Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Nanà a Milano

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Arrighi, Cletto 1 occorrenze

Da madre natura ella pareva creata indubbiamente e mollemente lasciva; i suoi occhi e le sue rotondità troppo chiaramente parlavano; non si poteva pigliar abbaglio. Quel giorno, dopo tanto erotico digiuno, ella sarebbe stata in gran vena di pazzie; e se Filippo avesse saputo fare, ella sarebbe tornata sua amante d'un giorno, con entusiasmo, malgrado la manifesta arsura di lui. Povero Filippo Marliani! Egli non s'accorse di essere un uomo perduto. Il presentimento non gli disse che fra il suo suscitato ardentissimo desiderio e la pur evidente condiscenza di Nanà, due elementi che sarebbero stati lì lì per intendersi tanto bene, si era elevato un ostacolo insormontabile nella mente e per ciò nei sensi di lei: il sentimento del ridicolo. Gli è in questo senso che i Francesi dicono che il ridicolo uccide. Egli non vedeva in quel punto che la difficoltà di rompere di nuovo il ghiaccio. Ebbe una sciagurata ispirazione. Si mosse verso l'uscio. - Che fai? - gli domandò Nanà. - Chiudo l'uscio - rispose Filippo con un sorriso tra l'ebete, il compiacente e il fatuo. - A chiave? - Sicuro a chiave. - Non voglio. - Perchè? - Perchè m'hanno veduta entrare e non voglio si dica che fui chiusa dentro a chiave con te. E poi del resto sai, debbo andarmene subito. - Che cosa sei venuta qui a fare allora se vuoi andartene subito? - Oh bella! Prima per domandarti un parere per un'idea che m'è venuta, cioè per una proposta che mi fu fatta da un impresario, che vorrebbe ch'io diventassi artista... poi per raccomandarti di non parlar di me a nessuno... poi.... - Poi che cosa? - Poi per vedere se tu mi potevi prestare un migliaio di franchi. Filippo si sentì come fulminato. Ma non si tradì. - E se io potessi prestartelo il migliaio di franchi che faresti tu per me? disse con voce leggermente tremula di emozione. - Nulla... cioè ti ringrazierei. - In che modo? - Colla bocca. - Null'altro? - Null'altro. - Perchè? - Perchè - rispose Nanà - non vorrei che tu credessi ch'io voglia ripagarti del favore che mi faresti. - Neppur un bacio? - No. Un mio bacio o non deve valer denaro o deve valere dei milioni. - Poumh? Filippo dalle sortite di Nanà era continuamente disorientato. Quello spirito pieno d'ordine, abitudinario, limitato e timido non capiva le eccentricità di Nanà. Lo facevano ammutolire. Allora quello sventurato, che teneva nel portamonete il danaro, col quale doveva pagare nelle ventiquattro ore il suo debito di giuoco della notte prima, trasse di tasca il portamonete e fece atto di cavarne il biglietto da mille. - No - disse Nanà alzando la mano verso di lui. - Ora non li voglio più. - Perchè non li vuoi più? - domandò con crescente esterefazione Filippo. - Sei sfortunato oggi - sclamò Nanà sorgendo in piedi e ridendo un poco sforzata. - Se tu mi avessi dati que' mille franchi senza dir parola, se invece di pensare al compenso tu mi avessi fatto vedere che non pensavi ad altro che a rendermi un servizio, puoi star sicuro che.... Capisci bene; tu mi conosci già! Così me ne vado. Addio. Filippo mise in tasca il portamonete. Lo sguardo con cui Nanà accompagnò quella ritirata nelle tasche, mentre stava per volgere le spalle al giovane, fu una piccola iliade di ironia e di disprezzo. - Nanà, fermati - le disse Filippo prendendole una mano. Ella si volse. - Io non ci capisco un bel nulla, di questi tuoi capricci. - Lo so bene che non capisci nulla. Se tu li avessi capiti, non ci saremmo annoiati l'uno dell'altro in soli otto giorni... ti ricordi, a Parigi. Oppure a quest'ora io sarei già stata tua di nuovo. - Ammetterai però d'esser un grande originale! - Sarà benissimo! Filippo le recinse la vita colle braccia, e Nanà le lasciò fare. La mossa, il gesto del giovane erano stati fatti abbastanza bene, e ciò era bastato perchè Nanà non se ne fosse schermita. Filippo curvò la testa sulla guancia di Nanà, la baciò ardentemente poi le disse in orecchio: - Che cosa dovrei fare per ridiventarti simpatico? Nanà ruppe a ridere. Filippo, abbassando lo sguardo sul seno turgido e semicoperto della voluttuosa creatura si sentì nelle vene un fenomeno, come se in esse fosse corso, non del sangue, ma della lava incandescente. - Che cosa dovresti fare per diventarmi simpatico? - rispose Nanà svincolandosi da lui. - È più facile ch'io ti dica quello che non dovresti fare. Vedi, Filippo, per me il cedere non è questione come per tante altre, nè di tempo, nè di fatti, nè di gratitudine, nè di compassione. A me gli uomini sono simpatici o sono antipatici a prima vista. Dopo due minuti che li ho veduti o che li ho intesi a parlare, io potrei dirti: di questo non sarò mai l'amante, di quello lo sarei stata in tre ore, s'egli mi avesse voluta. - Ma tu di me lo fosti già una volta! - Appunto perchè allora mi apparisti amabile. - Ed oggi no? - No. - Perchè? Nanà, parlando girandolava per la camera ed era giunta dinanzi al camino. - Ecco, per esempio - diss'ella alzando il coperchio della scatola fatta di lumachine e di conchigliette - ecco qua. A me sarebbe impossibile l'innamorarmi di un uomo, il quale tiene in casa sua di queste porcherie. - Che ne so io? C'era, l'ho lasciata e la mi serve. Nella scatola, Nanà vide delle fotografie. Ne levò una, la guardò con un sorriso pieno di ironia, poi domandò: - Chi è questa? - È la mia amorosa - rispose Filippo con un'alzata d'ingegno. - Davvero? Te ne faccio i miei complimenti. È molto bella. - Ti pare? - C'è mai pericolo che essa mi trovi qui? - No. Essa non viene qui. Vado io da lei. - Perchè non me l'hai detto subito che avevi un'amante di questa forza? - Perchè essa ama me, ma io non amo lei. - Chi ami tu? - Lo sai bene. - Vorresti darmi ad intendere che tu sei innamorato ancora di me? - Ora che ti ho riveduta, sono certo di esserlo, perchè tu sei sempre per me la più bella donna dell'universo. Nanà vibrò al giovine uno di que' suoi sguardi ben intenzionati, che avrebbero avuto la potenza di far rizzare i capelli in capo a un morto. Filippo spasimava. - Nanà, sii buona - le disse egli; e prendendole le mani se la attirò sul petto, la recinse col braccio, le disse all'orecchio parecchie frasi insensate e senza sintassi, ma che volevano dir tutte chiaramente la stessa cosa. Nanà lasciava fare e udiva con voluttà quel vaniloquio. Ad un tratto sclamò: - Mi hai detto che essa è innamorata di te? - Molto. - E soffrirebbe se tu la dovessi lasciare? - Credo che ne soffrirebbe assai. - Vuoi tu lasciarla per amor mio? - Me lo domandi? - rispose come gemendo lo sciagurato Filippo. - Me lo giuri? - Te lo giuro. - Che pegno, che sicurtà mi puoi dare che lo farai? - Quella che tu vorrai impormi. - Se io esigessi che tu non l'avessi a vedere mai più? - Obbedirei. - Se io volessi che tu stracciassi in mille pezzi questo suo ritratto? - Ecco - disse Marliani facendo il ritratto in pezzi. - Se io volessi che tu gettassi dalla finestra queste lumachine? - Ecco. E afferrata la scatola Marliani aperse le imposte, diè un'occhiata di sotto nel cortile e vi scaraventò la scatola. - Se io esigessi che tu non avessi più mai a portar le bretelle? - Ecco! E Marliani, raccolte le forbici che stavano a terra, e presi in mano i tiranti, li tagliuzzò in varî pezzi. - Sei contenta? - Sì. - Vuoi altro? - No. Adesso che sono persuasa, va pure a chiudere l'uscio a chiave. La mattina seguente al bel primo svegliarsi si affacciarono alla mente di Filippo Marliani due imagini e due idee importantissime, di cui l'una voluttuosamente splendida, l'altra sgarbatamente molesta. La prima era Nanà. Quella donna che tutti desideravano, che aveva prodotta nella gioventù dorata di Milano una insolita effervescenza, per posseder la quale molti avrebbero dato, se non la vita, gran parte dei loro averi, era ridivenuta senza farlo basire, la sua amorosa. La seconda idea, che attraversava e che smorzava quella superba gioia era la ripetizione di un fastidio e di un rimorso che già egli aveva risentito il dì prima, non appena Nanà lo aveva lasciato solo nella sua cameretta. Era prodotta da due fatti egualmente gravi e umilianti: quello di trovarsi senza più il becco d'un quattrino indosso, e quello di non aver potuto pagare nelle ventiquattr'ore il debito di giuoco di ottocento franchi, contratto la notte dianzi. Egli, infatti, di nascosto di Nanà, la quale - credeva. - non avrebbe voluto più accettare il suo dono le aveva scivolato nel portamonete il suo ultimo biglietto da mille franchi, che avrebbe dovuto servire a quell'ufficio indispensabile per chi voglia comparire ancora in una sala di giucco. E si trovava perfettamente al verde. E - ciò che non è indifferente a notarsi - non teneva più in casa neppur un filo con cui far danaro. L'abbiamo veduto fare la barba ai solini da collo sfilacciati. Segno di grande arsura! Se non che l'anima umana è così avida di felicità e si sottrae così volentieri al dolore e all'umiliazione, che sulle prime il pensiero di Filippo figgendosi ardentemente nell'imagine di Nanà gli fe' riprovare soltanto la gioia e l'estasi vivissima d'averla ancora posseduta. - Nanà, mia Nanà, bella Nanà terribile - andava egli dicendo mentre si vestiva; e non si saziava di ripetere quel nome come per tener occupata la mente e ributtar indietro le idee importune. - Che splendida creatura! Che occhi, che capelli, che denti, che profumo di donna sana! Ma l'orgasmo erotico durò poco. Bisognava pensar all'avvenire, e provvedere alla vita. Quell'ultimo biglietto da mille, che avrebbe dovuto servire, per tre quarti a pagar un debito di giucco, e pel resto ad essere arrischiato, e a produrre chissà che risorsa, sfumato in quel modo gli toglieva la speranza di potere la sera tentare di nuovo la sorte. Ad ogni modo in bisca egli non ci sarebbe andato che di sera. Ma intanto? I due piccoli problemi della giornata: la colazione ed il pranzo, come si risolveranno? "Potrei - cominciò passando in rassegna i mezzi leciti - potrei andar in cerca d'un amico e farmi invitare da lui dicendo di avere dimenticato a casa il portamonete. O potrei anche fingere al restaurant di averlo lasciato a casa. Ma questo stratagemma andrà bene un paio di volte! E poi? Chi me ne darà? Erano però i due espedienti più ragionevoli pel momento; risolse di metter in pratica l'uno o l'altro a seconda del caso, e uscì. Non trovando l'amico da cui farsi invitare fece colazione come il solito al suo caffè, ordinò al cameriere di fargli il conto, poi frugando in tasca colla più gran disinvoltura del mondo, finse d'aver lasciati a casa dei biglietti da mille, che ci avrebbero dovuto esser dentro, e si levò tutto turbato per paura che... la donna che rigoverna la camera... non si sa mai!... - Si figuri! - gli aveva già detto il cameriere, prima ch'ei fingesse quelle smanie. - Pagherà domani! Anche quel pagherà domani fece a Filippo un effetto singolare... "Chi è che mi insegna come si fa a guadagnar danaro?" - pensava avviandosi senza saper dove. - Domani se non pesco danaro non potrò neppur tornar qui a far colazione. Gli amici li ho già gonfiati tutti. Non c'è più da cavarne nulla. È terribile!" La farsa del portamonete lasciato a casa fu ripetuto da lui per il pranzo in altro luogo. Ma venne il vero punto tòpico, anche per Filippo Marliani; quello cioè di non poter più passare dinanzi a certi caffè nè a certe trattorie per non farsi vedere, e di non saper più quale albergo scegliere ancora da mistificare. Per capir bene questa situazione in tutta la sua verità, in tutti i suoi spaventevoli particolari, in tutti i suoi segreti inesplorati, è necessario saper bene che cosa voglia dire patir la fame per mancanza fin di un paio di soldi da comperarsi almeno del pane. E si badi! A questa fame, per mancanza di pane, non vanno soggetti che gli uomini della condizione di Filippo Marliani, a cui è vietato il guadagnar sia pure due soldi. Il miserabile, che vuol lavorare, non sa che cosa sia. Se non trova da guadagnar i due soldi, stende magari la mano all'elemosina e li raccatta. Marliani no. Per capir bene, ripeto, questa situazione, è necessario l'essere andato qualche volta a letto verso il tramonto, quando la fame più assaetta lo stomaco, a tentar di dormire per non provar gli spasimi e l'umiliazione. È necessario sapere qual grado di carattere e di probità abbisogni ad un uomo che veste di panno per affrontare e cacciare indietro le idee invadenti, che fanno ressa e rivolta in faccia al senso morale, protestando rabbioso contro la ingiustizia distributiva, contro il sistema sociale, contro tutto ciò che i politici chiamano l'ordine stabilito. Filippo Marliani però non pensava che del suo trovarsi in quell'orrendo disagio aveva colpa lui stesso. Amava meglio prendersela contro l'ordine stabilito. Camminando alla ventura delle ore intere, resistendo all'idea di andar a trovare Nanà, alla quale non voleva presentarsi a mani e a tasche vuote, egli andava facendo, senz'accorgersi, una quantità di ragionamenti nuovi e di piccole operazioni strane, inusate, senza senso comune. Era capace di tener dei quarti d'ora gli occhi a terra, sperando di trovare sul cammino un biglietto da mille, smarrito da qualche banchiere distratto, o un brillante uscito fuori da un orecchino di donna, o una borsetta piena d'oro, perduta da qualche inglese in viaggio. E in quel momento l'idea dell'obbligo di portar queste cose al Municipio, non gli era nemmeno apparsa in ombra. Nella sua testa non sbucciavano che idee malsane, come in un campo sterile e dimenticato non germogliano che male erbaccie. Disperando a un tratto di trovare pe' sassi qualche oggetto di valore, alzò gli occhi a caso e si trovò accanto alla vetrina di un cambiavalute. Si fermò di botto ed ebbe anche la stupidità di credere che questo fosse un buon augurio. Là dinanzi, cogli occhi intenti sulle monete d'oro e sui biglietti di banca sciorinati nell'interno della vetrina, il povero affamato sentì svilupparsi nel capo dei miasmi di cupidigia morbosa, e nel pugno una smania di sferrar un colpo nella lastra di vetro. Cose tutte che non aveva mai provate di sua vita. "Se si potesse far un buco senza che nessuno se ne accorgesse? Lì c'è appunto un biglietto da mille. Andrei a pranzo, poi stasera pagherei il debito, poi cogli altri dugento... chissà!" Guardossi intorno come trasognato. Rinsavì; ebbe vergogna de' proprî pensieri; odiò quelle tentazioni; pure il suo sguardo, tra lo spaventato e il suppligante, pareva dire ancora: Chi mi dà un biglietto da mille? Si staccò da quella vetrina - già, per la intenzione, ladro! - proseguì il suo cammino sempre intontito e in preda al più desolante scoraggiamento. La fame aumentava. Intorno a' suoi pensieri scattavano, ondeggiando come in nebbia opaca, delle fantasticherie di delitto e di rapina. A un certo punto fece anche improvvisa comparsa l'idea del suicidio, ed ei l'accolse di fronte come un ospite che non si attende, ma che fa piacere a vederlo. "No - diss'egli dopo averci pensato su qualche poco - sono sempre in tempo per questo." "E Nanà?" Questo nome ch'egli aveva dimenticato dacchè il pùngolo della fame era incominciato e il suo amor proprio era stato messo a così dura prova dalla necessità di fingere parecchie volte la scena del portamonete dimenticato in tre o quattro restaurants dov'era conosciuto - gli portò al cuore un'angoscia intollerabile. "Ah, bisogna uscirne a ogni costo - pensò. - Io non posso lasciare Nanà. Essa mi abbisogna più che il pane da sfamarmi. Non vivo così! È troppo tormento! È necessario ch'io abbia molto danaro. Essa non mi ama al punto da volermi gratuitamente, per me solo. Essa fu mia ancora... senza interesse... è vero. Ma chissà... per temperamento forse. Ma non vorrei io stesso!" La risultante di tale ragionamento fu questa frase: "È necessario aver danaro." E fra tutte le mariuolerie di cui potesse avere in testa un'idea, andò cercandone qualcuna da metter subito in pratica. Tutt'a un tratto un'idea luminosa lo colpì. Gli tornarono in mente certe parole misteriose che aveva udite per caso, alcuni mesi prima... da un certo tale... parole a cui allora non aveva posto la più piccola attenzione e che ora gli comparivano, come ad un brick che naufraga, l'ancora di salvezza. Fu per lui un momento d'immenso sollievo; la speranza, la meretrice dell'anima, illuminò il suo volto che era divenuto a poco a poco emaciato, e senza pensarci sopra più che tanto, s'avviò. "Chissà che non sia in tempo io stesso a pigliar quel posto" - diceva fra sè. - "Il signor Giacomino me ne saprà dire qualche cosa." Andò difilato in piazza del Duomo. Là cercò l'omnibus per Porta Garibaldi, e tutto infervorato nella sua idea, senza pensare che non teneva in tasca neppur il becco d'un quattrino, vi si cacciò dentro. L'omnibus si mosse e il conduttore gli stese la mano per avere il prezzo della corsa. Fu allora che Marliani si ricordò di non aver danaro. Ma avvezzo ormai a fingere quella manovra del portamonete, mise bravamente la mano destra nella tasca interna dell'abito, poi frugò di qua, frugò di là, fingendo una crescente inquietudine, e finì collo sclamare: - Cristo! M'han rubato il portafogli! - Màghero allora! - disse il conduttore dell'omnibus. - Sicuro. O me l'han rubato o l'ho lasciato in... quella bottega.... Oh povero me! - Scenda, scenda... non importa. Pagherà un'altra volta. Filippo non se lo fece dire due volte. Discese, fe' mostra di rifar la strada verso quella bottega, poi, quando l'omnibus fu scomparso, svoltò di nuovo verso Porta Garibaldi. Giunto a un centinaio di passi oltre il teatro Fossati, entrò in una bottega di parrucchiere - che oggi non c'è più - e ad un figuro di vecchietto che stava là seduto su uno sgabello col sedile a vite, ad aspettare forse qualche pratica, disse: - Lei è il signor Giovannino, non è vero? - Per servirla. Vuol fare la barba? - No, per ora. La faremo dopo, in caso. Io sono venuto da lei per vedere se.... Si ricorda lei di avermi veduto, sarà un paio di mesi, col signor Silvestre Bonaventuri? - Mi ricordo. Lei è il signor Filippo Marliani. - Bravo! Allora ella disse al mio amico che non gli era ancora riuscito di trovare un giovine un po' educato e vestito bene, che volesse assumersi quell'incarico, ancorchè avesse offerto cinquecento franchi al mese.... Si ricorda? - Altro che ricordarmi. - Ebbene, l'ha trovato? - domandò il Marliani col cuore in sospeso; giacchè quella risposta poteva forse decidere della sua vita. - No - rispose il signor Giovannino. - Tutti hanno paura di cader in trappola. - Si può sapere di che si tratta? Se si tratta di avere del coraggio, sono qua. Il signor Giovannino espose la faccenda a Marliani. Questi domandò se si poteva parlare coi signori che proponevano l'affare. - Sicuro che si può. Me ne parlarono giusto anche stamattina. La signora Bibiana sopratutti è scaldata e vorrebbe trovare un giovine come dice lei, che sarebbe certo di far fortuna. - Chi è la signora Bibiana? - È quella che ha il morto. Una vedovona, che ce ne voglion tre di noi per abbracciarla. - Potrei parlare a questi signori? - Lei? È pronto lei ad accettare? - Sì - rispose secco il Marliani. - È giusto l'ora che son riuniti in bottega - soggiunse il parrucchiere. - Andiamoci allora. - Andiamo pure. Cecco, dove sei? Cecco uscì dalla retro-bottega- Io vado un momento con questo signore, e torno subito. Così detto, uscì seguito da Marliani. Dati una ventina di passi parlando fra loro sottovoce, il parrucchiere svoltò dentro in una bottega da rigattiere. Una donnicciuola che se ne stava ebetamente seduta in un canto di quella uggiosa camera all'avvicinarsi dei due sconosciuti allungò il collo e ravvisato il signor Giovannino tornò a raggomitolarsi nella sua cretina immobilità. Il parrucchiere si avvicinò ad un uscio a due battenti socchiusi, che s'apriva nella parte di faccia all'entrata e che metteva in una tetanzuccia o retrobottega e fe' cenno a Marliani di fermarsi. Mise l'occhio allo spiraglio e pronunciò a voce melliflua: - È permesso? - Avanti - s'intese rispondere una voce secca; e sgarbata dal didentro. Il vecchietto si volse al suo compagno gli fè cenno di venir innanzi e schiuse l'uscio. Nella stanza dove erano per entrare il parrucchiere e Filippo Marliani stavano raccolte tre persone due uomini e una donna. Gli uomini erano entrambi in quell'età che non è giovinezza ma che non si potrebbe ancor dire maturità. La donna nei quarant'anni, che vestiva con volgare eleganza e mostrava un viso campagnuolo e rubicondo da farla giudicare per una fittavola o per la moglie d'un pizzicagnolo, era la signora Bibiana. Quelle persone se ne stavano sedute in silenzio a ridosso della luce che entrava da due finestre a vetri smerigliati, a destra e a sinistra d'un altro uscio, che metteva nel cortile. In tal modo i tratti del loro viso restavano in ombra mentre essi avevano il destro di vedere perfettamente rischiarato il volto di chi fosse venuto a parlar con loro. Facevano come certe donne sul tramonto che vogliono nascondere le grinze ai loro visitatori. - Venga avanti signor Giovannino - disse un di coloro al parrucchiere, che aveva domandato licenza di entrare. Questi si fermò accanto all'uscio lasciando il passo a Filippo Marliani. Gli occhi dei radunati si fissarono curiosamente; nelle sembianze del giovane sconosciuto. - La chiuda l'uscio - disse la signora Bibiana al signor Giovannino. - E lei ripigliò volgendosi a Filippo con un sorriso - la tenga pure il suo cappello in capo e s'accomodi. - Comodissimo - rispose questi sedendosi sulla prima sedia che si trovò d'accanto. In questa il parrucchiere domandò licenza di andarsene, ma venne trattenuto dalla donna. - Che fretta! Stia qui un pò anche lei a sentire. Poi voltasi al Marliani: - Lei sarà già informato spero della cosa. - Gli ho spiegato io l'affare all'ingrosso - rispose il signor Giovannino. Egli è pronto a firmare il contratto basta che entro domani gli sieno sborsate due mila lire. - Andiamo adagio - sclamò uno dei tre uomini levando la mano verso il vecchio - una cosa per volta e senza alzar la voce che nessuno qui è sordo. La donna volgendosi allora al giovine riprese. - Capirà anche lei... signor... signor? - Marliani - rispose questi. - Signor Marliani, che prima di stringere un contratto importante come questo, bisogna conoscersi un poco, perchè dove c'è da obbligarsi in faccia ai terzi; le cautele dei galantuomi non sono mai bastanti. - Troppo giusto - disse Marliani piegando il capo in segno di assentimento. Ma i suoi occhi si socchiusero nello stesso tempo con una espressione di ironica malizia. Quel sorriso non isfuggì all'occhio della donna la quale dissimulando riprese. - Dica dunque lei le sue intenzioni su quello che già le comunicò il signor Giovannino. - Il signor Giovannino mi propose di entrare come socio e col mio nome in una ditta commerciale senza esposizione da parte mia di alcun capitale - rispose Marliani. - Va bene - rispose la signora Bibiana. - I signori che lei vede qui riuniti sarebbero appunto i soci fondatori di una casa in pannine, di cui ella assumerebbe la gerenza alle condizioni che forse già conosce. - Le condizioni sarebbero di firmare col mio nome le cambiali della ditta. - Primo. - Nel caso di fallimento ch'io sia pronto a subire tutte le conseguenze conservando il massimo segreto sugli affari della casa. - Va bene. - Che in caso fosse necessario per salvare la ditta di far in prigione l'anno ed il giorno, io debbo esser pronto a prestarmi, e nel caso invece che la ditta credesse meglio, ch'io sia pronto a fuggire. Il giovine si fermò per avere un segno di assentimento. Le tre persone che gli stavano di contro erano immobili come cariatidi. - Non credo si esigano da me altri sacrifizi - rispose il giovine con una espressione di mal celata amarezza. Uno dei due uomini che non aveva ancora aperta bocca, alla nuova intonazione con cui il Marliani aveva pronunciate le ultime parole gli ficcò in viso gli occhi e disse: - Non sono sagrifizî codesti; sono condizioni naturalissime in chiunque si assume obblighi di questa specie. Non c'è nulla che sia fuori del consueto, anzi non faceva neppur bisogno di parlarne, giacchè poi si spera di non aver bisogno di fallire o di andar in prigione o di scappare. - Ho voluto enumerarli! - rispose il Marliani per mostrare a loro signori che io conosco le eventualità a cui posso andare incontro mettendomi in questo affare e per togliere loro il sospetto che io possa essere un novizio o un guastamestiere. - Ora parliamo delle condizioni in favore - disse la signora Bibiana. - Il signor Giovannino ha parlato di due mila lire subito. - Mi sono indispensabili. - Due mila lire è una bella somma - sclamò uno dei tre - ci vorrebbe una piccola garanzia. Marliani si alzò in piedi. - Cari signori - disse - se avessi una garanzia non sarei venuto a esporre il mio nome ai pericoli d'una gerenza commerciale di cui non dovrò tenere la cassa, nè avere neppure una piccola parte nell'amministrazione. Se avessi una garanzia andrei a levar i denari al dieci o al dodici per cento dal primo onesto banchiere che passa in strada, e il signor Giovannino non sarebbe venuto ad offrirmi di fare il prestanome. - Lei s'inganna - rispose la signora Bibiana con voce insinuante. - Io le dirò che prima di tutto non è vero che lei dovrà servire soltanto di prestanome perchè invece dovrà trattare in persona con me gli affari della ditta, far qualche viaggio e avere la sua brava parte di utili nei dividendi. - Se ce ne saranno - osservò uno dei tre. - Sicuro già, se ce ne saranno! - sclamò la donna stizzosamente. - In secondo luogo lei s'inganna se al giorno d'oggi crede di poter trovar danaro al dieci o al dodici per cento, a mena che non porga la garanzia di un proprietario. - Vedo insomma che lor signori non sono disposti a sborsarmi le duemila lire di cui ho bisogno - disse il Marliani. - Caro signore - rispose la donna sempre più dolce. - Il commercio è arenato. Per vivere col decoro che porterà la di lei posizione di rappresentante la ditta Marliani e C. bisognerà che noi le fissiamo anche una bella mesata. Vede bene che farle oggi una anticipazione di due mila lire ci sarebbe impossibile. - Di quanto sarebbe questa mesata? - domandò il Marliani. - Di trecento franchi - rispose la donna. Marliani si alzò e mosse un passo verso la porta lisciando il pelo del suo cappello a tuba e disse: - Siccome i patti non sono quelli che m'aveva lasciato sperare il signor Giovannino, che mi parlò di cinquecento franchi al mese, così mi duole di non poter accettare, e mi tocca di rivolgermi ad altre offerte. - A un'altra volta - rispose uno dei due uomini. - E nel caso che la ditta si risolvesse a fare maggiori sacrifizî il signor Giovannino lo avviserà. Marliani uscì lasciando l'uscio socchiuso. Si capiva che la signora Bibiana era desolata. Un bel giovine di quella fatta! - La chiuda quell'uscio, Giovannino - disse ella. Poi voltasi ai compagni proruppe: - Non bisogna lasciarlo scappare. Sembra fatto a posta pel nostro affare. - Ritornerà. Scommettiamo che ritorna da sè senza mandarlo a chiamare? - Ora una notizia - riprese la signora Bibiana. Sapete che in casa O'Stiary ci ho messo il Giacomo come palafreniere. Egli mi ha dato nuove informazioni sullo stato delle sostanze del conte Enrico suo padrone, che ha firmata ieri un'altra cambiale di diecimila a fine novembre. - Sono buone queste notizie? - Eccellenti. I fondi valgono circa mezzo milione, il palazzo trecentomila, la rendita altri duecentomila. Con Bonaventuri a tutt'oggi è compromesso per quattrocentomila franchi, dei quali fatto il calcolo, gliene avremo sborsati a dir molto duecento. Egli ha poi perduto molto al giuoco dalla Luisa! È sfortunato! In casa della Luisa de' suoi danari ne saranno rimasti per circa cinquantamila. A noi di questi è toccata la metà, dunque bisogna detrarla dai duecento mila. Restano centosettantacinquemila. Sono dunque duecento venticinquemila lire nette in tre anni! Faccio il calcolo che in un paio d'anni ancora, lavorando con prudenza e con disinvoltura potremo portargli via il milione netto come il pomo di Tell. - Tanto meglio. - Ecco dunque il da farsi per domani. Lei Giovannino la cerchi di rivedere il signor Marliani e di indurlo ad accettare la rappresentanza della ditta. Gli dica che ci ha persuasi di portare la cifra della mesata a quattrocento. Gli dica anche che per garanzia della sua riputazione commerciale la ditta è pronta a depositare presso la Banca nazionale o presso la Banca Spagliardi una trentina di mila lire. Lei, signor Bonaventuri - continuò volgendosi ad uno dei due seduti - domani andrà a combinar l'affare con questa signora francese, che chiede cinquemila franchi a tre mesi. Si faccia mostrare le gioie, e se può cerchi di far il pegno. Lei, signor Paolino - ripigliò la signora Bibiana volgendosi all'altro, un uomo sui trentacinque anni, anche lui bene in arnese, con anelli di brillanti al dito mignolo e un catenone d'oro al farsetto - lei, stasera, come siamo intesi, andrà in conversazione dalla Luisa, dove so che ci deve essere anche il conte O'Stiary e comincerà a parlare della vincita fatta in Borsa dal Marliani, e della sua intenzione di mettersi in commercio. Per ora non ho altro a dire. Io debbo andarmene. A domani qui, verso le due. Al domani il signor Giovannino andò a trovare il Marliani che si lasciò persuadere a tornar nel luogo infetto. La signora Bibiana, facendogli già l'occhio pio, trasse di tasca un foglio e cominciò a leggerlo sottovoce al giovane e a' suoi compagni. Era il contratto per la fondazione della società di commercio sotto la ditta Marliani e C.. C..Poi mise sul tavolo un biglietto da mille e una cambiale che il Marliani firmò. Furono fatte poche parole. Quando anche l'atto fu approvato e sottoscritto colla più grande serietà, come se fosse il più regolare e santo contratto del mondo, il signore dai brillanti in dito riprese la parola. - Andremo poi dal notaio per le altre formalità di legge. Prima però la permetta che le esponga qualche cosa. Lei non è un ragazzo e deve avere una certa pratica di mondo; sapere perciò che le parole sono parole e i fatti sono fatti. Noi facciamo sagrifizio di lire mille e le presentiamo inoltre un avvenire. Naturalmente la cambiale è in nostre mani e sarà rinnovata alla scadenza fino a che a lei non piaccia di pagarla... e basta così. Marliani strinse le labbra. - Dal canto suo lei dovrà informarsi alle nostre istruzioni. Prima di tutto ella dovrà sempre andar vestito all'ultima moda, come si conviene al gerente della ditta Marliani e C., che avrà depositato un capitale di trentamila lire presso la Banca. In secondo luogo è necessario che ella cominci a mettersi in buona vista presso i negozianti e presso i banchieri; e che non dia menomamente a supporre di conoscerci e di essere nostro socio, giacchè siccome, glielo dico francamente, noi tutti qui, qual più, qual meno siamo rimasti sotto a delle disgrazie, così è bene che alla Camera di Commercio e in piazza non si sospettino legami fra noi. - Ma - osservò Marliani - il contratto sottoscritto poc'anzi non deve essere noto? - No signore; questo sarà un contratto inter nos per garantire i nostri reciproci diritti e doveri in caso di contestazioni che speriamo non abbiano a sorgere mai. Per la Camera di Commercio v'è un'altra modula a cui penseremo più tardi; del resto lei deve persuadersi che adesso per fare e per ottenere tutto a questo mondo non c'è che l'apparenza. Per l'apparenza dunque le ripeto, ella ha bisogno di vestirai molto bene, di frequentare le migliori società, e se è possibile, di farsi credere conte, o per lo meno nobile. Marliani è un bel nome. Faccia stampare dei biglietti di visita colla corona di conte. Conte... il suo nome di battesimo è? - Filippo. - Conte Filippo Marliani andrebbe a maraviglia. - Le faccio osservare che io sono già molto conosciuto a Milano. - Bene, abbandoniamo la contea e lasciamo supporre che lei abbia fatta una vincita in lotto. - Ma io non mi presterò mai a gabbare il mondo così - disse il Marliani. - Lei non deve che lasciarlo credere - saltò su la Bibiana. - Ci penseremo noi a propalare la notizia come si deve. Lei non dovrà far altro che dissimulare e non dire di no. Questo è facile. - Manco male! - biascicò il Marliani che di transazione in transazione si lasciava persuadere a diventar un fior di briccone. - Fra quindici giorni esporremo la ditta al pubblico e cominceremo gli affari. Intanto dirameremo al commercio le circolari e scriveremo le lettere firmate da lei a tutti i corrispondenti. Il locale della ditta è già preso. È in via Valpetrosa. Se crede adesso possiamo andarvi insieme a vederlo. Su questo invito della signora Bibiana la congrega si sciolse e Marliani, colla grassona, entrarono in un brougham e a cortine calate si fecero portar in via Valpetrosa. Esaminato il locale, il Marliani corse difilato a pagar il suo debito di giuoco col biglietto da mille, per avere il quale aveva venduta la coscienza di galantuomo.

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IL MAESTRO DI SETTICLAVIO

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Boito, Camillo 1 occorrenze

Senso

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Boito, Camillo 1 occorrenze

EH!La vita...(Novelle)

662328
Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1913
  • Tipografia agraria
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Aveva accettato; e stava per accomiatarsi quando gli era parso di provare non sapeva bene se un violento abbaglio o se un urto che lo faceva ricadere su la seggiola. Gli era passata poco distante... - No! Non poteva essere! - Ma il sindaco, sorridendo, gli diceva: - Ecco la merce che noi mandiamo, rozza, in città e che ci vien restituita - fortunatamente per poco - così trasformata! Era un'operaia; ora è.. una mondana; si dice così? È la prima volta che torna in paese. Non era stata dunque un'allucinazione? Se ne convinse poco dopo, quando la carrozza, ripassando, si fermò davanti al Caffè, e la bellissima ed elegantissima donna, che vi era quasi sdraiata sui cuscini, ordinò una bibita. L'assaggiò appena. E il sindaco disse, sottovoce, a Leoni: - È stato un pretesto per farsi ammirare. Leoni, turbatissimo, si domandava: - Mi ha riconosciuto anche lei? Non usci di casa in quei tre giorni di vacanze per la festa del Patrono, evitando così il pericolo di essere incontrato e di vedersi imprudentemente fermato. Si stupiva di non desiderare di avvicinarla. Era stata la sola ragazza a cui egli aveva voluto realmente bene, e che gli aveva voluto davvero bene, senza secondi fini, con la ingenuità di chi si dà a un uomo per la prima volta. Ed egli l'aveva indegnamente abbandonata, dalla paura di attaccarsi troppo a lei e finire con sposarla, come era accaduto a un suo amico e con una donna immeritevole affatto di questo onore. Si era già rassicurato. Le feste pel santo Patrono terminavano appunto quella sera, ed egli stava affacciato alla finestra fumando una sigaretta per godersi i fochi di artificio che tra poco sarebbero stati sparati in cima alla collina del paesetto tutto punteggiato di lumi. Trasalì vedendo inoltrare quella figura di donna, avvolta in uno scialle nero, che si era fermata un istante allo svolto del breve viale davanti alla casa, come per riconoscere il posto; e si protese fuori del davanzale ansiosamente. - Leone! Leone! Sono io, Giulia! Vieni ad aprire la porta. Non mi ha visto nessuno! Ella gli era saltata al collo; e vedendolo rimanere freddo, inerte, disse: - Oh, non dubitare! È un bacio d'amicizia.... Nient'altro. E seguitò: - Chi si aspettava d'incontrarti qui? Dopo la disgrazia, nessuno ha più saputo notizie di te. Anch'io ti ho creduto in America a far fortuna. Stai bene. Sei un po' ingrassato, con qualche pelo bianco! Povero Leone!... Maestro elementare! Ti ammiro... Tutti ti vogliono bene nel paese... sì! sì! Il mondo va preso come viene. Ti ho riconosciuto sùbito, sai? E dovetti fare uno sforzo per contenermi. Ti avrei compromesso. Vedi? Sono venuta di notte dopo di essermi bene informata, e con questo travestimento. Altrimenti sarebbe stato uno scandalo. Qui quasi tutte mi invidiano, e quasi tutte fanno le viste di non conoscermi, anche le donne peggiori di me! Egli rimaneva in piedi di faccia a lei, commosso, balbettando appena: - Grazie! Grazie!... Quanto sei buona! - Come ti trovo male alloggiato! Neppure una poltrona! Neppure un piccolo tappeto! Neppure uno straccio di tenda! Questa è una cella da frate. Tu forse ignori quel che si fantastica di te, della tua vita segregata. Oh, tante cose buone! Dicono che il tuo è l'orto dei poveri; che tu fai l'ortolano per essi. E dicono che sei orso, orso, orso! Tu! sembra impossibile... Mah! Tutto accade al mondo. Ti saresti mai immaginato di incontrarmi quasi ricca e divenuta un po' avara? Che gran piacere questa visita! Anche pel modo. Chi sa quando ci rivedremo un'altra volta? Io ho paura di morire ora che sono arrivata... dove sono arrivata. Vorrei invecchiare, venire a ritirarmi quassù. Mi rimane soltanto la nonna; ha ottantasei anni, e sembra che ne abbia addosso soltanto cinquanta! Dice: - Sei nel peccato!..: Ma è la volontà di Dio! - E mi consiglia. Fa molta carità, molta carità, figlia mia! - E tu non mi dici niente? Ti è dispiaciuta la mia visita? Spero di no. Egli stava ad ascoltarla con un gran senso di tenerezza non come antica amante, ma come una affettuosa sorella venuta a consolarne la solitudine! Infatti nessun rimprovero del suo gran torto! Nessun accenno al passato! Così dagli occhi, dalle labbra, da tutto quel mirabile corpo non si sprigionava la minima vibrazione di sensualità, ma uno splendore di bellezza che imponeva ammirazione e rispetto. Inconsapevolmente - se ne accorse dopo - l'idea che ora ella era ricca e lui povero servì a farlo rimanere quasi gelido, davanti a quella viva evocazione di un passato che, nei giorni di raffica, tornava a sconvolgerlo atrocemente e minacciava di disperdere l'opera di rinnovazione e di redenzione a bastanza inoltrata. - Parlami di te - ella soggiunse. Leone fece un gesto che significava: Non mette conto! Allora Giulia riprese lo scialle buttato, entrando, su una seggiola. - Vado via.... Ecco i fochi! Si affacciarono alla finestra. I razzi solcavano la oscurità; le bombe si sgranavano in pioggia di scintille d'oro, in getti di globuli di mille colori, quasi pietre preziose dalle mani di una fata e che sparivano sùbito sgranate. E lo spettacolo continuava incalzando. - Ecco la vita! - esclamò Giulia con voce commossa. - Vado via. Non voglio che qualcuno mi veda. Ti nocerei molto, e ne avrei rimorso. Addio... Ah! Dimenticavo di dirti che giorni fa ho veduto tua madre. So che ogni relazione è rotta tra voi. Una madre dovrebbe perdonare; è vero?... Addio! - Addio! - balbettò Leoni su la soglia della porta: e a Giulia parve che quella parola le arrivasse da gran distanza. Egli si era affrettato troppo a rallegrarsi della sua forza di resistenza! Il giorno appresso e per parecchi giorni di seguito la raffica imperversò violentissima nel suo cuore e nella sua mente. Ne uscì quasi malato. Un mese dopo fu stupito di veder fermare davanti a la sua casetta un gran carro di quelli che fanno il servizio dei trasporti a domicilio. La spedizione era ordinata a nome di sua madre, Ersilia Leoni; ma egli indovinò sùbito il gentile sotterfugio di Giulia. - Come ti trovi male alloggiato! - gli aveva detto quella sera. E mandava ad arredargli un po' la nuda cella: un canapè, due poltrone, quattro seggiole, una bella scrivania, un calamaio di bronzo, ornato da un amorino che, sdraiato, pareva si specchiasse in una fonte, un tappeto per la tavola da pranzo, due grandi tappeti pel pavimento, un elegante vasettino giapponese da fiori. Si sentì turbato dal sospetto che Giulia tentasse di riprender possesso di lui. Ma la lettera giuntagli per posta lo stesso giorno, così umile, così piena di scuse, invocante perdono dell'invio, gli fece venire le lacrime agli occhi. Ringraziandola, con lunga risposta diretta al falso indirizzo indicatogli per evitare le indiscrezioni dell'ufficio postale - altra delicatezza di Giulia! - egli le dichiarò: . - Basta, ti prego. Non accetterei altro. E non gli giunse altro; neppure una lettera di quando in quando, come ne aveva espresso il desiderio. Giulia aveva, dunque, mal interpretato il divieto: - Basta, ti prego: non accetterei altro! Se ne afflisse per un pezzo. Erano passati.... quant'anni? Egli non li contava più. Si lasciava invecchiare: - Ormai! Ormai! Lo ripeteva spesso, quasi non si trattasse di lui; e per ciò ebbe una forte scossa apprendendo che sua madre era morta perdonandogli e lasciandogli la discreta eredità in cartelle di rendita ricevuta da un parente poco prima. - Ci abbandonerà? - gli domandò il sindaco. - Che disgrazia per le nostre scuole! - Sarebbe da parte mia il colmo dell'ingratitudine - rispose Leoni. - E poi, a che pro? Rompendo in questa occasione il volontario esilio, egli andò in città irriconoscibile, per la folta barba e i capelli brizzolati, dai pochi amici superstiti e non dispersi pel mondo. Quando ebbe ridotto le cartelle in biglietti di banca, la sua prima spesa fu quella di comprare un ricchissimo servizio in argento finemente cesellato, da regalare a Giulia: in ogni pezzo aveva fatto incidere le parole In Inmemoriam Glielo spedì a Bellagio, sul lago di Como, dove ella era andata a villeggiare. Un fonografo, una macchina da proiezioni, altri arnesi per la scuola; un volume di fiabe, rilegato, da dare in dono a tutti gli scolari della sua classe, per ricordo; un magnifico album da fotografie pel Sindaco perpetuo come egli stesso compiacentemente si chiamava; molti libri nuovi per sé.... E così aveva già speso più di un migliaio di lire. Se non tornava sùbito al paesetto divenuto sua seconda patria, chi sa che altre spese pazze avrebbe fatte! - Il danaro non guadagnato con fatica ci fa diventare sciuponi - rispose al sindaco che lo ringraziava dell'album e dei doni alla scuola. Si sentì preso da gran febbre di far più bene che poteva. E una sera si presentava al vecchio parroco e gli consegnava mille lire pei poveri. Il prete, che lo conosceva soltanto di vista, ne fu profondamente maravigliato. Aveva promesso di non dir niente a nessuno; ma gli era parso di commettere una cattiva azione non confidando ai beneficati da che mani provenivano quei soccorsi. Anche il medico condotto fu pregato: - Si ricordi di me pei suoi malati che hanno maggior bisogno di medicine e di alimenti. Mi farà una grazia! Leone Leoni ora sentiva un solo rammarico. - Un giorno o l'altro, le cinquantamila lire dell'eredità sarebbero esaurite! E mentre egli, già incanutito, un po' curvo, continuava la sua vita di isolamento, più ortolano e più orso che mai, in paese non c'era famiglia, farmacia, negozio, caffè dove non si parlasse di lui. I suoi più caldi ammiratori, oltre il Sindaco, erano il vecchio Parroco e il Medico condotto. Il Parroco concludeva sempre: - È un santo all'antica! - Ma non viene mai in chiesa, non si confessa! - gli obbiettava qualcuno. E il parroco dolcemente: - Fa qualcosa di meglio: pratica il bene!

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GIACINTA

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

Demetrio Pianelli

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De Marchi, Emilio 1 occorrenze

VECCHIE STORIE

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De Marchi, Emilio 1 occorrenze

IL Santo

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Fogazzaro, Antonio 2 occorrenze

Qui il ministro, anche credendo fare cosa gradita a Jeanne, affermò la propria religiosità; abbaglio tragico, pensò lei amaramente. Egli sperava che in un prossimo avvenire il signor Maironi potesse esercitare liberamente la propria influenza in luogo altissimo; vi erano molti segni di una prossima trasformazione di quel tale ambiente, di una prossima disgrazia degl'intransigenti; ma per ora gli era opportuno di eclissarsi. Questo era il consiglio amichevole ma pressante che si desiderava di fargli pervenire per mezzo del suo illustre amico. Accettava la signora Dessalle di parlare all'illustre amico? Jeanne trepidava. Era da fidarsi? Era da dir cose che forse coloro non sapevano e cercavano sapere da lei? Guardò involontariamente il sottosegretario e gli occhi suoi parlarono così chiaro ch'egli non poté a meno di pigliare una risoluzione. "Signora" disse col suo abituale sorriso sarcastico, "vedo che Lei non mi desidera. La mia presenza non è necessaria e me ne vado per ossequio al Suo desiderio: desiderio giusto e che si capisce." Jeanne arrossì ed egli se ne accorse, si compiacque di averla ferita con la coperta allusione che si conteneva nelle sue ultime parole e più ancora nel sorriso maligno. "Però" soggiunse collo stesso sorriso "non me ne andrò senz'affermarle, sulla mia parola, che mia moglie Le è un'amica fedelissima, che non mi ha mai tenuto sul Suo conto un solo discorso indiscreto; come, sullo stesso argomento, non ne ho mai tenuto io a mia moglie." Vendicatosi così, l'omino se ne andò, lasciando Jeanne agitatissima. Dio, intendevano proprio che avesse a parlare lei, a Piero? Supponevano che lo vedesse, pensavano essi pure che la santità di Piero fosse mentita? Si ricompose con uno sforzo supremo, cercò aiuto nello sguardo grave, mesto, rispettoso del ministro. "Parlerò al signor Giovanni" diss'ella. "Credo però" soggiunse esitando "che il signor Maironi sia ammalato, che non possa viaggiare." Nel nominare Maironi le salirono le vampe al viso. Ella le sentì assai più che non si vedessero. Però il ministro se ne avvide e venne in suo soccorso. "Forse, signora" diss'egli "Ella dubita di compromettere i Suoi amici Selva. Non abbia questo dubbio. Prima Le ripeto che il signor Maironi non ha niente a temere da nessuno e poi aggiungo che noi sappiamo tutto. Sappiamo ch'è in Roma, che sta, per poche ore ancora, presso un senatore del Regno, in via della Polveriera. Sappiamo pure ch'è ammalato ma ch'è in grado di viaggiare; anzi Lei può dire al signor Selva che io gli farò avere, se vuole, dal mio collega dei Lavori Pubblici un coupé riservato." Jeanne, tremante, fu per interromperlo, per esclamare: poche ore ancora? Si contenne appena e prese congedo per correre al Senato, sapere. "Forse il signor Selva lo ignora" disse il ministro, accompagnandola verso l'uscio "ma il senatore aspetta non so quali parenti e non potrà più alloggiare il signor Maironi. Gli rincresce. Gran brav'uomo! Siamo vecchi amici." Jeanne tremava di avere intravveduta la Verità. A palazzo Braschi che il senatore congedasse Piero; un'altra spinta per allontanarlo da Roma! Ma possibile che il senatore si fosse lasciato persuadere? Congedare un infermo in quello stato? Salì nel suo coupé , si fece portare a palazzo Madama, chiese del senatore. Non c'era. L'usciere che le rispose così le parve un po' imbarazzato. Aveva una consegna? Non osò insistere, lasciò una carta colla preghiera di passare dal Grand Hôtel prima di pranzo. Ella stessa partì per il Grand Hôtel fremendo, e gemendo insieme nel suo cuore, battendo colla punta del piede il libretto contro la Massoneria, dimenticato da donna Rosetta. Avrebbe voluto che i due sauri volassero. Erano le quattro e tre quarti e il suo dovere quotidiano era di preparare la medicina per Carlino alle quattro e mezza.

Malombra

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Fogazzaro, Antonio 2 occorrenze

Egli durava fatica a difendersi dallo stolto sospetto che anche Edith avesse cangiato dalla sera precedente, come il cielo; che la notte, il sonno, altri pensieri avessero spenta la sua inclinazione nascente, se pure questa inclinazione non era un abbaglio visionario. Sarebbe andato da lei quel giorno stesso a portarle Un sogno; gliel'aveva promesso. Come ne sarebbe accolto? Teneva presso di sé quasi tutta l'edizione del suo libro, un gran fascio di copie, polverose al di fuori, candide, intatte al di dentro, come vecchie monachelle innocenti. Ne tolse una e pensò alla dedica che avrebbe dovuto scrivere. Ne preparò otto o dieci. Quale gli pareva fredda, quale pretensiosa. Finalmente scrisse sulla guardia del libro: Alla Primavera blanda C.S. Subito dopo ne fu malcontento, sentì che bisognava dire di più, farle intendere quel che sentiva. Sul libro stesso? No, non era conveniente. Perché? Non trovò un perché abbastanza imperioso e scrisse sotto la dedica: "La Primavera blanda è amata da uno scrittore oscuro cui nessuno ama. Per lei, per lei sola egli potrà esser grande e forte, vincer la fortuna e l'oblio. Se n'è respinto, si lascerà cadere a fondo". Appena scritto volle troncare con un lavoro pacato quell'agitazione che lo spossava. Ricorse a un vecchio manoscritto, suo fedele compagno, che gli cresceva sotto lentamente, fra gli altri lavori, nutriti in parte con la meditazione astratta, in parte con la esperienza quotidiana degli uomini e della vita. Erano studi morali dal vero. Pareva a Silla che la letteratura moderna fosse soverchiamente scarsa di questi libri, in cui parecchi grandi scrittori del passato hanno ritratto l'uomo interno con tranquill ità scientifica e con arte squisita di stile. E gli pareva che in tale studio i fatti e le osservazioni contemporanee dovessero raffrontarsi a fatti e osservazioni antiche, onde misurare il valore morale, relativo e assoluto, della nostra generazione. Per lui il valore delle trasformazioni religiose e politiche, degli stessi progressi scientifici e materiali si risolveva nella somma, non di verità o di prosperità, ma di bene e di male morale che ne discende; perché se il bene in generale è lo scopo a cui tu tta la molteplice attività umana intende, il bene morale è la sua legge stessa, la condizione della sua potenza durevole; senza dire che per mezzo di esso, termine d'una equazione misteriosa, l'uomo si accosta alla essenza della verità e della bellezza assai più che per mezzo della scienza e dell'arte. La quale arte egli giudicava a questa stregua medesima, pure disprezzando, come puerile e falsa, la teoria dell'insegnamento morale diretto. Teneva ch'esatte cifre misuratrici del valore morale esistessero ve ramente, ma fossero impenetrabili in questa vita allo spirito umano; non pregiava come elemento di ricerca quelle delle statistiche, in cui le unità vengono aggregate arbitrariamente per certi caratteri comuni, affatto esterni e propri, per alcuni rami di statistica, più della legge che dei fatti umani; tutti più o meno disformi tra loro nell'aspetto, e di cui non si può cogliere la vera misura morale che là dove si generano, dove la statistica non sa entrare, dove la osservazione psicologica può trovare ar gomento di classificarli in modo affatto nuovo, affatto impensato, da sconvolgere molte tabelle e molte opinioni. Preferiva perciò a grossolani indizi aritmetici l'opera degli osservatori morali, attenti a cogliere negli atti, nelle parole umane i motivi interni; l'opera di pensatori acuti nel coordinare queste osservazioni praticate da molti in ogni campo della vita, nel dedurre giudizi quasi scientifici. Voleva che le osservazioni si facessero e si esponessero con la massima precisione possibile; attribui va perciò poco valore a quelle che sono nei romanzi. Ingegno non lucido, mistico di tendenze, potente per certe intuizioni fugaci piuttosto che per nerbo suo proprio e costante, egli aveva idee poco definite, poco pratiche; ardente spiritualista e perciò proclive a considerare di preferenza, nell'umanità, la origine e il fine; amava, anche in tenue materia, appoggiarsi a qualche grande principio generale. Era quindi male atto alla fredda osservazione scientifica, se pure ella è completamente possibile in ta li argomenti e se il solo vero frutto da sperarne non è la conoscenza dell'osservatore stesso. Ma egli non obbediva soltanto a un concetto filosofico; cercava pure in quel lavoro certa consolazione delle offese recategli dal mondo. Tenuto in poca stima dai suoi congiunti che l'avevano per un sognatore ozioso; negletto dagli amici che si dilungavano da lui, amico inutile, seguendo la propria fortuna o le cure domestiche; ferito da inciviltà disdegnose di critici, di letterati, di editori, si compiaceva di studiare questi tipi familiari, sine ira et studio, con equa temperanza. Era il suo conforto orgo glioso tenerli sotto la penna e perdonar loro. Stava ora lavorando a un saggio sull'ipocrisia. Inconscio seguace d'idee preconcette e assolute, voleva dimostrarvi che la menzogna e la debolezza morale sono caratteristiche di questo tempo, salvo a dedurne in seguito che discendono dalle sue tendenze positiviste, ossia dall'essersi oscurato nelle anime il principio metafisico del vero; e che le verità conquistate nell'ordine fisico, infinitesimali raggi di quel principio, non hanno né possono avere il menomo valore di sostituirlo quale generatore di salut e morale. Molto più grave gli pareva questo prosperare della menzogna in tanta libertà di parola e d'azione. Perché ne trovava infetta la vita sociale e politica, come le arti, le lettere e le industrie stesse, nelle quali discende a complice abbietta d'inganno persino la scienza. Osservava ne' suoi conoscenti il fenomeno frequentissimo dell'ipocrisia a rovescio, ossia la dissimulazione dei sentimenti più retti e più nobili, delle opinioni più ragionevoli; l'opposto linguaggio che erano usi tenere sulle per sone e le cose, secondo il numero e la qualità degli uditori. Ne induceva che se le vere opinioni umane avessero improvvisamente a scoprirsi, il mondo sbigottirebbe di trovarsi tanto diverso da quello che crede. Una sì larga infusione di falsità volontaria, corrompendo interamente le parole e le azioni umane, deve generare il falso, che è quanto dire il male, nell'organismo della società, poiché questo si modifica senza posa per le parole, per le azioni umane. Silla preferiva la sincerità, anche nell'errore , a qualunque men disonesta ipocrisia. Citava esempi in appoggio al suo assunto, e aveva ora per le mani il suo amico Steinegge. Steinegge era un esempio singolare di rettitudine morale accoppiata alle opinioni più false in ogni argomento. V'erano nei suoi errori un candore, una sincerità leale senza pari. Egli non poteva neppur credere, in fatto, alla menzogna né alla disonestà negli altri benché dicesse male, in astratto, di mezzo mondo. Parlava da scettico e sarebbe caduto in ogni trappola di briccone volgare. Il suo calor generoso si apprendeva altrui, la sua schiettezza provocava schiettezza; e le opinioni, violente e zoppe, lun gi dal nuocere, non si reggevano in piedi. Pareva a Silla che se fosse possibile rappresentare una generazione con un uomo solo, come altri ha fatto per la umanità intera, la generazione presente verrebbe raffigurata in un uomo colto, acuto di mente e basso di animo, attivo, ambizioso, doppio, sensuale senza passione, forte di molta fede in se stesso, vantatore, malato d'umori vaganti che lo molestano, sempre a fior di pelle e talvolta gli minacciano i visceri. Steinegge era molto migliore di questo tipo. S otto il suo cerimonioso abito nero del secolo decimonono v'era un gran cuore barbaro, pieno di idee sbagliate e di sangue sano. Silla pensava a lui con la penna inerte sulla carta e lo sguardo a' fili tremoli della piova. Non poteva continuare la sua tranquilla analisi psicologica; gli pareva di offendere quell'uomo ingenuo che gli voleva tanto bene, e certo non avrebbe sospettato mai che l'amico suo gli volesse praticare una vivisezione sul cervello e sul cuore. Se lo vedeva là ritto davanti col suo onesto viso cherusco e gli occhietti scintillanti, gli udiva dire con impeto soffocato: "La meritate voi?". E lui, Silla, si alzava in piedi, gli rispondeva: "La meriterò. Sarò il suo sostegno, la sua difesa e il suo orgoglio. Non si troverà in me un atomo di falsità mai, non un pensiero ond'ella sia esclusa. Combatterò per le alte cose ch'ella ama, sotto gli occhi suoi, virilmente". Poi quella voce gli faceva delle altre domande. Egli si commosse nel pensiero di tante fredde difficoltà amare, pronte per lui da ogni parte. Immaginò un altro colloquio intimo con la propria madre. Ella gli diceva con indulgente calma tante cose savie che a lui non sarebbero mai venute in mente, lo sgomentava e lo rincorava insieme con la sua pacata scienza della vita, con l'elevato concetto del dovere e la ferma fede nella volontà umana e nella provvidenza. No, non era facile l'avvenire. Dai suoi parenti materni non poteva attendere appoggio se non lasciando gli studi per il commercio. Gli avevano già detto chiaro che non sperasse essere incoraggiato da loro a vivere ozioso, a leggicchiare e scribacchiare senza costrutto. Gli pagavano il modico assegno di cui viveva stentatamente, frutto di una somma di ragione di sua madre che essi avevano trattenuto presso di sé salvandola dal naufragio di Silla. Più di così non era da aspettarsi da costoro che avevano edificato del proprio la canonica e le scuole comunal i del paese dove filavano seta e villeggiavano. Ceder loro? Si sentiva portare in aria dallo sdegno, solo a pensarvi. Avrebbe dovuto, accasandosi, trarre denaro dal proprio ingegno. Come? I suoi libri non gli avevano ancora fruttato un soldo, e il loro successo non lasciava presagire migliore fortuna per l'avvenire. Avrebbe tradotto qualche ora al giorno, dal francese e dall'inglese, a un tanto la pagina; ma era poi sicuro di trovar lavoro? Come correva la sua fantasia! E la grigia piova tremola gli ripetev a in fondo al cortile, per le grondaie, sui tetti lucidi: "Piangi, piangi, non ti ama, non ti ama." Si alzò e uscì di casa. Più tardi egli non seppe ricordar bene che avesse fatto durante le lunghe ore trascorse da questo punto al momento in cui pose piede in casa Steinegge. Camminò trasognato, sui bastioni deserti, sotto i platani grondanti e per vie remote della città, senza riconoscerle; attraversò quartieri opposti a quello abitato dagli Steinegge. Si trattenne lungamente in un piccolo caffè tetro, dove due vecchi giuocavano al domino e la padrona, seduta accanto ad essi con un grosso gatto grigio sulle ginocchia, guardava p iovere nella via stretta. Dietro il banco un orologio scandeva col suo tic-tac minuti interminabili. Questi minuti eterni venivano sempre accelerando il passo; all'accostarsi del momento prestabilito battevano via a precipizio come il suo cuore. Giunto, per la più lunga via possibile, alla nota porta, non vi entrò né si fermò. Gli parve che il suo destino l'attendesse là dentro. Andò avanti per qualche centinaio di passi, poi, bruscamente, tornò indietro, passò la soglia disprezzandosi, paragonandosi a un fanciullo ridicolo che desidera da lontano la donna amata e la teme da presso. Si volse alla portinaia senza parlare. Ella lo conosceva e disse alzando la testa dal lavoro: "In casa". Salì le scale adagio, aggrappandosi nervosamente alla branca. Suonato il campanello si sentì chetare i nervi, si meravigliò seco stesso d'essersi lasciato tanto turbare dalla fantasia. "Oh! Oh! Caro amico! Date! Oh! questa è una grande fortuna con questo tempo tedesco. Date!" vociferò Steinegge, che gli aveva aperto e gli toglieva di mano a forza l'ombrello e il cappello. "Buon giorno, signor Silla" disse Edith quietamente. Ella era seduta presso la finestra e lavorava. Aveva alzato il viso, né roseo, né pallido, per il breve saluto e s'era volta quindi a guardar dalla finestra il "tempo tedesco". Entrava lassù dallo sterminato cielo bianco una gran luce quasi nervosa. Sul tavolo, spoglio del suo bel tappeto azzurro e nero, posavano due o tre grossi volumi, un calamaio e un manoscritto aggruppati presso la sedia da dove s'era alzato Steinegge. "Voi vedete" disse Steinegge "questo Gneist è un grande uomo, grandemente stimato in Germania. Bisogna leggere un articolo di questa Rivista Unsere Zeit. Voi sapete? Oh, ff! Ma io sono un piccolo uomo, e quando ho tradotto cinque o sei pagine, non è possibile andare avanti; è questo. Voi, Voi dovreste imparar presto il tedesco e tradurre il Self-Government per la Vostra nazione. Io lavoro per il signor conte perché io devo mangiare, ma io getto questa fatica in un pozzo, e poi io traduco in francese molto m ale. Io credo che guadagnereste molti denari perché tutti gl'italiani comprerebbero. No? Voi non credete? Voi non credete? Ooh! Questo mi meraviglia molto, caro amico. Se avessi denari, farei tradurre per speculazione a mie spese. No? Ah, no. Questo mi meraviglia molto. Sedete. Voi avete un libro?" "È un libro che mi permetto di offrire alla signorina Edith" rispose Silla, posando il volume sullo scaffaletto accanto al busto di Schiller, e guardando Edith. "Oh, molte grazie, caro amico" disse Steinegge. Edith posò le mani sul lavoro e volse il capo a Silla. "Grazie" diss'ella, tra attonita e curiosa. "Che libro è?" "Il libro di cui Le ho parlato iersera." "Iersera?" "Guardalo dunque!" disse Steinegge porgendole il volumetto con un leggero atto d'impazienza, il primo forse che gli sfuggisse parlando con sua figlia. "Ah, il suo libro Un sogno! Lo leggerò volentieri, certo. Lo leggeremo insieme, papà, per riposarti del tuo Gneist. Ti prego." Gli rese il libro, senza sfogliarlo, non senza però aver intravvisto la dedica e le quattro righe scrittevi sotto, e si ripose al lavoro. "Io sono sicuro che sarà bellissimo e che ci troveremo grande piacere" disse Steinegge, rosso rosso, per cercare di supplire alla freddezza di sua figlia. "Versi?" "No." "No? Io credeva che Voi foste poeta." "Perché?" "Scusate, mio caro." Steinegge prese con ambo le mani, ridendo, il braccio del suo interlocutore. "Per la Vostra cravatta che è sempre fuori di posto. Io ho dato lezione in Torino a un giovane, il quale diceva che i poeti in Italia si conoscono dalla cravatta non in prosa, non a posto. Non fate versi Voi?" "Mai." "Questo è un racconto?" "Sì." "Sarà stato molto lodato, io credo, dal pubblico e dai giornali, non è vero? Avrà fatto rumore?" "Sì, il rumore di un sasso che cade in un pozzo. È stato accolto gelidamente. Non ha trovato una sola persona, neppure tra le poche a cui l'offersi, che l'abbia accolto come si accoglie un forestiere raccomandato da qualche amico, un visitatore onesto, civile, senza ingegno forse, ma non senza cuore, posso dirlo, il quale vi domanda solo di essere udito quando vorrete Voi." "Come mai? Questa sarà invidia, io credo." "No, no, no. Ci sono uomini e libri sfortunati che spirano antipatia persino a' cuori più gentili." "Questo è vero, mio caro amico, questo è vero sempre." "Mi pare che un autore non lo dovrebbe credere" osservò Edith senza alzare il capo dal lavoro. Silla tacque. "Perché, Edith?" chiese Steinegge. "Perché questa opinione gli deve togliere la fede, la forza; gli deve impedire di studiare bene i difetti delle sue opere." "No" disse Silla. "Per un pezzo si dura saldi, anzi, più la fortuna ci combatte, più la si disprezza, più si lavora, più si cerca di appagare noi stessi, la nostra coscienza. Le ferite stimolano quasi, danno vigore; ma poi ne capita una inaspettata nel fianco, e allora non c'è più che da cader bene, a fronte alta, senza chieder pietà." "Sarà vero, ma direi che bisogna diffidar molto della nostra fantasia, e badar bene di non attribuire alla fortuna quello che non le va attribuito. Non Le pare? Non è più virile di crederci poco alla fortuna?" "Oh" esclamò Steinegge "come non vuoi credere alla fortuna? Saresti tu esule, quasi povera, e sola con un vecchio poltrone se non ci fosse la fortuna?" Gli occhi di Edith scintillarono. "Papà!" diss'ella. Egli non ebbe il coraggio di confermar colla voce, ma confermò col capo, ridendo silenziosamente, quello che aveva detto. Edith si alzò e gli si avvicinò. "Scusi, signor Silla" diss'ella appassionatamente. "Lei è nostro amico e mi permette di dire una parola a papà. Puoi tu ignorare" soggiunse rivolta a quest'ultimo "che non v'ha per me felicità maggiore di vivere con te, sempre con te solo, amar te, servir te, sentirmi protetta da te, sapere che tu mi vuoi bene?" Ella disse questo in italiano e poi continuò in tedesco la sua effusione affettuosa. Intanto suo padre la interrompeva con esclamazioni e gesti, batteva con le mani su Gneist e sul tavolo; ogni musc olo del suo viso grinzoso lottava con la commozione. Stava per essere vinto. Trarre l'orologio, esclamare "Oh, C... che mi aspetta", correre a pigliarsi il cappello, fare un gran gesto di saluto a Silla e infilar la porta, fu un punto solo. Edith lo chiamò; non le rispose; corse per trattenerlo, egli era già in fondo alle scale, senza ombrello. Ella rimase sospesa un momento pallidissima; si compose tuttavia subito e invece d'avviarsi alla sua sedia presso la finestra, s'indugiò a disporre meglio le lucerni ne e i fiori sul piano del caminetto. "Signorina Edith" cominciò Silla con voce alterata. Ella si voltò, gli tese la mano e disse: "Buon giorno." Silla tacque un momento, poi soggiunse: "Scusi. Le rubo un minuto di più. Volevo dirle che solo adesso, dopo molte incertezze e ripugnanze, comincio a credere alla fortuna." Edith tacque. "Può intendermi, signorina Edith?" "Signor Silla, Lei è amico di mio padre e quindi è amico mio. Io non capisco perché Lei mi faccia tali discorsi. Non conosco bene la Sua lingua, ma se Lei vuole far dire alle parole più del dovere, questo non è bene e io non voglio." Ella disse "non voglio" con altera energia, con agitazione. Non parve comandare a Silla soltanto. Silla s'inchinò. "Non intendo" rispose "far dire alle parole più del dovere e non me ne rimprovero una sola. Del resto, ero venuto per dire a Suo padre che domani non posso pigliar lezione. Vorrebbe Lei avere la estrema bontà di avvertirnelo?" "Lo farò certo." "Mille grazie. Buon giorno, signorina." Egli andò e riprese il suo povero libro sullo scaffaletto. "Perché?" disse Edith. Egli sorrise scotendo la testa come per dire "che Le ne importa?" "Mio padre l'ha veduto" diss'ella, quasi timidamente, ma senza emozione. Silla posò il libro sul tavolo e, fatto un saluto profondo, a cui ella rispose appena, uscì. Edith, rimasta sola, tornò a sedere presso alla finestra e riprese sulle ginocchia il fazzoletto che stava orlando per suo padre. L'ago era caduto a terra e n'era uscito il filo. Ella volle infilarlo di nuovo. Le tremavano le mani; era impossibile venirne a capo. Allora chinò il viso come se lavorasse, e andò poco che due grosse lagrime caddero sulla tela. Si alzò, depose il fazzoletto, andò a pigliare Un sogno, aperse stando in piedi presso il tavolo e, tosto vista la dedica manoscritta, voltò senza legger e, alcune pagine. Quindi, sfogliando pagina per pagina, tornò alla dedica, vi si fermò. Per quanto tempo! Finalmente chiuse il libro con violenza, andò a metterlo sullo scaffaletto dietro il busto di Schiller. Se ne pentì, lo riprese, lo pose accanto al busto dove l'aveva messo prima suo padre. Aperse il balcone e si appoggiò alla ringhiera. Pioveva sempre e tirava vento. I ciuffi verdognoli degli alberi che rizzavano il capo tra casa e casa, lontano, si dondolavano malinconicamente. Una cortina biancastra chiudeva l'orizzonte tutto all'ingiro; dal lembo inferiore trasparivano le campagne fosche. Era un grande spettacolo di tristezza appassionata. Ma Edith non guardava né vedeva. Era venuta a cercar l'aria libera, viva, rinnovatrice di tutto, gradiva il battere delle fitte punterelline fredde. Si tolse di là dopo lungo tempo e andò a scrivere l a lettera seguente a don Innocenzo. Milano, 30 aprile 1865 Onoratissimo signore ed amico, accetteremo la cara amichevole offerta di venir qualche giorno in casa Sua. Le siamo tanto tanto grati! Mi pare che il signor conte non potrà offendersi se non andiamo al Palazzo; avrà bisogno di riposo dopo tanta confusione, tanta gente in casa per il matrimonio. E mio padre e io abbiamo pure bisogno subito di quiete e di verde. Scusi il cattivo italiano; non so come esprimere il mio concetto. Voglio dire che abbiamo bisogno di quel silenzio e riposo che si trova nei campi verdi, atto a quietare certi pens ieri non del tutto sani e farne nascere altri così freschi e semplici, così vogliosi di aria pura come le foglie degli alberi e dell'erba. È quasi certo che partiremo posdomani. Da qualche tempo mio padre non ha progredito come speravo e io sono in sospetto doloroso di me stessa. Io temo di non aver scelta la buona via e di non avere adoperato bene il grande amore di mio padre per me; mi viene nel pensiero che sarebbe forse stato meglio entrare risolutamente su quel terreno sin da principio, richiamare, pregare, esigere, e che non avrei perduto parte della mia influenza, come dubito averla perduta ora con le mie cautele forse troppo mondane, con mostrargli che sono tranquilla e con tenta come se non avessi nessuna nube nell'anima. Ho creduto, onoratissimo e caro signore, di domandare consiglio a un buon vecchio prete dal quale sono andata a Pasqua. Egli mi ha consigliato di fare speciali divozioni alla Vergine e a molti santi. Credo umilmente che questo è buono; ma io ho bisogno di sapere come fare, come parlare con mio padre tutti i momenti e non può essere poco importante se commetto errore o no. Non mi pare di poter avere aiuto superiore se non adopero anche, il meglio che posso, la mia ragione. Dio mi ha molto concesso perché mio padre ora viene in chiesa e so che sicuramente prega; ma questo è stato ottenuto assai presto, in principio. Egli ascolta molto volentieri parlare di cose religiose, come cerco io qualche volta, e pare allora disposto alla fede; ma se si tocca di quelle pratiche in cui entra necessariamente il sacerdote, io vedo quanto egli soffre di non esprimere la sua ripugnanza violenta. Forse nei primi tempi e forse ancora adesso egli vincerebbe, se io lo pregassi, questa ripugnanza: ma debbo io pregarlo? Posso io met tere alla tortura il mio spirito? Può esser mai questo il mio dovere filiale? E ne verrebbe un frutto buono, accetto a Dio? Quando penso le grandi sventure che ha sofferto mio padre e il suo lungo vivere fra uomini che non curano le cose dell'anima e penso la sua onestà di ferro, il tenerissimo amore ch'egli ha per mia madre ancora adesso e per me, la fede in Dio che gli è tornata, io sento di riverire mio padre come una persona santa, benché non pratica come io e tanta piccola gente che io conosco; e mi pa re male costringerlo ad atti che il suo cuore non desidera. Questi sono i miei intimi combattimenti. Ho bisogno, onoratissimo signore, della Sua parola viva, nella quale è un grande lume, una forza. E sovra tutto desidero che mio padre si trovi con Lei qualche tempo. Mio padre ha veramente simpatia per Lei, sentimento impossibile a conciliarsi con altri suoi. Questo è per me come un muto indice scolpito al principio di una via. Credo che vi sarebbe poca sincerità in me se Le dicessi ora che io ho bisogno del suo aiuto pure per me stessa. Lei sa come io comprendo il mio dovere verso mio padre. Sono convinta che, comprendendolo io così, così è. Io devo essere intera per mio padre, il quale non ha nessun'altra persona al mondo. Per lunghi anni egli ha vagato tutto solo sulla terra, soffrendo fatiche, ingiurie e fame, mentre io vivevo a Nassau come una damigella ricca, senza mandargli neppure un saluto. È poca cosa, per compensarlo di questo, tutto l'affetto umano ch'è nel mio cuore. Io non mi esprimo qui come vorrei; Le spiegherò meglio tutto questo a voce nella Sua casetta solinga tra i prati innocenti. Le dirò ch'io sono stata per un momento un misero cuore fragile, aperto alla sorpresa, e che il mio spirito, rialzatosi con violenza, è ancor intorbidato di dolore, di paura e anche di alcuna dolcezza, di alcuna compiacenza nel soffrire almeno una piccolissima cosa per il mio povero vecchio padre. È una confessione affatto non religiosa che io farò a Lei, onoratissimo signore, per trovarvi gradevole umiliazione e sollievo, ombre del divino che sono, io credo, anche nelle confessioni umane; e altresì per sci ogliermi dalla poesia bruciante del segreto. Mi perdoni questa lunga lettera. Mi pare, scrivendo a Lei, acquistare maggior fede e maggiore speranza. Quello che io sento e vedo della religione in Italia non è spesso secondo il mio cuore, forse perché io sono un freddo carattere tedesco; se v'è qui dentro fumo d'orgoglio, me lo dica, è la mia mala inclinazione; certo io trovo nella Sua parola un raro suono d'intimo argento, a cui tutta l'anima mia si apre. Preghi Dio per noi e ci voglia bene. E.S. Silla discese le scale con amara calma, gonfia di ironia verso se stesso, come se godesse ad ogni scalino calcare qualcuna delle stolide illusioni, delle folli fantasie portate lassù pochi momenti prima; calcarle con orgoglio virile, alzando fronte e cuore contro al nemico invisibile. Anche lì in quel cortile la perpetua piova ripeteva "piangi", ma non egli era inclinato a piangere. Per la terza volta gli falliva la speranza di un amore in cui, placato l'angoscioso grido dell'anima, sentirsi forte, sentirsi puro, sicuramente e per sempre, non vedersi più davanti nella veglia e nei sogni il sinistro fantasma di un'ultima caduta senza rimedio nel buio. Per la terza volta Dio gli diceva: "Vedi come è bello? Non l'avrai". Ma avrebb'egli pianto come un bambino, come un vile? No, mai. Il suo orgoglio e i cupi presentimenti non gli permettevano neppure di pensare quello che altri si sarebbe proposto; combattere, vincere Edith con lunga guerra. Che Edith potesse dissimulare non sospettò neppure un istante. Essere ama to, lui? Impossibile, lo sapeva bene. Nella via, a pochi passi dalla porta degli Steinegge incontrò un editore di seconda riga, a cui era stato presentato e raccomandato, come autore, pochi giorni prima. Colui guardò da un'altra parte, passò senza salutarlo. Che importava mai a Silla di questo, adesso? Si strinse nelle spalle. Poteva ben resistere anche a questo, poteva ben disprezzare quel signore che si credeva lecito d'essere incivile con gli autori di cui non voleva pubblicare gli scritti. Lotterebbe finché avesse sangue nel cervello e nel cuore. E ne aveva ancor molto, ricco di vigorosi pensieri, di dolcezza e di collera. Egli sentiva d'avere molte cose a dire in servizio del vero, molte belle e forti pagine di cose, prima di scendere ignorato e sdegnoso, alla fine della sua giornata, nel sepolcro, con l'altera coscienza di essersi serbato equo a un Dio ingiusto. Concetto fiero e superbo che, sorto nella solitudine del suo spirito, metteva stupore in lui stesso, gl'infondeva una forza demoniaca. N'era stato tentato altre volte, ma lo aveva respinto sempre. Adesso gli cedeva, se ne ubbriacava. Passando presso il Duomo volle entrarvi, come soleva fare talvolta nelle sue battaglie interne. Andò a sedere nella navata di mezzo, presso alla croce. Due o tre vecchie signore vestite di nero pregavano allo Scurolo nella luce piovosa delle alte finestre; il passo frettoloso di un chierico si udiva da lontano verso la porta di fianco nelle tenebre; qualche figura esotica si moveva lentamente nel chiarore caldo dei finestroni dell'abside. Silla, raumiliato a un tratto, appoggiò sul banco le braccia e sulle braccia il capo, chiese dal profondo del cuore al Re degli spiriti: Quid me persequeris? Allora si fece dentro a lui un gran silenzio freddo come quello della cattedrale e più nero. Pareva che l'ombra delle colonne formidabili fosse penetrata a schiacciarvi ogni pensiero. Quello stesso interno del Duomo, quella mente colossale nel poema di granito che si effonde magnifico al sole, mente ordinata, solida e misteriosa come la mente della Divina Commedia, divenne allora del tutto muta per lui. Un senso di uggia pesante l'oppresse. La sua volontà resistette inutilmente; non poteva scuotere quel man tello di piombo. Cercò ricordarsi del tempo passato, quando, fanciullo, veniva in Duomo con sua madre, immaginando al suono dell'organo i deserti di oriente, le palme, il mare, la vita contemplativa. Niente, niente, niente; la memoria era intorpidita, il cuore vuoto e senza eco. Qualcuno gliel'aveva percosso col fuoco, disseccato. Egli seguiva con l'occhio assopito i pochi forestieri che venivano dall'abside col cappello in mano, lenti, guardando in alto. Le colonne accigliate spiravano tedio, vapori di son no salivano dal pavimento, le porte, tratto tratto, sbadigliavano. Era come una plumbea calma in fondo ad acque morte, che non sentono il passar dei secoli. Silla non ripeté la sua domanda, poiché non gli si voleva rispondere. Cercò deliberatamente nella memoria qualche profana imagine voluttuosa. Si rivide nella lancia Saetta, fra le grandi onde accorrenti, in faccia a Marina che gli piegava incontro il viso, disegnandosi sul chiarore abbagliante del lago sfolgorato dietro a lei dai lampi. Ne sentì i picco li piedi appoggiati a' suoi. La fredda chiesa piena di tedio s'intepidiva, si ravvivava; era un acre piacere fissare le pietre ascetiche, trarne questa luce, questo calore dei sensi, conoscer la voce dolce e forte del tentatore; abbandonarsi a lei. La fantasia correva ad altre imagini febbrili. Marina era con lui, non più fra le onde, ma nella sua stanza del Palazzo, gli diceva "finalmente!", gli prendeva la mano, lo traeva a sé sorridendo con un dito alle labbra, nella notte profonda... Si alzò e uscì di c hiesa, vacillando. Dio gli aveva risposto.

La scuola di ballo

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Loria, Arturo 1 occorrenze

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Le Fate d'Oro

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Perodi, Emma 1 occorrenze

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