Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbaia

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Senso

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Boito, Camillo 1 occorrenze

- E così torna indietro un buon tratto di via; e ogni inezia gli serve per tirare in lungo, un avviso sulla cantonata, un cane che abbaia. Poi si vergogna, e sale fino all'uscio, e quando, risoluto, ha già in mano il cordone del campanello, domanda a se stesso di nuovo: - Me lo devo far cavare sì o no? Insomma, coraggio. Quella sera, dopo avere dato a' tre contadini i soldi per bere qualche boccale, dopo avere salutato il sindaco, che rientrava in casa, il segretario, che andava ad augurare la felice notte all'acquavitaia, e l'idalgo, che, canterellando con la sua voce di basso, tornava a Sabbio, io non mi sentii nessuna voglia di dormire, e neanche di scrivere, di leggere o di discorrere. Avevo un gran peso alla testa, e provavo il bisogno di aspirare, di cacciar negli ultimi meati dei polmoni l'aria frizzante. C'era stata, sere addietro, nell'osteria una interminabile discussione intorno a questo punto; se, tra Vestone e Vobarno, le trote si peschino più facilmente sul far della sera, la mattina di buon'ora, la notte con la luna o la notte buia. Un pescatore giurava che nell'oscurità profonda ne acchiappava un subisso. Presa la canna e un lanternino andai a piantarmi dall'altra banda del Chiese, dove certi enormi massi formano una specie di diga. Mi pareva di quando in quando di sentire abboccar l'amo, e tiravo su; niente. Stufo, mi posi a sedere sopra una pietra e a guardare intorno. Non si vedeva un bel nulla. Nero il cielo, nera la terra: non una stella, non un lume. Garve, nascosta da un gruppo di alberi, a quell'ora dormiva. Sul dorso del monte, lì nel sito ove doveva essere Provaglio, apparve un luccichìo, forse una candela accesa al capezzale di un moribondo. Era un sepolcro di tenebre, ma un sepolcro pieno di frastuoni. Il Chiese, battendo contro i sassi, faceva una musica da assordare: c'erano dentro tutti i toni, tutti gli accordi, e il vento v'aggiungeva le estreme note acute. A un poco per volta si finiva ad assuefare gli occhi all'oscurità e a distinguere qualche cosa: i grossi rospi schifosi, per esempio, che sbalzavano di traverso accanto a me, la spuma bianca, anche il verde cupo dell'acqua. Avevo ripreso la canna per ritentare la sorte, quando vidi correre a precipizio con le onde e fermarsi alla diga una massa grande, biancastra. Non capivo che cosa fosse, e pure un brivido mi corse dalla testa ai piedi. Presi il lanternino, che avevo lasciato sul sentiero; ma, mentre mi avvicinavo col lume a quell'oggetto grigio, l'acqua, che gli aveva fatto intorno un gran lavorìo, lo sollevò e lo portò a venti passi lontano, dove diede di cozzo in una gran pietra che usciva dal fiume. L'attenzione intensa mi aguzzava la vista. Aiutato dal pallido chiarore della lanterna tentai di guadare il piccolo tratto, mettendo i piedi sulle teste dei sassi: non mi riuscì. Stetti immobile, con gli occhi fissi. Le onde percuotevano la massa informe, schizzando bava, come se fossero adirate, e le giravano intorno, formando un vortice rapidissimo: il Chiese s'ostinava rabbiosamente nel volere trascinar via la sua preda. La spuntò. L'oggetto strano fece il giro del sasso e ripigliò il suo cammino, rovesciato in gran furia dal fiume. Allora principiò una lotta terribile tra me, che volevo conoscere il mistero di quella cosa biancastra, e il fiume che me lo voleva nascondere. Conoscevo a passo a passo i viottoli della sponda: in un solo luogo la roccia, che si alza quasi verticale per un centinaio di metri, obbliga a salire e a discendere; il resto della via, fino a Sabbio, è piano. Ma quella salita e sopra tutto quella discesa non erano senza pericolo nelle viuzze strette, fiancheggiate da un burrone, la notte. Le piogge dei giorni precedenti avevano fatto franare in un punto la terra del viottolo, e bisognava sbalzare sul precipizio. Saltai senza pensarci, non sapendo dove avrei messo i piedi, e mi trovai dall'altra parte sano e salvo, ma col lumino spento. Continuai la strada da capre nel buio, intoppando negli sterpi, chiuso tra gli arbusti spinosi, scivolando giù dalla china sui ciottoli tondi, che rotolavano al piano. Finalmente giunsi di nuovo alla riva del fiume. Ma, dov'era andata la massa grigia? Era corsa innanzi senza intoppi, o gli ostacoli, di cui è pieno il Chiese, l'avevano trattenuta? Aspettai un pezzo senza batter le palpebre, con gli occhi inariditi che mi bruciavano. Alla fine passò nella corrente, in un attimo. Ripresi a correre anch'io su quel margine, dove nascono i salici sottili e le larghe foglie delle ninfee. Più su il prato è verde, smaltato di fiori, e ai pioppi si mischiano i pini, gli olmi, qualche piccola quercia. Lì m'ero posto a sedere tante volte sopra un tronco abbattuto, studiando le formiche, ammirando gl'insetti gialli d'oro, rossi di rubino, verdi di smeraldo, leggendo un bel libro o fantasticando alle cose gaie nella vacuità della vita. Poco lontano, dove il viottolo costeggia un campo di magre pannocchie, m'ero sdraiato una mattina a guardare per un'ora di seguito tre giovani donne, che raccoglievano le noci, le quali, scosse da un ragazzo sull'albero, cadevano nel fiume, e le tre donne, ridendo, mostravano le grosse gambe fin sopra il ginocchio, con le gonne legate ai fianchi. La macchia grigia era andata ad arenarsi sopra un banco di ghiaia, accanto alla riva. Mi tolsi le scarpe e le calze, mi arrotolai i calzoni alle cosce, e camminai tra le onde. Non mi reggevo in piedi. Il fiume mi tirava giù con una violenza invincibile. Sentii la piccolezza dell'uomo in faccia alla volontà delle cose insensate. In quell'istante il Chiese dovette chiamare in aiuto tutte le forze de' suoi abissi: coperse il banco di ghiaia con un'ondata impetuosa e, avvoltolando l'orrido oggetto biancastro, lo portò via inesorabilmente. Mi sentii vinto. Rientrando nella mia camera di Garbe ero inzuppato d'acqua e di sudore, sfinito; avevo gli occhi gonfi, la testa in fiamme; i polsi martellavano. Non potei chiudere occhio. Appena giorno mi alzai barcollando, e sulla sinistra del Chiese, lungo la via postale, andai a Sabbio. Ora le mie membra erano tutte ghiacciate, ora dovevo asciugarmi la fronte. A Sabbio, dove spesso andavo a far colazione, l'idalgo e la sua moglie ostessa m'accolsero con un mondo di cortesie, chiedendomi venti volte se stavo male. - Non è niente, - rispondevo, - l'aria fresca, la passeggiata e la colazione mi rimetteranno -. Non mangiai nulla. Guardavo come in sogno il largo portico adorno di ragnateli, le chioccie che venivano a beccheggiare i minuzzoli di polenta per portarli a' pulcini, la chiesa della Madonna, la quale, alta com'è sul colle e posta lì proprio accanto, pareva piantata sopra i tetti dell'osteria. Mentre io stavo immerso in queste visioni, entra uno dei figliuoli dell'ostessa, Pierino, bel ragazzotto di sette anni, saltando, e si mette a gridare: - Mamma, l'ho visto, sai? - Chi? - L'uomo che hanno trovato nel fiume stamattina. - È bello? - No, è tanto brutto. Domandalo alla Nina. La Nina era entrata insieme col fratello, ma s'era tosto rincantucciata in un angolo del portico, con le mani giunte, mormorando qualcosa sotto voce. Si sentiva a intervalli la parola Requiem , flebile, soffocata. - È giovine o vecchio? - ripigliò la madre. La Nina non rispose. Rispose Pierino: - È vecchio, ha la barba bianca, lunga lunga. Ha gli occhi stralunati. - Dov'è? Voglio vederlo - gridai scattando in piedi. L'ostessa mi sbirciò, e bisbigliando: - Dio, che gusti! - ordinò a Pierino di accompagnarmi. In quattro salti fui alla chiesa, quella del paese basso. In una stanza umida annessa alla sagrestia avevano esposto il corpo dell'annegato. La stanza era piena zeppa di contadini. Uno diceva: - Chi lo deve conoscere? Si vede bene da' panni che non è del paese. Un altro soggiungeva: - Io dico che è tedesco. - No, è di Milano. - Indosso non gli hanno trovato niente? - chiedeva un giovinotto. - Niente: né una carta, né un soldo. - Si sarà affogato per la miseria. - Io dico che è cascato nel fiume. - Io dico che ve l'hanno gettato. - L'occhio è da demonio. - Con quella bocca aperta sembra che ci voglia mangiare vivi. Una bambina si nascondeva, tremando, dietro al corpo del padre, e ripeteva: - Ho paura, ho paura; andiamo via. Il padre intanto esaminava da vicino l'abito dell'annegato, lo toccava e sentenziava: - Bel fustagno! Dev'essergli costato caro. M'ero cacciato innanzi tra la folla. Il vecchio del Ponte dei Re fissava gli occhi nel mio volto, sinistri, minacciosi. Sentivo in quello sguardo immobile un supremo rimprovero. Alle orecchie mi ronzava un soffio da tomba, che diceva: - Tu mi hai lasciato morire: sii maledetto. Tu potevi salvarmi, tu mi hai lasciato morire: sii maledetto. Tu avevi indovinato quel che io stavo per compiere, tu mi hai lasciato morire: sii maledetto. Il soffitto della stanza mi crollava sul capo; la folla mi stritolava. Credevo di essere nell'inferno, in mezzo ai diavoli, giudicato dalla voce cavernosa e dagli occhi implacabili di un cadavere grigio. Entrò un contadino, che avevo visto a Idro. Guardando l'annegato, esclamò: - Povero vecchio, le voleva tanto bene! Due giorni soli ha potuto vivere dopo morta la sua Teresa! * * * Mi posero a letto con una febbre da cavallo. Le impressioni di quella mattina, le fatiche della sera precedente, i rimorsi, produssero il loro effetto: avevo delle allucinazioni spaventose. Gli occhi infiammati mi dolevano assai. Il mio buon sindaco veniva a visitarmi due volte al giorno, e mi stava accanto delle lunghe ore, porgendomi egli stesso le medicine e raccontandomi piano, quando gli sembravo un po' quieto, qualche storiella, che non mi faceva sorridere. D'allora in poi la febbre s'è mitigata, ma, ad onta del chinino, non m'ha voluto lasciare. I medici dicono che è di quelle periodiche, le quali si pigliano facilmente con l'umidità e con gli strapazzi. Io la sopporto in pace; ma non posso tollerare in nessun modo questa maledetta macchia negli occhi. Appena uscito dai vaneggiamenti, me la son vista dinanzi, e continuo a vederla, come vi ho descritto, ostinata, abbominevole ... Ecco, anche in questo momento uno spettro scialbo e confuso mi balla di contro, ecco che insudicia il foglio bianco. Il sole è già tramontato, e la scrivania rimane in una penombra, che mi basta a gettare sulla carta in furia queste parole, ma che non mi lascerebbe rileggerle. Volevo finire prima di accendere il lume, e la macchia si giova della mezza oscurità per lacerarmi il cervello ... La macchia cresce, la macchia - cosa nuova! - prende una forma d'uomo Le spuntano le braccia, le spuntano le gambe, le nasce il capo. È il mio vecchio, il mio terribile vecchio! Parto stasera; vi consegnerò io stesso domani questo manoscritto. O guarisco o mi strappo gli occhi.

Vietato ai minori

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Bonanni, Laudomia 1 occorrenze

E il cane abbaia." Riguarda per traverso, gli occhi in prospettiva ovale deformati da specchio convesso. Non mi stupirei se allungando la testa come una bolla di sapone, aggiungesse che sua madre gli cavava la lingua. Invece: "La sedia sbatte, rientro, e stava appiccata." Mi riprende la mano senza proseguire. È il racconto delle monache, degli altri _tranne il cane abbaia _ quello che ha sentito e risentito, non il suo. Capisco che non vi partecipa più, con un trasalimento dentro. Possibile che vi sia nei bambini, nella natura umana, tale forza di recupero da cancellare tutto, tutto? "Ma perché," mi sfugge. Voglio accertarmi. "Mica la facevo arrabbiare io," dice a un tratto senza quella montatura difensiva e quasi insolente che s'è impressa sulla faccia, "era zia Carmela." Spiega che con la cognata litigavano sempre, s'inquietava. Ecco perché, conclude persuaso. Non si ricorda del padre morto, non sa della guerra bombe paura miseria, ma solo le liti con zia Carmela. C'è dunque questa provvidenza per i bambini: qui la tragedia sembrerebbe risolta in una specie di ruolo che assume, una recitazione di personaggio minore nel racconto che fanno di lui e dal quale s'è ormai staccato. La fila sta abboccandosi nella porta dell'istituto, la monaca non si volta. Ultimo Elio si rigira a guardarmi. Ancora i suoi occhi tondi cerchiati mi stringono il cuore. No, non è che dimentichino, i bambini in un certo senso non dimenticano niente. Se anche non sanno più, tutto è però entrato nella loro sostanza, la memoria si trasforma in sostanza umana. E da grande, senza ricordo, Elio sarà pure fatto di quello che ha subito.

Pagina 185

SI CONTA E SI RACCONTA - Fiabe Minime

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

Gli manca la parola; abbaia come un cane! - Lo so io quel che ha: è mezzo uomo e mezzo uccello! Non era vero niente. Bel ragazzo, bianco di carnagione, biondo di capelli, con occhi azzurri di grande dolcezza, il Reuccio, un giorno, tutt'a un tratto, appena aveva cominciato a staccarsi, era stato colpito da una strana malattia. Non poteva star fermo: con la testa e col busto doveva andare e venire come un pendolo, regolarmente, incessantemente; e se il Re, impietosito, tentava di impedirglielo, stringendolo tra le braccia, veniva spinto, con forza, a far lo stesso va e vieni, da averne il capogiro. Per poco non sembrava di udire il tic-tac, tic-tac di un vero pendolo in movimento. Per fortuna, il Reuccio non soffriva. Parlava, scherzava, rideva pur dimenandosi regolarmente, incessantemente da diritta a manca, da manca a diritta, ma faceva male a chi lo guardava, e il Re specialmente non poteva assistere a lungo a quel triste spettacolo. Aveva chiesto segreti consulti a medici, a maghi, a stregoni. I medici non avevano capito nulla: una malattia come quella non si era mai vista. I maghi avevano risposto: - Qui c'è un terribile incanto, ma noi non ci possiamo a disfarlo. Due stregoni avevano promesso: - Maestà, questo è niente. Ve lo consegneremo guarito in due mesi. E per due mesi si erano insediati nel palazzo reale, mangiando, bevendo da gran signori, uscendo di notte alla ricerca - dicevano - di certe erbe, di certe radici che poi non si trovavano mai, chiedendo quattrini ora per questo, ora per quello dei tanti intrugli prescritti. E, dopo due mesi, erano spariti lasciando il Reuccio nello stesso stato di prima: tic-tac, tic-tac, da diritta a manca, da manca a diritta. Per questo la Regina gli aveva messo nome Pendolino, e il Re continuava a chiamarlo così. Nessuno osava di domandare al Re: - E il Reuccio, Maestà? Ora, dovete sapere che nel giardino reale c'era una pianta di rosa unica al mondo, che faceva una rosa all'anno, meravigliosa di colore e di profumo. Era il fiore prediletto della Regina, e il Re, dopo la morte di lei, non l'aveva mai colta. La Regina, morendo, gli aveva detto: - La darete soltanto a chi verrà a chiederla in carità. Ma finora nessuno era venuto, e ogni anno la bellissima rosa si sfogliava e seccava su la pianta. Una mattina, il Re stava per salire in carrozza davanti al palazzo reale, quando si presentò una vecchia, curva e cenciosa, che si mise a piagnucolare: - Maestà, grazia! Maestà, grazia! - Che volete, buona donna? - La rosa rara del vostro giardino ... Per carità, Sacra Corona! Il Re si rammentò della raccomandazione della Regina in punto di morte, tornò addietro e andò a cogliere di sua mano la rosa apertasi il giorno avanti. Il Re ebbe un abbagliamento; gli parve che quella vecchina rugosa, con pochi capelli grigi, con quei vestiti stinti e a sbrendoli, si fosse improvvisamente trasfigurata in una bellissima giovane, fresca, sorridente, con folta chioma di oro ... Fu un istante. Il Re si strofinò gli occhi e vide di nuovo la vecchina, curva e cenciosa, che tentava di baciargli, per ringraziamento, la mano. E quale non fu la sua sorpresa, il giorno appresso, trovandola nella stanza del Reuccio! Il Re ne sentì gran dispetto. - Chi vi ha fatto entrare qui? - Nessuno, sono entrata da me. - Qualcuno ha dovuto aprirvi l'uscio. - Non occorreva. Io entro ed esco pei buchi delle serrature e anche a traverso i muri. - Siete una Strega o una Fata? - Strega che scioglie e lega, Fata che sta celata, Fata che scioglie e lega, Strega che sta celata! E la vecchina diè in un vivace scoppio di risa. Il Re si credette beffato e fece atto di prenderla per le spalle e cacciarla via. Ma si accorse che la vecchina teneva un dito puntato su lo stomaco del Reuccio e che questi, secondo la pressione, si agitava più o meno fortemente da diritta a manca, da manca a diritta, e qualche volta stava fermo. - Strega o Fata che siete, se guarite il Reuccio vi darò tanto oro quanto pesa. - Ve ne posso regalare tre volte tanto, Maestà! - Perdonatemi, Strega o Fata che siete. Ditemi almeno questo: che male è questo? - È male di incantagione. L'incanto è qui dentro: una specie di cipollina. La tocco col dito, ma per tirarla fuori ci vuol la freccia di Freccia-Frecciaio, temprata al rovaio, ché al mondo non c'è il paio, di Freccia-Frecciaio. - E dov'è la freccia ... - ... di Freccia-Frecciaio, temprata al rovaio, ché al mondo non c'è il paio? - Sì, dov'è? - Fate un bando, Maestà. Appena si saprà che qualcuno ha bisogno della freccia di Freccia-Frecciaio, temprata al rovaio ... - Sì, lo so - la interruppe il Re - ché al mondo non c'è il paio ... - Ebbene, giacché lo sapete, mandatelo a chiamare. E la vecchina diè in un altro più vivace scoppio di risa. Intanto essa aveva tolto il dito dallo stomaco del Reuccio e questi aveva ripreso il suo movimento di pendolo, da diritta a manca, da manca a diritta, tic-tac, tic-tac! Il Re si voltò e fece appena in tempo da vedere che la vecchina andava via pel buco della serratura. - Maestà - pregò il Reuccio. - Fate subito il bando per la freccia di Freccia-Frecciaio ... - ... temprata al rovaio, ché al mondo non c'è il paio, di Freccia-Frecciaio ... Il Re non avea potuto trattenersi di ripetere la filastrocca della vecchina, Strega o Fata che fosse. E da lì a pochi giorni, uscivano dal palazzo reale, a cavallo di cavalli bardati riccamente, i banditori con le trombe d'argento. - Bando di Sua Maestà! Sua Maestà dice: Si presenti Freccia-Frecciaio, con la freccia temprata al rovaio, ché al mondo non c'è il paio, di Freccia-Frecciaio! Diventarono uno spasso per tutto il regno. Appena fatto: pèpè! pèpè! con le trombe d'argento, la gente attendeva le prime parole del bando, e faceva il verso ai banditori: - La freccia di Freccia-Frecciaio ... E tutti: - Temprata al rovaio! ... ché al mondo ... - Non c'è il paio ... - Sì, sì ... di Freccia-Frecciaio! ... Non la finivano più. Da lì a un mese si presentarono dieci persone, armate di freccia: - Agli ordini di Sua Maestà! E ognuna di esse diceva: Il vero Freccia-Frecciaio sono io; mi metta alla prova. Bisognava legare il Reuccio a un palo, col petto scoperto. Il Freccia-Frecciaio doveva scagliare la freccia, colpire e infilzare quella certa cipollina che produceva l'incanto. Era un punto. E se sbagliava? Il vero Freccia-Frecciaio non avrebbe sbagliato. Ma chi era il vero tra quei dieci furfanti che si erano presentati? Il Re fece fare un fantoccio che rappresentava precisamente il Reuccio. Ordinò che lo legassero a un palo e con un po' di tinta :in nero segnò il punto da colpire. - Chi sbaglia avrà tagliata la testa; chi indovina guadagnerà un tesoro. Il primo che si presentò, sentito: - Chi sbaglia avrà tagliata la testa! - voltò le spalle e scappò via. Il secondo, spavaldo, si impostò su le gambe, armò l'arco, tese il braccio, prese la mira, e, tutt'a un tratto, udito: - Chi sbaglia avrà tagliata la testa! - abbassò l'arco, voltò le spalle e scappò via anche lui. Gli altri sette, visto che il Re diceva sul serio, se l'erano sgattaiolata zitti zitti. Rimaneva l'ultimo. Si avanzò lentamente, armò l'arco, prese la mira, e prima che il Re terminasse di dire: - Chi sbaglia avrà tagliata la testa! - avea colpito proprio nel centro il punto segnato col nero; la freccia rimasta infilzata tremolava per l'urto. - Ah! Questa è proprio la freccia ... - ... di Freccia-Frecciaio, temprata al rovaio, ché al mondo non c'è il palo, di Freccia-Frecciaio! Chi aveva parlato dietro le spalle del Re? Egli vide qualcosa che penetrava dal buco della serratura, qualcosa che da sottile sottile si gonfiava, si dilatava di mano in mano che si introduceva ... Era la vecchina! - Strega o Fata che siete, è questa la freccia del ... - ... Freccia-Frecciaio, temprata al rovaio, ché al mondo non c'è il palo? Sì, è questa. Allora il Reuccio fu legato a un palo, col petto scoperto; Freccia-Frecciaio tese l'arco, prese la mira e dalla ferita prodotta dalla freccia venne fuori qualcosa nero nero, viscido, puzzolente che appestava ... Era quel che aveva prodotto al Reuccio il movimento da diritta a manca, da manca a diritta, tic-tic, tic-tac, come un pendolo. Se non che, quando sciolsero il Reuccio dal palo, sembrava diventato di legno, tutto d'un pezzo; non poteva muovere braccia, né gambe, né collo, né lingua; soltanto gli occhi; e da essi si capiva che era vivo. - Ah, Strega o Fata che siete! Che tradimento mi avete fatto! Il Re si disperava, si strappava i capelli, piangeva come un bambino, vedendo il Reuccio ridotto in quel modo. - Meglio ritorni come prima! E prese in mano quella specie di cipolletta, nera nera, viscida, puzzolente, per introdurla nella ferita che ancora sanguinava. Ma ecco che il Re si mette a fare il pendolo lui, tic-tac, tic-tac, da diritta a manca, da manca a diritta, senza poter riuscire a buttar via l'oggetto fatale. - Ah, Strega ... E dava a manca. - ... o Fata che siete! E dava a diritta. All'improvviso il Reuccio cominciò ad essere scosso da una convulsione di riso. Agitava le braccia, scoteva le gambe e si vedeva la vecchina che gli faceva il solletico sotto la pianta dei piedi. Si rizzò con un balzo; nello stesso tempo il Re riuscì ad aprir il pugno, a buttar per terra la cipollina nera nera, viscida, puzzolente, e cessava - n'era tempo! - di dimenarsi; non ne poteva più! E tutto questo, perché? Perché la Regina un giorno avea trovato nel giardino un anello smarrito dalla Fata e non avea voluto restituirglielo. La Fata si era vendicata, facendo quel maleficio al Reuccio; ma ora, pentita, era venuta a riparare. Inoltre, per compenso, disse al Reuccio: - Ti darò in moglie la più bella Reginotta della terra! Bella quasi quanto me! ... Il Reuccio, udendo parlare la vecchina, stava per risponderle, sdegnato: - Grazie, grazie! Ma le parole gli rimasero in gola, vedendola diventare un'apparizione così bella che sembrava quasi luminosa! E infatti, da lì a tre anni, il Reuccio sposò la Reginotta di Spagna, che poco ci mancava non sembrasse una Fata. E il Freccia-Frecciaio, con la freccia temprata al rovaio? ... Basta, per carità! Ebbe in compenso tant'oro quanto pesava il Reuccio. Parola di Re non va indietro. Larga la via, lunga la strada, Fiaba finita, fiaba contata.

Racconti 1

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Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1877
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
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Un cane abbaia in lontananza ..." Due pagine! ... "In questo momento tu, forse, dormi. Oh, se sognassi di me!" Glielo confessai il giorno dopo: a mezzogiorno dormivo ancora, ma senza sognare. Quando amo in una certa maniera, dormo come un ghiro ... Andate via? - Sono edificata a bastanza! ... Voi avete tre o quattro mie lettere, insignificanti. Passatele pure agli archivi ... Credo che non farete cosí facilmente ridere con esse un'altra signora. - Ah! ... Voi dunque supponete ...? - Non suppongo nulla; giudico. Siete mostruoso davvero. Stavo per lasciarmi ingannare anch'io da codesta vernice di scetticismo che, forse, poteva nascondere un cuore buono e gentile ... Mi avete fatto male, molto male! ... Lo scetticismo è una malattia di cui si può guarire; ma il cinismo ... - Sono cinico? ... Io? ... - Se c'è una parola che significhi qualcosa di peggio, suggeritemela; ve la dirò. - Finalmente! ... Oh, finalmente, son riuscito a strapparvi la maschera! Ho rappresentato cosí bene la mia parte ... - La risorsa è da uomo di spirito. Però voi avete detto che sono persona di spirito anch'io, e, per conseguenza, maliziosa. - Vedete? Non mi difendo. Voglio darvi tutto il tempo di giudicarmi con calma e con imparzialità. - Addio! - Neppure a rivederci? - Ci rivedremo senza dircelo. - Sentite, Maria. Non mi fate il torto di dare importanza a uno scherzo, fatto piuttosto per mettermi all'unisono del vostro buon umore ... di testa. Da un anno ci diamo la maggior pena del mondo per mostrarci l'una all'altro proprio il rovescio di quel che siamo. È stato un continuo scambio di assalti, di motti, di frasi, nelle quali le parole non avevano per nessuno dei due il significato ordinario. Ogni puntura era una delizia; ogni morsettino una felicità ... Non lo negate ... - Io non fiato. Solamente vi avverto di risparmiarvi la pena di tanta eloquenza. Ora che fingete di parlarmi in serietà ... - Fingo! - Vi credo assai meno di quando fingevate per chiasso. Oh gli uomini! Addio! - E non potersi muovere per trattenervi! - Piove. Non ce ne siamo accorti. Siete venuto ad abitare in un deserto. Non si trova mai una carrozza da queste parti. Mandate il servitore a cercarmene una. - Potreste aspettare che spiova. Vedete? La Provvidenza manda la pioggia unicamente per prolungarmi il piacere di vedervi qui, di sentirvi parlare, e ... di rappacificarci, forse ... Sedete intanto. - Guardo se spioverà presto. - Sedete. Oramai lo so: noi ci amiamo! - Davvero? - Sí, noi ci amiamo. Ed è un peccato saperlo con certezza. Pensavo a questo vedendovi andar via ... Ne avremo per due, tre settimane, per un mese al piú, e poi ... Invece abbiamo durato quasi un anno nell'amarci inconsapevolmente. Ed è stato deliziosissimo. - Se non siete un mostro, siete talmente pervertito ... - Siamo cosí tutti, chi piú chi meno, a questi lumi di luna di raffinatezza nevrotica. Il naturale, lo spontaneo, il primitivo non ci basta piú. È troppo semplice per la nostra esperienza e per la nostra malizia ... Via! ... Amiamoci! ... Siamo sinceri almeno un momento. E cosí, se dovrete proprio partire, partirete fra due o tre settimane, fra un mese; qualche giorno prima che il nostro amore finisca. Faremo come coloro che si levano da tavola con un po' d'appetito. È igienico, dicono. - Sciocchezze ne avete detto sempre; mai però tante e tante di seguito, quante da che sto qui! - Dovreste esserne lieta. Una donna che ispira delle sciocchezze, è una donna veramente amata. - Povere donne! - Maria! ... - Avevo un triste presentimento, venendo qui. Non m'ingannavo. Perché non sono tornata addietro? Mi sarebbe rimasta l'illusione. Ho creduto a una lusinga del cuore, e ne sono punita. Meglio per me. Errore evitato, rimorso risparmiato. Ne avevo già uno: quello d'esser sul punto d'ingannare una brava persona che m'ama seriamente. - I mariti non amano; tutt'al piú, vogliono bene. - È preferibile. - Ma è un'altra cosa. - No, non vi credo, non voglio credervi. Sareste proprio perverso, se tutto ciò che dite fosse davvero quel che pensate, e di cui siete convinto. - Non posso alzarmi, altrimenti mi butterei ai vostri piedi, per farvi la mia dichiarazione in regola ... Siete cosí formaliste voi donne! Allora, probabilmente ... - No; non parlate cosí. Mi fate dispiacere ora. - Che volete? Mi veggo in una certa situazione con questa storta, inchiodato su la seggiola ...! - Soffrite molto? - Non me ne sono accorto da che voi siete in casa mia. - Se prometteste di non scherzare piú sopra un argomento tanto serio ... - Ve lo prometto. - Chi sa? Potrei venire qualch'altra volta ... - Non v'augurate, spero, che la mia storta duri eterna! - Intendetevela col vostro dottore. - Grazie. - A rivederci ... Ma buttate via tutti questi ingombri! ... Ci tenete molto, insomma? - Tanto! ... Come terrei a conservare le vostre poche lettere, se un'altra mi chiedesse quel che voi chiedete ... - Oh no, no a rivederci! ... Che tristezza! ... Addio. Addio -. Egli la seguí ansiosamente con lo sguardo, sperando non sarebbe davvero andata via. E quando la vide sparire, rimase ancora un momento con gli occhi rivolti verso l'uscio. Poi, riprendendo la occupazione interrotta: - Tornerà - disse. - La credevo piú forte. Francamente, era meglio prima. Ed ecco un'altra pratica che s'avvia per l'archivio. La vita è cosí! Mineo, agosto 1884@. 1884.

Il cappello del prete

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De Marchi, Emilio 1 occorrenze

Noi sappiamo sempre trovare un sofisma da mettere in bocca alla coscienza che abbaia... Tu, vecchio peccatore, tenti troppo la pazienza di Dio. Il castigo non si fece aspettare. Non era ancora a casa che una tremenda gragnuola ruppe e sparpagliò tutte le sue belle rose. Da quel momento gli parve che tutto andasse a male, come se il cappello del diavolo avesse portato in casa la maledizione. Di notte quell'ombra nera, che si disegnava sulla parete, e sulla quale scendeva nelle ore chiare il raggio della luna, aveva la forza di rompere il sonno e di non lasciarlo piú dormire. Non poteva piú durare cosí. A costo di farlo volare dalla finestra... E già stava quasi per eseguire il suo pensiero, quando vide sul cielo del cupolino un biglietto rotondo con una scritta, che diceva: "Filippino Mantica, cappellaio, Napoli, Mercato, 34". - Noi siamo molte volte assai fatui nella nostra presunzione - disse a Martino in sagrestia. Abbiamo tanto strologato di chi poteva essere il cappello e c'è scritto su. - C'è scritto il nome del padrone? - Non il nome del padrone, ma quello di chi l'ha fatto, col numero della bottega. Siccome il cappello è nuovo, il sor Filippino saprà a chi l'ha venduto e io purificherò la casa dalla roba degli altri. - Voi siete un giusto dell'antico testamento - disse il campanaro tutto compunto: e promise di cercare una bella scatola di legno o di cartone e di portare egli stesso il cappello alla stazione. Come avviene nei piccoli paesi, la leggenda del "cappello del diavolo" e della santità del piovano, portata fuori dall'ex-cappuccino campanaro, fece il giro delle case e delle stalle, e tutti lodavano Iddio che avesse mandato loro un pastore dell'antico testamento.

Giacomo l'idealista

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De Marchi, Emilio 2 occorrenze

. - Tutte le volte che io assicuro all'uomo una qualche superiorità, il mio cane abbaia. Ma abbi pazienza, Blitz: ancora una cartella e poi ho finito. Mentre Giacomo leggeva, e mentre l'acqua del caffè muggiva nel gamellino, sopra una fiamma a spirito in mezzo a un treppiedi di ferro, feci con l'occhio il giro delle quattro pareti di quell'umile cameretta, da dove usciva tanto orgoglio filosofico e tanta fede nella missione conquistatrice dell'umanità. Un letto con un pagliericcio imbottito di foglie secche, quattro sedie scompagnate, un vecchio trumò del settecento, pieno di libri, un tavolino zoppo di tre gambe tenuto ritto da un vecchio Rimario del Ruscelli, ecco tutto l'arredamento. A capo del letto pendeva un quadretto della Madonna del Bosco, di un gusto molto campagnuolo, circondata da un rosario a grani grossi come le noci, e da altri piccoli segni religiosi, che svelavano una mano affettuosa e forse una pia sollecitudine. Se il pensiero è il diavolo, i grani di quel rosario non erano ancor grossi abbastanza per cacciarlo via; ma Giacomo aveva troppa fede nella bontà, per togliere alla sua mamma un'illusione. Dall'imposta della finestra pendeva la borraccia, che gli aveva servito nella disgraziata campagna del 1866 nel Trentino, piccolo fasto, che, insieme al gamellino, ricordava una storia segnata di patimenti e forse di eroismi, di cui non si doveva mai parlare. Anche la vecchia chitarra pendeva attaccata a un chiodo, coperta da un dito di polvere, tra due sacchi di grano, un sacco di carbone e un arcolaio fuori uso. L'indole di Giacomo, cosí facile ad arrendersi ad ogni piccolo bene che parlasse un po' forte, non pareva nemmeno accorgersi della mediocrità e dello squallore, in cui era nato e cresciuto. Abituato fin da ragazzo ai gusti semplici e a cercare nelle reali compiacenze della meditazione il sapore squisito anche delle cose che non si possono avere, non solo non provava alcuna invidia per chi si pasce dei lauti favori della fortuna, ma il non vivere di idee parevagli la piú compassionevole sorte che potesse toccare a una creatura ragionevole. - Scarpe rotte e la testa in paradiso era il motto della sua nobiltà di spirito. Questa soddisfazione tutta interiore, come lo rendeva indifferente e spensierato nelle cose contingenti di questo basso mondo, lo rendeva altrettanto paziente nel sopportar i piccoli inconvenienti della povertà, le umili molestie e i pregiudizi de' suoi di casa, i piagnistei frequenti della mamma, che vedeva precipitare la sua casa, le fantastiche declamazioni di suo padre, che attribuiva al governo anche gli spropositi della sua ostinazione, le scontrosità di sua sorella Lisa (che, per far presto, in casa chiamavano Spaventapasseri), la povertà intellettuale di Battista, che vedeva in lui un prediletto il quale andava spesso a tavola in casa dei signori, perché gli ripugnava la polenta e il merluzzo di casa sua. - Ho bisogno che questa dissertazione sull' Idealismo sia stampata presto, perché il premio non si può ritirare se non si presenta l'opera stampata. E non mai, come in questi tempi, ho sentito il bisogno di denaro, non tanto per me, quanto per questa mia povera gente . Giacomo, mentre parlava, andava rimestando con un cucchiale il caffè bollente nel gamellino, come soleva fare in collegio Ghislieri, quando c'invitava a una discussione metafisica nella sua camera. - A mio padre, come forse avrai capito, manca il senso e l'indirizzo della vita moderna. Egli crede che negli affari basti essere galantuomini, e, quel che è peggio, immagina che gli altri siano tutti galantuomini come lui. Già da qualche anno siè lasciato trascinare in una falsa speculazione con un certo signore che abita quassú a un sito detto la Rivalta, un ex impresario che si è dato all'usura, un chiacchierone che incanta con la sua parlantina. Costui, col pretesto di un impianto d'una sega a vapore, credo che a quest'ora abbia già mangiato a mio padre una ventina di mila lire, e continui a mettere ipoteche su quel po' di terra che abbiamo al sole. Il male si è che il povero pà, per non spaventarsi, si sforza d'illudersi e, abilmente raggirato da quel furbo di professione, crede che il suo denaro abbia a fruttare domani il cinquanta per cento. Non volendo, per un senso d'orgoglio, confessare i suoi torti a persona pratica, cova i suoi pensieri dentro di sé, cerca di stordirsi colle barzellette, se la piglia cogli italiani, coll'esattore, colla ricchezza mobile, ch'egli crede causa della sua rovina. Se noi potessimo aiutarlo! ma Battista non ha che le spalle di buono, e ora si è fitto in capo di voler sposare la figlia dell'oste della Praschetta, che è stata l'amante di tutti i carabinieri di passaggio. Angiolino è un ragazzo che dovrà presto andar soldato. Ci sono io, il dotto, il sapiente, vale a dire il piú inutile. Se fosse greco, potrei dare un suggerimento; ma che vuoi che m'intenda io di mattoni, di tegole, di sega a vapore, di mutui e di ipoteche? Giacomo sorrise e cantarellò sull'aria del Crispino e la Comare: - Maledetto il mio troppo saper. Levò il gamellino dal fuoco, tolse dal trumò due chicchere che collocò sul tavolino, dopo averne rimossa la gran montagna di libri e di fogli scritti che vi stava sopra, e, sedendosi accanto a me, dopo avermi battuto famigliarmente colla mano sui ginocchi, riprese: - Ecco perché ti ho invitato, caro Edoardo, a passar qualche giorno alle Fornaci. Mio padre, che ha della simpatia per te, non avrà difficoltà ad avviare un discorso su questi benedetti suoi interessi, e tu potrai dargli un buon parere. Cerca di vedere un po' in fondo a questa birboneria della sega a vapore e delle ipoteche, e, se è possibile, di arrestare il male prima che diventi cancrena. - Lo farò volentieri. - Io ero tornato quest'anno con molti progetti, ma li metteremo in guardaroba con pepe e canfora fino a un altro anno. - Tu pensavi forse a prender moglie . Giacomo si fece subito rosso in viso, come soleva facilmente quando appena un'emozione un po' forte gli passava nel cuore. Versò il caffè nelle chicchere, tenendo delicatamente il gamellino per un'orecchietta, e, quando ebbe finita la delicata operazione, soggiunse: - Sai che io son legato da un'antica promessa . - Se non ricordo male, si chiamava Celestina questo tuo vecchio idealismo. - Vedi che non è un amore di ieri. Celestina è figlia d'una nostra povera parente, che, dopo essere stata mal maritata a uno scucito sarto di Oggiono, morí nell'estrema miseria. Il pà, col suo gran cuore, si prese la bambina, che rimase sempre con noi, ed è cresciuta con noi, come una sorella, fino all'anno scorso, quando la persuasi a entrare al servizio della contessa Magnenzio. Gli anni non sono piú quelli di prima, e in queste angustie la poverina non voleva piú restare di peso a' suoi benefattori. E poi per metter su casa non fa male l'aver un po' di quattrini in disparte. Un po' di quattrini lei, il premio dell'Istituto io, i mobili dello zio prete, che me li cede volentieri c'era abbastanza per fare in modo che il nostro ente ideale diventasse sussistente; ma anche per quest'anno non si potrà far nulla. Ieri il pà mi fece capire, che se gli potevo prestare cinquecento lire, gli avrei levata una spina dal cuore. Gli ho dato tutto quello che avevo su un libretto della Banca Popolare; e dico il vero che, se l'Istituto volesse anticiparmi i denari del premio, vorrei procurarmi questa consolazione di dire a mio padre: Prendete, è roba vostra. Sarebbe proprio una cosi grande consolazione per me, di poter rendere qualche cosa a questa povera gente, che, se coi libri si potesse far quattrini, vorrei scrivere e stampare tutto quel che mi passa qua dentro . Giacomo si toccò la fronte colla mano, e rimase un istante cogli occhi fissi alla luce della finestra. Poi lentamente, come se parlasse a sé stesso, soggiunse: - Tutte le volte che vedo mio padre sudar sotto il sole, intento a caricare e scaricare mattoni, che lo sento litigare cogli operai e coi capimastri, quando torna dai mercati rauco, spossato, abbattuto, mentre io sto qui di sopra a conciliare i nominalisti coi realisti o a sostenere il concetto dell'anima universale, provo una tale mortificazione di questo sapere che non sa far nulla . - Scusa, Giacomo, - interruppi con grave intonazione - tu lavori a sminuzzare la grammatica ai ragazzi, e ad elevare un edificio morale . - Ben, bene, lasciamola li. - soggiunse con un sorriso tra il lieto e il melanconico. - Intanto anche per quest'anno: cara Celestina addio. Quantunque si sforzasse di cantarellare sul suo patimento, una tenera commozione tremolò nella sua voce. Povero Giacomo! a questo suo amore aveva consacrato la parte migliore della giovinezza, quando la donna è per la maggior parte dei giovinotti allegri o una lieta scapestreria o una bambola divertente. Nel suo ascetismo filosofico aveva accesa una lampada davanti a una cara immagine, e in questa luce mite che emanava dal suo cuore, insieme alla sua virtú aveva potuto trattenerlo un santo rispetto per la celeste creatura, che l'amore monello piglia col vischio. Il tempo che egli aveva occupato in aspettare non era stato perduto per lui e nemmeno per la bella Celestina, se è vero che anche la donna migliori nel pensiero dell'uomo che l'adora. Ma perché l'aspettare sia bello, è necessario che non sia infinito. Se Giacomo, dunque, si doleva del suo destino non sapevo dargli torto. - Non conosco questa tua Celestina, - gli dissi compassionandolo - ma procuro di vederla co' tuoi occhi. - Per il momento non potrebbe essere collocata piú bene. Conosco casa Magnenzio fin da ragazzo, e quel che sono lo devo alla protezione di questi bravi signori. Fu per un legato di questa buona famiglia, che ho potuto avviarmi agli studi nel Seminario di Cremona e bussare alla porta della sacra teologia. Speravano di cavare da me un buon prete, e quando, per non ingannare la loro buona fede, ho dovuto confessare che non ne sentivo la vocazione, non mi tolsero per questo la loro benevolenza. La contessa Cristina è una donna d'animo e di coltura superiore, che sa unire a una grande delicatezza un sentimento elevato del dovere. In casa sua Celestina non può che migliorare. - E c'è anche una contessina? - Donna Enrichetta è una bambina alta, bionda, semplice come una figura di frate Angelico. A proposito di lei, mi fai ricordare che le ho promesso un sonetto per i suoi quindici anni. Tu le vedrai stamattina alla messa, perché per tua norma al Ronchetto e alle Fornaci si è tutti buoni cristiani. - Celestina vale una messa, dirò come Enrico quarto.

Che Blitz, il vecchio scettico, abbia ragione quando abbaia?". Era la metà di settembre. Mauro Lanzavecchia tornava sul far della notte, dopo una giornata calda e afosa, dall'aver visto il suo terzo avvocato a Oggiono, colla brutta notizia in corpo che il tribunale di Lecco, sull'istanza dei piú ostinati creditori, aveva fatto dichiarare il fallimento. Questo era il bel risultato di una lunga e accanita battaglia che da due anni a questa parte sosteneva egli solo contro la mala fortuna, contro gli imbroglioni, contro il governo, contro l'agente delle tasse, contro ogni sorta d'angherie e di strazi. Era partito a piedi da Oggiono per il bisogno di rompere in qualche gran sforzo la tremenda irritazione che il brutto avviso aveva prodotto nel suo sangue già avvelenato e guasto. E per darsi forza, e piú ancora per prepararsi un coraggio fittizio che l'aiutasse a portar a casa la sua condanna di morte, s'era fermato lungo la strada alla soglia di parecchie osterie a bere qualche tazzetta del solito scongiurato meridionale, a far delle celie amare cogli osti e cogli avventori contro questa perla di governo d'italiani, che prima ruba ai galantuomini e poi, se non può scannarli, li mette in prigione. Quando giunse in vista del Ronchetto, che dominava col suo palazzone come una macchia biancastra sul fondo oscuro del poggio, si fermò un respiro in mezzo alla strada, si appoggiò colle due mani sul pomo del bastone, fermo coi piedi nella polvere a contare le ore che scoccavano alla Madonna del Bosco. - Sette, otto, nove, nove e mezzo - contò, movendo un dito dopo l'altro come se sonasse il cembalo. A quest'ora a casa sua dormivano già. Che faceva lí nel buio, nel deserto di una strada? Se invece di voltar verso le Fornaci avesse preso il sentiero che scende all'Adda? Or sí or no, a seconda dei voli del vento, s'egli stava a sentire, saliva il rumore stridulo dei fiume a dirgli qualche cosa. "Cani, cani, cani" diceva mentalmente con forza; dopo tregenerazioni di galantuomini, dopo quasi ottant'anni di onesto e indefesso lavoro, tràcchete, i Lanzavecchia erano costretti a dichiarare il loro fallimento, a lasciar portar via le fornaci, la terra, la casa, vale a dire costretti a cercar l'elemosina, a mangiare il pane degli altri, a patire il disonore come se si trattasse d'una stirpaccia di scongiurati italiani. Insieme alla brutta parola di fallimento l'avvocato di Oggiono aveva fatto capire per giunta che il tribunale avrebbe cercato i libri. Che libri? I Lanzavecchia avevano scritto su tutti i muri: "Poveri, ma onesti ." questo sí; ma era inutile cercar loro dei libri. - Sarebbe bella, - disse sospirando e fermandosi un'altra volta presso il muro del camposanto, su cui batteva il chiarore d'un pezzo di luna avvolta in una nuvolaglia piena di guizzi di caldo, - sarebbe bella che si dovesse, per far presto, andare in galera. E come se all'idea sola di questo curioso accidente si svegliasse in lui la voglia di ridere, rise un pezzo di sé stesso, dondolandosi sulle gambe stracche, facendosi vento al viso infiammato col cappello. In quel camposanto lí vicino era sepolto Galdino Lanzavecchia suo padre, che portava sul capo una croce di sasso con su scritto in parole di bronzo: "Negoziante probo ed onesto .". Vicino a questa ce n'era un'altra di croce, d'un sasso vecchio vecchio con su scritto in parole, sbiadite: "Nicodemo Lanzavecchia uomo operoso e integerrimo .". Sarebbe stata bella, gamba d'un cane, che i suoi figliuoli dovessero scrivere sulla terza: "Mauro Lanzavecchia, fallito come un governo" .! Soltanto a pensarle queste cose, sudava nella freschezza che la valle mandava su; ma egli aveva la fornace di dentro. Era un calore che, gli abbruciava le viscere, che tutta l'acqua dell'Adda non sarebbe bastata a spegnere. Che gli restava di fare? annegarsi? attaccarsi a una trave della stalla prima che il governo mandasse i carabinieri ad arrestarlo? - O povero me! o me disperato per sempre! che cosa ho io fatto di male in tutta la mia vita? poveri morti, ditelo voi, se non ho sempre lavorato con giustizia e con carità. E doveva proprio toccare a me questa maledizione, a me che ho salvato cento volte gli altri, e non solo a parole, ma coi fatti, coi fatti, coi fatti . Un passo dopo l'altro, guidato dalla pratica che fa trovare all'orbo la strada della dispensa, venne fin presso le case del paese, fin all'osteria della Fraschetta, che fa quasi da sentinella sull'incontro delle strade. Un chiarore caldo traspariva attraverso le tendine rosse della porta, da cui usciva anche un brontolare spesso di voci rotto dai colpi di nocca che i giocatori lasciavano cadere sul banco. Mauro montò sul primo dei tre scalini che mettono alla bottega e cercò di ficcar l'occhio dentro per vedere chi c'era. Attraverso agli interstizi, che lasciavano le tende flaccide e molli, vide la solita compagnia, cioè il mugnaio del Lavello, il sarto, il magnano idraulico, il beccamorto, raccolti sulle ultime tre carte di una partita a tresette, a cui assistevano, fumando un'oncia di pipa, due o tre villani scamiciati. Una lampada tonda a petrolio versava dal palco su quel gruppo di faccie indurite dall'attenzione una luce cruda e lividastra che sbiadiva sul fustagno sporco, sulle rozze camicie, lasciando ombre nere negli angoli piú segreti della stanza. Mauro cercò se c'era in bottega Francesco, l'oste, il piú grosso de' suoi creditori. Avaro come una formica, arido come l'esca, non era uomo da regalare il suo a nessuno, ma il fornaciaio sperava che in considerazione del pattuito matrimonio fra Battista e la Fiorenza, trattandosi di mescolare il sangue e i denari, l'oste avesse ad accettare una combinazione, che permettesse a un povero uomo di vivere gli ultimi giorni in casa sua e di morire nel suo letto. Forse era conveniente parlargliene subito e strappargli di bocca una promessa prima che la notizia del dichiarato fallimento gli arrivasse all'orecchio. Esitò un momento prima d'entrare, perché, tra i soliti avventori seduti al banco, c'era la lingua maledica del mugnaio di Lavello, al quale Mauro si era creduto in obbligo di dare in piú d'un'occasione, qualche lezione gratuita di educazione e di saper vivere. Gli pareva già di sentirne i commenti: - Come? (avrebbe detto il mugnaio) un sapientone come Mauro Lanzavecchia ha fatto crac? non è lui quello che inventò la polvere di pimpirimpara e la trivella per succhiellare i maccheroni? non aveva le mani piene di consigli per tutti gl'ignoranti, che facevan diverso da quello che faceva lui? non ha in casa un avvocato che stordisce l'Europa e il mondo intero colla profondità del suo immenso sapere? Piú d'una volta e forse piú di quel che era necessario, il fornaciaio aveva vantato all'osteria davanti a quei quattro o cinque zoticoni il talento eccezionale di suo figlio Giacomo, un filosofo di primo ordine, capace di mettere in un sacco tutti i professori di Pavia. Quando l'Istituto veneto ebbe assegnato il premio alla dissertazione, Mauro era venuto appositamente alla Fraschetta colla Gazzetta di Venezia in mano, l'aveva distesa sul banco, perché leggessero, se sapevano leggere, quel che a Venezia si stampava in intuito di un Lanzavecchia delle Fornaci; e picchiando col dito sulle parole, nell'effusione dell'orgoglio paterno, aveva sostenuto che l'Italia avrebbe avuto un altro Cesare Cantú, o qualche cosa di piú rotondo ancora. Nulla piú offende l'orgoglio degli ignoranti quanto il trionfo d'un confinante, nel quale, come avviene anche in politica e nella stessa filosofia, si suol vedere un pericoloso competitore, e come tale, il primo e il piú vicino dei nostri nemici. Si aggiunga che l'orgoglio umano è cosi fatto che ogni lode data agli altri par sempre qualche cosa che non viene data a noi, o che ci vien sottratta, o per lo meno che ci vien ritardata con ingiustizia e di cui dobbiamo un giorno o l'altro rifarci con un proporzionale risarcimento. Era naturale adunque che gli ignoranti e gli invidiosi ridessero ora colla bocca larga del gran talento di casa Lanzavecchia e si pigliassero sulle disgrazie di Mauro, non solo il capitale, ma anche gli interessi delle cambiali ch'egli aveva scontato in anticipazione. Sarebbe troppo infelice la vita degli sciocchi, se Dio non riservasse loro di tanto in tanto di queste consolazioni. Questi riflessi, che si presentarono in nube, quasi di scorcio alla mente di Mauro, lo trattennero un poco sulla soglia dell'osteria e forse se ne sarebbe andato via senz'altro, se uno di quei contadini che sedevano nell'osteria, aprendo improvvisamente la porta, non l'avesse riconosciuto e salutato a voce alta. Egli si trovò cosí nella bottega portato da una volontà piú forte del suo orgoglio. Girò gli occhi intorno e visto Francesco che sonnecchiava dietro una tavola, colle spalle appoggiate al muro e le braccia incrociate, il capo cascante, la berretta sugli occhi, passò in mezzo al frastuono dei giuocatori, che commentavano rumorosamente la partita, e, sedutosi in faccia all'oste, lo toccò, dolcemente nel gomito. - Siete voi? - fece l'oste, dopo aver aperti dogliosamente gli occhi. - Ebbene? che vi ha detto l'avvocato? - La va male, Cecco, - disse il fornaciaio con voce coperta da un pesante affanno. - Cioè? - tornò a domandare l'amico, senza distaccare le spalle dal muro, al quale pareva incollato, socchiudendo di nuovo gli occhi impiombati dal sonno. - Cioè, - disse Mauro, che vedendo passare il piccolo dell'osteria, gridò: - Tu, portami un mezzo litro del tuo scongiurato meridionale. - Poi riprese sottovoce: - La va da cani, Cecco, ma non è detta ancora l'ultima parola in quest'Africa maledetta. Solamente voi, dovete procurarmi altre cinque mila lire. - Non vi conviene, Mauro - disse l'oste colla voce fredda con cui soleva tirar le somme agli avventori. E come se non avesse più nulla a dire, chiuse la bocca e tornò a lasciar cascare la testa - Voi non sapete quel che c'è in aria, - disse Mauro, che per darsi un po' di forza riempí la tazzetta col vino che il ragazzo mise davanti; e dopo averla trangugiata tutta d'un fiato: - Son quarant'anni che faccio il fornaciaio e sfido a trovare un mattone piú sincero del mio. - È il vostro torto di lavorar troppo bene - osservò l'oste che sapeva a memoria la sua filosofia, aprendo un poco gli occhi rimpiccioliti di fronte alla luce tagliente della lucerna. - Comincio ad accorgermi d'essere sempre stato una bestia, - disse Mauro, alzando alquanto la voce e lasciando cadere con forza la tazzetta sul piatto. - Non bisogna mai dirlo, Mauro, - saltò su dal banco del giuoco il mugnaio, che parlò senza togliere gli occhi dal ventaglio delle sue dieci carte sporche . - Sí, il mio torto è di non aver saputo fare l'italiano a tempo. - replicò vigorosamente l'altro, facendo un mezzo giro sulla panca e alzando in aria una mano. Poi stendendo l'altra a stringere con uno slancio d'amicizia il polso dell'oste:- Potete dire che i Lanzavecchia abbiano mai venduto lucciole per lanterne? mio padre Galdino, mio nonno Nicodemo . - Altri tempi - fu presto a interrompere l'oste, un uomo piuttosto indifferente per i grandi principi della giustizia. - Una volta, - soggiunse poi con un sorriso secco, che stentò a muoversi sulla sua bocca asciutta priva di labbra - una volta il vino lo si faceva anche coll'uva. Mauro sentí il veleno dell'argomento e battendo due volte la tazzetta sul banco: - Lo so - disse - che in un paese di ladri chi non ruba mangia il suo pane a tradimento. Voi però non mi abbandonerete, Francesco. - Io faccio l'oste, vedete - osservò il compare, indicando con un piccolo gesto i suoi avventori, il banco, la lucerna. E tornò a chiudere gli occhietti cenericci. - Volevo dire che questi nostri figliuoli devono maritarsi a San Martino. - Ecco! - riprese l'oste, mandando avanti una sua favorita particella dimostrativa, colla quale soleva, come con una lanterna cieca, illuminare le idee degli altri e fare il buio sulle proprie. Anch'io dovrò fare i miei conti. - Non li avete già fatti mille volte questi benedetti conti? - notò con un tono di rancore il fornaciaio. - Non si finisce mai di fare i conti. Se con poco si fa poco, che cosa volete che si faccia con niente? - Volete dire, se capisco il latino, che poiché io sono un uomo fallito, mi si può, parlando con poco rispetto . L'oste lo pregò con un gesto frettoloso della mano di non gridar troppo forte. Ma l'altro, che attingeva l'eloquenza dalla tazzetta: - Ho capito, - seguitò con piú calore - volete dire che poiché m'è entrata la disgrazia in casa, la vostra Fiorenza . - Non gridate sui tetti i vostri interessi, benedetto uomo - tornò a raccomandare vivamente il buon Francesco della Fraschetta, distaccando la schiena dal muro, rianimando gli occhi sotto la tesa della berretta, che faceva un color solo col colore scialbo del suo viso teso, liscio, immobile come un viso di legno. - Sí, ora mi si può, con licenza parlando, sputare addosso, - seguitò il fornaciaio con voce scalmanata. E dopo aver sogghignato il tempo necessario per inghiottire il fiotto amaro di saliva che gli inondava la bocca: - Allora - riprese, porgendo il fiaschetto vuoto al ragazzo - portamene un altro di questo tuo scongiurato veleno. E a voi, eccovi i vostri soldi. Cosí dicendo, stese una gamba tra la tavola e la panca, infilò una delle sue grosse mani nella tasca dei calzoni, ne trasse una manata di soldi e, fattone un pugnetto, lo batté sul banco, sotto il naso dell'oste, che, avvezzo a queste ed altre mimiche, non dette segno di meraviglia. - Cosí non direte che Mauro Lanzavecchia abbia bevuta una goccia del vostro vino senza pagare. E in quanto alla vostra Fiorenza, se vi piace sentire, vi dirò che un Lanzavecchia si degnava fin troppo di bere a questo boccale. Parole grosse, cattive, superbe, che, una volta uscite, lasciarono il buco fatto per tutte le altre che vollero tener dietro. L'orgoglio di tre generazioni di galantuomini, infiammato dalle molte tazzette di vino bevuto nella giornata, non troppo d'accordo tra loro, e mal trattenuto da una volontà già sconnessa per troppi colpi, traboccò in epifonèmi e in dichiarazioni che avrebbero fatto onore a un principe del sangue, non che a un fabbricatore di tegole; ma in quel momento, in quel sito, sulla bocca d'un uomo cosí scassinato nel credito, non ebbero la forza di far tremare nessuno. I giocatori, al diavolío che faceva il Bismarck delle Fornaci, dissero, parlando sommessamente tra loro: - Pare che laggiú si guasti la parentela. - È la tazzetta che suona - osservò il magnano. - La superbia non paga debiti - notò con burbanza il mugnaio del Lavello. - Staremo a vedere quel che stamperanno le gazzette questa volta. Mauro poco prima che sonassero le dieci e mezzo si alzò, facendo puntello coi pugni sulla tavola, e con passo che voleva essere da bersagliere, traversò lo spazio libero dell'osteria, avviandosi alla porta senza salutare nessuno. Prima però di chiudere l'uscio dietro di sé, parendogli di non aver detta l'ultima ragione o che tutti quei bravi signori avessero bisogno d'una soddisfazione, si voltò verso di loro, che aspettavano cogli occhi aperti, mosse la mano allargata a guisa d'un ventaglio, la girò nell'aria, come se la sfregasse su un muro, e quando vide tutte le faccie immobili e tutte le bocche attente, mise fuori con misurata intenzione la morale solenne della favola: - Vicende umane, oggi la lepre, domani il cane! E si tirò dietro l'uscio, mentre un rumoroso scoppio di risa accoglieva questa sentenza nova novissima, non mai udita, non mai stampata sulle gazzette.

MEMORIE DEL PRESBITERIO SCENE DI PROVINCIA

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Praga, Emilio 1 occorrenze
  • 1881
  • F. CASANOVA. LIBRAIO - EDITORE
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Passano alcuni minuti di quiete profonda, - un cane abbaia e mugola. Due contadini si avvicinano a passo a passo. Parlano fra loro a monosillabi, sembrano commossi, spaventati. Uno dice: - Tu hai visto. L'altro risponde: - Che! E tu? - Neppure. - Che si dice? - Che l'hanno ammazzato. - Che sia morto? - Per bacco! dieci coltellate. - Tredici .... - L'hai contate? - Ohibò! - E già non lo vo' a ripetere. - Me l'ha detto lo speziale. Sono passati; vanno a precipizio giù per la scesa. Un altro passo. Questo si ferma alla nostra porta. Una voce chiede nel cortile: - C'è in casa il dottor di Zugliano? Mansueta risponde di sì. L'altro aggiunge qualcosa ed ella dà in esclamazioni. Alla sua voce accorrono il curato e il dottore: parlano tutti insieme. Scendo anch'io. Appena mi vede, Mansueta alza le braccia: - Oh che disgrazia, oh che disgrazia, il sindaco .... - Andiamo, dove l'hanno portato? domandò il signor de Emma. - Nella farmacia, risponde il montanaro. E s'avvia. Li seguo. Per istrada il buon uomo conta al dottore che Beppe, tornato improvvisamente in paese, ha appostato il sindaco che all'ora consueta si recava dallo speziale, l'ha forato da tutte le parti. Accorse alle grida lo speziale col suo garzone, lo trovarono che trascinava pei piedi il moribondo. Ci vollero tutti gli sforzi per levarglielo dalle mani. Egli era furibondo, gridava: - l'ho finito io, - e vo' buttarlo nell'acqua: non bisogna sotterrarlo in terra di cristiani, vicino alla Gina! Il dottore, a cui certo premeva assai più la salute del feritore che non la vita del ferito, s'informò di Beppe. Il montanaro rispose ch'era scomparso. Nessuno aveva tentato di trattenerlo. Tutto il paese era per lui: si sapeva bene, s'egli aveva menato era che gli avevano fatto il solletico nelle mani. Naturale! levate il sentimento ad un uomo e diventa lupo. Era giustizia greggia, ma giustizia giusta. Potei accorgermi quanto fosse odiato a Sulzena il signor Angelo: dopo il primo momento di allarmi il villaggio era tornato silenzioso. Non era indifferenza, ma noncuranza volontaria e ostile. Notai che molte finestre erano socchiuse, altre semiaperte; ma non vidi una sola porta aperta. Entrammo nella farmacia. Il ferito era disteso sopra un pagliericcio: coperto di cenci insanguinati: il capo chino sulla spalla sinistra, la bocca intrisa di bava nerastra. Il dottore De Emma s'inginocchiò e appressò l'orecchio al cuore del giacente. Batteva ancora. Le donne dello speziale immobili assistevano con glaciale curiosità alla visita, e guardavano il ferito come se fosse stato un sacco di noci. Il signor Bazzetta ritto in mezzo a un mucchio di bende, di fiale, enumerava al medico le operazioni da lui praticate, e vi aggiungeva coll'usata garrulità le sue diagnosi e le sue prognosi. Il dottore ordinò a tre omaccioni, dipendenti del De Boni, che l'avevano soccorso, di sollevarlo nel pagliericcio; e lo fece recare a casa. Ci andai anch'io. Bisognò picchiare un quarto d'ora di seguito perchè la fantesca si decidesse ad aprirci. Deposto che fu sul letto, il dottore esaminò attentamente il ferito: aveva il petto, la schiena, il collo tempestati di trafitture larghe e profonde. Viveva ancora, ma per morire in breve. Appena gli astanti intesero la gravità del suo stato, sfumarono tutti. Anche la serva, donnaccia ributtante colla quale, dicevasi, il De Boni viveva maritalmente, disperando della ulteriore liberalità del morente, fatto fagotto delle robe sue o non sue, se n'andò senza neppur volgergli uno sguardo. Rimanemmo noi due col signor Bazzetta che, pratico della casa, aiutò il dottore a trovare le cose necessarie alla medicazione. Finito ch'egli ebbe ci sedemmo a quel desolato capezzale. Lo spettacolo di quella triste esistenza, che si spegneva in così profondo abbandono, in così cupa solitudine di affetti, era cosa da stringere il cuore. E nella lugubre solennità di quel momento mi ripugnava la calma del dottore: non potevo levarmi dalla testa, che, unico al mondo, egli avesse dei torti verso quello sciagurato. Il farmacista non poteva rimaner silenzioso un pezzo: la sua cinica loquacità era ributtante. Egli discorreva delle cose più indifferenti, narrava storielle come fossimo a veglia dinanzi a un tavolo d'osteria: - e, se volgeva la sua attenzione al moribondo, era per biasimarne la condotta, il carattere e sopratutto la caparbietà nel non dar ascolto ai suoi vantati consigli. La sua voce ineguale, garrula era accompagnata dal rantolo cupo del morente e dal lontano rambazzo dello Strona. M'ero messo accanto alla finestra e guardavo giù nella valle, contemplavo la sublime, schiacciante indifferenza della natura. Il sentiero che avevo percorso poche ore prima allacciava il monte dirimpetto come una cintura biancastra. Mi vennero a mente le strane immagini che avevano preconizzato alla mia fantasia il dramma terribile alla cui catastrofe in quel punto assistevo. L'agonia del signor De Boni fu più lunga e più travagliosa di quel che il dottore avesse previsto. La vitalità tenace di quella tempra eccezionale tentò un ultimo sforzo disperato. Verso la mezzanotte si dichiarò la riazione con una febbre violenta. Il respiro si fe' più forte e più frequente; un tremito convulso squassò le membra del moribondo. Poco dopo cominciò il delirio. La ferita del collo e la tumidezza da essa prodotta rendeva quasi inintelligibile quel ch'egli diceva. Erano, per quel che ho potuto comprendere, bestemmie, imprecazioni, a cui si mescolava di frequente il nome spregiativo di «chierica». Senza dubbio voleva designare il curato. L'infelice minacciava il suo avversario come se possedesse ancora tutte le forze della sua salute e della sua influenza. La crisi durò tutta la notte. In quel mezzo capitò don Luigi. Per lui le persecuzioni sofferte non erano un motivo sufficiente per credersi dispensato dal prestare i suoi caritatevoli uffici verso un suo parrocchiano. Il sant'uomo entrò nella camera senz'ombra di ostentazione, dimessamente, col contegno di chi compie un doloroso dovere. Il dottore non gli permise di accostarsi al letto. Senza dar retta alle obbiezioni insipide dello speziale che annusava con ingorda ansietà lo spettacolo di uno scandalo, gli fe' capire che la sua visita non era opportuna. Il sindaco continuava nei suoi farnetici. Don Luigi potè intendere alcune delle sue parole: una crucciosa, una sincera afflizione si dipinse sul suo volto. S'arrese alle rimostranze del dottore ed uscì piangendo. Furono queste le sole lagrime che vidi intorno a quel letto. Venne in vece sua don Sebastiano. Amministrò all'inferno l'estrema unzione, brontolando frettoloso fra i denti le preghiere rituali. Poi spogliò il rocchetto, la stola e chiese al dottore se sarebbe stato possibile il confessare il moribondo. Il signor De Emma disse che non poteva dir nulla con certezza: se voleva aspettare, verso l'alba, la febbre sarebbe scemata oppure .... A questa reticenza il prete soggiunse duramente: - Va bene. E sedette. Era un'indifferenza di più. Tutto ciò era brutto, mi irritava. Uscii. Cominciava il crepuscolo, l'ora preferita dell'angelo della morte. Rompevano il silenzio dei belati che sembravano lamenti. Gli alberi si agitavano alla brezza mattinale come rabbrividissero e gocciolavano lagrime di rugiada. Un gallo cantava colla sicumera crudele di un diacono che intona le esequie. Baccio suonava l'angelus, e insieme l'agonia del sindaco. Poi la scena mutava rapidamente: al funereo barlume sottentrava l'incarnato dell'aurora, il paesaggio usciva dal grigio lenzuolo, salendo a poco a poco la gamma dei suoi colori: il giorno usciva dai limbi misteriosi dell'alba. Io aspiravo con voluttà l'aria vivace; assaporavo con delizioso egoismo le pulsazioni possenti della vita. Un rumore misurato di passi mi riscosse dalla estatica contemplazione. Sbucavano di dietro il muro della chiesa quattro carabinieri condotti da un brigadiere, un'atletica figura di savoiardo. Un montanaro di Sulzena li accompagnava. Il signor Bazzetta aveva colta con premura l'occasione di esercitare le sue funzioni di assessore. Egli aveva mandato avviso alla stazione di Mirasco. I cinque soldati sostarono un minuto sulla piazzetta. Poi il brigadiere mi si accostò e mi chiese se sapevo notizie del feritore. Risposi in buona fede che credevo avesse lasciato il paese. - È probabile, soggiunse, però bisogna compiere le formalità. E volto alla guida che l'aveva accompagnato: - Alla casa di Giuseppe Rivella, andiamo. Mi salutò e s'avviò coi suoi uomini. Tenni loro dietro. Eravamo tutti convinti che la ricerca intrapresa dal brigadiere fosse una pura formalità. Tuttavia egli per quella puntualità allobroga che nelle faccende quotidiane rado fallisce, essendo il mondo routinier più di quanto lo si creda, dispose le cose come se avesse a far una cosa seria; e seria era perchè doverosa. Per ordine suo, due uscirono dalla strada e vennero ad appostarsi dalla parte degli orti. Egli cogli altri due si avanzò per la strada del villaggio e si presentò alla porta della casa. Era socchiusa. Il brigadiere lasciò ancora uno di guardia alla soglia e vi entrò. Io osservavo dalla strada questa manovra e s'era fatto un crocchio di gente intorno a me; tutti erano del mio avviso. Chissà dove poteva essere a quell'ora il povero Beppe! Ma era appena entrato il brigadiere, che intendemmo il comando ed un alterco. Accorremmo. Beppe era in casa! Ritto in capo alla scala, coll'aria sconvolta, l'occhio smarrito e minaccioso, spianava una carabina di custode in faccia agli agenti della forza publica gridando: - Indietro, indietro. Il brigadiere s'era fermato al primo gradino e, senza punto sgomentarsi, coll'aria di chi ha da far con un ragazzo, dicevo risoluto: - Giovinetto, giudizio! Abbassate quell'arma e venite con noi. - Vengo, ma ad un patto. - Ma che patto! - Vo' sapere se colui è morto e vo' vedere il cadavere. - Andiamo, andiamo, sclamò seccato il brigadiere e si moveva. Poteva nascere disgrazia. Mi lanciai e lo trattenni. - Lasciate ch'io gli parli, dissi. E fattomi innanzi: - Beppe, volete darmi retta a me? Mi ravvisò, e togliendosi con moto istintivo la berretta: - Sì, signor pittore. - Ebbene, obbedite al brigadiere, sarà pel vostro meglio, - e la giustizia terrà conto dei vostri dolori. - Signor pittore, ditemi che il sindaco è morto ed io vengo dove vogliono. Ci teneva alla sua vendetta. - Il sindaco non è morto ma non tarderà ad esserlo - Sicuro? - Come son sicuro che stassera tramonterà il sole. Il suo volto balenò di una gioia selvaggia. Il brigadiere, che in questo momento era salito, lo disarmò e lo consegnò a' suoi uomini, che gli misero le manette. Egli li lasciò fare; pareva istupidito. Prima che lo menassero io gli presi una delle sue mani legate e gliela strinsi senza ripugnanza per l'atto di cui s'era macchiata. - Coraggio, gli dissi, i vostri amici si ricorderanno di voi. Egli mi fe' un sorriso ebete e chinò il capo. Lo trassero alla casa comunale, dove fu per il momento rinchiuso.

Storie naturali

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Levi, Primo 1 occorrenze

Abbaia un cane lontano. Passi sulla ghiaia. Una finestra si apre. Passi sul pavimento di legno che scricchiola sempre più vicino. Si apre il portello del frigo. BALDUR (sottovoce) Patricia, sono io! PATRICIA (voce confusa ed attutita) Tmglimrm lm mvolmcrm! BALDUR Coooooome? PATRICIA (un po' più distintamente) Tagliare l' involucro! Rumore del taglio. BALDUR Ecco fatto. E adesso? Che cosa debbo fare? Lei mi deve perdonare, ma non sono pratico, sa, è la prima volta che mi capita .... PATRICIA Oh, il più è fatto, adesso me la cavo da sola. Mi dia solo una mano per uscire di qui dentro. Passi. "Piano", "Sst", "Da questa parte". Finestra. Passi sulla ghiaia. Lo sportello dell' auto. Baldur accende il motore. BALDUR Siamo fuori, Patricia. Fuori dal gelo, fuori dall' incubo. Mi pare di sognare: da due ore vivo in un sogno. Ho paura di svegliarmi. PATRICIA (freddamente) Ha accompagnato a casa la sua fidanzata? BALDUR Chi, Ilse? L' ho accompagnata, sì. Mi sono congedato da lei. PATRICIA Che dice, congedato? Definitivamente? BALDUR Sì, non è stato difficile come temevo, solo una piccola scenata. Non ha neppure pianto. Pausa, l' auto è in moto. PATRICIA Giovanotto, non mi giudichi male. Mi pare che qui sia giunto il momento di una spiegazione. Lei mi deve capire: in qualche modo dovevo pur uscirne. BALDUR ... e si trattava solo di questo? Di uscirne? PATRICIA Solo di questo. Di uscire dal frigo e di uscire da casa Tho5rl. Baldur, sento che le devo una confessione. BALDUR Una confessione è poco. PATRICIA Altro non le posso dare; e non è neppure una bella confessione. Sono veramente stanca: gelo e sgelo, gelo e sgelo, a lungo andare è faticoso. Poi c' è dell' altro. BALDUR Altro? PATRICIA Altro, sì. Le visite di lui, di notte. A trentatré gradi, appena tiepida, che non potevo difendermi in nessun modo. E siccome io stavo zitta, per forza! lui magari si immaginava .... BALDUR Povera cara, quanto deve aver sofferto! PATRICIA Una vera seccatura, lei non ne ha un' idea. Una noia da non dirsi. Rumore dell' auto, che si allontana. LOTTE ... Così finisce questa storia. Io qualcosa avevo capito, e quella notte avevo sentito anche degli strani rumori. Ma sono stata zitta: perché avrei dovuto dare l' allarme? Mi pare che così sia meglio per tutti. Baldur, poveretto, mi ha raccontato ogni cosa: pare che Patricia, oltre a tutto, gli abbia anche chiesto dei quattrini, per andare non so dove, a ritrovare un suo coetaneo che sta in America; in frigo anche lui, naturalmente. Lui, Baldur, che si riconcilii o no con Ilse, non importa poi gran cosa a nessuno, neppure a Ilse medesima. Il frigo, lo abbiamo venduto. Quanto a Peter, vedremo.

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