Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Giovanna la nonna del corsaro nero

204796
Metz, Vittorio 1 occorrenze
  • 1962
  • Rizzoli
  • Milano
  • paraletteratura-ragazzi
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Costui, molto probabilmente, nel sentire avvicinarsi i due, si era nascosto abbandonando la tacchina spennata dove si trovava. "Che cosa vi avevo detto?" stava dicendo Raul. "Che ci doveva essere per forza qualche tacchina da queste parti... Però, non capisco come mai sia già morta e spennata..." "Forse," opinò il capitano, allegramente, "avvilita di essere diventata completamente calva si è suicidata..." Raul lo guardò con sorpresa: "Come?" esclamò. "Non avete più paura come poco fa? Non pensate più che possa essere stato qualche spirito?" "La carne fa quasi sempre dimenticare lo spirito" sentenziò il capitano Squacqueras. "Date qua, che la metto a bollire..." Tolse la tacchina dalle mani di Raul e stava per immergerla nella pentola, quando, nel guardarci dentro, sbarrò gli occhi farfugliando: "Oh, sant'Ambrogio! Aiuto!" "Che c'è?" domandò Raul avvicinandosi... Il capitano indicò a Raul l'iguana la cui testa mostruosa sporgeva dalla pentola e sembrava lo stesse fissando con i suoi occhi bianchi che erano schizzati fuori dalle orbite. "Un drago!" strillò il capitano con tutto il fiato che aveva in corpo."Un mostro che mi guarda!" "Ma no!" esclamò Raul. "È soltanto un innocuo iguana... È inoffensivo da vivo, figuriamoci così, mezzo cotto!" "E che cosa sta facendo là dentro? Il bagnetto?" "Sarà caduto nella pentola dal soffitto del tempio che è tutto rotto... Ce ne potrebbe cadere qualcuno in testa... Facciamo una bella cosa, capitano: andiamo di là, dove c'è il tetto sano..." Il capitano Squacqueras indicò le angurie e gli ananas. "Un drago!" strillò il capitano... "Qui ci sono anche delle frutta che prima non c'erano..." "Forse erano cresciute sul tetto e l'iguana, cadendo, se le è trascinate dietro... Comunque, siano le benvenute anche loro... Prendete su tutto e andiamo di là..." I due raccolsero le frutta e impugnarono la marmitta, il capitano per un manico, Raul per l'altro, ed uscirono dalla porta che conduceva nei sotterranei. Provenienti dall'esterno entrarono gli altri quattro. "Macché!" stava dicendo Giovanna. "Fuori non c'è nessuno..." "Si vede che quel viandante, spintovi dal caso o da vaghezza di solitarie meditazioni, è andato a finire in bocca a qualche giaguaro, signora contessa..." suggerì Battista. "La pepé!" disse Nicolino. "Cosa stai dicendo?" gli domandò Battista, guardandolo malamente. "La mammà!" farfugliò ancora Nicolino. "Il papà..." "Ma che diavolo dici?" gli dette sulla voce Battista. "La pe... pentola!" riuscì finalmente a spiccicare Nicolino."La ma... marmitta... Il pa... paiolo! Non c'è più... È sparito!" "E allora" concluse Giovanna "non c'è niente da fare, vuol dire che nel tempio c'è gente..." "Potrebbero essere il Corsaro Blu e il Doppio Barbanera Illustrato" esclamò Jolanda con la voce piena di speranza. "Sono scomparsi così misteriosamente dal villaggio indiano, quella sera!" "La pepé!" disse Nicolino. "Macché!" esclamò Giovanna. "Debbono essere morti, divorati dalle fiere..." "Spero di no, nonna!" disse Jolanda. "Se sono mo... morti è peggio" balbettò Nicolino "perché potrebbero essere i loro fantasmi..." "La cosa migliore da fare" decise Giovanna "è di cercarli dappertutto... Facciamo una cosa: dividiamoci... Io e Jolanda andiamo di qua," e così dicendo indicava una specie di cunicolo che scendeva a mezzo di una scala di pietra verso il basso, "Battista va ancora a vedere fuori..." "E io?" domandò Nicolino. "Voi restate qua" ordinò Giovanna. "E ci resto di sicuro se mi lasciate qui solo... Ci resto secco..." "Non fate lo sciocco, nostromo... Dovete restare qui per bloccare l'uscita del tempio..." E Giovanna, senza più curarsi del nostromo Nicolino, cominciò a scendere la scala, mentre Battista usciva all'esterno del tempio. Nicolino cadde a sedere su una pietra asciugandosi il sudore. "Oh, mamma mia!" gemeva piano piano. "Oh, mamma mia bella... Povero me!" Era così intento a compiangersi da non avvedersi che alle sue spalle una grossa pietra stava girando su dei cardini invisibili scoprendo un passaggio segreto nel cui vano apparve una figura gigantesca alta per lo meno due metri e mezzo, ricoperta da un lungo mantello intessuto di piume e con la testa di serpente. Accanto all'orripilante figura era la sacerdotessa che sussurrò: "È solo..." "Vado" disse l'orripilante figura che parlava con la voce del gran sacerdote avanzando verso Nicolino. Con un lungo stelo che aveva in mano prese a vellicare l'orecchio di Nicolino che, credendo si trattasse di un insetto, lo scostò con un gesto della mano borbottando: "È pure pieno di zanzare, qui... Però, almeno le zanzare sono vive... Volano, ronzano, ti succhiano il sangue..." Ci ripensò... "Ti succhiano il san..." ripeté "e se si trattasse di un vampiro?" Nicolino, terrorizzato, si voltò piano piano e si trovò davanti, improvvisamente, quella specie di spettro. Aprì la bocca per gridare ma nessun suono usciva dalla sua strozza. "A... a... a..." riuscì soltanto a dire dopo un enorme sforzo. "Maledetti sacrileghi!" tuonò invece la strana figura con voce sepolcrale. «Abbandonate subito questo tempio che avete profanato e lasciate dormire in pace le anime dei nostri morti!" Così detto si voltò e se ne andò maestosamente per dove era venuto. Nicolino avrebbe voluto gridare, ma se riuscì finalmente a dire "Aiuto" lo disse così sottovoce che non si sentiva affatto. "A... a... aiuto!" sussurrò. Finalmente, non riuscendo proprio a gridare, afferrò il suo fischietto da nostromo che gli pendeva dal collo e portatolo alle labbra ne trasse due o tre sibili tremolanti. Il maggiordomo Battista arrivò di corsa. "Ma che succede?" gli domandò. "Cosa credi di essere a bordo della Tonante?" "Un fa... fa... fa..." mugolò Nicolino. "Un fagiano?" "No, un fa... fa... fa..." "Un falco?" Nicolino fece disperati cenni di diniego. "Un fa... fa... fantasma!" esplose finalmente. «Ma fammi il piacere!" scattò Battista. "Avrai avuto un'allucinazione..." "Non ho avuto un'allucinazione, ho avuto una paura tre... tre... tre..." Poiché non riusciva a vincere l'impuntatura, Nicolino muoveva vivacemente la mano in su e in giù come se stesse giocando alla morra. Il maggiordomo, lì per lì, distratto, lo assecondò: "Quattro!" gridò alzando ed abbassando la mano a sua volta ed aprendo ora uno, ora due, ora tre dita. "Due, due, tutta!" Si riprese e si guardò intorno. "Che cosa mi fai fare, imbecille!" scattò. "Se mi avesse visto la signora contessa! Perché vuoi giocare alla morra?" "Non volevo giocare alla morra" si giustificò Nicolino. "Volevo dire che non ho avuto un'allucinazione, ho avuto una paura tremenda!" "Appunto, un'allucinazione causata dalla paura! Comunque, se hai tanta paura di stare solo, vieni con me ad esplorare l'esterno del tempio..." "Ecco, è meglio... Tutto quello che vuoi, basta che non mi lasci qui solo..." "Andiamo... E smettila di battere i denti!" "Non sono io che batto i denti, sono loro che non vogliono stare fermi... Andiamo..." I due uscirono. Quasi immediatamente entrarono Raul e il capitano Squacqueras. "E ora che abbiamo mangiato," disse Raul "direi che ci potremmo mettere a dormire..." "Ottima idea, giovanotto... Chi dorme non piglia pesci e a me il pesce non piace... Dove ci mettiamo?" Raul si avvicinò all'ara dei sacrifici che indicò al capitano. "Io direi di metterci qui" consigliò. Il capitano si avvicinò all'ara e ne saggiò la pietra con la punta delle dita come se si trattasse di un letto. "Qui? Molto bene... Per quanto il materasso sia piuttosto duretto, eh?" "Sono stanco morto" disse Raul sbadigliando. "Credo proprio che dormirò come un sasso..." "Appunto... Niente di più adatto, allora, di un letto di pietra..." Il capitano così dicendo si distese sull'ara e Raul fece altrettanto, accomodandosi accanto a lui. "Buonanotte" disse. "Speriamo bene" disse il capitano. "E voi cercate di non sognare Jolanda, la figlia del Corsaro Nero... Buonanotte..." Pochi istanti dopo dormivano saporitamente tutti e due. Ma, nonostante la raccomandazione fattagli dal capitano Squacqueras, molto probabilmente Raul dovette vedere in sogno la dolce figura di Jolanda, perché, ad un certo punto, cominciò ad agitarsi sul suo letto di pietra, chiamando nel sonno: "Jolanda! Jolanda!" Jolanda stava risalendo dai sotterranei, mentre dalla porta del tempio rientravano Nicolino e Battista. "Mi è sembrato di aver sentito chiamare il mio nome" disse "da una voce d'uomo..." "Mi sia consentito il dire che la cosa è impossibile, contessina" le fece rispettosamente osservare il maggiordomo. "Io e Nicolino eravamo fuori e non vi abbiamo chiamato... In quanto alla voce della signora contessa, nonostante i suoi toni baritonali, non si può dire che sia una voce d'uomo..." "Eppure," disse Jolanda, pensosamente "mi sembrava la voce di quel giovane... Sì, del Corsaro Blu..." "E allora," piagnucolò Nicolino "avevo ragione io... Quello è morto e adesso il suo fantasma vaga per la foresta in cerca di pace..." "Dio non voglia!" esclamò Jolanda, turbata. "Piuttosto, dov'è la nonna? I sotterranei di questo tempio costituiscono una specie di labirinto e l'ho perduta... Sentite, prendete un ramo acceso da quel fuoco e andiamo a vedere..." "Sì, signorina, è meglio" approvò il nostromo Nicolino. "Non so com'è ma con la signora mi sento più sicuro... Lei non ha paura di niente, beata lei!" Nicolino si avvicinò al fuoco e ne tolse un ramo che sollevò in aria servendosene come di una torcia. I bagliori della fiamma illuminarono Raul che disteso sull'ara con le braccia incrociate sul petto sembrava un morto. Non ci volle di più per paralizzare completamente Nicolino. "Il fantasma del Corsaro Blu!" farfugliò. Vide il capitano Squacqueras disteso accanto a Raul. "C'è anche il Doppio Barbanera Illustrato!" gridò. Risvegliati dagli urli di Nicolino, il capitano Squacqueras e Raul balzarono a terra, pensando all'attacco di qualche nemico. Raul rimase di stucco nel trovarsi davanti Nicolino. «Ma voi... Che cosa fate qua?" "Pietà, signor fantasma!" gridò Nicolino cadendo in ginocchio e tendendo le mani supplici verso il giovanotto... "Macché fantasma d'Egitto!" esclamò Raul. "Io sono vivo!" Jolanda non riuscì a trattenere la propria gioia. "Vivo!" esclamò. Raul si voltò dalla parte di Jolanda e nel vederla lanciò un grido di contentezza. "Jolanda!" esclamò. "Anche voi siete qua!" Poiché il giovanotto le si era avvicinato quasi per abbracciarla, Jolanda si trasse indietro e abbassando pudica gli occhi: "Sì, e c'è anche la nonna..." "Ci ritroviamo tutti!" esclamò il capitano Squacqueras, facendo buon viso a cattivo giuoco. "Come luogo di ritrovo, però, lo abbiamo scelto piuttosto maluccio!" Il maggiordomo Battista si rivolse a Nicolino. "Lo vedi, pezzo di cretino, che non c'era nessun fantasma?" Nicolino fissò con gli occhi sbarrati la scala da cui era salita Jolanda e rispose balbettando: "Lo dici tu!" "Che c'è ancora?" domandò Battista. "Il serpente piumato!" "Ma fammi il piacere!" Battista si voltò dalla parte verso la quale stava guardando Nicolino e annichilì vedendo la spaventosa figura che tanto aveva impressionato il nostromo avanzare verso di lui. Perdendo la sua naturale compostezza, gridò: "Mi sia consentito il dire: Aiuto!" Il sedicente Corsaro Blu sguainò la spada mentre il capitano Squacqueras correva ad acquattarsi dietro l'ara. "Capitano!" lo rimproverò Raul."Perché vi nascondete?" "Nascondermi io? Niente affatto! Mi accoscio per poter saltare meglio addosso a quella creatura infernale!" Da dietro la spaventevole figura sbucò Giovanna. Teneva in mano la spada sguainata che aveva tenuto puntata fino a quel momento dietro la schiena del mostro. "Niente paura," disse. "To', ci siete anche voi!" esclamò vedendo Raul e Squacqueras. Quindi, agli altri due: "L'ho acchiappato. E non è affatto un fantasma o un dio incas, o un gigante..." Si rivolse alla fantasmagorica figura che quatta quatta tentava di riguadagnare la porta. "Fermo là, non ti muovere, se non vuoi fare conoscenza con la punta della mia spada..." "Non è un gigante?" domandò Raul. "E come fa ad essere così alto?" Giovanna con un colpo secco strappò il mantello che ricopriva il finto serpente piumato, mostrando che si trattava di un erculeo incas sulle cui spalle si era posto a cavalcioni il gran sacerdote il quale, visto che oramai il suo trucco era scoperto, si tolse la maschera di serpente. L'uno sull'altro i due formavano la fantastica figura che per poco non aveva provocato un infarto al povero Nicolino. "Semplicissimo, guardate" spiegò Giovanna. "Volevano spaventarci per allontanarci dal favoloso tesoro degli incas che è nascosto in questo tempio..." 7. Giovanna Giovanna con un colpo secco strappò il mantello che ricopriva il finto serpente piumato... "Il tesoro degli incas?" esclamò Raul. "E dov'è?" "Eccolo" disse Giovanna. Si rivolse verso il sotterraneo da cui era sbucata chiamando: "Ehi, venite avanti voialtri, se non volete che del vostro gran sacerdote faccia un fodero per la mia spada!" Gli incas e le incas che abbiamo visto presenziare al sacrificio del tacchino, sbucarono dai sotterranei portando delle barelle cariche di vasi d'oro, braccialetti e collane di smeraldi, armille, corone d'oro, tiare, armi tempestate di pietre preziose, statuette e persino padelle tutte d'oro massiccio. Mentre i sei si affollavano intorno al tesoro, il maggiordomo Battista che era andato a guardar fuori del tempio, attratto da un rumore, si trasse di lato appoggiandosi con le spalle al muro: "Un drappello di soldati spagnoli!" annunciò con voce ufficiale. "Spagnoli!" esclamò Giovanna. "E noi siamo quasi inermi! Ma niente paura! Li conceremo per le feste ugualmente... E voi" seguitò, rivolto a Raul e al capitano Squacqueras "ci darete una mano, signori..." Raul esitò un istante, poi sospirando dichiarò: "Io non posso stare con voi, signora..." "Perché?" domandò Jolanda, sorpresa. "Perché fino ad ora vi abbiamo mentito... Io non sono il Corsaro Blu... Sono Raul di Trencabar, figlio del governatore di Maracaibo..." "Il figlio di Trencabar!" esclamò Jolanda, annichilita. "Sì, Jolanda, perdonatemi!" esclamò Raul. "Vado a raggiungere i vostri nemici, che altri non sono che i miei soldati... Andiamo, capitano Squacqueras..." "Non è il Doppio Barbanera Illustrato?" domandò Nicolino. "No, ma mi raccomando," scongiurò l'ex almanacco "non ci sparate alle spalle! Non è corretto! Non sta bene!" Uscì in fretta dietro Raul mentre Giovanna gli gridava dietro: "Non spariamo alle spalle, noi... Non siamo spagnoli!" "Non avrei mai creduto!" sospirò Jolanda, la figlia del Corsaro Nero, con lo sguardo fisso nel vuoto. "Non ci pensare, Jolanda, e aiutami... Li sistemeremo noi questi spagnoli... Fate tutti come me!" Si avvicinò al tesoro degli incas, afferrò dei gioielli a casaccio e corse verso la porta. Fuori del tempio il sergente Manuel che comandava il drappello di soldati spagnoli sollevò una mano. "Alt!" comandò. Quindi, rivolto ai suoi uomini: "Attenzione," disse"qualcuno sta venendo verso di noi procedendo fra le rovine..." Quindi, a voce altissima: "Chi va là?" domandò. "Spagna!" rispose Raul. "E Milano!" aggiunse il capitano Squacqueras. "Ah, siete voi!" esclamò il sottufficiale. "Siete salvi, grazie alla Beata Vergine del Pilar... E ditemi! Non c'è nessuno nel tempio?" Raul esitò un momento. "No" dichiarò poi. "Non ci sembra, almeno..." "Sarà meglio assicurarsene... Avanti, soldati..." Sulla soglia del tempio apparvero Giovanna con i suoi compagni, le mani cariche di gioielli. "Pronti?" comandò Giovanna. "Fuoco!" Tutti lasciarono i gioielli contro gli spagnoli. I gioielli caddero intorno agli spagnoli che si fermarono interdetti. Il sergente Manuel ricevette in un occhio un enorme smeraldo che gli cadde in mano. "Caramba!" esclamò. "Uno smeraldo..." "Qui piove oro!" gridarono i soldati gettandosi a pesce sui gioielli provenienti dal tesoro degli incas e facendo a spintoni fra loro. "A me!" "A me!" "Lascia stare!" "Questo l'ho visto prima io!" "E togliti di mezzo, tu!" "Lascia quel vaso o ti ammazzo!" "Fermatevi!" gridò Raul gettandosi sulla mischia. "Capitano, aiutatemi a fermare questi energumeni!" "Magnifico!" esclamava intanto Giovanna, soddisfatta. "I soldati combattono fra loro per arraffare quanti più gioielli possono! Il sergente afferra una tiara di smeraldi, la passa a un soldato che la passa ad un altro, questo la lancia sulla testa del sottufficiale, goal! Lo ha preso in pieno! I soldati spagnoli si azzuffano, magnifici per continuità e resistenza! Il figlio di Trencabar tenta invano di opporsi alla loro furia, ma è travolto. I soldati si pestano fra loro. Siamo appena al primo minuto e già non c'è più un uomo valido in campo. Presto, approfittiamone per barricarci nel tempio!"

Lo stralisco

208427
Piumini, Roberto 1 occorrenze
  • 1995
  • Einaudi
  • Torino
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La potente e cieca forza della vita, quella che non mi ha permesso di diventare sordo mentre pronunciavano le parole, che ora non mi lascia impazzire per il tormento, sta abbandonando la sua carne leggera. Amico mio, io non ho mai conosciuto un dolore cosí grande: nemmeno quando mori Aviget, la sposa del mio cuore. Eppure ne vorrei uno maggiore, perché troppo piccolo mi sembra quello che è in me. Ganuan abbassò il volto e pianse, e Sakumat pianse con lui. Poi il pittore chiese: — Quanto potrà vivere ancora, signore? — Dicono non oltre un anno. — Desideri che io me ne vada? — Non ho desideri: ma questo è l'ultimo che potrei avere. Resta, se puoi. Sakumat tornò a cavalcare. Il suo giro si fece piú ampio, seguendo la strada che in rapida diagonale attraversava i campi magri e giungeva poco sotto il crinale settentrionale della vallata. Da qui, percorrendo in altezza il fianco settentrionale, usciva ed entrava in boschetti di basse querce tenaci e spinose, esponendosi a tratti di scarpata che il vecchio cavallo affrontava molto prudentemente. Compiendo una larghissima curva a ridosso dei monti, la pista piegava poi a sud, lungo il versante occidentale, incrociando sentieri appena accennati, scie scabre di greggi e di carovane. Da qualsiasi punto di quel percorso, tranne che nei brevi tratti alberati, si poteva scorgere il palazzo bianco del burban, giú in basso, stagliato come una pietra di primo rango nel pietrame del fondovalle. La discesa, lungo il lato sud, era meno diretta della salita, per un terreno dalla vegetazione aspra, interrotta da chiazze di fiori colorati e dai cespugli quasi azzurri di cupatja. Il giro si completava su una pista ben battuta che attraverso i pascoli piú ricchi della valle, dove brucavano quieti montoni abbandonati, riportava alle prime case del villaggio. Sakumat fece tre volte l'intero percorso, come se ad ogni ritorno dimenticasse di averlo compiuto, senza badare al passo sempre piú rotto del cavallo. Poi guidò la bestia alle stalle e rientrò nel palazzo, dove un alto silenzio regnava. Madurer era ancora addormentato. Ganuan sedeva a occhi chiusi presso il letto del bambino. Sakumat percorse le pareti dipinte, osservando le montagne e la pianura, la città assediata e il mare, il vascello pirata e il prato rigoglioso, in cui il segno sparso dello stralisco gli sembrò piú marcato ed evidente del solito. Per tre volte, lentamente, come aveva fatto attorno alla valle, percorse i paesaggi e notò cose che non sapeva, forme e gesti e colori che non ricordava di avere creato. Il burban, ai primi cenni di risveglio di Madurer, si allontanò come un'ombra. — Buongiorno, Sakumat, — disse il bambino. — Buongiorno anche a te, Madurer. — Ho fatto una gran dormita, vero? — Sí, un buon riposo. Ora stai bene? — Sì, bene. Un po' debole, come le altre volte. — Resterai a letto qualche giorno. Ti leggerò delle storie. — Benissimo! E poi continueremo a lavorare. Chiederò al burban mio padre di far terminare in fretta le nuove stanze. Non dovrebbe mancare molto. — Non molto. Ma abbiamo da lavorare ancora sulle nostre figure, Madurer. Ho delle idee, ma devo pensarci meglio. Come capitava a te prima di decidere il prato, ricordi? — Si. — Intanto, finché non ti alzerai, leggeremo delle fiabe, e guarderemo le figure dei libri. — E faremo qualche disegno sulla pergamena? — Se non ti stancherà troppo. Ti insegnerò a dipingere gli uccelli. Ma nei giorni seguenti le forze di Madurer non furono sufficienti a disegnare. Sakumat gli lesse molte storie, parlando con lui delle vicende e dei personaggi. Notava intanto come la forza stentasse, molto piú della volta precedente, a ritrovare le strade nell'organismo del piccolo. Ma il pensiero di Madurer, tra un riposo e l'altro, era rapido e desto. Soltanto, a tratti, lo prendeva una specie di distrazione, un momento di assenza, nel quale gli uscivano parole svagate, forse senza significato: come se il suo stesso pensiero, imprendibile, le facesse risuonare senza i legami del linguaggio. Anche i sonni diurni diventarono piú lunghi e insistenti. — Costruire nuove stanze è una buona idea, — disse Sakumat. — Ma io ne ho una migliore. — È quella a cui hai pensato in questi giorni? — Sí. E mentre ci pensavo diventava piú bella. — Allora dimmela, Sakumat. — Ecco: se noi continuiamo ad allargare le pareti, non potremo piú dominare il paesaggio. Voglio dire che diventerà troppo grande per giocarci davvero. Resterà per molto tempo uguale, e sarà meno vivo. Madurer taceva, attentissimo. — Insomma, credo che queste pareti ci. bastino, - disse Sakumat. — Ma sono complete! — osservò Madurer. — Il Tigrez è grande nel mare, e piú grande non potrebbe diventare. Il prato è completamente fiorito. C'è anche lo stralisco che brilla di notte. Che altro possiamo dipingere? Sakumat giocava parlando con le mani del bambino, come spesso faceva. — Ricordi come abbiamo dipinto le cose, Madurer? — disse, stringendogli un po' piú forte le dita, — come era piccola la nave, all'inizio? E com'era acerbo il prato? — Si, li abbiamo fatti poco a poco. Piano piano. — E ricordi una cosa ancora piú antica? Che il mondo non fa salti, e non si ferma? Madurer rimase in silenzio, soppesando fra le sue dita piccole quelle piú grandi del pittore. — Vuoi dire che i nostri paesaggi possono continuare? — disse. — Possono continuare, sí. E cambiare. Se noi vogliamo. — Cambiare come? Diventare più belli? — Sono già belli, Madurer. Ma possiamo andare avanti nella storia, aggiungere il resto della vita. Il bambino sembrò affaticato. Stava rientrando nel torpore. — Sí, facciamo cosí, — disse, — poi mi spiegherai, come... Anche per Sakumat era stata una conversazione faticosa. Ascoltò il respiro fragile del bambino assestarsi in cadenza piú regolare. Poi chiuse gli occhi. Come dalle ferite di un ramo, dalle palpebre chiuse uscivano lacrime chiare.

Pagina 49

Il Plutarco femminile

217566
Pietro Fanfano 2 occorrenze
  • 1893
  • Paolo Carrara Editore
  • Milano
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Benchè adesso da pochi si oda usata la voce flotta, ma si dice o naviglio o amata per esercito, essa è un gallicismo bell' è buono, entrato da molto tempo in Italia, è vero; ma il cui uso parimenti si va abbandonando fra noi. La voce armata presso i Trecentisti significò solo numero di navi armate per far guerra." "Ma io l' ho letta in Dino Compagni. "La Cronica di Dino Compagni è oramai, appresso la gente di sano giudizio, reputata apocrifa, e questa voce armata è appunto uno dei segni di apocrifità; e i difensori della autenticità per iscusarne il loro Dino, dànno a questa voce un significato diverso che non può avere..." Qui la direttrice fece notare che l'ora era passata e proponendo che tal disputa si rimettesse a un'altra volta, la conversazione fu finita.

Pagina 102

Sposatasi poco appresso con Giuseppe Veratti medico, nè per le cure di famiglia abbandonando gli studi, cresceva sempre in sapienza ed in fama; tanto che il Senato di Bologna le diè la cattedra di filosofia, e fece coniare una medaglia in suo onore col ritratto di lei da una parte, e dall' altra una Minerva (dea della sapienza) col motto: Soli cui fas vidisse Minervam. Niuna donna per avventura fu padrona come essa di tante lingue e di tante scienze, perchè ebbe famigliari la lingua latina, la greca, l'ebraica, e le più nobili fra le moderne, e fu eccellente nella logica, nella metafisica, nella geometria, nell' algebra e nella fisica. Scrisse anche delle poesie, ed un poema epico sulle guerre combattute in Italia dal 1740 al 1748, il quale è rimasto inedito; ed è bene, perchè forse non reggerebbe al martello, e piuttosto che giovare, nuocerebbe alla sua fama. Morì nel 1778, compianta da tutti, e celebrata in morte da varj nobili ingegni; come una raccolta di poesie era stata fatta in suo onore, e stampata in due volumi, quando le fu data la laurea dottorale, e accettata nella Facoltà di Filosofia." " Lo studio, disse il maestro come prima si tacque la Clelia, si vede che le ha profittato, perchè nel suo discorso, non solo ci sono i pregi medesimi che erano nell' altro, ma c' è migliore ordine, e più franchezza di periodare: il perchè le faccio le medesime lodi, ed anche maggiori, confortandola di non abbandonare lo studio. Sulla fine per altro, se non m' ha ingannato l' orecchio, mi è parso di sentirle pronunziar nuocerebbe per nocerebbe. Ho frainteso, o sta veramente così? "Sta così, perchè, venendo dall'infinito nuocere mi pare che si dovesse dir nuocerebbe. "Se le pare, le par male. Qui milita la regola del dittongo mobile, della quale pur mi ricordo aver loro detto qualcosa in iscuola; ma, a quel che sembra, con poco frutto; e però, se piace a loro e alla signora direttrice, io ne tratterò adesso un po' distesamente, perchè una bella vergogna il vedere, non dico da loro, ma quasi universalmente trascurata questa regola, che è quella forse la quale patisce meno eccezioni." La direttrice e le alunne, non solo acconsentirono ma mostrarono vivo desiderio, che il maestro spiegasse loro la regola ed il maestro disse così: "Regola, costante adunque, e che ha meno eccezioni di qual altra si voglia, è questa che in una voce, la quale abbia il dittongo uo o ie, se, ne' derivati da essa, l' accento trasportasi in altra sillaba, il dittongo si scempia; per esempio cuore ha l' accento sulla prima che è dittongo; facendone coraggio, l' accento si trasporta sulla seconda, e il dittongo sparisce, nè si può dir cuoraggio. Siedo ha la posa sulla prima ed è dittongo; in sedeva l' accento va nella seconda, e il dittongo sparisce, nè si può dir siedeva. Nel modo medesimo si dice abbuono, abbuonano, abbuona; e non abbuonare, abbuonava, abbuonerò, ma abbonare, abbonava, abbonerò, ecc.: si dice cielo e non cieleste, ma celeste; si dice accieco, acciecano, ecc., e non acciecare, acciecavano, ecc,, ma accecare, accecavano e così di mille altri simili casi. Nè il dittongo si scempia solo per trasporto d' accento, ma anche perchè seguono u i. esso due consonanti uguali; per esempio, CUOCERE non solo scempia l'accento in coceva, cocerà, ecc., ma anche in cossi e cotto. Il trasporto di accento poi ha virtù di far cambiare una vocale nello diverso voci di uno stesso verbo; per esempio, in UDIRE quelle che han l'accento sulla prima cominciano per o, come odo, odono: quelle dove l' accento passa alla seconda, cominciano per u, come udire, udirò, udrà e nel verbo USCIRE cominciano per e quelle che hanno l' accento sulla prima come esco, escono, esci; o per u quelle dove l'accento passa oltre, come uscire, uscirò, usciva. Non ci ha grammatico antico o moderno (dico di quegli noti da quattro al centesimo) che questa regola non insegni, e non assegni buona ragione; Bombe, il Castelvetro, Il salviati, il Salvini, il Buommattei, il Rogacci, il Bartoli, Celso Cittadini, Loreto Mattei, il Manni, il Parenti, il Gherardini; tutti insomma i migliori antichi e moderni, tra' quali i più largamente e dottamente che ne parlino sono il Cittadini, il Mattei, il Salvini ed il Bartoli fra gli antichi; e fra' moderni il Parenti in più luoghi delle sue Strenne filologiche, e il Gherardini nella Appendice alle Grammatiche teoricamente, e praticamente ne' suoi lavori lessicografi. E quel che prova la incontrastabilità della regola è questo, che e guelfi e ghibellini della filologia italiana si accordano nell'insegnarla e nel difenderla: segno proprio che non c' è via da dirle contro. Eppure tuttor c'è chi non la capisce! ed ancora di quelli che vanno per la maggior parte scappucciano in questa materia! Ecco perchè qui ho battuto un po' più che altrove. "Anche la Crusca, che ne' primi sette fascicoli della quinta impressione avea trascurato tal regola, fattane accorta, non pure la osserva scrupolosamente nella ricominciata edizione; ma ne assegna ottime ragioni nella prefazione. - Ma che Crusca? che grammatica? che Bembi, che Bartoli, che Parenti, che Gherardini o altri medaglioni il popolo non usa tali dittonghi, e per conseguenza non si debbono, nè parlando nè scrivendo, adoperare. - Ma è vero proprio che il popolo non gli usa? - No che non è vero una persona civile, qui in Firenze, gli usa, anche parlando, quasi sempre, pronunziandoli molto raccolti, è vero, ma facendo pur sentire tanto o quanto della u, se il dittongo èuo, e della i se il dittongo è ie; nè certo una persona, civile dir� sole per suole, poi per puoi, voi per vuoi, celo per cielo, sedo per siedo, ecc., ecc., e molto meno lo scriverò. Se poi si esce di Firenze e si va ne' luoghi dove l' italiano è senza dubbio meglio pronunziato, come a Siena, a Pistoja, e sulla montagna pistojese, questi dittonghi si odono spiccatissimi sulle bocche di tutti. E poi quando fosse altrimenti, il popolo è autorità assoluta in opera di pronunzia? No, risponde Cicerone, Aulo Gellio, Dante, il Bembo, il Salviati, e tutti i primi maestri: no, perchè allora bisognerebbe dire e scrivere sua e tua per tuoi e suoi; issole per il sole; e molte altre simili: no, perchè è una mattia l' accettare, a chius' occhi questa autorità sconfinata del popolo, la quale ci porterebbe a dover dire e scrivere molti errori che al popolo son comuni, come radino, dicono, e simili per vadano e dicano: andiedi per andai: vai e fai e stai, per va, fa, sta, imperativi; si fece, si disse, ecc., per facemmo e dicemmo: lui e lei, per egli ed ella in ogni caso: cosa per che cosa; ed altre simili gioie, che pur brillano negli scritti di questi ciechi seguaci dell' uso e no, finalmente, perchè non è vero niente che l' uso di questi e simili errori sia generale tra 'l popolo, essendoci pure una gran parte, anzi la maggior parte delle persone civili, che mai non li dicono. "Non altro ho da dire circa a questa regola. Mi sono fatto intendere? Sì, signore, rispose la Zaira a nome di tutte; e spero che niuna, di noi caderò più in tal errore. Intanto, essendo passata l' ora, la direttrice si alzò, e tutte facevano altrettanto, quando la Eglina: "Scusino, ma ci siamo scordate d' una cosa. "Che cosa? domandò la direttrice. "La Clelia ha detto delle parole latine; ma noi non sappiamo quel che voglion dire. "O povera signora Eglina, continuò il maestro, ha ragione, ed eccomi qui a spiegargliele. La signora Clelia ci ha raccontato che sulla medaglia coniata per la Bassi ci era il motto: Soli cui fas vidisse Minerva, le quali vengono a dire che quella medaglia fu coniata per onorare colei a cui solo fu conceduto di vedere Minerva, volendo significare che la Bassi fu la più sapiente fra le donne, tanto sapiente che vide a faccia a faccia Minerva, la quale è simboleggiata per la sapienza stessa.

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