Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbaiavano

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Senso

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Boito, Camillo 1 occorrenze

Alla fine gli parve di udire in su, distante, il passo di un uomo; era un uomo, certo, che scendeva dalla montagna; il passo s'affrettava, rintronava; i cani abbaiavano: era il passo del curato. Allora il piccolo vecchio si pose dinanzi alla porta con il muso arcigno e gli occhi da cui schizzavano scintille di rabbia; aveva i pugni piantati sulle anche in atto di sfida, come se volesse impedire al prete l'ingresso della canonica, e già schiudeva le labbra per cominciare la ramanzina quando, vista la faccia del padrone, ammutolì e lo lasciò passare. Borbottava tra i denti o per meglio dire tra le gengive: - Dio santo, che mutria! E come ha conciato i panni! Mi ci vorrà un mese a ricucirli e a rimetterli un po' in assetto. Bella carità cristiana. Il curato passò il resto della notte all'inginocchiatoio, davanti al Crocifisso, che lo aveva salvato. L'alba fece parere più livido, più macilento, più contorto e più sanguinoso quel Cristo in croce, con la sua testa china incoronata di spine. All'aurora principiò il concerto delle campane. Le suonava Menico, facendosi aiutare durante i suoi servigii di sagrestia e di chiesa, o quando si sentiva le braccia stanche, da un ragazzotto, che per solito era uno dei due monelli trionfatori del giorno innanzi, e propriamente quello bruno, il quale della metà dei trentasette fiorini guadagnati per l'uccisione dell'orsacchiotta non aveva visto il becco di un soldo, tanto i suoi parenti erano stati lesti a mangiarli tutti ed a berli. Era la domenica, e la messa del curato doveva principiare alle dieci. Verso le otto un contadino, che veniva dalla valle, consegnò a Menico una lettera per il suo padrone. L'indirizzo, scritto in calligrafia sottile, snella, elegante, palesava una mano di donna. Il prete pigliò la lettera, la guardò; le dita gli bruciavano, le mani gli tremavano; una visione terribilmente allettevole di donna mezza nuda gli passò nella fantasia, e gli parve di udire nelle orecchie l'eco seducente e paurosa di una voce che bisbigliasse: Datemi il vostro amore, Don Giuseppe, il vostro amore! - Il curato voleva ad ogni costo sapere chi avesse mandata la lettera: ma il contadino doveva essere già lontano, né Menico aveva avvertito da che parte fosse andato via. - Del resto, - osservò il vecchietto, alzando le spalle, - apra e vedrà chi scrive -. Il prete stracciò in fatti la busta e spiegò i fogli, ch'erano parecchi, con un gesto d'angoscia; ma tosto si rasserenò, si mise a sedere e a leggere. La lettera era della signora Carlina, la moglie del dottore. "Reverendo signor curato, Ho bisogno di tutta la pazienza, di tutta la indulgenza del suo cuore. Il mio buon Don Giuseppe si è mostrato in questi mesi tanto dolce verso di me, ch'io non esito ad aprirgli la mia anima intera, con le sue tristezze, i suoi dubbii e le sue paure. Mi pare anche di non agire come dovrei; ed ella mi rimproveri o mi conforti, ma sopra tutto mi consigli, giacché la mia esperienza è così piccola e la mia natura, pur troppo, così timida, ch'io non solo non so risolvermi a operare, ma spesso non distinguo bene quale sia il cammino da scegliere. Mi compatisca, signor curato. Ho diciott'anni compiuti: dovrei essere quasi una matrona: però sino a tre mesi addietro, sino al giorno del mio matrimonio, io era vissuta come una bambina, fra mio padre, ottimo uomo, ma severissimo, e mia madre, donna tutta di casa. Non si vedeva nessuno, io non aveva passione per la lettura; ricamava, teneva i libri di cucina volentieri, mettendo nell'arte della cuoca, massime ne' piattini dolci (bisogna, Don Giuseppe, ch'ella venga ad assaggiarne uno il primo giorno che avrà tempo. S'intenda con Amilcare), mettendoci, confesso, un poco d'ambizione. Del resto dicevano che la mia salute era delicata. Ella, signor curato, mi guarda qualche volta in faccia con un cert'occhio compassionevole, come se dicesse: poveraccia, è tanto magra, tanto pallida! Amilcare mi ha, come dice lui, ascoltata più volte: non ha trovato, dice lui, neanche l'ombra del male. Fatto sta che io non sono mai obbligata a rimanere a letto, e che posso dichiararmi sul serio una grande camminatrice, una vera alpinista. Anzi, a questo proposito, vorrei ch'ella persuadesse Amilcare a farmi camminare meno. Quand'egli va nelle montagne alla visita de' suoi malati, vuole, quasi ogni volta, ch'io lo accompagni; ieri mi condusse con quel sole, verso le due, sino a Masine dalle scorciatoie dei viottoli; un'ora e mezzo di salita, e che salita, e che sassi! Giunta nel paese, mi cacciai a sedere in un angolo della chiesa, una chiesa umida e melanconica, dove mi toccò attendere due orette buone che Amilcare avesse finito di dar ricette e di cavar sangue, e intanto mi sentiva tutta intirizzita da un'aria fredda gelata. Non ho coraggio di dir di no. Amilcare osserva giustamente che il camminare desta l'appetito, e che io, avendo bisogno di rinvigorirmi, devo mangiare, carne sopra tutto, e bere almeno un bicchiere di vino; ma il vino proprio mi ripugna, non lo dico per affettazione, e la stanchezza mi toglie anche quella poca voglia di mangiare che aveva dianzi. Signor curato, ella non ignora come fu il caso delle mie nozze. Amilcare è il mio solo cugino; era, si può dire, il solo giovinotto che, ne' mesi d'autunno, frequentasse la nostra casa; e poi buono, bello, di bei modi cortesi, e con una vivacità di parlare tutta sua; studiava molto; a Vienna si faceva onore; era diventato dottore, e poi medico condotto in questa valle. In somma, quanti sogni io andava mulinando nel mio cervello! Stava desta la notte per poter continuare le belle fantasie, parendomi che la intera giornata non bastasse a tante care e interminabili meditazioni. Mio padre si mostrava poco contento; gli piaceva poco ch'io dovessi sposare un medico; diceva che i medici sono tutti materialisti, parola ch'io non capiva bene, ma che non mi piaceva affatto; e mi dipingeva la vita di questa valle come una specie di sepoltura: otto mesi d'inverno, la neve alta sei piedi, tredici gradi di freddo, impossibile a una donna l'uscir di casa, le ansie per il marito, un mondo di guai. Ed io pensavo all'opposto dentro di me; l'inverno sarà il mio paradiso; due stanzette ben calde, fiori accanto alle stufe, i miei ricami, la mia cucinetta, qualche lettera alla mamma, e poi, anzi prima di tutto, sopra tutto, il mio Amilcare sempre indulgente, sempre grazioso, sempre allegro, e che lunghi discorsi, e come sarà contento di tornare nella sua casina, presso la sua Carluccia, che gli vorrà tanto bene! Scusi, signor curato: sono una vera sciocca. Dunque ci siamo sposati; il viaggetto di nozze, un incanto; il primo mese in questa valle una delizia. A dirgliela però Amilcare fumava un poco troppo anche in principio, e mi appestava la camera. Io non diceva niente; ma qualche volta mi mancava il respiro, mi sentiva un tantino di mal di stomaco. Cose da nulla. Il mio sposo mi amava; discorreva sempre del futuro, quando ci pianteremo in una città, e il suo nome diventerà celebre, e guadagnerà tanti quattrini, e gli pioveranno addosso tanti onori, e darà delle grandi feste, nelle quali io dovrò essere acconciata da vera regina. Quest'ultima parte non mi andava a' versi; ho sempre avuta poca inclinazione a figurar nella gente. Certe piccolezze mi davano già ombra, m'offendevano un poco; aveva torto. Il male è cominciato quasi ad un tratto, quando venne ad abitare nella villa accanto a lei, signor curato, quella donna che dicono la baronessa, e quando, fino dal primo giorno del suo arrivo, mandò in gran furia a chiamar mio marito. Da quel momento non è stato più lui. Ha cento fumi per la testa; pare che si vergogni di me; e non ostante mi sforza a seguirlo nelle sue camminate sui monti, ma non mi guarda, non mi parla, non m'aiuta nemmeno a salire un'erta o a passare un'acqua. Anche in casa, se gli parlo, mi risponde sì o no, o non risponde affatto; ogni sua parola, quando finalmente la dice, è un rimprovero o, che mi duole ancora più, un sarcasmo: non so più né vestirmi, né pettinarmi, né quasi mettere alla bocca il cucchiaio, né adoperare la forchetta e il coltello. La casa gli sembra piccola; non gli piace né il desinare né la cena, per quanto io mi lambicchi nell'indovinare i suoi gusti e nel condire e cuocere le vivande. È andato quattro volte a cenare all'osteria con i carrettieri, ed anche le altre sere, quando non è alla villa o non esce per i suoi malati, va a bere la genziana, e ne beve (mi vergogno) più di un bicchierino di certo. Allora poi! Mio signor curato, mio buon Don Giuseppe, mi aiuti: io ci perdo la testa e ci muoio. A mio padre, alla mamma non posso dir nulla; ella, Don Giuseppe, è la sola persona sulla terra che mi sappia compatire e soccorrere. E divento anche cattiva. M'affatico a stargli intorno con le carezze, con le dolcezze; mi respinge, ed io torno più mansueta che mai; ma qualche volta non posso; sento nascermi dentro come uno spirito fiero di ribellione, nuovissimo, incomprensibile, e ch'è pure tanto contrario alla pieghevolezza della mia natura. Provo una sensazione che non aveva provata mai: un'agrezza, un'amarezza profonda. Oramai conosco il sapore del fiele. Comprendo tante cose di cui prima non capiva nulla: un mondo brutto mi si apre dinanzi. Mi sono guardata bene nello specchio. Sì, sono magra; sì, sono pallida; ma i miei occhi mi paiono neri e grandi, la mia fronte, la mia bocca, tutti i miei lineamenti sono regolari, e il mio corpo non è poi uno scheletro. Non ostante, al mio marito di tre mesi, al mio sposo non piaccio più. Cita le bellezze tonde della baronessa. Le ho viste io quelle sfacciate bellezze: è passata tre volte sotto le mie finestre, seguìta da corteggiatori e da servi, sulla sua mula bianca. Le ho piantato gli occhi in faccia e la ho studiata bene: sulle guance ha il rossetto, sulle labbra la polvere di corallo, e le sue magnifiche sopracciglia sono tracciate col pennello. Falsa al di fuori come dev'essere bugiarda al di dentro. E mi ha rubata la stima, mi ha rubata l'affezione di Amilcare! Ora, un'ultima parola, signor curato. Amilcare vuole che io vada a visitar la sua ganza. Ho detto di no, ed egli insiste, ed io, caschi il mondo, non voglio. Ho ragione? Ho torto? Don Giuseppe, mi pigli per la mano. Ella che vede le cose di questo mondo dall'altezza della sua santa pace; m'insegni a uscire dalle bassezze di questi miei nuovi sospetti e dalle viltà di queste mie nuove angoscie. In un mese come è mutata La sua disgraziatissima CARLINA". Il prete aveva letto la lettera attentamente, sospirando in principio, fremendo alla fine. - Povera santa! - esclamò; e scrisse questo polizzino con la sua scrittura larga e affrettata: "Verrò domani. Discorreremo, e vedrà che i suoi dubbii non sono giusti. Pazienza, indulgenza, dolcezza: ecco i rimedii. Preghi la Santissima Vergine Maria, che conosce le debolezze e le ambascie dei mortali. A rivederci domani". Menico aveva annunziato da un po' di tempo, che una donna, la Pina del Rosso, ed il vecchio padre di lei chiedevano di parlare al reverendo signor curato. Entrarono con gli occhi pieni di lagrime; e la donna, singhiozzando, raccontò che il suo marito voleva vendere le giovenche, tutte, una ventina, l'unica loro ricchezza, per impiegare il denaro nella impresa delle ferriere: - Deve condurre le bestie doman l'altro al mercato di Malè, e ci andranno con le loro mandre altri cinque o sei di questi indemoniati. Daranno via il bestiame per niente: e poi a tali imprese, che il diavolo se le porti, io non ci credo. Sono trufferie; lo dice anche mio padre, che sa il vivere del mondo -. E il povero vecchio mezzo paralitico accennava di sì, crollando mestamente il capo. - Non glielo avessi mai detto al mio uomo! S'è infuriato, mi ha picchiata; veda queste lividure - e mostrava le spalle maculate. - Ma io insisteva, e lui giù botte da orbo. Non ho potuto rimuoverlo di un ette. Ci salvi lei, signor curato; scriva a Trento, scriva all'imperatore; impedisca la distruzione del villaggio, per carità. Il prete s'era alzato e, ascoltando la donna, camminava su e giù per la stanza, in preda ad un'agitazione vivissima. Ripeteva: - Infami -. Poi disse ad alta voce: Parlerò al Capocomune, m'intenderò con lui, e qualcosa, se Dio ci aiuta, riusciremo a fare. - Il Capocomune! Un bel soccorso! - ripigliò la donna. - È lui che ha fatto impazzir la gente; è lui che suggerisce a tutti di barattare il bestiame, il quale dà tanti pensieri, come dice, e così poco profitto, con quei fogli di carta che fruttano del bell'oro solo a guardarli. L'ho sentito io con le mie orecchie, signor curato. Povero il nostro armento! E poi (la ho da dire?) a quelli che rispondevano che Don Giuseppe non crede a così fatti miracoli, il Capocomune replicava: "Ah sì! Quel ... (la taccio per rispetto) quel ... lo caccieremo via, e presto. È ora di finirla con quel ... Non vede più là del naso e pretende d'insegnare alla gente". Poi, sottovoce, aggiungeva: "Sappiate che durerà poco, una settimana al più; lo so io, e basta". Il prete continuava a camminare, invaso dall'ira: - Ebbene, andrò domani dal capitano a Malè, chiamerò il signor giudice, farò processare tutta questa canaglia -. Ma Menico, dalla soglia della camera, diceva: - Signor curato, sono quasi le dieci: venga a vestirsi per la messa -. Dovette avvicinarsi al padrone e ripeterglielo più volte, tanto il prete era fuori di sé. Don Giuseppe cercò di ricomporsi un poco, salutò la donna e il vecchio contadino, uscì dalla canonica e, traversando il sagrato, entrò dalla porticina esterna in sagrestia, intanto che il ragazzotto uccisore dell'orsa suonava a distesa l'ultima chiamata. Mentre Menico s'affaccendava nell'aiutare il padrone a vestirsi, questi premeva violentemente il petto con la mano lì dove il cuore pulsa, come se avesse voluto impedirgli di battere, e bisbigliava le preci. Mosse all'altare con gli occhi a terra, senza veder nessuno; s'inchinò dinanzi ai gradini, poi andò a baciare la tavola consacrata; e nello stesso tempo ch'egli pronunciava le parole rituali faceva nell'interno queste giaculatorie: - Io sono indegno di avvicinarmi all'ara dove stanno le reliquie dei Santi; io sono indegno di essere ammesso al divin desco dove s'imbandisce il Santo dei Santi. Fate, oh Signore, ch'io non vi porga un bacio simile a quello di Giuda. Ah, Signore, salvatemi da tanta nefandità purificando il mio spirito ... Oramus te Domine ... Kyrie eleison ... Oh, dolce Signore, quanti beni avete dato agli uomini, e come questi vi restituiscono il male. Eccovi in faccia il più ingrato, il più colpevole di tutti. Perdonatemi, Signore; compatite alla mia miseria; abbiate pietà di me ... Gloria in excelsis Deo ... Il prete, sempre con gli occhi a terra, si voltò verso il popolo; e mentre con la bocca leggeva l'Epistola dalla parte destra dell'altare, mormorava dentro: - Agnello senza colpa, che avete voluto essere calunniato, deriso, offeso per compiere gli oracoli della Scrittura, fate ch'io possa imitare la vostra innocenza negli atti e la vostra pazienza nelle afflizioni -. Tornò alla sinistra e cominciò la lettura del Vangelo: - Munda cor meum ... Verbo grazioso nella dolcezza e nell'umiltà, fate che la dolcezza e l'umiltà non abbandonino mai il mio cuore ... Credo in unum Deum ... Il prete scopre il calice, lo ricopre, si purifica le mani a lato dell'altare, mostra il volto a' credenti, e, sempre con lo sguardo basso, dice: - Orates frates -. Alza poi l'ostia, come immagine di Gesù alzato sulla croce, e, consacrato il vino, solleva il calice. - Oh sangue prezioso, sgorga insino a me quale nuovo battesimo. Oh se potessi versare il mio sangue tutto per te, il mio sangue fino all'ultima stilla ... per omnia saecula ... Il prete spezza in due parti l'ostia santa, a similitudine dell'anima di Gesù che si stacca dal corpo; mette una parte dell'ostia nel calice e la consuma picchiandosi il petto: - Domine non sum dignus ... - Indi riceve il sangue prezioso nel calice, e, dopo essersi comunicato, procede alle abluzioni: - Dominus vobiscum ... Nella ineffabile gioia di vedervi salire al cielo, oh Salvatore del mondo, sento la contentezza di possedervi ancora qui in terra; la mia fede vi adora sul trono del vostro amore nell'Eucarestia, in quello stesso modo che vi adora sul trono della vostra gloria in Paradiso ... Nel dire: - Ite Missa est - il sacerdote alzò gli occhi e vide dinanzi alla folla, seduta nella prima linea di panche, Olimpia, la baronessa, accanto al maestrino di pianoforte. Il collo di neve ed il principio del seno candido, spiccavano nella mezza oscurità del tempio. Ella sorrideva colle sue labbra tumide e rosse, fissando gli occhi negli occhi di Don Giuseppe, lasciva e sfacciata. Il prete sentì un velo calargli sulle palpebre; non ci vide più; traballò; il sangue gli corse tutto al cuore. Un istante dopo gli corse tutto al cervello, e allora non poté più frenarsi, e cominciò sui gradini stessi dell'altare, con la voce tonante, con il gesto del Cristo nel Giudizio di Michelangelo, una predica furibonda. - Via dalla casa del Signore i perversi e gli ipocriti. Fuori i profanatori dal tempio. Voglio impugnare lo scudiscio di Gesù per cacciare lontano questi corruttori delle anime, questi ingannatori delle coscienze, questi avidi succhiatori del danaro del povero. E voi, gente illusa, non vedete, orbi che siete, quale precipizio vi si apre sotto ai piedi? Rovinate il paese, gettate nella miseria i vostri figliuoli, la vostra moglie, i vostri vecchi per correre dietro all'inganno. Aprite gli occhi, figliuoli. Credete a me, che da dieci anni sono con tutto il cuore vostro padre e fratello, credete a me, che piuttosto di lasciare questa cara montagna morirei cento volte. Ed io vi scongiuro, come pregavo momenti fa il Signore, padrone di tutte quante le cose: ravvedetevi, tornare ai vostri costumi onesti e semplici, alla cura dei vostri armenti, all'amore di chi vi ama davvero. Avrete la pace in terra, e la gioia in cielo. Rammentatevi i comandamenti di Dio. Nel sesto i Canoni penitenziali gridano anatema contro la femmina che si imbelletta per piacere agli uomini; nel settimo e nel nono gridano anatema contro colui che ruba con la violenza, con la frode, o con le false lusinghe. Fuggite i peccatori. Dio v'aiuti e vi ispiri.

Racconti 2

662688
Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1894
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
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Tutti i suoi cani, sguinzagliati, abbaiavano, si rincorrevano festosamente, facevano un chiasso indiavolato attorno alla mula sellata, che il garzone teneva per la briglia, aspettando che il canonico scendesse le scale portando in mano il fucile e la carniera ad armacollo. 'Nzulu Strano era lí, alla cantonata, con la pipa in bocca e il fucile in ispalla per fargli compagnia; e carezzava i cani, o li richiamava col fischio e con la voce, se si allontanavano per le vie accosto: - Tèh, Nièula! Tèh, Cardillo! - Tutte le donnicciuole sugli usci. Bambini scalzi e stracciati schiamazzavano insieme coi cani attorno alla mula, che si lasciava tirare per la coda o per la criniera pacificamente, conoscendoli uno per uno, tante volte li aveva visti per la stessa occasione. - Buona caccia, signor canonico! - Felice viaggio, signor canonico! - Solo una vecchierella non gli diceva nulla, comare Nina la sciancata. Il canonico aveva notato che a ogni "Buona caccia, signor canonico" di quella vecchia sciancata, la polvere non gli diceva piú, i cappellotti non prendevano, i conigli si scotevano da dosso i pallini quasi fossero stati goccie d'acqua benedetta, e nell'andarsene via quatti quatti, voltatisi indietro, agitavano le orecchie per canzonarlo. - Voi non dovete dirmi niente, jettatoraccia! Avete capito? - E la povera vecchierella non gli aveva detto piú niente. Alla masseria, il "preparatio ad missam" era la posta pei colombi selvatici. Intanto che il massaio, sonando con la buccina marina l'appello ai contadini per la santa messa, faceva rintronar la vallata, il canonico andava ad appostarsi laggiú, sotto il sorbo, e 'Nzulu buttava sassi di cima alla rupe, tra i fichi d'India e gli oleastri, per ispaventare i colombi e farli scappare dai nidi. Essi scappavano a stormi, con gran fruscio di ale, a ogni sasso che rumoreggiava sbalzando tra le schegge della rupe, i f ichi d'India e gli oleastri; e subito, si udivano due colpi di fucile, uno dietro l'altro, laggiú, di sotto il sorbo. 'Nzulu ne vedeva il fumo; e vedeva anche il canonico raccogliere frettolosamente i morti e riporli nella carniera. E la buccina del massaro continuava ad assordare la vallata; e i colpi di fucile a echeggiare tra le rupi. Nella chiesuola, i cani scodinzolavano e saltavano attorno al canonico mentre 'Nzulu lo aiutava a indossare i paramenti sacri, a preparare il calice e aprire il messale. Il canonico gli aveva insegnato a servir messa. Che quegli storpiasse il latino, non importava; Domineddio capiva lo stesso. E poi, era affare di un quarto d'ora. Un giorno però la messa del canonico durò anche meno. A un " dominus vobiscum ", dalla porta spalancata, in fondo al viale affollato di contadini inginocchiati che la chiesola non capiva, davanti le piante dei carciofi, aveva visto un cane di pelo castagno, piccolo, seduto su le gambe posteriori, col muso all'erta, le orecchie ritte e lo sguardo fisso. Testa intelligente, naso di razza, musino bene affilato da cane da fermo; non poteva sbagliarsi. Da prima, resistette alla curiosità e sbrigò l'evangelo; ma voltatosi di nuovo, a una squadratura piú lunga, da quell'espertissimo cacciatore ch'egli era, poté giudicarlo meglio. Accennò a 'Nzulu, e fingendo di dirgli qualcosa che riguardava il servizio divino, gli soffiò a voce bassa: - Quel cane ... presso i carciofi, guarda. Di chi è? - 'Nzulu, data un'occhiata, rispose con una mossettina di testa e di spalle: - Di chi? Non lo sapeva. - Ma ne domandò al massaio inghinocchiato presso l'altare. Il massaio si rivolse per guardare; e allora coloro ch'erano nella chiesuola si voltarono tutti, intrigati; e fuori, nel viale, seguí un piú rapido movimento di teste alla direzione della carciofaia, un domandare e un rispondere con monosillabi e con cenni ... Nessuno ne capiva niente. Il cane, quasi ne avesse capito qualcosa lui, si levò e disparve, mentre il canonico, aprendo le braccia per un altro " dominus vobiscum ", sgranava gli occhi, arrabbiato che fosse andato via prima ch'egli avesse terminato la messa. Quei cinque minuti, che occorsero per arrivare affrettatamente alla benedizione trinciata in un battibaleno, gli erano parsi un'eternità. Cavatosi il manipolo, la pianeta, il camice, che stracciò a una manica, disse al massaio: - Di chi è quel cane? - Dev'essere di Corda-al-piede - rispose un contadino accostatosi per sapere di che si trattasse. Infatti, presso i carciofi, il figlio di Corda-al-piede lisciava l'animale e gli diceva ridendo: - Hai sentito la messa anche tu? - Il cane salterellava, faceva le viste di volergli mordere la mano, per carezza, ringhiando eccitato e allegro; e abbaiava, a riprese, se qualcuno gli toccava la coda, o tentava di accarezzarlo il padrone. - Che ne fai di questo cane? - gli domandò il canonico. - È di mio padre. - Me lo prendo io. - Neppure per chiasso. Gli costa mezza salma di fave. - Gliene darò una intera. - Niente, signor canonico. Gli vuol bene piú che a me che gli son figlio. - Su: venga a prendersi le fave. Va' a dirglielo -. Ma, un'ora dopo, Corda-al-piede arrivò, trafelato pel cammino fatto, strepitando: - Voglio il mio cane! - Bestia, che te ne fai? - Voglio il mio cane! - Non rispondeva altro. E siccome 'Nzulu e il massaro cercavano d'inframmettersi, cominciò a sbraitare e a dir loro delle parolacce. 'Nzulu lo tirò da parte, vicino al pollaio: - Come? Dite di no al signor canonico? Non lo sapete dunque ch'egli può giovarvi in tutte le circostanze? ... - Voglio il mio cane! - Quel giorno il canonico tornò di malumore al paese; e per una settimana discorse di quel cane con 'Nzulu e con gli altri che venivano a fargli visita, al solito, pel levriere, o pel furetto, o per qualche carica di polvere da caccia, di quella che si trovava soltanto presso di lui ed era inutile cercarla altrove ... Cottone, un altro cacciatore di mestiere, lo conosceva meglio di tutti il cane di Corda-al-piede: - Animale coi fiocchi! Cacciava da sé, e portava i conigli al padrone senza che nessuno l'avesse addestrato. Ma quello zotico non si degnava nemmeno di prestarlo -. Mezzo paese si mise in moto, per far cosa grata al signor canonico. E 'Nzulu andava e veniva, aumentando ogni volta il prezzo che quegli era pronto a pagare. Corda-al-piede piú si vedeva pregato, e piú diventava duro. Il canonico, quando gli riferivano le risposte, si mordeva le mani. Non gli era mai accaduto un caso simile; gli pareva impossibile che quel pezzo di villanzone resistesse alle offerte e alle minacce. Giacché egli, alla fine, era ricorso alle minacce per intimorirlo. Corda-al-piede rispond eva: - Nel mondo, due sono potenti: chi ha molto e chi non ha niente. Che può farmi il canonico? - Questi, tornando a dire la messa in campagna, aveva delle distrazioni. Vedeva sempre, là, in fondo al viale, presso la carciofaia, il cane di Corda-al-piede, che non c'era piú, e non s'era piú visto perché il padrone lo teneva in casa incatenato. - Né io, né lui! - decise il canonico. E trovò chi, con la scusa di dire una parolina a Corda-al-piede, andò a buttargli in casa una polpetta di stricnina pel cane. Ma un sabato sera, il canonico Salamanca, andando a Bardella per la messa della domenica, vide proprio la morte con gli occhi, come diceva 'Nzulu Strano, raccontando il fatto. Corda-al-piede, che attendeva allo svolto della strada, presso il vallone della Lamia, gli puntò il fucile in faccia, esitante: - Per la Madonna! ... Dovrei farvi fare una fiammata e andarmene in galera! - Il canonico, colto alla sprovvista, fermò la mula, pallido come un cadavere, balbettando: - Contro un sacerdote? - Ringraziate la chierica di Cristo, che non siete degno d'avere in testa! - E Corda-al-piede, abbassato il fucile, aveva tirato, per spavalderia su le macchie di rovi del ciglione, avanti che 'Nzulu spiccasse un salto per tentare di disarmarlo. Ahimè! I bei tempi delle grandi giornate di caccia erano già lontani; gli anni e, piú, la podagra, avevano ridotto il canonico a camminare come un invalido, reggendosi su la canna d'india, allorché s'avviava per andare a celebrare la messa, o a recitare l'uffizio. Le sue fermate da donna Totò, grassa e fresca a dispetto dell'età, erano diventate piú lunghe pei malanni e per l'abitudine. Il nuovo vescovo, rigido quanto il predecessore, nell'occasione della visita diocesana, fece al canonico un'altra lavata di capo. - Scandalo! Dovrò levarle la messa? - Che scandalo vuol ella che io dia, monsignore mio? - aveva risposto il canonico con voce di rimpianto. - Non vede come sono ridotto? - E il vescovo s'era stretto nelle spalle brontolando, e lo aveva lasciato in pace. Per ciò ogni mattina si vedeva il canonico Salamanca che, appoggiandosi alla canna d'India, trascinava per la salita le gambe indolenzite, fino alla porta di donna Totò. Ella lo attendeva al terrazzino, sapendo l'ora, e accorreva per aiutarlo con una mano a montare i pochi scalini, levargli il mantello e prendere il nicchio per riporli sul letto, e porgergli la pipa già preparata sul tavolino con accanto la scatola di latta dei fiammiferi di legno. Pareva che, senza quella pipata preventiva, il canonico non potesse né dir messa, né cantare al coro; pareva che, senza lo stimolo di quella tazza di buon caffè e il conforto dei crostini, non avesse potuto piú avere la forza di arrivare a casa. In verità, le sue visite erano oramai la cosa piú innocente di questo mondo. Il canonico si divertiva coi merli e con le gazze che donna Totò ammaestrava per proprio svago e chiamava figliuoli. A uno dei merli, al piú vecchio, ella aveva messo nome Canonico. Non cantava piú; stava appollaiato tristamente sulla stecca della gabbia, quasi seccato di vivere, e si cibava soltanto di zuppa di biscottini, di quelli che il canonico amava intingere nel caffè. Egli lo guardava, mandando fuori grandi boccate di fumo, quasi fosse stato il suo ritratto. - Invalido anche lui, quel povero Canonico, dentro la gabbia! - E gli fischiava, quasi dovessero intendersela bene fra loro, uno piú invalido dell'altro. Canonico rizzava la testa spiumata, scoteva le ali e la coda, mandava fuori un flebile chioccolio, e rimaneva lí, appollaiato su la stecca, immobile, aspettando di morire. Le due gazze intanto accorrevano a beccare familiarmente la punta delle scarpe del canonico, che si compiaceva d'incitarle. Vivaci, striminzite per le ali tagliate assai corte e il codione senza penne, esse gli s'arrampicavano su per le gambe, sporcandogli la zimarra, impertinenti, crocidanti, ciangottando parole con la lingua mozzata a posta per addestrarle a parlare. - Figlio! Figlio! - suggeriva donna Totò, contenta e superba delle sue bestioline. - Chi è? Chi è? - E le gazze ripetevano, roche e stridule: - Figlio! Figlio! Chi è? - Il canonico, continuando a fumare, diceva alla signora: - Prendetemi la cassettina -. Si occupava, là e a casa, fabbricando chioccolii per la caccia delle quaglie; e in quella cassetta, come nell'altra che aveva a casa, stavano riposti pelli di capretto conce, cannellini di stinchi di tacchino, minuzzoli di candele di cera fattisi dare dai sagrestani, matasse di refe grosso, forbici, aghi, un ditale e il legnetto intagliato a vite, con cui dare le pieghe a mantice ai sacchettini dei chioccoli. Ritagliava la pelle sul modello di cartone e ne cuciva gli orli combaciati attentamente; poi, foggiata con le dita una pallottolina di cera, la cacciava in fondo al sacchetto allestito; serviva per dare appoggio al chioccolo sul polpastrello del pollice, quando dovevano suonarlo. Indi, infilatovi il legnetto, avvolgeva la pelle con uno spago tra i pani della vite, perché prendesse le pieghe e servisse da mantice. E che ammattimento quei cannellini di osso, forati in mezzo, da adattare alla bocca del sacchet to con un tappo di cera, pel suono! E quei peduncoli di spago da appiccare in calce al chioccolo, per poterlo tener fermo! ... Lavoro di pazienza, insomma, che svagava molto il canonico. Gli rammentava i bei giorni d'estate tra i seminati della Piana, ai tempi ch'egli e 'Nzulu davano la caccia alle quaglie con reti e fucile! Quacquarà! Quacquarà! E le quaglie accorrevano al richiamo, incappando fra le vaste reti stese sui seminati che si piegavano, cascando fulminate da colpi infallibili: Tum! Tum! Gli pareva di sentirseli ancora dentro gli orecchi. Tum! Tum! Da donna Totò egli lavorava tranquillamente. A casa, sua sorella donna Agnese, a vedergli sciupare quelle buone pelli di capretto che costavano tanti quattrini, brontolava da mattina a sera: - Che ne fate dei chioccoli, ora che non potete piú andare a caccia? Pazzo, pazzo da legare! -E, se lo trovava a frugare pei cassettoni in cerca d'un mozzicone di candela, o d'una matassa di refe, lo sgridava peggio di un bambino: - Non sconvolgete ogni cosa! Non vi bastano ancora cento e piú chioccoli? - Egli stava zitto, e intascava i mozziconi di candele, se ne trovava. Quando non ne trovava, ricorreva fin alle candele benedette della Candelora, che donna Agnese teneva appese al capezzale e dovevano servire in punto di morte. - Scomunicato! E siete sacerdote! Anche le candele benedette! - Donna Agnese non se ne dava pace. Per questo, a ogni accesso di podagra che inchiodava il canonico su la poltrona, e lo faceva trambasciare, non lo compativa, indispettita: - È castigo di Dio! Dovreste intenderlo -. Faceva meraviglia come egli non perdesse la pazienza. - A che siamo co' chioccoli? - gli domandava 'Nzulu, che ora veniva piú di rado. - Quattrocento! - Dovreste darmene un paio; è la stagione delle quaglie. - Serviranno per me, quando sarò morto. - Come mai, signor canonico? - Gli ho destinati ai ragazzi poveri, per testamento; dovranno accompagnare la mia bara, suonandomi dietro: Quacquarà! Quacquarà! - E rideva. Con tal pretesto, non regalava un chioccolo neppure a 'Nzulu Strano. - Non vi si riconosce piú, signor canonico! - Non si riconosceva egli stesso, su quella poltrona maledetta, dove non trovava requie da un mese, né giorno né notte. 'Nzulu gli recava le notizie di donna Totò. Il vecchio merlo Canonico, morto di sfinimento; una delle gazze, la migliore, annegata in un catino d'acqua; donna Totò poverina, n'avea pianto quasi come per una figliuola! E non si sentiva bene neppur lei. Voleva il dottore ... Da lí a qualche giorno, le cattive notizie incalzarono: donna Totò stava male assai. Il canonico dondolava la testa: - Ah, se accade una disgrazia, 'Nzulu! ... - Dove sarebbe andato per la sua fumatina prima della messa? E, dopo, pel caffè coi crostini e i biscotti? Una mattina che si sentí in gambe, cominciò lentamente a vestirsi. 'Nzulu allora, atteggiando a compunzione il viso allampanato e giallastro, credette opportuno dirgli: - Restate in casa, signor canonico ... Fate la volontà di Dio! ... Siamo tutti destinati a morire! Due lagrime rigarono la faccia smunta del canonico; pure volle finire di vestirsi, e scese le scale reggendosi al braccio di 'Nzulu. - Almeno celebrerò la santa messa in suffragio dell'anima sua! - Presero però un'altra strada, per non passare davanti quella porta dove donna Totò gli veniva incontro per aiutarlo a salire i quattro scalini. In sagrestia, rivolti gli occhi al gran crocifisso di carta pesta che sormontava gli scaffali: - Signor Iddio! - esclamò lamentosamente il canonico: - O che non vi bastava Maria Maddalena in paradiso? - E lasciò infilarsi il camice dal sagrestano. Roma, settembre 1891@. 1891.

SCURPIDDU

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

I contadini accorrevano dai dintorni, le donne con le mantelline di panno nero piegate sul braccio; gli uomini, chi con un canestro di frutta, chi con qualche fazzolettata di cicoria da offrire alla massaia; qualcuno col fucile, la carniera e i cani dietro, che abbaiavano allegri. Don Pietro era già arrivato, puntuale sul suo bell'asino che pareva un muletto, con l'ombrello rosso aperto per difendersi dal sole, gli occhiali verdi e i guanti di filo color caffè. E visto Mommo, che era venuto dietro al massaio accorso per aiutarlo a scendere da sella, aveva subito esclamato: - Faccia nuova! Come di chiami? - Mommo. - E che fai qui? - Il Nuzzaru , - egli rispose con aria orgogliosa. - Questo ragazzo è mezzo turco, caro Don Pietro. Non sa neppure il paternostro, - soggiunse, sorridendo, massaio Turi. - Poveretto! Non gliel'hanno insegnato, forse. O lo ha dimenticato? - Lo so, me l'ha insegnato la massaia; e anche l'avemmaria. - Ora il Soldato gli insegnerà la lettura. Il Soldato di cui parlava il massaio era uno dei garzoni della masseria tornato della milizia l'anno avanti. Avendo imparato a leggere e a scrivere, aveva la smania di fare da maestro agli altri. - Bravo! Bravo! Ma, prima di tutto, il timor di Dio, - disse Don Pietro accarezzando la testa del ragazzo. - Poi imparerai anche a servirmi la santa messa. - Io faccio il nuzzaru , non il sagrestano, - rispose Mommo serio serio. Gli era parso che Don Pietro pensasse di condurlo via con sè; e all'idea di dover abbandonare i tacchini e la masseria si era scurito in viso. I contadini, che ormai lo conoscevano, al vederlo vestito da festa, cominciarono a canzonarlo e a dargli scappellotti. - Buon pro, il vestito nuovo! Sembri uno zitu . Sposi la z'a Tegònia? La z'a Tegònia era la serva, vecchia e sdentata, della massaia. - O badate ai fatti vostri! - egli rispondeva stizzito, scansandosi dagli scappellotti. - Vieni, inginocchiati accanto a me, - gli disse la massaia prendendolo per una mano e facendolo entrare nella chiesuola. Gli volevano tutti bene. Attento, servizievole, allegro, con certe sue buffonate divertiva gli uomini la sera, dopo mangiata la minestra e prima che il massaio intonasse il rosario. Il Soldato come lo chiamavano senz'altro, gli aveva già appiccicato il soprannome di Scurpiddu , perchè era magro e sfilato come uno steccolino. Mommo, le prime volte aveva protestato: - Mi chiamo Mommo io! E non voleva rispondere a chi gli diceva Scurpiddu . Poi si era rassegnato. - Tanto, non ti dicono ladro. Non è forse vero che sei uno steccolo? Ingrassa e non te lo potranno dire più. Il massaio lo aveva persuaso così. E parecchi mesi dopo, quando si udiva da lontano il suono dello zùfolo di lui, mentre guardava sull'altura i tacchini pascolanti, anche la massaia esclamava: - Senti come suona bene Scurpiddu ! Ora egli conosceva tutti i fondi della masseria palmo per palmo, e menava i tacchini fin sul ciglione dell'Arcura, d'onde si godeva la vista della Piana di Catania e dell'Etna da un lato, delle colline di Catalfaro e della Nicchiara dall'altro; e si vedeva Mineo arrampicato sul monte, con le torri del vecchio castello e i campanili delle chiese ritagliati sul cielo; e dall'altra parte, laggiù, quasi rannicchiato sotto la roccia rossastra, Palagonía, dov'egli distingueva la casa del notaio; e, lontano, come un sassolino bianco buttato tra l'erba verde, la casa di campagna dov'egli era stato a guardare i tacchini e dove avea patito tante volte la fame e il freddo, perchè spesso si scordavano di lui e non gli mandavano il pane dal paese; e doveva dormire su la nuda paglia, con uno straccio di vecchia bisaccia per coperta, allo scuro. Quanto aveva pianto colà, solo solo, quando il mezzadro del notaio lo picchiava senza ragione, o per cosine da nulla! E tra i singhiozzi chiamava: "Mamma mia! Mammuccia dell'anima mia!". Ora non la chiamava più; avrebbe però voluto sapere dov'era, se mai era ancora viva! se n'era dunque scordata di lui? Chi sa dove le lucevano gli occhi! E vedeva quegli occhi azzurri e il viso pallido e scarno di lei, com'erano l'anno della mal'annata, quando era andata via con tanti altri che non trovavano più di che vivere. Il povero suo padre, tornato a casa, gli aveva domandato: "Dov'è tua mamma?" E lui non sapeva che rispondergli: "Ha presa la mantellina ed è andata via!" E si era messo a piangere, mentre il padre si disperava esclamando: "Scellerata! Scellerata!" quasi sbattendo la testa ai muri: "Doveva morire di fame con noi, scellerata!". Si rammentava benissimo che appunto quell'anno il padre l'aveva allogato per guardare i tacchini del notaio a Palagonía. E così pensando, su quell'altura dell'Arcura, nel silenzio meridiano, mentre i tacchini stavano sdraiati su l'erba digerendo il pasto, si sentiva di nuovo solo solo, quantunque ora avesse il massaio e la massaia che gli facevano da padre e da mamma. E pensava anche che sarebbe cresciuto; che poi non avrebbe più fatto il nuzzaru , ma il garzone, come il Soldato che governava le mule e la giumenta su la quale egli andava a cavallo a capo fila, con le mule legate per le cavezze, una dietro all'altra, la più giovane in coda. Giusto in quel momento lo vedeva scendere per la strada dei Saraceni , con le mule cariche di legna. Cantava. Così avrebbe fatto lui. E siccome il Soldato gli aveva detto: - Quando non hai niente da fare, ripassati la lezione - egli cavò di tasca il sillabario e cominciò a compitare B-a-ba, ad alta voce, C-a-Ca, levando, di tratto in tratto gli occhi dal libercolo per seguire con lo sguardo il Soldato con le mule che, oltrepassato il beveratoio, svoltava a destra, verso la masseria. Poi si distrasse, vedendo arrivare al beveratoio i buoi e le vacche con lo zi' Girolamo che tirava sassi ai vitellini per richiamarli verso le mamme. - Chi sa se è vero che egli va colle Nonne , la notte? Tornava a domandarselo ogni volta che rivedeva il vecchio bovaro. Un sera anzi, portandogli la minestra, perchè il vecchio andava raramente alla masseria, trovatolo già addormentato sul corbello, e non sentendolo rispondere alla chiamata, ebbe paura. - Che sia già andato con le Nonne ? - pensò - e per questo non risponde? E die uno strillo: - Zi' Girolamo! Il vecchio si riscosse. Allora Scurpiddu prese animo, e gli domandò: - È dunque vero che andate con le Nonne ? - Sì, sì; e sta notte verrò a darti dei pizzicotti. - Lo dirò alla massaia! - minacciò Scurpiddu piagnucolando. - Sciocco! Parlo per chiasso. Giusto la sera avanti, nel frantoio mentre gli uomini mangiavano la minestra, parte seduti attorno alla màcina, parte ai lati del torchio, il Soldato aveva spiegato come fanno coloro che vanno attorno con le Nonne . Il massaio diceva ch'era una corbelleria. Ma il Soldato insisteva. Lo zi' Girolamo, ormai lo sapevano tutti, era il capo della congrega. Diventavano sottili sottili come l'aria, entravano nelle case pei buchi della serratura, picchiavano la gente, storcevano le gambe ai bambini per vendicarsi delle mamme, impiastricciavano i capelli a un disgraziato, e quei capelli non potevano venire districati più: chi se li tagliava, moriva sul colpo. - Corbellerie! - ripeteva il massaio. Ma il povero Scurpiddu si sentiva venire la pelle d'oca e stava ad ascoltare il Soldato con tanto di occhi sbalorditi, a bocca aperta. - Una notte, - continuava a raccontare il Soldato , - io tornavo dal paese con le mule. C'era un lume di luna che pareva fosse giorno. Passando davanti al posto dove agghiacciano i buoi, vidi là con quest'occhi - e posso farne giuramento - sul corbello dove dorme lo zi' Girolamo, il suo giubbone di albagio col cappuccio ritto e il bastone tra le maniche incrociate, da parere che lo zi' Girolamo stesse a dormire, al suo sòlito: ma subito mi accorsi che le gambe non c'erano. E mi feci segno della santa croce e passai via. - Corbellerie! - ripetè il massaio. - Diciamo piuttosto il santo rosario. E quella sera il povero Scurpiddu tremava dalla paura nel suo bugigattolo, sotto la coperta di lana, pensando allo zi' Girolamo e a quel giubbone col bastone tra le maniche incrociate, segno che lo zi' Girolamo era andato via con le Nonne , come aveva giurato il Soldato. Per ciò, tornando alla masseria col piatto vuoto, affrettò a dire alla massaia: - Lo zi' Girolamo vuol venire a darmi i pizzicotti con le Nonne ! E allungava le labbra e strizzava gli occhi lacrimosi. - Stupido! E tu credi a queste chiacchiere? Dì un'avemmaria prima di addormentarti, e la Madonna ti farà dormire bene. Infatti quella volta recitò non una ma cinque avemmaria e l'ultima non si accorse di finirla: era profondamente addormentato.

IL FIASCO DEL MAESTRO Chieco (Racconti musicali)

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Fogazzaro, Antonio 1 occorrenze

Sì, sì, i cani della fattoria abbaiavano, le ruote stridevano sulla grossa ghiaia del viale d'entrata. Bianca affrettò il passo. Per tornare alla villa doveva scendere, poi risalire. Presso a casa trovò un ragazzo che veniva in cerca di lei. Erano arrivati tanti signori in due carrozze e la padrona gli aveva detto di correre a cercare la padroncina. Non sapeva il nome di questi signori né se ci fosse tra loro un vecchio vestito di nero con la barba Bianca. Gli pareva di sì, ma non n'era sicuro. Bianca entrò trafelata nella sala a pian terreno dove tutti erano ancora in piedi e Beneto distribuiva, qui i suoi rispetti, lì le sue riverenze, a destra i suoi rispetti, a sinistra la sua servitù, qualche complimentino sotto voce, qualche risatina cerimoniosa. Bianca si fermò sulla soglia, raccolse tutta quella gente in una occhiata; il poeta non c'era. Erano i Dalla Carretta con i loro ospiti, un piccolo museo archeologico di lunghi scialli scuri, di cappellini barocchi, di calze e nappe canonicali, di facce slavate; gente noiosa che veniva lì una volta l'anno, per convenienza, a sedersi in giro e a guardarsi un tratto in viso senza saper che dire; dopo di che un vecchio servitore in giacchetta bigia entrava molto dignitosamente portando il caffè e i 'pandoli' che il cavalleresco Beneto serviva con i suoi scherzetti sempre uguali, di cui la compagnia rideva regolarmente ogni anno sullo stesso tono e sulla stessa misura. Perdere un bel tramonto di novembre per costoro! Bianca non li poteva soffrire, le toglievano il respiro. "Non so" le disse fra un sorso di caffè e l'altro il canonico Businello "non so se la sappia la brutta notizia.." "No. Che notizia?.." rispose Bianca a fior di labbro. "Ah, sicuro" dissero due o tre voci sommesse. "Ah sicuro". "Il povero Torranza, poveretto" compunto il canonico, intingendo nel caffè l'ultimo pezzetto della sua ciambella. Bianca si sentì una stretta al cuore; un formicolìo freddo al viso; e non potè articolare parole. "Pur troppo" disse monsignore, agitando la tazza in giro per sciogliere lo zucchero rimasto al fondo. "Mancato, sì, poi..." Vuotò la tazza e soggiunse sospirando: "Iersera, alle undici e mezzo". Bianca perdette un momento la vista, ma oppose all'emozione un voler violento, un impeto, quasi di collera, e vinse. La signora Giovanna la vide farsi pallida pallida e fu per alzarsi sgomentata; una rapida occhiata dura di sua figlia la fermò sull'atto. Le signore Dalla Carretta, che conoscevano certi maligni epigrammi corsi a Padova sulle fiamme senili di Torranza, si guardarono alla sfuggita e tacquero. Intanto il canonico raccontava che Torranza si era posto a letto due o tre giorni prima senza sofferenze gravi, però con tristissimi presentimenti. La catastrofe doveva esser avvenuta improvvisamente; ma egli non poteva affermarlo. Era partito da Padova, poche ore dopo, alle dieci del mattino. La città era già piena della notizia; si sapeva che la Giunta Municipale doveva raccogliersi d'urgenza. "Le solite commedie" esclamò il sior Beneto. "Beata, quella gente là, di poter far del chiasso e spender dei soldi. Capaci di ringraziar Dio che quel povero infelice sia morto adesso che ci son loro in Comune. E cosa crede, Monsignore, che vogliano onorarlo per quei quattro versi? Ma neanche per idea! È perché era famoso anche lui a spendere e spandere. Basta questo, caro lei. Un uomo grande!" "Papà" disse Bianca agitatissima "se deliberano qualche cosa per Torranza, fanno più onore a sé che a lui". "Idee tutte vostre, queste" replicò Beneto dispettosamente. "Idee tutte vostre. Non mettetevi mica in mente ch'egli fosse poi questa gran cosa. Non m'intendo di versi, ma siamo stati a scuola insieme, con Torranza, e posso dirlo. Volete metter la testa di Farsatti?" "No, no, no" interruppe con certa secchezza molle il canonico. "Per talento, lasciamolo stare, il povero Ermes ne aveva più del bisogno; ma criterio, signora, criterio, la mi scusi proprio, neanche una briciola". "Egli era dei miei amici, l'avverto, monsignore" rispose Bianca. "A me queste cose non si possono dire". "Ah bene!" fece Monsignore scuro. I Dalla Carretta si rannuvolarono. Ma Beneto non permise che la finisse così, in un silenzio burrascoso. "Monsignore parla benissimo" disse egli "e mi meraviglio di voi che non le abbiate mai capite, certe cose". "Basterebbe l'affare dello spiritismo" osservò a mezza voce il vecchio conte Dalla Carretta, rivolgendosi con un sorrisetto al canonico, per confortarlo. "Euh!" disse questi, alzando gli occhi e le sopracciglia "io non parlo". Una zitellona della compagnia chiese, facendo l'innocente, se Torranza fosse proprio spiritista. "Spiritista fanatico, era. Aveva una biblioteca di pubblicazioni tedesche, francesi, inglesi, americane sullo spiritismo. Stava traducendo un libro di un certo Fechte o Fochte o Fichte, pieno di quelle minchionerie". "Si capisce che lei non lo ha letto" interruppe Bianca. "Sta' a vedere" saltò su il sior Beneto "che mi diventate spiritista. Vorrei vedere anche questa". Bianca fu per dare a suo padre una risposta audace e pungente. Si contenne e rispose solo che non amava i pregiudizi di nessun colore. "Adesso gli potremo dare la prova, allo spiritismo del povero Torranza" osservò un signore "perché, e questo l'ho udito io con le mie orecchie da Pedrocchi, egli diceva che dopo morto si sarebbe fatto sicuramente vedere e intendere da qualcuno". Beneto nitrì una risata gutturale, a bocca chiusa. "Gesummaria, papà!" disse la contessina Dalla Carretta al suo genitore. "Matto, cara, matto!" rispose questi. "Eh, matto, poveretto; eh matto". Ciascuno guardava il suo vicino, gli passava la parola a mezza voce. Bianca si alzò senza dir nulla, spinse via nervosamente la sua sedia e uscì. Beneto fremeva, la signora Giovanna stava sulle spine. Dopo un breve silenzio, la Dalla Carretta guardò, imbarazzata, suo marito, piegando la persona; in un attimo tutti furono in piedi, contenti, sollevati da un gran peso. Beneto discese la scalinata a braccio della contessa, che gli espresse, con molta ipocrisia, il suo rincrescimento per i discorsi che si eran fatti prima, per il dispiacere arrecato alla signora Bianca. Beneto protestò. Aveva gusto che sua figlia imparasse a conoscer meglio il mondo: era stato anche lui amico di Torranza, per tradizioni di famiglia; ma pur troppo quel vecchio matto aveva esercitato una pessima influenza in casa Squarcina. Intanto, dietro a loro scendeva la brigata tutta sussurri maligni, interrotti prudentemente da qualche osservazione a voce alta sul tramonto vermiglio, sulle campane della parrocchia che suonavano per l'ottavario dei morti, sul nero nebbione che si levava dall'orizzonte soffiando. Ecco i due carrozzoni che si fanno avanti; ecco daccapo gli ossequi, i rispetti e i doveri. I lunghi scialli scuri, i cappellini barocchi, le nappe canonicali, le slavate facce noiose si allontanano sotto i pioppi, e il sior Beneto ritorna su, borbottandosi la lettura di un foglio consegnatogli dal cursor comunale, che lo segue col berretto in mano. Giunto sulla spianata, trova un servitore uscito ad avvertirlo che è in tavola; e fa chiamar fuori la padrona. "Qui c'è l'annuncio di Torranza" diss'egli "e questo galantuomo ha un'altra lettera. Pagate voi?" "Cosa?" diss'ella timidamente. "Cosa? La multa, 'cosa'! Se vostra figlia si fa scrivere da dei disperati che riempiono Dio sa quanti fogli e poi non sono in caso di metter fuori otto palanche, suo danno! Io non pago sicuro". La signora Giovanna guardò la lettera. "Viene da Padova" diss'ella esitando. "Eh, sì sa, cara, che pagate!" "È urgentissima" sussurrò la povera donna. Beneto le domandò qualche cosa con gli occhi e un cenno del capo. "No" diss'ella. "Mi pare e non mi pare di conoscerlo, il carattere: ma di quella casa là, no certo". "Benone!" esclamò l'ironico marito. "Adesso poi, siccome sarebbe una pazzia, così son sicuro che pagate. Accomodatevi pure". Ed entrò in casa. La signora non aveva un soldo in tasca, ma fece subito qualche segreta convenzione col cursore, che salutò e sparve nella nebbia, dilagata, in un batter d'occhio, sul piano. Il triste oceano bianco fumava su tutti i pendii, metteva le prime ondate taciturne sulla spianata di Monte San Donà. Ancora un momento e avrebbe chiusa la casa nel suo vapor denso, avrebbe affacciata a tutte le finestre la sua malinconia stupida. "Ci vorrà un lume, a tavola" disse al domestico la signora San Donà, rientrando. "Niente, niente" gridò Beneto dal salotto "non occorre lume che ci si vede benone. Sbrigatevi e dite alla principessa che si degni, almanco, di non farsi aspettare".

Le Fate d'Oro

679004
Perodi, Emma 1 occorrenze

I servitori Io mandavano via, i cani stessi gli abbaiavano alle calcagna, ma lui tanto fece, tanto s'arrabattò che gli riuscì di mettersi in fondo allo scalone di dove doveva scendere la sposa, in mezzo al cor- teo, per andare al banchetto. Quando il mercante vide la sposa si sentì tremare le ginocchia e sussurrò: « Bri- ciolina! » Briciolina si voltò, riconobbe il padre e gli si buttò al collo. Costì il corteo do- vette fermarsi, perché Briciolina era sem- pre abbracciata a lui, e poi se lo mise al fianco, fece chiamare le sorelle e tutte gli fecero un'accoglienza, come se le avesse fatte crescere nel cotone. Il mercante, guarito dall'avarizia, con- solato dalle figliuole, dimenticò i patimenti sofferti, e tutti insieme fecero una festa coi fiocchi. E i tre cacciatori? Che non l'avete capito? Erano i tre Principi che sposarono le figliuole del mer- cante.

Pagina 236

LE NOVELLE DELLA NONNA. Fiabe fantastiche

679049
Perodi, Emma 1 occorrenze
  • 1992
  • Newton Compton Editori s.r.l.
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Intanto, sul tetto, il baston della granata s'impazientiva e batteva sui tegoli a più non posso; la mula raspava il terreno e i cani di casa abbaiavano. - Non vengo, andate via senza di me, - diceva Bertino. E il bastone a batter più forte e la mula a raspare. - Sapete un po' quel che s'ha da fare? - disse il contadino che aveva tirato Bertino per la zampa. - S'ha da bruciare il bastone della granata, o per meglio dire il cavallo della Strega. Detto fatto. Ecco, appoggia una scala al tetto, piglia il bastone e lo tira giù per la cappa sul fuoco. In due minuti, del bastone della scopa non c'era rimasto altro che un mucchietto di cenere. Allora riscese e, afferrata la mula per il morso, la trascinò fino a un precipizio e ve la buttò dentro insieme col barroccio con le calze e tutto. La mattina dopo, Bertino, alla testa di una comitiva di contadini armati di bastoni, si diresse verso la Badia a Prataglia e, riconosciuto l'abete che nascondeva la scala delle Streghe, invece di bussare, abbatté la porta e seguito dai contadini scese nella cucina. Le Streghe erano a desinare e ridevano pensando che fosse accaduto qualche guaio a Bertino che ritardava. I contadini le presero, le legarono a due a due, e poi le spinsero fuori del loro antro a bastonate, e, condottele alla Badia, le consegnarono ai soldati. Il processo fu breve e tutte furon condannate, come streghe, ad essere arse vive. Il giorno dopo fu alzato un altissimo rogo in piazza, e su quello furono arrostite. Bertino allora ritornò a Monte Fattucchio, dove già lo piangevan per morto, e raccontò tutto alla Lena e a compar Bernardo, i quali empirono il paese delle avventure occorse al loro amico. In tutto il contado non ci fu chi volesse andare alla casa della vecchia, anzi, nessuno vi passò più davanti per molti anni, e un giorno quella catapecchia crollò. Ma dopo la morte delle Streghe, nessun bambino ha più trovato appesa la calza rossa piena di cenere, carbone e fuliggine. E qui la novella è terminata. Era tardi, e i ragazzi avevano fretta di andare a letto per destarsi di buon'ora a vedere quel che la Befana aveva messo loro nella calza; ma coloro che al principio della serata eran mogi mogi, avevan riacquistato la parlantina perché non temevano di esser puniti col brutto donativo. Quando i ragazzi del vicinato ebbero ringraziato la Regina per la novella, se ne andarono, e i bimbi Marcucci si aggrupparono ciascuno attorno alla propria mamma, raccomandandole di metter loro molti dolci nella calza. - Come ci credono alla Befana! - esclamò Cecco. - La Befana buona, voi lo sapete, è la mamma; quella della fuliggine, della cenere e del carbone, è morta arrostita; dunque dormite tranquilli! I bimbi salirono di corsa la scala che metteva nelle camere, e non sognarono la Befana che serve di spauracchio ai monelli, ma sognarono bensì la Befana buona, la mamma o la nonna che si studia di far piacere ai bambini, e dona ai buoni, per ricompensarli, e chiude un occhio con quelli impertinenti, con la speranza che si emendino.

Se non ora quando

680503
Levi, Primo 2 occorrenze

Abbaiavano nervosamente, ora verso le baracche, ora verso gli sconosciuti che tardavano a seguirli, fieri del dovere compiuto, inquieti per le nuove presenze umane; scodinzolavano e ringhiavano alternativamente, o anche simultaneamente; balzavano avanti e indietro, danzavano sul posto con le zampe anteriori rigide, e latravano a perdifiato aspirando aria a intervalli con un rantolo convulso. Poi si videro arrivare due vacche, cacciate avanti da giovani sbrindellati: badavano che le bestie non uscissero dalle piste tracciate dai cani. Infine arrivò il grosso della banda, una trentina di uomini e donne, armati e disarmati, stanchi, laceri e baldanzosi. In mezzo a loro c' era un uomo dal naso aquilino e dal viso abbronzato: portava a tracolla un parabellum e un violino. In coda al gruppo c' era Dov. Mendel disse tra sé: "Benedetto Colui che resuscita i morti". Nacque un trambusto, tutti facevano domande e nessuno rispondeva. Prevalsero alla fine le voci di Ulybin e dell' uomo alto, che era Gedale. Che tutti facessero silenzio ed aspettassero gli ordini; Ulybin e Gedale si ritirarono nello sgabuzzino del comando. Molti degli uomini di Turov ricordavano la lite che era scoppiata fra i due all' inizio dell' inverno; che cosa sarebbe successo ora, in questo nuovo incontro? Si sarebbero riconciliati, davanti alla minaccia imminente? Avrebbero trovato un accordo? Mentre si attendeva l' esito del colloquio, i nuovi venuti chiesero di essere accolti nelle baracche ormai sgombre; alcuni sedettero a terra, altri si sdraiarono e si addormentarono subito, altri ancora chiesero tabacco, o acqua calda per lavarsi i piedi. Chiedevano con l' umiltà di chi ha bisogno, ma con la dignità di chi sa di avere diritto: non erano mendicanti né gente girovaga, erano la banda ebraica radunata da Gedale, composta dai superstiti delle comunità di Polessia, Volinia e Bielorussia; una aristocrazia miseranda, i più forti, i più astuti, i più fortunati. Ma alcuni venivano da più lontano, per strade piene di sangue; erano sfuggiti ai pogrom dei saccheggiatori lituani che uccidevano un ebreo per avere un lenzuolo, ai lanciafiamme degli Einsatzkommandos, alle fosse comuni di Kovno e di Riga. C' erano fra loro i pochi sfuggiti al massacro di Ruzany: avevano vissuto per mesi in tane scavate nel bosco, come i lupi, e come i lupi cacciavano silenziosi in branco. C' erano gli ebrei contadini di Blizna, dalle mani indurite dalla vanga e dalla scure. C' erano gli operai delle segherie e delle tessiture di Slonim, che prima ancora di incontrare la barbarie hitleriana avevano scioperato contro i padroni polacchi ed avevano conosciuto la repressione e la prigione. Ognuno di loro, uomo o donna, aveva sulle spalle una storia diversa, ma rovente e pesante come il piombo fuso; ognuno avrebbe dovuto piangere cento morti se la guerra e tre inverni terribili gliene avessero lasciato il tempo e il respiro. Erano stanchi, poveri e sporchi, ma non sconfitti; figli di mercanti, sarti, rabbini e cantori, si erano armati con le armi tolte ai tedeschi, si erano conquistato il diritto ad indossare quelle uniformi lacere e senza gradi, ed avevano assaporato più volte il cibo aspro dell' uccidere. I russi di Turov li guardavano inquieti, come avviene davanti all' inatteso. Non riconoscevano in quei visi smunti ma determinati il zid della loro tradizione, lo straniero in casa, che parla russo per abbindolarti ma pensa nella sua lingua strana, che non conosce Cristo e segue invece i suoi precetti incomprensibili e ridicoli, forte solo della sua furberia, ricco ed imbelle. Il mondo si era capovolto: questi ebrei erano alleati ed armati, come gli inglesi, come gli americani, e come tre anni prima era stato alleato anche Hitler. Le idee che ti insegnano sono semplici e il mondo è complicato. Alleati, dunque: compagni d' armi. Avrebbero dovuto accettarli, stringergli le mani, bere vodka con loro. Qualcuno tentava un sorriso impacciato, un timido approccio con le donne scarmigliate, infagottate nei panni militari fuori misura, dai visi grigi di fatica e di polvere. Sradicare un pregiudizio è doloroso come estrarre un nervo. Il muro dell' incomprensione ha due facce, come tutti i muri, e dall' incomprensione nascono l' imbarazzo, il disagio e l' ostilità; ma gli ebrei di Gedale non si sentivano, in quel momento, né imbarazzati né ostili. Erano allegri, invece: nell' avventura ogni giorno diversa della Partisanka, nella steppa gelata, nella neve e nel fango avevano trovato una libertà nuova, sconosciuta ai loro padri e ai loro nonni, un contatto con uomini amici e nemici, con la natura e con l' azione, che li ubriacava come il vino di Purim, quando è usanza abbandonare la sobrietà consueta e bere fino a non saper più distinguere la benedizione dalla maledizione. Erano allegri e feroci, come animali a cui si schiude la gabbia, come schiavi insorti a vendetta. E l' avevano gustata, la vendetta, pur pagandola cara: a diverse riprese, in sabotaggi, attentati e scontri di retrovia; ma anche di recente, pochi giorni prima e non lontano. Era stata la loro grande ora. Avevano attaccato, da soli, la guarnigione di Ljuban, ottanta chilometri a nord, dove stavano confluendo truppe tedesche ed ucraine destinate al rastrellamento; nel villaggio era anche un piccolo ghetto di artigiani. I tedeschi erano stati cacciati da Ljuban: non erano di ferro, erano mortali, quando si vedevano sopraffatti scappavano in disordine, anche davanti agli ebrei. Alcuni di loro avevano abbandonato le armi e si erano gettati nel fiume ingrossato dal disgelo, era stata una visione che rallegrava, una immagine da portarsi nella tomba: gli ebrei la raccontavano ai russi con facce allucinate. Sì, gli uomini biondi e verdi della Wehrmacht erano fuggiti davanti a loro, entravano nell' acqua e cercavano di arrampicarsi sulle lastre di ghiaccio trascinate dalla corrente, e loro avevano sparato ancora, e avevano visto i corpi dei tedeschi affondare o navigare verso la foce sui loro catafalchi di ghiaccio. Il trionfo era durato poco, si capisce: i trionfi durano sempre poco, e, come sta scritto, la gioia dell' ebreo finisce nello spavento. Loro si erano ritirati nel bosco portandosi dietro quelli fra gli ebrei del ghetto di Ljuban che sembravano in grado di combattere, ma i tedeschi erano tornati e avevano ucciso tutti quelli che nel ghetto erano rimasti. La loro guerra era così, una guerra in cui non ci si volta a guardare indietro e non si fanno i conti, una guerra di mille tedeschi contro un ebreo e di mille morti ebrei contro un morto tedesco. Erano allegri perché erano senza domani e non si curavano del domani, e perché avevano visto i superuomini sguazzare nell' acqua gelata come le rane: un regalo che nessuno gli avrebbe più tolto. Portavano anche altre notizie più utili. Il rastrellamento era già cominciato, e loro erano stati sloggiati dal loro campo, che del resto era un povero campo di tane, provvisorio, non certo paragonabile a quello di Turov. Ma non era vero che fosse un grande rastrellamento: non c' erano né carri né artiglieria pesante, e un prigioniero tedesco che loro avevano interrogato aveva confermato che il punto più debole dell' accerchiamento doveva proprio essere dove pensava Ulybin: a sud-ovest, lungo la Stviga. Dov stava bene, non zoppicava quasi più, ma era più curvo di prima. I suoi capelli, di nuovo accuratamente pettinati, erano più radi e più bianchi. Sissl gli chiese se voleva mangiare qualcosa, e lui rispose ridendo: _ A un malato si domanda, a un sano si dà, _ ma aveva più fretta di raccontare che di mangiare. Intorno a lui si era formato un cerchio di ascoltatori, ebrei e russi: non erano molti quelli che dalla Grande Terra tornavano in territorio partigiano. _ Quanto tempo è che parlano, quei due? Un' ora? È buon segno: più parlano e più vanno d' accordo; e vuole anche dire che i tedeschi sono ancora lontani, o che hanno cambiato strada. Ma sicuro, che mi hanno curato: che cosa avevate pensato? All' ospedale di Kiev. Non aveva più il tetto, o anzi non l' aveva ancora, perché lo stanno ricostruendo, e sapete chi? I prigionieri tedeschi, quelli che si sono arresi a Stalingrado. _ Non c' era il tetto, non c' era da mangiare e non c' era l' anestesia, ma c' erano le dottoresse, e mi hanno operato subito: mi hanno tolto qualcosa dal ginocchio, un osso, e me lo hanno anche fatto vedere. Nelle cantine, mi hanno operato, alla luce dell' acetilene, e poi mi hanno messo in corsia, una corsia sterminata, più di cento lettini per parte, con dentro vivi, moribondi e morti. Non è bello stare in ospedale, ma proprio in quella corsia è arrivata la mia fortuna: se c' è la fortuna, anche un bue partorisce. È venuta una visita, uno importante, del Politburò, un ucraino: piccolo, grasso, calvo, con l' aria del contadino e il petto coperto di medaglie. In mezzo a quella confusione di portantini che andavano e venivano, si è fermato proprio davanti a me. Mi ha chiesto chi ero, da dove venivo e dove ero stato ferito; aveva dietro quelli della radio, e ha improvvisato un discorso dove diceva che tutti quanti, russi e georgiani e jakuti ed ebrei, siamo figli della gran madre Russia, e che tutte le questioni devono finire .... Si udì la voce di Piotr: _ Se quello era un ucraino, ed era un pezzo grosso, gli potevi dire che incominciasse a fare pulizia a casa sua! Sono gentaglia, gli ucraini: quando sono venuti i tedeschi, gli hanno aperto le porte e gli hanno offerto il pane e il sale. I loro banderisti sono peggio dei tedeschi _. Altre voci fecero tacere Piotr ed esortarono Dov a continuare. _ ... e mi ha chiesto, una volta che io fossi guarito, dove volevo essere mandato. Io gli ho risposto che la mia casa è troppo lontana, che avevo amici partigiani, e che avrei voluto ritrovarli. Bene, appena mi hanno dichiarato guarito lui si è dato da fare. Forse voleva dare un esempio, ha ripescato Gedale e la sua banda e mi ha fatto paracadutare vicino al suo campo, insieme a una cassa con dentro quattro parabellum come suo regalo personale. Scendere col paracadute fa abbastanza paura, ma sono finito nel fango e non mi sono fatto niente. Dov avrebbe avuto ancora una quantità di cose da raccontare su quanto aveva visto e udito durante la sua convalescenza nella Grande Terra, ma si aprì la porta del comando, ne uscirono Gedale ed Ulybin, e tutti tacquero.

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I due cani della banda abbaiavano inquieti, ringhiavano e rizzavano il pelo. Piotr, oltre che più forte di Leonid, era avvantaggiato dalle braccia più lunghe. Dopo una schermaglia confusa e non troppo corretta, Leonid cadde e Piotr gli fu subito sopra, facendogli toccare la terra con le spalle. Piotr salutò il pubblico con le mani levate, e si trovò davanti Dov. _ Che cosa vuoi, zio? _ chiese Piotr: era più alto di Dov di quasi tutta la testa. _ Lottare con te, _ rispose Dov, e si mise in guardia, ma con indolenza, con le mani che pendevano molli dai polsi, nell' atteggiamento che gli era abituale nei momenti di riposo. Piotr attese, perplesso. _ Ora ti insegno una cosa, _ disse Dov, e si fece sotto. Piotr arretrò tenendolo d' occhio. Il movimento di Dov, nel pallido chiarore della luna, non si distinse bene; si vide Dov tendere una mano e un ginocchio, abbassandosi leggermente, e Piotr vacillare sbilanciato e cadere sulla schiena. Si rialzò e si scosse via la polvere: _ Dove hai imparato questi colpi? _ chiese impermalito; _ te li hanno insegnati da militare? _ No, _ rispose Dov, _ me li ha insegnati mio padre _. Gedale disse che Dov avrebbe dovuto istruire tutta la banda in quel modo di lottare, e Dov rispose che lo avrebbe fatto volentieri, specialmente con le donne. Tutti risero, e Dov aggiunse che quella era la lotta dei Samoiedi: nel luogo dove lui era nato erano state deportate diverse famiglie di Samoiedi. _ Sono i russi che li hanno chiamati così, perché credevano che mangiassero carne umana: "Samo-jed" vuol dire "mangia-se-stesso", ma a loro questo nome non piace. Sono brava gente, e da loro si imparano molte cose; ad accendere il fuoco quando c' è il vento, a ripararsi dalla tormenta sotto un cumulo di fascine. Anche a guidare le slitte trainate dai cani. _ Questo, è meno facile che ci venga utile, _ osservò Piotr. _ Ma questo, invece, può servire, _ disse Dov. Dal cinturone che Piotr aveva deposto insieme con la giubba, estrasse il coltello; lo afferrò con le due dita per la punta, lo librò per un momento come per prendere la mira, poi lo scagliò contro il tronco di un acero, lontano otto o dieci metri. Il coltello volò volteggiando e si piantò profondo nel legno. Provarono altri, primo fra tutti Piotr, stupito e ingelosito, ma nessuno riuscì, neppure riducendo a metà la distanza dall' albero: nel migliore dei casi, il coltello colpiva il tronco col manico o di piatto e cadeva a terra. Gedale e Mendel non riuscirono neppure a centrare il tronco. _ Peccato che al posto dell' acero non ci fosse il Dottor Goebbels, _ disse Jòzek, che non aveva preso parte né allo spettacolo né ai giochi. Dov spiegò che per uccidere un uomo non va bene un coltello qualunque; ci vogliono coltelli speciali, sottili ma pesanti, e ben bilanciati. _ Capito, Jòzek? _ disse Gedale, _ tienilo a mente, la prossima volta che vai al mercato. Alcuni dormivano già quando Gedale prese il violino e cominciò a cantare; ma non cantava per essere applaudito. Cantava sommesso, lui che era così chiassoso quando parlava; altri gedalisti si unirono, alcune voci del coro erano armoniose ed altre meno, ma tutte erano convinte e risentite. Mendel e i suoi ascoltarono con stupore il ritmo, che era alacre, quasi di una marcia, e le parole, che erano queste: "Ci riconoscete? Siamo le pecore del ghetto, Tosate per mille anni, rassegnate all' offesa. Siamo i sarti, i copisti ed i cantori Appassiti nell' ombra della Croce. Ora abbiamo imparato i sentieri della foresta, Abbiamo imparato a sparare, e colpiamo diritto. Se non sono io per me, chi sarà per me? Se non così, come? E se non ora, quando? I nostri fratelli sono saliti al cielo Per i camini di Sobibòr e di Treblinka, Si sono scavati una tomba nell' aria. Solo noi pochi siamo sopravvissuti Per l' onore del nostro popolo sommerso Per la vendetta e la testimonianza. Se non sono io per me, chi sarà per me? Se non così, come? E se non ora, quando? Siamo i figli di Davide e gli ostinati di Massada. Ognuno di noi porta in tasca la pietra Che ha frantumato la fronte di Golia. Fratelli, via dall' Europa delle tombe: Saliamo insieme verso la terra Dove saremo uomini fra gli altri uomini. Se non sono io per me, chi sarà per me? Se non così, come? E se non ora, quando?" Finito che ebbero di cantare, tutti si addormentarono avvolti nelle coperte; vegliarono solo le sentinelle, arrampicate sugli alberi ai quattro angoli dell' accampamento. Al mattino Mendel chiese a Gedale: _ Che cosa cantavate ieri sera? È il vostro inno? _ Chiamalo così se vuoi; ma non è un inno, è solo una canzone. _ L' hai composta tu? _ La musica è mia, ma cambia un poco, di mese in mese, perché non sta scritta da nessuna parte. Le parole invece non sono mie. Eccole, guarda, sono scritte qui. Dalla tasca interna della giubba Gedale cavò fuori un plico di tela incerata legato con uno spago. Lo disfece e ne estrasse un foglio quadrettato, sgualcito, intestato 13 Juni, Samstag. Era stato strappato senza garbo da un' agenda, ed era fittamente ricoperto di caratteri jiddisch tracciati a matita. Mendel lo prese, lo guardò con attenzione, poi lo rese a Gedale: _ Leggo a stento i caratteri stampati, e il corsivo non lo leggo affatto. L' ho dimenticato. Gedale disse: _ Io ho imparato a leggerlo tardi, nel '42, nel ghetto di Kossovo: in una occasione è servito come linguaggio segreto. A Kossovo c' era con noi Martin Fontasch. Di mestiere era carpentiere, si è guadagnato da vivere così fino alla fine, ma la sua passione era comporre canzoni. Faceva tutto da solo, le parole e la musica, ed era conosciuto in tutta la Galizia; si accompagnava con la chitarra, e cantava le sue canzoni ai matrimoni e alle feste di paese; qualche volta anche nei caffè concerto. Era un uomo pacifico e aveva quattro figli, ma è stato con noi nella rivolta del ghetto, è scappato con noi ed è venuto nel bosco, lui solo e non più giovane: tutti i suoi erano stati uccisi. Nella primavera dell' anno scorso eravamo dalle parti di Novogrudok e c' è stato un brutto rastrellamento; metà dei nostri sono morti combattendo, Martin è stato ferito ed è caduto prigioniero. Il tedesco che lo ha perquisito gli ha trovato in tasca un flauto: più che un flauto era un piffero, un giocattolo da quattro soldi che Martin si era fatto da sé intagliando un ramo di sambuco. Ora quel tedesco era un suonatore di flauto: ha detto a Martin che un partigiano si impicca e un ebreo si fucila, lui era ebreo e partigiano, e poteva scegliere. Però era anche un suonatore, e allora lui, essendo un tedesco che amava la musica, gli concedeva di esprimere un ultimo desiderio: ma che fosse un desiderio ragionevole. _ Martin chiese di comporre un' ultima canzone, e il tedesco gli concesse mezz' ora di tempo, gli diede questo foglio e lo chiuse in una cella. Trascorso il tempo, ritornò, si fece dare la canzone e lo uccise. È stato un russo che ci ha raccontato questa storia; da principio collaborava coi tedeschi , poi i tedeschi lo sospettarono di fare il doppio gioco e lo chiusero nella cella accanto a quella di Martin, ma riuscì ad evadere e rimase con noi qualche mese. Pare che il tedesco fosse fiero della canzone di Martin; la faceva vedere in giro come una curiosità e si riprometteva di farsela tradurre alla prima occasione. Ma non ha fatto in tempo. Noi lo tenevamo d' occhio, lo abbiamo seguito, lo abbiamo isolato, e una notte siamo entrati scalzi nell' isba requisita dove lui abitava. A me piace la giustizia e avrei voluto chiedergli qual era il suo ultimo desiderio, ma Mottel mi faceva fretta, così io l' ho strozzato nel suo letto. Gli abbiamo trovato addosso il flauto di Martin e la canzone: a lui non ha portato fortuna, ma per noi è come un talismano. Ecco, guarda qui: fin quaggiù è il testo che ci hai sentito cantare, e queste parole in fondo dicono così: "Scritto da me Martin Fontasch, che sto per morire. Sabato 13 giugno 1943". L' ultima riga non è in jiddisch ma in ebraico; sono parole che tu conosci, "Ascolta Israele, il Signore Iddio nostro è unico". _ Aveva composto molte altre canzoni, allegre e tristi; la più famosa l' aveva scritta molti anni prima che in Polonia arrivassero i tedeschi, in occasione di un pogrom: a quel tempo, a fare i pogrom ci pensavano i contadini. Quasi tutti i polacchi la conoscono, non solo gli ebrei, ma nessuno sa che l' ha composta Martin il carpentiere. Gedale rifece il plico e lo rimise in tasca: _ Adesso basta, pensieri come questi non sono per tutti i giorni. Vanno bene ogni tanto, ma se uno ci vive dentro se ne avvelena e non è più un partigiano. E tieni bene a mente che io credo in tre cose soltanto, alla vodka, alle donne e al parabellum. Una volta credevo anche nella ragione, ma adesso non più. Qualche giorno dopo Gedale decise che il riposo era durato abbastanza, ed era tempo di riprendere il cammino: _ ... ma questa è una banda aperta, e chi preferisce rimanere in Russia se ne può andare; senza le armi, s' intende. Può aspettare il fronte, o andare dove gli pare _. Nessuno scelse di lasciare la banda, e Gedale chiese a Piotr: _ Conosci questo paese? _ Abbastanza, _ rispose Piotr. _ Quanto è distante la ferrovia? _ Una dozzina di chilometri. _ Benissimo, _ disse Gedale. _ La prossima tappa la facciamo in treno. _ In treno? Ma tutti i treni sono scortati! _ disse Mendel. _ Ebbene, provare si può sempre. Con le scorte si ragiona _. A Gedale apparve più seria l' obiezione di Pavel: _ E il cavallo? Non vorrai mica abbandonarlo. Oltre a tutto ci serve, metà dei bagagli li porta lui. Gedale si rivolse di nuovo a Piotr: _ Che treni passano su questa linea? _ Treni merci, quasi tutti; a volte c' è a bordo anche qualche passeggero, gente che fa la borsa nera. Se portano materiale per i tedeschi, sono scortati, ma non è mai una grossa scorta: due uomini sulla locomotiva e due in coda. Tradotte militari di qui non ne passano mai. _ Qual è la stazione più vicina? _ È Kolki, quaranta chilometri a sud: è una piccola stazione. _ C' è il piano caricamento? _ Non lo so. Non ricordo. Intervenne Dov: _ Ma perché ci vuoi far prendere il treno? Gedale rispose con impazienza: _ E perché non dovremmo prenderlo? Camminiamo da più di mille chilometri; e la ferrovia è a due passi; e insomma io voglio entrare in terra polacca in una maniera che la gente si ricordi di noi. Ci pensò su un momento e aggiunse: _ Abbordare un treno in stazione è troppo pericoloso. Bisogna fermarlo in aperta campagna, ma allora il cavallo non può salire. Ecco, il grosso dei bagagli li prendiamo noi, tanto la tappa è breve; tu Pavel vai avanti col cavallo e ci aspetti a Kolki. Pavel non era convinto: _ E se non arrivate? _ Se non arriviamo ci vieni incontro col cavallo. _ E se il piano caricamento non c' è? Gedale scosse le spalle: _ E se, e se, e se! Solo i tedeschi prevedono tutto, ed è per questo che perdono le guerre. Se non c' è ci arrangeremo. Vedremo sul posto, il modo non ci mancherà. Parti, Pavel; ricordati che sei un contadino, e non farti vedere troppo nell' abitato. Da queste parti, i tedeschi i cavalli li requisiscono. Pavel partì al trotto, ma era ancora in vista quando il Tordo ricadde nel suo solenne passo abituale. Gedale e i suoi si misero in marcia e in poco più di due ore raggiunsero la ferrovia. Era a un solo binario, e tagliava la prateria da un orizzonte all' altro diritta come un raggio di luce. È facile confondere la speranza con la probabilità. Tutti si aspettavano che il treno venisse da nord e fosse diretto al confine polacco; dopo qualche ora di attesa lo videro invece arrivare da sud. Era un merci e viaggiava lentamente. Gedale fece appostare uomini armati dietro i cespugli ai due lati dei binari, poi, in maniche di camicia e disarmato, si pose fra le rotaie sventolando uno straccio rosso. Il treno rallentò e si fermò, e dalla cabina di guida incominciarono immediatamente a sparare. Gedale scattò via in un lampo e si defilò dietro un nocciolo; tutti gli altri risposero al fuoco. Mendel, mentre anche lui sparava cercando di centrare le feritoie della locomotiva, ammirò la preparazione militare dei gedalisti. Da quanto aveva visto delle loro maniere fino a quel momento, si sarebbe aspettato che fossero spericolati, come infatti erano; ma non aveva previsto la precisione e l' economia del loro fuoco, e la tecnica corretta con cui si erano disposti. Sarti, copisti e cantori, diceva la loro canzone: ma avevano imparato presto e bene il loro nuovo mestiere. L' inesperto e lo spaurito si riconoscono subito, perché cercano il riparo massiccio, la roccia o il grosso tronco, che proteggono sì, ma impediscono di spostarsi e di sparare senza esporre il capo. Invece tutti si erano appiattati dietro cespugli folti, e sparavano attraverso le foglie, spostandosi spesso per disorientare l' avversario. Anche la scorta del treno, al riparo delle lamiere, sparava preciso e fitto: dovevano essere almeno quattro uomini, e non facevano economia di munizioni. Nel vagone di coda, invece, non c' era difesa. Mendel vide a un tratto Mottel balzare fuori ed avventarsi al convoglio. In un attimo si arrampicò sul tetto dell' ultimo vagone; lassù era al riparo, e del resto dalla cabina non lo avevano visto. Aveva appesa alla cintura una granata a mano tedesca, di quelle a forma di clava, che esplodono a tempo, e correva verso la locomotiva di vagone in vagone, saltando le giunzioni. Quando fu sul tetto del primo vagone lo si vide strappare l' innesco della granata e aspettare qualche secondo; poi, con la granata stessa, ruppe il vetro del lunotto della cabina e lasciò cadere la granata nell' interno. Ci fu l' esplosione ed il fuoco cessò. Nella cabina trovarono che i tedeschi della scorta erano solo tre; uno era ancora vivo, e Gedale lo finì senza esitare. Anche il macchinista e il fuochista erano morti; peccato, disse Gedale, loro non c' entravano e ci sarebbero stati utili: beh, chi serve i tedeschi ha dei rischi e lo sa. Faceva il broncio come un bambino. L' iniziativa di Mottel era stata brillante ma aveva guastato i suoi piani: _ E chi la fa muovere, adesso? Chissà la tua bomba che guai ha combinato sulle leve di comando; e oltre a tutto bisogna invertire la marcia. _ Tu, comandante, sei una testa dura e non sei mai contento, _ disse Mottel che si aspettava un elogio. _ Io ti regalo un treno e tu mi critichi. Un' altra volta voi andate all' attacco e io accendo la pipa. Gedale non gli diede ascolto, e disse a Mendel di salire in cabina e di vedere se se la cavava a rimettere la macchina in moto. Altri uomini intanto stavano ispezionando il convoglio. Ritornarono delusi: non portava roba pregiata, solo sacchi di cemento, calce e carbone. Gedale fece sgomberare dal cemento due vagoni coperti, per gli uomini e per il cavallo: non aveva abbandonato l' idea della scampagnata ferroviaria. Era molto eccitato; ordinò di tagliare tutti i sacchi col coltello, poi ci ripensò e ne fece accatastare un buon numero fra i binari davanti alla motrice: _ Con meno fretta si sarebbe potuto fare un buon lavoro; ma anche così, con un po' di pioggia e un po' di fortuna, farà un bel blocco _. Poi salì in cabina da Mendel: _ Allora? Che cosa mi sai dire? _ Una locomotiva non è un orologio, _ rispose Mendel seccato. _ Nu, sempre ingranaggi sono, e la tua non è una risposta. Una locomotiva non è un orologio, e un orologiaio non è un ferroviere, e un bue non è un porco, e uno come me non è un capobanda, ma fa il capobanda e lo fa meglio che può; anzi, fa il capobandito _. Qui Gedale rise, di quel suo riso facile che rischiarava l' aria in un attimo. Rise anche Mendel: _ Adesso scendi, che proviamo. Gedale scese e Mendel armeggiò fra i comandi. _ Attento, ora do il vapore _. Il fumaiolo sbuffò, i respingenti gemettero, e il convoglio si spostò a ritroso di qualche metro; tutti gridarono "urrà", ma Mendel disse: _ C' è ancora pressione in caldaia, ma durerà poco. Non basta il macchinista, ci vuole anche il fuochista _. Quanto erano efficienti i gedalisti nel combattimento, altrettanto erano confusionari nelle scelte di pace. Nessuno voleva fare il fuochista; dopo un' intricata discussione, a Mendel fu assegnata come aiutante una donna, che però era forte come un uomo: Ròkhele Nera, che doveva scontare una punizione perché diversi giorni prima, nel corso della pulizia delle armi, aveva smarrito la molla di un moschetto. Si chiamava Ròkhele Nera per distinguerla da Ròkhele Bianca: era scura in viso come una zingara, magra e svelta. Aveva gambe lunghissime, lungo anche il collo, che reggeva un piccolo viso triangolare illuminato dagli occhi ridenti ed obliqui. Portava i capelli neri raccolti in una crocchia. Era anche lei una veterana di Kossovo, benché avesse poco più di vent' anni. Ròkhele Bianca invece era una creatura semplice e mite, che non parlava quasi mai, e quando parlava lo faceva con voce così bassa che si stentava a capirla. Per questi motivi nessuno sapeva nulla di lei, né lei sembrava desiderosa di far sapere qualcosa a qualcuno: seguiva passivamente il cammino della banda, obbediva a tutti e non protestava mai. Veniva da un remoto villaggio della Galizia ucraina. Mendel mostrò alla Nera come doveva fare per alimentare la caldaia, tutti gli altri salirono sui due vagoni liberi e il treno si mosse, spinto invece che trainato. Mendel bloccò la manetta del vapore su una velocità molto bassa, perché dalla cabina non poteva vedere la via. Jòzek si era installato col mitra nell' abitacolo del frenatore, sull' ultimo vagone che ora era il primo, e faceva da battistrada; ogni tanto si sporgevano entrambi, e Jòzek segnalava a Mendel se la via era libera. La fuochista rideva come a un gioco e impalava carbone con entusiasmo infantile; in breve fu tutta sudata, e nera sul serio, da capo a piedi, tanto che occhi e denti brillavano come fanali nel buio. Mendel, invece, non si divertiva affatto. La soddisfazione per aver domato quel bestione meccanico si spense presto; il sangue sul pavimento di lamiera lo metteva a disagio, si sentiva inquieto per quella marcia fatta quasi alla cieca, e l' intera impresa gli sembrava una follia gratuita e un' imprudenza estrema. Non capiva quali lontane intenzioni avesse Gedale. A metà strada si dovette convincere che Gedale aveva raramente intenzioni lontane, e preferiva improvvisare: si era sporto dal vagone e gli faceva cenno di fermare. Fermò, e scesero tutti e due. _ Senti, orologiaio, mi è venuto in mente che sarebbe bene danneggiare questo treno più che possiamo. Che cosa si può fare? _ Qui, proprio niente, _ rispose Mendel. _ Se andassimo per diritto invece che a rovescio, potremmo sganciare i vagoni e bloccarli in qualche modo, ma così è un altro discorso. Ecco, il solo lavoro che si può fare è di ribaltare le sponde dei vagoni scoperti; così, con le scosse, tutta la calce e il carbone finiranno sparsi sulla scarpata. _ E i vagoni stessi e la locomotiva? _ Ci penseremo dopo, _ disse Mendel. _ Quando tu ne avrai avuto abbastanza. Gedale ignorò la provocazione, mandò tre uomini a ribaltare le sponde, e il treno ripartì seminando allegramente il materiale dai due lati. Arrivarono a Kolki nel primo pomeriggio, e i vagoni erano quasi vuoti: Pavel col cavallo li aspettava sul piano caricamento. Nella stazioncina non c' era nessuno, salvo il capostazione, che però vide il mitragliatore in mano a Jòzek, fece una specie di saluto militare e si ritirò. Mendel frenò, caricò in un istante Pavel e il Tordo, e ripartì. Gedale era felice, e fece segno a Mendel di andare avanti, e più in fretta: "A Sarny! A Sarny!" Al di sopra dello strepito della macchina, dai due vagoni arrivavano fino a Mendel grida e canti, e i nitriti di Tordo spaventato. Poco dopo fu Mendel che prese l' iniziativa di fermare il treno presso un fiumiciattolo che solcava la steppa disabitata. Non solo per riposarsi e per dar modo a Ròkhele di lavarsi un poco, ma anche per avvisare che l' acqua del serbatoio stava per finire. Tutti si misero al lavoro, facendo la spola al fiume con i pochi recipienti disponibili: qualche pentola di cucina e un secchio trovato sulla motrice. L' operazione andava per le lunghe, e Mendel ne approfittò per ascoltare Pavel, che stava raccontando quanto aveva visto a Kolki. _ Non abbiamo corso nessun rischio, né il cavallo né io. Nessuno si è occupato di noi né ci ha rivolto la parola, eppure credo proprio che nessuno mi abbia preso per un contadino. Tedeschi non ne ho visti; ci devono pur essere, perché davanti al municipio c' erano i loro manifesti di propaganda, ma in strada non si fanno vedere. La gente non ha più paura di parlare, o ne ha meno di prima; sono entrato in un' osteria, c' era la radio accesa, e la voce era quella di Radio Mosca: diceva che i russi hanno ripreso la Crimea, che tutte le città tedesche sono bombardate di giorno e di notte, e che in Italia gli alleati sono alle porte di Roma. Ah, come è bello passeggiare nelle strade di un paese, vedere i balconi con i vasi di fiori, le insegne dei negozi, le finestre con le tendine! Guardate che cosa vi ho portato: l' ho staccato io dal muro, ce n' è su tutte le cantonate. Pavel mostrava in giro un manifesto, stampato in grossi caratteri su brutta carta gialliccia, in russo e in polacco. Diceva: "Non lavorate per i tedeschi, non date loro informazioni. Chi fornirà grano ai tedeschi verrà ucciso. Lettore, ti stiamo spiando; se strappi questo manifesto ti spareremo". _ E tu lo hai strappato? _ chiese Mottel. _ Non l' ho strappato, l' ho staccato: è un' altra cosa. L' ho staccato con rispetto, chiunque si sarebbe accorto che lo portavo via per farlo vedere a qualcuno; e difatti non mi hanno sparato. Vedete? è firmato dal Reggimento Stella Rossa: comandano loro. _ Comandiamo anche noi, _ interruppe Gedale con impeto. _ Entreremo a Sarny a modo nostro: in modo da farci ricordare. Chi conosce Sarny? La conosceva Jòzek, che ci aveva fatto il servizio militare nell' esercito polacco: una cittadina modesta, forse ventimila abitanti. Qualche fabbrica, una filanda e un' officina per la riparazione del materiale ferroviario. La stazione? Jòzek la conosceva benissimo perché ci era stato di presidio poco prima che scoppiasse la guerra; Sarny era l' ultima città polacca prima della frontiera, i russi ci erano entrati senza combattere, subito dopo l' inizio delle ostilità. Era una stazione abbastanza importante, perché ci passava la linea per Lublino e Varsavia, e per via dell' officina di riparazioni. C' era un gran capannone e una piattaforma girevole, appunto per avviare le locomotive all' officina. Gedale si illuminò, e disse a Mendel: _ La tua macchina farà una fine gloriosa _. Mendel disse che sperava di non farla anche lui. Gedale fece fermare il treno a notte, all' imbocco dello smistamento, e fece scendere tutti dai vagoni. Il cavallo, impaurito dal buio, si imbizzarrì: rifiutava di scendere, tentava di inalberarsi, nitriva convulso e scalciava contro la parete di fondo del vagone. Lo tirarono e spinsero, alla fine si decise a saltare, ma atterrò malamente rompendosi una zampa anteriore; Pavel si allontanò senza dire parola, e Gedale lo finì sparandogli nella nuca. Anche la stazione di Sarny sembrava deserta: nessuno reagì allo sparo. Gedale disse a Mendel di spingere i vagoni su un binario laterale, e a Jòzek e Pavel di andare avanti cauti, e di deviare gli scambi in direzione della piattaforma; tornarono a lavoro compiuto, e riferirono che il ponte della piattaforma era in posizione trasversale rispetto al binario di arrivo: benissimo, disse Gedale. Avrebbe mandato la locomotiva a fracassarsi nella fossa della piattaforma, l' officina sarebbe rimasta bloccata per almeno un mese. _ Non sei convinto, orologiaio? Ti ci sei affezionato, eh? Un poco anch' io, ma ad andare più avanti non mi fido, e non la voglio regalare ai tedeschi. E ti dirò una cosa che ho imparata nei boschi: le imprese che riescono meglio sono quelle che il tuo nemico non crede che tu possa fare. Su, spingi via i vagoni, metti in moto la macchina e salta giù. Mendel obbedì. La locomotiva senza equipaggio sparì nel buio, visibile soltanto per le faville che scaturivano dal fumaiolo. Tutti aspettarono col fiato sospeso; pochi minuti dopo si udì un fracasso di lamiere sfondate, un rombo di tuono, e un sibilo acuto che andò estinguendosi lentamente. Ululò una sirena d' allarme, si sentirono voci concitate, i gedalisti fuggirono in silenzio verso la campagna. Mentre camminava a tentoni, nel buio dell' oscuramento, inciampando nelle rotaie e nei cavi, ronzavano nella testa di Mendel, incongrue, le parole della benedizione dei miracoli: "Benedetto sii Tu o Signore Dio nostro, re del mondo, che hai fatto per noi un miracolo in questo luogo". In questo modo la banda di Gedale segnò il suo ingresso nel mondo abitato.

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