Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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CAINO E ABELE

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Perodi, Emma 1 occorrenze

Pareva che le dame, abbandonandolo, avessero portato seco la serenità, che si leggeva sul volto al giovine duca, e allorché egli guidò i cavalli sotto il sontuoso peristilio marmoreo del bei palazzo di via Veneto, cui sovrastano gli scuri lecci e i piumati palmizii, aveva l'aspetto di un uomo sotto il colpo di una sventura. Nonostante, appena ebbe gettato le briglie a uno degli staffieri e fu sceso dallo stage-coach domandò al cameriere, che gli apriva l'invetriata, se era tutto pronto pel pranzo. Il cameriere rispose : Gli ordini di Vostra Eccellenza sono stati eseguiti. Ebbene, dite al Karl che venga a vestirmi, perché gl'invitati saranno qui fra un'ora. Eccellenza, - riprese il cameriere, - da molto tempo v'è un signore che attende. Vi ha detto il suo nome? No, ha detto soltanto di esser giunto di Sicilia per un affare di somma importanza, e di dover ripartir domani. Per questo ha atteso. Il volto di don Franco si rabbuiò ancor più a quella notizia e domandò al servo con voce tremante: Dov'è quel signore? Nel salotto nero, Eccellenza. Il duca d'Astura traversò una fila di sale, e giunto in un salotto addobbato con mobili di raso nero, dalle pareti coperte di specchi, su cui un artista di gusto aveva dipinto foglie di felce e rose canine, ristette un momento prima d'alzare la portiera. Anche là, in quell'isola lontana, dev'essere giunta la fatale notizia! - esclamò a bassa voce. - Che tutti lo sapessero non m'importava, ma lui! Nonostante si fece animo, e con passo risoluto entrò nel salotto, ma quando vide il visitatore, si fermò di nuovo, e con voce quasi rabbiosa, disse: Roberto! Ah! Franco mio! - esclamò l'altro andandoci incontro e gettandogli le braccia al collo. I due fratelli si abbracciarono, ma mentre sul viso di Roberto si leggeva la gioia sincera di riveder Franco, nell'espressione della fisonomia del duca vi era una contrazione di dispetto. Come mai sei venuto a Roma dopo tanti anni di assenza? - domandò Franco a Roberto. Se me lo domandi, - rispose l'altro, - vuoi dire che le notizie giunte fino a me, nella solitudine di Selinunte, sono false, e io sono ben lieto che sia così. - E quali notizie mai ti sono giunte per indurti a intraprendere questo viaggio? - domandò a denti stretti il duca. Dal momento che non sono vere, che la tua presenza a Roma, la tua non interrotta vita elegante di gran signore ricco le smentisce, permettimi di non comunicartele, - disse Roberto con voce giuliva. - Ti confesso che ho fatto un viaggio orribile, torturato dal peso di atroci pensieri, ma ora che ti vedo, che ti sento parlare, io sono consolato e godo tanto tanto di riabbracciarti. Roberto, che all'aspetto non somigliava punto al fratello, era espansivo nei modi e aveva nella voce quella intonazione appassionata, propria degli uomini sinceri e buoni, che sentono profondamente gli affetti e hanno il cuore sulle labbra. Dunque, - rispose il duca freddamente, gingillandosi con gli anelli preziosi, che gli ornavano le ultime due dita della sinistra, - tu avevi traversato il mare per assistere al mio funerale? No, Franco; ero venuto per mostrarti che ti volevo bene e per salvarti. Un riso stridente uscì dalle pallide labbra del duca d'Astura. In quanto a salvarmi, mio caro Roberto, è cosa impossibile; la mia rovina è completa, ma se vuoi assistere al funerale, padrone. Dunque è vero? - esclamò Roberto impallidendo. Dunque è vero quello che dicevano velatamente i giornali? È tutto vero, - disse Franco. - Anche io ero partito da Roma con la ferma intenzione d'imbarcarmi per l'America. Sono tornato, non perché mi fosse balenata alla mente una speranza; ma solo perché non si va in America senza essere corazzati contro la miseria e vogliosi di lavorare. Allora ho detto a me stesso che dal momento che non mi rimaneva altro rifugio che la morte, era meglio morire nel mio palazzo, ed eccomi qui. Ma, Franco, tu non devi morire! Lo dici tu, perché nonostante i miei torti, serbi per me indulgenza e affetto; ma che cosa vuoi che faccia? Siamo al 25, vedi; fra otto giorni, cioè il primo di giugno, scadono milioni di cambiali, milioni, sai, e io non ho neppur da pagare gl'interessi. Credito non ne ho più, le mie tenute sono ipotecate, le tante case che ho costruito in questa villa Ludovisi, che avevo sognato li fare il quartiere ricco ed elegante di Roma, non rendono quasi nulla, i terreni in cui ho sotterrato i milioni producono soltanto gramigna: che cosa vuoi che faccia? Ma perché tu ricco, ricchissimo, tu gran signore, ti sei gettato nella speculazione? Perché? Non lo so neppur io. Non avevo nulla da lare, mi annoiavo, sognavo di triplicare il patrimonio lasciatemi dallo zio. Tutti speculavano in terreni, tutti si gettavano nelle imprese, costruivano, e anch'io ho costruito. Era un'epidemia. Si sperava che Roma divenisse in pochi anni una città come Londra e Parigi, che le case non fossero sufficienti a tanta popolazione. Invece ! ... Ma è inutile ricercare i perché, io sono totalmente rovinato. Che pazzia mettersi nelle speculazioni senza pratica degli affari, dar fondo in cinque anni a un patrimonio che era l'invidia di tutti! Lasciarsi trascinare dal desiderio di pronti guadagni ... . Risparmia i tuoi rimpianti e le tue paternali, rispose Franco. - Ai condannati a morte, sieno essi colpiti dalla giustizia o da una malattia incurabile, non si amareggiano gli ultimi istanti dell'esistenza. Io sono un morente, perché la rovina, per me, equivale alla morte; dunque lasciami in pace in questi ultimi momenti. Se tu mi portassi una speranza di salvezza, ti direi: " parla " ma a che cosa valgono le parole in questo momento? Franco non aveva alzato il tono della voce, non si era eccitato, e continuava a gingillarsi con gli anelli preziosi, senza guardare in faccia il fratello, il quale lo fissava con i grandi occhi pieni di vita e d'energia, senza parlare. Senti, Franco, - gli disse dopo una pausa, - se nostra madre, che aveva per te tanta tenerezza, ti sentisse parlare cosi cinicamente di toglierti la vita che ella ti dette, non credi che ne piangerebbe amaramente? I morti non soffrano! - rispose il duca. - Io sono un uomo pigro, inetto, egoista. Ha gittato il danaro senza imparar nulla; ho prodigato i benefizj senza crearmi amici; ho turbato l'esistenza di tante creature senza amare e senza farmi amare; ora che è infranto il piedistallo dal quale ho troneggiato come un nume, mi compongo sotto terra, ritorno nel nulla! Ma io ti voglio bene, Franco, e darei la vita per salvarti! Sarebbe un inutile sacrificio, - rispose Franco alzando le spalle. - Lasciami scomparire dalla scena di Roma, dopo esserne stato il primo attore acclamato; non intralciare i miei ultimi passi. La mia risoluzione è immutabile. Domattina sarò morto. Roberto non ebbe tempo di supplicarlo ancora. In quel momento si udì il rumore di una carrozza, che si fermava sotto il peristilio del palazzo. Franco fu richiamato, dall'arrivo degli invitati, ai suoi doveri di padrone di casa. Egli si alzò e disse: Ho gente a pranzo stasera; molta gente, e gli invitati incominciano a giungere. Vuoi assistere a questa ultima festa, Roberto? Non potrei, - rispose l'altro. - Ti ringrazio, io sono un mezzo selvaggio e non saprei sorridere con questo doloro nel cuore. Vado all'Hotel del Quirinale; dove ho lasciato le valigie; e stasera, quando i tuoi invitati saranno andati via, tornerò, lo non voglio lasciarti, io non voglio die tu muoia, Franco! Con voce soffocata dallo lagrime, Roberto strinse la mano al fratello e scese nella via. Il duca salì in fretta alla sua camera per vestirsi. Dieci minuti dopo egli era di nuovo nel salotto nero, nell'ampio salotto con la vòlta di stucco, con i preziosi lampadari di Sassonia, con le tende coperte di antica cartiglia veneziana. In un gruppo parlavano alcuni signori, mentre egli ciarlava amichevolmente con la vecchia duchessa d'Astura, la vedova dello zio, il quale avevate istituito suo erede. Nei giorni di grande ricevimento la duchessa usciva dal suo palazzo per andar a far gli onori in casa del nipote, ed egli, per mostrarle la sua gratitudine, domandavate con premura della canina vecchia e spelacchiata, della dama di compagnia, dell'Ospizio per i bimbi poveri e di tutte le cose su cui la dama riportava il suo affetto. Intanto incominciavano a giungere le signore. Donna Paola Salvati e la sorella, donna Lavinia, furono le prime e sedettero ai due lati della duchessa di Astura. Donna Paola, di consueto pallidissima, con due occhioni infossati nell'orbita, che davano al volto di lei una espressione quasi tragica, era quella sera gaia e sorridente. Ella aveva tanto sofferto, per la lunga assenza di don Franco, aveva tanto pianto sentendo parlare della rovina di lui, che ora pareva ringraziarlo di essere tornato e voleva, a forza di sorrisi, dirgli quanto era felice. L'amore della marchesa Paola per il duca d'Astura non era un mistero per nessuno. Ella lo aveva amato prima di maritarsi, lo amava dopo; ma Franco non aveva mai avuto nessuna inclinazione per lei, e quando gli domandavano perché non si lasciava intenerire dagli sguardi appassionati della marchesa, egli alzava le spalle e rispondeva : Forse perché mi ama troppo! Ma quella sera Franco provava una insolita tenerezza per quella donna costante, che traversava la vita senza accorgersi dei desiderj che faceva nascere, dei palpiti che suscitava la sua bellezza, con lo sguardo sempre fisso in lui, e pensando alla morte, ripeteva a sé stesso, con una specie di voluttà : Ella mi piangerà; lungamente mi piangerà! Le dame continuavano a giungere. Ora la principessa di San Secondo era seduta alla destra della duchessa di Astura e più là, circondate da molti uomini, erano la duchessa di Bitteto, la contessa di Montesarchio, madame Louvois e la baronessa Ceriani. Il maestro di casa spalancò i battenti della sala da pranzo, annunziando che la duchessa era servita. Don Franco stava per andare verso la principessa di San Secondo per offrirle il braccio e condurla a tavola, quando il suo sguardo s'incontrò in quello di donna Paola. Egli vi lesse un così istantaneo e profondo dolore, che voltosi invece, prese la manina guantata della marchesa e le disse: Stasera, se me lo concede, voglio aver l'onore di condurla a tavola. Ella non rispose, ma Franco sentì tremare la mano della marchesa nella sua. Quella sera, intenerito non per quell'affetto che diveniva più intenso quanto meno egli lo alimentava, ma per il tributo di lagrime che attendeva dalla marchesa, voleva mostrarsi buono con lei e imprimerle sempre più nel cuore il ricordo di quella ultima festa. Così in quel momento che la conduceva a tavola, sapendo che nessuno lo ascoltava, disse a voce bassa: Donna Paola, io le sono grato, molto grato del bene che mi vuole; è questa la mia ultima e suprema consolazione. Il sorriso sparì dalle pallide labbra della marchesa e sul cereo volto di lei comparve un'espressione di spavento. Franco, che cosa dice? - esclamò ella stringendogli il braccio con atto convulso. Nulla, esprimo un sentimento che ho nel cuore, rispose egli accompagnandola al posto. I convitati erano ventidue fra dame e signori, e per essi nella grande sala dal camino scolpito da Mino da Fiesole, in cui, nonostante l'inoltrata primavera, brillava un bei fuoco, erano state preparate tre tavole. A quella di mezzo, di cui faceva gli onori la duchessa d'Astura, presero posto la principessa di San Secondo, la duchessa di Bitteto, madame de Louvois e quattro uomini: alle altre due sei persone per ciascuna. Nel centro della tavola d'onore, sulla lucente tovaglia di Fiandra, era formato di rose e di mughetti lo stemma dei Frangipani, cioè la mano che rompe il pane, perché da Giovanni, traditore di Corradino di Hohenstaufen, discendeva il duca d'Astura. Sulle altre tavole i fiori erano disposti in piccole cornucopie di sottil vetro di Murano, che formavano disegni bizzarri. Franco, appena si furono seduti, tolse una rosa vermiglia da un vasetto, e la offrì alla marchesa. Ella si turbò e avrebbe voluto interrogarlo, ma il principe di San Secondo, che era in faccia al duca, le impedì di parlare. Dimmi, don Franco, come mai oggi la tua Daisy Daisyè giunta ultima? - gli domandò. Mio caro principe, - rispose in tono fatuo don Franco, - ci sono dei momenti nella vita in cui tutto va a rovescio. Io sono in uno di quei periodi climaterici e non v'è da meravigliarsi se Daisy non ha voluto correre. Eppure era quotata seconda. Ma non v'è pericolo che il jockey ... .? No, caro principe, il jockey non ci ha nessuna colpa. Io, che sapevo della mia disdetta, dovevo ritirar Daisy Daisye non esporla a una sconfitta. Tu sei fatalista dunque, don Franco? - domandò il principe. Io non so quello che sono, perché non ho avuto mai tempo di fare una discesa in me stesso, come tante ne fanno i pensatori; ma so per certo, che in questo momento nulla mi riesce. Però, - disse il giovane conte Lewes, addetto all'ambasciata inglese, per dare un altro indirizzo alla conversazione, che prendeva un tono monotono, - le riesce di riunire nel suo mail-coach e nel suo palazzo le più belle dame di Roma. Stasera questa sala è un vero Olimpo. Signor conte, - rispose il duca, - se non ho cattiva memoria, la protezione delle più belle non è sempre indizio di fortuna. Mi pare che Venere proteggesse a spada tratta i Teucri nella difesa d'Ilione, eppure, eppure ... . Questa risposta fece sorridere le dame e i signori, Paola soltanto impallidì ancora e posò la forchetta. Ella sentiva che Franco soffriva, e il dover rispondere alle domande del suo vicino di sinistra le era un tormento. Però nessuno pareva si accorgesse di lei, e a proposito dell'intervento delle Dee nelle faccende dei mortali, si parlò di una commedia che in settimana si doveva rappresentare sul teatrino dell'ambasciata d'Austria e nella quale Franco aveva promesso di far la parte di un misterioso cavaliere antico. Paola, non per curiosità, ma tanto per rivolgergli la parola, gli domandò : Quale costume indosserà, duca? Egli si chinò fino all'altezza dell'orecchio di lei, e per sfogare un soffio del dolore che riempivagli il cuore, le susurrò a bassa voce, sicuro di esser capito : Un lugubre costume, macchiato di sangue, marchesa. La pallida signora, dimenticando che era osservata, fissò i suoi occhioni in volto a don Franco, che dette in una risata. La conversazione alla tavola del duca languiva. Donna Paola, nonostante che volgesse le spalle nude al fuoco del camino, rabbrividiva ogni tanto, e il conte Lewes non cessava di domandarle se si sentiva male, se quel soverchio odore di mughetti e di rose la incomodava. Non ho nulla, nulla, - rispondeva lei, e i grandi occhi involontariamente si posavano sul duca, il quale mangiava appena, ma vuotava continuamente il bicchiere verde dell' " Johannisberger Cabinet ". Alle altre tavole non regnava la tristezza. Le dame erano liete che don Franco avesse riaperto il suo palazzo, liete che la bella giornata primaverile terminasse con quel pranzo eccellente. In principio donna Guendalina s'era un po' indispettita vedendo che il duca, il quale le dava sempre il posto d'onore, non l'aveva condotta a tavola, ma appena ebbe bevuto il primo bicchierino di Chablis la sua tristezza si dileguò, e ora ascoltava con vivo piacere certi pettegolezzi di salotto, che le raccontava nell' orecchio il maggiore di Bellegarde, un uomo che aveva la specialità di saper tutto a Roma. Il pranzo, servito da molti camerieri vestiti con la livrea bianca a mostreggiature turchine, fu breve, come tutti i pranzi ben serviti, e tre quarti d'ora dopo che gl'invitati si erano seduti a tavola, trovavansi riuniti a bere il caffè in un grande salotto rivestito d' arazzi di famiglia e ornato di mensole di verde antico, incassate in tralci di bronzo dorato. La principessa di San Secondo si avvicinò allora al duca e gli disse, accostando il suo volto a quello di lui : Don Franco, le cucine economiche, di cui sono presidentessa, hanno bisogno dell'aiuto di tutte le persone buone; mi dia un obolo anche lei. Ohe cosa le occorre, principessa? Disponga. So che è generoso, ma non voglio abusare. Le bastano cinque mila lire? Troppo, mio caro duca, troppo. Diranno che io lo rovino. Lasci pur che dicano. Parlano tanto di me e più parleranno, - aggiunse il duca, e si mosse per andare nella stanza attigua a cercare la somma. Donna Paola gli aveva sbarrato il cammino e con voce concitata gli domandò : - Perché, perché dice che parleranno ancora più? Duca, lei mi nasconde un segreto; che cosa le accade, che cos'ha? Lo dica a me, a me sola! Franco le offrì il braccio e come eie volesse mostrarle qualcosa, la condusse nella stanza accanto. Poi prese le mani di lei, se ne coprì il viso e baciandole diceva : Paola, mi voglia bene, me ne voglia molto, me ne voglia sempre. Se avessi capito il suo affetto, sarei molto meno infelice. Voglio saper tutto, Franco, - diceva lei ansiosa. Domattina saprà tutto. Venga qui domattina, porti molte rose, molte, me lo promette? Verrò, - disse lei che non capiva se dovesse esultare o piangere per quell'appuntamento chiesto in così strana maniera. Il duca le baciò ancora le mani lungamente e poi cavata di tasca una chiave, ne aprì uno scrigno e tolti cinque biglietti da mille lire; li rinchiuse in una scafolina di porcellana di Sèvres. E lei, Paola, non mi chiede nulla per i suoi poveri? - disse poi. - So che si occupa dei ricoverati nell'ospizio di San Giuseppe. Hanno tanti bisogni quei piccini, - diss'ella. Ebbene prenda, - rispose il duca; e cavato dallo scrigno tutto quello che vi rimaneva in biglietti di Banca e in oro, lo mise in una piccola coppa d'argento e l'offrì alla marchesa, dicendole: Li faccia pregar per me, - e prima che ella avesse il tempo di rispondergli, la trascinò smarrita nella sala degli arazzi. Erano sopraggiunti altri invitati, e la duchessa di Astura li aveva fatti passare in un'altra sala più vasta. Il duca girava da un gruppo all' altro salutando, ciarlando, e la gente a bassa voce faceva commenti sulla sua allegria. Paola, invece, era rimasta sola in un angolo. Pareva occupata a contare l'obolo del duca, ma la sua mente, turbata da atroci pensieri, non aveva un momento di riposo. Franco le appariva quella sera sotto un nuovo aspetto i le pareva in preda alla follia, e le parole di lui la trafiggevano come tanti colpi di coltello. Non era pentita della promessa fatta, ma non sapeva rallegrarsi di quell'appuntamento chiesto con si strana intonazione di voce. Negli anni trascorsi nell'attesa di una parola d'amore, donna Paola sarebbe stata pazza di gioia se Franco le avesse detto di abbandonare il marito, di calpestare tutte le convenienze sociali, pur di appartenergli; ma perché, perché ora non provava nessuna gioia, anzi si sentiva invasa da una mortale tristezza? Ecco; io lo so perché non posso rallegrarmi. Franco non mi ama. In un momento di tenerezza egli ha avuto pietà di me. Egli vuoi darmi una consolazione, vuol farmi l'elemosina di una parvenza d' amore. Poi mi dimenticherà. Ma non fosse che una felicità fugace, io la voglio gustare; poi ... poi io lo amerò tanto da intenerirlo e legarlo a me. Questo pensiero la consolava ed ella lasciava il cantuccio solitario per avvicinarsi a lui. Mentre gli si accostava, lo vide prendere per la mano la bella Guendalina, dicendole : Principessa, facciamo un boston? Io desidero ballare con lei stasera: sarà l'ultima volta che balleremo. Per quest'anno - ribattè la principessa. La conversazione era stata udita dalla marchesa Paola. Tutta la sua serenità era svanita a un tratto e stava per ritornare al suo cantuccio, quando il conte Lewes la invitò a ballare. Il maggiore di Bellegarde s'era messo al pianoforte e già preludiava. Il duca cinse la vita della principessa di San Secondo e dette il segnale del ballo. Soltanto verso le due gli invitati del duca di Astura lasciarono il "palazzo di via Veneto. Eranco accompagnò le signore nell'anticamera, e nel mettere il mantello sulle spalle di Paola le susurrò nell'orecchio: Si rammenti, marchesa, domattina alle undici; dal cancello del giardino. Verrò, - rispose lei trasognata. Ora, - disse fra sé il duca di Astura, - il libro della vita si chiude. Prepariamoci a morire, - e con passo sicuro salì nella sua camera.

LE NOVELLE DELLA NONNA. Fiabe fantastiche

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Perodi, Emma 1 occorrenze
  • 1992
  • Newton Compton Editori s.r.l.
  • prosa letteraria
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Ma intanto la fame, e più il freddo, scemavano le forze del vecchio, e il Diavolo, abbandonandolo in quel modo a tutte le intemperie, aveva calcolato che alla fine il vecchio, sentendosi morire, lo avrebbe invocato, e così quell'anima sarebbe stata conquistata all'inferno. Ma il vecchio tenne saldo, e, finché ebbe fiato, invocò tutti i santi del Paradiso e per ultimo san Francesco, che aveva ricevute da Gesù le stimate sul fiero monte della Verna. Il gran Santo, che non aveva temuto il Diavolo sull'orlo del precipizio e si era abbrancato con fede al masso, il quale, fattosi molle come cera, gli aveva permesso di piantarvi le mani, non lo temé neppure in questa occasione, ed impietosito della sorte del vecchio, scese in terra sotto le spoglie di un fraticello cercatore del suo ordine, e salì il monte di Poppi. Giunto colassù, vedendo tutto il popolo radunato in piazza a mirare quel turbante posato sul merlo della torre, e udendo narrare le meraviglie avvenute a Montecornioli in quei due giorni, si diresse verso il castello e chiese del conte Guido. - Signore, - gli disse quando fu ammesso alla sua presenza, - odo che tu sei stato turbato da avventure soprannaturali; vuoi permettere a me, umil fraticello, di usare contro queste maraviglie il segno della salute? - Fa' ciò che ti aggrada, buon frate, - rispose il conte, - e se tu riesci a liberarmi da quel fagotto di cenci che s'è posato sul merlo della mia torre, io farò larghe elemosine alla Verna. San Francesco andò sotto la torre, e alzando le palme, in cui erano i segni gloriosi della passione di Gesù, disse: - San Luca ti ha mandato qual messaggio di dolore; io ti comando d'indicarmi la via che conduce al tuo padrone, per liberarlo dall'eterno nemico. Appena il Santo ebbe pronunziate queste parole, il turbante scese dinanzi a lui e incominciò a volare lentamente nell'aria come un augello. I due dardi conficcati nel turbante dal signor di Poppi e dal signor di Lierna, gli facevano da ali. Il Santo si pose in cammino dietro al turbante e il conte Guido, meravigliato del miracolo, seguì il fraticello e traversò il paese, scese all'Arno e poi andò su per i monti boschivi fino alla capanna del Diavolo. Il conte Guido non era stato solo a tener dietro a san Francesco. I suoi famigli, i suoi vassalli e la gente che incontravano per via, ingrossava il corteo. San Francesco pregava a voce alta, e tutti quelli che lo seguivano rispondevano a quella prece. Le fiere uscivano dai boschi e si prostravano dinanzi al Santo; dalle cime dei monti scendevano gli uccelli a stormi e formavano uno stuolo, che precedeva la processione gorgheggiando come se la terra fosse stata coperta di erbe novelle e di fiori, invece che di neve gelata. Il turbante si fermò a poca distanza dalla capanna, e così fecero gli uccelli, le belve, il conte Guido e tutti i suoi terrazzani. Il fraticello si avanzò solo, e con la sua dolcissima voce, disse: - Che in nome del Signore, morto in croce per il suo popolo, tu sia liberato! Subito dalla capanna uscì il vecchio che aveva miracolosamente riacquistato l'uso delle gambe e del braccio destro, e si prostrò dinanzi al Santo piangendo di gioia. In quel momento la capanna incominciò a crepitare ed arse come un fascio di paglia. Mentre il popolo, che era caduto in ginocchio come il conte Guido, pregava, una nuvoletta bianca scese dal cielo, avvolse il fraticello e lo sollevò nell'aria. Il vecchio dalla cappamagna riprese il suo turbante e se lo mise in testa piangendo di gioia, e alzando le palme verso la nuvola bianca, che si perdeva nel cielo, esclamò: - Gloria a san Francesco! - Gloria! - risposero i terrazzani in coro. Il conte Guido allora si accostò al vecchio e gli rivolse la parola nella lingua d'Oriente, che egli aveva appresa da un monaco di quel paese, e lo invitò ad esser suo ospite, assicurandolo che gli avrebbe fatto un onore abitando il suo castello, poiché un uomo per il quale san Francesco scendeva dal Cielo, era una benedizione per una casa. Il vecchio accettò l'invito, e la lunga processione si rimise in cammino cantando le lodi del poverello d'Assisi, del gran Santo che proteggeva il Casentino. Nel castello di Poppi, il vecchio fu accolto con ogni riguardo dalla contessa, che era figlia di un altro Guido da Romena, signore di un forte castello verso Pratovecchio. La Contessa era giovine e molto bella e di un carattere così compassionevole che non poteva veder uccidere una mosca. Costei viveva in continue angustie a fianco del marito, uomo battagliero, che era sempre in guerra con i signori di Chiusi e Caprese, e con i castellani di altri luoghi forti sul versante dell'Appennino di Romagna. Ella non sapeva farsi intendere dal vecchio, perché non parlava la sua lingua, ma ponendogli sotto gli occhi il libro delle preghiere, che era scritto in latino, e accennandogli alcune parole, gli fece capire che sperava che egli riuscisse a distogliere il Conte dal guerreggiare di continuo ed a volger la mente del Signore, alle opere pacifiche dei campi e alle opere di carità, che meritano il Paradiso. Il vecchio promise il suo aiuto alla nobile dama e incominciò subito ad ammansire il Conte; ma questi, che già aveva dimenticato le sue promesse, noiato dalle prediche del vecchio, gli disse che nessuno aveva mai osato riprenderlo, e che, se continuava, gli avrebbe dato un bordone da pellegrino e lo avrebbe mandato con Dio. Al pio vecchio quelle parole arrivarono prima all'osso che alla pelle, e preso il bastone, come soleva per andare all'abbazia di San Fedele, scese al piano; quindi, mirando sempre il gran sasso della Verna, pian piano come glielo concedevano le sue gambe, alquanto intorpidite dall'età, salì a Bibbiena. Costì, fermatosi a pernottare in un convento, a giorno riprese l'aspra via. Ma il crudo inverno era stato cacciato dalla ridente primavera, e i boschi erano tutti coperti di erba fresca e di fiori odorosi. Il vecchio giunse senza intoppo alla Verna, e siccome fin lassù erasi propagata la fama del miracolo operato da san Francesco in favore del vecchio di Gerusalemme, come lo chiamava il popolo dei dintorni, così i frati lo accolsero festosamente e lo trattarono con ogni specie di riguardi. Ora avvenne che il conte di Lierna, che serbava sempre rancore al conte di Poppi, aveva riunito nel suo forte castello quanti uomini armati aveva potuto, e le sue fucine avean lavorato giorno e notte per preparare aste, lance, dardi ed altre armi. Quando credé di essere abbastanza forte per circondare d'assedio Poppi, fece alzare di nottetempo il ponte levatoio del castello, e, traversato l'Arno, salì quatto quatto con i suoi al forte dominio del conte Guido, e in quella notte stessa si diede a batter le mura e a lanciar dei sassi nell'abitato. I terrazzani si destarono sgomenti e corsero ad avvertire il conte Guido, il quale già era sveglio e armato, e disponeva i suoi uomini alla difesa. La Contessa pure era balzata dal letto, e, circondata dai figli, andava in cerca del marito; raggiuntolo, lo chiamò da parte e gli disse: - Signor mio, prima ancora che io fossi scossa dal sonno da questo trambusto, ho avuto una visione che debbo narrarti. - Non è tempo questo di ascoltare le parole di una femmina, - rispose il Conte con disprezzo, - ritirati nelle tue camere e lasciami fare. - Signor mio ascoltami, - insisté la Contessa. - Io ho veduto in sogno il poverello d'Assisi, il quale, mostrandomi le palme trafitte, mi ha detto: "Che ne ha fatto il tuo Signore del pio vecchio che gli avevo affidato? Sappi che egli era una benedizione per la vostra casa, e se il conte Guido non lo riconduce a Poppi, tutte le sventure si abbatteranno sulla sua famiglia, sulla sua casa, su tutti voi. Il conte Guido aveva promesso larghe elemosine alla Verna, e non ha mantenuto la parola. Io sono impotente a stornar da lui l'ira celeste". - Quando avremo battuto quel ribaldo conte di Lierna, penseremo ai tuoi sogni, - rispose il Conte, e spinse la moglie e i figli dentro una stanza, di cui tolse la chiave. La Contessa piangeva come una vite tagliata, ma nessuno l'udiva, perché ogni persona era intenta alla difesa del castello. L'infelice rimase in quella stanza fino a sera, ma in quel giorno il conte Guido vide cadere il fiore dei suoi soldati, e quando la moglie a notte lo rivide, egli non era più il baldo cavaliere della mattina, tutto infiammato dal desiderio della pugna. - Signor mio, - ella disse, - io non posso esserti di aiuto alcuno nella difesa del nostro castello. Lascia che, passando per il cammino sotterraneo, che è scavato nei fianchi del monte, io esca nell'aperta campagna e mi riduca alla Verna a portar le elemosine da te promesse al convento, e a supplicare il vecchio di Gerusalemme di tornar fra noi. - Va', e che Dio t'accompagni! Quella notte stessa la Contessa spogliò i ricchi guarnelli di seta, trapunti di oro, tolse le gemme che le ornavano il collo e i polsi e, indossata una gonnella di mezza lana e un busto di panno, scese nei sotterranei del castello senza nessuna scorta, varcò l'Arno e s'inerpicò sul monte. Ella aveva le bisacce ben guarnite di gigliati d'oro, ma sotto quelle umili vesti nessuno supponeva si nascondesse la nobile signora, che vedevano di tanto in tanto cavalcare da Romena a Poppi e fino ad Arezzo, sulla giumenta bianca, riccamente bardata, e con numerosa scorta di cavalieri, paggi, valletti ed armigeri. Senza esser molestata da alcuno, giunse la pia donna al convento, e dopo aver deposta sull'altare della Cappella degli Angeli la sua ricca elemosina, fece chiamare il vecchio di Gerusalemme e lo pregò umilmente di seguirla, facendogli capire coi cenni più che con le parole, il pericolo che minacciava la propria casa. Il vecchio accondiscese alle preci di lei e, indossato il saio dei Francescani per non dar nell'occhio alla gente, scese insieme con lei al piano, e per il cammino sotterraneo giunse al castello. Bisogna sapere che il vecchio non aveva lasciato alla Verna la sua cappamagna né il turbante, perché gli rincresceva molto di separarsi da quei ricordi della sua patria. Egli aveva nascosto l'una e l'altro in una bisaccia, come usano portare i frati che vanno alla cerca. Appena che la Contessa e il vecchio giunsero al castello di Poppi, appresero che la giornata era stata ancor più funesta agli assediati che quella precedente, perché molti altri soldati del conte Guido erano caduti, e il signore stesso era stato colpito da un dardo alla spalla sinistra. Pallido e affranto, questi stava nella sala d'armi del castello. Allorché vide la sua donna e il vecchio, li chiamò accanto a sé e li ringraziò con grande effusione. - Che cosa mi consigli di fare, saggio vecchio? - domandò quindi allo straniero. - Eccoti il mio turbante, - rispose questi. - Sai come il conte di Lierna fuggisse quando lo vide sul ponte che è a valico dell'Arno. Ordina che questo turbante sia posto a una delle finestre del castello. Quando il conte Odeporico lo vedrà, toglierà l'assedio. - Che tu possa dire il vero! - esclamò il conte Guido. E quella notte stessa fece issare un'asta alla finestra centrale del castello, e in cima a quella ordinò fosse infilato il turbante. Allorché le tenebre furono diradate dal sole nascente e il conte di Lierna vide quel turbante in cima all'asta, disse: "Povero me; qui si combatte con armi disuguali; io col ferro, e il mio nemico con gl'incantesimi!", e come aveva predetto il vecchio di Gerusalemme, Odeporico riunì le sue genti, e tolse l'assedio in un battibaleno. Da quel giorno nessuno osò più molestare il conte di Poppi, che si diceva in possesso di un talismano, e la Contessa visse tranquilla finché la morte non la colse. Il vecchio di Gerusalemme l'aveva preceduta nella tomba, e il conte Guido gli aveva fatto erigere un mausoleo nella cappella del castello. Il turbante poi era stato rinchiuso in una cassa d'argento di lavoro pregevolissimo, e i conti Guidi lo conservarono nel tesoro di famiglia finché il conte Francesco fu battuto da Neri Capponi, capitano de' fiorentini, il quale lo portò a Firenze con le altre robe. - E qui la storia del turbante è finita, - disse la Regina, e se mi sono scordata di qualche cosa, Cecco ve l'aggiunga. - Di nulla, mamma; voi la raccontate ora come vent'anni fa. - Come trentacinque! - ribatté Maso, - e io provo piacere a sentirvi ora, come quando ero alto quanto un soldo di cacio. - Anche noi ce l'abbiamo il nostro turbante, il nostro talismano, - disse Cecco battendo una palma sull'altra, - e non saranno di certo i fiorentini che ce lo porteranno via! - E qual è? - domandò la vispa Annina. - È la nostra vecchietta, la nostra mamma, che Iddio ce la conservi! Ora bevete un buon bicchieretto di vino, perché dovete aver la gola secca. - E preso il fiasco ne mescé prima alla Regina e poi agli altri. Quando tutti i bicchieri furono colmi, Maso per il primo alzò il suo e disse: - Alla salute del nostro talismano! I fratelli, i bimbi e le nuore fecero coro al capoccia, e dopo essersi trattenuti un altro po' a ragionare del più e del meno, i Marcucci se ne andarono a letto e tutti i lumi si spensero al podere di Farneta, sul quale vegliava la concordia e la pace, meglio che il turbante del vecchio di Gerusalemme sul castello del conte Guido di Poppi.

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