dire questo diventa? Chi la fa diventare? Può egli l' essere divino diventare qualche altra cosa? può limitarsi senza cessare di esser divino? o può egli cessare? o può essere ad un tempo limitato ed illimitato? Che se la vita divina diventa il genere umano ed il mondo, dov' è la ragion sufficiente che spieghi perchè diventi questo mondo più tosto che un altro, con questo numero determinato di enti, e di modificazioni nè una di più, nè una di meno? E come questa vita divina estrinsecata e divenuta umanità ha perduto la coscienza di essere vita di Dio? Simili domande si potrebbero fare ad ogni parola del nostro filosofo. Egli investiga una filosofia che contenga la ragione sufficiente di tutto; e, in vece di ragioni sufficienti, afferma nuovi fatti, i quali esigono assai più perchè si possano credere una ragione sufficiente, ed in quella vece son tali che al tutto la escludono, son tali che mostrano di non poterla in alcun modo avere. Dalle cose dette apparisce, che questo filosofo riduce tutte le manifestazioni dell' ente a due supreme entità: I L' Io puro nel suo primo sistema; nel suo secondo sistema Iddio . II L' Io empirico nel suo primo sistema; nel suo secondo sistema l' Umanità . L' Io empirico , ossia l' umanità , viene suddivisa in a ) Io , e b ) Non7Io - Spirito e Natura. All' Io empirico non disdice il nostro filosofo tutte le forme di Kant, come nè pure il paralogismo , le antinomie , e l' ideale che Kant attribuisce alla ragione. Nel sistema di Fichte adunque è ritenuto il sistema kantiano, ma come occupante un posto inferiore. Fichte fece al Kantismo quasi direi la sommità di cui credeva privo l' edificio del suo maestro, e così gli parve d' averlo ultimato. Or noi non ci tratterremo a dimostrare l' enormità di queste cotali categorie fichtiane, rimanendo già provato quanto esse sieno erronee ed insufficienti dalle cose qui sopra ragionate. Il paralogismo adunque che serve di base al primo sistema di Fichte si può esprimere così: « Vi dee essere una ragione sufficiente di tutte le cose che sono od appariscono: ma, l' uomo non potendo uscire da sè stesso, le cose che gli appariscono debbono essere elemento che costituiscono la sua stessa natura, e che in lui si vanno svolgendo; dunque anche la ragione sufficiente di tutte le cose SI DEVE TROVARE nell' uomo, nel fondo della sua natura ». Quanto la minore di questo sillogismo sia gratuita ed erronea noi l' abbiamo veduto. Ma, dato ch' ella fosse anco vera, avrebb' ella la conseguenza un valore? Non avrebbe altro valore che quello che può avere un membro d' una antinomia. Perocchè si potrebbe contrapporci un altro sillogismo, in questa forma: « Di tutto quello che è nell' uomo si dee avere una ragione sufficiente; ma nell' uomo questa ragione non vi è, perchè tutta la natura umana è contingente: dunque la ragione sufficiente di tutte le cose NON SI PUO` TROVARE nell' uomo ». Or quando s' incontra un' apparente antinomia, l' uno de' due membri opposti deve esser falso; e fino che non si è provato falso l' uno di essi, entrambi restano dubbiosi. In ogni modo adunque il primo sistema di Fichte manca di una solida base. Oltre di che, dopo aver Fichte concluso che la ragione sufficiente di tutte le cose si deve trovare nell' uomo, quando si pose all' opera per indicare in quale elemento dell' umana natura consistesse questa ragione sufficiente, immaginò quello che egli chiama l' Io puro , il quale nè si conosce per veruna esperienza, nè cade in modo alcuno nella coscienza dell' uomo. Egli adunque con ciò: 1 Era uscito dalla sfera dell' esperienza, e aveva stabilito un principio a priori , non più distinguendo coordinatamente le due Ragioni, come avea fatto Kant, la teoretica e la pratica , ma dando alla ragione pratica il principato e facendola madre della ragione teoretica; cosa d' altra parte assurda, perchè la stessa esistenza della ragione pratica non si potrebbe conoscere se la ragione teoretica non la dimostrasse. Così Fichte o doveva credere alla ragione teoretica di tutti gli uomini, e in tal caso il suo sistema veniva da essa necessitato; o doveva consentire a Kant che ogni ragionamento a priori non fa conoscere oggetti nuovi se non illusoriamente, e in tal caso il suo Io puro , che non si potea afferrare coll' esperienza, diveniva anch' esso un' illusione trascendentale; 2 Era uscito dalla sfera dell' Io umano , perocchè la parola Io esprime un ente consapevole che pronuncia sè stesso, e quest' Io che pronuncia sè stesso, e che è l' umano, non sa nulla del compagno che gli si vuol dare, ma sa che egli non è questo. E questa seconda ragione essendo balenata finalmente agli occhi di Fichte, a cui anco doleva di vedersi considerato in Germania come un ateo, il condusse, come dicemmo, a sostituire Iddio al suo Io puro, dove aveva collocato l' assoluto. E questo fu l' addentellato a cui raggiunse Schelling la sua fabbrica. Ma accettando il Dio di Fichte, ricusò d' accettare la connessione che Fichte avea stabilito fra questo Dio e l' altre cose, la quale consisteva in dichiarare l' uomo nulla più che un cotale schema ideale di Dio. Fichte s' atteneva ancora con forza al principio dell' idealismo trascendentale che tutto l' essere si riduca al sapere, e che il sapere sia il solo generatore delle cose. Quindi l' uomo era per Fichte l' unica espressione e rivelazione del sapere divino, e la natura era ancora una cotal produzione apparente dell' uomo, che l' uomo opponeva a sè stesso, per poter pugnare con essa, e pugnando perfezionarsi. Ma in questo modo, secondo Schelling, non si rinveniva una sufficiente ragione dell' uomo e della natura; perchè non appariva come Iddio avesse potuto produrre una sua immagine che non avesse la natura di lui, e un mondo che fosse morto e non vivo e divino. La separazione dunque del mondo da Dio rimaneva così senza spiegazione. D' altra parte il Dio di Fichte era fuori della coscienza umana, e non si poteva intuire. Secondo Schelling adunque, per ispiegare le cose che sono ed appariscono, conveniva trovare un sistema nel quale si potesse « « appercepire il divino come l' unico vero reale, e appercepire l' unico vero reale come l' unico vero divino »(1) ». Quindi nacque quel sistema che fu intitolato dall' identità assoluta . La maniera dunque di ragionare di Schelling si riduce al seguente paralogismo: « Non si vede una via di spiegare come l' uomo e la natura (il mondo) sieno enti distinti dall' Essere Supremo. « Ma se si negasse questa distinzione, e si dicesse che tutte le cose s' indentificano in Dio, la filosofia sarebbe liberata dalla molestia d' una tale questione. « Conviene adunque stabilire un sistema d' identità assoluta , per mezzo del quale tutte le cose contingenti vengano identificate con Dio ». Ognuno sente quanto vi ha d' arbitrario e di falso in tale argomentazione. La filosofia dell' identità assoluta trae la sua origine dall' ignoranza, e dal pudore che sentono i filosofi a risolversi di confessarla. Ma l' ignoranza non è la miglior base che si possa dare ad un sistema. L' ufficio della filosofia è quello di sciogliere le questioni: ella manca al suo ufficio qualora, non sapendole risolvere, inventa un sistema apposta per escluderle, o per dir meglio inventa un sistema che prende per suo fondamento la supposizione che quelle difficoltà non esistano. Tale è il fatto di Schelling. Se si considera il lavoro di Schelling come una continuazione logica (1) di quella de' suoi predecessori (Kant e Fichte), si trova che egli aggiunse all' eredità da essi ricevuta (e per avventura senza benefizio d' inventario) quella parte che denominò « Filosofia della natura ». Ma egli pretese di più, che la filosofia della natura e la filosofia trascendentale , che fu la detta eredità, avessero il medesimo oggetto, cioè Dio con due diverse manifestazioni, che sono natura e spirito, essere e sapere . Già in queste due parole essere e sapere ravvisasi un mancamento, perchè sapere non è che l' atto di un essere, e però egli è appartenenza del soggetto. All' incontro sotto la categoria del sapere Schelling introduce le idee , come le idee fossero sapere, mentre esse altro non sono che mezzi ed oggetti del sapere. La confusione adunque del soggetto coll' oggetto ravvisasi per tutto negli scritti di Schelling come in quelli de' suoi maestri. Ma poniamo a dirittura sott' occhio al lettore in piccol quadro il disegno della Schellinghiana filosofia (a cui però l' autore stesso più tardi dovea aver rinunziato). Questo è il seguente: [...OMISSIS...] Questo disegno ha la più perfetta regolarità; è compassato a meraviglia. Ma per ciò appunto dee dar sospetto: chè difficilmente l' immensità dell' essere lasciasi misurare da poche menate del compasso dell' uomo. Conviene adunque riflettere sopra un sistema così delineato, e in parte colorito altresì dall' autore, quanto segue: I Mettendo da una parte la natura, l' universo reale , dall' altra l' universo ideale , non apparisce qual sia il nesso tra i due universi. Il nesso è formato dall' ente intellettivo , il quale appartiene all' universo reale, ma attigne le idee, o piuttosto le idee a lui si comunicano; e in questa comunicazione e congiunzione non istà già l' identificazione del reale coll' ideale , che sempre rimangon distinti; ma bensì l' unità de' due estremi, e dimostra come sieno intimamente congiunti senza confondersi. II L' universo è limitato: a ) nel numero e nella grandezza de' corpi; b ) nel numero e nelle doti degli enti intellettivi; c ) nella quantità di potenza e d' azione attuale di tali enti. Niuna ripugnanza vi ha a concepire che i corpi e gli esseri esistenti, invece d' esser quel numero che sono, fossero uno di più o uno di meno: niuna ripugnanza che le doti, la potenza e l' azione complessiva fosse maggiore o minore di quello che è. Convien dunque assegnare una ragione sufficiente di queste limitazioni. Ma se l' Universo s' identifica con Dio, questa ragione manca; perchè il concetto di Dio svanisce ogni qualvolta si pone in esso limitazione o potenza passiva. Iddio è così illimitato che è un assurdo pure il pensiero di dargli la facoltà di limitare sè stesso. Poichè il limitarsi per Iddio è il medesimo che per un altro essere l' annichilarsi. Questo è quello che prova la Teologia con evidenza. Vero è che Schelling dice che questi limiti sono apparenti; ma a ) Primieramente quando fossero anche apparenti, rimane sempre a dare una ragione sufficiente del perchè Iddio abbia bisogno o voglia di porre a sè stesso delle limitazioni apparenti; b ) Se le limitazioni di Dio sono apparenti, esse debbono apparire a qualche essere, perchè se non apparissero a qualche essere non sarebbero apparenti. Ma questo essere non può esser Dio stesso, perchè Iddio non può far apparire sè limitato a sè illimitato, troppo bene conoscendosi egli per prendersi in fallo. Esiste adunque un altro essere, oltre Iddio, a cui appariscono le limitazioni che Iddio pone a sè stesso. Ora quest' essere non può essere apparente, perchè sarebbe un discorso assurdo il dire che limitazioni apparenti appariscano ad un essere apparente. Di più, quest' essere non essendo Dio, ed essendo reale, egli è un essere limitato non apparente, ma reale. Non si possono adunque escludere gli enti realmente limitati; e non si può ridurre l' ente alle due categorie di Assoluto e di limitazioni apparenti; c ) Finalmente l' uomo, se sa qualche cosa di vero, sa certamente di non essere apparente, ma reale. Infatti, come si può accertarsi della realità se non mediante il sentimento e la ragione? Se niun sentimento vi avesse, niuna realità sarebbe concepibile. Se la ragione giunge raziocinando a pensare l' esistenza di un Essere supremo, infinito, assoluto, ella il fa per via d' un ragionamento, che ha materia e forma . Infatti ella non può asserire che esista un ente reale assoluto, se non sa prima che cosa sia un ente reale . Ma ella non potrebbe sapere che cosa sia un ente reale, che cosa sia esistere realmente, se non avesse sperimentata l' esistenza reale in sè stesso. Prendete via dall' uomo tutti affatto i sentimenti, non solo gli animali, ma ben anco gli spirituali, che cosa vi rimane? Non più certo un uomo, ma un stipite insensato. Questo non potrebbe mai sapere che cosa sia esistere, non potrebbe per conseguente ricevere l' idea dell' ente , perchè non può ricevere il lume di questa idea, chi non è un sentimento, che nulla affatto può sentire. E se è necessario, che chi riceve l' idea dell' essere sia un sentimento, è necessario di poi che applichi quest' idea al sentimento, quando ne vuol far uso, e non lasciarla del tutto oziosa e come un geroglifico privo d' interpretazione. Senza il sentimento adunque non vi ha il concetto di un ente reale, il sentimento somministra la materia di un tal concetto, e però la materia del raziocinio che si intuisce sopra di lui. Quando non manchi questa materia, allora si può con un ragionamento trovare l' esistenza di un essere assoluto, a ciò conducendoci la forma del ragionamento , alla qual forma appartiene il principio di assolutità . Se dunque il sentimento stesso si pone essere un' illusione, manca la base di un tale ragionamento, il quale non può più condurci che ad uno assoluto apparente, e non reale. O convien dunque rinunciare alla dottrina dell' assoluto, o conviene ammettere che reale sia il sentimento; perchè niun' altra realità è a noi immediatamente conosciuta fuor di quella che nel sentimento abbiamo, o che mediatamente da questo induciamo. Che se il sentimento , che ha l' uomo individuo, è un ente reale, dunque esistono realmente degli enti limitati , e questi non sono mere apparenze, ossia limitazioni apparenti dell' ente assoluto. III Quando Schelling chiama natura il principio di ogni essere, la denominazione non avrebbe inconveniente, quando egli riserbasse tale parola a indicare la natura divina, e non l' adoperasse poi a significare l' universo qual è, materiale e spirituale, limitato, ch' egli denomina anche «to moron tu theu». IV Quando aggiunge che la natura, separata dalla ragione , non è veramente, egli direbbe vero, se intendesse dire che « senza l' idea le cose nè si possono produrre, nè si possono pensare, e però non sono »: onde non si pensano divise dall' idea ed essenti per sè, se non in virtù d' astrazione solamente. Nè pure avrebbe errato, se raffrontando le cose reali colle loro essenze ideali ne avesse predicata l' identità d' essenza. Ma avrebbe dovuto fermarsi qui. Invece egli non s' è accontato, che, se l' essenza della cosa reale è quella appunto che trovasi nella sua idea, l' essenza ideale non di meno differisce dal suo realizzamento ne' contingenti, e in nessuna maniera v' ha identità fra il reale e la sua essenza ideale. Tutto ciò che v' ha fra queste due cose, si è congiunzione nell' essere intellettivo che percepisce il reale: perocchè nella percezione si unisce individualmente il reale colla sua essenza ideale, e da questa congiunzione nasce l' individuo conosciuto , che non è già puramente la cosa quale si pensa per astrazione fuori della mente e divisa dall' idea. Poteva altresì dire che ciò che esiste veramente è solo l' individuo conosciuto; ma poi analizzando quest' individuo avrebbe trovato che in esso vi ha: 1 un elemento reale; 2 un elemento ideale; e che entrambi questi elementi sono veramente; benchè non sarebbero se non vi avesse una mente (per es., la mente divina) che li concepisce. Il che non è già confondere o immedesimare la mente con essi; ma è unicamente dichiarare una mente , un soggetto intellettivo, qual condizione ontologica della loro esistenza; e così assegnare un nuovo caso di quel sintesismo che da per tutto s' incontra. V Quindi troppo vagamente ed erroneamente Schelling pose l' assoluto nel punto d' indifferenza tra gli opposti . Vagamente, perchè non indica con precisione quanti sieno questi opposti, quando avrebbe dovuto con costanza stabilire per opposti il reale e l' ideale . Erroneamente, perchè, se vi avesse un assoluto che fosse un punto di indifferenza tra il reale e l' ideale , egli non sarebbe nè reale nè ideale, come già osservai parlando di Fichte: e però, lungi da esser perfetto, sarebbe imperfettissimo; lungi da esser Dio, sarebbe la materia prima degli antichi , che svanendo in nulla dà luogo al nullismo cavatone poscia espressamente da Hegel. All' incontro avrebbe dovuto trovare un assoluto nel quale l' ideale e il reale fossero alzati alla maggior potenza, senza mai confondersi se non nell' essere , rimanendo distinti nelle forme o modi. Perciocchè in tal modo l' assoluto, non solo avrebbe avuta tutta la perfezione e la pienezza dell' esistenza, esistendo in tutti i modi; ma avrebbe avuto da una parte l' unità perfetta nell' identità dell' essere, dall' altra un ordine interiore, un organismo idoneo a spiegare come possa essere attivo e fonte di moltiplicità, giacchè nell' assoluto dee trovarsi altresì la massima attività, la massima vita, la cagione intrinseca del movimento. Nel punto d' indifferenza all' incontro non v' ha ragione che spieghi perchè cessi d' essere indifferente, e lasci così la propria natura, e come possa far ciò quando egli è costituito essenzialmente da una piena e semplice indifferenza. Il dire, come fa Schelling, che « « l' assoluta identità pone sè stessa infinitamente come soggetto e come oggetto, perchè senza di ciò non può conoscere sè stessa infinitamente » », lungi dallo spiegar cosa alcuna, complica maggiormente le difficoltà. Perocchè, se l' assoluto, chiamato dal filosofo nostro assoluta identità , consiste nel punto d' indifferenza anteriore all' origine del soggetto e dell' oggetto, come mai quel punto può aver bisogno, per conoscersi, di perdere la sua indifferenza ponendosi come soggetto e come oggetto? Ha dunque bisogno di cessare di essere, per conoscersi? Come punto d' indifferenza è assoluto: e quest' assoluto è così ignorante che non conosce sè stesso? ed ha bisogno di cercarsi fuori di sè, e per trovarsi ha bisogno di porsi colla differenza di oggeta totalità? Fuori della totalità vi è qualche cosa? E si tratta di un fuori , come un corpo è fuori di un altro, o come l' idea è fuori della mente, o come un' idea è fuori di un' altra idea? Perchè dichiarazioni così rilevanti sono omesse da cotesti filosofi? Ad ogni modo, se la totalità è l' assoluto, ciò che riman fuori dell' assoluto non si vede come possa far conoscere l' assoluto a sè stesso. L' assoluto si cercherebbe in tal caso per conoscersi dov' ei non sarebbe più. VI Oltracciò il punto d' indifferenza , anteriore al soggetto e all' oggetto, nel quale Schelling sulle traccie di Fichte collocò l' assoluto, non può avere identità al soggetto ed all' oggetto, perocchè ciò che è essenzialmente indifferente non può identificarsi con ciò che è essenzialmente differente. VII Di più, il punto d' indifferenza non può essere nè concepirsi se non per via d' astrazione che fa la mente. Ma un astratto non può esser mai l' assoluto. Oltre di che questo astratto è piuttosto un astratto falso e chimerico che vero, perchè, tolta via la distinzione dell' oggetto e del soggetto, non rimane propriamente nella mente qualche cosa d' indifferente, ma il nulla; che si considera indifferente in senso al tutto negativo, unicamente perchè il nulla non può aver differenza come non può aver proprietà perchè è nulla. Quindi di nuovo hassi il nullismo. VIII Essendo però impossibile il non vedere che il punto d' indifferenza non può sussistere come tale, Schelling si buttò a dire che « « l' identità assoluta esiste solo come universo »(1) »; quasi che l' universo fosse il modo di esistere di Dio: onde il panteismo di cui fu accusato. Ma se l' identità assoluta esiste solo come universo, l' assoluto non esiste adunque più come punto d' indifferenza . A questo mancamento, credette il filosofo nostro poter soccorrere distinguendo nell' universo la totalità dalle singole parti; e disse che nella totalità vi aveva indifferenza. Ma anche qui si gioca d' astrazioni. Perocchè la totalità dell' universo non è che un essere della mente, la qual considera il complesso degli enti coll' idea astratta di tutto . Acciocchè al tutto , ossia alla totalità , sottostesse un valore reale, converrebbe dimostrare che sussista qualche cosa che di tutte le parti dell' universo forma realmente un ente solo il quale dà a ciascuno tutto ciò che esso ha, e però è identico con ciascuna. E benchè anche questo dica lo Schelling, tuttavia non mostra mica nè qual sia questo ente, nè che sia uno; ma si contenta di appellarlo ora identità assoluta , ora punto d' indifferenza , ora totalità; le quali son parole e non più. Soggiunge che se l' identità assoluta, per sussistere, dee porre sè stessa qual universo, s' incorrono tutte le difficoltà che v' hanno a concepire come un ente dia l' esistenza a sè stesso, le quali abbiamo esposte parlando di Fichte. IX Ma la manchevolezza di questo sistema appare più palese, più che il suo autore, uscendo dall' oscurità e dall' ambiguità de' principii generali, discende ad applicarlo alla spiegazione de' fatti. Come vedemmo egli distingue due universi: quello dell' essere e del sapere (onde le due filosofie della Natura e dell' Idealismo ); che però non sono che due astrazioni, secondo lui stesso, giacchè non esistono in vero se non identificati. Per altro volendo egli spiegare tutti i fatti, avrebbe dovuto incominciare appunto da questo dell' astrazione: definendo prima questa operazione maravigliosa (benchè dalle definizioni mostrano d' abborrire per lo più i filosofi trascendentali come il can rabbioso dall' acqua); e di poi dando ragione di questa potenza capace di dividere un identico universo in due, tanto distinti quant' è la materia bruta dall' idea. X Quando poi egli prende a descrivere i fatti che intende spiegare nell' universo dell' essere, che è ciò che chiama « Filosofia della Natura », non solo non agguaglia la grandezza dell' argomento, ma scade da ogni dignità filosofica. Perocchè sono vere inezie quelle che di frequente egli dice, anzi che dotte sentenze. Non è ella un' antica inezia lo spiegare la rotondità de' corpi celesti perchè la figura sferica è la più perfetta? e il collocare la ragione del rotar de' pianeti intorno al sole nel bisogno che sentono (essendo animati) di unità? Sapete perchè il sole mostra sul suo disco alcune macchie? Il filosofo vi dice seriamente che quelle macchie sono assolutamente necessarie , mostrando esse che il sole è subordinato ad un sistema stellare superiore! Volete sapere la definizione del magnetismo, dell' elettricità e del chimismo? [...OMISSIS...] Quindi le tre dimensioni de' corpi, quindi i tre processi della natura. Le tre potenze della natura sono la gravità , che è potenza di primo grado e produttrice della materia; la luce potenza di secondo grado, onde il moto e la forza; la vita potenza di terzo grado, onde l' organismo e l' uomo stesso. Egli condanna Fichte per aver tratto l' universo dall' Io, e invece fa uscire l' Io dall' universo come un prodotto. Udite con che audacia ed ignoranza favella: [...OMISSIS...] . Sarebbe un perdere il tempo il ripetere tutte le frivolezze di cui questo filosofo empisce il suo libro intitolato: « Idee sulla natura ». XI A tre pure riduce le potenze (1) del mondo ideale che sono: verità, bontà e bellezza . Ora primieramente non s' intende come la bellezza debba essere una potenza più elevata della bontà , quasichè le arti belle, che spettano alla bellezza, sieno qualche cosa di più della moralità e della religione che il nostro filosofo riduce alla bontà. D' altra parte la verità e la bellezza sono oggetti dell' intelligenza che le intuisce e fruisce, quando la bontà è una qualità soggettiva, non essendo che la perfezione del soggetto intellettivo7morale. Onde, se i due primi appartengono al mondo ideale , la bontà appartiene al mondo reale in quanto si perfeziona colla sua adesione all' ideale. Questa confusione tra il mondo reale e l' ideale accade al nostro filosofo pel materialismo di cui va infetta la sua « Filosofia della Natura ». Perocchè la natura fu ridotta da questo filosofo ai soli fenomeni materiali, e non conosce punto che v' ha un reale spirituale , che non appartiene già al mondo delle idee, ma nè pure a quello della materia. All' incontro Schelling considera le anime e gli spiriti come altrettante idee viventi, senza accorgersi che l' idea è essenzialmente oggetto e solo oggetto, e lo spirito è il suo opposto che intuisce l' idea, ma non può essere in alcun modo l' idea. XII A cagione dello stesso errore fondamentale egli disse che lo sviluppo delle potenze reali porge il sistema cosmico dei prodotti necessari della natura, mentre avrebbe dovuto annoverare tra le potenze reali anche le potenze spirituali e libere. All' incontro disse che « « lo sviluppo delle potenze ideali dà la storia dell' umana libertà in tutto il genere umano » »; mentre potenze ideali, nel senso comune della potenza, non ve n' hanno, spettando le potenze a' soggetti reali e non alle idee. Nè alle idee o al loro sviluppo (quantunque le idee non abbiano un loro proprio sviluppo) appartiene la libertà (dell' uomo) che è potenza reale d' un soggetto reale, e non ideale, quale è l' uomo. Onde l' apparente regolarità e simmetria ond' egli compartì le varie parti della sua filosofia ricade troppo a scapito della verità, di che ci dava sospetto pure al primo sguardarla. Questo filosofo adunque, col suo sistema dell' identità assoluta, tolse in fatto le categorie dalla filosofia come inesplicabili; il che in sostanza aveano fatto pure i suoi maestri. Non potendosi però negare che le categorie appariscano, le dovettero ammettere come illusioni trascendentali: ed egli tre ne diede al mondo della natura , cioè la gravità , la luce e la vita; tre al mondo delle idee , nel quale confuse gli spiriti, cioè la verità , la bontà , la bellezza . Ora questa divisione dell' ente è al tutto inetta, e appena degna d' essere confutata. La gravità nè è un ente, nè la proprietà di un ente, ma una semplice legge , cioè un fatto costante. La luce è un corpo di cui non si conosce ancora la natura; e se si piglia come stimolo del sensorio ottico, è una denominazione che può appartenere a qualunque altra causa atta ad eccitare nell' organo della visione i movimenti sensorii. La vita si prende in diversi significati (1). Applicata al corpo, è una sua modificazione che lo rende atto ad esser sentito immediatamente e sensorio: applicata al principio senziente, consiste nel sentimento che lo costituisce. Non v' ha dunque ordine in questa classificazione, nè ella abbraccia nè pure tutto ciò che appartiene alla natura corporea. La verità , la bellezza , non sono che relazioni che hanno le idee cogli spiriti dotati d' intelletto e di sentimento intellettivo; la bontà è la perfezione delli spiriti stessi. Gli spiriti stessi rimangono adunque esclusi da tali categorie. Come Fichte s' era avveduto dell' insufficienza del suo primo sistema, così Schelling si trovò mal pago del suo, e lo abbandonò. Le opinioni filosofiche tuttavia ultimamente manifestate a Berlino dimostrano ch' egli non ha ancor digerito il principio degl' idealisti, che l' intelligenza e il mondo esterno sieno così dissociati che la prima non possa dimostrare l' esistenza del secondo. Quindi divise la Filosofia in negativa , che considerò come un trovato della ragione, e in positiva che attribuì all' esperienza. Or l' attribuire all' esperienza de' sensi una filosofia, quasi potesse avervi una cognizione meramente sensibile senza l' intervento della ragione, è quel peccato di sensismo che guasta tutta la filosofia, e specialmente la germanica «( Psicol. 29 7 33) ». Ma udiamo onde trae la partizione delle due filosofie. Richiamando la distinzione degli Scolastici tra la questione quid est , e la questione quod est , viene a dire tra « qual sia l' essenza d' una cosa », e « se la cosa sussista » «( Sistema filosofico , 1. 7 42) », Schelling attribuisce alla ragione la prima questione, all' esperienza la seconda. Quindi, secondo lui, la Filosofia della ragione, ch' egli chiama negativa, si limita a far conoscere le essenze delle cose, senza poter giammai decidere se niuna cosa realmente sussista. All' incontro la Filosofia dell' esperienza, ch' ei chiama positiva, suppone le cose sussistenti e tratta di esse. La prima dunque non esce dal mondo ideale, dal mondo de' possibili (1); la seconda sola ha per oggetto il mondo reale. La Filosofia negativa adunque di Schelling si riduce ad una Ideologia . Ma impropriamente le attribuisce l' epiteto di negativa , perocchè l' Ideologia non nega, benchè nè meno afferma il reale; ma il reale rimane fuori della sua sfera. Affine che si possa dare il titolo di negativa ad una dottrina, conviene che ella contenga una negazione . Perciò si dicono concetti negativi quelli con che vogliamo far conoscere cosa sussistente per via d' analogia , giacchè l' analogia non ha valore se non unita ad una negazione. Quando il cieco procaccia di distinguere i sette colori di cui vuole parlare, per l' analogia che aver possono co' suoni, egli non può avere un concetto verace se in pari tempo non neghi a sè stesso che i colori sieno i suoni. La necessità dunque d' una negazione a fare che un dato concetto non inganni nella sua applicazione è ciò che induce a dargli l' applicazione di negativo . Ma l' idea non affermando nulla di reale, ma solo facendo conoscere il possibile , è scevra da ogni negazione, nè ha bisogno d' essere rettificata con questa per non riuscire ingannevole. Quindi non le si addice il titolo di negativa, benchè nè pur quello di positiva. Ciò che dice ora Schelling che la Filosofia della ragione non tratta che del solo mondo ideale, ossia di possibili, può pigliarsi altresì come una interpretazione o modificazione del suo precedente sistema dell' identità assoluta . Ma tutto questo sistema diverrebbe con ciò stesso sterile, perchè si acchiuderebbe nel mondo ideale, senza che egli si permetta di spingere un solo passo fuori del possibile: ond' egli non potrebbe dare alcuna ragione sufficiente, nè della coscienza, nè dell' esperienza, nè delle operazioni del pensiero, nè dell' universo materiale; perchè tutte queste cose appartengono al mondo reale. Quindi Schelling tratta ora di tutte queste cose a parte, cioè nella Filosofia positiva , la quale si limita a credere all' esperienza, senza cercare di essa alcun fondamento razionale. Questa via positiva ed empirica è quella che ora preferisce e a cui più si applica. Noi non ci allungheremo dimostrando quanto sia erroneo e dannoso questo divorzio della ragione colla natura, questa bipartizione della scienza, che abbraccia ad un tempo i due errori dell' idealismo e del materialismo; perchè ciò risulta da tutto ciò che abbiamo scritto di filosofia. In quella vece noteremo l' abuso d' astrazione come il fonte principale delle filosofie tedesche, con un esempio tolto dalla Filosofia della ragione di Schelling, com' egli di presente la espone nelle lezioni che dà a Berlino. Se l' uomo coll' astrazione distingue solamente gli elementi che si contengono in una data idea, senza pigliarli per enti che stanno da sè, egli non abusa di tale operazione. Acciocchè adunque non cada abuso in astrarre si richiedono due condizioni: 1 Che l' astrazione distingua i veri elementi che presenta una idea; 2 Che ella non li prenda per altro se non per quello che sono, cioè per elementi, e non per enti ideali stanti da sè. Vi ha dunque abuso: 1 Se si pretende di trovare in un' idea elementi che non sono tali; 2 Se si pretende che quelli che sono meri elementi, sieno enti ideali stanti per sè. Nella filosofia germanica s' incontra l' uno e l' altro abuso. Ma noi vogliamo segnalare il primo, come il più pernicioso e il più sottile a sottrarsi dall' attenzione. Acciocchè ciò che distingue l' astrazione in un' idea sia un elemento della medesima, egli dee essere veramente distinto dagli altri elementi e così distinto dee potersi concepire. Ora accade che i filosofi tedeschi, e specialmente gli Hegeliani, considerano per elemento quello che non è tale perchè non si può idealmente distinguerlo neppure col pensiero dentro l' idea, onde altro non è che un loro creato, una finzione della loro attivissima immaginazione filosofica. L' esempio che addurrò chiarirà meglio la cosa. Esponendo Schelling la sua Filosofia negativa, viene discorrendo così: [...OMISSIS...] . Intanto è un ragionamento evidentemente falso il dire che la ragione essendo potenza anche quel che contiene sarà potenziale. Poichè, se s' intende che la ragione sia in potenza a conoscere e non in atto, in tal caso ella nulla ancora conosce, nulla contiene; e però non si può dire come sarà il suo oggetto. L' oggetto non è fino che non è l' atto che l' intuisce; e l' oggetto proprio dell' atto è l' identico oggetto della potenza: dunque la ragione per essere in potenza, anzi che in atto, non influisce sul suo oggetto, nol costituisce in potenza anzi che in atto. Di poi è una contraddizione il considerare la ragione come una mera potenza senz' atto, e tuttavia definirla « l' infinita potenza di conoscere »; perocchè ciò che è in potenza non è mai infinito; nè ciò che è infinito può essere divenuto tale con un passaggio dallo stato di potenza a quello di atto; ma dee essere in atto fin sul principio. Perocchè dallo stato di potenza allo stato d' infinito atto ci ha una distanza infinita, e una distanza infinita non può essere trascorsa da nessun movimento. In terzo luogo « l' infinita potenza di essere »è un concetto assurdo. Perocchè questa potenza è qualche cosa, o nulla. Se è nulla, non è potenza. Se è qualche cosa, è già essere in atto. Dunque non si può concepire « una pura potenza infinita di essere »; e quand' anco non fosse infinita, la potenza non si può concepire senza un atto. Convien dunque che v' abbia prima un atto, cioè un essere in atto, acciocchè vi abbia la potenza di essere. Ed ecco già qui comincia a manifestarsi l' abuso d' astrazione, di cui parlavamo. Perocchè si pretende la potenza di essere come cosa che possa stare da sè senza atto. Ma, così divisa dall' atto « la potenza di essere », nè pure è un vero astratto, perchè così divisa non si può conoscere. Di più « il poter essere »ha due significati che vogliam distinguere. Perocchè significa tanto un poter essere logicamente considerato, come un poter essere considerato fisicamente. La possibilità logica dell' essere segna l' essenza di un essere che non involge contraddizione. Ma l' essenza , come essenza, non è in potenza ma in atto; e dicesi in potenza solamente considerandosi rispetto alla sua realizzazione non racchiusa nell' essenza. Onde di nuovo l' atto dell' essere non manca. La possibilità fisica importa di più la cognizione d' una causa reale atta a realizzare quest' essenza; e questa causa è di nuovo un essere in atto . Dunque è impossibile, che oggetto della ragione sia unicamente il poter essere; ma anzi convien che sia un atto dell' essere (l' atto dell' essenza, l' idea) nel quale si pensi la possibilità della sua realizzazione, ciò che è il poter essere. Ora tutta la Filosofia di Schelling e di Hegel non è che un edifizio innalzato sul fracido fondamento di questo falso ed assurdo astratto di un « mero poter essere », che si suppone gratuitamente dover precedere all' essere; perchè, illudendosi, si crede di poterlo trovare coll' astrazione antecedente a tutto. Ma l' astrazione, come dicemmo, non dà ciò veramente; ma è l' abuso dell' astrazione, cioè l' immaginazione, quella che non già trova analizzando, ma finge ed inventa così una creatura vuota di verità, aiutandosi a segnarla con vocaboli che altro non danno che un non7senso. Infatti Schelling continua a ragionare su questo falso astratto così: « La potenza adunque di essere è anteriore all' essere. Fino che si considera come potenza anteriore all' essere, ella può passare all' essere e non passare, e perciò è padrona di sè, ha il dominio sull' essere, è libera. Ma quando ella è passata all' essere, e l' essere è posto, ella ha perduto la sua libertà, ed è in potere dell' essere stesso. Or quest' essere privo di padronanza, privo del dominio dell' essere, non è spirito nè concetto; perchè spirito significa padronanza, e signoria dell' essere. Nella natura tutto è già posto, tutto ha la sua forma. Ma è facile di vedere che dee aver preceduto, qual materia , un essere cieco, e indeterminato, ossia infinito ». Così da un falso astratto argomenta ad un altro falso astratto , perviene alla materia prima degli antichi; alla quale, con una contraddizione in cui gli antichi non caddero, dà ad un tempo l' esser cieco all' esser libero; confondendo l' essere indeterminato, che è un' imperfezione, coll' esser libero che è una perfezione; e l' essere indefinito , che è un' imperfezione, coll' essere infinito che è una perfezione. Egli è chiaro che mediante ragionamenti di simil fatta si può pervenire a qualunque mostruoso assurdo; e questo è quello di cui si gloria la filosofia di Hegel, che non è infatti che la raccolta di tutti gli assurdi più ridicoli vestiti del più baldanzoso paludamento filosofico (1). Kant, Fichte, e Schelling ed Hegel non formano che una stessa scuola di sofisti, assai simili a quelli della Grecia, di cui Kant è il fondatore (2). I dati erronei ed arbitrari da cui partono e che noi abbiamo esposti, sono sempre i medesimi; ma ciascuno volendo essere originale ed unico signore del campo, deprime il suo predecessore, appropriandosi le sentenze e disponendole con altra simmetria. La critica che Hegel fa a Kant è quella che gli avea fatto Fichte: l' essersi quel filosofo contentato di chiuder l' uomo nelle forme soggettive e nelle illusioni trascendentali, senza dichiarare impossibile l' esistenza delle cose esterne e di Dio, benchè non accessibile alla ragione, ed aver quindi lasciata nella filosofia una dualità. Fichte, secondo Hegel, non fece altro che unire il desiderio , l' aspirazione istintiva a Dio di Jacobi, colla vuota oggettività del pensiero di Kant. Egli censura il primo, perchè questa unione resta sempre in un dover essere, senza che possa mai passare nel fatto. Infatti « l' Io puro, secondo Fichte, deve sempre porsi in un modo compiuto, assolutamente, travasandosi tutto nell' Io empirico, senza che possa mai venirne a capo, benchè a ciò s' affatichi all' infinito »: onde pone nella perfettibilità indefinita l' umana destinazione. Questo in Fichte rimaneva un mero postulato che doveva essere tolto per arrivare alla verità speculativa. Così in Fichte il pensare , urtando nell' infinito, trovava un limite insuperabile, e non si poteva costituire come assoluto principio della verità. Ora, senza considerare il pensare speculativo come questo assoluto principio di ogni verità, non pervenendosi all' assoluto, si rimane nel relativo: di che Hegel chiama la filosofia fichtiana una mera fenomenologia del pensare. Era in sostanza la critica stessa che gli avea fatta Schelling. Questi filosofi pretendevano di dover pervenire all' assoluto colla pura speculazione, e pretendevano che trovato l' assoluto non solo fossero spiegati tutti i misteri, ma ben anco lo stesso universo che doveva uscire dal pensare come i miti dell' antichità lo fecero uscire dall' uomo. Ma essi non davano però alcuna ragione del perchè la dovesse andar così, nè mostravano le loro credenziali che li dichiarassero atti ad eseguire tale e tanta promessa (che involge in sè stessa più assurdi). Intanto il principio di doversi cavare ogni cosa dal pensiero, era dovuto a Fichte, a cui l' avea suggerito la filosofia di Kant; e Schelling ed Hegel in sostanza non fecero che un tentativo di svolgere quel principio più logicamente, com' essi almeno si diedero a credere. Rixner (1) dice che lo scopo di Hegel non è altro che di formare della dottrina dell' idealità assoluta di Schelling una scienza atta ad essere insegnata metodicamente. Infatti è difficile trovare in Hegel qualche cosa di nuovo, eccetto che parole e cavillazioni a grande stento filate. L' unica cosa forse, in cui si dipartì dal suo maestro, si fu che sostenne non doversi cominciare dall' intuizione dell' assoluto ( Anschaung ) che Schelling poneva, chiamandola una « premessa insussistente »; e mantenne, che il principio del filosofare si dovesse prendere dal puro pensare , dove egli pretende trovare l' identità dell' ideale e del reale, e doversene cavare ogni cosa; il che veramente è conseguente all' errore fondamentale dell' idealismo: e perciò lo semplifica e perfeziona, rendendolo, se mi lice parlar così, un errore assoluto . Hegel adunque pretese di sollevarsi sopra il punto culminante della filosofia di Fichte, l' Io puro , per le ragioni che adduce nella lunga discussione che premette al libro I della sua Logica intorno alla questione [...OMISSIS...] ; le quali parole voglion dire che non si può ridurre ogni cosa all' Io , come voleva Fichte, perchè nel concetto dell' Io s' acchiude la relazione con un oggetto che rimane diverso dall' Io; quando conviene pur cominciare da ciò che non supponga esistere nulla di diverso da sè. Questa critica in sostanza era quella stessa che aveva fatta Schelling al suo maestro, quando aveva biasimato che nel sistema di Fichte il mondo materiale si rimanesse come cosa morta fuori dell' Io puro . Onde pretese di levarsi ad un punto più elevato di Fichte, sostituendo all' Io puro , l' intuizione dell' assoluta identità . Ma Hegel volle mettersi al di sopra di Schelling trovando un altro punto di partenza ancora più eminente, e però rigettò l' intuizione Schellinghiana dell' assoluto, perocchè in questa intuizione dell' assoluto già vi hanno due cose, cioè: 1 intuizione, 2 assoluto; onde Hegel, sostenendo che si dee cominciare dal semplice e trovare poi in esso ogni cosa, fece dell' intuizione e dell' assoluto una cosa stessa, che denominò puro , o vuoto, pensare , che chiamò l' immediato , o la stessa immediatezza . Il perchè disse che [...OMISSIS...] , come accade nell' intuizione a cui si vuol ridurre la riflessione, quasi facendola retrocedere. Così sottilizzando, stabilisce per vero immediato cominciamento del sapere il puro sapere , vuoto d' ogni contenuto, e crede di esser andato con ciò più su di tutti i suoi predecessori, e di quanti hanno prima di lui filosofato. Il perchè, a quella maniera che Schelling alla « Filosofia trascendentale » di Fichte aggiunse una seconda parte intitolandola « Filosofia della natura »; così Hegel alle due dottrine di Schelling ne aggiunse una terza, intitolandola « Logica ». Di che riuscì la dottrina hegeliana tripartita in questo modo: [...OMISSIS...] . Benchè noi non intendiamo qui entrare in un esame circonstanziato del sistema di Hegel, come facemmo di quello de' suoi maestri: parte perchè ciò che abbiam detto a loro riguardo vale in buona parte anche per lui; parte perchè ci bisognerà discuterlo altrove dove favelleremo della dialettica (1); tuttavia qui dobbiamo esporre l' errore fondamentale di tutto il suo sistema, il quale conosciuto, potremo fare giusta stima della partizione hegeliana dell' ente, scopo di questo libro. L' errore fondamentale adunque del nostro filosofo consiste nell' aver confuso il VERBO coll' IDEA, di aver cioè di queste due cose fattane una sola, a cui appartenessero indistintamente gli attributi dell' una e dell' altra. Dichiariamoci. La distinzione importantissima tra il verbo della mente e l' idea fu da noi esposta nel « Nuovo Saggio »: io prego il lettore di averla ben presente (2). Quando io penso l' essenza di un ente, per esempio, l' essenza dell' uomo, che cosa è presente alla mia mente? L' uomo. L' uomo, senza più, presente alla mia mente è l' umana essenza. Quest' essenza, in quanto è intuìta dalla mente, si chiama idea . L' essenza dell' uomo è l' uomo possibile: ma non si dee mica credere che quando la mente intuisce l' essenza dell' uomo, ella vi aggiunga contemporaneamente il concetto di possibilità . No: questo concetto è posteriore; la possibilità, come ho spiegato più volte, è una mera relazione dell' essenza, che è trovata ben presto dalla mente, ma che non è compresa nel primo intuito. Onde si suol dire con verità che l' idea fa conoscere l' uomo possibile , ma a condizione che si intenda così che ella fa conoscere l' uomo, il quale posteriormente si riconosce colla riflessione aver la relazione di possibilità, benchè questa possibilità a principio, come dicevo, non soggiaccia all' intuito. Io non so capire come, essendomi spiegato su ciò tante volte e così chiaramente, tuttavia ancora si continui ad attribuirmi, come fa tra gli altri il signor abate Gioberti, che io ammetto per oggetto dell' intuito il meno possibile (1): ancor peggio poi si fraintende e si altera ciò che io dico quando mi si imputa di ammettere un' idea possibile . Fra le altre male intelligenze e logomachie del sig. abate Gioberti vi ha quella che egli confonde l' attualità colla realità . Egli inveisce contro di me perchè dico che l' idea non è un reale, e argomenta che « l' ideale non può concepirsi senza che abbia qualche realità ». Ma intendiamoci sul valore delle parole. Il suo argomento varrebbe, se per realità s' intendesse attualità , giacchè è certamente giusto questo argomento: « Il possibile non può concepirsi senza qualche attualità ». Ma, lungi che io neghi l' attualità all' essere ideale, dico anzi ch' egli è la prima attualità (2). Infatti, se è l' essenza , dee per conseguenza esser la prima attualità degli enti. All' incontro nego che l' ideale sia reale , perchè la parola reale si adopera appunto a significare un modo d' esistere opposto al modo ideale; onde, chi dicesse che l' ideale fosse reale , confonderebbe due concetti opposti, e direbbe un manifesto assurdo allo stesso modo di colui che dicesse che il nero è bianco, o che l' accidente è sostanza (3). L' idea pura adunque non contiene nulla di reale , venendo escluso il reale dalla stessa parola idea . L' intuizione è l' atto con cui lo spirito contempla l' essenza pura della cosa; ed appunto perchè l' intuizione è l' atto dello spirito, essa è reale; giacchè ogni azione di cosa reale è reale. Ma l' essenza pura è l' oggetto di quest' atto, ed altro non è, se non « l' ente in quanto è conoscibile ». Le espressioni che s' usano: « l' ente ideale è nella mente, l' ente ideale è presente alla mente, ecc. », non si debbono intendere materialmente, quasi che l' ente ideale fosse nella mente come l' acqua è in un vaso, o fosse presente alla mente come un corpo è presente agli occhi per la vicinanza dello spazio; ma esse non valgono che come pure sinonimie di questa espressione propria: « l' ente ideale è conosciuto dalla mente ». Conoscer l' essere ideale, ossia l' essenza mera dell' ente , si esprime colla parola propria intuire . In questa pura cognizione la mente contempla, ma non pronuncia cos' alcuna; perocchè il pronunciare è un atto posteriore a quello dell' intuire ; giacchè non si può pronunciare nulla di ciò che non si ha prima almeno intuìto. Pronunciare qualche cosa dell' ente intuìto, è giudicare, è fare quell' atto che si chiama verbo della mente. Il verbo della mente è dunque quella parola interiore che dice la mente in conseguenza dell' ente intuìto: è dunque una operazione della mente essenzialmente posteriore all' intuizione. Ora, posciachè pronunciare non si può senza pronunciar qualche cosa di qualche cosa: dunque il verbo della mente ha di bisogno di avere nel suo termine una duplicità. L' essenza è semplicissima: l' intuizione adunque dello spirito ha un termine unico dove riposa: il verbo invece, la parola interiore , non potrebbe essere proferito dallo spirito, se non vi avesse un modo di introdurre la pluralità nel termine del suo atto. Questa pluralità può comparire in due modi: 1 Coi sensibili comunicati a noi nel nostro sentimento; 2 Coll' analisi dell' essenza e delle sue relazioni. Ma questo secondo modo ha luogo solo posteriormente al primo: per esempio, quando la mente pronuncia che « l' essenza umana è possibile d' essere realizzata »ha moltiplicato il suo termine coll' analisi dell' essenza umana. Ma si badi. Ella ha trovato una relazione tra l' essenza umana e il concetto della sua realizzazione . V' ha dunque in questo pronunciamento una triplicità: 1 l' essenza; 2 il concetto di realizzazione; 3 la relazione di possibilità, per la quale si giudica che l' essenza possa essere realizzata. Ora, acciocchè lo spirito possa pronunciare questo giudizio, possa dire questa parola, è necessario prima di tutto ch' egli ritrovi la realità, e questa realità non gli è data che nel sentimento. Acciocchè dunque la mente possa venire a dire qualche parola interiore, a pronunciare un giudizio qualsiasi, è condizione necessaria che le sia dato, prima di tutto, il sensibile. Dunque in nessuna maniera è possibile confondere l' intuizione col verbo della mente: quella essendo semplicissima ed una, questo esigendo pluralità acciocchè possa aver luogo. Schelling confuse l' intuizione col verbo della mente, dando all' uomo questo invece di quella. Per accorgersene basta osservare, che l' oggetto dell' intuizione Schellinghiana è l' identità assoluta che egli esprime colla formola A .uguale . A, chiamando l' uno degli A predicato , l' altro soggetto . Dunque quest' oggetto è molteplice. Infatti la cognizione dell' identità non può essere data che per un giudizio. Ma eglino sono veri e innegabili questi fatti: 1 Che nella semplice intuizione d' un' idea, d' un' essenza, non cade nè pluralità, nè giudizio; 2 Che non è punto cosa assurda questa intuizione semplice; 3 Ch' essa nell' ordine logico precede ogni giudizio; 4 Che il giudizio non può essere innato nell' uomo, perchè egli è un' operazione che contiene un movimento, un discorso che trapassa da un' idea in un' altra; e un movimento intellettuale è bensì atto del soggetto esistente, ma non già una disposizione stabile che possa essere innata; 5 Che a spiegare le operazioni dell' umano intendimento basta che si trovi innata nell' uomo l' intuizione semplice e immanente dell' essenza dell' essere senza più. Il solo fatto psicologico ed innegabile, che per l' uomo sono due operazioni distinte l' intuizione dell' essenza e il giudizio , basta a doverci convincere che l' intuizione precede il giudizio; e che quindi l' umano conoscimento non comincia da un verbo , ma da una idea intuìta . Schelling, attribuendo all' uomo un verbo primitivo sotto il nome d' intuizione, invece d' una vera intuizione diede all' uomo quello che è proprio di Dio, nel quale le idee non sono distinte dal suo Verbo pel quale solo tutto conosce, che anzi non sono propriamente idee l' una dall' altra realmente distinte, ma sono relazioni conseguenti al suo Verbo nel modo che altrove abbiamo esposto (1). Ma per l' uomo le idee sono separate dal verbo, e l' una dall' altra è separata e distinta; e però esse precedono logicamente al verbo umano e non al divino. Questo primo errore di Schelling fu il primo passo che lo travolse al panteismo. Ma all' errore di Schelling ne aggiunse Hegel uno assai maggiore. Quegli avea confusa l' intuizione col verbo della mente: errore gravissimo; ma finalmente tanto l' intuizione quanto il verbo sono due operazioni soggettive, cioè dello spirito umano. Hegel non si contentò di ciò: ma confuse l' intuizione ed il verbo colla stessa idea (cioè il soggettivo coll' oggettivo), e attenendosi a questa, volle in essa trovare l' intuizione, il verbo, ogni cosa. Certo che questo medesimo errore non mancava in Schelling, perocchè questi era pervenuto a dire che le idee erano anime , trasnaturando così l' oggetto in soggetto. Ma l' errore in Schelling non era coerente, perchè a principio del suo sistema avea pur parlato d' assoluto e d' intuizione dell' assoluto; il che veniva a distinguere l' atto dello spirito intuente dall' oggetto intuìto: laonde i seguaci di Hegel lodano il loro maestro di una logica rigorosa, e non può negarsi che egli abbia conosciuta l' incoerenza di Schelling, ed abbia procurato di rendere l' errore coerente a sè stesso, per quanto gli fu possibile. Confondere l' idea col verbo, il concetto col giudizio, è lo stesso adunque, che: 1 Confondere quello che è oggetto dell' intuizione coll' operazione soggettiva dello spirito qual è il giudizio: 2 E, stantechè l' operazione dello spirito è reale , perciò è anche un confondere il modo ideale dell' essere col reale. Quindi per Hegel la dialettica è il movimento dello stesso concetto; è lo stesso concetto quel che dialetticizza , non è più lo spirito umano. Al concetto adunque attribuendosi le operazioni dello spirito, non è maraviglia se egli si cangia un poco alla volta in ispirito (1), e si metamorfizzi in ogni cosa che si voglia, diventi Iddio, universo, tutto. Qui sta la somma dell' hegeliana filosofia. Vincenzo Gioberti trasportò in Italia alcuni principii staccati della filosofia di Hegel (e col prenderli così staccati ne deturbò la logica coerenza), nello stesso tempo che molto declama contro questo filosofo. Egli non riconosce l' intuizione della pura idea; anzi pretende che non si possa intuire l' idea se non per via di giudizio, e in questo conviene con Schelling nel confondere l' intuizione col verbo , dando a questo il nome di quella. [...OMISSIS...] . Di poi confonde ancora con Hegel il verbo della mente, cioè il giudizio coll' idea ossia col concetto, scrivendo: [...OMISSIS...] . Così egli confonde il concetto col giudizio , senza accorgersi che la nota caratteristica del giudizio è l' affermazione , e che nell' affermazione il giudizio consiste; e l' affermazione è un' operazione soggettiva dello spirito, laddove il concetto, ossia l' idea, non è una operazione dello spirito, ma è un oggetto, in cui si può ben terminare un' operazione dello spirito (l' intuizione), ma distinguendosi appunto perciò da esso. L' ab. Gioberti confonde adunque al pari di Hegel l' operazione dello spirito (il verbo), che è cosa soggettiva , col concetto che è l' oggetto stesso intuìto. Ora il perdere di vista la differenza essenziale che passa tra il soggetto e l' oggetto , conduce direttamente a confondere l' idea colla cosa , l' ideale col reale; che è appunto l' altro errore cardinale di Hegel, il quale vuol cavare le cose stesse dalla sua idea. Ecco come s' esprime il signor Gioberti: [...OMISSIS...] . Il dire che « « ogni cosa è un concetto » », è proposizione così ardita che nè pur Hegel la direbbe (3). Qui c' è il materialismo: perchè, se i corpi sono cose e se ogni cosa è un concetto, dunque anche i corpi sono concetti. C' è conseguentemente l' idealismo: perocchè le cose sono trasmutate in idee. C' è il soggettivismo e il psicologismo: perchè il primo psicologico non può essere che quel primo che si pensa nell' anima; se dunque il primo psicologico produce tutti i concetti, dunque tutti i concetti sono produzioni dell' anima. C' è il panteismo: perchè, se il primo psicologico (ciò che prima si pensa nell' anima) s' immedesima col primo ontologico, dunque all' anima si riducono tutte le cose. E poichè il primo psicologico immedesimato col primo ontologico diviene il primo filosofico, « che è assoluto, cioè principio del reale e dello scibile », dunque l' anima, fonte de' concetti, unita al primo ontologico, fonte delle cose, è ciò che costituisce il Dio Giobertiano. Confuso il reale e l' ideale in uno, immedesimato il soggetto e l' oggetto, ne dovea venire la dottrina della dialettica Hegeliana. Hegel diede il ragionare all' idea stessa; è l' idea che si muove e che si svolge in giudizŒ ed in raziocinŒ: ma queste non sono più operazioni dell' anima umana. Il che niente ripugna, dopo che nell' idea si trasportarono le qualità del soggetto, e conseguentemente a lei si diede la vita e l' attività dell' anima (il che potrebbe essere a dir vero immaginazione poetica, non mai la verità del fatto). Quindi l' uomo, secondo il Gioberti, non è già quegli che giudica e che ragiona; ma è l' idea che fa tutto questo: e l' uomo è l' uditore passivo di ciò che l' Idea - Dio pronuncia (benchè talora pronuncii a sproposito). Il che non fa maraviglia, dopo avere stabilito il signor Gioberti che l' idea è un giudizio , come vedemmo. [...OMISSIS...] Se l' idea è un entimema, dunque ella non è solamente un giudizio, ma ben anco un raziocinio. Quindi il nostro filosofo attribuisce la voce (una voce razionale ) all' idea, dicendo che l' evidenza [...OMISSIS...] . Ma quello ch' è più singolare (nel che va troppo più avanti di Hegel), non solo il signor Gioberti vuole che l' idea (come fosse un soggetto intelligente e non un oggetto intelligibile) pensi e ragioni, ma ben anco parli con voci umane e sensibili, ed esprimendo sè stessa si faccia attrice del primo linguaggio. Ecco com' egli proponga questa sua quanto nuova altrettanto arbitraria teoria. [...OMISSIS...] S' estende poi a far parlare l' idea, e colla sua ricca immaginazione inventa un dramma in cui ella interloquisce tutto ciò che il filosofo le mette in bocca. A chi piace sollazzarsi, può vedere questo tutto nella lettera VII di quelle scritte al prof. Tarditi (2), della quale rechiamo qui solo il cominciamento: [...OMISSIS...] . Non credo prezzo dell' opera il seguitare più innanzi. Conchiuderemo solo, che in nessuna maniera, nè Hegel, nè altri, può dimostrare che l' idea sia un soggetto che pensa , invece d' essere, come è, un puro oggetto che sta innanzi al soggetto che pensa: per nessuna maniera di sottigliezze e di sofismi si può far perdere la sua natura all' idea, o immedesimare il soggetto coll' oggetto, o fare che l' uno si cangi nell' altro. Quindi per la stessa ragione vien meno il ragionare nella bocca di tali filosofi, e sottentra in sua vece un gran salto che dà la fantasia, quand' essi si arrovellano per riuscire a distruggere la differenza fra concetto e giudizio, idea e verbo, sicchè dall' uno possano passare all' altro quasi ad un sinonimo; come pure tra ideale e reale; cosa ed idea; le quali nozioni differiscono tra loro essenzialmente: nè contro le nature delle cose possono menomamente le sottilità de' sofisti, nè le declamazioni de' retori. Avendo dunque Hegel, senza alcuna prova, ma con un puro salto mentale della fantasia (benchè procuri d' asconderlo tra veli d' una nuova ed oscura maniera di parlare e di lunghi cavillosi e stentati periodi, pronunciati con quella sicurezza con cui sogliono insegnare i professori di quella nazione) attribuito all' idea le proprietà del soggetto intelligente; egli la rese non solo illuminante, ma illuminata e pensante e operante e producente, finalmente fonte di tutte le cose e di tutte le apparenze, non adoperando mai, a comporre le une e le altre, altra materia che sè stessa. Laonde egli riduce gli oggetti di tutte le scienze ad un oggetto solo, cioè all' idea ed al suo movimento dialettico, come si può vedere nella sua « Enciclopedia delle scienze filosofiche » (1). La quale Enciclopedia pare che stèsse sotto gli occhi di Vincenzo Gioberti, quando scriveva: [...OMISSIS...] . Riduce dunque Hegel tutte le scienze filosofiche a tre: Alla prima, che chiama Logica , attribuisce per oggetto l' Idea considerata in sè stessa e per sè stessa; Alla seconda, che chiama Filosofia della natura (denominazione tolta da Schelling), attribuisce per oggetto l' Idea nel suo esser altro, cioè in quel suo movimento pel quale si trasmuta in altro, nel mondo; Alla terza, che chiama Filosofia dello spirito (e risponde all' Idealismo trascendentale di Fichte), attribuisce per oggetto l' Idea nel suo ritorno dall' esser altro in sè stessa, cioè considerata in quel suo movimento pel quale, dopo essersi trasmutata nel mondo, col pensiero riduce a sè, riconosce come sua propria creazione e sostanza, il mondo. Ciascuno, che un po' considera questa partizione delle scienze filosofiche, sente il dominio che ha l' immaginazione nelle filosofie tedesche, e n' è prova altresì l' abbondanza delle metafore di cui lussureggia lo stile di que' filosofi. Il vedere l' idea che si muove da sè, e diventa il mondo, e poscia ritorna in sè trasportando seco tutto il mondo ed inabissandolo nel proprio seno, egli è pure uno spettacolo maraviglioso e dilettevolissimo a quelle gigantesche fantasie. Nell' entusiasmo, che destano cotali drammi della tedesca filosofia, a niuno viene in mente il domandare come l' idea, che è immobile, impassibile, puro oggetto dello spirito, possa muoversi, com' ella possa diventare materia; e da materia trasmutarsi nuovamente in spirito. A niuno cade in pensiero di chiedere come una natura possa trasmutarsi in un' altra natura, e in tal natura che ha determinazioni contrarie e ripugnanti a quelle che avea prima. A niuno finalmente sovviene di pregare questi filosofi taumaturghi, degni discendenti di Giacomo Boehme, che vogliano indicare qualche ragione sufficiente de' varii moti e tramutamenti dell' idea, e perchè ella prescelga questi a quelli, che pure sarebbero egualmente concepibili: a ragion d' esempio, perchè divenendo ella il mondo, non diventi un mondo un po' più grande, o un po' più piccolo del presente; perchè, divenendo il genere delle bestie, diventi proprio quel numero di bestie che abita il globo, nè pur una di più o di meno, e perchè le femmine pregne talora si sconciano, e l' Idea non ne patisca, benchè trasformata in esse, o non l' impedisca; e così va discorrendo. Ma poichè la Logica , che tratta dell' essere in sè e per sè, secondo il nostro filosofo è la solida base delle altre due scienze filosofiche che da esse derivano, cerchiamo in essa la partizione dell' essere. Infatti nel primo libro della « Scienza della Logica » di Hegel, verso la fine della discussione che egli fa sulla questione dell' « onde si debba cominciare », noi troviamo questo titolo: « universale partizione dell' Essere ». Dobbiamo dunque fermarci un poco ad esaminarla. Egli propone la tripartizione seguente: [...OMISSIS...] . Ognuno s' accorge che questo stile non è molto chiaro; e che la divisione non è molto regolare. Aggiungiamo poche osservazioni 1 Tutto si riduce all' essere ed alle sue determinazioni . Ma convien porre ogni attenzione a quella che egli dice la terza determinazione dell' essere. Ella contiene l' essere senza determinazioni, il qual precede. Si vuole che sia il cominciamento della scienza: è l' immediato , secondo la solenne denominazione di Hegel. Ma tosto si corre all' astratto, e lo si chiama immediatezza , indeterminazione, anzi indeterminatezza [...OMISSIS...] , senza accorgersi che tali parole non esprimono più l' essere stesso, ma una sua qualità negativa (privazione di mediatità, e di determinazioni). Che se questa qualità negativa si voglia prendere per sè e in sè, non aggiungendola all' essere come a suo subietto, noi già siamo usciti dell' essere, e venuti ad un concetto assurdo, cioè ad un non7concetto, illusi dal suono d' una parola che niente più significa. Il che è la solita pecca della filosofia tedesca. 2 Oltracciò si abusa della parola determinazione applicandola a significare anche l' indeterminazione assoluta dell' essere, quando questa non è determinazione, ma anzi mancanza di determinazione, non7determinazione. Ma, poichè la mente considera la mancanza di determinazione come una variante dello stato dell' essere, perciò la stessa indeterminazione si colloca tra le determinazioni pigliando queste in genere come quelle che producono le varietà dell' essere (1). E anche qui si sostituisce all' entità la vista logica dello spirito, e quella falsa maniera con cui egli classifica ciò che pensa secondo forme vuote che egli stesso impone alle cose in virtù dei segni verbali, rispetto a' quali è alla stessa condizione ciò che è negativo e ciò che è positivo, giacchè il vocabolo, che è positivo, segna anche il negativo. Affine dunque di strigare la verità dalla rete d' innumerevoli enti di ragione e di concetti fattizi e vani, in cui Hegel di continuo l' avvolge, convien incessantemente disfar la rete tessuta laboriosamente da questo filosofo, distinguendo accuratissimamente gli enti di ragione dagli enti in sè , e distinguendo di più, tra gli enti di ragione, quelli che sono concetti da quelli che sono non7concetti, cioè enti supposti, verbali, e nulla affatto esprimenti se non assurdi. 3 Di poi si dice che « la terza determinazione dell' essere cade nella sezione della qualità ». Ma, propriamente parlando, consistendo questa pretesa determinazione nell' indeterminatezza , conviene più veramente dire che è non7qualità. 4 Si dice ancora che questa indeterminatezza è una determinazione delle altre determinazioni dell' essere. Niente affatto: anzi è la loro negazione. 5 Si confonde l' indeterminatezza coll' immediatità dell' essere. Per immediatità s' intende quel primo logico, onde comincia la scienza. Ora questo primo logico, questo immediato, è certamente l' essere puro senza determinazioni; perocchè le determinazioni vengono appresso come qualità d' un subietto. Ma non è mica vero perciò, che il primo logico nient' altro presenti alla mente che l' indeterminazione; e molto meno ch' egli sia l' immediatezza medesima. L' immediatezza, come abbiamo osservato (1), non può stare da sè: essa è un concetto relativo all' immediato , all' ente quasi a suo subietto; l' immediatezza è un astratto, una relazione dell' ente al mediato, cioè del principio alle conseguenze e deduzioni. Onde non può essere il primo logico . Nè pure, come dicevamo, può costituire il primo logico; l' immediato, come immediato, e non più. Questa parola altro non significa che una relazione con ciò che in ordine alla scienza è mediato; e però suppone che vi sia il soggetto di questa relazione, perocchè ogni relazione suppone un ente di cui sia relazione. L' indeterminazione poi, o l' indeterminatezza, non significando altro che mancanza di determinazione, è un concetto che si riferisce del pari ad un soggetto, a cui l' indeterminazione appartenga, ma di più lascia in dubbio se questo subietto sia un puro ente mentale , o un ente in sè . Perocchè altro non esprimendo la parola indeterminazione se non una mancanza, e non ponendo nulla di positivo, ella può essere applicabile ugualmente al nulla , nel qual caso il suo subietto è un ente mentale , perchè infatti nel nulla non si concepisce determinazione alcuna; e può essere applicata all' essere , il quale si può benissimo concepire dalla mente nostra privo di determinazione. Che anzi l' essere, a cui si riferisce la mancanza di determinazioni, è doppio: perocchè, 1 può intendersi l' essere ideale , nel quale si pensa il puro essere con astrazione da ogni determinazione; e 2 può intendersi l' essere assoluto , Dio, non perchè Iddio sia un essere indeterminato nel senso di vago e comune, ma nel senso che niuna determinazione è in lui distinta da lui stesso, o da altra determinazione; onde non può rinvenirsi in lui determinazioni in senso proprio, come distinte dall' essere e tra loro. 6 E qui si discuoprono facilmente tutte le radici degli errori hegeliani. La fallacia con cui questo sofista inganna i suoi discepoli consiste appunto nell' aver preso per primo logico una qualità invece dell' ente, e fatta passare per ente: qualità che si può applicare a più subietti . Ora avendo presa quella qualità, cioè l' indeterminazione e l' immediatezza (che son due cose che egli confonde pure in una) pel primo logico , e avendola fatta passare per lo stesso subietto, a cui ella appartiene, ed essendo questo moltiplice; ne venne ch' egli potè attribuire a quella qualità tutto ciò che si può attribuire ai diversi soggetti. Quello che è singolare si è, ch' egli stesso confessa di dover trattare del suo essere (l' indeterminazione ed immediatezza) nella sezione della qualità, benchè privo di qualità [...OMISSIS...] . Potendosi adunque l' indeterminazione e l' immediatezza attribuire al nulla ed all' essere; egli ebbe bel gioco a prenderlo ora pel nulla ed ora per essere; ed a conchiudere che l' essere è uguale al nulla! Ognuno che abbia letto le opere di Hegel (se ebbe tanta pazienza) ben sa quant' egli si limi il cervello e il faccia limare a' suoi lettori su questa insigne scoperta che l' essere e il nulla fanno una perfetta equazione (1). Di poi, potendosi l' indeterminazione e l' immediatezza attribuire all' essere ideale; ebbe pure buon gioco a farne uscire tutta la logica e la dialettica pura. Finalmente, potendosi (benchè in altro senso) attribuire a Dio stesso, convertì il suo nulla in Dio; e fece travedere, siccome valente giocolatore, i suoi pazienti uditori, dimostrando che Iddio diventava nulla, e il nulla diventava Dio, quasi direi, a volontà del filosofo, che pone quindi IL DIVENTARE a principio della sua dottrina, quasi punto d' unione tra il nulla e Dio! Egli è manifesto qual governo si debba fare, mediante un tale principio, di Dio, dell' uomo, e dell' Universo, che per un cotale movimento dialettico continuamente si permutano. Non si creda però che a tali delirii tengano dietro molti in Germania, anzi sono di pochi. Anche tra gli scrittori tedeschi ve n' hanno assai, che tolsero ad oppugnare il sistema hegeliano. Vendel, che è uno di questi, lo definisce: « « La pazzia ridotta a teoria » » (1). Il buon principe Costantino di L”wenstein, rapito così giovane alle speranze degli amici, giudica di Hegel con molto senno nel suo saggio postumo di una cristiana filosofia (2). Staudenmeier ne pubblicò più recentemente una confutazione. Lo stesso Calybaeus nella sua « Critica di Hegel » dice: [...OMISSIS...] . Così giudicano tutti i cervelli sani di quella nazione; e se non giudicassero così, povera quella nazione! La sarebbe divenuta un manicomio. Il filosofo francese, più che altri mai promosse lo studio della filosofia in Francia, attinse ad un tempo ai Neoplatonici, e ai recenti filosofi tedeschi. Egli si sforzò di ridurre le categorie di Kant alle due leggi di causa e di sostanza, cui restringe poi ad una sola. Per sè, al suo parere, la sostanza è la causa in quanto esiste, e la causa è la sostanza in quanto opera: sicchè sostanza e causa differiscono come due rispetti sotto cui si considera la stessa cosa. Perocchè, dice egli, le idee di tempo e di spazio, di quantità, di qualità, di relazione e di modalità, si riducono alle due idee di ciò che è e di ciò che opera. La quale teoria pecca, perchè si scosta grandemente da ciò che dà l' osservazione della cosa in sè stessa, che è riconosciuta dal signor Cousin per la guida fedele del filosofo. E veramente l' attenta osservazione della cosa ci dimostra che nè l' idea di spazio, nè quella di tempo, si può ridurre menomamente a idee di sostanza e di causa; come nè tampoco vi si possono ridurre le altre quattro idee annoverate. Perocchè la quantità e la qualità non sono sostanze, ma modi di alcune sostanze, non di tutte (la sostanza assoluta, cioè Dio, non avendo nè quantità, nè qualità, a propriamente parlare), la relazione poi altro non essendo che un' idea astratta, la quale abbraccia tutti i rispetti ne' quali la mente contempla le cose, sieno sostanze, o idee, o che altro. La modalità finalmente nel senso kantiano è una cotal relazione delle idee fra di loro, e però non si può ridurre, nè pur essa, alle idee di sostanza o di causa. Il signor Cousin adunque non procede in questo colla maturità d' un filosofo; precipita delle conclusioni senza usare la necessaria pazienza ad osservare accuratamente quali sieno le differenze tra il concetto di sostanza e i concetti delle categorie kantiane, le quali differenze sono immense, e tali che in nessun modo questa si lascia ridurre a quella. In secondo luogo nei concetti di sostanza e di causa non si contengono i concetti dei modi delle sostanze: e però quei due concetti non abbracciano tutto ciò che si può concepire; e però non possono essere vere categorie. Converrebbe aggiungervi la categoria dei modi; dividendosi l' ente in sostanza e modi della sostanza. Ma la divisione non quadrerebbe meglio, perocchè in nessuna di queste due categorie si potrebbe collocare l' Essere Supremo: non nella categoria di sostanza in opposizione a' suoi modi, perocchè la natura divina è superiore alla sostanza, e accuratamente si dee chiamare soprasostanza [...OMISSIS...] , come vedremo: molto meno nelle categorie dei modi in opposizione alla sostanza; perocchè in Dio non v' hanno modi realmente distinti dalla sostanza medesima. In terzo luogo è un errore fondamentale il dire che tra il concetto di sostanza e quello di causa non passa reale differenza. Il quale errore dimostra nuovamente un difetto di accurata osservazione del fatto come stanno queste cose. La quale osservazione ci dà, che la sostanza è il principio, il soggetto, e, se si vuole, anche la causa degli accidenti, ma solo degli accidenti; i quali rimangono in essa, come termini inerenti all' atto suo: laddove il concetto di causa s' estende di più a significare un' energia che produce effetti separati affatto da sè, effetti che nè rimangono in esso, nè sono suoi modi; che non hanno lui per soggetto; e sono o un' altra sostanza o modi d' un' altra sostanza (1). Pretende dunque questo filosofo di ridurre ad unità le categorie di Kant, cioè all' idea di sostanza ch' egli identifica con quella di causa: il che non è veramente uno sciogliere il problema delle categorie, ma un distruggerlo. Conciossiacchè le categorie sono perite quando ad una fosser ridotte; giacchè con quel problema si cerca appunto di classificare le varietà degli enti; e il ridurre queste varietà ad una è un negare ogni varietà, negare il fatto della varietà. Convien dunque dire che non si possono ridurre tutte le categorie alla sostanza, e per lo meno i modi non sono contenuti nell' idea di sostanza, e però debbono formare una classe a parte, come dicevamo. E veramente lo stesso Cousin viene poi a classificare i modi delle sostanze, dove ragiona della sostanza per sè: di Dio. Ma disavvedutamente avviluppandosi in questo ragionamento incappa in più errori. Poichè primieramente suppone che le idee di Dio sieno i modi di Dio, cosa assurdissima: conciossiacchè non v' ha in Dio altre idee realmente distinte che il Verbo divino; e il Verbo è la stessa natura, e, se si vuole usare la parola sostanza , la stessa sostanza divina, che giova meglio dirsi sovrasostanza. Quanto poi al Verbo, qualora piacesse di chiamarlo un modo in cui Dio è, non dovrebbe in ogni caso dirsi che egli è un modo della sostanza divina o sovrasostanza, ma piuttosto ch' egli è un modo dell' essere Divino, un modo in cui l' essere divino E`: il che è pur tutt' altro. Poichè il modo dell' essere non è un accidente, laddove il modo della sostanza è un accidente. Venendo adunque il Cousin a classificare i modi, ossia le idee divine, egli così ragiona: [...OMISSIS...] . Ma, chi esamina con diligenza quel ragionamento, il trova vacillante; perocchè, lungi che i suoi passi sien posti con sicurezza, cioè che sia provato tutto ciò che s' ammette in esso, anzi vi si introducono assai cose di furto affatto gratuite. Lascio l' errore accennato di chiamare le idee modi di Dio, ed osservo: 1 Questa proposizione: « Iddio possiede l' idea dell' unità », ecc., suppone almeno tre cose: a ) il possidente; b ) l' idea dell' unità; c ) e la possessione o il nesso tra il possidente e l' idea. Convien dunque dire in che l' idea posseduta differisca dal possidente, e la possessione dall' uno e dall' altra: perocchè, se queste cose non differiscono in nulla, quella proposizione non avrebbe alcun senso. 2 Se l' idea dell' infinito, e l' idea del finito, e quella della relazione sono tre idee diverse in Dio, dunque vi debbono avere tre atti di possessione; e rimane a stabilire come questi tre atti di possessione differiscano dalle idee di Dio, e da Dio stesso, per la ragione medesima. Se poi differiscono, già i modi di Dio non sono più tre (le tre idee), ma per lo meno sei: perocchè oltre le tre idee vi hanno i tre atti di possessione. 3 Egli è falso che l' idea di unità e l' idea d' infinito sieno la medesima idea, perocchè ogni ente anche finito è necessariamente uno. 4 E` falso ancora, che l' idea di varietà contenga necessariamente l' idea di finitezza e di limitazione. Così le persone divine variano o piuttosto diversano fra loro; ma questa diversità non arreca perciò l' idea di cosa alcuna finita. Solo nelle cose umane la varietà è segno di limitazione, perchè in ogni variazione non si ripete tutto l' ente, che varia; laddove in Dio, in ogni persona si ripete tutta affatto la sostanza divina senza pluralizzarsi . Onde la varietà che è in Dio, non induce niuna cosa che sia finita, niuna idea di limitazione. 5 L' idea di uno e di vario e di relazione sono idee astratte, onde non possono essere in Dio distinte come vengono significate dalle parole, nè l' idea di uno può essere lo stesso che la cognizione che Iddio ha di sè come conoscente, giacchè l' uno può esser applicato a qualsivoglia sostrato; come nè pure l' idea di vario può essere la cognizione che Iddio ha di sè come conoscente e come cognito, perchè la varietà s' applica egualmente a qualsivoglia pluralità. Lo stesso dicasi dell' idea di relazione. Queste idee adunque non possono essere i modi di Dio, nè si possono dedurre sol dicendo che Iddio conosce i suoi modi. 6 Le idee astratte, ossia generiche, suppongono avanti di sè le idee specifiche, ossia meramente universali, come queste suppongono innanzi di sè le percezioni delle cose a cui si riferiscono. Se dunque si pone in Dio l' idea dell' uno come suo modo, forz' è che prima dell' idea astratta e generica dell' uno, vi sia l' idea d' un Dio uno; e innanzi questa, la percezione di sè stesso: e così i modi e le idee di Dio si moltiplicano grandemente sopra il numero tre a cui le restringe con tanto arbitrio il sig. Cousin. Somigliantemente l' idea di varietà non si può ammettere in Dio, se non si suppongono molte altre idee e percezioni a quelle precedenti, di cui quella è un astratto molto elevato. Primieramente l' idea di varietà suppone quella di numero egualmente astratta, ma che contiene meno dell' idea di varietà, perchè il numero suppone più unità non varie, anzi uguali. Di poi, l' idea del numero in genere suppone i numeri in ispecie, cioè il due, il tre, il quattro e così all' infinito. Onde tutte queste idee debbono essere in Dio, perchè supposte dall' idea di varietà, e non contenute in essa, ma sì contenenti l' idea di numero. Di che un' altra difficoltà egualmente insuperabile nel sistema Cousiniano, che queste idee specifiche de' numeri dovrebbero essere attualmente infinite in Dio, se fossero suoi modi distinti, perchè a' numeri non si può assegnare alcun confine. Ora un numero di idee infinite, è contraddizione, supponendosi giunto all' infinito il numero: il quale, se vi fosse giunto, non potrebbe più oltre procedere, contro l' intima natura del numero che esige che si possa sempre aumentare d' una unità. Di più, anche il numero specifico è un' astrazione che suppone le entità da cui si astrae e le percezioni di esse. Se si dovesse dunque dedurre le idee divine come fa il Cousin, converrebbe prima supporre che Iddio percepisse sè stesso; poi, che rifletta su di sè stesso e si percepisca di nuovo in due modi, come percipiente e come cognito; poscia, che da questa doppia percezione riflessa astragga il numero due, e dal due gli altri numeri, e da questi il numero in genere, e quindi l' idea di varietà, il che porrebbe, se non successione in Dio e generazione d' idee, almeno più atti distinti, e quasi facoltà, e però di nuovo una moltitudine infinita di modi: cose tutte ripugnanti e distruggenti il sistema stesso di Cousin che pretende trovare in Dio tre modi, ossia tre idee e non più (1). 7 Le stesse riflessioni si debbono fare rispetto alla terza idea di relazione, pure astratta anch' essa, sicchè ne suppone altre ed altre dinanzi da sè. Onde per ogni verso apparisce quanto vacilli il fondamento della filosofia Cousiniana. E tuttavia il nostro filosofo si compiace assai nell' applicare questo giochetto d' astrazione al mondo quasi rappresentazione di Dio, perchè contenente in esso unità, varietà e relazioni tra l' unità e la varietà. Il concetto potrebbe avere qualche valore, se non fosse adoperato fuori di luogo, e non occorresse, nell' uso ch' egli ne fa, una continua confusione tra l' idea e il reale. L' idea di unità e d' infinito, dice, come è il modo necessario di Dio, così è il modo necessario del mondo. Ma, lasciando che il mondo può esser uno e tuttavia esser finito (e certo egli è finito da molti lati), chi dirà mai che il modo dell' essere del mondo sia un' idea? Un' idea è ella una sostanza sussistente e reale? Quando ciò fosse, l' idea del mondo sarebbe il mondo: di che nulla di più assurdo e contrario al buon senso. Si confonde adunque l' idea di unità coll' ente reale, conosciuto bensì coll' idea, ma sussistente in un modo al tutto diverso dall' idea. Lo stesso si dica delle altre due idee, che non sono certamente il mondo nè modi di esso: perocchè il mondo è un complesso di singoli reali, i quali hanno de' vincoli d' azione e di passioni reali tra loro; e la varietà non esiste propriamente come tale, cioè come idea di varietà nel mondo, ma nella mente: la quale, riferendo il mondo a tale idea, il conosce, nol crea. Lo stesso dicasi della relazione come tale, cioè come astratto della mente: che non è punto il mondo, nè è nel mondo reale, ma nel mondo già dalla mente conosciuto. Cousin applica la sua formula a tutte le scienze: all' astronomia, alla chimica, alla fisiologia vegetabile ed animale, alla geografia, alle scienze che riguardano l' umanità, ecc.; e da per tutto trova senza difficoltà l' uno e il vario, e la relazione fra l' uno e il vario, applicazione sterile di risultamenti: perocchè non solo queste idee astratte si possono riscontrare realizzate negli enti, ma molte altre, ed anzi tutte quelle che noi chiamiamo idee elementari dell' essere (1), e molte volte queste idee elementari presentano una trinità degna di considerazione, ma tutt' altro che unica. Così in ogni ente si può riscontrare realizzate le idee di principio, di mezzo e di fine. Sant' Agostino acutamente osserva che in ogni ente non manca un cotal vestigio di trinità, avendovi l' essere, la specie (o forma) e l' ordine (2): altrove trovò in ogni ente il modo, la specie e l' ordine (3); e S. Tommaso (4) riduce a questi tre il numero, il peso e la misura, secondo cui la Scrittura dice esser fatte tutte le cose (5). Ma la questione, se in tutti gli enti v' abbiano de' vestigi di trinità, è per intero diversa da quella delle categorie; e l' avervi de' vestigi, non è l' avervi in esse la stessa trinità, molto meno è l' avervi nelle cose le tre idee Cousiniane: essendo certo che nelle cose non si hanno idee, se non nel sistema dei Panteisti, come sarebbe nel sistema di Vincenzo Gioberti che dice: « « ogni cosa è un' idea »(6) ». D' altra parte il Cousin, affine di trovare le sue tre idee (che non sono poi tre sole, come dicemmo) in tutte le cose, è obbligato ricorrere a quelle stiracchiature che potrebbero andar bene inserite nelle tavole mnemoniche de' Lullisti, ma che nel secolo nostro non possono far fortuna. Così egli trova nell' attrazione universale l' idea di unità e d' infinito. Per l' unità passi: benchè ivi non vi abbia unità, ma tendenza all' unione della materia senza che mai si unifichi penetrandosi; ma quant' all' idea d' infinito, dove sta ella nell' attrazione, se anzi la materia coll' attrazione tende a restringersi e limitarsi entro una sfera minore? Vuol poi trovare l' idea di varietà e di limitazione nell' espansione della materia. Fatica inutile anche qui, perchè la materia, o che si restringa, o che s' espanda, è sempre varia egualmente ed egualmente finita. Altre molte applicazioni, ch' egli fa delle sue tre idee fondamentali, non sono più felici di questa. Finalmente osserveremo, che l' uno, il vario, ed il loro nesso posto dall' autore dell' eclettismo francese, come le tre idee supreme, a cui tutte le altre si riducono, sono un cotal riflesso dell' eclettismo alessandrino imperfettamente riprodotto.

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