Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbandonandosi

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PROFUMO

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Capuana, Luigi 2 occorrenze

Patrizio guardava giù, attorno, lontano, abbandonandosi a quella specie di momentaneo oblio da lui ricer- cato, lasciandosi penetrare tutto dalla solenne malinconia delle cose al cader della sera, che su quella cima di rupe, con la campagna che si scuriva là sotto, e fuggiva fino al mare, digradante di forma e di colore, riusciva più solenne. Si scosse, e tirò il cordone della campana che pendeva fuori della porta del camposanto. "Ah, voscenza!" disse il custode, salutandolo. "Credevo che questa sera non venisse." E Patrizio ebbe una stretta al cuore, quasi il rimprovero gli arrivasse dalla tomba della sua povera mamma.

Seduto al tavolino, con dinanzi le lunghe liste di cifre da rivedere, da addizionare, da riportare nei diversi registri che lo ingombravano, egli, lavoratore assiduo e paziente, si distraeva di tratto in tratto, abbandonandosi a rimuginare inces- santemente la tormentosa interrogazione che da parecchi giorni lo assaliva all'improvviso: "Perché è cambiata? Che cosa accade nel suo cuore?" Ora udiva di rado l'allegro e sommesso canticchiare di lei, che dall'uscio socchiuso s'insinuava nello studio quasi per dirgli: "Bada: sono qui e penso a te! Dimentica un po' coteste brutte cartacce. Vieni a darmi un bacio!". Non levava gli occhi dai registri, non interrompeva il lesto calcolo delle cifre; sentiva però un delicato piacere a quel mormorio di voce femminile che gli aleggiava attorno e gli penetrava nel più profondo del cuore. E se alzava la testa per trovare una certa lettera alfabetica sul dorso dei volumi in-folio del catasto, allineati nei rozzi scaffali lungo le quattro pareti della cella, andava difilato a prendere il volume occorrente, senza cedere alla tentazione di affacciarsi nella camera dove Eugenia canticchiava lavorando presso la finestra, in quei felici primi mesi dell'insediamento nell'ufficio di Marzallo. Bei giorni! Sovente ella spingeva, zitta zitta, tra i battenti dell'uscio la testina con capelli neri e lucidi, lievemente ondulati; e re- stava là qualche istante a guardarlo in silenzio, finché non le diceva, sorridendo: "Ti ho sentita!" "Guardami dunque!" Egli continuava il suo lavoro, scrivendo una cifra qua, un'altra là, consultando qualche foglio, svoltando una pagina, e poi rispondeva: "Ecco, ti guardo!" Eugenia gli faceva un rapido saluto con la mano e spariva. Bei giorni! Qualche volta ella picchiava all'uscio: "Vuoi un sorso di caffè?" "Grazie; più tardi." "Si fredderà." "Non sarà gran male." Eugenia, tenendo in mano la tazzina fumante, sospingeva l'uscio con gesto di fanciullesco dispetto, ed entrava don- dolando graziosamente la testa, facendo una smorfiettina con le labbra: "Non deve freddarsi ... Oh, non fare il cipiglio! Vado via subito." "Qui si viene soltanto per affari" le diceva, scherzando, nel restituire la tazzina vuota. "Grazie. Questa volta, passi!" E riprendeva a lavorare, brontolando rapidamente le cifre, seguendone le filze con la mano che teneva la penna, con- tinuando l'operazione quasi non l'avesse punto interrotta; ma più svelto, ma con qualcosa che gli sorrideva internamente e gli rendeva gioconde fin le cifre. Ora non più! Quel sommesso gorgheggio femminile era cessato; quelle gentili apparizioni d'un istante interrompevano assai ra- ramente la monotonia del suo arido lavoro. I capricci delle scappatelle in fondo ai corridoi fuori mano, o nella selva, o sulla terrazza, in diverse ore del giorno, specie a sera inoltrata, nelle serate di luna piena, o nella tiepida oscurità protet- trice delle notti estive senza luna; quei capricci, che tante volte lo avevano conturbato perché gli era parso rivelassero in Eugenia un che di malsano e sensuale, da cui veniva urtata la sua rigida idealità; ora che ella restava volentieri sola, in camera o in salotto, anche senza essere occupata in uno dei soliti lavorini di cucito e d'uncinetto, quei capricci egli già cominciava a rimpiangerli, quantunque tuttavia non lo confessasse apertamente a se stesso. Fin i contrasti, le lotte per attutire o infrenare l'irritazione di lei a proposito del contegno della suocera; gli scoppi di pianto e gli accessi nervosi, sopravvenuti a sconvolgere la tranquillità della sua vita e ad atterrirlo per l'avvenire; fin questi talvolta gli sembravano preferibili a quella nuova fase d'indifferenza che gli dava viva inquietudine. "Cosa strana!" pensava. Non avea sempre desiderato che fosse così, per quel gran bisogno di riposo che egli provava dopo le tante fiere agitazioni e i tanti profon- di dolori della sua misera giovinezza? Perché dunque si sentiva preso da malessere, osservando che, col decrescere della malattia di Eugenia, il carattere di lei veniva appunto conformandosi all'idea che egli s'era fatta di un'inalterabile felicità domestica, di una esistenza isolata e quasi fuori del mondo? "È cambiata? Che cosa accade nel suo cuore?" Non aveva proprio desiderato questo, no, mai! E perciò scrollava la testa e si passava la mano su la fronte per scac- ciar via l'irritante pensiero. "È assurdo! È impossibile!" Riprese a lavorare, assorbendosi nei calcoli numerici. Intanto, a dispetto dell'attenzione richiesta dalle operazioni a- ritmetiche, la dolorosa domanda gli insisteva, gli insisteva tuttavia dentro il cervello. Si levò dal tavolino, andò di là, nella stanza dove i commessi lavoravano o fingevano di lavorare, come egli soleva benignamente rimproverarli, e parve volesse sfogare contro di essi il malumore. I commessi si guardarono negli occhi, meravigliati. "Quest'Agente è una dama!" dicevano spesso tra loro. "Una dama a dirittura." E nei rari momenti di severità, si borbottavano da un tavolino all'altro: "Cattivo tempo!" "Tramontana!" "Scirocco!" Poco dopo, nella stanza si sentì soltanto lo stridere delle loro penne su per le colonne degli stampati e sui fogli di carta bollata dei certificati catastali, mentre Patrizio andava da un tavolino all'altro esaminando una registrazione, ri- scontrando una cifra, rimproverando Ciancio per una cassatura, Griffo per una omissione, Zuccaro per l'eccessiva len- tezza di una copia. "Cattivo tempo!" "Tramontana!" "Scirocco!" I commessi si ammiccavano, facendo versacci.

CENERE

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Deledda, Grazia 1 occorrenze

Anania aveva soggezione del padre, e non osava mai guardarlo negli occhi; ma una volta spinto nella via dei ricordi chiacchierava volentieri, abbandonandosi al piacere nostalgico di raccontare tante cose passate. Ricordava tutto; Fonni, la casa e i racconti della vedova, il buon Zuanne dalle grandi orecchie, i carabinieri, i frati, il cortile del convento, le castagne, le capre, le montagne, la fabbrica dei ceri. Ma parlava pochissimo di sua madre, mentre il mugnaio lo tirava sempre su quell'argomento. «Ebbene, ti bastonava tua madre?» «Mai, mai!», protestava Anania. «Io so invece che ti bastonava.» «Possiate vedermi senza occhi, se è vero!», spergiurava il ragazzetto. «E dimmi ... che cosa faceva essa?» «Lavorava sempre ... » «È vero che un carabiniere la voleva in isposa?» «Non è vero! Essi i carabinieri, mi dicevano: "Di' a tua madre che venga; abbiamo da parlarle ... ".» «Ed essa?», chiedeva un po' ansioso il mugnaio. «Ah, essa si arrabbiava come un cane!» «Ah!» Il mugnaio sospirava: provava un senso di sollievo nel sentire che ella non andava dai carabinieri. Ebbene, sì; egli le voleva ancora bene, egli ricordava con tenerezza gli occhi chiari e ardenti di lei, ricordava i fratellini, il povero e sofferente cantoniere; ma che poteva farci? Se fosse stato libero l'avrebbe certamente sposata; invece aveva dovuto abbandonarla: adesso tornava inutile pensarci. «Va», diceva ad Anania, finito il pasto frugale; «là dove c'è quel fico, vedi, c'era una casa antichissima. Va e fruga per terra, chissà che tu trovi qualche cosa.» Il fanciullo partiva di corsa, mentre il padre pensava: «Le anime innocenti trovano più facilmente i tesori. Se trovassimo qualche cosa! Passerei un tanto ad Olì, e, morta mia moglie, la sposerei. Dopo tutto sono stato io il primo ad ingannarla». Ma Anania non trovava niente. Verso sera padre e figlio tornavano lentamente in paese, attraversando lo stradale chiaro nei cui sfondi ardeva il crepuscolo d'oro. Zia Tatàna li aspettava con la cena pronta ed il fuoco cigolante nel focolare pulito. Ella soffiava il naso al piccolo Anania, gli puliva gli occhi, narrava al marito gli avvenimenti della giornata. Nanna l'ubriacona era caduta sul fuoco, Efes Cau aveva un paio di scarpe nuove, zio Pera aveva bastonato un bambino; il signor Carboni era stato al molino per vedere il cavallo. «Dice che è orribilmente dimagrato.» «Diavolo, ha lavorato tanto: cosa vuole il padrone? Anche le bestie son di carne e d'ossa.» Dopo cena il mugnaio andava alla bettola, perfettamente dimentico di Olì e delle sue avventure; e zia Tatàna filava e raccontava una fiaba al suo figlio d'adozione, qualche volta assisteva anche Bustianeddu. «"Dicono che una volta c'era un re con sette occhi d'oro in fronte che sembravano sette stelle."» Oppure la fiaba dell'Orco e di Mariedda. Mariedda era fuggita dalla casa dell'Orco: «" ... Ella fuggiva, fuggiva, gittando dei chiodi che si moltiplicavano, si moltiplicavano, coprivano tutta la pianura. Zio Orco la inseguiva, la inseguiva, ma non riusciva a prenderla perché i chiodi gli foravano i piedi ... "» Dio, Dio, che brivido di piacere destava nei bimbi la fuga di Mariedda! Che differenza fra la cucina, la figura e i racconti della vedova di Fonni, e la cucina pulita e calda e la figura soave e le storielle meravigliose di zia Tatàna! Eppure qualche volta Anania si annoiava, o almeno non provava l'emozione fremente che i racconti della vedova gli avevano un tempo destato; forse perché al posto del buon Zuanne, del fratellino amato, c'era Bustianeddu cattivo e maligno, che gli dava dei pizzicotti e lo chiamava spia e bastardo anche davanti alla gente e nonostante gli ammonimenti di zia Tatàna. Una sera lo chiamò bastardo davanti a Margherita Carboni, che assieme con la serva era venuta per una commissione in casa del mugnaio. Zia Tatàna gli si gettò sopra e gli turò la bocca, ma troppo tardi. Ella aveva udito, ed Anania provò un dolore indicibile, non raddolcito neppure dal pezzo di pane intinto nel miele che zia Tatàna diede a lui ed a Margherita. A Bustianeddu niente. Ma che cosa era un pezzo di pane intinto nel miele dopo la profonda amarezza di sentirsi chiamato bastardo davanti a Margherita Carboni? Ella era vestita di verde, con calze violette ed aveva intorno al capo una sciarpa di lana rossa che coloriva ancor più le sue guancie paffute e faceva risaltare l'azzurro degli occhi lucenti. Quella notte Anania la sognò così, bella e colorita come l'arcobaleno, ed anche nel sogno provava il dolore d'essere stato chiamato bastardo davanti a lei. Nella Settimana Santa, però, - quell'anno la Pasqua ricorreva agli ultimi d'aprile, - il mugnaio compié il precetto pasquale ed il confessore gli impose di riconoscere legalmente il figliuolo. Nello stesso tempo Anania, che compiva gli otto anni, venne cresimato: padrino il signor Carboni. Fu un grande avvenimento per il ragazzo e per la città tutta che s'era data convegno nella cattedrale, ove Monsignor Demartis, il bel vescovo imponente, impartiva la cresima a centinaia di fanciulletti. Per le porte spalancate, che ad Anania parevano grandissime, la primavera con la sua viva luce e il suo tepore fragrante penetrava nella chiesa gremita di donne dai costumi di porpora, di signore, di bimbi lieti. Il signor Carboni, grosso, rosso in viso, con gli occhi azzurri e i capelli rossicci, col gilè di terziopelo attraversato da una enorme catena d'oro, veniva salutato, riverito, ricercato dai personaggi più cospicui, dai paesani e dalle paesane, dalle signore e dai bimbi che gremivano la chiesa, Anania si sentiva altero e felice di tanto padrino; è vero che il signor Carboni doveva cresimare altri diciassette bambini; ma ciò non toglieva importanza al singolo onore di tutti i diciotto figliocci. Dopo la cerimonia questi diciotto figliocci, coi rispettivi parenti, accompagnarono a casa il padrino, ed Anania poté ammirare la sala di Margherita, di cui aveva sentito dir mirabilia, - una vasta stanza tappezzata di carta rossa, con seggioloni del secolo scorso e cassettoni ornati di fiori artificiali sotto lampade di cristallo, nonché di alzatine con frutta di marmo e piattini con fette di salame e di cacio pure di marmo. Furon serviti liquori, caffè, biscotti e amaretti; e la bella signora Carboni, che aveva due profonde fossette sulle guancie e i capelli neri tirati tirati sulle tempie, graziosamente adorna d'un vestito da camera, d'indiana a quadretti azzurri e rossi, con volante e merletto in fondo, fu amabile con tutti e baciò i bimbi consegnando a ciascuno di loro un involtino. Lungamente Anania ricordò questi particolari. Ricordò che invano aveva ardentemente desiderato che Margherita entrasse nella sala e notasse il suo costumino nuovo, di fustagno gialliccio, duro come la pelle del diavolo, e ricordò che la signora Cicita Carboni, baciandolo e battendogli lievemente la mano inanellata sulla testina orribilmente rasa, aveva detto al mugnaio: «Ah, compare, perché l'avete conciato così? Sembra calvo ... ». «Lasciate, comare», aveva risposto Anania grande, secondando il benevolo scherzo della signora, «la testa di questo buon pulcino sembrava un bosco ... » «Ebbene», riprese la signora, «avete dunque fatto il vostro dovere?» «Fatto! Fatto!» «Me ne rallegro. Credete pure, solo i figli legittimi sono il sostegno dei padri nella vecchiaia.» Poi s'avvicinò il signor Carboni. «Che occhi indiavolati ha questo montanaro!», disse, guardando il bimbo negli occhi. «Ebbene, perché li abbassi? Ridi? Ah, diavoletto ... » Anania rideva di gioia nel vedersi osservato dal padrino, e guardato con affetto dalla signora Carboni. «Che cosa diventerai, diavoletto?» Egli abbassava e sollevava gli occhi lucenti (che le cure di zia Tatàna avevano guarito perfettamente), e cercava di nascondersi dietro del padre. «Dunque, rispondi al padrino!», esclamò il mugnaio scuotendolo. «Che cosa ti farai, diavoletto?» «Mugnaio?», chiese la signora. Egli accennò di no, di no. «Ah, non ti piace? Contadino?» No, e sempre no. «Ebbene, vuoi studiare?», chiese astutamente il mugnaio. «Sì.» «Ah, bravo!», disse il signor Carboni, «tu vuoi studiare? ti farai prete?» «Ancora no.» «Avvocato?», chiese il mugnaio. «Sì.» «Diavolo! Diavolo! Lo dicevo io che ha gli occhi vivi! Vuol farsi avvocato il piccolo topo!» «Ah, caro mio, siamo poveri», osservò sospirando il mugnaio. «Se il bimbo ha voglia di studiare la provvidenza non mancherà», disse il padrone. «Non mancherà!», ripeté come eco la padrona, queste parole decisero il destino di Anania: ed egli non le dimenticò mai più. Il frantoio venne definitivamente chiuso, - per quell'anno, - ed il mugnaio si trasformò del tutto in contadino. Una primavera ardente ingialliva già le campagne; le vespe e le api ronzavano intorno alla casetta di zia Tatàna; il grande sambuco del cortiletto coprivasi di un meraviglioso merletto di fiori giallognoli. Nel cortile d'Anania conveniva quasi sempre tutti i giorni la compagnia che già usava riunirsi nel molino: zio Pera col randello, Efes e Nanna costantemente ubriachi, il bel calzolaio Carchide, Bustianeddu ed il padre, nonché altre persone del vicinato. Inoltre Maestro Pane aveva messo su bottega in un bugigattolo in faccia al cortiletto; tutto il santo giorno era un viavai di gente che rideva, gridava, s'insultava, diceva male parole. Il piccolo Anania passava le sue giornate fra questa gente meschina e violenta, dalla quale apprendeva atti e parole sconcie, abituandosi allo spettacolo dell'ubriachezza e della miseria incosciente. A fianco della bottega di Maestro Pane, in un altro bugigattolo nero di fuliggine e di ragnatele, marciva una misera ragazzetta inferma, del cui padre, partito per lavorare in una miniera africana, non s'era saputo più nulla: l'infelice creatura, soprannominata Rebecca, viveva sola, abbandonata, piagata, su una stuoia lurida, fra nugoli d'insetti e di mosche. Più in là abitava una vedova con cinque bambini che mendicavano; lo stesso Maestro Pane chiedeva spesso l'elemosina. Con tutto ciò la gente era allegra: i cinque bimbi mendicanti ridevano sempre, Maestro Pane parlava con se stesso ad alta voce, raccontandosi storielle amene e ricordandosi fatti allegri della sua gioventù. Solo nei meriggi luminosissimi, quando il vicinato taceva e le vespe ronzavano tra i fiori del sambuco, conciliando il sonno al piccolo Anania coricato supino sul limitare della porta, vibrava nel silenzio caldo il lamento acuto di Rebecca, che saliva, si spandeva, si spezzava, ricominciava, slanciavasi in alto, sprofondavasi sotterra, e per così dire pareva trafiggesse il silenzio con un getto di freccie sibilanti. In quel lamento era tutto il dolore, il male, la miseria, l'abbandono, lo spasimo non ascoltato del luogo e delle persone; era la voce stessa delle cose, il lamento delle pietre che cadevano ad una ad una dai muri neri delle casette preistoriche, dei tetti che si sfasciavano, delle scalette esterne e dei poggiuoli di legno tarlato che minacciavano rovina, delle euforbie che crescevano nelle straducole rocciose, delle gramigne che coprivano i muri, della gente che non mangiava, delle donne che non avevano vesti, degli uomini che si ubriacavano per stordirsi e che bastonavano le donne ed i fanciulli e le bestie perché non potevano percuotere il destino, delle malattie non curate, della miseria accettata incoscientemente come la vita stessa. Ma chi ci badava? Lo stesso piccolo Anania, coricato supino sul limitare della porta, scacciava le mosche e le vespe agitando un fiore di sambuco, e pensava istintivamente: «Uh! Perché grida sempre quella lì? Cosa la fa gridare? Non ci devono essere gli ammalati nel mondo?». Egli s'era fatto tondo tondo, ingrassato dai cibi abbondanti, dal dolce far niente, e sopratutto dal sonno. Dormiva sempre. Ed anche nei meriggi silenziosi, nonostante il grido continuo di Rebecca, egli finiva con l'addormentarsi, col fior di sambuco nella manina rossa, e il naso coperto di mosche. E sognava di trovarsi ancora lassù, nella casa della vedova, nella cucina vigilata dal gabbano nero che pareva un fantasma appiccato: ma sua madre non c'era più, era fuggita, lontano, in una terra ignota. Ed un frate veniva dal convento, ed insegnava a leggere e scrivere al piccolo abbandonato, che voleva studiare per mettersi in viaggio alla ricerca di sua madre. Il frate parlava, ma Anania non riusciva a sentirlo, perché dal gabbano usciva un lamento acuto e straziante che assordava. Dio mio, che paura! Era la voce dello spirito del bandito morto. Ed oltre alla paura, Anania provava un gran fastidio al naso ed agli occhi. Erano le mosche.

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