Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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PROFUMO

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

disse Eugenia, abbandonando affettuosamente la testa sul petto di Patrizio. "Poco fa, nella selva" egli rispose, con umile accento di preghiera "che intendevi? Parla! ... Guardami in faccia ... Ti sfuggì di bocca: "È un'altra cosa!"." Ella appoggiava più fortemente la testa sul petto di lui, invece di sollevarla e guardarlo in faccia. "Che cosa intendevi?" "Sciocchezza! Non badarci!" "Dimmelo; tanto meglio, se è una sciocchezza!" "Te l'ho già detto: mi pareva che tu fossi cambiato. Dio mio!" soggiunse, voltando la testa perché la voce suonasse più chiara. "Potremmo esser felici, e soffriamo tanto! Tu non hai fiducia in me; sei chiuso nuovamente. Se sono malata, che colpa ne ho io? Ebbi torto, tacendo. Ma ora sto meglio. Ora sto bene. Non ho voluto ingannarti. La mia malattia ti tiene di cattivo umore, non negarlo. Che colpa ne ho io? Ho detto tutto al dottor Mola; ho detto tutto anche a te! Avevo vergogna. Non credevo che fosse così grave. Guarirò presto; vedrai. Senti? Il profumo è quasi sparito. Oggi, forse, è un po' più di ieri. Sono stata agitata in questi giorni. Domani diminuirà. Sparirà presto. Non dirmi più niente. Dio mio! Dio mio! ..." ella cominciò a singhiozzare. Patrizio la stringeva fra le braccia. La commozione gli impediva di parlare, quasi stesse per rompersi dentro di lui qualcosa da cui era stato lungamente avvinto e impedito in tutti i movimenti del cuore ... Uno sforzo, un piccolis- simo sforzo, e la sua liberazione sarebbe avvenuta! Ma i suoi occhi si volsero con ansietà verso l'uscio di rimpetto, pa- ventando un'improvvisa apparizione; e le braccia gli si rallentarono, e la parola gli rimase a mezza gola.

CENERE

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Deledda, Grazia 1 occorrenze

In poco tempo egli si trasformò, ingrassò e diventò addirittura un signore, abbandonando il rozzo costume fonnese per un abituccio di fustagno scuro. Inoltre cominciò a parlar nuorese e ad assumere i modi spigliati di Bustianeddu. Ma il suo cuoricino non cambiava, non poteva cambiare. Strani sogni di fughe, di avventure, di avvenimenti straordinari si confondevano, nella piccola anima, con l'istintiva nostalgia per il luogo natìo, per le persone e le cose perdute; col desiderio della libertà selvaggia fino allora goduta, ed infine col sentimento arcano di pietà e di vergogna, col pensiero costante, col segreto anelito per la madre lontana. Egli anelava a qualche cosa d'ignoto, voleva sua madre perché tutti avevano la madre, e perché il non averla gli causava, più che dolore, umiliazione. Capiva che ella non poteva stare col mugnaio, perché costui aveva un'altra moglie; ma fra i due, egli avrebbe preferito vivere con lei. Forse istintivamente intuiva già che ella era la più debole, e anche per ciò si sentiva dalla sua parte. A misura che il tempo passava, questi sentimenti si attenuavano, ma non scomparivano dal piccolo cuore; come nella piccola memoria si trasformava ma non spariva la figura fisica e morale della madre lontana. Un giorno poi egli venne a sapere da Bustianeddu, che lo perseguitava con la sua amicizia subìta più che accettata, una cosa straordinaria. «Mia madre non è morta», gli confidò il ragazzetto, quasi vantandosene. «Si trova anch'essa in continente, come la tua: scappò una volta che mio padre stette in carcere. Ma quando sarò grande andrò a trovarla; eh, sì, te lo giuro! Eppoi io ho anche uno zio, che studia in continente; ed egli scrisse d'aver veduto mia madre passare in una via, e voleva bastonarla, ma la gente lo tenne fermo. Ecco, questo berretto rosso era di mio zio.» Questa breve storia confortò Anania, e lo legò di viva amicizia con Bustianeddu. Essi trascorsero molti anni assieme: nel frantoio, nella casa di zia Tatàna, per le straducole del vicinato. Bustianeddu aveva quasi la stessa età di Zuanne, l'amico perduto, e in fondo era generoso e ardente. Andava o diceva d'andare a scuola, ma spesso il maestro scriveva un bigliettino al padre per chiedere notizie dell'invisibile scolaro: allora il genitore, che era un piccolo negoziante di lana e di pelli, legava il bimbo con una corda di pelo e lo chiudeva in una stanza, imponendogli di studiare. Come i delinquenti dal carcere, Bustianeddu usciva da questa specie di prigionia più astuto e indurito di prima. Solo durante le lunghe e frequenti assenze del padre, egli, solo in casa, diventava serio: pareva sentisse la responsabilità della sua posizione; guardava la casa, scopava, preparava da mangiare, lavava la biancheria. Spesso Anania lo aiutava di gran cuore; in cambio Bustianeddu gli dava qualche consiglio e gli insegnava molte cose buone e moltissime cattive. Passavano buona parte delle giornate e delle lunghe sere fredde nel molino, ove Anania grande, - come lo chiamavano per distinguerlo dal figlio, - lavorava per conto del ricco signor Daniele Carboni, al quale il frantoio apparteneva. Il mugnaio, - che secondo le stagioni si trasformava in contadino, in ortolano, in vignaiuolo, - dava al signor Carboni il rispettoso titolo di padrone perché lo serviva da lunghi anni, ma in realtà il suo lavoro era molto indipendente, ben rimunerato e non privo di incerti. Il frantoio dava da una parte su un cortile e dall'altra su un orto che scendeva fino allo stradale sopra la valle; un bell'orto alquanto selvatico, con roccie, siepi di biancospino e di fichi d'India, peschi e mandorli e una quercia dal tronco corroso, nido di grosse termiti, di cavallette, di bruchi e d'uccelli. Anche quest'orto apparteneva al signor Carboni, ed era il sogno di tutti i monelli del vicinato; ma zio Pera Sa Gattu, il vecchio ortolano sempre armato d'un randello, non lasciava mai penetrare nessuno. Da quest'orto si vedevano le belle ed agili fanciulle nuoresi scendere alla fontana con l'anfora sul capo come le donne bibliche: e zio Pera le sbirciava con occhi da satiro mentre seminava le fave e i fagiuoli, mettendo tre semi per buco, e gridando per spaventare i passeri. Dal finestrino del molino Anania e Bustianeddu guardavano anch'essi con intenso desiderio l'orto soleggiato, aspettando che l'ortolano si assentasse: ma zio Pera, ch'era un ometto secco, dal viso rosso-terreo, sbarbato e sarcastico, amava troppo le sue fave e i suoi cavoli per abbandonarli durante la giornata: solo verso sera saliva al molino per riscaldarsi e chiacchierare. Era un'annata abbondante di olive; anche i proprietari dei paesi vicini s'affannavano per ottenere l'opera del frantoio che funzionava giorno e notte; per ogni macinata di circa due ettolitri d'olive si lasciavano due litri d'olio. Accanto alla porta c'era una latta per l'olio da alimentar la lampada di questa e quella Madonna, e le persone devote non mancavano mai di versarvi un po' del prodotto delle olive macinate durante la giornata. Sacchi d'olive nere lucenti, sansa fumante, barili ed altri recipienti sporchi ingombravano sempre l'ambiente nero, caldo e sucido del molino; e in questo ambiente, intorno alla ruota trainata dal lungo cavallo baio, davanti alla caldaia bollente, accanto al torchio sempre in moto, sempre stillante olio, fra l'odore non sgradevole ma troppo forte della sansa e dei rifiuti dell'olio, muovevasi di continuo una folla di tipi caratteristici. La sera, poi, si riunivano intorno al fuoco della caldaia le persone più freddolose del vicinato: per lo più la compagnia veniva composta, oltre che dal mugnaio e dai clienti, che aiutavano a spingere la sbarra del torchio, da cinque o sei individui sempre alticci. Uno di questi, Efes Cau, già ricco possidente, ridotto in estrema miseria dal vizio del vino, dormiva quasi ogni notte nel molino, infestando di insetti l'angolo dove si coricava. Una sera, appunto, sorse questione fra il mugnaio ed un ricco contadino che aveva trovato un brutto insetto in un sacco di olive. «Dovresti vergognarti, per Dio!», gridava il contadino. «Perché lasci entrare qui tutti i vagabondi di Nuoro?» «Dopo tutto egli era ricco, più ricco di te!», gridò il mugnaio, difendendo il Cau. «Questo non impedisce che ora egli viva di elemosine e sia pieno di insetti», rispose l'altro con disprezzo. Allora zio Pera l'ortolano, che stava seduto accanto al fuoco col suo randello fra le ginocchia, recitò una canzonetta: Onzi pessone Nde juchet de munnia. - E tue chi lu ses nende Nde juches unu andende Issu collette! Il contadino si toccò istintivamente il colletto e tutti risero. Anche il contadino rise, si calmò ed anzi fece portare da casa sua un bottiglione di vino. Anania e Bustianeddu, seduti in un angolo, sulle sanse calde, si divertivano nell'udire i discorsi dei grandi: e quando arrivò Efes, come sempre ubriaco, barcollante, vestito d'un vecchio abito da caccia del signor Carboni, Bustianeddu gli andò incontro e gli cantò la canzonetta di zio Pera. Onzi pessone bia ... Efes lo guardò coi suoi occhi vitrei, rotondi e sporgenti, e mentre sulle sue guancie gialle e cascanti passava come un brivido di disgusto, la sua mano palpava il lurido collo della giacca abbottonata. La gente ricominciò a ridere, e l'infelice si guardò attorno e barcollò; poi si mise a piangere accorgendosi che lo deridevano. «Efes!», gridò zio Pera, mostrandogli un bicchiere colmo che al riflesso del fuoco pareva di rubino. L'ubriaco si avanzò, sorridendo fra le lagrime con un sorriso ebete. «No», disse Franziscu Carchide, il giovane calzolaio, nonché ricamatore di cinture, bel giovine galante, dal viso roseo, «se tu non balli non bevi.» E preso il bicchiere dalle mani del vecchio lo sollevò in alto, mentre Efes guardava e tendeva le braccia animato dal brutale desiderio del vino. «Dammi, dammi ... » «No, se non balli, no.» Egli fece un giro intorno a sé, reggendosi in equilibrio. «Bisogna anche cantare, Efes!» Ed egli aprì la bocca puzzolente ed emise una nota rauca: Quando Amelia sì pura e sì candida ... Egli tentava sempre questo motivo; ma arrivato all'ultima parola contorceva la bocca come spasimando per la vana ricerca dell'altro verso che non ricordava. Anania e Bustianeddu ridevano sgangheratamente, accoccolati sulle sanse, simili a due pulcini. «Senti», propose Bustianeddu, «mettiamogli delle spille, nel posto dove si corica». «Perché vuoi mettergli delle spille?» «Perché si punga, ecco: allora ballerà davvero. Io ho le spille.» «Mettiamole», rispose l'altro, sebbene a malincuore. L'ubriaco ballava ancora, barcollante, cascante, tendendo le mani verso il bicchiere; e la gente rideva. Ma l'allegria giunse al colmo quando entrò nel molino Nanna, l'ubriacona. Quella sera, però, ella era sana, aveva le vesti pulite e la faccia meno ripugnante del solito; i suoi occhietti brillavano d'una certa intelligenza. Era stata durante il giorno a cogliere erbe mangereccie selvatiche, e veniva a domandare un po' d'olio per condirle. Vedendo Efes in quello stato, fatto ludibrio della gente, ella ebbe un lampo negli occhi; si avanzò, prese l'infelice per un braccio e nonostante le comiche proteste del ricco contadino, lo costrinse a sedersi su un sacco di olive. «Non ti vergogni, Efes Cau? Non hai occhi? Non vedi che tutti questi mendicanti, tutte queste immondezze ridono di te? E perché hanno raddoppiato le risa vedendomi? Eppure oggi io ho lavorato, come è vero Dio, ho lavorato. Ah, Efes, Efes! Ricordati come era ricca la tua casa! Io venivo per portare l'acqua dalla fontana, e mi ricordo che tua madre aveva bottoni d'oro della camicia grossi come il mio pugno: la tua casa sembrava una chiesa, tanto era ricca e lucente. Se tu ti fossi guardato dal vizio, ora tutti avrebbero cercato di raccoglierti come si raccoglie un confetto. Invece tu ora sei schernito dai più miserabili pezzenti; e tutti ridono di te come dell'orso che balla per le strade ... Ecco che ridono ancora, eppure essi sono più ubriachi di noi, come è vero Dio. Suvvia, mugnaio, dammi un po' d'olio: tua moglie è una santa, ma tu sei un diavolo: quando lo trovi il tesoro?» «Veramente egli lavora un po' più di te; perché te la prendi con lui?» chiese zio Pera, accennando al mugnaio. «Vecchio peccatore», rispose la donna, «voi state zitto, quando ci sono io ... » «Poh! Poh!» disse il vecchio con disprezzo. «Tu fai la predica, oggi, perché non hai vino in corpo.» «Io so tenere in corpo il vino ed altre cose ancora ... Dammi l'olio, Anania Atonzu; oggi nella valle ho visto una cosa; sembrava una moneta d'oro.» «Tu non l'hai raccolta?», gridò il mugnaio, rizzandosi sulla sua pala nera. «Eccola», rispose Nanna, frugandosi in tasca e avvicinandosi al mugnaio, che si pulì le mani passandosele sulle ginocchia, e poi esaminò la moneta di rame fatta nera-verde dal tempo. Bustianeddu ed Anania corsero anch'essi a vedere. Intanto Efes, seduto sul sacco, piangeva ricordando la madre e la ricca casa paterna e invano il Carchide cercava di consolarlo offrendogli il bicchiere. No, neppure il vino poteva lenire il dolore di quei ricordi. Tuttavia egli prese il bicchiere e bevette piangendo. Il ricco contadino ed il padre di Bustianeddu, giovine olivastro con gli occhi turchini e la barba rossa, congiuravano per far ubriacare Nanna onde ella dicesse ciò che sapeva sul conto di zio Pera; e intanto l'ortolano gridava contro i due uomini che spingevano la spranga perché, secondo lui, essi non spiegavano abbastanza le loro forze. «Che una palla vi trapassi il fegato; conservatevi bene, ragazzi», diceva con ironia. «Come sono poltroni i giovani d'oggi!» «Provate un po' a mettervi qui, voi, al posto delle olive, per sentire la nostra forza.» «Che una palla vi trapassi la milza, che una palla vi trapassi il calcagno», continuava ad imprecare zio Pera. «Bene!», esclamò Maestro Pane, il vecchio falegname gobbo, che aveva un solo baffo grigio sulla gran bocca sdentata; poi egli andò e mise il chiodo sotto. Seduto contro il muro sotto il finestruolo, egli si batteva di tanto in tanto i pugni sulle ginocchia, ma nessuno badava a lui, che usava parlare fra sé ad alta voce. «Nanna», disse il contadino, «ora si porta la cena da casa mia. Resta.» «Tu vuoi divertirti?», disse la donna, guardandolo maliziosamente. «Non ti basta Efes?» Tuttavia ella restò; andò presso il poveretto che piangeva sempre, e ricominciò a rimproverarlo, consigliandolo di non bere più, di non essere più il disonore dei suoi parenti; ma intanto avveniva una cosa strana. Il Carchide le mostrava il bicchiere colmo, facendo dei cenni con la bocca, invitandola silenziosamente a bere, ed ella guardava il vino affascinata. «E dammelo!», proruppe alfine. Bustianeddu ed Anania, ritti dietro i due disgraziati ubriaconi, ridevano a più non posso. «Perdio, come sei brutto!», disse Maestro Pane, sempre parlando fra sé. Nanna prese il bicchiere, bevette e cominciò a raccontare brutte storielle sul conto di zio Pera. Sì, il vecchio ortolano aspettava la mattina per tempo che qualche ragazzetta passasse nello stradale; la chiamava promettendole fave e insalata, e quando l'aveva attirata entro l'orto cercava ... «Ah, otre schifosa!», gridò zio Pera, minacciandola col randello. «Aspetta, aspetta un po' ... » «Ebbene, cosa dico io? Voi cercavate d'insegnarle l'ave-maria ... » Tutti ridevano, ed anche Anania rideva, sebbene non capisse perché zio Pera volesse insegnare per forza l'ave-maria alle ragazzette che andavano alla fontana. Intanto Bustianeddu aveva seminato le spille sul posto ove Efes soleva coricarsi, Anania se ne accorse e non si oppose, ma appena fu a casa, coricato nel gran letto di zia Tatàna, provò un impeto di rimorso. Non poteva dormire; si voltava e rivoltava, sembrandogli d'esser anche lui tormentato da migliaia di spille. «Che hai, bambino?», chiese zia Tatàna, con l'usata dolcezza. «Ti fa male il ventre?» «No, no ... » «Ma che hai dunque?» Egli non rispose subito, ma dopo qualche momento rivelò il segreto. «Abbiamo sparso tante spille sul posto ove dorme Efes Cau ... » «Ah, cattivi ragazzi! Perché avete fatto ciò?» «Perché egli si ubriaca ... » «Ah! Santa Caterina mia!», sospirò la donna. «Come sono cattivi i ragazzi d'oggi! E se qualcuno mettesse delle spille dove dormite voi? Vi piacerebbe? No, vero? Eppure voi siete più cattivi di Efes. Tutti nel mondo siamo cattivi, agnellino mio, ma bisogna che ci compatiamo a vicenda: altrimenti guai, ci divoreremmo come i pesci del mare. Re Salomone disse che spetta soltanto a Dio giudicare ... Hai capito?» E Anania pensò a sua madre, a sua madre che era stata così cattiva da abbandonarlo. Un giorno, verso la metà di marzo, Bustianeddu invitò Anania a pranzo. Il negoziante di pelli era dovuto partire improvvisamente per affari, e il ragazzetto trovavasi solo a casa, solo e libero dopo due giorni di prigionia per una delle solite assenze dalla scuola: inoltre serbava sulla guancia destra il segno d'un poderoso schiaffo somministratogli dal genitore. «Vogliono che io studi!», disse ad Anania, aprendo le mani, col solito fare da uomo serio. «E se io non ne ho voglia? Io desidero fare il pasticciere: perché non me lo lasciano fare?» «Sì, perché?», chiese Anania. «Perché è vergooogna!», esclamò l'altro, allungando la parola con accento ironico. «È vergogna lavorare, apprendere un mestiere, quando si può studiare! Così dicono i miei parenti: ma ora voglio far loro una burletta. Aspetta, aspetta!» «Che cosa vuoi fare?» «Te lo dirò poi: ora mangiamo.» Egli aveva preparato i maccheroni: così egli chiamava certi gnocchi grossi e duri come mandorle, conditi con salsa di pomidoro secchi. I due amici mangiarono in compagnia d'un gattino grigio che con lo zampino bruciacchiato prendeva famigliarmente i gnocchi dal piatto comune e se li portava furbescamente in un angolo della cucina. «Come è curioso!», diceva Anania, seguendolo con gli occhi. «A noi ce l'hanno rubato, il gatto.» «Anche a noi. Ce ne hanno rubati tanti! Scompaiono e non si sa dove vadano a finire.» «Scompaiono tutti i gatti del vicinato! Chi li ruba cosa ne fa?» «Ebbene, li fa arrostire. La carne è buona, sai; sembra carne di lepre. In continente la vendono per lepre: così dice mio padre.» «Tuo padre è stato in continente?» «Sì. Ed anch'io ci andrò, e presto.» «Tu?!», disse Anania, ridendo con un po' d'invidia. Bustianeddu allora credé giunto il momento di svelare all'amico i suoi pericolosi progetti. «Io non posso più viver qui», cominciò a lamentarsi; «no, io voglio andar via. Cercherò mia madre e farò il pasticciere; se vuoi venire, vieni anche tu.» Anania arrossì d'emozione, e sentì il suo cuore battere forte forte. «Non abbiamo denari», osservò. «Ecco, noi prendiamo le cento lire che sono nel cassetto del comò; se vuoi, le prendiamo subito; poi le nascondiamo, perché se partiamo subito mio padre si accorge che le ho prese io; aspettiamo finché passa il freddo, poi partiamo. Vieni.» Condusse Anania in una camera sucida e disordinata, ingombra di pelli d'agnello puzzolenti; cercò la chiave del cassettone in un nascondiglio e si fece aiutare ad aprire il cassetto: oltre il biglietto rosso delle cento lire c'erano altre carte-monete e denari in argento, ma i due ladruncoli domestici presero soltanto il biglietto rosso, richiusero, rimisero la chiave. «Ora lo tieni tu», disse Bustianeddu, ficcando il biglietto in seno ad Anania; «stanotte lo nasconderemo nell'orto del molino, nel buco della quercia, sai; poi aspetteremo.» Ancor prima che avesse potuto opporsi, Anania si trovò col biglietto nel seno, sotto l'amuleto di broccato; e passò una giornata febbrile, piena di rimorsi, di paura, di speranze e di progetti meravigliosi. Fuggire! Fuggire! Come e quando non sapeva, ma oramai sentiva che il sogno stava per avverarsi, e ne provava gioia e terrore. Fuggire, passare il mare, penetrare nel regno fantastico di quel continente misterioso dove si nascondeva sua madre! Che ansie, che sogni, che gioia! Le cento lire gli sembravano un tesoro inesauribile; ma intanto sentiva d'aver commesso un grave delitto, rubandole, e non vedeva l'ora che arrivasse la notte per liberarsene. Non era la prima volta che i due amici penetravano nell'orto coltivato da zio Pera, scavalcando la finestruola che dalla stalla attigua al molino dava nell'orto; di notte, però, non c'erano stati mai, quindi spiarono a lungo prima d'azzardarsi. Cadeva una sera chiara e fredda; la luna piena sorgeva fra le roccie nere dell'Orthobene, illuminando l'orto con un chiarore d'oro. Giungeva ai due bimbi affacciati alla finestruola un disperato miagolìo di gatto che pareva un lamento umano. «Che cosa è? Pare il diavolo!», disse Anania. «Io non scendo, no, io ho paura.» «E rimani qui, allora! È un gatto, non senti?», rispose l'altro con disprezzo. «Scendo io; nascondo il denaro entro la quercia, dove zio Pera non guarda mai; poi torno. Tu resta qui a guardare; se c'è pericolo, fischia.» In che consistesse poi questo pericolo i due amici non sapevano; ma entrambi provavano un acuto piacere a render fantastica l'avventura, alla quale il chiarore della luna e quel lamento straziante di gatto davano un sapore ancor più piccante. Bustianeddu saltò nell'orto, ed Anania rimase alla finestra, un po' avvilito dalla paura che lo rendeva tremante, ma tutto occhi e tutto orecchi. Ed ecco, appena il compagno fu scomparso in direzione della quercia, due ombre passarono sotto la finestruola; Anania sussultò, emise un fischio sottile sottile, e si nascose sotto il davanzale. Che impeto di terrore e di piacere strano provò in quel momento! Come si sarebbe salvato Bustianeddu? Che avveniva laggiù? Ecco, i lamenti del gatto raddoppiarono, si fusero tutti in un gemito rabbioso e straziante; poi cessarono. Silenzio. Che mistero, che orrore! Anania sentiva il cuore spezzarglisi in seno. Che accadeva all'amico? L'avevano preso, l'avevano arrestato? Ora lo porterebbero in prigione; ed anche lui, anche lui subirebbe la sua parte di guai. Tuttavia non pensò un solo istante a mettersi in salvo, ed attese coraggiosamente sotto la finestra. Ed ecco un passo, un respiro ansante, una voce sommessa e tremula. «Anania? Dove diavolo sei?» Anania balzò su, porse la mano al compagno salvo. «Diavolo», disse Bustianeddu, ansante, «l'ho scampata bella.» «Hai sentito il fischio? Eppure ho fischiato forte.» «Niente. Ho sentito invece il passo di due uomini, e mi sono nascosto sotto i cavoli. Ecco, sai chi erano i due uomini? Zio Pera e Mastru Pane. Sai che hanno fatto? Ebbene, c'è un laccio pei gatti; il gatto che miagolava era preso al laccio, e zio Pera lo ha ammazzato col randello. Maestro Pane prese la povera bestia sotto il mantello e disse, tutto contento: "Per Dio, come è grasso! Meno male", disse zio Pera, "quello di avantieri sembrava uno stecco". Poi andarono via.» «Oh!», esclamò Anania a bocca aperta. «Ora lo fanno arrostire, capisci, e cenano. Sono loro che rubano i gatti, così, prendendoli al laccio! Meno male che non mi hanno veduto!» «E i denari?» «Nascosti. Andiamo, mammalucco; non sei buono a niente.» Anania non si offese: chiuse la finestra e rientrò nel molino, dove si svolgeva la solita scena. C'era Efes che si grattava le spalle contro il muro, cantando Quando Amelia si pura e si candida ... e il Carchide che raccontava d'essere stato in un paese vicino, per certi suoi affari. «Il sindaco era amico di mio padre, quando noi eravamo ricchi», diceva il bel giovine, la cui famiglia era stata sempre miserabile. «Appena sa che io arrivo nel paese, mi manda a chiamare e mi ospita in casa sua. Accidenti, che gente ricca! Trenta servi e sette serve: per arrivare alla casa bisogna attraversare tre cortili, uno dentro l'altro, con muri altissimi: i portoni di ferro, le finestre della casa tutte munite d'inferriate.» «E perché?», chiese il mugnaio. «Per i ladri, caro mio. Perché il sindaco è ricco come il Re.» «Boumh! Boumh!», gridò un uomo che spingeva la spranga. «Cosa ne sai tu?», riprese il Carchide, guardando l'uomo con disprezzo. «Il sindaco ed i suoi fratelli, quando morì il loro padre, si divisero le monete d'oro con una misura capace d'un ettolitro! La moglie del sindaco, poi, ha otto tancas in fila, irrigate da fiumi, con più di cento fontane! Ebbene, dicono che il padre del sindaco trovò un ascusorju, dove il re di Spagna, quando fece la guerra con Eleonora d'Arborea, nascose più di cento mila scudi in oro.» «Ah!», esclamò il mugnaio, con un fremito d'emozione, appoggiandosi sulla pala nera. «Quelli sì, quelli son signori ricchi», riprese il Carchide. «E dunque i rognosi Nuoresi?» «Il mio padrone è ricco!» protestò il mugnaio. «Possiede più lui nell'angolo della scopa che tutti i tuoi sindaci pulciosi.» «E va!», gridò il giovine, facendo le fiche. «Tu non sai quel che dici.» «Tu, non sai quel che dici, tu!» «Il tuo padrone è pieno di debiti: ne vedremo la fine, ne vedremo.» «Che tu possa diventar cieco, prima!» «Che tu possa schiantare prima!» Per poco il mugnaio ed il giovane calzolaio non vennero alle mani: ma la loro lite fu interrotta da un assalto di delirium tremens che colpì il povero Efes Cau. Egli cadde sulle sanse, avvoltolandosi, contorcendosi, saltando come un verme, con gli occhi spaventosamente aperti e i lineamenti contratti. Anania si gettò in un angolo, gridando e piangendo per lo spavento, mentre Bustianeddu corse, assieme col mugnaio ed altri, per aiutare il disgraziato. A poco a poco Efes tornò in sé, si sedette sulle sanse sparse, guardò attorno con quei suoi grandi occhi sporgenti pieni di terrore, ancora tutto contorto e tremante. Gli diedero da bere, lo confortarono. «Chi ... chi mi ha assalito? Perché mi avete bastonato? Ah, non mi ha abbastanza castigato Dio perché abbiate a bastonarmi anche voi?» Poi si mise a piangere. Lo fecero coricare, ed egli si assopì, delirando, chiamando sua madre ed una sorellina morta. Anania lo guardava con terrore e pietà: avrebbe voluto fare qualche cosa per aiutarlo, ed intanto provava un istintivo disgusto per quell'uomo una volta ricco, ora ridotto ad un involto di cenci puzzolenti, buttato sulla sansa come un mucchio di immondezze. Chiamata da Bustianeddu venne zia Tatàna: si chinò pietosamente sul malato, lo toccò, lo interrogò, gli mise un sacco sotto il capo. «Bisogna dargli un po' di brodo», disse sollevandosi. «Ah, il peccato mortale, il peccato mortale!» «Figliolino mio», disse ad Anania, «va dal signor padrone a chiedere un po' di brodo per Efes Cau. Va: vedi come riduce il peccato mortale? Va, prendi questa scodella, va.» Egli andò con piacere, e Bustianeddu lo accompagnò. La casa del padrone non era lontana, ed Anania vi si recava spesso per farsi dare la prebenda del cavallo, i lucignoli per la candela del molino, e per altre commissioni. Le strade erano qua e là illuminate dalla luna; gruppi di paesani passavano cantando un coro melanconico ed appassionato. Davanti alla casa bianca del signor Carboni si stendeva un cortile quadrato recinto d'alti muri e con un grande portone rosso. I due ragazzetti dovettero picchiar forte per farsi aprire; ed Anania porse la scodella, esponendo il caso di Efes Cau alla domestica che dischiuse il portone. «Non sarà per voi, il brodo, eh?», sogghignò la serva, squadrando sospettosa i due amici. «Va al diavolo, Maria Iscorronca, noi non abbiamo bisogno di brodo», gridò Bustianeddu. «Animaletto, ora ti pago gli insulti», disse la serva, rincorrendolo per la strada. Ma egli fuggì, mentre Anania penetrava nel cortile illuminato dalla luna. «Chi è: cosa vogliono?», chiedeva una vocina sottile, dall'ombra di una tettoia sotto cui aprivasi la porta della cucina. «Sono io!», gridò Anania, avanzandosi, con la scodella fra le mani. «Efes Cau è malato, nel molino, e mia madre prega la signora padrona che dia un po' di brodo al disgraziato.» «Oh, vieni!», rispose la vocina. In quel momento rientrò la serva, che non avendo potuto raggiungere Bustianeddu prese a spintoni il piccolo Anania. Allora la bimba che aveva detto «vieni» balzò fuori e difese il figlio del mugnaio. «Lascialo: che ti ha fatto?», disse, tirando la sottana alla serva. «Dagli subito il brodo. Subito!» Questa protezione, quel tono da padrona, quella figurina grassa e rossa, vestita di flanellina turchina, quel nasetto prepotente rivolto all'insù fra due guancie molto paffute, quei due occhi scintillanti alla luna, fra due bende ricciolute di capelli rossicci, piacquero immensamente ad Anania. Egli conosceva già la figlia del padrone, Margherita Carboni, come la chiamavano tutti i bimbi che frequentavano il molino; qualche volta ella gli aveva dato i lucignoli ed anche l'orzo per il cavallo, e quasi tutti i giorni egli la vedeva nell'orto e ad intervalli anche nel molino, dove essa si recava con suo padre; ma mai s'era immaginato che quella signorina grassa e rossa e dall'aria superba fosse così affabile e buona. Mentre la serva entrava in cucina per prendere il brodo, Margherita domandò ad Anania qualche particolare sulla malattia di Efes Cau. «Egli oggi ha mangiato qui, in questo cortile», ella disse con serietà. «Pareva sano.» «È un male che viene agli ubriaconi», spiegò Anania. «Si contorceva come un gatto ... » Appena dette queste parole egli arrossì ricordando il gatto preso al laccio da zio Pera, e le cento lire rubate e nascoste nell'orto. Cento lire rubate! Che avrebbe detto Margherita Carboni se avesse saputo che lui, Anania, lui, il figlio del mugnaio, lui, l'abbandonato, lui, il servo, verso cui la piccola padrona si degnava mostrarsi affabile e buona, aveva rubato cento lire e che queste cento lire erano nascoste nell'orto? Ladro! Egli era un ladro, e di una somma enorme! Solo in quel momento percepì tutta la vergogna della sua azione, e sentì dolore, umiliazione, rimorso. «Come un gatto, ah!», disse Margherita stringendo i denti e torcendo il nasino; «Dio mio, Dio mio; è meglio che egli muoia.» La serva tornò, con la scodella colma di brodo. Anania non poté più aprir bocca: prese la scodella e andò via piano piano, badando di non versare il brodo. Sentiva una strana voglia di piangere, e quando raggiunse Bustianeddu, nello svolto della strada, ripeté le parole di Margherita: «È meglio che egli muoia». «Chi? È caldo quel brodo? Ora lo assaggio ... », disse l'altro, allungando il collo verso la scodella. Ma Anania si irritò. «Non toccare!», gridò. «Tu sei cattivo; tu diventerai come Efes. Perché hai preso i denari?» aggiunse, abbassando la voce. «È peccato mortale, rubare. Va a riprenderli e rimettili nel cassetto.» «Poh! Poh! Sei matto?» «Ed io lo dico a mia madre!» «Tua madre!», disse l'altro con ironia. «Va a cercarla!» Intanto camminavano lentamente, ed Anania guardava sempre la scodella. «Siamo ladri!», disse a bassa voce. «Il denaro è di mio padre, e tu sei un mammalucco. Andrò via io solo, io solo ed io solo!» «Va, che tu non possa più ritornare! Ma io ... io lo dirò a ... a zia Tatàna» (sì, ora si vergognò di dire mia madre!). «Spia!», proruppe Bustianeddu, minacciandolo coi pugni stretti. «Se tu parli ti ammazzo come una lucertola, ti rompo i denti con una pietra, ti faccio cacciar le viscere per gli occhi.» Anania abbassò le spalle, pauroso di rovesciar il brodo e di ricevere i pugni dell'amico, ma non ritirò la minaccia di rivelare ogni cosa a zia Tatàna. «Che diavolo ti han detto dentro quel cortile?», proseguì l'altro, fremente. «Che ti ha detto quella servaccia? Parla.» «Niente. Ma io non voglio essere un ladro.» «Tu sei un bastardo», gridò allora Bustianeddu, «ecco cosa sei. Ed io ora vado, riprendo i denari e non ti guardo più in faccia.» S'allontanò di corsa, lasciando Anania colpito da un dolore profondo. Ladro, bastardo, abbandonato! Era troppo, era troppo! Egli pianse e le sue lagrime caddero entro la scodella. «Ed ora anche Bustianeddu mi abbandona e va via solo! Ed io, quando potrò partire io? Quando potrò ricercarla? Quando sarò grande!», rispose a se stesso, rianimandosi. «Ora non m'importa.» Tuttavia, appena consegnò la scodella a zia Tatàna, corse al finestruolo della stalla. Silenzio. Non si vedeva nessuno, non s'udiva nulla nel grande orto umido e chiaro sotto la luna. Le montagne si delineavano azzurre sullo sfondo vaporoso del cielo; tutto era silenzio e pace. Ad un tratto giunse dal molino la voce di Bustianeddu. «Egli non ha ripreso i denari?», pensò Anania. «Non è entrato nell'orto. Se andassi io?» Ma ebbe paura; rientrò nel molino e cominciò ad aggirarsi come un gattino affamato intorno a zia Tatàna che curava il malato. Ella gli fece la solita domanda: «Che hai? Ti fa male il ventre?». «Sì, andiamo a casa.» Zia Tatàna capì che egli voleva dirle qualche cosa e lo accompagnò fuori. «Gesù, Gesù, Santa Caterina bella!», proruppe, appena seppe tutto. «In che mondo siamo noi! Anche gli uccelli, anche i pulcini dentro l'uovo commettono il male!» Anania non seppe mai come zia Tatàna avesse persuaso Bustianeddu a rimettere il denaro nel cassetto: però d'allora in poi i due amici si guardarono un po' in cagnesco, e per ogni piccola cosa si insultavano e venivano alle mani.

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