Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Demetrio Pianelli

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De Marchi, Emilio 3 occorrenze

Il macellaio, un giovinotto tarchiato e forte come un toro, prese in braccio Giovedí, che seguitava ad abbaiare contro l'uscio, con una mano gli strinse il muso per farlo tacere e se lo portò via. La povera bestia si dibatteva nelle strette come un'anguilla. Il Berretta stava facendomi vedere la mano con cui aveva aiutato a distaccare il morto, che teneva aperta in aria, lontana dal corpo, come se non fosse piú sua, quando sopraggiunse il signor Demetrio. Era la prima volta che vedevo questo bravo signore, che non somigliava per nulla a suo fratello, non tanto per esser egli piú vecchio, quanto per la espressione, per il colorito del viso e per il modo di vestire. Mentre Cesarino era ciò che dicesi a Milano una cartina , di pelle fina e bianca, sempre elegante, pulito e aristocratico, questo signor Demetrio aveva all'incontro l'aria di un vecchio fabbro vestito coi panni della festa. La pelle era cotta dal sole, rugosa: la fronte bassa coperta dai capelli, che uscivano quasi a foggia di un tettuccio, di un colore rossiccio e duri come lesine, com'erano i baffi duri e rasati, che coprivano un poco il labbro. Nelle orecchie arricciate come frasche di cavoli, qua e là rosicchiate dal gelo, portava anellini d'oro secondo il costume dei contadini della Bassa Lombardia, che credono con ciò di evitare il mal d'occhi. Scarso di parole, dalle poche sillabe che ci scambiammo a' piedi della scala, mi accorsi che stentava a metter fuori certe consonanti. "Dov'è?" chiese con gli occhi gonfi, perduti nel vuoto. "Importa che in casa non sappiano nulla, se si può. Povera gente!" gli dissi. Facemmo i quattro passi che conducevano alla scuderia. Lungo il muro, tra le ruote di una carrozza c'era una stuoia stesa sul selciato, dalla quale uscivano due scarpette lucide da ballo. Non osammo varcare la soglia. Col capo basso e col cuore pieno dei mille pensieri, che ispira sempre la vista d'un cadavere, si stava lí come impauriti, quando un rumoroso battere di pantofolette chiamò la mia attenzione e mi fece guardare in su. Arabella, coi capelli sciolti, uscita sul terrazzino verso corte, batteva nell'aria le scarpette da ballo della mamma, canticchiando nella chiara allegria di una fresca mattina di marzo. E rientrò canticchiando. "Che cosa si può fare per ingannare la famiglia?" chiesi commosso al signor Demetrio. Egli guardò a destra, a sinistra, in terra, nei cantucci della corte, come se cercasse quel che si doveva fare. Siccome Cesarino aveva detto che non sarebbe tornato per tutto il giorno, cosí c'era tempo di preparare una pietosa bugia. Poi si sarebbe fatto credere a' suoi che un male improvviso, una congestione, un gran freddo, l'avevano portato via. Il signor Demetrio a questa mia idea disse di sí col capo. Di suo soggiunse: "Si potrebbero mandare alle Cascine." Entrarono i portantini dell'Ospedale che i casigliani avevano fatto venire, posero il morto nella barella, calarono le tendine e, preceduti dalle guardie, con dietro una processione di gente, presero la via Torino verso l'Ospedale. Il giorno dopo, un'ora prima di sera, una carrozza funebre fatta come una scatola, tirata da un cavallo nero, usciva dalla porta dell'Ospedale Maggiore, quella che dà sul Naviglio, e, disceso il ponte, si avviava lentamente per la strada deserta di San Barnaba verso il bastione, e verso il vecchio cimitero di Porta Vittoria, detto il Foppone . Piovigginava. Dietro la carrozza, che lagrimava nero, coperto, quasi sepolto da un grande ombrello, cinque o sei passi lontano, come se avesse vergogna di farsi vedere, veniva Demetrio. Non un prete davanti; non un amico intorno. S'era fatto di tutto per portar via il suicida in segretezza, nell'ora che gli amici vanno a pranzo. I giornali, tranne uno, avevan taciuto la cosa e non era stato nemmeno impossibile di far credere a Beatrice e ad Arabella che la morte fosse conseguenza di una sincope, di una congestione. Cesarino andava soggetto a forti mali di capo: gli strapazzi del carnevale, il correre, l'affannarsi, l'agonia di un vecchio amico ... Insomma un po' per uno, coll'eloquenza che in queste circostanze la carità spontaneamente suggerisce, si diede alla povera donna la tremenda notizia, vestita alla meglio di una santa bugia; e fatta venire una carrozza, Demetrio, colle belle e colle buone riuscí a condurre la vedova e i ragazzi, piú storditi che persuasi, alle Cascine Boazze, in casa di un parente. Egli tornò subito a Milano. Ora cogli occhi fissi al cerchio della ruota che girava innanzi a lui, dopo due giorni di corsa, di affanno, di stordimento, cominciava a riordinare un poco la matassa arruffata de' suoi pensieri. Era un sogno doloroso da cui non poteva svegliarsi. Colle tristezze nuove si mescolavano le reminiscenze vecchie della sua vita passata, i dissidî domestici, i lunghi guai che lo avevano diviso da suo fratello. Demetrio era nato dalla prima moglie di Vincenzo Pianelli, un buon affittaiuolo per il tempo suo, finché durò la fortuna, ma un uomo assolutamente incapace di resistere ai tempi difficili che vennero poi. Finché visse la mamma di Demetrio, tanto tanto il buon senso naturale di questa donna e il suo grande spirito di economia avevano aiutato a tenere insieme la barca; ma quando, morta lei, pà Vincenzo fece la sciocchezza di sposare un'altra donna, piú giovane di lui una ventina d'anni, addio buon senso, addio economia! La sposina, colla testa piena di farfalle, aveva sposato il vecchio Vincenzo colla speranza di fare un gran partito e portò in casa il lusso, la voglia di spendere, il gusto dei cappellini, dei vestiti di seta, mentre la prima moglie, povera donna, s'era sempre contentata di vestire di lana e di cotone e non aveva messe le scarpe di pezza che due o tre volte in tutta la sua vita. Vincenzo, che aveva allora in affitto un grosso fondo su quel di San Donato, si accorse subito che la barca cominciava a far acqua da tutte le parti; ma era tanto innamorato della sua Angiolina, che non sapeva dir di no, le andava dietro ogni passo, come un cagnolino, e si istupidiva a poco a poco in estasi a contemplarla, quasi che la vecchia Teresa, che ora dormiva in un cantuccio del camposanto e che aveva lavorato tanti anni per lui, non fosse mai esistita. Dopo nove mesi di quel nuovo matrimonio, nacque Cesarino, e il figlio della povera Teresa cadde, come si dice, dallo scanno. Cesarino divenne l'idolo di pà Vincenzo. Per lui ci volle una balia fatta venire apposta da Varallo Pombia, che son cosí belle e famose, e cosí furono risparmiate le fresche bellezze della mammina. Padrino al battesimo fu il cavaliere Menorini, ragioniere e amministratore dei Luoghi Pii, che aveva sempre mostrato per l'Angiolina una speciale tenerezza. Per Cesarino furono tutte le carezze, tutte le speranze. Demetrio, che aveva già dieci o dodici anni, abbandonato all'educazione dei bifolchi e dei famigli, crebbe come si può crescere tra le vacche e i cavalli. Fu un miracolo se imparò a leggere e a scrivere. Man mano che Cesarino diventava grande, crescevano ancora le differenze. A sentire il pà, egli solo aveva ereditato tutto il talento di casa Pianelli; egli doveva fare il dottore o l'avvocato. Appena ebbe raggiunta l'età, fu collocato a Milano, nel collegio Calchi-Taeggi; mentre Demetrio, dopo essere stato qualche anno a Lodi presso un ragioniere a imparare quattro conti, fu presto richiamato a casa a sopraintendere alla stalla delle vacche e alla "casera" del formaggio. Solamente nelle vacanze Cesarino passava qualche dí a casa. Tutto lindo e ripicchiato nella sua divisa di panno nero coi bottoni d'argento e coi ricami d'oro, coi ricciolini pettinati e scompartiti sulla fronte, s'imbatteva in Demetrio che usciva dallo stallone, colle gambe nude fino al ginocchio, i piedi in grossi zoccoli di legno, con in mano una forcona, col corpo sordido e pregno di quel grasso odore che stilla dai letti marci. Era un miracolo se questi due fratelli, incontrandosi, si dicevano un "ciao" a mezza bocca. Stavano a guardarsi un istante, sorpresi, quasi meravigliati l'uno dell'altro, e si voltavano le spalle. Per fortuna alla cascina Cesarino si fermava poco, perché il resto delle vacanze andava a passarlo colla mammina sul lago di Como. La bella Angiolina dopo otto anni di matrimonio, presa dalla malaria, curata male, morí in preda a una terribile febbre d'infezione. Pà Vincenzo rimase indietro piú stupido e piú rovinato di prima. Cominciarono i sequestri: l'Ospedale diede la disdetta d'affitto, e da padroni i Pianelli divennero servitori. Quando sarebbe toccato anche a Cesarino di dare una mano a salvare la casa che barcollava, sempre per consiglio del cavalier Menorini, fu collocato in un battaglione d'istruzione, da dove uscí col grado di caporale maggiore. Poi scoppiò la guerra del '66 e addio casa! Il peso dei debiti, dei protesti, dei sequestri, del padre vecchio, malato, rimbambito, cadde di nuovo sulle spalle del povero bifolco, che non per nulla era nato prima. Mentre la casa si sfasciava da tutte le parti, era bello (bello, per modo di dire) vedere il vecchio pà Vincenzo seduto fuori dell'uscio, al sole, colla bocca aperta, con una berretta di maglia a righe rosse in capo, col fiocchino ritto come si dipinge la fiamma dello spirito santo, le mani sulle ginocchia, gli occhi perduti nell'aria e nel verde pacifico dei prati, in mezzo a un milione di mosche che se lo mangiavano vivo. Demetrio vendette il canterano di maggiolino della sua mamma e coi quattro stracci si ridusse a Milano, dove un suo zio prete, don Giosuè Pianelli, canonico in Duomo, gli procurò un posto provvisorio di scrivano nella cancelleria della Curia arcivescovile. C'era appena di non morir di fame, anche dopo aver venduto tutto ciò che s'era potuto sottrarre alle mani del fisco. A Milano il vecchio Pianelli trovò, se non altro, meno mosche. Tirarono innanzi tre anni, campando colla misericordia di Dio, su qualche ultimo boccone della dote di mamma Teresa, finché non piacque al Dio delle misericordie di chiamare pà Vincenzo in paradiso a trovare la sua bella Angiolina. Quando si trattò di farlo portar via, Demetrio, non sapendo a che santo ricorrere, andò a trovare lo zio prete, un brontolone sempre in collera, che gli prestò cinquantasette lire dietro regolare ricevuta. Demetrio non aveva voluto ascoltare il consiglio di don Giosuè e mandare il vecchio all'Ospedale: cosí gli toccarono in corpo anche le spese del funerale. Eran cose passate da un pezzo: ma queste memorie ripassavano ora davanti agli occhi di Demetrio, come se la ruota della carrozza, girando, ne svolgesse il filo. Né i guai finiron lí. Cesarino, che si trovava in quel tempo a Palermo, scrisse subito a Demetrio per chiedergli i conti ed i residui della sua parte patrimoniale. E a lui di rimando il fratello rispose che il padre era stato sepolto con le cinquantasette lire prestate dallo zio prete; che di roba non c'era piú l'ombra; che le spese di malattia le aveva pagate lui; che era ridicolo parlar di conti e di residui. Cesarino tornò a scrivere che sua madre Angiolina aveva portato cinquemila lire di dote e che, se egli era stato tanto buono e rassegnato finora a non domandare i conti, ora, sul punto di lasciare il servizio militare per farsi una carriera, non poteva piú trascurare i suoi diritti. Demetrio tornò a rispondere al signor sergente- furiere ch'egli non sapeva nulla di dote; che se anche c'erano state le cinquemila lire, il fallimento se l'era mangiate. Venisse e vedesse che cosa era rimasto di casa Pianelli. Il contrasto si fece ancora piú vivo, allorché Cesarino, lasciato il servizio, venne a Milano in cerca d'un impiego. La sua grande aria di superiorità, resa ancor piú altera e imponente da un certo piglio soldatesco, cominciò ad irritare fin dal principio il fratello bifolco, che aveva sul libro vecchio della memoria tutti gli arretrati delle passate mortificazioni. Poiché non c'era piú né babbo né mamma, disse al sor sergente piú d'una verità che gli stava da un pezzo in gola, senza troppo condirla. Cesarino, già fin d'allora molto lord Cosmetico rispose con un risolino ironico di schifo e con un proverbio del paese, che tradotto in lingua povera veniva quasi a dire: da una zucca non può nascere che una zucca. A questa ingiuria, che andava a colpire la santa memoria di sua madre, Demetrio chiuse l'uscio sul muso all'ex-sergente, e da quel dí — cioè da dieci o dodici anni in qua — non si eran parlati, non si eran guardati piú in viso. Demetrio sollevò un momento gli occhi alla cassa e si sforzò di perdonare sinceramente a quel poverino. La morte paga tutti i debiti: cioè non tutti ... pur troppo ... Pur troppo eran passati gli anni, durante i quali Demetrio, lasciato l'impiego provvisorio della Curia, era entrato col grado di terzo bollatore all'ufficio del Bollo straordinario, collo stipendio di mille e trecento lire: poi, per speciale protezione del cavalier Balzalotti, era stato assunto al grado di commesso gerente in uno dei tanti uffici del registro con cento lire di aumento. Cesarino, sempre coll'aiuto e colle raccomandazioni del vecchio cavalier Menorini, col suo bel congedo in regola e colle sue medaglie commemorative, non stentò a trovare un impiego. Entrò dapprima nel personale viaggiante delle Poste sui battelli a vapore del lago di Como; poi ottenne un posto di ufficiale a Melegnano, dove fece conoscenza coi Chiesa, e dopo qualche anno venne traslocato a una Sezione dei vaglia a Milano, con lo stipendio di duemilacinquecento lire. Cosí egli dimostrò a suo fratello bifolco che un uomo di spirito non ha bisogno della carità di nessuno. Con duemilacinquecento lire, un bell'uomo, di talento, elegante, un regio impiegato, educato in un collegio, poteva aspirare a un bel matrimonio ... Non passò molto che una bella domenica Milano poté contemplare sul Corso lord Cosmetico che dava il braccio alla sposa vestita in gran lusso d'un abito di seta color tortorella e in testa un cappellino bianco a piume che si poteva vedere da Monza. Beatrice Chiesa doveva portare nel grembiale quarantamila lire di dote, oltre alle prerogative di una solida salute e di una bellezza senza risparmio. Ma al momento di sborsare i soldi il sor Isidoro non mise fuori che tre o quattromila lire, riservandosi con un'obbligazione di pagare gl'interessi sul resto. Di queste tre o quattromila lire la maggior parte era in corredo di biancheria, il vecchio fondo delle guardarobe di casa Chiesa, cioè piú distintamente ottantaquattro camicie da donna di tela nostrale fabbricata in casa fin dai tempi dei bisnonni (roba che adesso non si fabbrica piú cosí buona); centoventi paia di calze di filo, tutta roba anche questa nata e preparata in casa; venticinque tovaglie grandi, quasi nuove, per trenta persone, che avevano servito qualche volta ai grandi pranzi di casa Chiesa, e piú di duecento tovagliolini di tela eguale, ben grandi da imbacuccare un uomo; quattro dozzine di lenzuola di tela nostrale del 1840 e una grande quantità di foderette e di asciugamani. I coniugi Pianelli menarono subito una vita in grande. Non si nasce lord Cosmetico senza avere il gusto delle belle cose e non si sposa una bella donna senza il desiderio di comparire e di farla comparire. Già il primo anno si cominciò a spendere senza giudizio, dando fondo a quel migliaio di lire che il babbo aveva anticipato sulla dote. In casa Pianelli non si conoscevano le famose grettezze di mamma Teresa, che metteva in disparte i gusci e i mezzi solfanelli! A desinare erano sempre due piatti con frutta e dolci: a colazione si beveva fior di vin di Marsala: la sera si passava al Caffè Biffi, in Galleria, o ai giardini pubblici, o a teatro. D'autunno o era un viaggio sui laghi o un mese di campagna a Erba o a Besana Brianza ... E per questa strada il povero Cesarino aveva finito coll'andare in carrozza. "Eccola qui la carrozza!" mormorò Demetrio, alzando di nuovo gli occhi sul carro funebre, che, passata la chiesetta di San Barnaba, infilava l'altra via quasi deserta della Pace. Ma di tutto questo che colpa avevano quei poveri figliuoli? È vero ch'egli avrebbe potuto stringersi nelle spalle, lavarsene le mani e fingere di non conoscere nessuno; ma son cose che si dicono. C'era di mezzo il nome della famiglia, c'erano di mezzo gli innocenti e non è religione solamente il sentire la messa la festa e il confessarsi a Pasqua. E, come se questi pensieri gli cadessero addosso insieme all'acqua che veniva dal cielo, Demetrio andava rannicchiandosi sotto l'ombrello, mentre la carrozza, passata la Rotonda dei Cronici, entrava nel terreno molle e fangoso del bastione. Sí, una grande responsabilità gli cadeva sul capo! Era proprio necessario ch'egli accettasse questa dolorosa eredità senza qualche beneficio d'inventario? Come poteva colle sue millequattrocento lire all'anno pensare alla vedova e a tre figliuoli? La lettera di Cesarino, che egli andava rotolando in fondo alla tasca del suo paltò, parlava di un grosso debito di mille lire verso il signor Martini ... Grazie! Eppure se c'era un debito sacro era questo, nel quale era compromesso l'onore di tutta la famiglia e la memoria di un povero padre. Nella sua lettera arida, scritta sul tamburo della disperazione, Cesarino parlava di diritti a pensione, e della dote di sua moglie; ma alla Posta non riconoscevano questi diritti, e in quanto alla dote di Beatrice, chi conosceva il signor Isidoro Chiesa, sapeva che il buon uomo non aveva di grande che la blatera e la presunzione ... Ecco come uno va fuori dei fastidi e vi lascia dentro chi resta. Come se di impicci e di strozzamenti non ne avesse avuti abbastanza in tutta la sua vita! Come se, per non averne piú, egli non avesse giurato di morir solo e vivere intanto nel suo guscio, in una soffitta sopra le tegole, lontano dagli uomini e dalle donne. La carrozza funebre svoltò un'altra volta e uscí da Porta Vittoria. Dopo le ultime case del sobborgo, laggiú, presso il vecchio forte militare, la strada si fece piú molle e fangosa. Da lontano, dietro gli alberi umidi e grondanti di pioggia, venivano sopra gli umidi sbuffi d'un vento gelato i tocchi d'una campana, forse da Calvairate. Il luogo non è mai bello per sé con quelle siepi mozze, con quella lunga cinta di camposanto che si accompagna alla strada, con quell'acqua morta che inverdisce nei fossi. C'era di piú l'ora bigia e triste e la giornataccia che andava oscurandosi nella nebbia della bassa pianura. Di tristezza traboccò anche il cuore di Demetrio, che, dopo due giorni di scosse e di irritazione, nel punto che tiravano Cesarino dal carro, sentí al disotto dei vecchi rancori irrugginiti agitarsi un sentimento molle e fraterno di carità e di compassione. Povero figliuolo, povero martire ... , cosí giovane ... , andava ripetendo una voce in fondo al cuore, al disotto di quel gran mucchio di reminiscenze dolorose e cattive che pesavano sulla coscienza come un sacco di chiodi pungenti. Due lagrime dure spuntarono nell'angolo degli occhi, stagnarono nella pupilla e gonfiarono la testa di vapori. I becchini, toltasi la bianca cassa di larice sulle spalle, si avviarono attraverso ai cumuli di terra per un campo melmoso sotto la pioggerella. Demetrio li seguí. Stette a vedere la cassa scomparire nella buca, sentí la terra molle cadere sul legno. Data una robusta scossa ai pensieri che gli tiravano il capo sul petto, disse con un sospiro: Amen . Ritornò in città ch'era già buio, senza mai accorgersi che dietro di lui, col muso basso, camminava un cane. Traversò strade, stradette, piazze e vicoletti col suo passo pesante di bifolco, crollando di tanto in tanto la testa come un cavallo stanco di portare il basto. Giunse in San Clemente, e, nell'androne buio della porta, sentí una voce che lo chiamava per nome. "Che cosa c'è ancora?" esclamò con un fare di uomo seccato. "Sono dell'Ospedale. Ho portato i vestiti e le scarpe del defunto. Se il signore volesse favorire la sua buona grazia ... " Demetrio masticò tre o quattro parole senza senso, si tirò verso la porta, e, al lume del lampione a gas, guardò nel borsellino. " L'hoo propi miss in la cassa come on bombon " continuò la voce dell'uomo che parlava nel buio. Bisognò dare una lira anche a costui.

Giovedí, interpretando secondo il proprio cuore le parole brontolate dallo zio, si pose ad abbaiare. Era l'unico mezzo datogli dalla natura per commuovere l'animo della gente. "Crepa!" disse Demetrio. " Beb! " abbaiò di nuovo il cagnetto, ponendo le zampe sporche sui pochi calzoni dello zio e mostrando in una doppia fila tutti i suoi denti bianchissimi. "Scoppia in mezzo, cane del diavolo!" brontolò di nuovo Demetrio, schiaffeggiandogli il muso col fazzoletto di cotone turchino, che adoperò per ripulirsi le ginocchia. In quel momento l'uscio si aprí e comparve madama, in una grande vestaglia bianca di flanella. Demetrio si agitò, si alzò un poco, tornò a sedere, chinò gli occhi sul tappeto e balbettò un "riverisco" quasi inintelligibile. Anche Beatrice si sentiva confusa e imbarazzata di trovarsi a tu per tu con quel famoso cognato, che Cesarino aveva sempre dipinto come un orsacchiotto, un intollerante bigotto, molto abile nel far scomparire le mila lire. Nei pochi giorni ch'era stata alle Cascine, aveva ricevuto una visita del papà, il sor Isidoro di Melegnano, che la mise in guardia e le comandò di non fidarsi troppo dei raggiri di suo cognato. Si può pensare se con questi precedenti ella potesse fargli una grande accoglienza. Demetrio, dal canto suo, persuaso per esperienza che la bellissima donna era una testa d'oca, che aveva aiutato a spingere Cesarino sull'orlo del precipizio, impacciato per indole e per abitudine a trattare colle donne, non sapendo da che parte cominciare, passò due o tre volte il fazzoletto sugli occhi e sotto il naso e finalmente domandò: "Come sta Paolino?" "Sta bene e mi ha detto di salutarvi." "Sta bene anche la Carolina?" "Sí, sta bene anche lei." "Mi avete fatto chiamare?" "Son tornata ieri e non ho nessuno a Milano, in questo momento. Non è nemmeno venuta la Cherubina, stamattina. Volevo far avvisare l'Elisa sarta che siamo tornate e ordinare i vestiti di lutto. Nella confusione non ho avuto tempo di pensare a nulla, e ho dovuto farmi prestare qualche fazzoletto nero dalla Carolina." "I vestiti di lutto li avete già ordinati?" "Non ancora, sicuro. Non potrei mettere il piede fuori dell'uscio." "Scu ... scusate" riprese con un tremito nervoso Demetrio, "e questi vestiti sono proprio ne ... ne ... nec ... essari?" Beatrice lo guardò con aria stupefatta, come se avesse domandato se è proprio necessaria l'aria per vivere. "Dico questo perché è una spesa ... e se si potesse risparmiare qualche spesa." "Come, risparmiare? che cosa direbbe la gente?" "Certo fu una disgrazia, e voi avete il dovere di piangere quel povero uomo; ma di spese ce ne son già troppe ... ." "Prendete un caffè, Demetrio?" interruppe Beatrice. "Grazie, non ne piglio mai!" rispose bruscamente il cognato, che, continuando il discorso di prima, soggiunse: "Mi sono spaventato, cara voi." "Di che cosa?" "Dello stato delle cose. Non c'è piú stipendio, non c'è diritto a pensione, e ci saranno a quest'ora quasi seimila lire di debiti." "Non è possibile ... " disse freddamente e con un leggiero sorriso ironico Beatrice, per fargli capire che non era disposta a lasciarsi abbindolare. Demetrio, a questa risposta cosí fredda e categorica, alzò gli occhi e li fissò un istante in viso alla sua cara cognata, contraendo le labbra a un tremito nervoso, che pareva un sorriso sardonico. "Non è possibile" tornò a dire Beatrice nella sua matronale tranquillità. "Voi non siete obbligata forse a sa ... sapere e siete da compatire. Ma qui c'è un fascio di conti ... Cesarino aveva le idee troppo grandi." "Bel capitale! Bisognava vivere con decoro, si sa." "Lasciamo il decoro, per carità!" "Si sa, un regio impiegato ... Non tutti possono rassegnarsi a vivere di pane di segale o di polenta ... ." "No, no ... che segale e che polenta! Adesso è morto e noi dobbiamo pregare per l'anima sua, ma vi confesso che sono spaventato. Ci sono tre semestri dell'affitto che bisogna pagare per la Pasqua, o il padrone mette il sequestro. C'è un vecchio conto dell'orefice Boffi, che mi ha portato lui stesso all'ufficio ... Aspettate; perché non diciate che invento tutto per il gusto d'inventare, ho portato con me tutte le pezze giustificative. Quando hanno saputo che Cesarino era morto e che io, suo fratello, m'incarico un poco delle faccende, i creditori si son mossi tutti come le mosche, se la pigliano con me, pretendono che io abbia a pagare ... Io? con che cosa pagare? e che c'entro io?" Demetrio, tratto il suo fascio di cartacce, sciolse lo spago che le legava insieme, e cominciò a spiegarle sulle ginocchia. "Arabella!" chiamò la voce chiara e argentina di Beatrice. "Che cosa vuoi, mamma?" dimandò la bambina, che stava fuori in sentinella. "Portami il caffè." Demetrio frugò un pezzo nella tasca di sotto e trasse l'astuccio degli occhiali. Ne uscí un paio con grosso cerchio d'osso ch'egli appoggiò alla punta del suo naso color patata, assicurando le grosse spranghette tra l'orecchio e il ciuffo rossiccio dei capelli. Inarcò le sopracciglia, e contraendo la pelle della bocca, come se provasse della nausea, cominciò a leggere sopra una pagina: "Ecco, Angelo Boffi, orefice e bigiottiere. Per braccialetto d'oro con zaffiro, lire 150 ... ." "È un braccialetto che Cesarino ha voluto regalarmi fin dal Natale dell'anno passato." "Fu pagato?" "Io credo di sí." "Il signor Boffi dice di no ... ." Beatrice cominciò a guardarsi intorno, come se cercasse un testimonio. Non vide che gli occhi amorosi di Giovedí, che la contemplavano con soave tenerezza. Vedere il povero cane e sentirsi tutta rimescolare fu un punto solo. Ruppe in un singhiozzo, stese le braccia alla bestia, che le saltò in grembo, e si rannicchiò a piangere anche lui. "Dove sei stato fin adesso? o povero Jeudi, o Jeudi ... dov'è il tuo padrone?" Giovedí rispondeva alla sua maniera, mugolando. Demetrio chinò il capo, lasciò cadere la mano sul ginocchio e aspettò che la padrona e il cane finissero di piangere. Cogli occhi fissi nel vuoto, il pover'uomo pensava al numero dei gradini che Beatrice doveva fare per discendere dal suo trono di cartapesta fino alla triste realtà, che la circondava da tutte le parti. "Non fu pagato questo, come non furono pagati gli altri" riprese a dire con un tono uguale e freddo, dopo un istante. "C'è qui un altro conto del signor Cena parrucchiere per ... per ... saponi e profumerie ... lire 56 ... Diavolo, questo non è nemmeno pane di segale." Beatrice arrossí, si rizzò sulla sua persona, e tornò a guardare il cognato orangoutan, con una espressione di sarcasmo e di paura. Demetrio, sempre a capo basso, col coraggio inesorabile e pietoso del chirurgo che opera sulla carne viva, scorrendo uno dopo l'altro quei benedetti conti, seguitò: "C'è un conto anche dal pizzicagnolo, circa duecento lire; c'è quello della sarta Schincardi, un'ottantina di lire anche qui. C'è persino un vecchio conto del pasticciere Dragoni, che risale nientemeno che al battesimo di Naldo e che non fu mai pagato. Anche questa non è polenta ... Conto del calzolaio Bianchi in lire ... cin ... cin ... quecento settantasei ... Una bagattella!.. Conto non quietanzato De Paoli per tap ... tappezzeria ... dice tappezzerie? duecento quarantacinque e settantanove c ... entesimi." Man mano che leggeva, la fronte del bifolco si rimpiccioliva nella contrazione delle ciglia in un gruppetto di grinze, sulle quali veniva a cadere a foggia di tettuccio il piovente duro e diritto dei capelli. Arabella entrò col vassoio del caffè e col bricco in mano. Con la prontezza della sua intelligenza essa aveva già capito che in quel suo zio ruvido e bifolco c'era l'angelo custode travestito da ortolano. La scomparsa improvvisa del papà, la fuga precipitosa, il modo misterioso in cui aveva sentito parlare alle Cascine, le poche frasi udite all'entrare in sala, avevano già detto alla povera tosetta che una grande disgrazia stava sulla sua casa e che forse lo zio Demetrio meritava di essere ascoltato. Dalla cucina veniva un gran chiasso di voci e un gran picchiamento. "Che fanno quei matti?" chiese Beatrice. "Dicono che hanno fame e picchiano sulla cassa della legna. Il lattivendolo non è venuto, e nemmeno il fornaio." "Hai mandato Ferruccio?" "Ma non c'è ... " rispose Arabella con una leggera impazienza, in cui si sentiva il tremito del pianto. "Bene; di' loro che stiano quieti che adesso vengo subito." "Settimo: Conto non quietanzato del farmacista ... ." "Scusate, Demetrio," interruppe questa volta con un atto d'impazienza Beatrice "io non so nulla di questi conti che dite voi ... ." "Non volete dire con ciò che me li invento io ... ." "Non sono in grado di dire se questi conti siano o non siano stati pagati. Lasciateli qui che li farò vedere a mio padre ... ." "Non cerco di meglio ... Ma non vorrei che questi poveri figliuoli andassero di mezzo. Pensiamoci, per carità. Tiriamo i remi in barca ... Che cosa può fare il signor Chiesa per voi e per la vostra famiglia?" "C'è ancora tutta la mia dote. Son quarantamila lire, non un quattrino. Vostro fratello non ha sposato una contessa, ma nemmeno la figlia della serva." "Può il signor Isidoro mantenere oggi le sue promesse?" "Adesso subito forse no, perché è in causa coll'Ospedale, ma fra sei mesi, fra un anno?" "Da quanti anni dura questa causa, lo sapete? quante volte fu già perduta? quante migliaia di lire furono sprecate in questa benedetta questione?" "Mio padre è un uomo di buona fede e trovò sempre degli avvocati di poca coscienza." "Lo so, non facciamoci illusioni ... ." "Che cosa volete dire? che debbo forse mandare i miei figliuoli a fare il ciabattino?" Beatrice aveva letto un romanzo, Lo Sparviero e la Colomba , in cui una giovine bella e ricca ereditiera lottava contro le insidie d'un gesuita che agognava alla sua eredità. Ebbene, le pareva il caso suo. "Per fortuna" pensava "so quel che vali! ma non ci riuscirai ... " E si sforzava, nella sua semplicità di spirito di reagire e di tirarsi su impettita con tutta la persona, come faceva nel suo palchetto quando il marito la conduceva al teatro Dal Verme. Demetrio sentí una gran tentazione di buttarle in viso i conti e di andarsene. Ma gli venne in mente il povero Cesarino disteso sotto una stuoia; gli venne in mente l'obbligo morale che egli si era assunto verso il Martini per salvare l'onore al nome dei Pianelli; gli risonò nell'orecchio la voce aspra del padrone di casa; sentiva nello stesso tempo il chiasso che facevano quei ragazzi di là, picchiando nella cassa della legna ... Pensò che il sor Isidoro era un pazzo, fallito dieci volte per la sua cocciutaggine nel far cause a tutto il mondo, e che sua cognata era una testa d'oca. Per tutte queste ragioni, dopo aver trangugiato molto fiele in silenzio, mentre Beatrice finiva di sorseggiare il suo caffè, rilegato collo spago il fascio dei conti, li collocò sul tavolino, e disse con un tono di voce in cui si sentiva lo sforzo di dominarsi: "Se io volevo dare qualche consiglio, prego mia cognata a credere che non lo facevo per mio interesse. Chiamato in un momento triste, io pensavo che fosse mio dovere di coscienza di mettervi al fatto dello stato delle cose: non vi ho detto tutto ... perché è inutile che sappiate tutto. Amen! Io vorrei vedere qui vostro padre in luogo mio a pagare questi conti; ma forse il signor Chiesa dirà che i vostri figliuoli portano il nome Pianelli e che non tocca a lui di salvarli dalla miseria e dalla fame ... ." "Che cosa dite?" esclamò Beatrice irritata. "Lasciatemi finire e poi vi toglierò l'incomodo per sempre. È inutile farsi delle illusioni. Voi non avete piú un soldo della vostra dote, non avrete un soldo di pensione e con sei o sette mila lire di debiti dovrete provvedere a voi e ai vostri figliuoli." Beatrice tornò a sorridere ironicamente. Il vecchio bifolco credeva forse che ella si lasciasse infinocchiare da queste declamazioni. Sbagliava di grosso. "Io ero venuto per dire che bisognava pensare seriamente, subito, radicalmente, ai casi nostri, o tanto vale prendere i ragazzi e mandarli a suonare l'organetto." "E che cosa bisognerebbe fare? sentiamo" provò a dire Beatrice con aria quasi di sfida. E intanto si paragonava nella sua mente alla gatta che difende i suoi piccini dalle unghie d'un brutto cagnaccio. "Punto primo, si cominci a vendere tutto quello che non è necessario." "Vendere!" esclamò Beatrice, spalancando tanto d'occhi. "Sí, vendere, o restituire quello che non si può pagare ... ." "Ah sí?" disse con un sorrisetto ironico la povera donna. "Punto secondo, bisogna restringersi nelle spese, lasciare le apparenze, non curarsi tanto della gente e rivoltare le maniche, come si dice ... " "Ah sí?" tornò a dire Beatrice, pallida, movendosi da una poltrona all'altra. "Non è il caso di mandare questi figliuoli a fare il ciabattino; ma certo saremmo tutti matti, se pensassimo di farne fuori degli avvocati. Via via, qui c'è della roba, voi avete portato della roba ... ." "Ah chiedo scusa!" interruppe questa volta Beatrice con un impeto straordinario di energia, "della roba mia la padrona sono io ... ." Demetrio, che nel calore e nello zelo del suo cuore s'era abbandonato quasi all'illusione d'essere arrivato a tempo a far del bene, a questa brusca interruzione, al modo obliquo con cui lo guardava la donna, capí di essere stato prevenuto. Perdette l'equilibrio, si scoraggiò, masticò ancora un fiume di cose amare, raccolse i suoi nervi, spianò le sue rughe irritate e con una voce che cercava d'essere fredda per non essere velenosa, soggiunse: "Scusate, questi debiti io non posso pagarli ... ." "Lo so, non è la prima volta che non potete pagare i vostri debiti ... ." Questa era la frase che il signor Isidoro aveva messa in bocca a sua figlia nel caso preveduto che Demetrio si fosse fatto avanti coi soliti raggiri, e alludeva alla famosa dote di mamma Angiolina. Demetrio ricevette il colpo in pieno petto, chiuse gli occhi, impallidí sotto la scorza dura e nera del suo viso color patata, mosse una mano quasi volesse col gesto aiutare la parola a venire fuori; ma un groppo di pianto stizzoso e furibondo lo strozzava alla gola ... Col dito secco segnò tre volte il fascio dei conti che lasciava sul tavolino, si rannicchiò nelle spalle, sempre con la bocca impiombata dall'ira e dal dolore, e uscí dalla saletta senza dir nulla. Un grimaldello non avrebbe potuto aprire quella sua bocca impiombata di dolore e di sdegno. Uscí, traversò la cucina, smarrito, mal pratico dell'appartamento, passò in mezzo ai due bimbi seminudi che picchiavano e strillavano di fame, e finalmente trovò l'uscio dell'anticamera. Fu un miracolo se si ricordò di prendere il cappello e il bastone. Fu pure un miracolo se non cadde dalla scala. Il Berretta lo chiamò di nuovo: "Ehi! ehi!" dal fondo dello stanzino. Ma egli non sentí o non volle sentire. Uscí; prese la strada a man destra verso il centro, non pensando nulla e non ripetendo nel fondo piú oscuro del suo pensiero che una parola sola: "Asino!" In questa parola, che rappresenta un animale sciocco e paziente, concentrava tutta l'ira, il dispetto, il dolore, la vergogna dell’offesa ricevuta, e la vergogna della sua incapacità morale. Per via Torino, San Giorgio, Zecca Vecchia, uscí al Bocchetto e andò in ufficio. Lavorò meccanicamente, come al solito, senza sbagliare, senza parlare; se non che, di tanto in tanto, come al girare di un quadrante, scoccava in lui quell'unica parola in cui era andata concentrandosi tutta la sua dialettica: "Asino!"

Da qualche tempo essa si preparava alla prima Comunione e il suo cuore era pieno di visioni: quando fu svegliata bruscamente da un forte abbaiare. Alzò un poco la testa, in preda ad uno strano spavento; portò la mano al cuore, dove sentiva uno schiacciamento come un chiodo premuto, girò gli occhi intorno. I vetri cominciavano ad imbianchire nella luce mattutina. Le campane di San Sisto sonavano l'Avemaria. Lasciò cadere ancora la testa, stanca del bel sonno della fanciullezza, e si addormentò un'altra volta. Il cane, colle quattro gambe tese rigidamente sugli scalini e col corpo quasi indurito dall'emozione seguitò un pezzo a urlare nell'ombra contro l'uscione aperto del solaio. Ficcava gli occhi nel buio della soffitta, ma non osava fare un passo né avanti, né indietro, come se, tranne la voce, la povera bestia fosse istecchita nelle sue costole.

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