Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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La tregua

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Levi, Primo 1 occorrenze

Così ci presentammo sull' aia, accolti con saluti affettuosi e risatine d' intesa dalle vecchiette, e da un furioso abbaiare di cani. Quando il silenzio si fu ristabilito, forte del mio Michele Strogoff e di altre lontane letture, dissi: _ Telega. Staryje Doroghi, _ e mostrai gli otto rubli. Seguì un mormorio confuso: strano a dirsi, nessuno aveva capito. Tuttavia, il mio compito si annunciava meno arduo di quello della sera precedente: in un angolo dell' aia, sotto una tettoia, avevo scorto un carro agricolo a quattro ruote, lungo e stretto, con le sponde a "V"; insomma, una telega. La toccai, un po' spazientito per la ottusità di quella gente: non era forse una telega? _ Tjeljega! _ mi corresse il barbone, con severità paterna, scandalizzato dalla mia pronuncia barbarica. _ Da. Tjeljega na Staryje Doroghi. Noi pagare. Otto rubli. L' offerta era irrisoria: l' equivalente di due uova per trenta più trenta chilometri di strada, dodici ore di cammino. Invece, il barbone intascò i rubli, sparì nella stalla, tornò con un mulo, lo attaccò fra le stanghe, ci fece segno di montare, caricò qualche sacco sempre in silenzio, e partimmo verso la strada principale. Cesare andò a chiamare gli altri, di fronte ai quali non perdemmo l' occasione di darci un mucchio d' importanza. Avremmo fatto un comodissimo viaggio in telega, anzi in tjeljega, e un ingresso trionfale a Staryje Doroghi, il tutto per otto rubli: ecco che cosa voleva dire la conoscenza delle lingue e l' abilità diplomatica. In realtà, ci accorgemmo poi (e purtroppo se ne accorsero anche i compagni) che gli otto rubli erano stati pressoché sprecati: il barbone doveva andare a Staryje Doroghi comunque, per non so quali suoi affari, e forse ci avrebbe caricati anche gratis. Ci mettemmo in strada verso mezzogiorno, sdraiati sui non troppo morbidi sacchi del barbone. Era comunque molto meglio che viaggiare a piedi: potevamo fra l' altro godere a nostro agio del paesaggio. Questo era per noi insolito, e stupendo. La pianura, che il giorno prima ci aveva oppressi con la sua solenne vacuità, non era più rigorosamente piatta. Era increspata in lievissime, appena percettibili ondulazioni, forse antiche dune, non più alte di qualche metro, tuttavia quanto bastava per rompere la monotonia, riposare l' occhio, e creare un ritmo, una misura. Fra l' una e l' altra ondulazione si estendevano stagni e paludi, grandi e piccole. Il terreno scoperto era sabbioso, e irto qua e là di selvagge macchie di arbusti: altrove erano alberi alti, ma rari e isolati. Ai due lati della strada giacevano informi relitti rugginosi, artiglieria, carri, filo spinato, elmetti, bidoni: i resti dei due eserciti che per tanti mesi si erano affrontati in quei luoghi. Eravamo entrati nella regione delle paludi del Pripet. La strada e la terra erano deserte, ma poco prima del tramonto notammo che qualcuno ci inseguiva: un uomo, nero sul bianco della polvere, che camminava con vigore alla nostra volta. Guadagnava terreno lentamente ma continuamente: presto fu a portata di voce, e riconoscemmo in lui il Moro, Avesani di Avesa, il gran vecchio. Aveva anche lui pernottato in qualche nascondiglio, e ora marciava su Staryje Doroghi con passo di tempesta, i capelli bianchi al vento, gli occhi sanguigni fissi davanti a sé. Procedeva regolare e potente come una macchina a vapore: aveva legato sul dorso il famoso e pesantissimo involto, e appesa a questo lampeggiava la scure, come la falce di Kronos. Si accingeva a sorpassarci come se non ci vedesse o non ci riconoscesse. Cesare lo chiamò e lo invitò a salire con noi. _ Il disonor del mondo. Brutti porchi disumani, _ rispose prontamente il Moro, dando voce alla litania blasfema che perpetua gli occupava la mente. Ci superò, e proseguì la sua mitica marcia verso l' orizzonte opposto a quello da cui era sorto. Il Signor Unverdorben sapeva sul Moro assai più cose di noi: apprendemmo in quella occasione che il Moro non era (o non era soltanto) un vecchio lunatico. L' involto aveva un perché, e così pure lo aveva la vita errante del vecchio. Vedovo da molti anni, aveva una figlia, una sola, ormai quasi cinquantenne, e questa era a letto paralizzata: non sarebbe guarita mai. Per questa figlia il Moro viveva: le scriveva ogni settimana lettere destinate a non pervenirle; per lei sola aveva lavorato tutta la vita, ed era diventato moro come il legno di noce e duro come la pietra. Per lei sola, in giro per il mondo da emigrante, il Moro insaccava tutto quanto gli capitava a tiro, qualunque oggetto che presentasse anche solo la minima possibilità di essere goduto o scambiato. Non incontrammo altri viventi fino a Staryje Doroghi. Staryje Doroghi fu una sorpresa. Non era un villaggio; o meglio, un minuscolo villaggio esisteva, in mezzo al bosco, poco discosto dalla strada: ma lo apprendemmo più tardi, e così pure apprendemmo che il suo nome significa "Vecchie Strade". Invece, l' acquartieramento a noi destinato, a tutti noi millequattrocento italiani, era un unico gigantesco edificio, isolato ai margini della strada in mezzo a campi incolti e a propaggini della foresta. Si chiamava "Krasnyj Dom", la Casa Rossa, e in effetti era rossa senza economie, di dentro e di fuori. Era una costruzione veramente singolare, cresciuta senz' ordine in tutte le direzioni come una colata vulcanica: non si capiva se opera di molti architetti fra loro discordi, o di uno solo ma matto. Il nucleo più antico, ormai sopraffatto e soffocato da ali e corpi fabbricati confusamente più tardi, consisteva di un blocco di tre piani, suddivisi in camerette forse già adibite a uffici militari o amministrativi. Ma intorno a questo si trovava di tutto: una sala per conferenze o riunioni, una serie di aule scolastiche, cucine, lavatoi, un teatro con almeno mille posti, una infermeria, una palestra; accanto alla porta principale, uno sgabuzzino con misteriosi supporti, che interpretammo come un deposito per sci. Ma anche qui, come a Sluzk, nulla o quasi nulla era rimasto del mobilio e dell' attrezzatura; non solo mancava l' acqua, ma perfino le tubazioni erano state asportate, e così pure i fornelli delle cucine, le sedie del teatro, i banchi delle aule, le ringhiere delle scale. Della Casa Rossa le scale costituivano l' elemento più ossessivo. Se ne trovavano in abbondanza, nello sterminato edificio: scale enfatiche e prolisse che conducevano ad assurdi stambugi pieni di polvere e di ciarpame: altre strette e irregolari, interrotte a metà da una colonna tirata su alla brava per puntellare un soffitto pericolante; frammenti di scale sbilenchi, biforcuti, anomali, che raccordavano piani sfalsati di corpi adiacenti. Memorabile fra tutte, lungo una delle facciate, uno scalone ciclopico, che saliva per quindici metri da un cortile invaso dall' erba, con scalini ampi tre metri, e non conduceva in nessun luogo. Intorno alla Casa Rossa non v' era alcuna recinzione, sia pure solo simbolica come a Katowice. Non vi era neppure un servizio di sorveglianza vero e proprio: davanti all' ingresso soggiornava sovente un soldato russo, per lo più giovanissimo, ma non aveva alcuna consegna nei riguardi degli italiani. Il suo compito era solo quello di impedire che altri russi venissero di notte a molestare le donne italiane nelle loro camerate. I russi, ufficiali e soldati, abitavano in una baracca di legno poco lontana, e altri, di passaggio lungo la strada, vi facevano tappa saltuariamente: ma di rado si occupavano di noi. Chi si occupava di noi era un gruppetto di ufficiali italiani, ex prigionieri di guerra, piuttosto altezzosi e sgarbati; erano pesantemente consci della loro condizione di militari, ostentavano disprezzo e indifferenza nei confronti di noi borghesi, e, cosa che non mancò di stupirci, mantenevano ottimi rapporti coi pari-grado sovietici della baracca accanto. Anzi, godevano di una situazione privilegiata non soltanto rispetto a noi, ma anche rispetto alla truppa sovietica stessa: mangiavano alla mensa-ufficiali russa, indossavano uniformi sovietiche nuove (senza gradi) e buoni stivali militari, e dormivano in lettini da campo con lenzuola e coperte. Neanche da parte nostra, tuttavia, c' era ragione di lamentarsi. Eravamo trattati esattamente come i soldati russi quanto a vitto e ad alloggio, e non eravamo tenuti ad alcuna particolare obbedienza o disciplina. Solo pochi italiani lavoravano, quelli che si erano offerti spontaneamente per il servizio di cucina, dei bagni e del gruppo elettrogeno: inoltre Leonardo come medico, ed io come infermiere; ma oramai, con la buona stagione, i malati erano pochissimi, e il nostro incarico era una sinecura. Chi voleva, se ne poteva andare. Parecchi lo fecero, alcuni per pura noia o spirito di avventura, altri tentando di passare i confini e tornare in Italia; ma ritornarono tutti, dopo qualche settimana o mese di vagabondaggi: poiché, se il campo non era né sorvegliato né cintato, lo erano invece, e fortemente, le lontane frontiere. Non vi era da parte russa alcuna velleità di pressione ideologica, anzi, nessun tentativo di discriminazione fra noi. La nostra comunità era troppo complicata: ex militari dell' ARMIR, ex partigiani, ex Häftlinge di Auschwitz, ex lavoratori della Todt, ex rei comuni e prostitute di San Vittore, comunisti o monarchici o fascisti che noi fossimo, nei nostri confronti vigeva da parte dei russi la più imparziale indifferenza. Eravamo italiani, e tanto bastava: il resto era "vsjò ravnò", tutto uguale. Dormivamo su tavolati di legno coperti con sacconi di paglia: sessanta centimetri per uomo. Da principio protestammo, perché ci sembrava poco: ma il comando russo ci fece cortesemente osservare che il nostro reclamo era infondato. Sulla testata del tavolato si potevano ancora leggere, scarabocchiati a matita, i nomi dei soldati sovietici che avevano occupato quei posti prima di noi: che giudicassimo noi stessi, c' era un nome ogni cinquanta centimetri. Lo stesso si poteva dire, e ci fu detto, a proposito del vitto. Ricevevamo un chilo di pane al giorno: pane di segala, poco lievitato, umido e acido: ma era molto, ed era il loro pane. E la "kasa" quotidiana era la loro "kasa": un blocchetto compatto di lardo, miglio, fagioli, carne e spezie, nutriente ma ferocemente indigesto, che solo dopo vari giorni di esperimenti imparammo a rendere commestibile facendolo bollire per varie ore. Tre o quattro volte alla settimana, poi, veniva distribuito il pesce, "ryba". Era pesce di fiume, di dubbia freschezza, pieno di spine, grosso, crudo, non salato. Che farne? Pochi fra noi si adattarono a mangiarlo così com' era (così facevano molti russi): per cuocerlo, ci mancavano i recipienti, il condimento, il sale e l' arte. Presto ci convincemmo che la miglior cosa era rivenderlo ai russi medesimi, ai contadini del villaggio o ai soldati che passavano per la strada: un nuovo mestiere per Cesare, che in breve lo portò ad un alto grado di perfezione tecnica. Al mattino dei giorni di pesce, Cesare faceva il giro delle camerate, munito di un pezzo di filo di ferro. Incettava la "ribba", la infilava da occhio a occhio nel filo di ferro, si infilava a tracolla la ghirlanda graveolente, e spariva. Tornava dopo molte ore, a volte a sera, e distribuiva equamente fra i suoi mandanti rubli, formaggio, quarti di pollo e uova, con vantaggio di tutti e principalmente suo. Con i primi utili del suo commercio si comperò una stadera, per il che il suo prestigio professionale si accrebbe notevolmente. Ma per realizzare compiutamente un certo suo disegno gli occorreva un altro strumento, di utilità meno ovvia: una siringa. Non c' era da sperare di trovarne una al villaggio russo, e perciò venne da me in infermeria, a chiedermi se gliene potevo imprestare una. _ Cosa te ne vuoi fare? _ gli chiesi. _ Che ti frega. Una siringa. Qui ne avete tante. _ Di che misura? _ La più grossa che tenete. Anche se è un po' malandata, non fa niente. Ce n' era una infatti, da venti centimetri cubi, scheggiata e praticamente inservibile. Cesare la esaminò con cura, e dichiarò che faceva al caso suo. _ Ma a che ti serve? _ domandai ancora una volta. Cesare mi guardò torvo, urtato dalla mia mancanza di tatto. Mi disse che erano cavoli suoi, una sua pensata, un esperimento, e che poteva finire bene o male, e che in ogni modo io ero un bel tipo a volermi incaricare a tutti i costi delle sue faccende private. Incartò accuratamente la siringa e se ne andò come un principe offeso. Tuttavia il segreto della siringa non durò a lungo: la vita a Staryje Doroghi era troppo oziosa perché non vi proliferassero il pettegolezzo e l' interferenza negli affari altrui. Nei giorni successivi, Cesare fu visto dalla sora Letizia andare per acqua con un secchio e portarlo nel bosco; fu visto dalla Stellina nel bosco stesso, seduto per terra col secchio in mezzo a una corona di pesci, ai quali "sembrava che desse da mangiare"; e finalmente fu incontrato nel villaggio dal Rovati, suo concorrente: era senza secchio e vendeva pesci, ma erano pesci stranissimi, grassi, duri e rotondi, e non piatti e flosci come quelli della razione. Come avviene per molte scoperte scientifiche, la pensata della siringa era scaturita da un insuccesso e da una osservazione fortuita. Pochi giorni prima, Cesare aveva barattato pesce al villaggio contro una gallina viva. Era tornato alla Casa Rossa persuaso di avere fatto un ottimo affare: per soli due pesci gli avevano dato una bella pollastra, non più giovane e con un' aria un po' malinconica, ma straordinariamente grassa e grossa. Senonché, dopo di averla ammazzata e spennata, si era accorto che qualcosa non andava; la gallina era dissimmetrica, aveva la pancia tutta da una parte sola, e offriva alla palpazione qualcosa di duro, mobile ed elastico. Non era l' uovo: era una grossa cisti acquosa. Cesare, naturalmente, era corso ai ripari, ed era riuscito a rivendere subito l' animale nientemeno che al ragionier Rovi, guadagnandoci ancora sopra: ma poi, come un eroe stendhaliano, ci aveva pensato su. Perché non imitare la natura? Perché non provare coi pesci? Da principio aveva tentato di riempirli d' acqua con una cannuccia, dalla parte della bocca, ma l' acqua tornava tutta fuori. Allora aveva pensato alla siringa. Colla siringa si notava in molti casi un certo progresso, che però dipendeva dal punto in cui si praticava l' iniezione: a seconda di questo, l' acqua usciva nuovamente, subito o poco dopo, oppure restava dentro indefinitamente. Allora Cesare aveva dissecato diversi pesci con un coltellino, e aveva potuto stabilire che l' iniezione, per avere effetto permanente, doveva essere fatta nella vescica natatoria. In questo modo i pesci, che Cesare vendeva a peso, inoltre avevano un aspetto molto più attraente. Certo, la "ribba" così trattata non si poteva vendere due volte allo stesso cliente; ma la si poteva vendere benissimo ai soldati russi smobilitati che passavano sulla strada diretti a oriente, e che avrebbero potuto accorgersi della faccenda dell' acqua solo a molti chilometri di distanza. Ma un giorno ritornò nero in viso; era senza pesce, senza soldi e senza merce: _ Mi sono fatto incastrare _. Per due giorni non ci fu modo di rivolgergli la parola, se ne stava raggomitolato sul paglione, ispido come un porcospino, e scendeva solo per i pasti. Gli era successa un' avventura diversa dalle solite. Me la raccontò più tardi, in una lunghissima sera tiepida, raccomandandomi di non riferirla in giro, poiché, se si fosse risaputa, la sua onorabilità commerciale ne avrebbe sofferto. Infatti, il pesce non gli era stato strappato con la violenza da un russo ferocissimo, come in un primo tempo aveva cercato di lasciare intendere: la verità era un' altra. Il pesce lo aveva regalato, mi confessò, pieno di vergogna. Era andato al villaggio, e, per evitare clienti già bruciati in precedenza, non si era fatto vedere nella strada principale, ma aveva preso un sentiero che si inoltrava nel bosco; dopo qualche centinaio di metri aveva visto una casetta isolata, anzi, una baracca di mattoni a secco e lamiera. Fuori c' era una donna magra vestita di nero, e tre bambini pallidi seduti sulla soglia. Si era avvicinato e le aveva offerto il pesce: e quella gli aveva fatto capire che il pesce lo avrebbe voluto sì, ma non aveva niente da dargli in cambio, e che lei e i bambini non mangiavano da due giorni. Lo aveva anche fatto entrare nella baracca, e nella baracca non c' era niente, solo delle cucce di paglia come in un canile. A questo punto i bambini lo avevano guardato con degli occhi tali, che Cesare aveva buttato giù il pesce ed era scappato come un ladro.

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