Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNICT

Risultati per: abbaiava

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Il ritorno del figlio. La bambina rubata.

245358
Grazia Deledda 2 occorrenze
  • 1919
  • Fratelli Treves, Editori
  • Milano
  • Verismo
  • UNICT
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Lo stesso cane aveva una diversa disposizione verso di me: abbaiava, e il ragazzo doveva tenerlo fermo per impedirgli di entrare nella casa. Io non avevo più paura di nulla, di nessuno: mi sentivo la forza di lottare anche coi cani arrabbiati. Misi il foglietto con l'indirizzo nel portafoglio e anche questa volta lasciai intravedere il denaro che avevo là dentro. Vidi il ragazzetto che si volgeva agli uomini come per dire: "vedete che non sono stato bugiardo,,, e subito mi pentii del mio atto. I mietitori erano tutti dei poveri diavoli, tristi, bruciati dal sole e dalla fatica: mi pareva di averli insultati col far loro vedere il mio denaro e la mia speranza. Se ci fosse stata un'osteria lì accanto, li avrei invitati a bere: non potevo domandare del vino a quell'uomo che non cessava di tenermi d'occhio, con la sua roncola in mano: però mi venne una delle solite idee: salutai, e nell'andarmene feci segno al ragazzetto che mi venisse incontro nella strada. Ci arrivò lui prima di me. E io gli diedi una moneta, accennandogli di comprare del vino e distribuirlo a mio nome ai mietitori. Avevo fatto qualche centinaio di passi quando due di essi mi raggiunsero e mi si misero uno per fianco cercando subito di farmi intendere qualche cosa: mi proponevano, a quanto ho potuto capire, di farli lavorare nel mio terreno. Erano tutti e due scalzi, coi piedi enormi di vagabondi, coi capelli rossicci e il petto nudo che pareva scorticato. Al tramonto le loro ombre si allungavano come due pali davanti a me ai fianchi della mia ombra tozza; e le loro falci scintillavano. Mi destarono dapprima un senso di diffidenza: mi sembrava, guardando le nostre tre ombre sul bianco della strada, di essere Cristo fra i due ladroni. Ma gli occhi dei due uomini erano buoni, dolci, e mi rassicuravano. Si arrivò al paese che era già sera. Il mio treno partiva alle dieci e io mi fermai per mangiare qualche cosa in una piccola trattoria popolare vicina alla stazione, ove di solito cenavano i ferrovieri, gli operai, i carrettieri e i facchini. Anche i miei due compagni entrarono poco dopo di me e presero posto a una tavola accanto alla mia. Ma ordinarono solo del vino. Avevano con loro del pane e pomidoro; ed uno di essi mi accennò scherzosamente se volevo partecipare al loro pasto. II locale costruito in legno, cucina e sala da mangiare assieme, era rischiarato da lumi ad acetilene che spandevano un odore soffocante e una luce cruda velata dal fumo dei fornelli. Uomini in camiciotto azzurro, soldati e ferrovieri entravano ed uscivano. Non si vedeva una donna, tranne quelle che stavano nella cucina. Io ordinai uova e frutta e del vino bianco che subito mi diede una leggera ubriachezza. Alcuni soldati vennero a sedersi alla mia tavola; erano giovani allegri e si urtavano ridendo e, offrendosi il vino con tale insistenza che se lo versavano addosso. Mi venivano in mente i miei compagni d'Istituto, i giuochi e gli spintoni con loro. Una grave tenerezza mi vinceva: quel movimento, quelle luci attorno, mi davano un piacevole capogiro; pensavo di prendere il treno, ma di non fermarmi presso la zia: potevo proseguire in cerca di Fiora: consultai l'orario: quando sollevai gli occhi non vidi più i due mietitori. Il locale era pieno di gente; il padrone con tre bottiglie e tre piatti per mano non faceva a tempo a servire tutti. Suonai più volte perchè mi portasse il conto: egli sembrava più sordo di me. Stanco di aspettare, mi alzo e vado in fondo, verso la cucina: urto contro qualcuno; finalmente riesco a farmi capire: ma quando cerco i denari per pagare mi accorgo che non ho più il portafoglio.

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Forse là dentro si chiacchierava, forse un cane nell'aia abbaiava. Io non sentivo nulla. Tutto era buio nel resto della casa e la porticina dell'aia era chiusa. Rimasi alcuni momenti immobile attaccato al muro sotto la finestra: sentivo iI cuore battermi, ma null'altro. Poi mi prese il pazzo desiderio di afferrare quel lembo di luce, come una bandiera da una vetta: mi slanciai, una, due volte; d'un tratto la luce si spense, e mi parve di averla spenta io. Tornai indietro, nella vigna; e anche laggiù non trovai più la luminosità di prima. Tutto era diverso, tutto scuro. Camminai fino a trovarmi davanti alla casa colonica. Dalla parte della facciata le piccole finestre dell'unico piano sopra il terreno, e i due grandi portoni, tutto era chiuso: l'odore del fieno, del letame, delle bestie, si mescolava al profumo della notte. Toccai tutti e due i portoni, sempre più meravigliato che nessuno apparisse: mi sembrava di sognare, di essere morto e che fosse la mia anima a errare in cerca di un rifugio. E mi dispongo ad allontanarmi, quando nel prato a fianco della casa vedo un quadrato di luce, come una finestra aperta sull'erba un'ombra vi si disegna: è la testa di lei! Oramai la riconosco così bene, anche nella sua ombra. Di volo sono là: e vedo una piccola finestra illuminata, e la figura di lei che vi si affaccia immobile, più scura della sua ombra. Dapprima non parve badare a me. Mai come in quel momento avevo sentito lo spasimo di non poter gridare. Mi misi sul quadrato di luce sull'erba, in modo ch'ella potesse vedermi: ella restava immobile. Allora mi slanciai fin sotto la sua finestra, con l'intenzione di andare a sbattermi, a sfracellarmi contro il muro; ma io non avevo toccato questo, ch'ella, d'un botto, certamente spaventata, chiuse la finestra. Di nuovo tutto fu buio. Ma io non potevo andarmene così. Mi buttai a terra, trassi il taccuino, trassi i fiammiferi: scrissi alcune righe pazze, dove confessavo il mio delitto, il mio pentimento, il mio desiderio di perdono; e sotto il mio nome. Staccai il foglietto e l'avvolsi intorno a un sassolino che lanciai alla finestra. Il vetro si ruppe; parve ingoiarlo. Io aspettai ancora, ma nessuno apparve. Allora me ne tornai al paese e di là in casa della zia, alla quale feci conoscere la mia volontà ma anche la difficoltà di coltivare il terreno. Occorrevano dei denari: dove trovarne se lei non ne aveva? Lei non ne aveva, nè era donna capace di procurarsene. Invano io la lusingavo. "È un bel posto, con aria buona, con acqua buona. Venite a vederlo: vi piacerà. Verrete a stare con me: là potrete allevare tutte le bestie che vorrete. Saremo come in paradiso. Fabbricheremo una casetta e sarà piena di sole, di aria. Vendete questa casa, per procurarci i soldi.,, Ella si mise a ridere, lei che non rideva mai. E il suo riso mi ricordò quello di Fiora, quando le avevo proposto di sposarla. Mi venne desiderio di ammazzare la zia. D'altronde riconoscevo ch'era un'idea ingiusta, la mia, a pretendere che ella vendesse la sua vecchia casa alla quale era attaccata come un'anima al suo corpo. Può essere brutto e vecchio quanto volete, questo corpo; la sua anima non lo abbandona volentieri! Questa ragione non mi impediva di serbare astio alla zia e alla sua casa. Eppure questa parve cominciare ad esercitare un triste fascino anche su di me. Nei tempi dopo il ritorno dal "Platano,, , non uscivo mai: tutto al più continuavo ad andare a fare qualche spesa, per conto della zia, in una drogheria all'angolo della strada, dove questa s'incrocia con un'altra più larga tutta bianca di sole e di polvere con gli sfondi perduti uno nell'azzurro dei monti l'altro nell'azzurro del mare. Rientravo a casa stordito da quell'attimo di luce, di calore; e mi sembrava di rientrare in una grotta, tanto la nostra abitazione era diaccia e ombrosa. Solo nel cortiletto cadeva il sole, a picco, ma spariva presto, lasciandovi un tepore chiuso, fermo: i muri rivestiti di verde odoravano di musco, e a questo profumo un po' triste e voluttuoso si mischiava l'odore bestiale dei conigli. Io me ne stavo là, seduto su una cassa rovesciata, e pensavo continuamente alla mia avventura. A volte chiudevo gli occhi e mi pareva di essere ancora nella vigna in fiore: un misterioso senso di attesa mi si risvegliava nel cuore e lagrime di tenerezza mi bagnavano gli occhi. No, tutto non poteva essere finito così. Allora riaprivo gli occhi e prendevo il taccuino per scrivere ancora a Fiora; ma non potevo: non potevo più neppure scrivere il suo nome. Mi pareva di essere diventato muto anche dentro di me: non potevo esprimere la mia angoscia, la mia stessa impotenza. Eppure aspettavo sempre; non sapevo che cosa, ma aspettavo. E io che avevo commesso il delitto avevo l'impressione di subire un'ingiustizia, perchè mi si negava il diritto, il modo di ripararlo, o almeno d'espiarlo con un castigo qualsiasi. Solo per amore di Fiora ed anche per quel senso di attesa che mi faceva sperare mio malgrado, non andavo a denunziarmi. Ma a giorni si ridestava in me una sensualità feroce: mi pareva di aver diritto alla donna ch'era stata mia, che doveva essere ancora solamente mia. Era come se fossi stato io il violentato e pretendevo una riparazione. Ma tutte queste tempeste si sbattevano entro di me, inutilmente, come in un vulcano chiuso: fuori dovevo sembrare un po' idiota, e nessuno si curava di me, neppure la zia, che pensava solo al mio benessere materiale come a quello delle sue bestie. Eppure bastava che una foglia, un fiore, una piuma calda di sole cadessero dal muro, davanti a me, per commuovermi: li prendevo fra le dita, li esaminavo, ne sentivo l'odore, il colore: le bestie, no, non le toccavo e non le amavo; ma quelle piccole cose mute e vagabonde mi piacevano; si rassomigliavano a me: e odoravo a lungo i fiori, fino ad appassirli, e li baciavo pensando a Fiora. Una cosa sola mi aiutava a vivere, fra tanta desolata solitudine: il sonno. Dormivo a lungo: e mi abbandonavo al sonno come ad un vizio, non perchè mi portasse l'oblio, ma perchè mi gettava in una esistenza fantastica che si univa in qualche modo alla mia avventura. Nell'addormentarmi mi pareva di essere ancora davanti ai portoni chiusi della casa colonica: li toccavo uno dopo l'altro, poi andavo a mettermi sotto la finestra di Fiora. Inciampavo e mi svegliavo di soprassalto. Ma poi mi riaddormentavo e sognavo. Invariabilmente, i sogni mescolavano la mia vita nell'Istituto con la mia avventura. Mi ritrovavo nel giardino della villa coi compagni: andavo in cerca dell'istitutore e lo trovavo con Fiora: ma questa mi sorrideva, di sopra la spalla di lui, e bastava tanto per farmi svegliare tutto in sudore e singhiozzante. Quell'angoscia notturna era la mia salvezza; poichè mi costringeva a piangere e nel pianto si scioglieva il mio dolore.

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L'indomani

246093
Neera 1 occorrenze
  • 1889
  • Libreria editrice Galli
  • Milano
  • Verismo
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Già si vedevano da lungi i tetti del paese dominati dal campanile, e, man mano che la carrozza progrediva, qualche cascinale sparso, qualche cane che abbaiava, una fanciulla che conduceva le oche. - Sono le oche di Gavazzini - disse Gerolamo, indirizzando la sua osservazione alla signora. - Chi è Gavazzini? - È il più ricco proprietario del paese - rispose Alberto. - Tuo amico? - Non dei più intimi, ma qui si è tutti amici. Del resto egli fa vita ritirata, e sua moglie non si vede mai. Oh! un romanzo! Lei era una istitutrice, fuggirono insieme, andarono in cima di un monte a passare la luna di miele, scrissero i loro amori sulle corteccia degli alberi. Figurati, una volta si punsero apposta un dito per bere il sangue l'uno dell'altro.... quando ti dico romanzi! Marta si interessava, avrebbe voluto chiedere di più, ma la faccia di Gerolamo, che sembrava quella di un filosofo stoico in mezzo alle follie del mondo, le dava un po' di soggezione. Incominciarono le prime case allineate, coi portoni aperti, da cui si intravedevano cortili verdeggianti, gruppi di vasi, lunghi anditi freschi, riparati da tendoni a righe; una gonnella svolazzava tra due usci, un visetto curioso spuntava da una finestra, i gatti scodinzolavano sulle sedie di paglia, sbadigliando, socchiudendo gli occhi. Più innanzi, nel centro del paese, si aprivano le poche botteghe; il fornaio, il pizzicagnolo, il mercante, il tabaccaio, il calzolaio, il barbiere. - Ecco la farmacia - disse Alberto. Marta guardò. Non c'era nessuno sulla soglia; una cortina verde, strofinata e attorcigliata come una fune, lasciava scorgere nell'interno un pezzo di scansia coi barattoli di terraglia bianca e azzurra. - Ha moglie il farmacista? - È vedovo; ma la riprenderà. Che cosa deve fare? - Sicuro - disse Marta, ripetendo macchinalmente tra sè: che cosa deve fare! - Guarda la casa di Merelli; sul canto di piazza, dipinta in giallo; l'hai vista? - No, non l'ho vista. - C'era la serva davanti alla porta. - No, non l'ho vista. Ha moglie Merelli? - Sì, ha moglie. - E la casa di.... di quel signore.... quello che ha bevuto il sangue.... - Gavazzini? Ah! non è qui; è fuori di paese, isolata; più isolata ancora della nostra. - La nostra è l'ultima, nevvero? È forse questa? La cavalla rallentò, Gerolamo fece una voltata dà cocchiere esperto, e, passando da un cancello spalancato, fermò di botto nel bel mezzo di un cortile vellutato d'erba minuta, con alte muraglie imbrunite dal tempo, su cui si sbizzarriva a rabeschi una lussureggiante glicina, carica di fiori. L'aspetto generale del fabbricato e del cortile era quello di una vecchia casa borghese, comoda, dove un seguito di generazioni agiate e tranquille si erano succedute senza scosse, senza cambiamenti. Appollonia corse fuori, tutta traballante nella sua rotondità di pan buffetto, con la facciona lucida raggiante di semplicità, la bocca aperta, le mani sporche di farina. Marta, nel guardarla, non potè a meno di sorridere, e balzando lesta dalla carrozza gridò: - Buon giorno, Appollonia. Furono le prime parole che la nuova padrona pronunciò entrando ne' suoi domini. Gerolamo ammiccò segretamente Appollonia, con uno stringimento di palpebre che voleva dire: Va bene, va bene! E la grossa serva, sgangherando la bocca fino alle orecchie, mostrò di aver inteso il senso di questa affermazione. Marta non doveva dimenticare più quel momento del suo arrivo, in un ridente giorno di aprile; i grappoli lilla che fiorivano sui muri, l'erba del cortile, una pace, una serenità diffusa nell'aria, un benessere sicuro che sembrava uscire dalle muraglie della vecchia casa; perfino il volto bonario di Appollonia e il nitrito della cavalla che scuoteva il muso fine sotto le carezze di Gerolamo. Alberto, senza aspettare ch'ella si levasse il cappello, passò il braccio sotto il braccio di sua moglie e la condusse subito a visitare la casa. Niente di ricercato nè di pomposo. Una grande comodità in tutto, nella disposizione delle camere, nei mobili, negli ampi seggioloni, nei divani sparsi con abbondanza; una certa ricchezza tradizionale ma tranquilla; buoni quadri, stipi intarsiati, biancheria accuratissima, delle vecchie maioliche di famiglie. - Queste sedie le ha ricamate mia madre - disse Alberto. Erano otto sedie di legno chiaro con profili dorati, coperte da ricami a mezzo punto, bellissimi, tutti l'uno differente dall'altro. Marta le ammirò religiosamente, commossa. - Questo è il mio ritratto di quando ero bambino. Marta vi si precipitò sopra, coprendolo di baci e di esclamazioni, portandolo sotto alla finestra per esaminarlo meglio. - Come è bellino! Care queste spalluccie nude! E che occhietti! E le manine, Dio, che manine... ma avevi le mani così piccole allora? - Caspita, i bambini!... Risero entrambi, stringendosi il braccio, felici. Salirono così lo scalone che conduceva al piano superiore. - Ma è tutto bello qui, sai? - Sì, non c'è male. È comodo. Entrarono nella camera da letto. Tre finestroni la illuminavano, facendo penetrare i raggi del sole attraverso un ricco cortinaggio di stoffa a fiori sopra un fondo cilestrino. Della medesima stoffa era il parato del letto, altissimo, ampio, per metà ricoperto di un piumino di seta celeste, sull'orlo del quale ricadeva, accuratamente stirata, la trina del lenzuolo. Sulla pettiniera un'altra trina, nel festone della quale serpeggiava un nastro celeste, faceva da sopporto a un servizio di cristallo, lucentissimo. Sugli specchi, sulle cornici non si scorgeva un atomo di polvere. - È stata l'Appollonia a preparare queste belle cose? - Lei, certamente. Vi avrà impiegato tutto il tempo che ci volle a noi per percorrere l'Italia; ma infine, ognuno fa quello che può. Marta, levandosi il cappello e la spolverina, sedette sul divano che era ai piedi del letto, sentendosi finalmente in casa propria. - Oh come si sta bene qui! Tese le mani a suo marito, invitandolo a sedersi anche lui sul divano. Ora non dubitava più di essere la signora Oriani. La sua felicità doveva incominciare da quel momento; prima era stata una corsa vertiginosa, contraria all'amore. L'amore ha bisogno di un nido. Marta sollevò gli occhi, girandoli torno torno come per prendere possesso d'ogni cosa; e quando ebbe ben riguardata la camera, il letto, le cortine a fiori, fissò Alberto con un'estasi tale di riconoscenza, di tenerezza timida e ardente, che egli, un po' sorpreso, la baciò, non sapendo che dire. Ella trasalì tutta, colla speranza di una rivelazione. - O mio Alberto, mi amerai sempre, sempre? - Che domanda! - Dillo! - Ne dubiti dunque! - Dillo... - ripetè Marta, stringendosi, avviticchiandosi a lui tutta tremante, con la bocca socchiusa. Un'ondata di sangue colorì la fronte di Alberto, che rispose per la durata di un attimo alla stretta di sua moglie. Poi si sciolse, dolcemente, ravviandosi i capelli. - Andiamo - disse - non facciamo ragazzate.

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La sorte

248062
Federico De Roberto 1 occorrenze
  • 1887
  • Niccolò Giannotta editore
  • Catania
  • Verismo
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Essa non faceva altro che leticare, se ai piani di sotto tenevano aperte troppo a lungo le chiavette e si portavano via tutta l'acqua; se il trattore del cortile accendeva il forno e affumicava il vicinato, come le persone fossero aringhe; o se il cane del tappezziere abbaiava e le si avventava alle gonne, quando usciva pel servizio. - Ah, non lo vogliono sentire? - gridava - Qualche giorno gli dò la polpetta e me lo levo davanti. - Pròvati un po' - rispondeva il tappezziere - e vedremo come ti finisce! - Come mi finisce? Come mi deve finire? Questa è una porcheria, il cane tra le gambe; vorrei vedere un altro! E non mi fate gli occhi grossi, avete inteso? che io non ho paura... - Basta! - strepitava il trattore, che le voci si sentivano dall'altra parte, nel restaurante. - Sentiamo quest'altro, adesso! Voi di che v'immischiate? Pensate ai fatti vostri, che ai miei ci penso io... La causa della collera di Rosa era Paolino, il giovane del tappezziere, che un tempo le era andato dietro e le aveva promesso di sposarla. - Insomma - diceva il portinaio - che cosa è successo? Vi siete bisticciati? - M'importa assai, di lui e di voi! - rispondeva Rosa, con la sua voce squillante. - Ma che non ti vuole più? - insisteva quello, per farla arrabbiare. - Gli dò troppo onore, di guardarmi soltanto in faccia! - replicava lei, con gli occhi un po' rossi. - Davvero, troppo onore!.. - E si voltava dalla parte del tappezziere, perchè sentissero di chi voleva parlare. - Questa è una cosa che non si può più tollerare! - borbottava il trattore, e minacciava di andare a parlare col padrone. Ma il guaio più grosso fu a maggio, quando venne al quartierino dirimpetto la famiglia di un certo don Felice, che era protetta dal marchese Giaccuglia, per amore della signora: una donna sulla quarantina che s'imbellettava fin sul collo e andava vestita come una ragazza appena uscita dal collegio. «Non mi toccare che mi sciupo» - l'aveva subito soprannominata Rosa, che non la poteva soffrire. Una razza di sguaiati, lei, le sue figlie e il piccolino che cresceva una bellezza! A vederli per le strade, le fanciulle avanti, con due vestiti eguali dal cappello agli stivalini; la mamma appresso, tutta lezii e smorfie, tenendo per mano il figliuolo vestito da marinaio, con un gran cappello di tela cerata e lo scritto Duilio; il babbo due passi indietro, col cane, parevano una gente per bene, educata e tranquilla. - In casa, bisogna vederli! Dal cortile si sentivano a ogni momento grida e fracassi, che la signora Giacomina voleva comandare a bacchetta, e le ragazze, con la testa sempre agli innamorati, non le davano ascolto. - Se vedo ancora quel pezzente andarti dietro - strepitava con Antonietta, la maggiore - t'accomodo per le feste! - Voi che cosa cercate? Dovete forse sposarlo voi? - Ah si? Vediamo dunque s'io ti farò più andar fuori! - Me n'importa un corno! Lo vedrò lo stesso... Allora si sentivano i ceffoni della signora Giacomina, e gli scoppii di pianto della ragazza. Se la sorella Angiolina si interponeva, ne toccava anche lei. - Guardate che razza di screanzate! Voglio farvi veder io, se non tirate dritto! Con tanti di quei calci... Poi, come s'avvicinava l'ora di andare dal marchese, lei usciva, in gran toletta. Le ragazze asciugavano le lagrime e mandavano Milia, la serva, a portar le lettere agl'innamorati. Milia lasciava la casa sottosopra, i letti disfatti che mostravano le lenzuola annerite; i panni sciorinati fuori le finestre, sulle sedie, per terra, un po' da per tutto. Se la signora Giacomina tornava a tempo per accorgersi di quella confusione, erano scenate che non finivano più. - Guardate qui, fino a mezzogiorno, la casa sottosopra! E voi altre scanzafatiche, che cosa fate? Perchè non date una mano a ravviare? E Milia, dov'è la Milia?... Milia, come l'uragano s'addensava su di lei, rispondeva male. - Tutto questo baccano, per un letto disfatto!... Vi pare: che la gente sia di ferro?.. - Oh, con chi parli, sgualdrina? Se non stai al tuo posto... La Milia pestava i piedi per terra, piangendo. - Or ora ... or ora voglio andarmene!... non ci voglio restare più un momento!.. - Zitta, non è niente!.. - s'interponevano le ragazze, per timore che si scoprissero le loro magagne - Mamma, non lo farà piú... e tu domandale perdono... Ma la casa della signora Giacomina andava sempre più a soqquadro, malgrado che lei ci spendesse un occhio, e comprasse continuamente nuova biancheria, e rifacesse i mobili, e pretendesse la più gran nettezza, per figurare, all'occorrenza. Le ragazze non si davano nessun pensiero delle faccende domestiche, e sotto le vesti all'ultima moda e gli stivalini dai tacchi alti, portavano camicie ricamate a furia di sdruci, e calze bucate e spaiate. - Sciagurate! Senza pensieri! Come vi fidate di campare così! Chi vuol essere tanto pazzo da pigliarvi così sciagurate! - gridava la signora Giacomina, che non poteva soffrire quel malverso, e avrebbe voluto veder la sua casa come quella d'un signore. Per questo s'era anche messo in capo di far la visita alla baronessa Scilò, che era venuta a stare al piano nobile, dalla scala grande; ma come mandava l'ambasciata, se la baronessa riceveva, quella faceva rispondere un po' che non era in casa, un po' che stava male. - Tutte le fusa non vengon dritte! - diceva Rosa - e la visita può levarsela di testa; son'io che glie l'assicuro! Come non le riusciva di essere ricevuta, la signora Giacomina volle almeno la stessa pettinatrice della baronessa, la Liberata, e le mandò a offrire dodici lire il mese, perchè quella andava soltanto nelle case dei signori e non voleva salir troppe scale. - Ci mancava quest'altra, tra i piedi! - borbottava Rosa, vedendo la pettinatrice salire dalla signora Giacomina - Guardate che c'è: scialle di seta!.. stivaletti verniciati!.. pendenti d'oro!.. Auf, quante cose si debbono vedere! - Tu di che t'impicci? - I'ammoniva maestro Titta. - Io? Me n'importa assai! Dico anzi che le treccie finte glie le combina bene! Mentre le passava il pettine fra i rari capelli, la Liberata parlava alla signora Giacomina delle ricchezze dei casati che lei serviva, degli abiti che le signore aspettavano da Parigi, del trattamento che facevano alle persone di servizio, dei regali che davano anche a lei: ora un cestino di frutta primaticcie, ora qualche bottiglia di vino dolce, ora un palchetto a teatro; quasi per farle sentire la miseria delle sue dodici lire. E la signora Giacomina, quando il marchese le mandava dei regali, prelevava la parte di Liberata. - Non bisogna far cattive figure! E se la pigliava con don Felice che, se restava in casa, sbottonato, in ciabatte, si buttava sui divani e sulle poltrone, trascinandosi dietro gli origlieri, per star più comodo, e con Totò sempre lercio indosso, la faccia allumacata di carbone, di gesso e d'ogni sorta di sudicerie, che abbruciacchiava le sedie coi cerini rubati al babbo, affossava il pavimento, rompeva le vetrate con la trottola, ingombrava le stanze e vi disseminava i pezzi di vetro, la carta stracciata e il terriccio portato via dai vasi della terrazzina dentro un suo carrettino con una ruota mancante. La guerra scoppiò per causa sua, un martedì quando Rosa aveva sciorinato i panni alla funicella che andava dalla sua finestra alla terrazzina di don Felice sulle carrucolette di rame. Totò aveva fatto un nodo alla fune, talchè quando lei volle tirarla, non riuscì a farla andare nè avanti nè indietro, e mentre ci si arrabbiava e cominciava a gridare, il ragazzo, mezzo nascosto tra i i vasi, le fece le fiche, cantando: - Ohè! Ohè! - Ah, figlio di non so chi, ti prudono le mani? La signora Giacomina, sentendo questo discorso, venne fuori come una vipera a gridare contro quella ciabatta che rispondeva in tal modo a suo figlio. - Se non la finisci, ti faccio pigliare a calci e chiamare dalla questura! Rosa se la legò al dito. - Ciabatta a me? Io in questura? Le voglio far vedere, a quella buona donna! Così, quando i vicini si affacciavano al balcone, ora la mamma e ora le figliuole, lei si metteva a parlare ad alta voce, rifacendo il verso di quella gente, guardandosi addosso e stringendosi nelle spalle, o raggiustando le pieghe della veste, dinanzi alle vetrate che le servivano da specchio, o facendosi vento col soffietto della cucina. - Milia! - fingeva di chiamare - La polvere di cipria! Milia, lo spillone!.. presto, dico, Milia!.. Poi, quando il giuoco era durato un pezzo, sbatteva loro in faccia l'affisso e se ne andava contenta a spazzar le stanze o a tagliar cipolle. La signora Giacomina andava a pigliarsela con suo marito, ma don Felice non voleva rotta la testa e per questo le lasciava ogni libertà di fare quello che più le piaceva. - Mettetevi in capo che io voglio stare in pace e non cerco gatte a pelare. L'altro martedì, quando la fune piena di biancheria s'incerchiava per aria sotto il peso delle lenzuola, delle camicie, delle mutande ancora gocciolanti, Totò prese un coltello e mentre nessuno gli badava la tagliò. Voleste vedere allora tutta quella resta di panni spenzolare fin giù al primo piano, attaccandosi e insudiciandosi alle inferriate! Quando Rosa s'accorse di quella rovina e vide il suo lavoro sciupato, non seppe più tenersi, e cominciò a sfilare la litania delle contumelie, con la sua voce acuta e stridente che faceva affacciare tutto il vicinato, come se stessero ammazzando qualcuno. E appena scorse la signora Giacomina dietro la finestra, si mise a gridare: - Insegnategli l'educazione, ai vostri figli, che se non la sapete ve l'insegno io! - Con chi parli, sguaiata? - rispose la signora Giacomina, venendo fuori sulla terrazzina - Se non vuoi star zitta ti lascio correre questo vaso in testa! - Parlo con voi, signora marchesa! e non ho paura nè di voi nè del vostro Dio! e un'altra volta che vostro figlio mi farà qualche scherzetto, lo accompagno a sculacciate! - Faccia velenosa, provati a guardare il ragazzo soltanto di traverso, e l'avrai da far con me. Aspetta, aspetta che chiami suo padre. - È troppo lontano! Dovreste andar fuori di casa!.. Nel cortile scoppiavano a ridere, perchè infatti si sapeva che Totò era figlio del marchese. Rosa era diventata così intrattabile dopo che Paolino aveva lasciato il principale, e di matrimonio non se ne parlava più. - Ti contenti di me? - le chiedeva maestro Titta, guardandola di sotto gli occhiali - Parola d'onore che se tu mi vuoi, io per me ti sposo! - Andate là, pulcinella! - rispondeva quella, mostrandogli il pugno. - Voglio dire che mi sei simpatica, purchè non letichi e non strilli. Allora mi sembri la scimmia della Villa, tal'e quale. Rosa alzava le grida: - Se sembro la scimmia della Villa, voi voltatevi dall'altra parte. V'ho forse pregato di portarmi qualche ambasciata? - Al solito, prendi subito fuoco? Che t'ho detto di male? di non farti una cattiva fama, di lasciare in pace il vicinato? - Il vicinato! il vicinato! Quando si affittano le case a certa gente che so io!... - Che sai? Don Felice?.. Un galantomone! La signora Giacomina? Un cuor d'oro! Le ragazze cercano marito, come tant'altre di mia conoscenza; il piccolino va messo in collegio. Che vai cercando?..

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