Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Aristotele esposto ed esaminato vol. II

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Se questo severo giudizio debba ricadere tutto intiero sopra il precettore del Peripato, o una gran parte ne sia dovuta all' imperfezione de' documenti, da cui noi siamo obbligati d' attingere la sua dottrina, o quella che per sua ci è presentata, questo è impossibile a dirsi, ed inutile alla filosofia. A questa, i cui studŒ ed amori sono tutti collocati nella verità, importa solo, che si separi con diligenza nelle opinioni il vero dal falso, acciocchè l' autorità degli antichi non ci trattenga più indebitamente dal libero uso del pensiero filosofico, e dall' acquisto d' una scienza sempre più purgata e matura. Ricominciamo dunque a cimentare la dottrina del nostro filosofo esposta ne' libri precedenti. Il fondamento d' una teoria ontologica o metafisica, è il principio della ragione sufficiente. Poichè l' esposizione dei fatti della natura, di cui non si può assegnare alcuna ragione, sarà una storia naturale o una fisica, ma in nessun modo una teoria metafisica. Ma Aristotele, sia che disperi di rinvenire questa ragione e quindi con sobrietà e modestia filosofica s' astenga dall' indagarla, sia che non abbia appieno intesa la suprema necessità, che c' è in ontologia di dare o di cercare almeno quella ragione che basti alla spiegazione de' fenomeni mondiali, lascia i più notevoli fatti senza indicare nè cercare il loro perchè. Così qui vi dice, che la materia di cui constano certi enti si move da sè, la materia di cui constano altri non si move da sè, ma deve essere mossa dall' arte. Ma perchè questa differenza tra le materie di cui constano diversi enti della natura? Questo perchè manca affatto nella teoria Aristotelica; e non solo manca come una cosa non ancora trovata, ma come una cosa che non può trovarsi, perchè si suppone che affatto non ci sia. Così al caso , nel più stretto senso, Aristotele, checchè dica, è obbligato a far fare la sua parte negli avvenimenti mondiali. Ma quando si dice in questo senso il caso, si dice una non causa , una non ragione. E che cosa è una non causa, una non ragione, se non una mancanza di filosofia? Rimane infatti necessariamente questa gran lacuna in un sistema, che suppone la materia e il mondo eterno: è lo stesso che ammetterlo senza ragione e senza causa. Perchè la materia è piuttosto tanta che tanta? Perchè veste piuttosto queste che quelle forme? Perchè le veste con quest' ordine di prima e poi? Perchè è distribuita così nello spazio? Perchè ha quelle forze piuttosto che quest' altre? A tutte queste domande Aristotele necessariamente ammutolisce; non gli resta che a dire: « E` così ». Lo dica pure; ma chi l' autorizza poi a dire che fu sempre così? Qui l' abbandona l' esperienza; e senza questa gli rimane l' ipotesi; ma l' ipotesi, con cui egli travalica l' esperienza, è assurda, perchè è la negazione d' ogni ragione. Non s' è dunque sollevato nè ha punto inteso il bisogno di sollevarsi all' altezza della questione posta da Platone: qual è la prima ragione che spieghi l' esistenza e l' ordine dell' universo? Solo rispondendo come fa Platone: una mente eterna, ottima, creatrice, l' enigma del mondo riceve la sua spiegazione: e tutto ciò che è, ed il modo in cui è, e ciò che avviene, ricupera l' ultima sua ragione, da cui dipende, come un frutto da una pianta, la sua possibilità. L' arte, dice Aristotele, non può far nulla senza una materia. - Chi ve l' ha detto? - L' esperienza dell' arte umana . - Ve l' accordiamo intieramente se parlate dell' arte umana. Ma il discorso di Platone non risguardava nè l' operare dell' arte umana, nè quello della natura. Egli saliva più sù e dimostrava che è necessario pervenire ad un Ente assoluto, diverso dal mondo che non ha in se stesso nessuna ragione d' esistere; non condizionato, quest' Ente assoluto alle leggi del mondo, e perciò operante in modo affatto diverso da quello che vediamo farsi dalla natura e dall' arte umana; poichè solo supponendo codesto Ente, si possono spiegare quelle cose che non dipendono da questi agenti finiti, e la stessa esistenza, la stessa costituzione di questi stessi agenti. Platone dunque lascia valere tutti gli agenti d' Aristotele, la natura e l' arte umana: accorda ad Aristotele, che tali sono appunto le leggi e le condizioni di questi agenti quali Aristotele li descrive; ma dopo di ciò domanda, perchè sono tali? E la ragione la trova in Dio; laddove Aristotele a questo ammutolisce. Aristotele, a ragion d' esempio, vi dice: vi è questa materia; la materia non è una se non per analogia, ma le materie sono diverse secondo le specie degli enti; questa materia è suscettiva di tali specie, perchè le ha in potenza nel proprio seno, quest' altra no, ma è in potenza ad altre: questa materia ha un moto suo proprio, e quest' altra non l' ha, ma dee esser mossa dall' arte; questa ha un dato moto, ma non un altro: perciò fa alcune cose a caso, ma non può farne cert' altre, senza che l' arte la mova. Ma perchè tutto ciò? Che necessità? Non potrebbe esser altrimenti? Non potrebbe non esistere affatto questa materia? E che cosa la determina a ricevere queste piuttosto che quest' altre forme, ad aver in sè questa piuttosto che quest' altra virtù? Voi non trovate in essa nessuna ragione di ciò: il pensiero pensa l' una cosa e l' altra senza ripugnanza. Il sistema Aristotelico dunque è in aria, manca di ragion sufficiente, non spiega punto l' esistenza del mondo e le cose che in esso avvengono. Oltre di ciò, Aristotele è ingiusto con Platone quando pretende di confutare la sua sentenza che « le forme sieno le prime cause delle cose », sofisticamente interpretandola. Aristotele si stende a provarvi una cosa che Platone non avrebbe mai contraddetto, cioè che non c' è una generazione delle forme separate dalla materia; ma che il composto tutt' intero, materia e forma, si muta nello stesso tempo. Il dire, che si muta anche la materia , è un errore contraddetto da Aristotele stesso, e quest' errore nasce dalla confusione che fa sempre Aristotele tra la materia prima , che è una pura astrazione e che è svestita d' ogni forma, la quale, ne' corpi, deve esser una; e le materie seconde , a cui Aristotele, come vedemmo, lascia certe forme, dalle quali solo può nascere una varietà di materie, varie specie di materia. Di poi, si cangi pure il composto, ma la questione non istà sul cangiamento, ma sulla prima causa, per la quale un ente, dopo ultimato il cangiamento, è quello che è. Ora Aristotele stesso concede che questa prima causa è la forma: è dunque d' accordo con Platone. Altro è dunque cercare perchè un ente è quello che è: altro è cercare, perchè un ente si cangia e diventa un altro. Platone insiste sul primo perchè, Aristotele sul secondo: le due questioni sono diversissime. Platone credette che al filosofo spettasse: 1 trovare la dottrina della prima causa da cui procede la natura e l' uomo con tutte le sue leggi e forze; 2 trovare la dottrina di tutto ciò che c' è di divino, cioè di partecipato dalla prima causa nella natura e nell' uomo. Quanto poi alla questione del modo d' operare delle cause seconde, l' abbandonò al fisico, e non la reputò argomento proprio del filosofo. Aristotele s' impossessò di quest' ultima questione, e la volle elevare al primo seggio, esagerando l' importanza delle cause seconde, come se non ce ne fossero altre, come se fossero esse stesse le cause prime. Gli s' affacciò soltanto la difficoltà in un modo parziale, quando s' accinse a spiegare il movimento: allora vide che la natura intera non conteneva il principio del moto e ricorse ad un primo motore fuori della natura. Noi esporremo tantosto questa parte, la più elevata di tutte nella dottrina aristotelica. Ma prima vogliamo osservare quanto sia labile la mente umana anche negli ingegni più acuti. Nessun altro filosofo, meglio d' Aristotele, ha forse dimostrato l' assurdità del ricorso delle cause all' infinito, e della necessità d' arrestarsi ad una prima (1): questi vide pure che niun numero può essere infinito se non in potenza. Or bene a malgrado di questi principŒ veduti da Aristotele e dimostrati, che fa egli ponendo il mondo eterno e in continue vicissitudini? Egli stabilisce che le cose mondiali abbiano percorso un numero attualmente infinito di cangiamenti; ed essendo un cangiamento causa dell' altro per la continuità del moto, egli stabilisce col suo sistema, che ci sia stato nel mondo un vero ricorso di cause all' infinito. Inserisce dunque nel suo sistema due sentenze, che secondo gli stessi principŒ elementari ed evidenti da lui stabiliti, sono patentemente assurde. Ma è degno che, di più, s' osservi come lo stesso Aristotele che riconosce assurda una catena di cause infinita, da una parte applichi questo principio con esagerazione, e nello stesso tempo da un' altra lo dimentichi. L' esagerazione è questa. Tutti i quattro generi di cause debbono essere eterni, secondo Aristotele (1); deve, di conseguenza, essere eterna una causa materiale, una formale, una motrice, una finale: poichè, secondo il ragionare di questo filosofo, se d' una materia, a ragion d' esempio, ne venisse un' altra, e di questa un' altra, e così all' infinito, ricadremmo nel detto assurdo: dunque ci deve essere una materia prima eterna: la qual materia prima avrebbe bensì le forme più imperfette, secondo Aristotele, ma non ne sarebbe mai del tutto priva. Anzi ci sarebbero diverse materie prime, secondo lui, aventi ciascuna diverse altre specie in potenza. L' argomento avrebbe forza per verità; ma ad una condizione, a condizione che sia vero ciò che si vuol dimostrare. Pecca dunque di circolo, perchè quell' argomento prova unicamente che la materia è eterna, se non è stata creata, cioè se il suo principio non si debba ripetere da una prima causa immateriale. Non dimostrando Aristotele punto che questo sia impossibile, le trasmutazioni della materia, altro non provano se non che queste trasmutazioni hanno cominciato con una materia, ma non che questa materia con cui hanno cominciato non sia stata creata con un' azione, che è tutt' altro che una trasmutazione, con un' azione la cui natura non ha niente di simile alle azioni della natura, benchè verissima e necessarissima. Ma, come dicevamo, da un' altra parte poi Aristotele, posta l' eternità di quelle cause, dimentica il principio « dell' assurdità che c' è in una serie di cause e d' effetti infinita », quando non vede niente d' impossibile che la serie degli atti operati da quelle cause sia veramente eterna. Le cause in potenza e le specie delle cause non possono essere infinite; gli atti di ciascuna di queste cause non possono essere infiniti. Ma l' assurdità c' è tanto in questa seconda supposizione, quanto nella prima; e però il sistema è incoerente. Abbiamo detto, che Aristotele lascia il mondo e la quantità, la qualità, la disposizione delle cose di cui consta il mondo, senza ragione sufficiente, e però la sua dottrina non è veramente una teoria ontologica o cosmologica. Dobbiamo ora dire come parzialmente e da un solo lato si presenti alla sua mente il bisogno di ricercare una causa sufficiente fuori della natura. Egli s' accorge di questo bisogno dalla considerazione che non tutte le cose, com' egli stima, avvengono per necessità, ma alcune per caso, o, com' anco dice, per accidente. Ecco come definisce quest' accidente fisico, come noi lo chiamiamo (1): [...OMISSIS...] . Ma se è accidentale l' evento, argomenta Aristotele, dunque anche accidentale la causa (1). Ma qual sarà questa causa accidentale? Avea altrove insegnato, che la causa delle cose che avvengono per caso, è la materia che si move talora da se stessa, sottraendosi alla legge della forma. [...OMISSIS...] Ora s' accorge in qualche modo Aristotele, che questo non basta, e che bisogna trovare una ragione , perchè certe volte accada questo alla materia. Continua dunque a proporre la questione che riceve questa forma: [...OMISSIS...] (3). Egli vede che di queste stesse cause accidentali non può esservi una serie infinita. Poichè dice: Si farà questa cosa o no? - Si farà, se si avvererà questa condizione. - Ma questa condizione si avvererà ella? - Si avvererà, se avrà luogo quest' altra condizione. E così converrà fermarsi in un' ultima condizione. [...OMISSIS...] Dopo aver dunque Aristotele confessato, che ci sono eventi accidentali, che questi essendo incerti non possono essere oggetto di nessuna scienza e di nessuna arte (1), che nè manco possono essere spiegati colle leggi della generazione e della corruzione, le quali procedono per necessità e con leggi stabilite e determinate (2); dopo aver detto altresì che la causa di questo operare per accidente deve ridursi ad un principio ultimo, non riducibile più in un altro, chè altramente non sarebbe ultimo: lascia in dubbio, e dice esser cosa da ricercarsi, se questo principio la cui produzione non ha causa, si riduca ad uno dei tre generi di cause, la materiale, la finale, o la motrice; senza tener più conto di ciò che aveva detto prima, la causa dell' accidentale essere nella materia. Sebbene dunque lasci qui il discorso, e sembri che ponga l' ultima, quale causa dell' accidentale, ciò che sarebbe appunto il caso; tuttavia altre confessioni preziose si possono raccogliere intorno a questa prima causa dell' accidentale da questo stesso libro dei « Metafisici ». In realtà Aristotele riconosce una grande analogia o somiglianza tra la prima, causa dell' accidentale, e la mente che compone e divide, producendo così il vero o il falso. Dell' accidente dice, che la causa è indeterminata ; della mente poi dice che « « essendo la composizione e la divisione nella mente, non nelle cose, ciò per fermo che è così, è ente diverso dagli enti propriamente detti. Si tratta appunto o della quiddità, o della qualità, o della quantità o se altro c' è che compone o divide il pensiero »(3) »; onde anche il vero e il falso che definisce « « una passione del pensiero »(4) », è indeterminato e non ristretto a un solo dei generi categorici degli enti. Conchiude dunque che « « amendue » » (l' accidentale e il vero ) « « sono fuori del restante genere dell' ente, e non dimostrano una certa natura di enti fuori esistente »(5) ». Questa è un' osservazione acuta, che avrebbe potuto condurre Aristotele alla scoperta del vero. Poichè riconoscendo egli che il vero ed il falso che risiede nella mente non può allogarsi in alcuna delle categorie, e che la causa dell' accidentale è del pari indeterminata; facilmente avrebbe potuto proporsi questa questione: « non potrebbe forse essere questa causa una mente suprema, libera, e perciò appunto tale che le sue operazioni non sono determinate da alcuna necessità? ». Alla quale questione si trovava prossimo tanto più col pensiero, che sul principio dello stesso libro avea riconosciuto dover esserci una sostanza superiore a quelle che sono costituite da natura, e questa non appartenere a nessun genere degli enti, ma essere universale, e la scienza di questa sostanza esser la prima di tutte le scienze, e universale, e trattar dell' ente come ente, e non come un genere (1), e di più avea parlato dell' eligibile [...OMISSIS...] come principio delle scienze ed arti pratiche: poichè la facoltà d' eleggere è indeterminata, non è causa necessaria, onde si può manifestamente dir causa dell' accidentale . Che più, se egli stesso in alcun luogo esce in questa sentenza: [...OMISSIS...] . Sebbene dunque Aristotele non si sollevasse a ricercare la causa della natura e della generazione, nè dell' esistenza della materia, s' accorse però, che, anche ammessa e la natura e la materia, siccome eterna, rimaneva qualche cosa ancora, che con tutte le cause naturali non si poteva spiegare, e quest' era l' evento accidentale, e per questo filo la sua mente fu obbligata ad uscire dell' ambito della natura, a cui pur era così tenacemente appiccicata. Ma non potè attribuire alla libera volontà di Dio tali eventi accidentali, perchè egli avea chiuso Dio in lui stesso, e privato d' ogni efficienza nella natura, altro non lasciandogli che d' essere l' oggetto del desiderio e della contemplazione. A questo nondimeno si rattaccò nella sua mente la questione del moto. Egli vide che nella natura, oltre la materia , la forma e la privazione , oltre il composto di materia e di forma, oltre la virtù insita in questo composto, la natura , causa della generazione e della corruzione, c' era qualche cos' altro, cioè una causa motrice , che influiva per qualche modo in un ente naturale, benchè esistente fuori di esso; e anzi che più cause motrici potevano concorrere a dare il movimento a una materia che si naturava. Così rispetto all' uomo egli annovera tre cause motrici ed esterne (oltre la suprema), cioè il genitore , il sole e lo zodiaco (1), e queste due ultime non della stessa specie «ute homoeideis:» chè le sole cause puramente motrici possono, secondo lui, non essere unispecie coll' effetto. Ora partendo dalla sua ipotesi (e non è mai altro che una ipotesi, niuna vera dimostrazione arrecandone) che il movimento degli astri sia eterno ed eterne di conseguente le vicende della natura, da quest' ipotesi, ossia da quest' errore trae con molto ingegno una gran verità: la necessità cioè d' un eterno motore: ben accorgendosi che non si può ammettere un movimento , che è un cangiamento continuo, senza una causa. Poichè, quantunque Aristotele si contenti di lasciare senza ragione sufficiente l' esistenza delle cose finite, gli ripugna troppo a lasciare senza causa il moto; e quantunque sembri talora che abbandoni al caso alcuni avvenimenti che si tolgono dal consueto operare della natura, il che non è altro che lasciarli senza causa, tuttavia non sostiene che gli stessi avvenimenti ordinari della natura rimangano senza cagione, come rimarrebbero, qualora non si ricorresse a una prima causa estranaturale del movimento; e gli astri, e tutte le trasmutazioni dell' universo senza quella prima Causa si fermerebbero (2). Spaventato dunque, per così dire, dal pericolo di arrestare il mondo e ogni generazione dal suo corso eternale, si diede alla ricerca della prima cagione del moto. Afferrato questo capo, egli ragiona egregiamente sulla natura di questo principio eterno in questa maniera: Il moto nell' universo ed il tempo è continuo ed eterno (1): dunque è necessario che ci sia un motore continuo ed eterno: perchè l' effetto non può essere maggiore della sua causa. Questo primo motore deve essere una sostanza, chè la sostanza è la prima delle cose, l' altre tutte riferendosi alla sostanza e supponendola prima di sè (2). La qual sostanza deve essere anche continuamente in atto, anzi la sua natura deve essere puro atto: perocchè se potesse essere in potenza cesserebbe, almeno qualche volta, d' agire (3), e se una volta cessasse, come riprenderebbe poi la sua azione? Se ella poi è puro atto, è altresì priva di materia, ed è pura specie , per la definizione stessa della materia e della specie, intendendosi per materia ciò che è in potenza, per forma ciò che è in atto (4). E qui riconosce ancora che, qualunque sia il movimento di cui la materia sia suscettiva, ella non può mai dare da sè a sè stessa questo movimento, ma conviene che lo riceva o dalla specie pura, che è nella mente dell' artefice, o dalla specie che è congiunta alla materia e che vi produce quel principio attivo che si chiama natura (5). Essendoci dunque una prima sostanza immateriale fuori della natura, prima causa motrice, e dovendo essere sempre in atto, conviene che ella mova restando immobile (6). Ma che cosa c' è che rimanendo immobile mova altre cose? Risponde Aristotele, seguendo in questo certamente Platone: [...OMISSIS...] . Ora Aristotele distingue il bello apparente [...OMISSIS...] , ed è ciò che si appetisce col senso [...OMISSIS...] , dal vero bene , ed è ciò che si appetisce e si desidera prima di tutto dalla volontà, il primo voluto [...OMISSIS...] . Ma il primo Motore è assolutamente bello e in esso tende prima di tutto la volontà. Il primo appetibile dunque e il primo intelligibile sono la cosa stessa [...OMISSIS...] , sono l' assoluto bello [...OMISSIS...] . Ora qui Aristotele ottimamente dimostra come questo primo intelligibile formi la mente e questa a lui si leghi e con esso diventi, in un certo modo, una cosa. Ma conviene recare le sue stesse parole. Dopo aver detto dunque che l' intelligibile primo è il primo desiderabile, perchè assolutamente bello, continua così: [...OMISSIS...] . Dice dunque che l' intelligibile fa una serie di cose per sè, e la prima delle cose intelligibili è la sostanza, poichè l' altre cose si rattaccano a questa, e tra le sostanze la prima è di necessità quella che è semplicemente, e tutta in atto, poichè quello che ha una qualche potenza non è ancora semplicemente, ma è sotto un rispetto particolare. Ora l' intelligibile move la mente, e da questa mozione viene l' intellezione. C' è dunque prima di tutto l' intelligibile «noeton» (questo precede tutte l' altre cose ma solo di concetto), di poi la mente, «nus», di poi l' intellezione, «he noesis;» ma questa appunto perciò è l' ultimo atto, e perciò il principio come dice. E se la intellezione è l' atto, perciò è la sostanza prima, cioè il primo intelligibile. L' intellezione per sè dunque è il primo intelligibile per sè, onde la prima ed eterna sostanza « « è intellezione d' un intelligibile che è la stessa intellezione » » [...OMISSIS...] Nella sostanza prima dunque e tutta atto, conviene che queste cose si trovino unite e coesistenti, di modo che sia ad un tempo intelligibile, mente ed intellezione , ossia che la mente e l' intelligibile sia l' intellezione stessa. Questo si fa a spiegare il nostro filosofo considerando la natura della mente in universale colle seguenti parole: [...OMISSIS...] . Il puro atto adunque è riposto da Aristotele nell' intellezione che è ad un tempo e mente in atto ed intelligibile in atto, e queste due cose si distinguono dall' intellezione solo perchè la mente e l' intelligibile può essere in potenza, come è negli enti inferiori, ma l' intellezione e la contemplazione che è atto, non può mai essere potenza, chè sarebbe il contrario della propria natura. Laonde noi che abbiamo della potenza, non sempre contempliamo; ma Iddio, che è puro atto, sempre attualmente intende e contempla e però vive in eterno. [...OMISSIS...] In questa certo nobilissima dottrina è difficile ad intendere come Iddio sia pura intellezione per sè senz' altro. In primo luogo se si dà a quest' intellezione un oggetto diverso dall' intellezione stessa, già non è più intellezione pura. Aristotele, che vede la difficoltà, dice che l' intellezione prima e pura è oggetto di sè stesso, onde la definisce: intellezione d' intellezione, [...OMISSIS...] . E quest' è forse l' ultima parola che potea dire la filosofia, ma insieme quella in cui la filosofia stessa veniva meno. Poichè in quella parola compariscono non una sola intellezione, ma due; 1 l' intellezione come atto; 2 l' intellezione come oggetto: c' è dunque pluralità, e non più unità. Di poi, se l' oggetto è la intellezione stessa, questa intellezione oggetto deve avere tutto ciò che si richiede acciocchè sia intellezione. Ma l' intellezione per essere tale deve pure avere un oggetto. Dunque anche l' intellezione oggetto deve avere un oggetto; e così si va all' infinito. La speculazione filosofica dunque delle genti, all' ultimo, al più sublime e al più necessario suo passo venne meno, cadendo non tanto in un mistero, quanto in una contraddizione. Noi, illuminati da più che umana sapienza, discioglieremo il nodo nella Teologia, mostrando che ciò che cercava l' antica Filosofia senza raggiungerne il concetto era l' ente sussistente infinito per sè inteso (2), cioè il Verbo, dove non cessando ogni mistero, cessa però ogni contraddizione. Di poi, se l' intellezione pura altro non intende che se stessa, ed essa non è che intellezione pura, come conosce Iddio l' altre cose? A questa difficoltà si smarrisce di nuovo e cade Aristotele. Se questo filosofo avesse potuto concepire un Dio creatore, sarebbe altresì giunto a sciogliere la difficoltà che si presentava al suo spirito e che consisteva nella conciliazione di queste due proposizioni egualmente dimostrabili: 1 Iddio intende solo sè stesso; 2 Iddio intende tutte le altre cose. Poichè, solamente ammessa la creazione, si concepisce che le cose finite abbiano un modo d' esistere eminente e obiettivo in Dio, e che Iddio possa conoscerle compiutamente in sè, conoscendo solo sè stesso. Ma avendo dato Aristotele un' esistenza eterna alle cose mondiali indipendente, in quanto all' essere, da Dio, e dipendente solo come da causa finale e bene appetibile, concependo Aristotele Iddio sotto l' unico concetto di primo motore immobile, non c' era più verso di pensare che le cose mondiali fossero comprese in Dio, e da Dio nella loro natura propria conosciute. La conciliazione dunque di quelle due proposizioni nel sistema d' Aristotele diveniva impossibile, e quindi egli fu spinto a rigettarne una: mantenendo la prima sacrificò l' onniscienza divina . Ed ecco come egli ragionò: [...OMISSIS...] (1). Vedendo dunque Aristotele che l' inteso doveva immedesimarsi coll' intelligente e coll' intellezione, e non conoscendo quel modo oggettivo nel quale le cose mondiali esistono in Dio, ma solo l' essere di queste cose subiettivo, pensò, come sembra, che se la sostanza suprema ed ottima conoscesse le cose più vili si immedesimerebbe colle cose più vili, e così non vide altra via se non stabilire che l' oggetto della sostanza ottima debba esser l' ottimo, e null' altro che l' ottimo. Ora tra tutte le cose trovò che la migliore è la mente, ma questa non in potenza, ma tutta e pienamente in atto, perciò purissima intellezione. L' intellezione purissima dunque doveva essere l' oggetto ottimo di sè stessa: e dall' ottima sostanza così formata venne da Aristotele escluso il conoscimento delle cose inferiori, perche, disse, d' alcune cose è indegno pensare; [...OMISSIS...] , e alcune cose è meglio non vedere, che vedere, [...OMISSIS...] (2). Avendo dunque tolto a Dio la cognizione delle cose mondiali, gli tolse del pari la provvidenza di esse: era coerente: se le cose non sono create da Dio, nè pure conosciute; se non conosciute, nè pure governate: la gran differenza dunque tra Aristotele e Platone si riduce a questo, che l' uno concepisce la necessità d' un primo Creatore, e l' altro solo quella d' un primo Motore (3). Come poi a malgrado di questo in altri luoghi descriva Iddio come quello che contiene il mondo, noi dichiareremo altrove: vedremo cioè che questa contenenza è simile a quella, secondo la quale si potrebbe dire che un circolo contenga tutti i poligoni possibili, perchè è più ampio di qualunque poligono, e non perchè contenga i poligoni nella natura propria di ciascuno di essi. E` oltracciò da considerare che Aristotele parla dell' intellezione in sè stessa considerata, come d' unica cosa, come d' una prima sostanza realmente singolare (benchè la stessa prima e singolare sostanza egli senz' accorgersi la faccia poi universale), di cui l' uomo partecipa per brevi istanti, non potendo durare nella contemplazione molto tempo, ma essa, l' intellezione, non perdendo mai la sua natura d' intellezione, rimane eterna, infaticabilmente contemplante sè stessa, che è l' ottima di tutte le cose. Quello dunque che dice dell' intellezione divina, dice d' ogni intellezione come avente la stessa natura o piuttosto essendo la medesima, ma qui congiunta a una natura inferiore di sè, cioè all' anima ed al corpo umano. Ed è in questa maniera di concepire del nostro filosofo che si trova il primo anello col quale congiunge fisicamente Iddio alle cose mondiali. Poichè Iddio è l' intellezione pura di sè stessa, immobile, immutabile: quest' intellezione è il bene, la vita (1). L' uomo è un ente che per brevi istanti partecipa di quest' intellezione, e però di Dio. Quest' intellezione costituisce un medesimo coll' inteso. L' inteso è la forma. Le cose del mondo partecipano della forma e della materia. Ma questa forma non è intellezione se non in potenza, fino che è unita alla materia; l' atto intellettivo è impedito dalla materia. Ma quando queste cose materiali agiscano per via de' sensi nell' anima umana, allora quest' anima con una sua facoltà che è la mente, separa quella forma dalla materia. Allora quella forma nell' anima è una cosa coll' intellezione. Questa dottrina risulta da tutto l' insieme de' diversi luoghi paralleli dell' opere d' Aristotele, di cui molti abbiamo già riferiti. Il seguente ne fa la conferma. Dopo dunque che Aristotele ebbe mostrato necessità, che l' intellezione per sè abbia sè stessa per oggetto, e quindi che l' intellezione e l' inteso sieno una stessa cosa, si fa questa obbiezione: [...OMISSIS...] . A questa obbiezione risponde dubitativamente come suole, ma esprimendo però il suo costante pensiero, [...OMISSIS...] . E questo poi afferma dicendo che la cosa, cioè la forma che è nelle cose, è ella stessa la scienza, come noi abbiamo mostrato anche di sopra, poichè dice: [...OMISSIS...] . Le quali ultime parole (3) vengono a dire che non c' è intellezione separata dall' inteso nè inteso separato dall' intellezione, ma l' intellezione dell' inteso è una sola entità, che si dice semplicemente intellezione . Dice dunque, che nelle scienze fattive la cosa è l' oggetto inteso privo di materia; nelle speculative la cosa è l' intellezione stessa. Ma poichè anche in quelle c' è intellezione, e anche in queste l' inteso, non c' è in verità che un' intellezione, cioè l' intellezione dell' inteso. Propone poi un altro dubbio, [...OMISSIS...] . Vuol dunque dire che la facoltà di giudicare e di raziocinare, cioè di comporre e di dividere, ha una operazione passeggera, e in questo passaggio non istà il perpetuo ben essere, [...OMISSIS...] , perchè il movimento non è atto compiuto; ma si trova quel ben essere, quando giunta alla fine si riposa nella contemplazione dell' ottimo: questo però non è essa stessa, bensì altro, [...OMISSIS...] . Ma l' intellezione per sè, è l' ottimo ella stessa, e però è intellezione di sè stessa, e quindi non composta, non mutabile, e tale che non può cessar mai. Questa dottrina Aristotelica per la quale il primo movente è il Bene, e questo bene non è altro se non l' Eterna intellezione , che ha per unico oggetto inteso sè stessa, molte difficoltà suggerisce al pensiero. Primieramente , quella che abbiamo accennata, che « una pura intellezione di sè stessa »è cosa assurda, e a questa non soccorre, come dicevamo, il pensiero aristotelico. Di poi l' altra pure toccata, di fare che Iddio non conosca le cose mondiali; a cui pure vien meno il sistema. Ve n' ha una terza a cui il sistema in qualche modo risponde, ed è questa: « se l' eterna e suprema intellezione non ha per oggetto che sè stessa, onde vengono le idee determinate, le forme delle cose mondiali che, separate dalla mente, sono intelligibili? O che cosa riceve il mondo da quell' intellezione eterna, se da essa non gli vengono le forme? ». Rispondere a questa domanda è il medesimo che continuare l' esposizione che stiamo facendo del sistema aristotelico, quale risulta dai libri che abbiamo. Aristotele dunque, considerando astrattamente la natura della perfezione e dell' imperfezione, ripose il concetto della perfezione somma nel puro atto , e dell' imperfezione somma nella pura potenza . Provveduto di questi due concetti, egli concepì una gerarchia tra tutti gli enti per modo che il luogo più basso si tenesse dalla mera potenza , che fu detta anche materia prima , e il luogo più di tutti sublime si tenesse dal puro atto , ossia da Dio e tra l' uno e l' altro estremo gli enti medŒ si distribuissero in una scala di maggiore o minor pregio, secondo che avessero più di atto, e meno di potenza, o viceversa. Ora questo puro atto lo trovò nell' intellezione che non avesse per oggetto altro che sè stessa. E in fatto le cose intelligibili hanno più di atto delle sensibili, e nell' ordine delle intelligibili, ciò che vi ha di più attuale è l' intellezione , e tra le intellezioni quella che non ha bisogno d' altro che di sè stessa per esser tale, e però che non dipende da alcuno oggetto, eccetto sè stessa. Questa dunque è di tutte le cose la più nobile, la più perfetta, il bene per essenza, l' ottimo, l' onorevolissimo, il divinissimo. Questo è il concetto aristotelico dell' entità ottima e perfettissima di tutte, che rimane nondimeno priva d' ogni azione propria fuori di sè medesima, nè può conoscere altro, nè operar altro, tutta essendo la sua natura attuata ed esaurita nell' istesso atto dell' intellezione di sè stessa, onde al Dio d' Aristotele vien meno l' onniscienza, l' onnipotenza, e la provvidenza, come abbiam detto. Un tal ente è necessario, secondo Aristotele, che s' ammetta veramente sussistente, secondo il principio che « « le sostanze singolari sono anteriori alle universali e queste non possono stare senza di quelle »(1) ». E qui si osservi, come in fondo questo argomento aristotelico non differisce dall' argomento a priori proposto da S. Anselmo, e dopo di lui da tant' altri, ridotto dal Leibnizio a questa forma: « « Iddio è possibile; dunque sussiste » (2) ». Infatti a che in fin dei conti si riduce il pensiero Aristotelico sciolto dalle pastoie? A questo: « La sostanza possibile (o universale) non può stare senza la sussistente: ma quella c' è, dunque anche questa ». Un secondo argomento poi con cui Aristotele dimostra la sussistenza di Dio, è quello da noi esposto, cioè la necessità d' un Primo Motore. Questo, più veramente, non è un secondo argomento, ma l' applicazione del primo al movimento locale, uno de' quattro movimenti da lui distinti. Ma nella mente d' Aristotele manca, come già abbiamo osservato, la precisa e costante distinzione tra il vero singolare , che è l' ente reale, e l' universale : e l' infimo tra gli universali è preso da lui per singolare. Quindi molte fallacie di ragionamento, e il distruggere poi quello che aveva prima stabilito. Questo gli accade per non aver penetrata abbastanza la natura dell' essere oggettivo, e aver creduto che ogni oggetto dell' intuizione intellettiva dovesse essere necessariamente un predicato . Distinse dunque la sostanza prima dalla sostanza seconda , e volle che la prima non si predicasse d' alcun altro subietto (1), e che la seconda si predicasse della prima. Così pareva, che avesse distinto chiaramente il singolare reale dall' universale, la sostanza reale dalla sostanza ideale che si predica di quella. Ma questa distinzione gli sfugge di mano per non avere afferrata abbastanza la natura del reale , e non aver inteso che questo solo è quello che costituisce il singolare . Eccone la prova. Nel VII de' « Metafisici » dopo aver detto che la sostanza prima è quella che non si predica d' altro, trova insufficiente questa proprietà, e finisce col conchiudere che « « la sostanza si predica della materia, della sostanza poi tutte l' altre cose » », [...OMISSIS...] . Quella sostanza dunque che prima non si predicava di nulla, ora si predica della materia. Chi non vede qui la confusione del reale e dell' ideale? Poichè o parla d' una sostanza reale , e in tal caso non si predica certamente nè della materia, nè di cosa alcuna: ovvero parla d' una sostanza ideale , e questa d' altro non si predica che della sostanza reale . Come dunque si può dire che la sostanza si predichi della materia? Evidentemente questo non ha luogo se non intendendo, per sostanza , talune forme aventi un nome sostanziale, ma che veramente sono accidentali, come se cogli stessi elementi corporei si componessero due corpi di nome diverso, poniamo il vino e l' aceto; in tal caso le forme indicate da questi nomi si potrebbero predicare della materia, dicendo per esempio: « questo è vino », e: « quest' è aceto », cioè « questa materia è vino » « questa materia è aceto ». Ma in tal modo « il predicarsi la sostanza della materia », vale ugualmente nell' ordine reale e nell' ordine ideale: e in quest' ultimo ordine è sparito affatto il singolare; giacchè la materia dell' aceto concepita come possibile, è anch' essa universale, non allo stesso modo della forma, ma come una possibilità indeterminata a questo piuttosto che a quell' altro pezzo di materia. Ripetiamo che questa mancanza d' una ferma distinzione tra la natura del reale , e la natura dell' ideale o dell' oggettivo accadde ad Aristotele, per aver egli considerate le idee e ogni oggetto intellettivo, unicamente come predicati delle cose (1), e considerati i reali unicamente come subietti, a cui s' attribuiscono que' predicati. Egli non s' accorse dunque: 1 che un ideale si poteva predicare tanto d' un reale, quanto d' un ideale: onde il predicato era sempre ideale, ma il subietto poteva essere tanto ideale, quanto reale; 2 che quindi allora, quando si predica qualche forma accidentale o parziale d' un subietto reale, c' è sempre nascosta una doppia predicazione, l' una, in cui tanto il subietto quanto il predicato sono entità mentali o ideali, l' altra in cui il subietto è reale e il predicato ideale. Così in questa proposizione: « questo era vino e divenne aceto », c' è implicita una predicazione tra un subietto mentale (2) e un predicato ideale, poichè il subietto « questo », non è un reale determinato, non è nè aceto nè vino, e però è un ente mentale, a cui si può attribuire poi indifferentemente la qualità di vino e quella di aceto . Aceto e vino sono due universali che s' attribuiscono ad un ente mentale che è la materia significata colla parola « questo ». C' è di più poi l' affermazione che questa materia esiste realmente prima nella forma di vino e ora in quella di aceto: e il predicarsi « l' esistenza in forma di vino e d' aceto »è lo stesso che predicarsi « l' idea della sostanza determinata », del vino e dell' aceto, cioè della sostanza reale. Ogni subietto dunque ed ogni singolare, secondo Aristotele, ha la sua natura dall' universale, onde dice: « « E` manifesto dalle cose dette che è necessario attribuire al subietto » » (alle prime e singolari sostanze), « « il nome e la ragionedi quelle che si dicono del subietto »(3) », che sono le sostanze seconde e universali. Se dunque le sostanze singolari hanno la loro ragione o quiddità, come pure il nome, dalle sostanze universali e ideali: consegue, come abbiamo osservato già prima, che le sostanze singolari non sarebbero senza le universali, che contengono il loro essere: benchè Aristotele dica il contrario, cioè che le universali non sarebbero senza che ci fossero prima le singolari. Fatto sta che Aristotele parla sempre de' singolari, attribuendo loro i predicati universali, e in questi, oggetto dell' intelletto, ripone costantemente l' essere, [...OMISSIS...] , di quelli. Lo stesso adunque egli fa anche della prima e divina sostanza, e con questo ne guasta necessariamente il concetto. Poichè attribuendo a questo suo Dio una natura comune, distrugge con ciò quello stesso Dio, che aveva prima costituito, e rende il sistema razionale ed astratto. Infatti attribuisce al suo primo motore l' essere atto purissimo, e prima intellezione; in modo che tutta la sua eccellenza consiste e deriva nell' avere questa condizione di puro atto e di pura intellezione. Essendo dunque i concetti « di atto e d' intellezione »di natura loro universali e comuni, Aristotele, osservando che tutti gli enti della natura tendono naturalmente ad uscire dalla potenza e a mettersi in atto, dichiarò che in tutti era una continua tendenza verso Dio. In questo modo insegnò (e certo c' è un lato di vero in tale sentenza, ma involge ancora del falso), che la natura divina poteva e doveva essere appetita da tutte le cose dell' universo. Diede dunque il nostro filosofo a tutti gli enti mondiali un intrinseco appetito , tendente al sommo bene, cioè all' ultimo perfetto atto, in cui nulla più resti di potenziale, supponendo che tutti quelli che ci potessero giungere, con questo appunto otterrebbero la divina natura, che in tale purità d' atto consiste. Ma onde avviene, che non tutti gli enti mondiali, nel loro perpetuo conato di giungere al puro atto, non ci pervengono, e alcuni più, alcuni meno vi s' avvicinano? Aristotele risponde, perchè vi hanno diverse materie e potenzialità (1). Se non constasse l' universo che d' una sola materia, tutti gli enti conseguirebbero la stessa forma, e in tal caso non ci sarebbe diversità tra gli enti componenti il mondo. Le materie dunque, ossia le potenzialità, sono diverse, in quanto che nel loro sforzo all' atto, cioè verso il sommo bene, non arrivano che a certi atti ossia forme, a cui sono in potenza e non ad altre. Ciascuna materia dunque non può arrivare nel suo naturale movimento che a certe forme ultime per essa. Ma non vi è sempre arrivata; quindi ciascuna trovasi in una serie di stati successivi, di minore e maggior perfezione, secondo che è più o meno lontana d' aver raggiunta l' ultima sua forma. La materia priva al tutto di forma non è che un' astrazione della mente, ma ciascuna materia può esser fornita di forme meno perfette, come il seme ha una forma meno perfetta della pianta già svolta. Ogni materia dunque, vestita sempre d' una forma qualunque, è dotata, secondo Aristotele, di due caratteri: 1 d' una forza istintiva verso il suo bene, cioè verso la sua maggiore attuazione, che è la causa finale, [...OMISSIS...] ; 2 della privazione , ossia mancanza di quella forma ultima o perfezione a cui tende (1). Tende dunque a cacciare da sè questa privazione, onde nella generazione d' un ente c' è un cangiamento « da ciò che ha la privazione in ciò che non ha la privazione », ma questo cangiamento si fa dalla forza istintiva che è nella materia avente una data forma (2). E così scioglie Aristotele il sofisma di quelli che dicevano niente potersi generare, perchè: « non potea generarsi dall' ente, perchè questo essendo già, non si genera, nè dal non ente, perchè il non ente nulla può fare ». Aristotele risponde che si genera dalla materia la quale in quanto ha la forza istintiva si può dire ente , e in quanto ha la privazione si può dire non ente ; ma la proposizione « si genera dall' ente », come pure la sua contraria « si genera dal non ente », sono vere in quanto s' intenda, che per accidente si genera dall' ente e dal non ente , in quanto con questi nomi si vuol chiamare « « l' istinto generativo che è in parte » » (cioè in potenza) « « l' ente che genera e non è ancor generato, e in parte non è » » (cioè in atto), « « onde tutto ciò che viene generato in parte è già, e in parte non è »(3) ». Sebbene dunque Aristotele chiami Iddio il primo motore di tutte le cose, tuttavia in questo sistema non è già esso quello che mova fisicamente la natura o a questa imprima un impulso meccanico o reale, o che le somministri le forze. Tutte le forze di muoversi sono già insite nella natura; e il Dio d' Aristotele non è che l' ultimo termine di questo movimento, chè da se stessa eseguisce la natura verso di quello che ella appetisce, cioè verso il bene, il bello, l' ultimo qualunque sia, che essa è atta a raggiungere. « « Poichè, dice, essendoci un certo chè divino e buono e appetibile, noi diciamo esserci qualcosa contrario a lui » » (la privazione) « « e qualcosa che in lui tende e lui appetisce, secondo la propria natura »(1) », che è appunto la tendenza insita della materia avente una data forma imperfetta. Tra le quali materie ce n' è una nell' universo che arriva ad attignere la specie altissima e divinissima, come la chiama, cioè la mente, e questa è un certo corpo che ha in potenza la vita, come a suo luogo meglio dichiareremo. Aristotele dunque descrive il divino, il buono, l' appetibile così formalmente e astrattamente, che cessa d' essere una sostanza singolare. Di che è prova manifesta questa, che, come apparisce dal brano ultimamente citato, egli gli dà un contrario; quando assegna per carattere costante delle sostanze singolari, il non avere contrario alcuno (2). Oltre di che egli dice espressamente, ricadendo nelle dottrine di Platone, che è migliore ciò che è nel genere , di ciò che non è nel genere, come la giustizia che è nel genere del bene è migliore dell' uomo giusto che non è nel detto genere (3). E` dunque una natura universale, che può essere conseguita da più individui. E quantunque ciascuno di questi lo faccia di natura semplice e puro atto, non lo fa però unico. E infatti dopo averlo detto semplice, s' affretta a far osservare a suoi lettori, che « « l' esser uno e l' esser semplice non è lo stesso: poichè uno significa misura, semplice poi certa abitudine della stessa cosa »(4) ». Ma vediamo quante difficoltà e contraddizioni involga su di ciò la dottrina aristotelica. Dopo aver detto che tanto l' appetibile [...OMISSIS...] , quanto l' intelligibile [...OMISSIS...] movono senza esser mossi, il nostro filosofo aggiunge che « « il primo appetibile e il primo intelligibile è il medesimo » » [...OMISSIS...] , di maniera che da questo primo, che è quasi la punta dell' angolo, movendo, la serie si divide in due, l' una d' appetibili, l' altra d' intelligibili. Ora il primo appetibile è il volibile, [...OMISSIS...] e questo è il vero bello, [...OMISSIS...] , distinto dal bello apparente, [...OMISSIS...] , che non è volibile, ma concupiscibile [...OMISSIS...] : il volibile, dunque, s' identifica col primo intelligibile. Ma qui prima di tutto la distinzione tra il bello apparente e il bello vero , cioè tra il sensibile o concupiscibile e l' intelligibile o volibile, appartiene al sistema di Platone da cui è tolta, ma in quello d' Aristotele è un fuor d' opera. Poichè la distinzione s' intende quando si pone con Platone, che il vero essere delle cose sensibili giaccia nelle idee, e i sensibili non sieno altro che ritratti di quelle: allora colà è la verità e qua l' apparenza. Ma come può aver diritto Aristotele d' ammettere questa distinzione, se vuole, in que' luoghi dove se la prende con Platone, che il vero essere delle cose non sia già nelle idee, che nega, ma nelle cose stesse sensibili? E` una delle tante sue incoerenze: dopo aver rifiutate le dottrineplatoniche, vi ricorre ogni qualvolta sente di non poter andare avanti senz' esse. Dice dunque che nella serie degli intelligibili la sostanza è la prima, [...OMISSIS...] (1), e che delle sostanze è prima quella che « « è semplicemente e secondo l' atto » », [...OMISSIS...] , e questa è « « l' intellezione stessa » », [...OMISSIS...] . Ora l' intellezione, questa che è prima nelle cose intelligibili, è anche il principio della volizione, perchè si vuole e desidera ciò che s' intende, e non viceversa. Ora ciò che move la volizione, ciò che è per sè volibile, è il vero bello; poichè « il bello e il volibile per sè è nella stessa serie », ma il vero bello è anche ciò che muove l' intellezione: il volibile dunque e l' intelligibile primo e nel suo primo atto s' immedesimano. Mette dunque il bene in ciò che è primo , ma questa qualità di esser primo, è relativa alla serie a cui il primo si riferisce, quindi Aristotele distingue « « l' ottimo che è sempre tale, e l' ottimo che è tale di proporzione » », [...OMISSIS...] . Ora questi due ottimi hanno essi qualche cosa di comune ? Se parla dell' ottimo sotto una concezione comune, Aristotele torna al comune, e così manca di nuovo al suo stesso sistema; chè il comune , egli osserva (1) con molta sagacità, è potenziale, e come tale, cioè come comune, non è l' ultimo atto dell' essere. Questa osservazione importante si renderà più chiara da ciò che diremo. Distingue dunque Aristotele l' intellezione , che non ha per oggetto altro che sè stessa, - e questa, secondo lui, è Dio; - dall' intellezione che ha altri oggetti, cioè degli intelligibili diversi, da sè stessa, come sono tra l' altre le intellezioni umane , le quali, dipendendo da oggetti stranieri a sè, non perdurano nel continuo atto della contemplazione, ma la mente umana per lo più è in istato di potenza, per breve tempo poi dura nell' atto contemplativo. Così il sonno e la veglia della mente si succedono nell' uomo. Ma le intellezioni umane e l' intellezione divina sono ugualmente intellezioni: ancora dunque hanno di comune l' essenza generica d' intellezione. Se poi v' ha un' essenza generica che abbraccia le intellezioni particolari, che cos' è quest' essenza generica ? L' intellezione suprema sarà dunque composta di genere e di differenza? Ma in tal caso ella non è più cosa semplicemente in atto, ha qualche cosa di potenziale, cioè la sua radice generica. Ritorna dunque sempre la stessa difficoltà, e contraddizione. Che dunque Aristotele abbia veduto la necessità d' un primo essere e che questo sia atto purissimo; e l' abbia veduto, forse meglio di tutti i suoi predecessori, certo è gran cosa, e costituisce il suo sommo merito. Ma seppe porre la questione, non risolverla. Come si potea risolverla? In una sola maniera dovuta alla luce del cristianesimo: cioè colla dottrina che fa di Dio un atto puro che non ha nulla affatto di comune coll' altre cose, le quali non sono simili a lui, ma solo analoghe (2). E veramente, se ci fosse un' essenza (non la semplice esistenza) comune a Dio ed alle cose mondiali, quest' essenza sarebbe superiore a Dio ed alle cose mondiali, e da essa dipenderebbe l' uno e le altre; sarebbe una forma dell' intelligenza, colla quale si conoscerebbe Dio e le cose mondiali, cioè si conoscerebbe Dio con un lume che non sarebbe suo proprio, ma comune alle creature: questo lume sarebbe veramente divino: e così un' essenza veramente divina verrebbe in composizione da una parte con Dio, dall' altra colle cose mondiali. E infatti questa conseguenza assurda si manifesta appunto nel sistema aristotelico, il quale non si contenta di dare la divinità al primo motore, ma la sparge altresì a piene mani per tutto l' universo. Il che, se da una parte mostra il vizio fondamentale del sistema, dall' altra mostra la penetrazione dell' ingegno che l' ebbe concepito: essendone prova l' ardire di questa conseguenza. Vede bensì Aristotele, che il primo motore deve essere unico numericamente, appunto perchè non deve avere alcuna materia o potenzialità: « « Tutte quelle cose, dice, che sono molte di numero, hanno materia » », cioè potenzialità « « la prima quiddità non ha materia: poichè è atto che ha in sè il suo compimento (1). Dunque il primo motore immobile è uno di ragione e di numero » » (2). Ma questo non basta a fare che il primo essere non abbia alcuna potenzialità in sè; non basta a fare, che la sua essenza non sia una specie, che non si realizzi se non in lui; conviene di più che nessuna sua parte o qualità sia tale; se la qualità d' intellezione può essere una specie comune, in tal caso, egli ha già in sè un elemento di natura potenziale, e c' è qualche cosa che è potenza (la qualità d' intellezione), qualche cosa che è atto di questa potenza, l' avere quest' intellezione per atto sè stessa. Quindi il politeismo aristotelico. E veramente nel concetto d' un' intellezione , che intende sè stessa, non si trova la ragione per la quale debba essere una di numero. Laonde Aristotele stesso vedesi obbligato di dedurre la prova della unicità del primo motore non dall' intrinseca sua natura, ma da ragioni esterne, com' è quella dell' unicità dell' effetto, cioè dell' unico movimento del primo cielo; [...OMISSIS...] . Per dimostrare dunque l' unicità del primo Motore ricorre alla supposizione che un primo cielo, detto il primo mobile, si mova d' un movimento unico ed uniforme. Ognuno sente come alla dimostrazione manchi il fondamento su cui si vuole edificare. Ma non è questo solo che vogliamo osservare; poichè foss' anco vero che esistesse questo primo mobile celeste, e procedesse bene l' argomento, esso tuttavia non sarebbe cavato dall' intrinseca natura del primo motore, e darebbe luogo alla pluralità d' altri primi motori. E veramente Aristotele stesso non trova assurdo, anzi necessario d' ammettere altri motori eterni, se non primi. E se non primi, non differiscono però dalla natura del primo nè per riguardo all' eternità, poichè sono eterni come lui, nè per la condizione d' essere motori immobili. [...OMISSIS...] Laonde non con alcun argomento a priori inducente necessità, ma argomentando in qualche modo da' fenomeni sensibili degli astri, senza saper liberarsi dalle più antiche superstizioni, Aristotele s' ingegna di comporre filosoficamente un politeismo e si dà il vanto oltracciò di essersi molto elevato sui pregiudizi volgari. [...OMISSIS...] Pareva dunque ad Aristotele d' essersi molto innalzato sui volgari pregiudizŒ coll' aver negata alla divinità la forma d' uomini e di bestie, e attribuita quella di astri! Dall' esserci dunque più movimenti ne' cieli, argomenta Aristotele che ci devono essere più Iddii, o prime sostanze, immobili e motrici, che chiama anche primi enti, e che fa ragione dover essere 55 o 47, altrettante quante le sfere che si credevano percorse dagli otto astri (2). Ora a ciascuno di questi si può applicare l' argomento con cui egli provò che il primo Motore dee essere « « un' intellezione che ha per oggetto sè stessa » » perchè l' intellezione è l' ultimo atto, e se avesse un oggetto intelligibile da sè diverso, dipenderebbe da questo nel suo atto, perchè «nus hypo tu noetu kineitai,» onde avrebbe dell' atto e della potenza e però non potrebbe essere in una eterna e continua attuazione. Se dunque Aristotele ripone la natura del primo Motore in un atto intellettivo che finisce in sè stesso, sempre immanente ed immobile, per la stessa argomentazione gli altri eterni motori hanno col primo la stessa natura, e la loro differenza rimane che sia accidentale, derivata dal diverso e più ristretto moto che producono. Ma che i movimenti sieno grandi o piccoli, che sieno grandi o piccole le sfere, la differenza rimane accidentale. Quindi non si può dire, come pretende Aristotele, che non abbiano la specie o almeno il genere comune: e se comunicano nel genere, già contengono tutti questi motori, anche il primo, un elemento potenziale, convenendo anche Aristotele, che il genere sia potenziale, come pure l' accidente . E perciò nessuno di essi possono essere sostanze prime, od enti primi, quando l' ente primo, come Aristotele stesso, e in questo eccellentemente, insegna, deve essere atto purissimo e per sè tale, senza mescolanza d' altro elemento. Non giunse dunque Aristotele a un sufficiente concetto della Divinità (3). D' altra parte fondare, non dico la prova dell' esistenza, ma la deduzione della natura di Dio, dall' effetto del sensibile movimento è impossibile. Poichè essendo quest' effetto del moto locale parzialissimo e ristretto allo spazio, che è l' infimo degli enti, esso potrà ben dare il filo a dimostrare che una prima causa debba esistere, ma in nessun modo a far conoscere quale e quanto eccellente ella debba essere. E per ciò stesso non si può dedurre l' unicità del Motore immobile, come infatti non potè inferirnela Aristotele. Pare che faticato il suo ingegno nel combattere gli altrui sistemi, almeno com' egli li acconciava, e in questa lotta avendo molte volte riportato il vantaggio (1), pare, dico, gli venissero meno le forze a sostituire agli errori una perfetta dottrina: poichè spesso avviene che l' uomo stanco del combattimento, e gonfiato della vittoria, diventi poi negligente e troppo sicuro di sè stesso nel governare il soggiogato paese. D' altra parte questi motori che sono causa de' diversi movimenti degli astri, essendo immobili come il Primo, non ricevono alcun moto da questo, e però da questo sono necessariamente indipendenti. E non accade così quello stesso ch' egli rimprovera ad alcuni filosofi che lo precedettero, che «epeisodiode ten tu pantos usian poiusin»? Poichè gli astri da loro mossi avranno un appetito tendente ad essi come tanti eligibili, ma queste stesse « sostanze prime »non avendo moto non hanno appetito alcuno con cui tendano verso la suprema tra queste prime sostanze. Egli è vero che Aristotele dà a queste sostanze l' ordine stesso che hanno i movimenti degli astri da esse prodotti. [...OMISSIS...] . Ma oltrechè in tale sistema manca la ragione sufficiente dell' ordine delle stelle medesime, la differenza tra le sostanze prime ed immobili motrici non è che accidentale, e non determina per ciascuna di esse un' altra natura. Sono tutte cause motrici immobili, sono atti puri, intellezioni che hanno per solo oggetto se stesse. L' ordine, dunque, in cui le dispone Aristotele, sembra appiccicato, non procedente dal sistema, ma veniente dal di fuori. Nondimeno udiamo ancora su quest' ordine Aristotele: « « Convien perscrutare anche questo, in che modo la natura dell' universo abbia il Bene e l' ottimo » » [...OMISSIS...] . Dalle quali parole si intende come Aristotele non divida già il Bene e l' ottimo dall' universo, ma voglia che sia dall' universo stesso avuto. [...OMISSIS...] . Ammette dunque che il Bene e l' ottimo sia ad un tempo come il duce nell' università delle cose, distinto da questa, e tuttavia sia ancora nell' ordine che risplende in questa università. Il qual ordine è così descritto dal filosofo: [...OMISSIS...] . Nelle quali parole ben chiaramente si vede come Aristotele da' suoi principŒ non avea potuto cavare se non un concetto meschino e imperfetto dell' unità e dell' armonia dell' universo. Invano cita il verso di Omero che loda il governo d' un solo, e dice che gli enti vogliono un buon governo. Poichè egli poi non trova che le entità dell' universo sieno coordinate se non in qualche modo, [...OMISSIS...] , e acciocchè non si creda ch' egli parli d' una ordinazione veramente perfetta ed universale, soggiunge subito, riferendola alle parti, che non però allo stesso modo sono coordinati i pesci, gli uccelli e le piante [...OMISSIS...] , caduta immensa dall' ordine del tutto all' ordine di queste cose speciali, ben mostrando il suo solito modo di vedere e di speculare per forme individuali, senza sapere conservarsi a considerazioni veramente universali. Tuttavia, sebbene secondo lui le cose sieno indipendenti, quant' è al fine, le une dalle altre, pure dice « « non sono così fra loro, che l' una abbia a che fare coll' altra, ma sono ordinate, ad un certo chè » », [...OMISSIS...] . Ma quest' uno finale a cui sono ordinate le cose è rassomigliato all' ordine e al bene comune di una famiglia; «eis to koinon, eis to holon», onde non c' è più un ente supremo a cui tutto sia ordinato, ma a questo è sostituito nella famiglia qualche cosa di comune , senz' accorgersi che il bene comune è appunto quello che più disdice a' suoi principŒ, che dichiarano (e giustamente) il comune un essere potenziale, e non separabile dai suoi subietti individuali, e però non l' atto finale delle cose; e lo stesso si può dire del concetto dell' ordine che non è certamente una sostanza individua , la quale è per Aristotele la prima di tutte le cose. Di più, riconosce nell' universo i difetti stessi, che cadono nell' umano reggimento della famiglia, e questi descritti da lui, dirò anche, con esagerazione, poichè vuole che una parte de' membri di essa, cioè i figliuoli soli, operino cose ordinate, [...OMISSIS...] , gli altri, cioè gli schiavi e i giumenti, operino per lo più a caso, [...OMISSIS...] , e poco conferiscano al comune, [...OMISSIS...] . E così fa che vadano a caso alcune cose dell' universo (1), onde la disunione e la discordia, [...OMISSIS...] (se bene intendo queste controverse parole), ed altre sole tiene ordinate al tutto. Ed è conseguente, dal momento che la prima Causa non è che semplicemente motrice, come intelligibile ed appetibile, e però essa non ha una vera efficacia e un vero governo dell' universo, che si move secondo le forze sue proprie, eternamente ed indipendentemente esistenti, onde qui stesso dà questa cagione, dell' esserci alcune entità che operano le cose ordinate ed altre le casuali e che tale è la loro natura, principio del loro operare, [...OMISSIS...] . Noi diremo in appresso come il Bene e l' ottimo aristotelico possa essere ad un tempo separato e compreso nell' universo; ma vogliamo osservare il valore di quelle parole: « « E` dunque ente per necessità, e in quanto è necessità, è bene, e così è principio. Da tal principio dunque il cielo e la natura dipende »(1) ». Prendendo queste parole isolatamente, parrebbe che Aristotele parlasse del solo primo motore, e che volesse dire che da esso dipende l' universo. Ma non così. Aristotele parla del motore immoto, e tutto ciò che dice, conviene perfettamente a ciascuno de' motori immoti: onde, come fa spesso, parla d' un individuo specifico o vago, e non d' un vero individuo reale. Dà la teoria del motore, riservandosi nel capitolo seguente a mostrare che non è un solo, ma più. Dipende dunque tutto il resto dalla sostanza pura, ma, come queste sostanze pure sono molte, neppur questo luogo contribuisce a restituire all' universo la perfetta unità e armonia, che in tanti luoghi gli toglie. Veniamo ora ad altre questioni, cagione come le precedenti d' infinite dispute tra i commentatori (2). Se ciascuno dei primi motori move il suo astro, a che il moto del primo cielo mosso dal Motore supremo? - Il primo mobile gira con un moto uniforme, secondo Aristotele, e produce il movimento diurno, che si comunica a tutte le sfere e a tutti gli astri. Ma poichè questi oltracciò hanno i movimenti loro propri, perciò introdusse Aristotele, seguendo in parte più antiche favole, le altre sostanze motrici, indipendenti dalla prima, che non dà che un moto solo. Laonde ognuno degli astri partecipa del movimento del primo cielo, che viene dal supremo Motore, e nello stesso tempo ha i motori suoi propri. Ma lasciando da parte questo meccanismo immaginario de' corpi celesti, veniamo alla parte filosofica. Che cosa ha da fare il movimento locale coll' intellezione pura ? Come l' intellezione pura può essere il Bene, e l' oggetto dell' appetito di tutta la natura? Come appetendo l' intellezione può nascere il moto locale? Il solo proporre queste questioni parmi sufficiente a dimostrare che Aristotele fece una mostruosa mescolanza di due o tre ordini d' idee disparatissime, che si trovarono nella sua mente: da una parte delle speculazioni razionali sui concetti ontologici di sostanza, d' intelligenza, d' idee e simili; dall' altra delle osservazioni de' fenomeni sensibili e naturali; in terzo luogo delle tradizioni favolose e superstiziose annesse ai fenomeni naturali, specialmente celesti. Di tutte queste cose, senza badare troppo sottilmente se si potevano unire e tenere insieme, compose con ammirabile miscuglio il suo sistema. Pure crediamo che si possa spiegarlo investigando le analogie , che servirono al suo pensiero di cemento tra quei tre ordini di pensamenti (1). Il principio della filosofia aristotelica è l' atto : principio solido e luminoso. Aristotele disse, o volle dire: « Avanti a tutte l' altre cose è l' atto : dall' atto tutte dipendono »: per questo rigettò come principio l' idea di Platone, perchè non trovò che l' idea sia puro atto: e questa osservazione sarebbe stato un progresso, se non fosse stata una distruzione di ciò che s' era trovato precedentemente. Ma Aristotele vide dopo di ciò, che in tutti gli enti naturali c' era del potenziale, ma che tutti tendevano, secondo il naturale sviluppo, ad uscire al maggiore loro atto possibile. Disse dunque che l' atto era il bene, e che tutte le cose appetivano il bene. Questo concetto del bene non solo era una entità comune , ma comunissima ed astrattissima. Quando dunque si parla d' un bene, appetito da tutte le cose, che hanno in sè qualche potenza, non si parla d' un ente realmente unico col quale ogni cosa tenda a congiungersi, ma si parla di tanti beni , quanti sono gli atti compiuti a cui possono arrivare le diverse cose, ciascuna secondo la sua propria natura (1). Ora l' atto compiuto di ciascuna cosa fu da Aristotele chiamato specie (2), e la potenzialità della cosa materia . Il filosofo si fece a classificare questi atti o specie. La prima classificazione nasce dalle diverse materie in potenza a diverse forme. Ma tutte queste specie hanno qualche carattere comune , quantunque tra di loro differiscano. Questi caratteri comuni si riducono anch' essi in alcune classi, che servono di fondamento ad altrettanti generi di specie. Le classi di questi caratteri comuni alle specie di tutti gli enti sono le Categorie (3). Se si osserva l' ordine che hanno le categorie tra loro si trova che tale ordine considera: 1 l' ente, e a questa considerazione appartengono le tre prime categorie, la sostanza , il quale e il quanto ; 2 le relazioni di più enti o entità, e a questa considerazione appartiene la quarta categoria che è appunto la relazione , di cui le altre sei, cioè il dove , il quando , il sito , l' avere , l' agire , il patire , sono classi minori: perchè tutte queste sono relazioni . Le tre prime poi si riducono a due, cioè alla sostanza ed all' accidente ; chè il quale e il quanto sono classi minori d' accidenti. Onde tutte le dieci categorie Aristoteliche si riassumono in tre sommi generi, la sostanza , l' accidente e la relazione . Le specie adunque hanno questi tre caratteri comuni, di qualunque ente sieno specie, che esse sono sempre o sostanza, o accidente, o relazione. Ma poichè gli enti differiscono tra loro per la materia diversa, o per una potenzialità ad atti, ossia a specie diverse, perciò la sostanza varia secondo gli enti specificamente diversi, e non è una se non per analogia, e così è da dirsi degli accidenti qualitativi e quantitativi. Ma tra gli atti ossia specie c' è una gradazione, di maniera che un atto è più ultimato e perfetto d' un altro, e quindi suppone nell' ente meno di potenzialità. Quell' atto poi che dipende da un altro per esistere è meno perfetto e ritiene più del potenziale. Paragonati dunque sotto quest' aspetto que' sommi generi analogici di specie, vide che l' accidente dipende dalla sostanza , sicchè quello non si può concepir senza questa, e questa sì senza quello (1). Come dunque l' atto è anteriore alla potenza, così Aristotele stabilì che nell' universo prima delle entità e anteriore di concetto fosse la sostanza . Ma questa sostanza, come dicevamo, non è che una classe analogica, cioè tale che comprende degli enti diversi, solamente tra loro analoghi. Conveniva dunque cercare una classificazione di questi enti, per vedere quale sostanza fosse la prima. Gli enti dunque secondo questo rispetto furono divisi in sensibili e intelligibili . Così le specie o forme si classificarono in tre modi. 1 In un modo analogico , e la base di questa classificazione sono i caratteri comuni alle specie de' diversi enti. Questa classificazione distingue le specie in sostanziali, accidentali di qualità e quantità, e relative . 2 In un modo entico , e la base di questa classificazione è la diversità (specifica e individuale) degli enti, diversità che, secondo Aristotele, nasce dalla natura di ciascun ente risultante dalle forme diverse di cui è suscettivo. Questa classificazione distingue le specie in sensibili e in intelligibili con tutte le suddivisioni degli enti sensibili e intelligibili (2). 3 In un modo ultimativo , secondo che le forme di ciascun ente sieno sostanziali, sieno accidentali, sono prodotte più avanti verso l' ultima loro perfezione. Ma l' ultimazione stessa delle specie, cioè l' ultimo loro atto di perfezione, o è per sè tale, o è per accidente . L' ente che ha la forma ultimata per sè, dicesi da Aristotele entelechia , ed è più eccellente di quello nel quale la forma può essere ultimata o no, e perciò, se è ultimata, è ultimata per accidente. Tra le entelechie poi c' è ancora una gradazione, poichè 1 può essere la forma ultimata solo rispetto alla sostanza qual è l' anima umana, che dicesi entelechia , perchè è per sè atto del corpo, e tuttavia è perfettibile rispetto alle sue specie o forme accidentali; 2 può essere ultimata totalmente, di modo che non ci possa esser nulla di potenziale nè di accidentale, e così sono entelechie le prime sostanze motrici dell' Universo. E` da considerare la singolare contraddizione che si riscontra in Aristotele tra' suoi principŒ ontologici , e il metodo col quale va filosofando. Egli vuole che si parta sempre dalla sostanza individua , e che tutto si riferisca a questa, come quella natura che ha più atto, a cui tutte l' altre devono riferirsi quasi potenze. Pure il metodo lo conduce sempre ad un ragionare generalissimo, per forma che sotto la stessa parola abbraccia le cose più disparate; il che è quanto dire, ragiona per via di concetti al sommo generici ed astratti. Così, compartendo tutte le cose in atto e in potenza (che sono i due elementi che chiama forma e materia), benchè dica egli stesso che i diversi atti e le diverse potenze, sieno così diverse, che non sono une se non per analogia (1): tuttavia, dimentico di ciò, parla degli atti in universale come avessero le stesse proprietà essenziali. Con questa maniera di ragionare egli perviene a conchiudere che l' atto puro , per sè forma, è intellezione, nè riconosce altri atti puri fuori dell' intellezione. E poichè tutte le cose tendono per loro natura all' atto, dunque tutte tendono all' intellezione, benchè tutte non ci arrivino per difetto della loro materia. Stabilisce così un appetito universale verso l' intellezione, nella quale ripone il Bene essenziale. Ora tanto la parola atto quanto la parola intellezione , come abbiamo detto, non indicano che concetti generici e però non rappresentano che il Bene in genere . Nè gli argomenti che adduce Aristotele nel XII de' « Metafisici », c. 7, per provare che ci deve essere un' intellezione pura, hanno alcun valore a provare che quest' intellezione pura sia una di numero, come abbiamo osservato, non vedendosi ragione alcuna intrinseca, per la quale non ci possano esser molte di quelle intellezioni pure: anzi ammettendone molte Aristotele stesso nel c. ., benchè le consideri come inferiori alla prima, anche questo senza addurre una ragione che sorta dalla loro stessa natura. Comechessia, sottomettendo Aristotele i corpi e gli spiriti ad una stessa legge, per quel suo parlare universale e generico, cioè considerandoli come una catena di enti differenti solo secondo la quantità maggiore o minore di potenzialità e di materia e secondo la quantità maggiore o minore di atto o di forma, che sono gli elementi dai quali constano; egli così li classifica, come si può raccogliere da tutto il complesso delle sue dottrine: 1 Forme pure , prive di materia ed ultimate d' ogni parte per sè, sostanze prime, motrici de' cieli e degli astri, entelechie di primo ordine . Bene vero, desiderabile, eleggibile. 2 Forme pure , prive di materia rispetto alla sostanza, ma non rispetto agli accidenti, anime, entelechie di second' ordine . 3 Enti materiati , cioè enti aventi per subietto la materia, cioè una potenzialità: i quali enti si distinguono per le diverse materie , cioè per le diverse potenzialità a forme diverse . Una materia è potenza a certe forme, un' altra a certe altre: questo costituisce la differenza degli enti. Ma anche qui si ha una differenza specifica e non realmente individua, il che non sempre riconosce Aristotele (1). Ma poichè non si dà materia separata da ogni forma, ogni materia ne ha una in atto , e alle altre forme che le convengono è in potenza: o, come dice Aristotele, esistono in essa in potenza. Tutti questi enti, dunque, sono così classificati sopra una stessa base secondo il maggiore o minore grado di atto (2): e tutti hanno una tendenza ad ascendere, cioè a passare da quel grado di potenzialità che hanno ad un' attualità sempre maggiore. Ma perchè alcuni arrivino ad un grado di attualità in questo movimento ascendente, ed altri non vi arrivino, questo è attribuito da Aristotele alle diverse nature della materia ossia della potenzialità: ma la ragione di questa differenza fondamentale tra le materie manca del tutto in Aristotele: perchè suppone, come dicevamo, la materia eterna: così la sua ontologia è in aria, non posa sul fondamento d' una ragione sufficiente. La causa efficiente di questa tendenza e conato continuo degli enti verso l' attuazione, dice Aristotele, è intrinseca a ciascuno, e si chiama natura (1): risulta dalla forma o atto che già hanno nella materia: è potenza e atto insieme congiunti in un ente: l' atto opera nella potenza, operando si perfeziona, la potenza si lascia movere dall' atto che ha in sè, per arrivare ad un atto maggiore (2). La causa finale è dunque l' atto o specie che l' ente vuol conseguire e che ha già in potenza; come l' atto o specie che ha attualmente, è la causa efficiente interna. L' ente dunque che chiameremo materia7forma o potenza7atto è costituito tra due atti, quello che ha, e quello a cui tende; il primo è la causa efficiente , il secondo la causa finale : medio tra l' uno e l' altro ente è il movimento. Descriviamo il movimento, ossia la trasmutazione degli enti di questa terza classe, cioè degli enti materiati , degli enti potenza7atto . La specie a cui tende l' ente che si fa, può appartenere all' uno o all' altro de' quattro generi categorici che abbiamo annoverati, cioè sostanza, quale, quanto e relazione . Se la specie cui tende di conseguire è sostanziale , il movimento dell' ente chiamasi generazione (e il suo contrario corruzione ); se quella specie è qualitativa , il movimento dicesi alterazione ; se è quantitativa , il movimento dicesi aumento ; se quella specie è di relazione e riguarda lo spazio, il movimento dicesi moto locale (3). Il secondo ed il terzo di questi movimenti non migliorano o deteriorano l' ente materiato se non accidentalmente; il quarto non produce che un cangiamento di relazione . Ma il primo movimento, cangiando la forma sostanziale degli enti, li tramuta per intero, o facendogli passare a una classe più nobile di enti, o ad una inferiore. Su questo dunque conviene che ci tratteniamo. Aristotele suppone che ci sia passaggio da una sostanza all' altra. La sua maniera di ragionare degli enti con concetti così universali gli impedì di conoscere la profonda differenza tra i corpi e gli spiriti, tra gli enti che non esistono che come termini d' altri, e quelli che sono principŒ: onde non vide l' impossibilità del passaggio degli uni negli altri. Non concependo egli la scala degli enti formata in altro modo che per via di una graduazione di potenza e di atto , gli parve sempre possibile il passaggio da quella a questo, salvo dove l' esperienza gli mostrava apertamente il contrario; nel qual caso ricorreva alla ragione generale, che « « la natura di quella potenzialità non consentiva quel passaggio »(1) ». Quindi egli vide altresì la possibilità d' un passaggio sostanziale dal corpo all' anima, considerando che quello non differisce da questa se non per una potenzialità maggiore. Le diverse materie, ossia i diversi enti potenziali, sono in potenza a specie diverse. Ora tra questi enti potenziali ce n' anno alcuni, cioè alcuni corpi, che sono in potenza alla specie ossia all' atto della vita. Quando dunque questi corpi in potenza alla vita, e che però appetiscono questa specie sostanziale come loro bene , ricevuto l' impulso necessario, si mettono in movimento e arrivano a quell' atto e a quella specie che hanno già in potenza, allora mettono in essere l' anima ossia la vita. Di conseguente Aristotele definisce la vita l' atto di un tal corpo che ha in potenza la vita: [...OMISSIS...] (2). Così Aristotele definisce l' anima generica, secondo il suo metodo (1), per venire poi alle specie (2). Se poi tutti gli elementi corporei possano naturalmente organizzarsi in modo da avere la vita in potenza, e se questa potenzialità della vita sia un effetto dell' organizzazione, questo non si rileva da Aristotele, e non credo che si sia proposta questa questione (3). Venuto il corpo a questo suo atto che si chiama vita ed anima, rimangono ancora degli atti ulteriori. Poichè l' inferiore e il meno ultimato di questi atti è quello della vita vegetale , e questo basta alla definizione generica dell' anima, onde in una tale definizione Aristotele chiama l' anima in genere entelechia prima , cioè prossima al corpo che la produce e la tiene, come suo subietto, [...OMISSIS...] (4). Quest' anima vegetale si trova separata nelle piante (5). Ma in cert' altri enti l' anima vegetale contiene in potenza la specie della sensitività (6), e quando concorrono le condizioni necessarie a suo tempo il corpo che è passato all' atto dell' anima vegetale, da questa passa all' atto ulteriore che si chiama anima sensitiva . L' anima sensitiva, secondo Aristotele, è sempre contenuta in potenza in un' anima vegetale (7), come quest' anima è contenuta in potenza in un dato corpo naturale organizzato. L' anima vegetale adunque che ha in potenza la sensitività, tende alla specie o anima sensitiva come a suo fine, e a suo bene: chè in grazia del bene opera sempre la natura (.). Ora in un modo somigliante spiega l' origine dell' anima intellettiva . Ella è già in potenza nella sensitiva, come questa nella vegetale, e questa in certi corpi naturali organici. Ma quando viene all' anima intellettiva, distingue da questa, subbiettivamente considerata, la mente , che si cangia col suo ultimo atto in obbiettiva, come abbiamo accennato. Secondo Aristotele, anche il senso conosce (1). Che cosa conosce? Unicamente le specie sensibili . Queste specie o forme sensibili, che nelle cose corporee sono unite indivisibilmente colla materia, nell' anima rimangono senza materia, e però come puro atto (2). Ora avendo stabilito Aristotele che il puro atto è sempre per sè conoscibile (3), anche la sensazione dunque appartiene all' ordine delle cose che sono per sè conoscibili. Ma queste specie sensibili , sebbene prive di materia, sono particolari: e in questo si distingue il senso dall' intendimento, che quello conosce i particolari, questo gli universali (4). Le forme sensibili che sono nei corpi unite colla materia passano all' anima mediante l' atto de' corpi. Ora l' atto de' corpi sensibili e quello della sensitività s' uniscono in un istante e diventano una cosa sola nell' anima che sente (5). Essendo dunque la forma sensibile l' atto del corpo, e questo, pel contatto e per l' azione, facendosi ed esistendo nell' anima stessa, in questa c' è la forma stessa sensibile che prima in potenza era ne' corpi (6). Ma la forma sensibile sebbene sia priva d' un certo genere di materia e rispetto a questa sia puro atto, tuttavia ha in sè ancora della potenza. Infatti giace in essa potenzialmente, secondo Aristotele, la forma intelligibile . E per questo dice che il senso apprende per accidente l' universale in quanto questo è contenuto potenzialmente nel particolare sensibile (7). La facoltà dunque del conoscere, e l' atto conoscitivo non è ancora altro per Aristotele che un' attualità ulteriore del medesimo subietto. Nella natura ci sono degli enti sensitivi, secondo Aristotele, che hanno la virtù in sè di ridurre le sensazioni e imagini avute, ossia le forme sensibili , a quell' atto che hanno in potenza, e che costituisce le forme intelligibili , e per la produzione di questa nuova attualità nasce l' intendimento, e l' anima intellettiva. Queste forme intelligibili non hanno più nulla di sensibile, e sono per sè universali , sono ragioni. Perciò si dice che l' anima intellettiva possiede la ragione, «logon» (1). Senza la forma universale non ci sarebbe il ragionamento, perchè non si dà passaggio dal particolare al particolare, nulla essendovi di mezzo che serva di via, ma l' universale abbracciando molti particolari, fa da veicolo pel quale il pensiero può trascorrere dall' uno all' altro di essi: l' universale dunque è il mezzo del ragionare (2). Tuttavia la parte discorsiva, che ammette errore (3), e che rassomiglia ad un movimento (4), suppone bensì la mente, ma non ne è l' atto suo proprio: quest' atto proprio è l' intuizione dell' universale: la mente in atto, l' intellezione (5). Ma questa mente in atto, secondo Aristotele, è una sostanza da sè, che avviene all' animale, e che non si corrompe, [...OMISSIS...] , onde sopravvive alla morte dell' animale. [...OMISSIS...] E in queste ultime parole si ha la chiave per vincere una difficoltà, che parve fortissima ai commentatori. La esporremo colle parole del Trendelenburg: [...OMISSIS...] . La soluzione di questa difficoltà deve ripetersi, a nostro avviso, dall' avere Aristotele concepita la natura divina, come una natura impersonale, siccome abbiamo già dimostrato. Sfuggì infatti ad Aristotele, come pure a' suoi predecessori, il vero concetto della personalità. Platone è quello che più distintamente la conosce, ma nè pur egli l' afferra direttamente, e non ne dà un' espressa definizione. Quindi altri subietti reali non compaiono in Aristotele se non la materia (2), che confessa pur egli essere un indeterminato, e che di conseguente non può essere che un subietto estrasoggettivo , una classe di subietti dialettici (secondo le distinzioni da noi introdotte): comparisce l' uomo, senza che sia distinto in esso punto nè poco quell' elemento primo, uno, fondamentale che costituisce la persona (3). [...OMISSIS...] (4). Che l' anima non sia un subietto, ma solo una natura impersonale, si può certamente concedere, se per anima s' intende soltanto o la vita, o ciò che prossimamente dà ad un subietto personale la vita. Ma Aristotele, come dicevamo, accorda il nome e la qualità di subietto alla materia, e al composto, che opera col mezzo della specie; lasciando così la specie priva al tutto di personalità. Ora nella specie ripone la divina natura . Ciò posto, non è più assurdo che questa natura divina impersonale ora si trovi da sè, scevra da ogni potenzialità, ora mescolata colla potenza. Onde nel XII, 10 de' « Metafisici », si propone la questione « « come la natura dell' universo » [...OMISSIS...] «abbia il bene e l' ottimo, se come qualche cosa di separato e esso da sè, o come un ordine, o nell' uno o nell' altro modo » ». (La qual domanda già mostra che Aristotele suppone come fuori di questione, che l' universo abbia il bene e l' ottimo; e fa conoscere il valore dell' espressione « «qualche cosa di separato », [...OMISSIS...] », cioè non significarsi per essa che non sia congiunto coll' università delle cose, ma che abbia natura non mista coll' altre cose). E risponde che il bene e l' ottimo è appunto nell' uno e nell' altro modo (1), come un esercito che ha il suo bene nel suo capitano, ed anche nell' ordine delle schiere, benchè questo sia pel capitano, e non viceversa. La natura divina , com' è concepita da Aristotele, è sparsa per tutto e mista colla potenza, ma è anche da sè, immista e pura; e in quest' ultimo stato, le conviene propriamente il nome di Dio. Come poi, essendo in tal modo diffusa la natura divina del bene, ella sia una e singolare e non sia piuttosto una natura comune, questo non dice Aristotele; e non pare che abbia sentita la forza della difficoltà, a cagione che, senz' accorgersi, ed anzi negandolo, egli definì il divino, come abbiamo osservato avanti, unicamente mediante concetti comuni i quali non ammettono un' unità reale , ma solo ideale e d' essenza. Tuttavia su quest' unità torneremo tra poco. Tenedo dunque presente che Aristotele s' era formato un concetto impersonale della divina natura , e che il suo sistema manca della ragione sufficiente , che spieghi perchè l' universo sia così e così, quando al pensiero non ripugna che fosse altramente, si comprende ch' egli ammettesse un' ipotesi fondamentale, che cioè la divina natura mista colla materia e in uno stato potenziale tende continuamente a liberarsi dalla materia e passare all' atto perfettissimo, al quale giunta acquista il nome e la condizione di Dio. Questo è l' appetito universale, e il movimento ascendente verso l' ottimo di tutta intera la natura. Le materie dunque o potenzialità prime che sono le corporee, sono diverse. Ogni materia ha qualche forma in atto, ed altre ne ha in potenza. Ma non ogni materia le ha tutte in potenza, e questa mancanza di forme in potenza è una prima privazione . Le diverse forme in potenza costituiscono le diversità delle materie d' Aristotele. In quanto dunque una data materia ha certe forme in potenza, intanto appetisce l' atto, cioè appetisce che queste forme escano all' atto; in quanto poi ha la privazione di forme, in tanto non l' appetisce e vi mette ostacolo. Di più la materia ha talora una forza irregolare, secondo Aristotele, che non tende alla forma, e con questo cerca spiegare quegli eventi ch' egli crede casuali. In certi corpi dunque naturali e organati c' è in potenza quella forma o specie che dicesi anima nutritiva o vegetale , in altri di più quella che dicesi anima sensitiva , in altri anche quella che dicesi anima intellettiva , che si sviluppa per generazione. Venuta quest' ultima specie all' esistenza, ha in sè ancora della potenza che tende a svolgersi. Di qui due novi principŒ d' operazioni si costituiscono nella natura, cioè l' intendimento speculativo che tende a conoscere, e l' intendimento pratico , onde l' arte che tende a produrre. E che anche in quell' atto o specie naturale che si chiama anima intellettiva, ci sia la materia ossia la potenza, e con essa l' atto, qual principio attivo e causa d' altri atti, rilevasi da queste parole: [...OMISSIS...] . Or come la mente in potenza dell' anima passi ad emettere gli atti speculativi, cioè ad acquistare la scienza, mediante la mente in atto , [...OMISSIS...] , in parte è dichiarato nel « De Anima » (2), come abbiamo veduto. Passata poi, la mente in potenza, all' atto coll' acquisto della scienza, che può essere più o meno copiosa, ancora distingue Aristotele in quest' atto della scienza due gradi d' attuazione, l' uno de' quali simile al sonno in cui la scienza è in noi come abito, e l' altro alla veglia, l' ultimo e più perfetto atto, quello della contemplazione, che chiama costantemente divino, o divinissimo (1). Conviene dunque distinguere, secondo Aristotele, quasi quattro atti, l' uno più perfetto dell' altro, nello stato dell' anima intellettiva, due dirò così innati e due acquisiti. 1 L' atto o specie della mente in potenza , che dicesi atto rispetto all' anima sensitiva che lo emette; 2 L' atto ulteriore, o specie della mente in atto (intuizione primitiva) che ha virtù di fare che la mente in potenza esca al suo atto; 3 L' atto ulteriore o specie della scienza , che è l' atto, a cui è già uscita la mente in potenza, e quest' atto s' unifica colla mente in atto che rimane così accresciuta e rinforzata; poichè in quanto da potenza diviene atto, in tanto cessa d' esser potenza. Come dunque il sensibile in potenza è diverso dal senziente in potenza, ma il sensibile in atto s' unifica col senziente in atto, secondo Aristotele, così la mente in potenza si distingue dalla mente in atto finchè in potenza, ma non più quando cessando d' essere in potenza, diventa in atto. 4 L' atto ulteriore finalmente della contemplazione , con cui attualmente contempla le specie. Per ridurre questa dottrina a maggior chiarezza, conviene rispondere a tre questioni. 1 Che cosa è mente in potenza che diventa tutti gl' intelligibili secondo Aristotele? E` forse il complesso delle potenze anteriori, incominciando dal senso fino all' immaginazione, che somministrano la materia del conoscere, come vuole il dottissimo Trendelenburg? (2); 2 Che cosa è, qual è la sfera del divino, secondo Aristotele? (3); 3 Come il divino è da sè, ed anche sparso nella natura universa, e com' egli è uno, come moltiplice? (4). Veniamo alla prima. Noi non possiamo convenire col nominato erudito nella sentenza che Aristotele dia la denominazione di mente di cui si fa tutto , [...OMISSIS...] , all' imaginazione e a quel gruppo d' altre facoltà sensitive che somministrano effettivamente de' materiali all' intendimento, poichè di nessuna di queste, nè di tutte insieme, si può dire che diventi tutto. Noi reputiamo dunque, che come Aristotele tolse assaissime cose da Platone, ma le vestì a suo modo e le fece passare come sue proprie, così qui abbia ritenuta la materia comune che accordava Platone alle idee (1), ma invece di darla alle idee, ch' egli non voleva ammettere, la diede alla mente. Ora la materia delle idee secondo Platone è l' essere in universale. Ma questo essere stesso si può considerare sotto due aspetti: 1 o come il subietto delle determinazioni, colle quali egli diviene tutte le idee, generi e specie, e così tiene l' ufficio di materia ; 2 o come lume dal quale è illuminato lo spirito per misurare l' entità di tutte le cose, prima di tutto delle sensibili, e di vederne le essenze, che è appunto formare le idee, onde sotto questo aspetto egli tutto fa, egli produce tutte le specie o forme delle cose. Così lo stesso essere in universale da una parte costituisce quella mente (2) che è fatta tutte le cose, cioè tutte le specie, dall' altra costituisce quella mente che le fa tutte. Come questi caratteri non possono convenire alle facoltà sensitive, così anche ripugna che esse si dicano la mente in potenza, giacchè Aristotele chiama abito questa mente, [...OMISSIS...] , espressione, che non troverebbe una spiegazione naturale, se si dovesse applicare alle sensitive potenze. Secondo Aristotele dunque quando un corpo naturale organizzato, mediante il necessario impulso, viene all' atto dell' anima, prima vegetale, poi sensitiva, finalmente intellettiva, allora quest' ultima anima è così fatta che è suscettiva di tutte le specie, [...OMISSIS...] , e le ha in potenza, [...OMISSIS...] (3). Ora questa appunto è la mente in potenza che diventa tutte le forme. E tant' è lungi che questa sia la sensitività o l' imaginazione e l' altre facoltà sensitive, che da queste espressamente la distingue Aristotele là appunto dove paragona questa mente e il suo sviluppo a quello della sensitività (1). Dice di questa mente che « « intendendo tutte le cose, conviene di necessità che non sia mista, come disse Anassagora, poichè tutto ciò che è eterogeneo, quando accostandosi apparisce, impedisce e divide » ». Onde conchiude, « « la natura di lei non è niuna natura speciale , se non questa che è possibilità », [...OMISSIS...] »(2). Ora che è la possibilità, secondo Aristotele, se non materia, [...OMISSIS...] ? (3). Ma c' è una materia intelligibile , come dopo Platone disse Aristotele? (4). E che cos' è questa materia intelligibile se non l' essere in potenza, ossia l' essere possibile? Questo solo d' altra parte è privo di tutte le differenze, e perciò è del tutto immisto e puro; il contrario poi di questo, l' essere in atto, è privo d' ogni materia sensibile e intelligibile. Del solo essere in potenza e ideale, d' altra parte, si può dire quello che dice Aristotele della sua mente in potenza che, « « non è attualmente niuno degli esseri avanti che intenda » », [...OMISSIS...] . Nè farà difficoltà, che Aristotele attribuisca l' intendere a questa mente, che secondo noi è l' essere in potenza, perocchè egli, come già vedemmo, dell' obietto e del subietto pensante fa una cosa, e quando sono uniti attribuisce all' uno di essi ciò che apparterrebbe all' altro. Nè del pari sia d' ostacolo a intendere in questo modo il pensiero d' Aristotele l' osservare ch' egli sembra accordare a questa mente in potenza l' atto dell' intendere, [...OMISSIS...] , perchè ciò che è in potenza e ciò che è in atto è un medesimo ente, e ciò che è in potenza, la materia, per Aristotele è sempre il subietto dell' atto. Quivi stesso però egli adopera una maniera di parlare, che dimostra non essere la sua mente in potenza, quella che propriamente intende, raziocina e giudica, ma l' anima con essa, [...OMISSIS...] . Della qual maniera non c' è nulla di più proprio per esprimere l' essere ideale indeterminato , perocchè con questo appunto, quasi con un mezzo universale, il subietto intelligente fa tutte le sue operazioni. Finalmente al solo essere indeterminato conviene il carattere che dà Aristotele alla sua mente in potenza, d' essere « « le specie in potenza » », [...OMISSIS...] , con che mostra chiaramente di parlare d' una mente obiettiva, quali sono le specie; e d' essere medesimamente « « il luogo delle specie » » [...OMISSIS...] , giacchè le specie determinate altrove non sono che nella specie indeterminatissima, specie delle specie, come la chiama pure Aristotele, cioè nell' essere indeterminato (1). Si aggiunga un' altra considerazione. Che cosa è l' intelligibile, il proprio oggetto del pensiero? Secondo Aristotele è lo stesso essere della cosa, l' essere determinato ch' egli chiama «to ti en einai,» e che dice che è senza materia, indicando con ciò che è l' intelligibile (2). Ora ciò che può diventare un essere determinato, non può essere altro che l' essere indeterminato e potenziale, che acquistando diverse determinazioni diventa tutti gli intelligibili. Se dunque la mente in potenza è quella che diventa tutti gl' intelligibili, e l' intelligibile è l' essere, quella mente non può esser altro che lo stesso essere in potenza. Il che Aristotele sembra dire in espresse parole, là dove dice che la « materia dell' universale »è la scienza in potenza (3). Poichè l' universale in potenza, che cos' è se non quell' universalissimo indeterminato (epiteto che gli dà Aristotele), che col determinarsi diventa tutti gli universali? Passiamo alla seconda questione: qual è la sfera che abbraccia il divino , secondo Aristotele? Indubitatamente nelle forme pure , per questo filosofo, giace la divina natura . E veramente, cercando qual sia « « la sostanza sempiterna e immobile » » e riferendo le altre opinioni, dice che « « alcuni la dividono in due » » (le specie e le entità matematiche) « « alcuni pongono nella stessa natura le specie e le entità matematiche, alcuni le sole entità matematiche »(1) ». Ma Aristotele non ripone le entità matematiche tra le cose divine, che sono argomento della massima scienza. Poichè egli distingue tre scienze così: « « la fisica è circa gl' inseparabili » » (dalla materia) « « e non immobili; delle matematiche alcune sono circa gl' immobili per vero dire, forse tuttavia non separabili, ma come nella materia: la prima filosofia poi è circa i separabili » » (dalla materia) « « e gl' immobili »(2) ». Questi « « separabili e immobili » » sono appunto le forme pure . Continua poi: « « ora tutte le cause è necessario che siano eterne, soprattutto queste » » (le separabili dalla materia ed immobili), « « poichè sono cause a quelle tra le cose divine che appaiono (3). Onde sono tre le filosofie: la matematica, la fisica e la teologica »(4) »; dove manifestamente chiama scienza di Dio o teologia quella che tratta delle pure forme . Ma nasce il dubbio se Aristotele riponga tutte le forme pure ed astratte dalla materia tra le cose divine; e questo parrebbe, poichè egli dice, che ogni cosa della natura appetisce il bene, l' ottimo, il divino, per la specie a cui tende di pervenire (5), che, separata dalla materia, è divina (6). Ma altrove dice, che ci hanno degli oggetti vili del pensiero e degli oggetti nobili, e che l' eccellenza della mente sta in pensar quelli e non questi (7): sebbene il riputare vili alcune specie, direbbe il vecchio Parmenide esser di chi filosofa ancora inesperto, e si lascia intimorire da' pregiudizŒ del volgo (.). E veramente la cognizione e le specie delle cose vili non sono vili; benchè poco di bene saprebbe la mente, se quelle cose solo sapesse, ma se quelle sono ordinate nel tutto del conoscibile, debbono anch' esse esser conosciute da una mente sapientissima. Ma questo luogo in cui suppone Aristotele, che le notizie delle cose vili sieno vili, basta egli, o può valer tanto, quand' anco sia sfuggito veramente alla penna d' Aristotele, ad escludere alcune specie dalla sfera del divino? Quello che si può dire con sicurezza si è che nè i sensibili, nè le cose miste di materia corporea sono da Aristotele collocate nella classe delle entità divine. E nel vero, le essenze non sono date dal senso; Aristotele stesso ne conviene in tutti quei luoghi, dove distingue le cose corporee dal loro essere , e quelle concede al senso, ma riserva l' essere stesso delle cose alla ragione (1). Che cosa dunque ci dà il senso, secondo lo stesso Aristotele? Delle apparenze che sono vere solamente come apparenze, cioè relativamente: il che viene a dire: è vero che così apparisce. In fatti se tutte le cose fossero come appariscono al senso, apparendo esse a vari individui o anche allo stesso individuo in diversi tempi diverse, la stessa cosa sarebbe e non sarebbe, nè varrebbe più il principio di contraddizione (2). Non è dunque nelle sensazioni che si possa trovare la verità , la verità assoluta (3). Convien dunque ricorrere alle specie con cui conosciamo ogni cosa (4) per trovare una notizia vera e permanente; e la scienza non può avere altro genere che gli universali (5), però in questi solo, non nelle particolari e sfuggevoli sensazioni, dimora la verità. Di che conchiude, che, affinchè ci sia la scienza e la verità, è necessario che ci siano degli altri enti oltre i sensibili (6). E in fatti sono due cose ben diverse, che sia vero che a me un ente apparisca così, e che sia vero che un ente sia così. Della prima di queste due specie di verità, dice Aristotele, che il senso del proprio oggetto è sempre verace; non della seconda. Ma, a vero dire, nè pure questo si può accordargli, perchè il dire: « è vero che mi apparisce questo e questo », non è un pronunciato del senso, al quale solo rimane l' apparire, senza formarsi mai la questione, se l' apparenza sia vera o falsa: questa appartiene alla ragione: l' apparenza sensibile dunque non è giudicata dal senso, e rimane apparenza senza alcuna relazione col vero o col falso, che è sempre nella mente e non nel senso, come lo stesso Aristotele insegna (1). Oltracciò il carattere della verità è quello d' esser permanente ed eterna; quello che è vero, è vero sempre: il senso all' incontro e le cose sensibili sono perpetuamente rimutabili, e se non esistessero che queste, concede lo stesso Aristotele, che non ci potrebbe essere nè scienza nè verità, e che avrebbero ragione Democrito e Protagora (2). Ma quello stesso che si muta si può considerare con una specie e con un pensiero che non si muta, e in questo giace la verità di quello (3). Se si considera attentamente questa dottrina della sensazione, si trovano molte cose in essa levate dal sistema platonico, e in questo pienamente coerenti, ma ripugnanti all' aristotelico. Poichè se il sensibile è solo apparente e mutabile di continuo, e quindi non ha la verità in sè stesso, ma solo il pensiero fa intorno ad esso delle proporzioni vere, dicendo a ragione d' esempio « è di continuo mutabile, è apparente, mi appare questo e questo »; e queste proposizioni sono verità nella mente e quivi immutabili e non nei sempre mutabili sensibili: come mai, in tal caso, le specie possono essere ne' sensibili, alcune in atto nella materia, altre in potenza ? Anzi non resta altra conclusione possibile, se non quella che sagacissimamente ne cavò Platone, quando disse che le essenze delle cose sensibili erano nelle idee , e le cose sensibili non erano che certe similitudini e imagini di esse. In fatti, quando la mente distingue da una parte la specie d' un sensibile e dall' altra il sensibile , e vede che quella ha caratteri opposti a questo, essendo quella permanente, immutabile, eterna, questo sfuggevole di continuo, rimutabile e corruttibile: non è certamente più possibile nè di confondere questo con quella, nè di anteporre questo a quella, nè di dire che quella copii questo, perchè come può quello che è eterno, copiare da quello che non dimora mai nella stessa condizione, non è, ma sempre diventa? E` dunque indeclinabile convenire, nel riconoscere conveniente e sagacissima la maniera di esprimersi di Platone, che i molti sensibili imitino e simulino per un istante quella unica specie che mai non passa: ed è manifestamente insostenibile che la specie incorruttibile sia o possa essere, o in atto o in potenza, in ciò che ha natura corruttibile, momentanea ed apparente, cioè relativa ad un altro. Nè suffraga punto ad Aristotele il cercare, ch' egli fa nel sensibile, un punto fermo nella materia quasi in cosa permanente (1); perocchè, accordata anche la sua ipotesi erronea della materia eterna, egli stesso insegna che la materia non è il fondamento della cognizione e che tutto si conosce non per la materia, ma per la specie e per l' atto; e la specie e l' atto sensibile è appunto il fuggitivo e l' apparente. Nè gli val meglio un altro effugio che tenta Aristotele, dicendo che il sensibile ha la sua fermezza nell' anima in cui si attua la forma sensibile (2). Poichè l' anima stessa ha la sua verità nella specie con che è conosciuta, giacchè anche l' anima si conosce come l' altre cose (3); onde, per essere il sensibile nell' anima, non muta natura, è sempre vero solo come apparenza, e vero non perchè egli abbia la verità in sè, ma perchè ha la verità nella mente, che lo giudica tale, nella qual mente, a detta dello stesso Aristotele, sta il vero ed il falso: e che cosa è questo se non quello che avea detto Platone? E quando Platone diceva che le specie o idee non sono le cose, ma contengono l' essenze delle cose, non dice quello che poi ripete Aristotele, cioè che le cose si dividono in due classi, altre sensibili, altre intelligibili? (4) e che quelli che distruggono le cose intelligibili e lasciano solo le sensibili distruggono la scienza, la verità? (5). In che consiste dunque la differenza? Certo in quello che dicevamo: che Platone non riconosce nelle cose sensibili se non un riflesso, un' imagine, una realizzazione delle intelligibili; laddove Aristotele trova esser questo un sequestrare soverchiante le idee dalle cose sensibili, per un abisso che non si può più colmare. Ricorse dunque a dire che le cose intelligibili sono nelle sensibili in potenza: le sensibili poi sono in potenza nella materia corporea. Così credette di aver legata tutta insieme la natura e tolto lo sconcio del lasciarla sconnessa quasi un mucchio di episodŒ. Ma s' intenda bene tutto il pensiero aristotelico, che a dir vero è imaginoso e gigantesco, ma non regge alla prova d' un raziocinio rigoroso; noi l' esporremo colle nostre parole, per dirlo più in breve, ma rendendolo, come crediamo, con fedeltà. E qui si presentano alla mente da sè una folla di questioni; ne indicherò quattro: 1 Le specie che sono innumerevoli si riducono ad unità, o il divino è diviso e molteplice? 2 Le specie non sono universali? e se sono universali non sono esse in potenza, secondo Aristotele? Come dunque saranno il divino che dev' essere puro atto? 3 Le specie e i generi si formano nella mente umana per via d' induzione da' sensibili: ma come si formano se sono eterne e divine? 4 Le specie sono partecipate dalla materia: or come il divino può comporsi colla materia? Della prima questione ci verrà occasione di trattare in appresso. La seconda e la terza hanno una certa affinità tra loro. Poichè l' una e l' altra sembrano nascere dalla maniera dialettica di concepire d' Aristotele, per la quale la stessa idea o specie diventa nelle sue mani più cose, secondo la diversa relazione sotto cui la riguarda. Poichè pare che talora la consideri sotto la relazione d' universale e di comune a più cose, e in tal aspetto essa e i generi superiori si ritraggono dalle cose sensibili per via d' induzione, e non dànno allora una cognizione attuale delle sostanze composte di materia e di specie; talora poi in sè stessa, ed allora come una cosa eterna, o certo riducibile in un' ultima idea eterna, ingenerabile, che non si produce, che solo si vede o non si vede: e che è sostanza singolare ed ultimata. E veramente la ragione, per la quale nega che la specie sia separabile ed essente per sè, non è tratta propriamente dalla natura della specie stessa, ma dalla specie considerata in relazione con un subietto che può averla ed anche esserne privo: onde argomenta che è relativa al subietto, e che però non si può da esso separare: egli trova assurdo che si consideri la cosa in sè, e nello stesso tempo si consideri come inesistente nel subietto; in sè è antecedente al subietto, ma in tal caso non è più considerata come parte del composto. Egli trova un errore de' filosofi che lo precedettero, di fare che i principŒ sieno contrari, come sono le specie in relazione al subietto, perchè lo stesso subietto può avere specie contrarie. [...OMISSIS...] . Distingue dunque il bianco in sè, [...OMISSIS...] , dal bianco come predicabile d' un subietto, [...OMISSIS...] , e condanna que' filosofi che dicono esser principio una specie in quant' è predicabile. Ora, se questa specie, che si vuol principio, fosse a ragion d' esempio il bianco, egli è evidente che sarebbe anteriore il bianco in sè come puramente bianco, dal bianco come predicabile d' un subietto, [...OMISSIS...] , e però il principio sarebbe questo bianco in sè, e non il bianco predicabile. Da questo conchiude che niuna specie in quanto è predicabile , può essere il primo principio, perchè non ci può essere nulla d' anteriore al primo principio; e i predicabili hanno d' anteriore le specie considerate in sè stesse, pure da ogni materia, onde a queste si deve ricorrere per rinvenire il primo principio di tutte le cose. Ora, tutti i predicabili sono contrari, perchè i predicabili sono sempre d' un subietto, e però senza il subietto non può esistere il predicabile; il subietto poi è suscettivo del predicabile e del suo contrario. Hanno dunque torto quelli che fanno i principŒ contrari tanto nelle cose fisiche, quanto circa le essenze immobili (1), poichè i contrari sono predicabili. Distingue dunque Aristotele e qui e altrove (2) la specie come specie pura, e la specie come predicabile d' un subietto. Altra dunque è secondo Aristotele la stessa forma in sè, [...OMISSIS...] , e altra è la forma mista colla materia, [...OMISSIS...] . La prima è la ragione e la quiddità , [...OMISSIS...] , della cosa, per esempio d' un circolo, e in questa ragione non c' entra la materia, l' oro o il bronzo, come non appartenenti all' essenza, [...OMISSIS...] : la prima è detta da Aristotele semplicemente la specie , la seconda la cosa avente la specie (4); la prima è l' essere della cosa , come [...OMISSIS...] , l' altra è l' essere di questa cosa , come [...OMISSIS...] , la prima dicesi semplicemente «to eidos,» l' altra dicesi «to eidos en tehyle.» Or poi solamente questa seconda dicesi «to kath' hekaston» (5), cioè « « specie delle cose singolari » ». Quest' ultima denominazione dimostra chiaramente che ciò che si predica de' singolari non è per Aristotele la specie pura e presa in sè, ma la specie nella materia. Nega bensì Aristotele di molte specie che sieno fuori de' singolari, distinguendole però da' singolari, secondo la ragione [...OMISSIS...] , e ammettendo che la specie e l' essenza è unica in molti singolari (7): ma questo intende della specie nella materia, [...OMISSIS...] . E di questo biasima i Platonici, in quanto vollero che la specie, in quant' è ne' singolari, esistesse da sè stessa come un altro singolare. Della specie poi presa in sè stessa e non come predicabile, [...OMISSIS...] , fa tutt' altro discorso, e, per quel ch' io intendo, la riduce a certe specie ultime o all' ultimissima, l' essere o la mente in senso obbiettivo, di cui riconosce l' eterna sussistenza. La riprensione dunque che fa ai Platonici consiste primieramente in questo: ammettendo che la stessa specie che è in un individuo sostanziale, sia un individuo sostanziale ella stessa, [...OMISSIS...] (1), si avrebbe qui una terza specie comune, che è quello che dicevasi il terzo uomo . Ora, egli dice, non c' è il terzo uomo tra la specie pura e la specie nella materia, [...OMISSIS...] (2). Poichè se ci fosse quella terza specie (3), per la stessa ragione ce ne dovrebbe essere una quarta e così all' infinito, nel che i Platonici convenivano. In queste parole si ammette che esista la specie stessa, «par' hauton», e che esista il singolare composto di materia e di specie, «kath' ekaston,» ma quello che si nega si è solamente che questa seconda specie inesistente nella materia abbia una sussistenza individuale, sia un individuo anch' essa; nel qual caso sarebbe una terza cosa. Aggiunge poi Aristotele un' altra questione: « « se ogni specie considerata in sè, e non come predicabile, esista veramente separata? » ». « « C' è egli o non c' è qualche altra cosa oltre lo stesso tutt' insiemeDico la materia e ciò che è con essa? » » (la specie nella materia). « « Poichè se non c' è, quelle cose che sono nella materia, sono tutte corruttibili (4). Se poi c' è qualche cosa, per certo che sarà la specie e la forma »(5) ». Quest' è questione diversa dall' altra: nell' altra si cercava se oltre questi due, 1 la specie stessa e 2 il singolare composto di materia e di specie, ci fosse una terza cosa che potesse essere principio comune a quelle due, e si rispondeva di no: in questa si cerca se oltre il singolare composto esista la stessa specie in sè come sussistente, e risponde di sì, ma dice: « « essere difficile determinare rispetto a quali cose questa specie ci sia, e rispetto a quali cose non ci sia »(6) ». Toglie dunque a determinare rispetto a quali cose la specie in sè non esista separata e sussistente, e prima di tutto esclude le specie artistiche, poichè riguarda come cosa manifesta che la specie della casa non sussiste in sè, ma solo nella casa (1): dove si vede che per Aristotele altro è esistere la specie in sè scevra da materia, e altro è esistere separata come un ente da sè sussistente: poichè la specie della casa esiste scevra da materia nella mente dell' architetto, ma non come un ente che da sè solo sussiste. Resta il dubbio rispetto alle cose naturali: intorno al qual dubbio dice: [...OMISSIS...] . Non vuole dunque Aristotele che sussistano per sè come enti separati e indipendenti nè le specie artistiche, nè le specie delle cose naturali. Pure le ammette, ma in che modo? Le ammette tanto unite colla materia, quanto separate della materia, ma non come enti sussistenti da sè. In quanto sono nella materia da questa accecate non sono nè attualmente intelligibili, nè intelligenti, ma pur sono intelligibili in potenza. Quando poi si riducono all' atto, per opera della mente in atto, allora sono scevre di materia, ed esistono come pure specie, ma non come enti indipendenti, ma come appartenenze della mente: la mente poi è quella specie che sussiste in sè da ogni altra cosa separata, indipendente e al tutto divina. Trova dunque indegno della divinità l' ammettere specie eterne di cose corruttibili per sè essenti, poichè se così sussistessero, sarebbero altrettante divinità: e ripugna che la divinità sia fatta come gli enti finiti sensibili e corruttibili della natura, colla sola aggiunta, che sieno eterni e incorruttibili. Ma se la mente stessa è una prima specie, e però un primo intelligibile, ammesso da Aristotele, come contenente ora in potenza, ora in atto tutte l' altre specie, tutti gli altri intelligibili: come dice che intelligibile è dunque la mente, e come scevera essa dalla materia e riduce in atto le specie che si riferiscono agli enti materiati? La mente, dice Aristotele, è dei principŒ: ciascun genere è il principio di ciò che è subordinato ad esso (1); ma fuori e al disopra di tutti i generi c' è l' essere e l' uno che non differisce dall' essere se non di concetto (2): questo è principio di tutti i generi e di tutte le cose, e in questo si fonda il principio di contraddizione, primo principio di tutti i principŒ logici. Se dunque la mente è il principio dei principŒ, e l' essere è appunto il principio de' principŒ, consegue che la mente in senso obiettivo e come intelligibile sia l' essere , in senso subiettivo poi sia l' intuizione dell' essere e nell' essere dei principŒ primi del ragionamento. E qui appunto ha luogo il doppio aspetto, sotto cui dicevamo che Aristotele considera l' idea o specie, cioè in sè stessa come sostanza sussistente, e come universale partecipabile. Poichè cercando qual sia l' oggetto della prima filosofia, da una parte dice che è la prima sostanza separabile e per sè sussistente, dall' altra dice che è l' ente universalissimo. Nell' XI dei « Metafisici », dopo aver detto che ogni scienza ha per principio la quiddità (3), e mostrato in che modo questo accada nella fisica e nella matematica, venendo alla prima filosofia dice: [...OMISSIS...] . Riguarda dunque per primo e principale principio, [...OMISSIS...] , l' Ente separato ed immobile, [...OMISSIS...] , e questo vuole che sia l' oggetto della prima filosofia. Ma separato da che? Da tutto quello certamente che non è puramente ente. Questo si vede considerando come Aristotele distingue gli oggetti delle scienze in cui divide la speculativa che sono fisica, matematica e filosofia prima. L' oggetto della fisica è l' essenza delle cose naturali unita colla materia, come il naso simo che ha ad un tempo il concetto di concavo e la materia corporea di cui necessariamente il naso si compone, e però essendoci la materia e la forma, c' è in queste cose il principio del moto (1). L' oggetto della matematica è quell' essenza che si separa bensì coll' astrazione dalla materia, e però è immobile; come il concavo che è il concetto del naso simo dalla materia del naso (2), ma non è da essa separabile in fatto, di modo che sussista da sè sola, e una tale essenza è la quantità (3). Finalmente l' oggetto della prima filosofia è un' essenza non solo separabile per astrazione, ma separabile di fatto e sussistente da sè come una compiuta ed ultimata sostanza, e questa essenza separabile è l' ente come ente; [...OMISSIS...] (4). Da questo passo risulta, che ogni scienza ha per suo oggetto un' essenza, o quiddità [...OMISSIS...] ; ma che Aristotele distingue l' essenza dalla ragione dell' essenza , [...OMISSIS...] e quindi l' essenza è considerata sotto un' altra ragione o aspetto dalle tre accennate diverse scienze. L' essere dunque, secondo Aristotele, è solo quell' essenza che inesiste in tutte le cose (5), e che sussiste anche separata da tutte e per sè, ed è il divino, [...OMISSIS...] . Questa dunque è ad un tempo singolare in quant' è separata e da sè sussiste, e universale e comunissima, in quant' è in tutti gli enti, non come genere (6), nè come privazione , nè tampoco come specie limitata , ma puramente come essere comune a tutti i generi, a tutte le specie, ed anche alle differenze, ma sotto un altro rispetto, di maniera che la ragione, [...OMISSIS...] , sia diversa. Ciò posto, s' intende in qualche modo come la mente sia ad un tempo dell' universalissimo e del singolare, e come ad una stessa scienza, cioè alla filosofia prima, Aristotele attribuisca per oggetto Iddio, e l' essere comunissimo e universalissimo, come fosse un oggetto medesimo, supponendo Aristotele che l' Essere come separato e da sè sussistente sia Dio, e che l' essere stesso sotto un altro concetto logico sia in tutte le cose: e qui di novo c' è la traccia di quel panteismo che giace in fondo al sistema aristotelico. Concede dunque a quelli, che chiama gli elegantissimi, [...OMISSIS...] , cioè ai Platonici, che ci debba essere un' eterna sostanza e separabile, non potendo esserci senz' essa l' ordine nel mondo (1) e che questa sostanza sia l' essere e l' uno, che sono, pare, i principŒ sommamente immobili [...OMISSIS...] , perchè, rimosse anche tutte l' altre cose coll' astrazione, queste rimangono, ma vuole che essi si costruiscano e concepiscano come quiddità determinata e sostanza compiuta [...OMISSIS...] (2). Ma qui si fa egli stesso l' obbiezione: se, dice, supponiamo che l' ente e l' uno sia una quiddità e sostanza determinata (3), in tal caso s' avrebbe l' assurda conseguenza che tutto fosse sostanza, anche gli accidenti, perchè anche di questi si predica l' essere, e di alcuni anche l' uno. Quello dunque che ripugna ad Aristotele non è già che l' essere , a cui si riduce l' uno, sia una sostanza separata ed eterna, ma che tale sia l' essere come predicabile secondo quest' obbiezione, e non trova nè pure assurdo, che tale sia l' essere come predicabile delle sostanze, ma sì che tale sia l' essere come predicabile degli accidenti, poichè in tal caso, essendo l' essere sostanza, gli accidenti si cangerebbero in sostanze. La soluzione di questa difficoltà è oscura in Aristotele: pure ci pare, che egli l' intenda così. Ammette queste due proposizioni: 1 Che la prima filosofia tratti intorno all' Ente separabile, sostanza prima e singolare, Bene, Dio (1); 2 Che ogni scienza ed anco la prima filosofia tratti degli universali, tra' quali l' essere è il massimo e il comunissimo (2). Egli cerca la conciliazione di queste due proposizioni, poichè l' universale è in potenza e però è diverso dall' ente separato, che dev' essere atto purissimo: espone a lungo e replicatamente le difficoltà che involge l' una e l' altra proposizione: finisce coll' ammetterle entrambi; ma brevemente e oscuramente parla quando vuol dissipare quelle due serie di difficoltà e conciliare proposizioni che sembrano contraddittorie. La conciliazione dunque d' Aristotele, se non erro, è questa. L' ente come ente ha un senso primitivo ed assoluto, e preso in questo senso è separabile e sussistente, ed è Dio: ma quest' ente ha poi altri significati che si riducono tutti a quel primo (3). Questi altri significati sono quelli che appartengono alle predicazioni dell' ente. L' ente si può predicare in due modi, per sè e per accidente: l' ente per accidente non può costituire l' oggetto d' alcuna scienza; e nelle predicazioni, in cui l' ente si predica per sè, sia de' generi, sia delle specie, sia delle differenze, esso significa partecipazioni dell' ente. Ma queste predicazioni sono varie; e alcune sono relative ad altre, come l' ente predicato del quanto, del quale e del relativo, si riferiscono all' ente predicato della sostanza, e significano passioni di questa. L' essenza sostanziale invece non si predica che della sostanza singolare. Di più, tra le sostanze stesse che partecipano l' ente, altre lo partecipano potenzialmente, altre attualmente; più attualmente di tutte l' altre lo partecipano le anime intellettive, tra le quali è la Mente; e questa in senso obiettivo è l' ente stesso primitivo e divino. L' ente dunque predicato e partecipato è universale e comunissimo, e però anche la prima filosofia tratta dell' universale (1); ma essa non si ferma a questo, ma riduce questo all' ente separabile, come a sostanza compiuta. Che se il filosofo col suo pensiero si fermasse all' ente come universale e predicabile, non sarebbe ancora giunto all' ultima e più ultimata sostanza e specie, e però non avrebbe la prima scienza (2). Non si può dunque dividere la dottrina dell' essere universalissimo dalla dottrina di Dio, perchè questa risulta da diverse partecipazioni o relazioni con quella. Quello dunque, che Platone disse di tutte le specie o essenze, Aristotele restrinse al solo essere , e non si può a meno di ravvisare in questo un progresso dell' ideologia . Platone vedendo l' immutabile natura delle essenze, disse che dovevano essere eterne sostanze, di cui le sostanze sensibili partecipassero, e così spiegò l' esistenza di queste. Aristotele osservò, con molta sagacità certamente, che gli universali non indicano l' essere delle cose, ma alcune loro qualità comuni (3), perchè in fatti gli universali si predicano di molti individui, di che conchiuse « « che gli universali non potevano esistere da sè come enti compiuti » », ma solo potevano esistere negli enti compiuti, come loro qualità comuni (4). Che se si ponesse che l' universale sia un ente compiuto, in tal caso ne seguirebbero due assurdi: il primo , che tutti gli enti di cui si predica un universale, sarebbero il medesimo ente, l' altro, il secondo , che un ente solo sarebbe composto di molti enti compiuti, come Socrate dell' ente animale, dell' ente uomo, ecc. (5). Ma è facile vedere, che dell' essere non si può dire quello stesso, che degli altri universali, cioè non si può dire che non significhi «tode ti,» ma «toionde,» poichè essere non significa certamente una qualità dell' essere , ma l' essere stesso . L' argomento dunque d' Aristotele contro le idee platoniche qui si frangeva: ed egli stesso dovette convenire, che l' essere si potea porre a parte dal resto, [...OMISSIS...] , come sussistente da sè solo, e si potea di lui dire quello che Platone estendeva a tutte le idee, cioè che sussistessero da sè come essenze eterne, e i sensibili non fossero che una cotale imitazione e partecipazione di esse. Ma se quell' argomento contro la sussistenza degli universali non si poteva applicare all' essere , altri argomenti parevano valere ugualmente anche per l' essere universale . [...OMISSIS...] Quest' ultime parole, a dir vero, escludono l' essere dall' argomento; dico l' essere proprio della cosa, perchè l' essere della cosa è il subietto stesso, di cui si predicano l' altre cose, ed Aristotele dice appunto, che la prima scienza ha per oggetto gli enti come subietti , e non come qualche cos' altro, [...OMISSIS...] (3). Sembra dunque che la scienza prima non tratti dell' essere come predicato, perchè come predicato è universale, e s' incorre nell' obbiezione accennata, [...OMISSIS...] onde la scienza prima non tratterebbe della sostanza, e della prima sostanza, come pur deve (4). Ma per l' opposto Aristotele stesso insegna espressamente che la prima scienza tratta dell' ente comune , dell' ente in quanto ente in universale , e che se l' ente non si considerasse come un solo genere , non potrebbe essere oggetto d' una scienza sola, ma di più (1). E in fatti, poichè la scienza prima tratta di tutti gli enti, in quanto sono enti subietti , [...OMISSIS...] , come potrebb' essere una scie o genere comune? E` dunque indubitato che la prima scienza, secondo Aristotele, tratta dell' ente come puro ente, [...OMISSIS...] , e che questo puro ente in quanto esiste separato da ogni altro ed è compiuto è Dio, ma oltracciò è anche univocamente gli altri enti tutti della natura, benchè mescolati di potenza e di atto, ed essendo tutti questi enti , è comunissimo: dove si vede riaffacciarsi il panteismo aristotelico, che abbiamo già scoperto. E` comunissimo univocamente a tutte le sostanze prime e singolari, ma non alle nove categorie che seguono a quella della sostanza, delle quali l' ente si dice «omonymos,» e così non appartiene più alla scienza prima, se non per una cotale relazione di pensiero, per la quale si considerano que' diversi significati di ente, come passioni o altre attinenze dell' ente come ente (2). Or se l' ente si dice di tutte le sostanze singolari, oltre l' altre sue significazioni equivoche o relative, sarà egli l' ente un predicato , quando Aristotele nega assolutamente, che ciò che è predicato, sia sostanza ed oggetto della prima scienza? Ritorna qui quello che dicevamo a principio, che Aristotele considerando l' ente dialetticamente, ne fa due, cioè stabilisce due ragioni dell' ente, secondo l' una delle quali sussiste da sè separato da ogni passione, e quest' è Dio sostanza suprema e singolare, l' altro poi è la specie comunissima dell' ente. Ora rispetto a tutte l' altre sostanze, non ammette se non due modi, cioè: 1 la sostanza singolare , 2 la specie sostanziale , che non esiste separata da quella, e da sè come sostanza compiuta, ma solo separata di ragione e così esistente nella mente. Ma rispetto alla suprema sostanza, cioè a quella dell' essere, pare che ammetta tre modi: 1 l' essere che esiste separato come sostanza compiuta, e questo è Dio; 2 l' essere comunissimo , che è la specie dell' essere che esiste separata nelle menti prese in senso subiettivo, e che costituisce le stesse menti in senso obiettivo; 3 e l' essere che costituisce tutte le singolari sostanze come subietti delle modificazioni e passioni, e di tutti i predicati. Ora, la scienza è sempre degli universali; laonde delle singolari sostanze finite non si dà scienza, ma si conoscono colle specie loro che sono nella mente e col senso. Ma poichè l' essere come essere è egli stesso ad un tempo e specie universale e singolare sussistente, risulta che si conosca per sè, e però che sia intelligibile anche come singolare, chè quello stesso essere che è sussistente come singolare è anche universale, specie universalissima, specie delle specie. L' essere dunque è per sè conoscibile. E poichè le specie dell' altre cose sono nella mente oggettivamente presa, cioè nell' essere, perciò coll' essere e nell' essere si conoscono l' altre cose. Ma è necessario, che noi vediamo come l' essere possa esser predicato . Poichè se attentamente si considera ben si vedrà, che egli ha una natura interamente diversa da tutti gli altri predicati; e benchè Aristotele non esponga chiaramente questa differenza, egli è mosso a fare un' eccezione all' essere, perchè n' ha il sentimento. E veramente di che mai si può predicare l' essere? Forse del nulla? No certamente. Di qualche materia o potenza, di qualche specie od atto? In tal caso si supporrebbe che prima dell' essere ci fosse qualche cosa, che potesse servire di subietto all' essere predicato. Ma prima dell' essere non c' è nulla, perchè se ci fosse, sarebbe già essere (1): egli dunque è veramente il primo subietto (dialettico) di cui tutto il resto si predica. L' essere dunque non si predica, che dell' essere stesso. Ora, come non manca d' osservare Aristotele, la predicazione si fa nel pensiero (2) e propriamente consiste nell' applicare l' essere intelligibile o ideale al reale sensibile o a un altro intelligibile che è precedentemente nella mente. L' essere intelligibile fa conoscere all' uomo la natura dell' essere, unica e semplice (3): nei sentiti dunque e negli altri intesi si riconosce questa natura dell' essere: è una identificazione dell' essere inteso, e che è in potere della mente, col sentito o coll' inteso precedentemente, ma questa identificazione non si può fare che in quel grado e modo che è determinato dallo stesso sentito ed inteso, il quale fa il personaggio di subietto, benchè non esista se non per una tale identificazione della mente. La spiegazione dunque di questo mistero consiste nella distinzione tra l' essere reale e l' essere ideale o intelligibile, che gli antichi non avevano colta, o certo non aveano mantenuta costantemente. Se dunque si domanda se l' essere predicato d' ogni cosa è universale, si dovrà rispondere di sì avanti la predicazione; ma colla predicazione egli diventa uno con ciò di cui si predica, e perciò l' essere della cosa di cui esso si predica è reale o ideale, sostanza o accidente, assoluto o relativo; perchè l' essere universale che si predica è suscettivo di divenire tutto ciò mediante la predicazione. Quindi se l' essere si predica d' una sostanza reale e compiuta, egli stesso dopo la predicazione è sostanza reale e compiuta. Ma se si predica di cosa accidentale e relativa, egli dopo la predicazione non è un ente compiuto, ma ente in senso equivoco, ente imperfetto, parte di ente e non ente. Acciocchè dunque l' ente, che si predica, dopo la predicazione sia ente compiuto , conviene che sia predicato della sostanza reale ; e tuttavia non è meno vero che avanti la predicazione egli è essere universale e universalmente predicabile, tanto della sostanza, come del quanto, del quale, del relativo. Ma poichè avanti la predicazione è il medesimo essere che dopo la predicazione, come accade che dopo la predicazione diventi così vario e molteplice, e talora non si possa dire più semplicemente ente, come quand' è predicato dell' accidente? La ragione di ciò si è che avanti la predicazione l' essere è in potenza tutto ciò che dopo la predicazione è in atto: ora alcuni dnza sola, quando tutti questi enti non s' adunassero in una sola speciei questi atti, come gli accidentali, non sono atti compiuti dell' essere, ma parte di atti e però smarriscono la denominazione semplice di essere, benchè tali atti parziali si riducano agli atti completi. Ora ciò che è in potenza e ciò che è in atto appartiene allo stesso genere, secondo Aristotele; e però quella scienza prima che tratta dell' essere come essere, tratta anche delle passioni dell' essere come essere. Di più tra gli atti compiuti dell' essere ce n' ha uno ultimatissimo e compiutissimo, anteriore a tutti gli altri, dal quale gli altri dipendono come da loro causa finale, e quest' è Dio; onde la prima scienza dee trattare principalmente di Dio. Così questa scienza ha per oggetto ad un tempo: 1 Dio, essere attualissimo; 2 l' essere in potenza o comunissimo; 3 le partecipazioni di quest' essere, considerate non a parte, ma come passioni dell' essere come essere (1). Che cosa si presenta al pensiero del filosofo? Tutto, tale qual è l' universo. Questo, per ipotesi assunta (chè prove efficaci non se ne danno e le inefficaci trapassiamo per brevità), è sempre stato. Dunque ci si dovea trovare tutto ciò che c' è al presente. Poteva sussistere l' universo solo materia corporea senza alcun' anima vegetativa ? No, risponde, perchè senza questa non c' è l' anima sensitiva. Ma non potrebbe esistere l' universo senza alcun' anima sensitiva ? In tal caso non si potrebbe più concepire esistente cosa alcuna, [...OMISSIS...] (il solo corpo sensibile) [...OMISSIS...] . (2). Poteva esistere l' universo senza l' intelligenza, ossia l' anima intellettiva ? Impossibile del pari, perchè in tal caso non essendoci che i senzienti, e in essi i sensibili, e questi essendo apparenze relative, non esisterebbero che relativi, il che è assurdo (3). Poteva esistere l' anima intellettiva senza gli intelligibili ? Nè pure, perchè la mente non è tratta al suo atto, che da una specie di contatto cogl' intelligibili, [...OMISSIS...] (4). Aristotele dunque trova, che nell' università delle cose, ci sono e ci devono essere sempre state queste cinque cose: 1 materia corporea; 2 esseri vegetativi; 3 esseri sensitivi; 4 esseri intellettivi; 5 intelligibili; e che se un solo di questi anelli mancasse, non potrebbero più esistere gli altri. Questi anelli poi sono collegati così, che il seguente è il precedente in atto, e il precedente è il seguente in potenza. Quindi la materia corporea è in potenza l' anima vegetativa, la qual è l' atto di quella; l' anima vegetativa è l' anima sensitiva in potenza, e questa l' atto di quella; l' anima sensitiva è l' intellettiva in potenza, e questa l' atto della sensitiva; l' anima intellettiva è gli intelligibili in potenza, e questi sono l' atto di quella. Così costituito e organato l' universo, si fa a spiegare la generazione delle cose. Osserva, che certi corpi passando all' atto metton fuori l' anima vegetativa, e questa la sensitiva, e questa passando all' atto l' anima intellettiva, e questa passando all' atto gl' intelligibili. Ma come si fa questo passaggio? Risponde: è sempre una cosa in atto, quella che opera e trae un' altra cosa, che è in potenza, al medesimo atto, la potenza non si move da sè stessa, ma solo asseconda e segue il movente. Se dunque vi sono cose che relativamente sd altre sono in potenza, queste però che sono in potenza, non potrebbero passare al loro atto, se non per la mozione d' altre cose che sono in quel medesimo atto, a cui esse passano. Laonde, se rispetto a quelle cose, che, essendo in potenza, passano all' atto, la potenza precede, l' atto sussegue: questo però, assolutamente parlando, precede sempre la potenza, cioè deve esistere in altre cose. E poichè la potenza e l' atto non sono che un medesimo ente, quindi tutte le cose si continuano, e sono come un ente solo che va passando a diversi stati o gradi d' eccellenza; non mancando mai questi gradi, che traggono e sollevano a sè quella porzione di natura rimasta indietro in uno stadio inferiore (1). Fermandoci qui, dicevamo che questo ingegnoso sistema non regge ad un esame rigoroso. Invano ricorre a questo principio vero e acutissimo, che « « l' atto di chi opera, si fa in quello in cui si opera » » (2). Primieramente la materia corporea, mancando per sè d' unità, non può mai essere un subietto com' egli stesso riconosce (3), appunto perchè non può esser una: quindi vacilla la base di tutto il sistema. Di poi quest' espressione « « ciò che è in potenza » » o è una frase insignificante e che non dice nulla di reale, o significa un germe, un principio, da cui si sviluppi quello che inchiude. In tal caso converrebbe che nella pura materia corporea ci fosse in germe la vita vegetale. Ma se questa ci fosse, non sarebbe più la materia pura ma formata, e non potrebbe poi essere al tutto materia corporea ed estesa, ma già sarebbe un principio inesteso, insito ed operante nella materia; e questo principio solo potrebbe essere il vero subietto dell' anima vegetale, di cui la materia non sarebbe che un puro termine. Che cosa poi dovrebbe essere l' anima sensitiva in potenza? Se l' anima vegetale, come suppone Aristotele, non sente nulla, in che modo ci può essere un germe del sentimento che non sente nulla? Nel germe si acchiude sempre qualche cosa di ciò che si svolge da esso di poi (1). O conviene dunque ammettere nell' anima vegetale qualche cosa di sentito, per minimo che sia, o riconoscere che non c' è in essa punto nè poco l' anima sensitiva in potenza. Il sentimento dove non è, dovrebbe essere creato del tutto, e non sviluppato; esso differisce di specie, ed anzi di genere da tutto ciò che non sente, e lo stesso Aristotele confessa, senz' accorgersi che così atterra sè stesso, che la produzione si fa entro la stessa specie, e dall' univoco (2). Medesimamente, non contenendo il sensibile l' essere delle cose, che è l' oggetto, secondo Aristotele, dell' intelligenza, come l' intelligibile si potrà trovare in potenza nel sensibile? E come potrà ridursi all' atto quello che non c' è? e non dovrà piuttosto crearsi dal nulla? O dunque « trovarsi in potenza »è un suono vano, o se vuol dire trovarsene qualche parte, per quanto involuta, già non è più vero, che il sensibile non sia che fenomenale e puramente relativo, come pur insegna Aristotele. Da tutte parti dunque crolla cotesto sistema, rimanendo però veri certi principŒ e certe parti accidentali. Arrivati noi qui agl' intelligibili d' Aristotele, ci si offre di nuovo la questione che abbiamo trattata precedentemente: se ci sia per Aristotele qualche intelligibile, che sussista da se solo. Su cui ci par necessario d' aggiungere alcune altre considerazioni, essendo questo il nodo più difficile di tutto l' Aristotelismo, e il più controverso. E già abbiam veduto, che Aristotele distingue le specie in quelle che sono in natura, e in quelle che servono all' uomo di norma nell' opere dell' arte. Sulla quale distinzione osserviamo come Aristotele non concepisca la specie unicamente come un' idea, che fa conoscere le cose, ma confondendo la specie7idea colla forma reale delle cose (cioè col loro atto immanente), dà a questa forma reale un' efficienza nella cosa stessa che non può certamente dare alla pura specie ideale , che sta nella mente dell' artista, la quale è bensì efficiente, ma nell' artista, non nella cosa dall' artista prodotta (1). Questa confusione del reale coll' ideale impaccia tutto il sistema aristotelico, e in qualche parte anche quello di Platone, a cui Aristotele riferisce la distinzione tra la specie negli enti naturali, e nei prodotti dell' arte (2). Alla specie artistica dunque nega a dirittura, come vedemmo, l' esisenza da sè; delle specie naturali non parla così reciso. [...OMISSIS...] Osserviam dunque su questo luogo che il negare il titolo d' essenze alle specie artistiche, riservandolo alle sole specie naturali, che costituiscono la natura delle cose e il principio della generazione e della corruzione, è consentaneo al suo sistema, il quale non ammette con Platone che l' universo sia creato da Dio come da un artefice, sull' esemplare delle proprie eterne idee, ma vuole, che tutto sia stato sempre, e questo tutto si rimova eternamente e cangi per que' quattro modi di trasmutazioni che abbiamo indicati, rispondenti alle quattro prime e fondamentali categorie. S' osservi anche quell' espressione, « « che d' alcune specie non può accadere così » », [...OMISSIS...] , per la quale sembra che consideri come accidentale a tali specie il sussistere separate. Con questo egli allude indubitatamente all' anima intellettiva, che considera come specie del corpo corruttibile, negando che preesista al corpo, come pare facesse Platone o alcuno della sua scuola, sebbene conceda che sopravviva al corpo, corrompendosi accidentalmente questo. Escluse dunque le specie artistiche, veniamo alle naturali che oltre esser mezzo del conoscere, quando rimangano nella mente separate dalla materia corporea, sono anche forme degli enti della natura (4). Richiamiamo il gran principio aristotelico, che « « niente di quello che è in potenza è eterno », [...OMISSIS...] (1), «e che se c' è una specie separabile, questa dee essere in atto », [...OMISSIS...] (2). Questo principio ci conduce egli a qualche specie in atto compiuto e separabile? Primieramente non è da discorrere della privazione , che si riduce alla specie , essendo o il mancamento della specie, o la specie opposta (3). Di poi, i generi e tutti gli universali incompiuti, non avendo l' ultimo atto, sono da Aristotele dichiarati materia (4). In terzo luogo, non possono essere separate le specie degli accidenti, perchè questi non hanno l' atto per sè, onde dice: [...OMISSIS...] . Rimosse queste tre classi di specie, che rimane? Rimane da sè la mente, specie ultimata, e separabile non solo di concetto, ma anche realmente, non solo dal corpo (se pure Aristotele rimane a questa altezza), ma anche dal resto dell' anima: e la mente è il complesso degl' intelligibili. Gl' intelligibili dunque, per riassumere, sono specie e generi, e le specie altre sostanziali, altre accidentali: queste ricevono il loro esser da quelle; la specie sostanziale è più atto della specie accidentale. I generi poi sono più potenza delle specie, e ricevono il loro atto in queste (6). Le specie sostanziali ancora si considerano o come termini dell' atto intellettivo e contemplativo, o come atti intellettivi esse stesse per la solita o almen frequente confusione che fa Aristotele tra la specie e l' atto . Secondo la prima considerazione, essendo ancora in potenza, non sussistono da sè, e Aristotele riprende Platone, quasi abbia voluto ammettere le idee come essenze prive dell' atto contemplativo, e però potenziali, quando nulla ci può esser d' eterno, che sia in potenza. La qual censura quanto sia ingiusta, scorgesi anche dal decimo della « Politeia », dove Platone fa, che le idee nascano da atti della divina mente. Che anzi lo stesso Platone non ci sembra andare del tutto immune dalla stessa colpa d' Aristotele, di non avere abbastanza distinto l' atto dalla specie , termine dell' atto (1). Per ovviare dunque l' inconveniente di non ammettere come eterne tali specie che in sè contenessero del potenziale, Aristotele pose questo principio, che « « in quelle cose che sono scevre di materia l' intelligente e l' oggetto inteso sono un medesimo » », [...OMISSIS...] (2). Ma che vuol dire « scevre di materia »? Non altro, nel linguaggio d' Aristotele, se non senza potenza. Quel principio dunque viene a significare: « Nelle cose dove non c' è potenza, ma tutto atto, l' intelligibile deve essere intelligente; chè altramente quello conterrebbe della potenza contro l' ipotesi ». Donde si conferma quanto abbiamo di sopra toccato, che Aristotele non vede atto puro se non nell' ordine intelligibile, e dentro a questo, nell' intellezione , di guisa che « atto puro del tutto ultimato »e « intellezione » è il medesimo, e quello non è già un genere, ma una cosa con questa specie ultimata. E non basta che le specie sieno attuate e divenute intellezioni: le specie che appartengono al genere della sostanza precedono alle altre in dignità per una maggiore attualità: l' altre che appartengono al genere degli accidenti, esistono per le prime. Le sole specie sostanziali dunque, ossia quell' intellezione che ha per oggetto o atto ultimato la quiddità [...OMISSIS...] (3), è la più attuale di tutte. Ma questo non basta ancora per arrivare a quella specie che sussiste da sè, secondo Aristotele, cioè alla mente . Che anzi egli è obbligato di fare, e questo è degno di osservarsi, il cammino contrario. Poichè non qualunque intellezione, che abbia un oggetto speciale o singolare, è mente, ma dee averli tutti in potenza. Conviene qui dunque che Aristotele retroceda alla potenza, non a una potenza corporea, ma pure ad una potenza, ed ecco come egli lo fa. I generi sono materia delle specie, specie in potenza (1). Essendo, specialmente certi generi , quelli « « che Platone avea celebrati, e considerati come idee fondamentali » », si compiace Aristotele di ribassarli sotto le specie. Ma ben presto n' ha bisogno egli stesso e li rialza. Infatti, Aristotele s' accorge che tutta la scienza viene da certi principŒ, e questi hanno per fondamento gli universali, e i principŒ primi hanno per fondamento gli universali della massima estensione. I principŒ primi dunque non vengono dalle specie, anzi da' sommi generi, e da ciò che è più universale ancora de' generi, l' essere. Alla mente d' Aristotele si presentano dunque, come abbiamo veduto, i generi e gli universalissimi da due aspetti, e ne trae due conclusioni opposte. Quando considera i generi qualità comuni delle cose (2), dice contro Platone, che non possono esistere separati dalle sostanze singolari. Da questi universali esclude la sostanza in atto, poichè la sostanza collocata nel primo luogo tra le categorie è la sostanza in potenza, ed è anch' essa una certa qualità, [...OMISSIS...] (3). Altre volte invece considera i generi universalissimi, cioè le nature in questi significate, come intelligibili e anzi primi intelligibili ; e sotto questo novo aspetto, esistono nella mente non come qualità comuni delle menti, ma come atti di ciascuna mente, e questi atti sono primi principŒ . Ma tutti cotesti atti o principŒ si riducono ad uno, cioè a quello di contraddizione, e questo è fondato nell' essere puro indeterminato, universalissimo, che è in potenza tutte le cose. Ora l' intellezione che ha quest' oggetto è appunto la mente . Questa mente è atto perchè è intellezione, ma è ancora potenza perchè ha un oggetto che è in potenza tutte le cose. Così dice che la mente è de' principŒ [...OMISSIS...] (1), e in essa ripone la divina natura. Poichè se il divino esiste, dice, dee certamente riporsi nella natura separata ed immobile (2). La specie sostanziale dunque, presa come forma reale delle cose, è la quiddità (3), la natura delle cose, e il principio di ogni generazione e movimento (4). La generazione poi tende alla specie sostanziale come a suo fine (5). Tutto si move dunque da una specie sostanziale ad un' altra specie sostanziale. Operando così la natura, l' ultima e più eccellente e divina specie che perviene a produrre, secondo Aristotele, si è l' anima, e in questa la mente: tale è il fine dell' operare della natura. Questa gran produzione dell' anima appartiene a quell' efficienza naturale, che Aristotele chiama generazione , e che riguarda la produzione d' una sostanza nova: ella si distingue dalle altre tre maniere di permutazioni naturali, che producono solamente delle specie accidentali, che non riguardano la categoria della sostanza, ma alcuna delle altre nove. Ora Aristotele pone questa differenza tra le produzioni sostanziali , e le produzioni accidentali della natura, che non può esser prodotta una nova sostanza , se non esiste già prima una sostanza della medesima specie in atto; laddove gli accidenti nuovi delle cose possono esser prodotti quantunque precedentemente non esistessero che in potenza, perchè gli accidenti, il quanto e il quale , non si producono mai in separato dalla sostanza, ma insieme con essa (1). Da qui procede che ab aeterno, secondo Aristotele, doveano esistere delle menti: perchè altrimenti non se ne sarebbero mai generate di nuove. Pervenuta dunque la natura, per mezzo della sua più eccellente operazione, cioè della generazione, a produrre questo ultimo suo atto, puro da materia corporea, che dicesi anima e mente , alla natura non resta altro che fare, ma in quest' ultima sua specie, come in termine della sua fatica, riposa. Ma qui appunto è già con ciò posta in essere una nuova causa d' operare, e questa è l' anima stessa intellettuale, dotata di diverse potenze, e che dà luogo a nuova serie di operazioni. A queste e ai loro prodotti dà il nome di effezioni [...OMISSIS...] , per distinguerle dalle generazioni, e le distingue secondo le potenze dell' anima. In qualche luogo ne fa tre classi: quelle che vengono dall' arte, quelle che dalla forza, e quelle che dal pensiero (2). Altrove dice che « « ogni pensiero [...OMISSIS...] o è pratico, o fattivo, o speculativo » » (3). Il pensiero fattivo è quello che produce qualche opera al di fuori come quello dell' architetto che fabbrica la casa, o del poeta che compone un carme. [...OMISSIS...] Or dunque quel pensiero che, movendo altre potenze, produce un' opera esterna, è detto da Aristotele fattivo : quel pensiero poi la cui azione non esce dal subietto pensante o è speculativo se è una pura contemplazione che non esca dalla mente, o è pratico , se c' entra la volontà, come nelle operazioni morali ed eudemonologiche. [...OMISSIS...] Ora, come tutta l' attività della natura è, secondo Aristotele, annessa alla specie come forma reale, così tutta l' attività dell' anima intellettiva, che è l' altra causa da Aristotele spesso compresa sotto la denominazione di arte, è del pari la specie come idea, ossia mezzo del conoscere. [...OMISSIS...] . E reca questo esempio tratto dall' arte medica: [...OMISSIS...] . L' arte ancora osserva la stessa legge ontologica della natura, che « « quello che agisce sia un ente in atto (qual è la specie) che opera su ciò che è ente in potenza traendolo all' atto » (5) ». Dichiara poi come il pensiero produca un effetto esterno come la sanità o l' edificio. Dice che egli trascorre tutta la serie dei mezzi fino che ne trova uno che è in suo potere e che è poi causa naturale degli altri. Così, a ragion d' esempio, il pensiero del medico arriverà alle fregagioni che è in suo potere di fare sul corpo dell' infermo. Conosciuto questo, mette in atto le sue forze fisiche: eseguite le fregagioni, queste da sè promuovono il calore, il calore produce l' equilibrio degli umori e dell' interne forze: e questo la sanità. Conchiude che è impossibile che l' arte faccia nulla, se non preesiste qualche cosa naturalmente (6). In quest' operare poi dell' arte distingue il primo movimento, che viene dal principio e dalla specie e lo chiama intellezione , quello poi che viene dall' ultima intellezione, come nell' esempio addotto le fregagioni, lo chiama effezione (1). La specie dunque tanto nella natura quanto nell' arte è il principio dell' attività e de' movimenti. Ma se tutte le specie nell' anima sono acquisite, come l' anima sarà un principio operante? Aristotele risponde che la stessa anima intellettiva è una specie (2). E dice la mente, come abbiamo più volte detto, « la specie delle specie ». Ma poichè il pensiero speculativo è il principio e il fondamento del pratico e del fattivo, e quindi di tutta l' attività dell' anima intellettiva, gioverà che, richiamando le cose dette, e svolgendole in parte maggiormente, cerchiamo di dare la maggior luce alla teoria aristotelica intorno all' intelligibile ed al divino. Perocchè con questo sviluppo l' anima si provvede di specie determinate, di cui si compongono le arti, e ogni specie è nuovo principio d' azione. Dalle cose vedute fin qui sembra che in Aristotele compariscano su questo argomento due dottrine opposte. Noi possiamo compendiare la prima in questo modo: « i corpi hanno le specie sensibili in potenza ; quando essi affettano un essere vivente, un animale, suscitano nella sensibilità dell' animale le specie sensibili in atto . Queste specie sensibili nell' animale hanno le specie intelligibili in potenza . Quando l' animale di cui si tratta, abbia un' anima intellettiva, le specie intelligibili che sono in potenza nella sua sensibilità, si suscitano in atto nel suo intendimento ». Queste formole hanno un' apparenza di rigore e di chiarezza: ma quando si vogliano spiegare in altre parole, s' oscurano. La espressione in potenza può intendersi in due modi: quindi due dottrine. O le specie sensibili sono in potenza ne' corpi così fattamente, che il senso, che le riceve in atto, non faccia altro che separarle dalla materia: e in tal caso esse sono veramente ne' corpi, unite colla materia. O le specie sensibili non sono punto nè poco ne' corpi, ma coll' azione de' corpi sull' organo sensorio del vivente si suscitano in esso; e in tal caso ne' corpi c' è soltanto una forza bruta ed insensata, che occasiona però le sensazioni nel subietto senziente. Una simile alternativa si faccia rispetto alle specie intelligibili: e si avranno le due dottrine che dicevamo. Ora egli pare che Aristotele or pieghi all' una ed ora all' altra. La prima intanto sembra cozzare con certe verità da Aristotele stesso insegnate. Questo filosofo accorda veramente ai corpi la condizione di sostanza realmente individua (1), ma nello stesso tempo sente la difficoltà d' una tale concessione. - La materia corporea non ha unità. - Lo vede; e risponde che il corpo riceve l' unità dalla specie o forma, con che ammette veramente inesistere ne' corpi bruti talune specie . - Ma che specie sono coteste? Non intelligibili. Forse sensibili? Nè pure essenzialmente, chè un corpo di minima grandezza non è sensibile. Non è dunque inerente all' essenza del corpo l' avere forme sensibili, non essendogli necessario l' avere una certa grandezza. Aristotele ricorre alla sua diletta espressione: « « gli è essenziale averle in potenza, chè il corpo piccolo può farsi grande » ». Vana risposta; il corpo grande, in quanto è grande, non è un corpo, ma un aggregato di corpi de' quali ciascuno non è sensibile. - Di nuovo: un corpo grande, che è uno fenomenalmente, avrà forme sensibili ? Nè pure, almeno fino a che agendo nel subietto senziente non vi produca le sensazioni: le specie sensibili non possono essere che passioni del senziente, come le chiama lo stesso Aristotele (2): le forme sensibili son dunque nel senziente e non nel corpo. Replica che in questo sono in atto, ne' corpi in potenza, perchè l' azione di questi le suscita (3). Sia, ma in tal caso si vuol dire non già che ne' corpi ci sieno specie sensibili , ma soltanto una certa forza e virtù d' eccitarle nel subietto senziente: e a questa virtù si dà la denominazione impropria di specie sensibili in potenza. Parliamo dunque chiaro: ne' corpi non ci sono in nessun modo forme sensibili, nè pure in potenza; queste sono in potenza nello stesso subietto senziente prima che ci sieno eccitate; eccitate poi, sono nel medesimo in atto. Poichè dove le specie sensibili sono in potenza, ivi solo s' intende che possano essere eccitate e attuate. Il che, si noti, procede dai principŒ stessi d' Aristotele, il quale molto acutamente dice: « « La natura si fa nel medesimo, poichè nello stesso genere della potenza » », e poco appresso: « « poichè sempre da ciò che è in potenza, si fa l' ente in atto da un atto esistente (1) » », e un atto dello stesso genere e specie (2). Ora, il corpo materiale non avendo nulla di sensitivo in sè, non può avere un atto nell' ordine sensitivo, non avendo una potenza che sia nella stessa specie, nè nello stesso genere della sensazione. E veramente un corpo esterno operante sui nostri sensori altro non fa che cagionare un certo movimento o spostamento di molecole, e questo movimento locale è in effetto nello stesso genere e specie della potenza che egli ha di moversi localmente: la sensazione all' incontro non è effetto di cotesto corpo esterno, ma del principio sensitivo che in potenza trovasi nello stesso genere e specie dell' atto della sensazione particolare, perchè l' anima sensitiva è ella stessa un sentimento (3). La natura corporea dunque ed inanimata non ha specie sensibili (4): ma queste, se specie si voglion chiamare, appartengono ad un' altra natura, a quella del corpo animato, termine dell' anima sensitiva. Pure il corpo esterno si sente come forza che immuta, relativamente alla disposizione nello spazio, il sentito dotato d' estensione: e questa forza si compone e quasi si veste del sentito, e di queste due cose di diversa natura, se ne fa una nella percezione dello spirito. Indi l' illusione di credere, che le specie sensibili appartengano ai corpi esterni. E poichè la loro forza si cangia, per la diversa collocazione e aggregazione degli elementi, perciò sembra che alcune di queste specie rimangano in potenza, altre poi sorgano all' atto. Ora su queste specie, supposte ne' corpi esterni, sembra che Aristotele fabbrichi una teoria, considerandole come il bene a cui tende la natura inanimata. E come tutto il bene ha ragion di fine , e la causa finale è divina , anche le cose animate tendono al divino col loro appetito. Ma tutta questa dottrina s' appoggia sopra un falso supposto. E Aristotele stesso pare in qualche luogo ammetterla, in altri pari abbandonarla, e applicarsi alla seconda dottrina da noi sopra accennata: anzi noi crediamo che quest' ultima più ragionevole sia veramente quella sola d' Aristotele, benchè le sue maniere ambigue lascino luogo a dubitarne. E` dunque del pari falso, che quelle che Aristotele chiama specie sensibili sieno in potenza intelligibili . Infatti, si può fare un ragionamento del tutto simile al precedente: che nelle specie sensibili non c' è affatto nulla dell' intelligibile; e però questo non ci può essere nè pure in potenza; stante che la potenza e l' atto conviene che siano della stessa specie. Aristotele confessa ad un tempo e che l' intelligibile è l' essere delle cose, e che l' essere delle cose non è punto nè poco offerto allo spirito dalle sensazioni. Veniamo dunque alla seconda dottrina : prendiamo l' espressione « essere in potenza », non come « materia e subietto atto ad uscire all' atto », ma come qualunque causa occasionale. La dottrina indicata si cangerà in quest' altra: [...OMISSIS...] . In questa dottrina i corpi esterni sono cause occasionali delle specie sensibili, e le specie sensibili cause occasionali delle intelligibili. E queste cause occasionali sono di quella classe, che noi chiamiamo materiali o terminative , perchè altro non fanno che mutare la materia, o termine dell' atto, senza avere nessuna azione nè sulla potenza che produce l' atto, nè sull' atto medesimo. Ora che questa dottrina si presentasse alla mente d' Aristotele, parmi si provi dai luoghi seguenti: « « Diciamo l' anima stessa essere in un certo modo tutte le cose che sono » ». - Queste cose, come dice appresso, sono le sensibili e le intelligibili , a' quali due generi riduce tutto: ora, riconoscendo che tanto le cose sensibili quanto le intelligibili sono nell' anima non solo in atto, ma ben anco in potenza: ne riconosce con ciò la distinzione originale, di modo che fin da principio essendo distinte, non possono venire le une dalle altre. Oltre di che, se sono nell' anima in potenza ed in atto, di conseguente non sono ne' corpi bruti. Continua dunque: « « Poichè quelle cose che sono, o sono intelligibili o sono sensibili » ». - Riducendo tutto a questi due generi, dove restano i corpi bruti? Si vedrà. - [...OMISSIS...] Se dunque quello che è in potenza e quello che è in atto deve essere della stessa specie, conviene che ci sia nell' anima un primo sentito che sia in potenza tutti gli altri sentiti, e un primo inteso che sia in potenza tutti gli altri intesi. Ora tale è il sentimento fondamentale , e l' essere ideale , che noi abbiamo posti come costitutivi dell' anima umana. Aristotele dunque qui è nel vero. Continua poi mostrando come rimangano le cose corporee fuori dell' anima così: [...OMISSIS...] . - Sulle quali parole conviene osservare, che la parola « pietra » può significare l' idea della pietra, la pietra ideale, e la pietra reale. Oltre di che la « forma della pietra »ha anch' essa due significati, poichè per forma ora s' intende da Aristotele la stessa cosa ideale composta di materia e di forma, ora la sola forma, che è l' atto sostanziale e immanente della cosa, astrazion fatta dalla sua materia, anche ideale (2). Si può dunque intendere il passo citato in vari modi; e tra gli altri in questi due, che nell' anima sia la sola forma , rimanendo fuori di essa il composto di materia e di forma: o che nell' anima sia la forma , rimanendo esclusa dall' anima la sola materia. In quest' ultimo senso fu inteso da' commentatori. Ma ciò involge l' assurdo, che la stessa identica forma sia separata ed unita alla materia, separata nell' anima, unita al di fuori dell' anima. Ora che la stessa cosa identica, una di numero, sia ad un tempo separata ed unita alla materia, è contradditorio. Convien dunque intendere che altro sia la specie della pietra nella mente, ed altro sia la forma o atto sostanziale della pietra materiale; quella che contiene forma e materia ideale, fa conoscer la pietra reale, e nella pietra anche la sua forma reale. Ma Aristotele stesso sembra che rimanga preso nell' equivoco della parola «eidos», che egli applica ugualmente alla forma reale della materia reale, e alla specie intellettiva. Non distingue mai chiaramente queste due cose totalmente diverse, se non colle espressioni di potenza e di atto , che non possono convenire; poichè la specie intellettiva ha nella mente tanto l' essere suo potenziale, quanto l' attuale, onde non può averlo al di fuori. Che se Aristotele consentisse a riconoscere l' infinita differenza, che passa tra la specie intellettiva della cosa (e in questa specie tra la forma ideale e la materia ideale) e la cosa reale (e in questa tra la materia reale, e la forma reale di cui si compone, la qual forma reale, riguardo alla pietra, altro non è che i suoi confini nell' estensione): con ciò ei darebbe la mano a Platone, che nelle cose corporee non vede se non una similitudine e una cotale imagine dell' idea. Questo è dunque il passo in cui Aristotele cade e contraddice alle verità da lui stesso vedute. « « Laonde l' anima, prosegue, è come la mano: chè la mano è l' istrumento degli strumenti, e l' intelletto la specie delle specie, e il senso medesimamente la specie de' sensibili » » (1). Vedesi che anche qui per Aristotele (nè pur l' anima intellettiva) non è il subietto , ma uno strumento del subietto. Il qual luogo s' illustra con quest' altro: [...OMISSIS...] . Dal qual luogo si raccoglie che l' anima è strumento degli strumenti, come la mano, perchè essa è strumento dell' uomo, ed ella stessa usa come di suo strumento la scienza, che comprende tutti gl' intelligibili. E per la stessa guisa è specie indeterminata delle specie determinate. Anche delle specie sensibili? Così parve agli scoliasti doversi intendere quel luogo, come spiegazione di ciò che dice così di frequente, che « « l' anima senza i fantasmi nulla intende » » (1). Nè noi ripugniamo, osservando solo che se la mente è specie delle specie sensibili, già con questo s' ha, che le specie intelligibili sieno poste dalla mente là, dove sono le specie sensibili o i fantasmi; e in tal caso le specie intelligibili non sono nè pure in potenza ne' fantasmi, se non forse in un modo passivo o ricettivo, ma la mente li ha prima in potenza, e poi li attua all' occasione de' fantasmi. Perchè la mente è data dalla natura, dice Aristotele, ed ella è la specie intelligibile delle specie sensibili. Onde anche dice, che « « l' intellettivo intende le specie ne' fantasmi » » (2). Ora questo «to noetikon» è quel principio stesso nell' anima che chiama anche «to epistemonikon,» quel primo sapere indeterminato che è insito nell' anima e che costituisce la mente. Dice anche più espressamente che i sensibili « « non sono intelligibili, e che la mente non intende gli enti di fuori senza la sensazione, ma insieme con questa » » (3). Onde nè le specie intellettive sono i fantasmi, nè qualche cosa che sia veramente in essi, anzi qualche cosa che la mente vede in essi, cavandolo da sè stessa (4). Sebbene dunque gl' intelligibili non siano nei sensibili (benchè impropriamente lo dica Aristotele) e questi non siano specie, cioè oggetti; tuttavia s' avvera che « « chi nulla sente, nulla può imparare o intendere » » (5), perchè i sensibili sono quelli a cui l' intendimento applica l' essere ideale, e con questo prima li percepisce, e poi dai percepiti intellettivamente astrae gl' intelligibili puri, come abbiamo mostrato nell' « Ideologia ». Nè c' è bisogno per questo, che i sensibili siano vere specie, ma quelli che ricevono nell' anima intellettiva la specie della mente, e così s' intendono; sono dunque, come diceva Platone, non già le specie, ma la realizzazione delle specie; queste sono la loro parte intelligibile, e l' iniziamento del loro essere, essi sono il termine d' un tal essere. O conviene considerarli in questa relazione, o rinunziare a parlare di essi. Nè si sottraggono alla specie per essere trascorrevoli e rimutabili; perchè c' è anche la specie immutabile del mutabile. Concludiamo dunque, che il divino non è sparso nel mondo materiale; e che Aristotele fa uso di vane metafore, quando dice che tutta la natura, tendendo a prendere qualche forma appetisce il divino: il divino non è, e non può essere che nell' ordine dell' intelligenza. Anche secondo Aristotele questa non ci sarebbe, se ci fosse solo il sensibile, essendo ella d' altra natura, e conviene che preceda in atto ogni sensibile, perchè il sensibile è mutabile di continuo e relativo ed essa, eterna ed assoluta; e se essa non s' unisce nell' anima al sensibile come forma, il sensibile non sarebbe mai conosciuto, non essendo conoscibile per sè. Dopo aver detto che non può esserci altro che l' anima, che dia unità agli elementi corporei, e che ciò che contiene [...OMISSIS...] , checchè egli sia, è più eccellente del resto, soggiunge: [...OMISSIS...] , parole su cui insiste lo scoliaste Filipono, come concludenti a provare che, secondo Aristotele, la mente ha un' esistenza separata, e sua propria (2). Suppone altresì Aristotele che esista qualche cosa d' eterno e d' intellettivo con esistenza sua propria, per ispiegare la generazione degli animali. [...OMISSIS...] . Ammette dunque come eterna causa finale della generazione il bello e il divino , che è per sè intelligibile, e prima sostanza. E perchè la generazione è una tendenza a queste cose che sono eterne, non potendo l' animale terrestre essere eterno nell' individuo, s' eterna, come può, nella specie , [...OMISSIS...] . Pone ancora il principio, che sia « « cosa migliore per ciò che è più eccellente il separarsi da ciò che è deteriore » », [...OMISSIS...] , e che perciò quello che è migliore, tende sempre a separarsi realmente e non solamente di concetto da ciò che è inferiore, e a costituirsi da sè così separato; di che deduce, che in tutti gli animali ne' quali è possibile, il principio maschile e motore [...OMISSIS...] tende a costituirsi diviso dal principio femminile. Dal qual principio medesimo si ha la conseguenza, che la mente e Iddio sarebbero in uno stato d' imperfezione se non esistessero da sè, ma avessero bisogno d' inesistere in altro o ad altro congiunti. Ma quello che mi pare decisivo per riconoscere, che Aristotele ammette che la natura della mente è separata non solo di concetto, ma realmente dai corpi e dai sensibili che non sono senza i corpi, si è, che egli insegna, che l' atto della mente non comunica con alcun corpo. [...OMISSIS...] . Dunque nè pur l' anima in quant' è atto del corpo; ed avendo definito l' anima « un atto del corpo »carattere, che essendo generico è comune ad ogni specie di anime, ne viene la conseguenza, che quantunque l' atto della mente non comunichi con alcun corpo, ma da sè solo sostanzialmente sussista, tuttavia quando la mente, essendo data all' anima come uno strumento, viene dall' anima adoperata a percepire ed intendere, essa anima abbia bisogno del corpo. Onde alle citate parole Aristotele si continua così: [...OMISSIS...] . Onde per l' uso che fa l' anima della mente imagina un corpo etereo e divino, che si separa dal rimanente e sta colla mente congiunto. Veramente egli pare che Aristotele non possa concepire la mente senza un qualche corporeo involucro, o non possa almeno mantenersi a lungo costante in questo pensiero; può forse salvarsi da questo totale materialismo, se, come noi dicemmo, s' intenda, che l' anima, che è atto del corpo, n' abbia bisogno per far uso della mente. A questo conducono anche tutti que' luoghi, dove dopo aver insegnato che l' atto è anteriore alla potenza di concetto e di assenza [...OMISSIS...] , dice che « « necessariamente deve presussistere la ragione e la notizia alla notizia » », [...OMISSIS...] (1), e cioè nelle opere della natura deve preesistere la specie e nell' acquisto delle notizie, ce ne deve essere sempre una precedente. Non di meno ove si tratta della generazione di cose composte di materia e di forma, la specie ossia l' atto operante non è separato, onde dice parlando dell' uomo che « « un tale nascimento avviene per la specie , poichè colui che genera è tale » » (2), cioè ha quella specie, è in quell' atto. Ma nell' arte la specie operante è senza materia, e dice che alcune cose si fanno a caso a quel modo che le fa l' arte (3). Comechessia di ciò che opera la natura, pare non potersi dubitare che la mente, ossia l' intellezione sia, secondo Aristotele, una sostanza da sè, senza abbisognare d' altro subietto, e in essa tutti gl' intelligibili. Se dunque negl' intelligibili è contenuta la divina natura, qual unità possono questi ricevere? O sarà diviso il divino, secondo che nelle varie menti sono divisi gl' intelligibili? A questa questione che già prima ci avevamo proposta, ora dobbiamo rispondere. Che Aristotele non desse unità al divino, il brano seguente lo fa sospettare: [...OMISSIS...] . Nel qual luogo esclude la grandezza, e le parti estese dalla mente: e tuttavia a torto, per quanto a me pare, se n' indusse che Aristotele volesse lasciare la mente sparsa per modo che nulla più fosse se non una successione di staccati pensieri (2). Acciocchè dunque si veda in che modo crediamo noi che Aristotele trovasse l' unità nell' ordine degl' intelligibili, distinguiamo queste tre cose, la mente , l' intellezione , gl' intelligibili , e cerchiamo che cosa egli dica dell' unità della mente, dell' unità dell' intellezione e dell' unità degl' intelligibili. Noi vedremo queste tre unità rientrare in fine in una sola e verace unità. Poichè fino a tanto che Aristotele considera queste tre cose in separato l' una dall' altra, ne parla come fossero tre, ma quando le considera unite, ne fa una sola e medesima sostanza, altro non essendo per lui l' intellezione che la stessa mente in atto, e gli stessi intelligibili in atto. Ma cominciamo da questi ultimi e vediamo se siano al tutto così divisi tra sè, che non abbiano vincolo alcuno. Primieramente Aristotele distingue gl' intellegibili in due classi: 1 gli universali (3), e 2 i primi principŒ. Gli universali, secondo lui, sono intelligibili medii tra' due estremi, cioè tra i singolari e i supremi principŒ . Aristotele in luoghi diversi li considera ora in relazione ai singolari , ora in relazione ai primi principŒ del ragionamento, e così riesce, senz' avvertirlo egli medesimo, a conclusioni diverse. Considerandoli in relazione ai singolari, Aristotele insegna che gli universali sono indeterminati (4), e hanno natura di materia, cioè di potenzialità relativamente alle specie e alle definizioni (5), e non sono l' essere delle cose, ma il loro modo di essere; l' essere stesso della cosa è l' essenza sostanziale di questa (1). Ma Aristotele, benchè voglia con quest' essenza sostanziale designare il singolare, ossia l' individuo reale, non ci arriva, chè la sua mente corre a un universale ch' egli prende per singolare, cioè alla specie: egli si sforza costantemente di dimostrare che « « l' essenze degli enti non istanno ne' generi » », e così crede di combattere Platone. Ma quando viene a indicare in che consista l' ente stesso, ora ve lo descrive come un individuo reale , ora scappandogli questo di mano, vi parla come fosse la specie piena , o l' individuo vago , ora come fosse la specie astratta . Questi tre modi dell' individuo, che è la sostanza prima d' Aristotele «protai usiai» (2) si permutano ne' suoi ragionamenti, il che genera somma oscurità e confusione (3). Spesso dunque sembra non s' accorga che la specie stessa è universale, e la considera piuttosto come un elemento degli enti singolari (1); e quando se n' accorge, pare che si piaccia di chiamarla, in vece che specie, genere ultimo [...OMISSIS...] . I generi poi li considera come universali, e specie in potenza. E appunto perchè i generi, ossia, come egli esclusivamente li chiama, gli universali non sono che entità potenziali, perciò non possono sussistere separati, ma solo insiti nelle specie; laddove le specie , almeno alcune, riconosce dover sussistere separate da ogni materia, e certamente, nel loro atto di menti e d' intellezioni, come diremo. Poichè, oltre gli argomenti che abbiamo più sopra arrecati, in questo appunto egli trova la ragione per la quale alcuni degli enti dell' universo sono corruttibili, altri poi incorruttibili e sempiterni. « « Poichè, dice, se »(i principŒ de' corruttibili e degli incorruttibili) « sono i medesimi, in che modo questi »(enti) « sono incorruttibili, quelli poi corruttibili e per qual cagione? » » (2). E risponde che la ragione della corruzione nasce dall' unione della specie o ragione e della materia: [...OMISSIS...] . E prosegue a dire che per ciò stesso non si dà definizione nè dimostrazione delle singolari sostanze sensibili, perchè hanno materia. Onde « « tutti gl' individui di esse sono corruttibili » », [...OMISSIS...] . Ora egli è indubitato che Aristotele riconosce esistere degli incorruttibili, de' sempiterni e questi immobili, giacchè lo stesso movimento locale, sebbene non importi corruzione, importa trasmutazione e materia «kata topon.» Convien dunque che qualche cosa ci sia di separato dalla materia. [...OMISSIS...] Da per tutto in queste dottrine s' incontrano perplessità e contraddizioni almeno apparenti. Da una parte i generi non sono elementi componenti gli enti, laddove la specie è uno dei due componenti integrali degli enti: di che parrebbe che la specie non potesse esistere separata e i generi sì. Dall' altra gl' intelligibili, che comprendono e i generi e l' ente e l' uno, non esistono separati, ma se non sono elementi, inesistono però inizialmente negli enti già composti de' due loro elementi, la materia e la specie o nelle specie stesse (2). E` dunque da considerarsi, che la questione che si fa: « se possano esistere separate le specie o i generi », riguarda la materia: cioè si domanda con essa « se possono esistere senza materia ». Ora una tale questione non può farsi che delle specie, poichè o queste possono sussistere senza materia, o no. Se non possono sussistere, molto meno i generi che delle specie si predicano, e così sono un loro elemento iniziale. Se sì, la questione è finita, perchè i generi sono già nelle specie. Onde invece di domandare: « se i generi possano esistere senza materia », converrebbe oggimai fare una questione al tutto diversa e domandare « se possano esistere divisi dalle specie »(1). Ammette dunque Aristotele o non ammette qualche natura separata dalla materia? E questa è specie o genere? - Che la ammetta, dopo quello che abbiamo detto, pare dimostrato, e noi non ne dubitiamo. Ma il difficile a determinare si è: che cosa sia questa natura immateriale. Per uscire da questa perplessità conviene rimovere altre ambiguità del linguaggio aristotelico, troppo povero per la potenza analitica d' una tal mente. Prima di tutto dunque si distinguano accuratamente due significati in cui sono presi i vocaboli specie e genere . Talora s' intende sotto il nome specie o genere la natura significata da queste parole: talora poi la proprietà che ha questa natura d' essere partecipata da più singolari, onde si chiama comune, o universale (2). Ora il proprio ed unico significato delle parole specie e genere , secondo l' uso moderno, è quello di significare non la natura semplicemente indicata con esse, ma la natura in quant' è comune o universale. Per esempio il vocabolo uomo significa: 1 la natura umana; 2 la suscettività che ha questa natura di trovarsi realizzata in molti individui. Ora solo in questo secondo significato da' moderni si dice specie . Ma gli antichi lo prendevano ora nel primo, ora nel secondo significato. Così animale significa: 1 o la natura animale; 2 o di più la suscettività che ha questa natura di essere in molte specie , e solo in questo secondo significato è propriamente genere secondo l' uso moderno, che gli antichi ancora non avevano determinato. Quando dunque Aristotele considera l' intelligibile come una natura , senz' altra relazione, allora non trova impossibile che esista da sè (cioè alcuni degl' intelligibili) senza materia; ma quando lo considera come atto ad essere realizzato in molti individui, dal che acquista la propria significazione di specie e di genere, allora lo trova impossibile. Da questi due aspetti diversi sotto cui Aristotele considera la cosa stessa, mi pare che derivi quella duplicità di dottrina, che fu già osservata da molti eruditi moderni in Aristotele. In fatti la difficoltà, principio delle altre, che trova Aristotele ad ammettere le idee di Platone, si riduce a questa: « « Tali idee sono comuni: ma tutto ciò che è comune è indeterminato: ora nulla d' indeterminato può esistere in sè: non possono dunque coteste idee che sono specie o generi e però indeterminati, esistere come enti da sè » » (1). Tentò dunque Aristotele di sostituire alle idee di Platone un' altra maniera d' intelligibili, che potessero sussistere da sè, senza quell' inconveniente. In che guisa? Conveniva trovare degli intelligibili determinati (2). E poichè quello che è indeterminato è la materia, gli parve che non ci fosse a ciò bisogno di materia, anzi, che questa fosse d' impedimento a rendere gl' intelligibili determinati. In fatti, le specie sono quelle che determinano la materia e che la fanno essere « « questo qualche cosa » » «tode ti». Ora fin a tanto che la specie informa la materia, ne risulta un composto determinato a cagione che tale è la limitazione d' ogni materia, che non può ricevere se non una certa maniera di atti, e con questi soli si determina. Ma non così quando la specie stessa si divide dalla materia: quella allora è indeterminata perchè, sufficiente a determinare una data materia, non è determinata ella medesima, sia perchè può esser partecipata da più materie, sia perchè può appartenere a più generi. Come si potrà dunque fare a spingere questa specie separata fino all' ultima sua determinazione? L' indeterminazione è una potenzialità. Converrà dunque spingerla al suo atto ma nell' ordine dell' intelligenza, non dovendosi più unire colla materia. Ora la mente spinge quella natura intellettiva, che è nella specie, a un atto intelligibile ulteriore, quando da molte specie ne cava de' generi, e da questi generi de' principŒ, e da tutti i generi insieme trae quell' intelligibile che è sopra tutti i generi, il quale è l' ente, e da questo poi toglie il principio supremo e universale di tutti i principŒ, che è quello di contraddizione. Ed ecco un principio semplicissimo che non ha più nulla d' indeterminato: ossia un primo intelligibile, l' essere da cui quel principio si prende. L' essere dunque è l' ultimo atto degl' intelligibili, atto puro, e quest' atto intende essenzialmente, secondo il principio che « « ogni intelligibile privo di materia, cioè di potenzialità, è di natura sua intelligente » » (1): e però sussiste ed è la mente prima ed essenziale d' Aristotele. Aristotele si propone dunque per l' esposizione di un tale sistema di seguire questo metodo: 1 di esporre i passi che fa l' intendimento umano per giungere colla riflessione agli ultimi principŒ, e questa è la parte storica del suo lavoro; 2 di dimostrare a quali condizioni, con quali mezzi l' intendimento può fare questo suo viaggio, e questa è la parte teoretica . La parte storica si trova specialmente nell' ultimo capo del libro secondo degli « Analitici posteriori », e n' abbiamo già recati i testi: la parte teoretica si trova principalmente nel terzo libro dell' Anima (capitoli quarto e quinto), di cui pure abbiamo fatta l' analisi. La storia del modo con cui l' anima intellettiva procede fino agli ultimi intelligibili, è questa: l' anima ha un' attività e un movimento intellettuale suo proprio: prima riceve la sensazione: questo è di tutti gli animali. Ma l' anima d' alcuni non va oltre: in altri la cosa sentita rimane [...OMISSIS...] : quest' uno che rimane nell' anima [...OMISSIS...] è una memoria , e dalla memoria di tali cose si fa la ragione di esse [...OMISSIS...] . Dalla memoria ripetuta della stessa cosa si genera l' esperienza , [...OMISSIS...] . Dall' esperienza poi, cioè da tutto ciò che è stato depositato nell' anima e che è l' universale, cioè dall' uno fuori dei molti, che in tutti i precedenti restati nell' anima giace uno e il medesimo, si fa il principio dell' arte e della scienza [...OMISSIS...] (1). Quest' è la storia del movimento del pensiero: veniamo alla teoria. Aristotele distingue primieramente la sensazione dall' ente a cui la sensazione si riferisce: poichè dice: « « si sente il singolare, ma la sensazione è dell' universale » » (2). Se dunque si sente il singolare, il senso non dà l' universale: ma è l' anima quella che in occasione del senso, con un' altra sua facoltà diversa da quella del senso, apprende l' universale, e riferisce la sensazione a un universale, onde in questo senso la sensazione è dell' universale, cioè l' anima intellettiva universalizza il singolare che è il solo dato dal senso. Ma come fa quest' operazione? Che cosa le bisogna per poterla fare? Certamente, risponde Aristotele « « un abito che abbia virtù di far conoscere » » [...OMISSIS...] , che il Bessarione traduce « notificans habitus », ma non abiti determinati, esclusi da lui poco appresso. Quest' abito ingenito, che ha virtù di far conoscere, e ciò che altrove Aristotele chiama lo scientifico dell' anima, [...OMISSIS...] , e che nella « Psicologia » dice « « come un abito a guisa di luce » » [...OMISSIS...] . E` dunque da tener fermo il principio aristotelico, che in ogni ordine di cose l' atto precede sempre alla potenza, e che questa non potrebbe mai uscire al suo atto, se non preesistesse un' altra cosa in atto, che operando in essa l' attuasse. Onde anche nell' ordine delle operazioni intellettive ci deve essere, secondo Aristotele, un atto primo d' intelletto, che tragga in atto ciò che è in potenza ad essere inteso. [...OMISSIS...] . Niuna similitudine più acconcia di questa: la luce è tutt' i colori de' corpi in potenza: ma i corpi sono la causa occasionale per la quale i colori della luce si manifestano in atto: e tuttavia è la luce quella che mette i colori in atto ricevutane l' occasione da' corpi (4). Infatti, Aristotele riconosce che nella stessa mente umana da una parte ci devono essere tutte le cognizioni in potenza, dall' altra ci dee essere un atto, che tragga all' atto quelle cognizioni in potenza all' occasione delle sensazioni. Noi abbiamo già detto e in parte provato, che Aristotele intende, per la mente insita nell' uomo per natura, l' essere in universale . Ma come questo può essere ad un tempo potenza ed atto? Veniamo a dichiararlo. Primieramente non si perda di vista che i concetti di potenza ed atto sono relativi; e che quello che è atto rispetto ad una data cosa in potenza, può esser potenza rispetto ad un atto inferiore. Così ogni intelligibile è atto rispetto al sensibile , secondo la maniera di parlare d' Aristotele, ed è potenza rispetto ad un atto ulteriore che è l' intellezione . Ora la mente innata d' Aristotele è composta d' intellezione e d' intelligibile: poichè queste due cose non ne fanno realmente che una (1) e questa una è la mente: ma tuttavia queste due cose sono realmente indivisibili l' una dall' altra, e secondo il concetto diverse. Perciò distinguendosi nella stessa mente due elementi da cui risulta, si può benissimo senza contraddizione trovare in essa qualche cosa che sia in potenza e qualche cosa che sia in atto. Ora secondo Aristotele l' intelligibile in rispetto all' intellezione è potenza, e questa è atto rispetto a quello. Ed è per questo appunto che, partendo dal principio che « l' atto dee sempre precedere la potenza », negò che le idee platoniche sussistessero per sè stesse, e vi sostituì delle intellezioni, onde dice: [...OMISSIS...] . La scienza dunque, le idee, ossia gl' intelligibili sono potenza relativamente al subietto attualmente intendente, e molto più all' intellezione attuale e presente (3). Essendo dunque composta la mente aristotelica d' intelligibile e d' intellezione, ed essendo quello potenza rispetto a questa, e questa atto rispetto a quello, ne verrà che l' intelligibile dato per natura sia la mente in potenza d' Aristotele, e l' intellezione o l' intendente sia la mente in atto. Poichè veramente Aristotele non fa di queste, due menti , come inesattamente fu detto, ma due differenze nella stessa mente, come espressamente egli dice, [...OMISSIS...] (1). Rimane dunque a vedere, essendoci una mente in atto e però un intelligibile in atto dato all' uomo per natura, col quale egli si forma tutti gli altri intelligibili, che cosa sia quest' intelligibile proprio della mente, e se lo ammettere che sia l' essere in universale concordi con tutte l' altre dottrine d' Aristotele, o colla massima parte di esse. Aristotele dice costantemente che l' oggetto della mente sono i principŒ, [...OMISSIS...] (2). Ora i principŒ sono anteriori ad ogni dimostrazione e ad ogni scienza dimostrativa (3), e si devono preconoscere acciocchè sia possibile il ragionamento. Ma sotto la denominazione di principŒ Aristotele intende due cose: 1 le percezioni de' singolari e idee specifiche che si cavano da quelle; 2 le ultime regole delle scienze e delle arti. Dice dunque che « la mente è degli estremi » [...OMISSIS...] per una parte e per l' altra (cioè tanto nel giudicare che nell' agire). [...OMISSIS...] . Distingue dunque una mente acquisita coll' uso, e una mente innata che è una natura. [...OMISSIS...] . La mente acquisita per natura, cioè per via della mente innata, sono dunque gli intelligibili acquisiti, i percepiti (singolari), le specie, i generi fino gli ultimi e i principŒ dell' arte e della scienza, che tutti si formano per quella induzione che descrive sulla fine degli « Analitici ». Ma qual è quella natura che è causa di tutto ciò? Dev' essere certamente « la mente in atto », perchè se non precede l' atto, secondo Aristotele, nulla si può ridurre dalla potenza all' atto; onde riconosce davanti a tutto « « un principio della scienza con cui si conoscono gli stessi termini primi ed indimostrabili » » (1), e a questo principio dà appunto il nome di mente, [...OMISSIS...] . Dovendo dunque l' intelligibile, che costituisce la mente in atto d' Aristotele, trovarsi nei principŒ , poichè questi sono l' oggetto della mente, e quella si chiama anche da lui come vedemmo « il principio de' principŒ »; è da sapersi che Aristotele, tra l' altre distinzioni che fa de' principŒ, fa pure questa, che li divide in due classi, chiamando quei della prima « «ex on,» ex quibus , » quei della seconda « «peri ho,» circa quod , » che noi potremmo chiamare principŒ formali e principŒ materiati . Ora questi secondi sono proprŒ «hai de peri ho idiai,» di ciascun genere, e perciò sono molti; i primi all' incontro, cioè i formali, sono comuni a tutti i generi «hai ex on koinai» (3). Ora tra tutti i principŒ comuni è dichiarato da Aristotele comunissimo e supremo il principio di contraddizione «to pan phanai, he apophanai» (4). Si confronti dunque che cosa dica Aristotele di questo principio, e che cosa dica della mente, e si vedrà che la mente innata e attuale si riduce all' intuizione di quel principio o de' suoi termini. Infatti Aristotele chiama la mente: « « principio della scienza » », e ancora « « principio de' principŒ » »: e alla stessa maniera chiama il principio di contraddizione. Aristotele pone la mente anteriore ad ogni altra cognizione e necessaria a formarsi quest' ultima; ed egualmente insegna che il principio di contraddizione è anteriore a tutto e che senz' esso non si dà cognizione possibile. [...OMISSIS...] E tosto dice che questo è il principio di contraddizione, che egli esprime con queste formole: [...OMISSIS...] . Di che conchiude, che « « questo è per natura il principio di tutti gli altri assiomi » », [...OMISSIS...] (3). Ora così appunto chiama la mente il principio di tutti i principŒ, [...OMISSIS...] (4). E anche intorno a questa dice egualmente che non è possibile alcun errore, e sempre è vera come la scienza che ne deriva, [...OMISSIS...] (5), il che non direbbe, se colla parola mente intendesse di parlare di una mera facoltà subiettiva, e non d' un oggetto inteso, perocchè a questo solo conviene l' essere vero e falso e all' intellezione che forma con esso una cosa. Siamo dunque arrivati a trovare il primo principio che costituisce la potenza conoscitiva in atto, secondo Aristotele. Ma dobbiamo ancora appurarlo: perocchè il principio di contraddizione, venendo espresso in una proposizione (1), ha qualche cosa di completo e quasi di artefatto e però non può ancora essere ingenito nell' anima in questa forma di proposizione; i termini della proposizione si conoscono come suoi elementi, si devono conoscere anteriormente alla proposizione (2). Ora quella che conosce i termini estremi è la mente, come abbiamo veduto (3). Secondo il nostro filosofo pertanto ogni genere è fondamento di principŒ diversi, e in ogni genere uno solo è il principio supremo (4). Ma sopra tutti i generi è l' essere puro, e questo è fondamento ai principŒ comunissimi e universalissimi, ossia gli assiomi: « « Poichè questi sono in tutti gli essenti, ma non in un singolar genere a parte dagli altri. E tutti ne usano perchè sono dell' ente come ente [...OMISSIS...] e ogni genere è ente » » (5). Ora tra questi principŒ il notissimo e certissimo e quello che deve avere ognuno, acciocchè possa conoscere qualunque cosa, è il principio di contraddizione (6). Questo dunque è un principio dell' ente, non è composto d' altri elementi, non ha altri termini che l' ente , o per dir meglio l' essere . Il che si vede pigliando la sua formola più semplice che è « « essere o non essere » », «einai he me einai» (7). Ora il negativo «me einai» si conosce, secondo Aristotele, pel positivo «einai,» e posteriormente a questo (.). Dunque il solo essere resta il primo e per sè conosciuto dalla mente, più noto e certo di tutte l' altre notizie, intorno al quale non si può commettere errore, e senza il quale non si può conoscere il principio di contraddizione, il quale è necessario che preceda ogni altra cognizione ottenuta per mezzo dell' induzione, e per ciò stesso la cognizione de' generi che Aristotele suol chiamare assolutamente gli universali . Acciocchè dunque ci sia nell' uomo la mente in atto, che tragga in atto gli universali che sono potenzialmente, secondo l' espressione aristotelica, ne' sensibili, è necessario che preceda nell' uomo « l' intellezione dell' essere »comunissimo a tutti i generi. Dal vedere adunque che l' essere non costituisce alcun genere, ma è in tutti, Aristotele si convinse che oltre la natura , divisa in enti particolari che si riducono in generi, doveva esistere qualche altra cosa al di là e superiore alla natura , e riprese quei naturalisti che tutto racchiudevano in questa: [...OMISSIS...] . C' è dunque indubitatamente qualche cosa per Aristotele di separato da ogni materia corporea e di superiore a tutta la natura e questo è l' ente puro, e questo non è l' ente indeterminato, il quale ha bisogno dell' essenza per esistere, ma l' ente che è ad un tempo la propria essenza (2). In un luogo della « Metafisica » reca una norma per rilevare ciò che c' è di separato realmente, e ciò che si separa solo di concetto; poichè dice: [...OMISSIS...] . I concetti non sono ad un tempo, cioè si pensano colla mente separati gli uni dagli altri: questo fa che ci sia distinzione di concetto, ma non è una distinzione reale, perchè l' un concetto viene dall' altro. Arreca in esempio le linee: di linee nulla si compone, non sono specie che informino qualche ente come sarebbe l' anima, nè sono materia come sarebbe il corpo. Sono dunque concetti che vengono da altri concetti, cioè dal concetto del corpo solido, [...OMISSIS...] , e tuttavia si pensano in separato, [...OMISSIS...] , e si pensano come elementi del corpo e però sono precedenti di concetto [...OMISSIS...] . Così l' uomo è bianco per apposizione della bianchezza, nè per questo la bianchezza ha un essere precedente, nè l' uomo ha un essere posteriore, poichè la bianchezza « « non può essere separata, ma è sempre insieme col composto » » (2). Distingue dunque Aristotele manifestamente due specie d' intelligibili , gli uni che si fanno «to logo,» separandoli appunto dalla materia, e questi sono puri concetti, o ragioni, o, come li chiama, « « concetti fattizŒ » », «plasmatias ho logos» (3); altri poi che possono essere separati, come essenze sussistenti e intelligibili per sè. I primi sono relativi ai corpi e ai sensibili e però non possono sussistere fuori di questi altro che come concetti o ragioni della mente (4); gli altri hanno un essere assoluto, e però separati da ogni altra cosa conservano quest' essere, e apparisce anzi più eccellente, onde eccedono e vincono, secondo l' espressione aristotelica difficile da rendersi nella nostra lingua «to einai hyperballei». Questa distinzione degl' intelligibili in due classi è tolta da Platone stesso, come abbiamo veduto. Ma Aristotele quantunque riconosca che quelli della prima classe uniti alla materia non siano punto intelligibili, ma così appartengano al senso, e diventino poi tali per opera dell' intendimento che li separa, e li considera separati, quasi fingendoli tali; tuttavia nega contro Platone, almeno inteso come l' intesero alcuni de' suoi discepoli, che esistano per sè ab aeterno. Ma riguardo ai secondi Aristotele ammette che esistano precedentemente e per sè, non però allo stato di pure idee, ma come intellezioni, ovvero enti intellettivi, e di questi si deve principalmente intendere quello che dice che [...OMISSIS...] . Ma tutti questi si riducono all' essere (riconosciuto da Aristotele pel primo universale) (2) e però dice che « « a quel modo che ciascuna cosa ha dell' essere, in quello stesso ha della verità » » (3). Dall' essere dunque, che è la verità, viene il lume all' intendimento (4), e per mezzo di questo, all' occasione delle sensazioni si vedono gli altri universali. Poichè non avendo l' anima nostra che l' intuizione dell' essere al tutto indeterminato « « la speculazione della verità per noi parte è difficile, parte facile » »: facile coglierne una parte avendone il lume per natura, difficile raggiungerla tutta essendo il lume naturale assai poco. La causa dunque di questa difficoltà, dice, non è nelle cose, ma in noi, [...OMISSIS...] . Quindi dobbiamo cavare le notizie universali coll' induzione, non perchè queste sieno ne' particolari sensibili, ma perchè, essendoci nell' anima l' essere, questi hanno nell' essere la loro ragione , e questa ragione è distinta dai sensibili stessi: così gl' intelligibili dei sensibili si distinguono da essi unicamente per la ragione , non perchè questa ragione costituisca altri sensibili ideali ed eterni, diversi dai sussistenti medesimi (6). Essendo dunque tali universali relativi ai sensibili particolari, benchè questi non li contengano, pure senza questi non si possono avere. [...OMISSIS...] . Dice che gli astratti non sono separati in quanto ciascuno è questo quale, [...OMISSIS...] il che è lo stesso che dire in quanto sono una determinata natura non in quanto sono universali, e la prova si è che niuno può dire in qual genere inesista un astratto, se non si riferisce al senso: per esempio niun può dire in qual genere di cose inesista il colore, se non si riferisce ai colori percepiti col senso [...OMISSIS...] . L' universale dunque come universale non si trae dal senso, e da' sensibili è realmente separato, ma la natura , che nell' universale s' intende, è ne' sensibili, e non da questi separata: distinzione che fecero anche gli scolastici distinguendo l' « intentio universalitatis » e la natura che soggiace a quell' intenzione di universalità (2). Ora onde nasce quest' universalità che non è nelle cose reali e sensibili? Ogni cosa, secondo Aristotele, procede da ciò che è primo nella serie e che ha la natura di cui si tratta più compiutamente, e quest' è causa degli altri, [...OMISSIS...] (3). Come dunque del vero è causa il verissimo [...OMISSIS...] , così dell' universale è causa l' universalissimo. Ora come il verissimo è l' essere, siccome vedemmo, così l' universalissimo è pure l' essere nella sua massima estensione. E` ben da considerarsi che Aristotele pone sempre i sensibili e gl' intelligibili come due nature separate e realmente distinte (4): che gl' intelligibili non si formano propriamente, ma solo si vedono, manifestandosi, [...OMISSIS...] (5) e che la mente non fa gl' intelligibili, ma anzi è mossa al suo atto, cioè all' intellezione, dall' intelligibile, [...OMISSIS...] (6): l' intelligibile dunque che move la mente al suo atto non è l' effetto di questo atto. Ma molti intelligibili si manifestano all' occasione delle sensazioni, benchè essi non sono sentiti. Ora le specie intelligibili de' sensibili non sono realmente separate, ma sono ne' sensibili in potenza. Se dunque quello che move la mente a contemplare gl' intelligibili in atto, non può essere alcun intelligibile in potenza, perchè fino a che è in potenza, non opera e non è ancora, e Aristotele insegna che solo ciò che è in atto trae in atto quello che non è tale: converrà dire che oltre gl' intelligibili in atto nella mente umana, che all' occasione delle sensazioni riduca in atto gl' intelligibili in potenza. E questo appunto risulta dai vari luoghi d' Aristotele che abbiamo allegati, e da quelli che allegheremo. E primieramente si consideri questo: [...OMISSIS...] : di maniera che tra i sensibili e gl' intelligibili non pone che una proporzione, e nulla di comune e di simile. Come dunque il sensibile agirà nella mente? Questa è la difficoltà che si fa lo stesso Aristotele: [...OMISSIS...] . Poichè se essa è intelligibile, patirà forse da se stessa, posto che l' intendere sia patire dall' intelligibile? (2). A queste difficoltà risponde: 1 Che la mente è essa stessa gl' intelligibili in potenza, ed essa è pure quella che li trae in atto, poichè collo stesso atto dell' intendere sono gl' intelligibili posti in atto «hoper symbainei» (l' intendere) «epi tu nu» (1). 2 L' ente in potenza e in atto è l' ente medesimo (2). Ma quando la mente è venuta all' atto dell' intendere, allora gl' intelligibili in atto non sono diversi da lei, ma sono ella stessa in atto, o certo il termine di quest' atto. [...OMISSIS...] . 3 Perciò la mente si divide così che prima che esca all' atto dell' intendere, ella è come una tavoletta in cui non c' è nulla di scritto in atto, ma ella stessa è quella che poi scrive su questa stessa tavoletta, cioè in sè, uscendo al suo atto. [...OMISSIS...] . La mente umana dunque parte è in potenza, parte in atto: in potenza è la tavoletta vuota, in atto è quella che scrive su questa tavoletta. Errarono dunque grandemente tutti quelli che intesero questo luogo d' Aristotele, come se venisse a dire che è il senso quello che scrive nella mente, quando chiaramente dice che è la sola mente quella che operando scrive in sè stessa gl' intelligibili. 4 E così la mente è intelligibile, come gl' intelligibili, [...OMISSIS...] , cioè è intelligibile pel suo atto, poichè l' atto suo è l' intelligibile. 5 Soggiunge Aristotele: [...OMISSIS...] , cioè la causa onde avviene che l' intelligenza non sia in tutte le cose (5). Risponde: [...OMISSIS...] . Ma come inesistono in potenza gl' intelligibili nelle cose materiali? - Si dicono in potenza, non perchè sieno tali nelle cose materiali, ma perchè queste si considerano nella loro relazione colla mente: considerate da questa intieramente divise, gl' intelligibili non sono in esse nè in potenza nè in atto. Ma in relazione colla mente, quegl' intelligibili si dicono essere nelle cose materiali, in potenza, poichè la mente intende quelle cose materiali spoglie della materie (1), e però la mente stessa è la loro potenza: [...OMISSIS...] . Nel qual luogo si osservi, che viene supposta qui la distinzione delle due materie corporea e ideale. Poichè mentre altrove chiama materia « ciò che è potenza », qui dice la mente « potenza ma senza materia », il che viene a dire: senza materia corporea, ma tuttavia con materia ideale, ossia potenza degl' intelligibili, [...OMISSIS...] . 6 Ma perchè la mente è potenza di quegl' intelligibili che si riferiscono agli enti materiati? Non potrebbe essere potenza loro, se non fosse senza materia, [...OMISSIS...] , e perciò se non avesse qualche atto. Ora dice appunto Aristotele che « « in essa è l' intelligibile » », [...OMISSIS...] . Avendo dunque od essendo l' intelligibile in atto, ella ha la potenza di rendere intelligibili altre cose cioè le materiali, mettendo in atto quegl' intelligibili, che ad esse si riferiscono. Poichè è da considerare attentamente quello che avea detto prima, cioè che « « l' intelligibile è uno solo di specie » » [...OMISSIS...] . Quest' intelligibile uno di specie è quello che inesiste nella mente, e la costituisce in atto, e la rende atta [...OMISSIS...] a ridurre in atto gl' intelligibili relativi ai sensibili. Che cosa viene a dire che « l' intelligibile è uno di specie »? Quando più cose sono uno di specie, allora in ciascuna di esse conviene che ci sia la specie identica. Se dunque gl' intelligibili sono tutti un solo di specie, conviene, che la stessa specie intelligibile sia in ciascuno. C' è dunque un intelligibile che informa tutti gli altri: ora questo non può essere che quello che essendo comune a tutti è il più universale, e questo è indubitatamente « l' idea dell' essere ». Quest' idea dunque è la specie per sè intelligibile, la mente in atto, e quella che è in potenza tutti gli altri intelligibili: perchè la specie presa da sè è in potenza tutti gl' individui ch' ella poi informa. Così egli è ad un tempo atto e potenza; atto però, in quanto c' è l' intellezione che in quest' oggetto finisce; potenza, in quanto come oggetto comune e universale riceve tutte le determinazioni che lo rendono gli altri intelligibili, ond' è, come dice Aristotele, [...OMISSIS...] . Si conferma tutto questo da ciò che dice Aristotele sull' impossibilità, che gli elementi e le cause sieno una serie infinita, ma è uopo arrivare ad una prima materia e ad una prima specie (2) e, in ogni ordine di cose, ad una prima causa. Convien dunque che ci sia una prima specie che produca le altre; e questo è l' intelligibile comunissimo, uno di specie, ossia la Mente. Ma questa prima specie , che non può essere generata, non è come le idee di Platone, puri oggetti (secondo che ad Aristotele piace di rappresentarle), ma è un atto, una prima intellezione che ha per termine l' essere: anzi la mente stessa è chiamata termine da Aristotele, [...OMISSIS...] (1), il che conferma quello che dicevamo, che Aristotele usa mente in un senso oggettivo. Ma consideriamo bene come accada ad Aristotele, che nelle sue mani il primo intelligibile, la prima specie, l' essere, diventi mente in atto rispetto a sè, in potenza rispetto agli altri intelligibili. Per vederlo con chiarezza conviene che andiamo indietro, e che ci richiamiamo il principio della filosofia d' Aristotele in quanto ella si divide, o pretende dividersi da quella di Platone. Aristotele dunque parte da questo principio: « « Le sole sostanze sussistono per sè e separate realmente l' una dall' altra » ». Per conoscere se una cosa sussista in sè con indipendenza da ogni altra, conviene vedere se sia sostanza. Per vedere se sia sostanza conviene conoscere i caratteri proprŒ della sostanza. Questi caratteri sono i seguenti: 1 La sostanza (2) non si predica di alcun subietto, nè inesiste in alcun altro subietto: ma di essa si predicano l' altre cose, o in essa inesistono come in loro subietto (3). Di che segue che la sostanza; 2 E` sempre singolare , indivisibile, una di numero, [...OMISSIS...] . 3 Laonde la sostanza è sempre questo chè determinato [...OMISSIS...] (4). 4 Le sostanze hanno ancora questo carattere di non aver nulla a sè di contrario, [...OMISSIS...] . Ma avverte che questo carattere coll' esser comune alle ousie seconde, cioè ai generi e alle specie (1), è anche in altre cose come nel quanto. 5 Una sostanza non è più o meno sostanza d' un' altra. 6 La sostanza non è capace di più e meno, cioè quello che essa è non si può dire ora essere più, ora meno (2). 7 Il settimo carattere che assegna Aristotele alla sostanza, e che dice ad essa spettare soprammodo, si è ch' essa « « una e la medesima di numero sia suscettiva di ricevere in sè i contrarŒ » », [...OMISSIS...] (3). Ben si vede che Aristotele, coll' assegnare questi caratteri alla sostanza, limitava il suo pensiero a quelle sostanze, che sono in qualche modo mutabili, e suscettive d' accidenti. Ma quando egli ha bisogno di ricorrere alla prima causa motrice, ch' egli riconosce per sostanza prima, allora la rende immutabile, e non punto suscettiva d' accidenti contrarŒ, onde nega a quest' ultima il settimo carattere. Stabiliti dunque questi caratteri costitutivi della sostanza e posto per principio che non può esistere per sè, se non la sostanza (4), egli si fa a combattere le idee di Platone, in quanto essendo generi , e predicabili, e avendo contrarŒ, mancano dei caratteri della sostanza. Ma con questo non nega che esistano degl' intelligibili separati realmente, purchè abbiano le condizioni della sostanza, ed anzi li ammette. Trova impossibile ridurre la specie alla materia , chè materia e specie hanno tra loro non contrarietà ma opposizione come l' atto alla potenza, e però come a lui par necessario ammettere una materia prima ab aeterno (non ammettendo la creazione), così trova ugualmente necessario ammettere una prima specie , un primo intelligibile. Solamente egli riconosce che non può esistere la materia separata da qualunque specie, perchè rimarrebbe mera potenza senz' atto; ma la specie sì, perchè è atto, ed ammette da sè sola i caratteri della sostanza. Riconosce ancora che possono esistere cotesti caratteri della sostanza in una prima causa motrice, e in una prima causa finale (1). Se non che queste tre cause vanno poi a ridursi in una, perchè la prima causa finale dee essere un primo intelligibile, e però specie , e questa un primo appetibile e però fine , e questo, appunto perchè appetibile, movente, e quindi principio del movimento . E in generale stabilisce questo principio, che se « « alcuna delle cause non ha contrario, ella conosce se stessa, ed è in atto e separata » », cioè sostanza prima (2). Di qui dunque procede, che i generi, che si riducono alle dieci categorie, non possano esistere da sè soli separati dalle sostanze di cui si predicano, o che hanno in sè, o in cui sono, e per la stessa ragione assai meno l' uno , e quello che si converte coll' uno , cioè l' ente , perchè l' ente è più universale ancora e più comune de' generi, e si predica di tutto e in molte maniere (3). Ma l' intellezione all' opposto o la mente che ha l' ente per oggetto è singolare, e niente vieta che sia sostanza, come dicemmo. E se questa prima intellezione deve essere in potenza tutti gl' intelligibili e in atto niuno di essi, conviene che abbia unicamente l' essere per oggetto, poichè, secondo la dottrina d' Aristotele, l' essere è o in atto o in potenza. Come atto tutte le cose sono essere (4). Come potenza l' essere è in potenza tutte le cose. Aristotele dice, che gli universali, in quanto sono universali, sono la scienza in potenza, perchè l' atto compiuto della mente apprende l' oggetto determinato (5). Se dunque gli universali, come universali , non danno che una cognizione potenza, ne verrà, che la cognizione totalmente potenza sarà l' universalissimo , cioè l' essere: la potenza è materia, l' essere dunque sarà la materia della cognizione, la materia ideale (1): la potenza della cognizione passando all' atto diventa tutte le cognizioni, l' essere dunque è in potenza tutti gl' intelligibili: ma la mente in potenza d' Aristotele è appunto quella che non è nessuno degl' intelligibili, ma diventa tutti: la mente potenziale dunque d' Aristotele è l' essere ideale indeterminato, come la potenza in atto è l' intuizione continua di quest' essere; la potenza è il subietto, secondo Aristotele, onde il genere è il subietto delle specie, e così l' essere è il subietto di tutti gl' intelligibili, e questo subietto è ancora la mente in potenza; l' essere è il possibile e la mente d' Aristotele non è altro che il possibile [...OMISSIS...] ; la mente non ha passione alcuna, è immista e semplice, e così pure l' essere è una tavola in cui niente è ancora scritto, e così l' essere che non è ancora niente in atto, è il luogo di tutte le forme, e così l' essere è quello in cui sono poi tutti gl' intelligibili in atto, [...OMISSIS...] . [...OMISSIS...] . L' essere dunque in potenza, secondo Aristotele, è tutte le cose in potenza. Acciocchè dunque la mente sia tutte le cose in potenza, conviene che sia l' intuizione dell' essere, l' essere intuìto nella sua potenzialità. Ciò poi che è in potenza, da Aristotele, come vedemmo, è chiamato materia: l' essere dunque in quanto è intelligibile è la materia di tutti gl' intelligibili (3): ma materia degl' intelligibili è anche chiamata la mente [...OMISSIS...] : l' essere intuìto adunque nella sua potenzialità universale è la mente in potenza d' Aristotele e non può essere altro, perchè altro non sono le cose in potenza secondo la dottrina del filosofo di Stagira. Ora perchè l' uno e l' essere sono il medesimo, secondo Aristotele, e si predica l' uno come l' ente di tutte le cose (1): perciò quello che abbiamo detto dell' essere come oggetto essenziale dell' intuizione primitiva, possiamo confermare con altre dottrine aristoteliche intorno all' uno. Aristotele considera l' uno sotto due aspetti, in quant' è nelle cose e in sè stesso (2). Rispetto alle cose, queste o sono uno per accidente, o per sè. Lasciando noi da parte la considerazione delle cose che sono uno per accidente, considerazione puramente dialettica (e Aristotele suol sempre mescolare le considerazioni dialettiche colle ontologiche, onde riesce il suo discorso intricato e come un prunaio); vediamo che cosa dica dell' essere le cose uno per sè. Considera l' unità che viene alle cose dalla loro esistenza individuale, e quella che loro viene dalle specie e da' generi: e questa è quella che importa al nostro discorso, che dagli universali (i generi) dee sollevarsi all' universalissimo, all' essere, ossia all' uno stesso. Dice dunque che si dice qualche cosa essere una, quando « « il subietto sia indifferente di specie »(3) ». La materia, come vedemmo, è il subietto per Aristotele. Ma come egli ammette due materie, cioè la corporea, o più generalmente reale, e l' ideale, così ammette pure due subietti . Ma poichè non sempre distingue chiaramente questi due subietti, indi l' oscurità del parlare. Quando contrappone la materia alla specie , allora si dee intendere necessariamente d' un subietto corporeo o reale. Ma qui « il subietto indifferente di specie »è il reale o l' ideale? Il contesto sembra indicare che sia il reale, in quanto è suscettivo dell' una o dell' altra specie, e però a queste è indifferente. [...OMISSIS...] . Qui chiama apertamente subietto il genere, cioè l' universale, e lo dice materia [...OMISSIS...] . Il subietto dunque qui è la materia ideale, giacchè il genere è appunto per Aristotele la materia delle specie, [...OMISSIS...] (5). Il subietto ideale dunque è tanto più subietto, quant' è più universale, perchè quant' è più universale, è a maggior ragione materia ideale (1). Il subietto reale dunque e il subietto ideale hanno un' opposta natura: poichè quanto più la cosa pensata s' avvicina ad essere singolare , tanto più s' avvicina ad esser materia e subietto reale ; e quanto più si rende universale, tanto più diventa subietto ideale. Così il subietto reale non è propriamente che il singolare individuo; l' ultimo è quello che è massimamente subietto ideale e di conseguente l' universalissimo , cioè l' essere e l' uno (2). Veniamo all' uno in sè, cioè all' essenza dell' uno [...OMISSIS...] . L' uno nel suo essere, secondo Aristotele, è il mezzo del conoscere. Questa sentenza è notabilissima. [...OMISSIS...] . Se dunque c' è un uno, ossia un indivisibile in ciascun genere, che serva di misura per le cose che sono in ciascun genere, e questa prima misura è il principium quo della cognizione delle cose contenute in ciascun genere, non ci sarà un uno superiore che misura e con cui si conoscono i generi stessi? Aristotele lo ammette e lo chiama « « uno d' analogia » ». [...OMISSIS...] . Se dunque c' è un' unità superiore a quella de' generi, questo è un universale più ampio de' generi; ma sopra i generi non c' è di più universale che l' essere e l' uno, che è il medesimo. L' unità analogica dunque d' Aristotele è l' essere che raccoglie in sè i generi, ed è il fondamento delle proporzioni che le cose d' un genere hanno colle cose d' un altro genere: le proporzioni poi nascono da' numeri, de' quali l' uno è il principio [...OMISSIS...] (1). Riconosce dunque Aristotele quell' uno che è nell' universale, e che chiama «tohen kath' holu» (2). Ora tra gli universali universalissimo è l' essere, e l' essere è l' uno stesso; onde quest' è il medesimo che l' uno per essenza, [...OMISSIS...] che è principio del numero come numero [...OMISSIS...] (3); il numero poi è fondamento alla proporzione e analogia, onde il «tohen kata analogian» (4). [...OMISSIS...] Ecco dunque il principio con cui si conosce, l' uno: ma l' uno non differisce dall' ente; l' ente dunque è, secondo Aristotele, il principio con cui si conoscono tutte le cose. E infatti il conoscere, come pure il sentire, è descritto da Aristotele come un misurare. [...OMISSIS...] . Il che mirabilmente conviene all' essere indeterminato il quale sotto un aspetto è misura di tutte le cose, perchè con esso tutte si conoscono; sotto un altro è misurato dalle cose sensibili, perchè queste lo determinano e pongono in lui un quanto di sapere determinato. Onde dice Aristotele che nell' acquisto del sapere, « « ci accade come se un' altra cosa ci misurasse, e così conoscessimo quanto siamo grandi con questo che tante volte ci è stato applicato il cubito » » (7). Nel qual luogo Aristotele confonde il noi coll' essere : poichè dagli oggetti esterni non siamo misurati propriamente noi, ma l' essere che intuiamo: chè noi certo non siamo tanto grandi da poter essere misurati da tutti gli enti che percepiamo, ed avanzarne, ma l' essere universale, sì. Pure anche noi partecipiamo della grandezza della scienza che è in noi, e però in altro senso si può dire che questa ci misuri (1). Ma più esattamente parla Aristotele poco appresso: [...OMISSIS...] . Dice in qualche modo , perchè in un altro modo è il contrario, dovendosi anche qui ricorrere per ispiegare questi due modi, all' estensione e alla comprensione delle idee, al contenente ed al contenuto: il contenuto (gli oggetti reali o le determinazioni) è come una misura che s' applica al contenente, cioè all' essere, e lo misura; il contenente, cioè l' essere, è come una misura che s' applica al contenuto, cioè agli oggetti ed alle determinazioni, e li misura. Colla prima misura si rileva il quanto d' idealità è realizzato; colla seconda misura si rileva il quanto d' idealità non è ancora realizzato, ma rimane quello scibile che non è ancora scienza [...OMISSIS...] se non in potenza. L' essere dunque o l' uno è il principio con cui si conoscono tutte le cose quasi con una misura. E infatti la mente d' Aristotele con cui si conosce, è detta da lui uno e principio; quest' uno è il principio della dimostrazione e della scienza. [...OMISSIS...] . La mente dunque è quell' uno con cui si ha la dimostrazione e la scienza; ma quest' uno, come vedemmo, è il termine del principio di contraddizione, cioè l' essere: col qual essere l' anima afferma questo è, questo non è [...OMISSIS...] (4): l' essere dunque è l' uno nella scienza. E però la mente nel senso oggettivo è pure una: chè, come c' è un solo e indivisibile sensitivo nell' anima con cui ella sente più cose (1), così c' è pure un unico e indivisibile scientifico con cui sa più cose, e questo è l' essere. Poichè Aristotele ragiona sempre dell' intendimento in un modo analogo a quello del senso. Poniamo attenzione a ciò che egli dice circa quel principio col quale si sentono tutti i sensibili, potendo questo non poco giovarci a intendere quel principio col quale s' intendono tutti gli intelligibili. Si fa dunque la domanda Aristotele, se si sentano i diversi sensibili con qualche uno e indivisibile che sia nell' anima, di modo che, a ragion d' esempio, di quella parte dell' anima con cui sente il dolce, e di quella con cui sente il bianco, risulti nell' anima un uno con cui senta l' un e l' altro [...OMISSIS...] . C' è dunque secondo Aristotele un sensitivo nell' anima che è uno ed indivisibile, e questo in atto, «kat' energeian,» col quale si hanno sensazioni di tutti i generi: ma questo rimanendo nella radice uno, emette degli atti ulteriori pei quali si divide in atto e così diventa altro da quel di prima, senza che quell' uno di prima radicale cessi [...OMISSIS...] . Ora a questo modo stesso Aristotele concepisce la mente. Essa è una e indivisibile, e quest' è lo scientifico [...OMISSIS...] ed è indivisibile in atto; ma quando essa diventa tutti gl' intelligibili, allora ella si divide e diventa divisibile in atto. Ora quand' è una e indivisibile in atto, ella è tutti gl' intelligibili in potenza, e tutti gl' intelligibili in potenza non sono che l' intelligibile universalissimo, l' essere, come vedemmo: quando diventa quest' intelligibili ella si divide, conservando l' uno radicale, e diventa altra. Il primo scientifico adunque è in atto, il che equivale a dire, è intuizione in quanto è uno e indivisibile (mente in atto); ma è anche in potenza riguardo agli atti ulteriori, e in potenza di dividersi, diventando le intellezioni de' singoli intelligibili. Il che è più facile ad intendersi della mente che del senso, perchè in quella l' universale si distingue dal singolare, laddove in questo non c' è che il singolare. E perciò Aristotele stesso è obbligato di ricorrere all' universale natura, alla specie, al genere, e in generale alla ragione per ispiegare come un unico sensitivo possa sentire diverse sensazioni e di vario genere. Il che è degno di tutta l' attenzione. Prosegue dunque in questo modo: [...OMISSIS...] . Questa parola ragione , «logos,» ci richiama alla distinzione aristotelica tra le cose « « separate di ragione e le cose separate di sostanza o di grandezza »(2) ». Una cosa separata solamente di ragione , non vuol dire altro se non che la mente la considera divisa dal suo tutto reale. Questa ragione della cosa dunque è veramente separata nella mente, benchè non sia tale nella realità. La ragione dunque è nell' anima (3) ed è altra cosa dalla realità esterna, vi è generata dalla mente in atto, che ha « « i principŒ di tutte le intellezioni »(4) », principŒ che tutti si riducono, come vedemmo, a quello di contraddizione, e la scienza si compone di ragioni (1). Ma si osservi che per Aristotele il dire: « « separata di ragione » », e il dire: « « separata di essere, «to einai» » », è perfettamente sinonimo. Agli esempi recati di sopra si può aggiungere questo: [...OMISSIS...] ; il che è lo stesso di quello che dice in appresso dell' intelligibile e dell' intellezione (3). Vuol dire manifestamente che, nell' atto della sensazione e nell' atto dell' intellezione, il sensibile in quanto sensibile, e l' intelligibile in quanto intelligibile, è essenzialmente necessario al senziente e all' intelligente, sicchè l' atto di sentire mancherebbe d' una parte di sè se gli mancasse il sensibile, e l' atto dell' intendere se gli mancassero gl' intelligibili: sono dunque una cosa il senziente e il sensibile in atto, e l' intelligente e l' intelligibile in atto; ma differiscono di ragione : questa ragione è detta essere da Aristotele; l' essere dunque è universalmente l' oggetto intelligibile primo, costituente la ragione delle cose. Ma uno e il medesimo essere, come insegna lo stesso Aristotele, è potenza ed è atto, e ciò tanto nell' ordine sensibile, quanto nell' ordine intelligibile. L' essere potenza è chiamato materia da Aristotele, il quale però distingue la materia intelligibile dalla materia sensibile (4). Ora la mente, che diventa tutte le cose, è la materia intelligibile, e però è l' essere in potenza, ossia indeterminato [...OMISSIS...] (5). In due maniere dunque gl' intelligibili, secondo Aristotele, acquistano ordine ed unità: in una maniera subiettiva e in una maniera obiettiva. Subiettivamente, pel primo atto, ossia per la prima intellezione, che essendo una riduce molti in atto (all' occasione delle sensazioni), in un modo simile a quello che ha dichiarato parlando del senso. C' è dunque un' intellezione, che è attualmente uno «hen kat' energeian,» e che conservando la sua indivisibilità radicale, si divide poi secondo le ragioni delle cose, e con questi atti ulteriori diventa gl' intelligibili «polla kat' energeian», e ciò perchè la potenza e l' atto sono il medesimo ente (6). Onde quell' atto che è potenza relativamente agl' intelligibili generici e speciali conserva l' unità, mentre questi la dividono, quasi direi come rami d' uno stess' albero, o raggi che emanano da uno stesso punto luminoso. Sono anche uno obiettivamente, perchè l' essere in potenza essendo lo stesso che l' essere in atto, la mente in potenza che è, come dicevamo, l' essere in potenza, è potenzialmente tutti gli oggetti, cioè tutti gl' intelligibili generici e specifici. Che l' essere dunque sia il lume ossia l' obietto essenziale della mente, è manifesto. Il che si conferma ancora, come abbiamo già toccato, da quello che dice Aristotele, ente e non ente significare, nel più proprio modo, il vero ed il falso (1), che secondo questo filosofo altrove non risiede che nella mente (2). Ora gli enti o sono incomposti [...OMISSIS...] o composti [...OMISSIS...] . Rispetto ai primi, cioè a quelli che non si compongono dal nostro intendimento coll' attribuire un predicato ad un subietto « « il vero è il toccare e il dire »(3) ». Suppone che l' anima tocchi immediatamente questi intelligibili incomposti: con questo, che Aristotele dice tocco , e noi chiamiamo intuizione, l' anima non s' inganna mai: « « Poichè, soggiunge, non ha luogo l' ingannarsi circa la quiddità se non per accidente (4) e similmente circa le ousie incomposte » » (le specie e i generi), e ciò perchè tutte queste essenze sono essere , e l' essere nè si fa nè si corrompe: [...OMISSIS...] . Il che spiega S. Tommaso così: [...OMISSIS...] . Onde Aristotele conchiude che il vero relativamente ai semplici intelligibili non è altro che l' intenderli, [...OMISSIS...] : il falso o l' inganno non c' è, ma solo l' ignoranza. Quest' ignoranza tuttavia, avverte Aristotele, non è come la cecità, nella quale manca il sensitivo, perocchè resta sempre l' intellettivo [...OMISSIS...] , che è la potenza d' intendere con un atto primo (mente in potenza ed in atto) (3). L' essere dunque, semplicemente preso (4), non ha origine da cos' alcuna precedente, secondo Aristotele, [...OMISSIS...] , e questo qualche cosa precedente non esiste fuori dell' essere. L' essere dunque dee esistere, e dee altresì esistere nell' anima, acciocchè questa intenda: l' anima, come neppure nessun' altra cosa, non lo produce, e dee essere in atto: è dunque quello che fa ad un tempo l' attualità della mente, e la sua potenzialità di conoscere i generi dell' essere. Veniamo agli enti composti dalla mente che a un subietto attribuisce un predicato. Dice che alcune cose sono sempre composte ed è impossibile il dividerle: altre sempre divise, ed è impossibile unirle: queste sono le cose necessarie. Altre talora sono unite, talora divise, e sono le contingenti. [...OMISSIS...] . Componendo, la mente fa uno del predicato e del subietto, [...OMISSIS...] (2). Anche le cose che sono in sè divisibili e molteplici, come lo spazio e il tempo, la mente le unifica, e in due modi, obbiettivamente per l' unità della specie colla quale le pensa, e subiettivamente per l' unità di sè stessa. Poichè, dice Aristotele « « non l' indivisibile secondo il quanto ella intende, ma l' indivisibile di specie in un tempo indivisibile e coll' indivisibile dell' anima » (3) ». Sul qual luogo si potrebbe così ragionare: L' anima unisce i più in uno, perchè ella intende l' indivisibile di specie. Ma ella unisce in uno tutte le cose. Convien dunque che intenda anche un indivisibile di specie che comprenda tutte le cose: ora questa specie che tutto rende indivisibile, non può essere altra che quella dell' essere. Dunque la potenza che ha l' anima di unire e dividere, per via di predicazione, nasce dall' intuizione che ha dell' essere. Colloca dunque Aristotele nell' anima qualche cosa di uno , tanto nell' ordine sensuale, quanto nell' ordine intellettuale: quest' uno che è nell' anima può esistere in più modi, e questi modi nell' ordine del senso sono i varŒ sensibili, nell' ordine dell' intendimento sono i varŒ intelligibili; e quest' uno è il mezzo unico con cui si sente, ovvero con cui si conosce, [...OMISSIS...] . Quest' uno poi che è nell' anima e che contiene tutti i sensibili, e così pure quest' altro uno che è nell' anima e che contiene tutti gl' intelligibili, li contiene non in atto, ma in potenza, e questa potenza, riferendola ai diversi intelligibili, come il punto del circolo ai diversi raggi, benchè sia uno di numero, tuttavia è moltiplice di ragione, ossia, come Aristotele s' esprime, d' essere, [...OMISSIS...] . Il centro dunque, ossia l' ultimo termine degl' intelligibili nell' anima, è tutti gl' intelligibili in potenza, ed è uno di numero, perchè in sè è una cosa sola, ed è uno d' analogia [...OMISSIS...] , perchè a lui si riferiscono gli intelligibili diversi (2). Ora l' analogia è fondata, come abbiam più sopra osservato, nel numero in sè considerato, e questo si riduce all' uno, e l' uno s' identifica coll' essere. Si conferma dunque quello che disopra abbiamo osservato, che l' uno per analogia, che non è altro che l' essere, è posto da Aristotele nell' anima come mente, sotto un aspetto in atto, sotto un altro in potenza. Tutti i sensibili dunque sono potenzialmente in un primo sensitivo dell' anima (sentimento fondamentale), tutti gli intelligibili sono in un primo intellettivo dell' anima pure potenzialmente (essere indeterminato). Così ricapitola Aristotele stesso la sua teoria: [...OMISSIS...] . Che cosa dunque è la mente Aristotelica? [...OMISSIS...] gli enti stessi intelligibili. Che cosa è la mente in potenza? gli enti intelligibili in potenza. Questi enti intelligibili in potenza sono uno, costituiscono una perfetta unità, secondo Aristotele, [...OMISSIS...] . Che cosa sono gli enti in potenza ridotti ad unità? Certo non altro che « l' ente universale in potenza, ossia l' ente indeterminato ». Questo dunque costituisce la mente in potenza d' Aristotele in senso obiettivo (4). Per ciò stesso questa mente è dal nostro filosofo chiamata « « lo scientifico dell' anima » » «to epistemonikon». Anche questa parola ha un senso obiettivo; tant' è vero che essa esprime gli obietti del sapere in potenza, e ridotti ad uno, «to episteton». Ora che è quell' ente saputo che in potenza abbracci tutti gli enti saputi? Non altro certamente che l' essere possibile . Ma se la mente fosse solamente questa, sarebbe mera potenza, e la mera potenza non può sussistere separata, secondo Aristotele. E` dunque necessario, che la mente non sia solamente in potenza; ma dee aver altresì qualche atto. Quest' atto è l' intellezione : così è costituita la mente in senso subiettivo. L' intelligibile dunque e l' intellezione formano la mente aristotelica una di numero, ma composta di due elementi distinti di concetto: l' uno, cioè l' intellezione, la fa esser atto, col quale ella è capace di ridurre in atto tutti gli intelligibili determinati; l' altro la costituisce potenza capace di divenire ella stessa tutti questi intelligibili: poichè lo sciente è in atto, e la scienza relativamente è in potenza (1). Questa mente dunque è quel principio (2), che Aristotele riconosce necessario in ogni serie di cause, anche nelle specie (causa formale): conviene in ogni cosa fermarsi, «anagke stenai» (3): se non c' è un primo, non c' è il resto (4): senza di ciò si distrugge la possibilità dell' intendere (5): pei principŒ si conosce tutto il resto (6): chi sa il più generale, sa in potenza tutto (7). Da tutte queste considerazioni adunque possiamo, come ci sembra, senza temerità conchiudere: 1 Che tutti gli intelligibili hanno la loro unità in un primo intelligibile, che li accoglie tutti in sè, in potenza, e questo primo intelligibile, fondo e materia di tutti gli altri, è l' essere ideale indeterminato ; 2 Che la mente obiettiva è questo stesso essere o intelligibile primo, e però è ella stessa in potenza tutti gl' intelligibili; 3 Che la mente in senso subiettivo è una prima intellezione che ha per oggetto quell' essere ideale indeterminato, ed è la mente in atto, che fa tutti gli altri intelligibili, quando si distinguono nell' essere, quasi su tavola liscia, su cui si scrivono; 4 Che le determinazioni del primo intelligibile, il quale sembra moltiplicarsi secondo le varietà delle determinazioni stesse, vengono dal sentimento; 5 Che c' è nell' uomo il primo sentimento naturale e fondamentale, il quale è uno ed ha tutti i sentimenti speciali in potenza; 6 Che il principio senziente, e l' intelligente, cioè il principio dell' intellezione, s' identificano nell' uomo; 7 Che il primo sentimento dato all' uomo per natura termina nell' estensione, e specialmente, nell' estensione corporea, e che quest' estensione corporea mutando i suoi termini, la figura e il luogo, occasiona le specie sensibili , che sono appunto figure di essi diversamente tracciate nel sentimento primo che le abbraccia tutte come fondo e radice, ossia senso comune . . Che queste specie sensibili diventano altrettante determinazioni dell' essere ideale e indeterminato, e vedute così dal principio intelligente e mente subiettiva, danno luogo ad altrettante specie intelligibili . Tutti gli intelligibili dunque sono contenuti e unificati dal primo, l' essere. La loro moltiplicità poi non viene dall' intelligibile stesso, che è una specie sola; ma dalle relazioni diverse con un elemento straniero, cioè col sentimento. Ora il sentimento stesso è uno; ma si moltiplica anch' esso per un elemento straniero che è la materia corporea diffusa nell' estensione in cui termina: questo è dunque la prima causa della moltiplicità. Tutte le intellezioni del pari sono contenute e unificate dalla prima, cioè da quella che ha per termine il primo intelligibile. Siccome poi, a questo, come ad atto purissimo e perfetto, tende per istinto tutta la natura potenziale, così egli acquista la relazione di Causa finale e di Primo motore. Conchiude dunque, che il Primo motore è unico non solo di specie, ma anche di numero; che dalla sua unicità viene l' esser uno anche all' Universo, [...OMISSIS...] . Finalmente la mente è una tanto in senso obiettivo, perchè in questo senso è ella stessa il primo intelligibile, che contiene tutti gli altri, quanto in senso subiettivo, perchè in questo senso ella è la prima intellezione, e il principio di tutte l' altre. Quest' è dunque l' unità che Aristotele attribuisce al divino. Ma questo non toglie nè la generazione, nè la pluralità delle menti. In quanto alla generazione, la natura, certe nature, certi corpi tendono e pervengono a quel loro ultimo atto, a quell' ultima specie, che si chiama mente. Quest' ultima specie riesce così perfetta, che non ha più bisogno della potenza corporea che l' ha prodotta, ma essa stessa è in sè sostanza singolare, e però opera con qualche sua attività indipendentemente dal corpo, e, questo perendo, continua a sussistere. Ma perchè in un corpo si svolga questo novo atto e specie sostanziale, si esige che già ci sia prima in atto la mente nel genitore del nuovo essere intellettivo. E poichè l' attività della generazione viene dalla specie , convien dire che, secondo i principŒ aristotelici, la mente che esiste nel generatore, sia quella specie, quell' atto sostanziale, che nella generazione operando, susciti nel generato la mente preesistente in potenza ne' semi. Ma come avvenga questo mistero della generazione della mente, in niun luogo Aristotele lo spiega, nè di spiegarlo si propone. Dice bensì, come vedemmo, che sola la mente nella generazione umana viene dal di fuori, e in questa generazione fa intervenire gl' influssi degli astri, secondo le tradizionali camitiche superstizioni. Il quale influsso complica via più la questione, non potendosi determinare precisamente in che esso consista. Lasciando però da parte per un poco gli astri, ecco in che modo non dissonante da' principi aristotelici si potrebbe intendere, che la mente s' aggiungesse dal di fuori. Abbiamo veduto che Aristotele prende la mente in un senso ora subiettivo , ed ora obiettivo . Non fa dunque maraviglia che pronunci due sentenze opposte quando tratta della generazione della mente: poichè da una parte la fa venire mediante la generazione umana: [...OMISSIS...] . Dall' altra poi dice che la mente s' aggiunge dal di fuori. Le quali due sentenze si conciliano per la subordinazione delle cause. In fatti, domandare « se la mente venga all' uomo dal di fuori »è una questione diversa dall' altra « se l' uomo colla generazione la comunichi al corpo, che si genera uomo ». La prima è anteriore e riguarda tutti gli uomini, i generanti ed i generati. E infatti Aristotele stesso distingue queste due questioni, trattando nel primo libro « Della generazione degli animali », come per la congiunzione dei sessi nasca la generazione; nel seguente, poi proponendosi di dimostrare perchè così avvenga, e due sieno i sessi, e quali le cause ulteriori (2), così descrive in breve le ultime cause moventi e finali: [...OMISSIS...] . Spiega dunque Aristotele la generazione come un effetto di quella tendenza al Bene, al maggior bene possibile, che egli, come vedemmo, attribuisce a tutti gli enti della natura, i quali tutti tendono a diventare puro atto, pura intellezione; ma tutti non possono tanto, a cagione della materia o potenzialità diversa, che secondo Aristotele costituisce il subietto e il fondo di tutta la natura, e che è di diversi generi (4), diversità che desume dal grado di atto e di specie, maggiore o minore, a cui ogni materia può pervenire nel suo movimento ascendente. Continua dunque a spiegare gli effetti di questa causa della generazione così: [...OMISSIS...] . Nel qual luogo, come in tant' altri, si scorge manifestamente che sotto il nome di divino non intende qualche cosa di singolare e di personale, ma ogni bene, relativo a ciascun ente, sia questo anche sensibile e generabile, e proporzionatamente si può dire lo stesso del vegetabile e del minerale. Ma riconosce nulladimeno che l' ultimo grado del bene a cui un ente possa pervenire, è la mente. Quando poi viene a descrivere come ella comparisce in atto nel bambino, sembra che distingua la facoltà soggettiva di conoscere dalla mente. E in generale stabilisce prima che il generante produce un suo simile. [...OMISSIS...] . L' anima intellettiva dunque si svolge dal seme; ma la mente? Questa la distingue, e dice che sola avviene dal di fuori e sola è divina, [...OMISSIS...] (4), dove chiaramente restringe il divino in senso proprio alla mente. Pare dunque che per mente intenda l' oggetto e per l' anima intellettiva il soggetto. [...OMISSIS...] . E qui si vede come riponga l' anima intellettiva tra quei principŒ che hanno bisogno d' organo corporale, consonando a quello che così spesso insegna, che non si può esercitare la facoltà di pensare senza fantasmi: onde par che inclini al sensismo, se non anche al materialismo. [...OMISSIS...] . La mente dunque non è computata da Aristotele tra le potenze soggettive dell' anima; è dunque l' oggetto del conoscere, l' intelligibile primo, l' essere indeterminato, come più sopra abbiamo dichiarato. Ma come avviene all' anima dal di fuori? Certamente come tutte le altre specie avvengono agli enti generabili, cioè mediante quell' appetito universale verso il Bene, quella tendenza d' uscire all' atto, che Aristotele pone in tutti, con questa differenza però, che mentre negli altri casi conseguono una specie, che è inseparabile da essi e così formano un composto indivisibile di materia e di forma; in questo conseguono una specie che mente si dice, che è separabile da essi essendo ente da sè, e anche unita ad essi, rimane immune da materia corporale, non è un elemento proprio e indivisibile di essi, ma un istrumento di cui essi fanno uso. A questo riesce indubitamente la teoria d' Aristotele. Ma perciò appunto, se Aristotele avesse posto ben mente alle conseguenze, si sarebbe accorto che la parola specie ha due significati diversissimi, e che è di tutt' altra natura la specie nel senso d' idea o lume della mente, e la specie nel senso, com' egli suol usarla, di atto sostanziale o di forma reale, benchè nè pure quest' ultima denominazione è propria; e che quindi avea ragione Platone distinguendo le idee, contenenti le essenze delle cose sensibili, dagli atti o forme di queste che non possono considerarsi che come imagini o imitazioni di quelle, e anche questo dietro l' analisi delle percezioni, che noi abbiamo di esse. Laonde quando dice, che « « l' arte è il principio e la specie di ciò che si fa, ma in un altro »(1) », gli rimaneva a cercare come la forma di una cosa reale, che è pure inseparabile dalla cosa reale, potesse essere in un altro e rimanere la medesima. Ma egli ci dice, come vedemmo, che è la stessa di specie e non di numero. Ma « la specie identica di specie »è una logomachia, ed è una contraddizione, poichè la specie identica di specie non è che la specie identica di numero, chè qualunque differenza avessero le specie tra loro costituirebbero un genere e non potrebbero più specie aver di comune la specie. D' altra parte la domanda è questa: « la specie idea, è identica coll' atto reale della cosa »? Il dire che è identica di specie suppone che quest' atto reale sia la stessa specie: suppone dunque quello stesso che si domanda. Quindi le stesse contraddizioni, che abbiamo già indicate nel nostro filosofo, ma confermiamole con un' altra. Prendiamo una specie reale, e questa sia l' anima. Egli vi dice che « « niuna anima può essere in un altro, se non in quello di cui ella è, nè ci può essere niuna parte » » di questo « « se non è partecipe dell' anima, se non equivocamente, come l' occhio d' un corpo morto »(2) ». La forma reale dell' anima non può essere se non in quel corpo che l' ha: ma la forma dell' arte è in un altro. Dunque la forma dell' arte ossia l' idea, e la forma della cosa reale, sono forme o specie dette così equivocamente. Non c' era dunque bisogno di censurare Platone perchè dicesse questo appunto, che l' essenza delle cose sensibili non si dice dell' idea, e anche delle cose reali, se non equivocamente (3), dovendo Aristotele stesso ritornare per un' altra via e senz' accorgersi a questo placito di Platone. Ma torniamo all' unità della mente. Come in ciascun essere, che la possiede, la mente sia una, com' ella sia una subiettivamente riducendosi in un atto d' intellezione, e come sia una anche obiettivamente, riducendosi in un solo primo intelligibile, fu detto di sopra. Ma rimane a domandare se sia una assolutamente, se ella sia un solo individuo reale. E che le menti umane sieno tante, quanti sono gli uomini, non pare a dubitarsi. Ma si può dubitare se quest' ultimo atto a cui tutti gli enti a ciò idonei tendono (che è il divino), sia uno di numero a tutti risplendente; e se si considera, come abbiamo osservato, che sembra al tutto ripugnante che l' ultimo atto di molte nature della stessa specie riesca ad essere identico di numero, parrà impossibile ad ammettersi, che un tale atto si riduca in fine ad essere uno di numero, e si dovrà dirlo uno di specie. Ma se gli atti ultimi (giacchè come atti ce li presenta Aristotele) di molti enti sono tanti di numero quanti gli enti, eppure della stessa specie ; oltre quegli atti distinti c' è dunque una specie comune , e questa una di numero. In tal caso si tornerebbe a distinguere, contro la sentenza d' Aristotele, la specie dall' atto impropriamente detto specie. Ma non potrebbe esserci una specie che, essendo una di numero, e avente una propria sussistenza fosse mente, e senza moltiplicarsi in sè stessa fosse presente in molti individui? Noi dimostreremo a suo luogo che questo non è impossibile; ma niuna traccia di ciò, almeno che sia chiara, in Aristotele. Sembra nondimeno indubitato che secondo Aristotele esista una Mente eterna, sussistente e di numero veramente unica: e si potrebbe dire che è la stessa specie sussistente. Ma come questo derivi dal ragionamento aristotelico è difficile a mostrarsi. Poichè l' argomento della necessità d' un Primo motore, al modo aristotelico, almeno se s' intende superficialmente, sembra condurre a un Primo motore uno di specie e non di numero. E veramente ogni cosa tende al Bene, ma questo Bene è diverso per ogni genere d' enti, e anche per ciascun individuo: trattasi dunque d' un bene indeterminato e moltiplice, anzi al sommo generico. E un bene generico non può sussistere da sè stesso, perchè non è un bene ancora in atto ma in potenza. Egli è vero che, al fine che un uomo sia generato, deve esistere un uomo in atto, perchè l' atto precede sempre la potenza, ma Aristotele ammette un circolo eterno e infinito di generazioni: questa causa dunque che è sempre esistita, secondo lui, basta a spiegare la generazione della mente umana, e non è necessario che il seme appetisca la Mente suprema, essendo sufficiente che appetisca, se così si vuol parlare, una mente uguale di specie a quella del suo generatore che è la sua causa motrice. Ma, come abbiamo detto, Aristotele s' accorge che questo stesso non basta, e riconosce il bisogno che lo stesso generatore e tutta la catena infinita de' generanti e de' generati sia spiegata, assegnandole una causa superiore: poichè la stessa anima umana non è intellettiva se non aspira e tende col suo appetito a una specie più sublime e del tutto incorporea, che dal corpo non può ricevere, e che non può essere nel corpo nè pure in potenza, perchè è propria natura ed essenza di quella non aver nè potere ricevere in sè potenza di sorta alcuna, e d' essere sempre assolutamente immutabile ed eterna. Poichè, come vedemmo, è immutabile principio d' Aristotele, che « ciò che è in potenza non può essere eterno », e che « le cose eterne sono antecedenti alle corruttibili ». Di che consegue, che « nè pure può essere eterno ciò che passa dalla potenza all' atto, chè talora sarebbe in potenza e talora in atto ». Quindi la mente non può essere in potenza nel seme, [...OMISSIS...] . Dunque l' appetito tendente alla specie è nel corpo e in tutti gli enti naturali, ma l' ultimo oggetto a cui tende quest' appetito, e che solo da alcuni enti viene raggiunto, cioè la mente, non è nel corpo, nè in niuno degli oggetti corruttibili nè in atto nè in potenza, ma è del tutto fuori dell' universa natura. Così riconobbe il bisogno d' una suprema Mente sempre in atto, pura d' ogni potenzialità, ultima specie, che alcune nature giungono a toccare e diventano, toccandola, intellettive; eccelso scopo della scienza per sè appetibile (1) e della vita contemplativa, l' ultima e la più nobile vita, l' ultimo e il più nobile atto dell' anima più nobile di tutte, che è l' anima intellettiva, a cui le stesse virtù morali e tutte l' altre cose, come mezzi al fine, sono ordinate (2), e per dir tutto, l' oggetto della beatitudine (3). Ora quest' ultimo oggetto è indubitatamente l' essere, ma l' essere vivente ed assoluto. Ma è difficile dire se, e quanto, il concetto d' Aristotele si avvicini al vero. Dice dunque, che « « le sostanze sono le prime degli enti e che se tutte fossero corruttibili, sarebbero corruttibili tutte le cose »(4) ». Ma questo è impossibile perchè il moto e il tempo furono sempre (5). Ma il moto e il tempo che ne consegue, addimandano un' operante cioè una sostanza in continuo eterno moto. Ma se c' è un eterno moto, dunque anche un eterno Motore, e questo immobile, per non perderci nel ricorso all' infinito (6). Ora non c' è che l' intelligibile che possa movere, restando immobile, poichè l' intelligibile è desiderabile o eligibile (1). Conviene dunque che ci sia una sostanza prima dell' intelligibile, e semplice e in atto immanente (2), e questa è il Bene ultimo e sommo. « « E` dunque, conchiude, di necessità ente: ed esser necessario è esser bene e così è principio »(3) ». Spiega quindi in che senso si prenda qui esser necessario , cioè nel senso, non di poter essere e non essere, ma d' esser assolutamente, semplicemente, [...OMISSIS...] . La Mente suprema dunque, secondo Aristotele, è l' essere necessario, quello che semplicemente è, e, come in appresso lo nomina, quello che massimamente è, [...OMISSIS...] (4). Il primo intelligibile dunque è l' essere necessario, ciò che semplicemente e massimamente è: quest' è intelligente se stesso ed è Dio; e mediante la partecipazione o intuizione d' un tale intelligibile si formano le altre menti, che perciò sono divine. Tutto ciò Aristotele dichiara così: dopo aver detto che dall' essere necessario e intelligibile primo dipende il cielo e la natura, continua così: [...OMISSIS...] . L' ottimo, secondo Aristotele, è l' atto della contemplazione: ora, dice che quest' atto in noi non dura se non piccol tempo, ma nel primo intelligibile sempre e immutabile: lo stesso atto è anche attuale diletto, e anche questo a noi è solo momentaneo. Dal qual luogo pare che una delle due: o l' atto nostro della contemplazione è lo stesso atto divino identico di numero, o è almeno uguale di specie. Ma se uguale di specie, c' è dunque una specie comune anteriore alla mente divina e alla nostra, il che ripugna ad altri principŒ d' Aristotele, come dicemmo. [...OMISSIS...] . Qui si noti come aduni la sensazione, al suo solito, coll' intellezione, quasi un primo ed imperfetto conoscere, o almeno come una prima attualità che conduce ad una maggiore, giacchè considera tutto sotto il concetto generico d' attualità, partendo dal principio « ciò che è maggiormente attuale è più perfetto e dilettevole », considerando l' intellezione dell' ottimo, come l' attualità massima. [...OMISSIS...] . Aveva detto prima, che l' ente necessario, assoluto e massimo è la prima sostanza, e il primo intelligibile: era passato a dire, che il tenore della sua vita è l' attuale eterna contemplazione, puro diletto, la quale non è a noi che per qualche istante. Questa contemplazione è l' intellezione ottima e massima, cioè avente per oggetto l' ottimo, e quello che è in massimo grado. Ora, come dall' intelligibile primo è passato all' intellezione? Questo egli spiega così: « « La mente intende sè stessa coll' assumere l' intelligibile »(2) ». Ma come entra qui la mente, prima non nominata? Egli la definisce così: « « La mente è il subietto suscettivo dell' intelligibile e dell' essenza » » [...OMISSIS...] . Ora questo non può essere, che l' Essere stesso necessario considerato subiettivamente. E in fatto dice, che « « la mente stessa si fa intelligibile col toccare e coll' intendere, di maniera che sia un medesimo la mente e l' intelligibile »(3) ». Dunque l' Essere necessario si può considerare sotto tre aspetti, o come subietto [...OMISSIS...] , e dicesi mente; o come atto, e dicesi intellezione, [...OMISSIS...] ; o come oggetto, e dicesi primo intelligibile o prima essenza, [...OMISSIS...] . Ma è sempre lo stesso Essere, e come mente « «opera avendo », [...OMISSIS...] », cioè non ha bisogno uscire di sè per cercare il suo termine, poichè egli stesso è il termine del suo atto. La quale triplice relazione dell' Essere, non malamente si chiamerebbe la trinità aristotelica . Continua dopo di ciò Aristotele: « « Laonde questo » » cioè quello che opera avendo « « sembra essere più di quello » » più del subietto suscettivo dell' intelligibile « « il che come qualità divina la mente possiede; e la contemplazione è il dilettosissimo e l' ottimo. Se dunque Iddio si trova sempre » » in quest' atto di contemplazione « « come noi qualche volta, è cosa ammiranda, e se più ancora, più ancora ammiranda. Ma così egli si sta. E anche la vita per fermo inesiste, chè l' atto della Mente è pur vita: quegli poi è atto. Atto per sè è la vita ottima ed eterna di lui. Onde diciamo, che Iddio è un vivente, [...OMISSIS...] (4) eterno, ottimo. Laonde e la vita, e il sempre continuo ed eterno in Dio inesiste. Poichè questo stesso è Dio »(5) ». Sono queste le più magnifiche parole, o certo tra le più magnifiche, che siano state pronunciate intorno a Dio da un filosofo gentile. Ma il nesso accennato in esse, tra la Mente divina e l' umana, è un punto oscuro in tanta luce. Talora dice chiaramente che la mente non è cosa umana, e non umano ma divino il diletto della contemplazione. [...OMISSIS...] . Dalle quali parole si raccoglie, che la mente è bensì nell' uomo, però non è l' uomo ma cosa divina. Pure tosto appresso dice che essa anzi è ciascuno di noi, secondo il principio dato altrove, che l' elemento più eccellente e dominante in un composto costituisce la forma e la sostanza del medesimo (2). E questo è forse l' unico, o certo uno de' rarissimi luoghi d' Aristotele, dove il filosofo accenni veramente alla persona umana, benchè gliene mancasse il vocabolo (3). [...OMISSIS...] Coi quali luoghi non si può ancora decidere se, nella sentenza d' Aristotele, la mente sia una per Iddio o per gli Dei e per gli uomini, o siano più menti di numero. Da una parte dice, che è cosa non umana, ma divina; dall' altra, essa costituisce l' uomo stesso, e ciò che d' eccellentissimo e di dominante in lui si trova. Cerchiamo dunque degli altri luoghi del nostro filosofo. [...OMISSIS...] . E si sforza di provare che agli Dei disconviene l' azione, e che non resta loro altro che la contemplazione. [...OMISSIS...] Ognuno sente come il linguaggio d' Aristotele, a questi passi stretti, vacilla e zoppica ora da una parte, ora dall' altra. La mente contemplatrice è di tutti gli Dei; ma, di nuovo, noi dimandiamo, è ella una di numero o di specie? Dipoi rispetto agli uomini, ci dice esser beatissimo quell' atto che è cognatissimo all' atto contemplativo di Dio, [...OMISSIS...] . Se è cognatissimo, sarà uguale di specie, ma diverso di numero. Ma no, perchè « « ogni vita beata è degli Dei » » [...OMISSIS...] . Dunque anche la vita beata che consiste nell' atto contemplativo dell' uomo, sarà degli Dei, identica di numero, ma esistente nell' uomo. Questo s' accorda con ciò che disse prima che una tal vita non è umana, ma divina, a cui sembrava alludere colle parole dette poco innanzi; che la vita della mente è separata dal rimanente, [...OMISSIS...] . Ma sente di non poter sostenere una tal sentenza; che gli rimane dunque? Di rattaccarsi a Platone, di ricorrere per rifugio alle sue espressioni: ed eccovi che v' introduce la partecipazione [...OMISSIS...] (3), questa parola solenne di Platone, che altrove diceva di non intendere (4), e finalmente ricadendo del tutto nella dottrina del suo maestro e usurpandone il linguaggio, vi parla della mente contemplatrice dell' uomo come di un simulacro della divina [...OMISSIS...] (5). Che se l' umana è simulacro , la divina dunque è esemplare : l' esemplare dunque è qualche cosa di più d' una poetica metafora, come lo chiamava altrove in tuon di beffa. Va più avanti, e vi dice degli altri animali che non hanno niuna comunione nel contemplare, [...OMISSIS...] (6). Riconosce dunque una specie comune negli atti contemplativi. Ma la specie comune è anteriore a quelli che ne partecipano, non essendo che un elemento di essi (1): ammette dunque una specie anteriore agli Dei ed agli uomini: quest' è un ammettere più di Platone stesso. Che se prendiamo la cosa dall' altro verso e consideriamo la mente come una sostanza separata e per sè sussistente che, essendo Dio, inesista negli dei e negli uomini, noi diamo di cozzo in un' altra sentenza d' Aristotele, cioè che una sostanza non possa essere composta da più sostanze in atto; sentenza della quale si serve per dimostrare, che le idee di Platone non possono essere sostanze, perchè in tal caso più sostanze in atto entrerebbero a comporre una sostanza sola (2). L' argomento si può rivolgere con più efficacia contro di lui, se pur vuole, che la sostanza divina entri in composizione col corpo e coll' anima dell' uomo, rimanendo sostanza in atto, essendo la vita della mente separata e da sè, come egli dice. Che un' idea , un oggetto, come vuole Platone, possa esser partecipata da più subietti in virtù della mente, questo s' intende. Ma sostituendo Aristotele l' atto contemplativo subiettivo e sostanziale all' idea , non s' intende più, come quest' atto possa essere comunicato a più subietti, senza che o ciascuno d' essi diventi due invece d' uno, o tutti i subietti diventino un subietto solo, ciò che si potrebbe chiamare un panteismo aristotelico (3). Nell' opera morale a Eudemo, che contiene la dottrina d' Aristotele, e in parte è tessuta di brani delle sue opere, s' incontra un luogo, che complica maggiormente la difficoltà, e che noi qui riferiremo, perchè, sia d' Aristotele stesso o d' un suo discepolo, dimostra uno sforzo di riparare a quella lacuna immensa che lascia la dottrina aristotelica. Avendo Aristotele tolto a Dio ogni azione sul mondo e lasciatogli solo l' essere appetibile, molti avvenimenti, come osservammo, rimanevano privi di causa sufficiente: l' appetito universale della natura non basta a spiegarli. Aristotele ricorse dunque al caso e alla fortuna, cioè, come egli stesso confessa, non a cause, ma a privazioni di cause. Nel luogo accennato si osserva appunto che a certi uomini accadono prosperi avvenimenti fuori dell' aspettazione e senz' averci pensato. Di più lo stesso pensare e lo stesso volere dipende come da un primo principio, che non è nè il pensare nè il volere dell' uomo. Poichè chi può aver mosso l' uomo a pensare e a consultare? un pensiero e una deliberazione anteriore? ma e a questa che cosa lo mosse? Conviene dunque dire, per non andare all' infinito, che il primo movimento del pensiero e del consiglio non venga all' uomo dal proprio pensiero o dal proprio consiglio, ma da una causa anteriore, che determina nell' uomo quella serie di pensieri e di consigli, dietro a' quali vennero i prosperi successi (1). Ora qual è dunque questa prima causa? [...OMISSIS...] Le quali parole tentano, come dicevamo, di empire una lacuna del sistema aristotelico, e sono una confessione del suo intrinseco difetto. Poichè in esse si abbandona lo stesso sistema, e si ricorre al divino entusiasmo di Platone come ad un puntello straniero. Infatti: 1 Aristotele aveva dichiarata divinissima la mente, e in questa racchiuso il divino: ma qui si ricorre ad un principio superiore alla stessa mente, [...OMISSIS...] . 2 Avea detto che Iddio non move che come primo intelligibile ed appetibile (2), ma qui move e determina lo stesso pensiero verso l' intelligibile, e però sembra un principio cieco, anteriore all' intelligibile stesso. Tuttavia quando dice che alcuni sono spinti ad operare rettamente «alogoi ontes,» si può intendere non privi dell' intuizione dell' intelligibile, ma privi del raziocinio; benchè la ragione , in altri luoghi d' Aristotele, apparisca come oggetto essenziale dell' intelligenza; ma i varŒ sensi della parola ragione possono forse conciliare l' apparente contraddizione. E se paragona tali uomini mossi dal divino entusiasmo a' ciechi (3), può intendersi della mancanza di consapevolezza, per la quale non si rendono conto della ragione da cui sono mossi. Interpretando dunque a questo modo il brano che esaminiamo, che cosa è il divino che move tutte cose in noi, come Dio nel mondo, [...OMISSIS...] ? E` un principio diverso dalla ragione, [...OMISSIS...] . E` migliore anche della scienza [...OMISSIS...] : vince anche la mente in eccellenza e la volontà, [...OMISSIS...] . E` Dio stesso, [...OMISSIS...] . Convien dunque dire che la mente sia qui presa in senso subiettivo, e che nomini Dio lo stesso oggetto intelligibile. Così si può rendere coerente, in qualche modo, tutto questo luogo coll' altre dottrine aristoteliche. Di che risulta, che Aristotele pone Iddio nell' universo [...OMISSIS...] , e lo pone pure nell' anima intellettiva, come principio primo d' ogni suo movimento, [...OMISSIS...] . E questo conferma quello che abbiamo provato più sopra, essere Aristotele lontanissimo dal sistema di que' superficiali de' nostri tempi, che non ripongono nell' anima intellettiva niun oggetto insito, e da' sensisti, che la cognizione traggon da' sensi. Dal che è tanto lontano Aristotele, che anzi separa la natura del sensibile e quella dell' intelligibile d' uno spazio infinito, onde l' una non può passar mai ad esser l' altra. Poichè ripone la natura del sensibile nella sfera delle cose naturali, quella poi dell' intelligibile nella sfera delle divine ed immutabili. A queste poi assegna il principato, non solo nell' universo ma anche nell' uomo, e il fine stesso dell' uomo e della virtù. E l' uomo più che s' allontana dalle cose sensibili, più ottiene questo suo fine. Ritorna anche qui, quasi involontariamente e per la violenza che gli fa il vero, a Platone. [...OMISSIS...] . Ciò dunque a cui l' anima deve tendere è di sottrarsi alla sensazione, e affissarsi nel più alto oggetto della contemplazione, Iddio. Dalle quali cose tutte si può raccogliere, che circa la natura divina e l' origine della mente umana da questa, Aristotele parla oscuramente, e da sè stesso s' ingombra il cammino nel quale incèspica. Poichè volendo combattere il sistema di Platone, da una parte è costretto ad ammettere il divino ultimato, la specie ultimata, Dio stesso nella natura, il che conduce ad una sorte di panteismo (1); per la composizione poi della specie divina colla materia (2), da un' altra, venuto a certi passi, è ripulso da un tale ardito pensiero, e torna a confessare, che la mente umana e le specie ultimate della natura non sono più, come Platone diceva, che un cotal simulacro di Dio. Finalmente cade talora in un terzo sistema , ed è forse il più frequente, ma di cui non si rende conto, di considerare cioè Iddio come una natura comune e dispersa nella natura, di cui una cosa più o meno partecipi, il che conduce ad una specie comune , che sarebbe necessariamente un' idea di Platone, ma senza trovare più una sostanza o mente reale in cui risieda, perchè specie comune alla prima e all' altre menti e però anteriore a tutte, il che cozza con tutti que' principŒ, coi quali Aristotele prese a combattere le idee platoniche. Ma ciò che non abbandona mai Aristotele in tutti questi diversi sistemi, a cui, secondo il bisogno e di fuga, s' appiglia, sembra questo che in nessuna maniera si può spiegare l' umana intelligenza senza farla derivare da una qualunque comunicazione di Dio stesso (3). Come abbiamo già osservato, fortissimo è il raziocinio d' Aristotele quant' è alla forma, ma la sua dottrina rimane imperfetta quant' è alla materia, avendo egli accettato, senza sufficiente esame, taluni elementi con cui compone il suo sistema da due fonti irrazionali, cioè dal senso e dall' autorità superstiziosa del gentilesimo (1). Mirabile certo fu il lavoro che con materiali così imperfetti seppe comporne, quasi stupendo mosaico, il che soprammodo apparisce a chi considera, come egli dalle superstizioni tradizionali intorno agli astri pervenne a trarre un' ingegnosa dottrina per ispiegare, in qualche maniera, i moti della natura, e le generazioni e concezioni sublunari. Ma indubitatamente s' aiuta in questo lavoro non del tutto filosofico con un parlare traslato. A ragion d' esempio quando prova che il cielo è finito (2) e poi dice, che « « al di fuori del cielo non c' è, nè ci può essere, nè corpo, nè luogo, nè vacuo, nè tempo »(3) »; e che ivi è il luogo dove abita Iddio (4): in niuna maniera si può intendere il significato proprio, perchè se il cielo è finito, convien che al di là rimanga ancora dell' estensione o vacua o piena. Conviene dunque o riconoscere un somigliante discorso come una semplice ripetizione di volgari credenze, e così Aristotele lo presenta quando ce lo dichiara relativo alla fede umana, [...OMISSIS...] (5), o intenderlo in senso traslato, quasi voglia dire che Iddio non occupa spazio, e però è fuori di tutto l' universo materiale ed esteso, e così par che lo prenda lo stesso Aristotele quando ci fa sopra una teoria filosofica; e così lo spiega il suo commentatore Simplicio. Ma se questo Dio è veramente incorporeo, come poi trova necessario che a lui sia congiunto e acconciato un corpo immortale? (6) E se sta sopra il cielo, come costituisce poi le menti degli uomini e la specie pura a cui tende tutta la natura? Questo miscuglio di materialismo e di spiritualismo rimane in Aristotele come rottami di fabbriche diverse di cui si serve per costruire una fabbrica nova, rimane come un sincretismo, monumento della limitazione dei più forti intelletti umani. Considerata la dottrina dalla sola parte spirituale, ci si trova un' ingegnosa unità, ma ben tosto questa s' infrange irruendo in essa la parte materiale. Così gli esseri intellettivi hanno per oggetto loro o specie, in cui contemplano il Bene eterno, Iddio immobile, l' essere per sè; ed operano per questo fine. Laonde in quegli enti che non operassero per un fine, e questo immobile, non ci potrebbe essere la mente (1). Ma la mente è il luogo delle specie pure di materia, e le specie pure di materia sono immobili ed anteriori alle specie unite alla materia: poichè le specie sono la causa formale delle cose, causa incorruttibile ed eterna (2). Ora se tutte le cose dipendono dalle loro cause formali, e queste non ci sarebbero se non ci fossero le menti, consegue che tutte le cose ricevono continuamente l' essere e il vivere loro dalla prima ed eterna divina mente, verso cui tutte aspirano; non a dir vero come da un Dio creatore, ma come da un Dio che somministra a tutto le forme, e però condizione e termine di tutto. Onde dice che « « Iddio sembra essere un certo principio di tutte le cause; e un tale principio o solo l' ha Iddio, o principalmente » (3) ». E dice principalmente, perchè anche la mente nell' uomo è dichiarata da lui « « principio de' principŒ » » e « « luogo di tutte le forme » ». [...OMISSIS...] Infatti, dice, non ci può essere una serie di cause all' infinito, ma in ciascuno de' quattro generi convien fermarsi ad un principio, anche nell' ordine delle specie (5). Laonde se non c' è un primo non c' è niuna causa (1). Tra tutte le cause poi la prima è la finale: onde la nobilissima scienza, a cui l' altre tutte devon servire, è quella del fine e del bene [...OMISSIS...] , poichè tutte le cose sono in grazia di questo, [...OMISSIS...] (2). E` impossibile che ci sia una catena infinita di cause finali; poichè la causa finale è un termine, in grazia di cui sono tutte le altre cose: questo termine non si troverebbe mai, osserva Aristotele, se la serie fosse infinita, e quindi non ci sarebbe il Bene (3): non ci sarebbe la mente, poichè quei che l' hanno, operano per un fine (4), nè ci sarebbe l' intendere, poichè non si può intendere senza fermarsi in uno intelligibile, [...OMISSIS...] (5). Ma del pari non ci potrebbe esser nè pure la generazione, perchè anche la generazione tende ad un fine, ad una specie sostanziale, ed è media tra l' ente e il non ente: convien dunque che ci sia un primo sempiterno e incorruttibile da cui parta e a cui tenda incessantemente (6). Poichè la natura opera come l' arte mediante la specie insita in essa, e ciò che ha questa specie in potenza tende di pervenire all' atto come a suo fine (7). Così Aristotele facendo che anche gli animali e le stesse cose insensibili cerchino un atto finale, e il fine ultimo essendo l' ultima specie, Iddio, da Dio, a cui tendono (.), deriva tutta l' azione, la vita, la forma dalla natura. Ma come si derivi quest' azione non lo dice chiaramente. Al primo cielo, che contiene tutti gli altri, conviene certamente che dia un' anima dotata d' intelligenza e d' appetito (1), che sono le cause del moto locale secondo Aristotele (2). Ma come poi il cielo, contemplando il motore immobile ed appetendolo, si volga in giro, qui sta appunto il salto del sistema aristotelico, il punto dove si discontinua, non potendosi vedere che abbia a fare il moto circolare nello spazio colla contemplazione dell' eterno bello e dell' eterno buono: sono due parti eterogenee che non si continuano, nè accostate si rammarginano. Forse che essendo l' atto della mente eterna un continuo rivolgersi sopra sè stesso, [...OMISSIS...] (3), abbia Aristotele, a imitazione di Platone, voluto significare che l' anima del cielo, risolvendosi in una continua riflessione sopra di sè ad imitazione della prima mente rapisse in circolo il corpo celeste da essa informato, e col moto locale rappresentasse l' interno circolo del pensiero; e per questo pare che attribuisca al cielo il volgersi in giro ragionevolmente, [...OMISSIS...] (4). L' arabo commentatore e il primo suo traduttore Michele Scoto spiegarono il movimento de' cieli non per l' appetito di tutto il corpo celeste a cui nulla, come ad essere divino, potea mancare, ma per l' appetito delle sue parti (5), stranissimo pensiero, esprima o no la mente d' Aristotele. Trovato dunque un movimento perpetuo circolare e uniforme dell' ultimo cielo, Aristotele da questo deriva come da prima causa la conservazione delle cose naturali e l' uniforme esistenza: ma sotto il moto del primo cielo pone poi quelli delle altre sfere e degli astri; moti diversi e non uniformi, e a questi movimenti attribuisce la prima causa della generazione e della corruzione (1). Queste sfere e questi astri si movono come il primo cielo per la contemplazione e l' appetito del proprio Dio, motori immobili, menti eterne, benchè inferiori alla prima, senza potersi dire in che consista questa inferiorità di natura. E da un luogo del secondo libro « Della Generazione e della Corruzione » più chiaramente s' intende in che consista la censura che fa alle idee di Platone. Egli osserva che Platone pone due cause, le forme e i partecipanti , ma queste due sole, dice, non bastano a spiegare la generazione e la corruzione. Poichè se le forme da sè generassero, sarebbero cause necessarie, e perchè dunque non generano sempre, ma or sì ed ora no? (2). Ci vuole dunque per terza la causa del moto, che pretende essere stata omessa da Platone, sebbene a torto, come vedemmo (3). Non nega dunque le specie platoniche, ma le dichiara insufficienti a portare da sè l' effetto, e vuole che s' aggiunga la causa del moto (4). Ma qual è la prima causa del moto secondo Aristotele? L' intelligibile, il desiderabile: una prima specie e ad un tempo intellezione divina, che niente opera per sè; ma che, essendo appetita dal primo cielo, questo di conseguenza si muove in circolo. Nell' origine dunque del primo movimento Aristotele pone l' efficacia di movere in un' idea, e non introduce un terzo principio, ma alla stessa idea o specie prima dà ad un tempo la qualità di specie, di motore e di fine, unificando in essa le tre cause. Dal che non va certo lontano Platone, come vedemmo. Nè Platone certamente nega che il moto una volta generato si comunichi per contatto e per continuazione di parti. Ad ogni modo al pensiero d' Aristotele sembra questo, che le tre cause riunite originariamente in Dio si dividano discendendo alle cose mondiali. Laonde per ispiegare la generazione degli enti sublunari trova necessario non solo un motore immobile, ma anche un motore eternamente mosso, e questo duplice, l' uno di moto uniforme, come quello del primo cielo che conserva l' uniformità della natura, l' altro di moti varŒ come quelli dell' altre sfere e dei varŒ astri. E infatti nell' esempio che adduce per dimostrare che le cause delle cose generabili devono esser tre, queste cause sono già divise, traendo un tale esempio dalla medicina, dove dice che oltre la specie della sanità e oltre il partecipante che tien luogo di materia, c' è il medico che applica la specie al partecipante come causa motrice; e così, aggiunge, dicasi dell' altre cose che operano per una forza, cioè come cause efficienti (1). La quale osservazione niun meno di Platone negherebbe; quando questi fa Iddio non solo motore, ma anche creatore, e al modo appunto d' un sapientissimo artefice (Demiurgo). Del rimanente, questo resta di solido nella dottrina aristotelica circa le cause rimote della generazione: l' aver egli veduto che niente c' è nell' universo corporeo che stia in quiete, come ne' tempi moderni osservò il Leibnizio, ma tutto si move, e che senza questo perpetuo movimento non si potrebbero spiegare i fenomeni della natura. Chè per verità tutto s' adunerebbe in una massa inerte e morta. Nell' uomo, Aristotele attingendo al concetto che se n' erano formato i filosofi che lo precedettero, vide la riproduzione in piccolo dell' universo (2). Anzi sarebbe forse più esatto il dire, che concepirono l' universo sul disegno dell' uomo, anzichè l' uomo su quello dell' universo. Pose dunque anche nell' uomo (ed è evidentemente un' imitazione del « Timeo » di Platone, per quanto Aristotele voglia farci credere il contrario) un Movente immobile, e quest' è la Mente oggettiva; il Motore Mosso, e questo è l' Appetito; e finalmente la parte mossa e non motrice (3). Nell' uomo dunque ci sono tutti i motori, e comparativamente anche negli altri animali; benchè egli esiti nell' attribuir loro la parte divina (1). Infatti se la parte divina non è che la mente obiettiva, i bruti ne sono privi, ma se divina è la specie , tutte le cose ne sono partecipi, sebbene, essendo in esse la specie alla materia congiunta, riman cieca, intelligibile, ma non intelligenza: sistema pieno certamente di difficoltà, che non poteano del tutto sfuggire all' ingegno d' Aristotele, e però il suo frequente esitare, come dicevamo (2). A malgrado di questo il giro de' cieli è necessario, perchè gli animali dipendono dalle cose materiali e corporee, che sfuggono alla sua volontà e al suo appetito. E inoltre è necessario secondo Aristotele per ispiegare le generazioni spontanee e casuali, alle quali dà per cagioni il movimento del tempo , che dai giri celesti proviene, e il calore (3). Dal calore ancora fa dipendere l' assimilamento delle parti componenti il corpo umano, non però la specie , che appartiene al seme (4): e questo calore non è già quello del fuoco, ma è un calor vitale, che si svolge mediante il celere giro de' cieli e degli astri (5), giacchè questi veementissimi movimenti e soffregamenti (6) producendo calore e luce eccitano e danno un interior moto a tutta la natura (7): nè questo calore è guari diverso da quello spirito calido che è mezzano tra l' anima intellettiva ed il corpo e propria sede probabilmente dell' anima sensitiva e dell' appetito (.). Laonde alla posizione degli astri più o meno vicini alla terra nei loro corsi, attribuisce molta influenza sul riuscire o perfetta o imperfetta la generazione umana (9). Se ora raccogliamo tutte le cose esposte sin qui e cerchiamo di riunire i brani del sistema aristotelico sparso nelle diverse sue opere, possiamo conchiudere, che Aristotele non giunse a dare al suo sistema una perfetta unità e a ridurre l' universalità delle cose a un unico principio: ma che egli ammette una dualità primitiva ed eterna. I due principŒ eterni che costituiscono questa dualità sono la materia e la forma ; potenza l' una, l' altra atto. Alla forma si riduce la privazione. Alla potenza del suo ingegno è dovuto, se egli a malgrado de' due principŒ da lui ammessi come primordiali, seppe cansare il manicheismo (1), in cui urtarono alcuni neo7platonici, ingegni tanto inferiori allo Stagirita. Il suo errore si tempera anche con questo, che egli non fa uguali i due principŒ eterni da lui posti, ma riconosce che la materia dipende eternamente dalla forma, onde la materia senza di questa non è qualche cosa, di maniera che la forma è causa della materia, [...OMISSIS...] (2), l' atto è causa della potenza, sicchè infine tutto quello che è, è atto, [...OMISSIS...] (3). Il che è lo stesso che ammettere una specie di creazione eterna e continua. Non attribuendo dunque un essere suo proprio alla materia, rimane che l' ente sia specie o forma , e certamente forma universale. Di che deduce che l' ente, la natura dell' ente è eterna, non può nascere, e non può distruggersi, poichè per nascere o per distruggersi ci sarebbe bisogno di qualche altra causa e questa ancora sarebbe essere [...OMISSIS...] (4). Questa specie dunque, cioè l' essere, è necessaria. Ora da ciò che è necessario dipende tutto ciò che è contingente, onde è chiamato da Aristotele il principio dell' esistere di tutte le cose [...OMISSIS...] (1). Ancora, se l' essere stesso è necessario ed eterno, dunque è atto purissimo, poichè niente di ciò che è materiale e potenziale è eterno, ma corruttibile [...OMISSIS...] . E ciò perchè un subietto in potenza ammette de' contrarŒ cioè è suscettivo d' avere una specie o la sua contraria, d' aver un certo atto e di non averlo: ora ciò che può essere e non essere è corruttibile e non eterno (2). E in vero di contrario semplicemente all' essere non è che il nulla; non c' è dunque qualche cosa che sia contrario all' essere. Se dunque l' essere è necessario ed eterno e atto puro senza potenza, egli non ha bisogno per esistere d' alcuna materia o potenza: è dunque da sè puro e separato. E infatti Aristotele prova la necessità che ci sia un tale principio, di cui l' essenza stessa sia atto, [...OMISSIS...] (3). E atto appunto è l' essenza dell' essere. L' essere dunque, considerato in sè solo, è puro atto. Ma l' essere si mescola anche colla materia. Indi i diversi enti. E poichè si predica l' essere di tutti questi enti, sembra che l' essere sia un predicato universale: ond' anche l' essere e l' uno furono chiamati primi generi [...OMISSIS...] (4), anteriori e più universali delle categorie (5). Ma, considerato l' essere come genere e come universale, nega Aristotele che possa avere un' esistenza separata, chè niun universale, dice, può esistere separatamente (6). Come dunque avea detto prima l' essere non appartenere ai corruttibili, essere puro atto, principio all' essere di tutte le cose? Convien osservare che Aristotele non chiama genere l' ente, se non o come una denominazione che gli avevano data altri filosofi, dimostrando quali inconvenienti nascerebbero dal così chiamarlo, ovvero talora lo chiama forse genere in un senso differentissimo da quello nel quale dice genere le categorie, chè nel senso di queste nega che possa convenire all' essere l' appellazione di genere [...OMISSIS...] (1). La ragione che adduce per negare all' essere il nome di genere è notevolissima. Il genere è essenzialmente limitato e imperfetto, egli non entra nella definizione se non come materia (2), non contiene l' atto specifico se non in potenza, quindi non si può predicare della differenza (3): tutto ciò non è applicabile all' essere ; poi l' essere abbraccia tutto, tanto in potenza quanto in atto; si predica del genere, della specie, della differenza, dell' individuo (4), poichè tutte queste cose sono, l' essere è tutte ad un tempo. Non è dunque l' essere essenzialmente limitato e incompleto come il genere; che anzi la limitazione è per lui accidentale e non sua propria, che quant' è meno limitato, tant' è più veramente essere. Di qui accade che mentre il genere, se gli s' aggiunge qualche cosa d' ulteriore, cessa d' essere genere, l' essere all' incontro non cessa d' esser essere , ma raggiunge più pienamente con ciò la sua stessa essenza. Niuna maraviglia dunque, se la natura dell' essere da una parte si consideri puramente in sè, e in tanto si trovi principio di tutte le cose ed atto per sè essente; e dall' altra si trovi predicato universalissimo de' generi, delle specie e degli individui (secondo una maniera puramente dialettica di predicare), e che in questo secondo modo si neghi potere esistere separato, poichè in questo modo è divenuto essere limitato, quando per sè e come essere è illimitato. Dissi che l' essere si predica in una maniera puramente dialettica, perchè assolutamente non si predica; chè l' essere assolutamente preso come predicato involgerebbe contraddizione. In fatti di che si predicherebbe? Certo di sè stesso, perchè del nulla non si può predicare. Ora insegna Aristotele che la prima essenza (l' essenza singolare) non si predica del subietto nè è nel subietto [...OMISSIS...] (5), il che è quanto dire, che il subietto non si predica del subietto e non è nel subietto. Ma il subietto è doppio, secondo Aristotele, poichè subietto è la materia prima suscettiva d' ogni atto e de' contrarŒ, e quest' è l' essere indeterminato (6), l' essere in potenza, e è subietto anche l' essere determinato ed ultimato e quest' è l' essenza prima. Ora i veri predicabili dell' essenza sono le specie e i generi essenziali, ed indicano una qualità, un modo, una determinazione dell' essenza [...OMISSIS...] (7). La parola essenza dunque ( «usia» da «einai»), dico l' essenza sostanziale, è presa da Aristotele come l' ente, «to on», al modo di Platone, Nel settimo dei « Metafisici » lungamente si trattiene a provare, che l' ousia è la causa dell' essere delle cose, poichè «he usia arche kai aitia tis estin» (1) ed è causa «tu einai». Ma qui l' essere si considera in relazione cogli elementi materiali di cui la cosa si compone: questi elementi, come i materiali della casa, cessano d' aver un' esistenza propria e diventano la casa, a cagione della forma della casa. La forma dunque o essenza della casa è causa per la quale la casa è, sia nell' idea, sia nella realtà: la materia della casa è il subietto indeterminato che non è ancora qualche cosa: vi s' aggiunge un' essenza sostanziale o forma, per esempio quella della casa, o d' un letto, e allora quella è questo qualche cosa speciale. Così l' essenza sostanziale è la causa dell' essere delle cose. Ma trattasi qui sempre di cose finite e materiali. Ora l' essenza stessa si può concepire in due modi, in un modo indeterminato e così è l' essere puro indeterminato il quale non sussiste ancora se non soltanto nella mente (2); o dopo che gli furono attribuite tutte le sue determinazioni (predicabili dell' essere puro), e così è l' essere determinato che può sussistere in sè medesimo. Ma primieramente l' unione della qualità essenziale col subietto è doppia, cioè: 1 è tale in natura; 2 è pronunciata dall' intendimento. Se l' intendimento pronuncia l' unità qual è in natura, c' è il vero nell' intendimento, altramente il falso (3). Ora l' intendimento non può eseguire quest' atto di predicazione, se non avendo precedentemente fatti quest' altri atti: 1 concepito da una parte il subietto , l' essere indeterminato, dall' altra la qualità essenziale che si tratta di attribuirgli; 2 concepito il subietto vestito delle qualità essenziali. Quindi l' atto della predicazione suppone tre idee nella mente: 1 l' idea del subietto, essere in universale; 2 l' idea della qualità essenziale che lo determina; 3 l' idea del subietto determinato. Queste sono tre idee, e non c' entra ancor nulla della realità, che s' aggiunge coll' affermazione o assenso dell' animo (1). L' idea del subietto è l' idea dell' essere indeterminato. L' idea della qualità , divisa ancora dal subietto, è un puro predicabile, e fa ufficio di differenza tra l' essere indeterminato e primo subietto, e l' essere determinato. L' idea del subietto determinato , vestito della qualità essenziale, è l' idea completa , l' essere ideale determinato, dove già il subietto ed il predicato sono idealmente congiunti. Tutto questo è nel mondo ideale. Aristotele non fa espressamente tutte queste distinzioni, e sopra tutto non distingue la predicazione ideale dalla reale e affermativa. Sotto il nome di specie essenziale ( ousia categorica) egli intende talora la qualità dell' essenza , [...OMISSIS...] divisa e astratta dall' essenza; talora poi intende il tutto ideale cioè l' essenza vestita della qualità essenziale. Variando dunque di significato la parola specie (e proporzionatamente si dica il medesimo della parola genere ), si trovano nel nostro filosofo dottrine apparentemente contraddittorie (2). Ma rimane che l' essere (e quando si dice essere si dice atto, chè senza qualche atto non si può intendere l' essere in potenza) sia sempre attribuito da Aristotele alle specie che si riducono in generi, e che fuori di queste non si riconosca alcun essere, di che sembra a prima giunta, che non ammetta l' esistenza dell' essere separato e da sè esistente. Così chiama le categorie « generi dell' ente ». E dice che come dicendo un uomo non s' aggiunge nulla ad uomo , così l' essere non aggiunge nulla alla quiddità, o al quale, o al quanto, e che l' essere uno è il medesimo che l' essere quella cosa che si nomina, senza che col dirla una, le si aggiunga altro (1). L' essere dunque, secondo Aristotele, non aggiunge nulla alle categorie (potenza ed atto) (2) ma che le segue tutte ed è tutt' esse (3); l' essere dunque non è una natura che stia da sè, ma è sparso e diviso tra tutte le nature degli enti e si coagguaglia a tutte. A questa parte, che è chiara in Aristotele, si sono tenuti gli scoliasti e i commentatori. Ma tutto questo vale dell' essere considerato come predicabile. Aristotele lo considera anche come atto in se stesso determinato, ossia come specie. E quantunque dica che il solo composto di materia e di forma è assolutamente separabile «choriston haplos» (1), tuttavia qui parla degli elementi di questo composto, che non sono certamente separabili, cioè la materia, o la forma di questo composto. Pure soggiunge, che riguardo alle essenze, che sono secondo ragione, altre sono separabili, altre non sono (2), e sembra che parli di quella stessa separazione assoluta. D' altra parte dice che tutti gli enti che non hanno materia sono semplicemente enti determinati (3). Se sono dunque enti determinati [...OMISSIS...] , perchè non potranno sussistere? Aristotele insegna che la materia ha bisogno della forma per essere qualche cosa, ma in nessuna maniera insegna che la forma abbia bisogno della materia per essere qualche cosa: solamente osserva che la forma, acciocchè sussista separata, conviene che sia ultimata e non in potenza, come sono i generi e gli universali. Quello dunque che assolutamente nega Aristotele, si è solo che non può sussistere da sè l' ente indeterminato e però non può sussistere l' essere da sè come universale, come genere comune: non c' è, dice, l' uno o l' ente, nel quale siano gli enti determinati come in loro genere, di maniera che l' uno e l' ente come generi sieno le cause alle essenze determinate d' essere uno, o d' esser ente, [...OMISSIS...] . In questo sistema dunque non può sussistere da sè nessun ente, nessuna quiddità, nessuna specie che non sia pienamente determinata; se non è determinata può sussistere soltanto nella mente, separata dalla materia corporea; ma se la specie, l' essere, è pienamente determinata, ancorchè non abbia materia corporea, allora è un singolare e niente vieta che da sè sussista, e così sussiste secondo Aristotele la mente e Dio. [...OMISSIS...] . E che cos' è quest' ascendere di specie in specie fino all' ultima specie, se non andare da una specie a cui resta qualche materia e potenzialità, e non è ultimata, fino a trovare una specie che non abbia materia alcuna e sia puro atto? Poichè dice, che non c' è nulla d' eterno che sia in potenza o che abbia materia [...OMISSIS...] (1). Riconosce dunque che ci debbono essere specie sussistenti da sè ed eterne altrettanto che Platone; soltanto vuole che esse sieno ultimate, cioè venute all' ultimo loro atto, e quest' atto l' hanno quando sieno non solo intelligibili, ma intelligenti; poichè dice, che lo sciente è più in atto della scienza e il mosso del moto (2). Avendo dunque fatto consistere l' ultimazione della specie nell' essere questa non solo intelligibile ma intelligente, trasformandola così in una mente, Aristotele non si curò più di sapere, se l' oggetto di questa mente fosse determinato o indeterminato, e concedette che anche gl' indeterminati come i generi e gli universali fossero in questa mente così subiettivamente determinata, ed anzi fossero tutti questa mente medesima. Anzi domandando a se stesso quali intelligibili convenissero meglio alla mente suprema, trovò che gli universalissimi, cioè l' essere e l' uno , che chiamò «prota te physei» (3) e i principŒ , che sono lo stesso essere ed uno nelle loro applicazioni, ond' anco disse, che la mente era de' principŒ [...OMISSIS...] , e essa stessa principio del principio [...OMISSIS...] (4). Essendo dunque l' intelligibile intelligente, e il primo intelligibile essendo l' essere , questo è in senso obiettivo ad un tempo e subiettivo la mente d' Aristotele. Per la stessa ragione poi per cui Aristotele disse che la prima filosofia trattava dell' ente come ente, e di conseguente della mente e de' primi intelligibili, e de' principŒ di cui la mente è il primo; disse anche che trattava delle cause, poichè nella mente suprema finivano tutte le cause, essendo essa prima causa finale, e quindi prima causa motrice, e di conseguente causa delle specie, e di conseguente ancora causa della materia, la quale non è qualche cosa se non per la specie (5). Ma gioverà indicare altresì da che fosse indotto Aristotele a considerare l' ente puro come l' oggetto degnissimo della prima mente, formante con questa una medesima cosa. Dice dunque che l' ente e l' uno, che non è che un carattere dell' ente, si riputeranno meglio d' ogni altra natura contenere tutti gli enti [...OMISSIS...] , come quelli che sono per natura primi [...OMISSIS...] (1). Questa proprietà, di contenere il tutto, l' attribuisce appunto a Dio, che perciò colloca come in sua sede sopra l' ultimo cielo, rappresentandolo così come contenente (2). Ora l' essere ha appunto questa prerogativa, che in esso tutto si veda contenuto: e però tutte le specie sono in lui, ond' anco la mente è detta da Aristotele « il luogo delle specie ». Ma come l' ente contiene le specie? Aristotele, come abbiamo veduto, dà all' Ente, o mente suprema, la sola cognizione di se stesso, e sembra che gli tolga quella del mondo. Parmi dunque che il nostro filosofo faccia che la mente divina contenga tutte le specie, appunto come l' essere puro (determinato solo a se stesso, e attuato nel principio subiettivo dell' intellezione) contiene le specie di tutte le cose finite, come il circolo contiene tutte le figure poligone che possono essere in esso descritte. Le contiene perchè è maggiore di esse, ed ha in un modo eminente tutto ciò che è in esse; ma non le contiene colle loro determinazioni e co' loro limiti, che le impiccioliscono (3). Onde dunque, secondo Aristotele, l' origine delle specie finite? - Dalla tendenza, crediamo noi, che egli dà alla materia, o anzi alle diverse materie, di che il mondo si compone. Tendendo ciascuna all' atto ed alla propria perfezione (4), esse tendono di continuo ad assomigliarsi all' ultima e perfettissima essenza che ha l' atto completo. Ma non potendo raggiungerla, tutte vi si avvicinano in diversi modi e gradi, secondo il proprio nativo potere, nascente dalla specie che già hanno e che tende a riprodursi con eterno circolo. Rimanendo dunque le nature materiali in questo continuo conato a diversi punti della scala, senza arrivare nessuna di esse al sommo, accade che si vestano di specie varie, che non adeguan la prima, ma tengano tutte qualche cosa di essa. Così le specie limitate, che informano gli enti naturali e corruttibili ed anche gli incorruttibili come gli astri, in moto perpetuo, non nascono di nuovo, ma non fanno che riprodursi, perchè tutte le specie sostanziali sono ab aeterno in natura, non già separate ma unite colla materia (1). Ed ecco il perchè la mente umana non può trovare in se stessa queste specie, ma le abbisogni cavarle per via d' induzione dalla natura. La mente umana è la stessa mente divina (se identica di numero o solo di specie difficilmente si può definire) (2), e però in sè non ha che i primi intelligibili (1). Essendo essa congiunta ad un corpo sensibile, dal sentimento raccoglie le specie e i generi, valendosi di quel lume che la forma, cioè dell' essere, a cui si riducono appunto i due primi intelligibili l' ente e l' uno, e i principŒ in questi stessi contenuti. Si opporrà che in questo sistema l' uomo verrebbe a sapere più di Dio, perchè essendo Dio la mente separata e non avendo questa che i primi intelligibili, l' uomo all' incontro accogliendo anche le specie finite delle cose naturali, conosce queste oltre di quelli. A questa difficoltà, di cui abbiamo già toccato prima leggermente, dobbiamo far qui più compiuta risposta. Osserva Aristotele, che quel divino che è nell' uomo, è cosa più eccellente del composto, che si fa da esso e dall' altre parti inferiori dell' uomo, [...OMISSIS...] , e che di tanto altresì l' atto puro di questo divino, cioè della mente, si vantaggia dall' atto d' ogni altra virtù, [...OMISSIS...] (2). Ora l' uomo essendo composto e dovendo attendere a tant' altre operazioni, è distolto dalla continua contemplazione; all' incontro gli dei, cioè le menti separate, vi permangono sempre e così godono d' una perpetua e continua beatitudine (3). Iddio dunque è mente perfettamente teoretica ossia contemplativa, di cui l' uomo non gode che momentaneamente. Poichè la perfezione è riposta da Aristotele in due cose: 1 che subiettivamente altro non ci sia che atto di contemplazione; e 2 che oggettivamente sia l' ottimo , il quale ottimo è l' essere puro. Le notizie dunque delle cose inferiori non aggiungono, ma col loro miscuglio diminuiscono, secondo Aristotele, l' oggetto ottimo, che ogni cosa in sè contiene in un modo eminente; come le azioni diverse dall' atto contemplativo, se si mescolano a questo, ne deteriorano la natura. Poichè, come queste azioni, non avendo il fine in se stesse, non hanno valore che di mezzi conducenti alla contemplazione, ultimo fine di tutto ciò che esiste (1): così le notizie inferiori, riguardanti le cose limitate, non hanno altro pregio che quello di mezzo ad attuare la mente e far meglio conoscere l' ottimo intelligibile, che è bastante a se stesso, non ammettendo la felicità nulla d' imperfetto [...OMISSIS...] (2). Come dunque il mezzo è superfluo, quando c' è il fine; e le armature della fabbrica sono un ingombro quando la fabbrica è compiuta, e si rimovono; così la natura divina nella sua ultima perfezione, rimane scevra da ogni altra notizia, eccetto quella dell' ottimo, che, come si diceva, è l' essere puro, ossia di se stessa (3). Laonde quella mente che s' è fatta tutte le cose [...OMISSIS...] perisce, cioè periscono tutte le cognizioni tratte dalla natura per induzione (essendo ella stessa tutte queste cose [...OMISSIS...] ) (4) e senza di queste niente più intende [...OMISSIS...] (5), ma rimane la mente pura, eterna contemplatrice di se stessa, cioè dell' essere, principio e fine di tutto (1). Questa mente pura, che si dice una parte dell' anima umana, è di natura separata dal rimanente dell' anima (2), e viene dal di fuori (3); onde non pare che Aristotele conservasse all' anima dopo la morte dell' uomo la sua individualità, rimanendo solo la natura divina in essa inesistente (4). A questa risposta s' aggiunge, che, essendo la mente divina, e l' uomo, in quanto è mente, essendo Dio, come lo chiama Aristotele, questo Dio inesistente nell' uomo, anzi in tutti gli uomini, conosce necessariamente in questa sua forma umana anche tutto ciò che conoscono gli uomini, cioè le forme di tutte le cose, in quanto sono pure essenze, prive di materia, generi e specie. Onde, come Dio puro da ogni veste, non conosce che l' ottimo, ma come Dio nell' uomo conosce le essenze determinate, che sono e non sono (5), e però in qualche modo cessano col cessare del composto, rimanendo sempre in altri composti ed hanno una base eterna nell' essere puro ideale, in cui eminentemente si contengono, e che rimane immutabile oggetto della mente, non avendo l' essere contrarŒ di sorte, che fuori dell' essere non c' è nulla (6). Poichè sebbene Aristotele trovi necessario, che la natura divina esista anche allo stato di purità segregata da ogni materia, senza il qual ultimo atto non potrebbero essere gli altri atti, tuttavia egli fa che anche esista in istato di imperfezione, cioè legata colla materia, ossia colla potenzialità, e tendente di continuo a liberarsene, uscendo al suo atto purissimo: dove non s' intende più certamente che cosa pensar si debba, come osservammo, dell' individualità e della personalità di questa divina natura, salvo che chiaramente ammette una pluralità di dei, benchè altri abbiano tentato di difenderlo da un tale politeismo (1). Ma difficilmente, ammettendosi per legittimo il libro XI de' « Metafisici », si può dire che ivi non faccia che esporre l' altrui opinioni, quando egli pur dimostra la necessità, che ogni astro abbia una mente separata, ossia un Dio immoto intelligibile, appetendo il quale si mova colle sue sfere, nascendo indi la causa della generazione, senza di che questa rimarrebbe inesplicabile, salvo però che tutti cotesti Dei sono inferiori al supremo perchè appetiti da' singoli astri, quando il Dio sommo è l' appetito di tutta l' università delle cose (2). Aristotele dunque non solo vuole, che la natura divina «to agathon kai to ariston» esista nel Motore supremo, che paragona al duce: ma vuole che inesista ancora nell' universo e ne formi l' ordine e la connessione, [...OMISSIS...] , come d' un' armata. In quanto la detta natura è il duce, intanto è qualche cosa di separato e da sè, [...OMISSIS...] . Dice poi, che il ben essere dell' armata è nell' ordine, ma che il duce è più e meglio del suo ordine, [...OMISSIS...] , perchè il duce è il fine (1). Cerchiamo dunque di nuovo qual sia la relazione che pone Aristotele tra l' essere assoluto e separato, e gli altri enti composti di materia e di forma, e com' egli unisca il reale all' ideale; poichè sta qui tutta la spiegazione che dà Aristotele dell' esistenza e della natura del mondo, e della sua dipendenza dall' Essere supremo puro e separato. Stabilisce dunque, che l' essenza sostanziale non c' è se non in quegli enti che ammettono una definizione (2), e sono i composti di materia e di forma, di genere e di differenza, non potendosi definire la sola materia, chè non è un qualche cosa, nè la forma da sè, che è un semplice. Egli dice questo senza distinguere l' ente reale dall' ideale, il che prova che considera come identica e comune la forma ideale e la reale (3), salvo che quest' ultima è unita alla materia, e la prima n' è separata, esistente però nella mente, e non da sè. Dipoi dice, che il domandare: « « perchè questo sia qualche cosa » » [...OMISSIS...] , è sempre un domandare: « « perchè altro inesista in un altro » » [...OMISSIS...] (4). Così espone la ricerca della causa formale, che è la causa dell' essere delle cose, [...OMISSIS...] (5). Secondo lui dunque la materia è qualche cosa, perchè inesiste nella forma. Questa maniera di parlare ritorna spesso in Aristotele e sempre senza distinzione di ciò che è reale o ideale, di maniera che il genere, secondo lui, esiste nella specie, come pure la materia reale inesiste e sussiste nella specie (6). Ora la materia inesistendo nella specie riceve da questa insieme coll' esistenza l' unità , e un' unità essenziale, che determina la cosa ad essere quello che è, di maniera che le pietre e i mattoni, che sono gli elementi della casa, non sono più pietre e mattoni ma sono casa, quando hanno ricevuta questa specie o forma (1). Ma quest' unità e questa quiddità degli enti finiti è forse data loro dall' ultima specie cioè da Dio? Aristotele insegna espressamente di no, ma distinguendo la causa motrice dalla causa formale delle cose finite dice: 1 che ogni ente che vien generato o prodotto è generato o prodotto da un altro che ha già quella specie finita che comunica; 2 ma che l' ente generante o producente è mosso a generare e comunicare la propria forma dal Primo motore o piuttosto dai Primi motori (2). Così agli Dei attribuisce la causa del movimento come fine ultimo, ad assomigliarsi al quale tendono di continuo gli enti finiti, ma a questi stessi già vestiti di forma, ossia di atto, attribuisce la comunicazione della propria forma o specie a quelli che ancora non l' hanno e la possono da essi ricevere. Onde insegna costantemente che tutte le cose sono generate da altre aventi la stessa essenza specifica (3), sia che la cosa tutta intera abbia la stessa essenza, sia che l' identità d' essenza cominci da una parte della stessa (4). E quest' ente sinonimo che, avendo la specie, ne produce un altro colla stessa specie, può essere tanto nella mente, come accade nelle produzioni dell' arti, quanto nella natura, come accade nelle produzioni naturali (1). E qui c' è una prova decisiva di quello che dicevamo, che Aristotele fa la specie nella mente identica di natura alla specie che informa le cose reali, perchè dice le opere dell' arte formate dalla specie nella mente dell' artista allo stesso modo come le opere della natura dalla specie che è nel loro generante. Ed essendo identica questa specie, fa che come da questa nella natura vengono le cose generate, e nella mente le cose prodotte dall' artista, così da questa pure nella mente vengano i ragionamenti (2). Dalla stessa specie vengono queste tre cose; la teoria è comune, la specie la stessa: altrimenti il ragionamento aristotelico sarebbe un gioco di parole. La specie dunque contiene in sè i singoli enti, ed è la ragione del loro essere ossia sussistere e della loro unità (3), di maniera che niun ente della natura può esser generato e prodotto se non preesista la sua materia e la sua forma [...OMISSIS...] (4): gli elementi inesistenti appartengono alla materia, la specie poi non è un elemento, ma un principio, una causa dell' ente (5). Non è dunque il primo motore che dà la forma e l' unità alle singole cose, ma è la specie loro preesistente, [...OMISSIS...] . Come dunque dice che «to agathon kai ariston» oltre avere un' esistenza separata, è ancora la connessione [...OMISSIS...] del mondo? Conviene che il bene e l' ottimo, in quant' è connessione del mondo, sia qualche cosa che leghi e contenga tutte le singole forme, che sono diverse da esso: e a queste condizioni la detta connessione non può esser fatta che dall' essere puro, che non essendo le forme, contiene tuttavia tutte le forme. E infatti come la materia è nella specie (1), così le specie sono contenute nel genere, che costituisce l' unità e identità delle cose che differiscono d' essenza ossia di specie (2); i generi poi sono contenuti nell' essere, che si dice anche, insieme coll' uno, primo genere; poichè ogni differenza tra le cose deve fondarsi in una identità (1), e quest' è l' essere a tutte comune, e che tutte contiene. Se dunque le specie degli enti naturali sono eternamente in questi, e quelli che le hanno in atto perpetuamente colla generazione e produzione le suscitano in altri che non le hanno; e se non sono perciò, nè provengono dal primo Motore che è il Buono e l' Ottimo, il quale solamente cagiona il moto per l' efficienza del naturale appetito; e se tuttavia questo Buono e Ottimo costituisce la connessione di tutti gli enti naturali [...OMISSIS...] distribuiti come un' armata: che altro rimane a dire, se non che questo Buono e Ottimo sia l' essere puro , secondo il quale s' identificano tutte le cose, ed è il principio identico delle loro differenze (2)? In questo senso dunque il Dio d' Aristotele contiene le cose tutte, e però le colloca al di là dell' ultimo cielo, quasi una sostanza che fascia il mondo (3). E certamente niuna figura più adattata d' una sfera a indicare un contenente, che non si mescola punto colle cose contenute, poichè ciò che è nella sfera, non è la sfera, nè prodotto necessariamente dalla sfera, ma è soltanto contenuto in essa, e da essa, per così dire, informato dell' unità. Così dice l' essere «periechein ta onta panta» (4). E per questo appunto Aristotele fa una scienza unica e prima di tutti gli enti, trattando questa di un solo oggetto cioè dell' essere come essere (5), e la dice scienza universale, [...OMISSIS...] (6). E se l' essere produce la connessione dell' universo, sì perchè, in quant' è comune, è tutte le cose, e sì perchè, in quanto sussiste separato e da sè, costituisce l' appetibile a cui tutte le cose tendono: egli è manifesto che questo divino, questo Bene, si considera da Aristotele come scevro da ogni specie finita , e nel primo modo separato di concetto, [...OMISSIS...] , nel secondo separato anche di fatto, [...OMISSIS...] , da ogni materia. Infatti in questo secondo aspetto Aristotele non dà a Dio altro, che il concetto di fine , di estremo, di termine a cui tendono tutte le entità finite più o meno, senza raggiungerlo pienamente giammai (1). Ora il concetto di fine non inchiude la cosa che tende al fine, e questa cosa tendente al fine è la forma nella materia, o sia l' ente composto di materia e di forma. Onde siccome Aristotele dichiarò che Iddio come fine ultimo, a cui ogni natura finita tende, contiene tutto lo spazio che costituisce il Mondo, quasi d' intorno fasciandolo, così pure dichiarò che come fine ultimo contiene tutto il tempo, maggiore del tempo, ossia eterno (2). Poichè il tempo, o piuttosto la vita, tende, da parte sua, a perpetuarsi, e non ama cessare giammai: ma non potendo raggiungere l' eternità la imita come può mediante il continuo circolo delle generazioni (3). E infatti non si potrebbe spiegare l' indefinita lunghezza [...OMISSIS...] se non si suppone sottostare una durata eterna, e il concetto stesso di successione perisce senza quello di durata (4). Per questo dice Aristotele che l' essere e il vivere degli enti naturali pende da tali cose eterne (5). Allo stesso modo quello che può essere e non essere pende da ciò che necessariamente è (6), poichè ogni cosa tendendo a durare e ad accrescersi, aspira a rimovere la possibilità della sua distruzione, benchè mai non ci arrivi. L' essere separato dunque, il Dio d' Aristotele, non ha in sè le specie finite, ripugnanti alla sua perfezione, è del tutto uniforme, puro, semplicissimo; e perciò, il che conferma la nostra interpretazione, non eccita che un solo movimento uniforme e continuo, quello del primo cielo, e anche questo non l' eccita operando, ma l' azione sta tutta nelle nature finite, cioè nell' appetito del cielo supremo. Ma questo movimento (associato però al movimento obliquo e vario degli astri) produce diversi effetti per la diversità degli enti, e dell' appetito vario di questi. Onde nel libro « De Mundo », che espone la dottrina di Aristotele, si dice che da Dio vengono tutte le idee o forme delle cose [...OMISSIS...] in conseguenza del semplice movimento del corpo a lui più vicino, cioè del primo cielo (7). [...OMISSIS...] (1). Egli è dunque manifesto, che il Dio d' Aristotele differisce da quello di Platone in questo, che il platonico ha tutte le idee delle cose, e ha la potenza d' operare fuori di sè, creando ad esse, come ad un esemplare, e disponendo il mondo: laddove l' Aristotelico privo di questa potenza non produce il mondo alla guisa d' un artefice, e le specie stesse delle cose non sono in Dio, ma nè tampoco la causa efficiente o la forza, [...OMISSIS...] (1): quando le specie o forme delle cose mondiali sono e sono sempre state ab eterno nelle cose stesse: e il Dio Aristotelico non è che l' ottimo intelligibile, appetito da tutta la natura, che tende ad avvicinarsi alla sua attualità perfetta, appetito in primo luogo e in un modo immediato dal primo cielo, che rivolgendosi eternamente con un moto circolare ed uniforme impelle i corpi contigui, e di contiguo in contiguo il moto si propaga all' universo, ma ogni cosa lo riceve secondo la propria natura (2). Onde 1 c' è il primo appetibile, o causa finale, Iddio; 2 c' è la natura, materia e forma, sospesa al primo appetibile in virtù del proprio appetito; 3 c' è insita in questa natura, distinta in più enti tutti composti di materia e di forma, la forza [...OMISSIS...] , causa efficiente di tutte le trasmutazioni che è lo stesso appetito, il quale ora è annesso alla forma, come nelle produzioni per via di seme e nelle produzioni artistiche, ora è annesso alla materia come nelle produzioni «ex automatu» (1); 4 c' è il primo eccitamento di questa forza, che è il movimento del cielo supremo, dal quale cominciano tutte le altre quattro maniere di moti e di trasformazioni naturali, eccitamento e impulso che è ricevuto da ciascuno degli enti, secondo l' indole della sua natura e virtù [...OMISSIS...] , e che dà così a ciascuno la sua propria e conveniente facilità di moversi, [...OMISSIS...] . Ora, se il Dio aristotelico non ha in sè le forme finite degli enti naturali, e a queste non le comunica, ma esse già sono ab aeterno negli enti della natura e si trasmutano, ricevuto l' impulso e il moto da' cieli, e se tuttavia il Dio aristotelico è mente, è intelligibile primo, facilmente si raccoglie che cosa sia questo Dio. Poichè Aristotele stesso continuamente insegna che, rimosse le specie, quello che rimane non è altro che l' ente e l' uno che è l' indivisibile carattere dell' ente [...OMISSIS...] (2). E però Aristotele non riprende Platone per aver detto che l' ente e l' uno sia causa delle essenze e dell' essere di tutte le cose, ma per non avere spiegato come questa causazione si facesse, cioè per non aver conosciuto, com' egli crede, che l' ente e l' uno influiva come fine appetito da tutte le cose, in grazia del quale sono e operano (3). La forma dunque, che è il divino e il primo dei tre principŒ aristotelici, è una se si dice in un modo universale e per analogia, ma è moltiplice secondo gli enti diversi. Ora ogni forma è essere, [...OMISSIS...] ma la materia sola non è essere, chè riceve l' essere dalla forma. L' essere adunque è quello che costituisce la connessione, [...OMISSIS...] , dell' universo (4). L' essere è la forma delle forme. Ma l' essere (lo stesso dicasi dell' uno in quanto si converte coll' ente) si può considerare in tre modi: 1 In universale, come primo genere (5), e allora è indeterminato, e non essendo egli stesso finito e ultimato, non ha virtù di esistere separato e da sè, ma solo separato di concetto nella mente, e però non è propriamente essenza: così preso, è anzi la materia universale; 2 Come una natura esistente in tutte le cose singolari, singolare in ciascuna, benchè non sia niuna di esse (1); 3 Finalmente come la prima sostanza, a cui convenga la denominazione di «cinai ti» senza uscire da se stesso, poichè il «ti» che lo determina lo prende in se stesso, cioè è la purissima attualità (2). E veramente per Aristotele ciò a cui conviene, prima che ad ogni altra cosa, la parola di essere e d' ente è l' essenza sostanziale, chiamata da lui «proton on» (3) e per l' essenza sostanziale tutti gli accidenti partecipano dell' essere: essa dunque è propriamente l' essere determinato, com' anco l' uno stesso (4). Se poi si fa che l' essenza sostanziale sia l' atto purissimo, scevro da ogni potenzialità e limitazione, ella è Dio; e in questo senso si può dire che l' essere per Aristotele sia Dio. Posciachè dunque l' essenza o l' essere determinato (5) è ad un tempo e in primo luogo la prima sostanza separata, e così costituisce il punto a cui l' universo è sospeso, ed esso è ancora sparso nell' universo e diviso nelle essenze sostanziali finite, che partecipano della prima, formando nell' uno e nell' altro modo l' unità e la connessione, [...OMISSIS...] , dell' universo: perciò Aristotele ad una scienza sola commise di trattare dell' essere come essere, chiamandola ora teologia, ed ora filosofia prima. Poichè dice: 1 Che la filosofia tratta dell' ente come ente in universale, [...OMISSIS...] , e che l' ente non potrebbe essere oggetto d' una sola scienza, se l' ente si prendesse sotto diversi significati, formante più generi e non secondo qualche cosa di comune [...OMISSIS...] (1). 2 Che negli essenti c' è un principio, [...OMISSIS...] , intorno al quale non si può prendere abbaglio, ed è quello di contraddizione che si riduce all' ente (2). 3 Che ogni scienza ha per oggetto la quiddità , [...OMISSIS...] , e che usa di questo come principio della scienza [...OMISSIS...] (3), di che procede che la scienza dell' ente come ente ha per suo proprio oggetto la quiddità dell' ente. 4 Che le altre scienze trattano della quiddità in un genere parziale di entità (4), e trattano dell' ente unito alla sua materia, come il fisico, o dell' ente astratto da quel genere di materia (5): ma la filosofia tratta della quiddità dell' ente in sè non ristretto ad alcun genere parziale, e dell' ente non astratto, ma separabile realmente, e non di solo concetto, da ogni materia. 5 Quest' ente separato è dunque oggetto della stessa scienza che tratta dell' ente in universale, dell' ente come ente, [...OMISSIS...] . E tuttavia questa scienza che tratta del più onorabile degli enti, cioè di Dio, trattando dell' essere come essere, è universale. [...OMISSIS...] E` dunque manifesto che l' essere come essere ha un' esistenza separata da ogni altra cosa, [...OMISSIS...] e non solo di concetto, come gli oggetti matematici, ma di fatto; questo è Dio: è sostanza singolare, [...OMISSIS...] ; e l' onorabilissimo tra gli enti, [...OMISSIS...] , e però la prima o l' ultima delle scienze si chiama «theologike». Ma l' essere come essere, e però «to theion», inesiste anche in tutti gli enti della natura «en tois usin» come loro essenza e causa formale, o specie; epperò tutte le specie e le categorie, a cui come in classi si riducono, formano un solo genere supremo, e però un oggetto solo d' una sola scienza, [...OMISSIS...] : e questa scienza perciò, trattando di ciò che è universalissimo, è veramente universale, [...OMISSIS...] , perchè non solo tratta dell' essere in sè, ma ancora di ciò che si contiene nell' essere, [...OMISSIS...] (2), cioè di tutto ciò che è. Ma non esisterebbe questa scienza, se le essenze o specie delle cose non si potessero riferire all' essere come essere separato e per sè sussistente, che essendo uno costituisce il fondo di tutte, poichè non potendo le specie degli enti mondiali sussistere separate, rimarrebbero molti divisi in molti generi, e da sè non esisterebbero che gli enti naturali composti di materia e di forma, oggetto della fisica, [...OMISSIS...] . All' incontro esistendo l' ente come ente, come un' altra natura diversa, e questa sostanza separata dagli enti composti di materia e di forma, ci deve essere pure una scienza diversa dalla fisica, e questa deve essere anteriore alla fisica, e anteriormente universale, [...OMISSIS...] . Anteriore e più universale, perchè il principio è la causa di tutti gli enti naturali, chè essendo principio non può esser principio di se stesso ma di questi, [...OMISSIS...] . Poichè dell' essere si predicano due cose l' avere e il sussistere, [...OMISSIS...] : sussiste anche in sè, ma non si direbbe avere sè, ma avere qualche altra cosa, e quest' è la materia. Cercandosi dunque la causa perchè esista la materia, trovasi che questa causa è la specie o essenza specifica (1). Ora di questa essenza specifica, essendo semplice, non si può più cercare la causa allo stesso modo, cioè come si cerca la causa della materia, ma in altro (2). In qual modo? Certamente riferendo le essenze specifiche alla prima essenza, a cui tutta la materia tende per l' innato appetito e ne prende quella parte che può, e questa parte è il suo atto, la sua essenza specifica. Laonde quando si domanda « la causa dell' essere delle cose finite », l' essere qui è preso per sussistere , e il sussistere delle cose è in ciascuna di esse e non separabile. Ora questo sussistere delle cose sta nell' unione della materia colla forma, ma, poichè questa è quella che determina la cosa, è pur questa che la fa sussistere quella che è, e perciò, dice Aristotele, la forma o essenza è la causa dell' essere, cioè del sussistere delle cose (3), ed è principio non elemento di esse (4). Ma se si domanda poi « la causa per la quale la forma si sia unita alla materia », conviene ricorrere, come dicevamo, alla prima forma o essenza, cioè all' essere, come essere e separato, il quale come appetito dalla natura è causa motrice e finale. [...OMISSIS...] Il primo Motore dunque coll' essere appetito trae la materia al suo atto, cioè alla forma; e questa forma è puro essere separata dalla materia, onde dice [...OMISSIS...] (2). E prima avea detto: [...OMISSIS...] , cioè dagli elementi materiali. Poichè gli elementi materiali prima di essere uniti dalla specie o essenza specifica non hanno nome, nè sono qualche cosa [...OMISSIS...] : ma quando sono contenuti dalla specie, quest' uno che ne risulta riceve il nome della specie, per esempio casa , e così la specie casa è divenuta questa casa reale [...OMISSIS...] (5): non è che essa stessa sia stata con ciò generata, ma essa è stata causa per la quale gli elementi materiali divennero un chè determinato ricevente un nome, il nome della stessa specie: ond' essa è divenuta un altro, cioè la casa reale, composta. Laonde tosto appresso Aristotele si fa la questione « se dunque le essenze specifiche de' composti corruttibili preesistevano ad essi separate », e ancora nol decide; ma esclude dall' esistere, così separate e da sè, le specie artistiche, dicendo che fors' anco esse non sono essenze specifiche, nè alcun' altra cosa è essenza specifica, di quelle che non sussistono ne' composti naturali: chè taluno, dice, porrà la solesto si raccoglie come Aristotele faccia derivare le essenze specifiche limitate , cioè le essenze dei corruttibili, dall' Essere attualissimo, Iddio. 1 Esse non esistono che in natura, sono la stessa natura determinata delle cose corruttibili, [...OMISSIS...] , e perciò non esistono nell' Essere attualissimo se non in un modo eminente; 2 La natura è materia e forma, queste due cose costituiscono il medesimo ente, [...OMISSIS...] . 3 Ma la materia non potrebbe avere la forma se non tendesse ad attuarsi, cioè ad acquistare più che può di quell' attualità che nella sua massima e pienissima perfezione è appunto l' essere attualissimo: tende dunque a quest' essere, ma non può raggiungerlo pel difetto della materia: quest' essere dunque come causa dell' appetito di tutte le materie è la causa movente, che fa passare la materia alla forma, [...OMISSIS...] . Il difetto poi, ossia la limitazione de' diversi generi di materia, è la causa per la quale la essenza o forma , a cui ciascuna materia perviene, o sia limitata, più o meno avanzata, più o meno onorabile, e tenga più o meno dell' essere attualissimo senza raggiungerlo mai (1). Non essendovi dunque nell' essere attualissimo materia alcuna, non ci può essere questa causa di limitazione, e però non ci possono essere le forme o essenze specifiche così limitate, quali sono nella natura; ma egli è una sola essenza, l' essenza per sè, illimitata. 4 Essendoci poi stato ab aeterno quest' appetito nella natura, pure ab aeterno furono in essa tutte le forme o essenze delle cose corruttibili. Queste dunque non si generano, ma sono eterne tanto nell' essere attualissimo, prima e perfetta essenza, dove sono indistinte e in modo eminente, quanto negli enti naturali dove sono distinte. Ma gli enti naturali si generano, e quindi le essenze compariscono nei nuovi generati e diventano «tode»; diventano questi enti, che sono qualche cosa e hanno un nome appunto perchè hanno quelle specie. Così dalla tendenza della natura all' essere attualissimo Aristotele deriva ugualmente: 1 Le forme naturali e reali; 2 Le forme artistiche e ideali, delle quali parla in un modo vacillante, prendendole talora per vere specie operanti (1) talora poi negando che sieno essenze specifiche; 3 I principŒ del ragionamento e la serie delle conseguenze (entità ideali) che deriva da essi la mente (operazioni dialettiche) (2); e considerando queste tre maniere di cose sotto lo stesso aspetto, come derivate cioè dall' essere attualissimo mediante l' appetito naturale, egli mescola il discorso dell' una col discorso dell' altra, e cava indifferentemente gli esempŒ della sua teoria ora dall' ordine della generazione naturale, ora da quello delle produzioni artistiche, ora dalle logiche distinzioni ed astrazioni: il che cagiona una gran confusione e difficoltà di seguire il filosofo nostro, almen fino a tanto che non s' è conosciuto il suo principio e la sua maniera dialettica di riporre in una stessa classe le entità più disparate. Negando dunque a Platone che le essenze delle cose corruttibili sieno idee separate da queste, perchè pretende che in tal caso si raddoppierebbero inutilmente le essenze (3), e sostenendo che tali essenze sono soltanto nelle cose unite colla materia, e identiche nella mente separate da questa; egli tiene un medesimo discorso e fa una sola teoria delle essenze specifiche naturali, delle essenze artistiche, delle logiche, delle astratte di ogni maniera: tutte nascendo alla materia naturale, come atti di questa per la tendenza ch' ella ha ed ha sempre avuto di spingersi all' essere attualissimo, fine ultimo d' ogni movimento. Onde in generale l' atto, o specie de' corruttibili, per Aristotele è ciò che si predica d' una materia (1) e il predicato non esiste senza il subietto. Per vedere quante diversità di forme egli distingua ugualmente nell' ordine delle cose reali e delle ideali senza distinzione e tutte sommettendole alla stessa teoria, basta leggere il capitolo secondo nell' ottavo libro dei « Metafisici ». Nel capitolo seguente dice, che talora non si può distinguere se la parola ousia significa il composto di materia e di forma, o la sola forma, il solo atto. E arreca in esempŒ di composti la casa, la linea, l' animale, la sillaba, la soglia della porta; dove tanto la forma quanto la materia sono reali o ideali, o astratti e puramente dialettici, mescolando tutto insieme. La stessa confusione dunque nell' essere attualissimo, il quale ora comparisce come ideale, da cui la mente umana trae i suoi principŒ logici, e mediante questi tutte le sue idee; ora come reale, da cui l' artista ne trae le sue specie, la natura le sue forme. Apparisce però costantemente che le specie sono contenenti, e la materia è contenuta, onde il cercare la causa d' un ente composto di materia e di forma, cioè cercare la causa del suo essere (reale), è lo stesso che cercare ciò in cui è contenuta la sua materia: onde in questa ricerca ciò di cui si cerca la causa deve avere meno estensione di concetto della causa formale che si cerca, per esempio: « « la causa, perchè esiste un uomo, è una data specie d' animale »(2) », cercare perchè un uomo è un uomo, è cercar nulla, non cercandosi con ciò in che l' uomo sia contenuto. Di che viene che l' essere universalissimo (e lo stesso si dica dell' uno) contenga tutte le cose e sia la causa formale di tutte le forme, ma niuna di esse. Laonde dice Aristotele, che l' assegnare l' uno per causa formale dell' essere reale delle cose è vero, ma l' uno comune, non proprio delle singole specie e generi (1). L' essere attualissimo adunque è ideale e reale ad un tempo, di maniera che la cosa e la scienza è in esso il medesimo, entrambi in atto, [...OMISSIS...] (2). E già vedemmo come Aristotele anche nella mente pratica pose il reale che la rende operativa (3). Ma l' essere attualissimo non è mente pratica, ma solo mente teoretica, il che unisce ancor più, anzi identifica il pensato col pensante (4), la cosa coll' idea. Onde quest' è una delle principali censure che Aristotele fa a quelli che posero le idee come essenze eterne, che condussero la loro ricerca piuttosto logicamente che ontologicamente, e quindi si fermarono agli universali (5). L' essere dunque attualissimo, e però separato e da sè, è per Aristotele mente contemplatrice, contemplatrice di sè stessa, e di null' altro, cioè dell' essere, e così presa, e separata da ogni altra cosa, è quello che è: « « separata, dice, è solo ciò che è » » [...OMISSIS...] A quest' essere, puro atto, atto che sta nel puro contemplare l' essere senza differenze, tende incessantemente la natura potenziale, ossia la materia. Questa è atta ad arrivare col suo conato a gradi diversi: il primo è quello delle specie degli enti inanimati ; il secondo è quello delle specie di vegetabili , il cui complesso, e il cui nesso è la vita o anima vegetativa; il terzo è quello delle specie sensibili , il cui complesso e il cui nesso è la vita o anima sensitiva che costituisce l' animale; il quarto grado è quello delle specie intellettive , il cui complesso e il cui nesso è l' anima intellettiva. Ogni ente mondiale è costituito da una sola specie sostanziale che gli dà l' essere (1), e perciò non può esistere separata, determinandosi dalla materia o potenza che col suo appetito verso l' essere prende più o meno dell' atto, e così è piuttosto una specie che un' altra (2), [...OMISSIS...] . Aristotele dunque pone una vera identità tra la specie nella cosa e la specie nella mente, salvochè questa è considerata separatamente dalla materia. Quest' istinto della materia è non di meno cieco, poichè, sebbene tenda, come a suo fine, all' essenza suprema ed assoluta, tuttavia tende ad essa come all' atto , non come all' intelligibile . E però non ci sembra che abbia colto il vero sentimento del nostro filosofo lo Starckio quando suppose che in tutta la natura inesistesse la mente fattrice (4), o piuttosto, come la chiama Aristotele, il pensiero fattore, [...OMISSIS...] (1), e che questa mente sia quella che dà a tutte le cose della natura le loro forme. Che anzi, come abbiamo notato già prima, falsamente lo Starckio suppone che tutte queste forme sieno già precedentemente in Dio, quando è la sola potestà della materia che le determina, raggiungendo più o meno dell' essere. Poichè tutte sono essere [...OMISSIS...] , ma più e meno, secondo che l' atto loro è più avanzato ed ultimato, perchè aver più atto è, per Aristotele, aver più essere. E più atto conseguono dei vegetali gli animali e gl' intellettivi degli animali. Ma convien distinguere diverse maniere di atti. Concepita la materia prima senz' atto (per un' astrazione della mente, non perchè ella sia mai così esistita), essa tende all' atto, al suo più prossimo atto, che per Aristotele, come pure pe' suoi predecessori, è quello degli elementi materiali, per esempio del fuoco: le materie prime sono diverse, e quindi la diversità de' primi elementi. Ora questi sono in potenza alla composizione: componendosi in varie maniere diventano altri enti, che acquistano l' unità da un nuovo atto sostanziale, specie od essenza specifica: e gli elementi hanno ragione di materia. Questo stesso si rinnova co' nuovi enti, che pure, ogni qualvolta si rendono elementi d' altri enti, ricevono il concetto di materia (1), quantunque sieno atto rispetto agli elementi precedenti, o alla materia prima. Ora il movimento di qualunque specie, ma specialmente quello della materia che passa all' acquisto della sua forma, è una prima maniera di atto detto da Aristotele « atto dell' imperfetto » [...OMISSIS...] (2). Quando poi la materia è pervenuta all' acquisto della sua forma sostanziale, cessa il movimento, e questa forma sostanziale non più movimento, ma riposo, è una seconda maniera di atto: atto perfetto «he haplos energeia», ed è chiamato da Aristotele «entelecheia» (3) che vale perfezione (da «enteleches») e si potrebbe tradurre specie finiente o finita , rispondente al «to peras,» e al «to peperasmenon» di Platone e de' Pitagorici. Ma quando l' ente è costituito ed esistente per l' essenza o entelechía che lo fa esistere, ancora egli può uscire ad altri atti, senza perdere la sua costituzione e la sua identità. E questi sono un secondo genere d' atti perfetti, ossia d' atti del perfetto [...OMISSIS...] (4), e anche questi si chiamano «entelecheia» da Aristotele. Aristotele assegna espressamente questi due sensi alla parola entelechía , di maniera che fa maraviglia, come gli eruditi abbiano trovata tanta difficoltà ad assegnare il preciso valore di questa parola, e si sieno divisi in tante diverse opinioni (5). [...OMISSIS...] Di che si vede che Aristotele distingue l' entelechía prima, [...OMISSIS...] dall' entelechía seconda, cioè l' atto primo dell' ente ch' è l' essenza , e l' atto secondo che è la sua operazione. E chiama l' essenza specifica e sostanziale entelechía prima, perchè l' essenza è il fine (2) a cui tende la materia che acquista un' esistenza determinata, diventa un ente. Chiama poi entelechía seconda l' atto secondo o l' operazione dell' ente. Apparisce dunque che la parola entelechía abbraccia ogni atto fuorchè l' atto dell' imperfetto, e però la parola «energeia,» che s' applica a tutti gli atti anche a quello dell' imperfetto, ha un significato più esteso della parola «entelecheia». Nello stesso tempo la parola «energeia» esprimendo puramente l' atto, qualunque sia, senz' altro concetto aggiunto, s' adatta meglio al Primo motore della parola «entelecheia» che ha unito il concetto di quell' essenza che è il fine a cui tende ciò che è in potenza (3), [...OMISSIS...] (4). La natura dunque tende sempre più all' atto, e giunge più avanti, secondo i diversi generi di materia, e così acquista atti diversi, e ciò ab aeterno, perchè tutti gli atti specifici degli enti naturali sono eterni, e gli esistenti ne producono altri ed altri per generazione o per arte. Ma la pura mente non è cosa che si formi passando dalla potenza all' atto, perchè la sua natura è di essere atto puro, e però Aristotele la fa venire all' uomo dal di fuori, benchè non ne spieghi il modo. Poichè sebbene ammetta un Primo motore unico, tuttavia, come vedemmo, lo descrive come atto puro di contemplazione; e questo concetto non esclude l' esistenza di altri atti puri di contemplazione. Secondo che intese questa dottrina d' Aristotele l' arabo commentatore, ci sarebbe una mente sola di numero (1), comune a tutti gli uomini: il che avrebbe un significato, quando s' intendesse della mente in senso oggettivo, ma in senso subiettivo è impossibile. Laonde parmi probabile che Aristotele ammettesse appunto una mente sola di numero in senso obiettivo, e che questa fosse la primissima essenza presente a tutte le intelligenze; ma che ponesse poi molti questi subietti intelligenti, quanti sono gli Dei aristotelici e gli uomini, che ricevono e usano della mente, e che di questi subietti intellettivi si debbano intendere tutti quei luoghi aristotelici, ne' quali non parla della mente come prima ed assoluta essenza, ma come mente subiettiva. E nel vero il nostro filosofo chiama la mente in senso assoluto ed obiettivo essenza eterna ed immobile, e dice che è tale quand' è separata da ogni materia (2). Dice ancora che « « il bene si dice in tanti modi, in quanti l' ente » » e l' ente si dice in tutti i modi categorici, e così il bene. Onde venendo alla prima categoria, quella della sostanza, dice che il bene sostanza « « è la Mente e Dio » », [...OMISSIS...] (3), dove prende la Mente e Dio come sinonimi, indicanti ugualmente il bene sostanza: e, facendo che l' ente e il bene abbiano uguali predicati, è manifesto, che ne fa la cosa medesima, onde il bene è l' ente come appetibile, e questo in quant' è sostanza è Dio, e la Mente. L' essere dunque non già indeterminato, sotto il qual aspetto sarebbe materia (4), ma come sostanza prima è la Mente, o Dio. Questa certamente non ha soltanto un' esistenza obiettiva, ma verso di sè anche subiettiva: altramente non sarebbe «noesis,» e vivente «he gar nu energeia, zoe» (5). Pure verso di noi ella non ha che un' esistenza obiettiva; perchè è causa prima motrice e finale solo come intelligibile e bene desiderato (6), senz' alcuna sua operazione (7). Onde Averroes s' ingannò in questo che non distinse il rispetto obiettivo dal subiettivo della mente aristotelica, quello essendo comune a tutti gli uomini, questo diverso in Dio e diverso in ciascun uomo. E l' obiettività della mente fu anche cagione a Platone delle sue idee, di cui Aristotele ritenne il principio modificandolo. Ma ora dobbiamo vedere come in ciascun uomo nasca la mente subiettiva. Aristotele concepisce lo spirito umano secondo il principio di Platone (1), come un ente che riflette in sè il mondo, che ha però una perfetta correlazione col mondo stesso, cioè coi diversi generi di cose che lo compongono. Ma nell' assegnare questi generi di cose, nè l' uno nè l' altro filosofo si curò di distinguere in tali generi con diligenza quella parte che è produzione dello spirito stesso, a ragion d' esempio, i sensibili come sensibili, da quella che ha un' esistenza propria, indipendente dallo spirito umano. Distinse dunque Aristotele nello spirito umano la virtù sensitiva che risponde al genere de' sensibili, dalla virtù dotata di ragione che risponde al genere degl' intelligibili; che sono i due sommi generi in cui ripartì tutte le cose. Ora in questa virtù dell' anima, di cui è propria la ragione, distinse quella facoltà, che può errare, in due: estimazione ed opinione [...OMISSIS...] (2); e quella facoltà, che non può errare, in cinque: arte, scienza, prudenza, sapienza e mente, [...OMISSIS...] . Ma i quattro primi di questi abiti fanno uso della dimostrazione , e questa suppone avanti di sè de' principŒ : quegli abiti dunque non dànno i principŒ, perchè anzi li suppongono e partono da essi dimostrando: rimane dunque che la mente sia quella sola che contiene i principŒ (3). La mente dunque in senso subiettivo ha per oggetti i principŒ, non in forma di giudizŒ o di proposizioni, ma come vedemmo, nei primi loro termini che non ammettono definizione (1). Ora come dall' uomo si conoscono i principŒ, cioè i primi termini? Risponde: coll' induzione , [...OMISSIS...] . Ma vediamo le sue parole: [...OMISSIS...] . Che cosa dunque fa l' induzione aristotelica, che conduce lo spirito umano ai primi termini che sono l' essere, l' uno, il bene, tutti lo stesso sotto altri aspetti, [...OMISSIS...] ? Essa è una facoltà che ha l' anima umana di raccogliere le specie sparse nella natura (per mezzo de' sensibili, nel modo che abbiamo spiegato), le quali separate da ogni materia anche sensibile sono tutte per sè ente [...OMISSIS...] ; una facoltà di trovare in queste stesse specie ciò che v' è di più universale, i generi fino all' universalissimo, al genere sommo, all' ente: indi il principio della scienza [...OMISSIS...] , il quale è «peri to on» (3) onde conchiude [...OMISSIS...] (4). Se dunque la mente è de' primi , e questi sono conosciuti dall' uomo coll' induzione , è dunque da dire che la mente subiettiva sia nell' uomo non ingenita, ma acquisita, innalzandosi lo spirito umano coll' uso dell' induzione sino alla mente eterna ed obbiettiva? Ed è da intendersi così che la mente vien all' uomo dal di fuori? Di maniera che anche nell' uomo da principio non ci sia inserito dalla natura se non quella «dynamin kritiken» (5), che Aristotele dà a tutti gli animali, sebbene varia ne' diversi animali, e nell' uomo più eccellente che in tutti gli altri? - Confesso che se ne può dubitare ed io stesso sono stato su di ciò lungamente dubbioso; ma mi sono in fine risoluto a credere che Aristotele, non descrivendo nel secondo degli « Analitici posteriori » se non l' origine del principio della scienza, parla quivi della cognizione riflessa dei primi e non nega perciò l' intuizione immediata del primissimo; e di questa mia opinione il lettore ha già udite le ragioni. Piuttosto è da dirsi che Aristotele ammetta due specie d' induzione: l' una è quella che riguarda una collezione d' individui di cui dice «he gar epagoge dia panton» (1) e questa non dà nulla di assolutamente necessario e di universale, poichè è impossibile fare esperimento di tutti gl' individui possibili; l' altra è quella, che apprende l' universale, l' essenza necessaria. In fatti questa coglie «to kat' eidos adiaphoron» (2). Ora come potrebbe l' uomo sapere ciò che sia nelle cose indifferente secondo la specie , se non conoscesse immediatamente la specie? la quale per sè presa, cioè scevra di materia, è assolutamente universale, chiamata dallo stesso Aristotele «proton en te psyche katholu» (3). Oltre di che è costante principio d' Aristotele che l' atto sia anteriore alla potenza (4), onde lo spirito umano non potrebbe passare all' atto della scienza che appartiene all' ordine della riflessione, se non fosse già prima in un atto intellettivo, non avesse in sè attualmente un intelligibile. Poichè è per propria virtù che lo spirito s' innalza alla mente obbiettiva, giacchè l' Eterno motore, che è questa mente, nulla opera, ma solo si lascia vedere. Conviene dunque che ci sia in atto l' energia che lo veda, poichè la potenza non passa mai all' atto da se stessa, e al di fuori non ha stimolo sufficiente, chè le sensazioni sono intelligibili in potenza e non in atto. Onde Aristotele stesso pone questo principio assoluto, che la ragione deve preesistere, [...OMISSIS...] (5). Se non ci fosse dunque nell' uomo per natura una cognizione prima attuale, non potrebbe raccogliere dalle sensazioni le forme delle cose e da queste universalizzando pervenire ai primi, universalissimi. Ma quello che toglie ogni dubbio è l' avere lo stesso Aristotele applicato questo principio ontologico della necessità d' un atto anteriore allo spirito umano, e aver insegnato, che come in tutta la natura conveniva che precedesse l' atto, così del pari non potersi spiegare come lo spirito umano potesse ridurre in atto gl' intelligibili in potenza, cioè le specie sparse nella natura, s' egli stesso non avesse una mente in atto, e poichè la mente è de' primi, non avesse in atto il primo intelligibile (1). E in fatti l' uomo produce a sè l' intelligibile col toccare e coll' intendere, [...OMISSIS...] (2): ora come farà l' atto d' intendere senza alcun intelligibile? Di più, tutti gl' intelligibili sono nel primo, cioè nell' ente: come dunque potrebbe conoscere gl' intelligibili se non conosce l' ente che li contiene? Per questo dice, che il principio deve essere una intellezione [...OMISSIS...] (3). Senza l' intellezione non ci potrebbero essere che intelligibili in potenza. Se dunque non ci fosse nell' uomo un' intellezione in atto, mancherebbe il principio, e l' uomo non potrebbe toccare gl' intelligibili in potenza e così ridurli all' atto. Ma come può esserci la mente in atto? Dice Aristotele, che conviene che l' intelligibile in atto dia movimento alla mente [...OMISSIS...] (4). Niuna delle cose della natura intelligibile in atto: ma le cose naturali, cioè le loro forme, sono rese intelligibili in atto dall' uomo stesso. L' uomo dunque non può essere mosso all' atto primo del suo intendere da queste cose. Da che dunque? Da ciò che è intelligibile in atto, cioè dagli eterni motori: a questi appartengono i primi [...OMISSIS...] . Questi dunque, che si trovano per induzione, non sono dati allo spirito umano dall' induzione che parte da' sensibili, ma immediatamente dall' Essere e Mente assoluta: essi sono i più noti per natura, rispetto poi a noi sono resi più noti dall' induzione (5): sono quelli che, nello stesso tempo, rendono possibile l' induzione stessa. Aristotele inoltre pone nell' uomo la mente come un' essenza eterna separata da tutte l' altre facoltà (6). Ma non si dà un' essenza eterna che non sia in atto: la mente dunque anche nell' uomo deve essere in atto (7), ed è in atto se intende sempre «ta prota». Laonde anche nell' universo, oltre esserci gli atti che vengono dalla potenza, c' è l' atto puro, ed eternamente vi si conserva, e quest' è la mente umana. Questa mente, in quant' è obbiettiva, è il primo intelligibile, Iddio; in quant' è subiettiva, è l' anima umana che tocca quel primo intelligibile di continuo, onde la chiama «synechestate» (1). E però l' uomo, se vive conformato alla mente, dice Aristotele, che è più che uomo; vive d' una vita divina (2). Questa mente che l' uomo ha immediatamente dall' intuizione del Primo motore (3) appartiene a quella che Aristotele chiama mente contemplativa. Ma il pensiero contemplativo d' Aristotele «dianoia theoretike» si estende troppo più, perchè abbraccia ogni atto di contemplazione che abbia per oggetto i puri intelligibili e non solo «ta prota». La mente dunque nell' uomo in senso obiettivo è identica alla Mente suprema; ma n' è diversa in senso subiettivo, in quanto che il subietto è l' atto stesso d' ogni anima intuente la forma dell' Essere. Così si spiega come Aristotele chiami or divina, ora anche Dio la mente nell' uomo, la faccia eterna, e quella che contiene il tempo e tutta la vita temporanea, e la chiami il fine di questa, come pure quella che contiene lo spazio , e come, con una maniera figurata tolta da' Pitagorici, collochi queste menti al di fuori di tutto il mondo cioè dell' ultima sfera, oltre la quale nega che ci sia più nè luogo nè spazio: [...OMISSIS...] . E alludendo a questa voce che viene da «aei» sempre quasi voglia dire sempiternità , prosegue a dire Aristotele: [...OMISSIS...] L' incorporeo dunque, impassibile ed eterno, quello che, come dice in appresso, è tutto, primo, e sommo al sommo (1), e che è il divino [...OMISSIS...] , questo è il fine dell' Universo [...OMISSIS...] , cioè l' ultimo atto a cui tende tutto l' Universo, e questo gode dell' ottima vita [...OMISSIS...] , la quale è la contemplativa, atto purissimo, [...OMISSIS...] (2). Essendo dunque quest' ultimo atto intellettivo, fine dell' universo, la Mente, questa ha un' esistenza fuori dell' universo mobile , ma è legata coll' universo rimanendo immobile, poichè esiste in tutti gl' intelligenti e nell' anime umane. Così, sebbene l' immobile sia congiunto col mobile, e quello che continuamente perisce coll' incorruttibile, tuttavia questo costituisce un genere diverso da quello, e poichè ogni scienza ha per oggetto un genere, l' universo mobile sarà oggetto della fisica , e l' immobile d' una scienza anteriore chiamata prima filosofia , perchè tratta de' primi che tutti si trovano nell' ente come ente. Chiama poi questa divina natura non solo fine del mondo (3) [...OMISSIS...] e primo [...OMISSIS...] (perchè il fine è anteriore di concetto e di essenza alle cose che tendono al fine), e contenente tutto il tempo delle cose periture, [...OMISSIS...] (perchè non si può concepire il tempo che è il numero del movimento, [...OMISSIS...] (4), senza presupporre una durata immobile ed eterna (5), la quale è propria dell' essere come puro essere); ma la dice anche tutto , [...OMISSIS...] , dove si scopre il panteismo aristotelico. E questo la dice non più considerandola come fine universale, ma come fine particolare di ciascun ente, come specie, forma o essenza specifica. Poichè tutte le forme , come vedemmo, sono essere, e però eterne e divine; ma non allo stesso modo dell' essere primo , perchè sono l' essere limitato, onde alcune cose hanno più, altre meno di essere e di vita, e questo tanto di essere e di vita si dice che viene dall' Essere primo prendendosi l' essere in senso assoluto, come essere; giacchè da ciò che è primo ed eccellentissimo in ogni genere Aristotele fa venir quello che è meno eccellente in quel genere, considerando la natura nell' anteriore e nel posteriore come identica. Le forme tutte dunque o specie sono quelle che chiama «analloiota, apathe,» e altrove «hapla, asyntheta, ameres» (1), e che ripone tutte sopra il Cielo, dove i Pitagorici riponeano i numeri, per indicare che sono immuni dallo spazio e dal tempo. Non essendo dunque la materia un chè, se non per la causa formale, e però l' essere delle cose essendo la forma o essenza specifica, e i nomi che si danno alle cose indicando le forme specifiche (2), tutto ciò che è qualche cosa, e di cui si parla, è forma; e però la natura dell' essere è detta «pan». Così la natura divina è tutte le cose dell' universo (3), e non fa maraviglia d' incontrare presso Aristotele una pluralità di Dei, essendovi una pluralità di forme e quindi di enti, benchè l' Ente primo ed assoluto sia uno e tutto, e si possa quindi chiamare l' unitutto. Così parlando delle antiche favole, egli non le riprende per aver posta una moltitudine di Dei, ma solo per aver fatti gli Dei simili agli enti naturali composti di materia e di forma, il che, dice, ripugna alla divinità. [...OMISSIS...] : il che è, secondo lui, quella parte di verità, che ci rimase dalle antiche memorie perite negli sconvolgimenti in cui più volte le arti e la filosofia sono perite e rinate (1). Vedesi chiaramente che il punto oscuro della filosofia Aristotelica è questo appunto, come Iddio, cioè il Dio supremo, abbia una natura identica a quella della mente umana, e di tutte le forme degli enti mondiali; e quindi e le menti , e le forme sieno veramente divine. Questo fu cagione che Aristotele fosse sempre accusato dagli antichi o di politeismo o di contraddizione (2). Aristotele censura appunto Platone di questo, che avendo sostituito la parola partecipazione a quella d' imitazione usata da' Pitagorici, nè questi nè quegli cercarono poi come gli enti s' informassero per via d' imitazione o di partecipazione delle specie (3). E accusa oltracciò Platone di non aver fatto uso se non di due cause, la materiale e la formale, quanto a torto l' abbiamo veduto, e d' aver fatto dipendere dagli elementi delle idee, che sono elementi di tutte le cose, il bene o mal essere di ciascun ente (4), quasi che non avesse fatto venire alle cose tutte ogni bene dal Bene essenziale, in che ripose l' essenza di Dio. Poco appresso poi confessa che posero in qualche modo anche la causa finale delle azioni, delle trasmutazioni e de' movimenti, e restringe la sua censura a dire, che la causa finale da lor posta non era atta a spiegare l' esistenza stessa e la produzione delle cose, ma solo le accidentali loro mutazioni (5). - Come dunque pretende Aristotele d' aver completata questa dottrina della causa finale? - Coll' aver posto l' attività istintiva nella natura, che non ebbe cominciamento, e aver fatto che questa attività, tendendo al fine , cioè all' ultimo e perfetto atto, conseguisse gli atti primi propri di ciascun ente, i quali atti primi egli disse essere le essenze specifiche. Accusa dunque Platone d' aver posta una materia e una forma inattiva, le quali essendo prive d' ogni principio di movimento non possono spiegare come gli enti si formino, e formati si generino (1). E crede che nulla si spiegherebbe se non si collocasse il principio del moto nelle specie stesse (2) e nella materia tendente alla forma. Riconosce nondimeno, oltre questo principio del movimento che è nella natura, la necessità d' un' altra causa, che è la finale, che per sè stessa nulla opera, ma è intesa, e appetita, e questa è in questo modo la causa delle stesse essenze o specie, la prima di tutte le cause, la causa delle cause, distrutta la quale tutto è distrutto, [...OMISSIS...] (3). Ora che cos' è che distrutto che sia, non rimane più nulla del resto? Aristotele dice, che quest' è l' Ente, e l' Uno (4), e lo stesso dicasi del Bene che coll' ente si converte. Qui c' è dunque in altre parole la dottrina di Platone, che faceva l' uno causa delle idee , e le idee cause dei sensibili (5), salvochè Aristotele non vuole che esistano idee de' sensibili separate ed immobili, ma solo in essi come loro forme e così aventi in sè, insieme colla materia, il principio del movimento (onde fa operative le forme anche nella mente dell' artefice per essere coerente a se stesso nel porre le forme attive); e fuori de' sensibili non pone che l' atto puro a cui tende come a fine la materia prima e ab aeterno s' informa (6), e tende la materia informata, quando è mossa da altri enti naturali già informati ossia in atto, a generarsi in altre forme. Quest' atto puro dunque corrisponde all' Uno di Platone, ma egli è motore come desiderato, e non è già l' essere indeterminato, ma l' essere, essenza, determinato, onde lo dice anche « « causa (formale) di se stesso » », [...OMISSIS...] (1). Ma quante difficoltà non involge questa maniera aristotelica di spiegare la partecipazione dell' essere ossia delle forme? - L' abbiamo veduto: replichiamolo, e aggiungiamo ancora altre difficoltà. - Il fine è l' intelligibile e l' appetibile: ma come dare alla materia bruta senza senso e senza intelligenza un appetito verso l' intelligibile e l' appetibile? (2) Non basta il distinguere il bene apparente dal bene vero: perchè anche quel primo deve apparire per essere appetito, e non può apparire a chi non solo è privo dell' intelligenza, ma anche del senso (3). - Di poi come identificare le forme delle cose inanimate o delle sensibili colle idee? Ed è pur necessaria questa identificazione nel sistema aristotelico, nel quale tutte le forme sono eterne e divine, e basta che si dividano, anche questo non si sa come, dalla materia, affinchè sieno per se intelligibili. Su di che già vedemmo che lo stesso Aristotele vacilla, e talora chiama la forma reale « « lo schema dell' idea » » (1), così ponendo tra essa e l' idea una distinzione simile a quella di Platone. - Ancora : come la forma nella mente dell' artefice può operare e non essere un puro esemplare, come vuole Platone? Anche rispetto a questo placito, necessario al suo sistema, affine di rendere le forme operative, vedemmo Aristotele esitante, e talora ritrarne il piede, ora dare alla specie la mente (subiettiva) per spiegarne l' azione, ora aggiungervi la forza, [...OMISSIS...] , ora mettere in dubbio che tali specie sieno veramente essenze. - In quarto luogo , o le specie delle cose naturali sono identiche colla prima e suprema essenza, il Motore immobile, o sono di diversa natura. Se sono identiche, essendo tutte una specie sola senza differenze, perchè si suppone che sieno molte e varie? Se sono diverse, perchè non si assegnano le cause delle loro differenze? E poi, come in tal caso compariscono? come comparisce una nuova natura diversa da quella del Primo motore, che non può dividersi in parti nè versarsi nella natura perchè non ha parti nè attività alcuna? come col solo appetirsi una cosa, s' acquista in parte quella cosa? E` per una virtù imitativa o appetitiva? Questo non si spiega, e in ogni caso, per imitazione (giacchè si ritornerebbe all' imitazione de' Pitagorici) non si prende nulla di reale dalla cosa imitata, ma s' assomiglia a quella, in modo che ciò che ha l' una solo convenga nella specie o nell' idea medesima. La similitudine in fatti è fondata soltanto in un comune concetto ossia in un universale , e non nella trasfusione di qualche parte della natura reale d' una in altra cosa (2). Ma in tal caso eccoci tornati agli universali per ispiegare la partecipazione delle forme , cioè ritornati al sistema di Platone. Di più Aristotele riconosce che molte cose reali diverse di numero sono identiche di specie, e molte specie identiche di genere, e tutt' i generi identici in quanto all' essere. Che cosa moltiplica di numero gli enti della stessa specie? La materia, risponde Aristotele. Ottimamente. Ma la forma che è in ciascuno, cioè la loro specie sostanziale (per fermarci a questa), tostochè è nella mente separata dalla materia, è una sola. Se è una sola, come può conservare la sua identità, moltiplicandosi gli enti reali che ne partecipano, ed essendo in ciascuno di essi? Poichè Aristotele dice: [...OMISSIS...] . Se dunque riconosce che nel concetto sono i medesimi, è dunque distinta la specie nella mente, che è il concetto e che è uno e comune, dalle specie reali che sono più e proprie di ciascun ente. Ci hanno dunque due maniere di specie, e le specie reali o imiteranno o parteciperanno delle specie mentali: siamo dunque ricondotti di novo alle specie platoniche, di cui i sensibili non sono che imagini: e la specie nella mente dell' artefice non sarà operativa, ma direttiva, e all' artefice converrà dare una potenza di imitarla nella sua opera distinta dalla specie, nè si potrà dire, che la specie della sanità nella mente del medico sia la sanità nell' ammalato (2), tanto più che Aristotele stesso è obbligato a confessare che la specie nella mente dell' artefice nulla patisce: che se nulla patisce, dunque nulla opera, perchè chi passa ad operare, patisce. Sia pure che gli universali esistano solo nella mente, il che Platone non contende. Rimane solo a penetrare l' intima unione che ha la mente dotata degli universali colle cose reali, a intendere che queste senza di quella non sono quali a noi appariscono. Se appariscono c' è entrata già la mente: ed essi nella mente nostra si ultimano appunto colla partecipazione che quivi essi fanno degli universali. Il che tanto più sarebbe stato facile ad Aristotele di vedere, in quanto ch' egli ama considerare gli universali come predicabili (e il predicare è un' operazione della mente), e fa che l' essere e sapersi, e il nominarsi delle cose venga dalla predicazione delle specie (3). Ma il nodo più duro a sciogliere nella dottrina d' Aristotele è quello della mente stessa che contiene gli universali. Poichè questa stessa è ella una o più? E se una, è una di specie o anche di numero? E se è una mente sola di specie, ma molte di numero, anche le menti dunque hanno una specie comune , l' idea della mente, che dev' essere anteriore alla mente, perchè distrutta la mente non è distrutta con questo la sua specie e possibilità, ma sì viceversa. Ora, che la mente sia una per Aristotele, pare indubitato; se poi la faccia una di numero o di specie, noi cercheremo in appresso. Agli argomenti che abbiamo addotti per provare che Aristotele ammette una sola natura mentale, aggiungiamo i seguenti: 1 Aristotele dice, che senza ammettere una moltiplicità di materie, non si potrebbe spiegare la moltiplicità degli enti, perchè la mente è una, [...OMISSIS...] : onde se essendo unica la mente ci fosse stata una sola materia senza differenze intrinseche, da queste due cause non s' avrebbe potuto avere, che un ente solo (1). Il quale argomento non avrebbe valore se ci potessero essere più menti o di numero o di specie diverse. In fatti più menti diverse di numero colla stessa materia avrebbero cagionato almeno più individui: più menti diverse di specie anche diverse specie di enti. Attribuisce dunque puramente alla diversità delle materie, e quindi alla diversa forza e natura del loro appetito il giungere a forme diverse . Tutte queste dunque non possono essere che una limitata imitazione della prima ed unica mente, secondo la diversità delle materie aventi varie potenze e capacità di giungere all' atto. 2 Aristotele ammette tre sole sostanze: due sensibili, delle quali l' una, quella de' cieli, incorruttibile, l' altra, la terrestre, corruttibile, la terza è la sostanza immobile: le due prime sono l' oggetto della fisica perchè hanno movimento, l' ultima della filosofia prima, perchè immobile e non avente alcun principio comune colle due prime (2). A quest' ultima appartiene la mente. Non è dunque distinta di natura la mente suprema, e quella dell' altre intelligenze: egualmente si contano come la terza sostanza. Questo ben dimostra per lo meno che Aristotele era lontano dall' intendere quanto la natura divina si dipartisse dalla natura finita della mente umana, colla quale non può nè manco aver nulla di comune nè specie nè genere. Nello stesso tempo apparisce come questa comunità o identità di sostanza, ch' egli dà alla mente divina ed alle umane, riguardi la mente in senso obiettivo. Poichè a quella scienza che tratta della sostanza immobile, cioè della mente, altrove attribuisce per oggetto « l' ente come ente ». La mente dunque è l' ente, cioè l' oggetto primo del conoscere; e si divaria soltanto pe' diversi subietti, a cui è unita, come meglio diremo in appresso. 3 Finaente in atto non può esser che una di numero. Poichè questo è uno de' suoi più costanti principŒ che tutto ciò che è moltiplice di numero ed uno solo di specie ha materia, [...OMISSIS...] , col qual principio vuol anco provare che un solo è il Primo motore e un solo il cielo ch' ei move. Ora la mente in atto è priva al tutto di materia. C' è dunque una sola mente in atto? (1). Dal qual luogo si trae certamente questa conseguenza, che la mente è, e non può esser altro che una specie sussistente avente il finimento di sè in se medesima. Ma come si concilia l' esistenza di questo supremo Motore unico di numero, coi motori inferiori, che sono anch' essi menti pure intelligibili ed appetibili, che eccitano i movimenti diversi alle sfere ed agli astri? Si dovrà probabilmente dire, che sono altrettante specie diverse, ciascuna sussistente ed una di numero. Ma in tal caso non avranno comune il genere? Non si può evitare: ed egli pare che, secondo Aristotele, il convenire solamente nel genere non impedisca che la specie subordinata possa esser una di numero, ultimata e sussistente senza materia: poichè la specie, essendo atto, non ha materia. In questo caso la specie non determina e informa alcun subietto materiale, ma è ella stessa la propria forma ed essenza. Tale credo la sentenza d' Aristotele. Ma con ciò non si sfugge ancora la difficoltà. E nel vero ammesso un genere comune, non sarà questo anteriore alle menti, secondo il principio dello stesso Aristotele che [...OMISSIS...] ? (1). Aristotele dirà forse, se non nell' ipotesi che il comune sia separabile ed abbia un' esistenza da sè, non se esiste soltanto nella mente: e dico forse, perchè in certi luoghi par che ammetta quel principio del comune qualunque sia. In fatti, tutto ciò in cui si può osservare una natura comune e una natura propria, tolta quella, questa non si concepisce più, sia la natura comune separabile o no. Ma si ammetta l' eccezione, s' urta in un altro scoglio. Se più sono le menti, ciascuna è una specie, ed hanno un' idea generica comune, in tal caso dov' è quest' idea? Nelle menti stesse, perchè non esiste separata. Se nelle menti soltanto, dunque quest' idea si moltiplica come le menti, avendo ciascuna la propria. Se ciascuna mente vedesse la stessa idea, quest' idea unica dovrebbe esistere separata dalle menti molteplici, contro il supposto. Se molte idee generiche uguali sono nelle menti, queste stesse idee hanno tra di loro qualche cosa di comune. Se hanno qualche cosa di comune, ritorna lo stesso ragionamento, che ci conduce ad una serie d' idee all' infinito, cioè all' assurdo. Non c' è verso d' uscirne: a meno che non si faccia ritorno al sistema di Platone che fa le idee separate dalle menti umane e create, ma esistenti tutte nella mente del sommo Artefice. Ora Aristotele non ci può ritornare senza rinunzia al proprio sistema, anche per un' altra ragione. Secondo lui, è indegno di Dio, che questi conosca le cose umane: appartiene alla sua perfezione che il suo oggetto sia puramente l' ottimo, cioè se stesso. D' altra parte, non essendo da lui create l' altre cose esistenti, ma a lui coeterne, operanti col proprio impulso, benchè con questo tendenti a lui; egli non potrebbe avere le idee distinte delle cose che sono al tutto così fuori di lui. Vediamo nondimeno dove ci conduca questo strano e insufficiente, ma ingegnoso sistema. C' è una serie d' intelligibili tutti eterni: il primo di questa serie è Dio, gli altri sono sparsi per tutto l' universo e lo compongono. Il primo intelligibile separato e sussistente contiene gli altri non distinti, ma in un modo eminente: è l' essere, e nell' essere si contiene ogni cosa che è. Gli intelligibili che sono nell' universo lo costituiscono, perchè tali intelligibili sono le forme , senza le quali non sarebbe l' universo; chè le forme danno alla materia l' essere qualche cosa, e però sono cause del suo essere (1). Gl' intelligibili uniti alla materia non sono intelligibili per sè. La materia è potenza, l' intelligibile è atto. Ma fino a che la materia è potenza, l' intelligibile non è puro atto, e però non è intelligibile se non potenzialmente. L' atto puro è per sè intelligibile. Come tutti gli enti tendono all' atto, tutti tendono a divenire intelligibili per sè. Vi riescono quelli soli che arrivano col loro movimento ad uscire dalla loro potenzialità, il che è quanto dire riescono a spogliarsi totalmente della materia, e allora sono costituiti in atto puro, separato ed immobile. Quando l' intelligibile è divenuto in questo modo puro atto, allora non è solo intelligibile per sè, ma anche intelligente (2). La ragione poi per la quale non tutti gli enti arrivano a quest' atto puro è perchè la materia ossia la potenzialità prossima è diversa: il liquor seminale è la materia prossima che ha la virtù, ricevendo il movimento de' generanti, di pervenire a quell' atto che costituisce l' anima umana, di cui la parte più elevata è la mente. Ho detto che l' intelligibili sparsi nella natura, quando giungono a liberarsi dalla materia e divenire atto puro, diventano intelligibili in atto e intelligenze. Questa sentenza deve esser ricevuta entro certi confini. Aristotele riduce gl' intelligibili ossia le specie alle dieci categorie. Ma avverte, che la sola specie sostanziale può essere spinta ad un atto che si costituisca da sè, e che meriti il nome di entelechía, ossia specie che ha il proprio finimento in se medesima (3), quando le altre specie non sono che per la sostanza e però hanno un' esistenza accidentale che talora Aristotele paragona al non ente (4). Laonde le sole specie sostanziali sono eterne nella natura, e se una di esse non ci fosse stata ab aeterno, o si potesse distruggere, non potrebbe più essere rinnovata (5). All' incontro le specie accidentali non è necessario che sieno eterne in atto nel mondo, bastando che ci sieno in potenza, per esservi poi attuate dalla specie sostanziale in cui sono. Quindi ancora la specie sostanziale è il massimo intelligibile (6). Quando dunque una specie sostanziale perviene ad un atto puro in cui si libera dalla materia, allora diventa intelligibile e intelligenza, e questo accade nella generazione umana rispetto all' anima che è la specie del corpo, anzi solo rispetto a quella parte dell' anima che è del tutto pura da ogni contagione di materia, e quest' è la mente umana. Per arrivare a quest' atto ella deve spingersi fino all' intuizione dell' essere formato, che è la mente obiettiva. In fatti tutte le cose si conoscono coll' essere e col non essere (1); ma il non essere non è che la remozione dell' essere ed è a quello posteriore tanto in sè, quanto nella nostra cognizione. Ed essendo l' essere e il non essere i due termini del principio di cognizione, perciò nulla possiamo conoscere senza questo principio, da cui il vero ed il falso (2). Di questi primi termini dunque, secondo Aristotele, è la mente. La mente umana dunque è la più eccellente tra le specie sostanziali che quaggiù si trovino, la quale, uscendo dalla potenza all' atto, giunse fino a toccare il primo e supremo intelligibile, l' essere, giacchè la mente conosce toccando, [...OMISSIS...] (3). E però la mente è fine dell' universo, e termine dell' ente che la possiede (4). La mente obiettiva dunque viene all' uomo dal di fuori ed è comune a tutte le menti; la subiettiva poi è nella natura, e si svolge da una specie in potenza che perviene fino all' atto della pura intuizione. Ma questa è una specie sostanziale , in cui le specie accidentali inesistono. Queste non sono necessarie alla sussistenza di quella: ma solamente possono essere in quella. Gl' intelligibili, che la mente umana va acquistando sono appunto queste sue specie accidentali; e come la specie sostanziale ha tutte le accidentali in potenza, così pure la mente umana ha in potenza tutti gl' intelligibili sparsi nella natura, e però convenientemente ella si chiama, «topos eidon», e «eidos eidon» (5). Quindi la mente dà connessione e unità alla natura raccogliendo in sè in potenza e alcune volte in atto tutte le forme dalla natura, ond' è chiamata «aion syneches» e «taxis» (6), pensiero che Aristotele prese da Anassagora (7). Ma pretende Aristotele che Anassagora non conoscesse la mente se non come causa motrice, e d' aver egli perfezionata la teoria coll' averla conosciuta per causa finale, con che solo s' evita che la natura del mondo sia come una serie d' episodi staccati, come la fanno i sistemi precedenti, [...OMISSIS...] (1). Ed ora ci sembra di potere stabilire la principale differenza tra la mente suprema e l' altre menti. La mente in senso obiettivo è a tutte le menti identica e comune. Ma questa mente obiettiva è in se stessa anche subiettiva, di maniera che l' essere inteso, e l' essere intelligente è il medesimo: quest' è la mente suprema che in eterno contempla se stessa. All' incontro rispetto all' altre menti l' obbietto non è il medesimo che il subietto; ma il subietto è posto dalla natura dell' universo che passa dalla potenza a quell' ultimo atto, pel quale contempla la mente obiettiva. Questo mi sembra essere dichiarato da Aristotele stesso nel libro XII, 9 de' « Metafisici ». Lo scopo di questo capo è dimostrare che la dottrina d' Anassagora non è sufficiente, cioè non basta porre la mente, come faceva questo filosofo nella natura, qual causa del mondo e della sua connessione, [...OMISSIS...] , ma che conveniva oltracciò ammetterla separata e indipendente da tutta la natura, come causa finale , a cui tende incessantemente la stessa natura. « « Sembra, dice, che tra gli apparenti ci sia uno divinissimo » » (2): questo divinissimo degli apparenti è la mente d' Anassagora insita nella natura, benchè immista. Mostra dunque che qualunque mente si ponga nella natura, ella sarà imperfetta e insufficiente. Poichè si prenderanno per mente, o sia per divinissimo, le specie di cui ogni ente anche inanimato è fornito? In tal caso questo divinissimo sarà dormiente: non intenderà nulla; e allora come può essere cosa oltremodo eccellente? (3). Si prenderà per divinissimo la mente umana? In tal caso abbiamo una mente che intende, ma il cui oggetto essenziale non è identico con essa. Dunque ella sarà di sua natura in potenza, e passerà all' atto per la virtù del suo oggetto: dipende dunque da questo, e questo è ad essa superiore se le dà l' atto: essa non è ancor dunque l' essenza ottima (1). [...OMISSIS...] . Il che pure è detto contro Anassagora che unendo la mente a tutta la natura, faceva che conoscesse tutte le cose naturali (3) e anche il male. Dalle quali cose conchiude Aristotele che la Mente suprema e perfettissima deve: 1 esser sempre nell' atto della contemplazione; 2 quest' atto deve avere per oggetto l' ottimo; 3 quest' ottimo deve esser ella stessa. [...OMISSIS...] All' incontro la mente umana, che è l' ultimo atto, l' ultima specie sostanziale a cui può giungere la natura: 1 Nascendo per un passaggio di ciò che è in potenza a ciò che è in atto, non è ella stessa il proprio oggetto, l' oggetto [...OMISSIS...] , la mente obiettiva, e però questa le viene dal di fuori, come quella che essendo eternamente scevra di materia, non può venire dalla natura; 2 Quindi la mente subiettiva dell' uomo è unita a un altro più eccellente di sè, [...OMISSIS...] abitualmente, e però si chiama da Aristotele abito, [...OMISSIS...] (5), e quindi ha bisogno d' uscire all' atto della contemplazione, rispetto al quale è in potenza (6); 3 Quindi accade che per poco tempo (1), e con fatica (2) la mente subiettiva dell' uomo si mantenga nell' atto della contemplazione, laddove la mente perfetta contempla se stessa immobile tutta l' eternità, [...OMISSIS...] (3); 4 La mente umana uscita dalla natura come specie sostanziale pervenuta allo stato d' entelechia , non avrà per suo oggetto solamente l' ottimo, ma altre cose ancora che sono le specie della natura, le quali ella acquista coll' induzione, separandole dalla materia, che così diventano sue proprie specie accidentali, ond' ella è detta specie delle specie. E qui ha luogo la distinzione tra la mente fattrice , [...OMISSIS...] , e la mente fattibile , ossia in potenza ad esser fatta, [...OMISSIS...] , di cui parla Aristotele nel III, 5 dell' « Anima », e finalmente la mente passiva, [...OMISSIS...] , che non si deve confondere colle due prime, benchè la brevità, con cui ne parla Aristotele, non nominandola che una sola volta, abbia fatto credere universalmente ai commentatori, che la mente in potenza e la mente passiva sia la medesima. Ma se si distinguono, la dottrina acquista chiarezza. In fatti supponendo che l' anima umana in cui è la mente sia giunta all' intuizione dell' essere (Mente suprema, in senso obbiettivo); 1 Quest' intuizione o vista dell' essere è la mente attiva , perchè vedendo l' essere conviene che per la stessa ragione l' occhio dell' anima veda tutto ciò che le si presenta come essere. La mente subiettiva dunque dell' uomo è attiva alla foggia degli abiti. 2 L' essere stesso intuito, è quello che può essere variamente determinato e circoscritto, e quindi può divenire tutte l' altre specie, e questo è la mente in potenza . 3 Queste due menti esistono nell' uomo tostochè è costituito. Ma quando la mente in potenza, cioè l' essere , viene determinato mediante i sentimenti, e la mente in atto cioè la vista intellettiva e subiettiva dell' anima vede le specie ne' sensibili, allora ella acquista tali nuove specie, e queste costituiscono la mente passiva . Quindi la sola mente passiva perisce, secondo Aristotele, colla morte dell' uomo, e non si conserva la memoria delle specie acquistate, perchè queste si vedono nelle sensazioni e nelle immagini che sono sottratte all' anima insieme all' organo corporale di cui abbisognano (1). All' incontro non perisce nè la mente attiva, nè la mente in potenza, benchè rimangano senz' azione, e ciò perchè sono la stessa mente innata. E veramente, che quando Aristotele nomina come peritura [...OMISSIS...] , intenda le specie acquistate coll' uso dei sensi per induzione, vedesi chiaramente dall' unirla alla memoria , che suppone tali specie già acquistate. All' incontro che la mente tanto fattrice quanto fattibile ossia in potenza, si conservi separata dal corpo, si può provare così. Tutti i commentatori sono d' accordo nell' ammettere immortale la mente fattrice od agente: basta dunque per noi provare che sia immortale anche la mente fattibile, ossia in potenza. Questo poi si prova dalla qualità che attribuisce Aristotele d' impassibile , e però priva di memoria, [...OMISSIS...] , tanto alla mente fattrice, quanto alla mente in potenza. Ora nel III, 4 dell' «Anima » cerca come si produca il conoscere [...OMISSIS...] . Cercare come si produca il conoscere è lo stesso che cercare come si produca la mente passiva . Ma per dichiarare questo, conviene: 1 stabilire qual sia la mente anteriormente al conoscere; 2 qual sia la mente dopo acquistato il conoscere. La mente anteriormente al conoscere non è solamente la mente fattrice che fa il conoscere, ma anche la mente fattibile cioè in potenza a conoscere. Dice dunque che questa mente, che non ha ancora ricevuto le specie « deve essere impassibile, suscettiva delle specie, e che sia queste specie in potenza »(2). Qui parla chiaramente della mente ancora in potenza. E dice che questa è la mente d' Anassagora senza mistura di sorta, [...OMISSIS...] . Onde dice, che la sua natura è puramente il possibile (3), non avendo ancora niuna delle specie naturali in atto, ma solo il possibile, che è quanto dire l' essere possibile , che la rende capace di ricevere tali specie. Questa è quella mente, con cui l' anima pensa e percepisce, [...OMISSIS...] : onde evidentemerice e fattibile , e che è una stessa ed identica mente, anteriore all' acquisto delle specie naturali, che poi formano la mente passiva . Questa mente dunque fattrice e fattibile non si mescola al corpo, e però non ha bisogno del corpo per sussistere, e non è ancora le forme se non in potenza, [...OMISSIS...] , onde la chiama il luogo delle forme (1). E prova che questa mente in potenza è separata di natura dal corpo per la differenza che passa tra essa e il senso, il quale dipendendo dall' organo s' istupidisce se sente qualche cosa di troppo forte, la mente all' opposto s' avvalora col fortemente conoscere (2), perchè è ella stessa l' intelligibile in potenza, e diventa poi l' intelligibile in atto. Si fa ancora la domanda perchè la mente non pensi sempre, e l' attribuisce all' essere le specie unite colla materia, onde il pensiero intermittente, di cui parla Aristotele, è quello che si riferisce alle cose sensibili e materiali. Intorno a queste, dice, non pensa sempre perchè ell' ha bisogno di fare un' operazione per arrivare a pensare queste specie, ha bisogno di separare le specie dalla materia perchè la mente se le approprŒ (3). Ma per ciò che riguarda la mente stessa, ella si intende sempre e tuttavia alla condizione dell' altre cose: poichè tutte le cose s' intendono a condizione che siano senza materia, semplici, immiste. Ora la mente è tale per sè e, appunto perchè tale, rende anche l' altre cose scevre di materia e così intelligibili (4). Dunque ella si conosce sempre, e questa mente conosciuta è la mente in senso obiettivo, il possibile, [...OMISSIS...] . C' è dunque sempre un atto nella mente, ed è con quest' atto primo e sostanziale che fa tutto il resto, [...OMISSIS...] , ed è come abito a guisa del lume, [...OMISSIS...] . Poichè come il lume, essendo in atto, rende colori in atto i colori che sono in potenza (5), così la mente fa delle specie che sono ne' sensibili e nelle cose materiali. La mente in potenza dunque si riferisce a queste specie, ma ella in se stessa è in atto, e però rispetto a sè è mente teoretica o contemplativa, di cui si può dire che l' intelligente e l' inteso sia il medesimo, [...OMISSIS...] . E` dunque la stessa mente quella che è in atto e quella che è in potenza: poichè è in atto rispetto a se stessa ed è in potenza rispetto alle specie che sono unite colla materia negli enti naturali (1). Aristotele si fa delle obbiezioni, che servono non poco a render chiara la sua mente, alle quali dà certe risposte, di cui non fu bene intesa generalmente la forza. Avea detto, che la mente è semplice, impassibile, e non ha nulla di comune coll' altre cose, [...OMISSIS...] , secondo la sentenza d' Anassagora: come dunque ella intende, domanda, se pensare è un certo patire, chè, solamente in quanto c' è qualche cosa di comune in ambedue i termini, l' uno sembra agire e l' altro patire? (2). Oltre ciò, essendo l' intelligibile uno di specie, o che è ella stessa la mente questo intelligibile o che questo intelligibile è diverso da essa e si trova nelle cose naturali. Se è ella stessa l' intelligibile, convien dire, che quando intende l' altre cose, ella stessa sia nell' altre cose, il che è assurdo: se poi l' intelligibile è diverso da lei, in tal caso ella sarà mista e dovrà semplificarsi prima d' essere intelligibile (3). Risponde Aristotele a queste difficoltà, che l' intelligibile è nella mente stessa, [...OMISSIS...] , e che l' intelligibile, essendo al tutto privo di materia, non può rendere mista la mente; che si dice, che la mente intendendo patisce, unicamente perchè l' intelligibile è in essa in potenza, e quando esce all' atto è ella medesima (4). Onde tra ciò che sembra agire, cioè l' intelligibile, e ciò che sembra patire, cioè la mente, non solo c' è qualche cosa di comune, ma c' è identità, che è l' identica mente quella che è in potenza, e quella che poi è in atto. Non patisce dunque dalle cose esterne, ma da se stessa (dalla mente in senso obiettivo), se questo si vuol dir patire: e da questo non procede, che la mente subiettiva sia nelle cose esterne, poichè nelle cose c' è la materia, e però in esse l' intelligibile è solo in potenza. Se quest' intelligibile nelle cose è una specie sostanziale tale, che giunga a spogliarsi della potenza e divenire entelechia, come nella generazione umana, in tal caso egli diventa mente, e questa mente o entelechia è « « la potenza priva di materia di tutte l' altre specie che sono nelle cose » » [...OMISSIS...] (1). Dal qual luogo vedesi la connessione che pone Aristotele tra la mente umana, e le specie che sono negli enti composti di materia e di forma. Una di queste specie sostanziali diventa mente ed ha in potenza tutte le altre. All' occasione delle sensazioni, le altre specie che ha in se stessa in potenza, si attuano, e così s' arrichisce di cognizioni. Le specie dunque nelle cose sono identiche a quelle nella mente (2), e sono contenute nella mente come in una specie maggiore che è in atto, quasi accidenti della medesima, i quali possono essere in potenza e passare all' atto: « « l' intelligibile dunque propriamente è uno di specie » », [...OMISSIS...] , il che è quanto dire, è una specie sola, che abbraccia l' altre come sue attuazioni accidentali, e questo intelligibile unico è la mente, che «to auto esti to noun kai to noumenon». Così è perfettamente congiunta la mente colla natura delle cose mondiali: il che tuttavia non rimove le gravi difficoltà, che abbiamo già indicate. La mente dunque è di natura sua teoretica cioè contemplatrice; questa mente poi quando si considera in relazione all' altre specie che sono miste di materia e di forma, dicesi da una parte fattrice o agente in quanto ha virtù d' attuare in sè le specie naturali scevre di materia, all' occasione delle sensazioni, e dicesi mente in potenza , in quanto ha queste stesse specie in potenza; dicesi poi mente passiva , in quanto ha attuate già in sè queste specie e le conserva in atto, la qual conservazione dicesi memoria: e questa è quella che perisce, rimanendo la mente teoretica, e anche la fattrice e la fattibile, ma senza più operare, mancando le sensazioni, onde dice «kai aneu tutu uden noei». Questa mente passiva poi è atto, quando le cognizioni sono acquistate, ma quest' atto non è continuo, ma abituale, e però ritiene ancora della potenza; può però passare alla contemplazione per un certo tempo e in que' momenti ella stessa è mente contemplativa (3). La prima mente dunque, fondamento dell' altre, è contemplatrice o teoretica. Ma che cosa contempla? Aristotele risponde: il principio, senza il quale non si può conoscere nessun' altra cosa, e questo è l' essere. Questo dunque, e ciò che in lui si trova, «taa prota», è il più noto per natura, ma, dice, non il più noto rispetto a noi; con che non vuol negare, come abbiamo osservato, che si conosca da noi anteriormente a tutte l' altre cose, ma nol conosciamo da prima colla mente passiva e riflessa, e quindi quella cognizione immediata, priva di coscienza, non ci soddisfa, non pare cognizione nostra, e non è cognizione scientifica (1). Questo principio dunque di contemplazione che ha l' anima dell' eterna e prima essenza rispetto alle specie mondiali è l' attività conoscitiva, e così acquista la denominazione di mente fattrice, e poichè queste forme le ha in se stessa virtualmente comprese nel suo oggetto essenziale, acquista pure la denominazione di mente in potenza, o quando le ha già ottenute in atto, acquista finalmente quella di mente passiva o patetica. Tutto il sapere dell' uomo, quello che lo rende atto a far uso delle cose mondiali, ed a riflettere anche sopra se stesso, sta in quest' ultima, e però Aristotele s' applica a dichiarare la formazione della mente passiva, e di questa dice che nella vecchiezza perviene alla sua maturità (2). Osserva dunque che sebbene la mente sia la specie eccellentissima di tutte pervenuta a costituirsi come atto, entelechia, tuttavia ci sono delle altre specie sostanziali nella natura che arrivano ad attuarsi per via di generazione, il cui atto però non essendo ultimo, non hanno la natura di menti. Questi atti costituiscono una certa gerarchia di basso in altro, e i loro principŒ moventi sono quattro, [...OMISSIS...] (3), cioè il vegetativo o nutritivo (4), l' appetitivo (5), il sensitivo, il motivo di luogo. Le quali specie sostanziali sono così connesse tra loro, che sebbene possano attuarsi in diversi enti, tuttavia le susseguenti non possono trovarsi scompagnate dalle precedenti. Nell' uomo poi nel quale c' è la specie ultima cioè la mente, conviene che ci sieno pure quelle quattro specie anteriori e d' inferiore eccellenza, e nascendo la generazione dall' imperfetto al perfetto, dalla potenza all' atto, conviene altresì che ultima sia la mente a comparire in atto, e che questa anche possa sopravvivere alle altre: chè questa è il fine di quelle, e il fine altresì di tutta la natura (1): ma esistendo la mente nell' uomo, questa deve ridurre in se stessa in atto le specie della natura e così rendersi mente patetica. Per questo appunto accade, che tutte quelle quattro specie sostanziali, il vegetale, l' appetitivo, il sensitivo, il motivo di luogo, sieno parti della stessa anima di cui è la mente. La mente essendo nella stessa anima, e in senso subiettivo formando un chè uno col sensitivo, raccoglie da questo gli intelligibili, al sensitivo poi serve e la parte vegetale e l' appetitiva. Come poi la mente raccolga tali intelligibili per induzione, fu da noi veduto. La mente subiettiva dunque nell' uomo, essendo diversa da' suoi proprŒ intelligibili, ha bisogno d' acquistarseli, nel modo detto, laddove la mente suprema, essendo ella stessa come subietto il suo proprio intelligibile, non ha punto bisogno di ciò. E dico i suoi proprŒ intelligibili ; perchè la mente umana, uscita dalla natura, si tiene, fino che l' uomo vive, subiettivamente radicata nella natura per mezzo dell' altre parti dell' anima, e così è naturalmente ordinata a raccogliere tutte le specie naturali, che ha in sè e di cui è essa il contenente, cioè a dire ad attuarle in sè medesima. Iddio all' incontro è pienamente beato di se medesimo, e quest' unico intelligibile continuamente e perfettamente da lui contemplato è tanto eccellente che tutte le specie mondiali lo deteriorerebbero se vi si mescolassero, come mescolandosi l' imperfetto col perfetto questo si deteriora. Ma la mente umana, secondo Aristotele, non attinge il sommo intelligibile, se non con languidissimo sguardo. « « Poichè, dice, come gli occhi della nottola sono al lume del giorno, così la mente dell' anima nostra a quelle cose che per loro natura sono manifestissime fra tutte »(2) », e alla sua vita naturale ha bisogno di conoscere le specie della natura, e per questa via non solo acquistarsi le scienze naturali, ma ben anco rendere a se stessa più note quelle cose, che per natura sono manifestissime, ma a noi visibili appena: « « poichè l' apprendere ha luogo così in tutti, mediante le cose che sono meno note, a quelle che sono più note »(3) », e ciò per difetto del nostro occhio e non per difetto d' evidenza nelle cose (4). Quando poi Aristotele parla della mente data all' anima come strumento col quale possa formarsi la scienza, non può intendere che della mente insita nella costituzione dell' uomo; quando parla della mente pienamente generata soltanto nella vecchiaia, è evidente che egli intende della mente acquisita o patetica (1): onde conviene che quella si distingua da questa: della prima dice che è de' soli principŒ, che riduce egli stesso a un primo intelligibile, della seconda dice che è di tutti gl' intelligibili, [...OMISSIS...] la prima ha per oggetto «ta te physei phanerotata», la seconda «panta noei»: la prima è lo strumento dell' anima [...OMISSIS...] , la seconda è l' effetto prodotto dall' uso d' un tale strumento ed è ella stessa tutte le specie naturali in atto: la prima è la tavoletta su cui si scrive, la seconda è le cose scritte (2): anche la tavoletta è in atto come tavoletta, ma non è ancora le cose scritte, così la mente è la prima e l' ultima (3). Adunque tra il primo stato della mente, priva delle specie mondiali e fornita solo d' un primo atto che contiene in potenza tutti gli altri, e che perciò è «dynamei ta eide,» e l' ultimo stato in cui ha acquistate queste specie in atto, c' è la disciplina [...OMISSIS...] , che è come la generazione nelle cose naturali, media tra una entelechia e l' altra. L' atto poi con cui si fa questa disciplina è il pensiero, [...OMISSIS...] , che è pratico, o fattivo o teoretico (4). Il pensiero pratico è il principio delle azioni umane, e circa lui più abiti si distinguono ne' libri morali (5): al pensiero fattivo appartiene l' arte (6): l' uno e l' altro di questi pensieri non sono delle cose necessarie, ma delle contingenti (7); ma l' arte è sempre del vero, la pratica poi del bene e del male (.). Oltre l' arte, versa intorno al vero la prudenza e la sapienza (9), ma i due abiti che hanno per oggetto il vero necessario sono la scienza e la mente . Questa somministra a quella i principŒ; quella movendo da questi principŒ ragiona, cioè deduce le conseguenze, e dimostra, chè la scienza è una cognizione dimostrata (1), laddove la mente è una cognizione intuitiva de' principŒ. Questi principŒ si raccolgono coll' induzione (2), ma questi non si potrebbero raccogliere se non ci fosse prima il luogo dove raccoglierli [...OMISSIS...] , la tavoletta, [...OMISSIS...] , dove scriverli. Questo luogo è in atto come luogo, e questa tavoletta è in atto come tavoletta, e tale è la mente in atto, che Aristotele dice essere data all' uomo da Dio stesso, come uno strumento con cui procacciarsi coll' induzione e col raziocinio tutte le specie della natura (3). Questa raccolta delle specie naturali fatta dall' anima coll' organo della mente, per via dell' induzione e del raziocinio, dopo aver prodotte le scienze naturali, perviene alla filosofia prima, cioè alla dottrina de' principŒ: ritorna dunque ond' è cominciata, e poichè questi stessi principŒ si chiamano mente da Aristotele, perciò il principio e il fine dell' opera è la mente, ma il principio è la mente insita per natura nell' anima, e il fine è la stessa mente convalidata dal lungo esercizio (4). L' una e l' altra è de' principŒ; ma la prima è intuizione de' principŒ senza riflessione, la seconda de' principŒ conosciuti con riflessione e consapevolezza; la prima ha un solo principio in atto e gli altri in potenza, il più universale di tutti, l' essere; la seconda ha molti principŒ in atto, e non solo i primi, ma per principŒ Aristotele intende anche tutte le essenze specifiche prive di materia, che sono principŒ degli enti naturali composti di materia e di forma (5). Distingue dunque la mente in due, [...OMISSIS...] . Il qual luogo, non dee già intendersi che la mente sia lo stesso senso de' singolari, ma che sia un senso che raccoglie le specie ultime , che noi chiamiamo specie piene, o le specie astratte (non generi ancora) (2). Per riassumere adunque, gl' intelligibili sono sparsi nella natura mondiale, congiunti alla materia, cioè alla potenzialità, che è quanto dire non pervenuti all' ultimo atto, che da intelligibili in potenza li renderebbe intelligenze. Ma cotesti intelligibili sparsi nella natura sono limitati più o meno, e niuno di essi è intelligibile illimitatamente e pienamente. La natura dunque mancherebbe del suo comignolo e la serie degl' intelligibili mancherebbe del suo primo, se non ci fosse uno intelligibile in atto perfetto e illimitato senz' alcuna potenzialità di sorte. Questo intelligibile primo non può a meno d' esistere necessariamente, perchè ciò che è perfetto atto, è, per la stessa definizione, esistente, essendo il medesimo atto ed essere: ed esiste separato e da sè, appunto perchè non dipende da alcuna potenza e materia. Egli non è la natura, per la stessa definizione, essendo « « la natura ciò che ha potenza e movimento » ». Quest' intelligibile puro e perciò pura intelligenza è Dio, e non può avere altra natura ed essenza che quella dell' essere puro , poichè se qualche altra cosa gli s' aggiungesse sarebbe dipendente, e avrebbe potenzialità e materia o limitazione. Fino a che la natura non giunge a toccare questo puro intelligibile, niente in essa e è condizione dell' intelligenza, ossia della mente, d' essere un atto privo al tutto di materia (3), e quest' atto non essendo che Iddio, la natura deve pervenire a toccare Iddio, acciocchè s' approprŒ quell' atto purissimo e attualmente intelligibile , e così anch' essa diventi intelligenza, poichè coll' avere in sè ciò che è attualmente intelligibile non può a meno d' intendere. Essendo quest' intelligibile per sè l' essere , la mente è formata dall' essere. Ora quest' ultimo atto della natura c' è sempre stato (1), e per mezzo della generazione umana si perpetua. Ma l' anima umana non tocca quest' atto che imperfettamente, e non essendo ella stessa quest' intelligibile in atto, da lui dipende come da un principio maggiore, e si distingue colla sua subiettività dal suo obietto essenziale, che le serve di strumento agli altri suoi atti. Così Aristotele dice, che Iddio ci dà la mente (2). Infatti conoscendo l' essere si possono conoscere tutte l' altre cose in esso contenute, ma senza l' essere, niente si può conoscere, perchè tutto è essere. Laonde Aristotele fa dipendere le verità dalla prima, come gli esseri dal primo essere. [...OMISSIS...] E qui già si scorge meglio la conciliazione tra ciò che dice dell' universale e ciò che dice del singolare. Poichè dopo avere esaltato questo sopra di quello e aver detto che in questo solo si deve cercare l' atto compiuto, involgendo quello imperfezione e potenza, sembra che in alcuni luoghi cangi il discorso e magnifichi sopra tutto l' universale. La conciliazione è questa. Iddio primo principio è l' essere sussistente. Questo è subiettivamente singolare. Ma l' uomo lo tocca obiettivamente, come primo ed assoluto intelligibile e questo tocco forma la mente innata: il tocco però è debolissimo e dà una languidissima e abituale notizia dell' essere, non sufficiente all' uomo nella sua vita terrena. L' essere così conosciuto è la mente in senso obiettivo e lo strumento, ovvero organo dato all' uomo con cui conoscere l' altre cose (1). Con questo dunque l' uomo dee acquistarsi la scienza propria di lui, cioè dee raccogliere gl' intelligibili sparsi nella natura (2). I quali intelligibili separati dalla materia (3), sono gli universali; e senza questi non si dà scienza (4). Questi poi sono l' essere delle cose; «to ydati einai» è la pura specie sostanziale dell' acqua, «to megethei einai» è la specie pura della grandezza, e così via (5). Raccogliendo dunque le specie, raccoglie l' essere sparso nella natura. Ma come in molti enti reali inesiste una specie comune, così in molte specie inesiste un genere comune, e in tutti i generi poi trova comune l' essere stesso. L' essere dunque nella natura è comunissimo, se non che è più ristretto nelle specie, più esteso ne' generi, più comprensivo in quelle, meno comprensivo in questi. Ora Platone, come l' intende Aristotele, avea detto che quest' essere comunissimo esiste da sè separato dalla natura, e che gli enti della natura ne partecipano e così sono (6). Aristotele si oppone a questo, e dice che l' essere comunissimo non può esistere separato, e nè pure è un genere (7). Ma cangia piuttosto le parole che la cosa: poichè qual principio sostituisce? L' essere stesso, non più comunissimo, ma singolare e sussistente, al quale aspirando come a fine tutte le diverse materie della natura, giungono a parteciparne limitatamente qual più qual meno. C' è dunque l' Essere primo singolare, ma preso questo per obietto dalla mente umana ed applicato alla natura diventa comunissimo per la ragione che questa mente riporta e identifica con esso lui tutto l' essere limitato che è sparso nella natura, cioè le specie. Queste sono essere come quello, ma si distinguono per la loro limitazione: così suppone che ci sia in fondo a tutto un essere solo immateriale, il quale sia limitato e illimitato ad un tempo, ma in quant' è illimitato sia Dio, in quant' è limitato sia unito colla materia e sia natura (1), allo stesso modo come suppone che la specie nella materia e la specie separata sia una e la stessa, ma in quant' è nella materia non è intelligenza, in quant' è separata è Intelligenza o Mente. Se dunque si considera l' essere come attualissimo in se stesso, egli è singolare, prima causa finale fuori della natura; se si considera come meno attuato, è in tutti gli esseri della natura, e in essi è ancor singolare: ma raccolto l' essere che è ne' molteplici della natura dalla mente, è universale perchè ne' molti inesistente (2). Trovando dunque la mente l' Essere assoluto, questo in quant' è sussistente, è singolare fuori della natura, ma riportato da essa mente e riscontrato alla natura, come misura comune di tutte le cose, è comunissimo . E però l' uomo che trae la scienza dalla natura, nulla può sapere senza l' ente comunissimo, e la prima filosofia che tratta dell' essere come essere, il dee considerare ad un tempo, dice Aristotele, e come singolare e primo, e come comunissimo. Osserva dunque Aristotele che la parola ente ha un primo significato, dal quale tutti gli altri derivano, e al quale tutti si riferiscono, e che perciò la scienza che tratta dell' ente deve riportare tutto ciò che dice a questo primo significato, come a un solo principio (3). L' essere dunque si considera da Aristotele come una sola natura, [...OMISSIS...] . Qual è dunque il primo e proprio significato di ente? Quello di essenza sostanziale , risponde Aristotele, chè tutte l' altre entità espresse nell' altre categorie sono posteriori ad essa (4). Di questa dunque dee propriamente trattare quella scienza che ha per oggetto l' essere come essere, e anche d' ogni altra entità, ma ad essa riferendola (5). Se l' essere dunque in questo senso primo e proprio, cioè l' essenza sostanziale è l' oggetto precipuo della filosofia prima, si prende qui l' essere ancora come un genere , sia come il genere universalissimo, sia come il genere dell' essenza sostanziale (6), d' altra parte la scienza non può far di meno dell' universale, e la filosofia prima ha lo stesso oggetto della dialettica (1). Come dunque sembra negare che l' essere sia universale? (2). Conviene osservare come Aristotele concepisca l' universale; il concetto, che s' è formato dell' universale, è inerente alla espressione greca «kath' holu», che è come dire « ciò che si dice di tutto » onde è preso dalla predicazione e non dall' intuizione . Ora il medesimo essere non si predica di tutte le cose, e però «me tauto epi panton,» perchè l' essere d' una cosa non è il medesimo di quello dell' altra, ma varia secondo la specie. [...OMISSIS...] . Ciò che si predica di tali cose in un modo anteriore e posteriore (4), è il genere: il genere dunque non c' è propriamente fuori delle specie. Or come l' essere si predica in un modo anteriore della sostanza, e in un modo posteriore degli accidenti, non è dunque un genere comune a quella e a questi. Ma non si predicherà dunque in comune di tutte le sostanze, o anche di queste si predicherà in un modo anteriore e posteriore? Secondo Aristotele l' essere si predica in un modo anteriore della essenza attualissima, cioè di Dio, e in un modo posteriore dell' altre essenze naturali composte d' atto e di potenza: e perciò non c' è null' altro fuorchè Dio, e le sostanze naturali: non c' è un universale comune. Ma dopo di ciò torna la perplessità, [...OMISSIS...] . Ma egli stesso s' accorge che questo è un tornare agli universali; laonde soggiunge che: [...OMISSIS...] . Il fondo di questa questione « se i principŒ degli enti siano gli universali o i singolari »nasce da questo. Nelle idee c' è da notarsi l' estensione e la comprensione (2). Se si considerano le idee dalla parte dell' estensione, cioè dalla maggiore universalità, le più universali contengono le meno universali, e però quelle sono principŒ di queste. Se si considerano dalla parte della comprensione, ciò che è più comprensivo contiene quello che è meno comprensivo, e però i più comprensivi ossia meno universali sono i principŒ de' più universali (3). Quali dunque sono i principŒ degli enti, universali o singolari? (4). Tale in sostanza è la difficoltà che Aristotele chiama « « difficilissima di tutte e insieme necessarissima » » [...OMISSIS...] (5): egli la presenta sotto molti aspetti, e la fa comparire come questioni diverse (6); ma in nessun luogo ne dà una chiara e diretta soluzione: convien raccogliere a fatica quella sentenza ch' egli avrà probabilmente insegnata apertamente nella scuola. Noi non dubitiamo, che sia quella che abbiamo già data, e che ripeteremo in altre parole. Ci sono delle cose che si predicano d' altre, e queste devono avere un subietto di cui si predicano, e che egli stesso non si predica. Il subietto e il predicato sono relativi, e l' uno non istà senza l' altro, onde suppongono una composizione di materia, - subietto - e di forma - predicato - (1). Parliamo delle sole forme o essenze sostanziali, alle quali le accidentali si riducono (2). Le forme o essenze sostanziali, oltre essere nella natura, esistono anche separate nella mente. Le forme dunque si possono considerare sotto due rispetti: 1 in se stesse, pure da materia, e sotto questo aspetto ciascuna è perfettamente una ; e 2 o congiunte nella materia, nel quale aspetto una sola forma veste più materie, ed essa è da Aristotele rassomigliata al maschio che feconda più femine (3). Stabilisce dunque Aristotele l' unità dell' essenza sostanziale , giacchè essendo essa puro essere, e l' essere essendo indiviso dall' uno, anch' essa è una, e singolare in se stessa e pienamente determinata (specie piena?) (4). Ed è così che l' uomo intende, perchè c' è l' uno in più enti naturali (5), cioè la specie sostanziale che è una e singolare e che rimane nell' anima fornita di mente, in occasione della sensazione (6). Onde a questa specie attribuisce ad un tempo d' esser uno , e d' esser universale. [...OMISSIS...] Ma s' osservi attentamente, che Aristotele usa, senz' accorgersi, in due significati diversi «to katholu:» poichè talora lo considera manifestamente come un predicato , e allora dice, che non può esistere separatamente, perchè suppone un subietto; talora poi lo considera come quell' essenza sostanziale che, essendo una, è causa a più cose di essere, e di essere uno (1), e a questa concede l' esistere separata (2). In tal caso non è più il predicato d' un altro subietto, ma è l' essere della cosa stessa. Tutte le altre cose accidentali si predicano di questa specie sostanziale, e sotto questo aspetto, ella diventa subietto, ma ella stessa si predica della materia (3), e sotto questo aspetto ella stessa diventa predicato, e predicato universale, perchè si può predicare di più materie, rimanendo ella una ed identica. Ma la materia non esiste se non per lei e però non è un subietto indipendente da lei: ella dunque è antecedente al subietto materia, e in quant' è antecedente non è predicato, perchè il predicato è relativo e contemporaneo ed anzi posteriore al subietto (4). Sotto questi diversi aspetti, ne' quali si può riguardare la specie sostanziale, disputa lungamente e ritorna spesso Aristotele, opponendo ragioni a ragioni, e non venendo mai a una netta e del tutto esplicita conclusione. Del rimanente, la conclusione si è che Aristotele tiene costantemente divise le specie , sparse nella natura, dalla specie massima divisa da essa totalmente: eterne quelle e questa, ma quelle dipendenti da questa, perchè poste in atto dall' appetito insito nella materia o potenza, che costituisce la natura e s' avvicina a quella, ma imperfettamente (1). Essendo le specie che sono sparse nella natura determinate, distinte ab eterno, inconfusibili, esse formano come una serie, e non hanno altra unità se non quella del numero (2). Ora, come ciascun numero ha unità, perchè si concepisce come contenuto nell' uno; così le diverse specie della natura hanno unità, perchè contenute nella specie massima, cioè nell' essere, che è una. Infatti non esisterebbe un numero se non fosse concepito come uno, non fosse informato dall' unità: così le specie non avrebbero nè continuazione nè unità, se tutte non fossero contenute nell' essere. E poichè la mente in senso obiettivo è l' essere, perciò Aristotele or dice della mente suprema che forma la continuità e l' unità delle cose e de' tempi, ora lo stesso dice della mente nell' uomo (3). E quest' è la ragione, per la quale Aristotele ora parla d' un principio solo, e or tosto appresso converte il discorso di singolare in plurale parlando di più principŒ (4). La ragione si è che «he de noesis, ta noemata» l' intellezione, essendo una, è insieme obiettivamente molti intelligibili, come un numero è uno ed è insieme molte unità, [...OMISSIS...] e lo stesso che dell' intellezione, che è l' atto, è a dir della mente che è la potenza, [...OMISSIS...] . Se dunque considera l' essere come contenente, Aristotele parla d' un principio solo, se considera l' essere come contenuto, ne parla come fosse più principŒ. E` ancora l' uno formale de' Pitagorici e di Platone. Ancora i principŒ, dice, sono i medesimi secondo la loro ragione «he to ana logon». Questa ragione comune è la contenente, l' essere in cui tutti si risolvono. Di che procede che dove si trova l' uno, ivi si trovi il primo, e dove il primo ivi anche l' universale. Infatti ne' soli enti della natura non si trova il primo universale, [...OMISSIS...] (5). E veramente essendo gli enti in numero finito, il comune che è in essi, è comune bensì a quel numero di enti esistenti, ma non è universale , estendendosi questa parola a un numero infinito d' individui. Quindi a ragione Aristotele ne cerca il fondamento nell' Essere supremo. [...OMISSIS...] . Fa dipendere dunque l' esistenza dell' universale dall' esistenza del primo ente. Non basta dunque per Aristotele, acciocchè ci sia l' universale, che colla mente s' astraggano le specie dalla natura: questo fa anche il matematico; ma le entità che ne cava non sono separabili e indipendenti dalla materia, e però non danno il vero e puro universale, nè costituir possono una scienza universale (2). La scienza universale dee trattare « « dell' ente come ente, e della quiddità, e degli universali inesistenti nell' ente come ente » », [...OMISSIS...] (3). Secondo Aristotele adunque l' universale si riduce all' essere come essere, e l' essere come essere non esiste separato nella natura, ma esistono delle specie unite alla materia, le quali non sono universali, se non sono contenute nell' essere. Questo deve esister dunque come causa suprema separata dalla natura, e come cosa divina. E qui di novo si alterna in Aristotele il discorso in singolare e il discorso in plurale per la ragione detta. [...OMISSIS...] . Ma tra le cause eterne quella che è separata e di tutte le altre più divina è la finale (5), e la causa finale ultima e separata è il Bene, ossia il Dio supremo. La prima filosofia dunque, che è universale e tratta degli universali altrettanto che la dialettica (6), ma più profondamente, tratta specialmente di Dio e del Bene (7), e perciò si chiama teologia. Per trovare dunque il fondo della dottrina aristotelica, conviene investigare com' egli assegni alla filosofia prima, quale unico oggetto: 1 il trattare del supremo essere, certamente singolare, essendo attualissimo, senz' alcuna potenzialità, e quindi incapace di essere in modi diversi; 2 e il trattare dell' universale . Come Dio e l' universale sono unico oggetto? Ecco quello che Aristotele non dice che oscuramente, e dove sta pure il nodo della dottrina. Quante sono le essenze, dice, tante sono le parti della filosofia (1). L' essenza di cui tratta la filosofia prima, è l' immobile e separata dalla natura. Ma d' altra parte, l' oggetto di questa filosofia è l' essere come essere. Dunque l' essere come essere è quell' essenza immobile e perfetta a cui appartiene il nome di Dio. Ma anche le specie ossia i generi delle cose naturali sono essere, [...OMISSIS...] . La filosofia dunque tratta d' un' essenza che contiene le specie, come il circolo contiene il poligono, e però tratta anche delle specie e de' generi diversi, e de' contrarŒ e delle negazioni, non per parti, come fanno le scienze speciali, ma in quanto sono essere. [...OMISSIS...] La filosofia prima dunque è scienza universale, perchè tratta dell' essere non solo in quanto è essenza sussistente, ma in quanto è universale. Laonde riferendo le opinioni intorno a quella scienza a cui s' appartiene il nome di sapienza, le assegna questi caratteri: 1 che in essa si conoscano in qualche modo tutte le cose; 2 e le più difficili; 3 e le più certe; 4 e che con essa si possa conoscere ed assegnare le cause; 5 e che sia tale che si cerchi per sè stessa, cioè unicamente per saperla, e non per altro. Ora questi cinque caratteri si riscontrano nella scienza che tratta dell' universalissimo che è l' essere come essere. [...OMISSIS...] ; dove esclude manifestamente dalla scienza più sublime il conoscimento degli enti singolari, riponendola nel conoscimento di quell' universale che tutti li contiene. [...OMISSIS...] . E continua a provare che in quegli che sa l' universalissimo o gli universalissimi si riscontrano anche gli altri quattro caratteri del sapiente: [...OMISSIS...] . Si osservi su questo luogo importante, che dalla prima e suprema scienza vengono sempre esclusi i subietti, e certamente vuol dire la materia considerata come subietto degli enti naturali. Per aver questa scienza, non fa bisogno conoscere i singolari enti numericamente distinti in natura, [...OMISSIS...] . I subietti materiali non si conoscono per se stessi, ma quello che li fa conoscere è l' universale oggetto della prima scienza, [...OMISSIS...] . In fatti, esclusa la materia, non ci rimane che la specie pura, che è già un universale, in quanto essendo unica può unirsi a più materie, e così esser causa formale di più enti distinti numericamente. Ma questa scienza suprema non si ferma a questo primo universale, bensì va agli ultimi che sono l' ente e l' uno, ond' ha per oggetto, «ta malista katholu», e questi Aristotele li dice i più rimoti da' sensi, [...OMISSIS...] . Ora questi universalissimi e da' sensi remotissimi, che si riducono all' essere, sono ciò che è massimamente scibile, [...OMISSIS...] . Ora ciò che è massimamente scibile non riceve l' essere scibile da altri, ma è per sè scibile; e in ciascun genere, secondo Aristotele, ciò che è massimo è quello che dà agli altri della propria natura. Così ciò che è massimamente scibile, dà all' altre cose scibili l' essere scibili; ciò che è scibile per sè, dà all' altre cose scibili d' esser scibili per partecipazione. [...OMISSIS...] . L' universalissimo dunque, cioè quello che è massimamente scibile e remotissimo da' sensi, deve esser conosciuto dall' uomo prima, acciocchè questi possa poi raccogliere da' sensi la scienza sua propria per induzione, e quello perciò è la mente in atto, [...OMISSIS...] (1). Di poi l' universalissimo o gli universalissimi che sono ciò che è scibile al sommo grado, è anche quello che contiene « « i primi che cadano nel pensiero e le cause » », [...OMISSIS...] . Certamente conviene anche qui lasciar da parte la causa materiale, perchè non merita nè pure a vero dire la denominazione di causa, avendo ella stessa bisogno d' una causa per esistere, cioè della forma, e non essendo essere, ma solamente una cotal potenza all' essere. Riguardo all' altre tre, se la specie è la causa prima e immediata degli enti naturali (2), l' universalissimo sarà la causa ultima di quest' ordine, la specie di tutte le specie, il che ci ricaccia alla dottrina di Platone, che l' uno sia la forma o causa formale delle specie. Ma in quest' universalissimo la cui scienza è chiamata da Aristotele «theia ton epistemon» e «ton theion», e «theiotate kai timiotate», c' è anche il Bene, la causa finale, e propriamente tra le cause finali l' ultima, [...OMISSIS...] . Ora questa è anche l' ultima causa motrice, [...OMISSIS...] (3), e questa immobile, appunto perchè è l' intelligibile per sè, e appetibile perchè intelligibile, [...OMISSIS...] (4). Ora questa è l' una delle tre essenze sostanziali ammesse da Aristotele, l' essenza sostanziale immobile, [...OMISSIS...] (5). Se dunque tutto ciò è l' universale anzi l' universalissimo; convien dire, che Aristotele prenda indubitatamente in altro senso l' universale, quando dice che « « nessuno degli universali esiste separato dai singolari » » (6), e che gli universali non sono essenze sostanziali, e non indicano essere, ma semplicemente modo di essere (7). Parmi che i luoghi frequenti in cui s' esprime in questo modo, e rifiuta le idee separate di Platone, abbian fatto gabbo ai commentatori, e impedito che s' intendesse pienamente la sentenza aristotelica. E` dunque da osservare attentamente, che Aristotele prende qui l' universale in senso di qualità comune agli enti, e nega che ciò che è comune agli enti possa essere la loro essenza, e nega questo per la stessa ragione, anche de' comunissimi, l' ente e l' uno, [...OMISSIS...] . Non nega dunque che l' essenza, oltre che inesistere nell' ente (composto [...OMISSIS...] ) di cui ella è essenza, esista anche in sè stessa: anzi questa è la costante dottrina ch' egli professa: [...OMISSIS...] . E per essenze incomposte [...OMISSIS...] intende tutte le specie, separate che sieno dalla materia, le quali sono puro ente, ente determinato. Ma quest' esistenza separata che dà all' essenza, questo inesistere in sè stessa, intende che sia soltanto nella mente umana, e che una sola essenza esista al tutto separata e da sè, e questa, come dicevamo, è la stessa mente. Accorda dunque a Platone che la specie esista eternamente in atto, ma solo nell' ente di cui è specie unita colla materia, e nella mente umana come incomposta. Ma gli nega, che questa sia ù una, ed è quella che dà l' unità alla materia; considerata poi nelle cose in ciascuna di esse è unica di nuovo. Ma il pensiero, paragonando queste cose tra loro, trova il comune : quest' è una vista del pensiero, e non è cosa che appartenga nè all' essenza separata, nè all' essenza propria de' singoli enti dov' è unita con materie diverse. Nè si può dire tampoco che la specie separata, e la specie negli enti sia una specie comune (il che condurrebbe all' infinito), perchè la specie separata è anteriore, e la specie negli enti è posteriore, e tra l' anteriore e il posteriore non c' è il comune: questo non essendoci che tra gli uguali. E veramente egli stabilisce, che comune non si può dire, se non ciò che si trova simultaneamente ne' molti (1). Ma l' uno , a ragion d' esempio, si dice bensì dei molti, ma non simultaneamente (2), perchè si concepisce l' essenza dell' uno anteriormente ai molti, e dei molti si predica posteriormente: ora tra ciò che è anteriore e ciò che è posteriore non c' è il comune, secondo Aristotele (3). Conchiude dunque « « esser cosa evidente che niuno degli universali esiste separato fuori de' singolari » » (4), pigliando la parola « universale » per comune . Egli dichiara ancor meglio il suo pensiero con quello che dice immediatamente in appresso: [...OMISSIS...] . Ammette dunque che la specie abbia un' esistenza separata, come un' essenza determinata, ma ciò che trova a riprendere nel sistema platonico si è d' aver fatto che questa essenza, che in quanto è separata è un individuo, ella stessa si trovi in molti, quando solamente si trova in ciascuno. Che cosa dunque sostituisce per ispiegare la partecipazione della specie a molte materie? Sostituisce la priorità e la posteriorità, e abolisce il comune. Dice, che la specie ha un' esistenza anteriore e così è una e individua; ha un' esistenza posteriore e così è ancora una e individua in ciascuna materia che la riceve; che la specie non ha dunque un' esistenza comune , e che questo comune non è che una relazione che aggiunge il pensiero. Vuole dunque, che l' essenza sostanziale rimanga sempre singolare o che si consideri in se stessa (esistente nella mente), o che si consideri negli enti che ella informa: vuole di più che l' uno o l' altro modo di essere appartenga alla stessa singolare essenza (1), e riprende Platone, come se avesse detto, esserci per ogni ente della natura due essenze, l' una separata ed eterna, l' altra sensibile che esiste per partecipazione di quella prima, poichè « « un' essenza non può comporsi di più essenze » » (2). Riconosce non di meno con Platone stesso la necessità, che indipendentemente da ogni materia, e quindi fuori della natura, esistano delle essenze sostanziali. Ma riprende Platone per aver confuse queste essenze separate dalla natura con quelle che sono nella natura, ed eterne colla natura stessa (3). Platone non conobbe, viene a dire, quali sieno le essenze separate al tutto dalla natura, e non potendo dire quali sono, prese gli enti della natura, e aggiungendovi il vocabolo stesso , per esempio dicendo: « « l' uomo stesso, il cavallo stesso » » [...OMISSIS...] , pretese così d' aver trovato l' essenza eterna, separata dalla natura, dell' uomo e del cavallo (4). Aristotele si dà tutta la cura di distinguere interamente le specie che sono nella natura e da questa passano nella mente umana, dalle specie che stanno fuori della stessa natura, intorno alle quali vuole che si faccia un discorso a parte (1). Queste essenze dunque separate dalla natura sono quelle che dice lontanissime da' sensi, per sè stesse i primi e più intelligibili, nelle quali è immedesimata la scienza e la cosa. Esse non vengono in composizione con alcuna cosa della natura, non sono le specie degli enti naturali (2), sono perfettamente singolari, esistono in atto, e non avendo potenza non si possono concepire con modi diversi, non ammettono contrari. In se stesse considerate adunque nega che tali essenze sieno universali . I principŒ supremi del ragionamento appartengono a queste essenze. Tra le quali ce n' è una ultima perfettissima che è il principio immobile del moto, e la causa finale di tutte le cose naturali. Tutte le cose tendendo all' atto tendono all' ultimo atto, che è pure il fine, ottimo e remoto, del loro movimento. Da quest' unità di tendenza nascono le loro qualità comuni ; ma anteriormente a queste c' è la radice materiale delle cose propria di ciascuna, distinta e contrapposta al fine ultimo, e di questa radice materiale non c' è una ragione comune (3). La prima causa dunque non è propriamente l' essere comune ; ma questo deriva dalla prima causa; e in questo senso anche questa causa dicesi universale . Di che la prima filosofia, appunto perchè tratta del primo, dice Aristotele, è anche universale, [...OMISSIS...] . Fa dunque dipendere l' universale dal primo , e dice che questo è l' ente separato ed immobile, [...OMISSIS...] (6). Quest' è semplice, attualissimo, non ammette contrarŒ, perchè non ha potenza di sorte: questo non costituisce propriamente le specie degli enti naturali, ma bensì il loro comune principio, di cui dice: « « C' è negli esistenti un certo principio, circa il quale non si può mentire » » (1). Ma la parola ente , che talora si prende per essenza sostanziale , che sola è davvero ente, secondo Aristotele, si adopera anche come un predicato universale accomunato a tutte le categorie. Quando dunque Aristotele combatte que' filosofi, che usano dell' ente e dell' uno come generi (2), allora egli s' appiglia a questo secondo e più esteso significato, e mostra che l' ente e l' uno non possono esser generi , perchè si predicano delle stesse differenze (3). Dice ancora, che se l' ente e l' uno fossero essenze sostanziali, tutti gli enti sarebbero essenze sostanziali, e non ci sarebbero gli accidentali, raccolti nelle nove categorie susseguenti alla sostanza, laddove «hekaston de to genos on» (4). Ma quando per ente intende la sola essenza sostanziale, allora l' ammette separato, ed anche universale. E della scienza, che tratta di esso, cioè della prima filosofia dice: « « La scienza è da per tutto propriamente del primo , e da cui dipendono l' altre cose, e per cui si dicono » » (5). Poichè dunque la prima scienza è dell' ente come ente, deve trattare del primo ente. Che se questo è la « « sostanza, conviene per certo che il filosofo abbia i principŒ e le cause delle sostanze » » (6). Ora il principio e la causa, secondo Aristotele, deve poter avere un' esistenza separabile (1), e così tra le essenze sostanziali ce ne deve essere una prima che sia al maggior grado essenza sostanziale, alla quale le altre sieno posteriori, come la cosa di cui il principio è principio, al principio, e la scienza di quella deve essere anteriore alla scienza di quest' altre (2). Ma questa prima essenza sostanziale, priva d' ogni materia, è conseguentemente il primo intelligibile. E quantunque ogni specie sia anche numericamente una, tuttavia la sua unità dicesi specifica (3), e quest' unità della specie è l' uno primo causa o principio, pel quale le essenze sono uno, il che è pur la dottrina di Platone (4). La prima essenza sostanziale dunque, una di specie, è anche separabile. [...OMISSIS...] Quello che è puro ente è appunto una causa che ha questi caratteri, perchè egli è anteriore ai contrari, e però non può aver contrari in sè, se è puro ente, non essendovi nulla fuori dell' ente (6). La prima essenza sostanziale dunque, separata e principio e causa di tutte le altre essenze sostanziali, è il puro ente, eterno, incorruttibile. Ma l' ente essendo uno di specie ne viene che egli, oltre esistere numericamente uno e primo e senza contrarŒ in se stesso, possa anche, senza perdere l' unità di specie, esistere nella materia, secondo che questa ha virtù di riceverne: e così accade che sia principio delle essenze sostanziali nella natura, e che si divida in generi (7), benchè egli in sè, puro d' ogni materia, non sia genere. E però la prima scienza, dice, tratta anche de' generi dell' ente, con tutte le sue differenze e contrarietà, che li costituiscono, in quanto tutte queste cose si derivano e si riportano al primo ente (1). E però il filosofo tratta di tutte le cose in relazione all' ente come ente, tratta cioè dell' ente, e di tutte le sue passioni (2). Dopo aver dunque detto che la prima filosofia tratta della prima essenza sostanziale separata e però principio e causa che non ha nè può avere in sè contrarŒ; domanda come questa si può trovare da noi, per qual via si può arrivarci, considerando sì la natura, che la cognizione nostra propria che ci formiamo per via d' induzione. [...OMISSIS...] Dal qual luogo mi sembra poter raccogliere che il progresso della ragione umana, col qual giunge alla prima causa, sia questo, secondo Aristotele: la ragione raccogliendo per induzione il comune perviene al comunissimo : quest' è l' essere svestito delle differenze: da questo salendo ancora, intende la necessità che ci sia l' Essere separato al tutto, prima causa dell' essere nelle cose; e ciò perchè essendo l' essere comune ci vuole un' unica causa che spieghi questa comunanza od universalità: convenendo ricorrere al primo uno, per ispiegare l' uno ne' più. Di qui assegna per oggetto della prima filosofia non solo l' essere separato, ma l' essere comune: [...OMISSIS...] . E dopo aver detto che tutto ciò che si riferisce al genere medicativo o salutare spetta alla medicina, continua dicendo, che in egual modo ciò che si riduce all' ente come ente spetta alla prima filosofia. [...OMISSIS...] La ragione poi, per la quale Aristotele dice, che il pensiero umano concepisce che esista fuori de' singolari un principio unicamente, perchè trova che c' è qualche cosa d' universale che si predica di tutte le cose, si è primieramente quella di Platone, che l' universale non può essere ne' singolari, perchè eccede da ciascuno e da tutti. Di poi perchè nell' universale si rinviene il necessario . [...OMISSIS...] . E ciò perchè l' universale abbraccia in potenza tutti i contrarŒ: onde se una cosa è in qualunque sia modo, deve di necessità essere, acciocchè abbia quel modo (4). [...OMISSIS...] . E così la prima necessità è una causa che rende necessarie l' altre cose che non sono tali per sè. [...OMISSIS...] , Tali sono i primi, [...OMISSIS...] , cioè l' ente e l' uno universalissimi da cui viene la dimostrazione (6). Questi universalissimi dunque non possono essere altramente in più modi o diversamente da quel che sono (7): non hanno dunque in sè stessi potenza alcuna. Quando dunque in altri luoghi dice che l' universale è sempre potenza, l' intende in altro modo e non intende l' universale in sè: nè intende i primi universali: ma intende l' universale delle cose finite : i generi delle cose finite, e non l' ente e l' uno, benchè li chiami primi generi. Ma altrove nega che sieno generi, ed è quando pone la questione diversamente, benchè non si spieghi chiaro: dico quando intende di domandare: « se l' ente e l' uno sieno generi delle essenze naturali ». Alla questione così posta risponde di no: chè non sono divisibili in ispecie: stantechè il genere che si divide in ispecie non si predica delle loro differenze, e l' ente e l' uno si predicano delle differenze: ma si dividono bensì in generi, cioè nelle dieci categorie, o piuttosto l' ente e l' uno esistono ne' vari generi come di conseguenza, [...OMISSIS...] (1). Poichè Aristotele distingue l' essere per sè, e il sussistere dell' essere, e aver l' essere, [...OMISSIS...] , e questo non è senza materia, benchè l' essere per sè sia da ogni materia purissimo (2). Il primo necessario adunque giace nel semplice ed universalissimo: questi sono i primi che tutti si riducono ad un primissimo, l' essere , il quale è il primo tra le cose scibili e verissimo, da cui procede all' altre cose l' essere scibili e l' essere vere; e questo essendo separato da ogni materia è intelligibile e intellezione ad un tempo: atto purissimo, causa finale, verso a cui tutti gli enti mondiali sono portati per un loro proprio impeto, [...OMISSIS...] , in tutt' essi insito per natura (3): questo è l' Essere necessario, il principio da cui pende il cielo e la terra (4), Iddio. Questo è il principio di tutte le cause, [...OMISSIS...] (5), e unisce in sè tutti i caratteri del principio, essendo egli il primo , pel quale o sono, o si generano, o si conoscono le cose (6). In quanto sono, egli è la forma delle forme, perchè Mente, [...OMISSIS...] (1): in quanto si generano, egli è il principio immobile del moto, perchè atto purissimo: in quanto si conoscono, egli è il primo intelligibile, da cui i principŒ del ragionamento, e quindi stesso il principio dell' Arte: dall' essere poi intelligibile procede che sia anche la causa finale, il desiderato dalle intelligenze, l' ottimo, il fine dell' Universo. Dopo di ciò s' intende come, secondo la mente d' Aristotele, convenga rispondere alla difficoltà che egli fa incessantemente intorno al definire il proprio oggetto della prima filosofia. Questa, dice, deve trattare indubitatamente de' principŒ e delle cause. Ma questi principŒ sono essi singolari o universali? [...OMISSIS...] Ci ha dunque da amendue i lati difficoltà: ci ha difficoltà ugualmente a dire che i principŒ sieno singolari, come a dire che sieno universali. Aristotele scioglie questo nodo al modo che vedemmo: riconosce tutto ciò, che è privo di materia, come un' essenza o specie singolare ed una, e, se trattasi della specie prima, come esistente di necessità separata, [...OMISSIS...] , poichè il primo necessario semplicemente è, [...OMISSIS...] (3). Ma questo che in sè stesso è attualissimo e non ha modi nè possibilità di contrari; se si considera rispetto alla natura e nella natura, non è nessuno degli enti naturali, ma è tutti gli enti naturali in potenza. Poichè « « l' universale, dice, è un certo tutto; comprendendo l' universale i molti come parti »(4) »: e quindi la prima filosofia appunto perchè ha per oggetto il primo e il comunissimo, tratta di tutte le cose, [...OMISSIS...] . Il Primo dunque cioè l' essere attualissimo in sè, è anche comunissimo rispetto al mondo, e però è la potenzialità del mondo, che esiste per questo, che gli atti, a cui questa potenzialità trapassa naturalmente, sono variamente limitati e non sciolti al tutto dalla stessa potenzialità, onde le specie mondiali: per il che l' essere intransmutabile (e veramente anche nel mondo l' essere è incorruttibile, e intransmutabile), è detto da Aristotele «pan,» e questo è il divino del mondo, [...OMISSIS...] (1). Ma sebbene l' essere comunissimo sia la causa e il principio formalissimo di tutti gli enti naturali, non è la loro essenza sostanziale, o la loro quiddità, che in tal caso sarebbero tutti un ente solo, perchè l' essere comunissimo è un solo, nè è separabile dagli enti naturali, non potendo esistere separato come comune (2), ma soltanto come singolare. Lo stesso essere dunque, uno di specie (3) perchè specie, è considerato da Aristotele sotto due riguardi o come atto purissimo o come potenza. Come atto purissimo è il primo ente, Dio. Come potenza è l' essere comunissimo, non sostanza, e non separato dalla natura (4). Ora ciò che è in atto e ciò che è in potenza, dice Aristotele, appartiene allo stesso genere. Ogni scienza ha per suo oggetto un genere. La filosofia prima dunque ha per oggetto l' ente come ente, sia questo considerato in atto o in potenza. Tratta dunque di Dio e dell' essere comunissimo: e riducendosi all' essere come essere tutte le cause, c' è una scienza sola di tutte le cause non meno nell' ordine della mente, cioè nell' ordine logico, che nell' ordine fisico cioè nell' ordine della natura (1). Non ho fatto menzione fin qui del frammento che ci rimane della « Metafisica » di Teofrasto, coll' intenzione di darne qui in fine un breve sunto. Per quanto a noi pare, il discepolo non s' è scostato molto dal suo maestro, e ci sembra piuttosto un compendiatore e un interprete d' Aristotele, che un filosofo che abbia voluto stabilire un' altra dottrina. In questo prezioso frammento sono proposte le principali questioni, ed esposte le difficoltà per scioglierle: ma la soluzione di esse o manca, o è indicata appena in poche e non sempre chiare parole: nel che pure non va lontano dalla maniera nella quale sono scritti i « Metafisici » aristotelici. Comincia da quelli che al modo d' Aristotele chiama «ta prota». Dice che, secondo la sentenza d' alcuni, i primi non possono esser raggiunti da' sensi, sono intelligibili, diversi da ciò che è nella natura perchè immobili e immutabili. Laonde la teoria di questi è la più eccellente e maggiore. Ciò posto, espone per ordine le diverse questioni intorno ai primi , alle quali si riduce quella che Aristotele chiama prima filosofia. Ripassiamole brevemente. Comincia da questa questione: « Se gl' intelligibili abbiano un certo consenso e quasi una società colle cose della natura, o no ». Quest' è in fatti la questione di tutte principale e difficile, il poter conoscere ed assegnare il nesso tra il mondo e i primi , tra la natura reale e l' ideale: a questa principalmente si volse la greca filosofia: noi abbiamo veduto quanto Aristotele vi si travagliò. Da diversi luoghi dello Stagirita si raccoglie che tra i migliori filosofi, cioè tra quelli che ammettevano la mente, c' era dissensione circa la soluzione da darsi: due erano le sentenze principali, quella d' Anassagora e quella di Platone: e tra queste prendeva il suo posto Aristotele. Anassagora aveva unita la mente alla natura, Platone separò al tutto dalla natura le idee delle cose naturali, come essenze da sè esistenti. Aristotele concesse a Platone che ci sia una specie separata, la mente; negò che le specie intelligibili delle cose, benchè eterne e semplici, esistessero separate e da sè, ma solo unite perpetuamente colla materia e costituenti la natura. Del pari concesse ad Anassagora che la mente fosse nella natura, perchè c' erano le specie intelligibili, una delle quali si costituiva da sè, e diveniva mente umana; ma negò contro di lui che altra mente non esistesse, e pose la mente divina o più menti divine separate dalla natura e da ogni contagione con essa. Disse poi che il nesso tra questa mente separata e la natura consisteva nell' esser ella sostanza per priorità, e per posteriorità così chiamarsi la mente umana e tutte l' altre essenze sostanziali. Al che sembra conforme la risposta che soggiunge Teofrasto alla proposta questione: [...OMISSIS...] Ammessa dunque l' esistenza eterna de' primi intelligibili e la loro società colla natura, viene la seconda questione: « « Qual sia la natura di questi intelligibili » ». Fa qui menzione di due sentenze, l' una che ammette essere i detti intelligibili nelle sole entità matematiche, che sono punti, linee, figure, ecc.: l' altra essere il numero, che alcuni, dice, fecero « « il primo e al sommo principale » ». E trova l' una e l' altra insostenibile, perchè tali cose non presentano sufficiente cognazione co' sensibili, che valgano a darne spiegazione, non potendo somministrare a' sensibili nè la vita, nè il movimento. Di che conchiude che convien ricorrere « « a un' altra essenza antecedente e più prestante » » lasciando però in dubbio « « s' ella sia una di numero o di specie o di genere » », dove si vede la perpetua esitazione aristotelica, di cui abbiamo fatto menzione. Riconosce però che quella essenza, sebbene esistente in più subietti, deve esistere avanti tutto in un primo . Così pure Aristotele che pone il divino negli enti naturali, e in certe essenze o menti separate, ma primieramente nella Mente suprema principio del moto, principio unico di numero, ma specie egli stesso. Ecco come Teofrasto compendia questa dottrina: [...OMISSIS...] . E venendo a indicare la connessione di questo principio coi sensibili, la trova nell' essere esso causa di moto, ma causa immobile, onde esige un altro, che, desiderando quello, si mova il primo, e questo è il primo motore naturale - il primo Cielo. [...OMISSIS...] Qui propone diverse questioni sul natural desiderio che move da prima i cieli: e dice che il primo movimento è massimamente quello del pensiero, da cui l' appetito: domanda perchè solamente quelli che si movono in giro siano mossi da questo desiderio, e non le cose mobili che occupano la parte media del mondo. Domanda se questo avvenga per impotenza del primo, che non può trapassare, e dice che sarebbe assurdo: e pare lo attribuisca all' esser quel primo incomprensibile alle nature inferiori e non composto, quando queste sono composte; in una parola « « all' impotenza che hanno queste di ricever di più » ». Domanda in appresso se i principŒ sieno informi e indeterminati, ovvero già finiti e aventi la forma, come dice, si insegna nel « Timeo ». E inclinando a questa seconda sentenza soggiunge: « « Poichè l' ordine, e il finimento sono al sommo familiari alle cose eccellentissime » ». Ma oltre le sentenze di quelli che reputano tutti i principŒ essere formali, e di quelli che ammettono solamente principŒ materiali, Teofrasto accenna la terza di quelli che vogliono essercene degli uni e degli altri, e « « in amendue asseriscono consistere la perfezione, facendosi ogni sostanza dai contrari » ». Ma che ci sieno dei principŒ materiali pare non doversi ammettere; poichè se il cielo e l' altre cose sono determinate con ordine, ragione, forme, forze, e circuiti: come non ci sarà nulla di tutto ciò ne' principŒ? Conviene d' altra parte che ci sieno nella natura le specie, acciocchè si possano ridurre le cose naturali alla prima causa, in grazia di cui esse operano. Reca quindi la questione: « Se i principŒ sieno in moto o in quiete »: e mostra che colla quiete può stare un' azione immanente, e questa come cosa più onorabile appartiene a' principŒ, non il movimento che è de' sensibili: dice finalmente riferirsi da taluno il movimento « alla mente e a Dio »come primo motore. Cercando poi come si divida l' ente in materia e forma, dice, che questo accade per la natura dell' ente che è uno in potenza ed in atto, e di qui anche la ragione, perchè l' universo consti di contrari, e gli enti differiscano tra loro. Le differenze si riscontrano nello stesso sapere umano: gli universali, altri sono specie, altri generi. « « Ciò che diciamo propriamente appartenere alla scienza è d' intuire il medesimo ne' molti, o secondo un rispetto universale e comune, o secondo una qualche cosa singolare. - Il fine poi da entrambi questi rispetti. Ci sono anche alcune cose che sono fine degli universali: poichè qui sta la causa » ». E dice che il medesimo è medesimo o di essenza sostanziale, o di numero, o di specie, o di genere, o d' analogia: e questi sono altrettanti modi o generi di sapere, ciascuno de' quali ha qualche cosa di principale e di massimo : e questo c' è ne' primi , negli intelligibili , ne' mobili : da questo principio adunque in ciascun genere si dee discendere colla specolazione alle cose inferiori. Il che ben dimostra come il sistema aristotelico difficilmente possa ridursi all' unità di un solo principio: ond' anche gli scappano molte cose, che prive d' ogni ragione rimangono abbandonate al caso, a cui Teofrasto, fedele al suo maestro, ne lascia una gran parte. Confessa ingenuamente trovare cosa molto difficile il definire, che cosa sia lo stesso sapere: gli universali sembrano non bastare perchè si predicano in molti modi: i sensibili non costituiscono alcun sapere senza gli universali. Come e di quali cose investigare le cause tanto de' sensibili quanto degl' intelligibili, o conduce al dubbio o involge in un discorso assai oscuro. Certo tanto rispetto agli uni quanto rispetto agli altri nella ricerca delle cause non si può andare all' infinito: lo stesso sensibile e lo stesso intelligibile è come un principio: l' uno principio nostro, l' altro principio assolutamente, ovvero questo fine , quello a noi principio . Vuole dunque che per noi sia principio il sensibile, ma quello che è principio assolutamente e che è anche fine sia l' intelligibile. Pare dunque che queste due cose le divida assolutamente tra loro, assegni loro due principŒ irreducibili. Nello stesso tempo però riconosce che non possiamo partire da' sensibili per arrivare ai principŒ assoluti se non per mezzo della causa . Non è dunque da' soli sensi che noi caviamo la cognizione, ma dee precedere la cognizione della causa, e con questa, come mezzo del conoscere, possiamo da' sensibili ascendere ai primi : il che conferma quello che noi abbiamo osservato dell' induzione aristotelica, che suppone, acciocchè possa aver luogo, un intelligibile primo abitualmente esistente nell' anima. E` dunque notabile questo luogo di Teofrasto: [...OMISSIS...] . Ancora due altre sentenze di Aristotele si possono confermare con questo prezioso frammento del suo discepolo: l' una che le forme della natura non si potrebbero spiegare senza supporre l' esistenza di Dio, l' altra che esse vengono da Dio come desiderato, come fine a cui si slancia la natura, il quale slancio è appunto la forma di cui ciascun ente naturale si veste.

Gioberti e il panteismo

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Abbiamo distinto l' essere ideale dall' essere reale: questa è una distinzione importante, miei signori, una distinzione fondamentale in Filosofia, feconda di innumerevoli conseguenze: dobbiamo tornarci sopra, e il tempo che ci impiegheremo non riuscirà certamente perduto. Si dà dunque vera distinzione tra l' essere ideale e l' essere reale? La natura dell' uno è veramente distinta dalla natura dell' altro? Questa interrogazione, signori, potrebbe parere ad alcuni superflua. Infatti non vi ha nessun uomo sopra la terra, che non faccia questa distinzione più volte al giorno, e che non sia sì persuaso della sua verità che non rispondesse colle risa a chi mostrasse di negarla, o porla in dubbio. Quando il povero affamato va cercando la limosina, e pensa al pane ch' egli non ha, crederebbe d' essere schernito, e veramente sarebbe da chi gli prendesse a provare sul serio che quel pane ch' egli ha nel pensiero ma non ancor nella sporta, è perfettamente uguale di natura al pane reale che può acquetare i latrati del suo ventricolo. Se l' avaro mercadante potesse persuadersi che quelle ricchezze ch' egli volge in mente e che non ha ancora acquistate, fossero della stessa natura e condizione di quelle che riempieno i magazzeni e gli scrigni di altri che sono già ricchi, ei non si piglierebbe tanti fastidj, non farebbe col suo pensier tanti calcoli, non commetterebbe se stesso ben anche e le cose sue alle procelle del mare; ma tranquillissimo nella sua casa o nel suo casolare, o anche a cielo sereno, si riputerebbe ricchissimo in poco d' ora a sua voglia, ripensando tutti i tesori possibili e facendoli venir tutti ubbidienti innanzi al suo pensiero, come il pazzo d' Orazio. Il dire dunque che ciò che è meramente ideale non differisce da ciò che è reale, è un uscir dal senso comune degli uomini, e meritarsi un posto in qualche conservatorio d' uomini speciali. E che dunque? Sarà questa materia d' una grave lezione di Filosofia? Sì signori, e più che non si crede. Voi già qui mi prevenite col pensiero: voi vi sovvenite degli scherni gettati a piene mani da Vincenzo Gioberti sull' essere ideale del Rosmini, e non si può negare, che il seppe fare con eloquenza, o almeno con facondia. Molti ne rimasero incantati. Se il senso comune, miei signori, distingue accuratamente l' essere ideale dal reale, se non ne dubita punto, se giudicherebbe pazzo colui che dubitar ne volesse, non è così necessariamente de' Filosofi; tra questi soli, tra quelli voglio dire che sembrano quasi fare uno studio di pensare a rovescio di quanto pensa l' intera umanità, potè trovarsi chi negasse la distinzione dell' essere ideale dal reale, e che rendesse una verità pianissima come è questa, difficilissima ed oscurissima sino ad aver bisogno di molte parole e lunghe disputazioni a restituirla in quella luce, in cui si trova nelle menti del volgo. Ma onde mai una cosa sì strana? E` egli possibile che lo studio e la meditazione filosofica oscuri quelle cose che son sì chiare nelle menti di chi non istudia nè medita? Questo è un fatto, signori, ma non crediate che torni a scapito della Filosofia. Poichè s' ella da prima oscura le cose chiare, dissipa in appresso la caligine da lei stessa prodotta, e fa apparire assai più bella e più fulgente la luce. Io credo prezzo dell' opera l' osservare come avvenga che la distinzione dell' essere ideale e del reale si vada da prima oscurando sotto la meditazione filosofica e poi risplendendo d' un lume il doppio più vivo. Sapete voi dunque perchè v' ebbero e v' hanno de' Filosofi, i quali non voglion sapere della distinzione tra l' ideale e il reale? La ragione è questa. L' ideale e il reale appajono chiarissimamente distinti al primo pensiero che ad essi si volga, ma poi quando, meditandovi sopra, si vuole investigare altresì che cosa sia l' ideale, che cosa sia il reale, se ne vuol penetrar la natura e le doti, allora il Filosofo rimane sbalordito della difficoltà. Poichè altro è il sapere che l' ideale e il reale sono distinti, ed altro il penetrarne la natura intima e darne una definizione. Il Filosofo, o per dir meglio, colui che si applica all' investigazione filosofica, s' arena troppo sovente in questa seconda questione, e più si prova a definire il reale e l' ideale, più vi si affonda e vi s' inveschia, quasi come se camminasse su un terreno tutto di pania. Non è bisogno che io vi dica che questo nasce a cagione della limitazione della mente umana: ma è questa limitazione che tutti confessano in generale, che colui che filosofa stenta più che mai a confessare in particolare, a confessarla in se stesso, e a dire ingenuamente quel sapientissimo: « io non lo so ». Che cosa dunque fa egli? A dirvelo in termini proprj, s' irrita; non s' irrita contro se stesso, e non sarebbe nè pur questo cosa ragionevole; ma s' irrita contro la povera distinzione dell' ideale e del reale, che non ha la menoma colpa al mondo della sua confusione. Colui dunque che filosofando è pervenuto a tal termine, ragiona seco medesimo in questo modo: « Io non intendo che cosa sia questo ideale e questo reale , io non me li so definire; dunque collocheremo questa distinzione tra i pregiudizj volgari; la negheremo affatto; e poscia che il reale ci cade almeno sotto i sensi, diremo che tutto è reale , e che tutto ciò che non è reale, è un nulla, e ci daremo così il vanto d' appartenere alla scuola de' perfetti realisti ». Che ne dite, o signori, d' un così fatto ragionamento? Certo egli è spiccio a maraviglia, comodissimo a trarre del labirinto colui che vi si è perduto da se medesimo. Ma se vogliamo parlare sul serio, voi tutti direte meco, io credo, che il nostro Filosofo con questa conclusione che danna a morte spietatamente la distinzione dell' ideale e del reale, ha cessato d' esser Filosofo. Ma non vogliamo per questo cessar noi dal filosofare. Epperò sostituiremo un' altra conclusione, che sia veramente conforme al dettame della Filosofia, vengane che sa venire, dovessimo anche confessare la nostra ignoranza. Noi diremo dunque così: al primo sguardo del pensiero si manifesta evidentissima la distinzione dell' ideale e del reale: questa è ammessa ne' discorsi di tutti gli uomini; e se non l' ammettessero, cesserebbe la loro attività, chè gli uomini non s' affaticherebbero più a procacciarsi quel reale che risponde all' ideale delle loro menti, se questo secondo fosse della stessa natura del primo. Dunque riceveremo questa distinzione prima di tutto come un' innegabile verità. Poi senza alcun timore, volgeremo sopra di essa la nostra meditazione, tentando di conoscere il più addentro che mai per noi si possa la natura del reale e dell' ideale; e dopo aver fatte tutte le prove, qualora ci riuscissero indarno, confesseremo bensì ingenuamente la nostra ignoranza, ma non ne indurremo per questo che la distinzione già stabilita sia divenuta un bel nulla, non dandoci l' ignoranza nostra diritto di negarla, ed essendo principio certissimo di buona logica, che quando è dimostrata di una cosa qualsiasi l' esistenza, non può più recarsi in dubbio pel solo motivo, che ella si abbia una natura assai misteriosa e impenetrabile al veder vostro. Molte sono le cose arcane nella natura, nè per questo il Fisico nega o gli enti o i fenomeni, di cui non può discoprire le ragioni e le leggi. E qui osservate, o signori, che l' escludere la distinzione del reale e dell' ideale per le difficoltà che si trovano nello spiegare questi due modi di essere, non è solo un peccato contro la logica, ma è un peccato altresì, se mi lice così parlare, contro la moralità del Filosofo. In fatti, è dover del Filosofo l' esser coraggioso e costante nelle ricerche, il non darsi per vinto così facilmente; e quando gli pare di non potere andare più avanti da se medesimo, ancor non dee disperare, ma dee dire modestamente: « quello che non s' è trovato, forse si troverà; quel che non riesce a me di scoprire, forse lo discopriranno altri più acuti o più fortunati di me, che verranno dopo di me ». L' avvilirsi è dunque peccato, come vi diceva, contro la moralità filosofica; il dire: « quello che io non ho saputo trovare, neppure dagli altri si troverà »è una superbia ed una ingiuria che si fa a tutto il genere umano. Il dire: « quello che io non intendo non esiste »è un peccato contro la verità, un peccato grande che distrugge tutto il sapere, giacchè tutto il sapere è pieno d' arcani; e distrugge la religione, giacchè la religione è piena anche essa di misteri. Lungi da noi, miei signori, un tal procedere: ed è perciò che noi da una parte ammettendo come certissima verità la distinzione dell' ideale e del reale, perchè attestata da tutto il mondo, ed evidente al primo pensiero; vogliamo dall' altra con tutto il coraggio, che c' infonde l' amore della Filosofia, rimetterci nella difficile investigazione: « che cosa sia il reale, che cosa sia l' ideale: in che l' uno differisca dall' altro » e fare l' estremo di nostra possa per discuoprirlo. Nè perciò teniamo la taccia di temerarj, che il nostro coraggio s' accompagna alla rassegnazione filosofica, per la quale quando anche le nostre ricerche non fossero coronate di felice successo, saremmo contenti di noi medesimi, avendole fatte, nè perciò detrarremo punto nè poco al vero già stabilito, che l' ideale è distintissimo dal reale. Ma abbiamo noi poi almeno qualche speranza del buon successo delle nostre ricerche? Il buon successo di ricerche filosofiche può aver più gradi, miei signori. Guai a quel Filosofo che vuol conoscer tutto: che gli pare di non conoscer niente, se non conosce tutto affatto nell' oggetto di sue ricerche! Questi non sarà mai soddisfatto, colpa la sua presunzione. Voi sapete il detto del Montaigne, che « « l' uomo non conosce tutto di niente » ». Non saremo noi dunque di questi presuntuosi, no; non conosceremo tutto, lo sappiamo innanzi, ma questo non torrà punto che noi non abbiamo fatto guadagno di scienza, se solo arriveremo a conoscer qualche cosa di quel che cerchiamo. E qualche cosa io confido che noi ricaveremo nella ricerca che stiam per fare. Accingiamocene adunque con tutta fiducia. E poscia che lo scandalo di que' Filosofi che negano la nostra distinzione, nasce da quell' ideale che par loro sì tenue, sì esile, sì aereo da scappar loro di mano ogni qual volta vorrebbero prenderlo, palparlo, pesarlo sulla bilancia, noi cominciamo ad osservare, com' egli sia una cosa assai più eccellente, più grande, più consistente, più vera dello stesso essere reale. Ed anche qui prendiamo a nostri maestri non le solitarie opinioni de' Filosofi, ma le persuasioni dell' umanità intera. Venga qua Raffaello, venga Canòva: voi vedete che io non chiamo in mezzo a noi dei Filosofi, ma degli artisti. Interroghiamoli: « come fai tu, o Raffaello, a produrre quei quadri divini; come ti conducesti a darci la Trasfigurazione o lo stupendo quadro dello Spasimo? E tu, o Canòva, come potesti fare stupire tutto il mondo coi tuoi lavori! Dove trovasti tu il monumento di Rezzonico, o quel di Cristina? »I due artisti ci dicono in pieno accordo, che essi dipinsero e scolpirono i loro capilavori impiegandovi la testa e le mani. Notate bene non le mani solo, ma prima la testa. Ma che c' entra qui la testa, trattandosi di cose materiali e reali, come sono tele e colori, marmi e forme? Al sentire questa interrogazione da noi Filosofi, davvero che que' due grandi sorriderebbero; giacchè non a' filosofi solamente, ma al mondo tutto è notissimo, che nè Raffaello potea colorire i suoi quadri se non gli avesse prima contemplati colla mente, nè poteva Canòva senza il concetto ideale dar vita a' suoi marmi immortali. Qual fu dunque l' opera che prestò la mente ai grandi artisti, e quale fu quella che prestò loro la mano? L' opera della mente fu l' ideale concepimento, l' opera della mano fu l' esecuzione materiale e reale di quel concepimento; il primo di necessità tutto loro, il secondo tale che potè essere commesso parte a' loro discepoli, parte a materiali lavoratori. Ecco come questi maravigliosi lavori dell' arti belle, e tutte affatto l' opere artistiche, vengono prodotte dal concorso dell' ideale e del reale , nè l' uno solo di questi due basta a produrle. Spogliamo Raffaello e Canòva delle loro menti, lasciamo pur loro le mani; che faran esse? Nulla affatto di quel bello che tendono ad esprimere i lavori dell' arte. Priviamoli in quella vece delle mani, lasciando loro la sola mente: essi ci diverranno de' meri contemplativi, godranno da se soli la bellezza di quell' ideale a cui ascende il loro genio, ma il mondo non possederà più di loro nè una dipintura nè una statua, se pure non prendano a prestito le mani degli altri uomini. Se dunque a formar gli artisti concorre sì l' ideale che il reale e non basta uno di essi, ma vi vogliono entrambi, forz' è conchiudere che l' ideale e il reale sono due cose distinte. Ma non è questo che cercavamo: poichè questo l' avevamo ammesso. Noi cercavamo quale delle due cose fosse la più eccellente. Vediamo dunque che è più eccellente e più nobile nelle opere di Raffaello e di Canòva, l' ideale o il reale? Onde nasce più l' applauso dato alle loro opere? Dalla materia o dalla forma? Sono i colori che Tiziano, come rispondeva a chi gli domandava dove ne trovasse di così belli, comperava a Rialto, sono i marmi che il Canòva prendeva nelle miniere di Carrara, ovvero è il concetto sublime di cui il colore e il marmo si fa espressione ed indizio? Io credo che non faccia bisogno di grande penetrazione per riconoscere che le opere delle arti non si pregiano che pel bello , e che il bello non giace che nella idea che dalla mente si contempla, e che per questo oggetto interior della mente piace la materia esteriore, come quella che se ne rende veste e segno sensibile, e alla mente altrui lo suggerisce e risveglia. Poichè chi dicesse il contrario, dovrebbe anteporre le mani alla testa; giacchè le sole mani hanno per loro oggetto il reale, come la mente ha per oggetto suo l' ideale. Il reale dunque nelle opere delle arti belle non è che il segno sensibile, il veicolo, il mezzo pel quale lo spirito umano piglia il volo verso le regioni dell' ideale, e giunge a goderne l' eccellenza eterna, che l' inebria talora e il fa entrare in un divino furore, come dicea Platone, e che bello si chiama; onde le bestie, perchè prive della mente, e quindi inette a giungere fino all' idea, non traggon diletto nè dall' opere di Raffaello, nè di Canòva, nè d' altro artista, applaudite come maravigliose da tutto il genere umano. Questo rapporto dunque tra l' ideale e il reale, che nei lavori delle arti belle si congiungono e costituiscono propriamente il bello artistico, è ammesso da tutto il mondo: tutto il mondo ammira la mente sublime de' grandi artisti; e non già le mani, riconoscendo così l' eccellenza infinita dell' ideale sopra il reale: tutto il mondo cerca nelle opere delle arti non la materia, non i materiali colori prismatici, o le loro tinte, non il marmo nella sua lucidezza; ma cerca ciò che queste materie reali esprimono; cerca ciò che ha contemplato l' artista prima ancora di trovare la materia reale, e d' atteggiarla in modo da fare, che mediante la stessa così atteggiata, tutti gli altri uomini vedessero quello stesso che egli vide prima ancora di così atteggiarla. Il che è tanto vero, tanto conseguente alla natura essenziale dell' intelligenza, che ogni qual volta ne incontra di rimirare qualche insigne lavoro d' arte, tosto noi dimandiamo chi ne sia stato l' autore, essendo impossibile concepire che sussista qualche essere reale ben ordinato, senza che quell' ordine che in se dimostra non sia preso per vestigio d' intelligenza e quindi ci richiami a una causa intelligente, il che è quanto dire, a una mente, in che l' idea di lui sia preesistita. Onde quanto è maggiore la perfezione e la bellezza che noi contempliamo in un qualche reale, tosto conchiudiamo dover essere esistito un ideale corrispondente, dal quale sia venuta al reale, come da tipo o causa esemplare, la sua perfezione. E ciò non meno dell' opere della natura che dell' arte: onde il gentil Filosofo fiorentino dalla bellezza della sua donna argomentava all' altezza di quella mente divina in cui se ne doveva contener l' idea prima ancora che Laura nascesse, dicendo elegantemente così: [...OMISSIS...] E voi vedete che quest' è, miei signori, il fondamento, per cui nel creato vede la mente vostra i vestigj della divina intelligenza, e così argomenta all' esistenza del Creatore. E` dal reale che ella va all' ideale; poichè il reale dipende dall' ideale come da causa; e giunta all' ideale conchiude all' esistenza di una mente in cui si trovi. Laonde coloro che vogliono distruggere l' ideale e dichiararlo un nulla, o una mera appartenenza dell' umano soggetto, facendo ogni cosa reale, tolgono via l' argomento ammesso da tutte le genti, pel quale dalla natura reale si conchiude all' esistenza di una prima intelligenza, causa del tutto, cioè di Dio. E qui già noi vediamo, e possiam compiacercene, che le nostre indagini non furono infruttuose, poichè da esse noi possiamo raccorre almeno questi due veri indubitabili; 1 che l' ideale è cosa molto più eccellente del reale; 2 che il reale ha una dipendenza dall' ideale, come da una sua causa, cioè dal suo tipo od esemplare, senza del quale il reale, almeno il reale ordinato, non potrebbe pur concepirsi. Prima di procedere più avanti, gioverà qui sciogliere una obbiezione che sarà nata forse nelle vostre menti. Io diceva che il progresso naturale del pensiero che contempla le opere dell' arte e della natura si è di andare dal reale all' ideale, e dall' ideale alla mente dell' artista, che viene lodata come più sapiente in proporzione che questo ideale ha più o men di bellezza. Di qui taluno dirà, che se questo progresso va a terminare in una mente, nella quale l' ideale si trova, termina conseguentemente in un reale, essendo reale la mente dell' artista, e che perciò non si giunge mai al solo ideale; che dunque non esiste l' ideale senza il reale. Ma chi ha mai detto che esista l' ideale senza il reale? Non confondiamo le proposizioni, non iscambiamole: il senso comune degli uomini ci dice bensì, che l' ideale e il reale sono distinti, che sono due modi diversi, ma non ci dice mica, che possano trovarsi assolutamente separati. Altro è due cose esser diverse, altro è non aver nesso alcuno che le congiunga. La causa e l' effetto sono diversi; ma si può egli dare l' effetto senza la causa, o la causa senza l' effetto? La materia viva qual si trova nell' animale è un' entità diversa dalla vita che la informa, ma si può egli dare la materia viva senza la vita, o la vita animale senza che avvivi alcuna parte di materia? Le cose che si trovano in natura congiunte sono innumerevoli; ma non ne vien mica da questo, che l' una si possa confondere coll' altra, che perdano le loro distinte essenze, e che il nome che dal senso comune viene imposto all' una di esse, si possa applicare all' altra. Voler confondere in una sola due cose per la ragione che l' una non può star senza l' altra non è proceder con buona logica. Noi siamo i primi a dire che l' essere ideale non può stare senza il reale; che l' idea è in un soggetto reale che viene da lei illuminato; noi diciamo anche di più, benchè la cosa non paja colla stessa evidenza, diciamo che nè pure l' essere reale può stare senza l' ideale. Ma crederemmo d' essere assai meschini ragionatori, se da questo volessimo indurre, che dunque l' essere reale è ideale, e così cadessimo nell' idealismo. Infatti se la maniera di ragionare dei nostri avversarj fosse buona, cioè se dall' esser congiunto il reale e l' ideale se ne potesse indurre che dunque ogni cosa è reale, sarebbe buona egualmente per farne risultare l' opposto, cioè per indurne che ogni cosa è ideale. Si conceda dunque che l' ideale sia nel seno del reale; ma se ne mantenga la distinzione, che è quella sola che il senso comune proclama, e che d' altra parte si può dimostrare per infiniti argomenti. Poichè davvero, che ciò che abbiam detto delle arti belle si può estendere egualmente a tutte le arti meccaniche, a tutte affatto le invenzioni umane chè se l' ideale non fosse distinto dal reale, sarebbe impossibile far qualche nuova invenzione. Si sarebbero trovati i battelli o i vagoni a vapore, se non ci fosse stato prima qualche uomo che avesse concepite queste cose idealmente, quando ancora non esistevano in realtà? Confondere dunque l' ideale col reale è toglier via il mezzo con cui si sono fatte, si fanno e si faranno tutte le invenzioni umane. Ma, si replica, l' ideale è però nella mente la quale è reale. Sì certamente; ma non è la mente, come il raggio del sole non è l' occhio. E` vero che l' occhio non vede senza il raggio, che ha bisogno di esso per uscire al suo atto; ma non è mica vero perciò, che l' atto dell' occhio sia la sostanza luminosa: qualora almeno non si volesse tornare a quegli antichi che credevano che noi co' nostri occhi balestrassimo le cose, emettendo i raggi quasi altrettante freccie che le colpissero. Nè ci vuol molto a chi si contenta d' osservare la cosa come è, senz' alcuna perturbazione, a distinguere la mente dall' idea che è nella mente, giacchè la mente è una sola, e le idee sono pure moltissime. E poi prendiamo un' idea: sia l' idea d' un uomo. Che cosa è l' idea d' un uomo? E` un uomo ideale, il tipo d' un uomo, un uomo contemplato nella sua possibilità. Or non ripugna egli a dire, che la mente sia un uomo contemplato nella sua possibilità, sia un uomo possibile? Anzi ella è reale, per consenso dei nostri avversarj, che voglion tutto reale; dunque essa non è l' uomo possibile. Quando l' artista forma nella sua mente un disegno, che poi eseguisce al di fuori colla materia, si dirà egli che abbia eseguito al di fuori la sua mente? La mente dell' artista non si può eseguire al di fuori, è già eseguita, è già sussistente: ma l' idea sì: dunque la mente non è l' idea, e l' idea non è la mente. E chi non sa che l' atto è sempre distinto dall' oggetto e scopo dell' atto? Altro è l' atto con cui io scrivo, e altro è lo scritto che resta in sulla carta; altro è lo sforzo che fa il zappatore, ed altro è il movimento che egli dà alle zolle colla sua zappa, e così dicasi di tutti gli atti. Ma vediamo un po' più addentro la differenza che passa tra la mente e l' idea. Quando l' inventore del battello a vapore l' ebbe composto nella sua mente, non solo potè eseguirlo egli stesso, ma potè darne il disegno ad altri, e farlo eseguire da' lavoratori. Ora potea egli dare ad altri la sua stessa mente che ha inventato il battello, e farla loro eseguire di legno e di ferro? Non c' è qui assurdità e non7senso? Di più, non solo potè fare eseguire un battello a vapore da altri, ma potè farne eseguire quanti meglio gli piacque. E infatti, di battelli a vapore si copersero in breve tempo i mari ed i fiumi: e qual fu la regola, qual fu il tipo su cui si eseguirono tanti battelli? Sempre fu quella prima, quella originale idea del battello a vapore. L' idea dunque d' una cosa ha questa speciale sua qualità di poter essere eseguita replicatamente quanto si voglia. L' idea è unica; ma gli esseri reali che a quella idea corrispondono sono senza numero; perciò quell' idea si chiama universale: ogni idea è universale . Trovate voi questa stessa universalità nell' essere reale? No certamente, non potete; l' esser reale è particolare: ogni battello a vapore reale è in tutto diverso da ogni altro battello a vapore reale: un battello reale sussiste in sè così distinto dall' altro, che nulla affatto all' altro comunica; anzi lo esclude intieramente. Vero è che quando noi abbiamo una volta veduto un battello a vapore reale, ne possiamo fabbricare un altro simile a lui. Ma è forse il primo battello reale che abbiamo riprodotto? Niente affatto; egli non è atto a esser riprodotto, non è atto a moltiplicarsi. Si osservi dunque il processo pel quale noi abbiamo potuto formare un secondo battello a vapore. Egli è evidente, che, vedendo il primo battello a vapore, noi abbiamo potuto dal reale salire al suo ideale; ed essendoci in questo modo formato l' ideale nello spirito nostro, l' abbiamo potuto di nuovo eseguire esternamente e realizzare, per la proprietà che ha l' ideale d' esser causa esemplare d' infiniti individui reali. Se dunque ogni reale è particolare, ogni ideale è universale, egli è chiaro che sono non pur distinti fra loro, ma ben anco forniti di caratteri opposti. Ora si applichi questo stesso discorso alla mente che è un reale. Abbiamo veduto che ella non può riprodursi al di fuori di noi. Infatti, se supponessimo ch' ella si potesse realizzare al di fuori di noi, invece che l' inventore del battello a vapore avesse, mediante la sua idea, popolati i mari e i fiumi di battelli a vapore, egli avrebbe popolati i mari e i fiumi di altrettante menti simili alla sua; ed allora lascio pensare a voi che comodità avremmo avuto di viaggiare, come possiamo fare adesso che l' America si è avvicinata al continente antico da potervici trasferire in pochi dì. Di nuovo dunque, miei signori, egli è impossibile confondere la mente coll' idea, come è impossibile confondere qualsivoglia altro essere reale col suo ideale corrispondente. Noi abbiamo trovato dei nuovi caratteri che distinguono l' uno dall' altro, del tutto e per sempre, e queste distinzioni dobbiamo aggiungerle alle prime; e raccogliendo tutto ciò che abbiam detto, possiamo ricapitolarle così: 1 Il reale non è riproducibile nè realizzabile; l' ideale all' incontro ha per suo carattere la fecondità, la realizzabilità: 2 Ad infiniti esseri reali corrisponde un solo ideale; onde agli enti reali compete la denominazione d' individui reali , all' ente ideale all' incontro spetta la denominazion di specie: 3 Il reale è sempre particolare , l' ideale all' opposto un universale . Voi vedete, miei signori, che coll' idea non si può dunque confondere nè la mente reale in cui ella si trova, nè alcun altro ente reale qualsiasi. Ma troppe altre cose ci restano a dire in conferma di questa verità; molti sono ancora i caratteri diversi ed esclusivi, che noi possiamo osservare nell' essere ideale e nell' essere reale, e che ce ne dimostrano sempre più la distintissima natura. In tanto dall' aver noi osservato che il reale è sempre un particolare, e l' ideale è sempre un universale, possiamo dedurre importantissime conseguenze. Imperocchè se il reale è di necessità particolare, convien dire, ch' egli avrà tutte le condizioni del particolare, e che queste mancheranno all' ideale, ed anzi questo s' avrà le contrarie, perchè egli è universale. Ora le condizioni che rendono un ente particolare variano secondo la natura degli enti stessi, e tutte queste varietà mancan del tutto nell' ideale. Mi spiegherò con un esempio. Io vedo che la natura dei corpi è distintissima da quella degli spiriti; il corpo soggiace alle leggi dello spazio, lo spirito è semplice: ma ad ogni reale risponde un ideale; v' ha l' idea del corpo, v' ha l' idea dello spirito. Ma ditemi di grazia, vi par egli che l' idea del corpo differisca dall' idea dello spirito, come il corpo reale differisce dallo spirito reale? E` forse l' idea del corpo corporea, e quella dello spirito spirituale? No certamente, sono due idee della stessa natura; sono due esseri ideali ugualmente; l' una e l' altra è immune affatto dalla corporeità e dallo spazio. L' estensione dunque e la materialità conviene ottimamente ad alcuni enti reali; ma non conviene mai e poi mai alle idee. Eccoci adunque in mano un nuovo carattere che distingue le idee dagli enti reali, e che consiste nel non potere quelle giammai soggiacere alle leggi dello spazio, del moto e della corporeità, laddove l' ente reale può benissimo soggiacervi, perchè sono altrettante condizioni che lo particolarizzano e lo individualizzano, rendendolo sussistente. Lo stesso spirito, almeno lo spirito contingente e finito, benchè semplice come egli è, viene realizzato a certe condizioni che restano escluse affatto dall' idea. Infatti, se voi mi date uno spirito finito e reale qualsiasi, egli passerà dalla potenza all' atto, egli soggiacerà a diverse modificazioni e passioni, parte a cagione degli stimoli d' altri esseri che operano su di lui, parte in virtù della sua propria spontaneità: insomma anche lo spirito reale è mutabile, condizione che ha comune col corpo reale. Ma vi pare egli, rispondetemi dopo considerata bene la cosa, che si possa dire altrettanto delle idee? A primo aspetto può parere di sì; può parere che la nostra mente vada modificando le proprie idee, e trasformandole in altre, e così si suol dire. Ma esaminando accuratamente questa locuzione, è forse esatta? Noi troveremo che no. Quando ci pare di modificare un' idea e di trasformarla in un' altra, altro non fa la mente che trasportare la sua attenzione da un' idea ad un' altra, ma a condizione di tornare se vuole e quando vuole ancora sulla prima. Così, a ragion d' esempio, quando io penso ad un bracco o ad un segugio idealmente considerato, e poi vo cangiando l' idea del bracco o del segugio nell' idea d' un cane mastino, che ho fatto io, a propriamente parlare? Niente altro se non trasportare la mia attenzione da una specie di cane all' altra. Ho forse distrutto per questo l' idea del bracco, o l' idea del segugio? No certamente; elle restano quelle che erano prima nè più nè meno; a quella stessa maniera come quando io entrando in una vasta galleria, dopo aver veduto un quadro, passo a contemplarne un altro, e ne percorro tutta la serie. Ora egli è certo che venuto alla fine di essa, e fermatomi sull' ultimo quadro, benchè io non pensi più ai quadri precedenti, ma a questo ultimo solo, tuttavia non si dirà mai che io ho trasformati i quadri l' uno nell' altro, i quali restano tali quali erano prima appesi alle pareti ciascuno a suo luogo; onde se a me garba, posso tornare da capo a rivederli, o tutti o quelli che più mi piacquero. Così appunto è delle idee: la mente può contemplare queste e quelle, passare da una meno perfetta ad un' altra più perfetta, senza però aver distrutta la prima; tant' è vero che ne posso fare il confronto, e riconoscere che ella è meno perfetta della seconda. Dunque le idee sono immutabili . Ecco un nuovo carattare lucidissimo che le distingue dalle cose reali; l' immutabilità è propria di quelle, e la mutabilità di queste. Ma se le idee sono immutabili , osservate bene qual conseguenza ne viene: eccola: esse dunque sono eterne . E veramente prendete qualsivoglia idea, qualsivoglia ente e contemplatelo nella sua possibilità. Voi vi accorgerete a non dubitare, che questo ente possibile non è soggetto punto nè poco alle leggi del tempo. Infatti, si capisce benissimo, che un uomo particolare e reale che vive al presente, non vivea un secolo fa, e pure un secolo fa egli era possibile; ed era possibile ugualmente tanto avanti un secolo, quanto avanti una ventina o un centinajo di secoli. Dunque il tempo, relativamente all' essere ideale è nulla; esso nol fa invecchiare, nè il ringiovanisce; perchè, qualunque sia il tempo a cui noi ci trasportiamo, vediamo che l' essere ideale si sta lì uguale a se stesso, immutabile ed impassibile. Dunque l' essere ideale è di natura sua eterno , e non può soggiacere alla legge del tempo; che non c' è tempo dove non c' è successione, e non c' è successione dove non c' è mutazione: laddove l' essere reale può soggiacere benissimo alla legge del tempo, alla qual soggiacciono più o meno tutti, per poco, gli esseri reali che compongono l' universo. Finalmente è propria di tutte le idee ugualmente la necessità; poichè che cosa è il necessario? Il necessario logico di cui qui parliamo altro non è che il possibile . Ora il reale contingente può essere e non essere; ciò non involge contraddizione, e appunto per questo dicesi contingente. Ma anche quando egli non sussiste, ancora è possibile. La possibilità dunque del reale è così necessaria, che se tale non fosse, il reale non sarebbe possibile; ma il reale è possibile, come dicevamo, dunque la possibilità è necessaria. Ma il reale possibile non è che l' idea; dunque l' idea è necessaria. Ricapitoliamo, miei signori, e vediamo qual viaggio abbiamo fatto sin qui, qual frutto abbiam cavato dalla nostra investigazione volta a conoscere la diversa natura del reale e dell' ideale. Noi abbiamo prima veduto, che l' ideale non solo è un' entità distinta dal reale, ma che è assai più eccellente di questo; di poi ch' egli tiene natura di causa esemplare o di tipo, laddove il reale ha natura solamente di effetto e di esemplato. Vedemmo di più che l' ideale ha la qualità di essere riproducibile e realizzabile, che manca intieramente al reale; è uno mentre questo è molti: è universale mentre questo è particolare. Vedemmo finalmente, che l' ideale è sempre ed essenzialmente semplice, mentre il reale soggiace talora alle condizioni dello spazio e della materia; che l' ideale è immutabile ed impassibile, mentre il reale spesso soggiace alla mutabilità ed alla passività; che l' ideale è sempre ed essenzialmente eterno, mentre il reale soggiace spesso alla successione del tempo; che l' ideale finalmente è necessario, mentre il reale può esser contingente. Che direm dunque di que' Filosofi, che non sapendo concepir l' ideale, lo negano o lo soggettivizzano dichiarandolo un' opera, o una modificazione dello spirito umano? Non è egli anzi veramente assai più concepibile dello stesso reale? E se dei due si dovesse negare l' uno, non è egli chiaro che sarebbe un peccato filosofico assai minore negare il reale che l' ideale fulgente di tanti pregi? Ha dunque ragione il senso comune che proclama altamente queste due entità, e sì ben le distingue; ha ragione sopra i Filosofi di cui parliamo, perchè l' amor proprio non entra a fargli perdere la ragione e a fargli disconoscere la verità. Noi ci siamo resi assai volentieri a questa ricerca i discepoli del senso comune, procureremo di mantenerci tali nelle susseguenti. Noi abbiamo veduto, o signori, con che trista logica alcuni Filosofi vollero negare l' ideale, perchè non se ne sapevano spiegar la natura, o perchè l' ammetterlo cozzava col loro sistema. Possiamo chiamare questi Filosofi gli eretici della Filosofia, poichè essi si separano dal senso comune come gli eretici dalla Chiesa, e ragionano allo stesso modo. Infatti quando i protestanti si abbattevano in qualche libro delle Scritture ad una autorità manifestamente contraria al loro sistema, invece di abbandonare questo sistema, conchiudevano che il libro è apocrifo. Così Lutèro tolse dal canone delle Scritture la lettera di s. Jacopo, perchè il suo sistema escludeva le buone opere che quell' Apostolo commendava. Allo stesso modo i nostri Filosofi. L' ideale contradice al loro sistema; dunque le idee non esistono, o sono anch' esse realità. Così si spoglia la Filosofia delle verità più evidenti, unicamente perchè queste hanno la colpa di non conciliarsi cogli errori e coi pregiudizj. Noi abbiam detto di volere starci col senso comune, che ci par l' arca di sicurezza, e credemmo che ai nostri Filosofi bastasse opporre quest' autorità del genere umano per tutta confutazione. Assicurata così la verità non ci arretrammo però dall' instituire un' indagine più profonda, dall' affrontare le questioni « che cosa sia l' ideale, che cosa sia il reale »o almeno « quali siano i caratteri dell' uno e dell' altro, in che differiscano, con che rapporto si congiungano »; e nel tempo medesimo che ci proponemmo di condurre la nostra investigazione con quel coraggio che dee essere qualità dei Filosofi, ci facemmo altresì un dovere di escludere da noi quella presunzione che pretende di saper tutto, di trovar tutto, di dar ragione di tutto, disposti ad esser contenti dei soli nostri sforzi per giungere al vero, e molto più di quella porzione di vero che ci frutteranno, se pure a qualche risultamento riuscissero. Nè possiam dire, o signori, d' aver lavorato indarno: se la natura dell' ideale e del reale non ci si svelò intieramente, abbiamo però scoperti e fermati diversi luminosi caratteri che distinguono l' uno dall' altro, e che ci persuasero l' ideale non solo esser distintissimo dal reale; ma cosa più alta, più nobile, più manifesta di questo. Onde noi conchiudemmo, che qualora il Filosofo dovesse negare l' uno de' due, meno assurdo sarebbe negare il reale che l' ideale. Se non che nella conclusione del ragionamento io m' accorgo d' aver parlato inesattamente, e devo or correggere il mio errore. Dicevo che essendo l' ideale tanto maggior cosa del reale, egli è più concepibile di quest' ultimo, giacchè ciò che è più grande è anche più concepibile. Ma no, non è così ch' io dovea dire, miei signori; io doveva dire, che anzi il solo ideale è concepibile, e che il reale non è punto nè poco concepibile per se stesso, e se pur all' ideale non si congiunga. Questo è importante e degno di tutta la nostra meditazione. Considerando bene questa qualità dell' ideale di essere il solo concepibile, il solo intelligibile, se ne scopre la natura, epperciò egli è uopo che noi ce ne occupiamo, con tutta diligenza in questa lezione. Allorquando noi concepiamo un reale, p. e. un corpo o un sentimento, lo produciamo noi forse? Niuno, io credo, dirà che il conoscere sia lo stesso che il produrre, che il creare. Anzi ciascuno che non si tolga dal senso comune dirà che niun ente può essere da noi conosciuto come tale, se non sussiste: la sussistenza del reale precede alla cognizione che noi prendiamo di esso. E` egli possibile, che noi percepiamo ed affermiamo con verità una casa, un monte, un libro, non preesistenti? E quelle case, que' monti, que' libri, i quali ci sono ancora del tutto ignoti, non sussiston forse senza la nostra cognizione di essi? Dunque la sussistenza ossia la realità delle cose che si conoscono è rispetto a noi anteriore e indipendente dalla nostra cognizione. Badate bene, miei signori, che cosa da questo semplice fatto risulta. Risulta evidentemente, che nell' essenza del reale non entra punto nè poco la cognizione; che la cognizione di esso è un' entità da esso distinta. Dunque il reale, secondo la sua propria essenza, esiste senza cognizione, e questa nè lo costituisce nè lo produce, nè lo altera in modo alcuno. Dico che neppur lo altera: perocchè ditemi, o signori, le panche che sono in questa scuola mutano forse natura, o ricevono qualche modificazione quando da noi si conoscono, o non si resterebbero qui le stesse affatto anche quando noi ne ignorassimo l' esistenza? Dunque di nuovo la cognizione è cosa estranea alla natura del reale. Ma se la cognizione è cosa estranea alla natura del reale, dunque che cosa è il reale, qual è il suo carattere? Quello dell' oscurità, cioè d' essere per se stesso incognito. Se esso ha bisogno d' un' entità diversa da lui per essere conosciuto, dunque, separato da questa entità, rimane al tutto inconcepibile: infatti niente si conosce dove non c' è cognizione. Ora osserviamo se dell' idea si possa dire il medesimo. Vi par egli che un' idea abbia bisogno di qualche altra idea per essere concepita? No certamente; poichè un' idea è atta bensì a far conoscere se stessa, ma non mai a far conoscere un' altra idea, che è al tutto da lei diversa, e diversa per usare l' espressione d' Aristotele come un numero è diverso da un altro numero. Prendiamo l' idea del cavallo; or cercatene un' altra, sia pur vicina a questa quanto volete, sia quella dell' asino, sia quella del mulo, sia quella della giraffa: indarno; tutte queste idee non vi faranno mai conoscere l' idea del cavallo se non la conoscete avanti. Dunque ogni idea mostra se stessa senza bisogno d' altro: ella è dunque essenzialmente un lume , ella è essenzialmente concepibile. Mi direte, che anche l' idea, acciocchè si faccia conoscere, ha bisogno d' alcun che diverso da lei, cioè del suo reale corrispondente. Ma questa è un' illusione, miei signori. Primieramente notate bene quello che abbiam già detto, che ogni idea è diversa dall' altra, e che ciascuna è quello che è, immutabilmente uguale a se stessa, senza che possa esser mai modificata. Ora ditemi: quando il Canòva concepì da prima il Teseo, allora n' ebbe l' idea. Esisteva egli per anco il Teseo reale, che poscia il grand' uomo modellò e scolpì? No per certo; dunque quell' idea non ebbe bisogno della sua corrispondente realità per isplendere nella mente al Canòva. Ed osservate, che quand' anco il Canòva fosse stato sturbato dall' opera, e non avesse mai posto mano al colosso del Teseo, quell' idea non avrebbe meno illustrato la mente dell' artista, benchè sola, benchè scompagnata per sempre da quel reale che le rispondeva. Replicherete probabilmente, che il Canòva nondimeno trasse e compose l' idea del Teseo dagli enti reali da lui veduti. Ma fu appunto per prevenire questa obbiezione, che io vi chiamavo a riflettere, che un' idea che differisca anche menomamente da un' altra è già un' idea diversa e non quella. Ora ditemi: il Canòva vide certamente molti corpi umani e statue antiche; ma fra tutti i corpi e le statue vedute vide forse egli mai il suo Teseo? Vide altre forme, altre idee; ma quella del Teseo opera originale di lui, non potè vederla dovecchessia. - Ma egli se la compose mediante le altre idee tratte dai reali da lui percepiti - Sia pure; e poco appresso vedremo se il reale, il mero reale, gli abbia potuto somministrare, non dico l' idea del Teseo, ma un' idea qualsiasi. Ora mi basta per rispondere, che consideriamo attentamente che voglia dire « comporre un' idea coll' accozzare insieme altre idee, o parti d' idee ». Che cosa vuol dire comporre un' idea con altre idee, o parti d' idee? Vuol forse dire creare quell' idea che si compone? No, perchè le parti esistono. Ma io non dimandava questo: dimandava, se il tutto risultante da queste parti, se i nessi con cui queste parti si legano acciocchè divengano un tutto solo, sieno creati dalla mente dell' artista; se la convenienza di questi nessi dipende dal suo volere, se ella è arbitraria. Nel caso che si risponda di sì, egli è facile ravvisar l' assurdo che ne verrebbe: ognuno potrebbe esser grande artista, perchè ognuno ha l' arbitrio, e potrebbe congiungere le parti ovvero le idee elementari che non gli mancano, in qualsivoglia maniera. Infatti non solo il Canòva, ma tutti gli altri uomini possono aver vedute nella natura e ne' musei le stesse cose che vide il Canòva, e averne riportate le stesse idee. Dunque il Canòva non raccozzò le parti ad arbitrio, ma secondo certe leggi di convenienza dalle quali riuscisse la bellezza del tutto. Ma che mai sono queste leggi di convenienza? Di nuovo, sono elle forse create ad arbitrio? Prendiamone una tra tutte, non la principale, ma la prima che ci si offre. Gli artisti dicono essere conveniente a persona di donna l' aver piccole le mani, e che quella piccola mano è sommamente gentile, [...OMISSIS...] come disse l' Ariosto. Che cosa è dunque questa legge, che insegna a modellar bene una mano, tradotta in linguaggio filosofico? Non è altro se non l' idea d' una mano piccola a proporzione del corpo, priva d' inuguaglianze, dove tutte le linee vadano dolcissimamente incurvandosi. Avendo l' artista quest' idea o tipo in mente, egli quando vuol fare la statua sa come regolarsi. Ma come intende egli che la forma di questa mano è più bella di un' altra? Questa convenienza, questa bellezza, domando di nuovo, è ella arbitraria? se non è arbitraria, se non è l' opera della volontà dell' artista, adunque egli non la produce, egli non fa altro che contemplarla. Qual' è dunque la differenza tra lui e gli altri uomini, che non pervengono ad avere nella mente un' idea, un tipo sì bello? Niente altro può essere se non questa, che l' artista osserva i diversi tipi, le diverse idee possibili, più accuratamente e diligentemente degli altri uomini, e paragonandole insieme si ferma alla più bella, e la sceglie come regola del suo lavoro. Questo tipo più bello non esiste nè negli enti reali della natura, nè in quelli dell' arte; ma traendo da tali enti le loro idee niuna delle quali è perfetta, egli si giova di esse quasi di scala per salire alla contemplazione d' un' altra idea migliore, che anch' essa esiste eternamente come esistono tutte le idee; e basta che la mente le rivolga la sua attenzione perchè la vegga. Egli non potrebbe mica distinguere tra le idee rispondenti alle cose reali i pregi loro e i difetti, se non possedesse già prima nella sua mente una regola diversa da tali idee, secondo cui portar di esse giudizio, e scegliere il bello separandol dal brutto: e questa regola più elevata, precedente all' idee dei reali, è anch' essa, come dicevamo, un' idea, un tipo superiore. - Ma in tal caso l' artista non dovrebbe affaticarsi gran fatto a comporre il disegno mentale dell' opera sua, se egli già prima l' avesse nella sua mente e con un solo sguardo il potesse intuire. - Il dir questo è un non aver bene inteso la natura di queste idee superiori di cui si serve l' artista a giudicare della bellezza e deformità delle idee de' reali, e a scegliere ed accozzare le parti belle. Perocchè quelle idee superiori di cui parliamo, che sono altrettante regole che dirigono la mente dell' artista a intuire il disegno ideale dell' opera sua, non sono ancora che idee molto astratte. Così l' idea della mano piccola e senza disuguaglianze è ancora un' idea astratta che per se sola non basta alla mente dell' artista a formare la mano che si propone; ma basta sì a servirle di guida per immaginarla, e con essa convien che concorrano altre idee, altre regole pure astratte; p. es. quelle della proporzione tra la grandezza della mano e la grandezza del corpo, affinchè egli sappia quando la mano si possa dir piccola, quando grande. Ciascuna dunque di queste idee sono tipi astratti, che guidano la mente dell' artista per quella via che le bisogna a giungere finalmente alla contemplazione del disegno compiuto dell' opera sua, che, come dicevo, da niuno de' reali viene somministrato. Dunque la differenza tra la mente dell' artista e quella di un altro uomo non istà in questo, che la prima sia formatrice di belle idee, e la seconda non sia; ma in questo, che la prima è bene esercitata e conosce la via per giungere a contemplare l' idea perfetta, al che non vale la mente del secondo. Poichè niuna idea si può contemplare dalla mente umana, se la mente non giunge a far l' atto necessario dell' intuizione, a trovar quell' unica idea di cui si tratta, tra tutte le idee. E qui di passaggio giova osservare, che la mente che viene ammaestrata ed esercitata a dirigere la sua intuizione più tosto ad un' idea che ad un' altra, non potrebbe ricevere questa guida e questo ammaestramento, se non preesistessero in lei altre idee più generali di quelle che cerca; come egli è mestieri supporre che innanzi a tutte le altre idee men generali preesista quella che è universalissima, colla quale solo può misurare e giudicare le altre; la quale, come noi abbiam già veduto altrove, è quella dell' essere. Ma taluno insisterà tuttavia dicendo, che almeno le idee de' reali si cavano dai reali - No, miei signori, nè pur questo è vero. E come possono dare i reali quello che non hanno? Noi abbiamo veduto, che nell' essenza del reale non si trova punto nè poco la cognizione: se il reale c' è anche quando non si conosce, dunque la cognizione di lui è fuori della sua essenza. Se l' essenza del reale non ha la cognizione, neppure ha l' idea. - Come dunque accade che quando da' reali riceviamo le impressioni sensibili, noi li percepiamo intellettualmente, e solo dopo percepiti, ne abbiamo l' idea? Così l' idea del colore non si ha se non dopo essersi percepito il colore. - Il fatto è verissimo, ma si tratta di spiegarlo. Nella percezione del reale, non è mica il solo reale che opera in noi, operiamo anche noi stessi. Egli è vero che dopo percepito il reale co' sensi, noi ne abbiamo l' idea; ma posciachè in questo fatto gli agenti sono due, il reale e noi stessi, sta a vedere a quale de' due si convenga attribuire la comparsa dell' idea. Ora al reale percepito, no certamente, perchè nemo dat quod non habet: l' attribuiremo dunque a noi stessi? Certo che l' idea della cosa s' acquista mediante un atto proprio nostro, e non un atto del reale esterno; che le idee sono nostre, non sono del reale esterno. Ma questo non ci autorizza ancora a dire che la produciamo noi stessi con un nostro atto: per chiarircene non v' è altra via che osservare attentamente ed esaminare l' atto ond' acquistiamo la nuova idea. E` egli forse un atto di produzione? Non più di quello che sia un atto di produzione quello dell' occhio che vede gli oggetti corporei, anzi assai meno. L' osservazione interna ci dice, che l' idee s' intuiscono bensì, si contemplano, ma non si producono , e che acquistare un' idea non vuol dir altro, se non rivolgere e fissare l' attenzione della mente in essa. Questo risultato dell' osservazione ci è confermato ampiamente dal ragionamento, il quale ci mostra nelle idee tali caratteri, che eccedono ogni finita potenza, e sono quelli che abbiamo trascorsi nella precedente lezione. Se dunque le idee non si producono, nè si posson produrre dalla mente nostra, ma solo si riguardano e si contemplano, qual' è la parte unica che si può attribuire all' oggetto reale nell' acquisto delle nostre idee? Niun' altra se non l' aver egli eccitata e determinata l' attenzione del nostro spirito a intuire e riguardare l' idea che prima non intuivamo nè riguardavamo, e ciò mediante l' immagine che c' imprime nel sentimento. Di niun altro ajuto ha bisogno la mente, se non di un eccitamento e di una determinazione immaginaria a formare quell' atto con cui essa intuisce e riguarda piuttosto un' idea che un' altra. E se la cosa è così, dunque niente ripugna che si concepisca la possibilità d' una altra causa qualunque la quale muova la mente nostra a questo suo atto, senza bisogno del reale corrispondente all' idea; giacchè egli non fa che l' ufficio di stimolo e di guida allo spirito intelligente. E affinchè meglio si veda, come non sia il reale quello, che somministra alla nostra mente l' idea, si consideri dove mai la mente la intuisca. Se l' idea fosse nel reale, o se il reale ne fosse la causa efficiente, noi dovremmo intuirla nel reale, in quel luogo dove è il reale. Ma l' idea s' intuisce forse ne' reali? Prendiamo un corpo, un arancio che pende dalla pianta del giardino. L' idea intuita dalla mente quando quell' arancio cade sotto i miei sensi, pende forse anch' ella dall' albero del mio giardino? In questo caso io non potrei intuirla che andando nel mio giardino, non potrei intuirla se non nell' atto che guardo e tocco l' arancio, e se l' arancio cade dall' albero, cadrebbe con esso in terra anche la mia idea. Ma no; ella non è ristretta a luogo alcuno; tosto che la mia mente acquistò la prima volta l' abilità d' intuirla, la può intuire dovecchesia; l' idea non le manca mai ogni qualvolta le piaccia di darle attenzione: la trova da per tutto, in ogni tempo, anche quando l' arancio è distrutto. Dunque quest' idea non trovasi nel reale, nè dal reale può esser prodotta: ella è in se stessa, e la sensazione non ha fatto altro che render l' uomo atto a contemplarla colla sua mente, eccitandolo, dirigendolo, determinandolo. Ma per ispingere il ragionamento nostro a tutta l' evidenza possibile, supponiamo che il reale avesse virtù di produrre l' idea, e che perciò? La natura dell' idea non si rimarrebbe per questo quella stessa che è, distintissima dalla realtà? Certo che da tale ipotesi si avrebbe la strana conseguenza, che il reale sarebbe essenzialmente conoscibile. Ma la sua conoscibilità, la sua idea, sarebbe forse per questo lo stesso che la sua realità? Non ancora; chè il reale rimarrebbe sempre il conosciuto , ciò che si conosce, l' idea rimarrebbe sempre il mezzo di conoscere , ciò con cui si conosce. Vero è, che queste due cose si troverebbero insieme; ma non si potrebbero confondere, poichè il conosciuto e il mezzo di conoscere presentano alla mente due nozioni distinte, per modo tale che col solo mezzo di conoscere non si potrebbe dire che il reale esistesse, nè col solo reale si potrebbe dire che esistesse il mezzo di conoscere. Sarebbero in un tal caso la realità e l' idealità due attribuzioni che converrebbero ad uno stesso oggetto; non mai un' attribuzione sola; e infatti qualche cosa di simile si avvera in Dio, dottrina il cui sviluppo spetta alla Teologia. Sarebbe ancora l' ideale quello che fa conoscere il reale, sarebbe l' ideale solo il conoscibile e l' intelligibile per se stesso, e il reale avrebbe ancora bisogno di ricever la luce da esso; rimarrebbe ancora, che carattere proprio del reale fosse l' oscurità, e quello proprio dell' ideale l' intelligibilità. Rimarrebbe che la natura dell' ideale sarebbe indipendente dal reale in questo senso, che l' una attualità non sarebbe l' altra, nè l' una si confonderebbe coll' altra; benchè entrambi convenissero in un oggetto medesimo, sarebbero due essenze diverse. Sia pur dunque la sede dell' idea una mente reale, non ne verrà mai che la mente e l' idea sieno una cosa medesima, nè che la mente sia, in quant' è reale, conoscibile per se stessa; ma sempre e poi sempre per l' idea. Infatti, poniamo una mente che avesse le idee di molte cose, ma che pur le mancasse l' idea di se stessa: si conoscerebbe ella questa mente? Non mai. E questo non è un caso ipotetico; è quello che accade nei bambini: questi acquistano assai prima le idee delle cose esteriori che le idee di se stessi, che l' idea della propria mente. Dunque la mente, come essere reale, è anch' essa oscura a se stessa, è inintelligibile, ma poi si conosce mediante la riflessione, perchè si trova nell' idea prima ed universale, nella quale si segna come fa di tutte le altre cose che percepisce; nel che consiste il formarsi l' idea di se stessa. Concludiamo dunque: l' essere ideale è il solo concepibile, il solo intelligibile per se stesso, l' essere reale finito è per se stesso oscuro ed inintelligibile, e viene solamente illuminato dall' idea che ad esso risponde: differenza grande, immensa tra l' ideale e il reale, e che comincia già a rilevarci la natura stessa di questi due modi dell' essere. Infatti la natura dell' essere ideale , chi ben considera, altro non è che la stessa intelligibilità. Non si trova altro in lui. Se vi s' aggiunge qualche altra cosa, è un' aggiunta arbitraria, straniera, eterogenea, che gli toglie la purezza dell' esser suo, mescolandolo e confondendolo con ciò che non è lui. Voi vedete che siamo giunti, o signori, alla scoperta di un vero molto importante; siamo giunti a conoscer la natura dell' essere ideale, onde non ci possiamo pentire della perseveranza nelle nostre indagini. Ma qui dobbiamo stare avvertiti, per non perdere il frutto, che non forse l' immaginazione ci intorbidi il vero che abbiamo scoperto; giacchè noi esseri sensitivi, avvezzi a vestire d' immagini tutti i nostri pensieri, facilissimamente potremmo mescolare qualche immagine all' essere puramente intelligibile, il quale così contraffatto non sarebbe più desso, ci sarebbe già sfuggito di mano. Su questa avvertenza dovremo tornare altra volta; intanto proseguiamo il nostro lavoro. Se noi abbiamo in qualche modo scoperta la natura dell' essere ideale, possiam dire d' aver fatto altrettanto dell' essere reale? Non ancora, di lui non abbiam fin qui trovato che un carattere negativo, la mancanza di luce sua propria e, per così dire, l' opacità. Qui dunque si conviene spingere le ricerche nostre più innanzi: ma poichè tutto ciò che noi possiam conoscere dell' essere reale ci viene mediante l' idea, non ci resta che d' incominciare a vedere come si forma la cognizione di esso nel nostro spirito. Come avvien dunque che noi conosciamo l' essere reale? Egli è chiaro, che non possiamo conoscerlo allo stesso modo come l' essere ideale, appunto perchè questo è intelligibile per sua essenza, e quello all' opposto per il lume di questo. Dunque possiamo già sulle prime cavare a buon conto una utile conseguenza, la quale si è, che la cognizione dell' essere ideale è semplice, quando la cognizione dell' essere reale è necessariamente duplice: la prima non suppone che se stessa, la seconda, cioè la cognizione del reale, suppone la prima, suppone cioè la cognizione dell' idea. Dunque il primo, cioè l' essere ideale, si dee conoscere con un atto solo dello spirito; a conoscere il secondo cioè l' essere reale, ci vorranno necessariamente due atti, l' uno dei quali termini al puro ideale, l' altro pervenga fino al reale. Rimane ad investigare qual sia la natura di questi due atti. Ora quanto all' ideale, egli è chiaro che non si tratta se non d' un semplice sguardo dello spirito, come abbiam detto innanzi, e quest' atto lo chiameremo intuizione . Che cosa è che caratterizza quest' atto? Se ben si considera non è altro, se non che lo spirito vede un oggetto possibile, e in qualche modo lo sente, ma sentendolo non sente punto se stesso; lo sente senza sentire alcun rapporto di lui con se stesso, la qual maniera di sentire dicesi oggettiva , perchè ha un termine al tutto diverso dal sè intuente, e senza che involga alcun rapporto sentito col sè intuente. Nè si dica qui che l' idea intuita dallo spirito produce nello spirito stesso qualche sentimento di sè; poichè sia questo anche vero, resta sempre fermo, che questo sentimento di sè prodotto nello spirito non entra nè punto nè poco a costituire l' oggetto intuito, cioè l' idea di cui questa è appunto la natura, d' escludere, per ripeterlo, il sentimento che può aver di sè l' intuente e ogni rapporto sentito coll' intuente. Ma qual è poi l' altro atto con cui il nostro spirito perviene al reale? Non può esser certamente un atto simile a quello che abbiamo descritto, cioè all' intuizione dell' ideale, poichè se fosse simile, già il reale stesso ci si presenterebbe come l' ente ideale. Se dunque l' intuizione dell' ideale ha per sua propria natura che dall' oggetto intuito s' escluda il sentimento che l' intuente può avere di se medesimo ed ogni rapporto sensibile coll' intuente; al contrario sarà dell' atto con cui lo spirito giunge al reale. Dunque il reale sarà lo stesso sentimento del soggetto che percepisce, le modificazioni di questo sentimento, e tutto ciò che può cadere in questo sentimento. Conviene dunque che noi investighiamo che cosa sia quello che si comprende nella sfera del sentimento; e tutto ciò che si comprende in esso sarà reale. Che cosa si comprende dunque nel nostro proprio sentimento? Se noi consideriamo il sentimento quale l' abbiamo al presente nella nostra condizione di adulti, più cose vi potremo distinguere. Primieramente noi sentiamo in noi un principio unico, o piuttosto questo principio unico è lo stesso noi . Se il noi non fosse sensibile potremmo favellarne? Consideriamo, miei signori, che di ciò che non cade affatto nel nostro sentimento nè nelle nostre idee, è impossibile che noi ci formiamo alcuna cognizione. Questa è una verità d' esperienza, ed è ammessa da tutte le scuole. Ora l' idea, noi già lo vedemmo, non racchiude il sentimento stesso del noi; nè ha alcun rapporto sensibile col noi; e nondimeno noi pensiamo a noi stessi, e di noi stessi parliamo; dunque il noi deve esser sentito, deve esser un sentimento. Ma questo sentimento unico, fondamentale e sostanziale riceve molte modificazioni; queste sono le sensioni e tutti i sentimenti particolari ed acquisiti. Non basta: in noi stessi oltre sentire un' attività, noi sentiamo un' opposizione, una forza che ci modifica, la quale non è noi . Ecco una terza cosa che cade nel sentimento di noi stessi. Noi adunque, modificazioni sensibili di noi, forza estranea che produce queste modificazioni, eccovi tutta la sfera della realità a noi conosciuta. Ma fino a tanto che questa realità si rimane pura realità, puro sentimento, può ella concepirsi? Abbiamo già detto di no; abbiam veduto che l' oscurità è il carattere proprio d' ogni reale. Convien dunque per conoscerlo chiamare in ajuto l' idea. Ma in qual modo l' idea ci presterà questo servigio? Ciò che noi contempliamo nell' idea non è che la pura intelligibilità, come già vedemmo, del reale, non è ancora il reale stesso percepito. D' altra parte questo reale fino che non eccede la sfera del sentimento, è oscuro. In qual maniera adunque congiungendo l' idea che non mostra che il reale possibile, col reale sentito e non ancor concepito, si potrà venire a conoscere quest' ultimo? Convien trovare un nesso che congiunga questi due estremi, convien ricorrere a qualche atto dello spirito, quasi direi, mediatore tra il reale e l' ideale, tra il sentimento e l' idea. E quest' atto è appunto quello che noi cercavamo; è l' atto con cui dopo d' aver noi concepito l' ideale, giungiamo ancora a conoscer il reale. Come adunque quest' atto si fa? A chiarire la natura di quest' atto misterioso, noi dobbiamo prima di tutto porre a confronto l' ideale e il reale, e vedere se sia vero ciò che si suppone, che questi due termini del pensiero sieno del tutto dissimili e divisi tra loro da un abisso, onde non si possa pur concepire la loro congiunzione. Se attentamente noi li raffrontiamo, vedremo che la cosa non istà così come si suppone; anzi li troveremo più affini che a prima giunta non paja, ma in altro modo da quello che si può credere a prima giunta. Infatti noi abbiamo già osservato che ad ogni reale risponde un' idea. Che cosa vuol dir questo? Vuol dire che nell' ideale noi vediamo assai di quelle cose che nel reale possiamo distinguere. Egli è uopo vedere quali e quante sieno queste cose, e se ve n' abbia nel reale qualcuna che nell' ideale non possiamo vedere. Si prenda dunque un oggetto reale qualunque; sia un uomo. Nell' uomo reale io distinguo la testa, le mani e le altre parti del corpo. Ma io posso vedere che tutte queste cose sono anche nell' idea corrispondente: nell' uomo reale io distinguo il colore, le forme, le più piccole particolarità, se si vuole anche il numero de' capelli, la loro lunghezza, il color biondo o bruno o bianco di essi come possibili; il che è quanto dire, posso pensarli nell' idea. Si prenda qualsivoglia altro accidente, si passi all' anima, alle facoltà dell' anima, alle disposizioni speciali, agli atti suoi; e chi m' impedisce di formarmi l' idea di tutte queste cose? di vedere tutte queste cose nella loro idea? Non solo la sostanza dunque dell' uomo io posso contemplar nell' idea che gli risponde, ma ben anco tutti affatto i suoi accidenti; ed io sfido chicchessia a trovarne un solo che non sia idealmente concepibile. Tutto dunque ciò che è nell' uomo reale è anche nell' uomo ideale che vi corrisponde, e per conseguente vien ad esser vero anche il contrario, cioè tutto ciò che si trova nell' uomo ideale, si trova pure nell' uomo reale che vi corrisponde. Ma se la sostanza, le parti integrali, gli accidenti minutissimi di un ente qualsiasi si riscontrano egualmente nell' idea e nella realtà, son dunque tutte queste cose doppie, son elleno ripetute in natura, oppure sono elle identiche nella realtà e nell' idea? Che ci dice intorno a ciò, miei signori, il senso comune? Consultiamo il linguaggio, che è il deposito di sue persuasioni. Allorquando un signore per fabbricare un palazzo chiama l' architetto che ne formi il disegno, questi concepisce il palazzo in idea, e lo può divisare con tutte le possibili particolarità; può dire al padrone: in questo palazzo che a voi piace di edificare saranno queste sale, questi corridoj, queste scale; di questa forma, di questa misura; vi si impiegheranno a questi determinati luoghi questi marmi, questo cemento, questi legnami tagliati e squadrati a questa foggia, questo ferro, e così via enumerando tutte le minime particolarità del futuro palazzo: il palazzo intero con tutte le sue parti, con tutti i suoi minuti accidenti trovasi nella mente dell' architetto che lo disegna o lo esprime in parole. Or bene il palazzo sia fabbricato, sia bello e compito, così appunto come l' architetto lo ha concepito. Come parlava l' architetto al signore prima di metter mano all' opera? Questo e questo sarà il palazzo che voi edificherete. Come parla egli dopo che è edificato? Questo è il palazzo che voi avete edificato. Notate bene: adopera la stessa parola di palazzo tanto prima che fosse edificato e che non era che nell' idea, quanto dopo che è già edificato e che è in realtà, ed afferma che il palazzo edificato è appunto quello ch' egli ha concepito. L' identità del vocabolo usato tanto a significar l' ente nell' idea, quanto a significar l' ente nella realtà, mostra chiaramente che secondo il senso comune si considera identica l' essenza del palazzo che scorgesi nell' idea e l' essenza che si vede cogli occhi nella realtà. Dunque secondo la testimonianza del senso comune è identico l' oggetto della cognizione, sia egli ideale o reale. Ma nella cognizione del reale non vi ha egli qualche cosa di più che nella cognizione dell' ideale? - Sì certamente; altrimenti le due cognizioni non si distinguerebbero. Che cosa è dunque questo elemento che distingue le due cognizioni? E` ella forse la realità, ovvero si trova la realità stessa nell' idee? La risposta a questa questione ha due faccie; poichè si può rispondere tanto di sì quanto di no, sempre con verità, purchè la risposta si spieghi. Si può dire che anche la realità sia nell' idea, in questo senso che io posso pensare una realità possibile: ora se io penso una realità possibile, io vedo la realità nell' idea, conosco nell' idea che cosa sia realità. Ma si può dire medesimamente, che la realità non è nè può essere nell' idea, quando non si parla di realità possibile, che altro non è finalmente che l' idea stessa della realità, ma si parla della realità stessa . Infatti sarebbe una contradizione il dire che la realità stessa fosse nell' idealità; giacchè quando dicesi idealità, dicesi cosa possibile e non sussistente, non reale; onde verrebbesi a dire che in ciò che non è reale vi ha il reale, patente contradizione. Dunque la realità come tale è fuori dell' idea. Ma pure potrebbesi conoscere la realità senza l' idea? Che cosa vuol dire conoscere una cosa? Vuol dire sapere che è, saperne l' essenza. Ora nessuno sa che sia una cosa, se non ne ha l' idea; è nell' idea che si conoscono l' essenze di tutte le cose. Badate un po' come fa il medico quando visita un ammalato: se trova de' sintomi straordinarj e insoliti, egli dice: « io non conosco questa malattia; mi è nuova ». Che cosa vuol dire con ciò? Vuol dire che egli non ne ha ancora l' idea. Eppure trattasi di malattia reale, trattasi di conoscere un reale. All' incontro, se egli ha l' idea di questa malattia, dice tosto: « questo infermo ha il tal male; egli è la tisi, è il mal di pietra, è una cefalitide ». Come dice ciò? Di che mezzo si serve a rilevare la qualità di quel male? Non d' altro che dell' idea di esso che possiede nella sua mente. Dunque il reale si conosce per l' ideale, benchè nell' ideale non si comprenda il reale. Ma come lo si potrà conoscere se non vi si comprende? Come l' ideale mostrerà allo spirito quel reale che non ha in se medesimo? Noi dicevamo già, che anche l' essenza del reale si comprende nell' ideale ed è questa essenza che l' ideale rivela allo spirito. Questo è l' oggetto propriamente conoscibile per se stesso. Ma che differenza vi ha dunque tra il reale di cui si conosce l' essenza nell' idea, e il reale stesso fuori dell' idea? In quanto all' essenza conoscibile non ve n' ha alcuna; poichè essa, come dicevamo, è identica ed una; ma la differenza sta in questo, che il reale nell' idea è il reale in potenza, e il reale fuori dell' idea è il medesimo reale in atto. L' oggetto dunque è il medesimo ma è diverso il modo col quale egli è. Ciò che è in potenza infatti dee essere necessariamente diverso da ciò che è in atto, come dimostra questa stessa locuzione, che è anch' essa una locuzione non meno del senso comune, che di tutte le filosofiche scuole. Poichè quando io dico della stessa cosa: « ella è in potenza, ed ella è in atto »il subjetto del mio discorso non varia, anzi è del tutto il medesimo, io predico dello stesso subjetto ora la potenza ed or l' atto. Se non fosse così, io non potrei mai dire, che una cosa ora è in potenza , ed ora in atto , giacchè l' atto e la potenza sono relativi, e non potrebbero essere relativi se non riferendosi allo stesso subjetto; non si sarebbe potuto giammai distinguere la potenza dall' atto, se non si trattasse del subjetto medesimo in due stati e condizioni diverse. Ora tutto ciò che è in potenza è in atto, e tutto ciò che è in atto è in potenza; e nella potenza vi si comprende lo stesso atto; ma si noti bene lo stesso atto in potenza , l' atto possibile , il che basta affinchè si possa concepire quello che è. L' oggetto adunque della cognizione si conosce tutto nella potenza, se di essa abbiamo cognizione perfetta; e l' essere il medesimo oggetto ridotto all' atto non aggiunge nulla alla sua cognizione. Infatti, se il medico, per tenerci all' esempio addotto, altro non trova nell' infermo che cura, se non que' sintomi ch' egli già pienamente conosce perchè ne ha l' idea, egli non accresce menomamente la scienza medica che già possiede; giacchè il riscontrare realizzati i sintomi conosciuti nulla affatto aggiunge alle sue idee. Presupposte dunque nella mente dell' idee, nelle quali e per le quali lo spirito nostro conosce gli oggetti, il reale che è fuori di esse non aggiunge niente agli oggetti conosciuti dalla mente. Ma pure quando si viene a sapere che uno degli oggetti della mente sussiste realmente, si sa qualche cosa di più, che conoscendolo solo nell' idea. Che cosa è dunque questo più di cui si arricchisce il nostro sapere? Non è un' essenza, poichè l' essenza conoscevasi già nell' idea. Non è un oggetto nuovo, poichè l' oggetto scorgevasi nell' idea. Che cosa è dunque? - E` un' attuazione di quello stesso oggetto che nell' idea s' intuiva; è l' atto di ciò che prima si conosceva appieno in potenza. Ma si noti bene; non è già che si venga a conoscere con ciò l' essenza dell' atto; perchè questa essenza era nota avanti, contenendosi nell' idea. E` dunque quel nuovo atto, che essenzialmente si distingue dalla cognizione, che è fuori di essa e che perciò appunto si chiama reale . - Ma egli non è oggetto della mente, poichè se fosse oggetto già sarebbe contenuto nell' idea, dove l' oggetto è perfetto a tale che nulla vi si può aggiungere. Rimane dunque quest' atto relegato, per così dire, nel sentimento, senza che possa entrare punto nè poco a costituire la parte conoscibile, l' oggetto proprio della cognizione. Ma in tal caso si potrà dire con proprietà ch' ei si conosca? Sì, purchè però ci intendiamo, purchè si spieghi di che cognizione si parli. Egli non può aver natura di oggetto della mente, no, come risulta da quanto abbiam detto; non può dunque essere scopo dell' intuizione . Converrà dunque che la sua cognizione si acquisti per tutt' altro modo; vi dovrà dunque essere un altro atto tutto di diversa natura, pel quale lo spirito umano si persuada di conoscerlo. Ora quest' atto è l' affermazione , questo è un atto certo misterioso ed ha bisogno di schiarimento. Che cosa vuol dire affermare che un dato oggetto della mente sussiste? Vuol forse dire acquistare la notizia di quell' oggetto? No, poichè non si può affermare che un oggetto sussista, se l' oggetto già non si conosce precedentemente, come abbiam veduto che il medico non può affermare che la malattia del suo infermo sia il cholera morbus, se egli non conoscesse al tutto il cholera morbus, e non l' avesse sentito mai nominare. Affermare dunque che un oggetto sussiste, è quanto dire a se medesimo, che quell' oggetto che si conosce pienamente (come qui noi supponiamo), che si sa che potrebbe sussistere, effettivamente ha quest' atto di sussistenza che noi conoscevamo possibile. Ma che è quest' atto di sussistenza? L' abbiamo veduto, che egli si riduce sempre in ultimo ad un sentimento. Ora il sentimento è fuori della cognizione oggettiva, come noi abbiamo osservato; dunque affermare che un oggetto sussista è affermare che v' ha qualche cosa fuori dell' oggetto ideale della mente, qualche cosa che non è l' oggetto ideale della mente, e di cui nell' oggetto si conosce appieno la natura. Ma come posso io sapere, che fuori dell' oggetto ideale vi ha qualche cosa? Certo io nol potrei dire se io fossi un tal ente così affisso all' ideale, che fuori dell' atto dell' intuizione dell' ideale io non fossi nulla, non avessi altra attività. Ora io ho dell' altra attività anche fuori di quell' atto. Se tutte le mie attività si riducessero a contemplar l' ideale, io non esisterei, per così dire, che nell' ideale. Ma io ho indubitatamente qualche cosa che è fuori affatto dell' ideale; anzi io con tutto me stesso sono fuori dell' ideale, perchè io sono un sentimento sostanziale modificabile. Ora se io m' accorgo che sono fuori dell' ideale, e che fuori dell' idea sono le mie modificazioni e tutto ciò che cade nel sentimento; dunque io posso affermare, che fuori dell' ideale c' è qualche cosa. Ma si noti bene; di questo qualche cosa che è fuori dell' ideale, nell' ideale stesso c' è il tipo, che è quanto dire l' essenza visibile e manifestativa: l' atto stesso del mio sentire, che è fuori dell' ideale è manifestato dall' ideale in quanto che l' ideale ne mostra la natura. Se io non avessi l' idea non potrei conoscere certamente il mio sentimento; perchè non me ne sarebbe nota l' essenza, che nell' idea sola si manifesta. Ma posciachè questa essenza mi è data nell' ideale, io posso conoscerla ed affermarla in me stesso. Vero è, che affermarla in me stesso è lo stesso che dire che ella è in modo diverso da quello che è nell' idea; ma questa cognizione stessa mi è data nell' idea, perocchè conoscendo io nell' idea la natura del sentimento, conosco altresì che il sentimento è di tal natura, da poter, anzi da dover esser fuori dell' idea. Che cosa dunque mi fa bisogno, affinchè io possa affermare che io sussisto e che sussistono le cose che operano in me? Nient' altro che l' esperienza, il sentimento medesimo; giacchè conoscendo io nell' idea questo sentimento, ed io stesso esperimentandolo, mi accorgo che quel sentimento, quell' ente che conosco possibile, opera, passa all' atto, il qual atto so che è fuori dell' idea, perchè l' idea stessa lo dice. L' unità dunque e l' identità mia propria, per la quale d' una parte io contemplo la natura del mio sentimento nell' idea, dall' altra provo ed esperimento il sentimento medesimo, fa sì ch' io conosca come quel sentimento che già mi è noto, attualmente sussiste, cioè a dire, lo affermi . Questa maniera di cognizione dunque che acquisto del reale, è necessariamente una cognizione oscura, e quasi direi una negazione di cognizione. Perocchè con essa io vengo a negare implicitamente, che la realità, come tale, entri a formare l' oggetto della mente. Ma questa specie di cognizione, benchè sembri oscura relativamente alla cognizione dell' ideale, è però sufficiente, ed è l' unica che si possa aver del reale. Poichè noi ci chiamiamo paghi del nostro sapere quando conosciamo le cose a quel modo che posson esser conosciute; e il reale, il mero reale, non può esser conosciuto che a questo modo, per via di affermazione; chè anzi gli uomini, e gli stessi filosofi, non osservano questa specie di oscurità relativa che si trova nella maniera onde si conosce il reale; non la osservano dico, perchè di natura sua è sempre congiunta indivisibilmente alla cognizione dell' ideale, e ci vuole gran fatica di mente per estrarnela e separarla. Nè altra cognizione all' uomo abbisogna, o l' uom cerca e desidera, che quella che gli fa vedere il reale nell' ideale, sicchè appartiene solamente alla speculazione filosofica il distinguere in questa cognizione mista, di cui gli uomini continuamente fanno uso, quella parte che riguarda il solo reale preciso da tutto il resto, da quella parte che riguarda il reale nell' ideale. Ma per noi, miei signori, questa speculazione è importante; non è cosa di mero lusso. Le conseguenze che ne derivano sono incalcolabili: per intanto noi raccogliamo dal nostro ragionamento quello che ci eravamo proposto, cioè che il solo essere ideale è concepibile per se stesso, l' essere reale è per se oscuro ed inconcepibile. Ma questo poi viene illuminato da quello, perchè quello contiene l' essenza di questo e quando ne concepiamo l' essenza, allora possiamo affermarlo, allora tosto che il reale cade nel nostro proprio sentimento noi possiam riscontrarlo nella sua essenza, ed intendere che è l' ente stesso di prima che noi idealmente conoscevamo, il quale è passato ad un nuovo suo atto, ad un atto che nella sua stessa essenza si conosce. Poniamo ben l' attenzione all' identità nostra; noi, gli stessi, identici, veniam messi in comunicazione coll' identico essere in un duplice modo, appunto perchè l' essere identico è duplice; l' essere identico è duplice, perchè è manifestativo di sè ed attivo: in quanto è manifestativo intanto dicesi ideale, in quanto è attivo dicesi sensibile e reale: niente c' è nel sensibile e reale che non sia manifestato dal suo corrispondente ideale, che è manifestativo di lui; e quando noi siamo manifestati a noi stessi nell' essere ideale, allora possiamo affermarci, e così conoscere la nostra stessa realità con quella cognizione colla quale solo ella è conoscibile. Qui voi mi direte che io supposi in tutto questo ragionamento che l' uomo quando afferma il reale n' abbia già l' idea determinata e compita; il che non s' avvera nel fatto. Perocchè l' uomo che nasce privo d' idee determinate, non se le forma che coll' età, all' occasione appunto di affermare i reali; ond' egli pare che l' affermazione de' reali preceda le loro idee. Questa osservazione merita di essere esaminata diligentemente, e noi ci proponiamo di farlo nella seguente lezione. Noi abbiamo percorso buon tratto di via, miei signori; abbiamo difesa la distinzione dell' ideale dal reale contro quei che la negano; abbiamo investigati i caratteri dell' uno e dell' altro di questi due modi dell' essere; abbiamo tentato altresì di penetrarne e determinarne la natura, e ci riuscì di conoscere, che la natura dell' ideale consiste nell' intelligibilità , e quella del reale nel sentimento e in tutto ciò che opera in esso e per esso. Dopo aver così separato il reale dall' ideale adoperandovi intorno lungamente l' analisi, siamo tornati alla sintesi; abbiamo meditato come que' due modi si congiungono nell' identità del medesimo essere; il qual diventa unico oggetto dello spirito intelligente. Questo ricongiungimento dei due modi dell' essere si avvera allor quando lo spirito nostro percepisce il reale; giacchè sino a tanto che egli non si applica che all' ideale, ha per termine del suo atto l' essere sotto un solo di que' modi, l' essere nel suo modo ideale. Infatti la percezione del reale ha una sua unità, se ella si considera come procedente dall' unità dello spirito. Considerate ben la cosa, miei signori, com' è identico l' essere che è in due modi, così è identico lo spirito che opera con due potenze. Lo spirito unico si riferisce all' essere unico: la duplice sua potenza si riferisce al duplice modo dell' essere. L' una e l' altra potenza ha una sola radice, l' essenza dello spirito: l' uno e l' altro modo di essere ha pure un solo subietto, l' essenza dell' essere. Niuna maraviglia dunque, se nella percezion del reale, per la quale l' unico essere si comunica all' unico spirito, e si comunica nei suoi due modi alle due potenze dello spirito, si possa scorgere ad un tempo unità e dualità . Quando si percepisce il reale, noi dicevamo, lo si afferma, ma nello stesso tempo che lo si afferma, se ne intuisce l' essenza; giacchè non si potrebbe affermare l' incognito: la percezione dunque ha in sè una dualità, cioè a dire è un' operazione per la quale si partecipa l' essere sotto i due suoi modi, l' ideale e il reale. Ma l' oggetto che si conosce, e l' oggetto che si afferma sussistente, è un unico e medesimo oggetto del pensiero; dunque la percezione è semplice. L' unità dello spirito unisce le due contemporanee operazioni nel solo oggetto, cioè nell' unità dell' ente. Questa è la sintesi tra l' essere ideale e l' essere reale. Ella è possibile, perchè l' idea non essendo soggetta alle leggi dello spazio e del tempo può applicarsi se vogliamo parlar con Dante « - a ogni ubi e a ogni quando . ». Onde l' essenza dell' essere che nell' idea si contempla possiamo vederla là appunto dove è il sentimento, e riconoscer questo come nuovo atto del medesimo essere. Ma dopo di tutto ciò noi ci facemmo un' obbiezione; dicemmo che ciò suppone data innanzi l' idea dell' ente speciale che si percepisce. Ora nel fatto sembra accadere il contrario: prima affermarsi gli enti in occasione delle sensioni; poi dalle affermazioni cavarsi le idee pure. Come affermare prima d' aver l' idee delle cose e di sapere che sia ciò che affermiamo? Questa è la difficoltà che dobbiamo ora affrontare. Già vi ricorda che noi ci movemmo la questione, se le idee si formino dallo spirito nostro: e dall' osservazione accurata dell' atto che fa lo spirito quando si rende partecipe delle idee, conchiudemmo ch' egli non se le forma; che quell' atto ha natura di semplice visione, contemplazione, intuizione, come si vuol meglio denominarlo; e che perciò egli è tale che suppone esistere l' oggetto da intuirsi a quella stessa guisa che l' occhio suppone esistere gli oggetti che non crea; nè certo li potrebbe vedere se essi non fossero. Dunque ciò che volgarmente si dice la formazione delle idee , non può essere altro che un eccitamento ed una direzione data allo spirito, onde questo volgendo lo sguardo là dove conviene che il volga incomincia a vedere quell' idea che pria non vedeva, perchè colà nel modo debito non riguardava, e colà non potea riguardare, perchè questo colà non c' era ancora. Che cos' è questo colà, questo punto dove dovea riguardare? L' immagine. Dunque se gli esseri reali, i sentimenti, sono quelle cagioni onde la mente si muove a riguardare e a vedere l' idee, e il punto in cui lo sguardo si fissa, convien dire, che l' ajuto che prestano i sentimenti allo spirito umano nella formazione delle idee, non consista in altro se non nello stimolarlo e ajutarlo a quella operazione che gli bisogna affinchè possa vederle, non già affinchè le si formi. Ma poichè l' immagine è bensì il punto a cui si volge lo sguardo dell' intendimento, ma non è l' idea che l' intendimento vede con questo sguardo, dove sono dunque queste idee? Stanno esse sempre quasi appese innanzi allo spirito, sicchè eccitato che sia e diretto, le possa trovar collo sguardo interiore e vedere? Pare di no; almeno a prima giunta; poichè, se realmente gli stessero così dinnanzi schierate, gran fatto sarebbe ch' egli non ci potesse dar qualche occhiata, almeno per caso, senza bisogno de' sentimenti e delle immagini, massimamente trattandosi d' uno spirito già reso attivo e curioso indagatore della verità. Eppure un cieco può esser dotto quanto si voglia, poniamo il matematico Saunderson, può desiderare quant' egli voglia, può fare degli sforzi a sua possa; ma l' idea del colore non se la procaccierà, perchè gliene manca il senso. Che è dunque a dirsi? Noi non possiamo rispondere, se non meditiamo più addentro sulla natura delle idee; solo il concepirle meglio ci può dare speranza di sciogliere sì difficile questione. Poi il fatto nol possiamo negare, che quelle idee che rispondono ai reali sensibili, la mente umana non le ha giammai se non a condizione di aver prima sentito questi reali. Che cosa è dunque l' idea corrispondente a un reale sensibile? P. e. l' idea di un albero, di un bruto o di altro corpo qualsiasi? Raccogliamo sul fatto la nostra attenzione. Noi abbiamo veduto che nell' idea d' una cosa reale vi ha tutto ciò che nella cosa, ma in un modo diverso , in un modo ideale, nella sua possibilità. Dunque l' idea dell' albero, del bruto, dell' uomo non è altro che l' albero, il bruto, l' uomo possibile. Poniamo dunque, che un albero, un bruto, un uomo cadesse sotto i nostri sensi; come farà lo spirito ad innalzarsi alle loro idee? Egli è chiaro, che se lo spirito di cui si parla non fosse che meramente sensitivo, finirebbe ogni sua operazione nel senso dell' albero, del bruto, o dell' uomo, nè mai salirebbe fino alle loro idee. Ma dato ch' egli sia intelligente, ei dopo aver sentito l' albero, il bruto, l' uomo, può dire seco stesso: l' albero, il bruto, l' uomo che mi ferisce i sensi esiste; dunque è possibile: se l' albero, il bruto, l' uomo è possibile, dunque si possono avere indefiniti alberi e bruti e uomini. Questo è certo il ragionamento che fa la mente. Ma noi dobbiamo investigare, a quali condizioni possa la mente fare un tale ragionamento. Quando ella dice seco medesima: « quest' albero esiste », che cosa fa? Ella predica l' esistenza di ciò che opera nel suo sentimento e a cui poscia dà il nome di albero. Dunque è mestieri prima di tutto che ella sappia che cosa sia esistenza. Ma che cosa è esistenza? Un' idea, miei signori; sì un' idea, e perciò un universale. Ma come viene egli predicato questo universale di ciò che è particolare, di ciò che cade nel sentimento? Niuna ripugnanza a ciò quando sia ben chiarito che cosa significa un universale. Noi già lo vedemmo; egli significa una entità che può essere predicata di molti, d' innumerevoli particolari. Se può essere predicata di innumerevoli particolari, dunque anche di ciascuno; ed è in questo senso che si può dire che l' idea si particolarizza , che l' idea diventa particolare; diventa particolare perchè si lega ad un particolare, senza mai confondersi con esso. Ma dunque si predica ella un' idea dell' albero da noi sentito? In tal caso dicendo che l' albero esiste, verremmo a dire che egli è un' idea. No, anche qui c' è un errore simile al primo. Non è l' idea che si predica dell' albero, ma l' essenza che si vede nell' idea; si predica la realità , ma quella realità che nell' idea ha il suo tipo, la sua conoscenza, la sua intelligibilità: perocchè certo che non si potrebbe predicare la realità d' una cosa se non si conoscesse, nè si può conoscere la realità se non nell' idea. Ma fino che questa realità sta nell' idea, non si afferma ancora di niuna cosa, epperciò si dice che è meramente possibile. Ma quando lo spirito conoscendo la realità nell' idea vi aggiunge il suo atto dell' affermazione, allora è lo spirito stesso che dichiara, che quell' entità non è più solo possibile, ma sussiste: è questa affermazione che la fa conoscere come sussistente, mentre dapprima lo spirito non la conosceva che come ideale. Ma perchè lo spirito afferma, poniamo, un albero piuttosto che una colonna, una statua o altro ente qualunque? Da che lo spirito è determinato ad una affermazione più che ad un' altra? Dal sentimento, senza dubbio; è il sentimento , a cui egli applica l' idea di esistenza, e pronuncia l' affermazione esiste . Poichè se l' uomo non ricevesse alcun sentimento, egli si rimarrebbe inattivo, il suo spirito non farebbe alcun passo non avendo un termine che lo invitasse e dirigesse. L' affermazione, dico, dell' esistenza prende per subietto il sentimento o ciò che cade nel sentimento. Ora se in quest' atto ciò che viene affermato, è il sentimento nè più nè meno o ciò che è nel sentimento; dunque l' esistenza affermata non è più che l' esistenza del sentimento, non si stende oltre questo; riceve dunque da questo i suoi limiti, la sua determinazione. Ma se l' esistenza che lo spirito afferma del sentimento o di ciò che in lui cade, viene così limitata entro i confini del sentimento medesimo o di ciò che in lui cade, si dovrà egli dire, che quest' esistenza sia limitata anche precedentemente, anche prima che venga applicata dallo spirito al sentimento e che sia affermata di esso? Mai no. E che potrebbe mai limitar l' esistenza? Chi non vede che l' essenza di lei non ha confini, che si stende quanto il possibile, appunto perchè prima dell' affermazione , ella non è che l' essere possibile? Quindi noi possiamo argomentare che cosa l' affermazione presupponga, acciocchè sia possibile, e quindi possiamo conoscere come l' obbiezione che noi facemmo a noi stessi involga qualche cosa di vero, senza però che sia vera ed efficace l' obbiezione. E` vero che per affermare l' esistenza di un reale non c' è bisogno che nella nostra mente preesista l' idea così determinata e limitata come è determinato e limitato il reale: è vero che non ci bisogna l' idea speciale a cui il reale risponde; posciachè la determinazione di questa idea, i suoi confini, il suo modo, è fissato dalla quantità e dal modo del reale medesimo. Ma non è meno vero, che avanti l' affermazione deve esistere nella mente l' idea di esistenza indeterminata, senza modo, senza limite alcuno; perocchè altramente noi non potremmo predicare di lui l' esistenza, non potendosi predicare una cosa ignota di cui non s' abbia l' idea. Ciò posto, vedesi che l' obbiezione che ci facevamo non ha alcuna forza contro i nostri ragionamenti. Poichè questi tendevano a dimostrare, che il solo ideale è concepibile per sè stesso, che solo nell' idea consiste ogni intelligibilità del reale medesimo, il quale rimane oscuro se si separa dall' idea, e se si congiunge viene da essa illuminato; di che conchiudemmo, che noi non potevamo affermare, nè conoscere conseguentemente il reale, se non precedesse nel nostro spirito l' ideale. Solamente, affine di facilitare il discorso e di non involgere due questioni, noi supponevamo data a dirittura l' idea del reale determinata e compiuta. Data questa idea, l' affermazione del reale riusciva facile a intendersi. Dipoi facemmo un passo indietro, ed osservammo che non fa bisogno a dir vero all' affermazione, che in noi preesista l' idea determinata e precisa che al reale corrisponde; ma basta, che preesista l' idea indeterminata ed universalissima d' esistenza, rimanendo così ferma la conclusion nostra, che all' affermazione del reale dee preesistere l' idea nello spirito, e che questa è condizion necessaria all' affermazione, e non viceversa l' affermazione ad essa. Così le nostre ricerche hanno già fatto un passo di più; ci hanno condotti più avanti nella cognizione dell' ente ideale. Poichè da esse noi ora abbiamo questo risultato, che l' ente ideale si dee distinguere in due, cioè che c' è un ente ideale che precede necessariamente l' affermazione, e un ente ideale che s' intuisce in occasione dell' affermazione medesima; il primo è l' idea senza determinazioni, nè limiti, nè modi; il secondo abbraccia le idee limitate e determinate che più forse propriamente si dicono concetti . Ma queste due maniere d' idealità costituiscono propriamente un doppio essere ideale? No, miei signori, noi dobbiamo vederlo, meditandovi sopra attentamente, dobbiamo investigare il rapporto tra l' idea determinata e l' idea indeterminata; chè, senza di ciò, ci rimarrebbe ancora molto di oscuro nella natura dell' essere ideale che investighiamo, potremmo prendere degli equivoci dannosi alle nostre successive investigazioni. Qual' è dunque la differenza fra l' idea determinata dell' ente reale, e l' idea indeterminata? E` ella intrinseca questa differenza in modo che costituisca due idee fondamentalmente diverse, ovvero è accidentale? Ma come potrebbe essere accidentale, quando l' essere ideale è semplicissimo e non ammette accidenti di sorta alcuna? Quando un' idea, come abbiamo detto già, differisce dall' altra specificamente siccome i numeri? Sarà dunque intrinseca? Caderà nell' essenza medesima? Neppur questo è possibile; poichè se così fosse, noi non potremmo affermare l' essere reale se non avendo già nella mente l' idea sua propria determinata; non potremmo affermarlo colla sola idea indeterminata dell' esistenza, come pur noi facciamo, non potendosi predicare di uno stesso reale due essenze diverse. Qual' è dunque la relazione dell' idea determinata all' idea indeterminata? Riprendiamo la definizione che abbiamo data dell' atto dell' affermare. Noi abbiamo detto, che datoci un reale per via di sentimento, noi ci applichiamo l' esistenza quale la conosciamo nell' idea indeterminata, ma che non ve l' applichiamo se non tanto quanto il reale stesso è atto a riceverla; il che viene a dire, predichiamo del reale quella esistenza che egli ha e non più. In questa operazione dunque, sebbene l' esistenza da noi intuita e conosciuta nell' idea sia indeterminata e illimitata, tuttavia non l' applichiamo già al reale in tutta la sua estensione e infinità, non la predichiamo tutta del reale, ma solo quella parte che nel reale medesimo è attuata e sussistente, e così dicemmo che dal reale si limita e si determina. All' incontro quando noi abbiamo già precedentemente nello spirito nostro l' idea determinata che al reale esattamente risponde, e con essa lo affermiamo, allora noi gliela applichiamo tutta, perchè quest' idea determinata è commisurata appunto alla quantità e al modo del reale. Di qui si scorge che tanto se noi nell' affermazione del reale adoperiamo l' idea dell' esistenza indeterminata, quanto se adoperiamo l' idea determinata, predichiamo del reale la stessa quantità di esistenza, gli applichiamo un' idea perfettamente uguale, l' idea che a lui corrisponde. Quindi egli è al tutto indifferente che noi nell' atto dell' affermazione di un reale abbiamo nella mente l' idea determinata, e coll' uso e coll' applicazione di questa lo affermiamo, quanto se abbiamo solo nella mente l' idea indeterminata ed universale, non applicandola noi tutta e restandoci una parte di questa inoperosa e superflua all' operazione che facciamo. Così se noi volessimo comperare una pera che val due soldi, spenderemmo ugualmente se noi traessimo i due soldi da un borsino che altro che i due soldi non contiene, come se traessimo i due soldi da un monte immenso d' oro. Vero è che nel monte d' oro non troviamo i due soldi effettivi, non ne troviamo pure il valore limitato, perchè ci ha troppo più; ma noi possiamo nondimeno pigliarne una particella d' oro piccola quanto basta acciocchè non valga più che due soldi; contenendosi nel valor maggiore il minore. Ora i due soldi del borsino sono l' idea determinata di un reale, e il monte d' oro è l' idea indeterminata e al tutto universale. Laonde se affermare un reale che ci cade nel sentimento non è altro che prendere dall' essenza stessa dell' esistenza da noi intuita quella parte di esistenza che corrisponde al reale, quasi traendo un valor minore da un maggiore, dunque 1) ad affermare i reali non è mestieri che se n' abbiano già prima le idee determinate; 2) non avendole, si formano colla stessa affermazione, togliendo dall' esistenza ideale senza limiti quella porzione limitata che ci bisogna, la quale così diventa idea speciale o concetto; 3) quando questa idea già una volta si è formata, ella si torna ad applicare ai reali che tornano a caderci nel sentimento, senza però che cangi la sua natura, rimanendosi sempre ed ugualmente porzione, se così lice esprimersi, dell' esistenza intuita dalla mente senza modo e confine. Ma qui mi direte: non s' intende come dall' esistenza indeterminata se ne possa dividere, come voi dite, una cotal porzione per applicarla ai reali; giacchè l' idea dell' esistenza indeterminata è cosa al tutto semplicissima e non pare ammettere separazione di sorte. Ottimamente: la difficoltà si presenta alla mente; ma sapete voi perchè, miei signori? Per quella inclinazione che ha il nostro intelletto, e per quella abitudine di applicare al mondo ideale quei principj, quelle leggi che reggono il mondo materiale. Noi non concepiamo la divisione della materia se non mediante la sua composizione e moltiplicità, di modo che qualora prescindiamo dal moltiplice e dal composto non possiamo più concepire divisione alcuna. E certo non vi può essere divisione materiale; perchè la divisione materiale suppone disunione di parti materiali. Ma noi non parlavamo di cosa materiale, epperciò neppure di divisione materiale; parlavamo di divisione mentale, che è tutt' altro; la quale si può fare benissimo anche in ciò che è semplice in sè stesso. Pigliam pure un punto matematico: chi non dirà ch' egli è indivisibile? Certo è indivisibile se si parla di division materiale, perchè non ha parti; eppure la mente può trovarvi moltiplicità; ella può considerarlo a ragion d' esempio, come il centro di una sfera; ed ecco che in esso distingue tanti rapporti quanti sono i punti assegnabili nella sfera medesima. Se si tirano altrettante linee dalla superficie al centro, lo stesso punto è il termine di tutte queste linee, e la mente quando il considera come termine di una linea, nol considera come termine di un' altra linea. Prendiamo ad esempio lo stesso monte d' oro e i due soldi di cui abbiamo fatto menzione. L' oro come vedete è un metallo semplice, e i due soldi sono rame. Sminuzzate l' oro quanto volete, niuna particella dell' oro sarà mai rame, non diverrà mai i due soldi di rame, come potrebbe essere quando l' oro fosse misto di rame e di altra sostanza. Dunque se prendiamo la cosa materialmente, per quanto oro abbiamo, non avremo mai il rame. Ma prendiamola spiritualmente e mentalmente, paragoniamo il valore . Il valore è un essere della mente, non è nè oro nè rame; e perciò dividendo l' oro in minuti pezzetti, noi troviamo il valore di due soldi di rame, non effettivo ma nel suo essere mentale di valore; perchè questo è divisibile anche quando la sostanza materiale è semplice. Ma lasciando anco da parte tutti gli esempj, noi intenderemo la cosa in se stessa considerandola attentamente. Che cosa è l' affermazione di un reale? E` certamente un atto della mente nostra; è la mente nostra, il nostro spirito che accoppia nella sua unità il reale coll' ideale corrispondente. Accoppiare l' ideale corrispondente al reale non è che intuire l' essenza dell' esistenza nel reale. Ora noi abbiamo detto che lo spirito quando intuisce le essenze non le produce. Diciamo ora al contrario, quando non le intuisce non le distrugge: se è vera la prima proposizione, deve essere vera anche questa seconda - . Ma egli può intuirle e non intuirle, e le idee restano le stesse. Se dunque lo spirito limita il suo sguardo che volge al mondo ideale, non ne vien mica che ne distrugga una parte, e nemmeno che ne separi una parte da tutto il resto. Poniamo che rimirando un bel quadro noi restringessimo l' attenzione ad un piede di qualche figura, rimirando attentamente coll' occhio quanto è ben disegnato e condotto: ne verrebbe forse che il nostro occhio separasse il piede da tutto il quadro? Facciamo che si tratti di persona vivente; tosto si vedrà, che per quanto il piede solo si guardi, non si separa dal corpo, poichè altramente impallidirebbe e morrebbe. Ma no, è vivo e continua a partecipare di quella vita che costituisce un' unità semplicissima. Noi consideriamo questa vita nel solo piede, benchè ella sia semplice e come tale operi in tutto il resto del corpo. Tale dunque è la natura degli enti spirituali ed ideali, che quantunque semplicissimi contengono tuttavia innumerevoli cose che si possono dall' attenzione dello spirito mentalmente distinguere e contemplare in separato dal tutto, onde Platone diceva che l' uno è sempre accompagnato da' più, e non può star solo. E chi non sa che in un principio della mente si contengono innumerevoli conseguenze, che possono essere l' una dall' altra dedotte e distinte? Pigliate il principio semplicissimo che « due cose uguali ad una terza sono uguali tra di loro »; e poi date mano ad Euclide ed osservate quante belle verità egli sappia cavar fuori da questo semplicissimo principio. Tutte vi erano contenute; ma non tutte le menti ce le sapevano vedere distintamente; e vi so dire che ce ne sono delle altre, che gli uomini non ci hanno veduto ancora; perocchè la fecondità di un principio di ragione qualsiasi è infinita. Ora mi dite, qual cosa più semplice di un principio? E un principio di ragione non è finalmente altro che un' idea che si applica, come avremo occasione di vedere. Ne' principj dunque sono contenute implicitamente infinite conseguenze prima ancora che altri le derivi da essi esplicitamente. Ma che vuol dir questo implicitamente? Vuol dire che le conseguenze ci sono, ma che la mente ancora non ce le vede; esprime una relazione allo stato più o meno attivo, più o meno eccitato, della mente stessa. Onde quando la mente in occasione di applicare il principio trova la conseguenza, questa si dice essersi resa esplicita . Dunque negli esseri ideali possono vedersi dalla mente moltissime cose e distinguersi moltissime entità ideali, senza che questa moltiplicità tolga punto nè diminuisca la semplicità del primitivo essere ideale in cui si ravvisano. Niuna maraviglia dunque che contemplando il nostro spirito l' essenza dell' essere semplicissimo, egli tuttavia applicandola al reale sensibile la divida per così dire mentalmente e la spezzi, accorgendosi che in ciascun reale non è già realizzata e attuata tutta l' infinita virtù dell' essenza dell' essere, ma che questa essenza è realizzata parzialmente in un certo modo, con certi limiti. Di ciò non ne viene che resti veramente squarciata e divisa quell' essenza medesima. Ciò che resta diviso è l' essere reale finito, poichè questo è moltiplice, cioè sussistono innumerevoli esseri reali tutti finiti; il che è quanto dire che niuno d' essi esaurisce l' essenza dell' essere, ma solo ne attigne in parte. Questo è ciò che riconosce la mente, e riconoscendolo limita, non l' essenza dell' essere, ma l' atto suo proprio, limita quest' atto al reale che vuol giudicare e affermare, commisurandolo all' essenza universale. E qui troviamo aperta la via per conoscere viemmeglio in che consista la determinazione dell' essere universale e la sua limitazione. Infatti da ciò che dicevamo risulta chiaramente, che questa determinazione e limitazione si fa per via di rapporto , rapportandosi cioè dallo spirito il reale sensibile all' essere indeterminato, come un caso particolare di cui si giudica si riporta ad un principio. Se non piace questa maniera quasi che noi potessimo trasportare il sensibile nell' intelligibile, dicasi al contrario, che è più esatto, dicasi che si riporta l' essere universale al sensibile particolare; giacchè se il sensibile particolare è legato al luogo e al tempo per modo da non potersi trasferire altrove, l' essere universale non è legato, nè a modo nè a tempo, epperò si può applicare quando che sia e dove che sia a tutto ciò che ha o non ha tempo e spazio, senza che per questo sia trasportato da luogo a luogo. Ora se tra il reale sensibile e l' essere in universale l' unità dello spirito nostro vi coglie il rapporto, tosto s' intende in che modo dicasi che il reale sensibile limita e determina l' essere universale. Per chiarire ancor più la cosa con una similitudine, immaginiamo un gran triangolo superficiale e poniamo sopra di lui una piccola figura quadrata; combaciandosi queste due figure noi possiamo osservarne il rapporto, e da questo rapporto troviamo, che il piccolo quadrato applicato al gran triangolo determina nel triangolo stesso una piccola figura quadrata. Ora questa determinazione non è che di rapporto, non fa che assegnare nella superficie triangolare i punti che corrispondono alla superficie del piccolo quadrato. Ma che perciò? Viene forse immutato per questo il triangolo? Non si rimane il triangolo di prima? Soffre egli alcuna passione? Non è egli semplice, semplicissimo, giacchè si suppone continuo e meramente superficiale? Sì, rimane semplice e quello di prima, e tuttavia la mente nostra ha disegnato in esso col pensiero un quadratino e se l' ha disegnato mediante il rapporto ch' ella prese a contemplare tra una piccola figura quadrata e lui. La natura di rapporto è estranea alla figura del triangolo, e tuttavia la mente può fare una proposizione e dire: « questo quadratino partecipa della tal porzione del triangolo; e a questo quadratino rispondono i tali e tali punti assegnabili nel triangolo ». E` tutta opera della mente la quale non guasta punto nè il triangolo nè il quadrato, ma lascia l' uno e l' altro quello che è in se stesso. Ora il gran triangolo è l' essere universale intuito senza limitazione dalla mente: quest' essere universale viene nello spirito semplicissimo dell' uomo a sopraporsi, per così dire, al reale sensibile; lo spirito dell' uomo ne osserva il rapporto e nell' essere universale fissa colla sua attenzione que' punti di essere che s' identificano col reale. Ed ecco l' idea speciale bella e trovata - . Ella non differisce dunque nella sua essenza dall' idea dell' essere universale; è quella stessa idea, ma veduta dalla mente con uno sguardo che non l' abbraccia tutta , ma che si contiene e limita a veder quella parte che risponde al reale sensibile; e questa limitazione non è propriamente limitazione dell' essere ideale, ma è limitazione di rapporto e perciò estrinseca, è limitazione che altro non dice, se non che l' idea dell' essere universale a far conoscere l' essere particolare e sensibile non abbisogna di tutta la luce sua proria, ma dirò così di un solo raggio; è limitazione formata dalla mente che limita sè stessa, limita il suo sguardo, perchè con esso vuole ottenere la cognizione di un ente reale particolare e limitato e non più. Quindi distinguasi nelle idee speciali due elementi: 1) l' elemento che fa sì che esse siano idee, e in tanto sono identiche all' idea dell' essere universale; 2) il loro limite o determinazione, e in tanto non sono identiche all' essere universale, perchè ne escludono una parte; ed è questo secondo elemento (che si può dire negativo), che è posto dallo spirito intuente, ed è posto dallo spirito secondo il limite e il modo dell' ente reale e sensibile di cui ha sperienza, ossia dell' immagine. Egli è per questo che si può dire con tutta proprietà, che un' idea sola esista; ma quest' idea sola viene applicata più e più volte dallo spirito, e ad enti diversi, e secondo queste applicazioni diverse sembra che ella si moltiplichi, e acquista diversi nomi, onde volgarmente si crede esservi molte idee, mentre altro non v' ha che molti rapporti, molte limitazioni di rapporto, che è quanto dire relazioni con molti enti limitati. Vi farà forse qualche maraviglia, o signori, che io abbia detto che ogni idea speciale, in quant' è idea , s' identifica coll' idea universale dell' essere: poichè ciò che s' identifica sembra non poter più ammettere distinzione alcuna. Ma questo sarebbe prendere una sola parte della verità che abbiamo esposta, non prenderla tutta intera; chè noi non dicevamo già che l' idea speciale si identifichi sotto tutti i rispetti , ma solo in quanto ella è idea; ed ella non si può dir già idea in quanto ella è limitata, giacchè il limite della cosa non forma la cosa, anzi fa che la cosa ivi finisca di essere. Ora rispetto a queste limitazioni, noi dicevamo che ella non s' identifica punto, anzi si distingue, come il negativo non s' identifica col positivo, di cui è anzi l' opposto. S' identifica dunque in quanto è idea; e questo non ha difficoltà di sorte per chi considera che allo stesso modo le conseguenze si identificano co' principj. Notate bene s' identificano di natura , non di quantità . La virtù del principio resta sempre molto maggiore, e tuttavia si trasfonde in ciascuna conseguenza senza mai esaurirsi: è dunque una identificazione parziale. Avvertite che il nostro discorso versa nella sfera delle idee, e però è acconcissimo l' esempio de' principj e delle conseguenze; piuttosto che un esempio è anzi la cosa stessa detta in altro modo, ma in un modo che dee riescire più chiaro a fare intendere a tutti, che qui trattasi di un fatto innegabile se pure non si vuol negare, che la conseguenza è lo stesso identico principio applicato al caso. Volete rivestito il medesimo vero di sensibile realità? Distinguete nelle cose reali l' essenza loro dalle loro quantità . Due cose, che in quanto alla sostanza sono identiche, differiscono di quantità: così l' acqua di un bicchiero e l' acqua d' un fiume è acqua ugualmente; nell' essenza che costituisce l' acqua non differiscono punto, ma la quantità e la realità loro differiscono. Dicevo che qui abbiamo il vero di sopra enunciato vestito quasi di sensibile realità; perocchè anche in questo esempio l' identità che si scorge tra l' acqua e l' acqua è identità d' idea, è identità di essenza dalla mente intuita, la quale si realizza ugualmente sì nell' acqua del bicchiero e sì nell' acqua del fiume. Riassumiamoci, miei signori; l' affermazione del reale sensibile dimanda dinanzi a sè un ideale; ma questo può essere ugualmente l' idea specifica del reale, o l' idea dell' essere universale. Dimanda un ideale, perchè il solo ideale fa conoscere ciò che si afferma e non si può affermare se non ciò che si conosce. Se avanti l' affermazione esiste nelle menti nostre l' idea speciale, quest' idea dee la sua origine ad un' altra affermazione precedente che applicò altre volte allo stesso essere reale l' idea universalissima, che prima di tutte nella mente risplende. Se l' idea speciale dee la sua origine alla prima affermazione che abbiamo fatto di un dato ente reale, in questo senso ella si può dire prodotta; ma se si considera ciò che ha di positivo l' idea speciale, se si considera ciò ch' ella ha d' identico coll' idea universalissima, ella non si può dire nè prodotta nè formata, ma semplicemente intuita . Ciò che è prodotto in essa dall' atto della mente sono i suoi limiti, il suo modo, la sua determinazione. E tutto ciò conferma vie meglio quello che c' eravam proposto di dimostrare, che il solo essere ideale è intelligibile per se stesso, mentre il reale è intelligibile per la congiunzione coll' ideale. Noi abbiamo dissipate le difficoltà che si opponevano a questa conclusione; l' abbiamo pienamente stabilita; non abbiamo spesa dunque indarno la fatica nelle nostre ricerche. Ma una questione ne trae un' altra. Qui da se stessa ci si presenta la domanda: se coll' affermazione noi ci procacciamo la conoscenza del reale, ond' è poi che anche passata l' affermazione questa conoscenza ci rimane? Se rimane dopo l' affermazione, dunque tale conoscenza non è legata indivisibilmente a quest' atto momentaneo dello spirito. Che cosa è dunque la cognizione del reale che resta in noi dopo l' affermazione? Ecco ciò che formerà l' argomento della seguente lezione. Che cosa è la cognizione del reale, che rimane in noi dopo l' affermazione? Tale fu la questione che noi abbiam proposta in sulla fine della precedente lezione e che abbiam lasciata insoluta. Dobbiamo occuparcene in questa; e per farlo a dovere dobbiamo considerar prima ben a fondo la natura della questione stessa, e misurarne tutta la difficoltà. Avviene spesse volte, miei signori, che si presentino allo spirito nostro questioni filosofiche che sembrano facilissime a risolversi. Ma è da diffidare assai di tale apparente facilità; perchè inganna assai di sovente, inganna anche di quelli che s' applicano agli studj della Filosofia, onde avviene che con tutta prontezza e confidenza rispondendo alla questione, prendono de' gravissimi abbagli. Tali sono per lo più que' filosofi, i quali riscuotono lode di gran chiarezza, e i loro libri hanno una quantità di lettori i quali si persuadono d' imparare assai, perchè apprendono con poca fatica delle pretese soluzioni de' più difficili quesiti, che altro veramente non fanno che coprire ai loro occhi la difficoltà, il vero nodo delle questioni. All' incontro il prudente e savio studioso della Filosofia reputa d' aver fatto un avanzamento grande, quando è pervenuto a ben sentire tutta la difficoltà della questione che si è proposta, e gode di trovarsi oltremodo imbarazzato nel risolverla. Sì, o signori, è meglio assai essere imbarazzato nelle difficoltà, che non vederle, o non sentirne la forza. Noi dunque non ricuseremo d' entrare per dir così nel gineprajo della proposta questione; ed avvertite, che quanto più sapremo imbarazzare noi stessi, tanto più avremo profittato, massime se ci riuscirà poscia di cavarci felicemente dallo stesso imbarazzo. Che cosa è dunque la conoscenza del reale, che rimane in noi dopo l' affermazione? L' affermazione, la prima affermazione d' un reale sembra facile ad intendersi, perchè il reale è presente e ferisce i nostri sensi, e più in generale, cade nel nostro sentimento. Ma quando il reale non ci è più presente, non è più nel nostro sentimento, come ci possiamo noi pensare ancora? Il fatto è certamente innegabile: ritornati dal viaggio che abbiam fatto alla capitale, non possiamo noi pensare ancora alla città visitata e alle cose in essa vedute? Come dunque si spiega questo fatto? Il filosofo superficiale, a dir vero, non se ne affanna molto: è chiaro, vi dice, noi ne conserviamo la memoria, e ci pensiamo mediante questa facoltà del ricordarci. Ottimamente; certo non siam qui noi per negarlo. Questo non è ancora che il fatto stesso, di cui parlavamo: il fatto, dico, che pensiamo al reale già veduto e sentito anche dopo che nol vediam più e nol sentiam più; e che quindi ne abbiamo la facoltà, la quale si chiama, e si può benissimo chiamar memoria . Noi cercavamo la spiegazione di questo fatto; cercavamo come si possa spiegare appunto la memoria de' reali quando essi non ci sono oggimai più presenti - . Il filosofo superficiale ci replica: E che? Non sapete voi, che sebbene il reale non sia più presente ai vostri sensorj, tuttavia la percezione che ne avete avuto, ha lasciato in voi certe reliquie, ve ne sono rimaste le idee? Ora per mezzo di queste reliquie o vestigj, e idee che sono rimaste nella vostra mente, e che rappresentano i reali percepiti, voi potete benissimo pensare e parlare ancor del reale - Ma qui si confondono insieme due cose; si parla d' idee, e di vestigj della percezione. O l' uno o l' altro; o si pensa al reale per le idee che ne sono rimaste, o pei vestigj che ne ha ritenuto il senso o la fantasia, o per gli uni e l' altre. In quanto alle idee, sia pure che ci rimangano; ma le idee, le sole idee, noi l' abbiamo veduto, non bastano a farci pensare al reale; chè il reale nel suo proprio atto è fuori dell' idea, e non si può confondere colla idea; noi ne l' abbiamo già distinto; abbiamo già veduto, che il senso comune lo distingue, e che i filosofi che pretendono che anche ciò che s' intuisce nell' idea sia reale, di maniera che altro non ci abbia che la sola realtà, hanno torto marcio e il senso comune ha ragione. Dunque non bastano certo le idee affinchè noi pensiamo ai reali assenti e lontani dai nostri sensi. Restano i segni, i vestigj che ha lasciato in noi, nel nostro senso, nella nostra immaginazione il reale percepito. Sia dunque che noi ne abbiamo memoria, che li conserviamo in qualche parte dell' anima; sia pure che le immagini del reale percepito restino in noi fedelissime. Basteranno queste sole a farci pensare al reale? I nostri filosofi non ne dubitano: ma in che modo? - E non vedete, essi ci dicono, che le immagini delle cose vedute sono quelle che le rappresentano e le rappresentano fedelmente? Non è egli chiaro che avendo il rappresentante nella mente si può benissimo conoscere il rappresentato? - Confesso che io non vedo tutta questa chiarezza di luce; perocchè io domando alla mia volta: quando io penso e parlo della città di Firenze o di Roma da me veduta, il mio pensiero e il mio discorso ha per suo oggetto i vestigj e le immagini di queste città che sono rimaste nella mia mente, ovvero termina in queste città reali al presente da me distanti quattro o cinquecento miglia? - E che? vorreste voi avere nella vostra testa intiera la città reale di Roma, la città reale di Firenze? Quale assurdo! La vostra testa che non ha che un palmo di diametro, conterrà e palagj e chiese e piazze e monumenti reali quanti ve ne sono nelle due città nominate? - Appunto perchè ciò è un grande assurdo, e perchè nel mio cervello non vi possono essere tutto al più che de' piccolissimi vestigj di queste moli sì grandi, io trovo difficilissimo a spiegare come io possa pensare ad esse e parlare di esse - Ma non è propriamente ad esse che voi pensiate e di cui parliate: l' oggetto immediato del vostro pensiero e del vostro discorso sono le immagini che si conservano nella vostra testa. E che stranezza è mai questa di credere, che ora che non sono a voi nè pur presenti quelle grandi città, pensiate ad esse proprio in se stesse? Voi veramente parlando non pensate e non parlate che delle vostre immagini; ma credete di parlar di esse, perchè queste immagini ve le rappresentano - Rispetto le vostre osservazioni, miei riveriti maestri, ma perdonate se io bramo che mi sciogliate con tutta pazienza le difficoltà che forse pel mio poco sapere mi rinascono continuamente. Prima di tutto è necessario che noi andiamo ben d' accordo sul fatto che si tratta di spiegare. Noi avevamo proposto fin da principio la domanda « come si possano pensare i reali quando essi non cadono più nella nostra percezione ». Voi avevate tolto l' impresa di spiegare questo fatto, ed ora ce lo negate invece di spiegarcelo; poichè ci dite, che non è vero che noi pensiamo o parliamo de' reali, ma che il nostro pensiero ed il nostro discorso non ha per suo oggetto che immagini e rappresentazioni de' reali che sono rimaste nella nostra fantasia - Certo che noi diciamo questo; ma lo diciamo perchè è un assurdo patentissimo dire il contrario; giacchè il reale stesso non avendolo più presente, non potete più vederlo nè sentirlo, e però forza è che conveniate, che altro non vi rimane di lui se non le immagini e i vestigj che vi ha lasciati, e su questi voi pensate e ragionate; ma poichè questi rappresentano il reale voi credete di pensare e ragionare sul reale stesso - Questa mia credenza è dunque un' illusione che m' inganna - Non è un' illusione pel filosofo, che sa ben distinguere le immagini che son rimaste nella mente sua, dal reale che esse rappresentano; ma è un' illusione pel comune degli uomini, i quali confondono il rappresentante col rappresentato, l' immagine della cosa colla cosa: la Filosofia s' innalza sul volgo e si libera da tali illusioni - Veramente mi duole che tutto il mondo s' inganni; ma per me io non saprei separarmi da tutto il mondo per unirmi al vostro sentimento. A me ripugna il dire che tutto il mondo sia in un continuo errore, del quale parteciperebbero senza accorgersi i Filosofi stessi - In che modo? - Badate un poco, quando voi che siete filosofo raccontate che la città di Firenze ha tante miglia di circuito, che ella ha tanti palazzi di pietra, tante Chiese, conta tanta popolazione; se non parlaste che d' immagini, ingannereste la gente; perocchè voi verreste a dire che la città di Firenze è tutta composta d' immagini. Ora vi par egli che le immagini siano pietra, legno, ferro, bronzo, oro, argento di cui pure la città di Firenze si compone? O che parlate dunque narrando le cose vedute della pietra, del ferro, del bronzo, del legno reale, di cui realmente Firenze si compone, o che voi parlate di una vostra fantasmagoria che tutta si contiene nel vostro cervello, e che però non sarà mai la vera Firenze; e se la prenderete per la vera Firenze, e la vorrete far creder tale a quelli con cui parlate, voi avrete prima ingannato voi stesso, e poscia vi affaticherete ad ingannare gli altri - Voi non capite nulla del nostro pensiero; noi diciamo che sono le immagini di Firenze e delle cose vedute in essa l' oggetto della nostra mente; ma diciamo in pari tempo che queste rappresentano Firenze reale, e perciò per mezzo di esse e noi veramente conosciamo e facciamo altrui conoscere veramente le cose reali che abbiamo percepite, quando eravamo in Firenze - Ma ora io non vi domandavo ancora come pensiate al reale; io volevo prima di tutto, che fosse deciso il fatto, se ci pensate o no: dopochè saremo d' accordo sul fatto vedremo se la vostra maniera di spiegarlo per via d' immagine sia sufficiente. Ora voi mi dicevate pur ora che per mezzo delle immagini pensate alla vera Firenze qual' ella è in realtà, non nella mente nostra, ma in Val d' Arno, le 400 o più miglia da qui distante. Qui non c' è una strada di mezzo, o che il vostro pensiero e il vostro discorso si ferma alle sole immagini di Firenze, o che va a terminare alla vera e reale Firenze; scegliete dunque come vi piace - Come capite male le cose! Sicuro, che finalmente io penso e parlo di Firenze reale, ma io ci penso e ne parlo per via d' immagini a quella stessa maniera come quando si vede un bel ritratto e si dice: « è il tale »si parla della persona che il ritratto rappresenta, benchè il ritratto che si ha presente non sia la persona reale - Bene sta: noi siamo dunque d' accordo sul fatto che finalmente il pensiero ed il discorso nostro termina in quella Firenze reale, che noi abbiamo tempo fa percepita - Sì; ma resta sempre vero che per pensare a Firenze io non ho bisogno d' altro che delle immagini che me la rappresentano, e così è spiegato il fatto che voi trovate inesplicabile - Io non dico che sia inesplicabile, ma dico che ci ha delle difficoltà, ed eccovene una. Se per mezzo delle immagini di Firenze voi pensate alla vera Firenze, egli è necessario che si avverino più condizioni: 1) che le immagini di cui fate uso vi rappresentino veramente Firenze, e le cose in essa vedute; 2) che voi sappiate e siate persuaso che quelle immagini rappresentano, e rappresentano fedelmente la Firenze reale - Certamente, e qual difficoltà potete voi trovare in ciò? - Primieramente, affinchè io sappia che una cosa me ne rappresenta un' altra fedelmente, io devo già sapere, che c' è quest' altra cosa rappresentata, e devo confrontare il rappresentante col rappresentato e rilevarne il rapporto di somiglianza. A ragion d' esempio: se noi vedessimo una pittura, o per meglio dire, vedessimo de' colori variamente distribuiti sopra una superficie, e non avessimo mai veduto nè avuto la minima cognizione dell' oggetto che quei colori rappresentano, potremmo noi sapere che quei colori rappresentano qualche cosa? Vedremmo de' colori, egli è vero, cogli occhi nostri; ma non ci potrebbe mai venire in capo, che quei colori siano un' immagine , sieno rappresentanti un oggetto; perocchè di questo oggetto non ne avremmo sentore alcuno. Ma se conoscessimo già l' oggetto, allora paragoneremmo le fattezze dell' oggetto a quei colori; e troveremmo tra le une e gli altri piena somiglianza, ed allora conchiuderemmo che quei colori sono il ritratto o l' immagine di quell' oggetto. Applichiamo dunque lo stesso discorso alle immagini fantastiche. Come possiamo noi sapere che le immagini che sono nella nostra fantasia siano altrettante rappresentazioni , e rappresentino Firenze piuttosto che qualsiasi altro oggetto, e la rappresentino fedelmente? In niun' altra guisa se non supponendo che la Firenze reale, che è il rappresentato, ci sia prima cognito, che quindi noi riscontriamo la somiglianza tra la Firenze reale e l' immagine che è nella mente nostra. Solo così possiamo persuaderci che le dette immagini non sono mere sensioni , ma sono sensioni rappresentative della Firenze reale. Acciocchè dunque le immagini ci possano prestare il servigio di far sì che il nostro spirito pensi in esse alla Firenze reale e di essa favelli, è mestieri che si supponga già conosciuta da noi la Firenze reale, indipendentemente dalle immagini, è mestieri che la Firenze reale si conosca nel momento presente, ed è questa cognizione della Firenze reale che ha virtù di rendere le immagini rappresentative . Onde non sono le immagini quelle che ci fanno pensare alla Firenze reale, ma è il pensiero della Firenze reale, che produce e informa le immagini vive, che ci fa prendere per immagini o rappresentazioni di Firenze quelle che altramente sarebbero mere sensioni interne spoglie al tutto d' ogni virtù rappresentativa. Voi vedete, miei signori, che la difficoltà non è piccola, e che que' filosofi, e son pur molti, che si avvisano di spiegare la cognizione de' reali che rimane in noi dopo la percezione, unicamente per via delle immagini della cosa, rimasta impressa nel nostro cervello, non la spiegano veramente, ma la suppongono come data precedentemente; e davvero che allora la spiegazione non è più difficile, o piuttosto cessa di essere spiegazione; è il sofisma della forma: idem per idem . Come dunque ci trarremo noi dall' imbarazzo? V' ho da dire, o signori, che l' imbarazzo non è ancora compiuto? Abbiate pazienza: noi dobbiamo rendercelo ancor maggiore: noi dobbiamo trasportare la difficoltà delle immagini alla percezione stessa. Facciam conto dunque d' essere in questo istante a Firenze, di vedere cogli occhi nostri le ampie vie e le chiese e i palagi e le gallerie e i musei, e di sperimentare tutto ciò che vi ha di sensibile in quella vaga città coi nostri cinque sensi esteriori. E che perciò? Si pretende forse che tutte le grandi moli di Firenze siano entrate nel nostro cervello colla loro realità? Non siamo noi nello stesso imbroglio quantunque abbiamo i reali presenti? Che altro mai abbiamo noi ricevuto, o riceviamo in noi dalla realità di Firenze, se non sensazioni? Ma le sensazioni nostre non sono per fermo le realità esteriori delle contrade, delle piazze, del fiume e di tutto ciò che colà esiste. Convien dunque ascendere a vedere in che modo noi percepiamo le realità esteriori per mezzo del nostro senso. Veramente non m' è possibile entrare in questa lezione a spiegare come nasca la percezione sensitiva , questa m' è d' uopo supporla o riservarla ad argomento d' un' altra lezione. Ma m' è necessario qui d' accennare, che la realità esterna cade nel nostro sentimento colla sua azione, immutando appunto il nostro abituale sentimento con violenza, cioè con una forza diversa dalla nostra propria; onde l' esser noi consapevoli che non siamo noi stessi quelli che modificano lo stato del nostro sentimento, e tuttavia il sentirlo modificato, ci fa distinguere un diverso da noi, che è appunto la realità esterna. Ma questa modificazione del tenore abituale del nostro sentimento per sè sola presa non contiene la cognizione della realità. Questa cognizione, noi l' abbiamo veduto nelle lezioni precedenti, non incomincia se non a quel momento in cui il nostro spirito intelligente afferma la forza reale che ci modifica. Convien dunque che restringiamo tutta la nostra meditazione a intendere ancor meglio che cosa sia quest' affermazione , e che cosa in noi produca. Noi abbiam detto, che quando affermiamo qualche cosa sensibile, come è appunto la forza che modifica il nostro sentimento, noi predichiamo l' esistenza di questa cosa, e così predichiamo ed affermiamo una cosa conosciuta già nell' idea. S' attenda bene; la realità si conosce prima nell' idea, cioè si conosce la sua essenza, ma non si sa colla sola idea, se questa essenza che si conosce sussista o no. Quando noi la sentiamo, allora è il momento che cessa il nostro dubbio, e mentre prima dicevamo tra noi stessi: può e non può essere, può sussistere e non sussistere (il che è lo stesso che conoscere la possibilità della sussistenza della cosa) ora delle due proposizioni sussiste e non sussiste, affermiamo la prima; il che è quanto dire, che l' affermazione niente altro aggiunge alla nostra cognizione precedente, se non un sì, e un no . Affermare è dire sì; questo monosillabo esprime tutto ciò che facciamo di nuovo nell' affermazione: la cosa che è l' oggetto dell' affermazione s' intuisce e conosce già nell' idea, s' intuisce la possibilità del suo sussistere; non rimane dunque altro, se non che lo spirito sia mosso da un impulso qualsiasi a pronunciare: sì, sussiste; delle due proposizioni possibili è vera l' affermativa e non la negativa. L' affermazione dunque è un assenso dell' animo, è un assenso per cui l' animo pone se stesso in uno stato diverso dal primo; si rende affermante, mentre prima non era. Che cosa è dunque la cognizione del reale? Niente altro, se non un nuovo stato dell' animo nostro, uno stato prodotto da quell' atto suo proprio, che abbiamo espresso col monosillabo: sì . Ora a che si riferisce quest' atto? A quella realità che era prima nell' idea; ma che non ci era affermata, ci era solo possibile. Dove sta dunque la difficoltà? La difficoltà può stare in uno di questi due punti: o nello spiegare come nell' idea stia la realità possibile, o nello spiegare come l' animo dica sì, cioè si persuada che quella realità è . Ma in quanto al primo punto noi abbiamo veduto nelle precedenti lezioni, esser questo un fatto primitivo ed evidente, che nell' idea ci ha tutto ciò che la cosa reale contiene, solamente che l' animo nostro non sa ancora se quella realità sia o non sia, cioè sussista o possa solamente sussistere. Dunque rimane a spiegarsi, onde lo spirito nostro s' induca a giudicare che sussiste. Ma anche questo fu da noi dichiarato, essendo già riconosciuto che la passione che noi soffriamo d' un agente diverso da noi c' induce a questo, e che la semplicità ed unità nostra propria è il luogo, per così dire, dove si raffrontano e s' uniscono l' idea ed il sentimento, onde in questo trova la mente ciò che prima vedeva in quella o esplicitamente o implicitamente. Ed è qui che comincia, miei signori, a risplendere qualche raggio di luce; è qui che s' apre la porta onde uscire dal labirinto, dove ci eravamo volontariamente perduti. Perocchè quelle stesse considerazioni che valgono a farci intendere come accada la percezione dei reali, possono servirci ottimamente, se noi vogliamo esser coerenti con noi medesimi, a farci intendere come la cognizione de' reali possa sussistere in noi, anche cessata la percezione medesima. E veramente l' affermazione de' reali non è già un atto con cui l' anima esca, quasi direbbesi, materialmente da se stessa, come la palla esce dal fucile e va a colpire l' oggetto. Conviene spogliarsi intieramente di queste immagini materiali, è uopo non volere intendere le operazioni dell' anima per alcuna similitudine tratta dalle operazioni de' corpi. L' affermazione è un atto interno dell' anima, col quale ella costituisce se stessa in uno stato di persuasione, che esista quel reale che conosce nell' idea e per l' idea; è in una parola quel sì, che pronuncia al dubbio che si propone se esista o no. Poichè la possibilità del reale presentata dall' idea involge questo dubbio; benchè non vi sia formulato, nè in parole espresso. Che cosa adunque fa la presenza del reale ai nostri sensi? In prima cagiona la percezione sensitiva. E che fa poi la percezion sensitiva? Provoca lo spirito nostro a pronunziare quel sì, col quale egli afferma. Ma quando questo sì fu già pronunciato, non ci ha più bisogno della presenza del reale a provocarlo. Basta che questo sì pronunziato una volta si conservi in noi; basta che si conservi in noi la disposizione che egli vi ha prodotto, la persuasione voglio dire, che esiste il reale, per l' idea conosciuto come possibile. Ora questa persuasione, questo stato dell' animo , di natura sua si conserva come tutte le altre persuasioni, come tutti gli altri stati e abiti dell' animo nostro. La cognizione dunque dell' esistenza del reale, che non è più presente ai nostri sensi, rientra nelle leggi universali, secondo le quali l' anima conserva più o meno i suoi stati. Egli è chiaro, che l' anima stessa essendo durevole, dura in quello stato in cui si mette fino a tanto che qualche nuova cagione, influendo su di lei, non viene a mutarglielo. Perocchè come ci bisogna una causa a produrlo, così ci bisogna una causa a distruggerlo; nulla mai avvenendo di nuovo senza cagione, pel principio di causa. Vero è che la persuasione acquistata dell' esistenza del reale può venire gradatamente svanendo e scancellandosi al tutto, e questo è il caso appunto della dimenticanza, ed avviene per varie cagioni che non è qui il luogo d' annoverare. Vero è ancora, che la persuasione una volta acquistata dell' esistenza d' un reale è inerente all' animo nostro alla foggia degli abiti, che sono quasi nuove potenze che acquista l' anima, mediante i quali ella può ripetere o ripristinare gli atti fatti altra volta. Ma tutto ciò non fa nascere difficoltà alcuna alla nostra conclusione. Solamente rimarrà a trattarsi a tempo opportuno la teoria generale degli abiti, che ora qui dobbiamo supporre. Così rimane presso che sciolta la difficoltà - Ma dunque, voi mi direte, le immagini dei reali veduti non rimangono elleno nel nostro spirito e non suppliscono alle sensioni che avemmo durante la percezione? Non entrano esse per nulla a costituire la cognizione che ci rimane dei reali, dopo rimossi questi dai nostri sensi? - Sì, anche le immagini che rimangono nel nostro spirito entrano in parte a formare la cognizione nostra de' reali assenti. Ma si deve accuratissimamente distinguere quella parte che ha nella detta cognizione il sì da noi pronunciato, che lascia in noi uno stato di persuasione permanente, e quella parte che nella detta cognizione hanno le immagini in noi superstiti. In qual parte dunque la cognizione dei reali che ci rimane dopo la percezione, dipende dalla prima affermazione, e in qual parte dipende ella dalle immagini? Questa è questione importante, e nuova. Attendete. Supponiamo che dopo aver noi percepito un ente reale, e dopo averne ritenuto lungamente le immagini nella fantasia, queste per lunghezza di tempo venissero illanguidendosi, e poco a poco perisser del tutto. Ne viene forse necessariamente da ciò che non ci rimanga più alcuna cognizione del reale percepito? No, questa conseguenza non è necessaria. Potrebbe essere che ci rimanesse la persuasione fermissima d' aver veduto e percepito in un dato tempo, e in un dato luogo una certa cosa di cui non ci rimane più immagine alcuna, e che non sappiamo nè pur nominare; ma sappiamo sol questo, che in quel luogo e in quel tempo abbiamo veduto una cosa, e possiamo andarci ripensando per rammemorare che fosse, senza venirne tuttavia a capo. Dunque la cognizione del reale non è interamente perita; conosciamo ancora d' aver percepito un ente reale, e ne sappiamo assegnare il tempo e il luogo. Può essere ancora, che della cosa allor percepita ci rimanga qualche cognizione puramente intellettuale, ma senza immagine di sorta; a ragion d' esempio possiamo sapere d' aver veduto e parlato con un uomo che si chiama Gio. Stefani senza che ricordiamo menomamente nè la sua fisonomia, nè la sua statura, nè il suo vestito. Qui non solo ci resta la persuasione dell' esistenza d' un ente; ma di più la persuasione dell' esistenza di un uomo, che non possiamo determinare per via d' immagini, ma per semplice idea, o anche pel nome che porta, che è un puro segno arbitrario e non punto rappresentativo. Di più, si possono ricordare i discorsi tenuti con quest' uomo, altre persone che erano presenti a questi discorsi, altre circostanze partenenti al luogo e al tempo, e tuttavia dell' uomo non si può forse raccapezzare immagine alcuna. Tutti questi esempj provano che anche senza le immagini della cosa percepita, io posso conservare la cognizione della sua sussistenza, perchè dura in me l' effetto di quel sì che ho pronunciato quando l' ho percepito, cioè lo stato di persuasione dell' animo mio. Dunque la cognizione dell' ente reale può durare in me senza bisogno delle immagini. Supponiamo il contrario, supponiamo che mi rimanesse nello spirito vivissima l' immagine di qualche uomo, ma che lo stato di persuasione d' averlo veduto cessasse nell' animo mio; supponiamo che io mi dimenticassi intieramente d' aver mai veduto quella fisonomia che pure mi sta presentissima all' anima: ho io in tal caso conservato la cognizione del reale? No certamente; perocchè quell' uomo di cui io immagino la fisonomia, le fattezze, le vestimenta, non so più dire a me stesso, se sussista veramente, oppure se io veda un puro fantasma. Dunque la cognizione del reale non sono le immagini che abbiano virtù di darla; ma ella propriamente consiste nella conservazione di quello stato dell' animo, pel quale l' uomo è persuaso che l' ente sussista, ne abbia io l' immagine o no. Ma qual' è dunque l' ufficio delle immagini? Quello de' sentimenti in generale. Quale è l' ufficio dei sentimenti? Primieramente è quello di eccitare lo spirito mio all' affermazione del reale, e questo accade pure quando l' immagine è così viva che m' inganna, che io la prendo per una sensione esterna, per una percezion sensitiva. Ma se l' immagine produce talor questo effetto in quanto ha qualche cosa di comune colle sensioni esterne, non è però l' effetto suo proprio, quell' effetto a cui è ordinata da natura. Quale è dunque l' uso della immagine proprio e naturale? Si è quello di farmi conoscere come un certo ente reale opera nel mio sentimento; per l' immagine io conservo la memoria dell' attività dell' essere reale, percepito, su di me; io la conservo questa memoria così fresca come se io avessi presente quell' attività e la sentissi operar su me stesso. Ora conoscere l' attività di un ente reale su di me è conoscere in qualche modo la natura di quell' ente, è conoscere quella natura che a me è conoscibile; poichè io non posso conoscere come sia fatto un ente reale sensibile, se non in quanto egli esercita un' azione nel mio sentimento. Questo è tutto ciò che io posso conoscere del reale come reale. Ora questo modo del reale, questa sua attività relativamente al mio sentimento appartiene ella alla cognizione dell' ideale o del reale propriamente? Badate bene: per rispondere conviene isolare quest' attività del reale su di me dalla persuasione della sua sussistenza. E bene, egli è chiaro in tal caso, che ella appartiene alla cognizione ideale; perocchè io posso saper benissimo che un dato ente p. es. un uomo, è atto a produrmi le tali e tali sensioni, è atto a suscitare in me il tale fantasma, ma so io ancora per ciò solo, che l' ente che ha quest' attitudine, sussista? No, non lo so, se prescindo dall' affermazione. Dunque le immagini degli enti che in me rimangono, valgono bensì a perfezionare in me la cognizione della loro natura, che appartiene all' ideale; ma non sono punto quelle che mi fanno conoscere ancora il reale essere sussistente. Ma dunque non influiscono elle niente affatto sulla mia cognizione del reale? Influiscono, ma indirettamente; influiscono in quanto che quando io affermo che sussiste un reale, la mia cognizione riesce più perfetta quanto più conosco nell' idea la natura di questo reale che affermo, e io conosco tanto più questa natura, quanto più conosco gli effetti che egli è atto a produrre nel mio sentimento, e ciò per mezzo dell' immagine che me ne rimane. Quello che dicevamo delle immagini vale universalmente per tutti gli effetti che un reale può produrre nel mio sentimento, foss' egli anche spirituale, e quindi incapace d' immagini; poichè anche un atto spirituale può agire nel mio sentimento, e così è che conosco in gran parte la natura dell' anima pe' fenomeni ch' ella produce nel sentimento corporeo. Or da tutto questo possiamo ritrar, miei signori, una preziosa conseguenza, ed è la classificazione delle nostre cognizioni in negative e in positive . Negative chiamo quelle cognizioni le quali consistono nella persuasione che un ente reale sussista, senza avere esperimentato ancora quale attività caratteristica e propria di lui solo, egli si abbia d' operare nel nostro sentimento, quali effetti egli valga a produrre tali che determinino la sua natura: questa maniera di cognizione riguarda la sussistenza di quell' ente e le sue relazioni con altri enti a noi noti, ma non racchiude il modo della detta sua attività. Sappiamo che è, non sappiamo come è. Positiva chiamo quella cognizione d' un ente, per la quale conosciamo per esperienza la sua attività propria e caratteristica nel sentimento nostro; sappiamo quali mutazioni egli vi può produrre lasciandovi un effetto che non può venir da altri che da lui: di quest' ente sappiamo come è, sia poi che noi sappiamo anche che è, ossia che non lo sappiamo. Ma parrà forse a voi strano, che io riduca la cognizione positiva che aver noi possiamo della natura di un ente, a quella attività che egli può esercitare in quella maniera che dicevo, nel nostro sentimento. - Avete ragione, o signori, e però io mi propongo d' entrare in questo argomento nella prossima lezione. Noi abbiam detto, che tutto ciò che noi conosciamo di positivo nelle cose è quel tanto di loro che cade nel nostro sentimento. A molti tutto ciò sembra poco, sembra loro che noi rendiamo strema e misera la cognizione umana. Ma ad altri forse ne parrà il contrario, e saranno presti a dirci: « come dite voi di conoscere ciò che cade nel sentimento vostro? Che cosa di più oscuro della sensazione? Qual mistero più grande di quello del sentimento? Chi l' ha mai definito? O chi il può definire? Chi può conoscerne le leggi e trovare qualche unico principio, a cui tutte s' annodino? E se non si può trovare un principio a cui ridurre le leggi tutte del sentimento, come possiamo averne piena cognizione, quand' egli ci si presenta come fenomeni distaccati nuotanti nell' infinito mare dell' essere, e che ci scappan di mano quando vogliamo prenderli, come le bolle di sapone? » - Ora perchè, miei signori, tanta divergenza d' opinioni sui limiti del saper umano? Certo che a quelli a cui piacesse giocare d' ingegno anzi che seriamente filosofare, come è pur debito d' ogni amatore del vero, non riuscirebbe guari difficile sciorinare speciose ragioni di eloquenti o piuttosto loquaci periodi vestite, a sostenere l' una e l' altra tesi pro o contra al nostro assunto, dimostrando prima che è un restringere soverchiamente l' umana scienza dandole per limite il sentimento, e poscia dimostrando pure, che questo stesso è un allargarla soverchio. Ma noi non vogliamo nè dobbiamo, o signori, perdere il nostro tempo a sfoggiare ingegno cavilloso e sofistico; ma dee esser nostro ufficio e professione costante cercare modestamente il vero; togliere gli equivoci del favellare, definendo accuratamente il valore delle parole e lo stato delle questioni, e seguire quel metodo rigoroso che tronca l' ali all' immaginazione per tener dietro fedelmente ai passi della natura. Occupiamoci adunque a chiarire la nostra proposizione, a impedire che se ne perverta il senso e se ne muti il valore, trasportando il discorso dalla prima tesi in un' altra; e ciò fatto riuscirà evidente la dottrina che raccogliemmo dalla precedente lezione, cioè l' uomo non conoscere niente di positivo se non quello che cade nel sentimento. Diciamo noi forse con ciò, che l' uomo non conosce altro se non quello che cade nel suo sentimento? No, noi non diciamo questo: s' attenda bene a quella restrizione che poniamo alla proposizione « non conosce altro di positivo ». E` mestieri dunque cercare che cosa voglia dire « il positivo della cognizione ». E la questione non è già di parole. Che se invece del vocabolo positivo, si volesse adoperare qualunque altro vocabolo o frase, noi non faremmo alcun contrasto, purchè si ritenga il concetto che noi vogliamo esprimere. Questo concetto sta in natura, e l' ufficio della filosofia è di vedere come sono le cose nella natura. Concentriamo dunque il discorso. La cosa che noi intendiamo di rilevare è il fatto della cognizione umana: trattasi di distinguere varie specie di questa cognizione, e fissarle mediante un nome: una di queste specie si è quella che noi distinguiamo col nome di cognizione positiva: la questione dunque si riduce a verificare questo fatto: « se tra le specie delle cognizioni umane ci ha quella che noi chiamiamo positiva; e se questa specie si estenda fuori del sentimento ». Cominciamo dall' enumerare le diverse specie di cognizioni. Di noi, è certo che noi abbiamo il sentimento fondamentale di noi stessi e della nostra animalità. Se noi non pensiamo punto a questo sentimento, esso mancando della forma di cognizione non è cognizione: conviene che sia pensato per divenir tale: pensato che sia da noi immediatamente, noi abbiamo quella cognizione del nostro sentimento che si chiama cognizione percettiva . Questa cognizione percettiva ci fa conoscere un ente particolare cioè noi stessi, in quanto siamo esseri intellettivi7senzienti, ossia razionali . Quando pensiamo così noi stessi, l' oggetto del nostro conoscere è un ente del tutto determinato. Noi abbiamo appreso con ciò quanto vi ha di sostanziale e quanto vi ha di accidentale in quest' ente all' atto della percezione, senza però che ancora distinguiamo l' accidente e la sostanza; poichè la percezione apprende l' ente reale qual è tutto intero senza fare in esso distinzione alcuna: le distinzioni sono l' opera della riflessione che viene appresso. Se il nostro sentimento fondamentale si modifica, essendo egli essenzialmente sentimento, sentiamo di consequente queste sue modificazioni. Ma fino che si suppone che noi sentiamo solamente queste modificazioni senza più, non s' è accresciuta la nostra cognizione, chè il sentimento non è cognizione. Acciocchè diventi tale, noi dicevamo, conviene applicarvi il pensiero. Se dunque noi pensiamo le modificazioni del nostro proprio sentimento, abbiamo una nuova cognizione, di natura non diversa dalla precedente: è la percezione stessa del sentimento fondamentale che si è modificata: ma è ancora percezione del soggetto con altri accidenti. Ma bene spesso il sentimento nostro si modifica soffrendo violenza, cioè sperimenta una forza diversa da noi, che s' applica a noi, e che muta la condizione del nostro sentire. Se una forza agisce nel sentimento nostro e lo immuta: dunque, può essere in noi una forza, un' attività diversa da noi; giacchè « ab esse ad posse datur consecutio ». Non conviene immaginar la natura, non conviene qui dire: « non può essere che in un soggetto esista qualche forza diversa da quella del soggetto stesso »non convien dirsi questo per la semplicissima ragione che la cosa è appunto così. Può dunque entrare e per molto o per poco tempo inesistere un principio agente in un altro principio senza che tuttavia s' immedesimi con esso; una sostanza può stare in un' altra sostanza: egli è questo il fatto. Si dà dunque l' azione sostanziale tra le cose; poichè l' agente è sostanza. Se dunque nel nostro sentimento cade una sostanza straniera, il sentimento dee sentirla, sperimentandone l' azione, essendo il sentire l' essenza del sentimento. Così noi percepiamo delle sostanze distinte dal soggetto noi, che perciò chiamiamo estrasoggettive. Ed eccovi qui trovato, miei signori, il celebre ponte di comunicazione tra noi e il mondo esteriore, che si diceva irreperibile, e si osava anche dire impossibile, per quella certa incredulità filosofica, che legata alle cose più comuni, chiude gli occhi alle più evidenti su cui non c' è costume di riflettere. Si dà dunque la percezione del mondo esteriore. Questa noi chiameremo percezione dell' estrasoggettivo . La percezione dell' estrasoggettivo è anch' essa pienamente determinata siccome quella del soggetto. Intuizione dunque dell' essere, percezione del soggettivo e percezione dell' estrasoggettivo sono le tre prime specie di cognizione umana. Il carattere dell' essere intuito è la piena indeterminazione; il carattere dell' essere percepito, sia soggetto o estrasoggetto, è la piena determinazione. A queste sopravviene la riflessione: l' uomo ripiega il suo pensiero tanto su ciò che ha intuito, quanto su ciò che ha percepito, come anche sulle stesse operazioni dell' intuire e del percepire: mediante questo ripiegamento del suo pensiero, egli abbraccia più cose insieme, confronta l' una coll' altra, ne trova le differenze, distingue il proprio dal comune, la sostanza dall' accidente; analizza e sintesizza; applica l' universale al particolare, e così classifica, giudica, vede che cosa manca all' ente percepito, che cosa dee avere per esser perfetto; e in somma produce in mille maniere a se stesso altre cognizioni senza limite, e lo scibile umano non trova più confini. Ma fissiamo bene, o signori, qual sia la materia della riflessione madre di tante notizie. La materia della riflessione sono le cognizioni precedenti, poichè l' uomo non può riflettere se non su ciò che prima conosce. Ora quali sono le cognizioni precedenti alla riflessione, e che diventano sua materia? Saranno forse cognizioni acquistate colla riflessione medesima? In tal caso esse non precederebbero del tutto la riflessione. Convien dunque arrivare a quelle cognizioni prime che non si sono acquistate per riflessione. E queste sono quelle appunto che abbiamo indicate, l' intuizione e la percezione. Badate bene, queste prime specie di cognizioni, queste sole danno in fine la sua materia alla riflessione umana: la riflessione umana non può agire immediatamente che su di esse. Infatti è egli possibile trovare una quarta specie di cognizioni che non venga dalla riflessione, e che non reincida nelle tre annoverate? Io sfido chicchessia a indicarcela. Nissun filosofo l' ha mai indicata, e nessuno la indicherà mai. La riflessione umana dunque ha una materia limitata, fuori della quale non può andare in modo alcuno. Sia pure che la riflessione, colla sua mirabil potenza, cavi infinite cose da quella materia che le è data; sia pure che ella sappia farci sopra infiniti ragionamenti, fabbricandosi sistemi maravigliosi di vario sapere: ma infine la materia prima di lei è sempre quella stessa; si riduce sempre a intuizione dell' essere, a percezione soggettiva, a percezione estrasoggettiva. Per quanto si faccia, questa materia non si può moltiplicare nè estendere. Tali sono i confini prescritti dal Creatore alla umana ragione, « usque huc venies »: niun uomo può valicarli fin che non cessa di esser uomo e non diviene qualche cosa di più. Lo stesso Aristotele, miei signori, che avea data la sua principale attenzione alla cognizione riflessa, siccome quella di cui si fa maggior uso, e su cui cade l' insegnamento dottrinale, ebbe pronunciato; che [...OMISSIS...] cioè « « ogni cognizione viene da una cognizione precedente »(1) », e ritorna più volte su questa sentenza (2). Anche egli dunque riconosce che il dominio della riflessione è limitato ad una cognizione anteriore ad essa, cioè ai dati della esperienza. Se dunque la riflessione non dà a se stessa la materia delle sue cognizioni; s' ella non crea nulla, ma solo deduce; tutto lo scibile che la riflessione feconda e svolge nell' umana mente, deve esistere in germe in quella prima materia che a lei precede e che le viene dalla natura somministrata; la qual materia è intuitiva, come dicevamo e percettiva, l' una senza determinazioni, l' altra appieno determinata: si supponga dunque che alla riflessione non sia dato per materia altro che l' essere indeterminato, oggetto dell' intuizione: qual ente potrebb' ella conoscere? Niuno in particolare. E` dunque necessario, che la riflessione prenda le prime determinazioni degli enti conosciuti per via di percezione. Sia pure che in appresso, dalle prime determinazioni, ella ne deduca altre ed altre; queste dedotte si riducono sempre alle prime, dalle quali partono tutti i suoi ragionamenti. Ora io chiamo appunto cognizione positiva « quella che riguarda le prime determinazioni degli enti ». Non è dunque chiaro, che la cognizione positiva non si può cercare altrove che nelle percezioni? Ma a che mai si riducono le percezioni? Noi l' abbiamo veduto, l' oggetto di esse non è che il nostro sentimento, o ciò che cade nel sentimento. Dunque tutto ciò che noi sappiamo di positivo si riduce finalmente a ciò che si comprende nel nostro medesimo sentimento. La riflessione lo lavora certo a suo modo, gli fa subire varie modificazioni, gli fa prendere forme sì nuove, lo associa sì fattamente e lo mescola coll' essere ideale, che riesce poi difficile a riconoscerlo per quell' umile elemento che ci era stato dato prima nella semplice percezione. Ma il riconoscerlo ancora per quello è l' opera della mente filosofica; alla Filosofia s' appartiene prendere in mano i prodotti più elaborati dalla riflessione e svestendoli successivamente di tutte le forme dalla riflessione ricevute, restituirli alla prima loro nudità, prenderli dove son giunti e far loro fare il camino contrario, rimettendoli al loro luogo nativo, ond' hanno lungamente peregrinato; abolire insomma per virtù d' astrazione, l' una dopo l' altra, tutte le operazioni riflesse e riaverli quali erano nel primo loro stato, nell' originaria loro condizione d' elementi percepiti. La cognizione positiva dunque è quella che si contiene ultimamente nella percezione, e quindi nel sentimento. Ma qui è da por mente. Noi abbiamo detto, che la percezione si fa per mezzo d' una affermazione; giacchè infatti l' affermazione è l' ultimo grado della percezione, il suo compimento. Ma l' affermazione non appartiene alla cognizione oggettiva: non è (noi abbiam veduto anche questo) che uno stato del soggetto relativamente alla cognizione degli enti; è l' atto con cui il soggetto intelligente si rende persuaso della loro realtà; ma quanto alla cognizione delle realità, ella è per l' idea che s' acquista nel modo che abbiamo già dichiarato. Togliamo dunque via dalla percezione l' atto dell' affermare. Ciò che ci rimarrà sarà tutto oggettivo, tutto cognizione, ed ecco la cognizion positiva depurata da ogni altro elemento. Ma ora perchè dunque, miei signori, alcuni di quelli che passano per filosofi non si contentano dell' ampiezza di questa sfera che noi assegnamo alla « cognizione positiva »? L' ho già detto e lo dirò francamente: perchè non intendono che cosa voglia significare « cognizione positiva » perchè non se ne sono formato chiaramente il concetto. Cognizion positiva, secondo l' etimologia, è quanto dire « cognizione di posizione ». Come si dice legge positiva quella che viene posta dal legislatore e non è data dalla natura stessa ragionevole, e però non si può avere a priori; così non senza proprietà, noi diciamo cognizione positiva a quella, che si sopraggiunge alla naturale che è l' intuizione dell' essere. E ciò che veramente si sopraggiunge all' intuizione dell' essere sono i sentimenti che determinano variamente l' essere stesso, e che non sono necessarj, nell' ente finito, perchè lo stesso ente finito non è necessario, ma contingente. Le innumerevoli conseguenze che la riflessione, ripiegandosi sull' essere ideale e sui sentimenti, ne cava sono pur contenute virtualmente ne' due primitivi loro germi: somministrando l' essere ideale alla ragione tutta la cognizione ideale di deduzione e il sentimento somministrandole tutta la cognizione positiva di deduzione: sicchè la cognizione riflessa si può dividere comodamente in tre specie, ideale, positiva e mista , secondo che ella si riduce come al primo suo fonte all' essere intuito, o al sentimento percepito, o all' unione dell' uno e dell' altro. E qui apparisce quale risposta noi facciamo a quelli, a cui sembra, che noi limitiamo la cognizione positiva entro troppo angusti confini. Ma non sono questi i soli nostri avversarj. Ve n' hanno di quelli che ci rimbrottano dell' eccesso contrario: secondo essi il sentimento è un mistero, che ne involge molti altri: non si può dunque dire che sia dall' uomo conosciuto. Che diremo noi a cotestoro? Non altro, miei signori, se non che essi mutano lo stato della questione. Poichè noi non avevamo mica tolto ad investigare in qual grado conosce l' uomo ciò che conosce; ma semplicemente a determinare quali sieno le sue cognizioni. Noi volevamo rilevare un fatto, non penetrare la natura di questo fatto: il fatto che volevamo cogliere e fermare si era, quali sieno le specie delle cognizioni umane. Che queste cognizioni di cui l' uomo viene in possesso con le sue facoltà sieno imperfette, o no; quanta sia la loro imperfezione, qual grado d' oscurità e qual grado di luce in esse si contenga; queste sono questioni affatto diverse, riguardanti l' intiera natura della cognizione umana, e non la semplice esistenza di essa. Or bene, o conviene che si nieghi all' uomo ogni cognizione, o conviene ammettere quelle diverse specie di cognizioni, che noi abbiamo descritte. E che l' uomo ignori molte cose circa la natura del sentimento, niun filosofo sarà lento a negarlo; ma si potrà egli a buon dritto conchiudere, che l' uomo non ha alcuna cognizione affatto del sentimento? Se lo percepisce, se lo afferma, se ne ragiona: dunque, in qualche modo, lo conosce: sia pure che lo conosca poco; ma lo conosce, e questo è il tutto per noi. E anche intorno a questo noi siamo novamente d' accordo col senso comune; il quale come dice del cieco che non conosce i colori, così dice parimenti che chi ha l' uso degli occhi ben li conosce e assai ben crede di sapere che sia bianco, o rosso, o giallo, o un altro colore qualsiasi. Quelli dunque che ci dicono, che noi non conosciamo il sentimento, perchè non possiamo rispondere alle domande che essi ci fanno intorno alla natura del medesimo, non provano con questo che noi nol conosciamo, ma tutt' al più proveranno forse, che noi non ne abbiamo quella cognizione che essi pretendono, non una cognizione qualsiasi. Qual è l' ufficio del linguaggio, miei signori? Certo quello di segnare co' suoni vocali le nostre cognizioni, affine di comunicarle altrui, e anche di fissarle alla nostra propria attenzione. Dunque il linguaggio è il testimonio irrefragabile delle nostre cognizioni, perchè n' è l' espressione. Tutto ciò dunque, a cui noi abbiamo imposto un nome, lo conosciamo in qualche modo, in qualche grado; il che non vuol già dire tuttavia, che in tutti i modi e in tutti i gradi: è questo il modo di conoscere proprio di Dio solo. E sarebbe un darla vinta agli scettici, dire il contrario: sarebbe di più opporsi all' umanità intiera. Non riuscirebbe forse inutile il linguaggio se nulla significasse? A che mai favellare coi nostri simili, se favellando non comunicassimo loro nessuna cognizione? Chi tutto ignora non parla: egli è il caso degli animali senza ragione. Ma quali sono le notizie che noi comunichiamo altrui col linguaggio? Certamente quelle che noi abbiamo. Che cosa dunque significano i vocaboli? Quali cose esprimono? Forse gli enti, in quella parte nella quale restano a noi pienamente incogniti? Sarebbe assurdo il dirlo. Dunque esprimono « gli enti quali da noi si conoscono ». Da questa osservazione possiamo dedurre una nuova maniera di confutare coloro, che estenuano soverchiamente la cognizione umana. V' hanno di quelli, voi lo sapete, che negano all' uomo la cognizione dell' essenze. Intendiamoci: che cosa vuol dire essenza? Troppi prendono questa parola per un sinonimo di sostanza, è un equivoco antico, che la parola greca «usia» significa appunto l' una e l' altra. Conviene finalmente risolversi a separare intieramente e per sempre il significato della parola essenza dal significato della parola sostanza . Consultiamo su di ciò l' uso comune, che è la sola autorità legittima in questa parte. Si dice: l' essenza del colore, sì bene come l' essenza del corpo, l' essenza dell' estensione, del peso, del pensiero, della sensazione, sì bene come l' essenza dell' anima: e pure il colore, l' estensione, il peso, il pensiero, la sensazione, non sono sostanze, ma meri accidenti. Convien dunque ritornare alla distinzione che facevano gli scolastici in essenze sostanziali , e in essenze accidentali . Ogni cosa ha la sua essenza; se consultiamo l' origine della parola essenza viene da essere; e vuol dunque dire l' essere, l' entità della cosa, ciò che fa che la cosa sia quello che è, sia poi la cosa un accidente o una sostanza. Ma oltracciò l' essere della cosa significato dalla parola essenza non può dir altro che l' essere conoscibile, perchè nissun ente in quella parte che è del tutto sconosciuto all' uomo, non è da lui nominato, come dicevamo innanzi, nè pensato, giacchè se fosse pensato, sarebbe da qualche lato almeno conosciuto, l' effetto del pensiero essendo la conoscenza. Ora l' entità conosciuta dov' è che la conosciamo noi, ossia qual è il mezzo che abbiamo di conoscere gli enti? Questo mezzo è l' idea: nell' idea la cosa è conosciuta. Non andremo dunque lungi dal vero, se noi diffiniremo l' essenza in un modo generale dicendola « ciò che s' intuisce nell' idea ». Or bene, non vediamo, signori miei, da questo solo, che è impossibile mettere in dubbio la cognizione dell' essenze? E che se fu messa in dubbio, ciò non prova altro, se non che quelli che ne dubitarono, applicavano alla parola essenza un significato totalmente diverso dal suo proprio? Poichè se si fossero dati prima di tutto la cura di dichiarare a se stessi ben bene il valore della parola essenza , consultandone l' uso comune, avrebbero facilmente veduto, che l' essenza di una cosa non è altro se non « ciò che si pensa nell' idea di una cosa »e che perciò l' essenze sono conosciute per la stessa loro definizione. Invece dunque di dire, che l' essenze non si riconoscono, doveasi anzi dire, che l' uomo oggettivamente non conosce altro che essenze, e che un complesso di mere essenze intuite dallo spirito è tutto ciò che forma lo scibile umano. Nel linguaggio che è il deposito delle cognizioni umane noi troviamo continuamente significate le essenze. Le parole uomo, animale, pianta, pietra, pane ec. che altro significano che l' essenze conosciute di tutte queste cose? Infatti, se quando dico uomo non intendessi nominare l' essenza dell' uomo; o quando dico animale non intendessi dire l' essenza dell' animale, io non direi nulla; poichè tolta via l' essenza dell' uomo non resta più l' uomo, tolta via l' essenza dell' animale non resta più l' animale; dunque non esprimerei più nè l' uno nè l' altro, come nulla vuole e nulla intende esprimere il pappagallo, che proferisce meccanicamente questi due suoni: uomo e animale. E perchè il pappagallo mandando fuori questi due suoni, non vuole nè intende esprimer l' uomo e l' animale? Perchè non può volerlo; e non può volerlo, perchè non conosce l' essenza dell' uomo e dell' animale, e non conoscendola non la può esprimere. Quanti dunque sono i nomi comuni nell' umano linguaggio, altrettante essenze l' uomo con essi significa, e quante ne significa, altrettante egli ne conosce; niuno potendo esprimere ciò che del tutto e in nessun modo conosce. Dunque il negare la cognizione delle essenze è lo stesso che negare il linguaggio, o anzi renderlo impossibile. Sia pur vero dunque, sia pur da noi pienamente conceduto che l' uomo non conosce gli enti perfettamente; che questi racchiudono dei misteri, che intorno ad essi si posson fare molte questioni difficili ed anche insolubili. Ma riman sempre una grande distanza, o signori, tra queste due cose, che un ente si riveli a noi tutto, sicchè niente più racchiuda per noi d' incognito; e che egli non manifesti a noi di se stesso niente affatto; poichè quelli che negano la cognizione dell' essenze, debbono cadere in questo estremo, d' affermare cioè che l' uomo non conosca niente affatto degli enti; chè se egli ne conosce solo un tantino, basta, non gli può mancare qualche idea di essi, e però può intuire qualche loro essenza; essendo questa tutto quel molto o quel poco che si pensa nell' idea dell' ente come abbiam detto. Ma la cognizione delle essenze appartiene ella alla cognizione positiva, o all' ideale, o alla negativa? La risposta è facile dopo le cose dette. L' essenza è ciò che si conosce nell' idea. Ma le idee parte sono positive, e parte negative. Dunque tali sono anche l' essenze. Qualora si tratti d' essenza di cosa da noi sensibilmente percepita, l' essenza è positiva; qualora si tratti di cosa che non cadde nel nostro sentimento, come sarebbe l' angelo, l' essenza conosciuta da noi è negativa. Ma non si fraintenda ciò che diciamo: quando parliamo di essenze negative, non vogliamo mica dire, che l' essenza di qualche ente in se stessa sia negativa: non si parla da noi, se non dell' essenza conosciuta: si vuol dunque dire, che è negativa in tal caso la cognizione nostra. Quali saranno dunque quell' essenze che noi chiamiamo negative? Voi stessi ora me lo sapete dire: tutte quelle, che non somministrano al nostro pensiero niente di ciò che abbiamo sperimentato nel sentimento. Sono dunque negative primieramente le essenze dell' entità prettamente mentali, cioè fabbricate dalla nostra mente, come sarebbe il nulla. Il nulla non è nè può essere un ente reale, poichè anzi è l' esclusione di ogni entità; e tuttavia anche il nulla ha per noi la sua propria essenza. Tant' è vero, che noi distinguiamo il nulla da tutti gli enti, ed i matematici ragionano a lungo del nulla e vi fanno sopra dei calcoli meravigliosi (1). Che cosa è dunque il nulla? E` l' esclusione del qualche cosa: è una relazione dell' ente contingente con se stesso, il quale potendo essere e non essere, quando si concepisce non essente, allora si dice nulla. Se il nulla si diffinisce; dunque ha la sua essenza: se il nulla è il termine di una relazione, e perciò ha certe proprietà; dunque ha la sua essenza: ma non l' ha già fuori della mente, appunto perchè è la negazione di ogni essenza; ma l' ha nella mente che nega l' essenza, e questo negare l' essenza è un atto che si concepisce, di cui ci formiamo un' idea, che esprimiamo in parole: ha dunque un' essenza mentale negativa, esprimendo quel momento dell' animo in cui resta privo dell' ente e s' accorge della sua privazione, e la pronuncia. Tutti gli altri esseri mentali, cioè formati dalla mente, hanno più o meno del negativo: tutti gli astratti hanno parte di negativo, perchè nell' astratto è tolto via o parte o tutto ciò, che ci dà il sentimento. Quegli astratti che sono mere relazioni, presentano idee più negative che non sieno gli astratti che sono generi di sostanza o di qualità o di quantità; e gli astratti che sono generi, presentano più del negativo che gli astratti specie . Diamo un esempio di tutte e tre queste maniere di idee negative. Che cosa penso io nell' idea dell' Autore dell' universo? Nient' altro che la relazione di causa fra un ente che non cade sotto i miei sensi e il mondo. In questo concetto io penso un ente; ma poichè io non l' ho menomamente percepito col sentimento, egli è per me un ente che non so come sia fatto. Or se io non sapessi niente affatto di lui, nol potrei distinguere dagli altri enti, nè determinarlo per conseguente a me stesso in modo veruno; in tal caso non penserei un ente determinato, ma l' essere in genere e indeterminato. Ho dunque bisogno d' una relazione che me lo determini: una relazione, dico, con cosa che mi è conosciuta positivamente. La cosa che così conosco è il mondo, il quale cade nel mio sentimento, e la relazione è quella di causa. Le relazioni dunque con ciò che io conosco positivamente, mi fanno conoscere degli esseri che io non conosco positivamente: ho dunque di essi una cognizione negativa. Le relazioni dunque di esseri che non influiscono nel mio sentimento, colle cose che vi influiscono, sono un fonte d' idee negative. Veniamo ai generi . Se io sapessi, che in un parco di fiere si mostra un animale peregrino; ma ignorassi qual fosse, io avrei di quell' animale una cognizione negativa in gran parte, ma non però in tutto; poichè io saprei almeno che egli è un animale, e l' idea generica dell' animale io l' ho cavata dal mio sentimento, giacchè so che cosa è animale, perchè ho il sentimento di me stesso, e perchè sono caduti sotto i miei sensi altri animali. Nella cognizione generica adunque vi ha del negativo; ma ella non è tutta negativa, perchè ritiene un elemento somministratomi dal sentimento. Le idee generiche dunque sono fonti di cognizione in parte negativa; ma meno però negativa di quell' idee che mi sono somministrate da semplici relazioni. Voi ora intendete, miei signori, che con un somigliante discorso si può dimostrare che l' idee astratte di specie contengono anch' esse del negativo; ma ancor meno dell' idee generiche. Così se io sapessi, trovarsi un uomo in un dato luogo, e nulla di più; io ignorerei a dir vero s' egli è uomo bianco o di colore, e tutte l' altre particolarità; ma pure saprei che quell' essere a cui penso non solo appartiene al genere degli animali, ma altresì alla specie degli animali ragionevoli, e tanto l' animalità quanto la ragione sono due cose che io conosco positivamente pel mio proprio sentimento. Nell' idea astratta di specie giace dunque più di cognizione positiva che non nel genere, e tuttavia ella ritiene ancora non poco di negativo; poichè io non penso con essa molte qualità accidentali dell' ente, che cadono nel sentimento. Quale adunque sarà l' idea interamente positiva? diciamolo di nuovo, quella che si cava immediatamente dalla percezione, universalizzandola, cioè togliendo da essa unicamente la sussistenza, e lasciando l' ente vestito di tutti i suoi accidenti e qualità sensibili. Così se io penso all' immagine d' un fiore, d' un cavallo, d' un uomo, tale appunto quale l' ho veduto altra volta, e lo considero come tipo universale che può essere realizzato in un numero infinito di individui, fiori, cavalli, uomini, perfettamente uguali, allora io penso un ente con un' idea al tutto positiva, che noi per distinguerla da ogni altra denominammo idea piena. Questa è l' idea più comprensiva, che noi possiamo avere della cosa, e tuttavia anche questa maniera di conoscere è limitata; ma questa limitazione nasce dalla limitazione dell' uomo stesso, e non da un qualche modo particolare con cui l' uomo conosce, il quale sia più imperfetto degli altri. Qual' è dunque, miei signori, questa limitazione necessaria della cognizione umana? Questo è quello che ci proponiamo di ricercare nella seguente lezione. Il sentimento e l' idea sono i due elementi delle cognizioni umane. Il sentimento presta alle cognizioni umane tutto ciò ch' elle hanno di positivo; l' idea somministra loro tutto ciò ch' elle hanno d' indeterminato e di negativo. Conviene riconoscere, miei signori, entrambi questi due elementi, e a ciascuno di essi fare la loro giusta parte nello scibile umano. Conviene riconoscerli, dicevo, e a ciascuno di essi non dare nè più nè meno di quello che si abbiano in fatto: ecco ciò che dee fare l' Ideologo; ma lo hanno sempre fatto, miei signori, gl' Ideologi? Noi non vorremmo certo metterli tutti egualmente in un fascio; ma non ci pare poter essere accusati con ragione di temerità, se aprendo i loro libri leggeremo ciò che dentro ci sta scritto. Ebbene, noi troviamo un gran numero d' Ideologi che riconoscono bene o male il sentimento; ma poi vi negano l' idea, ve la negano in fatto, benchè ne ritengano la parola, giacchè con questa parola d' idea non intendono significare che il sentimento. Voi v' accorgete che questi sono i sensisti. Noi troveremo dopo di ciò molti altri Ideologi, i quali riconoscono ed ammetton l' idea; anche questi non è che sbandiscano la parola sentimento, perocchè le parole date loro dal popolo non possono ricusarle e servono appunto a smentire i loro sistemi arbitrarj, accorcianti l' umano sapere: ritengono dunque la parola sentimento, come dicevo; ma poscia ve lo trasportano nell' ordine intellettivo, lo trasmutano in idea: questi sono i veri idealisti. Perchè errano gli uni e gli altri? Perchè limitano arbitrariamente la cognizione umana; perchè usano di una osservazione imperfetta, pongono la loro attenzione esclusivamente ad uno dei due elementi, e non ad entrambi. La perfezione della Filosofia, e in ispecie dell' Ideologia, vuol dunque che si osservi tutto intero il fatto della cognizione, e che si ammetta l' uno e l' altro elemento de' due ond' ella risulta. Ma questa non è che la prima funzione del filosofo: gli resta a compire la seconda, cioè a determinare quanto influisca ciascuno de' due elementi nell' umana cognizione. Noi abbiamo difeso l' uno e l' altro elemento, il positivo e il negativo, il reale e l' ideale; n' abbiamo veduto la connessione, abbiamo confutati quelli che negano all' uomo la cognizione delle essenze: abbiamo in particolare veduto, che la mente concepisce le essenze in un modo positivo quando il sentimento vi depone il suo elemento, e in un modo negativo quando manca l' elemento del sentimento. Abbiamo risposto a quelli che pretendono niente conoscer noi delle cose sentite, perchè veniam meno in rispondere a molte questioni sulla natura di esse: abbiamo sostenuto, che se non conosciamo il sentimento in modo al tutto perfetto, lo conosciamo tuttavia in qualche grado: in qualche grado, dicevo, e perciò accordammo agli avversarj, che le nostre cognizioni positive sono limitate. Conviene dunque ora, che ci spieghiamo maggiormente su questa limitazione della cognizione umana, e sarà ciò che prenderemo a fare in questa lezione. Sì, il sentimento somministra tutto ciò che v' ha di positivo nello scibile umano. Ma nello stesso tempo, e perciò appunto, esso è la causa della limitazione della mente umana. Egli è singolare, miei signori, a vedere come lo scibile che il Creatore largì al genere umano, presenti due aspetti che sembrano contradittorj. Da una parte egli pare infinito: e chi di noi non ha udito le eloquenti amplificazioni della grandezza dello spirito umano, di cui sono pieni i libri dei filosofi e degli oratori? Chi di noi non si è più volte stupito seco medesimo ripensando quante mirabili discipline ed estesissime scienze abbia partorite l' umana mente? Quante nobili invenzioni non ha ella prodotte? Quante arti ed industrie, o inservienti agli agi o alle necessità della vita, non abbiamo noi ricevute in retaggio dai secoli precedenti? E chi può metter un confine all' umano progresso? Chi può essere o sì audace o sì stolto da proibire ai presenti od ai posteri d' aggiungere altre ed altre cognizioni, altre ed altre invenzioni al patrimonio degli avi, o così temerario da predire che a tal tempo, a tal secolo, l' umana mente avrà esaurita la sua prodigiosa fecondità? Chi anzi non dovrà considerare per una assai piccola cosa tutto quello che ha l' uomo imparato fin qui e colle sue speculazioni inventato, a paragone di quello che a sapere e a trovare gli rimane; e di quello che troveranno indubitatamente i nostri posteri, progredienti per la via de' lumi con un corso sempre accelerato, senza confine? Sì, l' umano sapere è inesauribile, e non può trovarsi un termine alla sua attività. Ma, miei signori, rovesciamo la medaglia. Non ci sarà egli ugualmente facile il considerare il sapere dell' uomo sotto l' aspetto opposto? Non potrò interrogarvi di bel nuovo così: chi di voi non ha letto in mille libri, chi non ha udito dalla bocca de' maggiori sapienti deplorare la profonda ignoranza dell' essere umano? Chi tra quanti hanno un poco ripensato seriamente sopra se stessi, non ha dovuto confessare di trovarsi immerso in un mare profondo di tenebre? Qual savio dubitò mai per un solo momento, che la mole delle cose che l' uomo ignora, e che ignorerà mai sempre, non sia infinitamente maggiore delle cose che egli sa, o anche che saprà? In qual pelago d' errori non ha navigato e naufragato sempre, e naviga e naufraga ogni dì lo spirito umano? Come vacilla l' umana mente ne' suoi passi? Quante incertezze e quanti dubbj non la sorprendono anche solo se s' addentra a scrutinare le cose più ovvie e più comuni? Chi ha filosofato, e non è giunto a dubitare qualche volta della propria esistenza o a capire almeno come se ne possa dubitare? Quale spettacolo a vedere, che quando la civiltà ed il sapere delle nazioni è arrivato al suo apice s' invecchia, quasi fosse corruttibile, e viene un' epoca, in cui un gran numero d' uomini, sebben dotati di perspicacissime menti, si perdono nel cimento della ricerca del vero, e avviliti e scorati si gettano nel desolante scetticismo, seppellendo in questo baratro tutta quanta la scienza umana, e sforzandosi di spegnere in sè stessi quel lume della ragione da cui non seppero cavar altro che angosciose esitazioni? E quegli che non si danno già perduti e vinti dalle difficoltà, sentono nondimeno anch' essi il bisogno di compatire e di compiangere l' aberrazione de' precedenti, troppo sperimentando essi stessi quanto è breve e fallace l' umano intelletto, e quanto tutte le cose intorno a cui s' affatica, sieno piene di misteri? E che direm dunque? Forse che è nullo l' umano sapere, e che è un' illusione, un mero inganno? Così è, miei signori; lo scibile umano presenta due faccie, come vi dicevo; da una ci si mostra infinito, dall' altra ci apparisce assai finito. Dove dunque sta il vero? A quale ci atterremo noi di queste due proposizioni: « il sapere dell' uomo è infinito, il sapere dell' uomo è finito »? Ad entrambe, miei signori. Sì, noi non ricusiamo mai di accettare tutto ciò che ci dice il senso comune, e questa volta pare che egli ci dica due proposizioni contradittorie. Ma non manchiamogli di fede, perchè se esamineremo la cosa a fondo troveremo che la contradizione è solo apparente. Noi crediamo, che non possa esser verace e soddisfacente quella Filosofia, che non sa spiegare le contradizioni apparenti del senso comune, che è costretta a ricusarne qualcuna. Noi dunque ammettiamo, che l' umano sapere non abbia confini; ed ammettiamo pure, che l' umano sapere ne abbia di angustissimi. Infatti la contradizione svanisce, se si considera, che è rispetto a due differenti generi di cognizione che sono vere entrambe quelle proposizioni; dico rispetto al genere della cognizione ideale negativa, e rispetto al genere della cognizione positiva. Rammentiamoci quali sono i principj di queste due maniere di cognizioni: l' idea è il principio della cognizione ideale negativa, il sentimento è il principio della cognizione positiva. Or bene, l' idea è infinita, perchè l' essere che nell' idea s' intuisce non ha limite alcuno: il sentimento è finito, perchè il sentimento non è che la nostra propria realità e le sue modificazioni o ciò che si commisura col nostro sentimento; e noi come esseri reali siamo limitati, limitatissimi. V' ha dunque in noi un fonte di cognizione infinita e questa è l' idea, ed un fonte di cognizione finita e questo è il sentimento: idea e sentimento, sono i principj di tutte le cognizioni umane: queste si mescolano in mille maniere e si fecondano ritenendo la natura de' principj da cui derivano: lo scibile umano dunque è un miscuglio d' infinito e di finito, ed egli deve presentare necessariamente le due faccie che dicevamo riconosciute dal senso comune degli uomini. Ed egli è qui, miei signori, che ci tornerà facile a spiegare come v' abbiano dei filosofi i quali sostengano, che noi non conosciamo punto nè poco le essenze delle cose, e v' abbiano degli altri, tra i quali Sigismondo Gerdil, che sostengono il contrario. Osserviamo, miei signori, che la stessa cosa conosciuta da due uomini collo stesso grado di cognizione, produce talora in essi due effetti diversi. L' uno rimarrà pago della sua cognizione, e si crederà d' essere appieno istruito intorno alla natura di quella cosa, l' altro non così e crederà tuttavia d' ignorarla. Domandate ad un uomo del volgo, s' egli conosce che cosa sia una pianta o un animale: egli sorriderà di voi, e non crederà neppure necessario di dirvi, che troppo ben la conosce, perchè non potrà mai credere che voi ne dubitiate. Ma se voi domandate all' incontro la stessa cosa ad un naturalista o ad un filosofo, facil cosa sarà ch' egli vi dica d' ignorarne la natura, e di conoscerne solo alcuni esteriori fatti, o alcune apparenze. E perchè questa differenza di persuasioni? Perchè il primo, cioè l' uomo del volgo, troppo bene intende, che l' idea dell' albero o dell' animale formatasi da lui mediante le percezioni gli danno una cognizione tal della cosa, che basta a poterla distinguere da tutte l' altre, e basta altresì a dirigerlo nel suo operare nè gli fa bisogno di più: qui dunque s' acquieta, non fa ulteriori confronti e ricerche. Ma l' uomo in cui è sviluppata maggiormente la riflessione, dimentica per così dire ciò che sa della pianta e dell' animale; dimentica che l' idea che egli pure se n' è acquistata come il volgare, è cognizione anch' essa, tutto intento a volerne una cognizione maggiore, una cognizione riflessa e scientifica. Ma come è egli possibile in lui questo desiderio? Come può in lui cadere il sospetto, che la cognizione percettiva che n' ha acquistato sia imperfetta e ce ne possa essere una più perfetta? Sapete ond' è ciò? E` da qui, che egli confonde la cognizione acquistatasi dell' albero o dell' animale colla cognizione dell' essere in universale da lui intuito, e poichè questa è cognizione infinita, e quella finita, perciò quella gli sembra nulla, poichè il finito paragonato all' infinito svanisce in nulla. Infatti quando l' investigatore della natura raccoglie più fatti che può intorno alla natura della pianta o dell' animale, e classifica quei fatti, li riduce a classi più generali, lega i fatti variabili ad un fatto stabile e primitivo, considera questo fatto primitivo come ragione e fonte degli altri, e lo prende per carattere fisso della loro sostanza, che cosa fa egli se non ricercare continuamente in qual modo si avverino nella pianta o nell' animale le condizioni dell' essere da lui conosciuto per intuizione; in qual modo si avveri l' ordine dell' essere stesso, giacchè nell' essere intuito lo contempla e quasi lo legge? E il far ciò che cosa è altro, se non un continuo attento confronto tra l' idea positiva datagli dalla percezione e l' essenza dell' essere? Ora, che sia limitata l' umana percezione, che ella non si estenda a comunicare a noi tutta l' entità della cosa, ma solo una entità relativa a noi stessi percipienti, è ben facile a rilevarsi, se si considera quali sono gli strumenti datici dalla natura al percepimento delle cose. Questi, non uscendo mai dall' ordine naturale, sono (almeno i più risaltanti) gli organi corporali; in generale l' istromento della percezione è la nostra propria animalità; ma questo istromento è così imperfetto, o direm meglio, limitato, che non si stende se non alle cose corporee o animali, e queste stesse non ce le comunica già quali sono in se stesse, ma unicamente sotto la relazione di sensilità . E che cosa è ella mai questa relazione di sensilità? Non più, miei signori, che un rapporto di forze; non più che un effetto delle forze corporee sopra di noi; (prescinderò ora dal sentimento sostanziale dell' anima nostra) anzi nè pure è tanto, poichè la sensilità delle cose non è effetto di una causa sola, cioè delle cose; ma ella è effetto di una causa composta di più concause, voglio dire, delle forze delle cose stesse, e delle forze nostre proprie che agiscono simultaneamente. Dunque il sentimento che abbiamo de' corpi non ha nulla in sè di assoluto, ma è tutto a noi relativo. Ebbene, tutt' il contrario dee dirsi dell' intuizione dell' essere. Questa è cognizione assoluta, nulla vi ha in essa di relativo: non concorriamo già noi menomamente a comporre l' essere come concorriamo a comporre il sentimento corporeo, e quindi i corpi in quanto sono sensibili: l' essere è per sua propria essenza così assoluto che non può mai relativizzarsi, nè soggettivarsi senza cessare d' esser lui stesso, senza cessare d' esser l' essere. Quindi noi già lo denominammo, se vi rammentate, o signori, « l' oggetto per essenza ». Or bene che cosa è mai la cognizione relativa se si raffronta alla cognizione assoluta? L' uomo aspira alla cognizione assoluta, poichè la forma del suo intelletto è l' essere assoluto. Egli dunque inclina e tende per sua natura a volere avere delle cose una cognizione assoluta, e si sforza di trovare una cognizione assoluta anche in quella cognizione che è per natura sua relativa. Ma questo è impossibile: può lusingarsi per qualche istante di dovercela rinvenire; ma a lungo andare si stanca co' suoi inutili sforzi e dispera. Or fa meglio ancora, apre gli occhi e conosce che egli vuole l' impossibile. Allora confessa la sua ignoranza, allora arriva fin anco a dire di nulla conoscere, a reputar nulla tuttociò che prima conosceva relativamente, e a negare risolutamente di conoscere le essenze delle cose. Ed ha ragione, se egli intende negare di conoscerle assolutamente; ma ha torto se pretende che il conoscere relativamente non sia conoscere. Infatti il conoscere ancorchè limitato e relativo non può egli servir di norma all' operare dell' uomo? Dunque è conoscere; chè ciò che non si conosce non può servir di norma all' operare. Considerate, miei signori, che la cognizione è data all' uomo dal Creatore per qualche cosa: ella non dee mica essere sterile ed inutile: essa ha per iscopo di guidar l' uomo nelle sue operazioni, acciocchè ed operi rettamente, ed operando rettamente cioè in un modo conforme alla verità ed alla giustizia, acquisti la perfezione morale che è la perfezione propria dell' uomo, a cui tien dietro la felicità. Ebbene, a questo gran fine che è il fine dell' uomo, che è il tutto dell' uomo, dove finiscono tutti gli umani desiderj che non sieno spurj ed ingannevoli, basta una cognizione relativa rispetto all' elemento positivo. Dico rispetto all' elemento positivo e nella vita presente, perchè in quanto all' elemento ideale e al negativo noi l' abbiamo anche in questa vita ed oggettivo ed assoluto, e non può esser altro, perchè è tale per sua essenza. Sebbene dunque questo elemento ideale e oggettivo sia il fondamento e la causa formale anche della cognizione positiva, tuttavia, dicevo, ciò che ci ha di positivo nella cognizione nostra naturale presente è relativo e questo ci basta. E come e perchè, mi domanderete? Perchè anche l' operare è relativo, perchè anche la perfezione che si cerca con esso è relativa, cioè relativa all' uomo; perchè anche la felicità, finalmente, non è nè può essere altro che relativa. Trattasi forse della virtù e della felicità astratta? No davvero; chè la virtù e la felicità astratta non è virtù e felicità di qualcheduno; e qui trattasi della virtù e della felicità di qualcheduno, cioè di quella dell' uomo, che è il soggetto che dee per essa divenire virtuoso e felice. Che cosa vuol dunque dire perfezione relativa? Nient' altro, miei signori, se non perfezione soggettiva, cioè relativa al soggetto: e perciò che vuol dire cognizione relativa? Vuol dire medesimamente cognizione soggettiva, cioè relativa al soggetto uomo. E poichè il soggetto uomo è finalmente un sentimento sostanziale, ella vuol dire « cognizione somministrata dal sentimento ». Tant' è lungi adunque, che la cognizione relativa ossia soggettiva manchi della natura della cognizione, che anzi ella è quella cognizione umana, che deve servire di guida all' umana perfezione. Ma qui si sollevano delle turbe. E come? Ci dicono molte voci: voi sostenete, che ciò che sa l' uomo di positivo è soggettivo? In tal caso la cognizione positiva dell' uomo è tutta falsa: poichè che cosa vuol dire altro cognizione soggettiva , se non cognizione falsa, apparente, fenomenale? No, miei signori, non è così: i nostri oppositori confondono le cose più diverse, perchè mancano d' analisi. La cognizione soggettiva non è cognizione falsa per sè stessa, non è cognizione apparente e nulla più: essa è una cognizione, certo limitata, ma non meno vera per questo. Vogliamo vederlo? Interroghiamo i nostri avversarj in questo modo: la cognizione del soggetto può ella esser altro che cognizione soggettiva? E che cosa vuol dire cognizione soggettiva, se non cognizione delle cose che appartengono al soggetto? O finalmente cognizione di quelle cose nelle quali ha qualche parte il soggetto? Siete voi dunque d' avviso, o sapienti oppositori, che intorno al soggetto e alle cose che gli appartengono, o nelle quali egli ha qualche parte, non si possa aver cognizione vera, perchè non si può averne altra che soggettiva? Se ciò fosse, dovrebbe dirsi che Iddio medesimo non conosce i soggetti, non conosce sè stesso, primo ed assoluto soggetto, ovvero conosce sè stesso e gli altri soggetti con cognizione falsa, che meglio si chiamerebbe una mendace apparenza. Ora essendo questo manifestamente assurdo; dunque si può dare una cognizione che sia nel medesimo tempo e soggettiva e vera. - Ma gli oppositori risponderanno, che anche la cognizione intorno al soggetto e alle cose soggettive, si può oggettivare ed in tal caso rendersi vera. - Ora che è questo, se non appunto ciò che diciamo noi? Solamente che noi diciamo di più che la cognizione soggettiva è già oggettivata per sè stessa, poichè altramente non sarebbe cognizione. Così il soggetto, ed i sentimenti del soggetto, che sono il fondamento della cognizione positiva dell' uomo, tostochè si conoscono sono per ciò stesso oggettivati; poichè se non fossero oggettivati non sarebbero cognizioni. Eppure i sentimenti del soggetto sono tutti relativi al soggetto; e le cose che operano nel sentimento del soggetto, come i corpi che feriscono gli organi sensorj, si conoscono per gli effetti prodotti nello stesso sentimento soggettivo, i quali effetti sono relativi alla natura del sentimento, perchè sono modificazioni dello stesso sentimento; e perchè ogni essere suscettivo di passione, riceve una passione conforme alla propria natura, il che Aristotele espresse con quel detto divenuto celebre presso gli Scolastici, che « quidquid recipitur ad instar recipientis recipitur . » Del soggetto dunque, che non è altro infine che un sentimento sostanziale, e dei sentimenti in lui suscitati, che sono sue modificazioni, come pure degli effetti tutti che producono in lui le cose esterne, pei quali effetti si conoscano, noi possiamo avere una cognizione vera, e pure ella sarà sempre cognizione di cose relative al soggetto, e perciò soggettive, benchè coll' essersi rese cognizioni, coll' esser divenute oggetti conosciuti, si dice giustamente essersi oggettivate. - Dove sta dunque l' equivoco preso dai nostri oppositori? Nell' aver confuso la cognizione in genere delle cose, colla cognizione assoluta. Ciò che è vero si è, che noi delle cose sensibili non abbiamo una cognizione assoluta, e il pretenderlo è lusinga vanissima; nè da ciò, come dicevo, procede che se la cognizione non è assoluta ma relativa al soggetto, per questo essa non sia cognizione, o sia falsa, ma ella è nondimeno vera nel suo genere; e la questione unica che si può fare ragionevolmente non è mica quella di sapere se la cognizione soggettiva, cioè relativa al soggetto, sia in un altro senso oggettiva; poichè se ella è cognizione, non può mancare certamente di quella oggettività che la rende cognizione. A propriamente parlare la frase di « cognizione oggettiva »non racchiude altro che una ripetizione, ed è come se si dicesse cognizione cognizione; essendo chiaro che l' essere oggettiva e l' essere cognizione viene al medesimo. Laonde nel nostro discorso, miei signori, non si possono distinguere due specie di cognizioni, delle quali l' una sia cognizione soggettiva, e l' altra cognizione oggettiva: se questo talora si fa in altre questioni, dove non s' esige tutto il rigore, come si esige nella nostra presente, ella è sempre una divisione inesatta. L' unica distinzione dunque che si può fare si è tra la cognizione soggettiva cioè relativa al soggetto, e la cognizione assoluta . Ripetiamo dunque, che può aversi una cognizione soggettiva, cioè di cose relative al soggetto, verissima, non fallace e ingannevole; ed anzi di più che la cognizione del soggetto e di tutto ciò che a lui si rapporta sarebbe falsa, se non fosse soggettiva; poichè ella ci farebbe conoscere le cose non come sono, ma come non sono. E qui appunto comincia l' errore; qui comincia la falsità, quando l' uomo pretende che la cognizione soggettiva che egli ha delle cose reali, non deva essere soggettiva com' ella è. Con quanta logica, miei signori, nel primo Alcibiade, Platone introduce Socrate a dimostrare, che l' errore non istà nell' ignoranza, ma si riduce sempre a pretendere di sapere ciò che non si sa? Poichè dopo aver Socrate con accortissime interrogazioni condotto Alcibiade a pronunciare delle sentenze erronee intorno alle cose giuste e ingiuste, belle e turpi, utili e dannose, il costringe a confessare ch' egli s' è ingannato per ignoranza, ma tosto il riprende anche di questa confessione così proseguendo: [...OMISSIS...] Gran documento, signori, degno di Platone, degno che tutti i filosofi, tutti gli uomini l' abbiano avanti gli occhi prima di pronunciare checchessia. In tal caso non si sarebbe udita la strana sentenza, e non sarebbe invalsa nelle menti l' opinione, che la natura delle cose sensibili, p. e. dei corpi, si conosca con cognizione assoluta. E di più certi filosofi non sarebbero dati nell' eccesso opposto dello Scetticismo, negando che l' uomo abbia una cognizione qualunque delle essenze delle cose sensibili, tosto che venne loro dimostrato, o da se stessi trovarono, che tutta la cognizione che noi possiamo avere delle cose sensibili, che è quanto dire tutta la cognizione positiva, non è che soggettiva, ossia relativa al soggetto. Se v' ha dunque taluno, che giudichi e pronunci qualche cosa intorno ai sensibili, (sieno questi l' anima, o sieno i corpi) come se egli li conoscesse di cognizione assoluta, questi errerebbe certamente, e perchè errerebbe? Perchè mentre ignora non sa d' ignorare; perchè vuol portare il suo giudizio temerario al di là della sua cognizione. Ma non solo erra chi ignora e pretende di non ignorare, ma erra anche colui che mentre sa, ignora di sapere. Or bene, quegli che dice, che la cognizione soggettiva che abbiamo di noi stessi e de' corpi è nulla, o è cognizione fallace ed apparente, erra appunto in questo secondo modo; erra perchè giudica d' ignorare mentre sa. Come dunque evitare queste due opposte maniere d' errare? Noi l' abbiamo veduto; col non fermarci esclusivamente a considerare una sola maniera di cognizione; coll' abbracciare tutta quanta è la cognizione umana, tanto l' assoluta quanto la relativa, tanto quella che ci fa conoscere l' essere quanto quella che ci fa conoscere il sentimento (giacchè l' essere noi lo conosciamo con cognizione assoluta, benchè incompletamente, dovendosi ancora distinguere l' assoluta cognizione dalla completa); col riconoscere che tanto l' assoluta cognizione quanto la relativa, è fedele e verace fin a tanto che noi stessi non c' introduciamo arbitrariamente l' errore, affermando di conoscere ciò che ignoriamo, o d' ignorare ciò che conosciamo, o di conoscere in diverso modo da quello che conosciamo. E appunto per evitare gli indicati errori opposti tra loro tenemmo il cammino che avete meco percorso nelle nostre ricerche, e qual frutto ne raccoglieremo? Noi abbiamo diligentemente distinte e caratterizzate due nature di cognizioni, la positiva e l' ideale7negativa; e alla prima abbiam trovato doversi dare due qualità 1 d' esser vera, 2 d' esser soggettiva, relativa a noi stessi che siamo il soggetto, per contrapposto dell' assoluta . E che ella sia vera, il provammo perchè ella ci dice le cose tali quali sono; ci presenta cioè le cose soggettive come soggettive, e quando noi le prendiamo per assolute, siamo noi stessi che introduciamo l' errore giudicando male della verace nostra cognizione, e dicendo che ella è quello che non è. Ma finchè la prendiamo per quello che è non si dà errore, ed oltre esser vera quella cognizione nostra, ella ci è anche utile e necessaria, e preziosissimo dono della natura, poichè ella ci è sufficientissima regola ad evitare il male e ad operare il bene; a provvedere alla nostra conservazione, al nostro sviluppo, al nostro perfezionamento, sì fisico che intellettuale e morale, e così a condurci in una parola a conseguire virtù e felicità, che è il fine nostro. Perchè il fine nostro essendo soggettivo, cioè fine di noi soggetti, e le operazioni nostre e i mezzi coi quali ottenere il nostro fine essendo pure tutte cose soggettive, ci ha mestieri di norme soggettive per regolarle e indirizzarle a quello scopo a cui devono tendere. Il che videro gli stessi Scettici dell' antichità, quando riconobbero ed ammisero una certezza pratica ed operativa negando la speculativa. Errarono tuttavia gravissimamente in questo appunto, che non intesero come anche la cognizione e la certezza pratica sia necessariamente speculativa nella sua parte formale ed ideale, e quindi possa ella stessa essere argomento di certa teoria. Ma aggiungiamo ancora un' osservazione e poi concludiamo. La cognizione, dicevamo, è sotto un altro punto di vista sempre oggettiva, perchè ella si fa sempre per un atto dell' intendimento che s' affissa in un oggetto, cioè in un' entità che rimane sempre distinta dall' intellezione medesima; anzi tale che l' intellezione di sua natura la pone come distinta. Ma questo oggetto, noi soggiungemmo, può essere un soggetto o cosa che ad un soggetto si riferisce, ed allora la cognizione dicesi relativa e soggettiva. Quale è dunque la distinzione tra questa cognizione e l' assoluta? Se la cognizione soggettiva è quella, che ha per suo oggetto un soggetto, che cosa avrà per suo oggetto la cognizione assoluta? La risposta quanto è facile dopo quello che abbiam detto, altrettanto è importante, signori, perchè ci scorge a trovare una bellissima verità. Infatti che cosa possiamo noi rispondere a quella domanda, se non che, se la cognizione soggettiva ha per oggetto un soggetto, la cognizione assoluta dovrà avere per oggetto un oggetto? Ma come è questo? Non sembra egli un giuoco di parole? Eppure non è, miei signori; anzi è in questo apparente giuoco di parole che noi dobbiamo affissare bene la nostra attenzione per riuscire ad un nobilissimo ritrovato: perchè quando parliamo d' una cognizione che ha per suo oggetto il soggetto, allora manifestamente intendiamo, che l' oggetto di questa maniera di cognizione non è oggetto per se stesso, poichè egli è anzi soggetto. Dunque se non si dà cognizione senza oggetto, forza è che la mente abbia tale facoltà da cangiare in oggetto suo anche ciò che di sua natura, cioè ristretto a se stesso, è meramente soggetto; il che noi dicemmo oggettivare. Ma, notate, egli è uopo che ella faccia questa operazione senza che il soggetto si rimanga dall' essere soggetto come egli è. E così ella fa appunto; poichè se nol facesse non potrebbe mai conoscere i soggetti come pur li conosce. Che se volessimo anche cercare come i soggetti si possano oggettivare senza che perdano la loro natura di soggetti, noi troveremmo che v' ha un primo oggetto, che è l' ente in universale, il quale abbraccia nel suo seno tutti i soggetti, e che questi si oggettivano appunto quando si vedono in lui. Ma lo svolgere questo concetto ci condurrebbe troppo a lungo, e le cose dette innanzi intorno all' ente in universale pel presente nostro bisogno chiariscono la cosa abbastanza per chi ci medita. Veniamo dunque all' altra maniera di cognizione, cioè alla cognizione assoluta, il cui carattere distintivo è d' avere per oggetto un oggetto. Che cosa viene a dire questa locuzione? Non dice due volte la stessa cosa? Appunto, miei signori. Poichè se l' oggetto della cognizione assoluta è già un oggetto; dunque egli non ha più bisogno di essere oggettivato; dunque è atto ad essere conosciuto per se stesso, senza bisogno di farci sopra alcun' altra operazione intermedia; dunque egli è conoscibile immediatamente per se stesso. Ecco che siamo arrivati a trovare ciò che è conoscibile per se, ciò che è intelligibile per la sua propria essenza; poichè niuna cosa è intelligibile se non è oggetto; quindi ciò che è puro oggetto è l' intelligibile stesso, la luce stessa della mente, o come si suol dire volgarmente il lume della ragione. Il soggetto adunque, e le cose che al soggetto si riferiscono o cadono nel soggetto, non sono conoscibili per sè; esse hanno d' uopo d' essere trasferite coll' atto del pensar nostro in ciò che è oggetto per sè e loro contenente quasi in un immenso specchio, e di essere così rese conoscibili partecipando all' oggettività. E quali sieno le cose soggettive noi l' abbiamo veduto, tutte quelle che cadono nel sentimento o che modificano il sentimento, le cose sensibili in una parola, interne ed esterne; l' anima nostra che è il soggetto stesso, e i sentimenti dell' anima, le sensazioni, le qualità sensibili dei corpi, insomma tutto ciò a cui si stende la percezione, tutto ciò che forma la nostra cognizion positiva, tutta la realità nostra propria e quella qualunque realità che agisce nella realità nostra. Se la cosa è così, che dunque concluderemo? Che la realità a noi conosciuta non è per se stessa oggetto dello spirito, ma ha bisogno d' esser prima oggettivata per esser da noi conosciuta: che dunque dee precedere nel nostro spirito ciò che è oggetto per se stesso, l' ente in universale; che la cognizione della realità è posteriore, è necessariamente acquisita, con quell' atto col quale lo spirito stesso la rende a sè conoscibile. Possiamo ora portare giudizio di quel sistema, che pretende di fare la realità stessa oggetto del primitivo intuito dell' anima. In un tal sistema manca la dottrina dei veri caratteri che distinguono ciò che è soggettivo da ciò che è oggettivo. Noi ne parleremo più a lungo nelle susseguenti lezioni. Noi abbiamo fatto fin qui non piccolo viaggio, o signori: abbiamo difesa la distinzione fra l' ideale e il reale contro coloro che tentano di levarla dalla Filosofia, il che è quanto dire che non arrivano a coglierla colle loro menti; abbiamo dimostrato come quella distinzione sia il principio, secondo il quale si devono classificare le cognizioni umane, e investigare la natura propria di ciascuna classe: quindi vedemmo altresì che da lei solamente si può dedurre la dottrina intorno all' intuito naturale dell' ente ed ai confini dello scibile umano; dottrina necessarissima ad evitare gli errori, che tutti a due forme riduconsi: « l' affermare di sapere quel che s' ignora »e « l' affermare d' ignorare quel che si sa ». Vogliamo ora continuarci a derivare nuovi ed importanti corollarj da quella distinzione preziosa che rivendicammo fra l' ideale ed il reale; i quali ci dimostrano com' ella, maneggiata secondo una buona dialettica, ci diviene in mano un' arma potentissima, con cui combattere gli errori più disparati e più perniciosi. Oserei quasi dirvi, che non c' è errore in metafisica che con quella distinzione non si possa abbattere facilmente. Io vi recherò in esempio quell' erroneo e mostruoso sistema di cui più che mai si parla a' nostri tempi, cioè il Panteismo. E che mai diviene questo sistema cimentato alla nostra distinzione? Vediamolo. Primieramente osservate, che il Panteismo è l' errore di una filosofia sintetica, voglio dire esclusivamente sintetica . Infatti fino a tanto che non si è ancora introdotta l' analisi, niente è più facile che confondere Iddio coll' universo. L' uomo allora apprende e pensa tutte le cose come una sola: ella è proprietà della percezione l' unità dell' oggetto, e le prime percezioni abbracciano, per così dire, tutto l' universo; una simile unità si scorge ancora nelle prime riflessioni. Qual meraviglia dunque che al pensiero dei primi investigatori della natura ogni cosa appaja mescolata col tutto; niente ci abbia al loro vedere di distinto, e la Filosofia così cominci col caos come la creazione? Ciò dee sembrare naturalissimo e necessario, e questo spiega come i sistemi panteistici sieno nati nella più remota antichità, e sieno proprj dell' Oriente, dove l' analisi non fece mai progresso alcuno, nè mai nacque o crebbe a buon punto la dialettica. Spiega ancora come in questa nostra Italia, quando i genj della Magna Grecia cominciarono il ciclo della filosofia occidentale, il primo loro pronunciato fu il panteismo. Ricordatevi, miei signori, di Senofane e di Parmenide, che spinse alla perfezione il sistema dal primo abbozzato dell' « Unità assoluta »e della famosa loro formula «en ta panta» (1). Ma un tale sistema non si tenne in piedi: fu assai breve il trionfo, o, per dir meglio, la tirannia che il sistema dell' unità esercitò sulla pluralità da lei assorbita e distrutta. Tostochè Zenone discepolo a Parmenide ridusse a scienza la dialettica (la maggiore invenzione forse che sia mai stata fatta, e tale che basterebbe sola ad illustrare l' Italia), il panteismo non potè più mantenersi; onde si può dire che quegli che più ingegnosamente il difese, qual fu Zenone, ne preparò altresì l' irreparabil caduta, introducendo nelle menti quest' arte analitica, in faccia alla quale esso non può durare e tenersi, la quale era pure stata trovata in suo servigio. Che dunque diremo, miei signori, osservando così di passaggio quella smania di che si mostra agitato alcuno dei presenti scrittori (il Gioberti) d' innalzare a cielo il metodo sintetico, e di deprimere l' analitico, quasichè la sintesi che non sia preceduta dall' analisi possa essere per avventura altra cosa che quello stato appunto d' ignoranza, di rozzezza, di confusione in cui si trovan le menti negli esordj delle nazioni (2)? Per la ragion de' contrarj dimostriamo tosto quanto l' analisi delle cognizioni umane ci spiani dinnanzi una via regia da condurci a vedere la falsità del panteismo, e tagliarlo dalle radici. E da prima, se il panteismo è quell' errore che confonde tutte le cose con Dio, e Dio con tutte le cose, l' errore della confusione, l' errore eminentemente sintetico, o piuttosto la sintesi di tutti gli errori; già si vede pur considerando questa sola condizione di lui, che qualsivoglia grado d' analisi distrugge il panteismo, poichè qualunque distinzione reale e separazione che noi facciamo nelle cose, il panteismo è tolto via: saremo forse caduti in qualche altro errore, ma nel panteismo non più. Pure non è questa, miei signori, l' applicazione che io vi chiamo a fare della nostra analisi alla confutazione del panteismo; ma ho voluto farvi riflettere in generale, che niun sistema analitico può essere panteistico; e perciò il sistema da noi seguito (quello del Rosmini) che viene riconosciuto per eminentemente analitico dagli stessi avversarj, e per questo gli danno biasimo e mala voce, non può essere che lontanissimo dal panteismo; nè quelli possono accusarlo di questo errore, senza cozzare seco medesimi. Poichè queste due qualità che gli vengono date ad un tempo di essere sommamente analitico, e di essere panteistico (quest' ultima però è accusa datagli dal solo Gioberti) sono, per dirlo di nuovo, contradizione. Veniamo dunque a noi: veniamo agli argomenti che escono dai visceri della nostra filosofia, i quali abbattono il panteismo. Noi abbiamo distinto l' ideale dal reale; abbiamo veduto che l' ideale è il fonte di quel cotale infinito che si scorge nello scibile umano, e il reale è il fonte della limitazione di questo stesso scibile . Di qual reale parliamo noi? Di quello che è l' oggetto della nostra percezione; di quello che costituisce il positivo della nostra cognizione; poichè già dicemmo, che la cognizione, in quant' è negativa, è potenzialmente priva d' ogni confine. Ecco dunque che noi con questa importantissima distinzione del reale e dell' ideale, di ciò che è l' oggetto della nostra intuizione, e di ciò che è l' oggetto della nostra percezione, abbiamo tirato una linea di separazione tra il finito e l' infinito, tra le cose contingenti e le cose eterne. Infatti quali sono i caratteri che noi abbiamo assegnato all' essere in universale , che è il proprio e necessario oggetto dell' intuizione, e che è il medesimo che dire l' essere ideale? Questi caratteri furono i più eminenti, cioè, se vi sovvenite, l' eternità, l' impassibilità, l' immutabilità, la necessità, la semplicità ovvero unità e l' infinità. Quali sono all' incontro i caratteri che noi abbiamo assegnati al reale a noi sensibile e percettibile nell' ordine di natura? I caratteri direttamente opposti a que' primi: e quindi la temporalità, la passibilità, la mutabilità, la contingenza, la pluralità e la limitazione. Ora di due qualità contrarie un subietto solo, una sostanza sola, non può averne che una, pel principio di contradizione, che vieta di affermare due qualità contrarie contemporaneamente e sotto lo stesso aspetto del subietto medesimo. Dunque se l' ideale e il reale da noi percettibile hanno proprietà direttamente tra loro contrarie, esse non possono esser un subietto solo, nè una sola natura, ma devon esser due nature affatto tra loro distinte. Ebbene, con questo già voi vedete, o signori, che il panteismo è impossibile. Intanto il reale a noi percettibile non sarà mai Dio; perchè esso ha i caratteri opposti ai divini. Esso è soggetto al tempo, ma la natura divina non soggiace punto alla legge del tempo. Esso è sottoposto alla passione, cioè un reale agisce sull' altro, un reale riceve l' azione dell' altro, ma niente può agire sopra di Dio, il quale è atto purissimo, come dimostra la Teologia, e però è superiore a tutti gli agenti inferiori, che da lui solo ricevono l' esistenza e l' attualità: l' essere reale da noi percepito è mutabile e modificabile, appunto perchè misto di potenza e di atto; ma questo ripugna all' essere divino che è sempre lo stesso: l' essere reale di cui parliamo, è contingente, cioè egli è tale di cui si può pensare tanto che sia, quanto che non sia; ma se di Dio nel suo intero concetto si potesse pensare che non fosse, già non sarebbe più Dio, e il levarlo via col pensiero, è un rendere impossibile il pensiero medesimo, poichè essendo Iddio la prima causa, tutto si distrugge colla distruzione di esso; perciò anche il pensante e il pensiero. L' essere reale, oggetto della percezion nostra, è moltiplice; i corpi sono fuori l' un dell' altro; le anime sono individue, aventi ciascuna un' esistenza tra loro incomunicabile; ma in Dio, non che darsi pluralità di natura, v' ha semplicità sì perfetta, che l' essenza sua non ammette neppure distinzioni reali di sorta alcuna. E finalmente l' essere reale a noi percettibile è d' ogni parte limitato, onde appunto gli accade di esser moltiplice, mentre Iddio è l' essere infinito da tutti i lati, sicchè nulla si può assegnare che il limiti e circoscriva. La distinzione adunque tra l' essere reale , e come oggetto della nostra esperienza e della nostra percezione, dall' essere ideale , oggetto della primitiva nostra intuizione e lume di nostre menti, il quale si riduce in Dio come una sua appartenenza (1), basta ella sola a distruggere ogni sistema di panteismo. Ma noi non dobbiamo accontentarci, miei signori, di questa confutazione universale, benchè irrepugnabile. E sapete perchè non dobbiamo noi accontentarcene? Perchè l' errore fa bene spesso come il ladro, che scacciato da una porta del palazzo entra di soppiatto da un' altra. Egli è vero che la mente che ha una volta bene afferrato l' assurdità d' un sistema, non dovrebbe più ammetterlo per cosa alcuna; egli è vero questo, ma ad una condizione, sapete quale? A condizione che la mente sia coerente seco stessa; e questa condizione appunto assai spesso non si verifica nella povera mente umana. Vediamo dunque, per quali vie l' errore del panteismo potrebbe mettersi furtivamente in essa, il che è quanto dire vediamo quali e quanti sieno que' ragionamenti che portan seco per logica conseguenza il panteismo. E cominciamo da quelli che muovono da un erroneo concetto dell' essere ideale; sarà questo il primo dei sistemi filosofici panteisti, che noi piglieremo a impugnare. Che cosa è, miei signori, l' essere ideale? Noi abbiamo già veduto che cosa egli è in sè stesso, ma all' uopo nostro dobbiamo darne una definizione che ne esprima l' uso. Diremo dunque che l' essere ideale è il mezzo del conoscere . Questa definizione non si può negare. Infatti l' uomo conosce per mezzo delle idee; senz' idee niente egli conosce. Tuttavia ella è una grande questione quella che si fa sulla natura del mezzo del conoscere. Noi che abbiamo distinto l' essere ideale dall' essere reale, abbiamo altresì sostenuto che il mezzo del conoscere è il puro essere ideale distinto dal reale. Ma questo sembra agli avversarj nostri un solenne sproposito; e vogliono che il mezzo con cui la mente umana conosce non sia solamente ideale, ma sia reale altresì; poichè, a loro avviso, ciò che è meramente ideale è nulla, non potendo essi comprendere niun' altra maniera di essere, distinta dalla realità. Ora vediamo un po' qual sarebbe la conseguenza del sistema che gli avversarj nostri vogliono sostituire a quello dell' essere ideale come mezzo dell' umano conoscere. Prima di tutto se l' essere ideale con cui l' uomo conosce è anche reale, quest' essere indubitatamente è Dio; poichè non solo ha tutti i caratteri divini che abbiamo enumerati della eternità, dell' impassibilità, dell' immutabilità, della necessità, della semplicità e della infinità, ma tutti questi caratteri non si restringono più ad essere mere idee, ma costituiscono oggimai un ente sussistente, il quale di conseguenza non può essere altro che Dio; ed essi, gli avversarj nostri, non rifuggono menomamente da questa evidentissima conseguenza, anzi ci confessano che l' oggetto della intuizione primitiva del nostro intelletto è appunto Iddio; e di ciò menan vanto, e pretendono riscuoter lode di filosofi religiosissimi, non senza morder noi d' empietà come quelli che ci dipartiamo dal celebre principio del greco poeta: « a Iove principium ». Ma non crediamo che questo luogo di Arato sia citato a ragione contro di noi; e di più crediamo che convenga, sopra tutto oggidì, guardarsi non meno per avventura che dall' empietà, da una falsa specie di Religione: perocchè conviene ben poco conoscere lo spirito del secol nostro, per non accorgersi, che non è quello dell' irreligione aperta, ma invece è uno spirito grandemente prolifico di sistemi bugiardamente religiosi ed ipocriti: parlo, signori miei di sistemi, e non di sistematizzanti: ed è per ciò che oso dire, che il sistema che ci si contrapone da Vincenzo Gioberti come religiosissimo, senza voler io punto toccare la religione del suo autore, è più che mai panteistico, benchè questo facondissimo scrittore declami con istraordinario zelo, e diciamolo francamente, con un zelo affettato contro di questo errore. Mettiamo dunque in confronto i due sistemi, e vediamo se l' uno o l' altro di essi sia per avventura affine all' empietà panteistica. Cominciamo dal nostro. Onde prendiamo noi la realtà delle cose? Dal sentimento, dal sentimento che ci costituisce, e poi dall' azione delle cose stesse reali su di noi, la quale da noi si sente, secondo la nostra condizione di esseri senzienti. Notate bene, miei signori, che dai nostri avversarj siamo perciò appunto accagionati di sensismo , poichè essi stimano che sia sensismo il prendere la realità dalle sensazioni, e non cavarla dall' intuito di Dio stesso. Ebbene: donde prendiamo noi la idealità delle cose? Non già dal sentimento; il che per tutti quelli che intendono un poco la natura dei sistemi filosofici, sarebbe veramente sensismo; non già dal sentimento, dicevo, ma dall' idea dell' essere in universale . Ora ditemi un poco: diamo noi forse alle cose reali e sussistenti l' idealità? Facciamo noi che l' idealità sia un elemento intrinseco della realità? Mai no; che anzi tutto il nostro studio consiste in tener separata l' idealità dalla realità della cosa, e noi la teniamo così separata, o se meglio vi piace, distinta, che noi la diciamo anzi incomunicabile. Infatti che cosa è l' idealità? Non altro che la cosa universale, possibile . Che cosa è la realità? Non altro che la cosa sussistente . Ora la cosa possibile non è e non può essere in modo alcuno la cosa sussistente. Ma le cose, in quanto sono cose contingenti e create, son elle possibili o sussistenti? Sussistenti, miei signori; poichè il possibile è eterno, e però increato; nè gli si può dare il titolo di creato, se non per esprimere ch' egli ha cominciato ad esistere in un modo distinto nella mente umana; non che egli abbia cominciato ad esistere nella possibilità universale delle cose (nella mente divina). Che servigio adunque presta a noi l' essere possibile? Non altro che quello di farci conoscere le cose sussistenti; poichè altro è la cognizione delle cose sussistenti, e altro la loro stessa sussistenza; senza l' essere possibile risplendente nelle nostre menti, le cose sussistenti non sarebbero a noi conosciute; ma sarebbero nondimeno sussistenti ed altresì sentite. Un' altra ricerca è poi quella, se possano sussistere senza essere conosciute da mente alcuna. Questa ricerca ontologica non appartiene punto nè poco al ragionamento presente. Ma come l' essere possibile, essendo meramente possibile, ci fa egli conoscere le sussistenze? Noi l' abbiamo veduto, noi l' abbiamo già spiegato precedentemente: non è che egli solo ci faccia conoscere le sussistenze, il che sarebbe assurdo; ma egli ci mette in grado di conoscerle all' occasione dei sentimenti; poichè noi mediante l' essere possibile, vediamo le sussistenze possibili, e vedendo le sussistenze possibili, possiamo anche affermarle allorchè le sentiamo, e tostochè le abbiamo affermate, noi le abbiamo conosciute; poichè questa dell' affermazione interiore è l' unica maniera di conoscere le sussistenze: all' incontro datemi un ente, il quale non potesse intuire le sussistenze come possibili (la possibilità delle sussistenze), in tal caso neppure potrà affermarle, e quindi neppur conoscerle come sussistenti, poichè affermare una sussistenza, non è altro che dire a sè stesso, che ciò che si sente è la realizzazione del possibile che s' intuisce. L' essere ideale dunque è per noi la condizione necessaria dell' affermare le sussistenze; non è egli stesso l' affermazione delle sussistenze, e molto meno le sussistenze medesime. Ora quando si afferma la realizzazione del possibile intuíto, non è mica che si affermi il possibile del reale, ciò che sarebbe un assurdo ed una contradizione, ma si afferma il reale come esemplato relativamente al possibile che è l' esemplare. Dunque nel sistema nostro non si predica del reale finito che cade ne' nostri sensi nessuno dei caratteri divini dell' essere possibile, che rimane sempre dal reale distinto; e quindi il divino e l' umano, il necessario e il contingente, restano immensamente e per sempre divisi, inconfusibilmente distinti. Passiamo ora al sistema de' nostri avversarj, nel qual sistema la realità stessa non si prende dal sentimento, come dicevamo, perchè è data nel primo intuito. Ora secondo essi, l' oggetto dell' intuito primitivo, il mezzo con cui l' uomo conosce tutte le cose reali, è Dio stesso. E bene, esaminiamo un poco come faccia l' uomo a conoscere, qual sia la natura dell' atto con cui l' uomo conosce i reali. Si direbbe egli che l' uomo conosca un dato reale, p. e. una casa, senza saper niente di lei? senza saper che sussiste? certo che no. Niente dunque si sa d' una cosa reale, se ignorasene la sussistenza. L' atto dunque, con cui si conosce una cosa reale, involge, come sua condizione intrinseca, che noi nel nostro interno affermiamo la sussistenza di quella cosa. E appunto qui, dicono i nostri avversarj, che essendo Dio l' Ente per essenza, abbiamo bisogno di Dio per conoscere le cose reali, come l' Ente nel quale sono e onde ricevono continuamente la sussistenza per via di creazione. Ma se la cosa è così, argomentiamo in questo modo: noi conosciamo la sussistenza delle cose reali, coll' affermare che esse sussistono, il che è quanto dire, col predicare di esse la sussistenza. Ma questa sussistenza che noi predichiamo di esse e che noi loro attribuiamo, secondo i nostri avversarj è nel primo intuito, il cui oggetto è Dio stesso; dunque l' essere reale di tutte le cose è Dio; dunque affermando le cose, affermiamo Dio; dunque le cose tutte che conosciamo altro non sono finalmente che Dio; l' oggetto del nostro conoscere è sempre Dio, anche quando conosciamo i corpi e gli enti finiti d' ogni maniera; quindi tutte le scienze non sono che Teologia, e l' enciclopedia delle scienze, come dice appunto Vincenzo Gioberti, altro non è che una Religione. Ora ditemi che ve ne pare? Non altro ve ne può parere, io credo, se non che questa dottrina è panteismo apertissimo e manifestissimo. Permettete, miei signori, che io vi legga qui un luogo di questo caldo avversario del sistema da noi seguito, pronti anche dopo di ciò a discutere quanto egli dice per giustificarsi dall' accusa di panteismo che ben prevede dovergli essere apposta. [...OMISSIS...] Io non so, miei signori, come si possa professare il panteismo più apertamente, e come si possa con sincerità niegare di professarlo. Ma osservate diligentemente tutto ciò che afferma il signor Gioberti in questo periodo e le conseguenze che ne verrebbero, benchè certo dobbiamo ad ogni modo credere, contro la volontà dello scrittore. [...OMISSIS...] A dir vero con queste parole si sublimano molto le umane scienze; giacchè si assicura che il Fisico, il Matematico, il Chimico, l' Anatomico, il Fisiologo, ogni scienziato insomma, sia cristiano, sia gentile, turco o ebreo, il quale investighi qualche parte della natura fisica o spirituale, non è niente affatto inferiore al Teologo e neppure al Mistico più sublime, perchè di tutti i suoi studj egli ha sempre egualmente per termine immediato Iddio stesso, e così deve essere: se Iddio è l' oggetto universale del sapere, necessariamente l' oggetto immediato di ogni scienza, ed ogni cosa di cui tratta una scienza qualsiasi, ha per essere suo Iddio stesso. Le scienze così sono, come dicevo, innalzate oltre misura, e come esse si cangiano tutte insieme in una Religione, così i dotti devono essere i sacerdoti di questa nuova Religione; e non devono essere già chiamati sacerdoti per un modo di favellare traslato, ma nel senso il più proprio della parola, in senso veramente filosofico, giacchè nel senso il più proprio, e, siccome l' ultima espressione del suo sistema, il signor Gioberti ci dice, che « Iddio è l' oggetto universale del sapere , » e che tutte le scienze hanno per « termine immediato Dio stesso », e che sono (il che è conseguente) una religione . Certo la cosa dee essere così, miei signori, poichè se l' essere reale che noi predichiamo di tutte le cose reali è Dio stesso, come si sostiene; essendo Dio l' essere di tutte le cose, non si può dare scienza che non abbia per suo termine immediato Iddio. E notate bene, che non dice già solo termine, ma termine immediato, il che esprime propriamente l' oggetto del conoscere, sicchè quando noi conosciamo un legno, l' oggetto del conoscere è Dio; e quando conosciamo una pietra, un ferro, una serpe, uno scarafaggio, un uomo, il diavolo stesso finalmente (scusate se faccio entrare questo personaggio) l' oggetto del nostro conoscere è sempre Dio; Dio stesso è il termine immediato della nostra conoscenza, nè più nè meno. Che ve ne pare, di nuovo vi domando, signori miei? calunniamo noi forse il signor Gioberti? o piuttosto non sono le sue stesse parole stampate alla pagina VI e VII della citata « Avvertenza », che ci dicono tutto questo, e ce lo dicono come un riassunto del suo sistema, come l' espressione dell' intimo suo pensiero, come la formola più esatta della sapienza, quella famosa formola di cui egli parla con tanta compiacenza, e dall' alto della quale compatisce sì poco la nostra ignoranza? Beate adunque le umane scienze che sono divenute la religione del Dio7Mondo! Beati i dotti, che sono divenuti i veri sacerdoti di questo Dio giobertiano! Beati i gentili Confucio, Zoroastro, Budda, Averroè, Leucippo, Democrito, e quanti empj fur celebrati in mezzo al paganesimo o tra i Musulmani per uomini dotti, investigatori della natura, i quali, eziandiochè professassero l' ateismo, avevano però Dio stesso per termine immediato de' loro studj, quel Dio che è sempre l' oggetto universale del sapere! Beati gli Enciclopedisti e tutti gl' increduli d' ogni nazione, che ne' due secoli passati combatterono il Cristianesimo, e fin l' esistenza di Dio, i quali diventano per la giobertiana dottrina altrettanti pontefici del nuovo culto, della nuova religione, che annunzia e predica questo non so se filosofo, o pur profeta! Ed io ben credo che se potessero rinascere, maravigliati di tanta trasformazione, al vedersi unti sacerdoti e pontefici quelli che finchè vissero, bestemmiarono ogni fede ed ogni culto, si dichiarerebbero troppo riconoscenti al signor Gioberti; nè esiterebbero per avventura un istante ad arruolarsi sotto ad un sì nuovo stendardo, se non che, miei signori, io temerei che questo stendardo che si fa ora sventolare agli occhi dell' Italia, sarebbe forse strappato di mano all' ardito antesignano, che tolse ad inalberarlo: poichè e il Waishaupt e il Saint7Simon, ed altri ancora di cotali gerofanti, rivendicherebbero probabilmente a sè la gloria di averlo innalzato i primi, e dichiarerebbero l' Italiano usurpatore della gloria straniera. Davvero che il Padre Enfantin non serebbe l' ultimo ad assalire il nostro bandierajo, e torgli di mano l' insegna, perchè io suppongo, miei signori, che voi siate già al fatto di tutto ciò che scrissero i San7simoniani per dimostrare che tutte le scienze, le arti, il commercio, l' industria, l' agricoltura non è altro che Religione, l' unica Religione, la sola vera Religione, e che perciò appunto Iddio essendo l' uomo e tutte le cose, non c' è bisogno d' altro culto, di altra sacerdotale gerarchia, che il culto delle scienze e delle arti, i cui sacerdoti sono tutti gli uomini dotti, industriosi, e che sanno godere i beni della vita, beni tutti naturalmente divini; e sacerdotesse sono le donne delle stesse attitudini fornite: di che traevano altresì che la disposizione più eccellente ad un tale loro sacerdozio non era altro che l' avvenenza de' corpi, giacchè dicevano e dicono, che tali sacerdoti e tali sacerdotesse debbono esercitare il nuovo loro culto principalmente colla bellezza. Onde codesti inspirati, che dal Saint7Simon presero il nome, trassero già dalla teoria che il Gioberti ora ripete ristretta ne' suoi principj, e ce la dà come un eccellente sistema di vera filosofia, tutte le conseguenze pratiche che da essa legittimamente derivano, e che egli giustamente ricusa e disdice. Ma noi non siamo qui, miei signori, per trattare quasi innanzi a tribunale il diritto di priorità che possa avere l' abate Gioberti all' invenzione del suo sistema sopra i precedenti; non siamo qui per esaminare a qual titolo egli si vanti d' aver nobilitata la scienza, e fattala divenire una specie di culto nobilissimo verso il suo Autore. Siamo qui solamente per esaminare una verità importante al nostro studio, per riconoscere con mature ed imparziali riflessioni, se si possa confondere l' ente ideale col reale, l' idea con cui l' uomo conosce tutte le cose, colla realità di Dio, senza professare con ciò appunto un sistema di panteismo. Poichè io sono ben certo che voi tutti sarete meco d' accordo in questo, che se rimane provato, che dichiarando esser Iddio stesso il mezzo unico e necessario con cui si possono conoscere tutte le cose reali, è lo stesso che fare Iddio l' essere reale e la sostanza di tutte le cose, se ciò sarà provato una volta, dico, non potrà mai più venire un tempo in cui questa dottrina cessi dall' essere panteistica, poichè ciò che è vero una volta è vero sempre, e però non può riuscire che vana la lusinga del signor Gioberti, il quale spera appunto che verrà un tempo in cui non sarà più panteistico il dire che « Iddio è in tutta la scienza » confessando con ciò che, al presente almeno, la sua è una dottrina riputata panteistica. Ma concedetemi che io vi legga anche questo brano, in cui egli va preconizzando i destini della nuova teoria. [...OMISSIS...] E certo la scienza non può essere religiosa, come egli dice, se non è una religione, quando sia vero che l' oggetto d' ogni scienza e di ogni cognizione è Dio stesso. Ma se per l' opposto, l' oggetto e il termine immediato delle scienze naturali non è Dio stesso, converrà dire il contrario, miei signori; converrà dire che il pretendere che la scienza sia irreligiosa sol perchè non è una religione, è un portare le cose all' eccesso, è un confondere due cose ben diverse, la religione e la scienza, e dichiarando la scienza religione, egli è un sagrificare la religione alla scienza. Giacchè non vi ha più bisogno di un' altra religione in tal caso, qualora gli uomini coltivino la scienza, che è già la religione ella stessa: e perciò il fisico, il botanico, l' astronomo non ha più bisogno d' altro culto, che del culto della natura, delle piante, degli animali e degli astri, perocchè questi sono gli oggetti immediati di tali scienze, o son tutti Dio, perchè l' oggetto e il termine immediato della scienza è Dio. Io non so, miei signori, come si possa professare più apertamente il panteismo; ma poichè il nostro signor Gioberti fa almeno le mostre di voler giostrare contro tutti i panteisti anteriori a lui, e quindi dobbiamo credere lontanissimo dall' animo suo un tale errore; ella è cosa equa e necessaria per illustrare questo argomento e investigarne il fondo, che noi ascoltiamo ed esaminiamo diligentissimamente le sue discolpe, e facciamo ogni nostra possa per liberarlo da tanta vergogna, o almeno da tanto abbaglio, se mai ci riesce possibile; se non che non rimanendoci oggi mai più tempo in questa lezione da svolger le ragioni con cui egli toglie a giustificarsi, ne riserveremo la trattazione alla lezione prossima, contentandoci per questa di solo sfiorare l' ampia materia. E per primo fiore che noi possiamo raccogliere ad introduzione della sottile disamina, piglieremo a nostro pro un avvertimento che ci dà lo stesso Gioberti, ed è [...OMISSIS...] Non applichiamo no, miei signori, il titolo di frasi menzognere alle frasi giobertiane, siccome quello che ha una non so qual relazione ingiuriosa coll' animo; ma non sarà indiscreto nè ingiusto che noi chiamiamo magnifiche le frasi che egli adopera, e sotto una veste magnifica si possono certamente coprire anche cenci o piaghe profonde. Onde non ci vorremo noi lasciare illudere al suono delle parole, ma col pensiero semplice e retto cercare i concetti. L' altra cosa che vi farò osservare prima di chiudere la lezione, si è che due sono le strade più generali per le quali si può rovesciare nel panteismo, delle quali il Gioberti non par che conosca se non una sola. Poichè egli è tuttavia certo che una strada conducente al panteismo, è il partir da Dio, e discendendo alle creature, con queste confonderlo; l' altra si è muover dalle creature, e confonderle col Creatore. La prima è il confondere la natura necessaria ed assoluta colla contingente e limitata, ed è propria di quelli i quali, formandosi un' idea grandissima di Dio, non sanno poscia tener da lui le altre cose distinte, ma le fanno assorbire in lui stesso e così indiarsi; la seconda è propria di coloro che più grossolanamente della grandezza dell' universo stupiti lo vengono deificando. Egli è evidente che entrambi riescono al medesimo risultato, benchè i termini da cui muovono siano diversi; poichè vi ha tanto dalla natura a Dio, quanto vi ha da Dio alla natura, e il dire che Iddio è tutte le cose, riesce al medesimo che a dire che tutte le cose sono Dio. Ora coloro che fanno Dio quell' Essere che si afferma e si predica delle cose reali, e col quale si conoscono, sogliono essere di que' panteisti, che avendo precedentemente un' idea grande di Dio, credono magnificarlo vie più col dichiarare che l' essere suo è quell' essere stesso che l' intendimento conosce in tutte le cose reali, e che perciò il termine immediato della cognizione di ogni cosa è Dio. Ma il Gioberti non vuol punto riconoscere questa seconda via per la quale si viene al panteismo, confondendo la natura necessaria colla contingente; che anzi pretende non avervi che un sistema di panteismo, il quale confonde la realità contingente colla realità necessaria. Egli se ne dichiarò espressamente nell' opera degli « Errori », perchè il professore Tarditi aveva scritto che [...OMISSIS...] Ora il Gioberti gli negò recisamente che il panteismo nascesse dal fare che quell' Ente che è il principio del sapere sia altresì il principio e la base delle realità contingenti, anzi egli scrisse così: [...OMISSIS...] . Ma noi sappiamo assai bene, che la confusione della realtà contingente colla realtà necessaria e assoluta è principio generativo del panteismo; ma sappiamo altresì che è ugualmente principio generativo del panteismo la confusione della idealità necessaria e assoluta colla realità contingente (tanto più nel sistema di Gioberti, che ad imitazione di Hegel, chiama e definisce Iddio l' idea); come pure l' identificazione di quella idealità con tutto ciò che non è la stessa realità necessaria e assoluta, ed è questo che ignora e disconosce il signor Gioberti; e però egli ci dà un giusto sospetto, o per dir meglio, ci spiega per qual via egli pervenne al suo errore, ignorando dove tal via conduce. Poichè escludendo egli uno dei sistemi di panteismo, pretendendo che non ci sia che l' altro dei due grandi sistemi da noi indicati, non riconoscendo che una sola delle due vie che mettono a tale errore, qual meraviglia, miei signori, ch' egli sia, e nieghi ciò nondimeno di essere panteista? Il suo sistema panteistico è appunto quello che egli disconosce, la via per cui egli se ne va a precipitarvi è appunto quella che egli ignora, o dichiara ignorare che meni a tal termine. Ma d' altra parte come può egli ignorar ciò? quali almeno sono le ragioni, alle quali affidato, pretende che non è punto nè poco infetta di panteismo quella dottrina ch' egli professa, e colla quale sostiene a rigor di parola, che il termine immediato di ogni cognizione naturale è Dio, che Dio è l' oggetto universale del sapere? Questo, come vi dicevo, è ciò che nella prossima lezione servirà di tema al nostro ragionamento. Avete veduto, o signori, in qual maniera il signor Gioberti pensi di medicare e rimpastare il sistema rosminiano per allontanarsi più che mai dall' empietà panteistica da lui tanto detestata ed abborrita. Noi per ispiegare la cognizione delle cose reali, e principalmente la percezione intellettiva, ricorrevamo col Rosmini non meno che col senso comune, all' azione che esse esercitano immediatamente sopra di noi producendoci i sentimenti. Ma poichè quest' azione e questi sentimenti non possono esser più che materia di cognizione, cercavamo poi il formale della cognizione in un elemento divino, cioè nell' essere possibile, che è l' intelligibile stesso. Noi abbiamo posta tutta la cura per non confondere l' idea elemento divino con cui si conosce, colla cosa reale che affermando si conosce, la quale, se parlasi di cose create, è contingente: e così ponendo un muro di separazione insuperabile tra la cosa contingente e l' elemento divino con cui ella si conosce, credevamo d' avere estirpato il panteismo fino dalle radici. Ma il signor Gioberti grida all' incontro con altissima voce, che noi siamo appunto per questo panteisti, perchè abbiamo elevato questo gran muro che separa il divino dall' umano, e che egli solo ha trovata la via di annientare quest' errore perniciosissimo coll' atterrare del tutto il muro di divisione da noi eretto. E come procede egli in questo suo trovato? Voi l' avete veduto, col negare fieramente che gli uomini prendano dal sentimento la materia della cognizione dei reali, e coll' affermare che essi prendano tanto la materia, quanto la forma di questa cognizione, tanto l' elemento ideale, quanto l' elemento reale de' contingenti in Dio stesso percepito da noi, com' egli pretende, per un naturale intuito, di maniera che Iddio sia sempre l' oggetto universale del sapere e tutte le scienze abbiano per loro termine immediato Dio stesso, e sieno una religione! Tale è la pretensione del signor Gioberti, ed io credo, come v' ho detto nella precedente lezione, che deva essere tanto difficile ad ogni uomo di buon senso il capire come si possa evitare il panteismo cercando nella natura divina la realità delle cose contingenti, quant' è difficile il capire come si possa accusare di panteismo una filosofia che toglie la realità delle cose contingenti da queste stesse cose, e non ricorre all' elemento divino se non per ispiegare la loro cognizione. Ma poichè il signor Gioberti stesso pur sente d' aver bisogno d' una apologia e d' una difesa contro il sospetto di panteismo; egli si sbraccia a difendersi, ed è questa apologia che noi ci siamo proposti di esaminare nella lezione presente con tutta la possibile equità e discrezione. In primo deve esser cosa bella ed intesa con noi, che il protestare e gridare di non esser panteista, come pure il dare generosamente quest' accusa agli altri, questo solo non iscioglie la questione, perchè in filosofia non vale il cicaleccio, ma la ragione; non vale fare lo spavaldo, ma convien fare il filosofo; onde tutte le declamazioni del signor Gioberti contro gli altri sistemi, e specialmente contro quelli da cui egli ha preso di più, e tutte le magnifiche lodi che dà a sè stesso, non devono, miei signori, entrare in conto: e qui noi dobbiamo, se vogliamo trovare il vero e non bere grosso, cancellarle coll' imaginazione nostra da' suoi volumi senza compassione di renderli, così facendo, piccini piccini, o, per usare una parola sua, assai mingherlini. In secondo luogo egli stesso ci avverte di non lasciarci illudere, come avete udito, « dalle frasi magnifiche e menzognere che talvolta adoperano i panteisti »; il che dee valere anche per lui finattanto che non è purgato intieramente dal sospetto di panteismo ch' egli stesso teme d' incorrere; benchè predica che verrà un tempo in cui non si avrà più per panteistico il dire quel ch' egli dice, cioè che « « Iddio è in tutta la scienza » », frase che contiene il sistema da lui professato e con che egli viene a riconoscere che al presente almeno quella frase nel senso datole è riconosciuta per panteistica. Oltre ciò, dopo aver egli scritto nel 1.40, nell' « Introduzione allo studio della filosofia », che Iddio è « « l' oggetto universale del sapere » », tre anni dopo, cioè nel 1.43, nell' opera « del Buono » confessò che questa frase è equivoca, e che per lo meno uno de' suoi sensi è apertamente panteistico, benchè egli l' abbia pronunciata assolutamente, e senza distinzione, come quella che esprimeva nel modo più proprio tutta la sua dottrina. Udite, o signori, la sua confessione nell' Avvertenza premessa all' opera « del Buono » [...OMISSIS...] . Se dunque questa frase si può prendere anche in senso eterodosso e panteistico, perchè l' ha egli pronunciata assolutamente ed incondizionatamente? perchè ha lasciato che tutto il mondo per ben tre anni la considerasse come l' espressione più fedele del suo sistema? Ma via, posciachè ora egli stima bene di ritrattarsi in parte, cioè di ritrattare l' uno de' due sensi che può avere quella frase, vediamo con quali argomenti dimostri, che nel suo sistema essa debba avere un senso ortodosso. Egli avverte, che i panteisti [...OMISSIS...] . Io non mi fermerò, o signori, ad osservare la poca proprietà filosofica di que' suoi dati scientifici, frase tutta sua; ma piuttosto domanderò se l' oggetto del sapere possa essere la sola forma senza la materia, o la materia senza la forma. P. e. il fisico che parla delle diverse specie di sostanze corporee, prende forse ad oggetto della sua dottrina i corpi spogliati di materia? o volendo esporre la scienza dell' uomo potrà l' antropologista parlare d' un uomo non composto di carne e di ossa? I corpi celesti che sono l' oggetto dell' astronomia si possono concepire privi al tutto d' ogni materia e d' ogni realità? e in generale quando le scienze trattano di esseri reali, e non puramente ideali, si può egli dire che il loro oggetto debba esser privo di materia ossia di realità? Poichè non si parla già qui di materia o di realità individuata, ma della materia de' dati scientifici che è materia e realità comune e specifica. Laonde, se i panteisti sotto il nome d' oggetto del sapere intendano la forma o idea dei dati scientifici, e la loro materia egualmente, niuno potrà accagionarli per questo d' errore, finchè si parla di scienze che hanno esseri determinati per loro oggetto, quando non si voglia dire che l' oggetto di un tal sapere sia costituito dalla sola forma senza più contro a ciò che si propone la scienza. Dove sta adunque l' errore dei panteisti? non già nella definizione dell' oggetto del sapere, che loro attribuisce il signor Gioberti, ma bensì nel pretendere che quest' oggetto sia Dio. Ma questo è appunto quello che pretende Vincenzo Gioberti. Egli l' ha detto, l' ha replicato in termini espressi, ha pronunciato solennemente che Iddio stesso è il termine immediato di tutte le scienze di cui si compone l' Enciclopedia, e che questa è una religione, e che Iddio stesso è l' oggetto universale del sapere, e lo provò di qui che non si deve prendere la materia della cognizione nostra dal sentimento, come fa il Rosmini col senso comune degli uomini e delle scuole, ma si deve trovarla in Dio, che è l' oggetto del nostro intuito; imperocchè che cosa è la materia del sapere, se non la realtà delle cose che si conoscono, o al più la cognizione di questa realtà? Onde se il signor Gioberti non credesse, come egli dice che fanno i panteisti, che per l' oggetto delle scienze fisiche si debba intendere la forma de' dati scientifici e la materia egualmente, invano avrebbe riposto fra i pretesi errori del Rosmini questo, che egli toglie la materia della cognizione da' sensi, e non da Dio oggetto dell' intuito. E voi già vi sovvenite quanto il Gioberti lungamente si sbracci per provare che non è mica vero che la cognizione di un essere reale p. e. d' un corpo sia composta di due elementi assolutamente distinti, l' uno de' quali divino ed ideale, l' altro contingente e reale ricevuto nel nostro sentimento; da due elementi, dico, che un giudicio dell' uomo copula insieme in un' affermazione; egli pretende anzi che questi due elementi l' idea e la realità sentita da noi non abbiano alcuna reale distinzione, e quindi non possano essere termini di alcun giudicio, ma si percepiscano come un concetto semplice, di modo che l' idea e la realità contingente (notate bene contingente) formi un oggetto solo al tutto indivisibile, oggetto del nostro intuito, il quale è la sostanza delle cose, ed è Dio stesso. Risovvenitevi del Capo IV della sua « Introduzione allo studio della Filosofia », dove questo suo concetto è ampiamente sviluppato, e per ajutare la vostra memoria ve ne leggerò qualche passo. Al N. 3 del citato capitolo egli prende a confutare questa proposizione del professor Tarditi: [...OMISSIS...] Ora egli sostiene che qui non vi ha giudizio, ma semplice concetto. Ma udiamo lui stesso. Proposta la questione da che nasca, e in che consista il concetto della concretezza e della individualità delle cose, incomincia a dire [...OMISSIS...] Era facile, voi il vedete, rispondere a questa interrogazione, bastando dire che il concetto del concreto e dell' individuo è generico anch' esso, perchè esprime ogni concreto ed ogni individuo; onde la difficoltà da lui proposta non esiste, ma è da lui sognata. Ma invece di trovare una risposta sì facile, al Gioberti piace rispondere così: [...OMISSIS...] . Io credo che voi altri stupirete a queste parole. Stupirete a sentire che vi fu al mondo un uomo che negò, che l' idea della concretezza sia un' idea, il che è quanto dire che il nero sia il nero, e che il bianco sia il bianco. Io non ho mai saputo, che vi sia stato un tal uomo al mondo, e molto meno un filosofo; ma il signor Gioberti ci fa sapere che questo povero goffo è il Rosmini. Peccato che non abbia indicato dove il Rosmini abbia parlato così! Ma via, non perdiam tempo, posciachè in tutte le opere del Rosmini dal principio alla fine si cercherebbe indarno una cosa simile: egli è uopo conchiudere, o che il signor Gioberti abbia traveduto, ovvero che il suo sistema non possa esser sostenuto, se non avanzando sì gravi errori di fatto. Proseguiamo dunque a sentire il ragionamento, col quale il Gioberti pretende che noi conosciamo la realità delle cose, dico delle cose contingenti, notate, per un immediato intuito di Dio, di maniera che Iddio riesca sempre il termine immediato del nostro sapere. Così egli la discorre. [...OMISSIS...] Voi avete udito! Gli esseri contingenti, la realità individuale si conosce per un intuito speciale e diretto, il quale ci rivela non la sola corteccia, ma la sostanza delle cose. Ora l' oggetto di quest' intuito, come oggetto immediato di ogni sapere, secondo il Gioberti, è Dio; nè può esser altro, perocchè se potesse essere qualche cos' altro, già egli non sarebbe più bisogno di spendere tante parole al Gioberti per ispiegare come si conosca la realità individuale. Che cosa dunque ci rivela l' intuito? nient' altro ci può rivelare se non il suo oggetto. Ma da una parte si dice che questo oggetto è Dio, dall' altra si dice, che quest' oggetto che ci si rivela è « « non solo la corteccia, ma ben anco la sostanza delle cose ». » Or pel principio che due cose eguali a una terza sono uguali tra di loro, ne viene irrepugnabilmente che Iddio è « « non solo la corteccia, ma ben anco la sostanza delle cose ». » Non siamo noi nella sostanza universale dello Spinoza? se non anco più in là, giacchè Iddio, secondo le citate parole del Gioberti, è non solo la sostanza, ma anco la corteccia delle cose? Noi siamo pervenuti a questo risultato per una dimostrazione altrettanto esatta, quanto le dimostrazioni matematiche. Il qual risultato noi l' abbiamo colto in sulla via, perchè ci veniva tra' piedi, senza che fosse propriamente l' intento del nostro ragionamento. Noi volevamo far osservare che il Gioberti pretende che si conosca la realità delle cose contingenti per un intuito semplice e indivisibile, e non per un giudicio risultante da due termini, l' idea (o per dir meglio, l' essenza che si vede nell' idea) e il sentimento reale. Infatti tutto il discorso suo tende a provare la tesi che questi due termini non esistono, ma ne esiste un solo, che è l' ente reale indivisibile affatto in sè stesso, in quant' è oggetto del primo intuito, Iddio: egli sostiene, che l' essere possibile si trova dalla mente colla riflessione dopo il reale che è l' oggetto dell' intuito. [...OMISSIS...] Dal quale passo si vede che il Gioberti nega espressamente che il reale oggetto dell' intuito sia composto, o si possa dividere realmente, e sola la riflessione lo divide astraendo da esso il possibile. Ora il reale che è l' oggetto dell' intuito contiene per conseguente non solo la forma o idea, ma anche la materia del conoscere, sicchè la riflessione che sopravviene non può aggiungervi nulla, ma solo analizzarlo mentalmente, su di che mi riserbo, o signori, a farvi in altro luogo delle speciali osservazioni. Dunque se l' oggetto dell' intuito è indivisibile, e contiene ugualmente la materia e la forma del sapere, come potrà il Gioberti condannare i panteisti per questo che essi « « intendono sotto il nome d' oggetto la forma o idea dei dati scientifici, e la loro materia egualmente » » senza condannare sè stesso? E se sono i panteisti che « « quando dicono che esso Dio è l' oggetto universale del sapere, intendono sotto il nome di oggetto la forma o idea dei dati scientifici e la loro materia egualmente » », non dovrà temere il signor Gioberti di essere annoverato appunto fra essi, posciachè sostiene che la materia e la forma del sapere, la realità e l' idealità, non si congiungono dall' uomo con un giudicio come è uopo che avvenga se sono due cose; ma si comprendono in un concetto solo, e si hanno unite nell' oggetto dell' intuito, che è Dio, oggetto universale del sapere? Di poi osservate ancora incostanza di parlare. Questo autore afferma che, [...OMISSIS...] ; il che è quanto dire che per evitare il panteismo conviene dividere il conoscimento delle cose contingenti in IDEA o forma, e in MATERIA. Ora voi ben sapete che questo è appunto quello che facemmo noi col Rosmini; onde a detta del signor Gioberti, la nostra maniera di filosofare dovrebbe appunto essere la via sicura di evitare il panteismo. Non crediate: il Gioberti vuole tutt' altro: vuole anzi la confusione in uno stesso concetto della materia colla forma del sapere: ed è implacabile contro il Rosmini, perchè divise saviamente que' due elementi. Ma di più, che cosa egli intenda per Idea, l' avete udito poco fa: vi richiamerò le sue parole: [...OMISSIS...] . Nell' idea dunque, secondo il Gioberti, si contiene la REALITA`, anzi ella è la realità stessa; dalla quale colla riflessione si astrae poscia la possibilità. Se dunque l' idea contiene tutto, la realità come anche la possibilità, in che modo poi egli vuole che si distingua l' idea dalla materia del sapere? in che modo dichiara panteismo il non distinguere que' due elementi, ma fare che nell' oggetto del sapere si comprenda tanto l' idea quanto la materia? che cosa è, o può essere la materia del sapere, se non la realità? E se nell' idea vi è già prima di tutto la realità, che cosa può rimanere fuori di lei e che sia atto a costituire una materia del sapere, distinta dall' idea stessa? O si dee dunque distinguere l' idea che contiene la possibilità dell' ente contingente, dalla realità di quest' ente, e allora vi ha distinzione tra la forma e la materia del sapere, ed è evitato il panteismo, il che fa appunto il Rosmini; ovvero si dee dire che l' idea è la realità dell' ente onde poi si astrae la possibilità, ed allora non vi ha distinzione possibile tra la forma e la materia del sapere, e si cade nel panteismo, il che fa il Gioberti. Ma il Gioberti stesso insegna che se non si distingue la materia dalla forma del sapere, e si fa che entrambi sieno oggetto dell' intuito, il panteismo è irreparabile. Dunque il Gioberti stesso si fa la sentenza, e noi siamo costretti a dichiararlo panteista, se vogliamo attenerci alla sua propria confessione. Tornando dunque alla definizione dell' oggetto del sapere, no, l' empietà de' panteisti non istà in pretendere che l' oggetto del sapere umano abbracci la forma e la materia egualmente: qui non vi ha errore di sorta; la forma e la materia del sapere è egualmente necessaria a costituirne l' oggetto, o per dir meglio, certi oggetti, e non si può dividere trattandosi di enti contingenti; imperciocchè, badate bene, miei signori, il Gioberti vi confonde due questioni che sono separatissime: la prima « se l' essere ideale sia Dio o no »: la seconda « se noi conosciamo i reali contingenti coll' idea e col sentimento, ovvero collo stesso Dio7Idea, di modo che quando conosciamo un reale contingente, l' oggetto del nostro conoscere sia Dio stesso ». Ora è questa seconda questione che noi al presente trattiamo, e non la prima, e il Gioberti la risolve affermativamente. Ma posciachè il dire che, quando conosciamo i reali contingenti, allora l' oggetto del nostro conoscere è lo stesso Dio, altro non è che un manifestissimo panteismo; quindi il Gioberti per iscansare in qualche modo tale conseguenza, qui senza paura di contradirsi viene con noi, e ci divide in due parti l' oggetto del conoscere, cioè nella forma o idea e nella materia, e dice che l' errore del panteismo sta nel non fare questa divisione: nè si ricorda più, o mostra almeno di non ricordarsi che prima, nell' « Introduzione allo studio della Filosofia », aveva insegnato, che ogni oggetto del conoscere si riduce all' oggetto dell' intuito, e che l' oggetto dell' intuito è reale, uno e indivisibile, e che il possibile si trova poscia in esso per astrazione. Quindi egli non aveva certamente diritto di scrivere così: [...OMISSIS...] . Perocchè in prima, quando noi conosciamo un corpo, abbiamo per oggetto del nostro conoscere la materia delle forze finite, e se non avessimo questa materia delle forze finite per oggetto del nostro atto conoscitivo, non conosceremmo mai un corpo. In secondo luogo egli dice, che in questa materia delle forze finite riluce l' idea, la quale è Dio stesso: ma in tal caso, quando noi conosciamo un corpo, il nostro conoscere avrebbe due oggetti e non un solo, l' un oggetto sarebbe l' idea che è Dio, che non si può confondere colle forze finite, senza cadere nel panteismo che si vuole evitare, l' altro oggetto sarebbe la materia delle forze finite che costituisce il corpo e che non è Dio. Ed egli sembra che così voglia dire, laddove scrive, che egli move il suo ragionare [...OMISSIS...] ; lasciando da parte la strana improprietà di applicare a Dio la denominazione di concreto, mentre tutta la Teologia insegna che Iddio non è un concreto. Ora se l' atto di conoscere ha un doppio concreto, ognuno che conosce un corpo dovrebbe conoscer due cose, Dio e il corpo, il che si oppone troppo al senso comune per farcelo ingozzare; poichè niuno quando conosce un corpo dice mai di conoscere Dio ed il corpo. Dipoi, se chi conosce un corpo conosce questi due oggetti, certo è che egli non li deve confondere, bensì distinguere tra loro, li deve cioè distinguer tanto quanto sono distinti in sè stessi; e poichè sono distinti immensamente, infinitamente, perciò nel suo supposto chi conosce un corpo dee collo stesso atto conoscere l' infinita differenza che corre tra il corpo che conosce e Iddio che pure conosce. Perocchè sarebbe un assurdo contrario all' esperienza ed al senso comune il dire che ognuno che conosce un corpo, conosce Iddio e il corpo in modo che faccia di questi due oggetti un pasticcio, prendendoli per un solo oggetto. E pure il Gioberti nel luogo citato, in cui prende a separare il suo sistema dal panteismo, parla di un oggetto solo, nel quale distingue la materia dalla forma. Ma o convien dire, che il corpo non sia mai oggetto del conoscimento dell' uomo, ma solo Iddio anche quando l' uomo crede conoscere un corpo, il che è marcio panteismo; o convien dire, che chi conosce un corpo, conosce solamente un corpo e non Dio, conosce la materia delle forze finite sotto una sua propria forma e non più, il che si oppone a quanto insegna il Gioberti; o finalmente convien dire, che conosce bensì Iddio e il corpo, ma di questi due oggetti ne fa un solo oggetto, il che, a detta dello stesso Gioberti, è quello che di nuovo i panteisti fanno, [...OMISSIS...] . Notate, miei signori, che questa nostra argomentazione non ha già bisogno di cercare come si conosca il corpo, limitandosi a cercar solo se il corpo, ossia la materia delle forze finite si conosca sì o no; e se si conosce sola, o con Dio, in modo che Dio sia l' oggetto del conoscere; e conoscendosi insieme con Dio, se si distingua o si confonda con esso Dio. Osservate ancora che il Gioberti dice che l' Idea, cioè Dio, riluce nella materia delle forze finite. Ora come possiamo noi sapere che vi riluca, se non supponendo di conoscer la materia delle forze finite, dove l' Idea, cioè Dio, riluce? Converrebbe dunque supporre che noi vedessimo e conoscessimo Dio vedendo e conoscendo le forze finite dove egli riluce; e in tal caso la materia delle forze finite sarebbe l' oggetto precedente del nostro conoscere e il contenente; e Iddio, ossia l' Idea sarebbe l' oggetto susseguente e il contenuto. La materia dunque delle forze finite si conoscerebbe per sè stessa, e Iddio, ossia l' idea giobertiana, per via della materia! Assurdo che il Gioberti sicuramente rifiuta, benchè implicitamente il pronunci. Ma dopo aver veduto che, secondo la giobertiana dottrina, quando l' uomo conosce un corpo dovrebbe conoscer due oggetti immensamente distinti e inconfondibili tra loro, e quali e quanti assurdi da ciò derivino; vediamo anche il come voglia il Gioberti che si conosca la materia delle forze finite che egli fa sinonimo alla sostanza delle cose create . Udiamolo attentamente. [...OMISSIS...] . Queste ultime parole escludono, miei signori, la volontà di esser panteista: ma la dichiarazione di non esser panteista, (la quale è frequente nel Gioberti, e però noi non attribuiremo mai un tale errore alla sua persona) esclude ella altresì il panteismo che si trova nelle parole precedenti? Certo presso i veri panteisti la dichiarazione di non esser panteista non val nulla, perchè sono di quelle frasi magnifiche e menzognere, che essi talora adoperano, e dalle quali il Gioberti già ci mise in gran guardia. In fatti abbiamo veduto che l' oggetto scientifico, quando si tratta di conoscere oggetti finiti, è composto, secondo lo stesso Gioberti, di materia e di forma; e che la forma è l' idea la quale è Dio stesso. Iddio dunque, secondo quest' autore, viene in composizione colla materia corporea, ed insieme con essa costituisce l' oggetto del sapere; ma s' udì mai che Iddio possa venire in composizione con cos' alcuna, e in composizione sì stretta da formare un solo oggetto scientifico, un composto di materia e di forma, di cui Iddio sia la forma? All' incontro, basta conoscere i primi elementi della Teologia per sapere che Iddio è purissimo e tale che non si può mescolare con cosa alcuna fino a formare con essa un solo oggetto. Nè vale già il dire, qui si tratta d' oggetto scientifico, e non d' oggetto reale, perocchè il Gioberti esclude affatto questa ritirata, sostenendo che l' ordine che hanno le cose nella mente è quello stesso nè più nè meno che esse hanno al di fuori della mente; e al professor Tarditi fa colpa dell' aver distinti col Rosmini questi due ordini, e assegnate le lor proprie leggi a ciascuno. E qui notate, o cari signori, che questo principio che l' ordine delle cose nella mente sia quello stesso dell' ordine delle cose fuori della mente, fu sempre graditissimo ai panteisti tutti, siccome quello che mirabilmente giova al loro sistema. Nè sarà inutile raffrontare a questo proposito la maniera di pensare dello Spinosa con quella di Vincenzo Gioberti, il che farò colle parole di un recente storico della Filosofia che così espone il pensiero dello Spinosa: [...OMISSIS...] Io lascio riflettere a voi stessi sull' eco che di questa dottrina voi trovate nel Gioberti. Il quale anche nel passo ultimamente di lui citato ripete che [...OMISSIS...] ; il che è quanto dire che quando il pensiero pensa la materia creata (notate bene, la materia e non più la forma), pensa Dio stesso. Ed avvertite la ragione che egli dà di questa sentenza, perchè dice, « « la materia creata non si può disgiungere dall' azione creatrice » ». La qual ragione acciocchè sia efficace a provare l' assunto, dee voler dire che la materia creata è così congiunta coll' azione creatrice che forma con essa una cosa sola pensabile; perocchè se non formasse con essa una cosa sola, non potrebbe giammai formare un solo ed unico oggetto del sapere, come vuol provare il nostro filosofo. Che se la materia creata forma una cosa sola coll' azione creatrice, in modo da costituire un solo ed unico oggetto del sapere, forz' è che la materia creata formi una cosa sola con Dio, perocchè l' azione creatrice è Dio stesso, e d' altra parte Dio appunto, a detta del Gioberti, è l' oggetto immediato ed universale del sapere. Se dunque la materia creata e Dio sono una cosa sola, e tale che non si possono pensare divisi come due oggetti (se non solo forse per quell' astrazione che succede al primo intuito, e che, secondo il Gioberti, divide anche l' indivisibile), varrà egli punto a fare, che un tal sistema non sia manifestissimo panteismo, la dichiarazione aggiunta che anche rispetto alla materia creata « « l' oggetto scientifico è Iddio stesso, non come identico alle sue fatture, ma come causa creante e immanente di esse »? » O non converrà piuttosto conciliare questa dichiarazione con quel che precede? Perocchè una tale dichiarazione è infatti conciliabile, miei signori, colla dottrina precedente, avendo ella un senso che può star bene nella bocca di qualunque compiuto panteista ed emanatista. Poichè l' emanatista è già panteista facendo che Iddio e le creature sieno della stessa sostanza, senza che tuttavia egli dica che Iddio sia identico colla sua fattura, che anzi egli distingue benissimo l' emanante dall' emanato. Ma il sistema giobertiano, stando alle sue frasi, è un panteismo ancora più solenne e più compiuto. Perocchè l' emanatista fa, è vero, che la sostanza di Dio sia quella stessa delle sue fatture, ma alla fine, lungi dal fare che Dio emanante e le sue fatture emanate sieno lo stesso oggetto, ne fa due oggetti distinti; quando all' incontro il signor Gioberti dice che questo è impossibile, e che non possono essere che un oggetto solo, benchè poscia la sopravveniente astrazione li distingua. Onde se per l' emanatista, Iddio e le sue fatture non sono identiche, perchè formano due oggetti realmente distinti, benchè d' una stessa sostanza; pel signor Gioberti Iddio e le sue fatture (quantunque formino un solo e medesimo oggetto del pensiero) non sono identici, unicamente perchè l' astrazione poi distinguendoli toglie loro l' identità, e così ci mette una semplice distinzione di ragione. Di che conchiude il Gioberti con quella frase che adopera spesso anche lo Spinosa, cioè che « « Iddio è causa creante e immanente di esse » », perchè forma con esse un oggetto solo, nel quale poi la nostra astrazione distingue causa ed effetto; ma come il signor gioberti concepisca la causalità e la creazione, senza che punto nè poco rechino offesa al suo panteismo, noi lo vedremo meglio fra poco. Facciamo ora un passo indietro e supponiamo che noi non leggessimo nelle opere del signor Gioberti che [...OMISSIS...] . Supponiamo che egli si ristringesse a dire che Iddio è l' oggetto del sapere solamente in quanto alla sola forma. Che ne avremo, o signori? avremo evitato con ciò il panteismo, o supponendo che sì, avremo evitato ogni altro errore, avremo una filosofia veramente sana? Vediamolo. a) Primieramente quand' anco si trattasse d' idee nel senso in cui solitamente le intendono i filosofi, e non nel senso giobertiano, secondo il quale la stessa realità è in esse e propria di esse, ditemi, o signori, parrebbe egli a voi che si potesse riputare una proposizione del tutto ortodossa questa, che « « le idee delle cose finite sieno Dio stesso » »? Io non so, a dir vero, se si possa asserire ch' essa sia stata precisamente condannata dalla Chiesa in Wicleffo (1), ma certo a me sembra manifestamente erronea, giacchè nè in ciascuna nè in tutte insieme tali idee si può trovare quello che è necessario all' essenza divina, nè per fermo si potrà mai dire, che l' intuire tali idee così moltiplici e limitate siccome sono, sia intuire Dio stesso. b) Di poi, quanto non s' accresce l' errore se si considera, che pel Gioberti l' idee sono reali, e non contengono la sola possibilità delle cose, che anzi questa possibilità, secondo lui, è soggettiva, cioè prodotta dalla riflessione ed astrazione dell' uomo, che la distacca dirò così dall' idea nella sua concretezza? Con questo dogma filosofico il panteismo ideologico di Wicleffo diviene di più un panteismo materiale ed assoluto. c) Finalmente e a conferma appunto di questo, si consideri che se fosse altramente, secondo la dottrina del Gioberti, cioè se quando conosciamo un corpo, l' oggetto del nostro conoscere fosse bensì composto di forma e di materia, ma la sola forma fosse Dio; resterebbe a domandarsi, se il detto oggetto del conoscere sia realmente solubile in due oggetti, ovvero rimanga un oggetto solo. Poichè se rimane un oggetto solo, siamo da capo. E questo conferma veramente il Gioberti quando dice che [...OMISSIS...] . Nelle quali parole la forma cioè Dio, si conjuga colla materia, cioè col corpo, e quindi costituisce con esso un solo oggetto; e in questa conjugazione, per cui Iddio diventa un oggetto solo col corpo, sta, dice il Gioberti, « la sintesi maravigliosa dell' intuito umano ». Da cui trae questo conseguente, che [...OMISSIS...] . Notate bene: dall' avere egli ammesso a principio che Iddio è l' oggetto del sapere rispetto alla forma, è venuto poi quasi come per una conseguenza indeclinabile a concedere, che quando conosciamo un corpo materiale, lo stesso Iddio sia l' oggetto scientifico anche rispetto alla materia creata; per la ragione appunto, che questa non si può disgiungere dall' azione creatrice, la quale azione è Dio stesso. E in fatti egli dovea precipitare a questo contradittorio risultato, poichè se Iddio non fosse, secondo lui, l' oggetto del conoscer nostro, anche quando il conoscer nostro ha per oggetto la materia creata, egli non avrebbe impugnato il sistema del Rosmini, che fa venire la cognizione della materia dal sentimento, e non avrebbe detto che l' oggetto dell' intuito dovea essere un reale, acciocchè in lui potessimo trovare e conoscere la realità delle cose contingenti, delle quali si parla; senza di che questa realità non sarebbe stata conoscibile. Conchiudiamo dunque questa lezione. Panteisti son quelli che, « quando dicono che Dio è l' oggetto universale del sapere, intendono sotto il nome d' oggetto la forma o idea dei dati scientifici, e la loro materia egualmente ». Ma Vincenzo Gioberti insegna, che « « non solo rispetto alla forma, ma anche rispetto alla materia l' oggetto scientifico è Iddio stesso » ». La conclusione non è bisogno che la tiriamo noi, miei signori; ma viene da sè. Ripetiamo che non vogliamo attribuire la panteistica empietà all' animo del signor Gioberti, ma noi non sappiamo come purgarne il sistema. Nella precedente lezione noi abbiamo udite le giustificazioni, colle quali il signor Gioberti cerca di purgare il suo sistema dall' empietà panteistica, e, dopo esaminatele il più accuratamente che noi abbiamo saputo e imparzialmente, dovemmo convincerci ch' elle sono insufficienti. Tuttavia non dobbiamo tenercene a pieno contenti, miei signori; dobbiamo continuare nella ricerca, penetrare più addentro, considerare altri brani delle opere d' un autore, che fu letto avidamente in qualche parte di questa nostra penisola. Ciò noi dobbiamo per doppia ragione. La prima, perchè, se mai ci riesce di averne il lietissimo risultato, che il giobertiano sistema vada immune veramente da un tanto errore, noi avremmo non solo provveduto al buon nome del suo autore, ma ben anco al buon nome di tutti coloro che gli furono larghi di prontissimi ed amplissimi encomj. La seconda, che se per opposto noi avessimo il dolore di rinvenire il fatto contrario, in così rincrescevol termine dovrebbe pur confortarci il vantaggio che per avventura potrebbero ritrarre i nostri connazionali dalla nostra discussione. Imperocchè egli è troppo importante, o signori, di ben guardare e premunire questa nostra terra italiana, che per pietà e per buon senso a niuna cede di quante in potenza la vincono, all' invasione che la minaccia dei mostruosi sistemi stranieri, quali sono quelli che straziano sì crudelmente i visceri della Germania, de' quali indubitatamente il Gioberti s' industria di trapiantare almeno le frasi, se non i concetti, nel nostro suolo. Cominciamo adunque subito, se vi piace, a leggere qualche altra pagina del Gioberti, e vedere che cosa vi troviamo a sua discolpa. [...OMISSIS...] . Qui subitamente già troppe cose ci si presentano, troppe cose ci si rivelano. La prima si è, che l' idealità si dichiara separabile nell' ordine delle cose contingenti. Dunque almeno in quest' ordine può essere la idealità senza la realtà, e però non è assurda questa separazione. Si dee dunque conchiudere che almeno in quest' ordine l' ideale, benchè separato dal reale, non è più il nulla, come tante volte ci ripete il Gioberti per provare che ripugni intrinsecamente che l' ideale si separi dal reale. E se questo ideale anche separato dal reale è qualche cosa, dunque non è mica più assurdo, che Iddio nella formazione dell' uomo, gli abbia dato l' intuito dell' essere ideale, e non la percezione dell' essere reale. Non trattasi adunque che della verificazione del fatto, il quale non può argomentarsi a priori, ma accertasi colla osservazione filosofica. Dipoi, egli è assai strano l' immaginare un ordine contingente di cose, in cui l' ideale stia separato dal reale; giacchè in un ordine contingente di cose non si sa come possa avervi l' ideale; poichè in qualunque senso si prenda l' ideale, egli è pur sempre necessario, e non mai contingente. Se si prenda nel senso nostro come distinto da ogni realità, e qual semplice lume comunicato da Dio alle create intelligenze, noi abbiamo veduto che esso gode i caratteri della necessità, dell' eternità ecc.: dunque non appartiene all' ordine contingente, ma all' ordine necessario, a Dio stesso, di cui è un' attinenza. Se si prende nel senso giobertiano, nel qual senso esso è Dio stesso, molto meno può essere contingente, se non fosse nel sistema panteistico, in cui del contingente e del necessario si fa una cosa sola. Il dire dunque che l' ideale nell' ordine contingente di cose è separabile dalla realità, è in ogni modo un manifesto assurdo, sia poi un assurdo panteistico, o d' altro genere. E pure non ci dee fare meraviglia, o signori, se il Gioberti ponga nell' ordine delle cose contingenti qualche specie d' ideale . Poichè dove mai ha egli preso il suo achille contro la nostra dottrina, se non in questo principio appunto che l' idea dell' essere essendo, a detta sua, un' idea astratta, è per conseguenza subiettiva e s' immedesima col subbietto uomo che è pur contingente, di che accusa il Rosmini di psicologismo con tutte le altre brutte taccie, che ne sono la conseguenza? [...OMISSIS...] . Ma forse ad alcuno di voi sovverrà, miei signori, che in altri luoghi il medesimo Gioberti dà del divino anche alle idee astratte siccome sono le idee generiche: sovverrà che nella sua terza lettera al professor Tarditi, dopo aver pronunziato solennemente che [...OMISSIS...] . Onde aperto dichiara che egli ammette bensì un reale dotato di contingenza, ma non un ideale della stessa natura (3). Le quali cose sembrerebbero contradittorie all' aver distinto, come egli fece, l' ideale dal reale nell' ordine contingente, ed all' aver dichiarato che le idee astratte, e nominatamente quella dell' essere in universale, ch' egli fa venire dall' astrazione (al contrario del Rosmini che la mantiene innata alla mente) è un' idea subbiettiva, che s' immedesima coll' uomo soggetto contingente e finito. Ma egli v' ha pure un sistema nel quale tali proposizioni tanto opposte si conciliano ottimamente: dovremo noi, miei signori, credere che un tale sistema sia quello del signor Gioberti per cavarlo di contradizione? Ora qual è mai questo sistema? Il panteismo, o signori; non altro che il panteismo. Poichè solo in questo sistema si può cangiar di linguaggio, e dire, in qualche modo, ora che l' idea sia Dio stesso, ora che la medesima idea sia l' uomo essere contingente e finito; quando il panteista, come sapete, riguarda il contingente ed il necessario come aspetti diversi, sotto cui lo stesso essere si considera; e quello a ragion di esempio che considerato come oggetto dell' intuito chiamasi Dio, quello stesso diviso poi dalla riflessione e dall' astrazione diviene uomo, e chiamasi essere contingente e finito. Ma il Gioberti, che ha tutta la buona volontà di non esser panteista, tenta un' altra via per vedere se gli riesce di conciliarsi seco stesso con più onestà. Egli immagina dunque due enti possibili invece d' un solo, perocchè egli dice: [...OMISSIS...] . Dunque quando l' uomo pensa un ente possibile, per esempio « un cavallo possibile », egli pensa due possibili, due cavalli possibili, immensamente diversi l' uno dall' altro, perocchè l' uno dei due cavalli possibili è Dio stesso, poichè è « « il possibile eterno come pensato da Dio » », è « « l' idea divina numericamente identica » », come dice poco appresso (1); l' altro cavallo possibile è nel soggetto umano, e s' immedesima col soggetto umano, e però è l' uomo o parte dell' uomo, e tuttavia questo possibile subbiettivo, com' anco dice, è « « la pensabilità umana del pensato divino » ». Di che ne viene che l' altro possibile oggettivo debba essere « « la pensabilità divina del pensato divino » ». Non voglio indugiarvi sull' assurdo che di una stessa cosa vi abbia due possibili, distinti quanto è distinto Iddio dall' uomo. Solo voglio farvi avvertire, che queste due pensabilità sono entrambi accessibili all' uomo, secondo il signor Gioberti: onde nell' uomo cade tanto « « la pensabilità divina del pensato divino » », che viene appresa dall' intuito, quanto « « la pensabilità umana del pensato divino » », che è una copia finita di quella, come dice poco appresso, e però non più un' astrazione com' avea detto innanzi. Veramente se l' uomo non è Dio, pare difficile a intendere, come gli possa appartenere « « l' idea divina numericamente identica », « il possibile eterno, come pensato da Dio » », e « « la pensabilità divina del pensato divino » ». Ma se l' uomo è Dio, in tal caso poi è difficile a concepire del pari, come gli possa appartenere « « la pensabilità umana del pensato divino » », e « « una copia finita del cavallo possibile eterno come pensato da Dio » ». Anche di questo intrico ci sembra oltre modo malagevole uscire senza ricorrere ad un sistema, che confonda insieme la natura divina e l' umana. Se il signor Gioberti ci riesce, lui fortunato! Intanto però egli ci protesta che « « il subbiettivo dell' idea non si può separare dall' obbiettivo »(2) »; il che è quanto dire, che l' umano dell' idea, non si può separare dalla medesima idea, la quale avrebbe perciò ad un tempo stesso dell' umano e del divino. Laonde egli sembra che la distinzione che il Gioberti introduce, nel passo più sopra recatovi, fra l' ordine assoluto e l' ordine contingente, nel suo sistema non possa aver luogo; e questo vi si renderà anzi evidente se farete riflessione alla ragione che son per dirvi. Il signor Gioberti insegna, che « « l' idealità non è separabile dalla realità nell' ordine assoluto, oggetto dell' intuito » »; ma dice ancora e lo replica fino alla sazietà, che nell' oggetto dell' intuito vi è tutto lo scibile, tanto quello che riguarda le cose create, e tutto ciò che resta a fare all' uomo non è che l' opera della riflessione che analizza, e lavora ciò che nell' oggetto dell' intuito si contiene, onde anche l' ordine contingente di cose non può essere escluso dall' oggetto dell' intuito giobertiano, perchè la riflessione ve lo trova, ovvero sia lo produce in separandolo. Se dunque si dà distinzione tra l' ordine assoluto e l' ordine contingente, non può mica essere che il primo ordine sia oggetto dell' intuito e non il secondo, come viene a dire nel passo citato; ma convien dire che questa distinzione si trovi già nell' oggetto dell' intuito stesso. Ora se i due ordini, l' assoluto e il contingente, sono separabili e non confusi insieme, essi vengono necessariamente a costituire due oggetti e non un solo; poichè la loro separazione, se la si vuol riconoscere, si dee riconoscerla per una separazione massima, di maniera che sia più separato il contingente dall' assoluto, di quello che un oggetto contingente qualsiasi, p. e. un topo, da un altro oggetto contingente qualsivoglia, p. e. dal sole. Se dunque il topo ed il sole sono due oggetti distinti del conoscere umano, molto più debbon essere due oggetti distinti del conoscere l' ordine contingente di cose e l' ordine assoluto, e quindi il primo non può essere in modo alcuno forma, ed il secondo materia del medesimo oggetto. Ma se l' intuito giobertiano ha due oggetti e non un oggetto solo, e se l' uno non è forma dell' altro, come poi dice il nostro Filosofo, che quando conosciamo un corpo, l' oggetto scientifico è Dio stesso, non solo rispetto alla forma, ma anche rispetto alla materia, quando pure Iddio sarebbe non lo stesso oggetto, ma un oggetto diverso? Di più, se « « l' idealità non è separabile dalla realtà nell' ordine assoluto, oggetto dell' intuito, ma solo nell' ordine contingente » », come si conosce quest' ordine contingente? O si conosce coll' idea, o senza di essa: se coll' idea, in tal caso, posciachè quest' idea per il signor Gioberti è reale ed è Dio stesso, l' ordine contingente non è più diviso dall' ordine assoluto, e supponendolo diviso si suppone ciò che nel suo sistema è contradittorio ed assurdo. Se si conosce senza l' idea, l' ordine contingente è dunque fuori dell' idea, è conoscibile per sè stesso; e quindi non è più vero che tutto si contenga anche il contingente nell' oggetto dell' intuito. Finalmente dicendo che nell' ordine contingente l' idealità è separabile dalla realtà, pare che l' ordine contingente si componga di idealità e di realità. Ma nell' idealità, secondo il signor Gioberti, si contiene già la realità, perocchè altrimenti sarebbe nulla. Dunque l' ordine contingente, secondo lui, si compone d' idealità che è insieme realità, e d' una realità che non è idealità. Dunque si compone di una idealità e di due realità. Ma nell' ordine assoluto non v' ha che una idealità e una realità inseparabili tra loro. Dunque, giusta il ragionare giobertiano, vi ha più nell' ordine contingente che nell' ordine assoluto: perocchè in questo vi è una idealità con una sola realità, e in quello una idealità con due realità, l' una delle quali è separabile! Quali imbarazzi, quali contradizioni non sono queste, miei signori? Ma portiamo pazienza, e riprendiamo le giobertiane parole. [...OMISSIS...] Io non mi fermerò qui, miei signori, ad osservare tutte le cose gratuite e false che suppongono queste parole; giacchè gratuito e falso è che l' intuito umano abbia per oggetto Iddio, il quale in tal caso sarebbe « nobis naturaliter notum », contro la dottrina di s. Tommaso «(S. I, II, 1; e III, IV, 2) »; e di tutti i principali teologi; gratuito e falso è che abbia per oggetto l' atto creativo, che nessun vide, mai quaggiù, appunto perchè « Deum nemo vidit nunquam », come disse san Giovanni «(I, 1.) », non potendosi vedere l' atto creativo senza vedere lo stesso Dio. Non sono questi ed altrettali gli errori che noi abbiamo preso a rifiutare in queste lezioni, miei signori (2); ma dobbiamo solo esaminare se, anche supposto che tutto ciò fosse vero altrettanto quant' egli è falso, una tale dottrina possa conciliarsi coi principj teologici, e specialmente se ella possa andarsene pura dal veleno panteistico. Ora il Gioberti ci accorda espressamente che Iddio non è identico alle sue creature, ma che queste sono effetto, di cui Dio è causa. Per evitare il panteismo questo non basta, miei signori; converrebbe che egli qui ci dicesse di più che la natura di Dio e la natura delle creature sono cose infinitamente distanti l' una dall' altra, che sono dunque due nature realmente diverse: converrebbe che ci dicesse ancora che queste due nature non hanno niente, niente affatto di comune tra loro, dimodochè non possano essere intese con un solo concetto; perocchè tutti i teologi cattolici e fino i Mussulmani insegnano che Iddio non cade nè in alcun genere, nè in alcuna specie. Se dunque Iddio e le creature sono nature così distinte, che non hanno nulla affatto di comune tra esse; egli è manifesto che non si possono intendere e percepire con un solo e medesimo concetto; e non possono formare un oggetto solo dell' intuito. E` dunque necessario per non cadere nel panteismo il supporre che due pensieri, e non un solo pensiero, sia quello che ci fa conoscere cose così al tutto diverse: giacchè due sono indubitatamente gli oggetti che quanto alla natura, non comunicano insieme in cosa alcuna. Laonde, e come mai sfuggirà il panteismo una dottrina, la quale insegna che v' ha un solo intuito nell' uomo, il cui oggetto contiene tutto lo scibile sì del necessario, come degli esseri contingenti, e che la riflessione non fa che trovarlo, e svolgerlo poscia operando su quell' oggetto? come sfuggirà il panteismo un sistema, che sostiene che quando noi conosciamo le creature materiali, p. e. un corpo, allora noi abbiamo per oggetto Dio stesso? e ciò non solo per rispetto alla forma, ma ben anco alla materia? Il Gioberti dice « « perchè Iddio è causa creante e immanente delle cose » »: ma e che per questo? Noi gli rispondiamo, o la causa si identifica coll' effetto, ed allora accordiamo, che percependo l' effetto si percepisce necessariamente la causa, e viceversa; o la causa non s' identifica coll' effetto, come il Gioberti dice espressamente, e come diciam noi, anzi è una natura intieramente diversa da quella dell' effetto e non ha niente di comune con esso, ed in tal caso come può essere che la causa, che nel caso nostro è Dio, formi un oggetto solo del conoscere umano col suo effetto, che sono le creature, e sottostia ad un solo concetto, siccome pure viene a dire il Gioberti, quando pretende che Iddio sia l' oggetto di tutte le nostre cognizioni? non si potrà forse conoscere una natura, che è causa, senza conoscere un' altra natura tutta diversa da lei, che è l' effetto non necessario, ma libero di quella? Ma il nostro autore soggiunge: queste due cose, Iddio e la creatura, sono congiunte mediante l' atto creatore. E che perciò? non restano esse tuttavia così distinte e così separate, che v' ha un infinito di mezzo? non rimangonsi nature così dissimili, che non convengono in cosa alcuna nè speciale, nè generale (1), se non fosse nel nudo concetto dell' esistenza? Ma voi non potete vedere l' atto creatore senza vedere la creatura prodotta. Sebbene l' affermare che l' uomo veda l' atto creatore in questa vita sia piuttosto un sogno o un delirio, che una sentenza filosofica o teologica, tuttavia giacchè abbiamo detto di non volere impugnare per ora questa stranezza, anzi di voler supporla, così rispondiamo a tale istanza: l' atto creatore si distingue egli dall' essenza di Dio? no certamente, ma quell' atto è la stessa essenza divina, perchè Iddio è un atto solo con cui è e con cui opera. Dunque coll' introdurre l' atto creatore non si può spiegare la percezione delle cose create, p. e. dei corpi, meglio che coll' introdurre l' essenza divina. Se questa è un oggetto del conoscere umano diverso al tutto da un corpo che l' uomo percepisce, si ha una natura diversa, una natura e un oggetto che non ha niente di comune col corpo; dunque nè pur nell' atto creatore si possono trovare i corpi stessi reali, e percepirveli . Il Gioberti, egli pure dice in qualche luogo, che le creature sono il termine estrinseco dell' atto creatore, e non il termine intrinseco e consostanziale. Dunque nell' interno dell' atto creatore, cioè in Dio, non vi sono i corpi reali, non v' è il contingente, non v' ha la materia creata, in questo senso che sono appunto quello che sono in quanto da Dio si distinguono. Or come, se la cosa è così, può dire il nostro eloquente scrittore, che quando conosciamo un corpo, Iddio è l' oggetto del nostro conoscimento, e non solo quanto alla forma, ma ben anco quanto alla materia creata? O bisogna abbandonare questo sistema, o non disdire e negare il panteismo, ma anzi ammetterlo: poichè il fare altrimenti è un tagliarsi per mezzo colle proprie mani. Ma pure le cose create sono in Dio, e però in Dio si possono vedere; e le vedono in Dio i celesti comprensori. - Io non so se io debba far parlare il Gioberti con sì poco senno teologico; ma mi permetto di farlo, o signori, a suo vantaggio; cercando cioè di non trapassare niuna delle ragioni apparenti, che potessero scusare i suoi gravissimi errori. E di vero, se così ci replicasse il Gioberti, noi gli diremmo, che consultando i teologi, gli sarà facilissimo impararvi, che le cose create sono bensì in Dio, come nel loro esemplare e nella loro causa, [...OMISSIS...] , per usare l' espressione di s. Tommaso «(S. I, III, VIII) »; ma non sono mica in Dio nè quanto alla loro forma, nè quanto alla loro sostanza materiale, [...OMISSIS...] . Ora di che cosa trattiam noi? forse di avere solamente l' idea del corpo, che è quanto dire di conoscere il corpo nella sua possibilità? Non ci ha dubbio che l' idea di corpo c' è in Dio in qualche modo: in un modo, dico, che resterebbe ancora a spiegare, perchè l' idea de' corpi non è in Dio, come in noi, distinta realmente dalle altre idee, ma compresa in un lume solo; che l' unica cosa che v' ha in Dio di realmente distinto sono le persone, e il porre altra distinzione reale si oppone, come sapete, alla cattolica fede. Onde non essendo l' idea che è in noi di un corpo, quell' idea stessa che è in Dio del corpo, non si può dire senza errore che noi vediamo l' idea in Dio; perocchè quando ciò fosse, vedremmo l' idea del corpo con tutte l' altre idee contenute in una idea sola, o per dir meglio nel Verbo, come le vedono i comprensori celesti, al che ripugna il fatto del nostro modo di conoscere per via d' idee molte e distinte. Ma benchè questo solo argomento, dove fosse svolto secondo i principj della cattolica teologia, basterebbe a rovesciare l' ipotesi giobertiana, ed eziandio la meno ardita di Malebranche; tuttavia, anche accordatogli quello che non è, che vedessimo in Dio l' idea del corpo, niente avrebbe egli ancora guadagnato; chè il nostro discorso non è mica v“lto a spiegare l' idea del corpo, ma è v“lto a spiegare la percezione intellettiva d' un corpo, colla quale noi percepiamo e conosciamo non la possibilità del corpo, ma la sua stessa realità; questo corpo che è qui, ora; la sua materia, la quale in Dio non si trova, che anzi ella ha questo per essenza, d' esser fuori di Dio; nè si potrebbe metterla in Dio senza divinizzarla, e materializzare Iddio, e quindi essere panteista e spinosista. Ancora, trattiamo noi forse di spiegare come conosciamo la causa del corpo, o il corpo in quanto è nella sua causa, cioè in Dio? Neppur questo, poichè, per dirlo di nuovo, trattasi di spiegare unicamente come noi percepiamo la stessa sostanza materiale del corpo, e come noi stessi veniamo in comunicazione con questa sostanza. Ora il corpo, in quanto è sostanza materiale, non si trova in Dio, nè nell' atto creativo che è Dio stesso; ma è tutto fuori di Dio, e fuori dell' atto creativo che il fa esistere. Egli è vero che in Dio vi è la virtù che fa sussistere il corpo, perchè è causa creante ed immanente; ma da ciò non ne viene altra conseguenza se non questa, che qualora fosse vero che noi conoscessimo Dio, sarebbe vero che noi percepiremmo la causa, e conosceremmo l' effetto, cioè il corpo, ma non lo percepiremmo già nell' essere suo proprio materiale, come in fatto lo percepiamo, ed è questo fatto della percezione della corporea e materiale sostanza, per dirlo di nuovo, che noi dobbiamo e vogliamo spiegare in Filosofia. Onde o convien dire che noi non percepiamo la sostanza materiale de' corpi, il che sarebbe un negare il fatto più manifesto, ed il Gioberti stesso nol nega parlando anch' egli di sostanza contingente e di materia; ovvero, volendo sostenere che noi percepiamo il corpo nel suo essere proprio e materiale in Dio, che si suppone oggetto dell' intuito, non vi ha più riparo alcuno alla panteistica assurdità; giacchè è giocoforza che collochiamo in Dio la stessa sostanza e materia corporea; e poichè tutto ciò che è in Dio è Dio; forz' è che concludiamo che Dio è corpo, o che il corpo è Dio; ciò che viene al medesimo. Riassumiamo, o signori, quest' argomento evidentissimo. Noi non possiamo percepire in Dio, o nell' atto creatore, che è pur Dio, ciò che non vi è. Ma il corpo, e niuna delle cose contingenti, in quanto hanno un loro essere proprio reale, contingente e materiale, non sono in Dio. Dunque, quand' anco fosse vero altrettanto quanto è falso, che noi vedessimo Iddio, potremmo conoscere perfettamente, ma non potremmo percepire la materiale sostanza dei corpi, nè alcuna creatura nel suo essere proprio e contingente, se non avessimo il sentimento, e nel sentimento non ne ricevessimo l' azione. Convien dunque confessare, che col ricorrere all' intuito di Dio e dell' atto creatore, non si può spiegar la percezione delle sostanze create, e specialmente delle materiali, e questo è rinunziare al giobertiano sistema; ovvero conviene ammettere tutto quant' è lungo e largo e goffo e grosso il panteismo. A voi, miei signori, la scelta, che non vi è certamente difficile a fare. Ma e i celesti comprensori non percepiscono forse in Dio le cose create? A questa dimanda, che niuno perito nella scienza teologica farebbe mai, rispondo di no: posciachè mi parlate di percepire, e non di conoscere semplicemente. In Dio, nè nel suo atto creatore, che è Dio medesimo, essi non possono percepire ciò che non vi è; e non vi è, come dicemmo, la creatura nell' essere suo proprio formale, sostanziale, materiale. Dunque ivi non possono percepire e non percepiscono punto nè poco le creature. Essi ve le conoscono bensì, ve le conoscono cioè non tutte, ma solo quelle che Iddio vuol loro rivelare; ma non ve le conoscono per via di percezione come le conosciamo noi al presente; benchè è da credersi che neppure ad essi sia tolta la percezione delle creature nel loro essere proprio fuori di Dio; ma questa loro percezione non l' hanno nella visione di Dio, perchè quivi non possono averla, ma per quella comunicazione naturale che ancor conservano colle creature stesse. Essi vedono in Dio le cose contingenti quante Iddio ne vuol loro dimostrare, come nel loro esemplare, cioè nella loro idea, e questa idea fa loro conoscere la possibilità di esse. Ci vedono ancora le cose come nella loro causa creante, e quindi ben intendono che sussistono e come sussistono, e le conoscono meglio che non le conosciamo noi colla percezione; ma in altro modo, perchè non le percepiscono in sè stesse. Nè l' uno nè l' altro di questi due modi di conoscere è percepire le cose; e perciò quello dei celesti comprensori non è il modo del conoscer nostro sperimentale, non è quello che noi trattiamo di spiegare, e per ispiegare il quale noi ricorriamo col Rosmini al sentimento, e all' essere ideale; laddove il Gioberti ricorre all' intuito di Dio e dell' atto creativo. Vero è che noi abbiamo anche un altro modo di conoscere le cose, ed è quello di conoscerle nella loro possibilità. Ma neppur questo modo si può spiegare, come abbiamo accennato, ricorrendo all' intuito di Dio, per l' argomento fatto di sopra, che possiamo riassumere così. In Dio non vi hanno concetti in senso proprio, l' uno realmente distinto dall' altro, ma vi ha un solo ed unico Verbo, che è figura della sostanza; e insieme esemplare delle cose, pel quale tutte le contingenti si creano, e si distinguono e sono da Dio perfettamente conosciute. Ma noi vediamo le cose possibili con altrettanti concetti determinati dalle nostre percezioni, ciascuna delle quali è realmente diversa dall' altra, e non già pronunciandole con un solo e medesimo verbo, come faremmo se le vedessimo nell' unica percezione del Verbo divino. Dunque qualunque via si prenda a spiegare l' origine di questi concetti così distinti, o si ricorra ai sentimenti e alle loro vestigia, come facciamo noi, o si abbracci un altro sistema; non sarà mai vero che i detti concetti sieno un solo pronunciato, come dovrebbe essere se li conoscessimo a quel modo come sono conoscibili in Dio. Dunque noi non vediamo la possibilità delle cose in Dio, e quindi non vediamo Iddio, come pretende il Filosofo nostro. Rimane il terzo modo di cognizione per via di causa. Di questo noi uomini, nel mondo presente, ne siamo privi del tutto: noi non sappiamo come le cose sieno in Dio eminenter: questo lo sanno solo i comprensori celesti. E facilmente si prova in questo modo. Ciò che si conosce per via di causa, o è nella causa o fuori di essa. Se è nella causa, si può percepire insieme nella percezione della causa; altrimenti, non essendo nella causa, si deve argomentare movendo dalla causa, e venendo all' effetto; e questo sarebbe un conoscere le cose indirettamente . Ma le cose create col loro essere sostanziale e materiale, come noi le conosciamo sperimentalmente, non sono in Dio loro causa, ma sono il termine dell' azione di questa causa. Dunque se noi vedessimo Iddio solo, senza avere anche la percezione immediata e diretta di esse, noi non potremmo conoscerle se non per via d' un' argomentazione dalla causa all' effetto, o, per dir meglio, dall' esistenza eminente all' esistenza propria e reale, o per ispeciale interna e positiva rivelazione. Solo se noi vedessimo l' atto di questa causa unitamente al suo termine, conosceremmo certamente questo termine, ma nè pur allora in quel modo sperimentale e diretto, nel quale lo conosciamo adesso. Certo nessuno dirà che noi conosciamo prima l' esistenza eminente delle cose in Dio, e poi l' esistenza loro propria e reale; come pure niuno dirà che noi conosciamo la sussistenza delle creature per via di argomentazione che parte dalla causa e viene all' effetto, e finalmente nessuno di buon senno dirà, io credo, che invece di percepir le cose direttamente e trattandosi de' corpi col senso, conosciamo tali cose col puro intuito dell' intelletto come termini dell' atto creativo, il quale certamente non è sensibile, se non all' intelletto: e il Gioberti stesso, sebbene dica che la conosciamo indirettamente, tuttavia altrove esclude espressissimamente questa via, perocchè egli vuole che il suo intuito sia immediato per forma, che non vi si mescoli alcuna argomentazione, che anzi per lui è l' intuito di un mero concetto . Dunque l' uomo non può conoscere le cose create per via di causa. Ma nulla ostante, si prenda ciò che si vuole, e converrà sempre rinunziare al sistema giobertiano. Se si prende che le cose si conoscano per via di causa, argomentando; si rinunzia al sistema giobertiano, che sostiene, quelle conoscersi per intuito immediato senza sillogismo, e senza giudizio alcuno di mezzo. Se si prende il partito di dire, come dice il Gioberti, che si conoscano nella causa, senza argomentazione nè giudizio, anzi come un semplice concetto che s' intuisce; allora divenendo noi manifesti panteisti, perchè mettiamo l' effetto sostanzialmente e realmente nella divina sua causa, converrà di nuovo rinunziare al giobertianismo, perchè il Gioberti dichiara di non voler essere panteista. Da qualunque via si prenda questo sistema, ne' suoi visceri è dal panteismo corroso a morte; nè le proteste in contrario, o le belle frasi nel possono guarire. Non mi fermo, o signori, a notare cent' altre inesattezze e ripugnanze nei passi citati, come il dire che « « la cosa creata rappresenta imperfettamente l' idea creante » », frase che starebbe bene solo in colui che ammettesse che dalle creature, percepite direttamente, si salisse a conoscere il Creatore, che è il viaggio contrario a quel del Gioberti; o come l' ostinarsi a chiamare Iddio Idea , ed alla frase consacrata e al tutto dogmatica « il Verbo umanato »affettare con profano ardire di sostituire continuamente quella d' « idea umanata »; neologismi temerarj e gravidi di perniciosissime conseguenze, e tant' altre che il tempo mi vieta di riferire. Ma io non posso nulladimeno abbandonare ancora l' argomento troppo fecondo, senza chiamarvi ad altre importanti considerazioni, le quali io mi riserbo ad esporvi in un' altra lezione. Noi raccogliemmo, o signori, nelle lezioni precedenti tutte le giustificazioni, di cui il signor Gioberti riputò bisognevole il suo sistema per nettarlo dalla taccia di panteismo, e non omettemmo industria affine di trovarci dentro qualche valore; ma sgraziatamente ne riuscì il risultamento contrario, poichè le sue scuse e le sue giustificazioni stesse misero in più aperta luce la increscevole verità che quel sistema ch' egli si sforza d' introdurre in Italia, è fiore di panteismo tedesco. E per vero le proposizioni tutte che egli adduce a rimuovere da sè la sentenza che lo condanna, si trovano già ammesse dai panteisti più famosi che lo precedettero. Egli ammette che Iddio sia causa, e si compiace assai di chiamarlo causa immanente del mondo; ma anche molti fra i panteisti ammisero Dio come causa del mondo, e Spinosa in particolare si compiaceva di quella espressione; e pure essi fecero il mondo della stessa sostanza di Dio (1). Egli dichiara che Iddio è l' oggetto del sapere anche quando il sapere ha per oggetto le cose contingenti, poniamo, i corpi: [...OMISSIS...] . Ora sarà ben difficile il trovare dei panteisti, i quali dicano Iddio identico a ciò ch' egli produce colla sua propria sostanza. Egli confessa che Iddio è causa libera; ma chi non sa che questo fu detto anche da' più spacciati panteisti (2)? e che gli stessi teologi più rispettabili dissero che Dio fa liberamente tutto quello che fa, anche le stesse operazioni interiori, come la generazione del Verbo e la processione del Santo Spirito? Perocchè prendono la parola liberamente per indicare un' azione spontanea non legata, non determinata da alcun principio straniero a Dio (3); onde ancora il dire Iddio causa libera senza spiegare di più, non giustifica dal panteismo un autore che in tanti luoghi sembra professarlo col suo sistema, benchè continuamente, e quasi con soverchia solennità, dichiari d' esserne inimicissimo. Ma acciocchè voi abbiate qualche documento storico sotto gli occhi, dove vediate aperto come i panteisti abbiano sempre accozzate insieme, parlando di Dio, le proposizioni più contraddittorie nell' apparenza, alla guisa dell' autore che esaminiamo, permettete ch' io vi accenni il panteismo stoico, e che vi legga un passo dello stoico Seneca, che il professava. Questi, nel libro II, cap. 45, « Delle naturali questioni », così prende a parlare di Dio: [...OMISSIS...] . Voi vedete già in queste parole che Giove, cioè il sommo Dio, qui si riconosce 1 per custode e rettore dell' universo: 2 qual animo e spirito; 3 qual signore e fabbricatore della natura. Dunque Iddio non si fa già identico con ciò che egli produce, regge e governa: lo si fa artefice, e perciò causa del mondo, e lo si fa causa spirituale e intelligente a cui compete lo scegliere, il deliberare, l' esser libero. Con tutto ciò udite in che modo continua lo stoico panteista dopo aver detto che a Giove compete ogni nome: [...OMISSIS...] . Qui già Iddio è convertito nel fato, al quale lo stesso filosofo poco prima aveva attribuito la necessità scrivendo: [...OMISSIS...] . E tuttavia chiama Iddio « causa caussarum », che è veramente un renderlo creatore, come quello che produce non già solo gli atti delle cause seconde, ma le stesse cause seconde. Andiamo avanti: [...OMISSIS...] . Qui non è una necessità cieca, ma una mente guidata dal consiglio e dalla sapienza, ed è ancora distinto dal mondo. Procediamo a quel che viene: [...OMISSIS...] . Eccoci arrivati allo scioglimento: ecco dove finiscono le magnifiche frasi dei panteisti. Sì, Iddio è creatore, libero artefice dell' universo, non identico colle sue fatture, la causa delle cause, il rettore e il signore di tutte le cose; ma insieme egli è anche la necessità di tutte le cose e di tutte le azioni, egli è la natura, egli è l' universo: [...OMISSIS...] . Simili esempj di panteisti i quali uniscono, parlando di Dio, le frasi più vere e le più erronee ad un tempo, sono comuni. Acciò che dunque il signor Gioberti avesse legittimamente purgato il suo sistema dal panteismo, di cui teme egli stesso possa venire accusato, conveniva che oltre quelle magnifiche sue frasi intorno a Dio, non avesse poi aggiunte quell' altre che panteista il potrebbero dimostrare, come, poniamo, quella che « « Iddio è l' oggetto immediato ed universale del sapere, e non solo rispetto alla forma di esso sapere, ma ben anco alla materia » »; e l' altre da noi ripassate nella lezione precedente e moltissime più efficaci ancora che non abbiamo avuto il tempo d' indicare. Or qui, miei signori, ditemi per puro amore del vero, vi par egli che un tale scrittore sia giudice competente, quando, sedendo a scranna, toglie ad imporre accusa e a pronunciar sentenza recisa di panteista a questo e a quel filosofo, che non ebbe mai alcuna simile taccia? O vi credete voi che questo suo zelo possa parere al pubblico del tutto netto e sincero? Il zelo puro e sincero suol avere per sua guida la discrezione e la verità, nè suole eccedere in esagerazioni manifeste. Ora vi par egli che sia savia e discreta quella smania che ha il signor Gioberti di trovare il panteismo per tutto, dicendo che [...OMISSIS...] ? Non si può dunque più errare senza essere panteista? Non ha questo l' aspetto di un zelo eccessivo e del tutto esagerato? Non lascia egli dubitare che, colle migliori intenzioni, il signor Gioberti vada illudendo se stesso? Quando specialmente si considera, che al Panteismo contrappone come unico sistema vero il suo proprio sistema, dandogli l' appellazione di Ontoteismo, che non sembra il miglior vocabolo per designare un sistema affatto immune da ogni parentela con quel brutto errore del panteismo (2)? Perocchè egli pare che la parola Ontoteismo, che viene da Ente e Dio, sarebbe acconciamente adoperata a significare il sistema che fa Dio di ogni ente, ossia che fa ogni ente sia Dio. Onde quella denominazione che cangia il nome e lascia la cosa, potendosi Ontoteismo prendere appunto siccome sinonimo di Panteismo, sembra tanto più inopportuna, che le cose già da noi considerate nelle precedenti lezioni dimostrano pur troppo, che il signor Gioberti rassomiglia in qualche modo a colui che affaticasi a gittar acqua in casa d' altri, dove non è alcun fuoco, mentre arde tutta la propria. Al che dimostrare maggiormente non ci vien meno, o signori, sempre nuova messe ogni qual volta apriamo i suoi libri dovecchessia. Io credo non dovervi rincrescere che noi spendiamo ancora qualche tempo a considerare alcuni brani tra i molti di questo Autore, affine di assicurarci via più che non pronunciamo leggiermente sì grave sentenza sulla natura del suo sistema nel tempo stesso che rispettiamo senza limite le sue intenzioni. Nell' opera degli « Errori » alla terza lettera diretta, come tutte le altre, al prof. Tarditi, fac. .2, egli scrive così: [...OMISSIS...] . Meritano bene la nostra attenzione, o signori, queste parole, poichè, anche prescindendo dalla questione del panteismo, esse ci accordano più cose che prima ci sembrava negare. Esse ci accordano prima di tutto il fatto capitale da cui movono i nostri ragionamenti, cioè che « la mente umana pensa l' ente comunissimo e generalissimo ». Non è dunque assurdo, miei signori, pensare quest' ente, come sembra che voglia fare credere in altri luoghi il signor Gioberti; non è assurdo, e non può essere assurdo, perchè non può essere assurdo un fatto. E veramente altra è la questione dell' origine dell' essere ideale, altra la questione della natura . Altro è il domandare se noi vediamo l' essere ideale per natura, o lo caviamo per astrazione; altro il cercare se, qualunque sia la origine di quel concetto, egli ci stia dinanzi alla mente, e però sia qualche cosa, ovvero sia un mero nulla. Quando il signor Gioberti pretende che non possa essere congenito alla umana natura perchè egli è nulla, e poi ci fa sapere che l' uomo sel forma per astrazione, allora si contraddice; giacchè se è possibile che l' uomo si formi l' essere ideale per astrazione, rimane dunque possibile egualmente che sia a lui congenito, e, se più vi piace di così esprimervi, che Iddio glielo dia già bello ed astratto. Per decidere la questione dell' origine, conviene dunque aver prima ammesso che l' essere di cui si parla non sia nulla; questione che riguarda la sua natura, perchè di ciò che è nulla non si cerca l' origine. Il Gioberti confonde adunque due questioni, pugnando seco medesimo: non vuole riconoscere che l' essere ideale possa essere innato come quello che è nulla (onde accusa di nullismo il Rosmini); e poi riconosce che l' essere ideale si forma per astrazione, ammettendo così che sia qualche cosa. E perchè Iddio non potrebbe infondere ad una mente da lui creata una cognizione generica o speciale senza bisogno d' infondergli insieme quella dei reali e sussistenti individui che ad essa corrispondono? Del pari, anzi a maggior forza, niente dimostra impossibile, che il Creatore conceda all' umana creatura l' intuizione dell' essere universale, il quale si può pensare manifestamente senza bisogno di volgere contemporaneamente il pensiero alle sussistenze reali. Quante volte non si pensa un ente nella sua pura possibilità senza più? Ma quello che maggiormente dovete notare, o signori, si è, che fu già a pieno dimostrato dal Rosmini, che l' essere in universale non si può avere in modo alcuno per via d' astrazione, come vogliono i sensisti, la cui sentenza è ammessa senza esame per assioma indubitato dal Gioberti, perocchè l' astrazione non può cadere che sugli oggetti già percepiti, ed ogni percezione suppone dinanzi a sè la notizia dell' ente in universale; la quale d' altra parte sola ella basta a renderla possibile. In secondo luogo, quell' ente comunissimo ed astratto non è nessun ente particolare, è una mera astrazione pel signor Gioberti; dunque considerato come astratto non ha realità; che è quello appunto che diciam noi, essendo la realtà propria degli enti particolari. Perocchè se il signor Gioberti, dopo aver astratto l' ente comunissimo dall' ente reale, pretendesse di aver formato con questa operazione un altro ente reale, darebbe forse a ridere alla gente, e perciò noi crederemmo di fargli torto, se gli attribuissimo una simile assurdità. Vero è, che egli dice, che « « il possibile è reale come possibile »(1) », frase novissima, udendo la quale sembra, a dir vero, che egli voglia giocar di parole; che egli cioè, dopo aver distinto per via di astrazione il possibile dal reale, voglia poi allo stesso possibile astratto dare la realtà, benchè coll' astrazione gliel' abbia tolta. Il che è come dire: « Vedete il fusto di questa colonna. Astraete da esso la pietra di cui ella è formata: che cosa vi resta? Mi resta l' idea d' un fusto di colonna che contiene tutta la forma, ma che non contiene, non determina alcuna materia di cui sia composta, nè pietra, nè legno, nè metallo, nè altro. Eh! v' ingannate, soggiungesse, la vostra colonna astratta è realmente di pietra ». Si risponderebbe ad un tale dialettico: Voi volete farci travedere: come può essere di pietra quella colonna astratta, dalla quale coll' astrazione abbiam tolta via la pietra? Così appunto il Gioberti: egli ci consente che coll' astrazione si possa levare la realità dell' ente, e con ciò formarci un ente possibile, astratto, comunissimo. Ma dopo tutto ciò, ci soggiunge tuttavia: [...OMISSIS...] . Non è questo un giocar di parole? Non si muta qui il valore della parola realità? E mentre prima si prendeva in senso di ente sussistente in opposizione dell' ente meramente ideale, poscia si prende in senso di entità? Certo che l' astratto, il possibile, l' idea pura ha la sua entità, non è nulla; ma la questione non cade qui; la questione cade a sapere se il possibile, il comune, l' astratto, ha quella entità che hanno gli enti chiamati sussistenti e reali da tutto il mondo. Conviene egli a noi tener dietro a siffatti scambietti di significati dati alle parole, non degni di chi vuol filosofare? No, miei signori, onde lasciamoli pure da parte (1), e concludiamo che il Gioberti ci concede che l' ente comunissimo, ideale e possibile, possa esser diviso dal reale (dal quale per altra parte non si può prendere, perchè non può prendersi alcuna cosa dov' ella non è) senza che questo sia reale, benchè sia verissimo oggetto della mente che lo vede puro e lo contempla, e senza che sia tuttavia il nulla, che non si può vedere nè contemplare, nè dire che sia un elemento comune a tutti gli enti; e posciachè quell' oggetto della mente non è nulla, egli può anche essere ingenito; del che il Rosmini diede molti ed apertissimi argomenti, ai quali avrebbe dovuto certamente rispondere il Gioberti se volea impugnare quel sistema, ma stimò meglio dissimularli trapassandoli in sommo silenzio. Prendiamo dunque a conto queste concessioni che egli ci fa, e che sono pure il tutto nella disputa che egli move contro alla dottrina da noi seguita. Ma egli tuttavia ce ne fa un' altra non meno importante: ci concede ancora che noi diciamo bene quando affermiamo che quest' ente comunissimo non è Dio; poichè, a detta sua, tra l' idea di Dio e l' idea dell' essere comunissimo v' ha quella analogia e somiglianza rimota che corre tra l' infinito e il finito . Ascoltate attentamente, perchè già ci avviciniamo di nuovo alla questione del panteismo, che è il principale argomento, di cui al presente ci dobbiamo occupare. Non è già che con quelle parole il signor Gioberti esprima fedelmente la nostra opinione. Primieramente tra l' idea di Dio e l' idea dell' essere comunissimo non ci può correre quella infinita distanza che pretende il signor Gioberti, perchè finalmente elle sono due idee dello spirito umano. La distanza sta bene tra Dio e l' essere comunissimo, ma non ancora tale quale il Gioberti sembra volerla indicare. Se noi diciamo, che l' ente ideale non è Dio, non diciamo però così assolutamente, com' egli dice, che esso sia finito; anzi diciamo che egli ha un lato infinito ed un lato finito: in quanto è infinito ed universale cioè nella sua parte positiva, egli è un raggio di Dio, un lume del volto divino, come la Scrittura lo chiama, una partecipazione del lume increato, e perciò lo chiamiamo anche noi divino; in quanto poi è finito e limitato, cioè nella sua parte negativa, intanto a lui si appartiene il nome che gli dà s. Tommaso di lume creato . Ma ad ogni modo resta sempre fermo, che il Gioberti ci accorda, che l' ente ideale non è Dio, e questa è quella confessione che noi vogliamo raccogliere dalla sua bocca. Che se noi abbiamo ragionato bene dicendo che quest' ente non è Dio; ond' è poi lo strepito ch' egli mena contro questa nostra sentenza, per la quale vuole che noi urtiamo necessariamente in uno de' due infamissimi scogli del soggettivismo o del panteismo? A vederlo conviene che noi attendiamo al modo onde egli ragiona in quanto al soggettivismo, cioè a quell' errore che il Rosmini denunziò forse il primo al pubblico, e cui egli impose il nome. Egli dice così: [...OMISSIS...] . Così alla facc. .5 della citata lettera. Io non voglio già qui fermarmi, o signori, ad osservare quante cose inesatte o false si contengano in queste parole; non voglio già farvi osservare essere una mera e grossa falsità, l' affermazione sì franca, diciamolo pure, e sì audace al suo solito, che, secondo il Rosmini, « « si distingue l' essere ideale numericamente dall' idea divina » », frase che non adoperò, nè adoprerebbe mai il Rosmini, il quale non parla d' idee divine che riduce tutte al Verbo, ed ancora sostiene che l' essere in universale è essenzialmente uno, e numericamente il medesimo veduto da tutti gli uomini e da Dio stesso, ma da Dio in tutt' altro modo proprio di Dio, senza niente di negativo, perciò senza che in Dio si distingua dal suo stesso Verbo (1), distinguendosi solo rispetto all' uomo a cui è dato in modo sì limitato. Neppure mi fermerò a pregarlo che si compiaccia di darci qualche prova di quell' affermazione egualmente ardita e gratuita, [...OMISSIS...] . Perocchè se per questo soggetto conoscente egli intende l' uomo, ora perchè mai, noi gli domandiamo, dovrà egli immedesimarsi coll' uomo, a cui solo risplende come il lume agli occhi? Forse perchè è nell' uomo come oggetto del suo intuito? Per questo no, poichè, se egli adducesse questa ragione, la ragione stessa varrebbe per l' oggetto reale che egli attribuisce all' intuito, onde si darebbe della zappa in sul piè. Forse perchè, essendo ideale, dee aver per sua sede qualche mente reale? Questo non prova che s' immedesimi coll' uomo. Prova solo quello che dimostra il Rosmini, cioè che l' essere ideale dee risiedere in Dio, e immedesimarsi con Dio; benchè l' uomo non veda il come, perchè col lume naturale non vede Iddio. E questo è anzi l' argomento a priori che il Rosmini addusse dell' esistenza del Supremo Essere (1). Dove io vorrei pure poter dare al signor Gioberti almeno lode di buona fede. Ma quando considero l' abuso che egli ha fatto dell' aver detto il Rosmini che « l' ente ideale non sussiste fuor della mente », colle quali parole il Rosmini intendea d' ogni mente e umana e divina, e il Gioberti se ne prevale per far dire al Rosmini, che l' essere ideale è nulla fuori dell' uomo; mi duole non potergli neppure attribuire quella lode che agli onesti è sì cara. Procede adunque il nostro Filosofo tutto sul gratuito e sul falso. Ma non fermiamoci a ciò: in quella vece così ragioniamo. Il signor Gioberti dice, che « « un tale ideale solo nel soggetto conoscente, s' immedesima sostanzialmente con esso » »; il Rosmini all' incontro dimostra in un lungo dialogo (1) con argomenti evidenti, di cui il Gioberti non fa parola, che, quantunque l' essere ideale sia nel soggetto conoscente nel senso che è da questo soggetto intuíto, tuttavia non si confonde, nè si può giammai confondere con esso lui; che anzi è per la sua stessa essenza inalterabile ed inconfusibile, ed ha natura tanto distinta dal soggetto intuente, quant' è distinto ciò che è necessario da ciò che è contingente, e la natura dell' uno conserva opposizione alla natura dell' altro, come esprime anche l' etimologia della parola soggetto ed oggetto . Dunque il Rosmini a buon conto non cade certamente nel soggettivismo, che gl' imputa l' avversario. Dopo di ciò raccolgo un' altra confessione del signor Gioberti intorno alla maniera con cui egli concepisce « l' essere possibile, ideale, comunissimo »; raccolgo cioè essere la sua sentenza intorno alla natura di quest' essere tutto contraria alla sentenza del Rosmini, il quale sostiene che egli è per essenza oggetto; laddove il Gioberti lo fa soggettivo, e vuole che s' immedesimi col soggetto conoscente. Ritenuta questa confessione del Gioberti intorno alla natura dell' essere ideale, ritenuto che quest' essere astratto, com' egli dice, non è Dio, ma creatura, non conserva rispetto a Dio che « « quella analogia e somiglianza rimota e imperfettissima che corre fra l' infinito e il finito » »; io passo all' accusa di panteismo, ed esamino tosto se questa cade giustamente sul Rosmini, o ricade piuttosto in capo allo stesso Gioberti. In quanto al Rosmini, voi sapete che egli insegna che l' essere ideale è per essenza oggetto, come dicevamo, ed inconfusibile coll' uomo, che è identico, manifesto a tutti gli uomini che vissero ne' varj secoli, e nelle più disparate parti della terra, universale, eterno, immutabile ec., in somma divino da quel lato nel quale egli è infinito. Dunque dicendo il Rosmini che quest' oggetto è nella mente di Dio, ossia è in Dio, egli non confonde già le creature con Dio, e perciò non cade nel panteismo. Dice di poi che quest' essere in Dio non si trova a quel modo come si trova nell' uomo per partecipazione e da qualche parte limitato, ma si trova per essenza e illimitato da tutti i lati, e che è Dio stesso non punto nè poco diviso dalla divina natura. Ma dice di più che non ne viene da questo, che l' uomo veda la natura divina, la coscienza e la ragione dicendoci il contrario; dicendoci cioè che l' uomo vede l' essere in istato puramente ideale, il quale però non è Dio, perchè Iddio non è un' idea, ma è vera sussistenza, viva, intelligente ed intelligibile per se stessa. Laonde la limitazione colla quale è dato all' uomo l' intuito dell' essere, è tale e tanta che per essa gli si nasconde la divina sussistenza e sostanza, in modo che l' essere che rimane visibile non contiene più ciò che col nome sostantivo di Dio viene espresso. E tuttavia, aggiunge il Rosmini, che l' essere ideale qual è veduto dall' uomo suppone un primo reale, cioè una mente sussistente in cui egli si trovi come in proprio luogo, e così per via di raziocinio e non intuitivamente, dall' essere ideale argomenta all' esistenza di Dio, con argomentazione a priori efficacissima. All' incontro il Gioberti vuole che l' essere ideale sia del tutto finito, soggettivo, anzi che si immedesimi col soggetto uomo. Ora indovinate mo' dopo tutto questo, dove, secondo lui, un tal ente si trova? Quest' ente appunto si trova, secondo il Gioberti, in Dio medesimo: Iddio è l' oggetto dell' intuito giobertiano, e l' uomo coll' astrazione vi trova dentro l' ente finito, l' ente che s' immedesima coll' uomo stesso. Or questo che cosa è mai, miei signori? E` panteismo o no? Leggete che cosa egli scrive alla faccia 67 della citata lettera III. [...OMISSIS...] . Questi riverberi e queste postille delle cose impresse in nitido vetro, non farebber pensare, per osservarlo di passaggio, che le cose mandino il loro lume in Dio come nello specchio? sicchè le cose sieno il lume, e Iddio il vetro che lo riceve? Ma lasciando tali improprietà, avete udito che Iddio contiene l' idea dell' essere possibile, che, secondo il Gioberti, è l' ente finito, identico coll' uomo. Si fa dunque dell' ente finito e dell' infinito, dell' uomo e di Dio una cosa sola. Ascoltate di più come egli aveva già prima scritto nella « Introduzione, L. I, c. IV, facc. 35 »: [...OMISSIS...] . Quale eloquenza, miei signori! Egli è impossibile raffrenarne la foga coll' opporgli forse che tali cose non sono state mai dette nè da filosofi, nè da teologi cattolici. E che varrebbe infatti l' opporgli che tutti quanti i più solenni teologi della Chiesa cattolica, incominciando da s. Tommaso (e più su si potrebbe andare), dichiararono e dimostrarono fin qui, che in Dio non vi è nè generale nè particolare (1), se questo fiume d' eloquenza sdegna ed abbatte tutte le teologiche sponde? Lasciando adunque questi accessorj, cerchiamo d' intendere bene la sua mente nel principale. Ed i passi citati sono chiari. Egli dice, che l' Ente reale, cioè Iddio, è la sintesi di queste proprietà, cioè del concreto e dell' astratto, dell' individuale e del generale (già v' accorgete dell' affinità di questo parlare col sistema dell' identità assoluta dello Schelling): dice che Iddio sotto un aspetto è l' astratto, sotto un altro il concreto, sotto un aspetto è il generale, sotto l' altro è il particolare; dice bensì che tutto ciò è in modo diverso dalle creature; ma soggiunge che la concretezza e l' individualità sono il reale senza l' ente, da cui nascono le idee riflesse. E per istare nel discorso che abbiamo cominciato, egli colloca l' ente astratto e possibile, dove si rinviene poi per via d' analisi, in Dio, anzi egli dice che Dio stesso è l' ente astratto, è il possibile considerato sotto un rispetto, dice che l' ente assoluto contiene in sè l' idea del possibile. Ma avvertite, che egli stesso altresì è quegli che dice parimente, che l' ente astratto e possibile non è Dio, non è che un' analogia e somiglianza con Dio rimota ed imperfettissima, come quella che corre tra il finito e l' infinito, e che quell' ente astratto s' immedesima coll' uomo. Dunque la conclusione parmi assai chiara; il finito, il soggettivo, il soggetto stesso umano col quale s' immedesima l' essere astratto è in Dio ed è Dio; perocchè tutto ciò che è in Dio è Dio, e la sola analisi dello spirito è la virtù creatrice che cava il finito dall' infinito, e le esistenze, cioè le creature dal creatore. E qual panteismo v' ebbe mai al mondo che non sia rifuso in questo sistema? Dunque al Gioberti si deve applicare, secondo la giusta logica, quell' argomento che egli fa sì male a proposito contro il Rosmini e contro il Tarditi, il quale è questo: [...OMISSIS...] . A questo ragionamento non si può rispondere. E di vero, risponderà forse, che quando egli disse che l' essere possibile ed astratto è finito, intendeva solo nel caso che non si ponesse in Dio, ma che esistesse solo nell' uomo, come falsamente attribuisce a noi di tenere? Non può dir questo, mentre anzi espressamente dichiara in contrario; dichiara che è proprio finito quell' essere che si vede in Dio, e che perciò è Dio: ripetiamo le sue parole: [...OMISSIS...] . Dice adunque che è finito quell' ente possibile appunto, che si vede in Dio, ed anzi che si crede tale perchè tale si vede in Dio. Or posciachè tutto ciò che è in Dio è Dio, dunque anche il finito, ciò che, secondo il Gioberti, è soggettivo, e che si immedesima con noi è Dio; il che se non è panteismo, per dirlo ancora, che cosa sarà, miei signori? S' accalappia dunque il nostro Filosofo ne' suoi stessi ragionamenti, e precipita nella fossa altrui preparata; il che suole esser sempre la giusta sorte riserbata all' errore. Ma v' ha ancora un barlume di speranza, miei signori, di poter salvare in qualche modo il sistema dell' ab. Gioberti dalla taccia gravissima che egli incorrerebbe, secondo i fatti ragionamenti; e questo si è che egli professa apertamente, ed estolle a cielo il dogma della creazione, anzi lo pone a segno caratteristico da cui distingue i filosofi puri di panteismo da quelli che ne vanno infetti. E veramente in ciò siamo d' accordo con lui, purchè s' intenda come l' intendono i cattolici e non come l' intendeva lo Spinosa o l' Hegel: questo dogma può essere una tessera acconcissima a ciò, perchè in qual maniera sarà panteista colui che professa, come professiamo noi tutti cattolici, miei signori, che l' università delle cose contingenti è cavata dal nulla? Perciò se gli fosse piaciuto di esser coerente a questo criterio che stabilisce per iscoprire dove giacciasi il panteismo, avrebbe dovuto incominciare dimostrando che tutti quei filosofi che egli accusa di tanto errore, negano la creazione, e che egli solo l' ammette. Ma questo è quello appunto ch' egli si dimenticava di fare. Ma or lasciando stare le accuse che egli appone altrui, non avrà almeno il signor Gioberti, magnificando il dogma della creazione, ed anzi cangiandolo in assioma filosofico (il che è andare certamente al di là dello stesso dogma), purgato interamente e pienamente il suo sistema da così brutta colpa? Questo è quello che noi ci proponiamo d' investigare, miei signori, in altra lezione. Sì, miei signori, se Vincenzo Gioberti ammette puramente e semplicemente il dogma della creazione, quale è insegnato dalla fede cristiana, egli non è panteista. A malgrado di tutto ciò che abbiamo veduto di lui, noi siamo presti ad assolverlo da un tanto errore: noi diremo o che non l' abbiamo inteso, ovvero che egli non è troppo felice nello spiegare i suoi concetti, o finalmente che egli si contraddice inavvedutamente. Ma avvertite: noi pretendiamo per rimandarlo giustificato, ch' egli veramente ammetta questo dogma cristiano della creazione, e che non ci illuda con pompose parole; che lo ammetta nella sua filosofia, non nella sua credenza, sulla quale noi non moviamo alcun dubbio, nè importerebbe alla scienza. Quest' avvertenza ce la insinua egli stesso, poichè egli stesso ci ammonisce [...OMISSIS...] . E veramente se gli stoici chiamavano Iddio caussa caussarum, che è quanto farlo in un certo senso, creatore, non erano perciò meno panteisti; se lo Spinosa chiama Iddio CAUSA IMMANENTE di tutte cose, che è la frase di cui tanto si compiace il Gioberti, non era questo immune da panteismo. Convien dunque, che il Gioberti, se vuole andar netto da sì brutta macchia (parliamo sempre del sistema, non dell' uomo,) ammetta la creazione nel vero senso, nel senso cattolico, come l' ammettiamo noi. E` questa la ricerca che ci rimane a fare: a noi riman di vedere qual sia il concetto che il signor Gioberti ci dà della creazione, come ce la spieghi; giacchè egli dichiarando propriamente di vederla nell' intuito primitivo, può essere in caso di spiegarcela assai meglio d' ogni altro che non crede di vederla. Cominciamo dunque a dar mano a questa nuova ed importante ricerca. E prima osserviamo come lo stesso signor Gioberti confessi di non avere altro rifugio che il salvi dal panteismo, se non questo dogma della creazione; e confessi che tutto il resto del suo sistema sarebbe manifestamente panteistico, se non sopraggiungesse opportunamente questo dogma a sanarlo. Nella lettera XI di quelle che dirige al professor Tarditi, ci narra la storia dei suoi pensieri, parlando di se stesso in terza persona così: [...OMISSIS...] . Dal qual passo raccogliamo più cose importanti. E la più importante si è, che costruire la scienza prima coll' ente possibile del Rosmini non è già cadere nel panteismo, come in tanti altri luoghi va declamando il signor Gioberti (che che ne sia dello scetticismo che non appartiene al nostro discorso); e che all' incontro costruire l' edificio della scienza prima colla semplice nozione dell' ente reale, è appunto un cadere nel panteismo; questa confessione rileva assai, miei signori, perchè è ciò appunto che avea scritto il prof. Tarditi, dicendo che [...OMISSIS...] . Ora voi vi risovverrete pur anco, o signori, che il Gioberti, stretto allora dal bisogno di difendersi, negò francamente, che il Tarditi cogliesse nel vero [...OMISSIS...] . Ma ora all' opposto concede al prof. Tarditi senza contrasto, che costruire la scienza coll' ente reale è cadere nel panteismo, il che gli avea prima negato: noi teniamolo a conto. Di poi avete udito che egli parla di molti autori ortodossi ed eterodossi, che pongono a prima base dell' umano sapere l' ente reale , e che il loro sistema riesce al panteismo. Quali sono, secondo il Gioberti, cotesti scrittori ortodossi? Certo, sant' Agostino, s. Bonaventura, Malebranche ed altri tali. Vedete, che interpretati al modo che fa il Gioberti, tutti cotesti autori riescono macchiati di panteismo, perchè a spiegare la cognizione delle cose esistenti non sono ricorsi all' intuito della creazione. Or questo non par probabile di uomini sì illuminati, al men rispetto ai due primi. Laonde noi ci atterremo, miei signori, all' interpretazione che dà il Rosmini di sant' Agostino e di s. Bonaventura, la quale nello stesso tempo che li concilia con s. Tommaso, li salva ancora da ogni taccia di panteismo; e d' altra parte l' interpretazione del Rosmini non è tratta già dall' una o l' altra frase sfuggevole, ma dallo spirito e dal fondo di tutte le loro opere. Ma che diremo poi della pretensione, che mette fuori il signor Gioberti ad ogni piè sospinto, di avere tali autori dalla sua, se tali autori appunto, a detta di lui, sono panteisti? Convien dunque dire, stando alle confessioni dello stesso signor Gioberti, ch' egli si vanti di seguire dei panteisti; o se rinunzia a coprire il suo sistema con sì rispettabili autorità, egli si rimane del tutto solitario ed isolato nel mondo della Filosofia. Ma entriamo direttamente nel nostro argomento. E cominciamo dall' osservare che pel signor Gioberti il dogma della creazione non è solamente un articolo di fede, o un teorema filosofico, ma di più è anche un assioma . E quale assioma! Il primo di tutti gli assiomi, sul quale si fonda lo stesso principio di contraddizione, e da cui procede la forza d' ogni dimostrazione (1). Ora un assioma è una verità necessaria, e il primo di tutti gli assiomi è il più necessario di tutti, da cui deriva la necessità agli altri. Se dunque il principio di contraddizione è necessario, se è necessaria la forza con cui conchiude il sillogismo, ancor più necessario o almeno ancor prima dee esser necessario il principio o l' assioma di creazione. Abbiamo dunque una creazione necessaria, una creazione così necessaria come sono i primi principj della ragione, e d' una necessità anteriore; ma non è questa, o signori, come ben sapete la creazione cattolica, la quale non ha una necessità intrinseca e razionale, come quella che dipende dal libero ed ottimo volere di Dio. Di poi che cosa sono le esistenze o sieno le creature pel signor Gioberti? Non altro che qualche cosa che si separa da Dio per mezzo della riflessione. Vediamolo. L' oggetto dell' intuito umano è l' Ente. L' Ente è Dio. In quest' oggetto l' uomo trova ogni cosa, il contingente e il necessario, la creatura e il Creatore, perocchè l' ente è ogni cosa. Noi abbiamo veduto che tale è la dottrina del Gioberti. Richiamiamo le sue parole: [...OMISSIS...] . L' Ente, cioè Iddio oggetto dell' intuito, possiede dunque tutto ciò che vi ha di positivo nell' astratto, nel concreto, nel generale e nel particolare, nell' individuale e nell' universale. Le creature possiedono le stesse cose, ma in altro modo, perchè il positivo è mescolato in esse col negativo, il quale non è in Dio. Alle esistenze reali, che sono le creature, appartengono, come dice poco appresso, la concretezza e l' individualità , che per altro in un modo diverso, cioè senza l' elemento negativo, si trovano in Dio. Quindi egli soggiunge che « « la concretezza e l' individualità sono il reale senza l' ente »(2) », cioè il reale diviso, separato da Dio, ammettendo che per via di riflessione e di astrazione si possa separare il reale da Dio, e così fare che esistano. Come poi si può separare da Dio il reale, così viceversa si può colle operazioni riflesse della mente separare da Dio l' astrattezza e la generalità, e così fare che esistano nello spirito umano le idee, onde dice: « « L' astrattezza e la generalità sono l' ente senza il reale » », cioè l' ente dal quale è stato separato per via d' analisi il reale. E che cosa allora ne è rimasto dell' Ente, cioè di Dio, su cui si esercitarono tali operazioni? Egli è rimasto l' ente possibile, perchè l' ente senza il reale è ente possibile, e però all' ente possibile, che altre volte ha detto essere il nulla, altre volte ha detto immedesimarsi col soggetto umano, qui dà il titolo di Ente, che è la parola solenne che egli serba a significare Iddio, e altrove dice più espressamente che è Dio. Pone dunque due separazioni che si fanno nell' Ente, cioè in Dio, mediante la riflessione: colla prima si trova la concretezza e la realtà, coll' altra si trova l' astrattezza e la generalità: [...OMISSIS...] . Fermiamoci dunque qui, e vediamo come il nostro Filosofo faccia nascere le cose create, perocchè questo ci fa conoscere qual sia il concetto che egli si è formato della creazione. Onde adunque, nascono secondo Gioberti, le cose create? Dalla concretezza e dalla generalità. E dove sono la concretezza e la generalità? Sono in Dio, il quale è [...OMISSIS...] . Ma il concreto, il particolare, l' individuale appartengono all' esistenze reali (così chiama le creature) per altro in modo diverso da quello in cui appartengono a Dio, perchè in Dio quelle nozioni sono unite coll' astratto, col generale, coll' universale; ed acciocchè nascano le creature si devono separare. Le creature dunque sono nozioni o idee che sono in Dio, ma che si devono separare dalle sue correlative, acciocchè sieno creature. Così nascono le creature. Ma se dopo separate queste, si tornano a unire colle loro nozioni corrispondenti, che sono l' astrattezza, la generalità, l' universalità, in tal caso si ricompone l' Ente, cioè Dio. L' analisi adunque e la sintesi sono quelle che fanno uscire le creature da Dio, e che le fanno poscia rientrare in Dio. Infatti egli soggiunge: [...OMISSIS...] . Tale è il concetto della creazione giobertiana. E questo concetto non ispiega solamente la creazione del mondo, cioè dell' esistenze reali, ma ben anco l' origine delle idee, come vedemmo. Perocchè a quel modo che, analizzando l' Ente, si può separare il concreto e l' individuale dall' astratto e dall' universale, e così averne belle e create le esistenze reali, simigliantemente si può separare l' astratto e l' universale dal concreto e dall' individuale, e così averne le idee riflesse, giacchè, come dice, [...OMISSIS...] . Ora ditemi, miei signori, che vi par egli di questa maniera di far nascere le esistenze reali mediante l' analisi che lo spirito fa dell' Ente, cioè di Dio, coll' uso della riflessione? Vi par egli che questo sia un ammettere il dogma della creazione? Non è molto singolare la spiegazione di questo dogma? Voi sapete che il dogma della creazione suppone un atto di Dio, e qui noi lo troviamo ridotto ad essere un' analisi che fa lo spirito dell' uomo! come viceversa troviamo che l' Ente reale, cioè Iddio, è finalmente una sintesi dello spirito stesso! Vero è che il sig. Gioberti dice, che [...OMISSIS...] . E che diremo, dunque, signori miei? Diremo forse che la creazione sia un lavoro filosofico che fa Iddio e che l' uomo ripete, e così la ragione dell' uomo sia veramente la ragione di Dio? Diremo che la creazione non sia altro che « « una rivelazione di cose » » come espressamente la chiama il nostro Filosofo (2)? E` forse questo il dogma cattolico della creazione? Dal catechismo noi abbiamo apparato che la creazione si definisce convenientemente « una produzione dal nulla ». Non crediate. Il signor Gioberti vi dichiara espressamente che questa non è che una « « metafora volgare » » (3), benchè confessi che essa è « « la produzione assoluta, che dà principio alla sostanza, non meno che alle forme potenziali ed attuali delle cose prodotte » »; ma è da vedere in che modo egli intenda avvenire questo dar principio . Noi abbiamo veduto che nel sistema che esaminiamo il Creatore è lo spirito che analizza l' oggetto dell' intuito, il quale oggetto è Dio, e vi cava il concreto ed il particolare che sono le esistenze reali, le creature: niente dunque produce dal nulla, perchè trova in Dio tutto: la concretezza stessa e l' individualità, dalle quali nascono le cose create, come pure l' astrattezza e la generalità, dalle quali nascono le idee riflesse; perocchè « « l' ente è astratto e concreto, generale e particolare, individuale e universale in un tempo » » le creature dunque sono diverse da Dio, come le proprietà divise per analisi sono diverse dalle proprietà unite per sintesi: non v' ha qui niente di nuovo se non che è nuovo il modo col quale la riflessione umana considera lo stesso oggetto dell' intuito. A questo appartiene la sintesi primitiva che ha per oggetto Iddio, a quella appartiene l' analisi che ha per oggetto le creature, cioè certe proprietà dell' Ente divise dalle altre. Perciò egli ci dice che « « l' atto creativo immanente non è cosa sostanziale, ma modale »(1) » benchè, secondo la Teologia cristiana, la creazione in Dio è la stessa divina sostanza, e neppure nella creatura ella è cosa modale; anzi è il ricevimento del suo essere sostanziale. Ma se la creazione si fa coll' analisi e colla sintesi giobertiana, niente vieta che ella sia non più che cosa modale; conciossiachè il separare il concreto e il particolare dall' astratto e dal generale certo non importa che una mera modalità. Ma è egli forse questo quel concetto di creazione che può purgare un filosofo dalla taccia di panteismo? O piuttosto non vediamo noi che un panteista dee per necessità e coerenza col suo sistema innalzare alle stelle la bellezza e la fecondità del dogma di creazione spiegata in tal modo? E il vantare con tanta affettazione un tal dogma come cosa propria di tal filosofia, e quasi non più comune al mondo cristiano, non somiglia egli al costume di que' panteisti che cercano d' illudere il pubblico con frasi magnifiche e mensognere? Vero è che in un altro luogo dice, che « « l' esistente è sostanzialmente distinto dall' ente »(2) »: questa frase ci fa concepire un raggio di speranza, che il Gioberti riconosca che le creature e Dio non sono una sola sostanza, ma due sostanze veramente distinte; pure perchè mai esprimere un vero tanto importante così brevemente? Sarebbe ella non più che una frase magnifica? Vediamo tutto il contesto: [...OMISSIS...] . Ora se le creature insiedono in Dio, come possono essere una sostanza da lui diversa? Perocchè qui non si tratta dell' insidenza loro come in esemplare ed in causa, ma si tratta d' un' insidenza dell' essere reale e sostanziale delle creature. Certo che in Dio non vi hanno due sostanze, ma una sola. Tutto quello che è in Dio è Dio. Dire che il concreto e il particolare, da cui prima avea detto che nascono le creature, quando tali proprietà si dividono coll' analisi, esistono in Dio in un altro modo, non basta; perchè la differenza non può essere di modo, ma di sostanza, per evitare il panteismo. Ma udiamo come egli continua: [...OMISSIS...] . Che vi pare di questo linguaggio? Egli è certamente coerente a quello che avea detto prima, che togliendo in Dio coll' analisi l' astrattezza e la generalità, nascono le idee, e togliendo in lui la concretezza e la individualità nascono le creature. Ma la sostanza è ella unica, o sono più sostanze? Questo è quello che noi dobbiamo sapere. Ora noi abbiamo da una parte un sistema intero da cui risulta che la sostanza è unica; ed abbiamo dall' altra una frase sfuggevole, isolata e contradittoria che « « l' esistenza si distingue sostanzialmente dall' ente » ». Questa frase potrà esprimere la credenza dell' uomo; ma noi esaminiamo il sistema del Filosofo. D' altra parte, la frase è conciliabile col sistema, giacchè se le creature sono il concreto e il particolare che la riflessione ritrova in Dio oggetto dell' intuito, certo che esse si distinguono da Dio sostanzialmente, perchè le creature in tal supposto, lasciano a Dio tutta la sostanza e esse non sono che sue proprietà. Infatti il Gioberti dà il nome di proprietà al concreto ed all' astratto, all' individuale e al generale che ripone in Dio, là dove dice: [...OMISSIS...] . Ma consideriamo un altro luogo dello stesso Autore, acciocchè, quanto si rende più chiaro il suo pensiero, altrettanto s' allontani il pericolo che le sue frasi ci illudano. L' oggetto dell' intuito giobertiano è l' ente, cioè Dio; all' incontro l' ente possibile che s' immedesima col nostro spirito, come vedemmo, è oggetto della riflessione. Ora fra l' uno e l' altro « « v' ha quella analogia e somiglianza rimota e imperfettissima, che corre tra l' infinito e il finito, fra l' ente e l' esistente » »: sono parole del Gioberti. Questa immensa differenza nasce unicamente dalla diversa maniera colla quale lo spirito nostro vede lo stesso oggetto. Se dunque l' oggetto è lo stesso, benchè le potenze sieno diverse; se lo stesso oggetto rispetto ad una potenza è Dio, rispetto all' altra potenza è l' esistente, cioè la creatura; non avremo noi che Iddio e la creatura sono l' essere stesso, la stessa sostanza? Ora udite le parole di Vincenzo Gioberti: [...OMISSIS...] . Considerato bene tutto questo passo, molte cose, son certo, suggerirà al vostro spirito, miei signori, la penetrazione di cui siete dotati, delle quali alcune saranno forse le seguenti: 1 Il Gioberti dice che l' idea diretta e la riflessa hanno NELLA SOSTANZA un oggetto medesimo: la sostanza dunque è unica. 2 Che quest' oggetto sostanzialmente il medesimo, quest' unica sostanza, rispetto all' intuito è l' Ente, cioè Iddio; rispetto alla riflessione è l' ente finito, l' ente astratto e possibile, quale è nel nostro spirito, e s' immedesima col nostro spirito stesso; onde accagiona il Rosmini di soggettivismo, perchè da esso deduce le idee; benchè non sia vero che ne deduca le idee, ma solo la forma delle idee. Tiratene la conclusione: non solo voi, miei eruditi signori, ma ognuno che abbia fior di logica, sa tirarla. La conclusione indeclinabile, inescusabile, manifesta ed evidente si è, che dunque Iddio, e l' ente astratto, finito, soggettivo, che s' immedesima collo spirito umano, sono nella SOSTANZA il medesimo oggetto, e differiscono nel modo; perchè è la sola riflessione e astrazione dello spirito che li divide; questa è quella che fa uscir fuori le esistenze dall' Ente: ecco per dirlo di nuovo, a che si riduce la CREAZIONE GIOBERTIANA! Onde altrove egli esprime la creazione con questa frase, « « la trasformazione psicologica del reale (cioè di Dio) nel possibile » » (che secondo lui è una creatura) (2). Miei signori, non è ella forse una dolorosa, ma patente verità oggimai il dire, che questo sistema è quello nè più nè meno de' più arditi panteisti? Dopo di ciò non fa meraviglia, che il Gioberti, miei signori, sembri contradirsi, come abbiam veduto che soglion pur fare tutti i panteisti, e di più non è meraviglia, che esca in declamazioni contro i panteisti che lo precedettero (anzi ella è cosa naturale), secondo i quali [...OMISSIS...] . Ma dopo avere dato tali e somiglianti sgarrate, quasi scudo messo avanti a protezione di sua dottrina, egli ritorna a sè medesimo, e vi dice netto, che, come [...OMISSIS...] . Vi dice ancora, siccome udiste, che [...OMISSIS...] . Nel qual luogo l' Ente, cioè Iddio, è divenuto quell' idea che dà luogo alla psicologia, quell' idea che spiegò già il Gioberti nel luogo sopracitato, dove disse, che è un' idea che s' immedesima collo spirito umano, onde anzi dà nome ed accusa di soggettivisti e psicologisti a quanti muovono da quest' idea separandola dalla sussistenza. Perocchè non è già l' Ente come sussistente che dà luogo alla psicologia, ma l' Ente come intelligibile, che è quanto dire come quello onde fu astratta la sussistenza, il quale, secondo lui, s' immedesima col soggetto, coll' uomo. Ancora, dopo averci detto, che la sola dovizia reale delle scienze è quella che consiste nel concreto, egli ci soggiunge che il concreto della Filosofia [...OMISSIS...] . Il che vi prego di raffrontare con ciò che avea scritto nell' « Introduzione », «L. I, p. I, f. 23 ». [...OMISSIS...] , ed è perciò ch' egli vuole che nell' oggetto del suo intuito vi sia anche il sensibile, il che è perfettamente conseguente a tutto il resto, perchè anche la materia sensibile è una esistenza. Ma posciachè voi avete udito pure testè di che il Gioberti accusa i panteisti, cioè di volere che Iddio sia, a rigor di termini, non già il centro universale, ma lo stesso circolo; giova che noi vediamo d' intendere a fondo quale sia la distinzione che il Gioberti pone fra il centro universale che è Dio, e il circolo che sono le cose create. Parlando dunque egli dell' idea e del reale, li considera meramente come due rispetti, sotto cui si riguarda la cosa stessa, la stessa sostanza; protestando di dividerli appunto come si divide coll' astrazione il centro d' un circolo dalla sua periferia. Ora udite, che divisione sia questa, e se basti a dividere le creature dal Creatore in modo da non cadere nel panteismo. [...OMISSIS...] . Se dunque i panteisti errano col dire che Iddio è tutto il cerchio, mentre non ne è che il centro universale; voi avete inteso, miei signori, rimedio che apporta a tant' errore il nostro Gioberti. Egli ci fa osservare che il centro non istà senza il circolo, nè il circolo senza il centro, che il circolo ha due rispetti, l' uno de' quali è il centro, e l' altro è la periferia, i quali non si possono dividere nè realmente, nè scientificamente; ma solo astrattamente, cioè con quell' astrazione che distingue mentalmente le cose più indivisibili. Ora se Iddio è il centro, secondo il Gioberti, e se secondo i panteisti, Iddio è tutto il circolo, che avremo a dire se non: poveri panteisti, che non hanno saputo dividere Iddio coll' astrazione dal resto delle cose, benchè sia indivisibile, come il centro è indivisibile dalla periferia! Povera gente, a cui non è riuscito di trovare quest' accorta distinzione suggerita da Vincenzo Gioberti, per la quale si fa vista di distinguere Iddio da tutto il resto; ma s' aggiunge la dichiarazione, che ella non è già una distinzione nè reale nè scientifica; ma una distinzione di mera astrazione, la quale fa considerare l' Ente sotto due rispetti diversi, l' uno dei quali è Dio, Idea, e l' altro è la realità in tutta l' estensione del termine tanto necessaria, quanto contingente! Ed ancora, dopo avere insegnato una dottrina così ardita, sembra nondimeno ch' egli intenda di prepararsi aperta una ritirata al suo bisogno, gittando in un altro luogo male a proposito quelle parole che vi ho già recitate altrove, colle quali egli fa vista di rifiutare il panteismo, come se il giudicio del pubblico potesse sorprendersi e ingannarsi con qualche frase. [...OMISSIS...] ; sul qual passo alle osservazioni per noi fatte nella lezione precedente dobbiamo aggiungerne un' altra, miei signori, importante, mostrando forza che egli ha di assolvere dalla colpa di panteismo il giobertiano sistema. Secondo queste parole dunque, l' ordine assoluto è l' oggetto dell' intuito; e in quest' oggetto l' idealità è inseparabile dalla realità; questa è quella sintesi la quale precedentemente ha detto, se vi ricorda, che è Dio, perocchè Iddio pel signor Gioberti è una sintesi, quella sintesi che si trova nell' intuito dell' uomo. Or che cosa contrappone il Gioberti all' ordine assoluto oggetto dell' intuito? Egli contrappone l' ordine contingente di cose, il quale è l' effetto libero del primo. Dunque l' ordine contingente, l' ordine delle cose create ch' egli chiama effetto libero, quest' ordine non è l' oggetto dell' intuito. Ma d' altra parte ella è pur dottrina fermissima del signor Gioberti, che ogni conoscimento umano sostanzialmente è compreso nell' oggetto dell' intuito, e che fuor dell' ordine dell' intuito non v' ha altro ordine di sapere, se non quello della riflessione e dell' astrazione, o, come la chiama altrove, della sintesi raziocinativa e dell' analisi. Dunque alla sintesi raziocinativa ed all' analisi appartiene l' ordine contingente delle cose, le quali cose, per dirlo di nuovo, sono create in virtù delle operazioni della mente umana, che è appunto il sistema de' panteisti della Germania. Per fermo chi mai di voi non conosce il sistema dell' Hegel; che riduce appunto tutte le cose all' idea, e colle trasformazioni di essa fatte dal pensiero toglie a spiegare egualmente Iddio e il mondo, il necessario ed il contingente, l' essere e il pensiero stesso? Il qual sistema, lungi d' esser nuovo, è quello appunto de' primi panteisti italiani, gli Eleatici, pe' quali era un medesimo il pensare e l' essere, [...OMISSIS...] . Udiamo su di ciò nuovamente spiegarsi lo stesso Gioberti: [...OMISSIS...] . Dalle quali parole, unendole alle precedenti, noi possiamo trarre questo dialogo. - Che differenza vi ha, signor Gioberti, tra la cognizione che è oggetto dell' intuito, e la cognizione che è oggetto della riflessione? G. La cognizione che è oggetto dell' intuito, e quella che è oggetto della riflessione, è sostanzialmente la medesima, e non differisce che nella forma . - Se l' oggetto dell' intuito e quello della riflessione è nella sostanza il medesimo, come poi dite che differisce nella forma? in che consiste questa differenza? G. La differenza di forma che passa tra la cognizione oggetto dell' intuito, e la cognizione oggetto della riflessione, consiste in due cose, la prima che la cognizione oggetto dell' intuito è istantanea, e la cognizione oggetto della riflessione è successiva; la seconda che nell' intuito lo spirito vede l' oggetto quale è in sè, e la riflessione gli dà una forma soggettiva, lo scompone e ricompone . - Ma non avete anche detto che all' intuito appartiene l' ordine assoluto nel quale l' idealità è inseparabile dalla realtà? G. Sì, l' ho detto. - Non avete anche detto che il contrapposto dell' ordine assoluto è l' ordine di cose contingenti? G. L' ho detto. - E che l' ordine delle cose contingenti è l' effetto libero dell' ordine assoluto, oggetto dell' intuito? G. L' ho detto parimente, e ne ho soggiunta la ragione, perchè [...OMISSIS...] . - Voi dunque per Ente intendete l' ordine assoluto? G. Appunto. - E per esistenze, ossia cose contingenti, intendete quelle cose che la riflessione, la sintesi raziocinativa e l' analisi trovano nell' ordine assoluto, che è il vostro Ente, veduto proprio in sè, quando queste facoltà dividono l' una cosa dall' altra, per esempio l' idealità dalla realità, e le dividono con successione di tempo, onde quest' ordine in fatto diviene in tal modo un ordine soggetto al tempo, alla moltiplicità ed alla contingenza? G. Appunto. - Egli diviene altresì ordine soggettivo, perchè in tal modo l' ordine assoluto acquista una forma soggettiva? G. Così nè più nè meno. - L' ordine adunque delle cose contingenti è formato dalla riflessione, che scompone e ricompone l' ordine assoluto, ossia l' Ente oggetto dell' intuito. G. Ottimamente. - Ora veramente capisco chiaro che cosa sia quello che voi chiamate principio di creazione, pel quale l' ordine delle cose contingenti, è un effetto libero dell' ordine assoluto che è l' oggetto dell' intuito. L' ordine delle cose contingenti dove si dà separazione dell' ideale dal reale non differisce sostanzialmente dall' ordine assoluto, ossia dall' Ente, da Dio, oggetto dell' intuito, ma differisce solamente nella forma, e per questo la creazione è cosa modale, come dite, [...OMISSIS...] . G. Dite di più: l' ordine contingente che abbraccia le creature non differisce dall' ordine assoluto, cioè da Dio, nella sostanza; ma differisce nella forma, perchè in quell' ordine delle cose contingenti vi è lo stesso che nel primo, oggetto dell' intuito, lo stesso che in Dio, ma con questo divario che l' oggetto dell' intuito, cioè Dio, acquista una forma soggettiva . Questa forma soggettiva che si dà all' oggetto dell' intuito, cioè a Dio, mediante il raziocinio, la sintesi raziocinativa e l' analisi, è appunto la creazione, perchè venendo posto l' oggetto dell' intuito sotto questa forma, ciò che era assoluto divenne relativo, ciò che era necessario divenne contingente, ciò che era oggettivo si cangiò in soggettivo, ciò che era Dio si cangiò in creatura. - Mirabile spiegazione che voi date, mio caro Gioberti, del mistero della creazione; si vede proprio che n' avete l' intuito immediato! La cosa infatti non mi pare che possa essere più chiara, o signori: l' ordine delle cose contingenti non differisce, secondo il nostro Filosofo, di sostanza dall' ordine assoluto, ossia dall' Ente, che è il Dio del Gioberti. La sostanza dunque di Dio e delle creature è la medesima; la diversità sta unicamente nella forma; il cangiamento di forma a cui l' Ente, cioè Iddio oggetto dell' intuito soggiace, è la creazione. Questo cangiamento è un effetto libero dell' Ente, ma questo effetto libero è poi l' opera della sintesi raziocinativa, e dell' analisi dell' uomo; perchè è questa che dà all' oggetto dell' intuito una forma soggettiva, scomponendolo, maneggiandolo giusta le proprie leggi, senza però alterarne la sostanza, benchè tuttavia sia da aggiungersi, che [...OMISSIS...] . Voi giudicate dunque, o signori; voi paragonate questo sistema a quello dell' unica sostanza di Spinosa, e ditemi che ci trovate di diverso, se non forse una nuova fraseologia, una maggior confusione d' idee, maggiori contraddizioni, ed una declamazione continua che tutti gli altri sistemi, eccetto questo suo, sono panteisti, la qual declamazione (d' altra parte non degna d' un filosofo) voi ben vedrete se appartener possa a quelle frasi magnifiche e menzognere di cui i panteisti appunto, massime del nostro tempo, fanno uso, come c' insegna lo stesso Gioberti. Alle quali frasi magnifiche si potrà dunque senza scrupolo riferire anche quella, dove il signor Gioberti dice, che Iddio non comprende in sè la « « realità contingente »(1) ». E certo la realità contingente non può essere in Dio dall' istante ch' ella è il concreto separato per via d' analisi da Dio; onde ciò che è separato non può essere unito. Ma questa separazione però operata dallo spirito che riflette e che costituisce il principio di creazione, non è più che modale; perchè la riflessione e l' intuito hanno nella sostanza il medesimo oggetto . E la ragione che di ciò dà il Gioberti, come vedemmo, si è perchè il discorso che fa la mente quando dall' Ente possibile passa all' Ente reale [...OMISSIS...] . Nell' oggetto dell' intuito vi è dunque ogni realità che altronde non potrebbe aversi, il qual discorso, s' egli ha alcuna forza, vale anche per la realità contingente nella sostanza, non però quanto al modo della contingenza, che nasce quando si separa colla riflessione. Che anzi non si potrebbero distinguere i corpi reali dai fantasmi e dai sogni, se non vedessimo quelli nell' oggetto stesso dell' intuito (1), secondo il Gioberti; e però conviene che la stessa realità de' corpi si vegga almeno confusamente nell' oggetto intuíto. [...OMISSIS...] . Allo stesso genere di frasi non si può a meno di ascrivere quell' altra che [...OMISSIS...] . Perocchè questa analogia e somiglianza imperfettissima diviene bentosto nel linguaggio del Gioberti una vera similitudine mediante « « la sintesi dell' atto creativo » », perocchè l' atto creativo è una sintesi, come voi già sapete, [...OMISSIS...] , benchè la Teologia cattolica insegni che fra Iddio e le creature non possa passare alcuna vera similitudine, nè avervi alcun genere comune. Questa sua similitudine è fondata, secondo il Gioberti, nell' Ente possibile, che egli afferma comune a Dio ed alle creature. Eppure il Rosmini avea dimostrato, che non si può applicare propriamente la possibilità a Dio, ma solo l' idealità, e ciò per conoscere che egli esiste, non mai per conoscerlo simile alle creature. Dice adunque il nostro filosofo, che l' Ente possibile conviene a Dio ed alle creature: è una impressione e una modificazione del soggetto conoscente fatta nell' uomo dall' oggetto conosciuto (1), quasichè una modificazione del soggetto umano possa essere comune a Dio ed alle creature. Ma se l' Ente possibile è una impressione ed una modificazione del soggetto umano; se è una modificazione ed un' impronta lasciata dall' oggetto dell' intuito, e se l' oggetto dell' intuito è veramente duplice, cioè Iddio e le creature, come talora dice il Gioberti, conseguirebbe, secondo la buona logica, che le impressioni e modificazioni fossero due, e tanto distinte fra loro e disparate, quanto sono distinti gli oggetti che fanno l' impronta. Non ve lo pensate: anzi il Gioberti vuol che sia un' impressione ed una modificazione sola, il che corrisponde alla sua dottrina sull' unicità dell' oggetto del sapere, di che abbiamo parlato nelle precedenti lezioni, e ciò attesa la sintesi dell' atto creativo che risponde nello stesso tempo all' uno ed all' altro oggetto. Poichè [...OMISSIS...] . Ma non crediate, miei signori, che questo Ente possibile che è una modificazione dello spirito umano, comune a Dio ed alle creature, non sia nello stesso tempo l' idea posseduta da Dio stesso. Questa impressione unica che l' Ente e l' esistente, Iddio e le creature lasciano nello spirito umano, attesa la sintesi dell' atto creativo, e che è fedel ritratto dell' unicità sostanziale del suggello, questa impressione e modificazione del soggetto umano che è l' Ente possibile comune a Dio ed alle creature, questa modificazione che rende simili fra di loro Iddio e le cose create, è nello stesso tempo [...OMISSIS...] . Voi vedete dunque, miei signori, che l' idea possibile è una modificazione dello spirito umano; e che nello stesso tempo è l' idea divina, che è quanto dire Dio stesso (2). [...OMISSIS...] . Certo in qual modo la stessa idea possa essere ad un tempo subbiettiva, cioè modificazione dello spirito umano, e obbiettiva, cioè idea di Dio, non si può facilmente intendere se non in un sistema di assoluto panteismo. Così fuori di questo sistema è impossibile intendere come un' idea possa mai essere una modificazione dello spirito umano, un' impronta, una impressione, metafora de' materialisti e soggettivisti; che d' altra parte non danno nessuna chiara notizia di ciò che costituisca un' idea. Dove mi piace, o signori, farvi osservare quanto agevolmente il Gioberti cangia stile e linguaggio, senza alcun sospetto, dove stima bisognarli per la sua causa. Perocchè avendo sempre nel corso de' suoi volumi accagionato il Rosmini di soggettivismo, qui tutto improviso lo accusa d' essere soverchiamente oggettivista, scrivendo che [...OMISSIS...] . Ma qual' è la ragione perchè il Rosmini dice obbiettivo, e insieme nega che sia subbiettivo l' Ente ideale? Voi lo sapete, o signori: è perchè immedesimare l' obbiettivo col subbiettivo da una parte va contro al senso comune ed alla ragione; dalla altra parte è un professare il più compiuto panteismo. Senza cadere nel panteismo, certo non si può dichiarare che l' idea, che è cosa divina, sia modificazione o impressione dello spirito umano, come non si può insegnare che Iddio e le creature lascino una sola e medesima impronta nel soggetto pensante come fossero un solo suggello, e che quest' impronta sia l' Ente possibile comune a Dio ed alle creature, dichiarando nello stesso tempo che questa comunità, questa similitudine di Dio e delle creature, si ravvisa « « nell' idea eterna dell' Ente »(2) ». Che se si ravvisa nell' idea eterna dell' Ente, che bisogno di ricorrere all' impronta che rimane nel soggetto uomo? E poi, se questa idea eterna dell' Ente, cioè di Dio, è « « l' archetipo eterno, senza il quale la creazione sarebbe impossibile » », converrà dire che vi abbia un archetipo comune a Dio e alle creature. Ora quando si udì mai che Iddio abbia un suo archetipo su cui possa esser creato? E se non ha l' archetipo, come l' archetipo potrà mai essere l' idea dell' Ente possibile, comune a Dio e alle creature? Lasciamo pure la sua gran parte alla confusione delle idee che cozzano nell' ardente immaginazione del nostro oratore; ma finalmente non rimarrà sempre il panteismo manifesto in fondo a tutto questo sistema, se così un cotale straparlare può chiamarsi? In altro luogo il signor Gioberti scrive che [...OMISSIS...] , cioè da Dio. Il possibile dunque che è da una parte subbiettivo, cioè una modificazione dell' uomo, dall' altra parte è inseparabile da Dio dove si contiene, e perciò è Dio. Ma da questo così aperto panteismo sembrerebbe discordare quella frase che « « la realtà finita si contiene idealmente nell' infinita » »; perocchè certo il dire che la realtà finita si contiene soltanto idealmente nell' infinita, è benissimo detto, miei signori, è frase immune al tutto da panteismo. Ma noi dobbiamo pur sempre domandare, prima di raccoglierne cosa alcuna, se quella frase sia veritiera, o per avventura ci mentisca come tutte le altre. Per venirne a capo, noi dobbiamo richiedere che cosa intenda il nostro Filosofo per idealmente, che cosa per idea, da cui viene la voce idealmente . Ora tutto il suo sistema para a questo d' identificare l' idea colla realtà; e contro a que' filosofi che vogliono accuratamente distinguere tali cose, egli adopera, se non l' armi della Filosofia, certo quelle della Rettorica, per le quali innalzò tanto grido fra' suoi amici. Il signor Gioberti insegna che tutte le cose sono idee (1); che lo spirito nostro afferra non solo l' Ente (Iddio), ma anche l' esistente (le creature contingenti) « « nella loro concretezza, non già applicando loro l' idea astratta dell' ente » (2) », di maniera che anche la concretezza delle cose contingenti è intelligibile allo spirito senza alcun mediatore (3), e crede che questo sia anche il pensar comune degli uomini, la quale credenza, o signori miei, vi parrà forse un po' strana, come pare a me; perocchè scrive francamente che [...OMISSIS...] . Se dunque le cose s' immedesimano colle idee e le idee colle cose, se ogni cosa è un' idea e ogni idea una cosa, che significherà in questo sistema la frase che la realtà finita si contiene « idealmente nell' infinita »? Qual sarà il valore da attribuirsi, o signori, a quella parola idealmente? La differenza che si pone tra l' idea e la cosa, ci sarà pure tra il valore delle parole idealmente e realmente . Ma quella differenza è nulla, perchè l' idea e la cosa si identificano: dunque la parola idealmente dee avere un valore nel sistema del nostro Autore identico alla parola realmente (1). Non lasciamoci dunque ingannare nè pure da questa frase e dichiariamola senza scrupolo menzognera come tutte le altre, perocchè quando il nostro Autore dice che « « la realtà finita si contiene idealmente nell' infinita » », dice ad un tempo che si contiene realmente, non differendo l' ordine dell' idee da quello delle cose. Ma il dir questo è panteismo svelato, e perciò gli giova coprirlo pudicamente agli occhi de' semplici suoi lettori col velo di una frase così bugiarda. La messe è tanto ricca, o signori, che io vi tratterrei di soverchio, se ne volessi fare l' intera raccolta. Io m' ero proposto di esaminare in questa lezione che cosa intende il nostro Filosofo sotto la parola di creazione, a cui egli ricorre, come ad unico scudo, onde salvare il suo sistema dalla brutta taccia che tanto teme: m' ero proposto di esaminare s' egli, come filosofo, ammetta veramente la creazione, quale l' ammettiamo noi colla Chiesa cattolica, ovvero se adoperi anche questa bella parola insidiosamente per ammansare i timori che i buoni potessero concepire de' suoi filosofici ardiri; e quanto abbiamo detto finqui mostra assai manifesto, che la sua creazione non è per avventura la creazione della cristiana Teologia, ma una creazione al tutto panteistica. Ma ciò che ho detto è pur poco verso a quello che a dire mi rimarrebbe, onde a mio malgrado devo rimettere oggimai molte cose, e per avventura le più importanti, ad un' altra lezione. Mi contenterò dunque in questa di aggiungere ancora poche osservazioni, e poi finirò per non abusare della vostra indulgenza. Noi abbiamo veduto che l' ordine delle cose è identico a quello delle idee, e che ogni cosa è un' idea, e che la prima idea, chiamata dal sig. Gioberti il primo psicologico, è il principal concetto di quelli che entrano a formare il primo ontologico, mentre gli altri non sono che logicamente derivati . E bene, questo ci appiana la strada ad intendere come il nostro Autore attribuisca la creazione all' idea . E posciachè l' idea è quella che giudica, ragiona e in una parola dialettizza, non è maraviglia se quella che crea sia la sintesi, onde parla così spesso della sintesi creatrice (1). Ma in che maniera credete voi che l' Idea operi la creazione? Egli vi dice schiettamente che [...OMISSIS...] . Voi sapete, l' intelligibilità propria di Dio è Dio stesso, come insegna il signor Gioberti, e questa intelligibilità che trapassa è dichiarata da lui numericamente identica in Dio e nelle creature. Dunque, secondo la sua dottrina, Iddio coll' azione creatrice trapassa nelle cose create, ed è per questo che egli insegnava prima che l' oggetto universale ed immediato del sapere in tutte le scienze è Dio stesso, come abbiamo veduto nelle precedenti lezioni. La qual maniera di spiegare la creazione è a dir vero a lui comodissima. L' intelligibilità di Dio trapassa nelle creature, perciò anche queste divengono intelligibili, perchè esse hanno in sè l' intelligibilità stessa di Dio in esse trapassata. Ma perocchè l' ordine degli intelligibili è identico perfettamente all' ordine della realtà, conviene che trapassando l' intelligibilità di Dio nelle creature vi trapassi anche l' essere reale, e così acquistino in virtù della stessa operazione « « l' essere, l' intelligenza e la vita »(1) ». Le creature adunque che sono ad un tempo cose ed idee, acquistano ad un tempo e collo stesso atto creativo l' esser cose e l' essere idee, trapassando in esse Iddio che è cosa ad un tempo ed idea. Egli è piacevole, a dir vero, miei signori, l' udire il Gioberti menare gran vanto di aver trovato un sistema così felice per evitare intieramente il panteismo. In un luogo delle sue opere, mettendosi uno scanno più su di Platone, egli viene narrando, come questo filosofo, benchè nè pure egli netto al tutto di panteismo, non sia pervenuto a tanta altezza. Sofferite che vi rechi ancora le sue parole. Dopo aver professato di seguire il filosofo ateniese, così segue: [...OMISSIS...] . Se dunque l' intelligibile ossia l' idea divina trapassa nelle cose create, dee trapassare pure in esse la realtà divina; e così vengono create: il qual placito è chiamato dal signor Gioberti l' assioma di creazione. Di che egli condanna [...OMISSIS...] . Mediante questa dottrina dell' atto creativo che il Gioberti ripone nel trapassamento dell' idea e della realtà divina nelle cose create, con che le cose sono create e diventano contingenti, reali ad un tempo ed intelligibili nella loro concretezza, o anche intelligenti; intenderete a meraviglia, miei cari signori, molti luoghi dell' opere del nostro Filosofo, che altramente riuscirebbero oscuri e sembrerebbero dissonanti dal panteismo. Intenderete cioè a meraviglia: I Perchè il Gioberti consideri l' idea di creazione [...OMISSIS...] , soggiungendo che [...OMISSIS...] . II Perchè affermi che [...OMISSIS...] , negando che sia mediatore ossia mezzo di conoscere l' essere ideale, come vuole il Rosmini (3), e tuttavia sostiene che la realtà non si può conoscere che nella sua ragione necessaria, la quale è Dio. Ora se questa ragione necessaria che ci fa conoscere la realtà finita e contingente fosse cosa diversa da quella realtà, ella sarebbe mezzo di conoscere, mediatore; ma poichè quella ragione necessaria, che è l' idea divina e Dio stesso è passata nelle cose create coll' atto creativo, e passando in esse le ha create e costituite nella loro concretezza; perciò ella non è diversa dalle cose create che si devono conoscere, e non è quindi mezzo di conoscerle, nè mediatrice tra esse e lo spirito, ma è proprio l' oggetto del conoscere, e così le cose create si conoscono nella loro stessa concretezza, senza bisogno d' altro, perchè nella loro concretezza sta l' intelligibile divino. III S' intende ancora perchè il signor Gioberti distingua il reale finito dal possibile, e distingua in ogni cosa due possibili, l' uno umano e l' altro divino; ma queste distinzioni che gli giovano non poco a mantellare il panteismo, egli dichiara che non sono che distinzioni di semplici rispetti e di puri aspetti, sotto cui si considera sempre la stessa cosa. [...OMISSIS...] . IV L' atto creativo consistendo nel trapassare che fa l' idea divina e con essa la realtà nella cosa creata, s' intende in che senso egli dice che l' Idea divina (e reale) informi la mente umana, e si vanti di spiegare egli pel primo la virtù informatrice dell' Idea ripetendola dalla sua VIRTU` CAUSATRICE, la qual virtù causatrice è quella appunto che dà l' essere materiale e sostanziale alle cose. Di vero egli continuamente dichiara che [...OMISSIS...] . I teologi cattolici insegnano che Iddio non può venire in composizione colle cose create, e però non può essere la loro forma sostanziale. Ma il signor Gioberti non si contenta già di fare che Iddio venga in composizione colle sue creature, dichiarandolo forma delle medesime; ma di più egli passa colla sua propria concretezza a costituirle, e così le crea; perocchè è coll' atto creatore che Iddio come idea informa le cose, e Iddio come cosa (giacchè cosa e idea s' identificano) le crea trapassando in esse il divino intelligibile, che è Dio stesso. V S' intende ancora in che modo il signor Gioberti non si contenti di chiamare Iddio causa prima e le creature cause seconde, il che è benissimo detto e consentaneo al comune sentire, giacchè la causa prima non ha bisogno per essere tale d' immedesimarsi colla causa seconda: ma lo chiami ancora sostanza prima, chiamando le creature sostanze seconde, con che spera egli di ottener due vantaggi, cioè di sbattere da sè la taccia di panteista colla frase magnifica di sostanze seconde riserbata alle create esistenze, e d' intromettere nello stesso tempo il panteismo a man salva nelle menti de' suoi lettori. E veramente egli descrive l' attinenza delle sostanze seconde alla sostanza prima, come si descriverebbe appunto l' attinenza degli accidenti alla sostanza che li regge e sostiene. Così Iddio diviene sostanza delle sostanze, e queste acquistano natura di accidenti di Dio medesimo; il quale oltre comporsi con esse come la forma colla materia, trapassa in esse sostanzialmente e così le crea. Ascoltiamo com' egli si esprime: egli dice in un luogo che il Sole spirituale, cioè Dio, [...OMISSIS...] . Iddio dunque informa l' anima umana sostanzialmente, la informa come prima sostanza, la sostiene, che è la frase che s' applica alle sostanze reggenti e sostenenti gli accidenti. Altrove, parlando dell' intuito umano, s' esprime così: [...OMISSIS...] . Laonde il Gioberti non trova modo più acconcio a descrivere la virtù creatrice, che quel di dire che « « il contingente RAMPOLLA dal necessario » », come appunto il rampollo esce dall' albero, trapassando in esso i succhi dell' albero; e quello che « fa rompollare il contingente dal necessario » è un' idea, cioè com' egli dice, l' idea di creazione (3). VI Finalmente vi si renderà or chiaro perchè voi vi scontrate negli scritti del nostro Filosofo in tante identificazioni. Identico è per lui l' ordine delle cose e l' ordine delle idee, come vedemmo, identico l' ideale ed il reale, identico nella sostanza è ciò che dà l' intuito e ciò che dà la riflessione, identica è la necessità metafisica (1); in somma tutto si riduce a identità, da poichè la creazione si fa col movimento e trapassamento dell' idea di Dio e Dio stesso nella creatura (rimanendo quell' idea e sostanza divina numericamente la stessa), di quel Dio che come sostanza informa, sostiene e regge le cose create, a quel modo che queste sostengono gli accidenti, e più ancora perchè elle propriamente non gli informano. Ma io voglio chiamarvi a considerare più attentamente un' altra identificazione. Voi sapete che il sig. Gioberti dà all' uomo l' intuito di Dio. Ma l' intuito, quest' operazione dell' anima umana, a chi appartiene, all' anima umana o a Dio? Il signor Gioberti vi dice conseguentemente alla sua teoria dell' atto creativo, pel quale l' intelligibile divino trapassa nelle cose create e così le crea; vi dice che appartiene non meno all' uomo che a Dio. [...OMISSIS...] , onde l' intuito dell' uomo è anche medesimamente per un altro rispetto intuito di Dio. E dà di ciò questa ragione, che [...OMISSIS...] . E certo, che vi abbia una connessione intima fra la creatura e il Creatore, niuno il vorrà negare; ma trattasi di sapere se questa sintesi faccia sì che il Creatore e la creatura diventino un solo oggetto, come il signor Gioberti sostiene; o se ella consista nel trapassare che fa l' Intelligibile, cioè il Creatore, nella creatura, come il sig. Gioberti la spiega nel luogo che abbiamo citato (benchè altrove si contradica negandolo); o finalmente se l' atto creativo è così inseparabile dall' atto conoscitivo, che quello sia un elemento essenziale di questo, a talchè il proprio concetto di questo racchiuda come una sua parte l' atto creativo, ciò che pure sostiene il nostro Filosofo. Egli dice in fatti, che [...OMISSIS...] ; il che è coerente con ciò che disse che ogni cosa è un' idea, sistema che si direbbe del panteismo ideale, ma pel sig. Gioberti è medesimamente panteismo reale, poichè per lui ogni idea è una cosa, e viceversa. Or posciachè le cose create sono intelligibili, secondo lui, nella loro propria concretezza, senza bisogno di un altro lume mediatore, perciò l' intelligibilità delle cose s' immedesima colla concretezza delle cose, ed è cosa identica l' esser le cose intelligibili e l' essere concrete. Ma posciachè l' intelligibilità delle cose non differisce numericamente dall' intelligibilità divina, giusta la sua dottrina; dunque l' intelligibilità divina s' immedesima colla concretezza delle cose finite; e il renderle intelligibili s' immedesima colla loro produzione. Di più, l' intelligibilità divina, secondo il signor Gioberti, è lo stesso che la mente divina, onde dice che [...OMISSIS...] . Non è dunque meraviglia se l' atto dell' intuito umano sia pel sig. Gioberti un intuito appartenente alla causa ed alla sostanza prima, cioè alla mente divina, e quest' intuito divino ed umano sia l' atto creatore, cioè l' atto che rende intelligibili le cose, e così le crea. E se il renderle intelligibili ed il crearle suona il medesimo, dunque tutto l' essere delle cose create consiste nella loro intelligibilità, ed elle sono idee (ciò che è lo stesso pel signor Gioberti che dire cose reali); e però sono intelligibili nella loro concretezza, perchè la loro concretezza ed esistenza è appunto la loro intelligibilità: [...OMISSIS...] (quasi che, miei signori, per dirlo di passaggio, applicando l' idea astratta alle cose, quest' idea non cessasse per ciò appunto di essere astratta). Se dunque la concretezza delle cose è la loro esistenza, e quest' esistenza s' identifica colla loro intelligibilità, onde coll' illustrarle sono create, e la loro intelligibilità è numericamente identica con quella di Dio, e con Dio stesso, voi vedete bene qual conseguenza indeclinabile ne proceda, e se per evitare la taccia di panteista basti che l' Autore dichiari sulla sua parola di non essere, e qua e colà sparga a piene mani frasi magnifiche contradicenti al panteistico errore (1). Laonde il signor Gioberti scrive ancora che [...OMISSIS...] . Dove il discendere che fa lo spirito umano da Dio a sè come creatura si dichiara un atto che s' immedesima coll' ascendere che fa lo spirito come pensiero a Dio, mediante l' azione creatrice. Il pensiero dunque dell' uomo che ascende a Dio, s' immedesima col discendere che fa la creatura da Dio, mediante l' atto creativo, e queste operazioni sono simultanee ed immanenti com' è l' atto creativo! Ancora un' ultima osservazione, o signori, e poi finisco, che è ben tempo. Il signor Gioberti ci fa sapere che non v' ha un solo panteista che non si contradica, e che a lato del panteismo non insegni cose contrarie a tale sistema, infiorando ogni cosa di frasi magnifiche e menzognere, perocchè il panteista pudico ha vergogna di mostrar nuda la propria fronte. Ora se il contradirsi è costante carattere de' panteisti, dichiaro non mancare nè pure questo carattere al nostro Filosofo. Noi l' abbiamo veduto, ma suggelliamo la serie delle contradizioni accennate, con un gruppetto di esse alquanto piacevole. I Il signor Gioberti insegna che ogni cosa è un' idea, e che l' idea crea le cose, che l' intelligibile divino passando nelle cose create dà loro esistenza, che crea i sensibili illustrandoli, e crea pure la mente (2). Or ogni cosa è un' idea ed ogni idea è una cosa: creandosi le cose di necessità si creano anche le idee. Ma no che in un altro momento lo stesso signor Gioberti scrive all' opposto: [...OMISSIS...] . II A malgrado però che « « la menoma idea obbiettivamente sia Dio, pel signor Gioberti, e non possa esser creata » », giusta un' altra dichiarazione non meno espressa dello stesso Filosofo, vi ha un gran numero d' idee, ossia d' intelligibili essenzialmente distinti, il che recherebbe direttamente la conseguenza platonica, che vi abbia un gran numero d' Iddii essenzialmente distinti, i quali Iddii potrebbero esser creati dall' Ente, che sarebbe il supremo Iddio. Ciò risulta assai chiaro, se si raffronta col brano ultimamente citato quello ove dice: [...OMISSIS...] . Or se gl' intelligibili assoluti sono le idee obbiettivamente considerate, ciascuna delle quali, benchè essenzialmente distinte, è Dio; gli intelligibili relativi sembra che siano le stesse idee considerate subbiettivamente, le quali lo spirito umano si forma colla sua riflessione, e tuttavia, secondo il Gioberti, l' Ente egualmente le crea e sono essenzialmente distinte (1). Del resto voi non ignorate che noi col Rosmini siamo assai lungi dal dire che « « l' idea dell' essere sia la sola cosa conosciuta dall' uomo » », quando anzi insegniamo che per mezzo di questa idea conosciamo tutte le altre cose, e particolarmente le realità finite. Ma poichè non è la difesa nostra che noi cerchiamo di fare in queste lezioni, ma sì la difesa della verità filosofica e cristiana che esclude e riprova il panteismo, noi qui lasciamo ben volentieri l' argomento, pregandovi di continuarmi la studiosa vostra attenzione per un' altra lezione ancora, la quale conchiuderà la discussione intrapresa sul sistema di panteismo proposto all' Italia da Vincenzo Gioberti: forse acciocchè questa nostra nazione nel genere del panteismo s' abbia il primato. Ripetiamo, o signori, quello che abbiamo detto al cominciamento della precedente lezione, che se Vincenzo Gioberti ammette puramente e semplicemente la creazione, noi lo rimandiamo assai volentieri libero da ogni sospetto di panteismo. Ma dobbiamo però rammentargli quanto egli disse a Vittorio Cousin: « « Non si tratta delle parole, ma dei concetti »(1) ». Perocchè il signor Cousin si difendeva appunto dalla taccia di panteismo, dichiarando d' ammetter la creazione, e nulladimeno il Gioberti non gli fece buona la scusa, anzi il volle convinto di quell' errore, di cui certo una parola non basta a purgarsi. Ora noi abbiamo veduto che maniera di creazione sia per avventura la giobertiana; creazione che non è creazione, anzi è velo trasparente assai e squarciato, con cui egli spera di togliere agli occhi altrui la schifezza del suo panteismo. Ma che direste, signori miei, se io vi dimostrassi che dopo avere egli sbandito nel fatto il concetto di creazione, e tenutane co' denti la parola, questa stessa arma imponente della parola ce la cede assai facilmente? Udite tutto il ragionamento e poi giudicate. Egli dice prima che ogni cosa è un' idea (2). Dice dipoi che ogni menoma idea obbiettivamente è Dio (3). Già voi sentite la conseguenza manifesta che discende da queste due premesse, cioè che ogni cosa obbiettivamente è Dio. Ora, secondo il signor Gioberti, gli altri sistemi fuori di questo suo nel quale ogni cosa è necessariamente Dio, sono tutti fracido panteismo. Andiamo avanti. Se ogni cosa è un' idea, non si posson creare le cose senza creare le idee. E in fatto il signor Gioberti, quantunque sostenga che ogni menoma idea obbiettivamente sia Dio, tuttavia dice ancora che le idee sono essenzialmente diverse l' una dall' altra, e che si creano (4). Ma in altri luoghi, rinsavito alquanto, nega che si creino, e prende calore contro il Tarditi, attribuendo a questo professore, benchè falsamente, l' aver detto che le idee si creino, e che l' idee dell' uomo sieno numericamente distinte da quelle di Dio; perchè dice il Gioberti: [...OMISSIS...] . Se dunque Iddio non può creare la menoma idea, dunque egli non può creare nè tampoco la menoma cosa: ed ecco esclusa la creazione, ecco caduta di mano al nostro Filosofo anche questa parola, quest' arma impotente colla quale credea difendersi dalla vergogna del panteismo. La logica dee avere il suo luogo, miei signori, e la logica è inesorabile, non ha compassione delle parole, quando queste la vogliono impaniare e impastojare. Ma come dunque (si opporrà) il signor Gioberti, che da una parte dice che ogni cosa è un' idea, e che le idee non si posson creare (onde la creazione rimane abolita); come lo stesso signor Gioberti ha poi continuamente in bocca la parola creazione, e non contento che ella sia un dogma, e d' altra parte confessando che non si può dimostrare per via di raziocinio (3), ci assicura sulla sua parola d' onore ch' egli la vede proprio immediatamente e direttamente coll' acuto sguardo del suo spirito contemplante, e la dichiara altamente non già un teorema, ma un assioma filosofico? Signori, e non sapete voi che i panteisti son filosofi, che stimano di aver la facoltà di far travedere come indubitatamente hanno quella di travedere? Non sapete quante scappatoje si tengano sempre aperte? Eccovene qua una nel caso nostro. Distinguete il concetto volgare della creazione dal concetto filosofico; e tutto sarà aggiustato. Il Gioberti la nega solo nel concetto volgare, che la definisce colla Chiesa cattolica, una produzione dal nulla; ma la ammette poi nel concetto filosofico. E qual è questo concetto filosofico? Voi l' avete udito. [...OMISSIS...] . In tal modo esse pure diventano intelligibili, idee, e lo spirito umano le afferra nella loro concretezza, senza bisogno di alcun mezzo di conoscere, di alcun' altra idea che faccia l' ufficio di mediatore tra le cose create e lo spirito, perchè sono esse stesse idee. Così c' insegna il Gioberti. In un luogo il nostro Filosofo, dopo aver detto che [...OMISSIS...] , segue a parlare della luce intellettuale così: [...OMISSIS...] . Conchiudete: la luce stessa intellettuale sussiste adunque identica in Dio e nelle creature, le quali si creano col venire illustrate da questa luce divina, come disse altrove, e così la loro concretezza non ha bisogno d' altro che di se stessa per esser conosciuta. L' idea dunque è quella che crea, ella è altresì quella che intuisce, che giudica (1), che astrae (2), che ragiona (3); ma è altresì quella che è creata; onde la creazione di una cosa, per esempio d' un arbore, è chiamata dal nostro Autore [...OMISSIS...] . Ma questa attuazione estrinseca dell' idea dell' arbore, che è la sussistenza e concretezza dell' arbore, è della stessa sorte e natura dell' idea? Certamente, secondo il Gioberti, perocchè egli argomenta così: [...OMISSIS...] . Acciocchè dunque l' idea, che è la potenza, attuandosi diventi cosa, che è la sua attuazione ed effettuazione, conviene che l' idea e la cosa sieno della stessa sorte, perocchè quella altramente non potrebbe dare la realtà a questa se non fosse reale; il qual argomento non può valere se non trattasi di una realtà della stessa natura e sostanza; benchè soggiunga che [...OMISSIS...] . Onde la cosa contingente essendo « il possibile attuato », consegue che egli sia più del possibile, cioè che sia il possibile dotato di necessità assoluta, più il suo atto contingente; ond' è che il contingente è intelligibile nella sua concretezza senza bisogno d' altra idea o mezzo di conoscere. Ogni cosa dunque è l' idea, più l' atto contingente dell' idea, e l' idea essendo la sostanza stessa di Dio, quindi ogni cosa è la sostanza di Dio, più l' atto contingente di questa sostanza: così Iddio è la sostanza prima, e il suo atto contingente sono le sostanze seconde sostenute da quella, come l' atto è sostenuto dalla potenza che lo produce (2). La stessa conclusione si raccoglie, miei signori, dalla definizione che il nostro Filosofo ci dà poco appresso del possibile, definendolo: [...OMISSIS...] . Ora che cosa è il reale increato o creante? Egli è certamente Iddio. Ma che cosa è il reale creabile? Il creabile non è ancora il creato: il creabile sono le idee. Ma la menoma idea obbiettivamente è Dio stesso, insegna il Gioberti. Dunque il creabile è Dio stesso; e il possibile non è altro che una relazione che ha Dio verso sè stesso, quasichè in Dio vi avessero altre relazioni che quelle delle persone. L' idea dunque è quella che crea ed è ad un tempo quella che è creata; dove per creata il signor Gioberti intende, come abbiamo veduto, attuata, effettuata . Tale è il concetto della creazione del nostro Filosofo. Da tutti i lati spiccia la stessa conseguenza, lo stesso puro e putido panteismo; sicchè si può dire a ragione che il signor Gioberti sia fra i panteisti uno de' più coerenti. Pigliamo pure la cosa ancora da un altro verso. E` principio del signor Gioberti che nulla vi abbia nell' oggetto della riflessione che non sia prima nell' intuito, e che quella non faccia che ripetere ciò che vi ha in questo. [...OMISSIS...] (1). Vediamo dunque di nuovo che cosa si contenga nell' oggetto dell' intuito. Il signor Gioberti ci insegna che l' uomo nello stato di intuito [...OMISSIS...] . L' intuito dunque non ha che un oggetto ideale. Ora ogni ideale, anzi ogni menoma idea oggettivamente, com' è data nell' intuito, è Dio stesso. Ma nello stesso tempo egli ci dice, che l' oggetto dell' intuito è quello che egli chiama anche la formola ideale, e che [...OMISSIS...] . Ma come da questo Dio, che è tre realità, giusta la formola, come da questa trinità giobertiana escono poi le creature? Voi avete udito la descrizione dell' atto creativo: egli è quello [...OMISSIS...] . Perciocchè infatti il collegarsi d' un ente con un altro è una mera modalità. Onde, spiegando che cosa intenda per sostanza seconda, egli l' aveva definita [...OMISSIS...] . Con che nulla si crea veramente, poichè la stessa sostanza che esisteva prima in un modo, comincia ad esistere in un altro. Ma riteniamo, miei signori, che l' oggetto dell' intuito, benchè contenga anche le esistenze, cioè le creature, egli è sempre ideale, e però è sempre Iddio, pel signor Gioberti, pel quale ogni ideale è Dio. Onde le esistenze, cioè le cose create, essendo Dio, sono intelligibili per sè stesse, nella loro concretezza, senza bisogno di alcuna idea che loro serva di mediatore, poichè sono anch' esse idee, e però Iddii; e l' uomo conosce le cose immediatamente in virtù dell' intelligibilità assoluta (3), che è Dio oggetto unico dello scibile. Ma come poi, essendo Dio le cose create, noi le separiamo da Dio? Non già per mezzo dell' intuito, il cui oggetto è ideale, ma per mezzo della riflessione, la quale così diventa creatrice, come già abbiamo veduto. Ma avvertite che l' intuito e la riflessione convengono insieme « « NELLA SOSTANZA del loro oggetto » », giusta la dottrina del nostro Filosofo (4). Onde, le creature sono apprese come contingenti dalla riflessione, ma nell' intuito sono idee, e perciò hanno la divina natura, e nella sostanza s' identificano perfettamente. La loro intelligibilità tuttavia, ossia la loro idealità (1), rimane la stessa anche nella riflessione, e però rimane divina, anzi Dio stesso; e mediante questa intelligibilità sono create, cioè sono sostanze, perchè è l' idea quella che le crea. Tuttavia il signor Gioberti di buon animo nega la medesimezza del reale e dell' ideale contingenti, spiegando però la parola contingenti così, [...OMISSIS...] , la qual derivazione si fa per via di riflessione, come vedemmo. Tuttavia la riflessione [...OMISSIS...] . Sebbene adunque nell' oggetto dell' intuito giobertiano si comprenda ogni cosa in quanto alla sostanza, e tutto in esso sia ideale, cioè tutto in esso sia Dio; tuttavia nell' intuito l' uomo non trova sè stesso, [...OMISSIS...] . E pure, ciò che si contiene nell' oggetto dell' intuito e nell' oggetto della riflessione non differisce nella sostanza, ma solo nel modo. Se dunque il soggetto uomo è una sostanza seconda che non si trova che nell' oggetto della riflessione, e se l' oggetto della riflessione non differisce di sostanza dall' oggetto ideale dell' intuito, che è la sostanza prima; convien dire che le sostanze seconde non differiscono dalla prima di sostanza, ma solo di modo . Tali sono le sostanze seconde del signor Gioberti. Si può dunque conchiudere, che il vocabolo di sostanze seconde non sia un velo abbastanza denso per coprire la vergogna del panteismo, e che val tanto questo vocabolo di sostanze seconde, quanto vale la dichiarazione che [...OMISSIS...] ; mentre avea pur detto che l' intuito e la riflessione convengono [...OMISSIS...] . Volgiamoci ancora d' altra parte: vediamo se il signor Gioberti spieghi in qualche altra maniera il suo principio di creazione, che più s' avvicini al cattolico insegnamento. Eccovi qua un luogo, signori miei, molto atto a farci conoscere la sua mente. Egli riduce la creazione ad una individuazione delle idee. Iddio è l' idea, anzi ogni menoma idea è Dio: questo Dio7Idea è il generale; questo generale s' individua, ed ecco venute fuori tutte le creature. [...OMISSIS...] . E certo, miei signori, gli scolastici più illustri e di sana dottrina, fra i quali s. Tommaso, dicevano che Iddio nella creazione non individualizza già una cosa che prima era generale, e molto meno individualizza se stesso; ma dicevano che egli cava dal nulla la cosa stessa, la materia o sostanza e la forma, come insegna la Chiesa cristiana cattolica. Ma non tutti gli scolastici s' attennero a questa maestra di verità: anche fra essi v' ebbero dei panteisti, e questi panteisti insegnarono intorno alla creazione quello appunto che adesso ci ripete come una novità, come un sistema da lui trovato, Vincenzo Gioberti. Scoto Erigene, il più celebre tra i panteisti del medio evo, ammetteva le idee creanti come udimmo fare il Gioberti, ed insieme create, perchè il Gioberti insegna, che [...OMISSIS...] . Ma Guglielmo di Champeaux ebbe di più insegnato che gli universali, cioè le idee, s' individuano nei particolari, e così vengon questi creati; e poichè in ogni particolare v' ha lo stesso universale individuato, perciò gl' individui identici nell' essenza non differiscono che per la varietà degli accidenti e delle forme passeggiere. Non vedete voi qui aperto quel fonte a cui il signor Gioberti sembra aver attinto il suo sistema della creazione? e che, se voi volete, dopo averlo attinto, l' ebbe anco perfezionato, press' a poco come Amanzi di Chartes e Davide di Dinant perfezionarono il sistema di Guglielmo, riducendolo in un più espresso panteismo? Perocchè il Gioberti, facendo che l' intelligibile, cioè Iddio, che chiama anche il generale, crei le cose illustrandole, e le illustri passando in esse, nella loro propria concretezza che diventa così intelligibile per sè stessa, sicchè lo spirito l' afferra senza bisogno del mezzo d' alcun' altra idea, riuscì a quella solenne sua conclusione, che Iddio è l' universale ed immediato oggetto pel sapere umano. Laonde quando il Gioberti vi dice, o signori, che lo speculare degli scolastici non potè sciogliere per intero il gran problema della creazione, egli dee intendere degli scolastici sani e cattolici, come un san Tommaso ed altri tali, perocchè d' altra parte voi avrete osservato quante volte nelle sue opere egli riprenda e condanni i semi7realisti, e con qual compiacenza egli si dichiari per uno schietto realista . Or bene a chi non è noto che REALISTI appunto si chiamavano i discepoli di Guglielmo di Champeaux, di questo famoso dottore, il quale dichiarava la creazione essere un' individuazione degli universali, come fa il Gioberti? Ma torniamo un poco ad ascoltare il Gioberti stesso. [...OMISSIS...] . Questa è la definizione che il Gioberti dà del generale in sè stesso, e nella sua radice; la quale giunta « nella sua radice »parrebbe, a dir vero, superflua, dopo aver detto che il generale è tale in sè stesso; poichè, se il generale è l' Ente necessario, l' Ente necessario non ha radice, nè io so che i filosofi od i teologi abbiano mai fin qui parlato della radice dell' Ente necessario, che è Dio. Andiamo dunque avanti. [...OMISSIS...] Se non fosse, miei signori, per non interrompere troppo il corso delle idee, vorrei pur trattenermi un poco anche su questo punto determinato, in cui l' individuale contingente concentra la sua realità; ma continuiamo: [...OMISSIS...] . Così il signor Gioberti si esprime. Riassumiamo adunque. Che cosa è creare? Creare è individualizzare l' idea generale. Che sono le creature? Le creature, ossia le esistenze contingenti, non sono che l' idea generale (l' Ente necessario, Iddio), che passa a stato d' individuo. Vi farete ora maraviglia, miei signori, che le cose contingenti sieno pel Gioberti l' idea, quando Iddio stesso, secondo lui, è l' idea? Ma qual differenza passa dunque fra Dio e le creature? Grande certamente e sostanziale; perchè Iddio, secondo il Gioberti, è l' idea generale nella sua generalità, mentre le creature sono l' idea generale nella sua individuazione; onde l' idea generale si chiama sostanza prima, e l' idea generale nella sua individuazione si chiama sostanze seconde. La creazione è il passaggio che fa Iddio dallo stato d' idea generale allo stato d' individuo, dallo stato di Ente allo stato di esistenza, e questo passaggio è l' atto creativo. Voi vedete di nuovo qui che Iddio oggetto dell' intuito, e le creature oggetto della sintesi raziocinativa e dell' analisi, non differiscono nella sostanza, ma differiscono nella forma (il signor Gioberti nondimeno trova assai utile di chiamare Iddio sostanza prima e le creature sostanze seconde): Iddio è l' oggetto generale, che mediante l' individuazione, cioè l' atto creativo, passa a stato di soggetto, ossia di creatura. Laonde coerentemente dice il Gioberti: [...OMISSIS...] . Per quanto sia strano il dire che la radice divina si veda effettuata nelle creature, pure non è men vero che così la pensi il signor Vincenzo Gioberti, perchè egli stesso ce ne assicura. Con queste spiegazioni che egli medesimo ci somministra de' suoi pensieri, e della maniera con cui toglie a distruggere il panteismo, noi intendiamo, o signori, più altre cose, che senza ciò ne riuscirebbero per avventura troppo difficili a concepire. Intendiamo primieramente l' impegno ch' egli ha preso di combattere la distinzione dell' ideale dal reale, e di pretendere che l' ideale sia qualche cosa di sussistente, e com' egli dice nel modo il più strano, di concreto . Senza di ciò, egli non avrebbe potuto nè convertire Iddio in un' idea, nè convertire quest' idea nelle creature coll' individuamento, che è il suo atto creativo . Egli dunque accorda, che l' idea generale appartenga alla mente, e il particolare al senso; ma solamente nell' ordine della riflessione, che è l' ordine delle cose contingenti: in quest' ordine il generale è già individuato, reso soggettivo, immedesimato col soggetto, meramente ideale, cioè diviso dal reale e dal sensibile. Ma questa è tutta opera della riflessione dell' uomo che viene dopo l' intuito, il quale vede tutte queste cose insieme: e questa congerie, questa sintesi, come la chiama il Gioberti, è l' ordine assoluto, cioè Dio stesso. [...OMISSIS...] (voi ben sapete che noi non reputiamo la mente dell' uomo sorgente del generale, come egli ci imputa colla sua solita infedeltà; diciamo anzi che la mente non crea, ma riceve il lume universale col quale ella poi forma, limitandolo, gli universali minori, ciò i generi e le specie), [...OMISSIS...] . Voi vedete qui la solita metafora della radice obbiettiva sì della generalità , come dell' idee riflesse e del concreto dei sensibili . Non viene egli la voglia di rivolgere al signor Gioberti quella interrogazione, che assai male a proposito egli fa a' suoi avversarj, [...OMISSIS...] , le quali sappiamo aver le loro radici, perchè sono piante? In secondo luogo è pure notabile che il Gioberti riconosca una radice unica, obbiettiva, esterna, indipendente della cognizione, tanto della generalità delle idee riflesse, quanto del concreto de' sensibili, cose, a dir vero, molto disparate. In terzo luogo rimane a vedere, se questa radice della generalità dell' idee riflesse e del concreto dei sensibili, sia sostanzialmente la stessa cosa con questa generalità e con questo concreto, oppure sia cosa separata da essi, e di diversa sostanza; poichè questa ricerca è quella che può decidere la questione (quantunque sembri decisa soprabbondantemente da quanto è detto), se il sistema che esaminiamo sia panteistico o no. Giacchè essendo in fine quest' unica radice della generalità delle idee riflesse e del concetto dei sensibili, per Vincenzo Gioberti, Iddio stesso; la questione del panteismo è sempre quella di sapere se la sostanza di Dio e quella delle creature è una e la stessa, o diversa e infinitamente diversa. Se la radice del Gioberti è di sostanza diversa affatto dalla sostanza delle due piante che si fanno nascer da essa (la generalità delle idee riflesse e il concreto dei sensibili), in tal caso le metafore che egli adopera non saranno più che frasi poco esatte; ma se la sostanza della radice di quelle piante è identica, il panteismo sarà aperto ed indubitabile. Ora, onde mai il Gioberti fa uscire le due piante della generalità delle idee riflesse, e del concreto dei sensibili? Le fa uscire dalla riflessione dell' uomo preceduta però e creata dalla riflessione dell' idea, cioè del Dio7Idea. Ma questa operazione della ragione umana, che è anche insieme la ragione divina, che cosa fa? Scompone e compone l' oggetto precedente, soggettivizza quello che era oggettivo, produce, come abbiamo veduto, l' ordine contingente colla scomposizione dell' ordine assoluto oggetto dell' intuito. L' oggetto dell' intuito è dunque la radice della generalità delle idee riflesse e del concreto dei sensibili, che sono come l' albero diviso in due tronchi, e quell' oggetto è l' oggetto stesso della riflessione nella sostanza, non differendo che nella forma. Ecco come ripete questa sua teoria: [...OMISSIS...] . Quindi conchiude che il generale, in quanto è veduto nell' intuito, è l' essere necessario, cioè Dio stesso, e il concreto sensibile è il contingente, cioè Iddio stesso che concentra la sua realtà in un punto individuandosi. [...OMISSIS...] . Uditene la conseguenza che spiega ancor più le premesse. [...OMISSIS...] . La conseguenza è coerente alle premesse. Poichè, s' egli è vero che l' individuale contingente, o, come anche dice, il concreto de' sensibili altro non sia che l' idea generale individualizzata, egli è certo che per averne la cognizione, conviene aver l' intuito di quest' idea generale, che è l' essere necessario e infinito, cioè Dio, e della sua individualizzazione, che è l' atto creativo, il qual atto creativo che concentra l' esistenza in un punto determinato, è l' opera della riflessione che così reca all' esistenza il concreto dei sensibili. Egli è dunque del tutto logico il dire che per conoscer l' albero conviene conoscer la radice nel sistema del signor Gioberti, perchè in tal sistema non solo la radice è della stessa sostanza dell' albero, ma anzi ella si trasfonde nell' albero stesso, essa è il soggetto sostanziale di cui l' albero è l' atto accidentale retto e sostenuto; laddove se la radice fosse di sostanza totalmente diversa, non vi sarebbe bisogno alcuno di percepire la radice per percepire i rami della pianta, perchè una sostanza è ciò appunto che si concepisce dalla mente senza ricorrere ad altra sostanza, quando l' accidente è ciò che non si può concepire solo senza la sostanza. Quindi la ragione è palese del perchè egli cotanto ci replichi, che le cose contingenti non si posson percepire che nell' atto creativo: essendo quelle una trasformazione di Dio medesimo, conviene vedere e Dio e la sua trasformazione per averne la percezione. Ora io credo che a ciascuno sia facile il decidere sulla ricerca che continuamente facciamo, se il sistema del nostro Filosofo ontologista sia netto e puro di panteismo, com' ei sostiene. Ritenuto il filo del qual discorso, non fa maraviglia l' udire che, come le cose individue sono l' idea, ossia Dio trasformato, così l' idea, cioè Iddio, anch' egli alla sua volta sia le cose trasformate in senso contrario, cioè trasformate nella composizione o sintesi; non fa meraviglia che l' idea, cioè Iddio, sia un' attuazione dell' individuo, piuttosto che l' individuo sia una cotale attuazione dell' idea. E questo è pur quello che insegna ancora espressamente il Gioberti. [...OMISSIS...] . Ritenete, o signori, che individuare è creare, e che individuo è sinonimo di creato, e che l' idea, ossia il generale che s' individua è l' essere necessario e infinito. Che cosa è dunque il creato? L' attuazione di Dio. E che cosa è Dio? E`, ed assai meglio, l' attuazione del creato; [...OMISSIS...] . Come dunque intuire le esistenze create, senza intuire Iddio di cui sono l' attuazione? (perocchè Iddio in questa dottrina non è solo atto, ma egli ha anco attuazione). E come intuire Iddio senza intuire le esistenze che sono il creato, di cui Iddio stesso è assai meglio l' attuazione? « Quindi (soggiunge di nuovo quello che sapevamo, perchè ce l' aveva detto tante volte), [...OMISSIS...] , ossia nella loro radice obbiettiva. Udite ora come il nostro Filosofo applichi la sua teoria della creazione a spiegare il valore della proposizione: « Questo corpo è ». Colui che la volesse interpetrare alla semplice, secondo il senso comune ed i filosofi passati, altro non vedrebbe in quella proposizione che l' affermazione di un corpo. Non lo crediate: il Gioberti è troppo coerente a se stesso; egli vi vede l' insidenza del corpo nell' Ente, cioè in Dio, di cui il corpo è un' attuazione, o assai meglio Iddio è un' attuazione del corpo, e però ci vede anco l' affermazione di Dio stesso. Udite: [...OMISSIS...] . In che dunque consiste, secondo Vincenzo Gioberti, l' esistenza, colla qual parola a lui piace d' esprimere la cosa creata o contingente? Consiste nella [...OMISSIS...] . Il corpo materiale adunque nella sua concretezza insiede in Dio, e partecipa a Dio, ed è questa l' esistenza del corpo. Ora poichè non vi è nulla che insieda in Dio, e che a Dio partecipi, se non Iddio, forz' è dire che anche la materia sia Dio. Ma notate tuttavia, che il corpo è l' idea generale (il Dio di Gioberti) individualizzata, e non l' idea generale nella sua generalità: non è l' idea generale oggetto dell' intuito, ma è l' idea generale divenuta oggetto della riflessione, che l' analizza col raziocinio; ond' è necessario che la voce è nella proposizione « questo corpo è », indichi il suo riferirsi alla realtà necessaria, poichè questo riferirsi della realtà contingente alla realtà necessaria, è l' esister di questa. E in che consiste questo riferirsi? Nell' emergere, dice il Gioberti, dalla sua causa per mezzo dell' individuarsi che fa questa causa, cioè Dio, l' individuarsi del quale è l' atto creativo. Lo stesso egli ci ripete in altro luogo: udite attentamente: [...OMISSIS...] . L' esistenza dunque, sotto il qual nome il Gioberti intende costantemente la creatura, è una partecipazione finita di Dio! Se l' esistenza, per esempio, un corpo reale e individuale è Iddio partecipato in un modo finito, il corpo stesso nella sua realità e individualità ha la natura di Dio, benchè in un modo finito. E non è questo il più materiale panteismo? (2). Ora imparate, o signori (perdonatemi se così parlo), imparate a conoscer l' ignoranza profonda in cui fin qui foste stati immersi, e con voi insieme tutti gli uomini. Non credete voi, che dicendo « è questo corpo »(e ben vedete che dicendo questo non si esprime il corpo in genere, ma in individuo, nella sua concretezza e materialità), non credete, che dicendo « è questo corpo », si affermi una sostanza morta? Certamente. Ma siete ingannati: il corpo che s' afferma esistere è ben tutt' altro. Il Gioberti v' assicura, e con tutta coerenza, che dicendo « questo corpo è », il verbo è « esprime una forza viva », perchè ci mostra [...OMISSIS...] . Di più, fin qui voi eravate in un goffo errore credendo che la creazione fosse una cotal produzione dal nulla: il signor Gioberti, il filosofo della creazione, venne a insegnarvi che questa non consiste già nel prodursi il contingente dal nulla, ma [...OMISSIS...] . Quanto erano ignoranti prima di questo lume tutti i sani filosofi ed i teologi cattolici! Essi credevano tutt' alla buona, che i corpi si conoscessero come cose fatte nel tempo, e invece a rigor di termini si conoscono dall' uomo, non come fatte nel tempo, ma nell' immanenza dell' Eterno . E questo noi lo sappiamo non per divina rivelazione, non per via di raziocinio, ma di semplice intuito, che ha per oggetto l' ordine assoluto: ce ne assicura il signor Gioberti, e guai a domandargliene la menoma ragione, chè il suo intuito è immediato, e non ammette ragione alcuna. In appresso succede la riflessione che analizza quest' oggetto, il quale appare nell' immanenza dell' eterno, ed allora nasce la continuità temporanea, allora il contingente è già emerso dal necessario. Il panteismo dunque è nell' intuito, ma sopravviene la riflessione soggettiva che disfà il panteismo coll' analisi raziocinativa. Ecco l' errore dei panteisti antichi: essi avevano bonariamente insegnato il panteismo col raziocinio, ma il Gioberti li confuta, trasportandolo nell' intuito; perchè ragione prima del raziocinio che nulla crea, dee esser l' intuito che tutto contiene: e questo è l' ordine del vero assoluto, mentre quello della riflessione è un ordine soggettivo. Combatte dunque il panteismo, dimostrando che non ebbe fin qui solide basi, ed egli intende così di sopporgliele; lo combatte col sostituire un panteismo assoluto ed intuitivo ad un panteismo troppo meschino, perchè relativo e raziocinativo; un panteismo più perfetto a quei sistemi che fin qui furon proposti, e che a lui non sembrano perfetti e compiuti. Concludiamo: per distinguere il signor Gioberti da tutti gli altri panteisti, non ci resta che denominarlo il panteista intuitivo. Dovrei copiarvi le opere intere del sig. Gioberti, se volessi arrecarvi tutti i passi, coi quali egli colorisce ed incarna in tutte le guise questo suo filosofico disegno: egli parla, nella stessa pagina che vi citavo testè, del flusso delle creature che si contempla congiuntamente alla immanenza dell' atto creativo, e conchiude: [...OMISSIS...] , confondendo così insieme l' ordine naturale col soprannaturale, come appunto confuse le creature col Creatore. Ma egli è pur tempo che noi poniam modo a questa lunga discussione, in cui abbiamo spese diverse lezioni. L' attenzione che voi mi avete costantemente prestata riesce a me di caro conforto, o signori, a dover credere, che voi avete giudicato importante l' argomento, e che noi non abbiamo perduto il nostro tempo invano. Avrei desiderato che Vincenzo Gioberti fosse stato anch' egli qui ad ascoltarmi: amatore del vero, come dobbiam riputarlo, forse avrebbe modificato le sue sentenze. Se egli avesse voluto difenderle, lo avrei ammonito di mantenere in facendolo la stessa legge ch' egli ricorda sì sovente ai suoi avversarj, di non arrecare per avventura altri suoi detti contradittorj ai primi, ma di sciogliere direttamente le obbiezioni che presentano quei molti che noi abbiamo disaminati. E gli avrei aggiunto, che noi trattiamo del suo intero sistema, e della coerenza intrinseca del medesimo, non di alcuna frase appiccicata e dissonante. Quello dee dimostrare immune da panteismo, non questa, perocchè di quello si tratta. Del resto confidiamo nel retto senso de' nostri connazionali. Invano si vuol presentare a questa nostra religiosissima e svegliata nazione un panteismo deforme, mascherato, siccome nuovo e sano e profondo sistema filosofico: la chiara mente degli Italiani non s' appaga d' ambiguità di favellare, di vanissime ed insolenti dicerie, di stirate cavillazioni; sono sei anni che scrisse Vincenzo Gioberti, e non un solo Italiano, a noi noto, ha per ancora preso a professare il suo panteismo: l' Italia dunque, o signori, diciamolo pure, lo conosce e lo rigetta. Ho letto con mio molto piacere la « « Teorica del Sovrannaturale » » del sig. ab. Vincenzo Gioberti, da Lei favoritami. Prima non la conoscevo che per qualche brano mandatomi dagli amici. Di vero, l' argomento del libro è acconcissimo ai tempi nostri e necessario, perocchè il maggior bisogno che ha oggidì il mondo, e il maggior suo desiderio si è quello di essere accertato che vi ha qualche cosa di soprannaturale, e di poter dire in qualche modo a se stesso che cosa il soprannaturale si sia. Nulladimeno non parmi vero, nè detto con proprietà, ciò che l' autore afferma alla faccia 52 del suo libro, cioè che « « in tutta la Storia della Filosofia - non si è mai atteso a ricercare se in effetto la mente umana comprenda qualche elemento inintelligibile » ». Manca, se io non erro, la proprietà dell' espressione in queste parole; perocchè egli pare una contradizione il pretendere che la mente umana comprenda quello che è inintelligibile; tanto più se si consideri, che la parola comprendere significa, secondo la nota definizione che ne dà s. Tommaso, perfettamente conoscere; di guisa che quella proposizione suonerebbe così: « Non si è atteso a ricercare se la mente umana perfettamente conosca qualche elemento che non è intelligibile »! Voleva egli alludere certamente in quelle parole alla potenza che lo spirito umano possiede, d' accorgersi ch' egli non conosce tutto, e che vi hanno delle cose ch' egli neppure può conoscere nella presente sua condizione, o certo ch' egli non può comprendere, benchè non di meno sappia determinarle e segnarle con certe loro relazioni ad altre cose a lui note, e sappia ancora assicurarsi di loro reale esistenza e di loro necessità. Ma spiegato il suo detto a questo modo, cessando di essere assurdo, incomincia a non esser vero. Imperocchè egli è indubitato, che fu sempre mai conosciuta questa potenza del soprannaturale (chiamiamola pur così), la quale porta l' uomo a persuadersi dell' esistenza di una qualche cosa che sta via oltre a' confini della natura contingente e limitata; ed io, quando mi occorse parlarne, le assegnai il proprio e specifico nome d' integrazione . Tutti i teologi scolastici oltracciò, cominciando dall' antico autore de' libri de' « Nomi Divini e della Celeste Gerarchía », parlarono della maniera negativa, colla quale la mente umana da se stessa si leva a conoscere Iddio. Potrei salire più là, e trasportarmi fino ad un tempo anteriore a quello della filosofia italo7greca, dimostrando co' libri da non molto tempo scoperti degli Indiani, e coll' altre memorie antichissime dell' orientale sapienza, che la facoltà del soprannaturale e dell' incomprensibile fu sempre conosciuta e positivamente annunziata dai savj; come pure che da essa sola ebbero origine le infinite superstizioni di tutti i tempi e di tutti i luoghi. Che se il signor Gioberti avesse avuto sott' occhio la « Tavola delle potenze dell' anima umana »da me pubblicata in Rovereto, vi avrebbe trovato quella potenza del soprannaturale, distinta nelle sue varie diramazioni. Quantunque poi il suo libro dimostri ch' egli conosce assai bene le teologiche discipline (conoscenza che suol mancare in quasi tutte le moderne scritture, eziandio che trattino di Filosofia o di Religione, come egli stesso giustamente osserva), tuttavia non trovo da lui dichiarata la doppia maniera nella quale lo spirito umano si solleva a ciò che è soprannaturale e divino, distinzione alla lucidezza dell' argomento necessarissima. Perocchè ella è cosa grandemente diversa, che l' uomo s' accorga dover esistere alcun che al di là di tutte quante le cose da lui conosciute, al di là di tutti i confini del contingente; in una parola, dover esistere al di là del relativo, l' assoluto; ovvero che l' uomo possa oltracciò percepire realmente questa assoluta sostanza. A fare la prima di queste due operazioni, a conoscere l' esistenza dell' ente assoluto, ed alcune necessarie analogie fra esso e l' ente relativo, bastano le naturali umane facoltà. Onde può dirsi, che v' abbia una facoltà naturale delle cose soprannaturali. Ma all' incontro a fare la seconda di quelle operazioni, cioè a percepire realmente quello che è soprannaturale, niuna facoltà naturale qualsivoglia è sufficiente; chè ella sarebbe contradizione apertissima il dire che la natura percepisca quello che è al di là della natura. Ella ben intende che cosa a me suoni la parola percepire . Allora solo, secondo la maniera di parlare da me stabilita, una cosa viene da noi percepita, quando noi ne sentiamo in noi stessi l' azione sua propria, cioè un' azione tale che non può venirci altronde, e però atta a caratterizzare e distinguere nell' intendimento nostro quella cosa fuori d' ogni altra. Richiedesi adunque che venga dato all' uomo un principio di conoscimento soprannaturale, acciocchè egli possa percepire il soprannaturale; o, come dicono ottimamente i teologi, si richiede l' infusione del lume di grazia o di gloria. Sarebbe dunque cosa assurdissima il collocare nella natura umana una potenza del soprannaturale presa in questo secondo senso; e si può solamente attribuirle una cotal radice di detta potenza, che è piuttosto una potenza della potenza, cioè a dire ella è la potenza di ricevere in sè la potenza di percepire Iddio, cui Dio stesso, comunicandosi all' anima, crea in essa. Di qui Ella vedrà manifesta ragione per la quale nella citata Tavola delle umane potenze, io abbia collocata l' integrazione (facoltà della Teologia naturale), come anche la fede (facoltà delle idee negative) che le si associa, fra le potenze naturali; e perchè all' opposto abbia fatto una lunga enumerazione di potenze soprannaturali, quando volli indicare quelle facoltà o virtù infuse, colle quali si percepiscono realmente le cose divine, e si pensa e si vuole e si opera in conseguenza di quelle deiformi percezioni. Nell' incertezza se Ella abbia sott' occhio la Tavola di cui le parlo, gliene unisco qui un esemplare. Col volgere poi uno sguardo alla Tavola medesima, Ella potrà vedere altresì, che la facoltà del soprannaturale, quale viene descritta dall' ingegnoso signor teologo Gioberti, dà luogo ad un' altra osservazione importante assai per le conseguenze che si trae dietro. Della facoltà del soprannaturale egli fa una potenza isolata e tutta da sè, contrapponendola a quella della ragione e a quella del sentimento . Ora il concepire a questo modo la facoltà delle cose soprannaturali, dà, egli è vero, ai ragionamenti che n' espongono la teorica, un' aria di non so qual misterio e profondità, gradita al lettore; ma a fondo considerato, quel modo di concepire la detta facoltà non trovasi conforme al vero, nè scevro d' intima contradizione. E di vero, come è egli mai possibile concepire una facoltà senza ch' essa produca all' uomo qualche specie di sentimento? Non si possono dunque dare facoltà nell' uomo, le quali sieno al tutto straniere al sentimento; poichè l' uomo stesso, come io ho dimostrato nell' « Antropologia », è un sentimento. Come, di nuovo si possono dare tali notizie o percezioni, delle quali noi siamo ben certi, quando elle sieno poi prive al tutto dell' autorità della ragione, ed escluse dall' intendimento? Non si possono dunque dare oggetti nè naturali nè soprannaturali, de' quali noi siamo ben certi, se questi si pongano fuori del dominio dell' intelligenza. Convien dire adunque o che la facoltà del soprannaturale sia cieca, e in tal caso di nissun pregio, nè diversa dal fanatismo e dalla superstizione; ovvero ch' ella abbia pure in sè del lume di ragione, nè sia tutta sola, e genericamente distinta tanto dal sentimento quanto dall' intelligenza. Cotal facoltà non può dunque non essere finalmente che una specie di sentimento ed una specie d' intelligenza; e questo è quanto apparisce chiaramente da tutto ciò che io n' ho scritto in più luoghi, e ch' Ella potrà veder di nuovo nella « Tavola delle potenze »dove, senza accennar nulla che si riversi al di fuori dell' ordine de' sentimenti e dell' intelligenza, appariscono le potenze soprannaturali innestate sopra le naturali, e si dimostrano come una sublimazione del sentimento e della intelligenza, a cui azioni ed oggetti divini si comunicano; un perfezionamento insomma e completamento della natura, secondo la dottrina de' teologi cattolici, i quali costantemente insegnano l' elemento soprannaturale essere perfettivo del naturale. Le quali cose mi prendo fidanza di esporre alla Signoria Vostra, per ubbidire al gentile invito che Ella me ne fa nella pregiata sua lettera. E le aggiungerò, quanto a ciò che Ella mi dice, accordarsi meco il sig. Gioberti in più cose, che si scorge veramente da diversi tratti dell' opera sua, ch' egli vide il « N. Saggio ». E l' aver dato in parte al medesimo favorevol suffragio, certo egli è per me un fatto assai onorevole, pregiando io l' altezza dell' ingegno e anco la bontà dell' animo che dimostra nell' autor suo la « Teorica del soprannaturale ». Ma non mi posso tenere dal dire a Lei nello stesso tempo in tutta confidenza, che parmi di ravvisare anco nell' egregio sig. Gioberti quello che pur mi tocca continuamente vedere in tant' altri valent' uomini, che scrissero pro e contro la mia filosofia, cioè che troppo presto si credono d' aver colto il mio pensiero e tutta abbracciata la dottrina da me proposta alla loro meditazione. Forse che la facilità apparente di questa filosofia gl' inganna, onde non si danno il tempo di andar più addentro della corteccia. Certo, non basta l' appigliarsi ad alcune sentenze, nè basta l' aver inteso alcuni brani del sistema: è necessario por mente al tutto, e por mente a ciascuna parte, giungere al fondo delle questioni principali; ed in questo fondo non veggo esser discesi ancora gran fatto molti, e pure molti (io vorrei dir tutti) giungere vi potrebbero, se non si avvisassero d' esservi giunti (1). E qui, a ragione d' esempio, io mi persuado che il teologo torinese non avrebbe posto così in generale nell' essenza l' elemento incomprensibile delle cose, se egli avesse posto attenzione a quanto io dissi in più luoghi circa l' essenza, la sostanza, la sussistenza, la materia, ecc.; nè avrebbe disconosciute quelle dottrine ontologiche che nel mio sistema vanno intimamente collegate all' Ideologia, e che finora veramente furon da me piuttosto qua e là toccate, che trattate alla distesa, non avendo io pubblicato per anco nè l' Ontologia, nè le scienze che l' accompagnano, le quali sono la Dinamiologia, l' Agatologia e la Cosmologia . E qui basti dell' argomento principale del libro, che pur merita di essere ben accolto da noi, siccome ricchezza accresciuta all' italiana filosofia. Solo aggiungerò, prima di chiudere la presente, essemi dispiaciuto non poco l' aver trovate, in leggendo l' opera del sig. Gioberti, qua e colà accennate certe dottrine politiche, le quali non mi sembrano nè vere nè utili al genere umano. Tale si è quella, peraltro speciosissima, che sembra attribuire il diritto di governare ai migliori «(facc. 225, 226, 450) »; principio impossibile a ridursi in pratica, e ingiustissimo oltre a quanto si può credere; il quale divelle fino dalle radici ogni diritto non pur di dominio, ma ben anco di proprietà . Sono certissimo che l' egregio Gioberti non ne vuole le conseguenze, direttamente contrarie a quella rettitudine di mente e di animo, e a quell' amore del bene che il suo libro costantemente manifesta; e però, propriamente parlando egli disdice quel suo principio tutte le volte che toglie (e il fa con ingegno ed eloquenza) a difendere la verità, la giustizia e la religione. In un' opera di recente da me pubblicata, e probabilmente a Lei nota, io dimostrai darsi veramente un diritto di dominio ed un obbligo di sudditanza. Quando adunque questo diritto di dominio sia verificato nella realtà del fatto, egli è uopo rispettarlo, allo stesso modo come è uopo rispettare l' altrui campo, l' altrui casa, la veste, il pane altrui, eziandiochè questi beni siano in mano delle persone peggiori che ci vivono. Sappiam tutti che bella cosa sarebbe, o parer potrebbe, se le proprietà fossero de' soli buoni, i quali non ne userebber che bene; ma per quantunque sia, o paja bellissima questa cosa, ne vien egli di conseguenza che si possano spossessare i malvagi de' loro averi, per trasferir questi nelle mani de' migliori? E pure così si ragiona, o anzi si sragiona dai pretesi riformatori delle politiche società, i quali vorrebbero surrogare, com' essi dicono, la capacità elettiva al diritto ereditario. L' utilità pubblica, ecco il fonte ond' essi tutti i diritti pretendono derivare; ma s' ingannano oltre misura. Anteriore alla pubblica utilità (nome vago e capzioso), e ancor più di essa utilità veneranda, si è l' onestà e la giustizia, il rispetto cioè dei diritti di tutti: e finalmente la stessa utilità pubblica è andata in fumo, allorquando si comincia in suo nome a rapire l' altrui, e a permutare o le proprietà o i dominj. I quali concetti falsi e dannosi tanto più rincrescono a rinvenirsi nella « Teorica del soprannaturale », quanto che l' ingegno, la dottrina, la nobiltà dell' animo e il carattere sacerdotale del suo autore ci danno ampio diritto di pretendere da lui, ch' egli sappia diligentemente discernere l' apparenza del bene dal bene stesso, e cautelarsi contro a' lusinghevoli sofismi della giornata, i quali invescano assai facilmente coloro, che avendo il cuore inclinato all' affetto degli uomini, non hanno pari a quell' affetto la vigilanza della mente e l' ardore della sovrumana verità. [...OMISSIS...] L' amore della verità ci induce a rispondere col presente articolo alle difficultà mosse dal sig. abate Gioberti alla filosofia rosminiana. Ne compendiamo le principali in pochi sillogismi, e soggiungiamo ad esse le soluzioni. Il Rosmini dice, che l' Essere ideale, qual risplende per natura nella mente umana, è un' appartenenza di Dio - Ma ogni appartenenza di Dio, è Dio - Dunque l' essere ideale è Dio. Distinguo la minore - Ogni appartenenza di Dio, è Dio, se la si considera in Dio, e non la si precide da tutto il resto che forma la Divinità, concedo; se la si precide dal resto che forma la Divinità, nego: ed allora le si dà il titolo di appartenenza di Dio, per indicare appunto che unita al resto che forma la Divinità è Dio, ma non così precisa dal resto. Iddio non si può dividere, perchè è un Ente semplicissimo - Ma la recata distinzione divide Iddio - Dunque una tale distinzione fa quello che non si può, è falsa. Distinguo la maggiore, ed anco la minore. Distinguo la maggiore - Iddio non si può dividere realmente , concedo; mentalmente, nego. Infatti colla mente umana si dividono i suoi attributi, la sapienza, la giustizia, la potenza ec.. E così si divide l' idea dell' essere (che gli scolastici chiamano l' essere comunissimo ) da Dio sussistente. Di più distinguo la maggiore ancora così - Se da Dio si divide qualche suo attributo, o qualche cosa che la mente umana concepisca in lui, per modo che si pretenda, che quella cosa così divisa e precisa sia ancora Dio; la divisione non si può fare. Ma se si dice, che quella cosa così precisa non è Dio, ma un essere mentale ed universale, che si chiama un' appartenenza di Dio, per indicare il fonte onde procede; questa divisione si può fare. Distinguo poi la minore così - La recata distinzione divide Dio mentalmente, e in modo che a ciò, che si precide da Dio, non si applica più la denominazione di Dio, il che si può fare senza inconveniente, concedo; la recata distinzione divide Iddio realmente, ovvero mentalmente, ma in modo da applicare la denominazione di Dio a ciò che si considera come preciso da Dio, il che non si può fare, nego. Ogni cosa o è Dio, o una creatura - Ma l' Ente ideale non è una creatura, perchè gli si danno gli attributi dell' eternità, immutabilità ec.. - Dunque l' Ente ideale è Dio. Distinguo la maggiore e la minore. Distinguo la maggiore così - Ogni cosa che realmente sussiste è o Dio, o una creatura, lo concedo, (benchè s. Tommaso osservi che le forme e gli accidenti sono piuttosto concreati che creati, dicendosi le sole sostanze propriamente create [...OMISSIS...] «S. I XLV, IV »); ogni cosa ideale lo nego: perchè le relazioni p. e. tra Dio e la creatura, hanno un termine increato che è Dio, e un termine creato che è la creatura, onde non possono dirsi propriamente create, ma piuttosto conseguenti alla creazione. E così l' idea, ossia l' essere ideale, che è il mezzo del conoscere, è un' entità precisa mentalmente da Dio, e quindi la mente lo considera sotto due relazioni, o in quanto ritiene dell' essere divino da cui fu preciso, e intanto non è creatura, ma ritiene delle qualificazioni divine, benchè niuna qualificazione, come nè pure niun attributo preciso da Dio si possa dire Dio, perchè gli manca ciò che è a Dio essenziale, cioè l' essere completo e d' ogni parte infinito: o in quanto è preciso, e intanto si può chiamare creatura a quel modo che una tal denominazione conviene a tutto ciò che ebbe principio o per la creazione, o in conseguenza della creazione; come s. Tommaso chiama la verità, che risplende nell' intelletto umano, creata «(S. I/XVI, VII) ». Distinguo la minore così - L' Ente ideale non è una creatura in quanto ritiene dell' essere divino da cui fu preciso, lo concedo: benchè non gli possa perciò competere la denominazione di Dio, perchè da Dio niente si può dividere colla mente che si rimanga Dio, giacchè se si potesse far ciò, si porrebbe la divisione in Dio stesso. L' Ente ideale è creatura in quanto è preciso da Dio nel modo detto, lo concedo pure, perchè ciò non significa altro se non che la precisione ha avuto principio, quando ha avuto principio l' uomo. Ciò che non è reale è nulla - Ma l' essere ideale non è reale - Dunque l' essere ideale è nulla. Nego la maggiore, perchè ognun sa che l' idea del pane non è il pane reale, e che tuttavia quella idea non è nulla; e così si dica d' ogni altra cosa. Che se sotto la denominazione di reale si vuole intendere ogni entità, anche l' ideale; in tal caso il vocabolo reale non è più adoperato in opposizione all' ideale, come si adopera nella proposizione, e però si cambia il valore alla parola. Poichè quando si contrappone il reale all' ideale, allora, come indica la proposizione stessa, si contrappongono due concetti l' uno all' altro, e però il reale opposto all' ideale non può essere l' ideale, e la cosa opposta all' idea non può essere l' idea, perchè altrimenti i concetti si confonderebbero. Rimarrà dunque che l' idea presa in opposizione alla cosa non è la cosa, e che l' ideale preso in opposizione al reale non è il reale. Il determinare poi che cosa sia l' ideale è appunto quello che si cerca di fare coll' Ideologia, e quando anche non si riuscisse a farlo, rimarrebbe egualmente vero che l' idea del pane non è la cosa pane, cioè il pane reale che si mangia, e che nutre, giacchè l' idea non si mangia nè nutre. Se gli elementi, di cui si fa risultare la cognizione del reale, non hanno in sè la detta cognizione della cosa reale, non la possono dare, perchè nemo dat quod non habet - Ma il Rosmini fa risultare la cognizione della cosa reale dall' idea dell' essere, e dal sentimento, che non contengono questa cognizione, perchè il sentimento è cieco, e non racchiude cognizione alcuna, e l' idea non racchiude la cognizione del reale, ma solo del possibile - Dunque egli non ispiega bene la cognizione del reale. Nego la maggiore e la minore. Nego la maggiore, perchè talora due elementi coll' unirsi insieme producono un terzo effetto, che non è nè nell' uno, nè nell' altro di essi elementi; il che si avvera continuamente anche nelle cose fisiche; p. e. l' azoto e l' ossigeno producono l' aria atmosferica, che non si trova nè nell' uno, nè nell' altro di essi. Nego la minore, perchè egli è falso che il Rosmini faccia nascere la cognizione del reale dai due soli elementi dell' essere ideale, e del sentimento; ma vi aggiunge anzi un terzo elemento che è l' atto dello spirito semplicissimo, che intuendo da una parte l' ideale, e dall' altra percependo il reale, s' accorge che nell' ideale è il tipo dell' attività reale percepita nel sentimento, e lo afferma a sè stesso, e così produce a sè la cognizione del reale mediante questo giudizio primitivo. Infatti la cognizione del reale consiste nella unione di que' due elementi operata dallo spirito, e dallo spirito semplice e identico. E però, sebbene ciascuno di essi non dia la cognizione del reale, tuttavia uniti la danno, appunto perchè la cognizione del reale non è altro che l' atto dello spirito che li congiunge, e congiungendoli ne afferma il rapporto. Il ragionamento è impossibile, se nel primo intuito l' uomo non vede in confuso tutto ciò che poscia colla riflessione distingue - Ma il Rosmini pretende che il reale non si percepisca dall' uomo nel primo intuito del suo spirito - Dunque è impossibile che l' uomo giunga mai a conoscere il reale. Distinguo la maggiore - Il ragionamento è impossibile, se nel primo intuito l' uomo non vede in confuso tutto ciò che poscia colla riflessione distingue, concedo se si tratta di cognizione formale, cioè di un ragionamento che non esce dall' ordine delle idee, ed è perciò che nell' essere ideale, oggetto del primo intuito, vi hanno indistinti tutti i principj del ragionare, perchè i principj appartengono tutti all' ordine delle idee; nego se si tratta di cognizione materiata, perchè la materia della cognizione viene somministrata dal sentimento. D' altra parte sarebbe contro il buon senso il sostenere che nelle idee ci fosse la realtà della cosa, per es. che nell' idea dell' albero ci fosse l' albero stesso reale; giacchè in tal caso un' idea sarebbe un albero, o un albero sarebbe un' idea, il che è assurdo.

Il razionalismo

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Chi adunque sostiene, che la natura umana nello stato in che al presente si trova, non ha vizio in sè stessa nè morale nè fisico, ma solo è priva della grazia santificante; non pure s' oppone all' ecclesiastica tradizione, ma alla filosofia e al senso comune del genere umano. Altri argomenti dimostrano il disordine contro natura che è nella volontà dell' uomo che nasce, pertinacemente negato da' moderni razionalisti. Crediamo tanto più necessario comprimere coll' abbondanza degli argomenti la loro baldanza, ch' ella è tanta, che giungono ad attribuire il loro coperto Pelagianismo a tutti i cattolici (1), ad asserirlo ammesso universalmente (2) a dichiararlo dottrina di fede (3). E cominciamo dal paragonare insieme i tre errori de' giansenisti , de' razionalisti biblici della Germania, e dei teologi nostri razionalisti pratici . Benchè l' error de' primi sia opposto a quello degli altri due; tuttavia non sarà difficile scorgere, che tutti e tre, questi errori, hanno una base, un principio comune. Avviene quasi sempre, che si rinvenga un elemento comune ne' contrari errori, come già osservammo. Il principio, o la base comune consiste nel venire a riporre il peccato originale in una LIMITAZIONE della natura umana; anzichè in ciò che è guasto e disordine. Tutti e tre gli accennati erronei sistemi si fondano sopra questo primo sbaglio (1); ma spiegano poi diversamente il modo, onde attribuiscano l' appellazione di peccato alla mera limitazione della natura. Esponiamo la diversità di questa spiegazione. I giansenisti sulle tracce di Bajo dicono che la natura umana lasciata sola, senza la grazia soprannaturale, è imperfetta e monca, formando così della grazia un costitutivo all' interezza e sanità dell' umana natura (2). Questa natura così scema d' una sua parte, si dee chiamar viziata e peccatrice, perchè non si solleva colla volontà a Dio soprannaturalmente conosciuto (al che le mancano le forze), e in questa non elevazione ch' essi dichiarano volontaria, fanno consistere l' original peccato (3). I biblici razionalisti della Germania pure accordano a' giansenisti che il peccato originale consista nella limitazione della natura; ma spiegano la cosa più filosoficamente. Questa limitazione non è già peccato, come vogliono i giansenisti, perchè l' uomo in essa costituito non si leva a Dio colla sua volontà impotente; ma perchè è lontano dalla sua ultima possibile perfezione alla quale non si solleva che a gradi. Onde secondo il signor Baur il peccato è simultaneo colla natura dell' uomo, come è simultanea con quella natura la limitazione (1). Imperocchè l' uomo, in quanto è creato da Dio, [...OMISSIS...] . I nostri teologi moderni (stando alla sostanza delle loro dottrine, benchè colle parole si dichiaravano nemici di tutte l' eresie) sono obbligati a parlare in questo modo, quando vogliano esser sinceri: Avete ragione, o giansenisti e razionalisti biblici, nel cercare nella LIMITAZIONE dell' umana natura il peccato originale: anche noi facciamo lo stesso; ma spieghiamo la cosa in modo diverso dal vostro. Noi diciamo che la natura umana presentemente ha tutto il suo senza difetto alcuno; ed aggiungiamo, che ha il peccato, unicamente perchè le manca l' ordine soprannaturale, che ella dovrebbe avere; quindi definiamo il reato di cui è presentemente l' uomo aggravato [...OMISSIS...] . Anche noi dunque diciamo co' razionalisti biblici che l' uomo non ha alcun difetto, ma aggiungiamo che gli manca la grazia, e in questo sta il peccato. Diciamo anche co' giansenisti, che questa grazia è dovuta all' uomo perchè la natura umana non sarebbe intera senza di essa, ma unicamente perchè Iddio a principio ha fatto liberamente il decreto di concederla all' umanità, e in virtù di questo decreto le è dovuta. Or Adamo colla sua prevaricazione spogliò la natura umana di questa grazia per sè stessa non dovuta, e non fece alcun altro male all' umana natura. Noi dunque, suoi figliuoli, nascendo senza grazia, siamo peccatori, figliuoli dell' ira, inimici di Dio e almeno negativamente avversi a Dio, [...OMISSIS...] . Nell' uomo dunque che nasce non v' ha alcun difetto morale, v' ha sola la limitazione naturale , che importa il non aver la grazia soprannaturale; e questa è peccato formale, perchè non dovrebbe esservi « juxta ordinem a Deo constitutum ». La stessa limitazione, la stessa mancanza di ciò, senza cui la natura può esser perfetta, è peccato, o non è peccato, secondo il decreto di Dio. Se Iddio non avesse decretato di dar al figliuolo di Adamo la grazia, non sarebbe per lui peccato l' andarne privo; ma avendo decretato di dargliela, se il padre la conservava; è un peccato del figliuolo l' andarne privo a cagion del padre, che gliela perdette. Non dipende dunque dalla cosa in sè, ma dal positivo decreto di Dio l' esser peccato la nudità della grazia, che per se non è punto peccato; ma Iddio il rese peccato col suo decreto! Se non che ci sarebbe senso nel dire, che un decreto con cui Dio decretò di dare agli uomini un dono, sia obbligatorio anche per quegli uomini, a cui questo dono non è dato? quel decreto di Dio poteva essere obbligatorio pel bambino che nasce? ovvero, contribuì il bambino a invalidarlo? Nulla di ciò. Tutto si fece all' insaputa del povero bambino. Iddio fece il suo Decreto ab eterno senza consultarlo. Il padre peccò pure senza farglielo sapere, nè il figliuolo che ancora non esisteva acconsentì punto al peccato del padre. Nacque nella sua persona innocente, senza difetto alcuno nella sua natura; ma nacque privo di ciò che la sua natura non esigeva, e che non dipendeva da lui l' avere o il non avere. Non vale. Incontanente che viene al mondo gli si dice; « sappiate che voi siete formalmente peccatore, inimico di Dio, figliuolo d' ira, a Dio avverso! »Che stupore per una simile creatura a tale intimazione! A riceverla cioè da persone, che l' assicurano in pari tempo che la sua natura è in tutte le sue parti perfetta ed immacolata, non punto obliqua la sua volontà, che non ha altro in somma, che quella necessaria limitazione, che esclude l' ordine soprannaturale! Deh, come crederà sinceramente di portare in sè un vero peccato, unicamente perchè Iddio aveva intenzione di dargli de' doni maggiori di quelli che non esiga la sua natura, e non glieli diede a cagione che suo padre impedì un sì liberale divino consiglio? Ora che Iddio privi tutta l' umana stirpe de' suoi gratuiti favori, pel peccato del suo capo, a cui gli avea largheggiati acciocchè a tutta la stirpe si propagassero, niente v' ha, che pugni colla ragione. Ma che questa semplice privazione, acquisti in conseguenza del decreto divino, la ragione di vero peccato formale in chi nasce da Adamo senz' alcun difetto nella sua volontà naturale; questo non s' accorderà mai colla ragione umana; che l' esser una cosa peccato non dipende da un decreto positivo di Dio, come il fanno dipendere i nostri teologi (1); nè tampoco dipende meramente da un fallo altrui; dovendo essere ogni peccato vero e formale, un mal morale personale (2); onde convien ricorrere a mutare la significazione della parola peccato (1), o per dir meglio a distruggerne affatto la nozione. Veniamo ad esporre altre ragioni teologiche, che dimostrando inammissibile il sistema de' nostri moderni razionalisti, confermino la verità difesa, che il peccato originale cioè non pure priva l' uomo della grazia santificante, ma guasta di più la natura dell' uomo nella parte sua più eccellente, la parte morale. S. Tommaso dimanda, perchè passi di padre in figlio il peccato originale, e non gli altri peccati (2), e risponde: perchè il peccato originale offende la natura , non che la persona; quando gli altri peccati non offendono che la persona . Infatti trapassa per generazione solo quello che appartiene alla natura, non quello che è meramente e strettamente personale. [...OMISSIS...] Conviene dunque cercare, che cosa S. Tommaso intenda per giustizia originale . Sotto l' espressione di giustizia originale S. Tommaso comprende più cose: 1 l' elevazione della mente a Dio soprannaturalmente conosciuto: 2 la rettitudine naturale della volontà, o giustizia naturale: 3 l' ubbidienza delle parti inferiori e corporee alla volontà retta secondo la natura, e secondo la grazia. [...OMISSIS...] Di tutte queste cose si componeva ciò che S. Tommaso intende per originale giustizia: tutte erano annesse e legate per libero decreto di Dio, alla natura umana; ma la prima parte di esse perfezionava essenzialmente l' umana persona nella natura umana esistente. Che cosa è l' umana persona? E` il più elevato principio, che sia nell' uomo, la sua volontà suprema. Indi la prima parte della giustizia originale cioè la sommissione della mente a Dio, era per essenza sua personale. Egli è di qui che s' intende ragione, perchè, restituita all' uomo nel battesimo questa parte personale della giustizia; rimanga tuttavia l' uomo difettoso e privo dell' altre parti di essa giustizia originale , cioè della sommissione delle potenze inferiori alla ragione, e del corpo all' anima. Il qual difetto spiega, dice S. Tommaso, perchè anche l' uomo giustificato trasmetta generando il peccato d' origine. [...OMISSIS...] Ammessa questa dottrina, si dee pure ammettere, che la parte inferiore dell' uomo è guasta, ragione unica per la quale genera un individuo guasto. Se nella parte inferiore non vi avesse natural disordine, e il peccato consistesse, come vogliono gli Anonimi nella semplice privazione della grazia santificante che appartiene alla parte superiore dell' uomo; l' uomo giustificato, rimastosi già senza difetto, dovrebbe generare del pari individui immuni da ogni difetto, e da ogni peccato. Lo stesso si può argomentare dall' altra dottrina di S. Tommaso intorno ad un uomo formato altramente, che per generazione: questi non avrebbe il peccato, perchè il principio che lo formerebbe non essendo guasto, come è guasto il principio generativo, non potrebbe mettere in lui il guasto del peccato ancorchè avesse la sola natura perfetta priva di grazia (2). Nel che s' osservi attentamente, come S. Tommaso spieghi in modo diverso la trasfusione del guasto originale in quant' è COLPA, e in quant' è PECCATO. Quando egli toglie a spiegare come si propaghi la colpa sempre ricorre alla volontà peccatrice d' Adamo, perchè al guasto originale de' posteri non può applicarsi il nome di colpa, se non si considera nella causa libera che lo produsse. Laonde dice: [...OMISSIS...] . Da tutti i quali luoghi apparisce, 1 che il santo dottore distingue nell' originale infezione due cose, un difetto morale, che noi chiamiamo peccato, ed una colpa; 2 che a spiegare come trapassi la colpa sempre ricorre alla libera volontà d' Adamo, perchè niun difetto benchè morale riceve la nozion di colpa, se non è prodotto da una libera volontà. Resta a vedere come spieghi la trasfusion del peccato ossia il difetto morale della natura. Prima che ne esponiamo la maniera, vogliamo far notare, che il peccato e la colpa originale passano ad un tempo per generazione, perchè non si dà fra tali due cose DISGIUNZIONE REALE; ma tuttavia diversa è la maniera di spiegarne la trasfusione: cioè una diversa ragione è quella che fa passare il difetto morale della natura , da quella che fa passar la colpabilità di quel difetto. Quando si tratta di spiegare la trasfusione di quello, S. Tommaso non ricorre più alla volontà libera e prevaricatrice d' Adamo, ma alla generazione . La caduta d' Adamo il corruppe nella parte sua superiore che è la volontà, e nella parte sua inferiore che è principalmente la facoltà generativa. La corruzione della volontà libera d' Adamo è quella che spiega la trasfuzione della colpa ne' posteri; la corruzione della facoltà generativa è quella che spiega la trasfusione del peccato . Udiamo adunque il Santo Dottore: [...OMISSIS...] . Ora questa vis activa in generatione , che S. Tommaso nomina tante volte, come quella che trasmette il peccato, non è già la volontà prevaricatrice d' Adamo, ma una facoltà tutto diversa. E pure la COLPA non viene che dalla volontà prevaricatrice d' Adamo; ma il peccato viene da quella forza attiva; benchè essa non sia soggetto di colpa, nè di peccato; e l' uomo possa adoperarla senza peccare (2). Ma pel guasto, che ha la carne generante produce una carne che sconcerta l' ordine morale dell' anima del generato, e così mette in essere il suo proprio peccato, il quale però non riceve appellazione di colpa se non riferito all' atto libero della disubbidienza adamitica (3). E notisi che alla trasfusione del peccato non basta nè la volontà prevaricatrice d' Adamo, nè tampoco l' esser formato della sua carne: no, questo non basta; conviene che c' entri la forza generativa , perchè [...OMISSIS...] . Ora in costui formato dalla carne d' Adamo prevaricatore perchè mai non passerebbe il peccato? Forse perchè non ci sia in Adamo la volontà prevaricatrice? No. Forse che la carne d' Adamo non sarebbe priva de' doni gratuiti? Sarebbe priva certamente. Non basta dunque che la carne sia priva de' doni gratuiti, e che la carne che l' uom veste sia carne d' Adamo; ma si esige di più, acciocchè sia messo in atto il peccato, la forza generativa , che non è un atto di volontà peccatrice, essendovi anco ne' giusti. La ragione di ciò non si rinverrà mai nel sistema de' nostri Anonimi; ma nel nostro si troverà luminosissima. Così pure nel sistema de' nostri teologi moderni conviene rinunziare affatto a quella ragione, che spiega sì bene perchè il Signor GESU` Cristo, figliuolo di Adamo verissimo secondo la carne, non ebbe tuttavia l' OBBLIGAZIONE di contrarre il peccato originale. La tradizione tutta risponde con S. Agostino (1) e con S. Tommaso (2), che non l' ebbe, perchè non fu generato dal seme infetto, perchè ricevette bensì da Adamo la carne, ma non per via di generazione. E alla natura umana, che volle assumere il Verbo, non era dovuta la grazia; anzi fu predestinata all' unione personale col Verbo, e il Cristo fu unto per libero decreto del Padre. Se dunque non era dovuta alla carne che il Verbo poi assunse la grazia, perchè tuttavia l' umanità di Cristo non fu obnoxia al peccato? Se il peccato non è che la mera privazione della grazia in relazione alla volontà prevaricatrice del primo padre, la carne d' Adamo in qualunque modo da lui si tragga sarà obnoxia peccato . Niente di ciò: anzi benchè alla natura umana non sia dovuta la grazia; pure insegna la dottrina cattolica, che il Nato dalla Vergine non solo non contrasse, ma nè pure dovea contrarre il peccato. Dunque il peccato non è la mera privazione della grazia; ma esso è l' obice che impedisce la grazia, il quale obice è posto dalla seminale generazione, la quale non fu quella di Cristo operata per ispirito Santo. Essendo dunque l' originale vizio ne' posteri e peccato e colpa, due cose ci vogliono acciocchè trapassi coll' una e l' altra qualità: 1 la generazione seminale, 2 la relazione alla volontà di Adamo, che viziò la generazione, poichè [...OMISSIS...] . Ma se si trattasse di trasmettere una mera privazione de' doni soprannaturali, sarebbe vero quello che dicono i nostri teologi, [...OMISSIS...] . Ma questo appunto dimostra l' erroneità del loro sistema. S. Tommaso, e tutti i dottori, tutti i teologi, non hanno creduto inutile una tale questione, anzi difficile, difficilissima. S. Tommaso ha creduto di dover ricorrere ad una [...OMISSIS...] ed ha creduto che non ogni forza o virtù fosse atta a trasmettere il peccato, ma solo quella che opera [...OMISSIS...] . Certo che per trasfondere una privazione semplice non fa bisogno d' una forza, o vita attiva, d' una mozione, e d' una mozione determinata. E` dunque manifesto, che S. Tommaso (a cui non si può negare il buon senso, nè attribuire che siasi abbandonato alla fantasia , o che siasi lambiccato inutilmente il cervello (4); non sarebbe ricorso ad una forza, o virtù attiva di operare per ispiegare la produzione del peccato ne' posteri, se avesse stimato che in questo non ci avesse niente di positivo, ma fosse una mera privazione de' soprannaturali favori (1). Finalmente col sistema degli Anonimi pare almen che si cozzi in un altro errore, quel della proposizione LVI di Bajo, [...OMISSIS...] . Imperocchè nel peccato original de' bambini battezzati non v' ha più certamente l' atto del peccato, già trapassato in Adamo, nè pure v' ha il reato tolto coll' acque battesimali. Che cosa dunque resta, ci dicano, i nostri Anonimi? Nel loro sistema non resta più niente, come dice Bajo, niente più che spieghi veramente la trasfusione del peccato; mentre nel sistema della Chiesa in vece d' una carne naturalmente sana che produce una carne sana, rimane una carne inferma e guasta che produce una carne del pari inferma e guasta, la qual trae la volontà dell' anima dall' eguaglianza della giustizia (2). Ma qui gli avversarii ci fanno un mondo di obbiezioni, alle quali tutte noi vogliamo rispondere, registrandole per ordine, e soggiungendo a ciascuna la sua risposta. Obbiezione 1 E` vero che S. Tommaso dice che all' essere del peccato d' origine concorrono due cose, 1 un difetto naturale , e 2 che questo difetto sia stato in potere della natura mercè la libera volontà del suo corpo, nel che consiste la ragione della colpa (1). Ma S. Tommaso chiama quel difetto naturale , non lo chiama già peccato . Risposta . Quel difetto è chiamato da S. Tommaso ugualmente difetto naturale , o peccato naturale . Ecco le sue parole: [...OMISSIS...] (ecco la colpa), [...OMISSIS...] (non si ferma alla colpa, c' è qualche altra cosa da aggiungere) [...OMISSIS...] (e non solo privata de' doni maggiori). [...OMISSIS...] ; perchè, come disse altrove ne' posteri, il peccato originale « deficit a ratione culpae ». Laonde S. Tommaso al peccato dei posteri, astraendo dall' attual peccato d' Adamo, attribuisce ugualmente le appellazioni or di « defectus naturalis », or di « peccatum naturale ». Obbiezione 2 S. Tommaso chiama l' accennato difetto naturale [...OMISSIS...] . E` dunque in se stesso una semplice limitazione della natura, non un peccato. Risposta . Ci sono de' difetti, cioè delle mancanze che conseguono necessariamente alla natura umana, e questi sono mere limitazioni della natura; ma vi sono de' difetti che conseguono accidentalmente alla natura; e questi non sono mere limitazioni. Che la natura umana sia fallibile , questo è un difetto necessario, e solo per accidente ella può essere difesa e premunita contro l' errore, e il peccato. Ma che la natura erri, o pecchi realmente, questo è un difetto che consegue a' suoi principii accidentalmente. Dato poi che sia venuto in essa questo accidentale difetto, qual fu il peccato, ch' ebbe luogo nel primo padre; esso difetto si rende necessario nella natura: tale è il disordine abituale della volontà ne' posteri, o il peccato originale. Onde il peccato originale originato è un difetto naturale [...OMISSIS...] ; perchè i principii della natura umana, che è quanto dire i suoi essenziali costitutivi non esigono di necessità che la natura umana sia senza peccato. Se dunque il peccato si considera in Adamo che lo commise, egli è un difetto [...OMISSIS...] ; se si considera trasmesso ne' posteri dopo commesso, egli è un difetto [...OMISSIS...] . Laonde S. Tommaso dichiara, che l' inordinazione della volontà che non può domare le potenze inferiori, [...OMISSIS...] per mezzo della colpa (1), non della natura umana semplicemente. Nel che egli è uopo considerare, che S. Tommaso, come abbiamo già notato, nella giustizia originale distingue una doppia rettitudine di volontà , cioè una rettitudine di volontà soprannaturale , che nasce essenzialmente dal dono della grazia santificante: e la mancanza di questa è un difetto che consegue i principii della natura umana necessariamente, è una limitazione; ed una rettitudine di volontà naturale , che potrebbe esser nell' uomo anco senza la grazia santificante, se Iddio l' avesse creato in istato di natura integra, senza la grazia: e la mancanza di questa rettitudine naturale è un difetto che consegue la natura umana per accidente. Onde un suo interprete preclarissimo, a cui appellano gli stessi nostri avversarii, dopo distinto l' amore di Dio soprannaturale, e l' amor di Dio naturale che si conteneva nell' originale giustizia, dice, [...OMISSIS...] . Di che conchiude che nel peccato originale rimase perduto non che l' amor di Dio soprannaturale, ma anche il naturale: [...OMISSIS...] . Di entrambi questi amori rimasero dunque privi anche i posteri d' Adamo spogli della originale giustizia. Ora il difetto dell' amore naturale di Dio, l' impotenza di amarlo naturalmente , quanto si conviene; è un difetto che consegue i principii della natura umana corrotta; e non mai quelli della natura umana, nell' ipotesi che fosse creata da Dio senza grazia, ma in pari tempo senza vizio. Obbiezione 3. Benchè S. Tommaso dica, che i difetti naturali, che peccato originale si dicono, sieno [...OMISSIS...] ; tuttavia dice anco che questi difetti potrebbero trovarsi in una natura non iscaduta per cagion di peccato, ma formata da Dio medesimo, nel qual caso non avrebbero ragione di colpa . [...OMISSIS...] Risposta . La conclusione che voi tirate dal testo addotto di S. Tommaso non procede in modo alcuno, perchè in quel testo S. Tommaso non parla del formale del peccato originale, ma solo del materiale . A convincervene vi basti quest' altro luogo di S. Tommaso medesimo: [...OMISSIS...] . Ora rileggete il testo addotto, e vedrete se il S. Dottore ivi parli dell' insubordinazione della volontà a Dio, che è il formale del peccato; ovvero se parli solo dell' inordinazione delle forze dell' anima, che è il materiale . Dell' insubordinazione della volontà , voi scorgerete che non vi fa motto alcuno, non dice se non che Iddio potea creare [...OMISSIS...] (2). S. Tommaso dunque non insegna nel testo addotto che Iddio avesse potuto creare un uomo la cui volontà non fosse subordinata a Dio, il che è il formale, l' essenziale del peccato; ma solo che avrebbe potuto crearne uno passibile, mortale, concupiscibile; il che forma nel presente ordine di cose la pena, l' effetto, e il materiale del peccato; ma nell' ordine ipotetico in cui Iddio l' avesse creato tale, sarebbe un difetto, a cui non si potrebbero nè pure applicare tali appellazioni. Laonde si dee conchiudere che dove S. Tommaso parla del peccato intero, racchiudente tanto la parte formale, quanto la materiale, egli nol dice difetto naturale, o conseguente i principii della natura, se non intendendo della natura decaduta, come ho detto nella risposta all' obbezione precedente; dove poi parla della sola parte materiale del peccato, egli concede che possa dirsi un difetto della natura stessa, e che l' uomo potesse esser creato da Dio in tale stato, benchè anche ciò per via di mera congettura, o con qualche limitazione, come vedremo (1). E in fatti egli è troppo assurdo l' attribuire a S. Tommaso l' insegnamento, che Iddio avesse potuto creare un uomo avente un FORMALE PECCATO, quale egli dichiara essere LA MANCANZA DI SUBORDINAZIONE A DIO DELLA VOLONTA` (2). Obbiezione 4. Quel naturale difetto col quale Iddio avrebbe potuto crear l' uomo, S. Tommaso lo chiama peccato originale; onde per esso non intende, come voi dite, la sola parte materiale del peccato. Risposta . Può tirarne questa conclusione solo colui che non conosce la maniera di parlare del Dottore angelico. Esponiamola, e sarà tosto dissipata l' obbiezione. L' espressione giustizia naturale , come l' usa S. Tommaso, comprende 1 la subordinazione della volontà a Dio; 2 la subordinazione delle potenze inferiori alla volontà buona. Il peccato originale poi è la perdita dell' originale giustizia; e però sotto tale espressione egli intende pure 1 l' insubordinazione della volontà a Dio, che perdette per propria colpa la grazia santificante, e così rimase abitualmente insubordinata e spossata, e 2 l' insubordinazione delle potenze inferiori alla ragione. [...OMISSIS...] , dice Francesco de Sylvestris, [...OMISSIS...] . Ora talvolta S. Tommaso dà il nome di peccato originale alla sola parte materiale del peccato, come dà il nome di giustizia originale alla sola seconda parte che si può dir materiale di questa giustizia. Tutto ciò c' insegna l' accennato interprete de Sylvestris, il quale, dopo esposta la dottrina di S. Tommaso che, [...OMISSIS...] ; si fa l' obbiezione: in qual modo S. Tommaso possa dire che resta il peccato originale dopo il battesimo, mentre la concupiscenza che rimane non è peccato, perchè non è [...OMISSIS...] ; e per rispondere a quest' obbiezione e spiegare in che senso S. Tommaso dica che rimanga il peccato dopo il battesimo, ricorre alla maniera di parlare da lui usata, mostrando che secondo questa, la giustizia originale , come pure il peccato originale ha due sensi: [...OMISSIS...] . Onde quando S. Tommaso dice, che il peccato originale è [...OMISSIS...] . Quando poi dice che resta il peccato originale dopo il battesimo perchè resta la concupiscenza, deesi intendere che manca solo la seconda parte dell' originale giustizia, [...OMISSIS...] . Ora si dee osservare, che la seconda parte della giustizia originale non è essenzialmente cosa morale, ma è morale solo in quanto dipende dalla prima parte; e così del pari la privazione della seconda parte della giustizia originale non è essenzialmente peccato, ma è peccato in quanto dipende e sta unito colla privazione della prima parte della giustizia originale, ed anche allora è ciò che forma la parte material del peccato. Quando dunque nell' uomo non manca la prima parte, quando non manca la RETTITUDINE DELLA VOLONTA` SUPREMA, allora la mancanza della sola seconda parte di essa giustizia non è più veramente peccato, e nè pure materia di peccato (cessandole la qualità di materia col cessarle l' unione colla forma); e tuttavia si suol dire ancora peccato per denominazione continuata, cioè perchè fu prima tale, e così pure si dice materia di peccato: dicesi poi reliquia del peccato, perchè inclina al peccato; [...OMISSIS...] . Quando dunque S. Tommaso dice peccato a quel difetto col quale potrebbe Iddio creare l' uomo, lasciandolo alla sua condizione naturale; egli parla al modo stesso come parlò l' Apostolo, quando disse che [...OMISSIS...] . Ma il Concilio di Trento dichiarò che non è quel peccato [...OMISSIS...] . Onde noi dicemmo che tale specie di peccati [...OMISSIS...] . Così l' obbiezione che ci si faceva rimane annullata. A conferma poi della stessa verità si osservi, 1 Che non si troverà mai un passo in S. Tommaso, nel quale egli insegni che Iddio poteva crear l' uomo « con una volontà a lui insubordinata ed avversa »; nel che sta il formale del peccato originale; ma dove parla de' difetti naturali, co' quali Iddio potea crear l' uomo, mostra d' intendere costantemente dell' insubordinazione delle parti inferiori alla ragione, cioè della concupiscenza presa in questo senso, o della mortalità, della passibilità ecc.; 2 Che in quei luoghi, ne' quali si ferma il Santo a mostrare, che que' difetti naturali non sarebbero COLPA se l' uomo fosse stato creato con essi, parla di que' soli difetti che non sono ESSENZIALMENTE morali, com' è l' insubordinazione e l' avversione della volontà a Dio, ma di quelli soli che acquistano la qualità di morali e di colpevoli da questo che hanno proceduto in origine da un peccato colpevole, come nel passo seguente: [...OMISSIS...] . In questo brano si vedono distinti i DIFETTI di cui si parla, 1 dal peccato libero di Adamo, 2 dalla privazione della grazia, e si dicono effetti dell' uno e dell' altra. Non sono adunque per se stessi il peccato, nè la privazione della grazia, la privazione della grazia e il vero peccato prese insieme sono cose che appartengono alla parte superiore dell' anima, e mettono in essa un' inordinazione. Prova dunque S. Tommaso, che meritano il nome di COLPA anche quei naturali difetti, che non sarebbero da sè peccato, unicamente perchè vennero dal libero peccato, e non si trasmettono soli, ma si trasmette per generazione anche il peccato, e venendo essi comunicati in tale compagnia pigliano anch' essi la natura di peccato e di colpa in quanto sono effetti intimamente legati col peccato. Così si debbono intendere tutti que' luoghi, nei quali S. Tommaso si estende a provare che que' difetti non hanno la nozione di peccato in sè stessi, ma la mutuano dal peccato libero che fu loro causa; divenendo anco un male fisico morale, se è prodotto dalla malizia della volontà. Obbiezione 5. Conceduto anche, che i naturali difetti di cui parla S. Tommaso quando dice, che Iddio avrebbe potuto creare un uomo con essi, non sia ciò che v' ha di formale nel peccato originale; ma solo ciò che presentemente forma la parte materiale di esso peccato, cioè la pugna della carne collo spirito, egli è da concedersi che con questa pugna l' uomo privo di giustizia non può amare Iddio sopra tutte le cose, nè naturalmente, nè soprannaturalmente. Dunque l' uomo creato da Dio con questa pugna, benchè non potesse amare Iddio sopra tutte le cose; tuttavia non avrebbe in sè peccato; stantechè Iddio non può creare l' uomo in peccato. Dunque nè pure l' anteporre la creatura al Creatore sarebbe peccato, se non dipendesse dalla libera volontà. Quello dunque che non è colpa, nè pure è peccato. Risposta . I teologi inclinati al Razionalismo cercano di descrivere la concupiscenza inferiore quale presentemente esiste nell' uomo nel modo il più mite: e giungono a dire, ch' ella non impedisce assolutamente l' uomo dall' eseguire tutta la legge naturale, e quindi, dico io, nè pure il dee impedire secondo essi, dall' amare naturalmente Iddio sopra tutte le cose (che è certamente il primo precetto anche della legge naturale), e questa a malgrado di tutte le più forti tentazioni; benchè concedano, che ella renda all' uomo tale virtù ed innocenza naturale assai difficile. Ma questo è il primo errore dei teologi razionalisti apertamente confutato da S. Tommaso in più luoghi. Il S. Dottore dà alle forze della concupiscenza due gradi; l' uno e il maggiore nell' uomo non battezzato, il quale è tale, che l' uomo non può colle proprie forze resistere a tutti i suoi assalti, ma dee cadere dopo qualche tempo di resistenza, almeno nascendogli forti tentazioni, in peccato mortale; l' altro e il minore nell' uomo battezzato; il quale è sempre vincibile colle forze, che l' uomo ha acquistato dalla grazia battesimale, usando i mezzi, che questa grazia gli presta, ma non sì, che non gl' incontri di essere da quel grado di forza leggermente ferito, cadendo ne' peccati veniali; da' quali nessun giusto, senza special privilegio, interamente si libera «( Dottrina del pecc. orig. XCVIII 7 CI) ». Ora s' attribuirà forse a S. Tommaso l' opinione che Iddio potesse crear l' uomo con quel grado di concupiscenza, col quale ora nasce, di maniera che fosse necessitato a peccare contro la legge naturale, e contro il Creatore? Qual torto non si farebbe con ciò al santo Dottore? Si adduca un solo testo dal quale apparisca ch' egli così la pensi, se si può: questo testo non fu mai addotto, nè mai s' addurrà: se ne possono all' incontro addurre molti che spiegano quant' egli sia lontano da un tale assurdo. Se S. Tommaso concede, che l' uomo lasciato alla natural sua condizione sentirebbe la pugna della carne colla mente [...OMISSIS...] , questo non determina ancora il grado della pugna: non è un dire che l' uomo creato da Dio nell' ordine naturale potesse avere quella stessa terribil lotta che ha di presente, perocchè di presente, [...OMISSIS...] . Dove mai dice questo S. Tommaso dell' uomo creato da Dio senza peccato e lasciato da lui all' ordine della natura? Di presente l' uomo che non può resistere alla molteplicità degli assalti della concupiscenza, benchè resister potrebbe a ciascuno, quando cade stretto in tali angustie ACCONSENTE, che senza qualche consenso non si dà certamente peccato, all' incontro nell' uomo creato da Dio senz' ordine soprannaturale non pone mai il santo Dottore alcun NECESSARIO CONSENSO AL MALE, ma solo un SENSO; perocchè dice [...OMISSIS...] . Non intende adunque di dire che Iddio potesse creare un uomo colla stessa lotta, colla quale or nasce l' uomo caduto, l' uom peccatore; ma con un' altra specie di lotta, che nè sarebbe peccato, nè l' indurrebbe mai necessariamente a peccato alcuno. Dunque l' uomo presente, secondo S. Tommaso, è moralmente guasto nella natura, a differenza di quell' uomo, che Iddio potesse creare nell' ordine naturale; il quale sarebbe sì limitato , ma non guasto . E perchè splenda ancora più chiara la dottrina dell' Angelico, si consideri, che l' obbiezione, che ci fa, parla d' una concupiscenza, colla quale l' uomo non potrebbe sempre amare Iddio sopra tutte le cose, nè pure naturalmente. Tale è certamente la concupiscenza, che, secondo S. Tommaso, trae seco uscendo alla luce l' uomo di presente. Ma si osservi, che una tale concupiscenza non è meramente quella che abbiamo designato come la seconda parte del peccato d' origine, e che spesso concupiscenza si dice; ma ell' è una concupiscenza che abbraccia tanto la prima (l' insubordinazione della volontà a Dio) quanto la seconda parte di esso peccato (l' insubordinazione delle potenze inferiori alla ragione). Poichè anche in questo senso si usa spesso la parola concupiscenza da S. Agostino, da S. Tommaso, e da tutta l' ecclesiastica tradizione. Ora, quando sotto il nome di concupiscenza s' intende non solo la semplice parte materiale del peccato d' origine, ma anche la formale, allora si verifica, che la concupiscenza è il peccato stesso originale, allora è una concupiscenza « cum privatione originalis justitiae », presa l' originale giustizia per l' ordinazione e la dirittura della volontà che è uno de' due sensi assegnatile. E questa concupiscenza è quella che ha forze sì potenti da captivare l' uomo sotto il peccato, e da trarlo nel consenso del peccato, se lungamente senza grazia dimora. Che alla concupiscenza vengano sì sformatamente accresciute le forze dalla stortura della volontà superiore, dov' è il formale del peccato d' origine, l' insegna espressamente S. Tommaso, e lo spiega così: [...OMISSIS...] , parole che S. Tommaso dice per dimostrare che presentemente l' uomo privo della grazia santificante non può rimanere a lungo senza mortalmente peccare. La concupiscenza adunque che impedisce l' uomo dall' amare Iddio sopra tutte le cose è quella che è unita colla parte formale del peccato, consistente nell' insubordinazione della volontà a Dio. Ma abbiamo veduto rispondendo alla quarta obbiezione, esser mente di S. Tommaso, che coll' insubordinazione della volontà a Dio, Iddio non potrebbe costituire mai un uomo. Dunque cade l' obbiezione quinta (1): dunque è falso che Iddio potrebbe crear l' uomo con una tale concupiscenza; o che il preferire qualche creatura al Creatore, l' amar più quella che questo, potesse mai non esser peccato; o che la natura umana presentemente sia solo spogliata de' doni gratuiti e non anco ferita nelle parti sue naturali, non certo ne' principii essenziali, ma quanto alle perfezioni accidentali (2). Obbiezione 6. Almeno voi dovete accordare, che « il sentire una qualche lotta della carne collo spirito »consegue dai principii della natura umana, e quindi si troverebbe in un uomo creato da Dio senza la grazia santificante. Risposta . Questa obbiezione eccede i confini della questione. Noi avevamo tolto a provare che l' uomo presentemente non solo è spogliato della grazia, ma è ferito moralmente nella sua stessa natura; e questo è provato coll' autorità di S. Tommaso, disciolte tutte le obbiezioni che si potevano fare per eludere l' autorità sua di tanto peso nella cristiana teologia. Ma per soprappiù rispondo anche a questa sesta obbiezione, osservando, che si possono distinguere tre necessità venienti dalle potenze inferiori: 1 necessità, di meramente sentire, [...OMISSIS...] . 2 necessità, di provare tentazione nella volontà di guisa che la volontà viene incitata ad amare qualche cosa contro l' ordine morale, [...OMISSIS...] . 3 necessità, di consentire alla tentazione o tentazioni moltiplicate, [...OMISSIS...] . Quest' ultima è la trista necessità dell' uomo caduto, che descrive S. Tommaso quando dice, che l' uomo, senza la grazia divina, non può a lungo astenersi dal peccato mortale. Questa necessità non indica solo la nudità della grazia santificante , indica una profonda mortal ferita nella stessa natura morale dell' uomo. Fu provato, che a questa Iddio non potrebbe abbandonare un uomo da lui creato, ciò sconvenendo alla sua infinita bontà e santità. La seconda necessità è quella che si trova nell' uomo caduto, ma rigenerato, è la madre feconda delle venialità. Anche questa è una trista necessità, un vero male morale. Nè pure a questa, diciam noi, potrebbe Iddio abbandonare l' uomo che uscisse senza grazia dalle sue mani (2). Quanto poi alla prima necessità, quella di sentire meramente ciò che è sensibile, senza che la volontà sia eccitata a preferire il bene sensibile al suo dovere, non volendolo il libero arbitrio (1): questo non è certamente un male morale, nè un morale difetto. Dove la volontà non entra affatto con atti disordinati, non ci può essere immoralità: ogni immoralità supponendo qualche attività volontaria. Ora, se questa necessità di sentire sia in qualche parte condizione della natura umana lasciata a sè stessa ed eccellentemente compaginata, questa non è questione teologica; ma meramente filosofica. Si può opinare l' una e l' altra cosa senza pregiudizio della fede. E però si può opinare che Iddio potesse crear l' uomo nell' ordine della natura con questa necessità di sentire, se si tiene ch' ella sia una necessaria limitazione della natura, e si può opinare il contrario, se si tiene che l' uomo anche naturalmente, supposta la natura sua perfetta nell' ordine naturale, dovesse avere un libero arbitrio così signore della volontà da impedire a questa, col suo imperio, anche i primi spontanei movimenti, le prime tendenze attive verso il bene sensibile, opposte all' ordine morale, o a prevenire l' atto stesso del senso. Aggiungerò due osservazioni: 1 Alcuni teologi avvisano, che l' uom primo costituito in grazia non soggiaceva nè pure alla necessità di sentire, [...OMISSIS...] dice il De Rubeis, [...OMISSIS...] . Quello che è certo si è, che la sensazione non avrebbe attratto e nè pur cominciato ad attrarre necessariamente la buona volontà: questa avrebbe potuto impedire ogni lusinga della sensazione sopra di sè con un amore assoluto e non comparativo al proprio dovere. Onde S. Agostino, [...OMISSIS...] . 2 Que' teologi i quali sostengono possibile lo stato di natura pura , intendendo per esso una condizione, nella quale l' uomo sentirebbe la pugna della concupiscenza colla volontà buona, a tale che questa non potrebbe sempre resistere, ed amare Iddio per lungo tempo sopra ogni cosa, questi teologi, dico, nello stesso tempo che dichiarano possibile questo stato dell' uomo, non intendono di lasciar veramente l' uomo ignudo di aiuti gratuiti; ma anzi dicono, che Iddio supplirebbe al bisogno con aiuti ordinarii e speciali, i quali però essendo transeunti e non abituali non impedirebbero che si potesse quello dire « stato di natura pura. »Così Tommaso di Lemos, [...OMISSIS...] . Aggiungiamo alle addotte, altre testimonianze ancora, le quali dimostrino che il parlare di tutta la tradizione ecclesiastica esprime continuamente non già solo uno spogliamento de' doni gratuiti, ma un guasto profondo nella stessa natura. 1 Un gran numero di scrittori ecclesiastici antichi e moderni dicono chiaramente, che la volontà dell' uomo che nasce è curva verso il male, di guisa che convien ritorcerla indietro affine d' addurla alla rettitudine della legge divina, come appunto si farebbe d' un pallone storto. S. Ilario di Poitier commentando quelle parole del salmo [...OMISSIS...] . Si parlerebbe egli d' un vizio opposto alla legge di Dio, da cui conviene togliere il cuore; per dire che il cuore è naturalmente retto? Tanto più che trattasi d' un cuore che già ha la grazia colla quale può staccarsi dal vizio della natura. Che cosa sarebbe questo vizio nel sistema de' nostri Anonimi? La natura spoglia della grazia? no. Che dunque? 2 Se la natura non fosse che spogliata della grazia, basterebbe vestirla di questa, e sarebbe tolto il suo difetto. Ma non così le scritture ed i padri descrivono la giustificazione dell' uomo. S. Paolo parla della deposizione dell' uomo vecchio, e della vestizione del nuovo. Che uomo vecchio ci sarebbe a deporre, se la natura non ha alcun male in se stessa? Dovrebbe bastare di rivestire l' uomo vecchio, senza deporlo, anzi conservandolo tutt' intero. Al tenor dell' Apostolo consuonano i padri. S. Ilario di Poitier così descrive la giustificazione: [...OMISSIS...] . Se la natura umana è di presente senza difetto, che cosa avrebbe ella da deporre? Nulla: avrebbe solo da vestir la grazia. Medesimamente le Scritture, i Concili e i Padri non dicono solo che diventa novo, ma prima dicono che viene seppellito nella morte di Cristo, [...OMISSIS...] , dice S. Leone, [...OMISSIS...] , che è il costante insegnamento di S. Paolo, [...OMISSIS...] (esprime la remozione di ciò che v' ha di male nell' uomo), [...OMISSIS...] (esprime il vestimento della grazia di cui l' uomo viene coperto, deposta la reità del peccato) (3). 3 I Padri non parlano solo de' doni che abbiamo perduto col peccato di Adamo, parlano d' un male positivo, che abbiamo ricevuto dentro di noi. Così S. Gregorio Nazianzeno: [...OMISSIS...] . Questa pravità, questa malvagità non può certo significare un semplice spogliamento della grazia: è qualche cosa che si riceve dentro di se, non qualche cosa che si lascia. Medesimamente il mal dell' uomo si chiama da' Padri un veleno comunicatogli dal serpente, e un veleno non indica una semplice perdita del bene, ma un vero acquisto del male. Così Origene nel commento sulla Cantica, esponendo le parole del Salmo XLII, v. 1, [...OMISSIS...] . La tradizione ebraica parla costantemente d' un veleno nascosto nel frutto vietato, che guastò la costituzione intera dell' uomo (2). 4 Quindi anche il peccato originale si chiama costantemente un morbo , un languore della natura, un contagio , una tabe: parole tutte non significanti un mero spogliamento del vestimento soprannaturale, ma un vero guasto nella naturale costituzione fisico7morale. Così S. Basilio: [...OMISSIS...] . E S. Ambrogio di Cristo, [...OMISSIS...] . S. Anselmo poi, [...OMISSIS...] . 5 I santi Padri di più distinguono espressamente fra lo spogliamento de' doni supremi, e le ferite della natura, e attribuiscono l' uno e l' altro effetto al peccato originale: applicandogli la parabola del Samaritano non solo spogliato dai ladri, ma ancor ferito. Così S. Ambrogio: [...OMISSIS...] ; dove anche chiaro apparisce che S. Ambrogio non mette la morte, l' uccisione dell' uomo nel semplice dispogliamento della grazia, ma nella disorganizzazione morale prodotta dalla ferita del peccato. 6 I padri e i dottori dicono oltracciò, che l' uomo nasce lordo, macchiato (4), immondo, infetto, espressioni tutte che lungi dall' esprimere una semplice privazione della grazia, indica una positiva deformità rimasta nella natura umana. Così il Venerabile Beda: [...OMISSIS...] . E prima di lui S. Ambrogio: [...OMISSIS...] . Da' quai luoghi si vede, come il gran vescovo milanese fissava l' occhio sulla corruzione annessa alla generazione per ispiegare il contagio del peccato astraendo dalla nozione di colpa. Prima però ancora di S. Ambrogio, lo stesso Origene, quando parlò guidato dalle parole della scrittura, descrisse il peccato originale come una verissima sordidezza della natura umana non pur nuda, ma sozza: [...OMISSIS...] . 7 Sono i santi Padri eloquentissimi a descrivere i mali profondi, che il peccato d' origine produsse nella natura. Ecco alcuni de' loro passi. S. Giovanni Grisostomo: [...OMISSIS...] ; passo recato anche da S. Agostino contro i Pelagiani (6). S. Atanasio: [...OMISSIS...] . Ci si dica, quando volessero dire solamente che nell' uomo ora è solo la privazione della grazia, colla qual privazione Iddio potrebbe crearlo, non avrebbe potuto dirlo schiettamente? E che di più facile? O avrebbe detto in quella vece che tutte le cose sono ora contaminate, tutte perturbate? Che il paradiso sia chiuso all' uomo senza grazia, s' intende; ma perchè aperto l' inferno? perchè nemico il cielo? Come si potrebbe significare più vivamente il guasto dell' umana natura, che dicendo l' uomo corrotto, e divenuto simile a' giumenti? potrebbe Iddio creare un uomo corrotto? e a vili giumenti somigliante? o l' uomo che fosse senza la grazia, ma colla natura del resto perfetta, potrebbe mai a' giumenti paragonarsi? E se la natura fosse rimasa senza difetto e sol priva dell' ordine soprannaturale, come potea dire S. Gregorio di Nazianzo: [...OMISSIS...] . Anzi dovea dire: « non son caduto che dall' ordine soprannaturale: del resto ho tutto il mio: sto ancor bene: sono ancor sano: non sono dannato ». E come Cristo avrebbe salvato tutto l' uomo, se tutto non fosse perito? se fosse perito solo quanto all' ordine soprannaturale, v' avea una parte nell' uomo, che non avea bisogno di Cristo, e quest' era tutta intera la natura umana, nella quale, secondo i nostri teologi, non v' ha difetto alcuno. Ma il parlar della Chiesa è ben altro: ella non si stanca di ripetere il concetto, che Tertulliano così espresse: [...OMISSIS...] . Del pari, potea esprimersi con più di chiarezza la corruzione della natura umana ed il bisogno della ristorazione operata da Cristo, di quel che facesse S. Cirillo di Gerusalemme in quelle parole, [...OMISSIS...] . . E non si contentano i Padri e i maestri in divinità di esprimere con parole traslate il guasto intimo, che nell' ordine naturale recò all' uomo il primo peccato: lo dichiarano anche in parole proprie. L' esser privo meramente di grazia non costituisce alcuna malizia; ma la tradizione tutta vede nell' anima dell' uomo espressamente LA MALIZIA, il disordine morale. S. Ilario di Poitier dice: [...OMISSIS...] . La qual malizia è così descritta da S. Bonaventura: [...OMISSIS...] , or non si ferma qui il santo, come gli Anonimi fanno, ma seguita: [...OMISSIS...] . Ora la natura umana senza alcun vizio contratto, ma sol privata dell' ordine soprannaturale, sarà ella d' indole così maligna, da dover esser priva dell' abito di tutte le virtù, prona ad ogni genere di colpa, soggetta alla concupiscenza, schiava e schiava del demonio? Il dirla tale per se stessa, non sarebb' egli un rovesciare, non che altro, nel Manicheismo? Questo appunto dicevano i manichei impugnati da S. Agostino. Ma udiamo anche Gersone, com' egli descriva la malizia, che col peccato d' origine l' uomo ha contratto: [...OMISSIS...] . Tale è la definizione di Gersone. Ora la natura pura avrà ella un' abituale avversione a Dio? quest' abito può egli esser creato da Dio stesso colla natura? o l' abito non è sempre cosa distinta dalla natura che lo riveste? La natura umana, secondo Gersone, non solo ha deposto l' abito della grazia, ma vestito altresì quello dell' avversione a Dio, il quale la rende inchinevole a negare la giustizia a chi è dovuta. Pur seguitiamo ad udire il Gersone. [...OMISSIS...] Di che poi conchiude così: [...OMISSIS...] . Ora avrebbe potuto Iddio creare un uomo nel qual fosse « carentia utriusque partis justitiae », secondo che s' esprime Gersone? quei teologi cattolici che sostengono la possibilità dello stato di pura natura, o come si potrebbe chiamare di natura non intera, aggiungono, come vedemmo, che Iddio supplirebbe al bisogno con degli aiuti speciali, ma in tal caso, cessa la questione (2): questi aiuti speciali sono appunto quelli che dimenticarono nella penna i nostri Anonimi; e così s' allontanarono dalla sana e comune dottrina. 9 S. Giovanni Crisostomo rassomiglia la corruzione dell' anima pel peccato alla corruzione e dissoluzione del corpo, e l' attribuisce al primo peccato [...OMISSIS...] . Questa somiglianza tra la corruzione dell' anima pel primo peccato e la corruzione del corpo torna frequente negli scrittori ecclesiastici; mi valga in esempio un brano di Raimondo Sabunde [...OMISSIS...] . Dalle quali maniere di parlare si scorge 1 che i dottori cattolici non ripongono la morte dell' anima nella mera privazione della grazia, ma in un guasto simile a quello della disorganizzazione del corpo; 2 che l' anima così corrotta e macchiata dal peccato, com' è di presente, non poteva uscire dalle mani del Creatore. 10 Sono del pari gli antichi maestri costantemente intesi ad assegnare la sede dell' original peccato nella volontà, descrivendo il disordine, e l' impotenza di questa al compiuto bene. Così S. Gregorio Nisseno: [...OMISSIS...] . S. Macario d' Egitto (an. 370) distingue espressamente tra la perdita della grazia che dà diritto alla visione beatifica, e il possesso della propria natura che s' ha per la volontà ben ordinata; e dice non solo quella perita pel peccato, ma ben anco questa: [...OMISSIS...] , che è la grazia santificante. Questa perdita della possessione della propria natura fu oggetto d' una definizione di Papa Celestino, il quale in uno de' celebri suoi capitoli dice: [...OMISSIS...] . Il che Teofilatto ascrive agli affetti pravi, che opprimono l' uomo. [...OMISSIS...] . Sarà ella questa la natura pura dell' uomo? Sarà dunque l' uomo, per condizione di sua natura, venduto al peccato, sotto il dominio del peccato oppresso dagli affetti pravi in guisa da non potere rilevare il capo? Se questo fosse natura, non sarebbe la natura per sè mala de' manichei? 11 Quindi è anco, che si rassomiglia il peccato originale ad un vincolo, che lega l' umana natura, il che è troppo più che lasciarla nuda, ma libera. Così S. Ireneo: [...OMISSIS...] . Così pure S. Gregorio Nazianzeno del Battesimo [...OMISSIS...] . E Clemente Alessandrino usava la stessa maniera di favellare: [...OMISSIS...] . Al che s' accorda il parlare di Teodoreto. [...OMISSIS...] L' esser legata è ella cosa propria della natura umana? il legame rappresenta qualche cosa di sopraggiunto alla natura, non certo una condizione della natura stessa. Essendo dunque di presente legata la natura dell' uomo, essa natura dovette esser liberata e disciolta da Cristo, frase comune presso i Padri, in esempio della quale bastino recare queste parole dello stesso Teodoreto, [...OMISSIS...] ; che ripetono quello che avea insegnato Cristo di propria bocca, allorché disse. [...OMISSIS...] . 12 Un altro argomento validissimo, per conoscere intorno a ciò la mente di S. Agostino, si è l' osservare com' egli rispose ad una obbiezione di Giuliano. Abusando questi d' un luogo di S. Basilio, argomentava così: [...OMISSIS...] . Ora se S. Agostino avesse tenuto il sistema de' nostri Anonimi, quanto gli era facile rispondere a Giuliano, che nè la natura, nè la volontá umana ritiene alcun male dalla prevaricazione d' Adamo, ma solo è priva de' gratuiti favori? Ma non venne e non potea venire nella mente d' Agostino una tale risposta, e in quella vece rispose accordando che [...OMISSIS...] . Ammetteva dunque tutta intera l' antichità, ammetteva con essa S. Agostino, un vero male annesso alla natura umana, che Iddio solo potea da essa separare. Se questo male fosse un constitutivo della stessa umana natura, di maniera che creata da Dio priva dell' ordine soprannaturale, ella dovesse seco portarlo; già s' ammetterebbe una natura subbietto essenzialmente del male: che è appunto l' errore de' manichei. 13 Ora non solo dicesi la natura legata, e serva del peccato, ma di conseguente anco schiava del demonio. S. Ottato Milevitano: [...OMISSIS...] . Nè dicano già i nostri Anonimi, che questa è una maniera traslata di favellare, perchè S. Agostino risponderebbe loro, ció che rispose a Giuliano, che tentava di evadere per simili scappatoi, [...OMISSIS...] . Che anzi tanta si riputò l' influenza del nemico sull' uomo peccatore, che allo stesso peccato che porta in se si diede nome di serpente (3). 14 Finalmente anche dalle pene che trae seco il peccato d' origine può inferirsi lo spogliamento della grazia e il guasto della natura. Perocchè alla grazia compete il diritto della visione divina, ed all' incontro, [...OMISSIS...] . Ma colui, che muore col peccato originale non solo perde la vision beatifica o il regno celeste; ma ancora la vita dell' anima, perchè resta in lui il peccato definito dal sacro Concilio di Trento mors animae . Onde il Papa Siricio: [...OMISSIS...] , scrisse ad Imerio, [...OMISSIS...] . Vero è che noi siamo altamente persuasi, che oltre la redenzione di quegli uomini, a cui s' applicano per mezzo del battesimo i meriti della passione di Cristo, anche gli altri uomini, che muoiono senza colpa mortale partecipano della liberalità del Salvatore, il che noi chiamamo donazione di Cristo. E di questa sentenza molte autorità si potrebbero addurre, non solo de' Padri, ma delle Scritture, tra gli altri il testo del salmo citato dall' apostolo, che dice, non solo aver Gesù Cristo condotta sua schiava la schiavitù, cioè gli schiavi del demonio da lui redenti, ma ancora aver ricevuto dei doni da distribuire agli uomini: [...OMISSIS...] . Il che era figurato in Abramo, che fece Isacco suo erede, e dimise con dei doni i figliuoli delle schiave. Ed è d' altra parte di fede, che il beneficio della risurrezione è un dono fatto da Cristo a tutti gli uomini, anche ai non redenti. Onde noi già mostrammo, in un opuscolo su questo argomento, che i bambini morti senza battesimo possono benissimo, dopo la risurrezione, godere d' una naturale felicità, ma non perchè questa si appartenga loro di diritto, ma perchè è conveniente alla somma generosità di Cristo, ed alla sua gloria. Questa felicità dunque gratuitamente loro largita non può addursi a provare che il peccato originale non importi alcun disordine nell' umana natura, come vogliono i nostri teologi razionalisti, ma vale solo a provare la ricchezza e la bontà e l' amore di Cristo verso gli uomini. Lasciato dunque da parte quel che viene da Cristo come gratuito suo dono, e considerata la natural pena del peccato originale ne' bambini, questa è la morte, non pur del corpo, ma dell' anima, che nell' altra vita consisterebbe in uno stato d' eterna inazione, conservata solo all' anima intellettiva l' immota intuizione dell' essere, per la quale esiste. Il peccato originale dunque, cui l' uomo riceve coll' esser generato, è un male morale , e questo necessario . Dunque si danno de' mali morali necessarii. Questo male morale necessario viene nella sua origine rimota da un atto di libera volontà commesso dal primo padre: dunque il male morale è necessario nella sua prossima cagione, ma ha in pari tempo per cagione rimota anch' esso, la libertà. Che anzi la libertà umana dee essere sempre la cagion rimota de' mali morali necessarii, perchè altrimenti si farebbe autore di essi Iddio, o la natura mala, cadendo nel Manicheismo. Tali sono le dottrine della Chiesa: i teologi razionalisti le accusano di Calvinismo e di Giansenismo: di cui sono un documento gli ultimi opuscoli anonimi. Noi ci faremo ad esaminare di nuovo la questione in tutta la sua generalità. Due sono i principali errori de' calvinisti e de' giansenisti intorno all' umana libertà: Essi sostengono 1 Che l' uomo nello stato di natura caduta abbia perduto interamente ogni libertà, di maniera che egli al presente operi sempre necessariamente; operando il bene quando prevale in lui il peso della grazia, e operando il male quando prevale in lui il peso della concupiscenza, senza poter fare altramente; 2 Che operando con una tale volontà necessitata, l' uomo nello stato presente meriti, o demeriti. Tutti gli errori essendo abbinati, come sono sempre abbinati gli estremi, quali saranno gli errori opposti ai due errori calviniani e gianseniani sopra enunciati? I seguenti: 1 Che ogni atto dell' umana volontà sia essenzialmente libero, e la parola volontario non abbia altro significato che quello di libero , e che non sia nè pure atto umano quello che non è libero; sicchè l' uomo operi sempre con una libertà d' indifferenza; 2 Che perciò nella sfera delle cose morali non v' abbia che il merito e il demerito; non potendosi dare moralità buona o cattiva, che sia necessaria. Questi dunque sono i due estremi. Che cosa sente la Chiesa cattolica? Ella cammina dirittamente nel mezzo, e decide contro i primi: 1 Che la libertà d' indifferenza non è perita nell' uomo; 2 Che non si dà merito o demerito nello stato di natura caduta se non allora che l' uomo opera colla detta libertà di indifferenza. Decide ancora contro i secondi: 1 Che l' uomo non opera sempre con libertà d' indifferenza, ma che talora egli opera con una volontà priva di coazione, ma non priva di necessità; senza però che allora meriti nè demeriti; 2 Che quando la volontà umana soggiace alla necessità, se tale necessità è moralmente buona, viene da Dio; se ella è moralmente cattiva, viene da un abuso precedente della libertà umana, fatto o dall' uomo stesso in cui quella trista necessità si ritrova, ovvero dal primo padre; di maniera che ogni qual volta vi è la necessità nella causa prossima (la volontà istante), vi è o vi fu la libertà nella causa rimota (la volontà che liberamente produsse quel malo stato della volontà). Ora chi imprende a difendere la dottrina della Chiesa cattolica, converrà, per ragion di chiarezza, che incominci a distinguere due questioni. Poichè 1 Altro è il dimandare, se, considerata la sola natura della volontà umana, questa abbia due maniere di esser disposta, e di operare, l' una necessaria, e l' altra libera; e posto che sì, se operando il male morale colla volontà libera in causa, ma all' istante necessitata, o avendo allo stesso una suprema propensione, ella contragga od abbia in sè qualche specie di deformità morale; e 2 Altro è il domandare, se, posto il presente ordine di cose e la caduta adamitica, Iddio permetta di fatto, che la volontà umana soggiaccia talora alla necessità del male. La prima è questione astratta e filosofica; la seconda è questione di fatto e teologica, questa è legata con quella, non è quella. Noi cominceremo dalla prima: considereremo la volontà umana in sè stessa, e cercheremo se per sua natura questa volontà abbia i detti due modi di operare e di esser disposta, il necessario ed il libero; e se aderendo al male morale necessariamente, ella contragga o no qualche deformità morale. La prima parte di questa questione si dee sciogliere affermativamente per consenso di tutti i teologi cattolici e de' filosofi. Che la volontà dunque di sua natura abbia i due detti modi di operare il volontario ed il libero, non è a spenderci altre parole. Resta solo che vediamo se, dato che la volontà aderisca necessariamente al male, ella contragga da questa adesione per ciò solo una deformità. S' avverta che qui si tratta di un male morale che sia tale per essenza, com' è l' odio di Dio o del prossimo, l' amore della menzogna, l' amore disordinato di se stesso, e simili, e non che sia male solamente perchè vietato dalla legge positiva; giacchè in quest' ultimo caso non può aver luogo la questione, cessando ogni legge positiva qualora la volontà non possa adempirla. Sosteniamo dunque, che posta l' adesione al male morale della volontà, questa, anche se come soggetto o causa prossima di quell' adesione (1) soggiace alla necessità, dalla stessa e sola adesione contrae una deformità morale. Ed eccone brevemente le prove. I E` di fede che l' anima volitiva contrae necessariamente il peccato originale, e ne riceve una macchia, una deformità (1). Dunque non si può negare, che il male morale che aderisce all' anima, anche con necessità, perciò solo che le aderisce, la deformi; II Non vi sarebbe possibilità di precetto vetante il male , se il male non fosse tal cosa che deforma la volontà che in qualunque modo le aderisce; poichè male , ossia « oggetto moralmente cattivo (2) »altro non vuol dire, se non ciò che, informando la volontà, la disordina; e senza un male, un oggetto da fuggirsi, non può esservi precetto che ne ordini la fuga. Distinguansi bene le varie maniere di concepire l' oggetto. C' è l' oggetto materiale , che è la cosa considerata in se, per esempio Dio e il prossimo in se stessi; non è questo, a cui si riferisce prossimamente la legge vetante. C' è l' oggetto intellettuale , per esempio Dio e il prossimo presenti meramente all' intelletto; nè pur a questo si riferisce prossimamente la detta legge. C' è finalmente l' oggetto morale , cioè l' oggetto in quanto è amato ovver odiato: questo è l' oggetto prossimo della legge vetante. La legge vieta l' odio di Dio e del prossimo . L' oggetto prossimo della legge vetante è dunque ciò che prossimamente produce la deformità della volontà: la legge vieta quella mala adesione . L' odio di Dio e del prossimo per sè ed assolutamente la deturpa. Il male morale dunque è una deordinazione della volontà, la quale è tale in sè stessa, senza bisogno di sapersi s' ella sia stata prodotta necessariamente o liberamente. Essendo mala in se stessa, la legge la proibisce: quella malvagità è anteriore alla legge o al precetto, è fondata nella natura delle cose. Ella è quella che rende possibile il precetto. Questo viene dopo, e non parla che alla libertà , non obbliga che la libertà; la quale se obbedisce al precetto merita, e se disubbidisce, demerita. Ma se la libertà non esiste; se altro non vi ha nell' uomo che la volontà necessitata; la deordinazione di fatto non può mancare, benchè senza demerito, e quella deordinazione è una immoralità; perchè risiede nella volontà; e se questa è suprema nell' uomo, come accade nel bambino non battezzato, dicesi ed è peccato. Egli è vero, che la volontà potrebbe disordinarsi anco in quella sola parte che è libera. Questo è il caso del precetto positivo che è dato alla sola libertà; ond' anco non ammette che una specie sola d' immoralità, il demerito. E tuttavia, come dicevamo, anch' egli si riferisce ad un male reale esistente nella natura delle cose; qual' è l' inobbedienza , che si può definire la deordinazione della libertà . III Se mancasse il fondamento nella natura della cosa, se mancasse il male oggettivo, la deordinazione della volontà , o necessitata, trattandosi di cose intrinsecamente cattive, o libera, trattandosi anche di precetti positivi; se mancasse in una parola l' oggetto prossimo del precetto, nè pure potrebbe esservi colpa; appunto perchè come abbiamo detto al numero precedente non si dà possibilità di precetto, senza un male morale , oggetto del precetto. E però S. Tommaso dopo aver parlato del peccato semplice e della sua deformità intrinseca dicendo, che ella consiste nel deviare della volontà dal fine ultimo dell' umana vita, [...OMISSIS...] passa alla colpa, aggiungendo, ET IDEO (cioè essendovi precedente il male morale da evitarsi dall' umana libertà, che se non ci fosse, la colpa non sarebbe possibile) [...OMISSIS...] ; mostrando così, che anteriormente alla colpa c' è il male morale; e che perciò s' incolpa l' uomo che opera liberamente [...OMISSIS...] , perchè opera il male, perchè commette il peccato, che è l' oggetto della colpa, e della stessa legge vetante. IV Altra prova validissima io deduco dalle perniciose conseguenze della dottrina opposta. Sia vero, come vogliono i teologi razionalisti, che in quel tempo, nel quale l' uomo è privo di libertà nel suo operare, non vi avesse male morale di sorte alcuna. In tal caso quest' uomo non sarà obbligato a cercare i mezzi di accrescere le sue forze morali, non sarà obbligato neppure a domandare da Dio aiuto coll' orazione. Poichè a qual fine lo dimanderebbe? per evitare un male morale, no; chè egli non fa alcun male morale fin che è necessitato; e quando non è necessitato, egli non ha bisogno d' aiuto; può evitare il peccato colle sue forze: [...OMISSIS...] dice S. Agostino, [...OMISSIS...] . Nè vale il dire che il peccato, che commetterebbe negligentando d' accrescere le sue forze, è libero nella causa rimota; perocchè questa risposta supporrebbe quello che si nega, cioè che ci fosse un male da evitare; mentre si sostiene, che l' uomo costituito in necessità non fa alcun male, non ha per questo peccato, checchè egli faccia. Nè pur questa necessità è cosa cattiva, ch' egli debba cercar di evitarla, nel sistema de' nostri teologi; perchè cattiva non può essere, se non ha un oggetto cattivo, ma il suo oggetto cessa d' esser cattivo in faccia ad essa: negandosi che una volontà necessitata abbia un oggetto veramente cattivo che la deturpi. V Ebbe torto dunque, secondo questi maestri, nostro Signor GESU` Cristo, quando mise in bocca de' suoi fedeli quelle parole, « Et ne nos inducas in tentationem », parole tutt' al più utili, secondo il loro sistema, a renderci la fuga del male più facile, ma non necessaria, perchè o possiamo evitarlo colle nostre forze, o, se non possiamo, non è male; nè male è la necessità di commetterlo; rimanendo anzi per essa distrutto il male. Che anzi questa necessità in un tale sistema meriterebbe di dirsi buona, e dovremmo procurarcela. Ebbe del pari torto S. Paolo, quando consigliò a maritarsi coloro che non si potessero contenere, dicendo che « melius est nubere quam uri », giacchè, secondo i nuovi maestri, o l' uomo si può sempre contenere, o almeno chi non si può contenere, non fa male, se non si contiene; e però è inutile cercare un mezzo d' evitare ciò che non è male. Anche il sacro Concilio di Trento dee aver dato una ragione mal fondata, per non isciogliere i cherici costituiti negli ordini sacri, e tentati contro la castità, dalla legge del celibato, dicendo, che colla preghiera essi poteano bene ottener da Dio la grazia della continenza (1). I nostri maestri avrebbero dato una risposta più facile: Chi non può contenersi, non fa male ponendo l' opere della carne. In somma la dottrina che non vuole riconoscere altro male morale deformante la volontà e l' anima umana che il libero , distrugge la pietà ed apre l' adito ad ogni scostumatezza ed empietà, e questa è appunto una gran causa del lassismo in morale. VI Qui ritorna ancora, chi ben considera la questione circa i peccati d' ignoranza, che hanno una causa prossima non libera. Pelagio e Celestio che negava furono condannati dalla Chiesa (2). E condannati perchè il peccato originale si contrae pure ignorantemente e necessariamente, e pur esso è peccato, sicchè chi non riconosce peccato dove non v' è cognizione attuale , viene a negare l' originale infezione quanto colui, che non riconosce peccato dove non v' è libertà . Furono dannati ancora perchè al peccato originale riduconsi certi atti peccaminosi, in cui l' uomo, se non ha la grazia di Cristo, necessariamente cade, notar dovendosi, che qui intendesi per ignoranza non una mera nescienza , ma un errore del giudizio affascinato nelle cose morali dalla passione. [...OMISSIS...] . I quali atti, qualora del solo peccato d' origine sono effetti, non hanno altra colpa diversa che quella dello stesso originale peccato. In terzo luogo ancora furon dannati perchè venivansi con ciò ad escludere i peccati commessi per ignoranza invincibile , di quelle cose, di cui ha l' uomo dover d' istruirsi: dovere che egli non punto avrebbe, se non si desse un peccato, che non cessi d' esser peccato anche in chi ignora che sia. Conciossiachè e come mai potre' io avere obbligazione di conoscere i miei doveri, se, non conoscendoli, già non pecco? Conciossiachè se non li conosco non posso eseguirli, se non posso eseguirli, non sono più obbligato. Laonde io farò anzi bene a conservare la mia ignoranza, che mi lascia libero di far ciò che voglio senza però peccare! Laonde nella Censura fatta da molti Vescovi dell' « Apologia pe' Casisti (1) », già condannata anche dall' Apostolica sede con suo decreto del 21 Agosto 1659, si proscrissero più proposizioni, perchè [...OMISSIS...] . S. Tommaso dunque ha ragione, e han torto i moderni teologi che negano il male morale in causa prossima necessario, quando dice, che l' ignoranza vincibile non iscusa dal peccato, dando di ciò la ragione seguente: [...OMISSIS...] . VII Queste ultime parole mi conducono a por qui una settima ragione che prova l' esistenza d' un male morale nella sua causa attuale ed instante necessario, benchè libero nella causa rimota. I teologi morali si propongono la questione: se chi si mette nell' impossibilità di adempire alle sue obbligazioni pecca poi col non eseguirle. Alcuni rispondono, che non pecca in actu , ma solo in causa . Il Bolgeni si oppone, sostenendo, che pecca in causa ed anche in actu . [...OMISSIS...] . Se fosse vera la sentenza di questo autore, avremmo qui de' peccati necessarii in causa prossima. Io non di meno non posso acconsentirgli (2), ma trovo di dover distinguere. O l' atto peccaminoso che quest' uomo fa per necessità è un attuale deordinazione della sua volontà; o no. Nel primo caso c' è un nuovo male morale in lui; nel secondo, tutto il male morale sta nell' ommissione o commissione libera, per la quale s' è messo nella necessità di peccare. Poniamo il caso dell' uomo, che vinto dal talento di bere s' ubbriaca a malgrado ch' egli prevegga che nell' ubbriachezza commetterà molti altri peccati. L' ubbriacarsi è un peccato che comprende tutti i peccati da lui preveduti, li faccia o no; e in questo senso (in causa) è reo di tutti. Ma sarà egli vero, che come vuole il Bolgeni, faccia altrettanti peccati attuali, quant' egli ne farà di fatto? Ne verrebbe l' assurdo, che se de' preveduti da lui ne facesse di più, sarebbe più reo, se ne facesse di meno, sarebbe meno reo: ora il farne di più o di meno, non dipende ormai più dal suo libero arbitrio. Dico dunque, che una sola è la colpa che comprende tutti i peccati preveduti, almeno in confuso, non tutti i peccati realmente commessi nello stato di ubbriachezza. Ma poi tra questi peccati che commette ubbriaco e di cui nella causa è colpevole, ve ne posson essere di quelli che sono anche peccati in atto, benchè non colpe; ed altri che in atto non sono nè colpe nè peccati. Perocchè è solo peccato nuovo ciò che pone una nuova inordinazione della volontà. Laonde se ubbriaco facesse degli atti d' odio di Dio, e del prossimo; atti che puó e conoscere e volere anche un ubbriaco; questi disordinerebbero la sua volontà, benchè fosse trascinata a ciò dalla passione, dall' abito, o dalla mala inclinazione. Così se s' immergesse in carnalitá a cui l' eccitamento del vino il trascina, conoscendo e volendo quello che fa, chè anche un ubbriaco può conoscere e volere: la sua volontà riceverebbe un nuovo male morale: e male morale sarebbe l' inclinazione contratta a tali peccati, che in lui si rimarrebbe anche risanato dall' ubbriachezza. Ma se i peccati che fa ubbriaco non sono atti nè affetti disordinanti la volontà; come se dormendo ommettesse d' udir la messa in giorno di festa, e mancasse ad altri precetti positivi, che hanno per oggetto cose per sè indifferenti: niuna nuova inordinazione o mal morale in lui avverrebbe; eccetto quello che gli avvenne dall' atto libero, col quale si pose in quella mala necessità. Ad ogni modo nell' una o nell' altra sentenza, s' accorda ugualmente avervi un male morale, nella sua causa prossima ed attuale necessario. VIII Si dimostra la stessa tesi argomentando da diverse decisioni della Chiesa. Io mi restringo ad accennare la condanna della 2 proposizione condannata in Bajo, dalla quale si puó chiaramente inferire, che vi ha un male morale disordinante per se stesso la volontà, quando vi aderisce necessariamente o no. Essa proposizione dice: [...OMISSIS...] . Chi non intende da questa proposizione, che, secondo la Chiesa cattolica v' ha dunque un opus malum , il quale benchè ex natura sua sia malvagio; tuttavia non è demeritorio, provenendo il demerito dalla libertà e non dalla sola natura dell' opera; e che v' ha medesimamente un opus bonum , il quale benchè ex natura sua sia buono, tuttavia non è meritorio, provenendo di nuovo il merito dalla libertà (supposta la grazia), e non dalla sola natura dell' opera? E tuttavia quest' opera mala , e quest' opera buona , che se non è libera non demerita, ell' è un' opera volontaria; perocchè trattasi qui d' opere umane, d' opere ex sua natura buone e cattive moralmente, non già fisicamente: chè per essere opere buone o cattive moralmente si suppongono volute; non essendo nè buone, nè cattive nella loro entità puramente materiale (1). Adunque per far sì che un' operazione sia moralmente malvagia, basta ch' ella sia tale di sua natura; e perciò volontaria; come a fare ch' ella sia moralmente buona, basta che sia ancora tale di sua natura, e perciò all' uomo volontaria. Ma non basta già questo solo perchè si possa attribuire all' una ed all' altra il suo merito; giacchè questo ha bisogno della condizione d' una libera volontà. La Chiesa dunque condannò Bajo perchè egli distruggeva col suo sistema la distinzione tra il semplice peccato , e la colpa; e si può dire, attenendosi allo spirito ed al fondo d' una tale condanna, che contro quella eresia, ella, al suo solito, rimettesse in vigore una sì importante distinzione. IX Se il male morale coll' esser necessario cessasse per questo solo d' esser male, non sarebbe morto Cristo per salvare il mondo dal peccato. Poichè l' uman genere avrebbe potuto da se stesso esser giusto sol che adoperasse quelle forze, che restavano al suo libero arbitrio, niente nuocendogli poi il non adempire ciò che fosse superiore alle sue forze, nè lo stesso peccato originale gli avrebbe nociuto, il quale già non sarebbe stato più peccato nè male alcuno, perchè inevitabile. Laonde come l' ammettere e il riconoscere un male morale deordinante la volontà e perdente l' uomo, per se stesso, vincendo altresì la volontà soggetto o causa prossima di esso, e tenendola schiava del demonio, esalta immensamente la redenzione di Cristo e la riformazione del mondo da esso operata, e la dimostra opera d' un Dio fatto uomo; così il sistema, che riduce ogni male morale alle libere azioni fa ingiuria gravissima a Cristo, rende superflua o almeno non necessaria la redenzione del mondo, e apre il cammino al socinianismo, e all' empietà che la nega. X Ma anche la ragione naturale basta a dimostrare, che l' inordinazione della volontà è un male morale per se stesso, indipendentemente dalla ricerca se la libertà l' abbia o no come cagion prossima prodotto. Poichè la volontà è una potenza come l' altre, è una natura anch' essa, che ha le sue proprie leggi e condizioni necessarie, non dipendenti da se, o dalla sua libertà. Onde S. Tommaso colla sua solita veduta filosofica, applica al disordine della volontà, la stessa definizione, e gli stessi principii, che valgono parlando del disordine dell' altre potenze. Appunto per questa universalità di vedute, egli attribuisce alla parola peccato un senso così generale, che abbraccia anche i disordini non morali, cioè quelli che accadono nella natura, o nell' esercizio dell' arte, dicendo, che, [...OMISSIS...] . Dalla qual definizione induce, esserci tre generi di peccati, cioè peccati della natura , peccati dell' arte , e peccati della volontà; in ciascuno de' quali si verifica la definizione, perocchè ci ha peccato di natura quando la natura devia dal suo fine, ci ha peccato di arte quando l' arte devia dal suo fine, ci ha peccato di volontà quando la volontà devia dal suo fine. Si può poi conoscere, se la natura, o l' arte, o la volontà devia dal suo fine, osservando se queste potenze procedono o no secondo quella regola , che al suo fine le scorge, [...OMISSIS...] . Ora quale, dimanda egli, è la regola della volontà? Risponde. [...OMISSIS...] . Di che raccoglie quale sia il peccato della volontà dicendo, [...OMISSIS...] . Il peccato adunque della volontà, secondo l' Angelico, c' è sempre, ogni qualvolta ella si torca dalla rettitudine della legge morale, onde in universale, senza che c' entri per nulla la libertà, [...OMISSIS...] . Tutta la malvagità dell' atto volontario è cavata unicamente dall' esser quell' atto conforme alla regola o difforme da essa, ordinato o disordinato; allo stesso modo come l' atto della natura e dell' arte, dove non ci può esser libertà, è malo o buono secondo che è diritto o torto in verso alla regola sua che lo dirige al fine. Non entra per nulla la libertà prossima nel costituire il peccato, ma solo c' entra la dirittura o stortura della volontà. Ma, stabilito così da S. Tommaso in un articolo della sua « Somma », che il peccato della volontà sta nella deordinazione della volontà in verso al suo fine (5), passa nell' articolo che segue a parlare dell' accidente, in cui questa deordinazione sia libera, mostrando con ciò la differenza che passa tra il peccato della volontà di cui parla in un articolo, e la colpa di cui parla in un altro, e di cui non avrebbe parlato a parte, se avesse creduto che l' esser peccato fosse un esatto sinonimo dell' esser colpa. Nell' articolo dunque, dove egli parla di questa (1), pone per principio, che l' uomo può esser signore de' suoi atti, cioè che tutti gli atti volontarii sono in balía dell' uomo stesso, per quella forza che si giace nella sua volontà come volontà, e la libertà; e non della volontà come natura. Chè così e non altramente debbono intendersi le parole dell' angelico, [...OMISSIS...] . L' Angelico parla in generale di quello che compete agli atti volontarii come volontarii, non degli atti volontarii come naturali, essendo certo che tali atti hanno, per essenza loro, questa ordinazione e relazione d' essere sommessi alla signoria dell' uomo: il che non toglie, che per accidente avvenga poi altrimenti, perdendo l' uomo la sua signoria e libertà, o mancandogli le condizioni richieste per esercitarla, o in somma operando la volontà come natura, non puramente come volontà. L' attribuire a S. Tommaso un senso diverso, l' intendere le sue parole così materialmente, da fargli dire, che ogni singolo atto volontario è di fatto libero, è un mettere in un' aperta e indissolvibile contraddizione S. Tommaso con se stesso, che apertamente riconosce il movimento necessario della volontà (1). Attenendoci dunque al genuino senso delle parole di S. Tommaso, egli pone il principio, che [...OMISSIS...] ossia soggetto alla sua libertà. Ciò posto, raccoglie in questo modo: 1 l' atto volontario è un disordine, un peccato, ogni qualvolta devia dal fine comune dell' umana vita: [...OMISSIS...] ; 2 ma l' atto volontario di sua natura è nato ad essere in potere dell' uomo, [...OMISSIS...] . Dunque (ecco la conclusione) col peccato libero ci sono due inordinazioni, l' una quella della volontà , che è disordine dell' uomo, in quanto è uomo, in quanto la sua volontà è una natura avente le sue proprie leggi; l' altro quello della libertà , che è disordine dell' uomo in quanto è morale , intesa questa parola per idonea a dare a se stesso de' buoni o mali costumi . [...OMISSIS...] (poichè all' atto malo libero è deformata la libertà, e s' imputa perchè la sua libertà n' è la causa) (2). Si riconosce adunque e si dimostra col naturale discorso: 1 Che la volontà umana se fa un atto obliquo dal fine suo, per esempio se odia Iddio, od ama la menzogna, contrae un disordine, sia che ella aderisca così al male necessariamente, come i reprobi nell' inferno, o che vi aderisca liberamente; il qual disordine deforma e guasta la volontà umana, allo stesso modo come qualsivoglia altra potenza fisica e non libera rimane disordinata e guasta ogni qual volta ella erra dal suo proprio fine, o come dice l' Angelico [...OMISSIS...] ; 2 Che questo disordine della volontà può dirsi morale ogni qualvolta esso riguarda il fine comune della vita umana, perchè [...OMISSIS...] dice lo stesso S. Dottore, [...OMISSIS...] ; 3 Che se la volontà guasta è la suprema potenza, il supremo principio attivo dell' uomo, come accade nel peccato originale; tutto l' uomo ne riman guasto; dipendendo tutte le altre potenze di lor natura dalla prima e suprema; la personalità stessa è infetta, trovasi in istato di peccato; 4 Che se l' uomo è disordinato e guasto nel suo principio supremo, qual è la sua volontà personale, benchè ciò non sia opera della sua stessa libertà, egli non può a meno di averne qualche pena che lo impedisca dal godere una piena felicità, se questa non gli è da Dio misericordiosamente levata; perchè la piena felicità non si può dare, se non in un uomo ordinato e in tutte le sue potenze perfetto; attesochè, come dice S. Agostino, [...OMISSIS...] ; 5 Che sarebbe un manifesto assurdo l' immaginare, che una volontà disordinata, aderente per necessità al male morale fosse ricevuta in Cielo; dove tutto è ordine e bene; nulla vi può esser di disordine e di male. Onde basta che la volontà sia disordinata, eziandio che non sia libera, come accade nel peccato originale, acciocchè ella venga naturalmente esclusa dal Cielo. Di che S. Tommaso dice, che pel peccato originale [...OMISSIS...] , cioè l' anima è soggetta ad un male eudemonologico, che rispettivamente ad Adamo, causa rimota e libera di quella inordinazione necessaria della volontà, acquista il nome di poena , come il male morale, o macchia nella stessa relazione, acquista il nome di colpa. XI Di più. Egli è di fede, che [...OMISSIS...] , cioè che non può più risorgere da se stesso, ma è necessitato di starsi in istato di peccato, se Dio nol libera, quia sponte , dice S. Agostino, [...OMISSIS...] . Il qual dogma fu espresso dal Concilio di Trento: [...OMISSIS...] . Questo peccato, sotto cui è servo ogni peccatore, e di cui per natura è servo tutto il mondo, è egli necessario o libero? Fu libero prima di commettersi; ma commesso, è già divenuto necessario, chè niuno più colle sue forze [...OMISSIS...] . E bene; ne vien forse, che per esser soggetto l' uomo cosí necessariamente al peccato, il peccato non sia più peccato, o non faccia più male all' uomo, non gli deformi più l' anima? Il dirlo sarebbe manifesta eresia. Dunque si deve considerare come eresia anche il pretendere, come fanno i teologi razionalisti, che non ci sia un male morale necessario, e che ogni male morale sia libero. XII Gli abiti non meritano nè demeritano, per consenso comune de' Teologi (4). Ma perchè non meritano gli abiti cattivi , non saranno essi perciò un male morale? E non sono forse una morale inordinazione della volontà? Chi mai potrà disconfessarlo? Ci ha dunque un male morale diverso dal demerito; un male necessario, com' è l' abito; che colle sole forze nostre non si può levare, almeno all' istante. Quantunque però non possa io ammettere la dottrina dell' Estio sul demerito degli abiti; tuttavia ci gioverà riportarla. Conciossiacchè ella contiene una serie d' argomenti attissimi a provare queste due cose, 1 che l' abito malvagio è male morale , ed a Dio odioso, 2 che ha seco congiunto come naturale appendice il mal fisico , che dal morale mai si scompagna. Odasi adunque come l' Estio favella, tutto a confutazione della dottrina pelagiana, tendente sempre a ridurre ogni male morale al solo atto libero, affin di distruggere il peccato d' origine, e con esso tutta le fede di Cristo. [...OMISSIS...] Non che meritino lode o vitupero, ma che deformino la volontà umana si può mostrare con gli argomenti che seguono, i quali noi esamineremo ad uno ad uno: [...OMISSIS...] . Dall' abito non vengono di necessità le azioni delle virtù e de' vizi; che se qualche volta necessariamente venissero, non meriterebbero nè demeriterebbero pur queste. Ma come queste azioni adornano o deformano l' anima; così pure gli abiti; o sieno causa di tali azioni, o sieno solo disposizioni a porle più facilmente, con meno libertà, ma con più forza di volontà. [...OMISSIS...] La vita eterna va dietro alla giustizia infusa, e la dannazione al peccato ricevuto come una natural sequela, per l' unione intima fra il ben morale e il ben fisico, il mal morale e il mal fisico. Ma come la giustizia infusa è meritoria riferita a Cristo che per noi la meritò; così la dannazione dell' originale peccato è demeritoria riferita ad Adamo che per noi demeritò. [...OMISSIS...] Il biasimo che si dà a quell' uomo si riferisce alle azioni libere colle quali egli si pose in quello stato, ma niuno negherà perciò che quello stato sia moralmente cattivo, benchè nel dormiente almeno, necessario. [...OMISSIS...] Egli è vero che la dannazione consegue ad un' anima infetta da' vizii anche considerata questa infezione in se stessa, senza riferirla alla causa libera che la produsse; ma solo riferita a questa causa, quella dannazione dicesi meritata, e ne viene così giustificato Iddio, come ottimo autore di una natura che da se stessa liberamente decadde. Quanto poi alla giustizia ed alla santità, egli è certo che trae seco, per se stessa considerata, nell' ordine eterno delle cose, la beatitudine; e Iddio non ha bisogno di giustificazione se vuol donar questa e quella, informando la volontà della sua creatura pienamente di se, senza lasciargli nè pure la possibilità morale di contraddire a sì generosa comunicazione di bene, onde lo Suarez scrive: [...OMISSIS...] , e come fece con MARIA sua madre. Il che tutto dimostra darsi una moralità necessaria informante e attraente la volontà, e la volontà cooperante e consenziente, senza l' esercizio della libertà d' indifferenza. [...OMISSIS...] Sulle quali parole si debbono fare le stesse osservazioni che sulle precedenti; cioè che il PECCATO, ed il BENE MORALE si trova indubitatamente anche nell' abito , che è cosa di natura sua necessaria, e ha la sequela del male e del bene eudemonologico; ma che, in quanto alla COLPA ed alla LODE, quella si rifonde sempre in quegli atti liberi , che quegli abiti cagionarono. Ma gli abiti son difficili ad osservarsi e a perscrutarne la natura: onde sfuggono facilmente al pensiero degli uomini, benchè non a quello di Dio. Questo non dissi io solo (1); ma l' Estio ancora il vuol ben considerato, così concludendo il suo ragionare. [...OMISSIS...] Passiamo ora ad esaminare la seconda questione. Da tutte le cose fin qui ragionate evidentemente si dee conchiudere, che la risposta affermativa a questa questione, in generale, è DI FEDE. Solamente può aver luogo l' opinione teologica in determinare alcuni casi speciali, ne' quali s' avveri o no quella necessità. Che dunque sia di fede in generale, che v' abbia realmente un male morale, nella sua causa prossima e nel suo soggetto (la volontà), necessitato, si prova, 1 Dall' esser di fede, che i demoni ed i dannati sono in istato di peccato, del qual peccato in cui perdurano la causa prossima ed il soggetto è la loro perversa volontà; 2 Dall' esser di fede, che il bambino che nasce, prima di ricevere il battesimo, ha in sè il peccato originale, male morale, consistente in un' avversione a Dio della sua volontà, la qual volontà si mette colla stessa generazione in quell' atteggiamento per l' attraimento della carne; onde anche qui la causa prossima è necessitata; e il soggetto necessitato. Da questo poi avviene, che tutto il genere umano per se stesso considerato, quale è costituito dalla generazione, dicesi dall' Apostolo MASSA CORRUPTA, di corruzione non già fisica solamente, ma anche morale; come pure vien provando l' Apostolo, colle antiche Scritture che accennano gli effetti, che provano la natural corruzione, [...OMISSIS...] . Laonde S. Giovanni parlando della natura umana: [...OMISSIS...] . Tutto il genere umano dunque, di sua natura, e senza la grazia di Cristo, soggiace ad un MALE MORALE NECESSARIO, benchè libero nella causa remota (6); male che di sua natura lo perde eternamente, se Cristo non entra a salvarlo: indi la NECESSITA` ASSOLUTA DELLA REDENZIONE e della grazia per conseguir la salute, secondo la definizione della Chiesa: [...OMISSIS...] . Questo MALE MORALE NECESSARIO, a cui tutto l' uman genere soggiace dall' origine sua, trae seco, di sua natura, cioè prescindendo dalla virtù di Cristo che accorre a impedirlo, delle REE CONSEGUENZE MORALI NECESSARIE. Anche questo è di fede in generale parlando, e solamente entra l' opinione teologica, quando trattasi di determinare i confini di queste ree conseguenze necessarie . Alla fede appartiene. I Che l' uomo per se solo, senza l' aiuto della grazia di Cristo, non può, assalito da gravi tentazioni, star lungamente senza cadere in qualche peccato; ossia non può adempiere a pieno, di continuo, e in ogni possibil cimento, la legge naturale. [...OMISSIS...] Di che S. Paolo, non alludendo solo al peccato d' origine, ma anche a' peccati attuali, dice: [...OMISSIS...] . Poichè quantunque con tali peccati, se fossero necessarie conseguenze dell' originale, l' uomo, non demeritasse, come non demerita coll' originale; tuttavia ne contrarrebbe deformità morale; e questi peccati insieme coll' originale, di cui sarebbero un naturale sviluppo, lo terrebbero nello stato d' ingiustizia e di perdizione. II Che l' uomo colle forze sue naturali, nè colle opere può acquistarsi la giustificazione in cospetto a Dio, o la salute eterna (1), e nè pur muoversi colla sua sola libera volontà verso quella giustizia che è tale agli occhi di Dio (2); III Che l' uomo, anche così giustificato, non può perseverare nella giustizia senza uno speciale aiuto di Dio (3). Tanto impotente è l' uomo senza la grazia. Rimane a parlare della distribuzione, che fa Iddio di questa grazia del Salvatore sì necessaria agli uomini. Anche qui alcune cose sono di fede, altre appartengono alle opinioni delle scuole teologiche. Intanto egli è certo I Che Iddio non è obbligato per titolo di giustizia a dare la sua grazia a nessuno, sicchè qualor anco tutto il genere umano fosse lasciato alla sorte che gli toccherebbe in conseguenza del peccato del primo padre, e de' peccati che i singoli uomini commettessero a imitazione di lui, niuna ingiustizia vi sarebbe da parte di Dio; II Che quindi Iddio è libero padrone di scegliere quelli che vuole, a cui dare i suoi doni, e l' eterna gloria fra i perduti, il che divinamente dimostra l' apostolo colla figura de' due figliuoli d' Isacco dicendo, [...OMISSIS...] . E soggiunge, a mostrare quant' è libera e gratuita la divina chiamata; [...OMISSIS...] . Dice che la salute non viene dal volere e dal correre degli uomini: perchè non vi ha persona che senza l' aiuto di Dio, voglia e corra come bisogna. Laonde giustamente rivolto all' uomo peccatore e impotente l' Apostolo così favella: [...OMISSIS...] . E su questa gratuita elezione egli è uopo aver presente, come S. Agostino la discorre a confusione de' Pelagiani, discorso pe' nuovi teologi opportunissimo. Egli pone per primo fondamento, che qualunque essi sieno i giudizi di Dio, sono giusti, anche se l' altezza di sua giustizia fosse a noi del tutto inintelligibile, [...OMISSIS...] . Pone per secondo fondamento, che qualor anco Iddio non desse ad un uomo la sua grazia, e così costui perisse necessariamente, o pel solo peccato originale, o anche per altri peccati da questo fonte promananti, non avrebbe tuttavia ragione di lagnarsi, anche unicamente [...OMISSIS...] . E non deduce questo vero dai corti giudizii dell' umano ragionamento, ma dalle scritture, dalla fede della Chiesa cattolica, e dalla ragione teologica. Poichè osserva, che dicendo il contrario ne verrebbe l' assurdo, che la grazia fosse da Dio dovuta, e non fosse quindi più grazia. Pongasi dunque l' ipotesi, che Iddio, come potrebbe farlo, negasse ad un uomo discendente d' Adamo e quindi peccator per natura, il dono della sua grazia. Questi ed avrà l' originale infezione sopra di sè, e non potrà adempire perfettamente i divini precetti, onde dovrà necessariamente peccare (3). Ora potrà egli scusarsi al tribunale di Dio dicendo che è condannato per necessità? Non potrebbe scusarsene, per quantunque misterioso possa parer questo dogma all' umana miopia, e ripugnante all' umana superbia, [...OMISSIS...] , e soggiunge con quella immobile persuasione, che sola infonde la fede, e sol la parola dell' eterno crea nell' animo de' fedeli, [...OMISSIS...] (2). Egli è dunque di fede, che Iddio potrebbe con giustizia lasciare anche tutto il genere umano nella sua propria naturale e NECESSARIA perdizione (benchè l' umano ragionamento d' alcuni resti qui quale alocco esposto al raggio solare); ed è pur di fede, ch' ella è sua pura GRATUITA MISERICORDIA, se anco a un sol uomo accordi la grazia, colla quale egli viva bene e pervenga alla salute. E nulla di meno, dopo di ciò, III E` del pari di fede che tanta è la bontà di lui, ch' egli colla volontà sua antecedente e condizionata, ma verissima e sincerissima, [...OMISSIS...] . E l' efficacia di questa bontà s' intende chiaramente, qualora si considerino gl' innumerevoli mezzi ch' egli ha fornito di spontaneo moto al genere umano, pe' quali se l' umanità non n' avesse abusato colla più iniqua sconoscenza, potevano TUTTI I SINGOLI UOMINI pervenire all' eterna salute. E primieramente, avendo egli creati o costituiti i capi dell' umana stirpe in istato d' originale giustizia, questo stato fortunatissimo dovea trapassare in eredità a tutti i posteri, se non l' avessero que' primi, di propria loro libera volontà, perduto. Onde a tutti i singoli loro discendenti era destinato da Dio il mezzo sicuro e facile d' esser sempre santi e felici; e se ora più non sono tali, non a Dio, ma a' proprii padri, che hanno guasta l' umana natura, il debbono imputare; nè Iddio va loro debitore perciò di cos' alcuna, lasciandoli ad ogni modo con tutto il loro: IV E oltracciò egli è certo, in quarto luogo, che essendo Dio sommamente buono, nè pur avrebb' egli permesso il peccato de' primi padri, se non avesse scorto e provveduto, quanto indi dovea ricevere di splendore maggiore la sua misericordia, e quanto dovea crescere nel cuore de' suoi eletti la riconoscenza e la gratitudine di sua carità e la materia quindi alle lodi che gli avrebbero in eterno cantato. Onde S. Paolo, [...OMISSIS...] . V E` certo di più, che dopo il fatto adamitico, Iddio offeso, lungi d' abbandonare l' umana natura a se stessa, gratuitamente promise all' uomo disubbidiente un Riparatore, colla fede alla qual promessa era annessa la grazia di salvarsi: e questa fede nel Riparatore futuro doveva e poteva passare ai posteri, venendo così dato di nuovo a TUTTI I SINGOLI UOMINI un mezzo affatto gratuito di fuggire dal naufragio universale dell' eterna perdizione. Ma essi liberamente rigettarono anche questa seconda misericordia; e Iddio dovette con un castigo esemplare, cioè col diluvio, distruggere le generazioni corrotte, che avrebbero tramandato a' loro posteri non più ciò che avevano da Dio ricevuto di salutare, ma ciò che da sè avean contratto di vizioso e di pernizioso. Ora fino al diluvio non può essere perita quella rivelazione del futuro Messia consegnata a padri così longevi, che Noè era lungamente vissuto con chi avea per lunghi anni conosciuto Adamo. VI Iddio fece Noè, uomo giusto, nuovo capo della stirpe umana, e a lui consegnò il prezioso deposito di quella promessa, che conteneva la FEDE, mezzo di salute destinato di nuovo a TUTTI I SINGOLI DISCENDENTI del nuovo patriarca. Che però tutti i singoli uomini si sarebbero salvati, fino alla venuta del Messia, secondo il gran disegno della divina bontà e longanimità, se di quel dono s' avessero voluto prevalere. Ma molti rigettarono per la terza volta col libero arbitrio la profferta salvezza, facendo onta a quella infinita bontà che pur volea tutti salvi, e alla salvezza di tutti, anche prima della venuta del Messia, avea provveduto; onde, abbandonato Iddio, caddero nell' idolatria, smarrendo il limpido lume della rivelazione e della fede, e la grazia annessa. E come dice S. Paolo, [...OMISSIS...] . Ometto d' enumerare la vocazione d' Abramo, e i peculiari mezzi di salute dati al popolo ebreo, ed altri mezzi non mancati del tutto nè pure all' altre nazioni, benchè sien meno conosciuti; e dico in quella vece, esser certo che VII Iddio, considerata la sua potenza, poteva, senza trovar ostacolo da parte degli uomini, far tutti gli uomini salvi; nè tuttavia egli volle; ma preferì nella sua sapienza e bontà, di salvare alcuni fra rei per gratuita elezione, permettendo che altri perissero. [...OMISSIS...] . Nè agli orecchi di tutti pervenne dopo di ciò la parola di Dio; e nè pure dopo Cristo a tutti fu applicato col battesimo il merito della sua passione, come dichiarò il Concilio di Trento, [...OMISSIS...] . VIII E` certo quindi ancora, che come non è contro la giustizia e bontà di Dio, che egli permetta la morte de' bambini, non battezzati, nulla togliendo con ciò ad essi, ma non dando loro del suo quanto ad altri; così non si può provare che sia contrario alla sua giustizia e alla sua bontà il lasciar morire altresì degli adulti, a cui non sia stato annunziato il vangelo, dato anche che non avessero aggiunti all' originale, peccati attuali mortali, i quali in tal caso non riceverebbero pena maggiore di quella de' bambini, [...OMISSIS...] . Che se anco degli uomini adulti, a cui non fu annunziato il Vangelo, non potendo colle proprie loro forze eseguire a pieno la legge naturale, cadessero ne' peccati, in quanto ciò avvenisse loro per necessità, non n' avrebbero colpa; ma que' peccati sarebber pena dell' antica colpa, tralci dell' originale infezione. Nè però sarebbe men vero, che le loro volontà fossero inordinate e malvagie, ed essi conseguentemente dannati della dannazione del peccato d' origine. Onde S. Agostino osserva, ch' essi non potrebbero recar per iscusa, [...OMISSIS...] ; perocchè ciò non distrugge il fatto, che vivon male, cioè, per propria volontà, [...OMISSIS...] . In somma coll' esser malvagia la volontà per natura, non per una sua propria elezion precedente, non è men vero ch' ella sia malvagia, e che vivendo male, «DE SUO MALE VIVAT »; ma è vero in pari tempo, che tal morale malvagità è pena, e sciagura, non colpa; e trae dietro a se un male fisico minore di quello che è dovuto alla colpa. Il che riesce difficile a intendere da certuni, i quali pongono il caso di cui si parla in modo alieno dal vero: immaginano cioè quell' impotenza di fare il bene in un uomo, che pur vorrebbe il bene, e che si sforza di farlo, e non può, e perciò cade. Non trattasi, si noti bene, di questo. Colui ha già una volontà incipiente buona: e però s' egli brama, se seco combatte, se prega, sarà aiutato certo da Dio. Chi ne può dubitare, essendo Iddio ottimo? Egli acquisterà certamente tutte le forze che gli bisognano; niuno Iddio abbandona di quelli che a lui ricorrono, e desiderano sinceramente di potere quel che non possono. Ora il caso di cui si parlava è tutt' altro. Trattavasi d' una volontà che non desidera punto il bene, ma al male aderisce; onde di colui che ha tal volontà si può dire col santo dottore: [...OMISSIS...] Ora, se questo è lo stato di un uomo, da qualunque cagione provenga, foss' anco dal solo vizio « quod originaliter traxit », gli è chiusa, fino che così rimane, la porta del cielo; e s' avvera sempre, che [...OMISSIS...] . Di che ognuno che ben intende conoscerà, che il mal morale e la dannazione non vien che dall' uomo, avverandosi il [...OMISSIS...] ; e la misericordia e la salvazione vien solo da Dio; avverandosi il [...OMISSIS...] . E quantunque GESU` Cristo sia morto per tutti affatto gli uomini, non solo per gli eletti, come dissero gli eretici, e dalla sua morte ricevano tutti qualche salutare influenza (3), e a tutti altresì egli profferisca il lume e la grazia, come il sole che a tutti universalmente risplende; tuttavia per proprio difetto, come dicevamo, si perdon non pochi; nè il cieco può lamentarsi del sole se nol rallegra, ma piangere piuttosto l' imperfezione e il vizio della propria natura; quantunque le viziose volontà, di cui favelliamo, nè pure compiangano se stesse per essere moralmente cieche; ma solo si lagnino della fisica pena, che al loro vizio morale s' aggiunge. E tuttavia non è da credere che questo stesso male permetta la divina bontà, se non per cavarne un ben maggiore. Poichè questa crediamo l' unica ragione per la quale Iddio, o ritenga le sue grazie, o ne dia di minori, così esigendo il bene maggiore e l' ordine della sua infinita sapienza (4). IX E` certo del pari, che a tutti quelli che hanno pur conseguita la giustificazione, non possono più mancare gli aiuti senza lor colpa, all' eterna salute, assicurata loro da' meriti e dall' orazione di Cristo (1), bastando la minima porzione di grazia, come dice S. Tommaso, a vincere tutte le tentazioni (2), e dicendo S. Giovanni, [...OMISSIS...] , il che si può spiegare: « non è mai necessitato a peccare. »Laonde non è giammai impossibile ai giustificati l' adempimento de' divini precetti, se pregano, secondo il canone del sacro Concilio, [...OMISSIS...] . X Dee ancora affermarsi, che tutti quelli che dopo giustificati pel battesimo, caddero in colpa mortale, possono di nuovo ricever la grazia, ricorrendo al sacramento della penitenza, fonte di nuova grazia aperto sempre per essi da Cristo. Oltre di che coll' orazione possono impetrare la grazia loro necessaria, quantunque non possano meritarla. La fazione però di Teologi, i cui errori in questo scritto vogliam mostrare, eccedettero anche in questo fino a sostenere cosa probabile, che la sola attrizion naturale basti a giustificar l' uomo, in manifesta opposizione al Concilio di Trento (6), onde anche tale dottrina razionalistica fu dannata dal Papa Innocenzo XI (7). XI Di più, è ancor certo non pugnare nè colla giustizia nè colla bontà divina, che il numero delle grazie, ch' egli conferisce a' peccatori ostinati, sia limitato, e determinato in modo, che scorso quel numero, egli permetta, o che sieno sorpresi dalla morte, o indurati, non [...OMISSIS...] . Dove si noti bene, che tutti quelli che vogliono o sperano, possono sempre salvarsi; non verificandosi l' induramento se non in quelli che più non vogliono e che disperano, sicchè nessuno può dire veramente: io voglio, e non posso. XII E del pari, è certo non opporsi nè alla giustizia nè alla bontà di Dio, che ad alcuni non sia annunziato sufficientemente il vangelo, avvenendo ciò di fatto; come poniamo rispetto agli abitanti d' America e d' altre isole, che vissero in esse prima che fossero scoperte, o in altre ancor da scuoprirsi; giacchè la provvidenza divina, nella sua infinita sapienza e bontà, predispose i tempi e i momenti, ne' quali a ciascuna nazione sia annunziato il vangelo; forse acciocchè abbian prima una cotal preparazione rimota, come pare dal detto di Cristo agli Apostoli: [...OMISSIS...] , prevedendo forse, che non sarebbe ben ricevuta da essi la parola di Dio, e che quindi non servirebbe che ad aggravare le colpe di quelli, a cui fosse annunziata, e da cui fosse ripulsa. XIII Indubitato è pure, che quelli, che non giungono alla giustificazione e alla fede, periscono, perciocchè, [...OMISSIS...] ; non quasichè l' infedeltà loro negativa sia colpa; ma pel peccato originale, e pe' loro peccati attuali. Laonde la fede soprannaturale è di necessità di mezzo, necessaria alla salvazione, [...OMISSIS...] . Ed anche qui la fazione de' nostri teologi detraendo alla grazia divina, soverchiamente attribuirono alla natura, ed alla libertà, volendo che basti a giustificar l' uomo questo solo, ch' egli creda di quella fede che aver si può dal testimonio delle creature, ed alla sola esistenza di Dio, senza la fede esplicita in Dio come rimuneratore del bene e del male (3); dottrina razionalistica, e giustamente anch' essa da Innocenzo XI proscritta. XIV Nè meno si può dubitare, che a tutti quelli, a' quali è proposto sufficientemente il Vangelo, sia data altresì la grazia con cui possano credervi; giacchè le parole di Cristo: [...OMISSIS...] , indicano sufficientemente quella giudiciale condanna, che suppone la colpa, la quale aver non potrebbero, se rimanesser privi della grazia sufficiente per credere. Di più, a tutti quegl' infedeli, a cui Iddio dà delle grazie attuali disponitive alla giustificazione, non può pensarsi che lasci poi mancare i mezzi necessarii di pervenire effettivamente fino alla giustificazione, foss' anco bisogno di mandar loro per miracolo un Apostolo, o un Angelo ad annunziare loro il vangelo, acciocchè [...OMISSIS...] , e così pervengano a ricevere, almeno in voto, quel battesimo che è [...OMISSIS...] . Oltre di che, anche l' orazione d' un infedele, benchè meritar non possa, può però impetrare; ed egli può altresì dimandare nella sua orazione la naturale giustizia, sentendosi rispetto a questa in quella condizione che descrive l' apostolo, dicendo, [...OMISSIS...] . Poichè non supera le forze della natura il volere la naturale giustizia, con una volontà universale, cioè ancor piccola, e priva di forza pratica a perfezionare tutto il bene che l' umana ragione dimostra. Ed una tale volontà, ossia volizione attuale, benchè inefficace ad operare pienamente il ben naturale, può però guidare l' orazione della creatura al suo Creatore naturalmente conosciuto; il quale in tal caso non mancherebbe d' aggiungere per sua pura misericordia i suoi aiuti, implicitamente in quell' orazione dimandati. Se dunque gli atti della volontà (3) d' un infedele fossero naturalmente sì buoni, da desiderare la naturale giustizia, da dimandarla, ed isforzarsi, quanto può, ad adempirla, sarebbe costui, non punto io ne dubito, da Dio soccorso. Perocchè, come dice S. Agostino, [...OMISSIS...] . Ma dubito però assai, che, senza la grazia, possa la mente d' un uomo sollevarsi a sì alto pensiero di domandare al Creatore il dono della giustizia, benchè naturale. Se questo è possibile, sarà possibile a ben pochi; poichè naturalmente l' uom si persuade, essere la virtù riposta nel proprio arbitrio: e pare che solo un raggio superno ci abbia insegnato a conoscere il segretissimo e copiosissimo fonte di ogni giustizia e di ogni santità. Che se via più addentro meditar volessimo nelle divine giustificazioni, dandoci Iddio lume a ciò sufficiente, ci convinceremmo di più, che Iddio sempre mosso dalla sua essenziale bontà, ottimo ugualmente si trova e nel dare che fa le sue grazie, e nel negarle altresì; non negandole egli mai, se non per trarne un bene maggiore alle sue stesse creature; il qual bene, per le limitazioni necessariamente inerenti a tutto ciò ch' ebbe principio nel tempo, non si può ottenere senza permettere il male (1), salva almeno la legge di parsimonia, parte essenziale della divina sapienza. Le quali cose tutte rendono in fin manifesto, come alla giustizia contempera Iddio un' ineffabile, pienissima misericordia. [...OMISSIS...] , per usare ancora le parole di S. Agostino, [...OMISSIS...] . Che si dia adunque un male morale nell' uomo, necessario nel suo soggetto (l' uomo), e nella sua causa prossima (la volontà istante), benchè in origine veniente da un pravo esercizio della libera volontà, egli è un vero innegabile, dalla rivelazione insegnato, dall' esperienza e dalla ragion confermato; il qual vero nè offende la divina giustizia, nè ne impedisce la misericordia, a cui apre un campo amplissimo e gloriosissimo. Ma noia tuttavia un vero così luminoso alle pupille di quelli, che più che d' esaltare la bontà divina, si curano di celebrare la umana; onde strillano al vocabolo necessità , come se il solo pronunciarlo, fosse un distruggere quel libero arbitrio, che se in nulla fosse necessitato, certo potrebbe ogni cosa, e non avrebbe più bisogno di Dio. Oltre questo assurdo teologico, in cui s' urterebbe escludendo ogni necessità dai movimenti della volontà, s' incorrerebbe anche nell' errore filosofico (prolifico di gravi ed erronee conseguenze anche in teologia), che la natura non operasse con leggi fisse sue proprie, o che la volontà non fosse anch' essa una natura, come insegna così apertamente S. Tommaso. Una di queste leggi della volontà e dell' intendimento, come natura, fu da me espressa in queste parole, che dispiacquero a' nostri teologi inclinati al Razionalismo: [...OMISSIS...] Nelle quali parole ogni uomo, che un po' si conosca di filosofia, intende chiaramente, che si dichiara la legge della spontaneità della volontà, e che non vi si parla della libertà; ma della volontà , la quale viene ivi definita per la potenza di operare in conseguenza di ciò che s' intende. Le persone poi che non ignorano le dottrine da me premesse sulla semplice libertà, sanno ancora, che la libertà , è una forza dell' anima DOMINATRICE E DETERMINATRICE DELLA VOLONTA`, avendo io definita la libertà per [...OMISSIS...] . Coll' esporre dunque le leggi psicologiche, secondo le quali si move la volontà lasciata a se medesima, non si nega, nè si distrugge quella potenza superiore ad essa che LIBERTA` si chiama, e che è nata a dominare la volontà modificandone ed infrenandone gli spontanei movimenti. Quindi dopo aver noi parlato di questi spontanei movimenti della volontà semplice , passammo a parlare della libertà, definendo quando ella possa impedire que' moti spontanei, e quando non possa. Dicemmo poi, che essa può sempre farlo, qualora abbia tempo d' accorrere, e la rapidezza de' movimenti inferiori spontanei della volontà semplice eccitata non la prevengano, e così esprimendoci: [...OMISSIS...] . Il sig. C. all' intendere che la volontà si muova per una legge fisica dietro i bisogni pronuncia questa sentenza: [...OMISSIS...] . Ma, con sua pace, fa piuttosto meraviglia che egli non sappia, o non abbia imparato dalla lettura dello stesso libro che censura, che le leggi fisiche a cui obbedisce la volontà possono dalla libertà esser dominate, purchè non manchino le condizioni necessarie all' operazione di questa potenza, che tiene in sua balía gli atti stessi della volontà spontanea. E fa meraviglia ancor maggiore, che lo stesso nostro censore confessi poco appresso in altre parole, quel vero, che riprende in noi così acerbamente. Poichè alla facciata .4 del suo opuscolo, nota ( i ) dice così: [...OMISSIS...] . Dove in prima convien notare ch' egli traduce il praecipue di S. Tommaso per, al più . Siamo qui obbligati di mandare il teologo a consultare il Dizionario. S. Tommaso dicendo, che la consuetudine produce necessità PRINCIPALMENTE negli atti repentini, riconosce poter intervenire una necessità di operare anche in qualche altro caso non repentino , e così dice più di quello che diciamo noi, attribuendo noi sempre la necessità alla fretta con cui opera la spontaneità, quando tal fretta non lascia tempo alla ragione od alla libertà di accorrere e sovvenire all' uomo. In secondo luogo con ciò ritratta quello che avea detto prima, quando parlando del passo di S. Agostino che S. Tommaso interpreta della necessità in repentinis praecipue scrivea con una piena generalità di parole così: [...OMISSIS...] . Convien dire che S. Tommaso non sia un Dottore cattolico , secondo il nostro C., giacchè, per sua confessione interpreta quel passo diversamente da quel che fanno i dottori cattolici. Finalmente ognuno può vedere, se la dottrina di S. Tommaso d' accordo con quella di S. Agostino, che [...OMISSIS...] sia o non sia uguale a quella da noi esposta ne' passi surriferiti, ne' quali si riconosce necessità là dove [...OMISSIS...] . Se non che il C. con tuono quanto insultante, altrettanto menzognero continua così: [...OMISSIS...] . Io dimando compatimento al lettore cortese, se in questo e in altri scritti vo dicendo delle cose trite e soverchiamente comuni. Ma egli consideri (di nuovo il protesto) che la carità mi spinge a scrivere a mio mal cuore, ed a ripetermi e a diffondermi; ben sapendo che gli scrittori razionalisti non possono nuocere colle loro perniciose dottrine agli uomini pienamente istruiti; ma a quelli soli (e ne' nostri tempi sono troppi) pe' quali scrivono e di cui allettano, favellando religiosamente gli orecchi. A questi che nè sono teologi, nè sanno il loro giudizio sospendere, oppure lo sospendono a prò dell' errore e a danno del vero, vuole la carità di Cristo che si sovvenga quanto si può per me, e perciò adduco in questo e negli altri scritti copiose prove di quelle primarie verità che s' impugnano da' contrarii. L' una delle quali è questa appunto, che la passione giugne a legare in certi istanti l' umana libertà, e a trascinar seco la spontaneità del volere; benchè a nessuno di quelli che fedeli a Dio, vivono sotto la sua protezione avvenga giammai che sieno quinci condotti a peccati mortali tanto da essi odiati. A provar questo vero adunque, oltre l' autorità di S. Agostino, e di S. Tommaso, che il nostro C. questa volta volle accompagnar della sua, aggiungerò quella d' un solo Teologo pregiato da tutti senza eccezione, voglio dire di Domenico Viva della Compagnia di Gesù. Il quale scrive appunto nella nostra sentenza così: [...OMISSIS...] . Il nostro teologo dunque C. P., dopo molti andirivieni, è obbligato a concederci finalmente che esiste un modo necessario d' operare della volontà umana, e concede che questa sia dottrina de' dottori cattolici. Ma tempera poi questa concessione dicendo: [...OMISSIS...] . Le quali parole richiedono nel caso nostro diverse osservazioni. Primieramente è da ricordare, che già prima lo stesso nostro autore avea riconosciuto darsi un volontario necessario non solo nella perdita totale della ragione nell' ubbriachezza e nella mania; ma ancora ne' moti repentini. Avea confessato che S. Tommaso insegna, che [...OMISSIS...] . Di poi è da considerarsi, che le parole di S. Tommaso da lui addotte per provar le sua tesi, [...OMISSIS...] non riguardano lo stato di pazzia o di ubbriachezza, nel quale la ragione è perturbata per un eccitamento fisico, come falsamente pretende il nostro teologo. S. Tommaso parla di un eccesso momentaneo di passione veemente d' amore, o d' ira, o d' altra simile perturbazione, volendosi dire in fatto che l' uomo nel momento della passione venuta all' estremo, diviene siccome pazzo, secondo il detto che [...OMISSIS...] ; onde Cicerone del furore afferma, che [...OMISSIS...] , e in generale i latini scrittori usano la parola insanire per esprimere l' effetto d' ogni veemente passione (3). In terzo luogo qual è il valore e la forza di quell' espressione dell' angelico [...OMISSIS...] ; espressione ripetuta poi da' teologi? Nel brano stesso del « Trattato della Coscienza » citato dal Signor C. se ne dà la spiegazione e l' analisi; pure, dopo averlo riferito, egli si fa dimandare: [...OMISSIS...] . Rispondiamo che non vi si ravvisa certamente, nel senso, che pretende il Signor C., perchè non vi si dee ravvisare; ma vi si ravvisa nel senso di S. Tommaso, e della comune de' teologi. Poichè nè S. Tommaso, nè i teologi parlano, come egli suppone, di un uomo, che « sia interamente uscito di senno »qual è colui che si manda all' ospizio de' pazzarelli; ma parlano d' un uomo, che nell' istante che opera non può far uso di sua ragione all' intento di vincere l' impetuosa passione. E nè pure è da credere, ch' essi parlino d' un uomo « in cui cessi da ogni suo ufficio la ragione »; poichè anzi essi parlano solamente d' un uomo, in cui la ragione cessa dal suo ufficio di deliberare; parlano di un uomo a cui la passione ha tolto intieramente l' uso morale della ragione, o, in altre parole, in cui è sospeso quest' uso della ragione morale , com' io più spesso mi esprimo, chè così dee spiegarsi sanamente il [...OMISSIS...] di S. Tommaso. Poichè egli è certo che basta che la ragione non possa accorrere, e in tempo utile deliberare, acciocchè l' uso della ragione sia interamente tolto, quanto fa al caso, benchè la ragione non cessi da ogni altra sua funzione. Laonde [...OMISSIS...] , come dice S. Tommaso, [...OMISSIS...] , dal qual passo si vede chiaramente che S. Tommaso parla della ragione Deliberante , non della ragione presa in universale quando dice, [...OMISSIS...] , le quali perciò si debbon tradurre « che impedisce affatto all' uomo di deliberare a favore della giustizia. » E per vero niuno dica mai che pecchi colui (prescindendo dalla reità che può avere in causa) che non può coll' uso di sua ragione venire in soccorso alla volontà soprafatta dalla passione. Ora che quest' uso morale della ragione possa mancare, senza che perciò venga meno necessariamente ogni altro uso di essa, scorgesi osservando quant' accade negli stessi ubbriachi e negli stessi pazzarelli come pure ne' bambini. E` un pregiudizio volgare e crudele (e dovrebbe una volta cessare) il credere, che gli ubbriachi, i pazzi ed i bambini non facciano alcun uso affatto della loro ragione, e lo chiamo un pregiudizio non solo volgare ma anche crudele; perocchè ad esso si devono pur troppo imputare i barbari trattamenti che s' usavano una volta verso i miseri pazzarelli, de' quali non riguardati oggimai più come esseri ragionevoli, si faceva impunemente ogni strazio, ed ogni abuso: e lo stesso press' a poco è a dirsi degli ubbriachi. Non v' era nè pure chi pensasse seriamente all' educazione de' bambinelli, salve le sole madri che contraddicendo col provvido loro istinto alla comune ignoranza e barbarie; credevasi inutile studiarsi a dirigere e sviluppare le loro razionali facoltà che si negavano in essi o senza attività si credevano, e dovea solo forse allo scoccar de' sett' anni incominciare tutto improvviso l' uso della ragione . Il che era vero, presso a poco, se per uso della ragione si fosse inteso l' uso della discrezione del bene e del male , come pur dicevano i savi teologi, il che è quanto dire l' uso della riflessione e della libertà, l' epoca quinci del merito e del demerito. All' incontro l' uso della ragione in universale presa come potenza a cui appartengono le funzioni del percepire, dell' universalizzare, del giudicare, dell' analizzare, del sintesizzare ed altri tali, incomincia, vel crediate o no, nei bambini pure col primo riso, con cui salutan la madre. Negli ubbriachi parimente e ne' pazzarelli, sieno maniaci o monomaniaci, l' uso della ragione non è mai tolto del tutto, anzi v' è egli attivissimo; ma per isventura non regolato nelle cose necessarie al vivere e non preceduto da una sufficientemente ponderata deliberazione: percepiscono dunque, universalizzano, fanno de' giudizii e de' raziocinii e talora anco giusti; ma spesso anco sbagliati: e quando riescono troppo di frequente sbagliati in quelle cose ordinarie, nelle quali non falla il comune degli uomini, allora si hanno per pazzi. Che se si dimanda di più la causa onde avviene che l' uso della ragione proceda in essi così sregolato, l' osservazione di un tal fenomeno e la meditazion vi dirà che i loro giudizi sono traviati dalla loro propria volontà, la quale è la potenza che d' ordinario muove e conduce il ragionamento; vi dirà ancora che quella loro volontà poi che travia in essi il ragionamento è fieramente predominata e tiranneggiata dalla attuosità delle immagini, dalla potenza degl' istinti, dalla forza delle opinioni fisse, e dalle abitudini e dalla urgenza seduttrice delle passioni. Sotto alla qual crudele tirannide dell' animalità esaltata, irritata e prevalente la luce liberatrice della giustizia manda ancora i suoi raggi: e talora consiglia quegli infelici, talor li consola (1). La maniera poi onde la passione del sensitivo istinto domina cotanto e trascina la volontà ce l' insegna S. Tommaso, che insegna che non può la passione muovere la volontà direttamente, ma sì indirettamente (2), ed ella fa ciò sottraendo alla libertà le forze dell' anima; perchè dall' anima, come da loro radice, traggono la loro attività tutte le potenze; e l' anima ha una virtù unica e limitata; ond' avviene che se questa virtù sia distratta parte o tutta da una sola potenza, poniamo da quella del senso e dell' istinto animale, si rimane meno od anche nulla all' altre potenze, poniamo alla libertà, allora questa si dimostra indebolita, sfibrata, inerte, ed oppressa dalla veemenza dell' istinto sensitivo cresciuto a tal grado di vigorìa da rapire a se tutta l' anima. [...OMISSIS...] . Di più la passione sensitiva, dice S. Tommaso, trae la mente a fare de' torti giudizii sul valore delle cose, e quindi s' ha un altro modo, pel quale si sregola la volontà, [...OMISSIS...] . Ma qui si deve osservare, che se, dopo che l' uomo ha fatto un giudizio falso sul bene, dopo che, poniamo, ha giudicato che un oggetto sia più buono ch' egli non è, la volontà l' ama di più che non dovrebbe; la volontà stessa però aveva già prima fatto un altro atto col quale avea determinato quel falso giudizio, e quella falsa stima dell' oggetto. Perocchè sebbene la prima apprensione delle cose (percezione, sintesi primitiva) si faccia istintivamente, il giudizio però del loro valore morale ed eudemonologico, si fa sempre per un giudizio diretto dalla volontà, la quale perciò è la causa di tali giudizii (3); e sono sani e retti quando la volontà è sana e retta, e immune dalla violenza di quella passione che, come dice l' Angelico, talora trae a sè sola tutta la forza dell' anima. La mancanza adunque dell' uso della ragione, di cui parla S. Tommaso, che rende l' azione involontaria e, come noi diciamo, non libera, e quindi inetta a meritare, si è quella, per la quale la ragione legata dalla passione non può piú accorrere a deliberare in favore della legge, il qual fatto psicologico da noi viene descritto nelle parole non intese, ma censurate dal C., le quali furono queste: [...OMISSIS...] . La ragione del qual ultimo fatto è quella appunto data da S. Tommaso là dove con tanta sapienza scrive, [...OMISSIS...] . Nel brano arrecato io enumero i varii aiuti, che rendono l' uomo possente a vincere la seduzione di sue passioni ed istinti; e tra questi pongo la meditazione del proprio dovere, e l' animo ben disposto . Da questo il Sig. C. induce che io dunque insegno tutte le azioni essere necessarie, quando si fanno senza meditazione e senz' animo ben disposto! All' incontro le azioni necessarie sono da me descritte così: [...OMISSIS...] . Nelle quali parole si pone a prima condizione dell' atto necessario , che [...OMISSIS...] come accade ne' primi moti. Ma posciachè, quando l' uomo già ottenne il dominio della propria volontà col grand' uso e coll' abito della virtù; l' uomo previene anche i primi moti e gl' insulti impetuosi delle passioni e degl' istinti tenendo questi abitualmente infrenati; perciò non mi sono contentato d' esigere universalmente a costituire un' azione necessaria, che la passione sia urgentissima e repentina, ma ho soggiunto di più ch' ella non sarebbe ancor necessaria, ch' ella potrebbe essere tuttavia libera, qualora si trattasse d' un uomo abituato al bene sì fattamente, da aver già conseguito una piena signoria di sè stesso. Coll' aggiunta di questa seconda condizione si rende ancora più difficile ad avverarsi il caso dell' azione necessaria; e mentre il comune de' teologi si limita a riconoscerla tale dove una passione si renda eccessiva, io feci di più osservare, che la violenza della passione inducente necessità non si dee misurare dal grado assoluto della sua forza, ma dal grado relativo alla virtù dell' uomo in cui ella opera; poichè un uom virtuosissimo dominatore di sè, giunge in tempo a domare eziandio la passione urgente ed al sommo pressante. Ora quelle condizioni, che io posi acciocchè una azione si possa credere necessaria , il sig. C. asserisce che furono apposte acciocchè l' azione si possa dir libera, capovolgendo tutto il mio sentimento. Sicchè mentre io dico, che l' azione non è mai necessaria, se la passione non sia urgentissima d' una parte e dall' altra se l' anima dell' uomo non sia sgagliardita (1); egli mi fa dire all' opposto che [...OMISSIS...] . Egli dunque non intese che l' abito buono non fu da me posto qual condizione dell' azione libera, ma quale aiuto, pel quale l' azione diviene libera anche quando ella tale non sarebbe per l' urgenza della passione: nè intese pure che l' avere uno spazio di tempo nel quale poter sospendere il giudizio pratico, in considerazione della legge che la proibisce, sono condizioni che indubitatamente avverare si debbono in tutte le azioni libere, essendo assurdo il dichiarar libera un' azione, se chi la fa non ha tempo da sospendere il subito giudizio pratico che la produce, nè da considerar la forza e l' autorità della legge che la divieta. Scorgesi in fine che il nostro teologo dimenticò nell' enumerare le condizioni da me richieste, acciocchè un' azione possa credersi necessaria, la principale di tutte, senza la quale sono nulle le altre, la condizione espressa in quelle parole: [...OMISSIS...] . Dopo aver dunque il nostro teologo fatto supporre, che le condizioni da me richieste, acciocchè un atto sia necessario, sieno in quella vece da me richieste, acciocchè un atto sia libero, e dopo aver taciuta la principale o la sostanziale di queste condizioni, che cosa fa egli? Come rivenisse allora dal mondo nuovo, continua così: [...OMISSIS...] . Ma non solo non è da omettersi; ma lo si doveva dire prima; perocchè se fosse stato detto era resa impossibile la censura. Ma il lasciar fuori da una sentenza la parte principale e così renderla erronea e inveire contro di essa come erronea; e finita l' invettiva uscir fuori colla parte taciuta fino allora, e trovarvi un nuovo errore cioè trovare che la parte taciuta contraddice al sentimento precedente falsamente supposto; ella non è questa l' opera d' un uomo amico del vero, ma d' un cavilloso sofista, che tende a stabilire una dottrina erronea sullo scredito della vera (2). I teologi razionalisti per far prevalere il loro sistema falsificano dunque continuamente l' altrui. Il sig. C. giunge a scrivere così: [...OMISSIS...] . In questo passo il nostro teologo nasconde nel silenzio il preciso caso di cui si tratta. Non si tratta già in universale dell' uomo che opera dietro la concupiscenza e l' altre passioni, com' egli fa credere; ma unicamente e precisamente dell' uomo stretto dalla necessità che gli toglie la facoltà di deliberare a favor della legge. Cangiando la questione fa comparir Bajo un lassista, mentre finqui fu tenuto per rigorista, e dichiara il Rosmini ancora più lassista di Bajo! Affine di restituire la verità, metterò sotto gli occhi de' lettori un solo degli innumerevoli passi dal nostro teologo taciuti, e sarà quel che trovasi alla faccia 169 del « Trattato della Coscienza », che così dice: [...OMISSIS...] . I teologi razionalisti impegnati a dimostrare, che la dottrina cattolica sia l' eretica di Giansenio, e che l' eretica de' Pelagiani sia la cattolica, usano anche un altro artifizio. Solleciti di occultare le vere differenze che distinguono la dottrina eretica dalla cattolica, qualora s' abbattono ad alcuna di quelle differenze per confondere la mente de' suoi lettori s' accendono di zelo e con una cotal piega di artificiose parole togliono a far credere, che quella differenza che caratterizza la sana dottrina, sia un errore così sformato, a cui nè pure giunsero gli eretici fin qui conosciuti. Diamone un chiaro esempio. Uno degli errori di Bajo si fu che i moti della concupiscenza, intesa come un mero istinto animale, meritino in senso proprio l' appellazion di peccato, e si riducano al peccato d' origine anche nascendo CONTRO IL CONSENSO DELLA VOLONTA`. [...OMISSIS...] . La dottrina all' incontro della Chiesa Cattolica non conosce peccato di nessuna guisa, fin che la volontà dell' uomo ripugna; perocchè il peccato è « una declinazione (attuale, ovvero abituale) della volontà personale dalla legge. »Onde, se la volontà dell' uomo ripugna positivamente, e ripelle i moti carnali, egli è chiaro, che non può averci peccato , nè dopo, nè tampoco avanti il battesimo; perchè la volontà potenza superiore al senso è qui personale; e però quella, onde si dee desumere la condizione morale dell' uomo. Ma il Bajo disconosciuta questa dottrina, cadde nell' errore, che, avanti il battesimo, sieno peccato anche i movimenti disvoluti e disdetti dalla volontà, anche [...OMISSIS...] , errore che si contiene, almeno esplicitamente, nella condanna fatta dalla Chiesa del Bajanismo. La Chiesa, in pari tempo, non disconosce o nega alcuno de' fatti antropologici; e però nè pur quello che la volontà talora, ridotta a certe angustie e non soccorsa dalla ragione deliberante, sia tratta a consentire spontaneamente a' movimenti istintivi del senso, senza che le sia possibile ripugnare. Ma questo fatto non può già accadere in quelli, che trovandosi in istato di grazia, sono da questa sempre ne' lor bisogni fedelmente soccorsi, com' io ho dimostrato (nel « Trattato della Coscienza » facc. 165 e segg.). Laonde nell' uomo giustificato non ha mai luogo un necessario acconsentimento della volontà a un male conosciuto, perchè trattasi d' una volontà, come dice S. Agostino, dalla grazia liberata. All' incontro in quelli, che o non sono ancora rinati nell' acque battesimali, o mediante le volontarie loro colpe contrassero un abito di peccare, rimangono in istato di peccato, può accadere quel caso funesto, pel quale l' impeto delle passioni e di più tentazioni quinci e quindi assalitrici, tolgano il tempo all' arbitrio di venire in soccorso, onde vinti rimangono. I quali atti non essendo liberi sono peccati in causa, o che questa causa sia il peccato d' origine in essi non ancora rimesso, come S. Agostino tante volte ripete, o che sieno altre colpe nelle quali essi liberamente s' immersero, indebolendo così la propria libertà; con questa differenza però, che se la necessità venne dalla originale infezione, questi atti disordinati, al peccato originale si riducono, e sono uno con questo, e quindi non si possono dir colpe se non riferendole alla libera prevaricazione di Adamo, là dove, se la necessità fu figliuola delle loro proprie libere colpe che ingenerarono la consuetudine; le conseguenti cadute partecipano dalle dette colpe precedenti la denominazione pure di colpe, e diconsi colpe in causa. Tale è la sana dottrina, ed ognuno intende quanto differisca da quella di Bajo, il quale attribuisce la nozione di peccato anche a ciò che nasce contro la stessa volontà; quando la sana dottrina non attribuisce tale denominazione, se non a ciò, a cui la volontà consente, quantunque necessariamente, se questa necessità fu libera in causa. Ma i nostri teologi introducendo la maggior confusione d' idee, fanno in quello scambio, credere che la dottrina cattolica da noi professata, sia peggiore della bajana. Dopo avere il C. recato quel passo, dove noi descrivevamo il fatto della volontà affascinata dalla passione, alla qual cede miseramente, dicendo: [...OMISSIS...] . Per restituire la verità così violata è necessario fare le seguenti osservazioni: 1 Bajo disse, che non s' imputavano i moti della concupiscenza a' battezzati che non consentono, ma aggiunse che s' imputano insieme col peccato di origine a' non battezzati benchè non consentano; e la Chiesa Cattolica dice, che quando la volontà è contraria non s' imputano que' moti mai nè a' battezzati, nè a' non battezzati; 2 Bajo trova un' imputazione a colpa anche negli atti necessarii, e noi all' opposto diciamo che non si dà imputazione a colpa, se non là dove si dà libertà, e però, se si avvera il caso, che la volontà sia tratta a consentire necessariamente non si dà colpa, se non nella causa libera di questo disordine. E` ella questa dottrina peggiore della bajana? Il nostro teologo alla facc. 136, dopo citato quel passo di Bajo [...OMISSIS...] , ripete la stessa accusa così: [...OMISSIS...] . Non è il Rosmini, ma è la Chiesa, che senza il consenso non riconosce peccato alcuno, e che quando la volontà è necessitata a consentire a' subitanei movimenti non riconosce tuttavia colpa, se non nella causa libera che l' ebbe addotta a sì trista necessità. Ma qui a proposito del consenso il nostro teologo crede di ravvisare una contraddizione tra ciò che si trova scritto intorno al consenso nella « Risposta ad Eusebio » e ciò che si dice di esso nel « Trattato della Coscienza ». Ma questa pretesa contraddizione non è altro che un suo novo abbaglio. Egli asserisce che nella « Risposta ad Eusebio » si dichiari, che il consenso sia sempre un atto personale, quando all' opposto nel « Trattato della Coscienza » si ammette una volontà, che stretta dagl' impulsi istintivi, consente necessariamente alla passione, onde dice: [...OMISSIS...] . Ma o non ha osservato, o dissimula che nella « Risposta ad Eusebio » non si parla d' ogni maniera di consenso, ma di un consenso libero , leggendovisi: [...OMISSIS...] nel « Trattato della Coscienza » all' incontro si parla di un consentire necessario della volontà, il che toglie ogni contraddizione (2). E per vero tra lo spontaneo consentire della non anco libera volontà, di cui si parla nel « Trattato della Coscienza » e il libero consenso, di cui si parla nella « Risposta ad Eusebio », vi ha un immenso divario. La LIBERTA` è una facoltà superiore alla VOLONTA`, poichè è « la potenza di eleggere fra le volizioni. »Qualora adunque la volontà da se sola opera senza la direzione superiore, che consiste nella libertà che elegge, ella si lascia andare spontaneamente dietro alle sensazioni, e si dice che a queste consente , secondo l' etimologia della parola, che viene a dire sente con esse, si adatta ad esse. Ma il consenso della libertà è tutt' altro; questa facoltà non consente immediatamente ALLE SENSAZIONI, ma consente ALL' UNA DELLE DUE VOLIZIONI buone e cattive, fra cui elegge, e questo è appunto il consenso sempre personale, di cui parla S. Tommaso, e di cui noi, attenendoci alla sua guida, parlammo nella « Risposta al finto Eusebio ». Ma nella stessa « Risposta » fu distinto un cotal consentire necessario della volontà, e non della libertà, mostrando ivi esser questa maniera di dire usata da' teologi colla testimonianza dell' Estio (3): il che tutto dissimula il nostro censore. I teologi razionalisti diminuiscono col loro sistema la virtù e l' efficacia della grazia del santo battesimo. Questo si vede anche nell' opuscolo che abbiamo preso ad esaminare, come un recente esempio della dottrina teologica razionalistica. In un luogo si attribuisce ai dottori cattolici (questo è il perpetuo loro stile d' attribuire ai dottori cattolici in corpo i propri sensi) la sentenza, che non pone alcuna distinzione tra ciò che può la concupiscenza originale nel non battezzato, e ciò che può nel battezzato. Questo è manifestamente un diminuire l' effetto salutare del battesimo, per voglia d' esaltare l' umana natura, incorrotta, com' ei la crede, che, secondo la sostanza del suo discorso, non ha di questa medicina del battesimale lavacro bisogno assoluto e solo gli bisogna il battesimo, come diceva Giuliano d' Eclana, per ricuperare i soprannaturali ornamenti (1). Ecco quali sono le sue parole: [...OMISSIS...] . Il nostro teologo dunque attribuisce ai dottori cattolici la sentenza, che non ci sia differenza alcuna tra gli uomini battezzati e non battezzati circa il potere che hanno gli uni e gli altri contro gli assalti della concupiscenza, di maniera che, rispetto a questi, l' effetto del santo battesimo sia del tutto nullo. Ma è ella veramente questa la dottrina cattolica? Non è anzi un calunniare i dottori cattolici l' affibbiarla loro? Vediamolo diligentemente. Se dunque fosse vero, che i Dottori cattolici, (il che è quanto dire la Chiesa, perchè si prendono tutti i dottori in corpo senza eccezione), non riconoscessero alcuna differenza tra i battezzati e i non battezzati, quanto alla vigoria dell' umana volontà e libertà in vincere le passioni della concupiscenza; a che si ridurrebbero gli effetti del santo battesimo? A che vogliono ridurli i teologi razionalisti? Alla remissione del peccato originale? Ma questo peccato che essi diconlo peccato secundum quid e quadamtenus non è nel loro sistema che un peccato di mero nome, ed erano più conseguenti i pelagiani che schiettamente negavano il nome di peccato alla semplice privazione della grazia. All' infusione della grazia soprannaturale? - Ma che cosa è questa grazia, in bocca de' teologi razionalistici, i quali negano ch' ella abbia virtù di attenuare le forze della concupiscenza, e d' accrescere quelle del libero arbitrio, non facendo riguardo essi a questo distinzione alcuna tra battezzati e non battezzati? Il sacrosanto Concilio di Trento decise quanto segue: [...OMISSIS...] . Ora i cuori di quelli, ne' quali è diffusa la carità dallo Spirito Santo e a' quali questa caritƒ diffusa in essi è aderente ( illis inhaeret ), questi cuori che sentono in se stessi la figliuolanza di Dio, e, come dice l' Apostolo, chiamano, animati dallo Spirito Santo: Abba Pater , saranno essi egualmente deboli e fiacchi contro l' ingenita concupiscenza, come quelli che non hanno punto ricevuto col santo battesimo il dono di Dio? Io me ne appello a tutti i fedeli di Cristo, alle anime che amano Iddio; e sono certo, che s' ottureranno gli orecchi come a bestemmie ingiuriose a Cristo ed al Santo Spirito, udendo tali parole del nostro teologo anonimo, e de' suoi confratelli «(V. la mia Risposta al finto Eusebio n. 106) ». Ne' celebri capitoli intitolati: [...OMISSIS...] leggesi tra le altre cose della grazia santificante così: [...OMISSIS...] . Ed ora da che può esser liberato il libero arbitrio, in virtù della grazia, se non da' suoi nemici, che si riducono in fine sotto il nome di concupiscenza? Con qual verità dunque i teologi razionalisti asseriscono che i dottori cattolici insegnino, che circa il potere di astenersi dalle azioni peccaminose non v' ha differenza tra battezzati e non battezzati? Non è questo un passare da un estremo all' altro, e per evitare l' errore di quelli che distruggono nell' uomo, o prima che sia rigenerato, o prima e dopo, il libero arbitrio, cadere nell' errore di quegli altri, che spogliano dalla sua virtù liberatrice e santificatrice la grazia di GESU` Cristo, la qual viene infusa nel santo battesimo? Facciamo un semplice e spassionato paragone tra la dottrina di tali teologi e quella già condannata dalla Chiesa ne' pelagiani, e apparirà manifesto il loro inganno ed il loro errore. I pelagiani dicevano, che la natura umana nasce presentemente senza vizio alcuno e colla sola privazione de' doni gratuiti (1): e il medesimo dicono i nostri teologi moderni. Ma come si salvano dunque, cioè credon salvarsi, dalla condanna di questi antichi eretici? Ritenendo la stessa loro sentenza, ma vestendola d' altre parole. Gli uni e gli altri convengono, che la natura umana nasce senza vizio, con tutti i suoi pregi naturali, e solo priva dei doni gratuiti. Questa è la sentenza comune, ora viene la differenza nelle parole. Quegli antichi confessavano ingenuamente, che nè la privazione de' doni gratuiti, nè le naturali limitazioni, nè i difetti naturali procedenti da quelle, erano peccato , e in questo dicevano bene. Furono adunque condannati, perchè negavano il peccato originale. Questi moderni, tementi la condanna stessa, dicono che quella privazione de' doni gratuiti è peccato, e in ciò dicono male. Ma col dire in tal modo un errore di più, saranno dunque assolti dalla condanna antica? Non credo io. Similmente s' osservi quanto agli effetti del battesimo. Sì gli antichi pelagiani che i moderni teologi dicono, che l' effetto del battesimo consiste solamente nel restituire alla natura buona l' ordine migliore della grazia [...OMISSIS...] questa è la sentenza comune. Ma gli antichi eretici confessano ingenuamente, che l' innalzare semplicemente la natura umana all' ordine soprannaturale, non è lo stesso che assolverla dal peccato; e dicevano bene. Furono adunque dannati perchè negavano che i bambini si battezzassero « in remissionem peccatorum ». I moderni teologi dicono all' opposto, che innalzare la natura all' ordine soprannaturale, è lo stesso che rimetterle il peccato originale; e dicono male. Ora di nuovo, eviteranno questi la condanna, solo col dire un errore di più di quelli? L' eresia consiste in semplici parole o nel senso e nella dottrina, qualunque sieno le parole che si adoperano per esprimerla, o per coprirla? Non verrebbe esposta la nostra santa fede al dileggio degli increduli qualora ella si facesse consistere in puri giochi di parole? Non sarebbe esposta al ridicolo la sacra teologia, qualora potessero dire con qualche verosimiglianza, che i teologi ritenendo le parole sanno di mano in mano modificare e cangiare con sottigliezze e vocaboli, le più essenziali e fondamentali dottrine del cristianesimo? Se si cerca, qual sia la dottrina sana della Chiesa intorno alla naturale possibilità dell' uomo, ed a quella possibilità di viver bene che egli acquista coll' infusione della grazia, conviene indubitatamente rispondere, che la Chiesa decise: [...OMISSIS...] , cioè aver tutti gli uomini perdute due cose, 1 l' innocenza e giustizia, e 2 la possibilità naturale di viver bene; onde S. Innocenzo papa rispetto a questa seconda perdita, così s' esprime: [...OMISSIS...] . Contro alla qual dottrina della cattolica Chiesa offendono apertamente coloro che al battesimo negano la virtù di ristorare le forze del libero arbitrio infiacchite contro la concupiscenza e dichiarano, esser queste uguali nel battezzato e nel non battezzato, come fanno i recenti teologi. Dopo di ciò la Chiesa ancora decise, che [...OMISSIS...] . Fin qui va la questione della dottrina generale. Dopo questa, viene poi la questione del fatto, la quale dimanda: « quando si verifichi, che l' uomo operi il male senza libertà e però senza demerito. » La possibilità intanto di questo fatto la Chiesa l' ammette e suppone pur colla condanna delle proposizioni di Bajo: [...OMISSIS...] , dalle quali e da altre somiglianti, scorgesi, come abbiam provato innanzi, che la Chiesa riconosce ed ammette un operare volontario, ma necessitato, di modochè la parola voluntarium , giusta tali decisioni della Chiesa, non sempre significa liberum , come contende il nuovo Teologo. Questo dunque appartiene ancor alla dottrina della Chiesa cattolica. Ma per venire alla questione di fatto: « quando si verifichi che l' uomo operi senza libertà e però senza merito nè demerito, » oltre il sapere in generale che qualche volta si verifica, il che, come dicevamo, è già parte del cattolico insegnamento; conviene di più determinarne per quanto si può i casi precisi. Al che ottenere vi hanno due lavori a farsi. Poichè altro è determinare i casi, ne' quali l' uomo opera necessariamente in generale, descrivendo le condizioni e le circostanze, sotto l' influenza delle quali egli procede colla necessità; ed altro è poi nel fatto reale accertarsi che tali condizioni e circostanze abbiano luogo in questa o quell' azione particolare. A ragion d' esempio alcuno dirà, che la passione può in alcun istante pigliar tant' impeto ed una così veemente uscita, ch' ella tolga all' uomo la libertà. Ma il dir questo non è mica un dire che in un dato fatto particolare di Tizio o di Cajo siasi avverata questa condizione, non è un dire, che la passione in Tizio od in Cajo sia stata realmente così urgente e così pressante in una data azione da trascinare la spontaneità ed impedire l' arbitrio della volontà. Anzi ella è cosa difficilissima o piuttosto impossibile il definirsi questo con piena certezza nel caso reale, e a Dio solo suol essere pienamente noto. Laonde l' uomo che opera con passione, grandemente s' illuderebbe s' egli leggermente credesse d' aver operato con necessità, anzi in luogo di scusarsi dee certamente condannare se stesso, non solo per le colpe attuali, che gli cagionarono quella torbida e violenta passione, non solo per le occasioni, a cui probabilmente s' espose, e per gli irritamenti a lei conceduti, non solo per non esser ricorso bastevolmente agli ajuti, co' quali avrebbe dovuto e potuto prevenire la sua caduta, ma ben anco per l' atto posto quando essa passione irruente in lui, videsi traboccata nel precipizio: e ciò perchè se da una parte questo gli mostra che tutto è disordinato in lui fin la stessa sua volontà, che è egli stesso; dall' altra perchè egli ha sempre troppa ragione di temere che la stessa sua libertà non fosse legata del tutto, essendo questo, come dicevamo, oltre modo difficile, se non impossibile a definirsi. Dal che apparisce, che lo stabilire semplicemente colla Chiesa cattolica che la passione aiutata dalla consuetudine delle colpe e lasciata andare innanzi ne' suoi riscaldi senza la debita vigilanza, possa talora addur l' uomo a sì stretto passo, al quale egli sdrucciola necessariamente; non è già un dare ansa e sicurtà agli uomini appassionati od abituati a peccare; ma è piuttosto un ammonirli di non confidare nelle forze proprie, ma di ricorrere a G. Cristo liberatore, di cui hanno un bisogno assoluto, per andar salvi dalla crudele tirannide del demonio e dalla loro propria concupiscenza. A torto dunque i teologi di cui parliamo sostengono, che le forze del battezzato, e del non battezzato sono ugualmente capaci di resistere al male; scagliando acri invettive contro quelli che dicono il contrario, asserendo che coll' ammettere una necessitá di cader ne' peccati, senza la grazia di Cristo, aprano la porta alla dissolutezza, con troppo basse parole dicendo, che questa è [...OMISSIS...] . L' estenuare gli effetti del sacramento del battesimo, col quale gli uomini s' incorporano a Cristo, e sono sollevati dalla condizione della natura guasta, all' ordine delle cose soprannaturali, e al regno di Dio favorisce oltremodo la tendenza di questo secolo d' incredulità e di diserzione dalla fede cattolica. La filosofia divisa dalla religione indefessamente lavora a introdurre nel mondo un sistema di Razionalismo che tenga luogo d' ogni religione positiva. Il protestantismo che non può resistere a' suoi assalti si associa ogni dì più con esso allo stesso intento, e rifondendosi in una pretesa religion naturale va cessando d' esistere come credente ad una positiva rivelazione. Predicatori inspirati dall' umana superbia scuotono la fede delle plebi stesse, e già, nelle nazioni protestanti, si trascura l' amministrazione del battesimo, se ne altera la materia e la forma, non considerandosi oggimai questo principal sacramento che come un semplice rito, onde si trovano già moltissimi adulti non battezzati, e degli altri si dee giustamente temere, non forse sieno stati battezzati invalidamente. I filosofi del protestantismo, ed i razionalisti biblici della Germania, con migliaia di libri e d' opuscoli diffondono per ogni canto d' Europa lo stesso spirito freddo, falso, per essenza miscredente, lusingatore dell' orgoglio umano e lo comunicano di nazione in nazione. Nella Francia cattolica entrò legalmente sotto il titolo di Scuola Normale di Filosofia. E sarà ora una dottrina indifferente, e degna di trascurarsi a' nostri giorni quella de' nostri teologi, che insinuano apertamente che il battesimo non accresce le forze dell' uomo ad evitare il peccato? Alla quale, nello spirito razionalistico, consuona pur quella filosofica, che da' sensi, a' quali s' attribuisce la conoscenza, o che dalla forza subbiettiva dell' anima fa venire all' uomo le idee, onde la verità, che nelle idee si contiene, è fatta con ciò figlia anch' essa dell' uomo, non più eterna, non più divina, quand' anco con una perpetua incoerenza si protesti il contrario. Così accade che il Razionalismo corrompa ogni dì più l' educazione della gioventù cristiana, rendendola vana e superba; insegnandole che dalla sua ragione viene la verità, dal suo libero arbitrio la virtù: la rivelazione non esserle necessaria assolutamente; anche senza il battesimo poter essa volere e vincere le proprie passioni. Questo tentativo benchè ne' nostri Anonimi s' appalesi più manifesto, non è per avventura nuovo ma antico, essendosi insinuato già, lentamente, come dicevamo, da più di due secoli; egli non è accidentale, non è momentaneo; ma è concertato in sistema, replicato, incessante. Si è taciuto finora, o almen parlato sommessamente per non rinfrescare la memoria di scandali quasi obliati. Ma io credo, che Iddio già più non voglia che si nasconda la radice del male che occultamente serpeggia: la provvidenza divina ha permesso che quello spirito infausto di Razionalismo e di Pelagianismo, che segretamente corrode i visceri del cristianesimo, toglie la virtù a' sacramenti, ed anco la passione e la morte di GESU` Cristo, scoppiasse più aperto negli opuscoli di alcuni teologi cattolici, fors' anco in buona fede da parte loro, ma con dottrina non sana. Abbandoniamo ogni causa o disputa personale, e siamo solo solleciti della purità della fede, della causa di G. C. e della sua Chiesa. Nessuno che consideri le cose spassionatamente potrà dubitare che i nostri Anonimi in sostanza rinnovano insieme uniti, e sotto color di pietà un assalto alla dottrina della Chiesa ed alla grazia del Redentore; de' quali negli scorsi secoli s' ebbero tanti esempi e basti accennare solo quello celeberrimo dei PP. Arduino e Berruyer. La « Storia del popolo di Dio » di quest' ultimo, di cui s' era promessa la correzione, uscì alle stampe ancor tale, che dovette condannarsi in Roma stessa nel 1734, e poi due volte di novo da Benedetto XIV (1) ed una terza da Clemente XIII (2) dandosi così una prova di più che lo spirito razionalista e pelagiano non teme i replicati fulmini della Chiesa. Ora si raffrontino i sentimenti de' nostri teologi con quelli del Commentario sopra S. Paolo dell' Arduino e della « Storia del popolo di Dio » del suo confratello, e si riscontrino agli originali proscritti dalla Chiesa, le copie. Lo stesso esaltamento della forza della natura, la stessa depressione della grazia di Cristo; un estenuare gli effetti del battesimo, un disconoscerne la virtù salutifera di mitigare i moti della concupiscenza, un diminuire la necessità della redenzione: niuna grazia veramente medicinale, giacchè non può esservi medicina dove non ci ha malattia; una sufficienza, una integrità, una beatitudine all' uomo dovuta senza il lavacro del Redentore. E sogliono costoro attribuire tutti gli errori che seminano, a' dottori della Chiesa, ed alla stessa Chiesa. Laonde ci dicono francamente, che, quando si tratta passar dai primi moti ad azioni peccaminose, dicono TUTTI (i Dottori cattolici) [...OMISSIS...] Ed IN TUTTO QUESTO NON RICONOSCONO DIFFERENZA TRA BATTEZZATI O NON BATTEZZATI. Tanta ingiuria che si fa al battesimo del Salvatore, mi sprona a insistere in questo argomento, che d' altra parte può esser utile a confortare la fede de' cristiani. Pur troppo questi sono bene spesso male istruiti circa gli effetti del santo battesimo, e, attesa la materialità e l' incredulità de' tempi, ripugnano sovente a credere fedelmente a quello, che v' ha di più prezioso e di più divino in tali effetti qual è la riformazione e il miglioramento dell' anima umana, di cui l' uomo non ha coscienza, benchè poscia ne sperimenti i vantaggi. Sia dunque messo in più chiara luce il medicinale effetto che viene impugnato del santo battesimo. Nella « Dottrina del peccato originale (n. XCIII 7 CI) » fu dimostrato come si conciliano le opinioni apparentemente diverse de' teologi cattolici che ripongono l' essenza del peccato originale nella privazione dell' originale giustizia , di quelli che la ripongono nella stortura della volontà, e di quelli che la fanno consistere nella concupiscenza de' non rinati: riprendiamo la descrizione e le prove dell' esistenza della malattia, a cui egli, il battesimo, è soprannaturale rimedio. Fu dimostrato, che ritorna in fondo sempre la stessa dottrina sotto diverse espressioni; e questa unica e consentanea a se stessa è la dottrina della Chiesa dichiarata così sapientemente dal Tridentino. L' identità sostanziale della dottrina insegnata da quei teologi, con varie maniere di parlare, risulta chiara tosto che si definiscano nel debito modo le tre espressioni usate di giustizia originale , di stortura della volontà , e di concupiscenza de' non rinati . Appigliamoci anche qui alla guida di S. Tommaso. Egli distingue la giustizia originale dalla grazia santificante , benchè quella in Adamo dipendesse da questa, stantechè la giustizia originale d' Adamo non era solamente naturale, ma anche soprannaturale, e perchè perdendo egli la giustizia rendevasi anche indegno della grazia, in cui era stato da Dio costituito. La giustizia originale in generale è riposta da S. Tommaso nell' ordine delle umane potenze, pel quale le inferiori ubbidiscono docili alla volontà e la volontà ubbidisce al lume della ragione ed a Dio (1). Egli è chiaro, che supponendo l' uomo creato senza la grazia santificante l' ordine delle sue potenze non sarebbe mancato in un essere opera di Dio, e la natura umana sarebbe stata intera , come acconciamente la chiamano i teologi. Ma in tal caso Iddio sarebbe stato conosciuto dall' uomo col solo lume naturale; e la sua volontà sarebbe stata sommessa a lui così conosciuto: le inferiori potenze poi avrebbero tuttavia ubbidito alla sua buona libera volontà. La giustizia originale dunque in una tale ipotesi, non potea esser più che una giustizia naturale quanto alla sostanza, risiedente necessariamente nella volontà; perchè la sola volontà è per se stessa la potenza morale, non appartenendo alla moralità le potenze inferiori, se non in quanto contribuiscono o sono da lei mosse (1) a disporre bene o male la volontà. Laonde la giustizia originale in qualsivoglia caso riducesi alla rettitudine della volontà , che non si lascia distorre dall' ordine di ragione, per niuna lusinga di bene sensibile o soggettivo. Conseguentemente S. Tommaso mette l' essenza del peccato originale ora nella privazione dell' originale giustizia, or nella stortura della volontà, rientrando queste due cose l' una nell' altra; poichè, definito in che cosa consiste il disordine della volontà [...OMISSIS...] , applica questa definizione al primo peccato così: [...OMISSIS...] . Il qual medesimo disordine nella volontà è pure ne' discendenti del primo padre, che il ricevono insieme colla natura: [...OMISSIS...] . E nondimeno non si dee già credere che quest' avversione della volontà personale sia un positivo odio di Dio, o un' inclinazione che rechi la volontà ad odiare direttamente il sommo bene come pazzamente vollero i bajani (1). Ella consiste bensì in un lasciarsi andare facilmente e in certe circostanze irresistibilmente al dolce del sentimento della natura, in vece di starsi eretta e fissa in quel lume di ragione, dal quale essa dee prendere l' ordine dell' operare e la misura del godere (2). Laonde la ragione prossima di questa deviazione abituale della volontà dall' ordine di ragione, è attribuita all' animalità che agisce con insolente violenza e trae a sè e quasi lega l' anima intellettiva; e questa efficacia dell' animalità assorbente per così dire la miglior attività dell' anima umana si origina, a quanto sembra, dall' attuosità del seme, chiamato per ciò appunto da Innocenzo III ed altri dottori infetto e corrotto. Laonde benchè solo l' anima intellettiva e volitiva sia il subietto del peccato originale, tuttavia, [...OMISSIS...] . E tuttavia è ancor da notarsi, che questo attraimento soverchio che fa la carne dell' anima intellettiva a sè non è ancor propriamente il peccato originale; ma il peccato originale è l' immediato effetto. Poichè a cagione di quell' attraimento, avviene, che l' anima intellettiva sia alquanto ottenebrata (e quest' appartiene alla piaga dell' ignoranza), e alquanto sgagliardita (e quest' appartiene alla piaga della difficoltà) e così sia st“lta dall' ordine di ragione e però da Dio, non rimanendole più forze sufficienti a mantenere costantemente in tutti gli atti suoi ad un tempo quell' ordine di ragione, come quella la cui attività è perduta in parte nell' animalità, il che GESU` Cristo espresse colle parole, [...OMISSIS...] . Ora la naturale applicazione di tanta attività dell' anima intellettiva al sentimento della vita animale, è ciò che i teologi chiamano, conversione alla creatura ; e il conseguente languore dell' anima rimasta debole all' ordine di ragione, e priva della cognizione soprannaturale di Dio, è ciò che chiamano avversione da Dio . Essi insegnano adunque che la piega o conversione alla creatura che l' uomo riceve nell' essere generato, è la causa prossima dell' avversione da Dio; nella quale sta propriamente la ragion formale del peccato, [...OMISSIS...] , dice S. Tommaso, [...OMISSIS...] ; di che deduce, che il concetto del peccato attuale e dell' originale non è dissimile, contro i teologi razionalisti, che a quest' ultimo negano l' esser peccato semplicemente (2). [...OMISSIS...] ; la qual privazione della giustizia, come abbiamo veduto, consiste nel non esser più la volontà aderente all' ordine di ragione. Di che conclude l' Angelico: [...OMISSIS...] . Nella volontà de' bambini adunque (ancora immersa nell' essenza dell' anima) ha sua propria sede il peccato originale, perchè [...OMISSIS...] . E noi pure dimostrammo, che il peccato suppone sempre qualche attualità e solo un principio attivo può avere per suo subbietto. Dalle quali cose s' intende, come anche si dica, che il peccato originale consista nella concupiscenza de' non rinati , e in che senso il dir questo ritorni in fine allo stesso, che a riporre il peccato d' origine nella privazione della giustizia, ovvero nella stortura della volontà. La concupiscenza propriamente definita in un modo generale può dirsi l' inclinazione dell' anima intellettiva verso l' animalità e il bene subbiettivo. A torto i nostri Anonimi la restringono alle sole parti inferiori dell' uomo, nelle quali è l' appetito animale, che non ha per sè solo come è nelle bestie alcuna ragione di difetto morale (1). All' incontro S. Paolo attribuisce alla concupiscenza «phronema» e «nun» (2), e il catechismo del sacro Concilio chiama la concupiscenza ANIMI APPETITIO, e non appetitio carnis; acconciamente così definendola, [...OMISSIS...] . L' Angelico poi dice, [...OMISSIS...] . Si prende dunque acconciamente la parola concupiscenza anche a significare tutta la facoltà di appetire dell' animo umano la volontà stessa spontanea inclinata a fermarsi nel sentimento animale e nel bene subbiettivo; ed è in questo senso, che nella concupiscenza de' non rinati si può collocare il peccato di origine. All' incontro se per concupiscenza s' intendesse quell' attuosità della vita e del sentimento animale che tira a sè l' anima intellettiva, ella è più tosto la causa prossima del peccato originale, cioè della mala inclinazione della volontà anzi che peccato ella stessa (1). L' anima razionale dunque ed appetitiva dell' uomo, quando l' uomo è generato « si precipita, quasi direi nella carne; e il dolce della vita animale la diletta, senza il riguardo debito a quell' ordine di ragione, che a lei essenzialmente intelligente sta pur davanti almeno implicito nel lume della ragione. » Ma si devono distinguere tre cose in questa condizione dell' anima: 1 La potenza razionale di appetire ancor immersa nell' essenza dell' anima, non pur distinguibile colla mente nostra dall' altre potenze; 2 La stessa potenza che già esce e realmente si separa colla sua azione quando emette le sue appetizioni, o volizioni; 3 E questi stessi atti speciali, che si dicono volizioni. Queste tre attività vengono l' una dall' altra, come dalla radice d' un albero vien fuori il tronco; e da' tronchi escono i rami. Gli atti particolari, le volizioni dunque sono produzioni della potenza di volere; la potenza di volere è quasi direbbesi produzione dell' essenza dell' anima, si che consegue, che, se si tratta di atti spontanei della volontà, questi sogliono trarre la qualità loro dalla potenza, ed esser buoni se la potenza è ben disposta, non buoni se la potenza è male disposta. Medesimamente la volontà come facoltà spontanea di operare, tiene la sua disposizione buona o cattiva, cioè ben ordinata o no, che prima aveva quando si giaceva quiescente nell' essenza dell' anima. di che si deduce, che l' essenza del peccato originale quant' alla macchia non si può riporre negli atti particolari della volontà; e nè pure nella volontà come potenza; ma nell' essenza dell' anima volitiva e appetitiva; onde incomincia quel male che si propaga poscia alla potenza ed agli spontanei suoi atti e però il male di quella e di questi si riduce in fine alla mala disposizione dell' anima che è lo stesso peccato originale. Ma che l' anima stessa, l' essenza dell' anima abbia questa mala disposizione in sè riesce difficile a intendersi per cagione, che quella disposizione immorale sfugge alla coscienza. Ma la fede, rivelandoci il peccato originale che tutti i cristiani credono sulla parola di Dio rivelante proposta loro dalla santa Chiesa, c' insegna indirettamente una verità così profonda; e prevenendo la scienza umana, presta un argomento della sua divinità. La scienza dell' uomo fatta per pochi, viene in appresso e discopre, dopo ricerche di molti secoli, quei veri che erano già supposti dalla fede con divoto stupore degli stessi scienziati (1). Ell' era un' arma de' Pelagiani, negare il peccato d' origine, perchè l' uomo non ne ha immediata coscienza. E S. Agostino accordava loro che il reato della concupiscenza si toglie alla consapevolezza dell' uomo; anzi volea che si distinguesse diligentissimamente tra il sentimento della carne, di cui si ha coscienza, e quella mala qualità e disposizione dell' anima di cui la coscienza ci manca e in cui il peccato originale risiede; stringendo quegli eretici a credere a quanto dice la fede, eziandio che nol dica la coscienza diretta ed immediata. In fatti delle cose che giaciono in fondo all' anima, dove sta quel peccato, o è soprammodo difficilissimo, o al tutto impossibile, l' essere consapevole. [...OMISSIS...] . Il perchè accorda a Giuliano, che l' argomento di cui egli si serviva a negare il peccato d' origine (il non averne cioè noi coscienza) era tale da illudere gli uomini grossi e carnali, ma tanto più in ciò stesso offensivo della cattolica fede; [...OMISSIS...] . Ed avverte, che il male originale non istà nella volontà del fanciullo, presa questa volontà come potenza della quale, operando noi, siam consapevoli; ma è consopito nel fondo dell' anima, dove la coscienza non giunge, e tuttavia viene il tempo che quel peccato occulto si appalesi anche di fuori, colle sue male tendenze, e colle male sue operazioni; [...OMISSIS...] . Dove si scorge, secondo il parlare di S. Agostino, che il peccato originale prima è nascosto in fondo dell' anima ed ivi quiescente, poi operante al di fuori ed in battaglia colla libera volontà, che o il vince corroborata dalla grazia di GESU` Cristo e allora l' uomo è salvo; o si lascia vincere e allora l' uomo è perduto. Ma non si creda perciò soggiunge il Santo, che quel peccato non nuoccia, anche prima di mandar fuori i suoi tralci delle male operazioni, nuoce sempre, se non è sciolto dal Redentore. [...OMISSIS...] Invano adunque Pelagio sosteneva, come fanno i moderni teologi razionalisti, che la concupiscenza non fosse altro che il sentimento carnale (2). S. Agostino rispondeva, che il sentimento è quello che ci rende consapevoli della concupiscenza; ma non è la concupiscenza di cui si parla, occulta madre di quel sentimento. La concupiscenza, quella concupiscenza cioè in cui l' essenza del peccato originale consiste, è una mala disposizione dell' anima occulta in essa, una mala qualità (3). [...OMISSIS...] Ed illustra questo concetto con un esempio che mostra lo spirito veramente filosofico del grand' uomo, [...OMISSIS...] . Riassumendo dunque in poco ciò che abbiamo detto finqui intorno alla concupiscenza ed a' suoi vari significati, 1 Se la concupiscenza si prende per quell' impeto, per così dire, onde l' anima del bambino che si concepisce s' immerge nella viva carne, che l' attira all' atto della concezione, una tale concupiscenza è la causa prossima del peccato d' origine [...OMISSIS...] e non lo stesso peccato d' origine (3); 2 L' animalità così prevalendo trae seco la parte razionale dell' anima, la volontà, che tende da quell' ora spontanea a secondare i movimenti piacevoli della carne; e soddisfarsi nel bene della natura umana come se altro non ci fosse al di là, e a questa tendenza originaria, a questa volontà, o attività razionale dell' anima prona a riporre il suo finale compiacimento nella natura, si dà pure il nome di concupiscenza; ed è in questa, che ha sede quella mala qualità , quella macola , quel reato , in che consiste il peccato d' origine: mala qualità che cessa in virtù del battesimo, benchè rimanga la tendenza alle passioni del senso, ma minuita e che non s' acquieta in questa, perchè la parte suprema dell' anima è sostenuta dall' infusion della grazia. Quella tendenza dunque che rimane specificamente diversa dalla precedente allora dicesi fomite della concupiscenza (1); 3 Dalla detta concupiscenza, o che abbia congiunta la macchia , come ne' non rinati; o che non l' abbia come nei rinati, vengono i movimenti disordinati della volontà prona al senso, che si riducono al peccato originale, se questo vige, o si riducono al fomite, se il peccato originale è pel battesimo estinto. Acciocchè dunque chiaramente s' intenda questa espressione consacrata dalla tradizione, che il peccato originale è il reato della concupiscenza; non dee prendersi la parola concupiscenza per l' atto dell' animalità che attira a sè l' anima razionale nel primo momento dell' esistenza dell' uomo, atto che poi permane; non per gli atti spontanei della volontà, che alle speciali sensazioni abbandonasi; ma per la mera disposizione viziosa a questi atti, posta in essere nella congiunzione dell' anima col corpo; che in noi è quiescente e a noi stessi ignota fin a tanto che non erompe a' suoi atti. E quella disposizione in cui consiste il peccato non è già la semplice tendenza al bene sensibile (la mera concupiscenza senza determinazione di grado) ma ella è la mala qualità , come dicemmo con S. Agostino, che trovasi in quella concupiscenza, quale è a noi innata e dura avanti il battesimo, e che col battesimo cessa. Che cosa è dunque la mala qualità della concupiscenza innata che forma il peccato? Consiste in questo, per dirlo di nuovo, che quella tendenza al diletto animale e al bene subbiettivo della natura rapendo a sè tutta quasi l' attività dell' uomo, rapisce a sè e lega anche la parte suprema dell' uomo la cima dell' anima, nella quale sta la base dell' umana persona, che pure di natura sua dee conformarsi all' ordine di ragione, e sta pure il subbietto di ogni vero peccato. Il lume adunque della ragione, benchè non cessi di risplendere nell' uomo, non è più la costante guida dell' uomo in tale stato; esso lume ha troppo poca influenza sopra un essere così propenso in verso l' animalesca e subbiettiva dilettazione. Poichè quel lume è fatto di natura sua per dirigere a Dio, e già l' uomo non si lascia più da lui liberamente dirigere; quindi dicesi che v' ha in lui mancanza di giustizia consistente nell' inordinazione della volontà, o sia nell' avversione a Dio. Quindi la definizione che dà S. Tommaso dell' originale peccato. [...OMISSIS...] (e non in Adamo, giacchè altro è il peccato considerato in Adamo, altro è il peccato considerato ne' posteri, checchè ne dicano i nostri Anonimi, che menano piedi e mani per confonderli insieme) [...OMISSIS...] ; non la concupiscenza sola, in astratto presa, ma colla mala qualità della privazione della giustizia originale, la qual mala qualità non è meramente l' assenza della grazia, come vogliono i nostri Anonimi (2) (nè l' assenza della grazia è una qualità ); ma è l' indebolimento morale della volontà dell' uomo, pel quale ella non ha più virtù di viver bene, come dice S. Agostino (1), non ha più virtù di muoversi liberamente verso il bene oggettivo (2), il che pur è un disordine morale; e questa virtù non l' ha più, perchè le è sottratta l' attività dell' anima già soverchiamente attratta e legata nell' animalità. L' attività radicale dell' anima è dunque unica, perchè unica è l' anima, ed ella si comparte a diverse potenze (3). Laonde se qualche potenza attrae a sè un soverchio di quell' attività, l' altre ne provan difetto rimanendosi indebolite e torpide a muoversi. Indi accade che la facoltà di seguire il bene oggettivo, che costituisce la volontà buona , sia fiacca nell' uomo, perchè l' animalità oggimai tira a sè troppo dell' attività dell' anima. Rimane potente all' incontro la volontà della carne , cioè quella che segue il bene soggettivo e sensibile, volontà che ha la qualità cattiva in quanto non dà l' attenzione e l' importanza debita al bene oggettivo. Di che riceve gran luce la definizione che dà del peccato d' origine Ugone di S. Vittore, che il dice [...OMISSIS...] . La mala qualità che costituisce il peccato è quella « mortalis infirmitas » della facoltà di volere il bene oggettivo. Questa facoltà di volere il bene è debole perchè l' animalità trae soverchiamente a sè l' attività dell' anima, la quale attività diviene così potente solo a volere il bene soggettivo e sensibile, onde ne consegue quella che Ugone dice « concupiscendi necessitas ». Questa è la dottrina stessa di S. Agostino: [...OMISSIS...] . - Quest' è la dottrina stessa di S. Bonaventura: [...OMISSIS...] : questa in somma è la dottrina tramandataci da tutta l' ecclesiastica tradizione. Forte è dunque la volontà dell' uomo che nasce per volere il bene subbiettivo e sensibile; debole è la volontà di lui per volere il bene oggettivo e morale. Questa debolezza della volontà pel bene è quel languor naturae (3), in cui S. Agostino cogli altri Padri ripongono l' originale peccato; perchè in conseguenza di essa nasce una infelice concupiscendi necessitas contro l' ordine di ragione (4). Poste le quali dottrine innegabili della costante tradizione della Chiesa si può ben far giustizia delle parole, colle quali il moderno Teologo, detraendo alla virtù del battesimo, mette alla medesima condizione i non battezzati, ed i battezzati, dando a quelli una libera volontà capace di viver bene coll' evitare le azioni peccaminose, quant' a quest' ultimi; benchè S. Agostino con tutta la Chiesa chiami il peccato originale, [...OMISSIS...] . Poichè tutto ciò asserisce il nostro C. e parla, in nome di tutti i dottori cattolici: [...OMISSIS...] . Si pesino bene queste ultime parole principalmente. Se, anche l' uomo non battezzato può sempre come il battezzato SENZA DIFFERENZA ALCUNA astenersi dalle azioni peccaminose, non ha dunque necessità per viver bene del santo battesimo; anzi, secondo il nostro autore, nè pure della grazia di Cristo, perchè egli sostiene che la ragione dell' uomo (non la grazia) può sempre accorrere e vincere la passione abusando delle parole dell' Angelico: [...OMISSIS...] . Non è ella questa la genuina sostanza dell' eresia pelagiana, coperta ora più, ora meno, di artificiose parole, ma costituente il fondo di tutti gli scritti de' nostri teologi razionalisti? Non ho io ragione di rispondere a quelli, che non fanno differenza fra battezzati e non battezzati quanto alla forza del libero arbitrio per bene operare, e che attribuiscono all' uno e all' altro un egual potere di reprimere le passioni, ed evitare le azioni peccaminose, quello stesso che S. Agostino rispondeva a quegli eretici che del pari estollevano il libero arbitrio de' non battezzati (e in ciò Agostino era bocca della cattolica Chiesa) [...OMISSIS...] . Laonde se la cattolica Chiesa condannò quelli che dicono impossibili i divini precetti a' giustificati, i quali hanno l' aiuto della grazia, facendo così differenza fra le forze del giustificato, e quelle del non giustificato. [...OMISSIS...] ; d' altra parte condannò altresì quelli che li dissero possibili a' non giustificati operanti colle naturali loro forze. Onde ne' capitoli di S. Celestino Papa si legge (4), [...OMISSIS...] . Che anzi la Chiesa, lungi d' ammettere che il non battezzato che non opera colla grazia possa egualmente che il battezzato astenersi dalle azioni peccaminose, come insegnano i moderni nostri teologi; Ella dichiara incapace di ciò il battezzato stesso, se non riceve ognora nuovo aiuto di Cristo, il quale lo dà a chi lo domanda. [...OMISSIS...] è il terzo capitolo di Celestino, [...OMISSIS...] . Laonde i nostri recenti teologi razionalisti danno più forze al non battezzato, che non dia la Chiesa cattolica allo stesso battezzato. Certo, se io scrivessi pe' soli teologi tali cose, mi darei una cura superflua, essendo loro troppo noto, appartenere alla fede, che le forze del libero arbitrio in un uomo giustificato e incorporato a Cristo pel battesimo, sono di gran lunga maggiori pel bene, di quelle che dalla mera natura abbia un altro non battezzato; e d' altra parte ho già dimostrato ampiamente nella « Risposta ad Eusebio », che passano tre ragguardevolissime differenze fra il potere d' operare il bene che ha l' uomo battezzato e quello che ha il non battezzato e privo di grazia, nel quale scorgesi 1 incapacità di eseguire a pieno i divini comandamenti; 2 cedevolezza al peccato; 3 incapacità di meritare la vita eterna (1), e le contrarie doti sono nel battezzato; tutte le quali dottrine vengono affatto dissimulate dal C., come se da me non fossero state nè manco accennate, non che provate con irrefragabili autorità, scrivendo io dunque piuttosto pe' fedeli non teologi, che si cerca ingannare sotto specie di zelo per la pura dottrina, seguiterò a dir quello, che il loro vantaggio mi sembra richiedere. E questo sarà dimostrare, deducendolo dall' intima natura del peccato originale e della liberazione da esso che si fa pel battesimo, che un effetto di questo sacramento è altresì la mitigazione delle forze della mala concupiscenza e che perciò erra dannosamente colui che non vuol riconoscere differenza alcuna fra battezzati e non battezzati quanto alle forze della libertà umana in evitare le azioni peccaminose, alle quali incita la mala concupiscenza. Egli è di fede, 1 che nel battesimo si ottiene la giustificazione de' peccati; 2 che questa giustificazione non consiste nella sola remissione de' peccati; 3 che ella consegue ad un' operazione della grazia divina, che si diffonde nei cuori per lo Spirito Santo, [...OMISSIS...] . Del sentimento diffuso in noi di questa grazia così parla S. Paolo, [...OMISSIS...] . Dal qual sentimento interiore nasce l' istinto dello Spirito Santo, e la facoltà di operare il bene soprannaturale meritorio di vita eterna. L' uomo battezzato è dunque congiunto con Dio, che a sè solleva l' attività dell' anima, come il senso animale dall' altra parte a sè la deprime. L' attività dunque suprema dell' anima, mediante la grazia, viene innalzata dalle cose terrene, ella è ingrandita, rinnovata, una nuova potenza comparisce nell' uomo superiore per dignità e per potere a tutte l' altre, essa diventa la cima dell' uomo, la base della sua personalità. Per questo le divine Scritture esprimono l' operazione che fa il battesimo dicendo che, l' uomo viene rigenerato; [...OMISSIS...] ; e la distruzione del peccato che ne consegue l' esprimono dicendo, che l' uomo nel battesimo muore al peccato (4), [...OMISSIS...] dove risiede la nova personalità dell' uomo; rimanendo l' attività prima, la precedente volontà, ma scaduta di posto (1), a cui perciò compete più l' appellazione di persona, onde la precedente persona infetta dal peccato è morta, cessando così dall' essere persona subbietto capace di peccato. In questa maniera la facoltà di volere e di fare il bene oggettivo è divenuta quella che S. Agostino colla tradizione chiama il libero arbitrio liberato (2). Messa adunque nell' uomo una volontà suprema retta, anche la giustizia è in lui restituita, che nella rettitudine della personale volontà si ripone; quindi è tolta la macchia del peccato, che sta nell' inordinazione, e nel languore della volontà suprema, e che è la deformità propria della volontà; quindi rimesso il reato, perchè il reato o sia il debito della pena segue la macchia del peccato, e questa tolta, è tolto quello altresì (3). Vero è che continua l' animalità ad operare sull' anima e a tirarne a sè quanto può l' attività; ma essa non la trova più così mobile e fiacca come prima; poichè, se essa la tira al basso; dall' altra banda havvi già Iddio nell' uomo che colla sua grazia la tira all' alto, e di tutto peso, per così dire, la sostiene. Quindi l' attività dell' anima è divisa, non più al solo senso lasciata andar col suo peso; anzi la miglior parte di lei, quella in cui l' uomo personalmente esiste è nella mano di Dio che se l' ha presa; e la guarda; se pure il libero arbitrio dell' uomo, che sempre ad peccandum valet , non gliela sottrae nuovamente. Di che si fa manifesto, che quella, che Ugone di S. Vittore e S. Bonaventura e dopo lui tant' altri, chiamano concupiscendi necessitas , dee nel battezzato di gran lunga mano diminuirsi di grado, e cangiar anco di specie; in una parola dee mitigarsi lo stesso fomite della concupiscenza; benchè la coscienza nol dica all' uomo immediatamente; bastando che gliel dica la fede, e l' esperienza. E in quanto al grado non può negarsi, che la tendenza dell' anima al bene soggettivo e sensibile deva riuscir minore dopo il battesimo, se una parte dell' attività dell' anima e la migliore è attratta dalla grazia che avvalora il libero arbitrio, e lo spirito vi diffonde l' affetto della carità, e dalla soavità di questo, tutta opposta alla carnale dilettazione, si trova occupata. Quanto poi alla specie; la concupiscenza dopo il battesimo varia certo specificamente dalla concupiscenza anteriore al battesimo in questo; che dopo il battesimo, non occupa più la parte superiore dell' uomo; e però non è più concupiscenza personale , ma è solo concupiscenza naturale; non è più concupiscenza con macchia e reato; ma toltole via l' una e l' altro; non è più peccato, ma solo fomite; non perde più l' uomo, ma gli dà occasion di combattere col suo libero arbitrio liberato, di vincere e di meritare. Le quali cose tutte mi si permetta di suggellare colle autorità del Maestro delle sentenze, e dell' Aquinate suo commentatore. Pietro Lombardo così scrive al nostro proposito, [...OMISSIS...] . E tosto passa a provare, che gli effetti del battesimo sono due principali, cioè 1 la soluzione del reato della concupiscenza, e 2 la diminuzione del fomite, e che nell' uno e nell' altro modo si suol dire, che il peccato originale nel battesimo si rimette. [...OMISSIS...] . E prova che la remissione del peccato originale nel battesimo suol dirsi, che si fa anche per la diminuzione della concupiscenza colla testimonianza di S. Agostino, di cui adduce questo testimonio: [...OMISSIS...] . Sulle quali parole aggiunge il Maestro delle Sentenze, [...OMISSIS...] . L' Angelico commentatore di Pietro Lombardo ammette pienamente i due effetti del battesimo, la soluzione del reato della concupiscenza e la diminuzione del fomite della stessa, e dopo aver insegnato, che ogni peccato reca due mali effetti nell' anima, l' avversione a Dio (macchia e reato), e l' inclinazione ad un simile atto (1); mostra come la giustificazione toglie l' uno e l' altro effetto (2). La qual dottrina egli applica in questo modo alla grazia del battesimo, [...OMISSIS...] . Questo è il primo effetto della grazia battesimale; il secondo poi è la diminuzione del fomite, e così viene descritto dal Santo Dottore, [...OMISSIS...] . E` dunque ingiurioso alla grazia di Cristo, è ingiurioso ai dottori cattolici, è ingiurioso alla cattolica religione il dire, che [...OMISSIS...] , di maniera che la ragione de' primi e quella de' secondi sia egualmente forte contro le lusinghe de' sensi, e possa sempre ugualmente [...OMISSIS...] : in tal caso la sola naturale ragione e libertà basterebbe da se stessa, senza la grazia, ad evitare tutti i peccati, e però a vivere giustamente, il che la Chiesa riprova (2). Convien dunque riconoscere da chi vuol tenersi nella dottrina della Chiesa cattolica; che la liberazione che Cristo fece della schiavitù del peccato, secondo la sua promessa (3) non ha un effetto solo, come voleva Giuliano d' Eclana; ma sì, ne ha due, come colla Chiesa cattolica volle Agostino d' Ippona: il quale dopo aver recate le parole del figliuol di Dio, [...OMISSIS...] . Dalle quali dottrine si può conoscere differenza immensa, che i dottori cattolici fanno tra i battezzati e i non battezzati relativamente al potere di operare il bene e di vincere il male. Perocchè nell' uomo non rinato 1 vi è una concupiscenza che è peccato (reatus concupiscentiae), perchè tiene captivata la umana persona, quando una concupiscenza con sì mala qualità , che è il peccato, non esiste più nel battezzato; 2 vi è una concupiscenza che è più intensa nel tirare l' uomo al male (fomes concupiscentiae), perchè ella sola tira quasi tutto l' uomo, anche la persona senza che abbia in opposizione a lei sufficientemente altra forza efficace, che attiri l' uomo, eccetto il troppo debole lume della ragione naturale; quando nel battezzato se da una parte vi è l' animalità che continua ad attrarre a' suoi istinti l' anima; dall' altra vi è la grazia, che possiede la parte suprema dell' uomo e avvalora il suo libero arbitrio, e però nol lascia più abbandonato alle forze della concupiscenza. Concludasi adunque, la concupiscenza dell' uomo rinato differisce di specie e di grado dalla concupiscenza dell' uomo non rinato; e quindi in quello è doppiamente accresciuta la potenza di resistere al male e di operare il bene. Consideriamo ancora la doppia serie di effetti, che ne scaturiscono. In quanto all' operare il bene, il battezzato ha ricevuto una potenza affatto nuova, cioè la potenza che riguarda il bene soprannaturale, colla quale fa le azioni de' figliuoli di Dio, che meritano la vita eterna. Questa potenza soprannaturale è ciò che rende la sua concupiscenza di specie diversa da quella dell' uomo non battezzato, e che gli dà forza di resistere al male. In fatti il non battezzato, come insegna l' Angelico (1), non può colle sue sole forze naturali astenersi per lungo tempo dal peccato mortale ove gravi tentazioni gli si presentino (2). E qui sono da distinguersi più questioni. Primieramente dico, che nel caso in cui il fomite della concupiscenza tragga l' uomo a seguire spontaneamente colla volontà sua il bene sensibile e subiettivo, dimenticato l' oggettivo e morale; senza che la libertà possa intervenire a dominare la volontà obbediente alle leggi piscologiche della spontaneità, il che indubitatamente accade ne' bambini, ne' pazzi, negli ubbriachi, e in tutti quelli in cui la forza dell' imaginativa esaltata e della passione antecede la libertà, togliendole il tempo di considerare colla ragione e di provvedersi di forza pratica; in questo caso dico, ne' non battezzati quella volontà che riman così vinta, suol essere quella stessa volontà, che è rea e macchiata; cioè che ha in sè l' originale peccato, e però gli atti d' una tale volontà cedevoli agl' istinti, riduconsi al peccato d' origine tuttora esistente e regnante, come a sua causa immediata e radice. Queste scorse della volontà quasi trascinata dagl' istinti appartengono in tal caso non già alla forma, ma alla materia dell' originale peccato, la qual materia, come egregiamente dice S. Tommaso, tien luogo della conversione al bene sensibile e soggettivo; senza che il formale del peccato d' origine, nè la colpa perciò si accresca. Laonde nè pure la colpa o il reato, riceve aumento ma s' accresce bensì nell' uomo per sì fatte passioni la disposizione al male, la quale nè anche colla morte si distrugge, ma solo colla liberazione e salvazione di Cristo. Ma ne' battezzati non accade così fino che colla loro libera volontà non hanno di novo perduta la grazia di Dio, essi non possono mai esser necessitati ad alcun atto di peccato, per quantunque forti sieno le naturali inclinazioni. Que' movimenti poi che si suscitano verso i beni sensibili nell' uomo, che è in possesso della grazia santificante, nell' età infantile, e in istato d' alienazione mentale non procedono mai da una concupiscenza macchiata e rea e personale; ma possono procedere dal mero fomite che rimane privo della macchia e del peccato personale o sia che non tocca la persona. Laonde questi sono allora figli di un' altra madre, e non si può più dire che in essi operi il peccato in senso vero e proprio, ma solamente che sieno effetti mediati e lontani di quel peccato, che non è più, ma che partendosi lasciò in essi il tristo legato del fomite che tenta, ma non distacca l' uomo da Dio. Onde nel « Trattato della Coscienza » noi spiegavamo il parlare dell' Apostolo seguendo i Padri e gl' Interpreti, dicendo che quelli, che l' Apostolo chiama peccati, sono peccati senza dannazione e senza imputazione (mentre ne' non battezzati hanno la stessa condizione del peccato d' origine), e il dire peccato senza dannazione e senza imputazione, è manifestamente un dire non peccato nel senso proprio del Tridentino, che il definisce acconcissimamente: « morte dell' anima. »Di che consegue che se ne' non battezzati sono propagini immediate di quel peccato che vige e regna e però possono insieme con lui ricevere la denominazion di peccato, ne' battezzati all' incontro sono meri effetti del fomite, che non è peccato; e al fomite si riducono, e però dal padre loro non possono ricevere la denominazione di vero peccato; nè lasciano dopo morte alcuna mala disposizione od altro malo effetto nell' uomo; perchè distrutto colla morte il fomite con tutte le sue conseguenze, l' anima del giusto rimane del tutto pura e viva in Cristo, che è « la risurrezione e la vita », eccettuate sempre le colpe veniali, a cui anche i battezzati soggiaciono. Oltre di ciò se ne' battezzati tali movimenti cangiano di natura, perchè nascono da una concupiscenza, che è diversa di specie da quella de' non battezzati; essi sono poi anche minori di numero, e meno impetuosi, come quelli che procedono da una concupiscenza diminuita ancora di grado . Ma un' altra differenza ancora, a mio parere, s' incontra fra il battezzato e il non battezzato. Talora il mero istinto animale opera da se solo, come suole avvenir nel sonno, o quando l' uomo si trova in uno stato convulsivo, a ragion d' esempio, perchè colto da idrofobia. A queste operazioni della mera animalità possono essere soggetti anche i giusti, non appartenendo esse all' ordine morale. Ma lasciando da parte questi mali della natura e venendo all' ordine morale la volontà allettata dal bene sensibile e soggettivo può lasciarsi muovere spontaneamente e necessariamente, trovandosi l' uomo in due condizioni diverse. E parlo ora dell' uomo in generale, astrazion fatta dal battezzato e dal non battezzato. Ella può esser rapita e mossa semplicemente e istantaneamente da bene sensibile, senza che l' uomo abbia tempo a considerar la legge e a confrontare l' azione oggettivamente malvagia con essa, e questo accade ne' primi moti, nel qual caso, la volontà umana opera disordinatamente, perchè in modo contrario alla sua natura che è di essere un ragionevole e morale appetito; ma questo disordine più tosto negativo che positivo non è che venial peccato. Può l' uomo in secondo luogo (sempre in generale prescindendo ora dalla grazia) vedere il bene oggettivo e morale, ma poi, attesa la forza della tentazione, essere addotto al bene subbiettivo7immorale, sottratta la forza pratica alla sua volontà, dalla seducentissima dilettazione giunta all' estremo suo termine; di che cade non perchè sia rimasta prevenuta la sua ragione e resa inetta a mostrargli il dovere; ma perchè è rimasta prevenuta e legata la sua libertà, la quale non potè aiutarlo contro lo spontaneo volere, ed a ciò che la ragione gli mostrava, attenersi. Nell' uno e nell' altro di questi casi vi può esser colpa in causa, se questa fu libera; ma in tali atti in sè considerati e prescindendo dalla causa libera, non vi è colpa; poichè si suppone in entrambi, operar l' uomo attualmente privo di libertà, benchè siavi peccato, che in relazione alla causa libera dicesi colpa. Ora sì nell' uomo battezzato che nel non battezzato, il primo caso può aver luogo indubitatamente, non però egualmente; ma più in questo e meno in quello. Quanto poi al secondo, reputo, che possa aver luogo solo nel non battezzato; e reputo che di questo caso intenda dir S. Tommaso, quando parla de' peccati mortali, a cui il non battezzato necessariamente soggiace (1). Egli dice, che quantunque l' uomo non giustificato possa evitare i singoli peccati, tuttavia, « quod diu maneat absque peccato mortali esse non potest », e il prova coll' autorità di S. Gregorio Magno (2), dandone questa ragione, [...OMISSIS...] . Dopo di che si fa l' obbiezione, che l' uomo può anche operare contro il fine preconcepito e contro l' abito, purchè ricorra alla meditazione; ma risponde, che [...OMISSIS...] . Di che conchiude che l' uomo non giustificato non può a lungo astenersi da ogni peccato mortale, perchè [...OMISSIS...] . La cosa però non procede egualmente nel battezzato; e se ne può dare questa ragione filosofica. Fino a tanto che la ragione non può accorrere, confrontando il bene soggettivo e istintivo col bene oggettivo e morale; la volontà va dietro al bene sensibile naturalmente; non gli è proposto veramente ancora un oggetto morale; né l' uomo conosce, nè sente l' obbligazione; e perciò l' operazione non viene dalla volontà personale e morale; o quel barlume che n' ha non basta a costituire una grave inordinazione, un peccato mortale. Ma qualora la ragione gli mostri attualmente e chiaramente ciò che dee fare, egli sente l' obbligazione di operare secondo il bene oggettivo e morale, che scorge. Laonde in questo caso se l' uomo non potesse resistere, sarebbe segno manifesto che v' avrebbe un languore nella stessa persona dell' uomo, non solo nella natura . Ma la persona non ha più languore dopo il battesimo, ma solo la natura. Dunque, come dissi nel « Trattato della Coscienza », non possono mai mancare all' uomo battezzato le forze, colle quali adempire alle obbligazioni da lui conosciute, purchè si giovi degli aiuti che sono in sua mano, fra i quali quello dell' orazione, dicendo il Concilio di Trento, colle parole di S. Agostino, de' giustificati, [...OMISSIS...] , alle quali consuona il Canone XXII. [...OMISSIS...] . Che se pur si avverasse che l' uomo giustificato e faciente quel ch' egli può cedesse necessariamente a qualche lusinga, ciò non potrebbe essere, che ne' primi moti, o in uno stato di ragione turbata, e ciò non farà mai con tutta l' attività voluta dal peccato mortale, a costituire il quale non basta che intervenga l' azione personale o la libera, ma si esige che l' oggetto stesso dell' azione sia personale , e però che abbia ragione di fine ultimo. Di che il cedere non sarà mai che parziale nel detto caso, da parte dell' attivitá umana, non totale: e dato che intervenga qualche disordine nell' azione personale non sarà tale da staccar la persona dall' oggetto buono e morale a cui aderisce. Onde non vi sarà che colpa veniale di cui rimane la miniera anche ne' battezzati, per usare una frase del Cardinal Pallavicino che è il fomite della concupiscenza (1). Possono adunque i giustificati, colla divina grazia, adempire tutte le obbligazioni da essi conosciute, se fanno quello che sta in loro, nè mai sono addotti dalla tentazione senza il consenso della loro libera volontà in tale strettezza e deficienza di forze da dovere arrendersi ad essa in modo da peccare gravemente; là dove a' non giustificati non è assicurata un' egual forza; quantunque sia vero, come dicevamo, che quando essi cadano sotto il fardello delle proprie obbligazioni per assoluta impotenza, non demeritano con ciò se manchi in essi al tutto la forza di evitare il peccato (1). Ma nella loro volontà, se questa è soccombuta rimane una maggior piega ed adesione al male commesso. Nè con questo è mio pensiero di negar loro la possibilità di pregare, eccitati dalla grazia. Reputo ancora, che una orazion naturale, che niente certamente può meritare, possa non di meno essere ordinata a domandare nell' ordine della giustizia naturale aiuti morali da Dio naturalmente conosciuto, ed impetrarli ancorchè non dovuti. S' aggiungono le grazie attuali, che dispongono l' uomo non giustificato, alla giustificazione; le quali Iddio certamente dona a chi vuole, secondo l' altissimo suo beneplacito, secondo quello che insegna il sacrosanto Concilio di Trento. E qui sembrami poter giovare a chiarire le idee (giacchè per questo appunto mi allungo in tali ragionamenti), l' esporre l' origine logica del Giansenismo; cioè il dimostrare, per quali passi sbagliati, l' intendimento degli autori di questa eresia traboccasse in essa miseramente. Lo sbaglio primo si fu l' aver confuso la volontà colla libertà; e il non avere avvertito che queste due facoltà operano con leggi diverse; e formano due sfere di operare; delle quali quella della libertà è superiore a quella della semplice volontà. Il moderno teologo precipita nello stesso sbaglio, quando vuol confuso il mero volontario col libero; e quando incontrandosi in alcuni luoghi in cui noi parliamo della volontà e delle leggi che ad essa presiedono; egli ci accusa (1) di negare la libertà , che pure in tanti luoghi dichiariamo essere una forza superiore alla volontà che perturba e modifica le leggi a cui la volontà da sè sola ubbidirebbe. Ora quali sono le leggi della volontà , quando quella facoltà (diversa dalla libertà) che dicesi, un appetito razionale , rimane abbandonata a se stessa? La legge si è che ella inclina a tutti quanti i beni dall' uom conosciuti, e si lascia muovere dalla loro azione; e acconsente di preferenza al maggiore, se non può aderire a tutti. E questo è infatti lo stato dell' uomo, prima ch' egli possa esercitare la sua libertà, lo stato del bambino, non pervenuto ancora all' esercizio della sua libertà bilaterale. In un tale stato la volontà è dolcemente attratta da ogni bene, perchè è la potenza del bene, ella è mossa da ogni stimolo per piccolo che si voglia perchè è mobilissima e soprammodo delicata; e per quella legge che dicesi anche spontaneità , se due agenti allettevoli contemporanei l' attirano, tende verso ad entrambi, ma a quello, che esercita su di lei una maggior forza, si volge più ardente, o con preferenza. Ora se il bambino non è battezzato, egli è attratto debolmente dal lume di sua ragione, che per se solo non esercita un' azione su di lui realmente sensibile (cioè al modo che è sensibile l' azione delle cose reali di cui ha percezione); ed è attratto fortemente dalla dilettazione del senso animale. Laonde quantunque l' intelletto umano aderisca per sua natura all' essere ideale , e quindi la volontà sia volta naturalmente anche al bene oggettivo universale, onde s' origina nell' uomo la facoltà di operare il bene morale, la quale non può in lui cessare giammai, e con essa si origina pure il libero arbitrio; tuttavia l' animalità e il bene soggettivo predomina nell' uomo in tale stato, essendo questo bene il solo agente reale che sull' anima influisca e che può a sè prevalentemente attirarla. Se dunque avvenga in progresso, che fra il bene morale e il bene subbiettivo nasca forte collisione, e la libertà non trovi in quello forze bastevoli contro questo, l' uomo seguita a veder quel primo, e ad approvarlo; ma s' appiglia coll' opera a questo secondo, [...OMISSIS...] . Nell' uomo battezzato incorporato realmente a Cristo la condizione delle cose è ben altra. Se da una parte v' ha l' azione reale del bene animale, che a sè l' attira, dall' altra v' ha un altro bene reale assai maggiore che pur l' attira o per meglio dire lo tiene; e questo è Dio, che si comunica all' anima, comunicandole la grazia e diffondendovi la dilettazione della carità e così avvalorando poi il libero arbitrio che può sempre vincere. Laonde nell' uomo in tale stato costituito accade che quantunque l' animalità da parte sua seguiti ad allettare a sè l' anima volitiva ed attiva dell' uomo anche dopo il Battesimo siccome prima, onde il fomite; tuttavia quest' anima stessa nella sua parte più eccellente è contemporaneamente tenuta e posseduta da Dio; e così il bene infinito risiede nell' anima non solo idealmente ma anche realmente. L' azione del qual bene, che è Dio, di sua natura (se il libero arbitrio non si oppone) prevale a quella della carne: prevale dico per due guise, l' una perchè Iddio occupando la parte superiore dell' uomo, la punta dell' anima, che è nata a comandare all' altre potenze, sana e santifica il principio personale dell' uomo che in quella punta risiede; ed altresì perchè l' operazione divina è più forte di sua natura di quella della carne, ed ella è sì forte che niente può separare Iddio dall' anima volitiva se non sopravviene la libertà dell' uomo stesso, la quale peccando, per sè medesima si stolga e separi da lui, che per usare le parole di S. Agostino consacrate dal sacrosanto Concilio, [...OMISSIS...] . Egli è dunque chiaro, che qualora si parli della sola volontà dell' uomo, considerandola in separato dalla sua libertà , che è la potenza nata a dirigerla, ma che sempre non si trova in esercizio, come accade ne' bambini, od è legata, o prevenuta dagl' impeti focosi dell' immaginazione e dagl' istinti de' nervi eccitati, come ne' pazzi, o in quelli che sono da veemente accesso di passioni sorpresi; in tal caso la volontà dell' uomo ubbidisce spontaneamente alle dilettazioni che la dileticano, e più a quella che la diletica maggiormente; e se un bene l' occupa nella più alta sua parte, le operazioni che da questa parte incominciano sono personali, e buone o cattive, secondo che quel bene che informa la persona dell' uomo è onesto o disonesto, e la dilettazione che da esso viene onde procedono le azioni, secondo la legge della spontaneità, è buona o cattiva ella stessa. Quindi l' aiuto che riceve il bambino col sacramento del salutare lavacro appartiene a quel genere, che S. Agostino chiama « adjutorium quo »; il qual aiuto è da S. Agostino negato ad Adamo, accordatogli il solo « adjutorium sine quo ». E così dovea essere. Poichè la volontà del bambino essendo rea e non avendo in sè il potere di giustificarsi da se stessa e di rettificarsi; nè potendo come rea che era usar bene nè del proprio arbitrio, come dicono i Capitoli di S. Celestino, nè degli aiuti superni, se non fossero tali che prima la giustificassero o alla giustificazione la disponessero; perciò conveniva, che Dio stesso operasse quasi una creazione novella e colla sua onnipotente grazia sanando e avvalorando l' anima, cangiandola cioè di mala in buona, onde di questa grazia acconciamente dice S. Agostino [...OMISSIS...] . All' incontro la volontà d' Adamo era già naturalmente retta, e però non facea mestieri di essere liberata dal male, bastando che fosse aiutata a fare il bene con quella grazia, «SINE QUA », non si può operare il bene perfetto, appartenente all' ordine soprannaturale (2). E quantunque all' « auxilium quo » di S. Agostino si riferiscano anche le grazie attuali, e sono tali per la loro interna efficacia, e per la certezza con cui realizzano l' eterna predestinazione (1): tuttavia egli prima di tutto lo fa consistere nella grazia [...OMISSIS...] ; al che è consentanea la definizione del sacro Concilio di Trento, il quale insegna che della giustificazione dell' uomo [...OMISSIS...] . Ora egli è certo, che con questa potentissima grazia del Salvatore, l' uomo non può da niuna cosa esser vinto, se liberamente non consente al male; e perciò il bambino battezzato o altri santificati nelle acque del battesimo, in cui il libero arbitrio sia impedito o legato, è in istato di certa salute; perchè prevale in lui la grazia e la carità di Cristo alla tentazione della carne e del demonio, in tanto che questa non può più distaccar l' uomo da Dio. Nè si dee credere, che non operando nel bambino la libertà , sia perciò straniera la volontà all' opera della salvazione; perocchè anzi la volontà è quella che viene santificata e informata dalla carità di Cristo, e quella che poi opera coll' aiuto di questa grazia e dell' attuale (2). Restringendoci adunque entro all' ordine della volontà, e prescindendo dall' ordine della libertà per un' astrazione, ovvero perchè si suppone la libertà inattiva come nel bambino, ha luogo il sistema delle due dilettazioni relativamente prevalenti. Nell' uomo non giustificato prevale la dilettazione della carne e lo perde; nell' uomo giustificato prevale di dilettazione della grazia di Cristo e lo salva. La volontà è tirata ed aderisce a chi l' attrae maggiormente e più altamente: tale è la legge della volontà; non quella della libertà che domina sopra la volontà. E alla volontà sgraziatamente si fermarono i giansenisti. Essi racchiusero tutti i loro pensieri entro la sfera della volontà che si definisce: « un appetito razionale; »entro la quale sfera, prescindendo da quella forza superiore che si definisce coll' Apostolo « « potere sulla volontà »(1) » e dicesi libertà; trova luogo il sistema delle due dilettazioni contrarie, che, secondo il grado di forza prevalente, esercitano successivamente, o alternativamente il dominio sull' umano appetito. Ma ella era una veduta ristretta ed esclusiva la loro. Essi errarono dunque per non avere osservato che al di sopra della sfera della volontà sta nell' uomo un' altra sfera, quella della libertà , nata ad essere signora della volontà, che è una facoltà inferiore relativamente a quella; e questo errore nacque nelle menti perchè non erano in allora ben distinte queste due attività dell' anima razionale, cioè quella di volere , e quella di eleggere fra le volizioni , la volontà e la libertà. Per la quale confusione medesima i pelagiani dall' altra parte coi nostri teologi disconoscendo le leggi della volontà , e attribuendo ogni potere alla libertà , fecero onta alla grazia ed alla salvazione di Cristo, insegnando, che anche ne' non giustificati [...OMISSIS...] . Il che è un manifesto abuso di alcune parole di S. Tommaso, le quali si riferiscono alla potenza rimota , e non alla potenza prossima , secondo la distinzione giustissima del Gaetano (2), nessuno negando che di natura sua la libertà possa accorrere, per se sola considerata; ma negandosi che possa sempre accorrere nelle circostanze dell' uomo caduto e non giustificato, [...OMISSIS...] come dichiara S. Tommaso medesimo, qual si richiede ad evitare il peccato (3). Onde vi ha la potenza, ma non la potenza propria e in assetto a produr fuori l' atto: vi ha la potenza , ma non la possibilità di operare . Di che i Padri del Concilio Diospolitano obbligarono i pelagiani a confessare, fra gli altri capi questo: [...OMISSIS...] . Là dove il nostro teologo viene a sostenere in quella vece che la vittoria contro alle illecite concupiscenze può sempre venire ex propria voluntate , che di conseguente alle forze naturali dell' uomo (battezzato o no è il medesimo) se ne deve dare la gloria! Iddio ci preservi da dottrine che cotanto alimentano l' umana superbia, e così rendono irrimediabile l' umana impotenza. Il vangelo in fatti è tutto nell' umiltà: dove non si semina questa, non si sparge il seme di Cristo. Il vangelo è nella virtù di Dio: ma la virtù di Dio non soccorre all' infermità dell' uomo, se l' uomo ricusa di sentire la sua infermità, non vuol riconoscerla nè confessarla. Il dire, che l' uomo può esser giusto da sè secondo la natura senza bisogno della grazia di Dio (1) non è un confessare la propria infermità; ma stabilire una giustizia dell' uomo contro la giustizia di Dio. [...OMISSIS...] Il Razionalismo introdotto nella Teologia trae seco l' umanismo nell' ecclesiastico ministero . Intendo per Umanismo quello spirito, che, senza dimettere le apparenze della pietà, propende sempre a giudicare in favore dell' esaltamento dell' uomo: sempre intende ad attenuarne la malizia e coprirne le piaghe, a dissimularne o negarne l' impotenza, a secondarne le naturali inclinazioni, ad adularne e giustificarne sottilissimamente le passioni ne' trovati dell' umano ingegno, e ne' mezzi dell' umana potenza, anche trattandosi d' imprese spirituali, a perdere di veduta la povertà e la virtù della croce, a dispregiare la semplicità evangelica, a modificare in mille guise le parole di GESU` Cristo, a interpretarle a voler della carne, quasi per giuoco d' ingegno, ad obliare le promesse del Principe dei Pastori, a non vivere oggimai più di fede ma d' artifizi e di maneggi, non più traendo seco forza dalla sola speranza riposta negli aiuti superni, fuori della quale speranza il più industrioso e costante ecclesiastico in vece della pace di Cristo reca da per tutto dove va la discordia, e in vece di stabilire tra popoli il regno di Dio, vi pone senza saper come impedimento; o fors' anco dopo un frutto momentaneo lascia il campo del Signore ingombro di triboli e di spine da lui stesso seminate. Coloro i quali conoscono la storia delle missioni straniere e n' hanno meditato le vicende potranno dire, quale altro spirito, se non uno spirito tutto particolare ed umano, sia stato quello che fece una sì sottile e sì costante opposizione allo stabilimento dell' Episcopato e della gerarchia in molte missioni straniere, onde avvenne, che appena nate perirono tante cristianità nell' Oriente, e specialmente nel Ton7King, nella Cocincina e nel Giappone? GESU` Cristo mandò degli Apostoli Vescovi ad annunziare il Vangelo. Così fece sempre la Chiesa. A' Vescovi prestarono aiuto grandissimo de' sacerdoti e de' laici. Ma successe un tempo, in cui alcuni religiosi, credendosi aver trovato de' mezzi migliori di propagare e di fondare il regno di Dio, esclusero l' episcopato quant' era da loro e la gerarchia, o le fecero quella guerra lunga or diretta ora indiretta che poteron maggiore (1). Qui basti di rammentare i viaggi, gli stenti, le afflizioni, gli anni ch' ebbe a patire e a spendere il P. Rhodes della Compagnia di Gesù per riuscire, avendo pure i Pontefici alla sua impresa favorevoli, ad ottenere, quanto l' esperienza gli aveva dimostrato sì necessario alla stabilità del Cristianesimo, che de' Vescovadi ed un clero indigeno fossero in quelle infelici e pereunti missioni stabiliti. Lo spirito di Razionalismo nella mente, d' Umanismo nel cuore e nella condotta, è quel sottil veleno, pura essenza, etere invisibile dell' amor proprio, che penetra ben anco in uomini molto innanzi nella virtù; i quali da esso insensibilmente condotti s' allontanano dalla verità e s' affezionano e parteggiano e quasi a sè ed altrui mentiscono lusingati di poter così far del bene e giovare alla pietà. E che altro mai se non questo umano e fallibile ragionare fu quello che in occasione de' riti Cinesi gettò fra i missionari quella sempre mai lacrimevol discordia, che tanto danno recò alle missioni della China, e cagionò la perdita di tante anime, impedì l' acquisto alla Chiesa di tante popolazioni? Che altro se non la propensione a giudicare con troppo favore della naturale sapienza ed a scusare poscia, se non anco lodare quelle debolezze che ad essa natural sapienza conseguitano fu la cagion vera di quegli errori che difesi ostinatamente (1) dovettero pur condannarsi con tante bolle de' Sommi Pontefici, e ultimamente con quella del dottissimo Benedetto XIV degli 11 Luglio 1742? Lasciamo parlare un recente scrittore lodevolissimo per lo spirito d' imparzialità, colla quale narra i principii di sì famosa questione. [...OMISSIS...] Quali funeste conseguenze traessero i nemici della religione cristiana contr' essa dalle accennate esagerazioni a favore della sapienza naturale de' Cinesi, e della giustificazione de' superstiziosi loro riti, con somma equità e moderazione si narra nelle belle lettere del Sig. Luquet che abbiamo citato. A noi rincresce troppo di trattenerci più a lungo in un argomento sì tristo, come quel de' riti cinesi; e ci basta avere solo accennato di nuovo quale sia la prole amara e funesta di quello spirito umano e razionalistico, che par talora servire alla pietà, ma in ver la distrugge. E qui egli è già tempo di chiudere il nostro ragionamento. Prima però debbo dichiarare, che tutto ció ch' io dissi in quest' opera, nol dissi coll' animo di definire, che a me non s' aspetta, ma sol per teologico raziocinio, che a ognuno è permesso. Del resto alla Chiesa, di cui mi glorio essere figliuolo e discepolo ogni mio sentimento sommetto. La Chiesa giudichi se i miei timori sono fondati: ella giudichi il mio giudizio. A me parve, e pare, per ritornare a ciò che dissi al principio, che il maggior pericolo, che or le sovrasti, sia in quel pratico Razionalismo che s' insinua per tutto, sotto apparenze di pietà, e che insensibilmente, come ruggine, la stessa sana dottrina rode e consuma. E questo pericolo è grave principalmente per due ragioni; la prima, che i ragionamenti de' razionalisti sono intesi e favoriti facilmente dal comune degli uomini, quando le verità della fede che quelli corrodono sono all' opposto profonde, arcane, talora all' umane menti ripugnanti: l' altra, che il Razionalismo teologico è sempre in sul far credere, che niun' altra via di mezzo si trovi, ma convenga seguitar lui, o cadere nell' odiosissima e rigidissima eresia del Giansenismo. E queste due cagioni, la somma difficoltà d' intendere in modo non ripugnante alla ragione il dogma profondissimo della grazia conciliandolo col libero arbitrio e colla bontà di Dio che vuol tutti salvi; e il gran timore di cadere nell' eresia de' predestinaziani (1) e de' gianseniani, eresia desolante e inducente a disperazione; ebbero tanta possa di spingere talor anche uomini santissimi sulla via apparentemente piana e fiorita che loro addittava il pratico Razionalismo (2). Indi è che vinto appena il Pelagianismo antico, surse nella Chiesa il Semi7Pelagianismo (3) a cui diedero il loro nome anche uomini, che onoriam sugli altari, o quando la chiesa non avea ancor dannata quell' eresia sottilissima o dopo dannatala, ma ritrattandosi essi innanzi morire. E tanti ebbe seguaci quell' errore seducentissimo, che S. Prospero lamentavasi [...OMISSIS...] . Benchè poi i sommi Pontefici con la Chiesa tutta decapitassero appena risorta in nuove fogge l' antica empietà, con tutto ciò qual idra andò rimettendo di tempo in tempo novelle teste. E allo stesso errore vestito di forme novelle, che non pareva il precedente già escluso, e di nuovi lenocinii provveduto, s' accostavano alcuni e dotti e pii, che altra via non vedevano di salvare a tutti gli uomini que' due beni oltremodo preziosissimi e necessarii la libertà e la speranza della salute. Laonde non è a stupirsi, se dopo le ultime eresie del secol XVI, avutane da esse occasione, lo spirito razionalistico e pelagiano ricominciasse l' antico lavoro più industrioso e più costante di quello che avea fatto o tentato ne' secoli precedenti, scaltrito dalle sconfitte avute, di migliori armi fornito d' erudizione, di dottrina, di astuzia, e di potenza ed influenza sociale, le quali a lui fabbricava la condizione de' tempi, il risorgimento delle lettere, l' incivilimento, la filosofia, la politica. Benchè queste due ultime, chi sottilmente e spassionatamente pensi la storia d' Europa de' tre ultimi secoli, s' accorgerà, che sono più tosto che sue madri, o nutrici, sue legittime figliuole, ed allieve. Poichè in questi ultimi secoli, il Razionalismo pratico introdotto prima nella teologia fu applicato all' educazione della gioventù, e recò pur troppo i suoi frutti amari alla civil società, in cui i fanciulli educati rifondonsi. Invano sperossi di neutralizzarne per così dire, il potente veleno coll' associarlo negli animi giovanili alla divozione. Fino che l' uomo è fanciullo stanno ben uniti in lui Razionalismo e divozione; perocchè ne' fanciulli anche il Razionalismo è fanciullo. Ma questo diviene adulto insieme coll' uomo, e con esso crescono la dottrina, sua prole immanchevole, l' orgoglio e l' immoralità; le quali spegnono la divozione; e spenta questa introducono l' incredulità, che perturba poi, a suo tempo, l' ordine pubblico massime fra genti cristiane. Vero è ch' ella non chiamasi da prima incredulità ma filosofia. Ma che è questo? Il falso nome sol giova ad illudere: e le masse ancora credenti onorano ingannate i filosofi, che loro promettono mari e monti di felicità, e si nutrono in seno gli increduli. Conviene persuadersi: l' educazione fu per lungo tempo in Europa e in Francia massimamente un misto di Razionalismo teologico e di devozione. Ma i principii della mente prevalgono alle abitudini della vita; e cresciuti quelli alla lunga ne cacciano queste, se sono loro contrarie, e se ne formano di omogenee. Così avvenne. I devoti giovani si cangiarono ben presto in filosofi; i filosofi in increduli; gl' increduli in rivoluzionari; i rivoluzionari in sanculotti, terroristi, cannibali: non si puó rompere la serie delle cause, perchè è in natura. Dai collegi adunque uscì la rivoluzione. Chi ben ha penetrazione, m' intenderà. Dove fu mai educata quella gioventù francese, che diede al mondo il più sanguinoso spettacolo che fosse mai? Dove i padri di essa? e dove gli avi? Ne' collegi a maximo usque ad minimum . Ma non instillavasi ne' collegi d' allora la pietà, la divozione? Qual dubbio? E nella divozione non si può certo trovar la causa del male atroce. Altrove dunque si vuol cercare il vizio d' un' educazione che si fece tanto conoscere da' suoi effetti. - Si mediti e si scoprirà il vizioso elemento, il seme funesto depositato negli animi de' giovani essere stato lo spirito razionalistico . Con tal compagno violento la divozione di collegio non potè a lungo reggere; egli spense crudelmente la sua compagna d' educazione: ed ingrato spense altresì in odio di lei i collegi stessi di cui molti buoni piansero la rovina; veggendo perire così i focolari della giovanil divozione. Ma veggendo la divozione uscire da' collegi, perchè le pratiche divote si veggon cogli occhi, non vedevano poi essi chi usciva con lei, perchè quel suo compagno feroce del Razionalismo non vedesi che colla mente, essendo un principio, un pensiero che nella mente risiede. Le quali riflessioni potrebbero per avventura riuscire salutari oltremodo ai nostri moderni teologi, se da esse apprendessero, che carezzando il Razionalismo teologico, com' essi fanno, s' accarezzano il più fiero nemico che aver possano essi stessi, non che la Chiesa, sì la fazione de' teologi razionalisti scava la fossa a se medesima, scavandola alla cattolica teologia. Perocchè, questa non può cadere, e però tutto il danno è suo proprio. Dunque parlo io così a suo favore; quanto ho scritto in quest' opuscolo a suo vero vantaggio ridonda. La fazione de' nostri teologi non pecca solo contro la sana dottrina col deplorabile impegno in cui ella è entrata, pecca ancora contro la savia politica. Deh non ne attenda gli effetti! Quanti mali avrebbe evitati, quanti guai risparmiati alla Chiesa, se avesse uditi docilmente i consigli de' due venerabili Cardinali Baronio e Bona, che scorgeano pure colle loro menti, da lontano i danni del Pelagianismo irruente! Non mancavano certo i veggenti in Israello, e se si vuole alle previsioni di que' due santissimi porporati aggiungere la previsione di un terzo splendore del sacro Collegio, nominerò il Contarini. Non avea questi ammonito certi teologi del suo tempo che indiscretamente pugnavano contro le nuove eresie, di procedere cautamente per non isdrucciolar forse nell' errore contrario? Non avea egli anche scritto: [...OMISSIS...] . Non era loro stato dato in tempo un avviso sì autorevole e savio, cioè prima ancora della metà del secolo XVI? Perchè dunque non approfittarsene? Quanto poi agli uomini di buona fede che non penetrano il fondo di questa lotta; io loro dirò così: Abborrite il Giansenismo, ma guardatevi altresì dal Pelagianismo, non credete mai questo necessario a fuggir quello. Abborrite pure da tutte quelle opinioni teologiche, che scoraggiano gli uomini a fare il bene, e ingiuriano la divina bontà; ma non appigliatevi perciò a quelle che fanno presumere gli uomini delle forze della loro natura, e li rendono negligenti a procacciarsi quelle della grazia, che attenuano la causa e il frutto della Redenzione di Cristo e scemano la virtù a' sacramenti, ed il bisogno che n' ha l' uomo figlio del peccatore. Sia pur questo il criterio che guidi la vostra scelta delle opinioni, quelle sien preferite che servon meglio a condurre le anime alla salute. La carità vi conduce pure alla verità. La morale che ne uscirà da tale scelta sarà dolce, come è dolce il giogo del Signore, ma non lassa. Chè una lassa morale non salva; sì, perde le anime. E che mai giovano alla salute dell' anima certi nuovi dogmi, non della divina Rivelazione, ma dell' umana corruzione? Che giova insegnare che l' uomo reca al mondo la natura incorrotta, e senza bisogno alcun di Battesimo, morendo bambino, l' attende al di là una beatitudine naturale, abitatore di un terzo luogo fra il cielo e l' inferno, come dicevano i pelagiani, se non a render gli uomini ingrati verso di Cristo e negligenti in procurarsi i sacramenti della Chiesa? Che giova insegnare che può l' uomo senza la grazia reprimere le sue passioni, resistere a tutte le tentazioni benchè con difficoltà, sicchè la grazia sia solo utile a ciò ma non necessaria, che giova dico se non a render la grazia meno preziosa e gli uomini men curanti di procacciarsela? Che falsa benignità non è ella questa, o piuttosto benignità crudelissima verso l' umana natura? Che giova il dire, che l' uomo, benchè senza la grazia, non è mai necessitato a peccare, e che peccando in tal caso con necessità niun mal gliene viene, niun peccato commette, se non ad aprire un fonte ampissimo d' immorali azioni, soffocata la voce della coscienza, e l' uomo reso piuttosto amante di rimanere nell' ignoranza e nella schiavitù degli abiti peccaminosi, che non di liberarsene? Che giova dichiarare la concupiscenza effetto naturale e non punto vizioso se non a levare dall' anima l' errore de' suoi disordini? « e ad exscusandas exscusationes in peccatis »? Esaltate adunque la bontà di Dio che vuol tutti salvi, e ne dà i mezzi a tutti quelli che li desiderano, e anche a molti di quelli che non li desiderano, facendo che li desiderino; ma nello stesso tempo non dimenticate, che quella bontà è santità essenziale: e che Dio è buono perchè vuol santi gli uomini, prima ancor che felici, e a ciò li aiuta, non perchè loro permetta di andare per una via larga e lubrica in Paradiso. Deh piaccia a Dio, che anche i nostri avversarii vogliano finalmente intendere con noi uniti queste santissime verità, e cessino dall' imbizzarrire sì sconciamente « sufflantes in pulverem », per usare delle parole di S. Agostino, « et excitantes terram in oculos suos! (1) ».

Principio supremo della metodica

639218
Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Perocchè quand' anco paresse all' imperito maestro di poter ricacciare l' intendimento per una via non sua, come un fiume contr' acqua, egli prenderebbe abbaglio solo da questo, che l' intelletto del fanciullo da sè colla propria potenza va bene spesso disfacendo il viluppo del maestro, e la imbrogliata matassa ricevuta nella memoria e disvoltala da se stesso, ma con infinito suo travaglio e noia, ordinatamente la rifarebbe. La qual fatica, che devono fare i fanciulli, di accogliere in mente cose male ordinate e rimutar loro l' ordine per poter intendere, non solo rende i loro studi lunghissimi, ma, quel che è più, affaticanti e tormentosissimi, come contraria alle leggi della loro intelligenza. I due esempi, ne' quali abbiamo veduto questo vero, son tolti dalle operazioni mentali del classificare e del distribuire localmente con qualche ordine le cose; vedremo la stessa necessità che certe idee succedano a certe idee e non le prevengano, se considereremo l' incatenamento intrinseco a un ragionamento qualsiasi. Chi sa così poco di logica, che non conosca che un ragionamento è una serie di proposizioni esprimenti altrettanti giudizi, altrettanti pensieri, altrettante cognizioni le une dipendenti dalle altre come conseguenze da' loro principŒ? Da questo apparisce che l' intendimento non possa in modo alcuno giungere a una data proposizione se prima non ha percorse tutte le precedenti, dalle quali ella viene ingenerata. Piglisi qualsivoglia teorema della geometria di Euclide, si vedrà sempre condotta la dimostrazione mediante un richiamo dei teoremi precedenti che hanno, per così dire, in corpo il teorema che si vuol dimostrare. Potrebbe dunque la mente intendere l' ultimo teorema saltando via tutti gli antecedenti? Chi non ne sente l' impossibilità? E qui vorrei che ognuno conoscesse la ragione onde deriva che vien considerato per eccellente il metodo de' matematici. La eccellenza di questo metodo non istà in altro che nel giusto ordine nel quale vengono collocate le varie proposizioni, delle quali la geometria si compone. E perchè non si potrebbe osservare il medesimo ordine rigoroso anche nell' insegnamento di ogni altra scienza? Anzi perchè non si dovrebbe? Rimane piuttosto a cercarsi solamente la ragione per la quale i matematici tutti osservano quel metodo rigoroso, qual viene richiesto dalla natura dell' intendimento, e quelli che trattano le altre scienze non ne fanno caso, e riescono per conseguenza troppo lontani dal seguire il metodo della verità e della natura dell' intelligenza. La ragione si trova in questo, che nelle matematiche la mente è costretta a dedurre l' una cosa dall' altra, il che far non potrebbe al tutto se non mandasse avanti le premesse e deducesse le proposizioni l' una dall' altra; senza di questo la mente s' accorgerebbe di non far nulla, di nulla intendere, ed ella ricusa di camminare alla cieca. All' incontro, nelle altre dottrine la mente si persuade d' intendere anche là dove nulla intende, e così prende la prima proposizione che ode e a cui attribuisce un cotal senso a capriccio, e la ripone nel tesoro della memoria come una cognizione acquistata, e così fa di tutte le altre. La memoria ed il linguaggio in questo fatto l' inganna, come abbiamo veduto accadere al fanciullo, a cui si faceva conoscere la classificazione delle piante andando dal basso all' alto della classificazione; nel qual viaggio credeva sempre d' aver inteso il vocabolo indicante la classe, e sempre l' aveva sbagliata e doveva correggersene. Ben è vero che la mente se ne corregge: ma qual tempo perduto! Nè se ne corregge sempre sì presto. Avviene il più spesso che l' uomo già vecchio trovi nella sua memoria accumulate senz' ordine molte proposizioni che apprese da giovinetto, e che, quantunque senza senso e senza vita, stannogli in mente annesse a de' vocaboli, a ciascun de' quali egli dava qualche peso. Ora risvegliandosi a caso queste memorie che già coesistono nella sua mente, egli comincia a vedere che le une spiegano le altre, e comincia quindi ad intendere, perchè da se stesso le ordina come la lor natura richiede. Egli fa ciò cogli anni un poco alla volta; ed è questa la ragion principale perchè solo coll' età l' uomo diviene intelligente e amante di sapere. L' educazione fin qui usata non mirò quasi ad altro che ad imporre alla memoria de' fanciulli un fardello immenso d' inintelligibili parole. Il povero loro cervello si traccia tuttodì e si solca di cifre e di note arcane che non possono essere intese se prima non sono scritte tutte, perocchè quella che è la chiave dell' altra, ed è chiave per sè, si è scritta l' ultima, quando doveva scrivervisi la prima. Ma questo non può avvenire nella Matematica, la quale non si contenta d' insegnare le proposizioni che la formano, se non dà di ciascuna il perchè, la dimostrazione. Chi ammaestrando i fanciulli si facesse una legge di dar loro sempre la dimostrazione di ciò che loro dice, sarebbe costretto altrettanto, quanto il matematico, di ordinare le dottrine che comunica a' fanciulli e di procedere col metodo più rigoroso. Ma egli è tempo che riassumiamo quanto abbiamo detto sull' ordine naturale delle operazioni della mente e de' loro oggetti. Tre furono le maniere di oggetti, intorno ai quali osservammo la mente occupata, e tre le maniere delle sue operazioni: il classificare le cose secondo le loro somiglianze, il distribuirle con cert' ordine locale, finalmente l' astratto ragionamento. Nella prima maniera di operazioni abbiam veduto che se la mente non si fa andare innanzi secondo l' ordine suo naturale, ella fa bensì qualcosa, ma questo far qualcosa è un camminar continuo per una strada piena d' errori che deve successivamente correggere. Nella seconda maniera d' operazioni se la mente, limitata com' ella è, si fa andare innanzi contro l' ordine naturale, ella fa ben qualcosa ancora, ma qualcosa di confuso e d' inesatto: le sue idee s' avviluppano, nè prendono tal consistenza da produrre in essa delle persuasioni efficaci che la facciano operare con certa costanza. Nella terza maniera finalmente di operazioni la mente non può del tutto andare contro l' ordine naturale, e il cacciarnela sarebbe indarno; chè s' arresterebbe, nè apprenderebbe mai cosa alcuna. I quali sono appunto i tre principali inconvenienti che nascono dall' ammaestrare la gioventù senza quel vero metodo che mantiene l' ordine progressivo delle idee e di cui noi andiamo cercando i principii: 1 far cadere la mente in errori; 2 farle avere delle idee oscure e confuse; 3 renderla immobile e per poco stupida. Or quando attentamente si consideri in che consista quest' ordine naturale e necessario degli oggetti mentali che noi abbiamo ravvisato ne' tre casi analizzati più sopra, si trova facilmente potersi quest' ordine così dichiarare. « Un pensiero è quello che serve di materia o che somministra la materia ad un altro pensiero ». Ecco la legge. Egli è evidente che se un pensiero serve di materia o somministra la materia ad un altro pensiero, questo secondo pensiero non può nascere in modo alcuno se non dopo che quel primo è nato e gli ha somministrata la materia di cui bisogna. Ora da qui l' ordine naturale e necessario di tutti i pensieri umani si manifesta. Tutti i pensieri, che in qualsivoglia tempo caddero nella mente degli uomini o che vi posson cadere, si distribuiscono e classificano in tanti ordini diversi secondo la legge indicata, i quali ordini sono: 1 Ordine di pensieri: pensieri che non prendono la loro materia da pensieri anteriori ad essi. 2 Ordine di pensieri: pensieri che prendono la loro materia da pensieri del 1 ordine e non da altri. 3 Ordine di pensieri: pensieri che prendono la loro materia da pensieri del 2 ordine. 4 Ordine di pensieri: pensieri che prendono la loro materia da pensieri del 3 ordine. 5 Ordine di pensieri ecc.. - Allo stesso modo si enumerino successivamente gli altri ordini, caratterizzandosi ciascuno dal prendere che egli fa la sua materia da pensieri dell' ordine immediatamente precedente. Or questa serie di ordini non ha fine: indi l' infinito sviluppamento a cui è ordinata l' umana intelligenza, al termine del quale ella non può giunger giammai. Che poi questa ordinazione di tutte le intellezioni umane sia naturale egli è chiaro da sè, perocchè la natura della mente è tale ch' ella non può moversi ad alcuna sua intellezione se non gliene sia precedentemente stata data la materia, l' oggetto. Che quest' ordine sia necessario e immutabile si vede per la ragione stessa; giacchè nessuno intelletto potrebbe mai pensare nè intendere, senza avere un che, un oggetto da pensare, da intendere. Scoperto così l' ordine immutabile delle intellezioni umane, noi abbiamo scoperto altresì in esse il solido fondamento su cui possiamo erigere il Metodo d' insegnamento . Questo metodo diventa naturale e invariabile, come naturale e invariabile è il fondamento su cui si appoggia, cioè la legge indicata costitutiva dell' umana intelligenza. Questo metodo è preciso e chiarissimo; egli è unico, perocchè tutti i buoni metodi fin qui inventati si riducono a lui, non sono che viste parziali di lui o mezzi da metterlo in atto, e tutti i metodi che al nostro si oppongono sono cattivi. La formola che esprime il metodo d' insegnamento in generale e che forma il principio supremo della Metodica è dunque la seguente: « Si rappresentino alla mente del fanciullo (e si può dire in generale dell' uomo) primieramente gli oggetti che appartengono al primo ordine d' intellezioni; di poi gli oggetti che appartengono al second' ordine d' intellezioni; poi quelli del terzo e così successivamente », di maniera che non avvenga mai che si voglia condurre il fanciullo a fare un' intellezione di second' ordine senz' essersi prima assicurati che la sua mente fece le intellezioni, a quella rispettive, del primo ordine, e il medesimo si osservi colle intellezioni del terzo, del quarto e degli altri ordini superiori. Vedesi adunque da quanto è detto, che il primo lavoro necessario a farsi per poter istituire il vero metodo della natura negli studi privati o pubblici ne' quali s' ammaestra la gioventù, si è quello di una esatta classificazione di tutte le intellezioni umane ne' loro varii ordini naturali di sopra distinti. Questo è quello che non si è mai fatto, che non si è mai pensato di proposito a fare; la cui necessità direttamente non si è veduta. Per lo contrario questo è ancor quello che tutti i migliori educatori della gioventù hanno cercato, quello che hanno raggiunto in parte senza saperlo dire a se stessi, quello che l' esperienza ne' casi particolari ha rivelato, rimanendosi nondimeno loro nascosto nella sua universalità (1). Io recherò a provarlo qualche esempio pigliandolo dalle più piccole cose, giacchè il principio da noi posto deve regolare lo istitutore in tutte le sue parole, e dove egli se ne sottraesse, foss' anco in una sola frase, avrebbe commesso un errore contro il buon metodo. Il primo autore in Italia che scrivesse delle buone letture pei fanciulli della più tenera età (2) dettò per essi delle sentenze staccate, ommettendo per lo più le congiunzioni. Mi si permetta di riferire la ragione di questa ommissione colle sue stesse parole: [...OMISSIS...] . Ecco un uomo che vide in un caso particolare colla guida dell' esperienza, e, quasi direi di profilo, il principio nostro. Egli è verissimo che il fanciulletto s' applica ad intendere il senso di ciascuna sentenza, ma non pone mente alle congiunzioni che nel discorso insieme le legano, di modo che queste pel tenero fanciullo sono perdute. Ma perchè ciò? - La ragione netta si trova nel principio nostro: i nessi del discorso significano intellezioni d' un ordine più elevato delle semplici sentenze che quelli insieme congiungono; e per ciò non possono essere raggiunti dalle menti de' fanciulli che non ricevettero ancora in sè le intellezioni espresse nelle singole sentenze. Il che si capirà tosto che si osservi che il pensiero d' un nesso o d' una relazione tra due cose è tale, che non può nascere se non preceduto da' pensieri delle due cose singolari. I pensieri dunque delle cose singolari sono quelli che somministrano la materia necessaria al pensiero delle relazioni che passano tra queste cose, e perciò sono d' un ordine anteriore. Ma avanti all' ordine delle sentenze non vi è qualche altro ordine d' intellezioni pel giovanetto? Sì certamente: vi ha quello di semplici concezioni, le quali sono espresse da vocaboli isolati. Questo fu rivelato dall' esperienza a Vitale Rosi (1), e perciò cominciò il suo eccellente « Manuale di scuola preparatoria » dagli esercizi che conducono il giovanetto a conoscere i nomi delle cose, sottoponendo alla mente di lui il significato di un vocabolo alla volta, considerato come segno di un oggetto e non come elemento di proposizioni. Applaudì a questo pensiero l' abate Lambruschini, il quale parlandone dice così: [...OMISSIS...] . Or dunque, perchè i fanciulli troppo si stancano a porger loro proposizioni da analizzare? - Perchè si pretende con ciò che facciano due operazioni mentali ad un sol tratto, due operazioni che di loro natura sono successive e non possono essere contemporanee. L' una di queste due operazioni comprende quelle intellezioni colle quali il fanciullo viene a conoscere il significato de' singoli vocaboli; l' altra comprende quelle colle quali il fanciullo deve annodare tra loro i vocaboli per farne riuscire il senso della proposizione. Or non è chiaro che il sentimento di tutta la proposizione è un pensiero che non può esser fatto dall' uomo se non prendendo la sua materia da altri pensieri più elementari, cioè da quelli co' quali s' abbraccia il sentimento delle singole parole? Le intellezioni adunque che non hanno per loro scopo se non l' intendere una voce alla volta appartengono ad un ordine anteriore a quelle intellezioni che mirano a far intendere tutta una proposizione; e perciò queste intellezioni non possono esser fatte dal fanciullo se non lasciandogli il tempo necessario a compir prima quelle. L' osservazione dell' abate Rosi è simile a quella fatta prima dall' abate Taverna. Questi aveva osservato che i fanciulli non giungono da prima a conoscere il valore delle congiunzioni che legano tra loro le sentenze; quegli osservò di più che i fanciulli non giungono da prima a conoscere il valore delle congiunzioni che legano tra loro i vocaboli, dal qual legamento riescono le sentenze. L' una e l' altra osservazione non sono che casi particolari del principio nostro generale. Or, quantunque noi non intendiamo di prendere a classificare in questo trattato le intellezioni umane secondo i loro ordini, il che non può essere l' opera nè di un libro nè di un uomo, ma il lavoro de' secoli che verranno; nulladimeno dobbiamo dirne tanto che basti, affine che il concetto nostro s' intenda e n' apparisca l' importanza, e si vegga ancora la via per la quale convenga indirizzarsi a ridurlo ad effetto. A tal fine vediamo quali sieno le intellezioni che appartengono al primo ordine. La forza o virtù generale, colla quale lo spirito attualmente conosce, si chiama attenzione . L' istruzione tende a far sì che la gioventù attualmente conosca, e perciò si può chiamare un' arte di dirigere acconciamente l' attenzione dello spirito de' giovani. Prima ancora che si ecciti l' attenzione nello spirito dell' uomo, vi hanno in lui due principŒ delle future sue cognizioni, il sentimento fondamentale e l' intuizione dell' essere . A provare l' esistenza di questi due principŒ originari nell' uomo sono principalmente volti gli scritti ideologici da me prima d' ora pubblicati (1) e però non vi spendo parole. Ma, quantunque esista nello spirito dell' uomo il sentimento fondamentale e l' intuizione dell' essere , fino a tanto che manca in esso l' attenzione (1), que' principŒ non possono formare delle attuali cognizioni propriamente dette. Nè manco, quando si suscita per la prima volta l' attenzione nell' uomo, essa ha per suo oggetto que' due principŒ congeniti, anzi si porta sugli stimoli nuovi che violentemente, mediante piacere o dolore, mutano lo stato sensibile dello spirito. Questi stimoli sono le sensazioni accidentali. Le sensazioni accidentali sono reali modificazioni del sentimento fondamentale, ma non sono intellezioni; e per ciò colle sole sensazioni non comincia lo sviluppo intellettuale dell' uomo. Quando l' uomo si muove ad applicare la sua virtù intellettiva a ciò che sente, allora è il momento nel quale il suo sviluppo, come essere intelligente, incomincia. Convien dunque esaminare diligentemente l' indole di questa prima applicazione che l' uomo fa della sua virtù intellettiva alle sensazioni, affine di poter bene determinare qual sia il primo ordine delle umane intellezioni. Questo esame presenta tre questioni; la prima: cosa sia lo stimolo che muove da principio l' attenzione intellettiva dell' uomo; l' altra: quale sia l' oggetto delle prime intellezioni; finalmente la terza: qual sia la natura di queste prime intellezioni. Quanto alla prima, sembrami probabile che non tutte le sensazioni accidentali abbiano virtù di tirare a sè l' attenzione dell' uomo; non quelle che gli nascono continuamente in conseguenza delle ben ordinate funzioni della vita, nè pur forse molte sensazioni piacevoli che soddisfano intieramente la natura del bambino che non richiede più in là di esse. Egli pare adunque che le sensazioni, che eccitano da prima l' attività umana, sieno quelle che contengono un sentimento di bisogno e che per conseguenza danno il movimento agl' istinti e alla spontaneità (1). Laonde l' attività intellettiva non si eccita per nulla, ma ella si mette in movimento quando l' uomo ha bisogno di essa; l' uomo la chiama in suo soccorso, come chiama in suo soccorso tutte l' altre potenze, quando tende o a rimovere da sè una molestia o a procacciarsi la soddisfazione di un bisogno. Quanto poi alla seconda questione, gli oggetti dell' attenzione intellettiva devono certamente essere gli oggetti di quei bisogni che la mossero. Ma per non confondere anche qui l' ordine del senso coll' ordine dell' intelligenza, conviene osservare ciò che fa l' istinto animale e poi aggiungervi ciò che fa l' intendimento. L' istinto animale dunque muove sempre da un gruppo di sensazioni: questo gruppo di sensazioni mette in movimento l' animale: l' attività animale così mossa cerca un altro gruppo di sensazioni, che è il termine del bisogno animale: questo secondo gruppo di sensazioni in parte completa il primo gruppo, in parte lo fa cessare e ad ogni modo soddisfa al bisogno. Qui non ci sono ancora oggetti: non ci sono che sensazioni che si associano: è sempre un sentimento che opera a tenore di sue proprie leggi (1). Ma l' attività intellettiva accorre ad aiutare l' uomo che come animale brama quel gruppo di sensazioni. Quest' attività non può spiegarsi in volizioni se non a condizione che prima ella percepisca e conosca; perchè la volontà è un movimento dello spirito che si porta in un oggetto conosciuto. L' intendimento dunque prima di tutto percepisce, poi l' uomo opera, cioè vuole dietro le sue percezioni. Ma cosa è questa operazione della percezione? Con questa operazione lo spirito, il soggetto, oppone a se stesso degli oggetti. Ma questi oggetti cosa sono? Sono anch' essi gruppi di sensazioni? Eccoci entrati nella terza questione, colla quale dimandavamo: quale doveva essere la natura delle prime intellezioni. Dopo ciò che si è detto facilmente viene alla mente, che avendo il bisogno animale, che ci muove a operare, ne' primi istanti per suo termine e scopo un certo gruppo di sensazioni, questo gruppo di sensazioni, e non più, debba essere il termine della percezione. E nel primo aspetto ciò non sembra ripugnare. Ma, ove si consideri che quando noi parliamo di quel gruppo di sensazioni, nello stato in cui ora siamo pervenuti di grande sviluppamento intellettivo, quel gruppo non è più un mero complesso di sensazioni, ma un complesso di sensazioni percepito e inteso coll' intendimento nostro, vediamo allora che c' illudiamo. Perocchè, se noi parliamo di sensazioni senza aggiunger loro nulla d' ideale, esse, così nude e sole nel loro essere meramente reale, non sono peranco oggetto della mente, chè questa ancora non le contempla. Or come dunque potrà la mente passare a contemplarle e intuirle? Col renderle a se stessa oggetto , ciò che prima non erano. Ma cosa vuol dire un oggetto? Qual è la nozione comune di tutti gli oggetti della mente? La nozione comune di tutti gli oggetti della mente si è quella di essere enti ; nè oggetto vuol dire altro che ente . Col percepirsi adunque dalla mente le sensazioni, esse si trasformano in altrettanti enti, perocchè quest' è la propria indole dell' operazione intellettiva; l' oggetto è parola che si riferisce a lei, e l' ente è parola che significa nella maniera più generale l' oggetto; l' ente dunque non può esistere senza una mente, nè una mente può contemplare e percepire altro che enti. Ma se le sensazioni non sono enti, come possono adunque venir concepite? Le sensazioni non sono enti, ma sono certe attualità di enti. Analizzando le sensazioni, noi abbiamo trovato che in esse vi hanno due elementi; un elemento soggettivo e un elemento extra7soggettivo. Considerate nel loro elemento soggettivo, l' ente a cui esse appartengono è il soggetto: esse sono atti7passivi di quell' ente. Considerate nel loro elemento extra7soggettivo, l' ente a cui esse appartengono è un ente diverso dal soggetto (extra7soggettivo), di cui esse sono atti7attivi. L' intendimento adunque, il quale non percepisce che enti, non può percepire le sensazioni se non a condizione di percepirle negli enti a cui appartengono. Ma esse appartengono a due enti: al soggetto e al corpo extra7soggettivo; ora, qual è di questi due enti quello che forma l' oggetto delle prime intellezioni? Io sono stato gran tempo dubbioso in che modo risolvere questa questione; ma finalmente mi sono persuaso che colle prime intellezioni l' uomo percepisce le sue sensazioni avveniticce come appartenenti agli enti extra7soggettivi, cioè a' corpi esteriori. La ragione che m' ha inclinato a questa risoluzione fu la seguente. L' attenzione , come abbiam veduto, è quella forza dello spirito, che dirige l' intendimento a questi piuttosto che a quelli oggetti: l' attenzione stessa poi è diretta da bisogni sensibili. Ora il bisogno dell' uomo ne' primi istanti, ne' quali egli esiste, risguarda interamente verso i corpi esteriori, da' quali solamente egli cerca le grate sensazioni, di cui è vago, e di cui abbisogna. Egli non pone adunque la sua attività intellettuale nella sensazione in quanto ella è una passività sua propria, ma in quanto ella è un' attività degli oggetti esterni, verso i quali egli, per così dire, si protende per averne sempre di nuove e di maggiori. La sensazione come passività è già finita, nè gli bisogna l' intelletto e la volontà per gustarla; ma la sensazione come azione veniente da' corpi esterni al suo è quella, ch' egli presente, e che preimagina, ed a cui va incontro prima d' averla, bastando a tutto ciò che ne prenda sentore e che sia ad essa mosso dalle leggi del suo istinto e della sua spontaneità. Come adunque tutte le altre potenze dell' uomo corrono agli oggetti esterni, che gli apportano grate sensazioni, verbigrazia il bambino alla poppa della madre, così anche l' attività intellettiva deve essere mossa a quella stessa volta, e perciò le prime intellezioni, che fa l' uomo, vogliono essere le percezioni de' corpi esteriori. Nelle stesse percezioni nondimeno de' corpi esteriori vi ha una gradazione: non è un lavoro, che il bambino compisca in un istante. Egli è vero, che la percezione, come percezione, è un atto semplice dello spirito, che si fa in un istante, perocchè ciò che è essenziale alla percezione si riduce a un atto, col quale lo spirito pone un diverso da sè, e propriamente un oggetto, a quell' atto dico, col quale egli s' accorge, che sussiste un qualche cosa . Vi ha dunque percezione tosto che lo spirito ha detta questa parola interiore a sè stesso. Nondimeno questa parola interiore, colla quale l' uomo afferma un ente, ammette diversi modi e varietà non in sè stessa, cioè in quanto ella è un atto soggettivo dello spirito, ma in rispetto al suo oggetto, il quale può variare, potendo lo spirito affermare degli enti diversi, o per dir meglio delle entità diverse. Queste entità , che si fanno oggetti delle affermazioni interne dello spirito, ammettono variazione per due cagioni: 1 Perchè sebbene il senso presenti le entità allo spirito intellettivo, tuttavia questo non dirige pienamente ad esse la sua attenzione per mancanza di stimolo a ciò fare, e perciò non le afferma in tutte le loro particolarità e qualità, ma solo in un modo più o meno perfetto, più o meno determinato; 2 Perchè il senso stesso allo spirito non le presenta (1) d' un tratto con tutte le loro attività, ma parzialmente e successivamente, attesa la limitazione de' sensi e organi particolari. Di qui è che per lo contrario la percezione si va perfezionando più e più in due maniere, cioè: 1 In ragione, che lo spirito intellettivo ha degli stimoli, che l' obbligano a porre la sua attenzione a ciò, che v' ha di più determinato negli oggetti, che il senso gli presenta; 2 In ragione che il senso stesso gli presenta successivamente più facce, o sia più proprietà e attività dell' ente. Diciamo alcune parole sopra tutt' e due queste maniere di graduata perfezione, che ricevono le percezioni , perocchè senza por mente a questa perfettibilità delle percezioni, non si può giungere a conoscere ciò, che succede nella mente del bambino da' primi momenti della sua esistenza fino alla riflessione più libera. Cominciamo dunque dal considerare il primo modo di perfezionamento, che ricevono le percezioni intellettive, e innanzi ogni altra cosa domandiamo: qual è lo stato di massima imperfezione, in cui esse si trovano? Conosciuto questo estremo, potremo salire a considerare i gradi di perfezione, che vengono acquistando successivamente nel fanciullo. La prima parola adunque, che dice interiormente il fanciullo e la più imperfetta, si è quella che formolata da noi in parole, che egli non conosce, risponderebbe a questa « un ente io sento nel mio senso ». Con questa parola egli non determina nulla delle qualità dell' ente da lui sentito, ma fa consistere tutta la determinazione , ch' egli dà a quell' ente, nella relazione di esso coll' attuale sua sensazione, nella quale ella tiene il modo di agente . Ente e agente è dunque il medesimo in questa prima parola, in questa prima percezione; ma il modo dell' azione, che determina quell' azione, rimane nel senso, senza che egli si faccia scopo all' attenzione dell' intendimento, il quale è contento di una cognizione quasi del tutto negativa; perocchè la sua cognizione fin qui appena è nulla più che ideale7negativa; non contenendo essa che unicamente l' affermazione di un agente senza altra determinazione espressa; ma con solo una determinazione di relazione a ciò che il soggetto sente (1). Ed ella è appunto questa mirabile connessione del senso e dell' intendimento, che riesce sommamente difficile a intendersi a molti, ond' avviene, che rifiutino la nostra filosofia, perchè non pervengono a superare questa non piccola difficoltà. Desidereremmo assai, che costoro meditassero molto sull' unità e identità del soggetto sensitivo e intellettivo; compresa la quale, ogni difficoltà disparisce. Perocchè colui, che giunge colla sua mente a vedere questa identità, vede ancora incontanente come il soggetto (lo spirito umano) possa trovare nel senso la determinazione di di quell' ente che vede e afferma coll' intendimento. Ma di queste cose abbiamo parlato altrove e non dobbiamo ripeterci di continuo. Quello adunque, che l' intendimento percepisce nella prima sua e più imperfetta percezione di un oggetto, si è l' azione, che un ente diverso dal soggetto fa nel soggetto, ma nulla più; non pensa al modo di quest' azione, che vien fatta nel senso; e rimanendo questo modo fuori dell' attenzione intellettiva, rimane pur fuori della cognizione dell' oggetto ogni sua qualità o proprietà speciale. Il soggetto sa solamente, che ci è un ente agente, e sente , ma non sa , come agisca. Ben avviene più tardi, che il soggetto stimolato da' suoi bisogni vien ponendo la sua attenzione non pur sull' ente agente, ma sul modo ancora col quale agisce; ed è allora che egli perfeziona la percezione sua dell' ente, la quale diventa gradatamente più positiva. In fatti è dall' osservazione sul modo , onde un ente agisce sopra di noi e dagli effetti, che egli in noi produce, che noi veniamo rilevando le sue proprietà e qualità e tutta la sua condizione. Or questo appunto è il travaglio successivo dello spirito. Qui comincia quell' arte di osservare, che uscendo dalla culla del bambino si fa gigante nello spirito di un Galileo, e rivela ogni dì all' uomo novi segreti della natura. Questa è la prima maniera, onde cresce la percezione; cresce e si perfeziona a misura, che l' attenzione dello spirito si applica a tutte le parti delle sensazioni e tutte l' una dopo l' altra le trasporta, per così dire, dal senso nell' intendimento: voglio dire tutte, l' una dopo l' altra, le percepisce intellettivamente, le afferma distintamente con questa parola interiore. Ma l' attenzione intellettiva dopo di ciò non può osservare, se non ciò che il senso le porge. Ecco un' altra sua limitazione: ecco la seconda maniera di progresso, che è dato alla percezione: questa acquista un campo sempre maggiore, quanto maggiori sono le sensazioni, che le presentano la materia, ossia il termine della sua operazione. E l' oggetto percepito dal bambino la prima volta gli si varia d' innanzi al percepirlo, ch' egli fa altre e altre volte. Cioè, sebbene il bambino percepisca sempre quell' oggetto agente su di sè e producentevi la sensazione, tuttavia nol percepisce agente allo stesso modo nè allo stesso grado, nol percepisce producente la sola prima sensazione, ma altra e altre successivamente. Da principio adunque percepisce una semplice forza, che gli produce, poniamo, una data sensazione, per esempio, al tocco della mano; ma poi egli soffre molte e molte sensazioni, che gli discoprono molte azioni venienti da degli agenti da sè; diversi da sè; e poi anche infine trova (mediante l' identità dello spazio (1)) che tutte quelle sensazioni gli vengono da un agente unico, o che egli prende per unico, cioè da un corpo. Così da principio egli colle sensazioni del tatto, dell' odorato, dell' udito e del gusto percepirà altrettante forze e perciò enti diversi; ma ben presto egli verrà poscia accorgendosi e persuadendosi, che tutti quegli enti non sono, che un corpo solo, da cui tutte quelle azioni diverse su lui promanano, e così perfezionerà la sua percezione di quel corpo. Successivamente egli farà anche un altro lavoro col suo spirito, cioè metterà in armonia la vista col tatto. Da prima colla vista non percepirà se non un oggetto solo, una forza sola; conciossiachè tutti gli oggetti veduti sono insieme nel suo occhio, formanti una sola tavola variopinta. Ma ben presto mediante l' esercizio del tatto e dell' occhio associati imparerà a prendere i diversi colori, che nel suo spirito gli si presentano, siccome segni di soggetti distinti, non superficiali, ma solidi: e così viene a percepire coll' occhio, mediante un giudizio, i corpi esteriori. Le percezioni de' corpi esteriori adunque, che costituiscono il primo ordine d' intellezioni, si compiono mediante le seguenti operazioni dello spirito: 1 Lo spirito a ciascuna sensazione s' avvede dell' esistenza d' un agente, oggetto alla contemplazione dell' anima, nel che sta l' essenza della percezione intellettiva. 2 Lo spirito unisce molte sensazioni de' quattro sensi, il tatto, l' odorato, il gusto e l' udito, delle quali ciascuna separatamente l' avevano fatto accorto dell' esistenza d' un agente, in modo che già le attribuisce a un agente solo, comune fonte di esse: così percepisce il corpo, cioè si forma l' idea comune del corpo. 3 Lo spirito distingue nella sensazione unica della vista i diversi colori, che impara a riconoscere per segni di quei corpi stessi tattili, a cui già imparò a riferire molte sensazioni di diversi sensi. Questi sono lavori distinti dello spirito, ma il loro effetto è sempre la percezione intellettiva e perciò non costituiscono diversi ordini d' intellezioni, ma un ordine solo, il primo: è sempre la percezione stessa che lo spirito in tutti questi lavori ripete e migliora (1). Ma lo spirito rimanendosi dentro la sfera del primo ordine d' intellezioni fa ancora diversi altri lavori. E veramente la memoria imaginaria, che rimane nello spirito o si riproduce, delle sensazioni avute, non si può dire che appartenga a un altro ordine d' intellezioni, perchè non varia l' oggetto, il termine, la materia dell' operazione, ma solamente varia la potenza dello spirito operante intorno alla stessa materia. Poichè la percezione, di cui io mi ricordo o che in me riproduco coll' imaginazione, è sempre la stessa quanto al conoscere: io conosco con queste operazioni l' identico oggetto della mente, e non un altro. Parimenti l' associarsi di più percezioni, o memorie imaginarie di percezioni, è un lavoro, che non eccede il primo ordine d' intellezioni, quando trattasi d' una associazione di semplice coesistenza nello spirito, senza che l' intendimento operi alcuna analisi o sintesi tra esse. In terzo luogo gl' istinti e in generale tutta l' attività spontanea, che già si mette in moto nello spirito in conseguenza delle percezioni e delle loro memorie e imaginarie riproduzioni, sono operazioni, che non eccedono ancora i confini del primo ordine d' intellezioni, del primo stadio, in cui si trova l' umana intelligenza. In quarto luogo appartengono a questo stesso stadio ancora le idee specifiche piene, ma imperfette (1). Intendiamo per idee specifiche7piene7imperfette le cose stesse da noi percepite, considerate meramente come possibili, senza aggiungervi il pensiero della loro reale sussistenza. Se io ho percepito una melagrana, mi resta poi la memoria della mia percezione. La memoria della melagrana da me ieri veduta, toccata, assaporata, percepita intellettivamente è più che una semplice idea di essa; perocchè l' oggetto del mio pensiero non è semplicemente l' imagine di quella melagrana considerata come un tipo, una possibilità di melagrane; ma è quell' imagine riferita alla melagrana di ieri, è l' imagine propria di essa; io con quella memoria non penso solo all' imagine, ma penso alla cosa reale. Ma se io dimenticassi interamente la melagrana di ieri, e tuttavia contemplassi nella mia fantasia un' imagine di melagrana, imagine rimastami dalla percezione avutane, ma che io non riferisco più alla percezione, perocchè suppongo essermene del tutto dimenticato; in tal caso la imagine, che io contemplo col mio intendimento, non fa che rappresentarmi una melagrana possibile, non questa o quella, non alcuna melagrana reale. Or l' oggetto di un tal pensiero, che io fo, è un idea, che io chiamo specifica piena7imperfetta. Io chiamo quest' idea specifica , perchè non è legata ad alcun individuo reale, ma è tipo d' infiniti individui possibili: ella determina dunque una classe o specie d' individui. Chiamo quell' idea specifica7piena , perchè io suppongo, che ella conservi tutte le qualità, anche accidentali, della melagrana da me altre volte percepite, sicchè ella non è un' idea astratta, ma una idea che rappresenta individui forniti di tutte le loro particolarità. Finalmente chiamo quell' idea specifica7piena7imperfetta , perchè quel tipo non mi rappresenta la melagrana perfettissima, ma una melagrana, qual era quella che io ho percepita con tutti i suoi difetti o imperfezioni, che avesse potuto avere. Il passaggio, che fa l' intendimento dalla percezione all' idea specifica7piena7imperfetta, chiamasi universalizzazione . Questo passaggio è facilissimo; perocchè sono le percezioni atti dello spirito passaggeri, e però, tosto che l' oggetto vien sottratto al senso esterno, la percezione cessa. Nondimeno ella anche cessando lascia nello spirito umano due vestigi o effetti di sè: l' imagine della cosa percepita, la quale può essere suscitata nel senso nostro fantastico o da noi stessi o da accidente straniero, e la memoria della percezione avuta. I quali due effetti della percezione sono per se diversi, e quantunque fin a tanto che coesistono nello spirito si possa facilmente prender l' una per l' altra, tuttavia al cessar della memoria rimanendo l' imagine, o al cessar della imagine la memoria, o all' illanguidirsi dell' una più che dell' altra, si trovano nello spirito tra se separate. Molto più si separano e si distinguono, quando il fanciullo riceve delle altre percezioni della cosa stessa; perocchè allora l' imagine è la medesima, quando all' opposto ogni percezione ha la sua memoria distinta. Ancora, se il fanciullo riceve percezioni d' altre cose, ma similissime, come sarebbe d' altri aranci non distinguibili tra di loro se non per molta attenzione sulle piccole differenze, di cui il fanciullo nel primo tempo non cura, le memorie tuttavia si moltiplicano, e l' imagine è sempre una sola, alla quale si riscontrano gli oggetti. Per le quali cose facilissimamente avviene, che l' imagine nello spirito si distingua dalle memorie delle percezioni avute, nel quale stato di distinzione ella si fa tosto fondamento all' idea specifica piena imperfetta di cui parliamo, perocchè lo spirito vede incontanente e naturalmente nell' imagine da lui posseduta il ritratto d' una cosa non sussistente, ma possibile. Riassumendo adunque, alle intellezioni del primo ordine appartengono le percezioni, le memorie delle percezioni (le imagini da sè sole prese non sono intellezioni, ma sensazioni interiori), le idee specifiche imperfette aventi per base l' imagine, le associazioni varie di percezioni e memorie e idee specifiche imperfette, e finalmente gl' istinti e operazioni volontarie, che conseguono quel primo grado di sviluppo intellettivo. Il quale sviluppo intellettivo, quando poi comincia nel bambino? Non vi ha forse un istante di vita, nel quale il bambino non abbia delle sensazioni accidentali almeno interne (1), sensazioni che cominciano fin nell' utero materno? Ora s' accompagna egli l' operazione dell' intendimento a tutte le sensazioni, anche alle prime? Inclino a credere di no. Già dissi che le sensazioni semplici non traggono a sè l' attività dell' intendimento; la sensazione, che finisce in sè, è acquetamento piuttosto che suscitamento di nova attività. Quelle sole eccitano l' attenzione intellettiva, nel seno delle quali sorge il sentimento d' un bisogno , certo d' un bisogno d' altre sensazioni. Vero è che questi bisogni fisici, che eccitano l' attività intellettiva del bambino, devono sorgere assai presto, e con essi l' inquietudine e il tentativo di soddisfarli, il quale durerà anche esso qualche tempo prima di riuscire all' intento di chiamare in aiuto l' intelligenza, e io congetturo, che il momento nel quale l' intelligenza si apre alle sue operazioni sia segnato dal primo riso del fanciullo (1). Con questa ineffabile espressione della sua gioia, egli pare, che il bambino saluti l' alba del giorno, che a lui traluce. L' anima sua ragionevole rallegrasi della verità, che ritrova, e a se stringe quasi di slancio. Ah che il primo atto dell' intendimento deve pur essere all' anima umana un grande istante, un istante solenne, il sentimento d' una nova vita ed immensa, la scoperta della propria immortalità! E` egli possibile, che un avvenimento sì stupendo e sì repente nel bambino (quantunque l' adulto non possa formarsene alcuna idea) non si manifesti al di fuori con segni di esuberante letizia? Avete dunque ragione voi, o madri, che aspettate con sì gran desiderio, che provocate, che accogliete con sì gran tremito dei vostri visceri il primo sorridere dei vostri figliuoli. Ah! voi sole siete le interpreti veritiere di quella prima parola infantile, che in forma di riso si espande sulle labbra, e negli occhi, e in tutto il volto di quel piccolo essere intelligente; voi sole ne intendete il mistero; intendete che egli da quell' ora vi conosce, e vi parla; e voi, il primo oggetto dell' intelligenza umana, sapete voi sole rispondere a quel linguaggio d' amore, e rendervi, quasi direi, imagini e tipo della verità, che è intelligibile, e che luce per sè medesima (2). Laonde ammettendo questa conghiettura ne verrebbe che fino dalla prima infanzia del bambino dovrebbe distinguersi due età ben definite. I L' età dello sviluppo meramente sensitivo, che comincia dal primo esistere, e II L' età del primo grado di sviluppo intellettivo, che comincia dal primo riso del fanciullo. Nella prima età come non vi sono nel fanciullo che sentimenti e bisogni animali, così non vi è che un' attività animale (1). Quest' attività parte è congenita nell' animale, e io gli ho dato nome di istinto vitale nell' Opera che ho pubblicato col titolo d' « Antropologia », a cui mi convien rimettere il lettore, che abbia vaghezza di conoscere più addentro questa materia. Ivi anche vedrà come dall' istinto vitale nasca l' istinto sensuale , altro ramo dell' animale attività, di cui noi qui parliamo. Sarebbe difficile il definire se le prime operazioni dell' istinto sensuale comincino nell' utero materno, o appena che l' animale si trova al contatto dell' atmosfera, o qualche tempo dopo (1). Sembra per altro che forse il primo eccitamento a esercitare l' istinto sensuale nasca dal bisogno di nutrirsi (2). La respirazione, questa interna e lenta combustione, che comincia a farsi in lui appena uscito alla luce, consuma l' ossigeno e il carbonio, di cui ha bisogno il suo sangue; di che nasce in lui il bisogno di ripararne le perdite col cibo. Parimente le continue perdite che fa il suo corpo mediante la traspirazione, e altre separazioni, gli producono il bisogno di nutrizione. Il movimento de' labbri, co' quali egli s' attacca al seno materno, è dunque uno de' primi atti del suo istinto sensuale (3). L' istinto sensuale adunque ne' primi suoi atti è mosso dal dolore , anzichè tirato dal piacere, prendendo la parola dolore per ogni specie di molestia, per ogni penoso bisogno. I bisogni penosi rimangono sempre, anche in appresso, stimoli efficacissimi alle operazioni dell' istinto sensuale; ma ben presto questo istinto non è più nel suo primitivo stato; riceve delle modificazioni dalle esperienze che fa; chè, come ho già osservato (1), l' operare di una qualsiasi facoltà dell' uomo, oltre gli atti passaggeri, produce sempre dopo di essi un effetto stabile nell' uomo, uno stato e condizione nova, specialmente della facoltà usata. L' istinto sensuale adunque, che nel primo suo apparire non è mosso che dal dolore, ben tosto viene attratto anche dal piacere; il piacere diventa per lui un bisogno. Dopo dunque che il bambino si procacciò delle sensazioni coll' occasione di soddisfare ai più penosi suoi bisogni, e che trovò queste piacevoli (giacchè la natura benefica aggiunse per sopra più il piacere al soddisfacimento dei bisogni), cerca delle sensazioni per due motivi, per evitare la pena, e anche unicamente per godere. Da questi fonti nasce quel bisogno di sentire che accompagna poi l' uomo per tutta la sua vita, e che divien sì vario, potente e ben anco capriccioso e sregolato. Io ho già accennato che non poco sospetto, che vi abbia una comunicazione tra le anime stesse mediante le sensazioni. Questo sarebbe un fatto degno da verificarsi meglio colle più accurate osservazioni. In tanto mi sia lecito dir di più, sempre in via di conghiettura, che io inclino anche a credere, che non solo il soggetto insieme colle sensazioni, che riceve da una persona, provi un sentimento, che è effetto immediato dell' anima intelligente, che opera nelle sensazioni cagionate, ma che una simile comunicazione avvenga pure tra l' anime meramente sensitive. Quando il gatto giovanetto gioca colla pallottola di carta, o colla fettuccia appesa, io stento a credere, ch' egli vi cerchi solo il mutare delle sue sensazioni materiali, ma anzi sospetto, che egli istintivamente vi cerchi qualche cosa di animale, di vivo, di cosa che si muova da sè; e che egli invecchiando non gioca più, disingannato, perchè oggimai ha imparato a distinguere meglio ciò che è animato da ciò che è inanimato. Mad. Necker fa a questo proposito un' assai fina osservazione sui bambini: ella rende ragione appunto del perchè i bambini s' annoiino dei loro giocarelli, dicendo, che ciò nasce quando hanno esauriti tutti i nuovi aspetti e abbattimenti; giacchè fino che trovano casi nuovi par loro di vedere un moto spontaneo, un' anima nelle cose materiali; ma quando non possono cavar più niente di nuovo, allora la cosa a' lor occhi è morta, e non ha più niuno interesse (1). A questa stessa tendenza verso le cose animate si deve forse attribuire l' attrazione, che esercitano sopra certi animali le cose brillanti: dell' allodola dicesi, che s' appressa allo specchio, dell' usignuolo a tutto ciò che luce, e le gazze si sa che hanno l' istinto di rubare e di nascondere i gioielli (2). Ma lasciando questi ed altrettali fatti, nei quali gli animali s' ingannano nell' aspettar di trovare un animale in ciò che si muove, o che dà delle cangianti sensazioni, egli è indubitato, che vi ha tra gli animali della stessa specie una tutto speciale domestichezza somiglievole all' amicizia. Quanto piacer non provano a giocolar tra loro i cagnolini, i gatti, ecc.? Molti animali vi sono a mandre, a truppe, quasi famiglie e tribù e popoli. Tutto ciò che riguarda la convivenza per cagione della generazione e l' allevamento de' figliuoli pare, che supponga questo principio della comunicazione delle anime. Intanto si può mettere tra i fatti al tutto certi, che le sensazioni, che gli animali si cagionano tra loro, sono tali sensazioni, quali non possono avere da nessuno degli oggetti inanimati. L' affezione che i genitori di tutte le specie mostrano pei loro nati, è un istinto, che troverebbe facilmente la sua spiegazione nella supposizione, che ho avanzata. Una certa affinità sensuale si trova ben anche tra animali di specie diversa: il cane, il cavallo, l' elefante, ecc., prendono fra di loro una scambievole affezione: all' uomo poi si legano con stretti vincoli di domestichezza e fedele servitù molti animali. Al principio stesso di un' azione secreta, scambievole delle anime convien forse attribuire anche le avversioni, e inimicizie di certi animali verso cert' altri, come del gatto verso il topo, ecc.. Or poi data questa comunicazione delle anime sensitive, ella deve aver luogo anche nel fanciullo; ma non penso che ella giochi prima della comunicazione dell' anima intellettiva: nel primo riso adunque parmi, che l' una e l' altra incominci. Un altro principio d' operare appartenente alla sola animalità (benchè un somigliante principio si trovi poi anche nell' ordine dell' intelligenza) si è quello dell' imitazione. Noi crediamo d' averne data sufficiente spiegazione (1). Solo qui aggiungeremo, che i sentimenti animastici (2) rendono ancora più facile e chiara la data spiegazione: l' un' anima sente la sua compagna in un dato stato, a ragion d' esempio in quello di gioia (3): dalla naturale benevolenza nasce la simpatia, cioè il comporsi ai medesimi sentimenti: dalla simpatia l' istinto d' imitazione . La simpatia in tal caso è la operazione passiva, l' imitazione la sua attiva corrispondente. Fra i piaceri, che prova l' animale, e di cui ben presto diviene avido, ci ha quello dell' agire . L' attività porta molti speciali piaceri fisici, giacchè il solo acceleramento della circolazione sanguigna accresce la vita e il suo sentimento. Ma oltre i parziali piaceri fisici, che tengono dietro all' azione conveniente, vi ha un piacere inerente all' azione stessa; perocchè a chi più opera, par di più vivere. Laonde il piacere d' agire nasce e cresce dall' esperienza fino a un certo grado nell' animale, e diviene alle occasioni uno dei principii de' suoi movimenti. Finalmente anche le potenze animali si vestono dell' abitudine . La natura fisica è piena di ordine, ma quest' ordine stesso subisce alcune modificazioni in conseguenza delle abitudini. L' abitudine oltre di ciò facilita certe operazioni e le rende più piacevoli a chi le fa; rende per conseguenza più molesta l' interruzione o la privazione di esse; quindi nascono de' gusti e degli istinti d' abitudine, che in questa maniera diviene nell' animale e nell' infante un nuovo principio di attività. Riassumendo adunque quelle attività del fanciullo, che appartengono all' ordine dell' animalità, esse sono le seguenti: 1 l' istinto nascente dal bisogno di evitare uno stato doloroso; questo è l' istinto nel suo stato primitivo (1); 2 l' istinto nascente dal bisogno di sentire semplicemente e di godere sensazioni piacevoli; 3 l' istinto verso le cose animate, onde si genera la simpatia ; 4 l' istinto d' imitazione nascente dalla simpatia; 5 l' istinto e bisogno di agire semplicemente pel piacere, che trova nell' esercitare le sue forze; 6 l' abitudine. Nella seconda età l' intelligenza comincia il suo movimento: le percezioni e le idee imaginali si formano: e quindi una nuova attività si deve sviluppare: perocchè da ogni passività, l' abbiam detto tante volte, nasce nell' uomo un' attività: dall' intendere dunque deve scaturire un' attività razionale, il moto della volontà. Il primo moto della volontà consiste in quelle volizioni, che abbiamo dette affettive (2), in cui il soggetto sensitivo e volitivo vuole l' oggetto percepito senz' averlo giudicato bono, ma solamente per averlo sentito piacevole: volizioni misteriose e altrettanto difficili a ben intendersi, quanto è difficile la percezione intellettiva. Ma quantunque sappiamo, che pochi sieno quelli, che si formino un chiaro concetto di questa maniera di volizioni, e molti quelli, che sono presti a negarcene l' esistenza; tuttavia noi siamo costretti ad ammetterle appellando a que' pochi, che meditando penetreranno la natura di quelle volizioni, e della loro verace esistenza non dubiteranno. Ora si osservi, che coll' apparire l' attività intellettuale non cessa l' attività sensuale, ma lo sviluppo del fanciullo si complica, e si rende assai più difficile a descriversi per la mutua influenza delle operazioni sensuali e intellettive e per la moltiplicità de' loro atti. Ciò non ostante dobbiamo tentare una breve descrizione di ciò, che avviene nell' uomo in questa sua seconda età. Nell' età prima le prime sensazioni furono di cose inanimate e solamente più tardi ebbe il bambino i sentimenti animastici, di cui abbiamo parlato. Ma nella seconda età, in cui si mette in movimento l' intelligenza avviene l' opposto: il primo passo della facoltà conoscitiva sembra quello, come abbiamo detto, che reca l' uomo a percepire cose animate: percepisce l' anima della madre sul suo volto, e tosto simigliantemente nell' altre cose tutte cerca la vita e l' anima: di maniera che è da credere, che ben tardi il bambino giunga a persuadersi a pieno di questa gran maraviglia, che esistano degli enti inanimati (1). Ora come le sensazioni animastiche producono di lor natura nel bambino l' affezione fisica , e quindi la simpatia; così le percezioni animastiche eccitano immediatamente la benevolenza , che è già una volizione affettiva abituale ed incipiente. Infatti la benevolenza, questo affetto razionale, non si può concepire se non si suppone un essere animato, verso cui si eserciti: perocchè tutto ciò che è inanimato, se veramente lo concepiamo per tale e non associamo al suo concetto imaginariamente qualche elemento di vita, ci può ben essere caro per l' utilità, ma non possiamo amarlo o avergli quell' affetto, che benevolenza si chiama. Ora il bambino pieno di affetto e di benevolenza la trasfonde per così dire verso tutte le cose, e questo è nuova prova di ciò, che dicevamo parere a lui le cose tutte vive e intelligenti. Quando la fanciullina slanciatasi al collo della madre, dopo averla baciata con mille carezze se ne parte e va a baciare e carezzare la tavola o la scranna, ella non accarezza certo questi esseri come inanimati, ma più tosto versa in essi per così dire quell' affetto che ha verso alle cose animate senza fermarsi a considerare che quelle animate non sono. Sì, l' amore della creatura senziente e ragionevole suppone per la sua essenza un oggetto pure senziente e ragionevole, sia questo vero o creduto tale. Ecco quali sieno le prime volizioni affettive. E come la natura pose prima l' affezione sensitiva qual disposizione e principio dell' affezione intellettiva che sola è vero amore; così a fine di disporre l' affezione sensitiva pose nel tenero fanciullo una fisica giocondità degli organi riboccanti di vita, e colmi, per così dire, di piacere, quale disposizione acconcissima all' affezione sensitiva. Laonde tutto si lega e dà mano al mirabilissimo congegno della creatura umana. L' anima sensitiva già piena di dolcezza è convenevolmente disposta a ben sentire un' altra anima pure sensitiva ed affezionarvisi, nell' uomo quella naturale affezione è tosto ritrovata dalla volontà, la quale se ne compiace, e vi genera quasi in proprio nido l' amore, fonte d' altra gioia razionale, che alla primitiva animale si mesce, e con dolce circolo via meglio dispone l' uomo ad affezionarsi e ad amare (1). Certo a questi primi albori dell' intelligenza umana non v' ha nell' uomo nè merito, nè libertà, nè coscienza. Ma chi, attentamente considerando, potrà disconoscere, che vi ha già una moralità? Che cosa è la moralità se non l' atto o l' atteggiamento di una volontà intelligente verso degli esseri pure intelligenti? Se la volontà dà il suo affetto a questi esseri, cioè li ama quanto essi esigono, ella è certamente buona; ma se piglia verso ad essi un contegno di avversione e di odio, ella è cattiva. Le osservazioni adunque sulla naturale benevolenza de' bambini confermano quanto ho affermato nel « Trattato della Coscienza » sull' esistenza d' una moralità anteriore alla coscienza, come pure le teorie ivi esposte illuminano mirabilmente quanto si ritrae dal diligente osservare ciò che avviene nell' età prime. Ma vi ha di più. All' età propria delle volizioni affettive si può assegnare lo spazio di sei mesi. Dopo questa età sembra che nasca un vero giudizio sulla bontà delle cose, il quale dà luogo incontanente alle volizioni apprezzative (1). Egli è difficile a conoscere quando il fanciullo pronunzi un vero giudizio interno trattandosi di cose piacevoli fisicamente ai suoi sensi, perchè essendogli questo piacere comunicato dai sensi stessi, non vi ha necessità d' una operazione dell' intendimento per metterlo in atto. Ma trattandosi di un diletto che nasce da una cosa intesa, egli è uopo che intervenga un' operazione dello intelletto, acciocchè quel diletto si manifesti. Ora dopo sei o sette mesi si rileva già nel fanciullo l' ammirazione verso le cose belle , e però indubitatamente il suo intelletto apprezza le cose in sè, e la sua volontà dietro a un tale apprezzamento fa delle volizioni che apprezzative nominiamo. In questo caso fa una nuova comparsa la moralità , e propriamente qui comincia la stima pratica degli oggetti distinta dalla percezione verso di essi; mentre nelle volizioni affettive la stima pratica era colla prima percezione immedesimata (2). Qui splende anche il disinteresse, che accompagna sempre una stima pratica, che ha per suo regolo la giustizia. Ma veggiamo tutto ciò ne' fatti, e chi ce li raccoglie e testimonia sia la benemerita autrice dell' « Educazione progressiva » che abbiamo più volte citata, e a cui molte altre volte ricorreremo per attignervi e osservazioni diligenti e riflessioni assennate. [...OMISSIS...] Il Cristianesimo accoglie tra le sue braccia amorose il bambino, che entra in questo mondo, e chiude pietosamente gli occhi suoi, quando ne esce. Consolanti non meno che saluberrimi dogmi della Chiesa Cattolica sono i seguenti: 1 GESU` Cristo salva gli uomini mediante una occulta potenza, che esercita sul loro spirito, e che lo ammigliora, la quale si chiama grazia ; 2 Questa grazia fu annessa a certi riti esteriori, di cui è depositaria la Chiesa Cattolica, i quali si chiamano Sacramenti ; 3 Il primo di questi Sacramenti è il battesimo, nel quale l' uomo viene rigenerato , cioè riceve il principio d' una vita morale d' un ordine superiore o sia soprannaturale; 4 La Chiesa Cattolica, oltre la potestà di amministrare questi Sacramenti, ha quella altresì di benedire cose e persone, aggiungendo Dio alle benedizioni della Chiesa le benedizioni proprie, cioè delle grazie e dei favori; 5 La Chiesa prega ne' suoi membri, quando questi in comunione colla Chiesa pregano secondo lo spirito della Chiesa, e tali orazioni sono efficaci; 6 Dio ascolta sempre le preghiere ed accoglie le offerte fatte dagli uomini di buona volontà. Posti questi preziosi dogmi, ne viene, che, se il bambino nelle due prime età non è ancora atto a fare da sè atti di religione, è però ufficio de' suoi genitori il fare molti atti religiosi per lui, derivando da Dio al loro fanciullo, già rinato col battesimo, grazie sempre maggiori, valendosi de' beneficii ed aiuti lasciati agli uomini in terra dal Salvatore. La Religione adunque previene il fanciullo, fa per lui molto, prima che egli possa far nulla per essa. Felici i genitori ricchi di fede! Felice il bambino che cotali gli ha sortiti! Comunemente si crede, che il fanciullo abbia una volontà debole, come la sua natura fisica, e che coll' età si fortifichi l' uso della sua propria volontà. Questa opinione nasce, perchè si considera l' uso libero della volontà, il quale manca da prima interamente nel fanciullo, e quando ha in lui avuto cominciamento esso va stendendosi a gradi: sicchè la libertà sottomette o può sottomettere al suo impero un circolo ognor maggiore di cose. All' incontro nel bambino la volontà opera spontaneamente ed è di questi atti spontanei della volontà, che noi diciamo essere essi più forti, cioè più decisi ed abbandonati nel fanciullo, che in uomo già sviluppato. [...OMISSIS...] Noi non possiamo misurare il grado d' intensità de' piaceri e de' voleri del bambino, perchè la misura di ciò, che proviamo, è la nostra coscienza, la quale non è formata nel bambino; e ci riesce estremamente difficile l' intendere quel misterioso stato di un essere, nel quale vi sia dolore e piacere e niuno conoscimento, niuna coscienza di essi. Pure tale è il modo di essere delle bestie, e molte volte è anco il modo d' essere del sentimento umano (2). Le ragioni poi ond' è che i sentimenti, le volizioni affettive de' bambini sono caldissimi e impetuosissimi, sono due: la prima si è, che gli oggetti di tali volizioni sono semplici, onde la volontà tutta con quanto ha di forza si butta in essi. Già ho osservato, che di natura sua la volontà è infinitamente suscettiva e mobile: or di più aggiungo, che è di una grandissima violenza fornita ove le sue forze non sieno divise e distratte in più oggetti, e questi la tirino a movimenti contrarŒ in modo, che si collidano. Questo dà ancora ragione del perchè la plebe si muova di più impeto che le persone coltivate: massimamente i sentimenti dei contadini, quando pur insorgono in essi, li ho osservati oltremodo forti, o siano essi dolorosi, ovvero aggradevoli. Lo stesso carattere di volizioni decise e calde si manifesta ne' popoli antichi: è in essi vita, entusiasmo, passione appunto alla similitudine de' fanciulli. La seconda ragione della vivezza degli affetti e volizioni fanciullesche si è, che elle si portano immediatamente nell' oggetto percepito; quando gli adulti concepiscono gli oggetti astrattamente e fanno, per così dire, passare l' atto della volontà per una lunga serie di idee generali prima, che pervenga a coglier l' oggetto. Ma mi riserbo altrove lo sviluppare questa ragione degna di essere meditata. Vero è che i sentimenti e le volizioni prime ed ardenti, che dimostrano i bambini, sono facilmente rimutabili nelle contrarie: ma questo non prova, che non sieno vivaci; prova solo, che son celeri, e che la natura de' loro oggetti, per lo più tenui e leggeri, non permette loro una durata consistente, come quella che è labile e volubile. Se dunque il sentimento e la volizione del fanciullo ha tanto più d' intensità e di pienezza, quant' è minore lo sviluppo del suo intendimento, volendo allora il fanciullo con tutto se stesso, tutto il nerbo del suo volere applicando a pochi e semplicissimi oggetti; egli è manifesto, che le madri debbono cavar profitto di questa condizione dell' animo infantile, occupandosi nelle prime età assai più di educare il sentimento e la volontà che la ragione. Conviene dunque fare in modo che l' animo del bambino si empisca per tempo di quella benevolenza, alla quale è sì felicemente formato da natura. Questa benevolenza, quest' affetto universale nasce, come ho toccato, in seno alla giocondità e alla gioia, che si convien mantenere il più che si può nell' animo del bambolino (1). La qual gioia poi non dee essere procellosa, ma calma, abituale e serena. Il conservare la serenità nel fanciullo non giova solamente a formare il suo animo alla dolcezza ed alla benevolenza; ma ben ancora ai progressi del suo intendimento; il quale non può fare le sue operazioni in modo ben ordinato e perfetto, se non si trovi in uno stato sereno e tranquillo, in cui solo il fanciullo può raccogliere la sua attenzione. Il qual documento è tanto più rilevante, quanto più facilmente il fanciullo è soggetto alla distrazione cioè alla mobilità estrema de' suoi organi, de' suoi sentimenti e de' suoi pensieri. Ottimamente osserva M. Necker, [...OMISSIS...] . Le maraviglie della forza unitiva nell' animale, di questo agente che nascendo dall' unità del soggetto produce degli effetti, che emulano quelli della ragione, furono da noi descritte nell' « Antropologia ». Una delle proprietà di questa forza si è quella di far giocare contemporaneamente più potenze nell' animale, passive ed attive, e averne un risultamento unico: tali sono i prodotti dell' istinto di simpatia, di quello d' imitazione e d' altre animali operazioni, nelle quali il moltiplice vedesi ridotto ad unità, l' esteso ad una mirabile semplicità: quindi tutto ciò che sente ed opera l' animale in ciascun istante è mirabilmente ordinato: egli sente ed opera moltissime cose, che per lui sono una cosa sola. Or egli è vero che anche le operazioni dell' intendimento umano ricevono dall' unità perfetta del soggetto sensitivo7intellettivo una loro unità: egli è vero che la forza unitiva domina non meno nell' ordine del senso che in quello dell' intelligenza; anzi ella di questi due ordini ne fa un solo, appunto perchè è forza di un soggetto, nel quale il sentire e l' intendere ugualmente hanno la loro origine. Ma tra quelle operazioni dell' animale e queste dell' intelligente vi ha una gran differenza: quelle avendo l' unità soggettiva hanno tutto ciò che possono avere: queste all' incontro esigono di più un' unità oggettiva , nè senza questa si possono dire ordinate ed unite. La ragione di questa differenza si è che l' ordine animale non si riferisce ad alcun oggetto, e quando le operazioni sono unificate, tutto è unificato. Ma l' ordine intellettivo non consiste in mere operazioni, ma nel possesso di oggetti non solo estranei al soggetto, ma contrapposti al soggetto. Non basta dunque che le operazioni intellettive sieno unificate: l' unità che si domanda è quella de' loro oggetti; e questi nella seconda età del fanciullo sono del tutto slegati per se stessi; giacchè il fanciullo non pensò ancora i rapporti che hanno fra loro: e da' quali vengono uniti e armonizzati. Questa sembrami una di quelle osservazioni che non si debbono trascurare, perchè possono dare non poco lume a chi dirige l' educazione del bambino. L' importanza sua si vedrà, ove si voglia considerare qual sia l' istruzione che solo si può dare al fanciullo nella sua seconda età, e che corrisponde al primo ordine delle sue intellezioni. Ma prima di trattare di questa così elementare istruzione, giova che osservi qui una volta per sempre, che quand' io cerco la qualità d' istruzione che può darsi al fanciullo rispondente al primo ordine d' intellezioni, non intendo d' affermare, col proporre un tal quesito, che quest' istruzione gli si deva dare solo in quel breve periodo, nel quale le intellezioni di primo ordine da se stesse si sviluppano. Intendo solo di stabilire qual sia quella istruzione che si può dare sicuramente in ogni tempo della vita, perchè non chiede nelle facoltà intellettive che il primo grado di sviluppo. Così si deve pure avvertire degli ordini superiori. L' istruzione di un ordine qualsiasi è sempre opportuna nelle età superiori ed è solo inopportuna nelle età inferiori. Dico dunque che alle intellezioni di primo ordine sconnesse risponde l' osservazione sensibile7esteriore sconnessa anch' essa: osservazione pura senza alcuna giunta di ragionamento. L' istruzione di primo ordine consiste adunque nel fare osservare al fanciullo co' suoi propri sensi gli oggetti esterni, e nel fargliene prendere degli sperimenti . Ecco un grande scopo: seguendo la stessa natura formare del fanciullo un osservatore e uno sperimentatore : dirigere soavemente, costantemente, sagacemente la sua attenzione senza però mai forzarla o contrariarla. E` la natura, che conduce il bambino a osservar tutto, a far prove e sperimenti su tutto; ma tutte queste prove e le percezioni che ne riceve sono tra loro slegate, disordinate. Il primo ufficio dunque dell' arte dell' educare consiste: nel « regolare le osservazioni e gli sperimenti fanciulleschi ». Queste osservazioni e questi sperimenti conducono il fanciullo a percepire e a perfezionare le sue percezioni. La percezione, che dalla natura è stata messa a fondamento di tutta la gran piramide dell' umano sapere, dev' essere anche quella che costituisce il fondamento di tutta l' umana educazione. Ora la percezione, l' abbiamo detto, si perfeziona in ragione del numero delle sensazioni, che l' uomo ha dal medesimo oggetto, della vivezza di queste sensazioni, del loro ordine e della loro associazione, e sopra tutto dell' attenzione, che lo spirito pone alle medesime e nelle più minute parti degli oggetti. Ecco un vasto campo, in cui si dee esercitare il fanciullo, campo che non eccede tuttavia il primo gradino dell' insegnamento. Avendosi già nella sfera dell' animalità qualche cosa di complesso e di legato, la natura, che prepara questa materia così bene ordinata all' intendimento infantile, insegna già all' educatore a far presto quello che dee fare: questi dee imitar la natura. Ma quanta pazienza e quanto senno non esige tutto ciò nell' educatore! Esige, che l' adulto s' inchini a quelle cose che per lui non hanno più interesse, ma che pur ne ripiglieranno un nuovo e grandissimo, s' egli avrà cuore e mente. Questa è la dote, che manca nella maggior parte degli educatori; onde di mal animo s' inducono ad accompagnarsi alle operazioni e sperienze fanciullesche; ed anzi sturbano spesso il fanciullo innocente nel suo lavoro di un placido osservare e sperimentare (perchè a osservare e sperimentare si riducono veramente tutti i giocarelli e movimenti fanciulleschi e il gusto che il fanciullo ne prende): essi non ne intendono la sapienza; e vorrebbero occupare il bambino in altre operazioni proprie di sè adulti, nelle quali essi trovassero pur piacere ed importanza. Al qual proposito molte volte io ho considerato e domandato meco stesso, perchè il divino Maestro non abbia mai nulla ripreso nei bambini, e anzi per così dir tutto lodato, quando alla severità de' savi umani sembra pure quella prima età piena di leggerezza, e vuota di serie occupazioni. Non pare, che tale la giudicasse Gesù Cristo. Anzi egli sembra che questi vedesse nelle esercitazioni fanciullesche tutt' altro che un perditempo, un far nulla; ma più tosto un' attività grandissima del loro intendimento, avido, aspirante a conoscere, ad abbracciarsi col vero, un' avidità, per la quale « « l' anima semplicetta che sa nulla » » e che è pur fatta per sapere, buttasi con impeto sul mondo sensibile, per rapirne ovechessia cognizioni e notizie, incessantemente osservando, e in mille maniere esperimentando questi e quegli oggetti, quanti pe' sensi gli si presentano (1). Convien dunque con una somma pazienza farsi compagno al fanciullo in questo gravissimo e continuo studio dell' innocente sua età; ed aiutarlo in esso regolandolo. Non è mio intendimento di determinar qui quale potrebbe esser l' ordine , nel quale venissero posti sotto i sensi al fanciullo gli oggetti sensibili; mi basta di osservare che è buono studiarsi un ordine, e che da un ordine, e più ancora da un ordine buono posto dalla sapienza dell' educatore nelle percezioni del fanciullo, se n' avrebbe di buone conseguenze, le quali preludessero e accelerassero il suo futuro sviluppo. Toccherò solo d' alcuni avvisi, i quali mi sembrano poter dare buono indirizzo a' savi educatori ed educatrici della prima età del fanciullo. Il primo si è di porre, al possibile, regolarità nella vita del bambino. [...OMISSIS...] Or questa regolarità di vita continua ad essere sommamente vantaggiosa anche nelle seguenti età dell' infanzia. Al fanciulletto convien certamente dare in abbondanza oggetti da vedere, da toccare, da farvi intorno prove, esperimenti, in una parola da percepire, e da percepir sempre meglio. Ora a ciò si scelgano quelli che più attraggono la sua attenzione, cioè gli oggetti che possono soddisfare i suoi bisogni, le sue voglie, dargli piacere: perciocchè son questi gli stimoli della sua attenzione. Ancora gioverà di presentare al fanciullo degli oggetti semplici, regolari e ordinati, facendogli vedere per esempio i sette colori della luce l' uno dopo l' altro, come pure il bianco ed il nero, e ancor meglio i colori armonici, nel succedersi dei quali egli troverà gran piacere (2), facendogli parimente udire i sette suoni, prima da sè l' un dopo l' altro, poi gradatamente ne' loro salti armonici e ne' loro accordi; per trastullarsi poi dandogli de' solidi regolari, alle cui forme e misure proporzionate egli avvezzi l' occhio e la mano, e le si scolpiscano nell' imaginazione, ecc.. Dopo di ciò, ma molto dopo, si potrebbe avvezzare il bambino a più colori, a più suoni, a più figure armonicamente disposte; ma sempre gradatamente, non passando ad un altro gioco, se non quando comincia a mostrar noia del primo. Chi non vede che ricevendo nel suo spirito tante imagini ben ordinate, queste, oltre altri vantaggi, prestar debbano acconcia materia alle sue future riflessioni, e agevolare le operazioni intellettive ch' egli è chiamato a fare in appresso? Senonchè il suo animo stesso ne risentirebbe uno squisito vantaggio morale, conformandosi insensibilmente all' ordine ed educandosi al bello. L' intelligenza del fanciullo si apre col riso che segna il principio della seconda età. Come l' opera della prima età del bambino era quella di svegliarsi alla vita e di trarre in comunicazione i propri sensi cogli stimoli e corpi stranieri al proprio; così l' opera che il bambino dovette compiere nella seconda età, si fu quella, quanto all' ordine sensibile, di mettere in armonia le sensazioni del tatto con quelle della vista, e quanto all' ordine intelligibile di dare il primo movimento all' intendimento, mediante le percezioni e le idee imaginali. Egli non arriva ad apprender interamente l' uso della mano e a regolare i movimenti di essa in conformità delle cose vedute, se non in otto mesi all' incirca; ed ha già quasi un anno, allorquando si fa a ciampicare i primi passi ed a balbutire i primi suoni articolati, che sono segni d' una età nuova che gli spunta insieme col secondo anno di sua esistenza. Gli comincia dunque la terza età col linguaggio: l' apprendimento de' segni delle cose è veramente un nuovo e gran passo dell' umana intelligenza: la prima parola che intende e che pronuncia il fanciullo, è un' epoca importante di tutta la sua vita: di questa età sono proprie le intellezioni di second' ordine. Prima di entrare a parlare di queste, io voglio anche qui avere avvertito che, come l' istruzione che appartiene al primo ordine non dee cessare collo spirare della seconda età, ma continuarsi in progresso; così simigliantemente l' istruzione del second' ordine, benchè propria della terza età, riesce sempre utile, e talora necessaria in tutte le età successive. Quando l' attenzione del fanciullo si volge a contemplare le intellezioni del primo ordine ch' egli s' è già procacciate mediante lo sviluppo della prima età, i pensieri che nascono da questa contemplazione si chiamano intellezioni di second' ordine. Le intellezioni del second' ordine sono i rapporti che passano tra le intellezioni del primo ordine. Ma si noti bene, questi sono i rapporti primi e immediati, non già i rapporti de' rapporti. Per conoscere adunque quali sieno le intellezioni del second' ordine, tutta la difficoltà consiste nel ben distinguere quali sieno i rapporti immediati tra le prime intellezioni, separando questi rapporti da tutti quelli che si trovano da poi tra i rapporti primitivi. Conviene adunque osservare che non tutte le intellezioni, che il fanciullo si procaccia nella terza età, sono intellezioni di second' ordine; perocchè sebbene sia impossibile ch' egli si procacci delle intellezioni proprie delle età avvenire, tuttavia è possibile ch' egli si formi di quelle che appartengono alla età precedente. Ch' egli non possa formarsi delle intellezioni proprie delle età avvenire è tanto chiaro, quanto è chiaro ch' egli non può pensare a que' pensieri ch' egli non ha formati; e quant' è chiaro perciò, che le intellezioni di second' ordine non possano in nessuna maniera aver luogo nel fanciullo, che non ha quelle di prim' ordine; perocchè quelle non sono che il pensiero di queste. Che poi durante la terza età si possa formare delle intellezioni proprie dell' età precedente, ed anzi ch' egli le si formi effettivamente, s' intende, quando si abbia fermato chiaramente questo principio, che « l' attività dell' uomo non si muove se non eccitata da stimoli, e solo in tanto, e non più, in quanto questi hanno la potenza di eccitarla ». Di qui avviene, che di ogni passo dello sviluppo intellettivo si dee cercare una ragion sufficiente non già nella supposta attività interiore del fanciullo, ma in un eccitante esteriore. Io ho dimostrato nell' Ideologia essere un errore quello di alcuni, che imaginano esistere nel bambino una attività atta a fare tutto ciò, a cui si estendono le potenze del bambino. Questi non osservano la natura, ma la inventano. A provare quanto sia gratuita la loro supposizione basta il fatto seguente. Di tutte le potenze che si mettono in movimento nell' infanzia, la più attiva di tutte è quella dell' imaginazione. Se vi potesse esser dunque potenza, a cui dovessimo attribuire un movimento indipendente dagli stimoli, sarebbe fuor di dubbio l' imaginazione. Ora il fatto di cui parlo prova il contrario; cioè dimostra costantemente, che l' imaginazione infantile tanto suscettiva alle impressioni è inetta a inventare da sè stessa. [...OMISSIS...] Ora gli stimoli, che eccitano l' attività intellettiva nella prima età, abbiam detto, che non sono altro che i primi bisogni fisici i quali danno moto a tutta l' attività dell' uomo per averne aiuto a soddisfarsi e però muovere anco a ciò l' attività intellettiva, che fa allora quel primo passo, che solo può fare. Ora poi que' bisogni son pochi e soddisfatti nient' altro esigono; onde quelli non ispingono l' intendimento umano a tutte le percezioni ed idee imaginali ecc., che aver potrebbe, ma solo alle necessarie. A ragion d' esempio il sentimento fondamentale e l' idea dell' essere in universale è una materia all' attenzione intellettiva che non manca mai; e pure l' attenzione intellettiva non si porta su quella materia, quando anzi la meditazione, che l' uomo fa sopra il sentimento fondamentale e sopra l' essere in universale, è delle ultime, e come si suol dire delle più difficili. Onde ciò? Non certo perchè considerate le riflessioni da sè l' una sia più difficile a farsi dell' altra: chè non v' è ragione a dir ciò. Ma l' uom riflette tardissimo a questi oggetti, perchè tardissimo ne ha lo stimolo: niente per lungo tempo a ciò lo muove, niun bisogno ne ha, niun desiderio, e non farà mai operazione alcuna senza ragione sufficiente. Ho già osservato altrove (2) che quando l' uomo riflette sopra le riflessioni precedenti, l' atto del riflettere può cadere sopra due cose diverse, cioè sopra gli oggetti conosciuti colle precedenti riflessioni, o sopra le intellezioni stesse, cioè le operazioni dello spirito. Ogni intellezione adunque presta una doppia materia alle riflessioni susseguenti, gli oggetti conosciuti e gli atti, con cui si sono conosciuti. Ora sebbene questa materia sia data al nostro spirito nello stesso tempo, tuttavia le riflessioni, che fa lo spirito sopra gli oggetti conosciuti, sembrano molto più facili, e si fanno molto prima delle riflessioni dello spirito sopra gli atti, co' quali si sono conosciuti. Insomma lo spirito riflette piuttosto sulle proprie cognizioni, che non sopra se stesso conoscente, e sopra i suoi atti conoscitivi. La ragione di ciò è quella che dicevamo: a lui si presentano più presto e più efficaci gli stimoli, che traggono a riflettere sugli oggetti da lui conosciuti, che non siano gli stimoli che rivolgano la sua attenzione sopra se stesso e i suoi atti. Ora non può toccare la sua perfezione il metodo pedagogico, finattantochè non si avrà diligentemente determinato quali intellezioni competano alle età diverse del fanciullo per cagione, che in quella età sola esse hanno la materia e lo stimolo necessario a produrle; e quali intellezioni parimenti competano alle età diverse, per ragione che in quella sola età esse hanno lo stimolo necessario a produrle, quantunque la materia l' avessero già anche in età precedente. Sono adunque due gli sviluppi delle intellezioni umane. Alcune non si formano prima, perchè prima manca loro la materia . Alcune non si formano prima, perchè manca allo spirito lo stimolo , ond' egli non volge la sua attenzione alla materia, che pur avrebbe, e però non le forma. Quelle, a cui manca la materia , sono del tutto impossibili a formarsi. Quelle, a cui manca lo stimolo , non sono veramente impossibili, ma tuttavia non si formano per l' assenza dello stimolo. Il metodo pedagogico sarà dunque perfetto solo allora che: 1 Non esigerà mai, che il fanciullo faccia delle intellezioni prima d' avergliene dato la materia . 2 Non esigerà mai che il fanciullo faccia delle intellezioni, alle quali gli manca lo stimolo . Le materie vengono date successivamente, e questa successione è quella, che forma gli ordini diversi delle intellezioni. Gli stimoli pure vengono dati successivamente, e sono quelli che rendono possibili in ciascun ordine quelle intellezioni, di cui il fanciullo ha già la materia. Ma già ritorniamo a considerare le intellezioni del second' ordine, e prima dimandiamo quale sia lo stimolo, che muove ad esse l' attenzione umana. Riman dunque ancora ad acquistarsi dall' uomo dopo la prima età un gran numero delle intellezioni del primo ordine, le quali egli acquista nelle età succedenti. Onde molte intellezioni, che nella seconda età si sollevano nella umana mente, sono ancora di quelle di primo ordine. Lo stimolo e l' aiuto, onde l' attività dell' intendimento umano passa a formare le intellezioni del second' ordine, è il linguaggio o vocale o composto d' altri segni quali si vogliano. Conviene attendere alla natura di questo stimolo. Acciocchè l' intendimento umano passasse dalle intellezioni di primo ordine a quelle di second' ordine, non basta mica ch' egli torni a mettere l' attenzione su quelle prime; per quante volte egli pensasse alle intellezioni avute, egli non formerebbe delle intellezioni nuove, ma solo risveglierebbe la memoria delle anteriori; se nuovamente contemplandole non traesse delle altre cognizioni, in una parola, se non venisse a conoscere i rapporti , che hanno tra esse; i quali rapporti non poteva scorgerli nel primo ordine d' intellezioni. Ora il linguaggio, che il fanciullo ode dalla società, fa appunto questo: 1 Muove l' intendimento umano a riflettere sulle prime intellezioni; 2 E riflettendo a cavarne cognizioni nuove, cioè le cognizioni di rapporti, che legano insieme le cose conosciute nel primo ordine, le quali cognizioni de' rapporti sono appunto le intellezioni di second' ordine. Noi dobbiamo vedere brevemente, onde venga al linguaggio tanta efficacia. Convien premettere che vi hanno delle predisposizioni nella natura, che inclina l' uomo a parlare. Tutto ciò, che passa nel sentimento dell' uomo, dà un cotal guizzo agli organi della voce, che porta l' uomo, e l' animale in genere, a mandar fuori istintivamente de' suoni. Ma le cognizioni danno all' uomo de' sentimenti, e le voci, che questi producono, sono quelle, che formano la materia del linguaggio (1). Il produrre adunque dei suoni di seguito alle cognizioni è una necessità naturale, un bisogno per l' uomo, quantunque questi suoni non siano ancora linguaggio, come diceva, ma solo materia al linguaggio. Un' altra predisposizione al linguaggio posta dalla natura nell' uomo si è la simpatia e l' istinto d' imitazione (2), onde egli è inclinato a ripetere i suoni uditi; inclinazione, che in grado minore trovasi pure in molti animali (3). Ripetere però i suoni uditi non è ancora parlare, ma solo eseguire la parte materiale del linguaggio. Una terza predisposizione al linguaggio nasce dallo sviluppo intellettivo, che ebbe il bambino durante il breve tempo della sua seconda età. Sono stati i bisogni fisici, che trassero all' atto, come abbiam veduto, l' intendimento, invocandolo qual ausiliare al soddisfacimento delle loro tendenze. L' intendimento accorse, fece tutto quello, che egli potè, e non potè far di più che percepire, universalizzare (4), e volere le cose percepite. Ora i bisogni continuano, e provocano di continuo l' aiuto dell' intendimento: egli è sempre in atteggiamento di far quanto può in lor soccorso, e può far più di prima. Anco nell' ordine unicamente animale, per la forza sintetica (1), l' uomo cerca d' aiutarsi con tutto ciò, che gli sta da presso, cose e persone, fonti a lui di sensazioni. L' uomo adunque volgendo l' attenzione sua intellettiva a tutte le cose sensibili, che lo circondano, per giovarsene, egli la mette, quest' attenzione, anco al linguaggio che ode, e che non è da principio per lui se non una serie di sensazioni dell' udito. Ma egli ben presto si accorge, che può trarre da questi suoni, uditi e scambiati, dei grandi vantaggi, e farsi ubbidire dalle persone, cioè prestar soccorso: ond' è, ch' egli pone tutta l' attenzione ad apprendere come può usarne per giungere a questo suo fine. In questa maniera il linguaggio diviene nuovo stimolo, occasione ed aiuto all' attenzione intellettiva del bambino. Ma veggiamo quali siano le intellezioni nuove, a cui si solleva il fanciullo mediante il linguaggio che egli sente, e gli vien comunicato dalla società (2). Queste intellezioni sono di due maniere. Alcune sono intellezioni di primo ordine, che il fanciullo prima d' ora aver non poteva, perchè mancava lo stimolo necessario alla sua attenzione, acciocchè questa si volgesse a formarsele. Altre sono intellezioni di second' ordine, che il fanciullo non potea aver prima d' ora, perchè gli mancava non solo lo stimolo, ma ben anco la materia. Il fanciullo da prima per la forza unitiva lega insieme la sensazione, che a lui produce un nome, che vien pronunciato, colla sensazione dell' oggetto che quel nome significa (1), sicchè al risuonar di quel nome si risveglia in lui subito la percezione avuta di quell' oggetto o l' idea imaginale. Questo fatto dimostra che il linguaggio deve dare al fanciullo un' attitudine maggiore a richiamarsi le memorie e le idee che ebbe delle cose (2). Quando egli non avesse quest' aiuto del linguaggio, le dette memorie ed idee non si potrebbero in lui risuscitare se non per due cagioni: 1 per ricadergli sotto i sensi le cose stesse o loro parti; 2 o per qualche accidentale movimento delle fibre del suo cervello. Ma il linguaggio l' aiuta non poco in ciò: perocchè o al sentire d' una parola o al rivenirgli alla mente, gli tornano insieme le memorie e le idee degli oggetti. Divien dunque il linguaggio una specie di memoria artifiziale, e giova ad accrescergli l' uso della facoltà della reminiscenza . Le cose assenti adunque, che non potrebbero tornare alla mente del fanciullo se non per accidente, vengono richiamate facilmente coll' uso del linguaggio, e sembra che solo per l' uso del linguaggio egli si possa formare il pensiero dell' assenza delle cose. Conciossiachè le memorie delle percezioni gli mostrano le cose nel luogo e nel tempo, nel quale le percepì, e quindi come presenti; le idee imaginali gli mostrano la cosa possibile. Ma il linguaggio l' avvisa anche che la cosa da lui altre volte percepita esiste tuttavia, ma non è presente. Si accorge allora, che può esistere la cosa stessa tanto alla presenza de' suoi sensi quanto fuori della sua presenza, in luogo nel quale non cade sotto i suoi sensi: il che è già un gran passo; perocchè con questa operazione egli s' avvede che la sostanza dell' oggetto non è l' attività da lui sentita, è qualche cosa che sussiste, eziandio che non sia da lui sentita (1). Questo passo poi spinge lo spirito alla cognizione delle cose invisibili. Or poi le cose assenti sono in numero infinitamente maggiore delle presenti; e però considerato il linguaggio anche sotto questo solo rispetto, egli apre la via al fanciullo d' accrescersi molto più del doppio le sue prime cognizioni. Ma un passo maggiore egli fa quando per l' aiuto che gli presta il linguaggio passa alle intellezioni di second' ordine. Per vedere come ciò avvenga e per trovare le diverse maniere di queste intellezioni di second' ordine dobbiamo analizzare l' operazione che fa il fanciullo quando perviene a segnare le intellezioni coi vocaboli. Da prima il vocabolo non è che una sensazione, la quale egli unisce con delle imagini mediante la seconda funzione della forza unitiva (1), ond' avviene che al prodursi di quella sensazione del suono si risveglino nel bambino le imagini a quelle congiunte. Di poi nasce viceversa, che avendo il bambino già congiunto imagine e suono, al rinnovarglisi la sensazione che risponde all' imagine sia inchinato a completare il sentimento pronunciando il suono che n' è l' altra parte per la quarta funzione della forza unitiva (2). Nasce in terzo luogo che il bambino che vien soccorso alle sue grida unisca il sentimento attivo del suo gridare colle sensazioni passive del soccorso, e però usi quelle istintivamente, perchè per lui le grida diventano una cosa sola colle piacevoli sensazioni che subito gli si porgono, unione che si effettua in ogni animale per la stessa funzione quarta della forza unitiva. In queste tre operazioni non gioca ancora che la sola animalità. Passiamo a considerare il vocabolo come stimolo d' operazioni intellettuali. Ma ben presto il vocabolo è una sensazione che s' associa colla percezione intellettiva , in presenza della quale si pronuncia, e serve ad eccitare su di questa una maggiore attenzione, a rendere più viva la percezione. In questo stato il vocabolo è una parte della percezione stessa complessa ossia accompagnata da diverse sensazioni. Qui gioca l' intelligenza, ma ancor quella di primo ordine; il vocabolo non è percepito egli stesso se non come un elemento sensibile che entra nella percezione. Il vocabolo s' attacca, in primo luogo, a memorie di percezioni e serve a richiamare il pensiero degli oggetti assenti altra volta percepiti: gioca ancora l' intelligenza di prim' ordine, ma un grado più di prima. Il vocabolo qui è una sensazione che richiama una percezione, nella quale esso non entra, e diventa anco in breve tempo una percezione che richiama un' altra percezione. In secondo luogo, il vocabolo s' associa a idee imaginali , di maniera che serve a richiamar queste. In questo caso il vocabolo è una sensazione o anco una percezione, al ricever della quale il bambino volge la sua attenzione intellettiva a quell' idea, e con tanta celerità e unità di azione, che gli sembra di vedere l' idea nel vocabolo, tosto che l' ode. I vocaboli, che richiamano la mente o alle percezioni passate o alle idee imaginali, non si può dire che facciano fare all' intendimento di quelle riflessioni, le quali costituiscono un ordine nuovo d' intellezioni, ma solo di quelle colle quali l' intendimento rivede le intellezioni di primo ordine. Vero è, che passando un rapporto tra il vocabolo e la idea imaginale o la memoria della percezione avuta, questo rapporto appartiene alle intellezioni del secondo ordine, che fu da noi definito « intellezioni, che hanno per oggetto i rapporti delle intellezioni di primo ordine ». Ma si deve osservare che il vocabolo può richiamarci l' idea imaginale, senza che noi concepiamo intellettivamente il rapporto tra esso e l' idea; bastando, che vi abbia un nesso fisico, ond' avviene, che l' attenzione scossa dal suono si volga all' idea. Vi ha ancora una terza operazione, che il vocabolo fa fare alla mente, senza però che con essa la mente si formi delle intellezioni di secondo ordine. L' operazione, di cui parlo, somiglia nei suoi effetti all' astrazione, ma non è l' astrazione, quantunque l' astrazione le venga tosto appresso. Quando adunque il bambino sente a nominare con un vocabolo delle cose simili, per esempio, a dir « cavallo »ogni qual volta passa un tale animale per via, non astrae incontanente le note comuni del cavallo (quali egli è in caso di notare); ma crede che il cavallo che passa sia il medesimo di quello che altra volta egli vide e sentì nominare cavallo, perchè non osserva ancora le differenze del cavallo, che vede, e del cavallo che ha veduto. Quel vocabolo adunque gli richiama la percezione e l' idea imaginale del cavallo altre volte veduto: lo prende pel medesimo cavallo veduto altre volte (1). Ora chi sottilmente non considera questa operazione del bambino, vedendo, che il bambino, ad ogni cavallo che passa per via, pronuncia il vocabolo cavallo, crederà facilmente, ch' egli abbia già astratta la specie cavallina da' cavalli individui; ma egli s' ingannerebbe, fino a tanto che non si assicuri, che il bambino abbia notata colla sua mente qualche differenza tra cavalli successivamente da lui veduti, per la quale egli abbia conosciuto, che l' uno non è l' altro, e che ciò non ostante l' uno e l' altro sono cavalli, cioè hanno un che d' uguale, onde portano un egual nome (2). Esercitano adunque tre uffizj i vocaboli, senza che tuttavia si producano ancora con essi delle intellezioni di second' ordine. La produzione di queste è il quarto dei loro uffizi e principalmente l' astrazione, che noi dobbiamo diligentemente analizzare. I soli nomi propri, nell' accettazione degli uomini, segnano percezioni o memorie di percezioni avute: tutti gli altri vocaboli segnano degli universali. Tuttavia i pronomi dimostrativi questo, quello ecc., uniti al nome comune lo applicano, o restringono a significare percezioni cioè oggetti reali percepiti. Se si esamina il resto dei vocaboli che compongono una lingua, lasciati da parte i nomi propri, non se ne trova nemmeno uno che sia istituito o che si adoperi a significare idee imaginali . Quando adunque abbiamo detto che uno dei primi usi che fa il bambino del vocabolo si è quello di richiamare nella sua mente le idee imaginali, allora parlammo d' un uso proprio del solo bambino diverso dall' uso che fanno del vocabolo gli altri uomini, e ciò perchè il bambino non conosce ancora il preciso valore e l' uso comune del vocabolo. E che la cosa sia così, si conoscerà osservando, che sarebbe inutile del tutto inventare dei vocaboli a significare idee imaginali. Perocchè le idee imaginali sono infinite; e differiscono l' una dall' altra per distinzioni così minute, che niente importa agli uomini il notarle, e sarebbero anzi di grandissimo ingombro alla speditezza del parlare e del pensare. Primieramente le percezioni d' una stessa cosa variano nell' uomo stesso, secondo che l' uomo percepisce più o meno della cosa: come le percezioni variano le imagini, e le idee imaginali, che a quelle s' appoggiano. Egli è dunque impossibile l' avere per ciascuna di queste idee un vocabolo. In secondo luogo variano tali idee nei diversi uomini. Laonde se un uomo significar volesse coi vocaboli le proprie idee imaginali, non potrebbe egli essere acconciamente inteso dagli altri uomini, che non hanno quelle idee appunto. In terzo luogo basta considerare quello che dicea Platone « che ogni cosa reale e finita si muta, si strugge e si rigenera di continuo ». Poniamo un cavallo: egli è diverso da sè stesso ogni po' di tempo che trascorra: egli porge dunque una nuova idea imaginale: basterebbe che a quel cavallo incanutisse un sol fiocco di pelo, o s' allungassero d' una linea gli orecchi, perchè dovesse avere un nome nuovo il suo tipo, la sua idea piena. E` dunque impossibile che i vocaboli significhino tali idee imaginali o piene: sebbene il bambino, che non n' ha altre per avventura nella mente, le rinfreschi al suono del vocabolo, per l' analogia che esse hanno colle idee astratte, a significare le quali adoperano i vocaboli gli altri uomini. Non essendo le idee piene contrassegnate da vocaboli, rimangono inosservate: ed i filosofi stessi saltano di piedi pari dalle percezioni alle idee astratte senza accorgersi delle idee piene , che stanno tra le une e le altre, come noi facemmo osservare (1). Convien dunque considerare che non v' ha nè pur un sol vocabolo nella lingua (eccetto i nomi propri, i pronomi dimostrativi, e alcuni avverbi di luogo e di tempo) che non esprima idee astratte (2). Quegli adunque che parlano al bambino, provocano del continuo la sua attenzione a collocarsi non pure in un universale , ma in un astratto , e questa è quell' operazione per lui nuovissima, che lo porta alle intellezioni di secondo ordine, e che noi dobbiamo con somma accuratezza ora esaminare. Quando il bambino sente le tante volte chiamare cane il cane di casa, e sente chiamarlo cane oggi e domani, quand' era piccino e mangiava latte, e quando divenne grande e mangiava pane, quando aveva la coda e gli orecchi, e or che ha mozza quella e questi, e sente chiamar cani tutta la canatteria della strada, sieno cani grandi o piccioli, o di un pelame o d' un altro, e fermi o correnti, e placidi o rabbuffati; allora viene un tempo nel quale la sua mente in tanta varietà di oggetti fissa quell' unica cosa, per la quale a tutti il medesimo nome di cane si addice. Egli in una parola astrae a forza di udire la parola stessa applicata sì diversamente ciò che forma l' elemento comune dei cani (la canina natura) e adopra questo elemento comune (che è un' astrazione) a distinguere poi gli oggetti, a' quali il nome di cane dar si convenga. Non è già che egli sappia rendersi conto di questa sua operazione, o ch' egli si sia formato un concetto giusto della nota distintiva de' cani. Egli ha fatto quest' operazione senza rendersene conto, e si è formato un concetto qualunque di ciò che distingue la specie de' cani dall' altre specie d' animali, o di ciò almeno che egli crede che formi questa distinzione. Gli errori che può prendere giudicando qual sia la nota distintiva del cane, non tolgono punto la verità di ciò che noi diciamo, non impediscono che egli abbia effettuato veramente l' operazione mentale dell' astrarre, eziandio che l' elemento da lui astratto non esista, e sia finto dalla sua imaginazione, o non sia quello che costituisce la natura de' cani. Anzi da prima il bambino non astrae mai quel preciso elemento, a cui dall' uso comune è affisso il vocabolo, ma suole sempre astrarre un elemento più comune, o sia più generico (1). Questi errori si correggono dal bambino collo scoprire nuove differenze che lo fanno accorto avere egli dato al vocabolo un significato troppo esteso verso quello che gli danno gli altri uomini; egli allora restringe questo significato, e restringe insieme l' astrazione che gli annette, e ciò determinando meglio il carattere o elemento astratto, da generico rendendolo specifico, o da un genere più lato formando un genere meno esteso. Convien dunque assicurarsi che il fanciullo, nell' uso de' vocaboli, sia giunto a conoscere che in più oggetti v' ha un elemento comune, e che prende nella sua mente questo elemento, qualunque esso sia, come segno a distinguere quali sieno le cose, a cui quelle denominazioni convengono. Allora solamente lo si può dir pervenuto all' operazione delle prime astrazioni, che sono intellezioni di second' ordine. Se sono presenti più cavalli e a ciascuno di essi dà il nome di cavallo , egli è certo che ha fatta già l' astrazione; perocchè non può essere che prenda l' uno per l' altro. Se dà lo stesso nome anco a cose successivamente a lui presenti, ma disparatissime, come al cane o a un uccello, è ugualmente certo che la sua mente già pervenne all' astrarre, non essendo possibile ch' egli prenda l' una per l' altra, che creda quelle diverse cose una cosa medesima: conosce adunque pluralità d' individui e identità in qualche cosa di essi, che lo persuade a dar loro lo stesso nome. Medesimamente, i nomi plurali delle cose mostrano che la sua mente giunse all' operazione di astrarre (1). In questa mirabile operazione adunque, a cui la mente viene mossa dal bisogno d' intendere e viene aiutata dalla contemporaneità del suono cane colla presenza de' cani e cogli atti de' parlanti, il bambino fa quanto segue: 1 Nelle moltissime idee imaginali ch' egli si è formato in veggendo e sentendo tanti e sì diversi cani, soggiacenti a tante modificazioni (e ad ogni cane modificato risponde un' idea imaginale), egli trascura del tutto di badare alle differenze, e concentra la sua attenzione nella somiglianza, in ciò che tutte quelle idee hanno di comune; 2 Divenuto oggetto del suo esclusivo pensiero quell' elemento comune, egli se ne serve di segno a cui conoscere quali sieno gli oggetti ch' egli deve richiamarsi alla mente ogni qualvolta ode il suono cane (1). E qui si noti, ch' egli non congiunge già il suono cane unicamente con quell' elemento, ma l' unisce con tutti gli oggetti in cui egli ravvisa quell' elemento. Quell' elemento adunque è già astratto nella mente del fanciullo, ma non è ancora nominato . La parola cane non indica meramente quell' astratto, ma indica tutti gli oggetti dove quell' astratto dimora: la parola cane non si può intendere senza che la mente si sia formato l' astratto che ella suppone e che la determina; e tuttavia non si può dire che cane sia un nome astratto, ma un nome comune . Da questo si scorge che gli astratti hanno due forme nella mente: l' una innominata, fondamento dei nomi comuni; l' altra nominata mediante i nomi astratti. Chi dice bianco sostantivamente dice un nome comune , che suppone nella mente l' astratto, ma non lo nomina, perocchè il sostantivo bianco non dice altro se non « un oggetto bianco »: la bianchezza è unita all' oggetto, ma la mente ha l' idea astratta di bianchezza, e se ne serve per intendere la parola bianco . Chi dice bianchezza , dice un nome astratto, pronuncia non più l' oggetto in cui si trova la bianchezza, ma questa qualità sola precisa dall' oggetto, considerata da sè. Quindi al fanciullo riesce prima intelligibile il vocabolo bianco , che quel di bianchezza, benchè questo secondo lo intenda ben presto dopo aver inteso il primo. Per intendere tuttavia il secondo, cioè il vocabolo bianchezza, la mente del fanciullo deve fare un' operazione di più. Nel vocabolo bianco , l' astratto è nella mente, ma vi è unito all' oggetto (sebbene sempre astratto da questo): nel vocabolo bianchezza, l' astratto è affatto diviso dall' oggetto, è divenuto un oggetto mentale egli stesso direttamente espresso nella parola: quando si dice bianco, si dice un oggetto che, oltre la bianchezza , ha delle altre qualità alle quali non si pone una speciale attenzione, ma si sa però che vi sono in generale e che vi devono essere, acciocchè l' oggetto sussista; quando si dice bianchezza , questa qualità semplice esclude qualsiasi altro pensiero. La bianchezza esprime dunque un modo d' astrazione più perfetto del sostantivo bianco . L' astratto può esser preso da ciò che è accidentale nella cosa: tale è quello di bianchezza; e può esser preso da ciò che è sostanziale nella cosa: tale è quello di corporeità . Talora il nome astratto manca nella lingua, e non vi ha che il nome comune; a ragion d' esempio, nella lingua italiana vi ha il nome cane , e manca quello di canità . La mancanza di questi nomi astratti dimostra che sono posteriori ai nomi comuni. Si può provare anche con altri argomenti che i nomi astratti sono stati inventati dopo i comuni: un argomento è quello che somministra l' etimologia; infatti ogni astratto sembra derivato dal comune; bianchezza, per esempio, viene da bianco . Gli antichissimi scrittori ci offrono un' altra prova di ciò che affermiamo. Le lingue che usano sono un acconcio specchio dello sviluppo delle menti nei loro tempi: e si può dirittamente indurre dallo stato di quelle il grado di sviluppo di queste. Negli scrittori antichi orientali, come pure nei greci filosofi, e specialmente in Platone, si suole usare il nome comune sostantivato per indicare l' astratto: si dice il simile , il dissimile, il giusto , il bello, il santo, ecc., per dire la simiglianza , la dissomiglianza, la giustizia, la bellezza, la santità, ecc. (1). Vedesi da ciò chiaramente che quelle parole furono le prime usate, e che quando la mente che si sviluppava, ebbe bisogno di esprimere l' astratto diviso da ogni concreto, invece d' inventare vocaboli nuovi, trasportò quegli che già aveva a significare queste astrazioni: il che è legge costante nelle nazioni, quando queste vanno innanzi col loro intellettivo sviluppo, di maniera che la lingua primitiva loro più non basta; prima di risolversi a coniare nuovi vocaboli, si appigliano al partito di alterare e distendere le significazioni dei vocaboli antichi (2). Or quando il fanciullo si è formato un astratto, egli ha il fondamento di una classe, in cui ridurre gli oggetti. Quando egli è giunto a formarsi, per es., l' idea di ciò che è comune tra gli oggetti che sono denominati cani, allora egli non vede un solo di questi oggetti che non lo collochi subito nella classe dei cani. Senza quell' astrazione egli non poteva fare questa classificazione. La classificazione adunque delle cose è un' operazione della mente che vien dopo l' astrazione, la quale ne è il fondamento; e che però appartiene alle intellezioni di un ordine più elevato del secondo, al quale appartengono le astrazioni , di cui parliamo. Ma chi bene osserva, tuttavia conoscerà che vi hanno certe prime classificazioni, le quali si fanno contemporaneamente e con un medesimo atto dello spirito. Elle non sono distinte, ma implicite. Quando lo spirito s' accorge, mediante la ripetizione che ode farsi del nome cane, che in molti cani vi ha un elemento comune; allora con questo accorgersi fa ad un tempo due cose: 1 osserva in tutti quegli oggetti l' elemento comune, e 2 lo astrae , togliendolo a segno della classe degli oggetti chiamati cani . Ora il riconoscere in tutti quegli oggetti uno stesso elemento è già un cotale classificarli, il che finisce di fare contrassegnandoli con un nome. Laonde quantunque sia vero che un uomo, che ha già formati gli astratti, quando egli vede un oggetto nuovo e lo classifica, fa un' operazione posteriore, che appartiene ad un ordine di intellezioni più elevato di quello delle astrazioni medesime, che danno la base alla sua classificazione; tuttavia non può negarsi che nell' opera dell' astrarre v' abbia qualche cosa che s' assomiglia al classificare. Al second' ordine d' intellezioni appartiene ancora la cognizione dell' esistenza di Dio. Iddio però, con quest' ordine d' intellezioni, non si conosce che come compimento necessario dell' essere e come causa del tutto per una funzione dello spirito che noi nominammo integrazione . Egli è incredibile con quanta facilità e prontezza il nostro spirito s' accorga che tutto ciò che cade sotto i sensi è contingente, e che questo non può stare senza qualche cosa di necessario che gli dia l' origine. Ben pochi sanno rendersi conto esplicito di questa elevazione subitanea della mente (1); ma ella non è men vera: ogni popolo e in ogni sua età riconobbe la necessaria esistenza di un Dio, cioè di un ente necessario, prima causa del tutto, come cosa del tutto patente: l' uomo più idiota vede un tal vero come un vero evidente, non ne cerca la ragione, la sua persuasione è immediata; e chi gli domandasse conto di una tale sua credenza sarebbe a lui occasione di maraviglia, e fors' anche di scherno o di riso, come scempio o beffardo. Quindi è che anco i fanciulli intendono facilissimamente il vocabolo Dio come significante un ente massimo cagione del tutto, ed assentono assai volentieri a chi ne afferma loro l' esistenza. Il qual assenso dei bambini non reputisi ch' egli abbia natura d' una mera credenza gratuita alla parola di chi loro parla. No; in questo fatto essi non credono ciecamente, ma veggono. Se ciò non fosse, per lo meno si maraviglierebbero grandemente del concetto di Dio che gli si vuole imprimere, e questo concetto non riescirebbe loro tanto naturale e tanto facile a riceversi, che, appena concepitolo, già credono che Dio esista. Tuttavia non potrebbero i fanciulli accorgersi da sè della divina esistenza senza il linguaggio. Essendo Iddio invisibile, senza una parola che fermasse la loro attenzione, non potrebbero fissarne il concetto. Ma che cosa è la cognizione di Dio ne' bambini? - Ella è una concezione ed una credenza . - Dico una credenza per distinguerla dalla percezione . Quando l' uomo giudica che una cosa esiste, perchè ne sente in sè l' azione, egli n' ha la percezione . Quando l' uomo giudica che una cosa esista senza sentirne sopra di sè l' azione, benchè ne abbia certo argomento razionale, egli n' ha la credenza . Alle facoltà passive rispondono altrettante facoltà attive (1): allo sviluppo di quelle un grado proporzionale di sviluppo di queste. Quando adunque si abbia ben definita la natura e l' estensione dello sviluppo, che in una data età del fanciullo prese il senso e l' intelletto, si può indurre qual sia la natura ed estensione dell' istinto e della volontà. Se il conoscere il grado di estensione di queste prime facoltà passive è necessario per attemprarvi e commisurarvi l' istruzione da dare al fanciullo; il conoscere il grado di estensione presa da queste facoltà attive è ancora più importante, perocchè è cognizione necessaria per attemprarvi e commisurarvi l' educazione pratica da dare al fanciullo; la quale non può far uso che di quella parte di attività che in esso è già desta e messa in movimento (1). Ora nella terza età il fanciullo, mediante il linguaggio e i bisogni e gl' istinti nuovamente appariti in conseguenza dello sviluppo delle due età precedenti: 1 Accrebbe immensamente e perfezionò le sue percezioni, memorie di percezioni e idee imaginali. - A ciò risponde una estensione corrispondente dell' istinto e di volizioni affettive e apprezzative . 2 In ogni età l' uomo concepisce anche le cose assenti. - Questo dà luogo alla passione del desiderio . Egli è vero che anco verso le cose presenti può esservi il desiderio di goderle, se sono buone; ma io credo probabile che il desiderio di godere le cose presenti venga nell' uomo ben tardi, supplendovi da principio l' appetito e l' istinto naturale , che inclina l' animale ad esse. La memoria delle percezioni avute non è propriamente una concezione di oggetti assenti, e può cagionar solo nel primo tempo un cotal sentimento spiacevole, che la percezione sia passata, ma desiderio no: perchè per esso solo non si ha il pensiero che la percezione possa rinnovarsi. - Ove all' incontro in noi si susciti il pensiero di un oggetto buono e assente, tosto dietro a questo pensiero tiene la spontaneità della volontà col desiderio di esso. - La terza età dunque è altresì quella, nella quale ha la sua nascita il desiderio. 3 Ma un' attività maggiore si suscita nella volontà in virtù delle prime astrazioni. Come l' intendimento applica esclusivamente la sua attenzione ad un elemento comune a più oggetti, così se questo elemento è buono, la volontà lo vuole: se è cattivo, lo abborrisce. - Ora ella è immensa la differenza tra quelle volizioni che hanno per oggetto un individuo sussistente tutto quant' è, o anco una specie7piena d' individui (2), e quelle volizioni che hanno per oggetto un elemento comune a più individui, un astratto. Nel primo caso, la volontà ama un oggetto buono ( bonum ), nel secondo caso, la volontà ama la ragione degli oggetti buoni ( rationem boni ), la loro bontà. Le volizioni che hanno per termine solamente un oggetto buono determinato, si acquetano in esso, e però l' efficienza loro finisce tosto. All' incontro, le volizioni che hanno per termine un elemento comune, nel quale sta la ragione, per la quale quel genere di oggetti son buoni, non si acqueta nel loro oggetto che è un astratto insufficiente ad appagare, ma si serve di questo astratto, primo termine della volizione, come d' un segno al quale conoscere gli oggetti buoni, e discernerli dai cattivi. Quivi dunque l' attività della volontà trova uno spazio immenso dove spiegarsi, perocchè quell' elemento buono che vuole, si realizza in infiniti oggetti, dei quali l' uomo, qui pervenuto, va in cerca senza posa. Indi è che altrove mostrai, la facoltà di astrarre essere quella che somministra all' uomo le regole, colle quali egli giunge a discernere e rinvenire i beni (1). 4 Fra gli astratti primi v' ha la quantità sia continua , sia intensiva delle cose sensibili. Onde avviene che per mezzo di questo astratto il fanciullo conosce ciò che è più grande da ciò che è più piccolo (2), e ciò che produce, a ragion d' esempio, più piacere da ciò che ne produce di meno. Questa conoscenza del quanto delle cose dà luogo in lui ad una nuova classe di volizioni, cioè alle volizioni appreziative (3) ed alle elezioni; che già in quest' età cominciano (4). Un altro de' primi astratti , che separa il fanciullo dalle cose, sommamente importante al suo sviluppo, si è quello dell' animalità . Se il fanciullo potesse riflettere sopra il proprio sentire, e pensare, egli avrebbe dell' anima propria un' immediata percezione; la quale sarebbe un' intellezione di prim' ordine, perciò più elementare di quella che si ha dell' anima considerata come causa di movimento degli esseri animati. - Ma sebben l' anima7sentimento sia oggetto d' una intellezione di prim' ordine, tuttavia egli è ancor troppo difficile a farsi una tale intellezione pel fanciullo; perocchè alla sua attenzione manca lo stimolo, che la diriga sul proprio sentimento e su questo la fermi. La sua attenzione è come un figliuolo che scappa sempre di casa; gli oggetti de' suoi bisogni, e le esterne sensazioni tra le quali il suono dei vocaboli, lo trae dall' interno dell' uomo al di fuori. Nè giungerebbe tuttavia ad argomentare da' movimenti degli animali l' esistenza d' un principio di moto nell' animale, se la lingua non gl' insegnasse a fermarsi dal tutto ad una parte della cosa, dal complesso al suo elemento; nell' animale adunque pensa, mediante la lingua, il carattere della mobilità, e quindi l' astratto dell' animalità, ossia l' animale . Questo fa sì che egli distingua non solo un grande ed un piccolo nelle cose, ma ben anco una differenza di dignità ; egli può oggimai stimare col suo giudizio pratico che gli oggetti animali sono assai più degli oggetti non animali e preferir quegli a questi per una maggiore entità. 6 Finalmente la cognizione dell' esistenza di Dio, come complemento degli enti, eleva l' attività del suo cuore all' oggetto il più sublime e lo mette già in comunicazione col cielo. Ogni idea nuova nel fanciullo è una gioia: per ogni adito, che gli s' apra davanti, la sua intelligenza irruisce precipitosa. Come il primo atto di conoscimento scioglie le labbra del bambino al riso, così si manifesta in lui con molti atti d' esultanza il piacere d' intendere il linguaggio materno, e appena può pronunciare i vocaboli, egli è difficile il farlo più tacere, perchè sarebbe contrariar la natura privandolo dell' uso della loquela, che equivale per lui al nuovo uso da lui acquistato della intelligenza, che è il meglio di sè. Di questa innata e nobilissima inclinazione deve l' istitutore giovarsi: non deve rintuzzarla, chè sarebbe ingiuria fatta al lume divino che nell' anima umana risplende; egli deve saviamente occuparla e dirigerla. Pur questa è arte difficilissima. Gli errori, che si sogliono commettere in questa parte, si riducono a quattro: 1 Talora l' attività intellettiva del fanciullo riesce noiosa e importuna, e però si vuol comprimerla coll' autorità, negandole un pascolo sufficiente. 2 Talora si aggrava la memoria materiale del bambino obbligando l' intelligenza al digiuno: cosa molestissima e gravissima a quel piccolo essere intelligente, che a null' altro aspira che all' intendere: epperò cosa crudele ed inumana. 3 Talora si dà all' intelligenza un pascolo, che non è ad essa adattato, cioè le si propone da fare delle intellezioni d' un ordine superiore a quello, al quale è pervenuta; nel qual caso le è assolutamente impossibile intender nulla, eccetto che parole. Talora anche le intellezioni, che da essa si richieggono, sarebbero alla sua levatura, ma non può farle, perchè la sua attenzione intellettiva non ha lo stimolo, che ad esse la richiami. 4 Finalmente quand' anco si proponessero alla giovane intelligenza disposte assai bene per gradi tutte le intellezioni che da essa si esigono, nè si lasciassero mancare ad essa gli stimoli, si pecca tuttavia, perchè si trapassa da una all' altra cosa senza essersi prima certificati, se quella prima cosa sia stata capita, se la intelligenza del fanciullo segua veramente i passi dell' istruzione; in una parola senza lasciare al fanciullo il tempo necessario a penetrare la cosa, a imprimersela, a riaversi da quel cotale sbigottimento, che mette in lui ogni idea nuova. Queste osservazioni si debbono rammentare in principio di tutti quei capitoli, ne' quali tratteremo dell' istruzione da darsi ai fanciulli nelle loro singole età, ossia ne' successivi periodi della loro età, segnati dai singoli ordini d' intellezioni. Ma quanto non è egli facile dimenticarle? Dobbiamo ora indicare quale debba essere l' istruzione da darsi al fanciullo rispondente al secondo ordine d' intellezioni. Ma prima osserviamo, che in quest' età la mente del fanciullo non ricava ancora tutto il frutto, che le verrà appresso, dalla regolarità colla quale abbiamo accennato doverglisi presentare le cose da percepire ed intendere. Tuttavia tal ordine produce un effetto buono, quantunque difficile ad osservarsi, sulla mente e sull' animo stesso del fanciullo. Nell' uomo vi ha un' unità soggettiva , cioè vi ha un ultimo sentimento unico. Ora, ogni sensazione, percezione od idea porta un suo cotale effetto buono o cattivo in quell' ultimo sentimento. Indi avviene, che ogni qualvolta le sensazioni, le percezioni e le idee sono bene armoniate, ne risulta un miglioramento al fondo dell' uomo, sul qual fondo operano tutte insieme e vi producono un effetto unico, che tiene dell' ordine della sua causa. Sebbene adunque il fanciullo non conosca ancora l' ordine, che è nelle sue sensazioni e intellezioni, tuttavia egli per una legge della sua costituzione ne ricava vantaggio. Or le materie d' istruzione consentanee a questa terza età del fanciullo si deducono dallo stato della sua intelligenza, che noi abbiamo investigato e descritto. Risulta che la prima materia d' istruzione in quest' età deve essere la lingua. Sarà adunque un grandissimo guadagno, se in questo periodo s' insegnerà al fanciullo a nominare il più gran numero possibile d' oggetti, e a parlar bene dentro al circolo delle sue cognizioni. Questa parte era quasi trascurata interamente, e solo adesso sembra doversi sperare assai dalla bellissima invenzione delle scuole infantili. Anco rallegrami il vedere, che si cominciano a scrivere dei libri con questo intendimento d' insegnare ai fanciulli a nominare con proprietà le cose; dei quali libri bastimi avere accennato il citato « Manuale » di Vitale Rosi (1). E nondimeno dissi che conviene insegnare la lingua al fanciullo entro il circolo delle sue cognizioni, cioè in misura conforme alla portata del suo ingegno. La lingua, che si usa coi fanciulli della nostra età, deve esprimere intellezioni di primo e second' ordine, ma non più. Di sua natura la lingua esprime le intellezioni di tutti gli ordini, epperciò è istrumento attissimo allo sviluppamento dell' intelletto in tutte le età della vita umana; ma v' ha una parte di lingua che si conviene e proporziona alla terza età, e solo di questa lingua si deve far uso col nostro fanciullo; perocchè quel di più che si usa sarebbe a lui inintelligibile, graverebbe la sua memoria lasciando vuoto e sterile il suo ingegno; il che sarebbe il secondo ed il terzo degli errori che noi abbiamo poco innanzi accennati. Impari adunque il fanciullo a nominare le percezioni sue, tutti gli astratti che si possono cavare immediatamente dagli oggetti sensibili, le cose assenti, le invisibili e i concetti venutigli dalla sua facoltà d' integrare. Egli è certo che fino da quest' età il fanciullo può imparare due o tre lingue udendole, e senza soverchio aggravio. Se ciò si fa per modo che la favella materna sia la principale, e che ciò che impara delle altre sia una cotal sopraggiunta, un tale esercizio delle due lingue sarà un guadagno di tempo, un passo innanzi fatto dal fanciullo (1). La lingua si deve insegnare al fanciullo con un doppio esercizio naturale e artifiziale . Quanto all' esercizio naturale, in esso si adopera tutte le parti del discorso, e non ve n' ha pur una che sia per sè superiore al secondo grado dell' umana intelligenza, eccetto alcune congiunzioni, perocchè tutte possono esprimere sentimenti, percezioni e astratti di prima astrazione, e i movimenti dell' animo. I sentimenti vengono espressi colle interiezioni, le quali propriamente non sono segni. Le percezioni coi nomi propri, cogli avverbi di luogo e di tempo, coi pronomi personali io, tu , ecc. e dimostrativi questo, quello , ecc.. Gli astratti con tutti gli altri nomi, cogl' infiniti dei verbi, coi participii e certe congiunzioni. I movimenti dell' animo sono indicati dalle inflessioni dei verbi, dalle preposizioni e da certe congiunzioni. L' esercizio naturale col quale s' insegna al fanciullo la lingua, dovrebbe essere ordinato secondo le seguenti regole: 1 Tutto ciò che si parla al fanciullo, come si disse, non dovrebbe superare la portata del suo sviluppo. 2 Non dovrebbe udire il fanciullo, se non una lingua perfetta, parole proprie ed acconce, ottima pronuncia e soprattutto con esatta ortografia. 3 Chi parla al fanciullo dovrebbe parlargli con forme e atteggiamenti di dignità e virtù. Se così si facesse, il fanciullo guadagnerebbe un tempo immenso: nè solo si accelererebbe il suo sviluppo intellettuale, ma ben anco si porrebbero i fondamenti della sua buona riuscita morale. In Italia, noi dobbiamo perdere un tempo prezioso per disimparare nelle scuole quella lingua, che abbiamo appresa nelle nostre case; dopo ciò ancora non appariamo bene l' italiana favella sì perchè l' imbratto del vernacolo che ci ha lordati fin da bambini, e divenuto a noi naturale, difficilmente si può più tergere dal nostro spirito intieramente, e sì perchè i nostri stessi maestri, ai quali la lingua buona è arte e la cattiva natura, non possono darci quel che non hanno. La sola ortografia ci fa logorare gran tempo ad apprenderla; e pure noi la potremmo aver tutta viva negli orecchi, quando fossimo stati avvezzi fino da bambinelli a udir battere colla lingua da chi ci parlava i raddoppiamenti delle lettere dove van posti. Colla lingua è che noi formiamo le idee, e perfezione di lingua è perfezione di pensiero. Tutto poi quello che è ordinato, decente, quello che giova a pensare con facilità e con rettezza produce nelle anime nostre delle disposizioni preziosissime alle morale virtù. Finalmente qual vantaggio a questa bella parte del mondo, se l' Italia divenisse tutta d' una sola favella! Che divisioni fra suoi popoli con ciò solo non si torrebbero! Che maggior fratellanza non crescerebbe tra noi! Che aumento alla carità della patria comune! Laonde mi fa maraviglia come nelle grandi famiglie, in cui si vuol pure dare a' figliuoli la più fina educazione, non si pensi a far sì che succhino, per così dire, col latte una favella pura e nobile, e che le infantili orecchie non odano se non cose buone dette egregiamente. Tale dovrebbe essere il privilegio dei più ricchi; non quello di sdegnare che i loro figliuoli usino alle pubbliche scuole, ma quello che vengano a queste scuole più ben disposti, più sviluppati degli altri, e già in possesso di quella lingua che gli altri debbono faticare ad apprendere. Quanto giustamente in tal modo la sapienza de' genitori, unita a' loro mezzi, otterrebbe il primato nelle scuole a' loro figliuoli! E a questi sopravanzerebbe poi sempre gran tempo, nel quale apprendere una moltitudine di cognizioni assai utili che conserverebbe loro un posto di giusta superiorità agli altri lor simili. E per dire una parola anco dell' esercizio artificiale della lingua da farsi fare al fanciullo, oltre il doversi egli avvertire d' ogni cosa che non dica rettamente, dovrebbe consistere in questa sua età unicamente a fargli apprendere quanto più estesamente sia possibile la materia della lingua. Quanto alla forma della lingua egli non è ancora da ciò; perocchè la forma della lingua, cioè la grammatica, esige delle intellezioni d' un ordine molto superiore al secondo. Ma quanto alla materia, conviene insegnargli a nominar bene tutte le cose, e prima quelle che s' ha d' attorno, poscia le più lontane; onde acquisterà grande ricchezza di favella e perciò stesso grande facilità e proprietà di parlare, che è quanto dire di pensare, e a suo tempo anche di scrivere. A quest' uso può servire grandemente il « Manuale di scuola preparatoria » ed altri libri fatti sullo stesso pensiero. Quest' è dunque il tempo nel quale si può esercitare il giovane a distinguere coi loro nomi tutte le cose sensibili. Il nome , questa è la parte fondamentale della lingua: gli esercizi non si possono ancora stendere ai verbi se non agl' infiniti ed ai participŒ che sono veri nomi che segnano i primi l' azione e i secondi l' agente (1). E qui cade in acconcio tornare a dire alcuna cosa sull' ordine delle astrazioni, per le quali si dee condurre la mente del fanciullo. Vi sono molte astrazioni innominate. A queste non si deve pensar di condurre la mente del fanciullo, perocchè non si può aiutarla col linguaggio, e non avendo in questo dei nomi, è segno manifesto che i popoli non hanno stimato necessario che fossero nominate; come pure è segno che son di quelle che si sottraggono alla osservazione. Ma tra gli astratti nominati dal linguaggio ve ne sono di varia maniera: alcuni sono astratti d' astratti: questi non sono acconci alla mente del nostro fanciullo, che non è arrivata più su dei primi astratti: il nostro fanciullo non potrebbe mai intendere il significato della parola legge, giustizia ecc.. Gli astratti adunque, a cui il nostro fanciullo arriva, sono quelli somministrati dalle cose sensibili. Ma le cose sensibili stesse sono nominate con varŒ nomi comuni indicanti diverso grado di astrazione. I nomi più comuni nominano le cose per un elemento comune a maggior numero di oggetti, e i nomi meno comuni nominano le cose stesse per un elemento comune a minor numero di oggetti: quelli dunque contengono un' astrazione maggiore di questi. Per esempio, volendo nominare un cavallo io posso nominarlo in tre modi, dicendo « questa cosa; questo animale; questo cavallo ». Io gli applico tre nomi che egualmente ben si affanno a quell' oggetto; ma quando gli applico il nome di cosa , io l' appello con un nome comune a un maggior numero di oggetti, che non sia quando gli applico il nome di animale ; e applicandogli quest' ultimo io l' appello con un nome più comune di quello di cavallo . E ciò non ostante il nome cavallo è ancor comune e non proprio: indica un' astrazione, che ha per fondamento la specie astratta , sotto la quale sarebbe un altro astratto, che non ha nome (la specie piena imperfetta), o più altri (1), prima di venire al nome proprio, per esempio, a quello di Rondello, di Vegliantino o di Brigliadoro. Domandasi adunque, se negli esercizŒ artificiali da farsi fare al fanciullo sia più consentaneo alla natura il fargli nominare le cose prima per li nomi più comuni e poi per li meno comuni o viceversa? Noi abbiamo già dichiarato più sopra il nostro sentimento che qui vogliamo rinforzare e chiarire con alcune osservazioni. Ma prima si noti bene, che qui non parlasi degli esercizŒ naturali del parlare, che in questi non devesi attendere ad altro ordine, che a quello del bisogno, che presentano naturalmente le circostanze. In secondo luogo si rifletta, che il nome quant' è più comune, e perciò l' idea più generale, tanto più facilmente si apprende dal fanciullo. Per convincersene basta osservare, come il fanciullo e il volgo, cioè la parte degli uomini meno sviluppata, soglia chiamare gli oggetti co' vocaboli i più comuni, dicendo questa cosa , quella cosa ecc. per dire: questo balocco, quel carruccio, quel giubbone ecc.. Nelle lingue antiche l' uso dei nomi generici, invece che degli specifici, è più frequente che nelle nostre, appunto perchè il mondo antico era meno sviluppato del moderno. Osservisi solamente nella lingua latina, quant' uso solevasi fare della parola res : ella s' applicava a tutto (2). Un' altra osservazione ci convincerà del medesimo. Perchè è un pregio così difficile e così lodato la proprietà dello stile? Perchè è difficile il nominare le cose col vocabolo significante la specie più stretta, e si suole, il più, nominarle largamente col genere. Si dirà forse, che la maggior facilità, che hanno i bambini d' apprendere e di usare i nomi più comuni nasce, perchè questi s' applicano a un maggior numero di oggetti, e però più frequentemente sono da loro uditi. - Ma riman sempre a domandare, perchè si faccia dagli adulti stessi un uso sì frequente de' nomi generici, quando fosse loro più facile l' usare gli specifici, che certamente sono più propri e più acconci al ben favellare? Egli è adunque certo, che più le idee sono generali, più la mente umana le trova a sè conformi e famigliari, purchè però si tratti degli astratti immediati, cioè di quelli, che segnano un elemento comune delle cose sensibili, che vengono da noi percepite. Non sarebbe il medesimo, quando si parlasse di quegli astratti che si formano con una operazione della mente eseguita sopra precedenti astrazioni, e che noi abbiamo detto astratti di astratti (1). Il discendere adunque nel nominare le cose dal nome più generale al meno è un esercizio utilissimo al fanciullo: percorsa molte volte questa scala in varŒ generi di cose, le idee si trovano nella sua mente ordinate; egli ha ricevuta una materia acconcissima alle susseguenti sue riflessioni: la sua mente riesce giusta e logica. Ma conviene osservare le avvertenze sopraindicate; e oltre quelle alcune altre: eccone un cenno. Converrebbe che l' educatore avesse una tavola delle classi più o meno estese, nelle quali si possono dividere le cose tutte concepite: questa dovrebbe essere il fondamento della sua logica: ne porremo qui uno schema: [...OMISSIS...] All' esercizio di cui parliamo non appartengono i nomi indicanti le idee elementari dell' essere (benchè de' più facili) nè quegli indicanti le categorie, nè quelli esprimenti de' generi mentali o nominali: ma solo i vocaboli significanti l' universale, i generi reali, le specie astratte , e le semi7astratte , come pure i sussistenti (nomi proprii). Ora, poichè le specie semi7astratte possono essere innumerabili, rimane a vedere qual norma si deve stabilire per scegliere le più acconce al fanciullo. Qui non vi ha dubbio, che la norma consiste « nello scegliere quelle, che più interessano il fanciullo », e più l' interessano quelle, che hanno più relazione co' suoi bisogni e istinti, e che prima e più vivamente colpiscono i suoi sensi esterni. Conviene dunque, che l' educatore sottilmente consideri lo sviluppo di questi bisogni e istinti del fanciullo e la priorità e la vivacità delle sensazioni, affin di vedere quali sieno quelle qualità accidentali, che più interessino nelle cose il fanciullo; e che secondo una tale gradazione meni per mano la mente del giovanetto a conoscere in ciascuna cosa le specie semi7astratte. E di più conviene osservare, che queste semi7astrazioni devono essere operate non sulle cose, ma sui concetti delle cose, che stanno nella mente del fanciullo: altramente nulla egli ne intenderà. Ora i concetti, che delle cose si forma il fanciullo sono in se stessi giusti (sbagliando solo nell' applicar loro le parole) ma imperfetti; e però si vanno successivamente rimutando e perfezionando. Per esempio: il fanciullo da principio si forma il concetto del vegetabile dal vederlo piantato in terra, dal color verde, dalla forma più comune delle piante, dalla freschezza e umidità delle foglie, ecc.: tutto ciò non è il concetto d' un filosofo, nè si deve pretendere. Devesi dunque prendere quel concetto infantile o per dir meglio proprio di ciascuna età, e rattaccare ad esso la classificazione de' vegetabili. L' astratto specifico del vegetabile per la mente del nostro infante sarà dunque « ciò che è piantato in terra e che cresce ». L' astratto specifico all' incontro del vegetabile stesso per la mente del filosofo sarà « un corpo organizzato privo di senso e di contrattilità, che si sviluppa da un germe ammettendo e assimilando a se, date le esterne condizioni opportune, delle molecole straniere ». Or la classificazione de' vegetali, per la quale si deve far correre la mente del fanciullo, non deve mica essere concepita su questa definizione, che il fanciullo non può conoscere, ma deve essere foggiata sul concetto proprio della mente del fanciullo. Laonde se si classificassero le piante da' semi e germi, non sarebbe questa maniera opportuna; non vuolsi classificar ciò che germina , ma semplicemente ciò, che è piantato in terra e cresce . Di più le qualità astratte, che fondano le classi diverse, devono essere tali, che non pur non trapassino l' ordine delle intellezioni, al quale trovasi a gioco la mente del fanciullo, ma s' abbiano anche in sè lo stimolo , che possa scuotere e tirare la sua attenzione; che è la seconda condizione richiesta, come dicevamo, acciocchè il fanciullo possa intendere quello che noi gli vogliamo insegnare. Il quale stimolo nel caso nostro sono i caratteri sensibili, e tra questi i più grossi e appariscenti: caratteri stampati nel suo senso, nella sua imaginazione, nella sua memoria. I quali caratteri consistenti in qualità sensibili avvicinano il concetto astratto al concetto pieno (universale, non astratto); e però formano quelli, che noi chiamiamo semi7astratti, che sono acconcissimi alle menti de' fanciulli. Tutta la classificazione delle rose che noi abbiamo già recata in esempio è fondata in questi semi7astratti, cioè non è che una classificazione, che ha per idea massima un' idea specifica7semi7astratta (l' idea specifica della rosa). Che anzi se ben si considera tutte le classificazioni, che si possono fare delle cose insensitive (il che è quanto dire tutte le fisiche discipline) hanno per idea massima un' idea specifica astratta, cioè l' idea della sostanza corporea. Tutta l' infinita scala di suddivisioni della sostanza corporea non è che una scala d' idee specifiche semi7astratte, che discende fino al primo gradino, che è l' idea piena (idea dell' individuo universale, ma non astratto), col quale finisce il mondo ideale. Fuori al tutto di esso rimane la sussistenza delle cose, che costituisce il mondo reale. Di che si può conchiudere, che l' ordine, col quale si deve procedere col fanciullo nominando le cose co' nomi più e meno comuni, risguarda, la maggior parte, quella classificazione che dall' idea specifica astratta discende per le semi7astratte fino al sussistente. Una delle cose difficili, che al senno dell' educatore spetta di determinare si è « che cosa in ciascuna età il fanciullo faccia da se stesso e che cosa deva fare l' educatore intorno a lui ». Egli è certo, che la natura nel bambino ha un' azione benefica, la quale deve rispettare l' educatore e ben guardarsi dall' interrompere o dal turbarla. Ora, ella è cosa veramente ardua il conoscere quest' azione della natura e la sapienza dei suoi fini, e pochi sono quelli, che sentano intimamente con quanta religione quest' azione voglia essere rispettata. Si vuole sempre far troppo; la nostra presunzione ci conduce a formarci delle opinioni con precipitazione; e sicuri di noi stessi crediamo di potere con tutta facilità far meglio, che la natura stessa non faccia, insegnare e emendare a bacchetta questa gran madre. La natura che opera nel fanciullo produce incessantemente colle spontanee sue operazioni calma, seremntà, ordine, sviluppo ordinato di tutte le facoltà . A ottenere questi effetti, di cui essa natura ha il segreto, assai sovente è corto l' intendimento dell' educatore; e colla sua azione positiva ottiene il contrario, cioè agitazione, turbazione, disordine, ravviluppo, confusione negli atti delle facoltà, le quali l' una sull' altra s' impediscono e offendono. Questa considerazione importante somministra delle regole generali d' educazione infantile: eccone alcune che, quantunque già note, pur non sono mai abbastanza ripetute. 1 Non toccare il bambino, quando trovasi tranquillo e contento nel suo stato. 2 Per evitare, che sia sturbato nella sua serenità, farlo conversare più colle cose, che colle persone; giacchè quelle prime non sono indiscrete e non intervengono a mutare e alterare l' azione naturale del bambino, come sogliono far queste. 3 Le persone accorrano ad aiutare il bambino, quando è stanco delle cose. 4 Le persone, che trattano il bambino, sieno sinceramente cordiali e benevole (1). 5 Non agitino troppo il bambino nè fisicamente, nè moralmente con troppe carezze o eccitandolo a soverchia gioia; piuttosto lascino che egli giochi con cose passive anzichè attive. Non so se la regola d' educazione inglese di parlar sempre basso a' bambini sia bona. Vedo, che la voce bassa è meno eccitante; ma parmi, che il principio di non sturbare e urtare il bambino sia di soverchio applicato, parmi che si voglia andar al di là della natura stessa in questa parte. Io credo all' incontro, che sarebbe utilissimo l' osservare quest' altre regole « fare in modo che il fanciullo udisse sempre a parlare con voce dolce, ben intonata e ben modulata, trascorra pure per tutti i tuoni ». La voce del fanciullo è fatta acuta da natura, perchè dovrà nuocergli il tuono alto? E` l' aspro, l' ingrato, il falso, lo scordato, il troppo forte che può turbarlo e distrarlo e inasprirlo: non il tuono naturale e mediocre, qualunque egli sia. Anzi io credo dover essere al fanciullo vantaggioso esercizio, come ho toccato innanzi, fargli udire tutti i suoni per ordine, e ordinatamente le loro consonanze. Egli è però certo, che tutta l' educazione non deve essere negativa: l' educatore o l' educatrice deve intervenire anche positivamente. Primieramente tutti quelli, che non vogliono adulare la natura umana, la riconoscono in parte difettosa: ella manifesta assai per tempo delle disposizioni maligne. Di poi la volontà dell' uomo da prima si piega spontaneamente dietro le disposizioni naturali benigne e maligne, onde mostra anch' ella un misto di bene e di male. Non v' ha dubbio, che l' arte deve accorrere ad emendare i difetti della natura e della volontà: a prevenirli: ad allontanare le tentazioni: ad avvicinare le occasioni della virtù. La divina Providenza col far nascere l' uomo nel seno della società, lo consegna a' suoi simili, acciocchè essi lo aiutino nella sua debolezza, dirigano nella ignoranza, correggano nelle sue difettose tendenze. Non vi ha dunque dubbio, che l' educazione deve avere la sua parte positiva; ma qual è questa parte, quanto ella si estende? Qual è la parte positiva dell' educazione in ciascuna delle età dell' uomo? Ecco de' nuovi problemi d' immensa difficoltà a risolversi: de' problemi, che nella pratica ricevono infinite diverse soluzioni secondo le circostanze dell' allievo, circostanze esse stesse difficili a raccogliersi e certificarsi. Si può dire in generale, che la parte positiva dell' educazione intellettuale e morale deve essere minima nella prima età e venirsi estendendo sempre più nelle età successive: ma quale è la legge, secondo la quale si rende sempre maggiore la parte positiva? In una parola quali sono i suoi confini nelle singole età? Ecco ciò che, moltiplicandosi le esperienze e le osservazioni, le quali grazie al cielo si cominciano già a fare (ed è pur tempo, che si tolga ad applicare alla pedagogia l' arte dell' osservare e dell' esperimentare), si potrà giungere a determinare. Intanto contentandoci noi d' additarne la via (perchè di più confessiamo ingenuamente di non sapere), porremo innanzi un principio evidente da se stesso e su questo poi condurremo il ragionamento. Adunque, evidente cosa è, che non si deve pretendere o esigere dal fanciullo l' impossibile, ma ciò solamente, ch' egli può dare. Convien dunque sapere, che cosa il fanciullo possa dare in ciascuna età: ecco il difficile a determinare. Il signor Naville conobbe che qui stava il nodo della questione, trattandosi di educare le facoltà intellettive del fanciullo (1); ma la stessa questione va ugualmente applicata alle facoltà attive e morali. Devesi sempre sapere che cosa possiamo pretendere, che il fanciullo ci dia colla sua volontà, e non esigere da lui di più, ciò che sarebbe ingiustizia. Ora quanto all' intendimento, tutto lo scopo di quest' opera mira a determinare con precisione i passi che fa l' intendimento del fanciullo, affine di venire a conoscere che cosa in ogni età si possa da lui pretendere. La volontà poi tiene dietro ne' suoi passi all' intendimento. Sarebbe dunque cosa irragionevole il pretendere dal fanciullo, che egli volesse un bene che ancor non conosce; o fuggisse un male che pure non conosce. E pure è questo che si pretende il più delle volte dagli educatori: questi vogliono che il fanciullo pensi come essi, che voglia come essi, operi come essi; o per dir meglio vogliono che il fanciullo pensi, voglia, e operi com' essi veggono che si deve pensare, volere, e operare. L' ingiustizia di codesti educatori nasce dalla loro ignoranza. Essi si sono fatte delle regole di operare, e pretendono, che il bambino abbia le stesse regole. Quando non possono pretendere ciò per l' enormità dell' assurdo, allora tutt' al più si riducono a dire, che il bambino non ha punto regole di operare, perchè non è ancora arrivato all' uso della ragione. Così vanno da un estremo all' altro. E infatti il bambino non ha certo le regole di operare dell' adulto, e il pretenderlo è una grossolana ingiustizia. Ma è parimenti un errore il supporre, che il bambino sia sfornito al tutto di regole . Egli ha le sue; e convien dirigerlo non colle nostre ma colle sue. Vero è ch' egli mostra di nulla intendere quando gli proponiamo le regole nostre; ma s' indurrebbe da questo a torto l' assenza di regole nella sua mente: è nostro il torto che non le conosciamo, che non le sappiamo in lui osservare e rilevare: egli non le ha certo in forma astratta; ma ben presto la sua mente gli porge tali regole, la formazione delle quali è ciò che dovrebbe fare l' oggetto dello studio dei pedagogici; ed è ciò in pari tempo che fu fin qui al tutto dimenticato: non si sospettò neppure che tali regole si formassero nelle prime età dell' infanzia. Già abbiamo veduto, che fino dal primo ordine delle sue intellezioni il bambino percepisce l' essere sensitivo e intelligente; come pure percepisce l' oggetto bello agli occhi suoi. Ecco qua la culla delle due prime norme del suo operare: dietro a queste norme dirige le sue affezioni: l' essere sensitivo7intellettivo è tosto da lui amato, l' oggetto bello è da lui ammirato. Egli distribuisce adunque la sua benevolenza e la sua ammirazione dietro a' primi lumi del suo intendimento: l' atto morale nasce incontanente dietro l' atto intellettivo. Gioverà qui anco osservare che questi due effetti della ammirazione e della benevolenza sono meno distinti nel bambino che non paia. Infatti ciò che egli ama propriamente si è il bello; è quello che egli ammira . L' ammira e perciò l' ama: l' ammirazione è quella prima stima, nella quale ha sua culla l' amore. Accordo bene che egli trova una reale differenza tra il volto di sua madre, e un bottone che luce; ma questa differenza non è reale e specifica, se non nella supposizione da noi fatta, che v' abbia qualche operazione delle anime fra di loro, mediante i corpi animati. Per altro noi già vedemmo, che il bambino dà l' anima anche al bottone che luce e a tutte le cose; e però non solo ammira, ma ama anche il bottone. Tanto è vero, che il fanciullo ama ciò che prima ammira, che nella lingua infantile bello significa lo stesso che amabile; e brutto significa lo stesso che disamabile. Queste due parole hanno un' estesissima significazione presso i fanciullini. Lo stesso rimane provato dall' osservazione già fatta prima d' ora, che la compassione ne' bambini si spiega verso le cose belle agli occhi loro, e il loro cuore indurisce, ove si tratti di cose che loro sembrano deformi (1). Nella seconda età le norme dietro le quali il bambino dirige i suoi affetti prendono per lui un' altra forma. Avendo sonato a' suoi orecchi le voci di bello e di brutto, di bene e di male ecc.; egli non segue più co' suoi affetti i soli oggetti buoni e belli, ma già un qualche tipo di bontà e di bellezza si è formato nella sua mente, egli vagheggia quest' astrazione, egli per essa intende e pone amore anco a degli oggetti buoni e belli assenti, li desidera, impara a cercarli; e il contrario si dica dei cattivi. Vero è, che questa sua regola astratta, questo primo tipo del bene è ancor prossimo all' oggetto: da prima non è che il suono del vocabolo associato a diversi oggetti, della cui percezione ha memoria, e di cui ritien l' imagine, ma un po' alla volta diventa una vera idea semi7astratta; cioè composta dalle idee imaginali degli oggetti veduti. Quest' idea semi7astratta, tipo della bellezza e della bontà, è la più prossima delle idee dopo le imaginali agli oggetti: è con una regola così vicina, che non ha che a fare un passo per giungere all' oggetto. Quindi gli affetti, che sono da essa diretti, ritengono ancor molto del primo foco, dell' originale impetuosità de' primissimi (1). Nè il bambino mette fin qui in gioco molti mezzi per giungere all' oggetto bramato, ma si slancia direttamente verso di quello. Or questo tipo ideale del bene, che il fanciullo si forma già fino dal secondo ordine delle sue intellezioni, questa regola del suo operare è diversa in quanto alla forma dalla regola presentatagli dalla natura stessa durante il primo ordine delle sue intellezioni; ma nel fondo è la medesima. Era il bello e il buono ciò, che il fanciullo ammirava e amava, tanto nell' un tempo che nell' altro; ma prima amava e ammirava gli oggetti belli e buoni; dipoi cominciò ad amare il bello e il buono negli oggetti. Il bello e il buono si presentò in novella forma alla sua cognizione: ma la volontà ebbe sempre a suo scopo l' oggetto stesso. Ora questo stesso oggetto, questo buono e questo bello, che forma l' oggetto de' primi affetti del neonato, continua ad esser pure l' oggetto costante degli affetti umani in tutta la vita dell' uomo, nel tempo del suo maggior vigore e sviluppo intellettuale, e quando invecchiando declinano le sue facoltà; egli è l' oggetto, a cui l' uomo volge l' ultimo sospiro morendo e che spera di rinvenire nella eternità. Ma se nel suo fondo l' oggetto è identico, non è identico però il modo, nel quale l' uomo lo concepisce; e quindi gli atti della volontà si modificano anche essi a tenore della forma, nella quale l' intendimento le presenta il bello ed il buono. Questa forma emigra in ogni ordine d' intellezioni. Ma come, oltre quel progresso, che consiste nel passaggio da una intellezione all' altra, avvi un progresso, che si fa entro ciascun ordine d' intellezioni, il qual secondo progresso esige pure non poco tempo; così anco il tipo del bene regolatore della volontà conserva la forza propria d' un dato ordine d' intellezioni, si amplifica e si perfeziona. Il seguire queste mutazioni di forma d' un ordine all' altro, come pure i gradi di perfezione entro l' ordine stesso, è l' arduo lavoro proposto alla meditazione degli istitutori della gioventù. Perocchè questi devono in ogni età del fanciullo servirsi di quel tipo che egli ha in mente, per guidarlo sulla strada della virtù: ed è questo, che essi possono e devono esigere da lui nè più nè meno, ch' egli sia virtuoso secondo quella regola di virtù, che in lui si trova formata dalla natura e non secondo un' altra. Il non esigere dal tenero fanciullo nessuna pratica di virtù è lassismo pedagogico, che nasce da ignoranza; l' esigere che il fanciullo sia virtuoso secondo una regola, che egli ancor non vede, è un rigorismo, un assurdo, una tirannia pedagogica: questa trae dietro di sè la violenza, il mal umore, l' ira cieca del precettore, la sola cosa che impari da lui lo sgraziato discepolo. Il fanciullo devesi dunque sempre considerare come un essere morale, perchè è sempre tale, ma devesi investigare in pari tempo qual sia in ciascuna sua età la forma e la natura della sua moralità: e questo è quel segreto, che non si rapisce alla natura fanciullesca, se non con immensi studi, lunghe osservazioni e profonde meditazioni. Giunti noi al second' ordine d' intellezioni del bambino, abbiamo anco indicato qual possa essere la forma della sua moralità. Egli ha un' idea del bene già divisa dagli oggetti sussistenti, benchè questi or l' uno or l' altro s' associno continuamente ad essa. Quest' idea non solo è divisa dagli oggetti sussistenti, come sono tutte le idee imaginali, ma essa differisce anche da queste. Perocchè le idee imaginali fanno conoscere l' oggetto fedelmente tal quale egli apparì ai sensi; ma l' idea del bene non esprime le parti indifferenti e male dell' oggetto, ma solamente l' elemento buono; come l' idea del male, lasciate pure le parti indifferenti o buone dell' oggetto, non ritiene che l' elemento malo. Quest' idea del bene o del male non è adunque solamente universale, come sono tutte le idee imaginali; ma ell' ha anco dell' astratto in quanto che non richiama l' attenzione se non ad una determinazione, ad una qualità sola dell' oggetto, lasciate le altre. Ma che cosa è il bene e che cosa è il male per un bambino, il quale non eccede nel suo sviluppo il second' ordine d' intellezioni? L' astrazione, che ha esercitata questo fanciullo per giungere a formarsi quelle sue idee di bene e di male, non la potè esercitare se non sulle percezioni delle cose sensibili e sulle loro idee imaginali: perocchè non vi era altro nel suo spirito, che fosse idoneo a trarre a sè l' attenzione. Il linguaggio pure, che gli fu strumento ad eseguire questa grand' opera d' estrarre dagli oggetti percepiti, imaginati, ideati l' elemento buono e il cattivo, guidò sempre la sua attenzione agli oggetti sensibili, perocchè fu di questi, che sentì dirsi dalla madre o dalla nutrice « questo è buono, questo non è buono, questo è malo ». Il bene ed il male adunque, di cui ha l' idea il nostro bambino, è un bene ed un male presentatogli dai sensi. Questo bene e questo male ha in sè un elemento soggettivo ed un elemento oggettivo . L' elemento oggettivo appartiene all' intelletto, ed è quel bello e quell' ammirato, che ammira ed ama tanto il fanciullo. Come ho detto, pare, che l' osservazione più accurata dimostri, che il fanciullo da principio giudichi tutto animato. Ma questo giudizio, col quale il fanciullo giudica animata ogni cosa, non si deve confondere colla congettura che ho fatto di sopra, cioè, che ciò che è veramente animato eserciti sul fanciullo un' azione veniente dall' anima, benchè per mezzo del corpo e fondentesi sull' altr' anima, benchè pure per mezzo del corpo. Se quest' azione, a cui finora i filosofi non hanno fatto attenzione, è un fatto che si verifichi ed accerti, l' effetto di quest' azione nel bambino è un sentimento , e non dee confondersi col giudizio , che fa il fanciullo stesso. Questo può essere erroneo; il sentimento è sempre reale; il fanciullo può operare dietro il sentimento e dietro il giudizio . Il sentimento , fin che non viene percepito dall' intelletto, non ha che una esistenza soggettiva. Vi avrebbe dunque nel bene percepito dal fanciullo un elemento soggettivo doppio, cioè la sensazione corporea e il sentimento animastico . Trovata così l' analisi del bene del fanciullo nasce la domanda, se nell' idea che il fanciullo si fa del bene entri non meno l' elemento oggettivo che il doppio elemento soggettivo. Questa domanda è importante per lo scopo di determinare qual sia lo stato della mente e dell' anima del nostro bambino rispetto al bene. A rispondervi conviene richiamarci alla mente due principii da noi posti: 1 Che i primi stimoli che tirano a sè l' attenzione del bambino sono gli esterni; verso gli esterni oggetti ella va sempre spontanea e non si ripiega sul soggetto se non tardi, costrettavi da cause speciali. 2 Che nelle prime percezioni il soggetto intellettivo non fa che affermare un' entità, ma non le qualità o determinazioni di quelle entità, le quali determinazioni s' appaga d' averle nel sentimento; e sol dopo, un po' alla volta, secondo i bisogni che il movono, egli posa la sua attenzione anche sulle determinazioni sensibili dell' ente. Ora egli è certo che trattandosi di formarsi un' idea di bene, è necessario che quest' idea sia preceduta da delle percezioni del bene; perocchè ogni idea di bene è idea7concetto (1). Le percezioni adunque su cui vien lavorata l' idea del bene (per quantunque questa sia imperfetta) non debbono essere delle pure percezioni, nelle quali si afferma solo l' essere, ma delle percezioni già alquanto perfezionate, in cui si afferma ancora il bene. Ma l' affermare il bene, l' affermare un ente buono è affermare un oggetto; e l' affermare un oggetto senza più è operazione infinitamente più facile e più spontanea allo spirito che non sia l' affermare sè soggetto, cangiando così il soggetto in oggetto dell' intelletto. Fino a questa terza età niente può spingere l' uomo a far prendere alla propria attività un giro così opposto al naturale, niente ricaccia quell' attività intellettiva che ha preso a moversi in linea retta, la ricaccia, dico, indietro sui suoi passi, la fa ricadere sopra se stessa, nel seno di quel soggetto da cui emana. Noi parleremo più innanzi della cognizion di noi stessi e mostreremo quanto tardi ella si manifesti nel bambino. Non avendo adunque il bambino ancora di se stesso notizia, egli non può attribuire a sè l' elemento soggettivo. Ma posto ciò, non potrà egli tuttavia percepirlo? Egli lo percepisce certamente, altramente non potrebbe estrarre l' idea del bene dalla percezione; ma egli non lo riconosce come soggettivo ; lo percepisce come un semplice oggetto . Di qui avviene che gli stessi suoi piaceri, i suoi stessi dolori, che in quanto sono sentimenti esistono nel soggetto in quanto sono osservati e percepiti dall' intendimento del bambino sono oggetti, sono qualità e proprietà degli enti reali che l' intelletto suo percepisce. Onde tutti gli affetti di ammirazione e di benevolenza, di abborrimento e di odio che si manifestano nel bambino non risguardano già i propri piaceri e i propri dolori; ma risguardano gli oggetti piacevoli e i dolorosi: egli vede in questi la sede di quel piacere e di quel dolore che esperimenta. Sebbene adunque ciò che sente il bambino sia in lui pel senso; tuttavia ciò che sente è fuori di lui per l' intelletto; e vi vuole un lungo tempo prima che l' intelletto restituisca al soggetto i suoi piaceri. Quello poi che nasce de' piaceri e de' dolori nasce ugualmente di tutte le sensazioni che l' uomo ha mediante gli organi esterni. L' intelletto che ha per legge di concepire ogni cosa oggettivamente, vede le prime sensazioni, cioè il colore, il sapore, l' odore ecc. negli oggetti da lui affermati colla prima sua percezione, affermati con questa percezione in conseguenza della azione esercitata da essi nel suo senso. Tale è la ragione onde il comune degli uomini risguarda come qualità de' corpi le accennate modificazioni del proprio sentimento, e convien che intervenga una profonda ed assidua meditazione filosofica per disingannarli a pieno, e spogliare le forze esterne delle vesti usurpate, di cui si coprirono fino dalla nostra infanzia, si abbellirono, e per così dire rimpolparono e rinsanguinarono. E veramente quelle forze denudate in tal modo dall' inesorabile pensiero del filosofo si rimangono aridi scheletri, e quasi volevo dire tenui, impercettibili spiriti e nulla più. Da queste osservazioni nasce la singolare conseguenza, che il bambino, che nel suo essere di animale opera al tutto soggettivamente, nel suo essere di uomo cominci ad operare dietro a de' motivi oggettivi, assai prima che il suo intelletto e la sua volontà conosca ed ami ciò che è soggettivo, ciò che si riferisce a sè stesso. Perchè le cose stesse sensibili, che al soggetto propriamente appartengono, quella piccola intelligenza non le vede come tali, ma come altrettanti oggetti li contempla e li ama o li abborrisce. Quindi fu giustamente osservato ne' bambini un mirabile disinteresse anche in quelle cose che fanno tratti dal piacere e dal dolore; ed a torto si pretende da alcuni incapaci di osservare la natura umana, che l' amor proprio sia il primo degli affetti che si manifesta (1). Un' autrice, che noi abbiamo citata sovente, con gran finezza dice che il bambino [...OMISSIS...] . Se noi dunque vogliamo raccogliere da tutto ciò qual sia la virtù morale del bambino, diciamo che questa consiste tutta nella sua benevolenza, perchè questa benevolenza è oggettiva e però imparziale, fornita di disinteresse, preceduta dalla stima dell' oggetto da lui amato: insomma è quella benevolenza stessa, a cui si riduce finalmente la virtù dell' uomo in qualsiasi altra età, perocchè esser buono è lo stesso che amare (1). Di qui si scorge che la differenza della virtù del bambino e di quella dell' adulto (prescidendo dal merito) non istà nell' essere l' una benevolenza e l' altra no: chè l' una e l' altra è ugualmente benevolenza; ma consiste nell' oggetto diverso di questa benevolenza: perocchè l' oggetto della benevolenza si amplifica in ragione dell' età e del progresso della cognizione. Ora, oggetto della benevolenza, lo dicemmo già, non è che il bene. Qual è dunque il bene che può esser noto al bambino non arrivato più in là del second' ordine delle sue intellezioni? Se queste intellezioni non han per oggetto che le cose sensibili, egli è chiaro che egli amerà ciò che i suoi sensi gli rappresentano come bello e come amabile, il cibo, la luce, il volto ridente d' un altro essere umano: questi e somiglianti sono gli elementi da cui trae quel concetto di bene, che dirige poscia tutti i suoi affetti. Egli dunque ritrova e riconosce il bene in tutto ciò, da cui gli vengono delle sensazioni aggradevoli, e tutto ciò l' ama con effusione di cuore imparzialmente. Ecco la sua regola morale: non è certamente la nostra, ma ella è vera per lui, è l' unica che egli possa avere: se noi non lo disturbiamo ne' suoi interni movimenti, egli la segue con semplicità e con ogni fedeltà: egli è giusto ne' suoi atti benchè non lo sappia: la sua moralità già esiste, quantunque non se ne sia formato ancora alcuna coscienza. Il bambino che giunge col suo intendimento alle intellezioni di second' ordine potrebbe guastare la sua moralità in due modi: 1 Formandosi delle regole false del bene e del male; 2 Non dirigendo i suoi affetti e le sue operazioni fedelmente a seconda delle regole del bene e del male ch' egli si è rettamente fatte. Supponendo che il fanciullo operasse da se stesso senza l' influenza d' altre persone, egli non potrebbe formarsi delle regole false, se non a condizione che nelle sue prime percezioni apprendesse gli oggetti buoni per cattivi, e gli oggetti cattivi per buoni: conciossiachè è da queste sue percezioni, ch' egli trae poscia i concetti del bene e del male, che gli servon di regola. Ora questo è impossibile: conciossiachè le percezioni seguono le sensazioni, e queste non ricevono in sè errore (1). Ma il bambino non fa tutto questo da se stesso: i concetti sono astrazioni e però egli se li forma coll' uso del linguaggio che riceve dalla società. Egli è vero che chi gli parla da principio non può ingannarlo del tutto; perocchè se gli si dicesse sempre che è bene quello che i suoi sensi gli presentano per male, egli finirebbe col persuadersi che il vocabolo bene significasse male, e che il vocabolo male significasse bene; il che non sarebbe errore di cosa, ma sol mutazione di vocaboli. Ma se nel primo imparar della lingua il bambino non può essere ingannato, perchè non potrà egli sottostare all' inganno tosto che ha già conosciuto alcuni vocaboli? Poniamo che al vocabolo bene aggiunga pure il significato d' un giusto concetto (benchè sempre ristretto agli elementi del bene de' quali egli ha sperienza): e lo stesso dicasi del vocabolo male . Ora non può egli cominciare qui tosto a soggiacere alle altrui delusioni? (1) Se altri gli dice che è male quello che è bene, quando egli già intende il vocabolo male, non finirà egli a persuadersi che l' oggetto di cui gli si parla è male? Il suo senso gli dice il contrario: sia pure: ma in questa età è egli vero che creda solo al proprio senso, alla esperienza propria? Egli è certo che oltre le facoltà del senso e dell' intelligenza si risveglia assai per tempo nel bambino la facoltà della persuasione (2) di cui una funzione è la credenza volontaria, la volontaria adesione a ciò che altri ci afferma. Non solo noi possiamo credere arbitrariamente a ciò che altri ci dice, ma noi n' abbiamo altresì l' inclinazione, ed è principalmente per questa inclinazione che riescono tanto dannosi a' fanciulli i mali discorsi: fossero questi anco di cose prave, a cui il fanciullo non sente ancora alcun malo eccitamento, egli tuttavia con facilità vi aderisce pel solo bisogno di credere, di uniformarsi all' altrui sentimento. Ora una tale tendenza già si manifesta assai visibilmente nel bambino il più tenero, ed ella anzi lo aiuta mirabilmente ad apprendere con facilità il linguaggio materno. Di qui ne viene la conseguenza, che la veracità nelle educatrici o negli educatori è una dote necessaria fin dalle prime parole, ch' essi rivolgono ai fanciulli tenerissimi. E veramente se questi educatori non dicono costantemente bene a ciò che è bene pel fanciullo, questi troverà una discrepanza tra ciò che sente col suo senso, e ciò che gli viene affermato dalle persone. Indi le sue due facoltà del sentire e del credere sono poste in contradizione fra di loro, e non vi ha nulla che più ritardi e imbarazzi lo sviluppo del fanciullo di quello che il porre le sue facoltà in lotta tra di loro, sicchè l' una distrugga quello che l' altra tenta di edificare. Il povero infante non sa più a cui attenersi; non sa se sia la facoltà del senso che lo inganni, o la facoltà della credenza ; confuso la mente, egli non ha più l' agio di formarsi delle opinioni ben ferme sul merito delle cose, e fino che non si delibera per l' una facoltà o per l' altra, egli è in uno stato d' inutile incertezza, e violenza: lungi dal fare de' passi innanzi, perde anzi per molto tempo la disposizione della tranquillità, della chiarezza, dell' ordine che gli è indispensabile per avanzarsi nella sua via. Quando poi si deliberi verso l' una delle due opposte facoltà, egli non crederà mai alla prescelta fermamente, ma in modo vacillante; di che formerà un carattere debole, senza profonde impressioni, grandi e semplici sentimenti, decisa attività che nasce da quelle e da questi. Che se prestasse fede all' altrui voce rinnegando il proprio sentimento, egli perde in questo una guida sicura e potrebbesi quindi prevedere che il bambino riuscirà almen uomo leggiero. Se poi s' attiene al sentimento proprio rinunziando all' altrui autorità, egli semina con ciò solo in sè medesimo la diffidenza verso de' suoi simili, e dopo una gioventù indocile egli raccoglierà nell' età più adulta i frutti della disunione, dell' egoismo, d' una inesplicabile malignità. Parlare adunque al bambino col linguaggio il più preciso, il il più verace, il più conforme a' migliori suoi sentimenti dee essere un' avvertenza importante per l' educazione di questa età. Il fanciullo che ingannato dalle altrui parole si forma de' concetti imperfetti o falsi del bene, egli certamente si forma con ciò delle regole false od imperfette della sua morale. Tuttavia non si potrebbe riconoscere immoralità nel fanciullo che cede in tal modo all' inganno: egli non dispregia con ciò, nè fa torto volontariamente, nè odia: si attiene ad una delle due potenze nell' impossibilità di attenersi ad entrambe: la scelta non è dovuta al suo arbitrio, ma alla prevalenza dell' inclinazione verso una delle due potenze. Tuttavia hassi a distinguere l' immoralità dalla disposizione alla immoralità: i falsi concetti e le false regole del fanciullo non costituiscono immoralità, sono bensì una disposizione alla immoralità pel tempo avvenire. Noi ci proponevamo oltracciò un' altra questione, se il bambino pervenuto al second' ordine d' intellezioni seguita sempre le regole del bene e del male, o talora volontariamente se ne allontani. Ora a questo rispondiamo ch' egli le seguita fedelmente, e che non potrebbe allontanarsene senza pervenire al terzo grado d' intellezioni. Perocchè dopo essersi formata la regola del bene e del male per allontanarsene egli dovrebbe giudicare praticamente, che è male ciò che quella regola gli mostra esser bene, il che suppone una nuova riflessione, della quale parleremo nella Sezione seguente. Non conviene perder di vista che ogni bontà morale si riduce alla benevolenza, e che ogni male morale non è che odio, ovvero limite imposto alla benevolenza. Ora due sono gli uffizi dell' educatore relativamente alla benevolenza del fanciullo: 1 il farla nascere, 2 l' ordinarla convenientemente (1). Non è meno importante il primo del secondo di questi due uffizi: perocchè la mole di benevolenza che sorge nell' animo umano è la materia, onde si compone la virtù (2): colui che ha un gran sentimento di benevolenza diverrà assai facilmente un uomo virtuoso. Noi faremo dunque qualche riflessione primieramente sulla maniera di far crescere la benevolenza nel fanciullo, e poi sulla maniera di ordinarla. Nella prima e nella seconda età il fanciullo che non possedeva ancora nè linguaggio nè concetti astratti, non potea ricevere il sentimento della benevolenza se non dalle aggradevoli sensazioni che gli oggetti esterni gli procuravano; perciò abbiamo già detto che il mantenere il bambino in uno stato di tranquillità, di serenità e di gioia abituale apre il suo cuore a sentimenti benevoli. Ma ora nella terza età conviene che l' educatore si giovi anco del linguaggio ad ottener questo fine, ed egli può assai agevolmente giovarsene attesa la facoltà della persuasione, che nel bambino assai per tempo si manifesta non solamente colla funzione della percezione, ma ancora con quella della fede . Le persone dunque che educano o che semplicemente parlano al bambino potranno usare a tal fine la regola di lodare generalmente le cose buone e ben di rado biasimare le cose cattive, ma di queste piuttosto tacersi; il che è quanto dire far un grand' uso delle parole bello, buono, bene , ecc. e fare un uso assai scarso delle parole contrarie brutto, cattivo, male, ecc.. Sarebbe poi errore gravissimo l' applicare quest' ultime parole a persone (1). Così udendo il bambino a lodare come buone e belle tutte le cose e niente a biasimare, farà sì, che i suoi affetti di benevolenza che seguono indubitatamente i suoi pensieri, si svolgano più prontamente e più ampiamente che non gli affetti contrarŒ di malevolenza: egli verso tutto ciò che lo circonda profonderà il suo amore e la sua gratitudine. Ed è poi difficile per non dire impossibile che v' abbia tal cosa, la quale non si possa da qualche lato presentare come buona e bella al fanciullo e fargliela amare. Quando il fanciullo comincia intendere i segni convenzionali delle parole, egli comincia ad intendere ancora i segni naturali de' gesti e degli atteggiamenti. La lingua naturale aiuta il fanciullo ad apprendere la convenzionale e viceversa: le due lingue sono apprese insieme come una cosa sola (1). Quando i gesti e gli atteggiamenti esprimono degli affetti, egli al veder quelli sente questi, sia per un' operazione animastica, sia perchè l' istinto d' imitazione il conduca a riprodurre in sè quegli atteggiamenti stessi che sono dalla natura associati a quegli stessi affetti, sia che l' una e l' altra di queste due cagioni entrino a formare quella mirabile simpatia , che si osserva ne' fanciulli. Ma nella terza età non fa solamente tutto ciò, ma per lui i gesti e gli atteggiamenti gli sono de' veri segni che gli appalesano l' interno delle persone colle quali egli usa. Mi si permetta di riferire ancora le altrui osservazioni. [...OMISSIS...] . Questi fatti si debbono mettere a profitto. Conviene che anche colle lingue naturali si comunichi al bambino pensieri di bontà e di rispetto: egli apprenderà la maniera di concepirli, se tutto ciò che vede d' intorno di sè glieli mostra e glieli comunica. Quindi medesimo apparisce il danno che alla tenera anima del bambino risulta dai segni esterni dell' ira, del livore, dell' odio, della malignità, della derisione ecc.. Sono altrettante parole seduttrici, dove egli attinge una ineffabile malizia. Dannosi sono parimenti al bambino i terrori e le paure incussegli o con parole o con atti: ma di questo fu già parlato da tanti che è inutile il fermarvisi. Solo farò un' osservazione. Ho già detto che nell' educazione conviene aver per maestra la natura. Or se noi osserviamo la natura, noi troveremo ch' essa inclina sempre il bambino alla speranza ed ai pensieri gai; e che all' incontro l' allontana da' timori e da' pensieri mesti. Non avviene mai che il bambino si componga da se stesso delle imaginazioni cupe, tristi, dolorose: ma sì egli va fantasticando cose belle, liete, ridenti. Non appartiene solamente questo fare al bambino: ella è una legge costante di tutta la natura umana: e ci torneremo sopra. Ora ci basta di chiedere: Perchè non aiutiam dunque gli avviamenti di questa natura? Perchè non ci facciam dunque discepoli alla providenza che ha costituita la natura? Perchè vorremo impaurire o rattristare quell' animo che questa spinge al coraggio ed alla allegrezza? Ma non è egli anche il timore un affetto posto dalla natura nel seno dell' anima umana? Perchè dunque ve l' ha posto? Per contenere, anche mediante il timore d' una forza superiore, l' uomo ne' suoi doveri, e perchè l' uomo mediante il timore abbia il sentimento della propria debolezza comparata a ciò che vi ha di possente fuor di lui, che è il Creatore, ovvero degli enti che fanno la volontà del Creatore. Ora, il nostro bambino non ha bisogno d' un timore procuratogli, giacchè nè potrebbe ancora riconoscere il timore come ministro della giustizia divina, nè quel timore fantastico che pazzamente gli si cagionasse avrebbe il carattere d' un timor morale, ma unicamente d' un timor cieco atto a conturbare e non a raddrizzare la sua riflessione. Quanto poi al sentimento della propria debolezza, egli lo ha troppo; nè il timor riverenziale verso l' essere supremo può suscitarsi in lui altramente che dall' idea di quest' essere ottimo massimo; e non da altro. Escluso dunque ogni timore fantastico e procurato al nostro tenero fanciullo, rimane tuttavia a cercare se giovi l' adoperar con lui alcuna resistenza a' suoi voleri, e caso che sì, in qual misura ella debba essere. Or per rispondere alcuna cosa a questa questione, in primo luogo non v' ha dubbio, che ove qualche cosa possa nuocere alla sua salute corporale, questo non gli si dee concedere: glielo si dee però diniegare in modo da cagionargli la minor pena possibile; e però il miglior precetto consiste a predisporre le cose in modo che tali voglie in lui non insorgano. Queste voglie non sono morali ma fisiche, ed è perciò appunto che sarebbe cosa ingiusta che noi non procurassimo tutte le vie per eluderle senza sua pena. Ma oltre di questo disordine fisico possono benissimo manifestarsi delle disposizioni contrarie alla morale. Prendendo noi a parlare della resistenza che dobbiam fare a queste, verremo a rispondere alla seconda questione propostaci « in qual modo si possa ordinar la benevolenza del nostro bambino ». Ora, una delle prime disposizioni anti7morali che si manifestano nel bambino è l' impazienza; benchè questa stessa trae più forza dall' abitudine che da altro. L' esercizio di pazienza che può convenire anco al bambino non si dee trascurare, ma dee farsi con somma delicatezza; ed ecco una madre che ne suggerisce il modo. [...OMISSIS...] Qui la pazienza non è un sofferir fisico (ciò che si dee sempre allontanar dal fanciullo), ma è un sofferir morale, se pure è sofferire; è di più una scuola in cui guadagna l' intendimento e l' animo del fanciullo. Egli aspetta di buona voglia, e questo è già un gran bene: egli comincia con ciò ad ordinare la sua benevolenza. Il senso di natura sua è impaziente (1): l' aspettare pazientemente è sempre un esercizio d' intelligenza. L' impazienza che proviene dal senso all' uomo non è ella stessa un male morale, ma è una mala disposizione alla moralità, che di buon tempo conviene addestrarsi a superare. L' ira si trova pure nel senso, e in quanto si trova nel senso è anch' essa nulla più che una mala disposizione. Questa si dee prevenire nel bambino acciocchè non nasca, e ne abbiam parlato. Queste passioni e delle altre, di cui parleremo in appresso, si appalesano fino dalla prima infanzia, nella quale età l' operar sensuale può assaissimo: e però esigono una resistenza sapiente assai più morale che fisica. Le passioni poi influiscono immensamente sulla volontà, e questa sull' intendimento; onde avviene che l' intendimento giudichi per bene quello che è favorevole alle passioni, e per male quello che è ad esse contrario. Se dunque sono insorte le passioni nel bambino ed egli perciò non si trova più in uno stato di tranquillità, avviene ch' egli falsifichi i suoi concetti. Perocchè egli non prende più a misura del bene il natural suo sentimento e il sano istinto; ma un sentimento passionato e un istinto guasto. La falsità di questi concetti sul bene e sul male delle cose passa per vero inosservata; ma que' concetti intanto sono le regole dell' operar del bambino, e per conseguente egli ama falsamente, ed odia ciò che dovrebbe amare. Tali semi di falsità nell' intendimento e di traviamento nel cuore sono minuti come quello della senapa, ma crescono occultamente in un grande arbusto: n' escono di que' giovani il cui freddo e cattivo carattere è inesplicabile: n' escono degli uomini pessimi e incorreggibili. In somma la sorte degli uomini dipende sovente da quegl' ignorati cominciamenti. Come dunque convien talor prevenire, talor far resistenza alla passione; così giova correggere i falsi concetti del bambino. Grand' errore è l' adularlo, come pur si fa per voglia di dargli piacere; grand' errore è confermare i suoi concetti se falsi; noi dobbiamo anzi sostituirgliene di migliori: e sopratutto guerreggiare in lui que' concetti che lo portano all' odio, quelli co' quali egli giudica sfavorevolmente delle cose. Noi dobbiamo mostrargli il lato buono delle cose; e sebbene egli non intenda a quest' età se non il bene e il male sensibile oggettivizzato, tuttavia noi possiamo anco dirgli buone quelle cose che hanno un effetto buono in futuro; il che è un facilitargli l' atto intellettivo, col quale un tempo giungerà a conoscere la verità del nostro giudizio. Noi possiamo far ciò giovandoci della sua facoltà di credere, come abbiam detto. L' impazienza e l' ira, che hanno la loro culla nell' animalità e fino che rimangono in questa non sono più che disposizioni anti7morali, ben facilmente tirano a sè l' assenso della volontà, e allor tosto si cangiano in atti ed abiti immorali. Una passione che pur s' origina nel senso animale, ma che passa prontamente nell' ordine dell' intendimento, si è l' avversione che in odio si trasmuta. Io non credo che a quest' età possa aver luogo nell' animo umano l' invidia che è dolore del bene altrui. Il fatto che narra S. Agostino del bambino suggente il latte e risguardante con biechi occhi il suo collattaneo (fatto che si rinnova non di rado) mostra un' apparenza d' invidia; ma io tuttavia lo dichiarerei una semplice avversione. Suole anche nelle bestie avvenire il simile: due cani che mangiano ad una scodella ringhiano e si mordono. Non può dirsi che il movimento nasca dal dispiacere che l' un cane ha del bene dell' altro, ma piuttosto nasce, io crederei, dall' apprendere il compagno come impedimento e diminuzione del suo ben proprio. L' animale non per intelligenza ch' egli abbia, ma per la forza unitiva del suo sentimento può benissimo apprendere il cibo che scema alla presenza dell' altro cane, e odiare questa diminuzione di cibo, e con essa insieme l' altro cane che ad essa congiunge nella sua fantasia. La quale operazione animale somigliantemente avviene nel bambino, ma sopraggiungendosi poi il giudizio dell' intelletto, o anche solo l' atto della volontà, in vero odio si cangia. Ora questi accidenti sono da prevenire con diligenza nei bambini, perocchè eglino difficilmente possono sostenere la gravezza della tentazione, nè hanno armi a difendersene. Nata poi qualche avversione, conviene impiegare tutte le vie acciocchè se ne purghino le loro anime, e si potrà, quando si usi il bambino, o la persona qualsiasi, oggetto della malevolenza, a procurare all' odiatore i piaceri ch' egli brama; nel qual caso essa perderà l' odievolezza e il bambino l' odio. Uno de' fenomeni difficili a spiegarsi nel bambino (ed è un fatto proprio dell' umanità) si è come essendo egli di sua natura benevolo, tuttavia un po' alla volta venga limitando i suoi affetti ad un circolo determinato di persone e di cose. Egli par certo che il neonato sia indifferente all' una od all' altra persona; almeno egli è certo che s' affeziona a qualsiasi lo aiuti ne' suoi bisogni e lo accarezzi. Indi è ch' egli prende talora affetto alla nutrice più che alla madre ove con quella abbia più di consuetudine che con questa, e da quella, non da questa, riceva i materni servigi. Nè il neonato sceglie da se stesso la nutrice, ma egli l' ama quale gli venga data: e in capo a sei settimane sorride imparzialmente a quel volto femmineo che prima a lui ride. Ella è dunque universale la disposizione che ha il bambino alla benevolenza prima che questa si attui, ma attuata in lui la benevolenza, ella prende tosto una forma limitata ed esclusiva. Al bambino d' un anno le persone nuove già fanno sinistra impressione, e questo adombramento, che egli prende dagli sconosciuti, va aumentandosi fino a un certo tempo coll' età: egli divien rispettoso, ritroso, ruspo, ispido agli stranieri, e gli bisogna buon tempo a dimesticarvisi. Come si può egli spiegare un tal fenomeno? Io credo che più cause concorrano a produrlo, ed è forse difficile il conoscerle tutte. Primieramente gli affetti razionali prendono legge dall' intendimento che propone loro gli oggetti. Ora nella sfera della intelligenza si dee por mente al fenomeno dell' attenzione. L' attenzione è un concentramento delle forze sparse, e da prima allentate dello spirito, le quali così tutte unite si applicano ad un punto solo, ad un oggetto solo. E quando lo spirito raccoglie così la sua attenzione in un solo oggetto, egli non è più per gli altri, le sue forze sottratte loro o non gli danno più di essi contezza, o glie la danno ben languida. Or l' accentramento delle forze, che avviene nell' intendimento, avviene somigliantemente nella volontà. Le virtù di questa potenza fino a tanto che rimangono lente e dissolute sono indifferenti all' uno ed all' altro oggetto e disposte ad applicarsi a qualsiasi; ma tosto che sono richiamate ed applicate ad uno o ad una data periferia d' oggetti, a tutti gli altri fuori di quella rimangono nulle; perocchè la quantità disponibile per così dire della benevolenza della volontà è già in determinati oggetti esaurita. E questa spiegazione basterebbe se si trattasse di dar ragione solamente del perchè l' animo del bambino affezionato ad un dato circolo di persone e di cose si mostrasse a tutte le cose nuove freddo ed indifferente. Ma nel fenomeno che noi vogliamo spiegare si mostra un altro accidente. Il bambino nella terza età e in alcune delle susseguenti non è solo senza affezione per le persone non più vedute, ma egli riman sorpreso e intimorito al loro comparire, si arretra da esse se l' avvicinano, si mostra loro turbato, corrucciato, ostile. E perchè mai tutto ciò? Tentiamo d' indicare alcune delle principali cagioni che noi crediamo influire a produrlo, senza assicurarci tuttavia di rilevarle tutte. Mi sembra probabile che quando l' animo umano non ha più della benevolenza da distribuire, gli rimangono gli affetti contrari del timore, della malevolenza, dell' odio estremamente suscettibili (1). Quando il bambino vede de' suoi simili e non ha amore da donare ad essi, questi suoi simili rimangono per lui degli esseri misteriosi, da cui non aspetta bene, e de' quali teme la forza: non essendo agl' occhi suoi abbelliti del suo amore, conciossiachè l' amore è quello che a noi abbellisce e indolcia gli oggetti, quegli esseri tornan molesti al suo pensiero che rimane nell' incertezza sulla loro favorevole o avversa natura. Fu già osservato da altri, che al comparir nella mente del fanciullo un' idea nuova, nasce in lui un cotale sbigottimento. Se un' idea nuova fa quest' effetto, una percezione nuova deve farlo anche più, quando un tale effetto non venga eliso o coperto da un altro affetto maggiore di benevolenza. S' aggiunga un' altra legge psicologica, quella per la quale « è sempre molesto all' uomo il tornare indietro sia co' suoi pensieri, sia co' suoi affetti, il disfare cioè gli atti delle sue potenze intellettive ed affettive per doverli rifare in altro modo ». Se si vuole averne la prova in qualche sperimento fatto sui fanciulli basta raccontar loro qualche storiella: essi la gustano sommamente: ma guai se voi mutate qualche menoma circostanza, o anco semplicemente vi aggiungete nel contarla loro la seconda volta! essi tosto vi correggeranno: vogliono assolutamente la stessa scena. E perchè? perchè avendo quella scena viva nelle loro menti, essi ripugnano a guastare o a cancellare quel bel quadretto imaginario per ridipingerlo. Or quel che avviene ne' fanciulli rispetto alla fantasia ed all' intendimento avviene somigliantemente in essi rispetto alla volontà. Non sono i fanciulli come gli adulti: questi riserbano sempre indietro qualche parte de' loro affetti per poterli collocare poi in quegli oggetti nuovi che li meriteranno: ma i fanciulli all' incontro senza pensare al futuro, concetto che ancor non hanno, ne' primi oggetti versano tutto il tesoro del loro cuore. Ho già osservato la veemenza e la semplicità delle affezioni e passioni fanciullesche. Ciò posto, egli è manifesto che quando si presenta loro una persona nuova hanno un naturale invito ad amarla; ma tuttavia nol posson fare se non a condizione di tirare indietro dell' amore già distribuito, e darne una parte a quella persona. Or questo invito è loro molestissimo per due ragioni; la prima perchè dovrebbero disfare un atto di benevolenza già fatto, riducendolo a più breve misura; la seconda, imperocchè in qual maniera potrebbero essi ritirar l' amore posto alle cose amate? Non sarebbe egli un far torto a queste? In qual maniera cominciar a disamar quelle a cui hanno dato tutto il loro amore? Che demerito si hanno? Che colpa? Insorge appunto ne' bambini un sentimento simile, ma opposto, a quello della gelosia. Come la persona gelosa soffre e s' irrita al timore che altri gli rubi o scemi l' amor dell' amante; così il bambino che è l' amante teme che altri gli rubi o scemi al suo cuore quell' amore che egli pone alla persona amata, e alla quale non lo vuol torre. Quest' affetto del bambino non si attacca solamente alle persone, ma a tutte le cose che lo circondano. Indi è che le mutazioni d' oggetti o di ordine nella loro vita riescono talora al bambino grandemente moleste, e gli mettono del mal umore. Una terza cagione che si lega a questa seconda ha parte nel fenomeno che noi cerchiamo di spiegare. Il bambino ha l' istinto primieramente di evitare il dolore, in secondo luogo di godersi in calma il proprio benessere; la sua natura è piena di piacere perchè piena di vita e di sensibilità. Oltracciò, quando ha distribuiti tutti i suoi affetti alle persone e alle cose tra cui si trova, ha tracciato in ciò stesso la sfera della sua felicità. Quivi ritrova tutti i suoi beni, nè pensa che ve ne possano essere altri. Qual meraviglia adunque ch' egli possa esser geloso di questo suo cotal dominio? Un essere nuovo che gli si presenti già gli sconcia quel tutt' insieme che forma il suo stato, e che percepisce come una cosa sola: già gli rompe quel cotal suo paradiso infantile a cui è attaccato e che non vuol vedere mutarsi, come non vuole che gli si muti niun accidente della novella che gli si narra. A questa ragione è affine l' istinto che hanno i fanciulli, e l' idea che ben tosto loro nasce della proprietà. Tutte le cose che li circondano diventano per la forza unitiva del loro sentimento altrettante parti di sè stessi: il levargliene alcuna è uno squarcio fatto nel loro sentimento. Questo fenomeno si manifesta anco negli animali perchè tutto si compie mediante la forza unitiva, che anco nella natura animale si trova; ed ha le apparenze di pensiero ed amore della proprietà, sebben non sia tale. Nondimeno l' idea della proprietà sopraggiunge, come dicevo. Mad. Neker de Saussure racconta di aver veduta una bambina di diciotto mesi che piangeva se alcuno toccava al passeggio il panierino della sua bona . [...OMISSIS...] Finalmente, una quarta ragione e più profonda non dubito aver gran parte nella limitazione che si mette a certa età nella benevolenza de' bambini: questa è l' indole dell' amore che ha per oggetti individui sussistenti. E in vero due forme comuni ad ogni ente sono l' idealità, principio dell' universalità, e la realità, principio della particolarità. A queste due forme dell' ente corrispondono in noi due potenze, cioè l' intelletto che intuisce ogni idealità, e il sentimento che costituisce ogni realità. La realità del sentimento viene poi affermata dal giudizio che è una terza potenza. Nell' ordine intellettivo adunque l' intelletto dà allo spirito nostro l' idea, e il giudizio dà allo spirito nostro la cosa (res) . La volontà poi co' suoi affetti si porta in entrambi questi oggetti, nell' idea e nella cosa; le due forme dell' essere possono ugualmente esser termine alla nostra volontà. Or poi, se noi amiamo un oggetto qualsiasi per le eccellenti sue qualità, il nostro amore ha per oggetto l' ente nella e per la sua forma ideale. Se poi noi amiamo un oggetto per se stesso, e non meramente per le sue qualità, il nostro amore ha per oggetto l' ente nella sua forma reale. L' idea essendo principio d' universalità, come abbiam detto, anche il nostro amore nel primo caso è universale , di maniera che è pronto a volgersi a qualsiasi oggetto, dove ritrovi le stesse qualità e doti che sole esso cura. Il reale all' incontro essendo principio di particolarità, anche il nostro amore nel secondo caso è particolare ed esclusivo, di maniera che egli rifiuta un altro oggetto unicamente perchè è un altro, eziandio che avesse le stesse buone qualità del primo. Questo secondo amore è il principio della restrizione e limitazione della benevolenza; ed ha una natura anti7morale ove non termini nel divino. L' amore di noi stessi è di questa seconda specie: noi ci amiamo non già per le belle qualità che abbiamo, ma perchè siamo noi. L' amore de' genitori verso de' figliuoli è pure della stessa natura. Qual padre o qual madre soffrirebbe che il suo brutto e malvagio figliuolo gli fosse mutato in un angelo di bellezza e di bontà? Vuole il suo e l' ama sopra tutti gli altri personalmente. L' amor fisico è un terzo esempio d' amori di questa specie: gli amanti non vogliono amar altro che la identica persona cui consecraronsi, e vogliono essere amati nello stesso modo: indi la gelosia, cioè il timore che l' amor individuale personale dell' amante gli sia distratto da un amor ideale, cioè dai pregi che si trovano in altre persone. Ora ne' bambini l' amore che termina ne' pregi della cosa o persona (idealità) è intimamente congiunto all' amore che termina nella cosa stessa o persona sussistente; e degenera facilmente in un amore ove quest' ultimo elemento (amor dell' individuo reale) prevale e domina. A recare una prova di quel che voglio dire mi varrà il seguente fatto, narrazione d' una sagace osservatrice: [...OMISSIS...] Ogni madre, ognuno che di continuo ha sotto gli occhi dei bambini potrà testimoniare altri fatti simili, in cui il loro amore non termina a delle belle qualità delle persone, ma alla realità della persona stessa. Vero è che un tale amore nasce anch' egli in origine dall' amor ideale e universale, cioè dall' amore di qualità amabili o vere o supposte; perchè il cuore umano non può cominciare ad amar nulla se non sub specie boni , ma posteriormente degenera quell' amore e si corrompe: alle belle qualità si sostituisce la persona o la cosa dove quelle belle qualità o doti si son vedute o si costumano di vedere; da prima si crede che sieno così proprie di quella persona o cosa che non possano esistere altrove, ma in essa solamente; di poi si amano le belle qualità ancor più perchè sono in quella persona o cosa amata che se fossero tutt' altrove: e finalmente si ama la persona o la cosa sola per se medesima, foss' anco priva delle qualità che prima si amarono in essa, e le qualità medesime non si amano più se si rinvengono altrove collocate. Qui l' amore è divenuto sommamente immorale. Or poi si noti bene: quando io parlai dell' amore che ha per oggetto l' idealità, non parlavo tuttavia d' un amore che escludesse la realità. Se questo amore escludesse la realità, sarebbe un amore incipiente più tosto che formato: esso è l' amore che fu denominato platonico, e che non ha luogo ne' bambini e nè pure nel popolo: ma solo ne' filosofi naturali che giungono alle idee, ma non possono trapassarle, ossia compirle. Questa maniera d' amor filosofico, a cui veramente si riduce il meglio della naturale virtù, non entra ora nel nostro discorso. L' amor nostro che fu da noi descritto, dicemmo aver per oggetto l' ente nella e per la sua forma ideale. L' idea dunque, cioè il bene veduto nell' idea, è la regola secondo la quale si amano i sussistenti: questi si amano certamente, ma non meramente perchè sussistono, ma perchè sussistono con quelle doti e pregi che ce li rendono amabili. L' altra specie d' amore all' opposto, di cui parliamo, ama i sussistenti senza più; dimenticando le doti amabili, talor anco ad esclusione di queste. Ora, io so bene che questi soli preamboli ch' io fo a ciò che vo' dire, fanno in pure udendoli agghiacciare il cuore delle madri, delle spose, de' padri e de' mariti; ma io pur debbo dire il vero e a tutto anteporre la dignità dell' umana natura, la quale ampiamente ricatta il valor d' ogni affetto che per essa perdere si dovesse. Tuttavia parrò men crudele, ove s' aspetti il compimento di questo discorso. Esaminando dunque il valor morale de' due amori da noi distinti, convien fare le seguenti riflessioni. Il sentimento è ciò in cui consiste la realità. Un essere reale come tale, cioè in quanto è sentimento, non cerca che il reale, non ha attrazione ad altro, non inclina a congiungersi se non col suo simile, cioè con altro essere reale. Tutte queste tendenze, e se si vogliono così chiamare affezioni, sebben cieche, tuttavia finchè non eccedono la sfera del sentimento, non sono riprovevoli, ma più tosto in se sole considerate non hanno alcun prezzo morale, non appartengono nè a virtù nè a vizio, non son merito nè demerito; benchè abbiano un valore eudemonologico. Ma quando l' uomo intelligente, la persona morale dà loro un prezzo, allora esse diventano materia di moralità: se il prezzo loro dato dall' intendimento è giusto, la persona che le ha giudicate fece un atto di virtù; se è ingiusto, fece un atto riprovevole. Ora qual è il giusto prezzo che si dee dare a quelle affezioni? Nullo, per se stesse considerate: considerate però in quanto sono elementi di felicità, esse hanno un prezzo allor quando diventano premio della virtù. In questa loro relazione diventano giuste ed appetibili anco dalla persona morale. Ma quanto non è grande il pericolo che si stimino per se stesse indipendentemente da questa relazione ch' esse hanno colla virtù! - Ecco uno de' primarŒ fonti della depravazione umana. Lasciando dunque da parte le affezioni meramente sensuali e sentimentali, parliamo della moralità dell' amore razionale avente per oggetto il reale. Primieramente, il reale finito considerato da se solo senza veruna dote non si può concepire: egli è nulla, non presenta veruna base al nostro amore. Il solo reale infinito può come tale essere amato: egli solo E`. In secondo luogo, l' amare i reali finiti secondo il merito delle loro buone doti e qualità è certamente giusto. Ma in tal caso abbiamo l' amore di seconda specie illuminato dall' idea: un amore che non è esclusivo, ma che si espande a tutti gli oggetti, dove trova le stesse doti e qualità: un amore che non è immobile, ma che cresce e diminuisce secondo che crescono o diminuiscono quelle doti o qualità: finalmente un amore che non è eccessivo , ma compartito a misura de' pregi stessi. L' amore che ha per oggetto il reale di natura sua esaurisce tutte le proprie forze nel suo oggetto. In terzo luogo, tra l' amore del reale per sè e l' amore dell' ideale nel reale, avvi l' amore di beneficenza e l' amore di gratitudine; i quali sono pure regolati dall' idea . L' amore di beneficenza è quello che ama di produrre negli oggetti suoi le belle qualità e doti che si propone. Lo scopo adunque di questo amore è morale; perchè ama non propriamente il reale per se solo, ma la realizzazione delle qualità e doti e pregi che meritano d' esser amati (1). L' amore di gratitudine ama la beneficenza della persona amata, e però termina ne' suoi pregi. Ella brama ancora di restituire i beneficŒ ricevuti; ed anche questo sentimento è morale, perchè o vuol produrre nella persona benefica qualche pregio e suo perfezionamento, e in tal caso si riduce all' amore di beneficenza, o vuol darle qualche bene eudemonologico ed egli ancora è morale, perchè un bene eudemonologico dato per gratitudine è un bene dato in merito e premio dell' altrui buon' azione da chi l' ha ricevuta (2). In tutti questi casi l' amor del reale non manca, ma regolato dall' idea è l' amor sempre dell' idea realizzata, e però si riman libero, non rinserrato, non cieco, non esclusivo. Noi abbiam veduto fin qui quali sieno le cagioni che ristringano il cuore del bambino e limitino la sua benevolenza. Una importantissima regola di educazione sarà per tanto la seguente. « Usare tutti que' mezzi pe' quali la benevolenza del fanciullo rimangasi libera, illuminata, non esclusiva, ma universale ». La scienza pedagogica, quanto spetta all' infanzia, avrà toccato la cima, quando sarà giunta a determinare quali sieno tutti questi mezzi, sì negativi pe' quali al fanciullo si sottraggono tutte le occasioni di limitare i suoi affetti, sì positivi pe' quali si ottiene che il fanciullo distribuisca i suoi affetti con universalità e giustizia. Noi direm solo alle madri, alle nutrici, ai genitori che se in conseguenza di questa dottrina pare loro di perdere qualche cosa del desiderato amore de' loro bamboli, essi s' ingannano così credendo. Il risultamento non ne sarà che di cangiare un amore ingiusto con un altro amore giusto, un amore impetuoso sì ma perituro, con un amore pacato ma eterno, qualche carezza infantile con un rispetto profondo, il quale nell' istesso tempo che darà a' loro nati quella dignità morale che è l' altissimo bene dell' uomo, darà ad essi stessi sicurtà pienissima di attendere da' figli ogni efficace aiuto e sostegno in qualsivoglia vicenda della vita, in ogni loro età, e memoria ed onoranza oltre il sepolcro. Ma il principale tra tutti i mezzi positivi co' quali si possa mantenere e rendere universale e sapiente la benevolenza nell' uomo fin dall' ugne tenerelle, si è quello di volgere fin dall' infanzia il corso del suo cuore verso la prima sua origine, il Creatore. Iddio comprendente in sè tutto l' essere, dove ogni cosa, che è, è Iddio amante di tutte cose, perchè tutte le ha fatte e le fa, raccoglie in sè tutto il bene, a cui tenda ogni cuore; e nell' amore divino vi ha perciò implicito l' amore ordinato ad ogni cosa. Laonde egli è a questo fuoco che s' accende la benevolenza, e s' espande immensamente e si ordina tutt' insieme. Veramente invano volle Rousseau far credere che il culto della deità non foss' opera da lingua che chiama babbo e mamma. Anzi il tenero infante, quasi più vicino all' origine sua, egli pare che vi si rivolga con trasporto, che la ricerchi con ansietà, che la ritrovi più rattamente dell' adulto medesimo; ed appartiene assai più a Dio che all' uomo il comunicarsi all' anima semplicetta che sa nulla e che pure intende il suo fattore. Laonde avvenne quel che dovea: ed il sofista ginevrino del secolo scorso trovò di questo, nella sua stessa patria, pienissima confutazione (1). Già vedemmo che nella terza età il fanciullo, comincia a concepire l' idea di Dio: dunque egli può altresì volgergli amore, o più tosto non può non farlo. Se poi consideriamo che per tutti quegli che ammettono l' esistenza di Dio, Iddio è il nodo che stringe insieme l' universo, la ragione delle cose, il principio e il fine di tutto, il bene di ogni bene, il bene essenziale: chi non vede che questa idea di Dio per chi non vuol esser ateo o inconseguente dev' esser pur quella che domina, che ordina, che dirige tutte le altre? Chi non vede che da essa sola può prendere la sua unità, il suo principio, ogni sua luce l' educazione umana, e non men quella de' fanciulli che degli adulti, degl' individui che delle società, delle nazioni che dell' umanità intera (2)? Se dunque abbiam già fatto conoscere al nostro fanciullo il valore di questa voce Dio, insegniamogli tosto anche a indirizzare a lui tutti i suoi teneri affetti. Ho già detto che dando l' uomo a Dio tutti i suoi affetti non li toglie alle altre cose, perocchè queste in Dio stesso si riscontrano. Non fa altro che santificarli, impedire che trasmodino, renderli ad un tempo e più sublimi e perenni. Io voglio qui dire una parola alle madri ed a' padri cristiani: agli altri genitori la parola che dirò è inintelligibile e per ciò stesso insopportabile: chiudano dunque qui gli orecchi quanti non hanno ne' lor sentimenti tanta elevatezza, quanta è quella che nelle madri e ne' padri veramente cristiani non infonde la natura, ma la parola dell' Altissimo. A' piedi di questi è lucerna la legge di Dio: e però essi non s' atterriscono a consultarla. Veggano dunque in qual maniera questa legge determini gli affetti de' loro figlioli sì verso di essi che verso l' Essere supremo. Che cosa ordina la legge di Dio verso l' Essere supremo? - L' amore: eccone le parole: « « Amerai il Signor Dio tuo di tutto il cuor tuo e in tutta l' anima tua, e in tutta la mente tua »(1). » Che cosa ordina la legge di Dio a' figliuoli verso i genitori? - L' onore: eccone ancora le parole: « « Onora il padre tuo e la madre tua, acciocchè sii longevo sulla terra che il Signore Iddio tuo ti darà »(2) ». Perchè riserba l' amore a Dio e comanda l' onore a' genitori? Che cosa significa questa distribuzione d' affetti? Questa distribuzione d' affetti che fa la divina legge è direttamente opposta alla distribuzione che ne fa la natura; giacchè la grazia si trova in opposizione continua colla natura, essendo quella più ampia di questa nelle sue vedute e ne' suoi affetti, e contornandosi questa di limiti, cui quella rompe e trasporta. La natura dunque inclina l' uomo ad amare i suoi genitori; non tanto ad amare l' invisibile Creatore, ma più tosto ad onorarlo . Ma volle forse la legge divina condannare o l' amor naturale verso de' genitori, o l' onore verso la Divinità? - No certamente: ella volle soltanto impedire che le inclinazioni naturali non trasmodino e degenerino in corruzione. A tal fine all' onore verso Dio suggerito dalla naturale ragione congiunse e contrappose il precetto dell' amore ; e all' amore verso i genitori congiunse e contrappose il precetto dell' onore . Di più, all' onore verso Dio congiunse e contrappose l' onore verso i genitori; e all' amore verso i genitori congiunse e contrappose l' amore verso Dio. Così gli affetti naturali, contrabilanciati dai precetti divini, possono conservarsi senza eccedere e pervertirsi. Si consideri che ciò che è naturale non ha bisogno d' essere comandato, ma solo regolato . I genitori possono starsene pienamente tranquilli sull' affetto de' loro figli: la natura glielo garantisce: basta solamente ch' essi stessi colla loro rea condotta non vi pongano impedimento. Ma s' arricordino ancora (parlo sempre a' genitori cristiani) che relativamente all' amore della loro prole non è già che questo scarseggi, ma che da una parte ecceda, dall' altra che degeneri in tenerezze sterili, le quali, appunto perchè effetto dell' istinto, cedono poi a un altro istinto maggiore, l' egoismo. Contro al primo di questi due pericoli che rende l' amore de' loro figlioli immorale si guarentiranno, facendo che nel cuore de' loro fanciulli Iddio abbia un posto maggiore di essi, memori delle parole del Redentore: « « Chi ama il padre e la madre più di me, non è degno di me »(1) », e le altre che dimostrano come nella collisione iddio va preferito a' genitori: « « Se taluno viene a me e non odia il padre suo e la madre.... non può essere mio discepolo »(2) ». Contro al secondo pericolo si guarentiranno pure, se esigeranno dal fanciullo il debito onore alla loro autorità, fonte d' un amor rispettoso, di ubbidienza e di efficaci servigi: perocchè la legge di Dio tutto questo racchiude (3), ed è buon cambio verso a sensuali tenerezze. L' amore dunque verso i genitori vien migliorato inserendo in esso l' onore comandato dalla legge di Dio: questo determina qual debba essere la qualità e il modo di quell' amore: di che gravità, di che efficacia. Al modo stesso l' onore verso Dio vien migliorato e determinato dal comando che in esso dee esistere l' amore : non dee essere dunque nè un amore puramente esterno e materiale, nè un onore procedente da timor servile d' un' immensa potenza, ma si vuol essere un onore amoroso, pieno di confidente speranza: è il culto in ispirito e verità de' veri adoratori che, vogliosi di fare la volontà divina, trovano questa stessa in tutto ciò che fanno a vantaggio de' loro genitori, come pure di tutti gli altri uomini. Mi sia dunque permesso di dire che ogni usurpazione torna in danno di chi la fa; così i genitori cristiani, i quali più amano la loro prole, debbono vegliare su di se stessi (e forse niuno loro fin qui lo disse!), acciocchè non forse usurpando essi quel finale affetto che i figliuoli debbon dare a Dio solo, essi perdano anche quel legittimo che loro è dovuto e che a loro la divina legge tribuisce. Ma ritorniamo su' nostri passi. Il culto del bambino non può andare che dietro i passi che vien facendo in lui la cognizione dell' Essere supremo. Noi abbiamo accennato quale ella possa essere a questa età. Il culto che corrisponde alla medesima dee essere semplicissimo: affetti di amore e parole che lo esprimano. L' adorazione vien dopo: è un sentimento e un concetto più complesso: lo stesso dicasi dell' ossequio e del rendimento di grazie: essi appartengono alle età avvenire. Anco io crederei importante di dar tempo, acciocchè si sviluppi sufficientemente la grande idea di Dio nella mente dell' infante, prima di circondarla d' altre idee accessorie e d' altre religiose dottrine. Conviene che lo spirito del fanciullo si concentri nella maestà dell' Essere supremo; e quando egli è giunto a sentirla altamente questa maestà, quando il pensiero di Dio e de' suoi attributi domina in lui, allora tutte le altre idee religiose trovano in quell' idea una saldissima base su cui elle si edificano, un centro intorno a cui si aggruppano: la religione allora cresce, per così dire, quasi tempio augusto nell' animo dell' uomo. L' ordine delle intellezioni segna un' epoca fissa della mente: colla prima intellezione d' un dato ordine che faccia il fanciullo, egli entra in un nuovo stato intellettivo: gli si è aperto innanzi un campo immenso dove potrebbe spaziare senza trovare un confine, quando anche egli fosse limitato a quell' ordine a cui è arrivato, e non gli fosse dato di ascendere ad uno maggiore. Ma quando si voglia determinare il tempo preciso in cui la mente passa da un ordine all' altro, allora s' incontra un' estrema difficoltà. Primieramente non tutti i fanciulli fanno questi passaggi intellettivi agli stessi momenti. Di poi, anche trattandosi di determinare questi momenti in un determinato fanciullo, la cosa riuscirebbe difficilissima; perocchè e non si può accertare che il passaggio nasca sotto i nostri occhi, ed anco ove nascesse mentre il fanciullo forma l' oggetto della nostra attuale osservazione, egli facilmente ci sfuggirebbe, sia perchè quel primo atto d' un ordine superiore verrebbe fatto dal fanciullo in un modo sfuggevole, sia ancora perchè costa molto più di tempo e di sagacità all' istitutore l' analizzare gli atti della mente fanciullesca, che non costi al fanciullo il porli e il farli celeremente gli uni agli altri succedere. Sarebbe dunque impossibile il determinare in un trattato del Metodo, a qual tempo precisamente ciascuna età del fanciullo comincia, a qual finisce. E tuttavia non è inutile, anzi stimiamo assai vantaggioso, il determinare questi periodi per approssimazione. La qual opera rimane ancora cosa difficile, e noi non possiamo tentarla che su quella poca esperienza che abbiam presa de' giovani. Speriamo tuttavia che l' esperienza altrui verrà in progresso di tempo correggendo e perfezionando il nostro tentativo, forse il primo di questo genere. Diremo qual principio abbiam seguito e quale intendiam seguire nel compartimento delle età. Non avvenendo in tutti i fanciulli il passaggio d' un ordine all' altro d' intellezioni nello stesso momento, noi abbiamo preso a determinare questo passaggio, quel tempo entro il quale suole avvenire nel più de' fanciulli, e per accertarci sempre che questo sia avvenuto, abbiamo voluto averne un segno certo in qualche atto intellettivo che comunemente fanno i fanciulli, e che indubitatamente appartiene ad un ordine d' intellezioni. Così a segnare il principio della seconda età, abbiam presa la fine delle sei settimane; perocchè questo è il tempo in cui solitamente i bambini sorridono alle madri, primo segno certo di loro intelligenza. A segnare il principio della terza età, abbiamo preso la fine d' un anno; perocchè i bambini sulla fine dell' anno sogliono cominciare a parlare, e il parlare è un atto che appartiene certamente al second' ordine d' intellezioni. Ora medesimamente prenderemo la fine del second' anno a segnare il principio della quarta età di cui ci proponiamo a parlare in questa sezione, perchè nel terz' anno i bambini possono comunemente cominciare a leggere; e il leggere è indubitatamente un atto intellettivo appartenente al terz' ordine d' intellezioni. Da questa maniera che noi usiamo nel dividere le età, si vede: 1 che noi prendiamo gli ordini d' intellezioni per regola, secondo la quale compartire le età diverse; 2 che questa regola non è applicabile a determinare il tempo se non per approssimazione. Quando dunque diciamo che col secondo anno comincia la terza età del fanciullo e col terzo la quarta, non intendiamo mica di sostenere che avanti il secondo anno non abbia fatto il fanciullo nessuna intellezione di second' ordine, ma solamente che quelle sono da noi trascurate, perchè non osservabili ne' fanciulli comunemente. Così parimenti, quando facciamo cominciar la quarta età dal terz' anno, non vogliamo sostenere che non possa il fanciullo aver fatto anco prima di questo tempo qualche intellezione di terz' ordine; ma cominciamo al terz' anno a parlare di quest' ordine d' intellezioni, perchè cominciano allora queste intellezioni ad apparire comunemente ne' fanciulli non equivoche nè sfuggevoli di soverchio. Questa è avvertenza che vogliamo aver data una volta per sempre; la quale il lettore applicherà a tutte le età successive della vita che ancor ci restano da percorrere. Laonde quando anche il fanciullo passasse il terzo anno senza ascendere ad un nuovo ordine d' intellezioni, non continuerebbesi men tuttavia lo sviluppo di tutte le sue facoltà, quantunque limitate a non muoversi fuori del confine segnatole dal second' ordine d' intellezioni. In ciascuno degli ordini precedenti: 1 si aumenterebbe il numero delle intellezioni; 2 le intellezioni stesse si perfezionerebbero, ripetendosi e ricalcandosi nello spirito, traendo in atto una maggiore attenzione dal fondo di questo, e fondendosi nel sentimento universale che sempre esse cagionano, e che è principio di nuova attività. Questi due progressi del numero e della perfezione delle intellezioni avvengono entro ciascun ordine delle medesime, e non si debbono perdere giammai di veduta da chi vuol tenere dietro allo sviluppamento umano. Ma noi vogliamo averlo detto qui una volta, acciocchè il lettor lo applichi in ogni età a tutte le intellezioni degli ordini precedenti. A paro colle facoltà passive dell' intendimento procedono pure le facoltà attive della volontà: e con quelle e con queste va di conserva lo sviluppo di tutte le facoltà animali, che tutte si vanno vestendo d' abitudini diverse di forza e di qualità. Come le intellezioni di second' ordine sono quelle che hanno per loro oggetto i rapporti delle intellezioni del primo ordine tra loro, o coi sentimenti che l' uomo ha anteriormente al second' ordine (1); così parimenti le intellezioni del terz' ordine sono quelle che hanno per loro oggetto i rapporti che hanno le intellezioni di second' ordine tra loro, o tutto ciò che v' ha nell' uomo di pensiero e di sentimento precedentemente a loro. Le intellezioni dunque del second' ordine si dividono in due classi: I Classe delle intellezioni del second' ordine; quelle, che hanno per oggetto i rapporti delle intellezioni di primo ordine tra loro. II Classe delle intellezioni del second' ordine; quelle, che hanno per oggetto i rapporti delle intellezioni di primo ordine coi sentimenti che sono nell' uomo. Le intellezioni del terzo ordine essendo quelle che fa lo spirito mediante una riflessione sulle intellezioni del second' ordine, si complicano alquanto di più; e si dividono nelle classi seguenti: I Classe delle intellezioni di terz' ordine; quelle, che hanno per oggetto i rapporti (1) delle intellezioni (2) di second' ordine tra loro. A. - Rapporti della prima classe delle intellezioni di second' ordine tra loro. B. - Rapporti della seconda classe delle intellezioni di second' ordine fra loro. C. - Rapporti tra le intellezioni della prima classe, e le intellezioni della seconda classe, sempre di second' ordine. II Classe d' intellezioni di terz' ordine; quelle che hanno per oggetto i rapporti delle intellezioni di second' ordine colle intellezioni di prim' ordine. A. - Rapporti della prima classe d' intellezioni di secondo ordine colle intellezioni del primo ordine. B. - Rapporti della seconda classe delle intellezioni del secondo ordine colle intellezioni di prim' ordine. III Classe d' intellezioni di terz' ordine; quelle che hanno per oggetto i rapporti delle intellezioni di second' ordine coi sentimenti ad esse precedenti. A. - Rapporti della prima classe d' intellezioni del secondo ordine coi sentimenti antecedenti. B. - Rapporti della seconda classe d' intellezioni del second' ordine coi sentimenti antecedenti. Questo specchio dimostra che tutte le classi delle intellezioni di terz' ordine già crescono al numero di sette; il che non è piccola prova dell' immensità dell' umano pensiero, e del labirinto ch' egli è a volerlo percorrere e rilevarne il disegno. E posciachè ci recherebbe troppo a lungo il dar qui un esempio di ciascuna delle sette classi, mi restringerò a porgerne uno solamente dell' ultima, dove gli atti dello spirito umano più che nell' altre si complicano. Se io ricevo le diverse sensazioni che una rosa può darmi mediante i diversi miei organi, io insieme colle sensazioni mi formo di essa la percezione intellettiva (1 ordine d' intellezioni). Ora, se dopo di ciò di notte sentomi ferire le nari da un odore di rosa, io da quest' odore posso argomentare all' esistenza della rosa in vicinanza al mio naso: argomentazione che fo in riflettendo sul rapporto che la sensazione odorosa ha colla passata mia percezion della rosa: e che perciò appartiene alle intellezioni di second' ordine (2 classe). Ora poi se io continuo a riflettere su questa rosa, di cui ho argomentato l' esistenza, e riflettendo di nuovo argomento meco medesimo che « se qui v' ha una rosa, son certo che in essa vi hanno anco delle spine, le quali mi cagioneranno dolore, se colle dita io la stringo »; io formerò con ciò delle intellezioni di terz' ordine, e tra le intellezioni di terz' ordine una di quelle dell' ultima classe, perchè congiungo mediante la riflessione la rosa invisibile (intellezione di second' ordine) con un mio sentimento, cioè il dolore. Ora, se noi volessimo tener dietro a tutte le classi in cui si divide il terz' ordine d' intellezioni, e più ancora gli ordini successivi, saremmo infiniti. Omettiamo adunque, per non dipartirci dallo scopo di quest' opera, un lavoro sì vasto, benchè utilissimo, lasciandolo agli avvenire, e cerchiamo di prescriverci quinc' innanzi un piano più semplice ma regolare nell' esposizione de' gradi di sviluppo intellettivo che di mano in mano fa l' uomo, a cui possiamo riscontrare quel metodo che più s' avviene. In prima, in ciascuno degli ordini d' intellezioni, di cui avremo a parlare in appresso, cominceremo dal divisare diligentemente le varie classi nelle quali quell' ordine si parte, affine di presentare agli occhi del lettore una cotal tavola, dove rilevi e l' estensione di quell' ordine ed i confini e la varia complicatezza di ciascuna delle intellezioni che gli appartiene. Dopo di ciò, lasciando da parte quest' abbozzo di maggiori ricerche, noi prenderemo a considerare tutte in corpo le intellezioni di quell' ordine, seguendo il seguente progresso. In prima parleremo delle operazioni dello spirito colle quali si formano le intellezioni di quell' ordine di cui si tratta: di poi parleremo degli oggetti di quelle operazioni, cioè delle cose che noi per esse siam venuti a conoscere. Ora poi, quanto agli oggetti conosciuti, questi o sono idee elementari (1) comuni a tutte le conoscenze, ovvero sono conoscenze appartenenti all' una o all' altra delle tre nostre supreme categorie, in cui consideriamo partite tutte le cose che cadono nel pensiero o che sono. Riassumendo adunque, lo schema seguente presenterà agli occhi de' lettori il metodo che noi terremo trattando di ciascun ordine d' intellezioni, e giova non poco averlo presente, quasi carta geografica, affin di conoscere il cammino che noi facciamo. A. Operazioni, colle quali lo spirito si forma le intellezioni d' un dato ordine. B. Oggetti di quelle operazioni intellettive. I Comuni o idee elementari. II Categorici, cioè: 1 Reali e ideali; 2 Morali. In quest' età del fanciullo adunque le operazioni, alle quali la mente sua si fa idonea, sono i giudizi sintetici (1). E veramente essendosi formato il fanciullo nella terza età degli astratti di cose sensibili, per esempio, del colore, del sapore, o almeno certamente del bene e del male sensibile; egli è in caso di servirsi di questi astratti come di altrettanti predicati che aggiunge ad un soggetto, e perciò egli è nel caso, al cadergli sotto gli occhi d' un cibo, di dire: « Questo è buono »; ovvero: « questo è cattivo ». Si noti qui bene il progresso della mente fanciullesca. Io ho confutati i giudizi sintetici a priori di Kant (2); ma nello stesso tempo ho ammesso anch' io un giudizio sintetico a priori , ma un solo: quello che ho chiamato la sintesi primitiva o la percezione. Ho dichiarato a priori questo giudizio primissimo, col quale l' uomo dice seco stesso: « qualche cosa esiste », perchè in esso il predicato è l' esistenza , che non viene dall' esperienza, ma che è intuito con un atto interiore dello spirito. Questo giudizio sintetico a priori è l' operazione corrispondente al prim' ordine d' intellezioni. Ma tostochè lo spirito ha percepite le cose, egli esercita sulle sue percezioni e sulle memorie delle medesime de' giudizi analitici (1), cioè scompone le sue percezioni e memorie delle medesime. Veramente la scomposizione delle percezioni nasce in due modi: il primo nel modo naturale, onde avviene che la mente contempli la sola idea della cosa senza attendere al giudizio sulla sua sussistenza. Questa scomposizione dell' idea dal giudizio sulla sussistenza, che avviene naturalmente, non è un giudizio analitico; perchè nulla si giudica con essa: la sussistenza e l' idea sono cose eterogenee che si dividono da sè: lo spirito non fa che limitare la sua attenzione piuttosto all' una che all' altra di quelle due cose già per natura disparate. Il secondo modo di scomposizione si fa artificialmente sulle idee imaginali, traendosi da queste un loro elemento, e questa operazione è un vero giudizio analitico, perocchè è una vera scomposizione d' un' idea sola in più. Ed è il linguaggio quello che aiuta la mente, come abbiam veduto, a ciò fare; e sotto questo aspetto compete alle lingue la denominazione di metodi analitici data loro da Condillac. Tal è l' operazione che corrisponde al second' ordine d' intellezioni. Vedesi da ciò che con tale operazione appartenente al second' ordine la mente umana acquista de' nuovi predicati . Da principio essa non avea che quello innato nello spirito dell' esistenza, il quale gli servì a fare i primi suoi giudizi sintetici. Questi diedero materia ai giudizi analitici che susseguirono. I giudizi analitici fornirono alla mente de' nuovi predicati che, potendo esser congiunti ad altri e altri soggetti, diedero possibilità alla mente di fare dei nuovi giudizi sintetici. Perocchè se io già so, a ragion d' esempio, che cosa sia il bene e il male sensibile, al vedere un cibo del tutto simile nell' apparenza a quello che altre volte tornò gradevole al mio palato, io posso unire il predicato buono coll' oggetto da me veduto, pronunziando il seguente giudizio sintetico: « questo è buono », ovvero: « ciò che veggo è buono ». Non si dee mica qui confondere il giudizio sintetico, pel quale io dico: « questo è buono »colla semplice apprensione sensibile che si manifesta anche nell' animale, attesa l' associazione che nasce in lui delle varie sensazioni. Se il cane trema d' allegrezza al solo vedere presente il cibo che pure non può prendere ancora, non fa egli un giudizio: solo la vista del cibo gli desta il fantasma del grato sapore altre volte da lui provato e gli suscita l' affezione e l' azione corrispondente (1). Giudizio non si dà, se non in un essere il quale intuisca il predicato da sè solo (astratto), e poi lo congiunga al soggetto, cioè a dire vegga lo stesso predicato in un soggetto. Appartiene adunque al terzo ordine d' intellezioni la seconda fila de' giudizi sintetici. E prima di passar oltre non dee riuscire inutile l' accennare qui la legge universale cui seguita lo sviluppo dello spirito umano, la quale si è la seguente: « I giudizi sintetici ed i giudizi analitici si avvicendano per siffatto modo che se noi disponiamo in una serie i diversi ordini d' intellezioni, i numeri dispari dei medesimi sono formati da altrettante file di giudizi sintetici, e i numeri pari sono formati da altrettante file di giudizi analitici ». E che la cosa debba riuscire a questo è per sè manifesto: conciossiachè non si può scomporre se non quello che hassi prima composto. Laonde alla composizione dee susseguire la scomposizione, e alla scomposizione dee susseguire la ricomposizione, e così di mano in mano sempre procedendo. Questi ordini d' intellezioni adunque, i quali si formano mediante composizioni ovvero sintesi, danno allo spirito de' nuovi soggetti da analizzare, e quegli ordini d' intellezioni che formansi mediante scomposizioni o analisi, arricchiscono la mente di sempre nuovi predicati che sono atti ad essere sintesizzati, cioè uniti ad altri soggetti. E tuttavia oltre i giudizi sintetici proprŒ della quarta età del fanciullo, continua il fanciullo ad esercitare anche l' analisi . Già abbiamo notato che le operazioni dello spirito che cominciano nelle età inferiori continuano poi nelle superiori senz' interruzione, aumentando i loro prodotti di numero e di perfezione, il che complica sempre più lo sviluppo dello intendimento umano. Tuttavia si dee aggiungere, che all' analisi e all' astrazione vien data in ogni età nuova materia, perchè l' analisi del pensiero scompone tutto e continuamente, e perciò anche quello che è stato prima scomposto. Avvi certamente rispetto ai pensieri quella stessa divisibilità all' infinito, che si ravvisa nella scomposizione della materia, ond' è che sono vani gli sforzi di tutti quei logici che hanno voluto ridurre tutto lo scibile ad idee assolutamente elementari. Di qui poi scaturisce un' altra conseguenza ed è, che sebbene l' analisi appartenga al second' ordine d' intellezioni, tuttavia certi suoi prodotti sono proprŒ del terzo, e innanzi questo non si potrebbero avere, e lo stesso può ripetersi d' ogni altro ordine d' intellezioni superiore, di maniera che ad ogni ordine intellettivo l' analisi contribuisce qualche cosa del proprio lavoro. Le prime astrazioni che si fanno dal bambino sono le qualità sensibili degli enti, cioè il buono sensibile, il male sensibile, ecc.. Queste qualità non sono finalmente che effetti prodotti dagli enti nella nostra facoltà di sentire. Egli è naturale che il bambino da principio non può mettere la sua attenzione che in quel che sente, giacchè ciò che non sente non esiste ancora per lui. Ma tostochè egli giunge a mettere tra di loro in armonia le sensazioni de' suoi varŒ organi e a ricever l' una di esse come annunzio d' un' altra, ad aspettar questa, perchè gli è venuta prima quella, ecc., egli con ciò un po' alla volta giunge a porre la sua attenzione anche sulle azioni degli enti e ad astrarre queste da essi, sempre mediante il linguaggio, cioè mediante i verbi che segnano appunto l' azione delle cose. Mi si permetta qui d' aggiungere ancora le osservazioni d' una madre sulla maniera onde il bambino, mediante il linguaggio, giunge a formarsi gli astratti delle azioni. [...OMISSIS...] Queste osservazioni sono piene di verità, e di sagacità non comune. I giudizi sintetici di questa età sogliono essere la conseguenza d' un raziocinio catatetico , che si forma nella mente del fanciullo. A ragion d' esempio, quando il fanciullo giudica buono il cibo che vede prepararglisi, egli concepisce nella sua menticina un discorso, che, se potesse essere espresso in proposizioni, prenderebbe questa forma. « Ciò che veggo adesso è uguale a ciò che ho veduto altra volta, ma ciò che ho veduto altra volta era buono al mio palato e al mio stomaco; dunque ciò che vedo è buono al mio palato e al mio stomaco ». E` ben lontano il nostro fanciullo da poter esprimere tali proposizioni, ma la sostanza di esse passa indubitatamente pel suo spirito. Or poi, se il bambino della età accennata può fare dei raziocinŒ catatetici, e così salire al terz' ordine d' intellezioni; egli non potrebbe però ancora concepirne di ipotetici, o di disgiuntivi , perocchè i raziocinŒ di queste due forme esigono la maggiore composta di due predicati confrontati insieme, dei quali l' uno suppone l' altro, o l' uno esclude l' altro. Ora egli ha bensì de' predicati , ma per confrontarli tra loro e trovarne il rapporto dovrebbe salire ad un ordine più elevato d' intellezioni, come vedremo nelle sezioni seguenti. Or quali sono dunque gli oggetti, che l' uomo viene a conoscere colle operazioni indicate del terz' ordine? - Noi parleremo di alcune classi principali di tali oggetti, e prima dei reali, poi degl' ideali, e finalmente de' morali. Cominciamo dai primi. Fra gli oggetti reali dobbiamo in prima esaminare il progresso che fa lo spirito ne' concepimenti di collezioni. Gli astratti , e le idee collettive furono confuse insieme da' sensisti, e dagli Scozzesi, ma differiscono tra loro interamente (2): gli astratti sono il fondamento delle collezioni, ma non sono le collezioni. Io non potrei avere l' idea collettiva d' una mandra di pecore, se non avessi prima l' idea astratta della pecora, in cui ciascuna pecora della mandra conviene; perocchè la collezione non è che una moltitudine di cose sotto un certo rispetto uguali. Vediamo dunque per quali passi lo spirito si forma i concetti delle collezioni. Al primo vedere di più cose, che fa il fanciullo, o al primo sentirle contemporaneamente, egli non si forma già l' idea di collezioni, nè di pluralità, nè di differenze. Concedendo che il suo intendimento si mova alla percezione , e concedendo però che quelle sensazioni non rimangano meri fenomeni sensibili; non ne viene ancora che l' intendimento acquisti alla prima i concetti indicati di moltiplicità ecc.. Ciò che soltanto si può osservare si è questo, che, allorquando il fanciullo vede due cose a sè presenti, egli ha una percezione diversa d' allora che vede una cosa sola. Da ciò ne viene che il fanciullo distingua nel primo caso due oggetti, nel secondo un solo; egli non distingue se non due percezioni diverse, di cui non sa ancora farne l' analisi; la moltiplicità è tale per chi sa distinguere e separare le unità che la compongono; ma quando queste unità si percepiscono a un tratto e, come diceva la Scuola, « per modum unius », la mente allora non concepisce alcuna collezione. La diversità tra la percezione di un oggetto, e la percezione di più oggetti fu ciò che trasse in inganno Bonnet, al quale parve d' avere un fondamento per dire, che « « le idee di collezioni si formano dall' azione degli oggetti sensibili sui nostri organi, come si formavano pure, a suo credere, le idee semplici »(1) ». All' incontro concedendo noi, che l' impressione che ricevono gli organi del bambino alla vista d' un branco di pecore sia grandemente diversa da quella, che riceve dalla vista di una pecora, neghiamo al tutto che la diversità consista nell' essere quella un' impressione rispondente ad un' idea collettiva, e questa un' impressione rispondente ad un' idea di cosa unica: anzi esse sono due impressioni semplici, l' una più variegata dell' altra, ma che non dà allo spirito ancora alcuna vera idea di collezione. Si vede in questo errore di Bonnet, che questo filosofo non conobbe la vera natura delle idee collettive, nè credette necessario d' investigarla; ma osservata la differenza dell' impressione che fanno le collezioni di cose dall' impressione delle cose singole, ne dedusse che in questa differenza d' impressione consistesse appunto la natura dell' idea collettiva. Nè il sistema de' sensisti poteva difendere la mente dall' errore preso da Bonnet; perocchè in questo sistema non essendo essenzialmente separata la sensazione dall' intellezione, era impossibile l' accorgersi, che l' intendimento non percepisse ad un tratto quanto vi ha nella sensazione, ma soltanto un poco alla volta. Noi abbiamo veduto (1) che l' intendimento da principio non percepisce che la forza del corpo, dove ravvisa l' ente; e che solamente da poi colloca la sua attenzione sulle qualità sensibili dell' ente, le quali per buona pezza rimangono nel senso, sentite bensì dal soggetto, ma al soggetto ignote. Di più abbiamo veduto che l' intendimento con ogni suo atto percepisce il menomo possibile; cioè a dire percepisce solamente quel tanto dell' oggetto sensibile, che è costretto a percepire dal suo bisogno, che è lo stimolo che lo fruga e sveglia a' suoi atti; e nulla affatto di più. Quando anche adunque le due sensazioni di una collezione di cose e d' una cosa sola potessero prestare la materia all' intendimento per giungere a comporci l' idea di collezione e l' idea di cosa unica, non ne verrebbe mica di conseguenza che l' intendimento anche si componesse, di fatto e tosto, tali idee; ma anzi solamente allora, che nasce al soggetto intellettivo il bisogno di esse e non prima. E in ogni caso rimane al filosofo il dovere di descrivere tutto il processo delle operazioni che va facendo l' intendimento, quando dalla materia datagli da' sensi giunge effettivamente a lavorarsi e comporsi quelle idee. Egli è dunque questo che a noi conviene ora investigare. Egli è certo intanto che l' analisi d' idea di una collezione somministra per risultamento: 1 che questa idea suppone, che chi la ha sappia che cosa sia unità; 2 che sappia che più unità sono insieme adunate nello stesso spazio; per restringerci ora a questa specie di collezioni, come quelle, che sono più facili. Questa seconda notizia ne racchiude poi un' altra, cioè l' uguaglianza sotto un certo rispetto delle unità componenti la collezione; conciossiachè se più cose fossero in tutto e per tutto differenti tra loro, niuna collezione più formerebbero (1). Ora non è già a credersi, che il concetto dell' unità nella forma astratta, che vien significata nella parola, si formi assai presto nella mente del fanciullo. L' uno ideale esiste implicitamente nell' ente , che è il lume naturale della mente, e perciò il fanciullo lo suppone e l' adopera; ma senza porvi sopra attenzione, appunto perchè non ha bisogno d' un' astrazione così elevata. Nondimeno, allorquando egli sente a nominare (ed è ancor qui il linguaggio che aiuta la sua mente) un oggetto, due oggetti, ecc., egli arriva dopo qualche tempo ad accorgersi, che i due oggetti sono l' oggetto stesso ripetuto. Il fare coll' intendimento il giudizio seguente: « Questi oggetti, che io vedo sono due », è un' operazione complicata. Noi possiamo considerarla primieramente come un' analisi di quell' unica impressione sensibile, nella quale gli si rappresentano i due oggetti. La mente ritorna sopra questa impressione, la percepisce, e in essa distingue un oggetto dall' altro. Ma a far questo conviene che la mente abbia sentito a pronunciare il nome comune de' due oggetti, supponiamo il nome pera ; conviene, che abbia sentito ad applicar questo nome all' uno e all' altro oggetto, e che abbia compreso, che questo nome significa ciò che quelli oggetti hanno di comune; conviene, che la qualità comune de' due oggetti l' abbia nella sua mente legata a quel nome, e perciò stesso astratta dagl' individui. Nè si può dire, che perciò l' intendimento sia giunto ancora a formare il giudizio: « Questi oggetti sono due ». Conciossiachè la qualità comune, che restò nella mente legata al nome, non suppone alcuna dualità perchè è unica, e l' esser venuta da più oggetti non induce la necessità che anche la pluralità di questi oggetti sia restata nella mente, potendo aver ciascuno di essi deposto nella mente l' elemento comune senza che la mente li abbia considerati insieme, e abbia notato il rapporto numerico che hanno tra loro. Ma quando il fanciullo da una parte ha la qualità comune nella mente sua legata al nome, poniamo di pera , e dall' altra sente ripetersi agli orecchi la parola una pera, due pere, e vede questi oggetti presenti, allora egli finisce coll' assegnare un senso alle parole uno e due , e a fermare la sua attenzione sull' unità e sulla qualità delle pere. Laonde se noi consideriamo questo processo di operazioni, colle quali la mente giunge a concepire la dualità degli oggetti, noi facilmente ci accorgeremo che non può il fanciullo giungere a tanto se non arrivato al terz' ordine d' intellezioni. E infatti la qualità astratta appartiene al second' ordine, come abbiamo veduto. Il riflettere al rapporto numerico che hanno due oggetti partecipanti la stessa qualità astratta, esige manifestamente una riflessione di più, cioè un' intellezione di terz' ordine. Ma qui gioverà, che seguitando il discorso accenniamo ancora il modo, pel quale la mente passa a concepire gli altri numeri superiori al due; il che sebbene ella faccia sollevandosi ad ordini d' intellezioni sempre maggiori, onde il discorso apparterrebbe alle sezioni seguenti, tuttavia l' unir qui tutto ciò, che spetta alla cognizione dei numeri, renderà la dottrina più lucida. Egli è dunque evidente, che pei numeri tre, quattro, cinque e tutti gli altri maggiori, hassi a fare un ragionamento in parte simile a quello, che abbiam fatto per ispiegare la concezione del due. Sono sempre necessarie le parole, che fissino nella mente il rapporto numerico, cioè la trinità delle cose, la quaternità ecc.. Di più egli è impossibile il passare a numerare tre oggetti senza numerarne prima due, come è impossibile giungere al concetto dei quattro, se prima non si è formato il concetto dei tre. Questo dimostra che ciascun numero appartiene ad un ordine d' intellezioni superiore (1); di guisa che la mente è costretta a salire per tanti ordini d' intellezioni, quanti sono i numeri di cui ella giunge a formarsi una distinta idea. E dico una distinta idea, perocchè non è mica da credere che l' uomo abbia un' idea distinta di ogni numero che egli pronuncia colla sua bocca. E chi è mai che abbia una idea distinta di un milione, e anche solo del numero mille? Io credo per lo contrario che convenga discendere a un numero sommamente piccolo per trovar quello di cui gli uomini, anche dotti, abbiano un' idea distinta propria, e non aiutata da qualche formola generale. E infatti io credo impossibile, che l' uomo avesse pur nel linguaggio i nomi di numeri altissimi, quando egli non avesse altra via di concepirli se non quella che abbiamo accennata, di analizzare cioè la percezione, ch' egli riceve dalle collezioni, numerando le unità in esse distinte, e però notando il rapporto della seconda unità colla prima, della terza colle due prime, della quarta colle tre prime, e così trascorrendo tutti gli ordini delle collezioni a cui i numeri appartengono. In vece la mente, come diciamo, s' aiuta con delle formole generali; che se non le danno l' idea propria e distinta d' un dato numero, le danno almeno un' idea di rapporto del numero ignoto con un numero noto, e la cognizione di questi rapporti determinanti i numeri è sufficiente per avere implicitamente l' idea del numero, perchè si ha gli elementi coll' uso dei quali possiamo trovare il numero stesso. Mi spiego. Se io non conosco per se stesso il numero mille, ma so però ch' egli è dieci volte il cento, nella cognizione del dieci e del cento io ho implicitamente la cognizione del mille. Che se io non conosco il numero cento, ma so però ch' egli è dieci volte il dieci, io nella cognizione del dieci e del suo rapporto al cento ho implicitamente la cognizione del numero cento. Che se di nuovo io non conosco il dieci per se stesso, ma so però che è due volte il cinque, io nella cognizione del due e del cinque e del loro rapporto col dieci ho implicitamente la cognizione del dieci. Che se finalmente non conoscessi nè pure il cinque, ma sapessi però che è un numero che si compone di due volte il due più l' uno; io nella cognizione dell' uno e del due, e del loro rapporto col cinque avrei implicitamente la cognizione del cinque. Or dunque, se io conoscessi l' uno e il due, e i rapporti detti cogli accennati numeri, direi che la cognizione dell' uno e del due è propria e distinta; e la cognizione degli altri non è una cognizione distinta e propria, ma è una cognizione implicita ed espressa in formole . Da questo esempio si vedrà facilmente che ad acquistarsi la cognizione de' numeri mediante formole, la mente giunge assai più celeremente che non sia ad acquistarsi la cognizione propria e distinta de' singoli numeri; giacchè nel descritto modo la mente giunge al mille con quattro passi, con quattr' ordini di riflessione, là dove per acquistarsi la cognizione propria e distinta del mille dovrebbe impiegare mille passi, superare mille ordini di riflessioni; cosa quasi all' uomo impossibile. Ora la scienza de' rapporti de' numeri è l' aritmetica, ed essa perciò è quella che spiana la via per la quale il fanciullo possa più facilmente giungere molto avanti nella cognizione de' numeri. Si domanderà forse qual sia la prima formola che trova naturalmente il fanciullo per avanzarsi nella scala numerica, e a qual ordine appartenga: ecco ciò che a me ne pare. Ritorniamo alla nostra percezione collettiva: il fanciullo vegga un drappello di trentadue soldati; e sia già pervenuto alla cognizione dell' uno e del due. La maniera più semplice colla quale possa giungere, se non ancora a contarli, almeno a trascorrerli, a dividerli l' uno dall' altro, sarà la seguente. La percezione sua del drappello da principio è unica. Ma egli è già atto a fissare l' attenzione sopra un soldato solo. Egli può accorgersi allora che quel drappello non è un soldato solo, perchè vede, oltre il soldato da lui distintamente osservato nella sua percezione, esister ancora qualche cos' altro ch' egli chiama due. Ma questo due è più simile alla percezione totale che all' unico soldato ch' egli mise da parte: può dunque ripetere la stessa operazione e cavar dalla frotta, che restagli, un altro soldato: egli può ripetere la stessa cosa fino che ha fatto passare ad una parte i soldati tutti. Dopo di ciò egli non sa ancora il numero de' soldati; ma gli ha trascorsi uno per uno: ha avuto sempre sotto gli occhi due corpi; ma ha capito che il numerare uno e due si può ripetere quante volte egli voglia: questa è una cognizione nuova per lui ed importante. Se egli volesse qui continuare a riflettere, potrebbe formare due coppie di soldati, e poi due altre di queste coppie, e così procedendo trovare il rapporto del due col trentadue, o sia avere l' idea del trentadue tutto espresso col solo numero due, la qual sua formola sarebbe 2 .per . 2 .per . 2 .per . 2 .per . 2 equivalente a trentadue. Quindi facilmente si vede come il numero due sia un passo immenso per la mente fanciullesca; giacchè questo numero è la base di tutta la numerazione e l' aritmetica primitiva; non potendovi esser numero alcuno che non sia un composto di uno e di due, presi questi numeri e i loro composti una o due volte. E questa importanza del numero due nelle umane cognizioni spiega, se non erro, perchè nelle lingue antichissime v' abbia una terminazione a posta pel duale , nè si confonda il duale col plurale, come si fa nelle lingue moderne. Egli è vero che il duale delle lingue antichissime si applica, il più, a quegli oggetti che sono due in natura come gli occhi, le labbra, le mani, i piedi, le macine, ecc.; ma ciò appunto dimostra la speciale attenzione che fece la mente primitiva sulle cose doppie, e come avendo potuto notare in esse il due, poi con questo ebbe aperto il campo a tutti gli altri numeri che indefinitamente li comprese sotto una sola terminazione plurale. Un altro prodotto delle operazioni intellettive del fanciullo in questa età sono i primi principŒ definiti che acquista la sua mente, de' quali si serve per giudicare. Conviene conoscere chiaramente che cosa sia un principio o sia una regola di giudicare: egli non è altro che « un' idea che viene applicata mediante un giudizio (1) ». Quando io al vedere un oggetto, giudico che è « una pianta »; io applico l' idea della pianta all' oggetto che veggo; e il mio giudizio non è che una proposizione colla quale io affermo che « ho riscontrato nell' oggetto veduto ciò che contemplavo in quella idea ». L' idea dunque della pianta è la regola che seguo in formando questo mio giudizio. Ciò conosciuto, apparisce che vi sono altrettanti principŒ quante idee (2): e che l' essere più ampŒ o più ristretti i principŒ non dipende se non dalla maggiore o minore ampiezza che hanno le idee che vengono applicate. L' uomo, la natura umana è formata da un' idea sola (intuizione dell' essere). Se non ne avesse alcuna non sarebbe un essere intelligente, conciossiachè l' atto caratteristico dell' intelligenza è il giudizio, e il giudizio non è che l' applicazione di un' idea. Quando adunque l' uomo comincia ad usare dell' intelligenza formando i suoi primi giudizŒ, egli non può farli che dietro l' unica idea che ha, quella di esistenza, ondechè prima di giudicare qualsiasi altra cosa, giudica che la cosa esista, ne pronuncia l' esistenza. Allorquando pronuncia intellettivamente l' esistenza d' una realtà applicandole l' idea (percezione intellettiva) quest' idea gli serve di principio . Fino adunque dai primi atti intellettivi l' uomo ha nella mente sua un principio secondo cui giudica; perchè ogni giudizio suppone una regola che si applica in giudicando. Tuttavia questo principio, secondo il quale l' uomo giudica che le realtà esistano (percepisce), è un principio indefinito e illimitato; perchè si applica egualmente a tutte le realtà sensibili; e questa sua indefinitezza è quella che la distingue da' principŒ definiti che, secondo me, non compariscono nel fanciullo, se non quando questi è giunto al terz' ordine delle sue intellezioni. E veramente nel primo ordine d' intellezioni non ci sono che percezioni e idee imaginali. Le percezioni non possono servire di principio per la loro particolarità, e lo stesso dicasi delle memorie di esse. Le idee imaginali potrebbero, essendo universali; ma non trovandosi più individui del tutto uguali, non hanno un' applicazione possibile. Oltre di che applicare quelle idee non si possono, se non ripetendosi le percezioni avute: or queste non hanno mai bisogno di quelle idee per loro regola, quando anzi esse sono il loro effetto. Il second' ordine poi somministra delle idee astratte, ma non fa più che somministrare queste alla mente, e preparargliele per le operazioni del terz' ordine d' intellezioni. E veramente, quando la mente applica a giudicar delle cose quelle idee ch' ella si procacciò nel second' ordine d' intellezioni, allora ella fa appunto di quelle operazioni colle quali si eleva al terz' ordine. Ora, questi principŒ sono definiti, perocchè le idee astratte e semi7astratte, che il second' ordine somministra, hanno tutte una limitazione, non abbracciano l' essere in tutta la sua estensione, ma diviso, e da certi confini più o meno estesi circoscritto. Le idee astratte di cibo, di cane, ecc., non si applicano a tutti gli esseri; ma servono solo a riconoscere tutti quegli enti che sono cibi, tutti quelli che sono cani, ecc. (1). Quelle idee adunque diventano principŒ più ristretti che non l' idea dell' essere in universale, nella loro applicazione. Dai principŒ che dirigono i giudizi teoretici, passiamo ai principŒ morali e pratici che dirigono le azioni del fanciullo. E` un errore il credere, che il bambino non abbia regole di moralità, un errore compreso nel pregiudizio comune e oltremodo antico, ch' egli non abbia uso di ragione, la qual ragione si fa dal volgo comparire nell' uomo tutt' all' improviso e quasi per incanto all' età di sett' anni. Tutto ciò che diciamo in quest' opera tende a distruggere questo tristo errore popolare. E quanto alle regole della moralità, noi abbiamo veduto che appariscono nel bambino fino dal second' ordine delle sue intellezioni. Queste regole primissime si riducono a due, e le abbiamo formolate così: 1 « Ciò che è bello, animato e intelligente, merita ammirazione ». 2 « Ciò che è bello, animato e intelligente, merita benevolenza ». Non è già che il bambino abbia idea del merito; ma sente la necessità, uscente dalla sua natura intelligente e morale, di ammirare e di amare quella cosa bella, animata e intelligente, che per le sue sensazioni egli percepisce, e colla quale vitalmente comunica. Qual modificazione soffrono queste regole intrinseche alla natura morale del fanciullo, quando questi giunge al terz' ordine d' intellezioni? Cessano esse? Perdono esse di forza? Se ne sopraggiungono delle altre? La natura morale dell' uomo non può perdere le sue regole primitive; sentirà ella sempre il bisogno di ammirare e di amare ciò che è bello, animato e intelligente: e ci vorrà una violenza, qualche cosa che la pervertisca, acciocchè ella cessi dal farlo. Ma egli è vero però, che al fianco di quelle regole primitive ne insorgono delle altre nell' animo umano. Ogni età, ogni ordine di intellezione ha le sue regole; il fine, l' essenza loro è la medesima, tendono tutte a prescrivere la stima e l' amore a ciò che è bello, animato e intelligente: ma esse conducono l' uomo a questo fine comune per diverse strade, gli parlano con un linguaggio sempre nuovo, conveniente al nuovo stato della sua mente: l' uomo crede di far guadagno di sempre novelle massime morali, quando infatti ella è sempre la stessa massima, immutabile, eterna, che prende nuove forme nel suo spirito che fa di sè nuove manifestazioni. Noi dobbiamo dunque tener dietro a queste manifestazioni, a queste espressioni sempre nuove del dovere morale che nella mente dell' uomo s' ingenerano ad ogni nuovo ordine d' intellezioni; ed è questo che noi vogliamo ora fare nel terzo di questi ordini. Quali sono dunque le regole morali del bambino giunto al terz' ordine d' intellezioni? Nel secondo l' ammirazione e la benevolenza è già nata in lui: queste volizioni, effetti delle regole primitive, al terz' ordine si cangiano esse stesse in regole morali. Le regole morali adunque pel nostro bambino al terz' ordine d' intellezioni sono le seguenti: Ciò che è conforme alla mia ammirazione è bene. Ciò che è conforme alla mia benevolenza è bene. Ciò che è contrario all' una e all' altra è male. Ciò che non è nè conforme nè contrario alla mia ammirazione e alla mia benevolenza, è indifferente. Queste regole morali che segue il bambino nella sua quarta età differiscono non poco dalle regole primissime ch' egli segue nella età anteriore. Noi abbiamo già veduto, che le persone che governano il bambino possono influire assaissimo sullo sviluppare e sul dirigere la sua ammirazione e la sua benevolenza; con questa influenza da loro esercitata con tutti i loro atti e con tutte le loro parole, possono restringere o allargare la benevolenza infantile, possono dar luogo nell' animo dell' infante alla malevolenza, ispirargli dell' avversione per certi oggetti, della propensione per certi altri; ed abbiamo mostrato quanto giovi, quanto sia necessario tener lontano da quell' animo la percezione e opinione del male, cioè del brutto, e dar opera perchè il semplice cuore s' empisca di benevolenza e di ammirazione, sicchè questi affetti conservino la maggior possibile universalità. Io credo che possa influir questo immensamente sul far prendere all' uomo un corso di vita morale e virtuoso, e giovi a prevenire le passioni a quell' età che sogliono dar all' uomo il più fiero assalto. Ma la felice influenza di quella primissima educazione morale si manifesta già tosto nell' età intellettiva susseguente. Perocchè da essa dipende che le regole morali, che si forma il fanciullo nell' età rispondente al terz' ordine, sieno vere o false, sieno conformi o diformi dalla natura delle cose, lo ingannino o lo dirigano rettamente. E in vero se queste regole sono le sopra accennate « Ciò che è conforme alla mia ammirazione o benevolenza, è bene; ciò che si oppone alla mia ammirazione o alla mia benevolenza è male ecc. »; egli è evidente che queste regole sono vere o false, rette o torte, secondochè la benevolenza e l' ammirazione del bambino è ben formata e ben ordinata; o vero mal formata e mal ordinata. La condizione dunque delle regole morali, ch' egli si forma, dipende dalla composizione che ha preso il suo animo nella precedente età. Si vede di qui l' importanza di procurare, che la prima forma, che prende l' animo suo, la prima mole di stima e di benevolenza che in lui si pone, sia tutta pura e naturale, non contraffatta, non alterata dall' arte, non avvelenata dall' ignoranza e dalla malizia; perocchè se le stesse regole morali del suo operare vengono contraffatte e falsificate dalla prima mala forma che prenda l' animo suo, come potrà camminar diritto quel fanciullo che ha dinanzi agli occhi delle regole false? Eziandio che volesse andar bene, non potrebbe. Si declama sovente dai genitori e dagl' istitutori sulla perversa indole de' fanciulli. Eh! quest' indole non è sempre in essi necessità fisica; qualche cosa d' innato: ella prende questa apparenza, perchè non si vede il lavoro occulto che è venuto formandosi di continuo nelle loro piccole menti, onde si è bel bello immensamente falsato il loro pensare: esistono nelle loro testicciuole dei principŒ falsi che essi seguono fedelmente anche prima di saperli esprimere, e di cui nessuno saprebbe spiegare l' origine: nessuno infatti gli ha forse loro insegnati; ma il loro spirito che non resta mai ozioso, e che si va sempre lavorando dei principŒ, osservando anche in ciò le sue leggi indeclinabili, venne pur componendosi e rassodandosi certe persuasioni profondamente false, che dirigono poi segretamente il fanciullo e cagionano gli atti, atti suoi, fino i più capricciosi ed inesplicabili; conciossiachè esse sono i soli fanali che mandano nell' animo suo quella luce fallace, alla quale camminando gli è forza aberrare. Nel nostro fanciullo non si può ancor parlare di libertà: le sue azioni appartengono alla spontaneità . Mirabili sono le leggi, colle quali opera la spontaneità sia meramente animale, sia intellettiva e morale: noi le abbiamo esposte nell' « Antropologia ». Fra le volizioni spontanee si distinguono le affettive , le apprezzative , e le appreziative . Nella seconda età, in conseguenza del primo ordine d' intellezioni, già cominciano nel fanciullo tanto le volizioni affettive quanto le apprezzative. Nella terza età in conseguenza del second' ordine d' intellezioni cominciano nel fanciullo le volizioni apprezzative in un modo più esplicato. Nella quarta età continuano a svilupparsi i due predetti generi di volizioni; ma non per anco comparisce il terzo genere, cioè le appreziative, perocchè avendo queste bisogno di paragone tra due o più oggetti, non si possono formare fino a tanto che non si è giunti non solo a numerare due oggetti, ciò che si fa nel terz' ordine d' intellezioni, ma ben anco a raffrontarli tra loro, e trovare le differenze, ciò che spetta al quart' ordine, come vedremo. L' aumento delle volizioni affettive e apprezzative che succede nel fanciullo, porta in lui una spontaneità sempre maggiore, una sempre maggior mole di attività effettiva. Questa spontaneità poi non essendo temperata e diretta dalla libertà colla quale l' uomo comanda a se stesso, si spiega in modo che lascia vedere l' indole e le leggi sue proprie. Io ho mostrato che le leggi principali della spontaneità sono due: 1 l' aver ella bisogno di uno stimolo, acciocchè venga suscitata all' azione; 2 suscitata poi, il produrre ella un' azione maggiore di quella che sarebbe proporzionata allo stimolo stesso (1). Questa soprabbondanza d' azione, parte è messa dall' attività dello spirito, parte dalla legge d' inerzia, per la quale « ciò che è già in moto si continua nel suo moto fino che questo non venga da altra forza distrutto ». Questa legge può osservarsi nell' attività de' fanciulli. Cercando noi sempre di raccogliere i fatti, e di sottoporli agli occhi del lettore come i soli documenti fededegni di quanto avanziamo, recheremo anche quello che venne osservato da chi non pensava certamente di venire in appoggio delle nostre dottrine. [...OMISSIS...] Un altro carattere dell' attività del nostro bambino è la sconnessione de' suoi atti volitivi, e delle sue azioni esterne che vengono in conseguenza di quella (1). Quando sia ammesso il principio che ogni attività nell' uomo viene da una passività precedente, e che in conseguenza tutta l' attività volitiva seguita le concezioni dell' intelletto, quella sconnessione di movimenti ed azioni esterne è spiegata appunto dalla sconnessione delle sue idee. Nella seconda età le concezioni che eccitano e dirigono l' attività intellettiva (2) sono le percezioni, ciascuna delle quali è indipendente dall' altra. Tuttavia la sconnessione di quell' attività non dà tanto negli occhi, perchè l' attività messa in moto nel fanciullo è ancor poca, ed il bambino giunge all' oggetto della sua attività immediatamente. Nella terza età l' attività del bambino si muove anco dietro gli astratti. Questi primi astratti sono tra loro divisi; e però anche l' attività riesce sconnessa, e tratta di qua e di là quasi da mille centri diversi. Comincia poi la sconnessione ad apparir maggiormente quando l' attività che si muove è maggiore. L' attività in questa età non giunge, come nella precedente, immediatamente al suo termine, l' oggetto reale che cerca, ma con un passo in mezzo, cioè colla mediazione dell' idea astratta. Nella quarta età ancor più cresce la mole d' attività che gioca nel fanciullo, e non v' ha tuttavia niente che la notifichi; conciossiachè i principŒ secondo i quali ella opera sono infiniti, cioè altrettanti quante le idee che vengono da lui applicate. Andando innanzi col suo sviluppo, queste idee si raggrupperanno, questi principŒ si renderanno lentamente più generali, ed allora anche l' attività dell' uomo verrà da se stessa e quasi per incanto ordinandosi, raccogliendosi e avvicinandosi sempre più all' unità. Intanto all' adulto riesce molesta quella versatilità fanciullesca, non l' intende, e vuole imporre al fanciullo di quelle regole che ottimamente presiedono ad una attività unita, ma che sono inutili ed inapplicabili ad un essere che non ha un' effettività sola, ma molte scucite l' una dall' altra, ciascuna delle quali non è suscettibile di quelle regole, e tutte insieme non esistono, perocchè l' una non sa dell' altra: indi una delle maggiori difficoltà dell' educazione (1). Vedremo più tardi come nell' attività del fanciullo irruisca la fantasia, e n' accresca la versatilità. All' attività sconnessa del fanciullo appartengono quei giochi dove avvi gran movimento e una successione d' impressioni sconnesse, ma sempre nuove. L' inclinazione ad esercitarsi in tutti i possibili movimenti si spiega anco cogl' istinti animali. Il movimento è piacevole e salubre all' animale, e i movimenti ch' egli fa non sono certo diretti da alcun principio di ragione, che in lui non si trova, ma ciascuno ha la sua ragione e determinazione nelle leggi dell' animalità. A que' movimenti che sembrano fatti a caso e unicamente per diletto, noi attribuiamo il nome di giochi, gli consideriamo in un aspetto burlevole, quasi tendano a far ridere. Tuttavia per l' animale non sono già scherzi più quelli che il prender cibo: tutto ciò che si riferisce al sentimento del riso, è a lui straniero. Ma il disordine capriccioso di que' gesti e moti ha per noi quel turpicolo improvviso che cagiona il riso. Vi ha il turpicolo in que' movimenti raffrontati a' movimenti ordinati della ragione, e vi ha l' improvviso ed inaspettato per la loro continua novità e apparente stranezza. Quello che è singolare si è che il fanciullo trova ben presto qualche cosa di bernesco ne' proprŒ giochi: egli ve lo trova di mano in mano che si sviluppa in lui la ragione; e divien per lui una nova cagione di diletto. Ride di ciò che fa egli stesso e che vede fare agli altri fanciulli: tuttavia egli non ride propriamente di se stesso, perocchè mai di sè non si ride. E` il segnale ch' egli riconosce della frivolità, della sconcezza nei suoi atti; e di questo segnale dee cavar profitto l' istitutore: egli dee coltivare e perfezionare la conoscenza che il fanciullo si forma da sè del poco accordo che passa fra i suoi trastulli e la sua dignità di essere ragionevole: e giovandosi di questa cognizione dee condurlo ad un contegno composto e regolato. Egli è dunque un errore l' applaudire a ciò che v' ha di ridicolo nelle azioni fanciullesche: i movimenti naturali possono essere permessi fino che la natura animale li produce, quasi direi all' insaputa della ragione: ma tosto che la ragione interviene e li giudica come piccole turpitudini, allora debbono incominciare a cessare; debbono rendersi cagione di un cotal sentimento di pudore. L' istitutore dee sempre allora aggiungersi alla ragione per darle forza, e mantenere le sue parti. Ai giochi di moto disordinato debbono succedere gli esercizi ordinati dell' arte ginnastica. I giochi poi che consistono in abbattimenti di casi sempre nuovi non sono conosciuti dalle bestie; essi sono proprŒ del solo uomo, il quale vi trova il diletto di appagare la sua curiosità, la voglia di percepire e di sapere le cose sotto tutti i loro possibili aspetti. Ho già detto che questi possono essere assai utili allo sviluppo dell' intendimento, se l' istitutore ne saprà profittare; e nelle sue mani si cangeranno in vere e ben ordinate e dilettevoli istruzioni di matematica. L' attività morale del fanciullo a questa età si spiega principalmente sotto le due forme, quella di diritto di proprietà e quella di ubbidienza . L' una e l' altra di queste due forme sono l' effetto della benevolenza e dell' ammirazione del fanciullo. Al primo ordine d' intellezioni egli non possedeva ancora, nè ubbidiva; ma ammirava ed amava. Egli aveva percepito degli esseri intelligenti e belli oggetti della sua affezione e della sua ammirazione, co' quali comunicava per mezzo della simpatia e dell' istinto d' imitazione; ma dei quali non intendeva ancora nè i pensieri, nè i voleri; si noti che la simpatia e l' istinto d' imitazione, che si manifestano nell' ordine dell' animalità, sono comuni anche all' ordine dell' intelligenza; di maniera che vi ha anche una simpatia ed un istinto d' imitazione intellettivo. Queste leggi comuni ai due principŒ, il sensitivo e l' intellettivo, sono quelle che mirabilmente si legano tra loro; e fanno sì che l' uno all' altro si continui, quasi direi, senza che se ne vegga la commessura (1). Ora tostochè il fanciullo apprezzò ed amò un oggetto, egli concepisce il sentimento della proprietà, cioè quell' oggetto acquista una cotale unione spirituale con lui, e da lui staccandolo se ne risente, come se gli si dividesse una parte di se stesso (1). Percepisce ancora le cose delle persone a lui care unitamente con queste, e però gli ripugna il veder trasportare gli oggetti da queste usate, non altramente che se essi oggetti formassero parte delle stesse persone. Da principio questo fatto ha per cagione la forza unitiva dell' animale (onde anche fra le bestie si notano de' fenomeni simili); poscia serve all' inclinazione della natura animale la volontà (volizioni affettive); in appresso l' intendimento percepisce anch' egli il vantaggio di contemplare le cose belle, e gliene duole se vengono sottratte alla sua contemplazione; in quarto luogo finalmente (e certo molto più tardi) l' intendimento perviene a conoscere gli usi delle cose e ad apprezzarle anche per questi; dietro al quale apprezzamento la volontà si affeziona ad esse di un nuovo amore men nobile del primo, dell' amor interessato. Di questi elementi viene successivamente componendosi a parte materiale del diritto di proprietà: la parte formale non può essergli aggiunta che dal dovere, dalla legge morale. Se nel primo ordine d' intellezioni il bambino percepisce il bello, nel secondo, in occasione di rimanerne privo, prova il doloroso sentimento della privazione; nel terzo astraendo le azioni delle cose comincia a pregiarle pe' loro usi, o almeno a ciò si va disponendo. Dallo stesso fonte dell' ammirazione e della benevolenza nasce come dicevo l' ubbidienza del fanciullo. L' ubbidienza non è in lui che il desiderio, la volontà di uniformare se stesso agli enti intellettivi divenuti oggetti de' suoi affetti. Da principio, come dicevo, egli si uniforma loro come può, cioè colla simpatia e colla imitazione animale intellettiva. Ma col second' ordine d' intellezioni imparando il linguaggio, egli acquista un nuovo mezzo di comunicazione della sua colle anime da lui stimate e care. Gli si comunica una nuova luce: vede dentro a quelle anime: discuopre in esse pensieri e volontà: trova con ciò nuovi lati, da cui poter se stesso a loro uniformare e acconciare. Queste scoperte egli le fa col linguaggio, che comincia ad apprendere col second' ordine delle sue intellezioni e continua cogli altri. Giunto dunque al terz' ordine già in possesso del linguaggio, di questa chiave dell' interno de' suoi simili, vede coll' uso di esso le loro opinioni ed i loro voleri. Conosciuti questi tosto incomincia a manifestarsi nel fanciullo la credulità e l' ubbidienza. La credulità non è altro in lui che il desiderio, la tendenza ad avere le stesse opinioni che hanno le persone colle quali usa. La ubbidienza parimente da principio non è altro che il desiderio, la tendenza ad avere le stesse volontà pure delle persone colle quali usa. In questa loro prima apparizione la credulità e l' ubbidienza del bambino nascono dunque dal bisogno, ch' egli sente di rendersi uniforme colle persone da lui conosciute. Questo bisogno di uniformità che sentono tra loro le anime tosto che si conoscono, è veramente cosa profonda, misteriosa: per darne una soddisfacente ragione converrebbe scendere nel religioso segreto dell' ontologica dottrina. Non è questo che possiam noi fare adesso: basterà che constatiamo bene i fatti. « Il primo fatto si è, che il bambino dà segni di stima e di affetto a qualsiasi persona che da principio gli sorrida »: egli allora è giusto, non avvi presso lui accettazione di persone, è un giudice, dinanzi al quale i nomi de' piaggiatori rimanendo celati, giudica con integrità « secundum allegata et probata »: la sua tendenza ad esser rispettoso e benevole è universale. Dunque nell' essere intelligente, nel fondo della natura, trovasi una cotale necessità primitiva di dare stima ed amore a qualsivoglia essere intelligente ch' egli conosca. Questo è il gran fatto sul quale come sopra saldissima base sta fondata tutta la moralità: rimetto il lettore alla teoria che noi n' abbiamo data (1). Se da questa necessità primitiva nascono gli affetti che il bambino dà alle persone conosciute; da questi affetti nasce pure la necessità di essere con esse perfettamente d' accordo. Si suol dire che « l' amore o trova simili le persone amate o le fa ». Si dee aggiungere con egual verità che « l' amore fa simile chi ama alla persona amata ». La ragione ne è manifesta: l' amore vuole unione, vuole unione sì stretta che tende ad una cotale immedesimazione. Ora l' unione che vuole l' amore, l' immedesimazione a cui tende non può aver luogo, se non mediante conformità di opinioni, per la quale uniformità due menti sono unite in una sentenza, e conformità di voleri, per la quale due cuori sono uniti nel medesimo voto, hanno il medesimo bene, il medesimo male, godono insieme quello, soffrono insieme questo, si muovono con un passo solo a quello e si rimuovono pure con un medesimo passo da questo. Ripeto che qui ci covano dei misteri, nei quali non voglio io ora entrare, ma dico solo che il fatto sta così; me n' appello a tutti, perchè non vi ha creatura umana, la quale non ami. Se noi vogliamo dare a questo fatto una espressione diretta e se vogliasi così chiamarla scientifica, potrà annunciarsi in questo modo: « Quando un essere intelligente e volitivo ne percepisce un altro qualunque, gli effetti che in lui naturalmente si manifestano sono i sentimenti della stima e dell' amore ». Questa è la prima parte del fatto: la seconda parte è quest' altra: « Quando un essere intelligente che n' abbia percepito un altro, cedendo alla legge della sua natura abbia ammesso in sè i sentimenti della stima e dell' amore, questi sentimenti portano in lui una morale necessità di uniformare le proprie credenze alle credenze (1) dell' ente conosciuto e i propri voleri ai voleri pure del medesimo, tosto che venga a conoscere quali sieno queste credenze e questi voleri »(2). L' idea di essere ingannato non può venire al fanciullo se non dall' esperienza; come pure dalla sola esperienza gli può venire l' idea che dall' aderire all' altrui volontà gl' incolga alcun male. Lo stesso concetto dell' errore o del male è posteriore a tutto ciò nella mente del fanciullo. Rimangono adunque in lui le due sole tendenze della credulità e dell' ubbidienza tutte semplici, da nessun sospetto turbate o represse, e però nella loro maggior forza: ecco il primitivo fondamento della facilità colla quale il bambino crede e ubbidisce: son tendenze naturali dell' essere intelligente, a cui il fanciullo cede, perchè niente si oppone alla sua spontaneità. Veniamo ora all' istruzione e all' educazione morale, che risponde all' ordine d' intellezioni fin qui esposto. Già il lettore ha inteso prima d' ora, che cosa noi intendiamo per « istruzione rispondente a un ordine d' intellezioni ». Nondimeno mi si permetta il metterlo oggimai in espressi termini, affine di togliere ogni equivoco od obbiezione al metodo che proponiamo. L' istruzione adunque rispondente ad un dato ordine d' intellezioni abbraccia tre parti bene distinte, le quali sono: 1 Quella istruzione che serve per accrescere alla mente del discepolo il numero e la perfezione delle intellezioni degli ordini precedenti. 2 Quella istruzione che serve per far passare la mente del discepolo dall' ordine d' intellezioni in cui si trova, a quello che gli è prossimamente superiore. 3 Quella istruzione che serve a esercitare e perfezionare il discepolo nella dottrina appartenente all' ordine nel quale la sua mente ha già posto il piede. La distinzione importante di queste tre parti basta a rimuovere il timore, che il metodo nostro potesse rallentare i progressi della mente umana: anzi non fa che indicare la via più diretta, più spedita, più soave, per la quale ad essa mente conviene naturalmente procedere. Quindi facilmente si può inferire, come la lingua e lo stile, che usano le persone che istruiscono il fanciulletto, dee variare ad ogni ordine di sue intellezioni. Perocchè nella lingua e nelle varie parti, di cui ella si compone, cade ben sovente il bisogno di usare un ordine di intellezioni assai grande; onde non tutti i vocaboli d' una lingua possono essere usati col fanciulletto ad ogni sua età; ma anzi quelle che non si possono classificare nelle tre parti indicate dell' istruzione a lui conveniente cioè o tra le intellezioni degli ordini anteriori, o tra quelle dell' ordine prossimo a cui può salire col primo passo della sua mente, o tra quelle di questo medesimo ordine a cui è già salito, sono vocaboli del tutto perduti, inintelligibili al fanciullo, e però attissimi a confonderlo, a turbare il progresso delle sue idee come le pietre turbano i passi di chi cammina, ed a rendergli però assai più malagevole l' intelligenza di quei vocaboli, che pur sono alla sua portata. Noi abbiamo veduto che al second' ordine d' intellezioni il bambino può intendere i nomi (1), al terzo i verbi, non però le declinazioni di quelli, le coniugazioni di questi, che troppe altre riflessioni esigono sui nessi delle cose: intende dunque il nome indeclinato e il verbo nel suo infinito e ne' participi, forme nelle quali il verbo è ancor nome ma esprimente azione. Chi dunque è arrivato al terz' ordine non potrà intendere se non quei vocaboli e quelle forme, le quali non suppongono che un solo ordine di più, quello a cui la mente dee sollevarsi, e nel caso nostro è il quarto. Si dovrà dunque cercare di comporre il discorso che si fa a' bambini di queste voci e forme per quanto è possibile; ed allora la comunicazione tra noi adulti ed essi sarà trovata, sarà apertissima. Lo stesso dicasi dello stile , lo stesso pure de' concetti che si esprimono nel discorso: conviene che o quello o questi non contengano intellezioni, se non tutt' al più di quart' ordine, e tali che si possano rannodare alle prime intellezioni degli ordini precedenti che sono già nella mente del fanciullo. Conviene che il fanciullo in ogni sua età operi . L' attività del fanciullo, abbiamo veduto, che è di tre specie: corporale, intellettuale, morale. Egli ha bisogno di tutte e tre queste specie di attività, colle quali si sviluppa, ma debbono essere guidate come conviene. Quanto alla quantità d' azione , non dee già esser soppressa l' azione naturale del fanciullo, nè eccitata; ma soltanto moderata quand' essa, eccedendo, recherebbe un danno alla sanità del fanciullo. Quanto alla qualità , dee essere alimentata quella, e non altra, che è proporzionata all' ordine delle sue intellezioni; e il difficile consiste appunto nel trovare giustamente quale ella sia. Quanto alla regolarità, si dee introdurre in essa due ordini: 1 L' ordine tra una specie e l' altra, che subordina e fa servire l' attività corporale alla intellettiva, e l' attività corporale non meno che l' attività intellettiva alla morale. 2 L' ordine entro ciascuna specie, in modo che in ciascuna attività si trovi quella uniformità, costanza, regolarità, e, per dire ancor meglio con una sola parola, ragionevolezza , che è possibile. L' ammaestrare e guidare in queste cose il fanciullo è veramente un educarlo. Sebbene, tosto che il bambino sa un po' favellare, potrebbe essere posto alla lettura; tuttavia io stimo da preferirsi il trattenerlo ancora nella scuola preparatoria dell' esercizio orale. Nell' esercizio orale si distinguono due parti, cioè la parte intellettiva e la parte meccanica . L' esercizio che si fa fare al fanciullo deve riguardare l' una e l' altra. Io ho già raccomandato, che fin dal secondo grado d' intellezioni si faccia fare al bambino l' esercizio di nominare più cose che sia possibile (1). Questo esercizio appartiene alla parte intellettiva, ed esso deve continuare ora e per molte ancora delle intellezioni che devono venire. Mentre poi allora non si poteva fare che co' nomi , in questa età e nelle susseguenti si può fare anco coi verbi (1) e coll' altre parti del discorso, osservando delle regole simili alle accennate. Ma ora egli è tempo di cominciare insieme anche l' esercizio meccanico e alternarlo all' intellettivo, e questo estenderlo via più. Questo esercizio meccanico è quello di rettificare la pronuncia de' bambini, e insegnar loro l' uso perfetto degli organi della favella. E in vero, dopo che i fanciulli hanno imparato qualcosa a parlare, la prima operazione è quella di rettificar bene i suoni che pronunciano, giacchè essi dapprima vi commettono molti difetti e imperfezioni; balbettano, smozzicano parole, strozzano suoni, scilinguano, ecc.. Onde innanzi di venire a farli leggere o scrivere si rendano perfetti nella pronuncia, facendo loro vincere le difficoltà delle sillabe più difficili. Al quale intendimento già si pose mente da' benemeriti promotori delle scuole infantili anco in Italia, e si conobbe che a tal fine è uopo far pronunciare « « nettamente e giustamente tutti i suoni elementari, di cui si compongono le parole intere (2) » ». Io credo che gioverebbe cominciare questo esercizio dal far emettere i toni musicali , prima secondo la scala naturale, di poi per li salti; i quali saranno già mezzi impressi nello spirito del bambino, se gli si fecero udire nelle età precedenti (3). A questo esercizio può tener dietro o intromettersi quello della pronuncia de' suoni vocali e articolati della favella. L' ordine nel quale si devono far pronunciare al fanciullo nostro i suoni elementari, parmi dover esser quello stesso, nel quale poi egli deve imparare a leggerli e scriverli. Ora a me sembra che devasi cominciare dalle vocali, e poi dai composti di vocali, appresso dalle sillabe che ciascuna altra lettera dell' alfabeto fa con ciascuna vocale, poi le sillabe di tre lettere, e così di mano in mano (1). Perfezionata la pronuncia di tutte le lettere, sillabe e parole, giova passare alla parte intellettuale dell' esercizio orale. Il far apprendere al fanciullo a nominare gli oggetti, come abbiamo detto, appartiene alla parte intellettiva. Appartiene pure a questa parte il fargli analizzare i suoni. Nel « Manuale » dell' Aporti ve n' ha un bell' esempio (2), solamente che non parmi che sia ancor tempo di parlare al nostro bambino di dittonghi o trittonghi, ma solo di pluralità di suoni; anzi parmi del tutto impossibile ch' egli intenda che cosa sia dittongo e trittongo, quando l' idea di due o tre suoni gli è facilissima (3). Così sarebbe impossibile, a mio parere, il fargli capire che l' ia in abbia è dittongo e non l' è in ubbi7a , e l' esempio recato dall' Aporti della voce ai così isolato non mostra che deva essere dittongo piuttosto che due semplici suoni, potendosi egualmente pronunciare ài, aì , ne' quali casi è dittongo, e à7ì separando le sillabe, nel qual caso non è dittongo, ma semplicemente doppio suono. Oltracciò, volendosi porre per base dell' educazione il procedere rigorosamente logico, parmi che non si deva dire che le consonanti divise dalle vocali abbiano un suono. Esse non sono suoni, ma cominciamenti o finimenti di suoni (1), i quali cominciamenti e finimenti non esistono senza i suoni stessi, come non esiste il punto senza la linea, o la linea senza la superficie, o la superficie senza il solido. Ciò posto, non parmi giusto che quando il maestro pronuncia la sillaba bi , e poi domanda al fanciullo: Quanti suoni avete udito? gli si faccia rispondere come nel « Manuale » dell' Aporti: Due suoni. Anzi egli deve rispondere: un suono solo; come risponderà da sè sicuramente, perchè quella sillaba è un suono solo. Bensì che, avutane questa risposta, gli si deve pronunciare prima i e poi bi, e domandargli se sono lo stesso suono. Egli risponderà che bi è un suono diverso da i . Allora gli si domanderà dove stia la diversità, se nel principio o nella fine del suono. - Nel principio. - E il suono ib è lo stesso suono di i, e di bi? - Anzi diverso. - Ma in che è diverso da i; nel principio o nella fine? - Nella fine. - E da bi? - Nel principio. E questo esercizio si deve continuare per tutte le sillabe. Conviene esercitare il bambino a scomporre le parole ne' loro suoni, cioè nelle loro sillabe, e nel riconoscere e notare le differenze loro (1). Questo esercizio orale sarà utilissima preparazione alla scuola di lettura che verrà appresso, e gioverà grandemente allo studio intellettivo del fanciullo (2). Giova ancora in questa età fargli numerare le cose uguali, acciocchè egli ascendendo per la scala dei numeri, si ecciti ad ascendere per le intellezioni di vari ordini. Nel che però egli da principio sembra mostrare più speditezza che non parrebbe doverne avere da ciò che per noi fu detto innanzi, che ogni numero è un ordine nuovo d' intellezioni. Ma la ragione di questa speditezza si è la formola semplicissima che egli tosto apprende per passare da un numero all' altro. Questa formola consiste nell' aggiungere sempre un' unità alle cose numerate. Egli ripete dunque la stessa operazione, e la segna con un numero nuovo. Quando dice uno e uno due, due e uno tre, tre e uno quattro, e così via, non ha mica per questo la distinta cognizione del due, del tre, ecc. che nomina e che distingue colle operazioni replicate; ma senza badare alla somma accumulata, egli vi aggiunge ogni volta l' unità, e poi vi dà un altro nome. Ciò non di meno anche questo solo è un esercizio utile al bambino; e a tal fine sarebbe da dargli prima due oggetti uguali, pallottole od altro, poi tre, poi quattro, ecc., lasciandoglieli a suo trastullo fino che si scorge esser egli venuto in possesso del numero che gli si vuol far apprendere. Altri esercizi sono indicati nel « Manuale » per le scuole infantili (1). A questa età ancora giova il mostrare al fanciullo le cose per imagini. Egli le ama, e se ne rallegra sommamente (2). Tra gli altri vantaggi, che cavar si potrebbe dall' uso delle imagini, vi sarebbe quello di disporre il fanciullo alla scuola di lettura e di scrittura che deve susseguire ben tosto. Sembra che la prima scrittura fosse per imagini: queste poi si raccorciarono in geroglifici: la scrittura letterale fu probabilmente l' ultima ad essere inventata. Fu già proposto di tenere il medesimo andamento col bambino; ma il difficile sta nel trovare imagini che, rattratte, si potessero convertire in altrettante lettere dell' alfabeto. Ancor più difficile riesce, se si esige che il nome dell' imagine porti nella prima sillaba il nome della lettera stessa, il che incredibilmente facilita ai bambini la lettura. Nondimeno io mi sono ingegnato di mettere insieme un sì fatto alfabeto ad uso delle scuole de' Fratelli della Carità, e delle Suore della Providenza, al quale rimetto il lettore (1). La moralità nei bambini fu giudicata diversamente: la più parte degli uomini non ve ne trova alcuna: alcuni osservatori sagaci vi scoprono una moralità, ma si dividono poi nel giudicarla; altri la vogliono bona e tutta bona; altri malvagia e malvagia per intiero. La ragione, onde i più non vedono moralità nell' età prime, si è perchè sono adulti quelli che ve la cercano, e vi cercano la moralità dell' adulto. Quello che abbiamo detto, crediamo che sia sufficiente a dimostrare che il bambino ha la sua propria moralità. Che nel bambino poi appariscano per tempo de' vestigi manifesti di un principio di errore e di disordine morale, questo è quello che hanno riconosciuto sempre tutti i savŒ uomini che hanno considerata la natura umana senza sistemi precedenti; egli è altresì uno de' dogmi più profondi e più maravigliosi del cristianesimo. Noi ci riserbiamo a dire su di ciò ancora una parola, quando il bambino comincerà ad operare con scelta; fin qui egli ubbidisce ad una spontaneità che lo determina, mediante la preponderanza de' gradi di sua benevolenza, determinati questi pure da ragioni esteriori (1). Noi vogliamo dunque restringerci per ora ad osservare la moralità del bambino in se stessa; non in ciò che potrebbe contenere di guasto radicale. Gli amici de' fanciulli, che attentamente gli osservarono, credettero di dover notare una grande incostanza nella loro moralità, nella quale non si potesse trovare, per poco, nulla di fisso. Ecco come ne giudica una madre, che avrebbe pur voluto dire il meglio del mondo delle care creature che sono i bimbi: [...OMISSIS...] . In fatti certi atti del bambino a questa età dimostrerebbero un estremo egoismo, e certi altri un estremo disinteresse. Onde quest' apparente contraddizione? Per rispondere a ciò conviene entrare in un mistero dell' età infantile; e non so se nessuno vi sia penetrato. Ecco la porta per la quale io vorrei farvi entrare il mio lettore. Il bambino ha il sentimento di se stesso, ma non l' idea , non la cognizione; egli non può percepire intellettivamente se stesso, se non pervenuto a un ordine più elevato d' intellezioni: questo è quello che noi dimostreremo nella sezione seguente, e che preghiamo intanto il lettore di qui concederci per postulato (2). Ora, in tutto il tempo che passa prima che il bambino percepisca intellettivamente se stesso, egli non può colla sua volontà riferire al SE conosciuto il bene ed il male; perchè il SE conosciuto non esiste ancora. Questa è la ragione degli atti sommamente disinteressati del bambino: il suo operare è ancor tutto oggettivo, il soggetto non esiste ancora pel suo intelletto e per la sua volontà. Ma onde dunque avviene che moltissimi altri atti del bambino appariscono pieni d' egoismo? Primieramente, nel tempo stesso che opera l' attività intellettiva nel bambino, opera in una sfera inferiore l' attività animale . Ora l' attività animale ha tutte le apparenze dell' egoismo sebbene non le si possa applicare questa parola (1), che venendo dall' ego, significa l' amor proprio di un soggetto che conosce se stesso, perchè l' io è appunto un soggetto che si conosce (2). In secondo luogo, quantunque il bambino non percepisca se stesso, tuttavia egli prova ed anche percepisce intellettivamente piaceri e dolori; ma questi non avendo un soggetto a cui riferirli, li riferisce agli oggetti che glieli cagionano; alla percezione e imagine di essi sì fattamente li associa, che nel suo concetto diventano una cosa sola con essi. Egli vuole dunque gli oggetti: il suo operare è sempre oggettivo: ma questi oggetti sono composti, come d' un loro elemento, di piaceri e dolori che sarebber suoi proprŒ, s' egli lo sapesse. Convien dunque distinguere i piaceri e i dolori percepiti in se stessi, senza il soggetto e imaginati essere nell' oggetto, da' piaceri e da' dolori riferiti allo stesso soggetto. L' operare in quant' è morale, prende forma dalla concezione e dall' intenzione di chi opera. Se dunque l' intenzione del bambino concepisce i dolori e i piaceri che prova negli oggetti che percepisce, egli opera dietro un principio oggettivo; ma l' apparenza che mostra il suo operare è tutta soggettiva; perocchè veramente egli va in traccia continuamente degli oggetti piacevoli, e rifugge dai dolorosi. Ora quest' apparenza soggettiva siamo noi che l' aggiungiamo alle azioni del bambino; perocchè siamo noi che le riferiamo al bambino soggetto, il che non fa il bambino stesso. Noi facciamo delle azioni del bambino quel che facciamo delle azioni nostre: riferiamo queste a noi stessi, perchè ci abbiam percepiti e continuamente ci percipiamo. Applichiamo dunque per analogia all' operar del bambino, quanto avviene nell' operar dell' adulto; ecco il solito errore: la fonte delle tante contraddizioni che ci sembrano scorgere nelle infantili azioni. Quanto è stato detto intorno alla misura ed alla qualità della resistenza, che si deve fare al bambino nell' età precedente, è necessario applicarsi anche alla presente, ed a quelle che verranno appresso. Esercizio moderato di pazienza, rettificazione di concetti, purgazione delle malevolenze, rimozione de' limiti alla benevolenza sono i quattro scopi che si dee prefiggere la resistenza e il rigore da usarsi col nostro fanciullo. Quanto più egli cresce, è altresì capace di sostenere una medicina più forte. Perocchè, posto il principio importantissimo che noi trattando con lui « dobbiamo applicare i suoi principŒ morali e non i nostri, cui egli non intenderebbe »ne viene di conseguente che quanto più i suoi principŒ si amplificano, tanto maggior appiglio noi abbiamo da influire su di lui e pretender da lui più di prima. Dico anche pretender da lui più di prima; perocchè « noi non possiamo pretendere dal fanciullo se non che egli sia coerente a suoi principŒ »noi non possiamo esigere se non che egli abbia la moralità sua propria e non altra; e solo quando egli se ne dispensa, noi abbiamo il diritto e il dovere di richiamarvelo, anco coll' aggiungere il dolore a tutte quelle azioni che disconvengono da' principŒ morali a lui noti, acciocchè egli sia aiutato anco dall' istinto del dolore a fuggire quelle azioni, la cui dolcezza lo inganna. E questo aumento di resistenza suol rendersi necessario per questo appunto, che crescendo in età si disviluppano nel bambino per varie cagioni diverse malevolenze e ritrosità; le quali si vogliono levare via tostochè nascono, scuoprendole con occhio sagace, acciocchè non invecchino e si distendano. Si deve proseguire in questa età il culto a quel modo che fu da noi dichiarato nella sezione precedente. Ma dopo qualche tempo che gli si nominò Dio e glielo si fece conoscere come un personaggio amabilissimo, il sommo bene; si dee per tempo fargli conoscere Iddio7umanato e Maria sua madre, e fargliene invocare i nomi spessissimo e, per quanto si può, ad ogni bisogno per soccorso, ad ogni azione per aiuto, ad ogni cagione di letizia per rendimento di grazie. Egli è incredibile quanto quest' esercizio gioverà a perfezionare nella mente del bambino l' idea di Dio, a far nascere la religione nel suo cuore, a rinforzarlo in tutte le sue disposizioni ed abitudini virtuose. Finalmente non si trascurino di procacciare al bambino quelle grazie, di cui abbiamo parlato alla prima età. Tutte le operazioni proprie degli ordini precedenti continuano a ripetersi, a complicarsi, a produrre dei nuovi concetti nell' intendimento, delle nuove affezioni nella volontà. Ci basta di averne avvertito il lettore: avvertenza che deve valere anco per gli ordini successivi; conciossiacchè in tutta la vita dell' uomo avviene che in qualsivoglia età continua ad operare tutta l' efficienza degli ordini d' intellezioni precedenti. Passando adunque noi senza più al quart' ordine, quali sono esse le intellezioni di quest' ordine? Troppo lungo sarebbe il farne una classificazione distintamente ragguagliata: noi però abbiamo indicata la via da tenersi, quando far si volesse, là dove abbiamo classificate distintamente le intellezioni del terz' ordine. All' uopo nostro basterà dunque che facciamo osservare, che tutte le intellezioni di quest' ordine si possono ridurre a due ampie classi. I Classe. Quelle che hanno per oggetto i rapporti delle intellezioni di terz' ordine tra loro. II Classe. Quelle che hanno per oggetto i rapporti delle intellezioni di terz' ordine colle intellezioni degli ordini precedenti. Ognuno intende da ciò che è detto, quale immensa classificazione simile a un labirinto ne uscirebbe dove si volessero suddividere queste due gran classi (1). E pure il quart' ordine delle riflessioni non è ancora nulla verso a quegli ordini tanto più elevati, a' quali perviene la mente degli uomini adulti e assai più ancora de' sapienti. Come l' operazione propria della mente, quand' è già in possesso delle intellezioni di second' ordine, si è la sintesi ; così l' operazione propria della mente stessa giunta a possedere le intellezioni di terz' ordine si è l' analisi giusta la legge da noi stabilita che « di tutti gli ordini dispari delle intellezioni è propria operazione il giudizio sintetico , e di tutti gli ordini pari è propria operazione il giudizio analitico ». Non sarà inutile che noi cominciamo dal vedere la differenza che passa tra i giudizi analitici al secondo ordine e i giudizi analitici al quart' ordine. I giudizi analitici al second' ordine sono delle pure astrazioni ; ma i giudizi analitici al quart' ordine sono delle scomposizioni elementari . La differenza tra queste due maniere di giudizi analitici è immensa: ecco dove consista. Nell' astrazione la mente non fa se non fermare la sua attenzione sopra una parte della sua concezione e trascurare tutto il rimanente. Così avendo io ricevute delle percezioni di corpi, io posso fermare la mia astrazione al colore, e così far di questo un essere astratto. Nella scomposizione elementare all' incontro la mente prende colla sua attenzione tutto intiero l' oggetto da lei concepito, e lo divide in parti. Così dopo d' aver giudicato che il tale oggetto è « un corpo colorato »io posso dividere in quest' oggetto la sostanza dall' accidente, e dire « quest' oggetto si compone di due parti, cioè della sostanza e dell' accidente, del colore ». Nell' astrazione recata ad esempio io ho pensato al colore e nulla più; quando ho giudicato che un dato oggetto sia un corpo colorito (sintesi al terzo grado), ho dovuto pensare ad un tempo il colore astratto e l' oggetto sussistente nel quale io lo ponevo. Se io ora dico che quest' oggetto ha due parti, io pongo medesimamente la mia attenzione tanto sulla sostanza quanto sull' accidente e di più ne riconosco la loro relazione . Lo studio poi di questa relazione diviene nel mio intendimento fonte inesausta di cognizioni, che mi si accrescono in appresso per tutta la vita. Fino a tanto che io percepisco degli enti individualmente sussistenti (primo ordine) non potevo fare alcun confronto fra loro e nol potevo pure, quand' io astraevo da essi le loro qualità (second' ordine): perocchè io mi fermavo a queste, astratte e divise dagli enti, e gli enti stessi in una tale operazione mi sfuggivano: riunendo agli enti le qualità astratte (terz' ordine) io riponevo gli enti interi sotto la mia propria attenzione. Solo pervenuto a questo grado il lavoro della mia mente, io avendo presenti e le qualità astratte e gli enti stessi sono in caso di confrontare le une cogli altri e conoscere col PARAGONE la scambievole loro natura. La fecondissima operazione del PARAGONARE le cose (operazione che dà alla mente un lume sfolgorantissimo) non può cominciare che al quart' ordine d' intellezioni (1). Il paragone non si può eseguire se non a questo tempo, anche perchè solo al terz' ordine l' uomo conosce la dualità. Nè solo mediante il paragone , al quart' ordine si distingue la sostanza e l' accidente , l' ente ed il modo dell' essere nella cosa stessa; ma si comincia altresì ad analizzare anche il grado, onde l' ente partecipa del predicato che noi gli attribuiamo; onde possiamo distinguere la gradazione nella quale due corpi, a ragion d' esempio, partecipano del color rosso o di altra qualità ossia predicabile (1). Si comincia adunque in questa età ad analizzare non solo l' ente; ma i modi, i predicabili stessi dell' ente. Come nell' ordine antecedente delle intellezioni continuò l' operazione dell' analisi, così egli è evidente che nell' ordine presente vi ha luogo alla sintesi: giacchè questa trova la materia preparata da quella. Uno dei prodotti dell' analisi del terz' ordine si fu quello dei concetti astratti delle azioni: le azioni dopo essersi astratte si applicano, si predicano degli enti e così si formano dei giudizi sintetici. Una somigliante sintesi si forma tanto rispetto agli oggetti reali, come se io al solo vedere il fuoco gli attribuisco l' azione del riscaldare; come rispetto agli oggetti meramente ideali, come se io imaginassi un ente qualsiasi e gli applicassi la proprietà riscaldatrice. Questo prova che la specie di sintesi, che nasce in questa età, estende immensamente il potere dell' imaginazione intellettiva (ideazione) rendendo possibile allo spirito l' attribuire a degli enti creatisi con essa delle attività che o non sono comprese nel loro concetto o se sono, sono però anco distinte da essi nella loro mentale esistenza. Questa osservazione è importante; perocchè spiega lo slancio che suol prendere l' imaginazione del fanciullo quand' egli giunge ai tre anni. A questa età par che incominci la mente a concepire qualche raziocinio ipotetico o almeno la proposizione maggiore di esso. Già nell' età precedente il fanciullo conobbe il numero due. Sembra dunque che di due cose egli potrebbe a questa età ravvisare la relazione che viene espressa nella maggiore del sillogismo ipotetico; cioè l' esser una d' esse condizione dell' altra. Tanto più, che nel sentimento le due cose stanno già legate e condizionate attesa la forza unitiva del soggetto. Laonde la mente non ha che ad analizzare, per così dire, il proprio sentimento per conoscere il condizionante ed il condizionato (1), analisi però che prima del quart' ordine sicuramente non può eseguirsi. Imperocchè deve la mente: 1 percepire il sentimento; 2 disgiungere le due cose legate tra loro (terz' ordine); 3 osservare che data l' una vi è l' altra, tolta l' una l' altra pure è tolta; dopo di tutto ciò solamente ella può dire: « se la tal cosa è (od avviene o si fa) è pure l' altra ecc. »che è la maggiore del sillogismo ipotetico. Il sillogismo ipotetico dilata immensamente l' attività volontaria; perocchè solamente quando nella mente cominciano a formarsi le ipotesi, possono aver luogo le volizioni condizionate, distinte dalle assolute; come pure le velleità d' ogni genere; avanti questo tempo non ha il fanciullo velleità; egli vuole semplicemente e però fortemente. Che se la condizione posta alle volizioni diminuisce la forza di queste, il che è perdita di energia, vi ha però un compenso in questo che le rende più regolate, dirette da maggior lume di ragione; cominciano a legarsi insieme, a subordinarsi; indicibile profitto per lo sviluppo della moralità. Nell' età precedente si giunse a conoscere il numero due. Era necessario conoscere uno e due oggetti prima di poterli paragonare insieme e trovarne le differenze . Ora, come il paragone è operazione che comincia all' età del quart' ordine, così pure in questa età solamente si può avere il prodotto mentale delle differenze delle cose. Ciò che abbiamo detto addietro basterebbe solo a mostrare che ella è cosa assai più facile il conoscere le somiglianze di quello che sia conoscere le differenze delle cose. Ma chi ha seguito il progresso dello sviluppo intellettivo nel bambino, da noi descritto fin qui, e l' analisi delle operazioni della sua mente e de' prodotti di questa, si sarà convinto ancor più colle sue proprie riflessioni di questa verità importante e contraria al comun pregiudizio de' filosofi, che suppongono trovarsi le simiglianze e le differenze coll' operazione stessa. Questo pregiudizio nasce dal non considerare che ciò che è simile in più oggetti si può appercepire e notare dalla mente in due modi, o come una qualità semplice (più generalmente un predicabile ), o come una qualità che noi sappiamo trovarsi in più oggetti e renderli simili (1). Ora, a conoscere il simile in questo secondo modo, certo che egli è necessaria l' operazione stessa che si usa a conoscere il differente ; ma tutt' altro avviene se trattasi di conoscere il simile nel primo modo. Questo primo modo è semplicissimo, ed appartiene al secondo ordine d' intellezioni, perocchè non consiste in altro se non in collocare la nostra attenzione intellettiva in una qualità di una o più cose, trascurando di attendere a tutte le altre parti delle medesime, e lo stesso loro numero; perocchè in questa operazione non si fa se non ripetere la stessa attenzione alla qualità identica in ciascuno degli oggetti che passano sotto l' occhio, senza tener menomamente conto del loro numero e senza paragonarli. All' incontro la differenza non si può scuoprire in nessun modo, se non si mettono a paragone e non si noti in che cosa entrambi divariano. Il numero tre è il proprio di quest' ordine, giacchè la mente del fanciullo nell' ordine precedente è pervenuta a conoscere distintamente il due. Come poi ella è giunta a conoscere il due coll' aggiungere l' uno all' uno; operazione che ella può poi ripetere, e la conduce alla numerazione, senza tuttavia farle conoscere i numeri maggiori distintamente, ma solo in confuso; così or può giungere alla cognizione del tre, sia coll' aggiungere l' uno al due, o coll' aggiungere il due all' uno, operazione anco questa seconda, che imparatala a far dal fanciullo, gli diventa presto una formola generale salendo nella scala de' numeri col ripetere l' aggiunta del due: onde conosce i numeri mediante una relazione di più. Cresce la cognizione delle collezioni delle cose di pari colla scienza de' numeri. Il nostro bambino potrà avere oggimai un' idea distinta delle collezioni composte di due e di quelle composte di tre oggetti; ma di quelle composte di un maggior numero non avrà che un' idea confusa. Discernerà bensì i molti ed i pochi , giacchè avendo l' idea confusa di collezioni numerose, e l' idea chiara del paio e del ternario, potrà conoscere facilmente che vi hanno delle collezioni superiori alle collezioni da lui chiaramente conosciute. Prima di questo tempo non poteva il fanciullo aver il concetto del mezzo , ma ora può averlo appunto perchè oggimai può conoscere due cose, l' una delle quali condizionata all' altra. Egli diviene anco questo incremento grandissimo alla sua attività, la quale non solo istintivamente come faceva prima, ma anco per calcolo intellettivo, potrà di qui in avanti subordinare un mezzo all' ottenimento di un fine. Egli non saprebbe tuttavia sottordinare l' uno all' altro una serie di mezzi: a far ciò egli dee fare delle riflessioni appartenenti ad un ordine superiore. I filosofi non hanno mai esaminata accuratamente la questione, per quanto io sappia, dell' età in cui l' uomo percepisca se stesso. Essi hanno comunemente ritenuto per cosa chiara e non bisognevole di dimostrazione, che l' uomo percepisca se stesso fino da' primi istanti di sua esistenza, e che non potrebbe percepir le cose senza aver prima percepito se stesso. Ma queste supposizioni gratuite non reggono all' osservazione esatta del fatto importante di cui si tratta. Il fatto anzi dimostra che l' uomo percepisce e intende molte altre cose prima di percepire ed intendere se stesso, e che egli non conosce il vero valore del monosillabo IO prima di essere giunto al quarto o al quint' ordine d' intellezioni. Di più l' osservazione dà un altro risultato, e questo si è che la conoscenza che l' uomo si forma dell' IO varia nelle diverse età di grado e di forma; e che questa parola IO perciò (come tante altre) pronunciata dall' uomo ad una età ha un significato diverso da quello che riceve pronunciata dall' uomo in un' altra età (1). Egli è necessario che qui noi ne diciamo alcuna cosa. A tal fine non possiamo a meno di ripigliare brevemente l' analisi dell' IO, sebbene da noi data altrove (2). L' IO esprime l' ente umano che parla (3) e che nomina se stesso come esistente, come operante. Ora, l' ente umano è primieramente composto di due principŒ: 1 il principio animale; 2 il principio spirituale. Questi due principŒ sono però connessi in modo che il primo è legato al secondo, e il secondo esercita la sua forza e il suo imperio sopra il primo, di maniera che tutti e due si riducono ad un principio solo supremo, che è il principio intelligente; ma tale che ha virtù anco sopra il principio animale a lui congiunto. Questo principio supremo colle parti inferiori a lui congiunte è l' uomo , ma non è ancora l' IO. I due principŒ indicati sono due sentimenti, e perciò l' uomo non manca mai di sentimento: egli stesso è un sentimento intellettivo7volitivo che dispone di un altro sentimento sensitivo7istintivo. Ma questo sentimento7uomo non è l' IO, perocchè l' IO non è un sentimento, è una coscienza. Or, come dunque e quando si forma l' uomo quella coscienza di sè stesso che egli poi esprime col monosillabo IO? Esporrò prima una ragione assai plausibile, la quale potrebbe far credere l' uomo si dovesse far tosto quella coscienza, anzi non potesse andarne senza. Da prima egli è certo, come ho provato nella « Ideologia », che in lui si manifesta l' essere ideale. Quando dico che si manifesta in lui l' essere ideale, allora dico che l' essere ideale si manifesta in un sentimento sostanziale, il quale sentimento è egli. Sono dunque uniti il sentimento sostanziale e l' essere che risplende in quello. Ciò posto, egli parrebbe che questa unione bastasse a fare sì che il soggetto percepisca se stesso; se pure è vero ciò che altrove affermai, che « « il sentimento è come la scena sulla quale gli oggetti ci compariscono e ci si rendono visibili » » (1). Non cancello quest' ultima sentenza. Egli è certo che niente può essere da noi intellettivamente percepito, se non ciò che opera nel nostro sentimento sostanziale. Laonde accordo che il sentimento stesso essendo ciò in cui si veggono le cose che si veggono dall' intendimento, egli stesso può essere veduto senza bisogno che un altro sentimento ce lo presenti. Ma primieramente si deve distinguere nel sentimento sostanziale l' atto con cui questo sentimento vede l' essere dagli altri atti di lui. Ora l' atto con cui vede l' essere, non può mai essere quello con cui vede se stesso; ed anzi egli è un atto che esclude la visione di se stesso. In quanto adunque il sentimento direttamente si porta nell' essere, egli è incognito a se stesso. Ora qui si noti bene: l' uomo, e soprattutto l' IO, è essenzialmente quel principio che vede l' essere; è il sentimento sostanziale intelligente. Escluso da sè questo sentimento, l' uomo più non esiste; l' uomo non ha la coscienza di se stesso fino che non ha la coscienza di essere intelligente. Acciocchè dunque arrivi a formarsi una tale coscienza, conviene che il sentimento sostanziale non vegga semplicemente l' essere, ma vegga se stesso veggente l' essere (1). Ora, a tal fatto non basta che egli sia presente sulla scena dove si veggon le cose; ma conviene di più, che con un atto nuovo che cava da sè, egli applichi l' essere che vede a se stesso veggente l' essere, e che mediante questa applicazione dell' essere, illumini e vegga se stesso nell' essere. Convien dunque che cavi da sè un atto nuovo, non datogli dalla natura, ma mosso dalla sua spontaneità suscitata da qualche bisogno o stimolo: ecco la grand' opera che a far gli rimane se vuol percepire se stesso. Se dunque tutto ciò che cade nel suo sentimento è in luogo da poter essere da lui veduto, e il sentimento stesso veggente l' essere (se stesso) gode di questo vantaggio; si dee però aggiungere, che questa visione o percezione non può essere effettuata, se non a condizione d' un atto nuovo uscente dall' intimo del soggetto, che è un atto della forza dell' attenzione, la quale si concentra e ripiega sopra l' oggetto che vuol vedere, pel quale ripiegamento lo spirito (il sentimento sostanziale) guarda se stesso veggente l' essere, unitamente all' essere veduto e in questo contenuto quasi come in suo genere. Ora, quest' atto del conoscimento di sè, così implicato, sarà egli più facile degli atti co' quali lo spirito conosce le altre cose? Il sentimento7uomo opera conoscendo; e conosce prima le cose di cui abbisogna; ora egli non abbisogna punto di conoscere se stesso per operare, abbisogna di conoscere altre cose le quali egli non ha, e vuole avere ed operare per averle, e per operare conoscerle; se stesso non cerca, perchè si ha, ma cerca quelle cose le quali completino se stesso, sovvengano a ciò che gli manca, alle sue deficienze e limitazioni; l' uomo è un essere incompleto; se bastasse a se stesso, nulla cercherebbe, non ci sarebbe in lui attività di moto, ma solo attività di stato. Le sue stesse sensazioni piacevoli e dolorose non le concepisce se non annesse agli oggetti esterni, e in questi le suppone esistenti. L' uomo adunque non può essere richiamato a ritorcere la sua attenzione a se stesso che dal linguaggio. Ma il linguaggio stesso non viene appreso dal bambino tutto ad un tratto; egli deve passare per più ordini d' intellezioni prima di capire tutte le parti del discorso. Vedemmo già che al second' ordine d' intellezioni egli non apprende che i nomi sostantivi, e per meglio dire sostantivati; e che solo nel terz' ordine egli giunge a formarsi l' idea astratta delle azioni delle cose. Solo adunque al terz' ordine egli può nominare le proprie azioni; ma queste nulla più che oggettivamente, come le azioni di tutte le altre cose. Egli ha bensì il sentimento delle proprie azioni che è una cotale estensione del suo sentimento sostanziale, ma nulla più. Le azioni sue sono esterne, cadono sotto i suoi sensi, come le azioni degli altri; se stesso all' incontro è interiore, è un principio invisibile che produce quelle. Egli conosce adunque le proprie azioni prima di sapere che sono sue proprie, prima di riferirle a se stesso col suo intendimento; perocchè se stesso nel suo intendimento ancora non esiste. Giunge bensì nella terza età ad attribuire le azioni ad un ente, ma non ad osservare fra gli enti quello che è egli stesso. Nel quart' ordine d' intellezioni, e non prima certamente, ma forse di poi, egli può percepire se stesso come principio operante, mediante il linguaggio; egli cioè può ritrarre la propria attenzione dal di fuori sul proprio sentimento operante, accorgendosi per tal modo che certe azioni hanno per causa quel sentimento che lo costituisce, a differenza di certe altre che non sono da quel sentimento prodotte. La prima adunque ed elementare cognizione di se stesso che abbia l' uomo, consiste nella percezione di « SE operante »(1), intendendo la parola SE pel sentimento sostanziale, che forma l' uomo dallo stesso uomo percepito. Questo sentimento operante può essere benissimo espresso colla voce IO; ma questa voce non avrebbe ancora tutto il significato che le compete, e che le viene poscia dagli uomini sviluppati attribuito. L' IO non si pronuncia mai solo, ma con qualche verbo espresso o sott' inteso (2), il che è manifesta prova della legittimità del modo onde ne abbiamo spiegato l' origine. E` dunque questo primo IO « il sentimento sostanziale operante che percepisce se stesso e che si esprime ». Ma con una riflessione maggiore, che l' uomo poi faccia sopra se stesso, egli viene a conoscere l' identità di sè parlante e di sè parlato; ed allora l' IO riceve una significazione più completa, venendo a significare « il soggetto umano operante (il sentimento sostanziale operante) che percepisce se stesso come operante, che come tale si esprime, e che sa che egli, che parla, è identico a lui parlato ». Questo significato del monosillabo IO non può essere attribuito se non dall' uomo giunto almeno al quint' ordine d' intellezioni. Tanti e così difficili elementi racchiusi in questo monosillabo spiegano il perchè tardi e con difficoltà egli s' intenda. [...OMISSIS...] Ho già detto che ne' popoli antichi si trova una gradazione d' intelligenza simile a quella che si osserva ne' bambini e che le lingue antiche ne conservano le vestigia. Anche qui non manca la traccia dell' infanzia delle nazioni, se si osserva che quanto le lingue sono più antiche, tanto meno gli uomini introdotti a parlare usano del pronome personale IO, come pure del TU. Questa è la ragione per la quale le lingue orientali amano di far parlare i personaggi in terza persona anzichè nella prima (1). Che se noi rivolgiamo l' attenzione a' bambini, potremo facilmente notare la difficoltà che essi provano a rettamente usare i pronomi personali io e tu . In vece delle mie proprie osservazioni, io assai volentieri accolgo le altrui quando sono dalle mie confermate, perocchè adducendo io l' altrui testimonio, niun potrà dire che io piego l' osservazione al servigio del mio sistema. Una donna adunque, la quale non aveva certamente in mira di venirmi in aiuto, quando osservava e quando scriveva, una donna di cui riferisco sempre volentieri le osservazioni, perchè solitamente vere e sagaci, scrive tutt' al mio uopo così: [...OMISSIS...] . A questa sola età può cominciare a formarsi nella mente del fanciullo il concetto del tempo. Questo concetto incomincia a formarsi non già col raffrontare le tre parti del tempo, il presente, il passato e il futuro; ma solo col raffrontarne due, il presente col passato, ovvero il presente col futuro. A tanto può arrivare il fanciullo al quart' ordine delle sue intellezioni. Al terz' ordine egli ha un' idea accurata del numero due, al quarto può paragonare le due cose distinte e vederne le differenze. Distinguere il tempo presente dal tempo passato, ovvero distinguere il tempo presente dal tempo futuro, questa può essere operazione appartenente al quart' ordine: distinguere tutti e tre i tempi raffrontandoli tra loro prima del quint' ordine è assolutamente impossibile. Di più si noti, che non parliamo già del tempo interamente astratto dagli avvenimenti, ma del tempo considerato come una qualità, un predicabile di questi. Che un avvenimento cessi d' esistere quando un altro incomincia, o che un avvenimento ad un altro succeda, questo rimane nella ritentiva del bambino come un fatto anche solo per la forza unitiva dell' animalità. Di poi gli avvenimenti s' incatenano mediante associazione d' idee. Questo non è ancora il concetto del tempo negli avvenimenti. Egli è uopo che il bambino noti un avvenimento che fu ieri, e lo distingua con quello che accade oggi, mettendolo con questo in paragone; ovvero distingua quel d' oggi da quello che sarà domani; acciocchè si possa dire che egli s' è formato il concetto del tempo presente e del passato, o del presente e del futuro. Ora primieramente questo tempo è un predicabile degli avvenimenti che non cade sotto i sensi, è una limitazione dell' esistenza sopra sensibile delle cose. Egli è dunque necessario alla mente il linguaggio, acciocchè ella possa fermarvisi e ritenerla. Oltrecciò la forza dell' attenzione nel bambino è ancor poco sviluppata, e quel poco d' effettività che ha messo fuori vien tutta assorbita dagli oggetti presenti, nuovi per essa e però interessanti; sicchè non ne rimane guari per ciò che è passato e per ciò che ha da venire. Indi è che l' osservazione mostra che assai tardi i fanciulli distinguono bene i tempi. [...OMISSIS...] Un' altra prova della difficoltà che trova il fanciullo in notar bene i tempi vedesi manifestamente nella gradazione con cui apprende il linguaggio, specchio del suo concepire. Egli per molto tempo adopera il verbo all' infinito , e ben tardi esprime con esso i diversi tempi. Lo stesso si trova in alcune lingue di popoli assai addietro nella coltura intellettiva. Anche nelle lingue antichissime il verbo ha pochi tempi (2), e questi non ben determinati, ma di un uso incerto. Tutte le idee già moltiplicatesi nel fanciullo diventano ben presto principŒ secondo i quali egli giudica ed opera come abbiamo veduto. Solamente che un' idea, acciocchè acquisti forma e valor di principio, dee rimanersi qualche tempo nella mente umana, e il ridurla all' applicazione è affatto appartenente a un ordine d' intellezioni prossimamente superiore a quel dell' idea. Laonde nel quart' ordine d' intellezioni si cangiano in principŒ le idee avute al terz' ordine. Ora vedemmo che fra le idee del terz' ordine vi hanno quelle che appartengono alle azioni. I principŒ di più rilevanza adunque, che il bambino acquista al quart' ordine delle sue intellezioni, consistono in quelli che egli si trae dalle idee delle azioni. Quando egli ha conosciuto le azioni delle cose, e veduto replicarsi molte volte sempre le stesse, allora comincia già a concepire qual sia il modo costante del loro operare, ed è in istato di prevedere che cosa un dato oggetto a lui presente opererà, quali forze egli spiegherà, quali effetti si produrranno da quella cagione. Per tal modo egli vien ponendo un confine alla potenza de' diversi oggetti che conosce, e non aspetta più da essi se non certe determinate operazioni, e dove quegli oggetti gliene producano d' insolite, egli se ne maraviglia come di cosa straniera alla sua credenza ed alla sua aspettazione. Prima che il fanciullo unisca a certe cose certe azioni, la sua credulità è senza limiti: niente a lui sembra impossibile. Quando il fanciullo vede che sua madre parla, come fosse informata di ciò che egli ha fatto lontano dagli occhi suoi, o quando la sua bona gli dice che il dito mignolo la ebbe informata di qualche sua scappatella, perchè non se ne maraviglia egli? Perchè non ha ancora fissato bene la limitazione de' corpi di essere in un luogo solo, nè la limitazione de' sensi di non poter sentire a certa distanza, nè la limitazione dell' operare del dito mignolo di non poter nè sapere ne comunicare altrui le cose. A me stesso sono rimaste più memorie della mia infanzia che provano quanto lentamente i fanciulli mettano de' limiti all' operare delle cose. Mio zio Ambrogio, che ha preso tanta cura della mia infanzia, era di persona assai grande, ed io ancor bambino riputava che niente potesse resistere alle sue forze. [...OMISSIS...] E` dunque l' esperienza quella, che nella mente del fanciullo va ponendo i limiti all' operare delle cose, e prima che il fanciullo trovi questi limiti nella sperienza, egli non li pone loro da sè, ma crede tutto possibile, la sua credulità è illimitata. Nell' aderire alle parole altrui, molto fa la benevolenza verso di chi gli parla, come abbiamo veduto, ma non potrebbe mai la benevolenza muovere il suo intendimento a dar fede a ciò che egli credesse assurdo. Egli non crede dunque assurdo che gli oggetti abbiano certe virtù e facoltà che noi adulti sappiamo che non hanno, fino a tanto che anch' egli non abbia trovato nel fatto medesimo la non esistenza di quelle attribuzioni. Tutto ciò è degno di essere meditato, potendosene trarre di grandi conseguenze a conferma delle dottrine ideologiche e antropologiche. E veramente due cose rimangono a spiegare nella credulità che nel bambino precede l' esperienza: 1 perchè creda egli tutto possibile; 2 come o perchè l' esperienza venga limitandogli questa possibilità. Niuna teoria ideologica può rispondere adequatamente alla prima di queste due domande, eccetto quella che pone l' essere ideale indeterminato innato nell' uomo; il quale essere contiene e mostra in sè la possibilità universale. Sino a tanto dunque che il bambino non ha altra regola de' suoi giudizŒ, se non quella che porta innata della mera e nuda possibilità, egli giudicherà tutto possibile, crederà tutto, eccetto solo quello che egli credesse intrinsecamente ossia metafisicamente impossibile, a cui nè pure il fanciullo dà mai l' assenso. Senza di ciò niente egli potrebbe giudicar possibile, nè giudicherebbe. Anche questo fatto adunque, cogl' innumerevoli altri che ho qua e là riferito, viene a confermare la teoria filosofica da me proposta, e sarebbe tempo che, per onor d' Italia, non si vedesse più quindi innanzi stampato e ristampato presso di noi, che quella teoria non è sorretta da prove d' esperienza, e si sostien solo mediante un argomento per esclusione, dove riman dubbioso se non sieno forse bene enumerate tutte le parti (1). Per rispondere alla seconda questione, converrebbe rammentare ciò che ho detto altrove sull' origine e sulla forza del principio d' analogia (2). Quando l' uomo vede seguire costantemente per lungo tempo un dato effetto, egli si forma la persuasione che sarà sempre così, e però se l' avvenimento è periodico, come il levarsi del sole, predice al venir dell' epoca, che quell' avvenimento avrà luogo. La ragione di ciò si è che la mente concepisce la causa dell' avvenimento, concepisce che l' avvenimento non può star solo, che egli deve essere l' effetto in ultimo di qualche sostanza o di più sostanze, e ha l' intima nozione della stabilità delle sostanze. Vedendo il costante ordine della natura, non dubita di giudicarlo perenne, facendo interamente senza accorgersi quest' argomento: « ciò che avviene in quest' universo è l' effetto di qualche cosa di costante; dunque continuerà ad avvenire ». Qualche cosa di simile vien facendo l' uomo, cominciando nell' età infantile e seguitando lungamente durante tutto il suo sviluppo, nel comporsi « i principŒ, le opinioni e credenze sull' operare delle cose ». Veggendo avvenir gli effetti allo stesso modo sempre, certi eventi manifestarsi sempre dati certi oggetti, certi altri non manifestarsi; egli lega le azioni agli oggetti, agli enti, e finisce col formarsi certe persuasioni le quali, formolate, direbbero: « questo ente ha la virtù di portare questi effetti e non altri »; « la potenza di quest' ente si stende solo fin qui, ha questi limiti, quest' indole, questa forma, queste leggi, ecc. ». Ogni qual volta l' uomo si è formato uno o l' altro di questi principŒ, egli ha ristretto con ciò la sfera della sua credulità; perocchè ove altri gli raccontasse cosa che contradice a que' principŒ formatisi intorno all' operare degli esseri, egli la prenderà per impossibile e non la crederà. Così se io dirò che un ragno camminava nell' aria senza attenersi ad alcun filo, non me lo crederà colui che si fosse fabbricato in mente il principio « che un animale privo dell' ale non ha la potenza di spaziare libero nell' aria » (1). E qui chi non vede il filo per condurre una storia, che riuscirebbe importantissima, della credulità ed incredulità umana? Questa storia ha gli stessi periodi negl' individui e nell' umanità intera. Il bambino comincia dal creder tutto ciò che non è agli occhi suoi contradicente (perocchè nè pure il bambino unisce mai il sì col no , ma ne sente la ripugnanza): e poi si forma delle opinioni che limitano il potere delle cose che percepisce. Queste opinioni per certe cagioni segrete, che non abbiam qui tempo di rilevare, restano incompiute; è lavoro ancora sul telaio, per così dire: nella mente non vi ha ancora niente di ben conchiuso, di ben fermato. Ma si conchiudono, si fermano poi gradatamente, e la fermezza e saldatura di tali opinioni nasce allor quando non solo si conosce che un dato ente « ha una determinata potenza e un determinato modo di operare », ma di più si conchiude che « esso non ha niun altro modo di operare, niun altro grado di potenza, eccetto quello che si è a noi costantemente manifestato ». Questa parte negativa delle opinioni sull' operare degli enti è quella che chiude e ferma l' opinione. Perocchè, fino a tanto che io credo bensì di aver rilevato, che un dato ente va fornito di una data potenza e di un dato modo d' operare, ma non vi aggiungo il giudizio, che esso non ha alcun' altra potenza, alcun altro modo, resta sempre la mia mente disposta ad accettare qualche nuova scoperta intorno quell' ente, e rallargare la potenza che l' opinione formatami intorno a lui gli attribuisce, e perciò a modificare e ad amplificare la mia opinione stessa. Ma quando la mia opinione è già chiusa, quando sono venuto in una persuasione assoluta e non provvisoria (1) che « un dato ente, cioè una data specie di enti non abbia altra maniera e grado di potenza », allora non presterò più fede a chi mi raccontasse un avvenimento, il quale supponesse in quell' ente una maniera diversa di operare, un grado di potenza maggiore. Ma se io stesso, co' miei proprŒ sensi, verificassi il fatto, e non avessi alcun effugio col quale il potessi o negare o spiegare altramente, in tal caso infrangerei la mia opinione, e me ne creerei un' altra tutta nuova circa l' efficienza di quest' oggetto. Ora tre cose si rappresentan qui curiose ed utilissime ad investigarsi: 1 che cosa determini l' epoca nella quale avviene che l' uomo chiuda le sue opinioni sull' efficienza delle cose; 2 quale sia il grado di fermezza onde quelle opinioni si suggellano e chiudono; 3 come e quando questo lavoro proceda con ragione, quando poi irragionevolmente. In quanto al primo quesito, egli è certo che nè i singoli individui, nè i singoli popoli vanno innanzi collo stesso passo; e però le operazioni proprie della natura umana, come son quelle di cui parliamo, sebbene si facciano in tutti gl' individui umani egualmente, tuttavia non si fanno tutte agli stessi tempi; e il medesimo si dica dello sviluppamento de' popoli. Il determinare poi tutte le circostanze e cagioni per le quali in un individuo (lo stesso dicasi di un popolo) cada in un certo tempo e proprio in quest' anno, in questo giorno, in questo istante, ella è cosa impossibile; giacchè infinite sono le circostanze minutissime che influiscono nell' umana mente. Tuttavia difficile ma bella ricerca sarebbe sottomettere tali avvenimenti a certe leggi determinate, alle quali per fermo ubbidiscono; cosa però che trascenderebbe i confini di quest' opera. Quanto alla seconda questione, cioè al grado di forza onde l' opinione intorno all' impotenza delle cose si suggella e si chiude, questa è più o meno forte alle diverse età ed ai diversi individui. Diremo in generale che quanto un uomo cresce in età, tanto più quella sua opinione si rinforza, e dura più fatica a risolversi di romperla per formarsene una nuova. Onde è difficile che i vecchi prendano opinioni nuove non che in filosofia razionale, ma nè pure in fisica; massime se sono chiusi in piccola società, e variino poco le cose che li circondano, e il tenore di lor vita sia uniforme. Questo fatto come pure tanti altri dipendono dalla legge generale, « che quanto più lungamente e frequentemente l' uomo osserva le medesime operazioni de' medesimi enti e non mai altre, tanto più si persuade che il potere di quegli enti sia limitato a quelle, e non possano di più, nè in altro modo ». Di che si può spiegare quello che l' esperienza dimostra che « l' uomo comincia la sua vita con una universale credulità, la quale va grado grado diminuendosi sempre più cogli anni, e dando luogo negli animi anzi ad un principio d' incredulità, che tante volte diviene nelle età più mature dominante » (1). Toccando ora della terza questione, cioè della ragionevolezza ed irragionevolezza della credulità e dell' incredulità dell' uomo, si può dire in generale: 1 Che la credulità del bambino è sempre ragionevole, perocchè il bambino non ha veruna ragione di discredere, ed ella in lui non è altro se non l' affermazione della possibilità assoluta, unica possibilità ancor da lui conosciuta. Ora anche quello che è fisicamente impossibile, non è impossibile metafisicamente, ed affermando questa maniera di possibilità assoluta, il bambino dice la verità. Se dunque altri gli afferma di poter volare, egli crede di non essere ingannato; perchè vede la cosa possibile, e non è ancora in caso di misurare le facoltà reali di chi a lui parla; onde non gli rimane che di crederle sulla sua parola. 2 Che l' incredulità, che spontaneamente nasce nell' adulto il quale non sia bistorto dalle passioni, è pure ragionevole, perocchè ella non afferma l' impossibilità assoluta, ma unicamente l' impossibilità fisica, ed anche questa con consenso provvisorio . Così, quando l' uomo non crede che un bue spazŒ per l' aria come un' aquila, egli non intende negare la possibilità assoluta della cosa, ma afferma che la facoltà del bue conosciuta da lui con replicate esperienze non è tale e tanta che possa vincere il suo peso. 3 Comincia l' irragionevolezza e l' errore ogni qual volta l' uomo viene seco stesso ad affermare che ciò che è fisicamente impossibile, sia impossibile per assoluto, passaggio che succede per una esagerazione colpevole e interessata. E in quest' errore non al popolo, ma ai soli scienziati è riserbato di stramazzare; buon avviso che dà loro la natura, se ascoltar lo volessero, per non ingalluzzire di soverchio e poco stimar gli altri uomini, a cui resta in retaggio non la scienza sistematica, ma il buon senso. 4 Un altro errore avviene quando il giudizio dell' uomo sull' impossibilità fisica è definitivo e non provvisorio. Anche questa è esagerazione, è un arbitrio che fa l' uomo passionato o cocciuto. E veramente l' esperienza esteriore molte volte non è completa, e rimangono occulte nelle cose delle facoltà e delle forze che non si presentano se non per caso e rompono i nostri giudizŒ, i quali s' ingannano mettendo certi limiti assoluti alla natura. Noi abbiamo veduto che la benevolenza inchina il cuore del bambino alla credulità. Simigliantemente la malevolenza piega l' adulto all' incredulità. Ma come quella non sarebbe possibile, se la possibilità non avesse un fondamento nell' intelletto del bambino; così non potrebbe l' uomo dalla sua malevolenza e durezza di cuore esser reso a credere e ad assentire al vero più tardo del giusto; se questa sua tardezza a credere non trovasse un cotal fondamento vero o supposto nell' intelletto: e questo fondamento è « l' impossibilità fisica dedotta dall' esperienza », la quale si cangia dall' arbitrio umano ora in impossibilità assoluta, ora in impossibilità fisica bensì ma non meramente probabile e provvisoria, ma certa e definitiva; onde ricusa ogni ulteriore esperimento, e chiude la finestra alla luce che vorrebbe istruirlo meglio ed illuminargli la mente. Ora egli è certo che la limitazione dell' operare che noi apponiamo alle cose non è del tutto certa sin a tanto che ella si fonda in una esperienza ed osservazione imperfetta, e non sorretta da altri principŒ di ragione. Abbiamo già detto che la legge d' analogia non induce certezza, ma solo probabilità (1): onde le conclusioni che si cavano da questa legge debbono poter essere sempre riformate, mediante nuove scoperte o nuovi ragionamenti: e se noi volessimo quelle conclusioni irreformabili, sconciamente c' inganneremo. Intanto, se noi osserviamo quello che avviene nella massa degli uomini, noi troviamo che questi ben per tempo si formano di queste conclusioni e principŒ; ma che crescendo la loro esperienza e la loro scienza, li rompono per formarsene di nuovi più ampŒ e più giusti, i quali s' avvicinano sempre più alla verità e in parte anco alla ragione. Questa vicenda di formarsi de' principŒ od opinioni chiuse o fermate sull' operare delle cose, e poi d' infrangerle per formarsene delle altre, si ripete più volte in una vita che progredisca continuamente avanti nello studio e nella scienza della natura. L' uomo, all' incontro, la coltura del quale sia stazionaria, non fa che indurare sempre più quelle opinioni o principŒ che si è formato da prima. Le opinioni già formate, quanto più sono indurite e quanto più sono ristrette, portano un' incredulità maggiore. Vi ha dunque un' incredulità che nasce dall' ignoranza, cioè da opinioni sull' operare degli enti troppo anguste e troppo ferme. Se io voglio persuadere ad un boscaiolo che il sole sta e la terra si move, che la terra ha la forma di palla rotonda abitata da tutti i lati ed altre simili verità naturali, egli crede buona pezza che io lo corbelli, e se io pur mi mostro seriamente di ciò persuaso, egli tuttavia scuote il capo e non mi dà retta. Egli dunque pena oltremodo a credere certe cose del tutto vere, che sono credute dai dotti: l' incredulità dunque del rozzo è sotto un aspetto maggiore assai che non sia quella dello scienziato. Comincia dunque l' uomo con una credulità universale circa le azioni degli enti, e giunge ben presto ad una specie d' incredulità , cioè tostochè egli ha potuto chiudere e saldare bene le sue prime opinioni sull' operare della natura. Ma queste prime opinioni col procedere della scienza vengono rettificate e rallargate, onde prende lo spirito umano un nuovo corso che dalla rozza incredulità lo spinge soavemente di nuovo verso la credulità primitiva data dalla natura al bambino, restituita in parte ad esso da una cognizione più ampia delle forze della natura. Allargandosi questa credulità colla scienza, può essere ella stessa portata fuori de' giusti confini, e si son veduti degli uomini che la passavano per sapienti, creder tutto possibile alla natura, esagerare le forze di questa, e quando niuna osservazione, niuna esperienza veniva loro in sostegno, anzi tutte le osservazioni e tutte le sperienze lor contrariando, dire tuttavia: « Chi può conoscere tutti i segreti naturali? Chi può provare che delle occulte virtù non esistano nel seno della natura, le quali produr possano fenomeni i più straordinarŒ, i quali non si sono mai veduti avvenire »? Questi sono pienamente ritornati colla lor scienza alla credulità universale dell' infanzia. Basti qui una parola, magnetismo animale , per convincere il lettore, che tutto fu creduto possibile da certi uomini alle forze segrete riposte nella materia o comechesia in quest' universo. Come poi v' ebber molti che credettero fermamente esser condotti da una scienza accumulata con lunghe vigilie a dover credere tutto possibile, niente impossibile alla natura; così degli altri, colla stessa presunzione di dottrina, puntarono i piedi e le ginocchia a mantenere impossibile al tutto quello che trapassava le opinioni che essi si erano formate sulla potenza degli enti. L' incredulità religiosa si giovò ora di quel primo errore, ora di questo secondo a sostenersi, come ella credeva. V' ebbero degl' increduli i quali negarono i miracoli, perchè non si può sapere, dissero, quanto si estendano le forze della natura, e però quelli che noi crediamo fatti miracolosi possono esser fatti naturali. V' ebbero ancora degl' increduli i quali negarono i miracoli per la ragione contraria, cioè perchè i fatti che noi crediamo miracolosi superano, dicono, le forze della natura da essi troppo ben conosciute, nè trovano altre possibilità fuori di queste. Giunge fin alla lepidezza l' indicibilmente presuntuosa ignoranza da capo a piedi broccata e rabescata di pedanteria grammaticale e filologica erudizione dei così detti biblici razionali della Germania, i quali escludono francamente dalla Bibbia ciò che essi dichiarano impossibile, misurandolo da quelle regole di possibilità che si sono formati a loro arbitrio (1). Fino a tanto che il bambino si dirige secondo gli impulsi della natura, egli è determinato dalla sua spontaneità; nè può nascere alcun combattimento morale nel suo spirito. Proverà talora il dolor fisico, combatterà, per così dire, colla natura delle cose, dovrà esercitare la scelta tra quelle cose piacevoli e dolorose o tra quelle che sono più o meno piacevoli, ma in tutto questo combattimento non entrano motivi morali: egli non crede di dover niente alla natura se non in ragione della sua bontà o bellezza: e la bontà o bellezza della natura è infatti la misura della sua benevolenza ed ammirazione: come la sua benevolenza e la sua ammirazione sono la misura e la regola delle sue azioni. Ma tostochè egli giunge a conoscere mediante il linguaggio la volontà di un altr' essere intelligente, della madre o d' altra femina che ha cura di lui, da prima egli s' inchina ed uniforma ad essa e sente di doverlo fare conoscendo che quell' essere intelligente è degno della sua benevolenza e lo merita più, quanto più gli presta egli il primo di amore e di servigi (1). Questo è ciò che nasce al terz' ordine d' intellezioni. Di poi avviene, che egli talora ritrovi la volontà conosciuta della persona amata (volontà che è divenuta per lui come una legge positiva) collidersi colle altre sue inclinazioni o colla soddisfazione de' suoi bisogni. Qui comincia la prima lotta morale in lui: questo è uno stato nuovo dell' anima. Si noti bene la natura morale di questa lotta. Alloraquando egli giudicava le cose che il circondavano secondo la loro piacevolezza e bellezza, o asprezza e deformità, egli non avea da far altro che da metterle in ordine nelle affezioni del suo cuore: quali in alto e quali in basso, quali ne' posti intermedŒ. Egli esercitava con se la sua moralità: distribuiva la sua benevolenza e la sua ammirazione secondo il merito delle cose. Questa distribuzione poteva benissimo falsificarsi, come abbiam veduto, per degli inganni tesi al suo giudizio dalla falsità delle persone che lo attorniavano: ma finalmente le false opinioni da lui concepite che dirigevano la sua stima, non gli potevano cagionar un rimorso; perocchè egli se le formava dietro quelle apparenze a cui egli riputava dover aderire, dietro quelle parole alle quali egli riputava dover prestar fede. Ma quando egli venne a conoscere la volontà di una persona, allora nel suo spirito è entrato un elemento nuovo che dee necessariamente in breve sconcertarlo. La volontà di una persona è qualche cosa di opposto alla natura delle cose: nella natura vi è la necessità , nella volontà tutto è libero e contingente: la natura è costante, immutabile, la volontà variabile di continuo: le diverse parti della natura, i diversi esseri che la compongono tengono un ordine fisso tra loro, ma non si saprebbe come allogarvi in mezzo la volontà libera, qual posto darle, questa è una cosa nuova, che non ha con essi alcuna omogeneità, alcuna somiglianza: l' esigenza degli esseri è sempre la stessa, ma l' altrui volontà esige ora più ora meno, ora vuole una cosa, ora la sua contraria, ora si volge a cosa facile e piacevole, ora a cosa ardua e dolorosa. Sebben dunque il bambino sia inclinato parte ad uniformarsi all' altrui volontà e parte (come vedremo) a piegare l' altrui volontà alla propria; tuttavia in breve egli si trova posto ad un duro cimento, sente che o dee posporre l' ordine soggettivo7oggettivo degli enti della natura (1), o discordare dalla volontà della persona che lo governa. Che cosa nasce adunque nel bambino in sì grave frangente? Come si risolve in tanta lotta morale? lotta cioè di due doveri che si disputano la sua volontà. Primieramente se la sua attività animale lo determina ad operare irresistibilmente ed istantaneamente, può avvenir benissimo ch' egli in questo atto dimentichi la volontà della persona ch' egli sa di dover amare e stimare, e poi dimentichi pure tranquillamente quant' è passato. Ma se quella volontà gli sta presente ed egli sceglie di mancarle, non può farlo senza pena; e questo dimostra ch' egli la colloca in cima a' suoi doveri, e che la considera come la principale sua legge. Questa pena o incipiente rimorso è la culla della sua coscienza morale; nasce la coscienza in quell' ora appunto, nella quale il bambino sa d' aver violata l' altrui cara volontà, d' aver fallato contro di essa; di averla posposta ad altre cose, alle quali l' avrebbe dovuta anteporre e dalle quali egli fu sedotto. L' osservò già una madre. [...OMISSIS...] La moralità dunque del quarto ordine si manifesta colla coscienza; ma sarebbe un errore il credere, che questa moralità si potesse esprimere acconciamente colla formola « segui la tua coscienza ». La coscienza non è ancora una regola di operare, ma semplicemente una consapevolezza di operar male o di avere operato male e non più. Le formole adunque del quart' ordine d' intellezioni (non che quest' ordine abbia ancor formole ma ha il contenuto delle formole, che si forman più tardi), le formole dico, o sieno i principŒ morali del quart' ordine, sono i seguenti: Primo. Si dee preferire l' accordo della propria volontà con quella degli altri esseri intelligenti a tutte l' altre soddisfazioni. Secondo. Se v' ha collisione, si dee sacrificare ogni altra soddisfazione per mantenere l' accordo della propria colle altrui volontà (2). Tutti e due questi principŒ racchiudono un gran passo, che fa il bambino nel campo della moralità. Il primo è notevole pel nobile sentimento onde s' accorge, che in un accordo della sua coll' altrui volontà deve stare il sommo bene, a cui gli altri debbono cedere. Il secondo è pure oltremodo notabile per l' elemento del sacrifizio , che s' introduce nell' ordine morale; e della virtù della fortezza necessaria a compirlo. Noi ritorneremo necessariamente altre volte sopra le immense conseguenze, che apportar debbono nel mondo morale del fanciullo due sì gravi e dignitosi principŒ. Un essere assoluto vien conosciuto necessario già al second' ordine d' intellezioni. Al battezzato secondo le dottrine profonde del cristianesimo è stato dato anco il sentimento di quest' essere assoluto, la percezione o sia cognizione positiva di esso. Consideriamo prima i progressi della cognizione naturale di Dio, a cui poscia aggiungeremo quanto spetta alla comunicazione soprannaturale. La cognizione naturale di Dio è sempre ideale negativa (1), perchè l' uomo non percepisce con essa Iddio ma solo induce per argomentazione, che oltre a tutti i limiti deve avervi qualche cosa d' illimitato , sebbene questo illimitato non sappia che cosa sia (2). Ora una tale cognizione, semplice come ella è, è tuttavia suscettiva di un successivo incremento. Questo è quello che dobbiamo ora mostrare cercando in quale stato una tale cognizione si possa trovare nella quinta età del fanciullo, o sia al quart' ordine della sua intelligenza a cui siamo pervenuti. Appena il bambino percepì un ente reale, la madre, non deesi già credere, che a quest' ente egli ponga dei limiti: per lui quello da prima è l' unico ente, tutto l' ente. Non sente, è vero, l' entità tutta, ma egli ve la suppone o certo non gliela nega (3). Tuttavia il suo senso è pur limitato: tutto ciò che vede e sente è circondato da limitazioni. Lo spezzamento, la moltiplicità degli esseri è là per contraddire al suo pensiero e per dirgli: tu erri, se ci credi tutto l' ente. Le parole della madre finiscono per disingannarlo: non solo esse spezzano via più e quasi tritano dinanzi al suo pensiero l' entità delle cose; ma col solenne vocabolo Dio , ch' egli sente a pronunciare, viene finalmente a persuadersi che tutto l' ente c' è, ma non è nulla di ciò che gli è finora apparito. Ecco la prima concezione di un Dio distinto dalla natura che si forma nella mente infantile. In questa concezione il bambino non si arresta certamente alla idealità: egli afferma una realità; ma questa realità non l' ha percepita, non sa che sia; sa solo che risponde appieno alla idealità universale che risplende nel suo spirito. Una concezione di tal fatta è così semplice, che non ammette analisi di sorta alcuna fino che restasi in tale stato; ma ben presto ella si muove e si sviluppa, ed eccone il modo. Niente della divina realità percepisce il bambino, onde la percezione non può completare la sua cognizione di Dio, nè dare a lui materia di farvi sopra delle analisi e delle sintesi, che è il modo onde si sviluppa la cognizione umana riguardante le cose naturali. Tuttavia questi progressi della cognizione naturale aiutano indirettamente anche la concezione della divinità. La ragione di ciò si è, che quanto più si conosce dell' essere naturale e limitato, tanto più si conosce altresì dell' essere universale; e quindi si ascende in qualche modo alla cognizione dell' assoluto per la remozione dei limiti. L' assoluto in fatti ha necessariamente relazione col relativo, e però quanto più si conosce dell' ente relativo, tanto più si conosce della relazione che ha con esso l' assoluto, e si può formarsi di questo una cognizione consistente appunto in queste relazioni. Egli è vero che se io tolgo i limiti alle perfezioni a me note delle creature, poniamo alla potenza di operare, alla sapienza, alla bontà, io non so più che cosa ne avrò per risultamento, non so in che cosa queste perfezioni mi si convertiranno, non ne ho la minima idea; ma sia qualsivoglia la trasformazione che esse prendono, e che io ignoro, so però che io non avrò perduto nulla d' esse, che avrò ancora tutto il bene loro indicibilmente e inconcepibilmente migliorato, e questo è già per me un grande aumento di cognizione, benchè consistente tutta in relazioni di una cosa incognita con cose cognite, senza che di quella cosa incognita io abbia percepito o sentito di più di prima. Al secondo ordine d' intellezioni il bambino apprende a parlare: al terzo ordine il nome di Dio che gli suona all' orecchio lo rende già accorto non solo dell' esistenza sua distinta da quella della natura, ma in Dio stesso pone l' intelligenza e la bontà che ha cominciato a conoscere nella madre, intelligenza e bontà assoluta a cui egli può già dare ammirazione e benevolenza infinita, che si cangia ben tosto in adorazione s' egli viene aiutato da una religiosa istituzione. Al terz' ordine egli apprende del pari che la madre ha una volontà; e al quarto egli trasporta la volontà della madre in Dio, e come la sua benevolenza lo inclina ad accordare e piegare la volontà propria a quella della madre, così lo inclina pure ad accordare e piegare la volontà propria a quella di Dio. [...OMISSIS...] Al quarto ordine d' intellezioni adunque l' idea di Dio può essere divenuta nella mente del bambino quella di una volontà suprema, ottima, a cui egli dee pienamente sottomettersi. Già abbiamo veduto come la natura intelligente che dirige il bambino gli abbia fatto intimamente sentire quanto rispetto meriti l' altrui volontà, come la volontà intelligente sia migliore di tutte l' altre cose, ed egli debba rinunziare a tutte per non mettersi con essa in discordia. Certo, che questo sentimento che nel bambino si manifesta verso la volontà della madre o d' altre persone a lui care, viene molto aiutato e rinforzato dal non conoscere egli ancora distintamente i limiti di quelle volontà e dall' attribuir loro una dignità maggiore ancora di quella che esse realmente abbiano, a cui egli è spinto dall' universalità dell' essere che contempla, all' ampiezza della quale crede a prima giunta che rispondano le realità che percepisce. Ma ad ogni modo la volontà divina pienamente soddisfa al bisogno che egli ha di trovare anche una volontà assoluta, piena, universale, e però egli è inclinatissimo a conformarsi alla volontà divina, e tostochè egli intenda, troverà la cosa così naturale, così giusta, così necessaria che non ne domanderà mai un perchè al mondo; piuttosto mostrerà gran desiderio di sapere qual sia la volontà di Dio, in tutte le cose anche le più minute, se pure la religione che ha naturalmente in cuore è stata in esso fomentata e coltivata. Così a questa età la mente del bambino anche naturalmente si dispone a riconoscere Iddio qual supremo legislatore. Il Cristianesimo ci apre un arcano: egli ci assicura, che l' anima dell' infante, che viene battezzato subisce una segreta ma potentissima operazione, per la quale egli viene sollevato all' ordine soprannaturale, vien posto in comunicazione con Dio. L' effetto di ciò è quello che abbiamo accennato, un intimo sentimento della realità di Dio. Questo colorisce, per così dire, ed incarna la cognizione naturale di Dio rendendola positiva, ne accelera i progressi, le dà vita, onde si fa operativa nell' uomo e feconda del più sublime morale ammiglioramento. I genitori cristiani debbono esultare di questo tesoro divino che sta nascosto nell' anima del loro bambino ed adorarlo: debbono custodirlo e svilupparlo; debbono finalmente non solo cavar profitto dalla grazia de' sacramenti, ma da quella che possono ottenere al figliuolo offerendolo all' Altissimo, pregando per lui, usando de' sacramentali, a cui è aggiunta una virtù benefica per la potestà della Chiesa di GESU` Cristo. Lo sviluppo della grazia si fa colla virtù e colla cognizione. Quanto alla virtù, è la dilezione e i suoi frutti che si debbono fin da principio seminare e coltivare nell' animo infantile. Quanto alla cognizione, è la cognizione di Cristo, che risponde all' infusione della grazia battesimale e s' acquista coll' udire la parola di Dio stesso. Il bambino a questà età dee imparare a conoscere Cristo non solo come Dio umanato, ma come maestro degli uomini, avente una volontà, a cui tutti debbono conformare la propria: ecco venuto il tempo, in cui si può aprire il Vangelo d' innanzi alla giovane intelligenza. Dallo sviluppo intellettivo del quart' ordine passiamo a quello dell' attività umana, che gli risponde. Converrebbe, a trattare la materia compiutamente, parlare a parte dell' attività razionale e dell' attività animale del bambino; ma questo ci condurrebbe troppo a lungo senza immediato vantaggio al nostro scopo. Scorciando adunque, come abbiam fatto nelle Sezioni precedenti, considereremo solo i punti risalienti per così dire dell' attività del nostro bambino, le note caratteristiche, i tratti che debbono essere più diligentemente osservati dall' istitutore. Cominciamo dunque dall' osservare che: Le volizioni appreziative sono quelle, che nascono dal paragone di due oggetti buoni o cattivi, dei quali apprezziamo l' uno più o meno dell' altro. Ora vedemmo, che solo al quart' ordine comincia il paragone; dunque al quart' ordine solamente può farsi quell' atto della volontà che SCEGLIE tra due cose paragonate. Ad un ordine precedente cioè al terzo si può bensì apprezzare , il che non importa paragone, ma non appreziare , il che esige preferenza, e antecedentemente paragone. Se si considera, che al second' ordine si formano gli astratti e però nasce l' amore ad essi, e nel primo si percepiscono i soli sussistenti e questi solo si possono amare, sarà facile lo stabilire e marcare il progresso corrispondente della volontà in questi quattro ordini: progresso che presenta il seguente schema: [...OMISSIS...] La sola volizione appreziativa non basterebbe ancora a poter dichiarare un bambino pervenuto all' uso della sua libertà . Io ho già mostrato, che se l' appreziazione e la scelta conseguente cade sopra cose, che appartengono all' ordine materiale o anco a cose semplicemente intellettuali, vi può essere scelta nell' uomo e tuttavia non ancora libertà. Questa incomincia a manifestarsi la prima volta che l' uomo dee paragonare l' ordine morale agli altri ordini inferiori; la prima volta che dee scegliere tra l' adempimento del proprio dovere e il proprio piacere, o sia la soddisfazione dell' istinto suo accidentale (1). Ma questa prima volta viene appunto al quart' ordine delle intellezioni. La collisione tra le cose attraenti per lui e il suo dovere ha luogo, tostochè egli conosce una volontà positiva, che sia in opposizione colle sue inclinazioni naturali. Ora questa volontà gli è conosciuta al quart' ordine. Noi abbiamo veduto che egli l' apprezza, l' apprezza grandemente; sente che ella è qualche cosa di più sublime di tutte l' altre cose; ed il rispetto, ch' egli è inclinato a dare alla volontà d' un essere conoscente da lui conosciuto, è sì grande, che se per qualsivoglia motivo, sedotto dalla tentazione, egli lo pospone ad un altro bene qualsivoglia, egli ne prova amaro rimorso, e non può vivere senza tornare in pace e in concordia con quella volontà. La mancanza di questa osservazione della natura del bambino ha condotto Rousseau ad una sentenza trista ed ingiuriosa all' umanità, colla quale egli vuole stabilire, che da principio non si debbono adoperare de' mezzi morali, ma la forza ; perchè a lui sembra l' idea del dovere troppo superiore alla infantile capacità. Quanto non è smentito il sistema dal fatto! Quanto la presunzione de' sofisti non ha disumanata l' umanità! Convien bene che il secol presente le riconquisti la dignità perduta palmo a palmo, e questo egli fa ogni dì coll' invitto potere che dà al vero una osservazione accurata de' fatti umani. E` l' osservazione più imparziale, che ci mostra nel fanciullo questo vero mirabile e consolante, che egli « ubbidisce al dovere morale prima di ubbidire alla forza »ubbidisce a quello prima di conoscer questa. Consideriamo anche qui la cosa coll' occhio semplice e sagace di una madre, che sa spiare sì bene nell' anima de' suoi nati, sì bene osservarli ed intenderli. [...OMISSIS...] Giunto adunque a questa età intellettiva il bambino sceglie tra il bene e il male morale, entra in possesso della sua libertà. Vedesi poi da questa prima apparizione del suo libero operare, ch' esso suppone qualche grado di fortezza, colla quale l' uomo che si mette dalla banda della bontà morale, combatte e vince l' allettamento contrario. Questa morale fortezza, che altrove abbiamo chiamata forza pratica , da principio si mostra alla sfuggita e si dilegua sovente innanzi ad una difficoltà un po' maggiore; ma anch' ella s' accresce, o sia trova dei rinforzi e degli amminicoli, che la sostengono: ella dunque soggiace ad un progresso e ad un cotale sviluppamento nell' animo del bambino. Se la credulità e la docilità del bambino fossero sempre cimentate col prescrivergli cose false, irragionevoli o di cui egli non potesse mai intendere una ragione, la sua virtù nascente rimarrebbesi facilmente soffocata nella culla. Nascerebbe dentro di lui il più angoscioso e desolante contrasto. Quella volontà esterna che gli apparì come cosa divina, d' infinita reverenza degna, gli si cangerebbe dinanzi in cosa misteriosa, inesplicabile, inconcepibilmente maligna. Tutto confuso da prima, ignorando se gli convenga dare ascolto all' invitamento della natura, che gli fa vedere tostamente nella prima volontà, che gli appare, una dignità somma, ovvero alla propria esperienza, che non gliela mostra, se non come cieca e disordinata; egli finirebbe con una morale disperazione e depravazione dello stesso suo cuore. Ma non permette la provvidenza, che gli uomini, che educano figliuoli, sieno nè pienamente cattivi, nè pienamente irragionevoli. Quello per tanto, che le loro volontà hanno in sè di bono, di ordinato, di ragionevole, di amoroso, è l' elemento benefico, che rinforza nel bambino quei due primi semi di virtù messi in lui da natura, la credulità voglio dire e la docilità. Il bambino si rende più rispettoso, a chi tratta con lui, più facile a credergli, più pieghevole ad obbedirgli; più che egli può vedere di utilità e di verità in quanto gli vien detto od imposto. Quell' educatore adunque sarà il più atto a rinforzare nel fanciullo le abitudini di credulità e docilità, il quale porrà più nelle sue parole, narrazioni e comandi di quella verità, che possa essere conosciuta per tale dal fanciullo, e donde possa trarre delle conseguenze; e più di quella utilità, ch' egli possa in se stesso osservare e sperimentare. Nel vero, quando il fanciullo si è formato una credenza vera e ne ha tirato delle conseguenze, egli si rende più docile e desideroso di udire altre cose da' suoi maestri; perocchè egli vede che tutto quello, che sa, lo deve all' aver creduto le prime volte. Questo fatto venne già notato: [...OMISSIS...] . Credenza dunque produce credenza; ubbidienza produce ubbidienza nel fanciullo, quando la madre o l' istitutrice insegna e comanda convenevolmente. Tuttavia nè la convenevolezza sapiente degli ammaestramenti e de' comandi, nè la tendenza a credere e ad ubbidire rinforzata dall' amore del sapere dedottone e dai vantaggi ritratti dalla docilità, bastano a far sì che le volontà degl' istitutori non vengono ben sovente in collisione pericolosa colle altre propensioni inferiori del fanciullo. Da prima, quando il fanciullo sì trova in sì aspro cimento, e pur egli non vorrebbe mancare a quello che sente essere il suo dovere: l' aderir cioè alla volontà altrui col sacrifizio di ogni cosa: e fino a tanto che questa volontà gli si mantiene presente all' animo; egli non potrebbe farlo senza provarne i più amari rimorsi. Ma egli vien facilmente sedotto quando la gravità della tentazione e la lusinga dell' oggetto vietato distacca interamente la sua attenzione dalla volontà, che gli è legge, e quasi gliela cuopre per un istante, sicchè egli più non la vede, vede solo l' oggetto lusinghevole: allora è caduto il misero irreparabilmente. Quel momento passa come il lampo e torna ben sovente e la vista della legge e il rimorso che egli cerca di occultare e di sopprimere, sebbene in vano. Ma il bambino tutto mette in opera per giungere a ciò che brama ed evitare tuttavia la miseranda sventura che gli minaccia di operare contro l' altrui volontà. E quindi è, che se da principio egli inclina a conformare la volontà propria all' altrui, quando poi insorge la passione e s' apre l' interno combattimento, egli cerca di tirare la volontà altrui a conformarsi alla propria, cercando nell' uno o nell' altro modo di conservare l' accordo delle due volontà, che pur non vorrebbe rompere, sebbene tentatone. Laonde egli è in questa età e non prima che comincia a manifestarsi nei bambini quella mirabile voglia, che hanno d' influire sulle volontà altrui, al che fare spiegano per tempo una destrezza tanto maravigliosa, una finezza, una penetrazione istintiva sì sorprendente (1). Venendo ora a descrivere qual sia l' istruzione conveniente al quart' ordine d' intellezioni, non ripeterò quelle cose, che ho dette in occasione di parlare degli ordini precedenti, molte delle quali anche a questo ed a' susseguenti si appartengono. Che anzi seguendo il metodo tenuto fin qui, toccherò anco in occasione di quest' ordine, certi principŒ pedagogici, che debbono essere ricordati in ciascun ordine de' vegnenti. I quali, in questo di cui trattiamo, cominciano a rendersi manifestamente necessarŒ, sebbene la loro necessità si faccia anche più stretta ne' susseguenti. Uno di questi principŒ universali, che debbono reggere non solo le prime ma anche le ultime scuole della gioventù, è quello di « considerare il linguaggio come lo strumento universale dato dalla natura allo sviluppo intellettivo dell' uomo », e però di porre la più accurata diligenza a far sì che questo grande istrumento serva al suo fine; che le parole e le idee si leghino accuratamente insieme; che l' uomo infine sia istituito sempre più nella lingua, ma in modo che i suoi progressi nella lingua sieno veri progressi nelle idee, nelle cognizioni. Questo gran principio fu conosciuto nell' antichità: fu proclamato nei tempi moderni ed anco in Italia nostra; e tuttavia non fu ancora ridotto alla pratica con quella diligenza e costanza ch' egli si merita. Uno di quelli che meglio tra di noi ne intesero l' importanza si fu il Taverna, il quale raccomandandolo in un discorso, che disse in Piacenza, giustamente affermò che [...OMISSIS...] Noi abbiamo pur veduto, che il bambino prima del linguaggio è legato ai sussistenti; non può staccarsi col pensiero da essi e prendere il volo per le immense vie delle astrazioni. Chi più sottilmente considera trova pure che tutti gli errori della mente, tutte le teorie perniciose, tutti gl' inganni tesi da' sofisti agl' individui e ai popoli hanno la loro origine dal significato improprio e vago delle parole. Dunque al fanciullo una cognizione profonda della lingua insegnagli la proprietà del dire non ad ornamento, ma a rettitudine, a verità e a utilità; è il mezzo migliore di munire il suo intendimento contro gli abbagli e le illusioni; di renderlo uomo di un senso squisito, d' una fina logica, d' un erudizione accurata e certa. Prendasi la cosa in tutta la sua estensione, e sarà facile vedere che noi punto non esageriamo. Ma pur troppo non esistono ancora libri acconci: non esiste ancora un vocabolario, che contenga la grande proprietà delle parole e che sia per conseguenza necessaria una cotale enciclopedia di cognizioni. Dico la grande proprietà , perocchè vi ha una piccola proprietà, quella dei dialetti o quella di un breve tempo piuttosto che di un lungo. La proprietà di cui io parlo è più costante: ella non è formata nè da una piccola popolazione, nè da un uso momentaneo: ma sì da un uso nazionale e talora umanitario, durevole a' secoli e talora a molti secoli sopravvivente nelle vitali radici delle parole alle lingue stesse perite (1). Dee continuarsi nel quart' ordine e ne' susseguenti l' esercizio dell' attività esterna, secondo le regole che n' abbiam dato; come pure l' ammaestramento per via d' immagini e medesimamente dicasi di rappresentazioni. Una raccolta d' immagini e di rappresentazioni drammatiche, adattate allo sviluppo graduato dell' infante, sarebbe un opera grande, degna del sapiente, di chi ama il genere umano. Quello pure che abbiam chiamato esercizio orale deve proseguirsi aggiungendovi anco quello della memoria. Si comincerà da sentenze morali esprimenti non più che la moralità proporzionata al bambino nostro, cioè quella che non esprima mai formole morali superiori all' ordine d' intellezioni, a cui egli è arrivato; o tutt' al più ad un ordine immediamente maggiore. Un libro che raccogliesse queste sentenze distribuite sagacemente secondo gli ordini d' intellezioni, che costituir debbono altrettanti gradi d' insegnamento, sarebbe pur desiderabile e necessario che si componesse. Ugualmente utile sarebbe un libro di poesie distribuite secondo i gradi stessi, per l' esercizio di memoria a' fanciulli. La musica poi non dovrebbe venire in soccorso come semplice diletto sensuale, no. Troppo altro è la tendenza del fanciullo che ha pur l' apparenza d' essere così leggero, così ubbidiente alle sue sensazioni: lo si creda, egli è intelligente e cerca da per tutto nelle sue sensazioni stesse intelligenza, e poi l' affetto e il diletto che gli nascono da essa purissimi. Laonde fermamente io credo che la musica sarebbe utilissima all' educazione; ma solo allora che l' istitutore si servisse di essa a vestire di affetto o quelle sentenze morali, o quelle rappresentazioni pure morali, che il fanciullo già conosce ed intende, sicchè non si rimanesse una musica cieca, o dominante, soffocante il pensiero; ma una musica serva della parola già comunicata al fanciullo; una musica, a cui il fanciullo presta gli orecchi come ad amica ed affettuosa interprete delle più nobili concezioni, che già sono entrate nell' animo suo, ma che ancor vi sono intirizzite e per così dire senza calore. Ma qual mai sapiente troverà questa musica? Quale l' adoprerà con tanta sobrietà, con sì coraggioso sacrificio, che nè cerchi in essa una bellezza meramente sensuale, nè bellezza superiore alla capacità del bambino? Chi sarà che intenda o che pregi una musica che non esprima che un pensier fanciullesco e che non la vesta che di fanciullesche parole? Chi m' assicura che questo stesso mio avviso non si fraintenda? e che volendolo seguire non se ne abusi? Si dee oltracciò continuare l' esercizio orale anche in questa età come un cotal preludio alla scuola di lettura e di scrittura, accrescendosene la parte intellettiva. Se nelle età precedenti l' esercizio orale riguardava i nomi ed i verbi, in questo può riguardare le particelle o i nessi de' nomi tra loro, de' verbi tra loro e de' nomi co' verbi. Questo è veramente un insegnare a parlare, se si fa bene. Vi sono delle idee, de' pensieri che sebbene alla portata della mente fanciullesca, tuttavia riescono sommamente difficili ad esprimersi al fanciullo. Conviene prima indicargli qual sia il pensiero che si vuole esprimere, e poi fargli trovare la forma più propria e più efficace di parlare. Ma non potrebbe questo esercizio riuscir bene, se prima qualche sapiente non abbia raccolti in un libro molti pensieri proprŒ di ciascun ordine d' intellezioni; e in pari tempo la maniera di vestirli acconciamente di parole. Dove questo libro fosse fatto, non sarebbe difficile condurre il fanciullo nostro graduatamente da' pensieri e dalla lingua propria d' un ordine inferiore a' pensieri ed alla lingua propria d' un ordine d' intellezione superiore. Dico non solo da' pensieri, ma anco dalla lingua; perocchè uno stesso pensiero può essere espresso variamente e in un modo sempre acconcio; ma proprio d' un ordine d' intellezione e non d' un altro. Vi sono delle costruzioni difficili a' fanciulli; e perchè mai sono difficili? Perchè appartengono ad un ordine d' idee superiore al loro. Si dovrebbero adunque dall' uom grande, che componesse il libro da noi desiderato, classificare secondo le età anche le costruzioni e i modi di dire diversi; e di questi pure ammaestrare il fanciullo graduatamente (1). Qual perizia di esprimersi acconciamente non acquisterebbe in tal modo il fanciullo! Quanta facilità di pensare pari alla sua perizia nell' uso del linguaggio, mezzo universale dello sviluppamento intellettivo! Quanto tempo guadagnato nelle scuole! Con che facilità non iscriverà poi i suoi concetti quegli che li sa così propriamente ed acconciamente parlare! Oltracciò, in questa età si dee già cominciare la scuola di lettura e di scritto. Le parole pronunciate, le lingue sono segni delle idee; le parole scritte, le scritture sono segni delle parole (1). La scrittura adunque appartiene all' ordine d' intellezioni prossimamente superiore a quel del linguaggio, e però al terzo. Ma noi abbiamo osservato che il linguaggio stesso abbraccia più ordini nelle varie sue parti, e che i verbi, che ne sono parte sì principale, non s' intendono che col terz' ordine. Convien adunque lasciare un po' di tempo al fanciullo, acciocchè intenda sufficientemente la lingua parlata; onde io consiglierei a differire la scuola della lettura fino ch' egli sarà bene avanzato nel quart' ordine intellettivo, che solitamente risponde alla seconda metà del terz' anno. Questo respiro poi che si lascia prima di cominciare a mostrare al bambino le lettere, viene da lui utilissimamente occupato nell' esercizio orale, che lo rende perfetto nel meccanismo della pronunciazione, lo arrichisce di una maggior estensione di lingua, e sopratutto gli dà occasione d' esercitare l' intendimento: ed entra poi nella scuola di lettura e di scritto ottimamente disposto e capace di gran progresso. Questo studio poi di lettura e di scritto (che non vanno disgiunti, come vedemmo) non dee punto essere affrettato; ma anzi lento, conciossiachè dee aversi in veduta di continuo, che non è la sola lettura e la sola scrittura che si voglia insegnare al fanciullo; ma, insieme con queste, cose molto maggiori, assai più elevate. Oltrecchè si dee vedere che niuna scuola sia puramente materiale; ma un continuo esercizio di tutte le sue facoltà, principalissimamente della sua intelligenza; e che sia di più una scuola morale. Furono altamente proclamati in Italia questi principŒ da degli uomini che la onorano per bel cuore e per una mente elevata (1). Ora, io credo che l' insegnamento della lettura e dello scritto vadano assai bene accoppiati insieme, o alternati, quasi due parti d' uno studio solo più tosto che due studi. L' uno e l' altro infatti appartiene allo stesso ordine d' intellezioni, perocchè chi scrive non fa che aggiungere l' azione delle mani a disegnare quel carattere che già conosce, onde non ha debito d' aggiungere conoscenza, ma solo azione esterna, che va tanto bene unita all' azione intellettuale, colla quale l' unì quasi individualmente la natura stessa. Laonde se dopo che io avrò mostrata al fanciullo la lettera a e insegnatogliene il suono, lo farò disegnare questa figura colle sue stesse mani, egli dopo disegnatala non la dimenticherà mai più senz' altro, perocchè, come osservò Rousseau, [...OMISSIS...] . L' azione, il far loro fare le cose è dunque il migliore mezzo per farle loro apprendere e per saldarle nella loro memoria. Tuttavia tutto lo studio di lettura come quello di scritto importa sopratutto che sia graduato; e che si abbia continuamente in vista l' una e l' altra parte, cioè la meccanica e la intellettuale; rivolgendosi poi entrambi acconciamente al progresso morale. Egli è evidente che come la lingua giova mirabilmente ad analizzare il discorso del pensiero , così la lettura giova ad analizzare le parole scomponendole ne' suoni elementari di cui constano; e lo scritto finalmente giova ad analizzare le lettere stesse, elementi delle parole, notandosi ciascuna parte di cui le lettere si compongono. Vi ha dunque un progresso d' analisi, di cui deve fare uso il savio institutore. Vi ha parimente una direzione diversa dell' attenzione. Fino a tanto che si parla e nulla più, l' attenzione nostra va a finire nel pensiero che si vuole esprimere, e i segni del pensiero, la lingua non riceve che una attenzione sfuggevole e relativa; ma quando si legge, allora l' attenzione si ferma al suono delle parole, e la figura impressa che abbiam sott' occhio non trattiene la nostra attenzione che un istante quanto basta, perchè appuntandosi, per così dire, in quella possa slanciarsi al suo termine, che è il suono della parola. Finalmente, quando si scrive , l' attenzione si ferma alle lettere che si debbono figurare e disegnare colla mano, e che divengono il termine della nostra azione. Il termine adunque delle nostre azioni intellettive è dove si ferma e posa l' attenzione, dove questa porta la sua luce lasciando nelle tenebre il resto, a quella guisa che un fanale non illumina i luoghi, ne' quali egli passa velocissimamente, se non per brevissimo istante. Anche questa legge dell' attenzione umana è da notarsi con diligenza dall' istitutore; perocchè ella, se ben considera, gli dà in mano il modo da governare e temperare l' attenzione del fanciullo a suo grado. Vi ha dunque bisogno di un metodo di lettura e di scritto uniti in un libro solo, e diviso per gradi; altro lavoro da farsi da' cultori della grand' arte dell' educare, di cui abbiam però ben avviati dei tentativi nobilissimi. Un somigliante libro si dovrebbe comporre per insegnare graduatamente l' aritmetica a' fanciulli. Noi abbiamo veduto, a ragione d' esempio, che al quart' ordine d' intellezioni, a cui siam pervenuti, il fanciullo può formarsi una distinta idea del numero tre. Come dunque l' aritmetica dell' età precedente dovea fermarsi a mostrare le proprietà dell' uno e del due, così l' aritmetica di questa dee trattenersi nelle proprietà relative dell' uno, del due e del tre, e loro varie unioni, esprimendo queste in modo che non faccia bisogno d' altro che di quello di questi tre numeri in prima, e poi gradatamente de' loro varŒ composti. Oltre tutte le cognizioni descritte, che si possono dare al fanciullo di questa età, si dee oggimai pensare ad introdurre anche un bell' ordine nelle sue cognizioni. Questo studio di ordinare le cognizioni del fanciullo deve cominciare tostochè la sua mente sia capace di ricevere l' ordinamento delle proprie idee, cioè di ridurre le proprie idee a certi principŒ o idee principali. Ora noi già vedemmo che nell' età precedente a questa cominciarono nella mente umana ad operare dei principŒ definiti, i quali di età in età vanno continuamente ricevendo incremento e perfezione. Questi principŒ si debbono far servire da noi quasi come altrettanti cappŒ in cui le idee s' annodano. E però, se al terz' ordine d' intellezioni questi principŒ incominciano, al quarto si possono già adoperare dal savio istitutore a vantaggio del suo discepolo, purchè egli badi anche qui a mantenere fedelmente quella gran regola dell' educare che noi continuamente raccomandiamo, « di non adoperare a collegare le idee del fanciullo, se non que' soli principŒ che il fanciullo ha già ricevuti nella sua mente, perocchè l' usarne degli altri sarebbe un volere da lui l' impossibile ». E tuttavia grand' arte si dee porre oltracciò ad ottenere quello che noi vogliamo, cioè il progresso intellettuale e morale; e le idee, che comunemente si hanno sulla maniera di dar ordine alle cognizioni infantili, sogliono essere troppo incomplete ed insufficienti; onde crediamo pregio dell' opera il dichiarare qual sia l' ordine che si dee cercar d' introdur nella mente dei fanciulli e dei giovani, acciocchè egli riesca il più possibile vantaggioso. Il savio istitutore cercherà di procurare tre vantaggi al discepolo, cioè: 1 Di aiutare la sua memoria, il che si ottiene promovendo l' associazione delle sue idee; 2 Di unificare, quant' è possibile, i suoi pensieri; 3 Di procacciare che quest' unità data a' suoi pensieri non sia arbitraria, ma fondata nella verità, nell' ordine universale delle cose, perocchè egli è questo che dà all' unità de' pensieri un' importanza morale. Queste tre cose sono ben diverse tra loro, ed è necessario notarne accuratamente le differenze. Esse sogliono confondersi insieme, e talun crede che il dar ordine all' umana mente tutto consista unicamente in far nascere il maggior numero possibile d' ideali associazioni; altri va più avanti, ma crede poi d' aver fatto ogni cosa quando sia pervenuto a fare che il fanciullo raggomitoli, per così dire, le sue idee intorno ad un' idea principale, o le annodi ad un dato principio, senza darsi pensiero della scelta dell' idea o del principio a cui si devono legare, creando così nelle menti un cotale ordine più fattizio che vero, più rappresentante le opinioni fallaci degli uomini, che la reale natura, l' immutabile verità. Si consideri adunque attentamente, che la memoria e la reminiscenza si aiuta con qualsivoglia associazione d' idee, ma non da qualsivoglia associazione d' idee viene l' ordine delle idee stesse; che anzi l' associazione che si forma per analogia affatto accidentale e minuta tra idee disparate è quella appunto, che forma il carattere leggero, mutabile, capriccioso, del tutto anti7logico delle menti: il delirio stesso si alimenta di una rapida e strana associazione d' idee: la frivolità de' fanciulli ha la stessa origine. Si dee dunque anzi cercare una associazione assennata che una associazione frivola, e già questo solo non è un affare leggiero. Gioverà dunque per ispianare la strada, che qui passiamo in revista le principali specie d' associazioni d' idee, ossia le ragioni diverse, per le quali si formano naturalmente di esse altrettanti gruppi. La prima ragione si è la forza unitiva dell' animale , la quale ha un gran numero di funzioni e produce dei fenomeni innumerabili (1). Ora lo spirito intelligente si lascia a principio volgere dall' animalità, e però quando la forza unitiva animale unisce due sentimenti, esso vede pure unite le idee o intellezioni, che a quei sentimenti rispondono. A questa forza unitiva appartiene, come funzione principale nella materia che trattiamo, la fantasia o immaginazione animale, la quale suole accozzare insieme quelle immagini, che in essa comparvero una volta unite per continuità nello spazio, o per successione nel tempo, o per similitudini nell' impressione, o per qualche analogia talor lontanissima. Una porzione che si risvegli dell' immagine in questi modi complessa, tosto si suscitano e fanno presenti tutte le altre parti; quello che io dico delle immagini complesse cioè risultanti di più immagini come che sia insieme congiunte si deve dire parimenti di tutte le altre funzioni della forza unitiva. Questa fa sì che l' animale muova con un atto solo istintivo non una ma un gruppo intero di facoltà. Questo gruppo di facoltà si muove talmente accordato, che basta un atto di una, che l' animale sia spinto a fare, e tosto egli fa insieme gli atti di tutte le altre. L' intelligenza poi nell' uomo riceve da tali atti la sua materia, ond' avviene che l' atto d' una facoltà sola basta a far nascere la reminiscenza di una intera condizione o stato di corpo e di tutte quelle cose che a essa condizione e stato si riferiscono. La ragione di questa congiunzione di più immagini, sensazioni, istinti, atti di varie facoltà animali è tutta nell' unità del soggetto, in cui tutte le potenze e i loro atti si radicano. La seconda ragione è la forza unitiva dell' ente animale7intellettivo (uomo). Mediante questa forza unitiva umana l' ordine dell' intelligenza va di consenso coll' ordine dell' animalità: un movimento in questo difficilmente si fa isolato e solo, senza che nascano de' movimenti anche nell' ordine intellettuale, e così viceversa; difficilmente l' uomo agisce come intelligenza, senza che col medesimo atto egli non sollevi de' tasti, per così dire, anche nell' ordine animale (2). La terza ragione è l' incatenamento, che hanno veramente le idee e i pensieri tra di loro: la inesistenza di un' idea elementare in un' altra più sintetica o quella di una conseguenza nel suo principio. Questa congiunzione e associazione è assai diversa dalle due prime come si vedrà dai seguenti esempŒ. Io riveggo una persona e tosto mi si rappresenta all' anima il campanile della chiesa della sua parrocchia: qui vi ha un' associazione d' immagini, che potranno unirsi e richiamarsi nella fantasia anco d' un essere meramente sensitivo: qui ebbe luogo adunque la prima ragione d' associazione. All' incontro, al rivedere di quella persona ciò che subitamente mi si affaccia alla mente si è la dimostrazione di un bel teorema di matematica, che da essa ho già udito esporre. Qui viene in campo la seconda ragione dell' unità del soggetto animale7intellettivo: perocchè l' associazione consiste fra delle sensazioni animali, quali sono le imagini della persona, dei suoi discorsi ecc. e delle intellezioni, quali sono le idee che formano quella dimostrazione: l' unione dei due ordini animale e intellettuale ha qui il suo fondamento nella unità del soggetto uomo. Lo stesso sarebbe se dal rammentarmi quella verità matematica mi si affacciasse all' anima il volto o anche solo il nome del maestro che me la insegnò; solo che qui vi sarebbe il passaggio contrario dall' ordine dell' intelletto a quello del senso, mentre nel primo caso il passaggio era da questo a quello. Ora si osservi bene, che in tutti questi casi non vi ha nessun intrinseco rapporto tra le due cose che si associano nella mente nostra. E veramente una persona ed un campanile non hanno insieme la più piccola somiglianza: così pure una persona e un teorema matematico son cose sì disparate, di sì diversa natura, che per se stesse non pur non s' inchiudono, e non si assomigliano; ma anzi l' una sta nell' ordine delle cose reali, l' altra in quello delle ideali: sono cioè separate da una distinzione categorica. Non così sarebbe se al venirmi in mente di un principio tosto mi si affacciasse al pensiero altresì quelle conseguenze che prese insieme formano la dimostrazione del teorema. In questo caso le idee chiamano le idee, i pensieri chiamano i pensieri. E` un lavoro che accade tutto nell' ordine dell' intelligenza. E il lavoro potrebbe pure avvenire nell' ordine dell' intelligenza, quand' anco la materia del lavoro fosse sensibile. Così se alla vista di un uomo, io tosto rammento che egli è un essere composto di corpo e d' anima, v' ha un' associazione di pensieri, perocchè tra il pensiero dell' uomo e quella delle sue parti passa una relazione intrinseca e intellettuale, quantunque il pensiero dell' uomo ivi fosse somministrato da' sensi o dall' imaginazione in occasione di vedere un uomo o d' imaginarlo veduto. Ora egli è chiaro tuttavia, che quando non si volesse ottenere che un fine solo, quello di facilitare la reminiscenza del fanciullo senza scelta nelle idee, qualunque di queste tre specie d' associazioni sarebbe acconcia: è chiaro che l' arte della memoria artificiale si potrebbe ugualmente fondare sulla prima, sulla seconda o sulla terza specie di associazioni, o su tutte e tre. Ma questo non basta, come abbiamo detto, pel progresso morale del fanciullo. Questo progresso esige più cose: esige 1 che il fanciullo impari la connessione che hanno le idee tra loro; 2 che acquisti facilità di passare, mediante queste connessioni che diventano nella sua mente altrettanti principŒ generali di pensare e di ragionare, di passare dall' una all' altra non per opera semplicemente della reminiscenza, ma per l' uso del proprio ragionamento; 3 che questo passaggio sia esercitato da lui liberamente, e non in virtù di qualche istinto necessario e casuale, sicchè il fanciullo acquisti talmente la signoria delle proprie cognizioni e de' proprŒ pensieri, ch' egli le abbia alla mano quando le vuole. Ora questi vantaggi non si ottengono, se non promovendo nel fanciullo la terza specie di associazioni fondata nella relazione intrinseca delle idee e delle cose conosciute. Che se noi consideriamo che ogni rapporto d' idee o di cose conosciute noi l' apprendiamo mediante un' unica intellezione, facilmente potremmo ridurre tali rapporti ad una sola formola, dicendo che « ogni associazione intellettiva consiste in vedere in una intellezione complessa le intellezioni elementari, e in passare dalle intellezioni elementari alla complessa ». Le intellezioni complesse sono: 1 le classificazioni maggiori delle cose nelle quali si comprendono le classificazioni minori come elementari; 2 le idee di cose composte, nelle quali si comprendono le idee delle parti delle cose come idee elementari; 3 e più generalmente ancora i principŒ ne' quali si contengono, come intellezioni elementari, le conseguenze (1). Convien dunque che il savio istitutore sappia accortamente osservare, e con delle opportune interrogazioni e sperienze scoprire quali sieno in ogni età del fanciullo le classificazioni ch' egli si forma, le idee d' oggetti moltiplici ed i principŒ; e partendo da questi dati, che già nella mente del fanciullo si trovano, dee farlo discendere gradatamente dalla massima classificazione che egli ha in mente alle minori, e da queste ascendere a quella; gli oggetti complessi a lui cogniti dee farglieli analizzare, e dalle parti lor già trovate rivenir al tutto; finalmente da principŒ (ma s' intenda bene, da suoi principŒ e non da altri) menarlo alle conseguenze, e dalle conseguenze restituirlo ai principŒ. Egli è chiaro che con tali esercizŒ si vanno mirabilmente ordinando i pensieri del fanciullo, perocchè si riassumono le cose continuamente alla loro classe suprema, s' imparano a veder le parti bensì delle cose, ma nel loro tutto unificate, e ai sommi principŒ si appendono per così dire le innumerevoli conseguenze. E chi non vede che per tal modo il fanciullo viene acquistando la cognizione dei nessi che naturalmente adunano le idee, e per quelli prende agevolezza di trascorrere in esse colla mente? e che di più egli acquista balìa de' proprŒ pensieri? Perocchè l' uomo che abbia presente alla mente una classe molto estesa di cose è già padrone, s' egli pur vuole, di passare alla considerazione delle classi minori, il che non potrebbe fare, se non l' avesse. E così chi conosce il tutto ha potestà di conoscere le parti, come chi possiede un dato principio è fatto libero, a cagione dell' estensione virtuale d' esso, di spaziare a sua voglia pel campo delle conseguenze. Sicchè può dirsi a tutta verità che « la riflessione libera in ciascun uomo si estende solo a quel tanto a cui s' estendono le sue attuali complesse intellezioni ». Il darsi poi maggior cura di questa associazione intellettiva non è già un lasciar del tutto da parte le altre due maniere d' intellezioni venienti dalla forza unitiva dell' animale e dalla forza unitiva dell' uomo, ma è un dar ordine a queste stesse, un sommetterle alla ragione, il far sì che l' uomo ne divenga padrone e ne possa a suo vantaggio liberamente disporre. E nel vero l' ordine delle idee e dei pensieri aiutano moltissimo anche la reminiscenza fantastica, nello stesso tempo che la regola e la fa utile a se stesso. E perchè mai è più facile imparare a mente un discorso che abbia senso, che non un ammasso di parole sconnesse al tutto e gittate a caso? Il rammentare la successione di que' suoni è operazione fantastica; ma se quelli rendono un sentimento, l' ordine delle idee rende tosto assai più facile quella operazione stessa sebben fantastica. Viceversa poi l' associazione animale aiuta la reminiscenza delle idee, e per ciò anche quella del loro ordine, perocchè l' ordine delle idee è formato da altre idee di connessione, le quali possono pure esser legate a de' segni sensibili, e così i segni sensibili possono risvegliar nella mente l' ordine che si desidera. Ma questo stesso effetto non si ottiene meramente dalla natura abbandonata a se stessa, ma dall' arte. Conviene che preceda una mente la quale, avendo le idee in se stessa ordinate, ordini altresì i suoni a quelle corrispondenti. Allora questi suoni o segni sensibili così ordinati giovan benissimo o a comunicare altrui lo stesso ordine d' idee, o a richiamare in mente a se medesimo le idee ordinate. E questo è il fatto dell' invenzione dei linguaggi e delle scritture, e la ragione del vantaggio immenso che recano ai progressi dell' umano intendimento. Per altro, l' associazione che si fonda nell' ordine delle idee è la sola che possa servire alla moralità. Abbiam veduto che le due prime maniere d' associazioni hanno il loro fondamento nella forza unitiva del soggetto: è l' unità del soggetto che le produce. La terza, all' incontro, ha la sua ragione nell' oggetto stesso, il che è quanto dire nella verità. Questa sola osservazione basta per intendere che solamente quest' ultima specie di associazione ha uno stretto rapporto colla moralità: ella prepara la via a questa, perocchè la virtù non consiste in altro se non nella ricognizione volontaria dell' ordine oggettivo (1). Ma l' ordine oggettivo dee essere riconosciuto compiutamente dalla volontà, e quant' è più compiutamente, più egli divien morale, più vi ha di virtù nell' uomo. Questo vuol dire che l' educazione dee tendere a far sì: 1 che le idee e i pensieri si congiungano nel bambino secondo i loro nessi naturali e veri, e non secondo nessi arbitrarŒ e falsi; 2 che questo annodamento delle idee sia il più compiuto possibile. Si vedrà facilmente quanto questa dottrina consuoni al principio supremo dell' educazione da me altrove proposto ed enunciato così: « « Si conduca l' uomo ad assimilare il suo spirito all' ordine delle cose fuori di lui, e non si voglia conformare le cose fuori di lui alle causali affezioni dello spirito suo »(2) ». Ho mostrato ancora come l' educazione dee abbracciare la mente, il cuore e la vita dell' uomo (3). Ora il cuore, cioè la volontà cogli affetti dee rispondere alla mente, la vita rispondere al cuore. Se la mente dunque si conforma all' ordine oggettivo delle cose, se si ha in esso il tranquillo lume del vero, non il falso e confuso delle opinioni e pregiudizŒ, il cuore avrà il tipo su cui, per così dire, stamparsi, e la vita non sarà che una continua imagine del cuore. Se la vita dee essere un' incessante produzione del bene universale , nel cuore prima dee esservi la universale carità; e questa non può esservi nel cuore, se nella mente non v' ha la disposizione a non escludere niuna cognizione, ad abbracciarle tutte. L' universalità della mente imparziale produce l' universalità del cuore benevolo , e l' universalità del cuore benevolo produce l' universalità della vita buona . Si dee dunque educare la mente del fanciullo a riconoscere tutti i nessi delle cose ch' egli può riconoscere in ciascuna età, voglio dire a riconoscere tutto l' ordine oggettivo di cui è capace; al che fare è necessario che i nessi delle cose si dispongano nella sua mente non già a caso, ma essi stessi ordinati; cioè prima i più rilevanti e poscia i meno. Come uno è l' essere e tre sono le categorie , così vi ha pure un' unità suprema nelle cose; e vi hanno tre maniere di unioni. L' unità suprema è formata dall' idea di Dio essere essenziale. L' unità di Dio dee dunque rendersi dominante nella mente del fanciullo: a Dio come a creatore, a conservatore, a fonte di ogni bontà dee rivocarsi dalla mente del fanciullo tutte le cose: ma dee farsi sempre coll' idea propria di quell' età in cui il fanciullo si trova. Nel primo e second' ordine d' intellezioni egli concepisce Iddio come complemento dell' essere: lo concepisce tutt' insieme reale7intellettivo7buono. Il riferire e rifondere le cose in Dio colla maggior generalità possibile di parole è dunque la maniera più facile e il primo grado del far sentire e intendere ai fanciulli la dominazione dell' idea di Dio quasi assorbente tutte le altre. Al terz' ordine rimane la stessa idea di Dio, ma non assorbe più le altre; queste si distinguono da essa, e distinguendosi ingrandiscono quella: un segreto sentimento di adorazione può già qui aver luogo: un annullamento, un sacrificio di tutte le altre cose a Dio è il secondo grado, il secondo modo di subordinare ciò che è contingente all' Essere supremo. Al quart' ordine si manifesta Iddio come volontà. Cioè dopo essersi distinto Dio dalle creature, si distingue in Dio stesso l' ottima volontà dalla sua natura7intellettiva. La conformazione de' proprŒ voleri, senza esclusione d' alcuno, alla volontà divina; la subordinazione dovuta di tutte le volontà a quella sola; è un principio che di nuovo unifica nell' idea di Dio le altre idee: è il terzo grado, il terzo modo di fare intendere e appercepire il nesso fra tutte le altre cose e l' Essere supremo. Al quint' ordine si cominciano a conoscere alcuni dei divini precetti, e l' accettarli con assoluta devozione è un quarto modo di riferir tutto a Dio. Finalmente al sesto si comincia a conoscer Iddio come intelligenza o superna ragione, allora solamente in Dio sono distinte le tre forme del suo essere: la morale, l' ideale e la reale; che prima indistintamente si raccoglievano nell' idea dell' assoluto. Qui s' apre un quinto modo di legar tutte le cose con Dio, rifondendo in esso le ragioni delle cose tutte, e in tutte adorando l' eterna sapienza. Queste cinque maniere di ordinare le cose create sotto l' unità suprema del Creatore, e di porre così l' ordine principalissimo e naturalissimo nella mente, nel cuore e nella vita debbono esser studiate grandemente dal savio e cristiano educatore. Lo sviluppare poi questi cinque gradi successivi e specie diverse di religioso insegnamento; il rinvenire gli spedienti necessarŒ e le industrie per le quali si possono applicare ai fanciulli, e farli pervenire successivamente al loro spirito, sarebbe pure argomento d' un libro importantissimo e necessario alla solida educazione. Venendo ora a quella ordinazione che derivar si dee alle cognizioni del fanciullo in ciascuna sua età dalle categorie dell' essere, come queste sono tre, così tre sono i principŒ d' ordine e di unificazione. Cominciamo dall' idealità . L' essere ideale universale è quello che unifica questa categoria di cose. Sarà dunque assai bene che si faccia considerare al fanciullo in tutte le cose l' entità; e che gli si mostrino i modi dell' entità che rendono le cose diverse come semplici limitazioni, o anco, se si vuole, atti di quella: e che si faccia così il fanciullo discendere dalla classe massima alle minime delle cose. Ma e quali saranno i gradini di questa scala? - Diversi nelle diverse età. Per rilevarli dovrà il savio istitutore rilevare, con riflettere sulle parole del fanciullo facendol parlare, quali sieno le classi delle cose ch' egli in ciascuna età è pervenuto a formarsi: certamente queste classi avranno per base delle idee semi7astratte, come abbiamo veduto; ma queste stesse idee semi7astratte variano secondo lo sviluppo del fanciullo, ed ora costituiscono classi più larghe, ora meno. Ad ogni modo (rilevati quali sieno i semi7astratti su quali il fanciullo classifica le cose) converrà ordinarglieli, fargli vedere qual sia più larga, quale più stretta, quale si contenga nell' altra, quale sia contenuta: in una parola, i gradini per discendere dall' entità ideale alle altre più determinate devono essere quelli che già esistono nella mente del fanciullo, o i prossimi ad essi, a' quali il fanciullo faccia agevolmente, con tale occasione, il passaggio. Come si possono ora ordinare i pensieri del fanciullo rispetto alla realità? Gli enti reali si appercepiscono dall' uomo come sussistenti e come agenti. Quanto alla sussistenza, sono gli elementi materiali che si debbono far trovare al fanciullo, anche qui menandolo dalla cosa più composta alla meno, per esempio, dal mondo alle sue parti maggiori, dalle sue parti maggiori alle minori, e così di mano in mano. Ma anche in questo esercizio si dee seguire una regola somigliante: cioè non parlare se non di quelle parti che il fanciullo già conosce: per esempio, dalla casa si potrà farlo discendere all' idea delle stanze, dall' idea delle stanze all' idea de' siti diversi che si possono in una stanza stessa assegnare, o simile. Assai per tempo si può il fanciullo condurre fino alla cognizione de' principŒ chimici, al che molto gioverebbe l' orto botanico, il gabinetto di storia naturale, distribuiti a suo uso, ed altri simili aiuti. Tutti gli enti poi si possono rattaccare all' idea dell' universo, e ultimamente a quella di Dio come essenzial sussistenza. Quanto poi all' operare delle cose, si dee rilevare parimente quali sieno i principŒ definiti che il fanciullo è giunto a formarsi sulle forze e le attività delle cose; e moderare l' insegnamento in modo di far sempre uso di quelli. I principŒ d' azione, le forze, le cause vengono gradatamente a concepirsi, a disegnarsi via meglio nella mente del fanciullo. Or l' istitutore tostochè s' accorge che un dato principio è già composto nello spirito del suo allievo, egli dee impossessarsene per aggruppare intorno a lui molte idee; facendone fare al fanciullo una frequente applicazione a quante più cose gli sia possibile. In tal modo que' principŒ diventano modi preziosi che collegano le idee divise, e danno alla mente ordine, luce, potenza. Molte di queste unioni diventano assai utili allo stesso sviluppo morale, come, a ragione d' esempio, quella per la quale il fanciullo giunge a conoscere che tutti gli uomini vengono da una causa sola, da un solo padre, e non costituiscono per ciò che una sola famiglia. Veniamo alla terza categoria, quella della moralità . Noi siamo venuti sponendo i principŒ morali che si forma il fanciullo in ciascuno de' quattro primi ordini d' intellezioni. E` conforme alla sapienza dell' istitutore il fondare su quelli le sue lezioni morali, unica maniera di farsi intendere dal tenero suo alunno; a quei principŒ egli dee richiamare del continuo le azioni, deve far fare al fanciullo un' applicazione continua di essi: in tal modo le idee delle azioni si unificano, perocchè si sollevano alle loro cause. Veniamo ora all' educazione. Nell' esporre l' educazione che risponde al quart' ordine d' intellezione, seguiremo il metodo tenuto fin qui, di dar cioè alcuni di que' documenti i quali servir debbono non pure per questa età di cui parliamo, ma ben anco per tutte le altre avvenire. Cominciamo dalla necessità che le parole degli istitutori sieno appieno veraci. Già osservammo che la credulità del fanciullo è un effetto della sua benevolenza. L' abusarne adunque dalla parte degli adulti è un atto di turpe ingratitudine. Veramente all' irriflessione e all' egoismo degli adulti questa proposizione è del tutto incomprensibile: l' ignoranza e la debolezza del fanciullo, l' averlo nelle loro mani senza ch' egli possa difendersi, nè tampoco perorar la sua causa, sembrano loro de' titoli sufficienti a poter disconoscere il tenero loro fratello, e a credersi in possesso del diritto per fare di esso e ad esso bene e male, come loro attalenta. Vedemmo ancora che la benevolenza spontanea del fanciullo è cosa morale, che è un dovere che la natura stessa insegna ad esercitare. Chi abusa dunque della credulità fanciullesca, che è conseguenza della benevolenza, egli profana una cosa sacra, dispregia l' elemento morale e divino che dona la maggior sua dignità all' anima intelligente. Vedemmo che la benevolenza del fanciullo, oltre doversi rispettare altamente come cosa morale, deesi ancora coltivarla con bello studio, e questa coltura, volta a dirigere la benevolenza infantile in modo ch' ella conservi e cresca il suo pregio morale, dee, perchè ottenga il suo fine, mantenere ad essa benevolenza l' universalità, sicchè il fanciullo ami tutte le persone, e tutto nel debito ordine. All' universalità poi della benevolenza serve di fondamento e quasi di traccia l' ordine de' pensieri che abbiamo raccomandato introdursi nella mente del fanciulletto, di mano in mano ch' egli se ne rende capace. Ora quest' ordine bellissimo de' pensieri non è che la VERITA` nella sua pienezza e luce maggiore, perocchè la verità è da se stessa ordinata, e nella mente ove è il disordine è anche la falsità. Di qui vedesi adunque che attenzione, che diligenza, che probità si richiegga ne' genitori e istitutori del fanciullo! Quanto debbano questi, se sono savŒ, misurar tutte le loro parole, per non introdurre nella mente del fanciullo niente di falso, niun errore volgare, niun pregiudizio, non un' opinione esagerata, non una stima parziale. Ma chi d' altra parte si persuaderà, se non sarà virtuosissimo e al tutto sapiente, che sommamente importa tener l' animo del fanciullo vergine e puro da ogni pregiudizio nazionale, gentilizio, della condizione e dello stato? Pure ella è questa la maniera di allevare i fanciulli colle maggiori disposizioni alla virtù, alla sapienza e alla felicità. Felici quelli che venendo in questo mondo, riceveranno sortiti loro dalla Provvidenza tali educatori! Oltre il danno che i fanciulli ricevono gravissimo da ogni seme di falsità che s' introduca nelle lor menti, la mancanza di sincerità e di verità nei loro educatori rallenta altresì lo sviluppo del fanciullo. Abbiamo pur veduto che il fanciullo accresce il grado della sua credulità e docilità, quando l' esperienza gli dimostra che quello che ha creduto serve alla sua mente di punto d' appoggio ad altri ragionamenti. Ove possa vedere che questo punto d' appoggio gli manchi, sia fallace; in luogo di aver cagione di accrescere la sua credulità, dee anzi diminuirla. Niente ancora di più pernicioso di questa diffidenza che in tal modo si semina nell' animo del fanciullo! [...OMISSIS...] Il pericolo che v' ha d' abusare della credulità del fanciullo, v' ha del pari d' abusare della sua ubbidienza e docilità. L' educazione dee avere per somma legge il far sì che tutto sia retto nel fanciullo, la mente, il cuore, la vita. La mente del fanciullo si mantiene retta procacciando l' ordine universale delle idee (1): il cuore si mantiene del pari retto all' universalità ordinata della benevolenza, e la vita riceve e conserva la sua rettitudine con delle azioni sempre ordinate e ragionevoli, rispondenti a quel perfettissimo ordine de' pensieri e delle affezioni. Il fare che il fanciullo operi irragionevolmente od a caso, per non dir male, il fargli contrarre delle abitudini non fondate nè nella natura, nè nella ragione; è uno storcere i suoi affetti ed i suoi pensieri: perocchè il disordine della vita si comunica al cuore e alla mente: queste tre cose tra di loro intimamente e pienamente comunicano. Grand' errore adunque è il far servire il fanciullo al proprio trastullo, anzi che al suo vero vantaggio: l' adoperarlo come un mezzo e non rispettare in lui la dignità di fine: e pure quanti pochi genitori vanno puri da questo peccato! Pur troppo l' idea d' avere nel figliolo una proprietà è la prima che entri nel loro spirito: le leggi gentilesche contribuirono a rinforzare questo pregiudizio nelle menti, nè l' autorità del cristianesimo valse ancora a convellerlo interamente dalle menti, nè dai costumi. E dal non saper comandare rettamente, dal non saper dirigere le azioni del fanciullo secondo la ragione del suo stesso profitto, nasce facilmente il guasto della coscienza del fanciullo. I doveri dei genitori e degl' istitutori relativamente alla formazione della coscienza del bambino sono gravissimi e difficilissimi ad adempirsi: di questo dobbiamo dunque noi ora parlare: riprendiam da principio il ragionamento. Al riso del volto umano il bambino risponde col primo atto d' intelligenza, che è un atto ad un tempo di sua benevolenza. Questa benevolenza, abbiam noi osservato esser cosa morale. Di che si vede l' altissimo senno della Provvidenza, la quale nelle viscere materne pose un amore ineffabile che servir deve di acconcissimo stimolo alla razionalità ed alla moralità dell' uomo tosto che entra in questo mondo. Si vede ancora che gli atti della materna tenerezza, lungi dal nuocere al fanciullo, sono quelli che gli parlano, lo educano da principio, invitandolo e traendolo al conoscimento d' un' altra intelligenza buona a cui non può a meno di dare tanta stima e affetto maggiore, quanto maggiormente amorosa e bona a lui si mostra. Ma ben presto nasce il pericolo che il fanciullo esaurisca tosto la sua benevolenza in pochi oggetti; e però dee provvedersi, come dicemmo, che il suo cuore a niuna intelligenza dotata di bontà si chiuda, e più ancora che a niuna opponga alcun sentimento di malevolenza. Viene il tempo, ed è quello del terz' ordine d' intellezioni, che il fanciullo pel linguaggio apprende che gli enti intellettivi che come buoni ed amabili a lui splendettero ne' primi istanti, hanno una propria volontà, e il primo suo movimento si è quello che lo porta a conformarsi ad essa, a vivere in essa, senza nulla pensare di sè. Anche questo è un atto eminentemente morale. Ma qui pure si osservi che l' inclinazione di ubbidire, di conformarsi alla volontà altrui, nasce dalla credenza che s' è formata in lui che questa volontà sia buona, perchè è buono l' ente di cui ella è. Perciò la sua spontanea obbedienza è maggiore, quant' è maggiore la sua benevolenza e la stima verso l' ente intellettivo a cui ubbidisce, e la sua benevolenza e stima è maggiore, quanto maggiore è la bontà da lui appercepita nell' ente medesimo. Ora si considerino i mezzi che ha il bambino di misurare la bontà degli enti intelligenti che trattano con lui. Egli non può fondare il suo giudizio se non sui dati che la sua età gli somministra; e se quello corrisponde a questi dati, è giusto e retto; perocchè la giustezza e la rettitudine morale è sempre relativa al soggetto, cioè è relativa al modo onde l' oggetto viene dal soggetto appercepito. Ora, gli unici dati che quella tenera età somministra, non risultano che da quella immediata comunicazione delle anime, di cui abbiamo parlato, che si fa tra il bambino e le persone che il trattano per mezzo delle dimostrazioni sensibili, risi, baci, carezze, sensibili piaceri a lui procurati, servigi a lui prestati. Quanto adunque più amorosamente egli viene trattato, anche più di bontà appercepisce nell' ente che il tratta, e giustamente egli risponde colla sua benevolenza ed ubbidienza. Questo spiega primieramente il perchè l' ubbidienza del fanciullo non sia la medesima verso tutte le persone, ma anzi, somma per certe, e per altre quasi nulla: spiega perchè egli mostri di sentire un gran rimorso quando disubbidisce, poniamo, alla madre, e piccolissimo o nullo quando ad altri; e perchè la volontà della madre diventi la sua regola costante, e non così quella di altri. Questo fatto viene rilevato appunto da una madre molto stimabile colla solita sua finezza. [...OMISSIS...] Di qui si giustificano, per dirlo di passaggio, le fluttuazioni apparenti della moralità infantile: essendo questa fondata nelle affezioni, ella dee parer mobile siccome queste nelle sue apparizioni, non cessando tuttavia d' avere il suo pregio morale, e un principio stabile qual è quello di stimare ed amare la bontà degli enti. Ma vediamo oggimai i doveri degl' istitutori verso la coscienza incipiente del fanciullo. In prima abbiamo detto che se essi ottengono di mantenere nell' animo del fanciullo una benevolenza universale (2) ed ordinata, questa universale e ordinata benevolenza è ottima regola di moralità data e mantenuta al fanciullo: perocchè egli secondo quella pacificamente dirige e contiene i suoi affetti e le sue operazioni. Non vi ha però ancora in esso alcun principio di coscienza morale. E` venuto al quart' ordine delle sue intellezioni, che avendo già conosciuta una volontà positiva l' apprezzò e conobbe ch' ella dovea essere oggimai la sua regola, anteponendola a' suoi stessi piaceri fisici. Ma questa volontà stessa egli non può giudicare se sia bona per l' intrinseca sua ragionevolezza, ma la giudica buona per l' opinione formatasi che l' ente a cui ella appartiene sia buono. Or quando nasce collisione tra la volontà altrui e le sue tendenze fisiche, allora nel giudizio di preferenza dell' una all' altra, nella tentazione e nella caduta, spunta il primo albore della coscienza nell' animo suo, mediante il rimorso sentito o almen presentito. I doveri adunque degli educatori relativamente alla coscienza incipiente del fanciullo, consistono nel manifestare al fanciullo sempre una volontà buona relativamente a lui; perocchè dovendo la lor volontà esser sua regola, egli avrà in essa una regola bona se sarà bona, e sarà da lui apprezzata e amata se sarà tale ch' egli sia in caso, coi piccoli mezzi di conoscere ch' egli ha, di conoscerla per bona e stimabile. Si dee dunque da noi esaminare questi due punti importanti, si dee rispondere a questi due quesiti: 1 In qual maniera la volontà degli educatori, regola della moralità del fanciullo nel quart' ordine d' intellezioni, può esser bona; 2 in qual maniera può esser bona relativamente a lui, cioè può esser bona d' una bontà riconoscibile al fanciullo stesso, ond' egli possa proporsela da se stesso a regola di sua condotta. Abbiam già detto che il fanciullo, quando da principio conosce, mediante il linguaggio, che i suoi genitori o educatori hanno una volontà positiva degna di tutto il suo rispetto e di tutta la sua affezione, egli non è in caso di giudicare della sua bontà da ragioni intrinseche, cioè dalla natura ragionevole o no, giusta o no, delle cose volute e comandategli. Questo però non dispensa gli educatori dal comandare al fanciullo cose ragionevoli sempre, oneste e giuste. Perocchè sebbene non hanno da temere in lui un censore od un giudice, tuttavia hanno da rispettare una creatura intelligente; e debbono tener l' occhio alla coscienza che già sta per nascere in quel piccolo essere umano, e la quale non riuscirebbe sincera e al tutto conforme alla verità, se si fossero fatte credere al bambino buone le cose cattive, e così falsati anticipatamente i suoi giudizi morali e fattegli contrarre funeste abitudini. Posto adunque che in tutto ciò che viene comandato al fanciullo nulla vi sia d' inonesto, d' ingiusto, d' eccessivo, di appassionato, rimane ancora a vedere come la volontà espressa de' genitori dee farsi conoscere per bona al fanciullo stesso. Anche qui conviene por l' occhio unicamente ai pochi mezzi di conoscerla e giudicarla per bona che ha il fanciullo; e non pretendere ch' egli a riconoscerla tale adoperi que' mezzi che il suo intendimento ancora non ha. In prima adunque non si può sperare ch' egli intenda l' intrinseca ragionevolezza delle cose che a lui vengono comandate: questo è del tutto superiore al suo sviluppo. Converrà dunque ricorrere ai dati estrinseci, su' quali giudica il fanciullo; e questi sono i due seguenti: 1 Il fanciullo giudicherà bone le cose che gli vengono comandate e che sono l' espressione della volontà della madre in generale o degli educatori, se le cose comandate vanno d' accordo colla sua spontaneità naturale; 2 Se le cose comandate sono indifferenti alla sua spontaneità naturale, cioè nè seconde, nè contrarie, egli le reputerà ancor bone in virtù dell' idea di ente bono, stimabile ed amabile, che s' è fatta naturalmente dell' ente che gliele manifesta; 3 Stante poi quest' opinione di bontà dell' ente che da lui vuole quelle cose, se queste a lui sono moleste, da prima egli tuttavia ha la persuasione di dover anteporle alle sue stesse soddisfazioni sensibili, preferendo a tutto il non disgustare la stimata ed amata persona. Che se quelle cose fossero a lui gravemente moleste e continue e la sua stima e benevolenza verso l' ente che gliele comanda non venisse alimentata da niuna amorevolezza, potrebbe la cosa venire a tal termine da distruggere nell' animo suo la conceputa opinione di bontà dell' ente: sebbene alla piena distruzione di questa sua cara opinione non verrebbe mai che difficilmente. Se poi il comando duro e contrario al suo sentire e volere vien fatto di rado, e come un accidente, nella pienezza della stima e della benevolenza del fanciullo nasce il terribile combattimento che dicevamo, nel quale o la sua virtù rovina, ovvero uscendone vincitrice vie più si fortifica. Prima però di cadere, egli usa tutte le industrie per declinare dalla prova, per conciliare, se gli vien fatto, i due suoi bisogni, il fisico ed il morale, per piegare, voglio dire, la volontà del suo superiore alla propria, riducendola a ritirare o modificare il comando; e questa voglia d' influire è propria di questa età, si manifesta cioè al quart' ordine d' intellezioni. Ora egli è chiaro, che circa il comandare cose o piacevoli o indifferenti per sè al fanciullo non vi ha difficoltà, nè altro dovere che questo che tali cose sieno ragionevoli ed utili al fanciullo. Ma la difficoltà comincia dove si tratti di comandare cose di lor natura contrarie alla propensione e alla volontà spontanea del fanciullo. Intorno a queste cose il dovere della madre, della bona e di qualsiasi altro governatore del fanciullo non si limita a ben considerare che le cose sieno ragionevoli ed utili al fanciullo; ma oltracciò, fra le utili ed acconciate, debbono le necessarie essere scelte con sommo avvedimento e con somma prudenza. E cominciando dalla voglia d' influire che ha il fanciullo nella volontà de' suoi maestri, non conviene inutilmente oppugnarla, anzi, ogni qual volta ragionevolmente si può, convien piegarsi e compiacerle, acciocchè il fanciullo esperimenti anche in questo la bontà di chi lo tratta, opponendosi tuttavia qualche volta opportunamente, acciocchè egli esperimenti ancora che il cedere non è mai debolezza, ma solo amore (1). Non è certo necessario di dire che la è cosa inumana il pretendere dal fanciullo cose eccessivamente dure, e il trattarlo costantemente in modo sì aspro da annientare nel suo cuore il concetto di boni che si fece naturalmente di noi: i mali trattamenti continuati in tal modo possono dare all' animo suo una tempra di durezza e inclinarlo fino dalla culla alla tristezza e alla crudeltà, chiudendolo all' amore. Ma sarà mai permesso di cimentare la sua tenera virtù? Sì certamente, come abbiamo detto anco prima, ma qui appunto dee consistere tutto l' avvedimento e la sagacità dell' educatore nel misurare il grado della tentazione. Sempre lo si dee fare quando l' utilità o la necessità lo esiga; ma anche allora conviene che la tentazione non superi le sue forze; quanto sarà più grande la sua stima e la sua benevolenza effettiva, tanto avrà egli più di forze da resistere al cimento. La lotta si forma tra la stima ed affezione della persona amata e il desiderio di qualche soddisfazione sensibile: quel tanto, del quale quella vince questa, è la misura della sua forza morale di cui si può disporre. Qual sagacità non si richiede nel rilevarne acconciamente la misura! Ben può essere sovvenuto nel conflitto sia con carezze, sia con regali, sia con presentargli il più che si possa inzuccherata la pillola che gli si dee far trangugiare: e tutto ciò non conviensi omettere a questa età, dove abbisogni. E dico dove abbisogni, perocchè dove no, convien lasciarlo combattere alquanto e trionfar da se stesso. Egli è divenuto con ciò migliore: la sua virtù così si consolida, la sua forza pratica salutarmente si spiega. Ma il mezzo più importante di non falsare la coscienza, che già comincia a sbocciare nel fanciullo, quello senza il quale non si arriverà giammai a mantenere la sua coscienza del tutto pura, verace, perfetta, consiste nel fargli conoscere che anche in Dio esiste una volontà, e che questa volontà è altissima, suprema sopra tutte le altre volontà, a cui bisogna dare ubbidienza pienissima, conformandovisi in tutto, foss' anco con patire ogni cosa e con posporre a quella ogni altra volontà. Non si dee già pretendere ch' egli concepisca la volontà divina come sapiente, no, di questo non è capace: ma egli la concepisce assai facilmente come volontà di un ente supremo, assoluto ed ottimo, di cui la volontà è pure altissima, assolutamente rispettabile, e sopra ogni pensare ottima. Questa bontà della volontà divina, il bambino non è da prima nè pur capace ancora d' intenderla dagli effetti: ma la intende pel concetto che s' è formato di Dio, concetto all' uom naturale, perocchè è naturale all' uomo il concepire l' illimitato e l' assoluto prima d' intendere queste parole e sapere esprimere con esse il suo intendimento: e però falsamente si procederebbe volendo persuadergli ciò con ragioni; conviene solo presentargli alla mente l' esistenza di un essere oltremodo grande e bono, avente una volontà oltremodo pure grande e bona; perocchè basta che gli si presentino questi concetti alla mente senza prove, ed ella, la mente, immediatamente gli accoglie ed assente loro senza la menoma dubitazione, trovandoli essenzialmente veri, atteso un brevissimo argomento ch' ella spontaneamente fa, e mossa dalle intime leggi della sua natura produce a sè, tuttochè non ci rifletta poi sopra, nè lo si sappia dire, nè esprimere altrui con parole (1). E la via di comunicare al fanciullo così grandi pensieri è quella prima di tutto del linguaggio naturale ed efficacissimo che viene inteso da quella mirabile facoltà di partecipare dell' altrui sentire e intendere, che simpatia fu chiamata. [...OMISSIS...] Non si dee tuttavia omettere di vestire poi anco di parole acconce questi sentimenti, che colla loro comunicazione intima l' anime si trasmettono. Nè meno si dee poscia trapassare di far conoscere la bontà e la grandezza divina dagli effetti; ma senza ragionamento, solo affermando che tutte le cose vengono da Dio, che da Dio vengono tutti i beni, ch' egli è il fonte d' ogni bontà delle persone (2). Laonde il ringraziamento è l' atto di culto che più conviene a quest' età: conviene farlo fare al fanciullo il più frequente che si possa; ed è bella la piccola orazione che Mad. Hamilton propone da suggerirsi a un fanciullo quando egli riceve qualche favore dalle persone: [...OMISSIS...] . Con tali esercizi si conduce lo spirito del fanciullo a conoscere sempre più la prima causa del tutto, il fonte universale de' beni, a distinguerla dalle cause seconde e preferirla a tutte le persone umane per buone che queste gli si presentino: e quel che è più a mettersi in diretta comunicazione con essa. Quando l' essere perfettissimo si è reso così vicino al fanciullo, fu conosciuto qual principio di tutti i beni; non v' ha allora più pericolo che la volontà degli uomini prenda nel suo cuore un posto più elevato della volontà di Dio . Questa diventa la regola suprema , e quella la regola subordinata : ecco ciò che massimamente importa, acciocchè la coscienza non sia falsata nella sua formazione: ecco il desiderio, il grande studio de' genitori veramente cristiani, e che vogliono educare a Dio i cari pegni consegnati loro da Dio. Chi volesse fare una classificazione delle intellezioni di quint' ordine potrà farla agevolmente, partendo dal principio che « le intellezioni di un dato ordine sono i rapporti, che trova la mente fra le intellezioni degli ordini inferiori sui quali ella si riflette »; e attenendosi alla maniera di procedere, colla quale noi abbiamo data la classificazione degli ordini precedenti. Oltre a questo, prima d' istituire il ragionamento sopra un dato ordine d' intellezioni conviene aver presente che le intellezioni di un dato ordine non sono egualmente facili a formarsi, nè si formano tutte ad una data età; ma quelle sole alle quali viene diretta l' attenzione della mente: e l' attenzione della mente non si muove e dirige, se non punta da certi stimoli di bisogni, che si manifestano, alcuni costantemente a certe età ed altri a caso ora più presto ora meno, dipendendo dalle accidentali circostanze. E` finalmente necessario anche aver presente ciò che già dicevamo, che nel tempo stesso che la mente lavora intorno ad un dato ordine d' intellezioni, non istà ella oziosa rispetto alle intellezioni degli ordini inferiori; ma continua a rifornirsi meglio di queste, sempre in modo corrispondente e proporzionato ai nuovi stimoli de' bisogni, che a ciò far la sollecitano. Veniamo dunque ora ad esporre alcuni cenni anche sullo sviluppo, che fa la mente di sè col quint' ordine d' intellezioni, ordine che suole apparire già assai marcato nel quart' anno del fanciullo. L' operazione propria del quint' ordine è la terza specie di sintesi. La prima specie si fu la percezione (prim' ordine): la seconda specie si fu la predicazione delle qualità delle cose (terz' ordine): quale è ora la terza specie? Questa viene preparata dall' analisi precedente. L' analisi del quart' ordine noi l' abbiamo fatta consistere nella scomposizione elementare , per la quale la mente trova un soggetto risultare da due elementi, una cosa di cui viene predicata qualche cosa, e una cosa che si predica. Coll' abbracciare la mente questi due elementi come parti costituenti una stessa cosa, ella ha già cominciato a paragonarli insieme; e perciò abbiamo detto che l' operazione del paragone comincia nello spirito umano coll' analisi propria del quart' ordine. Ma chi ben riflette, questo cotal paragone è piuttosto virtualmente compreso in quell' analisi, che attualmente. Mi spiego. L' operazione, colla quale lo spirito in un soggetto, che gli sta presente, nota due cose, poniamo la sostanza e l' accidente, non consiste attualmente in un espresso paragone di quella con questo; ma bensì implicitamente s' accorge, che la sostanza non è l' accidente, nè l' accidente la sostanza; benchè sappia, che tutte e due quelle parti appartengono ad un solo oggetto. Or l' accorgersi che la sostanza non è l' accidente contiene, dicevamo noi, implicitamente il paragone, che scopre la relazione di differenza e di opposizione tra quelle due parti: ma questo paragone non è l' operazione, con cui si scompone e distingue sostanza ed accidente, ma da quella operazione è supposto ed implicito in essa. E qui deesi notare con somma attenzione appunto un fatto importante dello spirito umano, la doppia maniera cioè, colla quale egli fa le sue operazioni. Queste operazioni talora egli le fa espressamente e spiegatamente ed allora sono facili ad osservarsi: costituiscono la forma specifica della sua attività, e in questa forma l' attività termina e quasi direi si configura. Altre volte egli fa le stesse operazioni, ma in un modo sfuggevolissimo e non per terminare e riposare in esse, ma unicamente, acciocchè gli servano di via o scala ad altre operazioni, a cui intende come a fine: e mentre queste scolpisce con diligenza, perchè le vuole per se stesse, quell' altre solo le abbozza rapidissimamente per quel tanto, che gli bisognano a farsi il passaggio alle ultime, a cui vuol pervenire. Ora, se nella scomposizione elementare vi ha un cotal paragone, questo non è fatto dallo spirito, che alla sfuggita e imperfettamente, quanto solo gli si rende necessario mezzo a conoscere, che due sono le parti, gli elementi onde risulta il soggetto e non uno: il che si conosce sapendo solo in generale, che l' un non è l' altro, senza bisogno che si sappiano anco determinare le differenze che li dispaiano. E quantunque il sapere, che l' uno elemento non è l' altro, involga la vista d' una relazione, cioè della relazione di diversità, tuttavia la relazione stessa non si vede astratta in sè: veggonsi le due parti, ma il pensiero non s' affissa nella stessa dualità. Ciò premesso, si potrà intendere che cosa sia la sintesi di terza specie, che è l' operazione propria dello spirito al quint' ordine d' intellezioni. Verificato coll' analisi del quart' ordine, che esistono due cose diverse, che ne formano una sola; viene nel quint' ordine la sintesi a discoprire i rapporti, che hanno tra di loro quei due elementi. La terza specie di sintesi adunque consiste, « nella determinazione della relazione che hanno fra di loro due cose che ne formano una sola ». Da questa definizione si vede che in una tale sintesi il paragone comparisce in forma espressa e spiccata, e non ischiacciato e per accidente come sta dentro l' analisi precedente: vedesi pure che il frutto prodotto dal paragone, la relazione (1), si manifesta anch' essa determinata e non in un modo come prima al tutto generale ed imperfetto. Le relazioni poi non solo legano i predicati co' subbietti, ma ben anco due cose quali si vogliano, le quali si riscontrino insieme e fra di lor si trovi passar qualche nesso da formarne lo spirito una unità, un pensiero complesso. Quanto a' predicati ed a' subbietti la mente qui può discoprire con qual legge tra loro si leghino in un oggetto: se per accidente, o per necessità, o per l' essenza medesima: di guisa che la loro distinzione sia concettuale e non veridica. Se gli oggetti son due può vederli in un pensiero complesso sia pel nesso delle somiglianze e delle differenze (2), sia per quello delle cause e dell' effetto, sia per altra relazione qual si voglia. I giudizi analitici, che fa lo spirito umano al quint' ordine, sono di seconda specie od anco di prima. La materia di questa analisi vien preparata dalle sintesi precedenti cioè dalle sintesi, che si fanno al quart' ordine o prima. Questo s' intenderà facilmente, quando si ritiene, che in ogni ordine oltre l' operazione propria di esso, si continuano a eseguire altre operazioni, che per la loro natura spetterebbero agli ordini precedenti, ma per circostanze speciali vengono differite a quell' ordine, al quale giunto lo spirito le eseguisce. A ragione d' esempio, il predicare una cosa d' un' altra è quella operazione sintetica, che appartiene al terz' ordine, perchè ivi una tal sintesi comincia ad apparire. Ma egli è evidente, che lo spirito giunto al terz' ordine non può predicare una cosa di un' altra se non a condizione che: 1 egli abbia il concetto della cosa che predica; 2 e il concetto di quella di cui la predica. Laonde questa operazione non può aver luogo al terz' ordine ogni qualvolta a quello stadio il predicato non è ancor formato nella mente umana, o non è formato il soggetto. Tale sarebbe trattandosi di predicare un' azione d' un agente. Noi abbiamo veduto che gli astratti di azioni non sono ancora formati prima del terz' ordine; anzi non si possono formare se non nel terz' ordine. Indi avviene che i giudizi e tutte le operazioni intellettive intorno le azioni e gli agenti sieno ritardate d' un ordine: di maniera che al terz' ordine si hanno le azioni astrattamente prese; solo al quarto si può eseguire la sintesi per la quale esse si predicano di un soggetto agente e che solo al quinto finalmente si possa analizzare l' agente cioè dividere l' agente dall' atto suo, considerar l' agente e l' azione come parti o elementi d' un solo soggetto, il che è l' analisi elementare propria del quart' ordine, ma che per accidente vien protratta e differita dallo spirito fino al quinto. Ora quest' analisi di seconda specie, ma appartenente al quint' ordine, è una operazione d' infinita importanza al progresso sì intellettivo che morale del fanciullo. L' attribuire un' azione a un soggetto non è ancor che riconoscere un fatto per se solo sterile: in una tale sintesi io non ho in veduta altro che di porre in un ente l' azione. Ma se dopo avere io unito l' azione e il soggetto e così formatone un tutto solo, l' agente, di nuovo considero l' agente e distinguo in lui l' azione e il soggetto come due elementi d' un solo tutto; io con ciò m' apro il campo a trovare la relazione tra quell' azione e quel soggetto, ogni relazione. Non mi mancherà che un passo per venire a conchiudere una verità importantissima nell' orbe della moralità, cioè che all' agente appartiene il prezzo dell' azione, e però che « io dovrò stimare tanto più il soggetto quant' è più stimabile l' azione ». Questo passo lo farò all' ordine seguente: nel sesto comincerà dunque nella mente del fanciullo l' idea distinta dell' imputabilità delle azioni, e nel quinto già si prepara alla formazione d' una sì grande idea il cammino. Al quint' ordine sembra pure potersi attribuire l' operazione del sillogismo disgiuntivo, o almeno la formazione della maggiore di questo sillogismo. La maggiore del sillogismo disgiuntivo può ridursi a questa formola « delle due sole maniere, in cui può essere (o farsi o avvenire) una cosa, essa cosa dee essere (farsi od avvenire) nell' una o nell' altra ». Ora per concepirsi questa proposizione si esige aver prima l' idea complessa delle due maniere, nelle quali una data cosa può essere, o farsi o avvenire, aver di più osservata la relazione di opposizione, che hanno quelle due maniere, sicchè l' una esclude l' altra (1). Ma noi abbiamo veduto che solo al quint' ordine lo spirito umano giunge a distinguere due cose in un solo concetto, e a notarne la relazione fra di esse, mediante la terza specie di sintesi. Laonde egli pare, che prima del quint' ordine l' intendimento umano non possa in modo alcuno concepire la proposizione maggiore del sillogismo, che dicesi disgiuntivo. La necessità poi, ond' avviene che la cosa non possa essere se non nell' uno de' due modi, ora è metafisica, ora fisica, ora meramente positiva o sia libero7fisica. Che ogni cosa sia o non sia, è un' alternativa di necessità metafisica, e lo stesso dicasi delle proposizioni, nelle quali le due parti sono formate dal sì e dal no (principio di contraddizione). Che traendo una palla da un sacchetto debba uscire una di quelle due, che vi si posero, è necessità fisica. Che il fanciullo per una data sua azione debba trarre o premio o castigo è necessità libero7fisica; cioè fisica, ma condizionata alla volontà del suo istitutore, che gli promise il premio e gli minacciò la pena. Il fanciullo porta nella sua mente la cognizione della necessità metafisica, sicchè egli non opererebbe mai contro il principio di contraddizione; ma nè il sa enunciare così presto, nè analizzare, nè intendere, se gli vien detto in una distinta proposizione. La necessità dell' alternativa libero7fisica è quella che più facilmente egli intende in un modo esplicito, e poi la fisica: ultimamente la metafisica. Egli è da condursi di proposito per questa gradazione di proposizioni disgiuntive. Le proposizioni disgiuntive di più di due membri appartengono agli ordini susseguenti. In quest' ordine può il fanciullo acquistare distinta idea del numero quattro. Quando dico che il fanciullo può acquistare di questo numero una distinta idea, intendo ch' egli può acquistare la cognizione di tutte le relazioni del numero quattro co' numeri precedenti: nello studio di queste relazioni si contiene l' aritmetica propria di questa età. Egli può altresì aggiungere qualche maggior grado di luce al concetto alquanto confuso che ha già de' numeri maggiori; perocchè, in possesso del numero quattro, ha dei nuovi modi co' quali pervenire ad essi coll' aggiungere al quattro successivamente un predicato. Ciò che ho detto parlando del numero tre all' ordine precedente, parmi sufficiente a fare intendere tutto ciò che dal fanciullo si può esigere in opera di aritmetica, pervenuto che sia a questo stadio; ed eziandio ciò che si possa da lui pretendere in ciascuno degli ordini successivi. Il nostro fanciullo cominciò già a formarsi delle collezioni di cose; e nel quint' ordine procede innanzi nella formazione di tali collezioni: quelle che risultano da tre oggetti gli sono già facili, e le concepisce distintamente. Ma in quanto al progresso del suo spirito in quest' opera del formarsi delle collezioni di cose, noi rimettiamo al lettore la cura di accompagnare i passi del fanciullo in questo e negli ordini successivi, contenti come siamo d' aver segnato l' età in cui l' opera delle collezioni incomincia e la legge secondo la quale procede. In quella vece vogliam qui notare un' operazione nuova e importante, che a questa età incomincia a fare il fanciullo, e questa si è di distribuire le cose in cert' ordine secondo un loro valore vero o supposto, assoluto o relativo. Al quart' ordine egli cominciò a notare colla sua mente le differenze delle cose. Veramente da principio non bada « che alle differenze numeriche o totali, e delle altre non cura »: queste appena si possono dire differenze. Ma tosto dopo ne nota delle altre, e quest' altre differenze sono la base di collezioni diverse ch' egli va facendo: una collezione sola non ha bisogno di conoscimento di differenze, ma due collezioni sì. Dopo l' età delle collezioni adunque, e dopo l' età delle differenze, segue l' età dell' ordine nel quale pone più collezioni fra loro, ovvero gl' individui che entrano in ciascuna collezione. Per anteporre una cosa ad un' altra, od una collezione ad un' altra, non basta conoscere semplicemente la differenza loro in generale, ma convien riflettere di più, che quella differenza fa sì che l' una debba essere preferita all' altra, che l' una abbia più valore dell' altra; la differenza come un mero fatto comincia ad essere distintamente conosciuta al quart' ordine d' intellezioni; la conseguenza che se ne trae a vantaggio d' una delle due cose differenti e a scapito dell' altra, non si ha se non al quint' ordine. Col quint' ordine d' intellezioni il fanciullo può giugnere a distinguere i tre tempi delle cose; cioè può osservare gli avvenimenti passati e distinguerli da' presenti, e i presenti dai futuri. Questo risulta da ciò che abbiam detto innanzi sul progresso della mente infantile nel notare il tempo nelle cose. Dopo che il fanciullo paragonò e distinse l' avvenimento presente coll' avvenimento passato, dopo che paragonò del pari l' avvenimento presente con un avvenimento ch' egli prevede o s' imagina in futuro; egli è in caso altresì di paragonare l' avvenimento passato coll' avvenimento che dee avvenire; e così concepire lo stesso avvenimento vestito delle tre forme del tempo. A questa età egli comincia altresì a formarsi (sempre mediante le parole) un' idea del tempo astratta dagli avvenimenti. L' astrazione del passato, del presente e dell' avvenire trova il suo fondamento negli avvenimenti concepiti sotto due tempi, il che egli fa nell' età precedente. Per altro non concepisce il fanciullo da prima il passato in genere, ma prima un passato determinato da un grande avvenimento: il dopo la pappa, o il passato di ieri diviso dall' oggi pel tramonto del sole o pel sonno, sono i primi passati determinati ch' egli conosca. Laonde non solo si dee parlare al fanciullo del tempo con queste gradazioni; ma ben anco servirsi sempre di avvenimenti che facciano nell' animo suo grandi impressioni e vi lascino delle tracce durevoli quasi di altrettante epoche, aiutato dalle quali egli fissi il pensiero all' avanti e al dopo di essi, e così egli osservi il tempo nelle varie sue forme. Ho già mostrato che il pieno significato del monosillabo IO non può intendersi dal fanciullo, se egli non sia giunto al quint' ordine almeno del suo sviluppo intellettivo. Al prim' ordine egli non percepisce che degli oggetti esterni. Supponiamo che al secondo egli percepisca le azioni. In tal caso solamente al terzo, e non certamente prima, le applicherà ad un agente; ma egli non saprà ancora di essere egli stesso questo agente, perocchè tra gli agenti egli non ha ancora trovato se stesso. Venuto a questo punto, egli non può parlare di sè che in terza persona; ed è quello che abbiamo veduto avvenire di fatto ne' fanciulli prima che giungano ad intendere il monosillabo IO, ed anco negli adulti, se per ispeciali circostanze non giungono oltre ad un certo grado d' intellettuale sviluppo. Nel quart' ordine solamente, ordine in cui comincia l' intendimento a notare distintamente le differenze delle cose, potrà venire a distinguere (sempre eccitato dal linguaggio che è spronato ad intendere da' proprŒ bisogni e da una naturale tendenza a conoscere) tra gli agenti se stesso dagli altri: il che è quanto dire sarà condotto a percepire intellettivamente il proprio sentimento fondamentale, sentimento7uomo come autore di quelle date azioni. Questa non è che una percezione, egli è vero, e come tale apparterrebbe al prim' ordine d' intellezioni; ma non si fa a quel tempo, come dicemmo, per mancanza del bisogno che stimoli a farla. Questo bisogno or si manifesta nella necessità di attribuire le azioni al suo autore, e però di attribuire al sentimento fondamentale, che l' uomo prova, certe azioni le quali perciò appunto si dicono sue proprie. Ora l' uomo non può attribuire quelle azioni al sentimento fondamentale che egli prova, se non a condizione di percepire prima intellettivamente quel sentimento. Quindi si muove l' uomo a riflettere sopra se stesso, cioè sopra quel sentimento fondamentale che appunto lo costituisce. Non prima adunque del quart' ordine, se non anco di poi, l' uomo comincia ad intendere il monosillabo IO come significante quel sentimento sostanziale che prova e percepisce come autore d' azione. Ma questo, già lo dicemmo, non è il pieno significato del monosillabo IO. Questo monosillabo esprime di più l' identità fra il conoscente e pronunciante l' IO, e il sentimento sostanziale operante che esprime chi pronuncia l' IO. Ora egli è chiaro che questa identità non si può intendere se non dopo d' aver percepito intellettivamente quel sentimento sostanziale7operante: e però non prima del quint' ordine. Non basta: al quint' ordine d' un altro grado s' accresce nell' uomo la cognizione di se stesso. Essendo pervenuto già prima, cioè nel quart' ordine, a percepire il sentimento fondamentale attribuendogli delle azioni, ed avendo altresì col quart' ordine stesso concepite le azioni in due tempi, nel passato e nel presente, o anco nel presente e nel futuro; egli giunge al quint' ordine ad osservare che il principio agente sentito e percepito è il medesimo ne' due tempi, là dove le azioni di questo principio nel passato e nel presente sono diverse. L' IDENTITA` dell' IO nel mezzo della varietà delle azioni e de' tempi, è una cognizione che qui nasce e che si rinforza a poco a poco, mediante continue esperienze, e accresce infinitamente la cognizione di se medesimo. Egli è vero che questa identità non viene espressamente e distintamente concepita e pronunciata; ma ella viene implicitamente sentita e percepita in modo che « l' uomo da questo punto non fa più nulla che la smentisca, non opera più in contraddizione di essa ». Il principio morale che risplendette fin qui nel nostro bambino come stella che mostrava il cammino alla sua attività individuale, si fu « il rispetto dovuto alla natura e alla volontà intelligente che gli si fece conoscere ». Questo principio, resosi in lui operativo, prese in lui quattro forme, le quali furono: 1 benevolenza; 2 consentimento; 3 credulità; 4 obbedienza. In fatti il fanciullo naturalmente ama, prende i medesimi sentimenti di quelli coi quali egli conversa, crede alle loro parole e ubbidisce alle loro volontà. Egli è indubitatamente aiutato a far ciò da degli istinti; perocchè l' inclinazione ad amare, la simpatia, la tendenza a ricevere senza sforzo di contraddizione, e la spontaneità che si lascia movere senza resistere, sono possenti aiuti all' adempimento del suo dovere morale, e per essi Iddio provvide che questo dovere sia reso facilissimo e dolce ad un essere che non avrebbe ancor le forze di sostenere un combattimento. Ma quest' istinti ed altri, sì animali che umani, non costituiscono però la moralità: la qual tutta pende, come dicevamo, da quella luce intellettiva che gli dimostra qual cosa dignitosa e alta ella sia un' intelligenza che a lui si scopre benevola, e il volere di essa. Già al quart' ordine d' intellezioni egli pone tanta stima ed affetto, e intende di dovergliene porre, alla volontà intellettiva che a lui si manifesta, che è persuasissimo di dover sottomettere ad essa tutti gl' istinti della sua propria sensualità; e se egli rimane vinto da questi, già arrossisce, si nasconde, e il rimorso non gli dà più pace. Questo sentimento del rimorso è importantissimo ad osservarsi, ed egli segna l' apparizione del quint' ordine d' intellezioni nel fanciullo. Perocchè il quarto è quello in cui, conosciuta una volontà intelligente, intende che tutto dee uniformarsi a quella, gli costi ciò che si vuole. Quando poi, operando, infrange questa norma morale da lui ben conosciuta e n' ha sentito il rimprovero della sinderesi, egli ha fatto un passo innanzi: è venuto al quint' ordine. Tuttavia il rimorso al quint' ordine non ha del tutto la stessa natura del rimorso quale si manifesta nel sesto e negli altri maggiori. Egli è uopo che noi facciamo qui ben notare questa differenza, perocchè ella ci conduce meglio a stabilire le norme o principŒ morali, che si formano nell' anima all' ordine quinto d' intellezioni. Il rimorso, prima di concepire una volontà positiva d' un altro essere intelligente, non si può dare (1), perocchè nel fanciullo prima di questo tempo non vi ha combattimento morale: il suo operare del tutto spontaneo non trova ostacoli morali. Egli è per questo che, secondo noi, il rimorso del fanciullo dimostra ch' egli è già pervenuto al quint' ordine. Per altro, il rimorso che si manifesta al quint' ordine è così diverso dal rimorso che si manifesta negli ordini successivi, che quella prima apparizione di rimorso non esige nè pure una chiara notizia dell' imputabilità, quando negli ordini che vengono appresso il rimorso stesso è un effetto dell' imputazione che il fanciullo già fa espressamente a sè, nel suo interno giudicato, dell' opera mala da lui commessa. E nel vero, al quint' ordine il fanciullo non ha ancora finito di concepire chiaramente se stesso, come vedemmo, perocchè quantunque sia pervenuto a conoscere che alcune azioni appartengono al sentimento sostanziale da lui provato, tuttavia egli non sa trovare questo sentimento sostanziale, non sa dove metterlo; il che è quanto dire non sa conoscere che il giudicante, il parlante, l' imputante è appunto quel sentimento che imputa a se stesso quelle azioni male. Di più, la relazione fra le azioni fatte a sè, che le ha fatte, nel quint' ordine la sente in generale, ma ancora non ne conosce la qualità, il che dee fare all' ordine seguente; al quale perciò si spetta la imputazione propriamente detta. Mancando adunque questi elementi che entrano come cause e parti integranti del rimorso razionale che si ravvisa negli adulti che peccano; quale rimane il sentimento di rimorso che dicemmo apparir nel fanciullo pervenuto al quint' ordine? Che cosa è questo rimorso? Merita egli questo nome? E lo si merita nello stesso senso nel quale si dà al rimorso già pienamente formato? L' uomo, prima ancora di avere una coscienza formata di se stesso, ha una sufficiente notizia degli altri per sentirne una qualche esigenza morale. L' esigenza degli esseri è l' obbligazione morale che si manifesta colla sua virtù immediatamente all' anima intelligente prima ancora d' aver preso la forma di legge (1). Or se il bambino sente la detta esigenza ancor prima di riflettere a se stesso, ne dee venire per conseguenza, ch' egli provi un corrispondente orrore e dolore, ogni qualvolta pone l' azione contraria all' esigenza delle cose. Questo è un principio di sentimento morale, che in lui si suscita allo stesso modo, come in lui nasce il sentimento dell' esigenza degli enti; e che è indipendente da un espresso giudizio d' imputazione col quale giudichi e condanni se stesso qual reo. Fra l' azione ch' egli pone e concepisce, e le cose di cui egli sente l' esigenza (poniamo la rispettabilità delle intelligenze e lor volontà) sorge una disarmonia di fatto: nell' anima sua, in questo sentimento sostanziale, accade una lotta, ed essendo ella tutta sentimento, impaurisce al trovarsi nell' arena di un siffatto combattimento. Questo è un cotale rimorso, che ha luogo nell' anima come un fatto necessario e non volontario, e come un sentimento che nasce a quel modo, onde il dolore d' una ferita: perocchè anche l' anima, anche la parte morale dell' anima, ha le sue leggi fisiche e inalterabili come quelle de' corpi; ed egli è un errore il credere che tutto ciò che avviene nel regno della moralità dipenda solamente dall' arbitrio, o sia così tenue come un' idea; o così vago e sfuggevole come accidentali affezioni. L' anima nel suo essere morale può ricevere adunque delle ferite e dolorarne prima ancora di conoscere se stessa, di riflettere sulla propria personalità; e questo è il rimorso che sorge al quint' ordine d' intellezioni. Questo rimorso appartiene al senso morale , e non propriamente alla coscienza morale ; ma quando l' uomo giunge nel suo sviluppo intellettivo un ordine più su, incontanente egli, errando, soggiace a un rimorso, che appartiene ed è l' effetto della consapevolezza del suo mal operare. Non è già, che quel primitivo rimorso si formi in noi senza l' opera dell' intelligenza, no certo. Ma l' intelligenza nol produce direttamente; ella non fa un espresso giudizio di condanna, dal timore del quale nasca l' interno dolore, che rimorso si chiama: l' intelligenza non fa che conoscere il male che viene operato: onde il sentimento di quell' essere, che conosce il male, si raccapriccia, allorchè si muove a farlo cedendo alla tentazione. All' incontro il rimorso al sest' ordine acquista un nuovo elemento, quello dell' imputazione. Al sest' ordine l' uomo conosce l' IO, come un sentimento sostanziale operante, conoscente, giudicante e proferente se stesso. Non solo a quest' IO egli attribuisce le azioni già prima conosciute cattive come ad autore, ma ben anco gliele imputa; cioè intende che quell' IO autore di quelle azioni ree ne riceve deterioramento; onde viene il demerito e il biasimo. L' uomo che in questo stato giudica e condanna se stesso, soggiace sotto il peso di questa sentenza, come sotto un nuovo male; ed indi una nuova amarezza si aggiunge al suo rimorso; il quale diventa con ciò anco figlio della sua coscienza morale. Il rimorso dunque coll' atto dell' imputazione si amplifica, s' integra, acquista un elemento nuovo, non è più sensione morale , ma ben anco vero rimprovero o biasimo morale. Vero è, che quando al rimorso immediato e di fatto, per così dire, si sopraggiunge quest' altro come rimproccio e sgridata di interno giudice o superiore, il primo non si muta, ma con questo s' unisce a pungere il cuore del peccatore con doppio aculeo. Anzi quel primo fa la via a questo secondo. Perocchè ben sovente la ragione s' avvede del fallo e 'l riconosce, e il rinfaccia al suo soggetto mossa e desta dal pungolo naturale: sicchè l' uom s' accorge e si riprende d' avere errato, perchè lo scorge a ciò il sentire il mal essere e la doglia della sua natura morale: del che cercando la ragione trovala nel fallo commesso. Laonde non a torto chiamasi e l' un e l' altro di questi due dolori, che insieme si mescolano, rimorso ; e il secondo può considerarsi come il compimento e quasi una nuova forma dell' altro. Che, se dividere si dovessero, potrebbero dirsi il primo rimorso della sinderesi , perchè nasce da' principŒ morali, che sono in noi, da noi violati; il secondo rimorso della coscienza , perchè nasce dal giudizio con cui imputiamo a noi stessi il fallo commesso: il primo è un rapporto reale (una disarmonia) tra l' IO sentimento operante e l' esigenza degli esseri da lui appresa: il secondo è un rapporto reale tra l' IO sentimento operante e la sentenza di condanna di sè da lui proferita: quantunque nel primo non vi sia ancora coscienzia morale, tuttavia vi ha qualche cosa che stimola la coscienza e la provoca, e puossi chiamare l' albòre della coscienza. Da questo si conchiuda, che il gran principio morale: « segui la coscienza »al quint' ordine d' intellezioni non è ancor formato nell' uomo: egli segue ancora de' principŒ morali anteriori a questo della coscienza. Quali sono adunque i principŒ morali al quint' ordine? Qual è a questo tempo la nuova forma, che prende la moralità nell' animo umano? Ecco quello che dobbiamo ora investigare. Il rimorso, che a questa età si manifesta, sebbene imperfetto, produce l' istinto morale di fuggire il male e di fare il bene. Ciò nasce, tostochè quel rimorso si può prevedere o presentire prima di operare. Ma questo istinto non è ancora una vera formola morale: egli solamente dà luogo ben presto ad una massima esprimente piuttosto un dettame di prudenza, che una morale obbligazione. Ora ciò che noi cerchiamo sono le formole, i principŒ morali proprŒ di questa età. A fine di discoprirli rimettiamoci sulla via dello sviluppo morale, rammentandoci quale sia stata l' apparizione della moralità al quart' ordine. Noi vedemmo che al quart' ordine la moralità si manifestò all' uomo come un dovere « di uniformarsi alla volontà degli esseri intelligenti conosciuti, costasse qualsiasi sacrificio ». In questo principio compariva una specie di collisione tra il bene eudemonologico e il ben morale, tra il bene soggettivo e l' oggettivo e sentivasi la necessità morale di sacrificar questo a quello. Ma, notisi attentamente, il bene soggettivo in tale stato non si percepiva oggettivamente, perchè l' uomo non avea per ancora la coscienza di sè stesso. Era dunque il soggetto uomo, qual soggetto morale, che da una parte sentendo il dolore e il piacere, dall' altra veggendo il dovere, non dava retta a quello, ma decideva semplicemente, che questo era dovere, era tutto. L' identità del soggetto sensitivo ed intellettivo è solamente quella, che può spiegare come esso soggetto potesse dedicarsi e consacrarsi a quanto prescriveva l' intelletto, trapassato il senso, non consideratolo , come se non esistesse, non giudicatolo, non messolo a confronto. La necessità di seguire il dettame del retto è assoluta; e però l' uomo decideva a favore di questo senza tampoco sentire voce in contrario: pativa il senso, strideva dilacerato, ma l' IO intellettivo tenea gli orecchi turati: unicamente inteso a ciò che il dovere da lui volea. Per questo modo, non per confronto alcuno « la volontà dell' essere intellettivo », nella quale vedeasi il dovere, era posta in cima a tutte le cose nella morale propria del quart' ordine d' intellezioni. Nel quinto cominciano le collisioni de' doveri che mutano forma alla precedente teoria morale. Dico le collisioni dei doveri, e non già la collisione tra quello che è dovere, e quello che non è dovere ma piacere. Questa specie di collisione non muta propriamente la teoria morale; sebbene influisca nella morale pratica, perocchè l' uomo tostochè ha posto attenzione alle voci del senso, che rifugge d' esser sacrificato al dovere, è già entrato in una nuova condizione morale; una nuova tentazione lo assale: egli ha bisogno di nuova fortezza. Questa osservazione e attenzione che l' uom pone col suo intelletto alla pena, che costa il dovere ad adempirsi, accresce la morale d' un precetto, quasi direi, di fianco, il quale vien poi formulato così « sii forte contro la tentazione »; non risguarda questo la forma del dovere finale, anzi la suppone, perocchè dicendo « sii forte contro la tentazione », non si esprime, ma si ammette per istabilito quel dovere, nel mantenimento del quale dobbiamo esser forti. Tuttavia giova assegnare a questo quint' ordine anco questo precetto, che comanda « la morale fortezza ». Toccato ciò di passaggio, dicevamo, che in questa quinta età si manifesta da prima una qualche collision di doveri; ed è questa collisione, che muta le formole morali dell' obbligazione. « La volontà dell' essere intellettivo dee rispettarsi », questa è la formola del quart' ordine. Ma più volontà intellettive ugualmente si manifestino, e non tutte d' accordo: ecco la collisione di doveri. A quale di queste volontà intellettive si dovrà dare la preferenza? Ecco il nuovo problema morale che si presenta a sciogliere all' animo del fanciullo giunto al quint' ordine. Egli è costretto dalla necessità morale di operare a farsene qualche soluzione: e questa soluzione diventa per lui un nuovo principio morale, una nuova formola contenente la sua obbligazione. Prima di vedere come egli debba risolversi un tanto dubbio, veggiamo come questo dubbio debba apparirgli appunto a questa età e non prima. In prima a questa età, egli dee aver già trattato con più persone, ed è impossibile che tutte in tutto sieno andate perfettamente d' accordo e d' un pari passo nel beneficarlo, nell' istruirlo, nel comandargli. Oltracchè già conobbe, che avvi un Essere supremo, ed una suprema volontà ottima e perfettissima, e giunse a distinguere, in qualche modo, da questa volontà ottima le altre volontà limitate nella bontà. In secondo luogo, al quint' ordine non solo egli cominciò a distinguere le differenze delle cose, ma a collocare in un certo ordine di dignità più cose tra loro, almeno due. Quest' ordine fra gli oggetti da lui contemplati non esisteva in lui prima del quint' ordine; e perciò prima egli nè pur poteva collocare nel debito ordine le volontà intellettive che gli si rappresentavano come rispettabili; ma doveva dirigersi a favore dell' una o dell' altra più tosto per azione istintiva e spontanea, che per una preferenza razionale. Ma nel quint' ordine oggimai può farlo. Come dunque lo farà egli? Egli è indubitato, che egli intenderà di dover preferire a tutte le altre la più bona, la più benefica, come quella che è più degna. La bontà e dignità intrinseca dell' intelligenza fu quella, che rivelò da principio al fanciullo, quanto l' intelligenza e la volontà intelligente sia essenzialmente amabile e rispettabile. Egli è chiaro, che i diversi gradi, ne' quali la bontà intellettiva gli si manifesta, debbono essere quelli medesimamente che gli determinano e prescrivono i gradi del suo amore e del suo rispetto. Questa regola dei gradi della bontà, i quali rendono più degne le volontà degli esseri intelligenti, è piena, assoluta, immutabile. Nella bontà si comprende l' intelligenza, giacchè l' intelligenza è condizione e principio della bontà, è bona d' una sua specie di bontà nobile sommamente, vi si comprende la sapienza, ma sopra tutto vi si comprende la beneficenza volontaria. Ma ciò che varia si è l' applicazione di questa regola. Ciò che varia sono i mezzi a disposizione del fanciullo, coi quali egli misura quella bontà e i suoi gradi. Il fanciullo è soggetto ad ingannarsi nel giudicare il grado di bontà e di dignità delle volontà contrarie, che a sè il vogliono uniformare; ma il suo giudizio erroneo in se stesso, può essere diritto rispettivamente a lui. Questo giudizio è sempre diritto ogni qual volta egli fa entrare nel calcolo tutti i gradi di bontà a lui conoscibili: in una parola egli dee misurare non tutta la bontà delle volontà intelligenti, ma tutta quella porzione di questa bontà, che a lui si comunica e manifesta. Tuttavia può accadere benissimo, che questo giudizio, che egli porta all' età presente, sia parziale ed ingiusto; ed ecco in che modo. Quando da principio il bambino saluta una intelligenza, che percepisce diversa da sè, egli fa un atto di giustizia: l' animo suo per anco senza colore si moverebbe agevolmente benevolo verso qualsiasi altra intelligenza, che in luogo di quella gli fosse apparita. Ma ben tosto si affeziona a quelle persone, che con lui più dimesticamente trattano e più dolcemente soccorrono ai suoi bisogni; e questa affezione può diventare parziale ed esclusiva, come abbiamo veduto. Una semplice affezione fisica non è certamente per sè rea; ma da quella può esser mosso l' intendimento ad un falso giudizio; ed in tal caso avvi reità morale; perocchè l' intelletto ubbidisce e consente in tal caso non al vero, a cui solo dee arrendersi, ma alle suggestioni della volontà, che il corrompe. Se dunque la benevolenza del bambino s' è lasciata divenire esclusiva e ristrettiva fin da principio, se i ristringimenti di quella naturale benevolenza sono degenerati in gelosia, invidia, malevolenza ed altre ree affezioni; se tutte queste non sono mere sensioni, ma vere volizioni, egli è entrato già nell' animo del fanciullo furtivamente il fatal veleno della nequizia; e l' intendimento non è più che un giudice corrotto, l' animo non è più che la sede della menzogna. Con queste segrete operazioni si prepara nell' infanzia la pravità sconfortante dell' adolescente, la corruttela sfrenata del giovane, i delitti dell' adulto a se stesso e alla società spietato e nemico. L' altrui bontà adunque si manifesta in due modi al fanciullo: si manifesta al sentire ed all' intendere di lui. Al sentire consegue un amore sensibile e tenero, il quale è naturale e non dannevole, se riguarda quelle persone, che usano più con lui e più lo beneficano; all' intendere consegue un amore appreziativo , il quale dee essere tenuto immune dall' influenza dell' amore sensibile . Se questo è la misura di quello, evvi falsità di giudizio, errore, immoralità. Se questo si sta bensì a canto dell' amore appreziativo, ma senza alterare l' appreziazione, non nuoce. L' appreziazione, dove sta tutto il morale come il suo germe, è sana e senza difetto. La possibilità di questa deviazione dal retto tramite nel fanciullo nostro a questa età s' intenderà considerando, che le sue volizioni appreziative già cominciarono prima d' ora; che egli si è formato gli astratti di azione e della bontà ed eccellenza delle azioni; ch' egli di più può attribuirle al soggetto; onde per le azioni loro può de' soggetti portar giudizio. Questo giudizio è retto, se non giudica arbitrariamente a danno di quelli, di cui non conosce la reità, e giudica a favore di tutti gli elementi del bene, che egli può conoscere, e conosce; benchè quegli elementi non tutti gli senta e gli esperimenti. Già son divenute in lui due cose distinte, l' esperimento del bene, e la cognizione del bene: su questa dee formare il suo giudizio, non già su quello. E qui notiamo una cosa. Tostochè il bambino conosce un' intelligenza, egli se ne forma una cotale idea illimitata, ed infinita della sua stimabilità ed amabilità. Ma poi quest' amabilità gli si va limitando sia per provare degli effetti dolorosi da quell' intelligenza, sia per un amore parzialmente collocato in una intelligenza finita e però tolto alle altre, sia per pregiudizi ed errori imbevuti, sia per altre cagioni. Queste limitazioni son tanto oneste quanto son vere, e se son vere non tolgono mai all' intelligenza la sua amabilità essenziale. Gli effetti benefici di quell' intelligenza non sono gli amati e gli apprezzati; ma sono solamente parte dei dati, sui quali apprezza ed ama l' intelligenza, da cui provengono, e della quale le attestano il prezzo. Sicchè l' appreziazione è sempre oggettiva, finisce nelle nature intelligenti; non è soggettiva, non riguarda gli effetti buoni, che sperimenta il soggetto. Ciò posto, egli avviene, che, qualora si conoscesse una intelligenza maggiore e migliore, come è la suprema, più apprezzar si dovrebbe, eziandiochè non se ne esperimentassero gli effetti. Onde diciamo, che è la potenza della bontà, più tosto che gli effetti della bontà che amar si debbono; è la dignità dell' essere intelligente, più tosto che i suoi accidentali beneficŒ, l' oggetto in cui termina l' atto morale dell' appreziazione. E tuttavia riman fermo, che quella quantità di bontà, che si esperimenta, è anch' ella un mezzo a dover conoscere la dignità ed eccellenza dell' ente intellettivo beneficante. Vedesi dunque qual sia il principio morale del fanciullo a questa età: quale la parte immutabile della sua morale, quale la parte mutabile. Il principio, e la parte immutabile della morale del fanciullo della quinta età si è questo: « Stima gli esseri intelligenti secondo il grado della loro dignità ». Dico « della loro dignità »e non « della loro bontà »unicamente per significare, che ciò, che si fa oggetto della stima morale, non sono gli effetti della bontà, ma la causa di questi effetti; la quale ha una cotale intrinseca bontà, che dignità ed eccellenza si può acconciamente nominare. Il principio, a cui il nostro fanciullo è pervenuto (benchè nol sappia enunciare), è così perfetto e compiuto, che non gli sfuggirà più dalle mani, vivesse egli quanto si vuole, e soggiacesse a qualsivoglia sviluppo maggiore. Egli non muta, chi ben osservi; ma completa e finisce i principŒ morali precedenti. Ma, salvato questo principio, rimane ancora una parte mutabile nella morale del nostro fanciullo, e questa si trova tutta nell' applicazione, ch' egli dee fare di quel principio. Egli è chiaro, che per applicare quel principio dee prima determinare i gradi « di dignità »di cui sono forniti gli esseri intellettivi da lui conosciuti. Ora, come ho detto prima, variano nelle mani del fanciullo « i dati », sui quali egli dee portar quel giudizio. Indi è che procedendo coll' età sarà sempre più al caso di giudicare con verità maggiore, quali siano i gradi di dignità, che godono gli esseri intellettivi, che egli deve onorare, e l' uno all' altro preferire, e nascerà di qui una modificazione successiva nelle forme della sua morale. Quell' epoca, nella quale il fanciullo comincia ad accorgersi, che egli deve paragonare insieme le diverse intelligenze a lui note e le diverse loro volontà, acciocchè nella collisione de' suoi doveri verso di esse preferir possa la più degna; è ragguardevolissima nella sua vita morale, e ben merita che noi vi ci fermiamo a farvi sopra alcune riflessioni. Primieramente si deve osservare, che questa è l' epoca, nella quale il suo spirito passa da de' principŒ morali concreti a de' principŒ morali astratti ossia ideali. Questo è un passaggio d' infinita importanza: rendiamo chiaro il nostro concetto. Che un essere intelligente al primo percepire e conoscere un altro essere intelligente si rallegri e si attui alla stima ed alla benevolenza verso di quello; questa è certamente cosa morale. Che un essere intelligente del pari, in cui questa stima e questa affezione è nata, inchini e si pieghi a uniformar se stesso ai sentimenti, ai pensieri, ed alle volontà di un altro essere intelligente, tosto che venga a conoscere questi sentimenti, pensieri e volontà; anche questa è cosa tutta morale: perocchè morale è ogni atto, che faccia una volontà intellettiva verso un essere del pari intellettivo. Ma la moralità in questo primo suo stadio, sebben cosa buona per sè, ella è tuttavia spontanea e non libera: la volontà si muove soavemente per quell' umano istinto, che è fondato nell' essenza dell' anima, senza bisogno di alcuna deliberazione antecedente. Di più, allorquando il fanciullo esercita gl' indicati offici morali verso gli esseri intelligenti, egli sente certamente la necessità morale di operar così, sente l' esigenza di quegli esseri da lui percepiti; ma questa esigenza non la separa da essi, non la astrae formandosene un concetto distinto e molto meno la formula in parole: no, quella esigenza è qualche cosa di reale7ideale, che fa sentire in lui la sua forza: la natura delle intelligenze che si comunicano è un effetto reale, la concezione che vi pone del suo il fanciullo è un qualche cosa d' ideale: dall' effetto reale e dall' idea unitavi ne sorte quello che io dico « principio morale concreto »; il quale è un sentimento morale7intellettivo, secondo il quale l' uomo opera per lo istinto morale, che da quello procede. Ma si muta interamente la cosa, quando il fanciullo non potendo uniformarsi contemporaneamente a due volontà intelligenti contrarie fra loro, deve scegliere la più degna fra di esse e a quella tenersi. Questa scelta può certamente esser fatta dalla natura, mediante la spontaneità, quando non si trattasse che di beni meramente soggettivi (1), o di sensioni. Ancora ella si può fare per qualche tempo in virtù del senso morale, perocchè l' esigenza morale che opera nell' anima intellettivo7morale come una cotal forza spirituale previene da una parte e fa sentire al fanciullo il bisogno di tenersi da questa sotto pena di contrariare la sua natura morale. Io non saprei determinare certamente, quanto possa durare questo tempo; ma per quantunque duri, deve finalmente spuntare quel momento, nel quale non si tratterà più di un' affezione ricevuta, ma di un' appreziazione di enti intellettivi, massime dopo che in virtù del linguaggio si poterono astrarre dagli enti le nozioni espresse colle parole buono, bello ecc., bontà e bellezza ecc.. Questi astratti sono necessarii a poter giungere a formare tra due o più enti un vero paragone, e rilevare quale di essi abbia più di dignità morale (2). Formate adunque queste concezioni astratte, si può col loro mezzo conoscere, quale di più enti tenga in se più di bontà, più di bellezza ecc., in una parola più di entità o dignità. Quando da prima il fanciullo è pervenuto a giudicare gli enti in questo modo, egli è chiaro, che gli enti stessi, e le loro azioni su di lui, hanno cessato di essere la sua suprema norma morale: perocchè egli si è formato già una norma più elevata, colla quale egli giudica gli enti stessi e le loro azioni. Questa norma è appunto la nozione astratta della bontà della bellezza ecc., in una parola, della dignità dell' ente. Si paragonino ora le due norme. - La prima crea l' ente stesso intellettivo, che comunicava sè stesso e la sua esigenza morale al fanciullo; la seconda è un' idea astratta di bontà, o sia di dignità, che misura i gradi di quella esigenza morale. La prima dunque era una norma, che potea dirsi concreta , perocchè era qualche cosa di reale, che si faceva sentire, e a cui l' ente, che la sentiva, aggiungeva quell' elemento ideale, che è necessario a compiere la percezione intellettiva: la seconda è una mera idea senza concrezione alcuna di reale, una nozione astratta, che si comunica alla sola mente, e non al sentimento. Nel primo stadio morale del fanciullo la norma ossia la legge non aveva ancora un' esistenza a sè; ma era immedesimata cogli enti, verso i quali la morale si esercita. Nel secondo stadio, una cotal legge esiste indipendentemente dagli enti, oggetti della moralità: esiste nel mondo ideale, nel mondo delle possibilità: quando anco nessun ente sussistesse, la norma di cui parliamo si concepirebbe egualmente come necessaria, eterna, riferentesi a degli enti possibili pure eterni, senza alcun bisogno di enti reali. Nel primo stadio gli elementi dell' atto morale sono due soli: 1 quegli, che opera il bene e il male; 2 e l' oggetto, verso cui il bene e il male viene operato. - Nel secondo stadio tutti e tre gli elementi della morale sono a pieno sviluppati e distinti: 1 vi è, chi opera il bene o il male; 2 vi è l' oggetto, verso cui si opera; 3 vi è finalmente la norma o regola, secondo la quale si opera. - Solamente in quest' ultimo caso la moralità s' è resa completa, ha spiegate interamente le sue forme, che prima teneva raccolte come una rosa, che tiene ancor piegata alcuna sua foglia entro il calice. Il passaggio delle norme concrete alle norme astratte della morale è un grande sviluppamento della natura morale nell' uomo, quand' egli si considera semplicemente come sviluppo. Ma giova egli, o pure nuoce alla bontà morale dell' uomo? Che egli apra all' uomo una porta, per la quale entrando possa ascendere ad un grado maggiore di perfezione morale, e che questa sia l' intenzione della natura, non avvi dubbio di sorta. La vocazione dunque dell' uomo, dell' umanità, diviene da quell' ora più augusta: tutto sta che egli vi risponda degnamente. Ma gli è egli agevole l' entrare nel nuovo arringo, e il percorrerlo con felicità? La bontà morale, a cui è chiamato dall' istante, ch' egli è venuto in possesso delle norme astratte , è ella egualmente facile, come quella che gli era destinata in quell' età, in cui le sue norme di operare sono ancora concrete? Sarebbe un adulare vanamente l' umana natura il sostenere, che questa nuova specie di moralità più eccellente, che nasce dal seguitare le norme astratte, sia più facile di quella, le cui norme sono concrete. Di tanto è più difficile all' uomo l' esser buono in questo secondo stadio della sua vita morale, di quanto è maggiore quella bontà, che a lui si richiede, acciocchè egli sia buono e non cattivo. Assegniamo qualche ragione di questa cresciuta difficoltà. Primieramente nel primo stadio della moralità egli era diretto dalla natura, maestra sicura e soave: la sua spontaneità lo conduceva, e questa sapeva sempre dove piegare, non altrimente che sanno i due bacini della bilancia, dove un solo scrupolo più nell' un che nell' altro li dilibri. All' incontro nel secondo stadio l' uomo non può venir tosto all' azione cedendo all' impulso morale della natura, ma per operar bene deve fare un atto di più; deve prima di operare applicare la nozione astratta e giudicare sul valor relativo degli enti. Già il dover fare un atto di più per porre un' azione, è una difficoltà maggiore. S' aggiunge, che quest' atto deve essere imparziale; giudicando un essere migliore di un altro, convien dar peso solamente a ciò che si conosce di lui, e a tutto ciò, che si conosce: le affezioni già prese, le sensioni si debbono contare per nulla, cioè per solo quello che indicano di bontà all' intendimento. Quanto è difficile, che questo giudice si rimanga incorrotto e del tutto imparziale, quando l' uomo, che usa dell' intelletto, non è solo intelletto, ma è pieno di bisogni sensitivi ed animali, per soddisfare ai quali amerebbe sempre chiamare a' suoi servigi lo stesso intendimento, voglio dire il giudizio dell' intendimento? Se l' uomo avesse una natura perfetta, una natura senza mescolamento di alcun elemento di male, le sensioni e gl' istinti da esse nascenti si conterrebbero nella loro sfera, produrrebbero forse delle azioni senza intervento dell' intelletto (almeno se l' attività propria di questo, la volontà, non si opponesse loro): ma non darebbero la leva all' intelletto stesso, non attenterebbero di muoverlo ad un giudizio precipitoso, temerario e falso. Le due potenze dell' affezione e della volontà opererebbero da sè a fianco l' una dell' altra. In tal modo non verrebbe mai sedotto il giudizio dell' intendimento umano, e però non vi avrebbe immoralità. Ma il fatto avviene pure spesso in contrario: l' uomo sente, e, schiavo delle sue sensioni, non s' accontenta di esse; vuol fare servir loro l' intendimento, e così piega la sua ragione a pronunciare, prima d' aver esaminato, prima d' avere veduto il vero, a favore di quelle. Venendo il giudizio così pressato a pronunciare, quando la causa non è resa ancor chiara, egli per non errare conviene che sia fornito d' una grande forza pratica tutta a favore della verità e della virtù (1). Questa può nascere ed esser coltivata dalla prima infanzia, prima ancora del tempo della lotta; ma dove ciò non sia stato fatto, viene pel fanciullo l' età, in cui da una parte ha una norma astratta, un' idea, secondo la quale deve giudicare; dall' altra ha già le passioni invigorite, che vogliono farlo giudicare per esse; quella gli mostra la via, ma nol move; queste il movono, ma gli nascondono la vera via; nè egli ha virtù naturale di resistere a' costoro inviti. E ciò spiega la somma difficoltà, che si osserva ne' fanciulli a mantenere una costante veracità nelle loro parole. Osserva M. Necker de Saussure che « « ogni azione, dalla quale non risulta immediatamente patimento a nessuno, pare innocente al fanciullo »(1) ». La ragione di questo fatto si è, che per conoscere colpevole un' azione che non fa dolore a nessuno, il fanciullo dee usare di una norma ideale, là dove per conoscere colpevole un' azione che reca dolore, egli non ha bisogno di far uso, che di una norma concreta. Ora una norma ideale è sfuggevole all' attenzione, e fa su di lui poca impressione; là dove una norma concreta il muove efficacemente. Applichiamo questo principio generale al caso particolare della veracità. Ecco il fatto. [...OMISSIS...] Questo fatto dimostra la poca efficacia, che ha la norma astratta della veracità sull' animo de' fanciulli. Quando la veracità va d' accordo colla simpatia, cioè col bene che si fa altrui per istinto, allora è conservata: è il caso nel quale il fanciullo si dimostra sì schietto, sì ingenuo. Se la veracità non è combattuta dalle tendenze simpatiche, benchè non la sia favorita da esse, ancora conserva qualche forza sul fanciullo: egli ben intende, che le parole debbono significare altrui quello che si pensa, che questa è cosa convenuta tra gli uomini, che chi apre la bocca a parlare con questo solo si obbliga a stare a quella convenzione, ed usare le parole per esprimere il vero. Ma tutto ciò si oscura nella mente infantile o almeno perde di forza nella sua volontà, quando un' affezione simpatica, una sensione qualsiasi viene in collisione colla norma della veracità. Molte volte allor nasce, che vi siano due norme morali in collisione tra loro, l' una concreta, quella della benevolenza; l' altra astratta, quella della veracità. La prima prevale alla seconda, benchè la seconda sia in se stessa assai più autorevole della prima. La veracità ha due ragioni, che la raccomandano. L' una l' utilità generale del genere umano; l' altra l' intrinseco prezzo, la necessità intrinseca della veracità: e questa seconda è la ragione diretta ed intrinseca. L' utilità del genere umano è compresa nel principio della benevolenza già noto al fanciullo; ma quella utilità egli non sa calcolarla: e dove anco la sapesse in qualche modo, trovandola in collisione con una utilità presente e sensibile, quella forse, generale e ideale come sarebbe nella sua mente, cederebbe a questa minore, ma concreta ed istante. Appena il fanciullo alla nostra età imparò a subordinare uno o due mezzi ad un fine; e il calcolo dell' utilità universale, veniente da una costante veracità, suppone la subordinazione e coordinazione d' un gran numero, e d' una grande serie di mezzi al fine di quella generale utilità. Il concepire immediatamente la necessità intrinseca di essere veraci non è guari difficile; e come dicemmo, ogni fanciullo, quando è tranquillo e non sedotto dalle passioni, la vede e la conosce. Ma questa conoscenza non ha virtù di muovere la volontà, quando questa è preoccupata dall' affezione agli esseri reali: l' attenzione del fanciullo si occupa tutta della cosa che ama, e volontariamente dimentica, per dir meglio non considera quella necessità della veracità, che pure gli sta immobilmente presente, benchè egli volga di continuo l' occhio altrove per non vederla. Se noi vogliamo dedurre il dovere della veracità nelle parole potremo dedurlo nel modo seguente: « Chi prende a parlare altrui, promette tacitamente a quelli, co' quali parla, di dir loro la verità usando le parole per quel che corrono. Quegli ai quali parla acquistano con ciò il diritto di non essere ingannati. Il diritto di non essere ingannati è di gran prezzo per l' essere intelligente, che abborrisce che gli si faccia inganno, eziandio allora che egli non si fa scrupolo d' ingannare altrui. Laonde il fanciullo stesso si adonta contro colui che l' inganna mentendogli, con che dimostra di sentire assai bene, che l' inganno è un' ingiuria per un essere ragionevole; è una violazione della dignità dell' essere intelligente, il cui altissimo bene si è il vero, e il cui proprio male si è il falso. Dunque il mentire è peccato e la veracità è dovere ». Da questa deduzione del dovere della veracità s' intende che egli esige per essere inteso, che prima sia ben inteso come « il possesso della verità sia un gran bene, e carissimo all' essere intelligente »; e come per quest' essere sia un male il falso e un' ingiuria l' inganno. Che tutto ciò s' intenda dal fanciullo è innegabile; ma del pari è innegabile, che ciò ha poca efficacia sulla sua volontà. Di che la ragione si è che la verità è un essere ideale, di cui sebbene intenda il prezzo, tuttavia non lo intende per modo che grandemente il muova; nè il può a lungo contemplare colla sua mente sempre naturalmente occupata di cose reali. Alla verità , a quest' idea sublime, il fanciullo dà degli sguardi momentanei; ma non vi si ferma: la usa di mezzo, ma non la contempla mai fissamente e direttamente come fine, come oggetto: è troppo comune, troppo chiara, troppo evidente, troppo antica per lui a poterlo interessare, occupare di sè: questa è l' opera dell' età avvenire, della mente esercitata, del cuore sublimato da un lungo esercizio di virtù. E qui soffermiamoci a levare la nostra riflessione su tutte le cose dette, che n' avremo un risultamento importantissimo al fine di conoscere la qualità e l' indole dello sviluppo delle facoltà morali nel fanciullo. La morale soggiacque nel suo spirito a tre modificazioni sostanziali, prese successivamente tre forme; ma la forma, che successe, non distrusse l' antecedente, la completò; la seconda completò la prima, la terza le altre due. La prima forma, di cui parliamo, avea per oggetto e per norma insieme l' essere intelligente reale e produceva l' immediata benevolenza. Volendo vestirla di un' espressione, ella suonerebbe così: « riconosci praticamente gli esseri morali per quello che sono »(rispetto a te). La seconda forma avea per oggetto la volontà degli esseri intelligenti reali, la volontà buona, e la sua espressione sarebbe questa: « uniformati alla buona volontà degli esseri intelligenti ». La terza forma in fine ebbe per termine la nozione ideale, l' idea come norma delle azioni. Quando l' uomo dice seco medesimo: io debbo preferire tra più esseri intelligenti e tra più volontà la migliore; egli allora non s' attacca nè a questo, nè a quell' essere reale; ma all' ordine mostratogli nell' idea: sicchè quest' idea viene ascoltata a preferenza di qualsiasi invito e attraimento, che potessero esercitare sopra di lui gli esseri reali. Questa forma di moralità potrebbe dunque venire espressa così: « fa ciò, che ti mostra dover tu fare la nozione o idea delle cose, colla quale si misura e pesa il valore delle cose stesse ». Le tre forme della morale da noi qui accennate sono quelle che sogliam dire le tre categorie della morale: tutti i precetti ad una di esse tre si riducono. La prima ha per fondamento l' essere reale, la seconda l' essere morale, la terza l' essere ideale: questi sono i tre modi, ne' quali l' essere sussiste. Il fanciullo dunque al quint' ordine d' intellezioni tocca si può dire tutta la morale; perocchè tutte le forme di questa si sono a lui disvelate. Chi poi bramasse intendere qualche cosa di più intorno a questa parte ontologica dell' Etica, può vedere il nostro « Trattato della coscienza (1) ». Iddio si è già cominciato a conoscere dal fanciullo come natura ottima e come volontà ottima. Questa cognizione si sviluppa e perfeziona via più nel fanciullo, quando questi si conduca a conoscere le opere di Dio ed i suoi precetti . Ma, oltre questo perfezionamento della notizia di Dio nella mente fanciullesca, in quest' ordine d' intellezioni può manifestarsi Iddio al fanciullo come giudice e rimuneratore del bene e del male. Già di molto s' estende il pensiero del fanciullo se egli giunge a sapere, che, chi è contrario a Dio, è perduto, chi è amico suo, è salvato, destinato alla beatitudine: chi disubbidisce alla sua volontà, è punito in un modo terribile, chi l' ubbidisce, è premiato in un modo ineffabile. Questa idea di rimunerazione ben impressa e tenuta viva nella mente fanciullesca è un faro di salute nelle tempeste delle tentazioni: tutti gli attributi di Dio vi sono compresi, la potenza, la sapienza, la giustizia, la bontà, l' esser egli unico bene, il bene essenziale, il compimento di tutto ciò che è finito, la sussistenza stessa del finito. All' anima umana è convenientissima una tale notizia: annunziatagliela l' accetta avidamente, l' ammette come propria, come già conosciuta e a lei famigliare: la luce della sua verità è tale, che esclude qualsiasi possibile opposizione od esitazione. Alcune altre cose spettanti allo sviluppo intellettivo del fanciullo al quint' ordine saranno inserite in questo capitolo per la stretta connessione, che esse hanno collo sviluppo delle sue facoltà attive e morali, che ora prendiamo a sporre. Vi ha un tempo della vita del fanciullo, nel quale l' imaginazione prende uno sviluppo rapido ed immenso: questo suol essere il terzo o il quarto anno (1), al quale tempo suol appartenere il quint' ordine d' intellezioni. Questo fatto del subito slancio che prende l' imaginazione, la quale dopo qualche tempo perde nuovamente di sua attività, dee essere da noi spiegato: e le ragioni di esso ritrovansi appunto nelle speciali condizioni dello spirito pervenuto al quint' ordine d' intellezioni. Fino dai primi istanti della vita del fanciullo la facoltà di ristaurare nell' interno le sensazioni ricevute cogli organi esteriori è certo sommamente pronta e vivace. Ma la sua prontezza e vivacità non si stende che a lui, nè mostra perciò al di fuori i suoi effetti per le seguenti ragioni. Le sensazioni che riceve il bambino alla giornata sono ancor poche ed uniformi. Queste si risuscitano bensì nella sua imaginativa, in questo senso interiore, date alcune circostanze, indicazioni o stimoli, che sieno atti a rinfrescare nel cervello le sensazioni avute. Ma il fanciullo non gode ancora di alcun uso della sua libertà, nè ha imparato a maneggiare quella potenza che ha d' imaginare; nè conosce alcun bisogno, alcun fine che a ciò lo tragga. Egli si rimane adunque al tutto passivo; e quelle sensazioni, che nella sua fantasia si suscitano e rinnovellano, si suscitano e rinnovellano tutte a caso, e secondo impreveduti accidenti. Indi è, che non si dà nel rivenire delle sue imagini alcuna composizione nuova; si ripetono fedelmente le sensioni avute e non più. Di che manca tutta quella immensa ricchezza, che l' imaginativa acquista dalla composizione d' imagini, varia all' infinito. Questi limiti, che restringono da prima l' imaginazione infantile, si tolgono via ben presto. Le sensazioni si moltiplicano, si connnettono, si ripetono e tutte vivissime. Col sentire si suscita nel fanciullo il desiderio di sentir maggiormente, la voglia di procacciarsi sensazioni esterne ed interne. Egli viene apprendendo l' arte di muovere egli stesso internamente i nervicciuoli destinati al sentire interno della fantasia, e così a suscitarsi le imagini. Quest' attività prima spontanea s' accresce ben presto coll' apparizione della libertà nel fanciullo. Ma tutto ciò non sarebbe ancor bastevole a spiegare quel periodo, d' altra parte breve e sfuggevole, nel quale l' imaginazione è per così dire la fata del paese, arbitra di tutto ciò che vi nasce e che vi apparisce. A rilevar la cagione di tal fenomeno si consideri: 1 Che l' uomo non potrebbe colla sua imaginazione crearsi degli avvenimenti, comporsi delle favole, de' miti, se non a condizione di aver già appreso dall' esperienza come gli esseri della natura sogliono operare, il che è quanto dire dopo essersi formato de' principŒ definiti circa l' operare delle cose. 2 Che non potrebbe tampoco fare tutto ciò liberamente, se i principŒ da lui formatisi circa l' operare delle cose fossero così definiti e legati alla realità, ch' egli non potesse più nulla aggiungere alla natura, non pensare più nulla di nuovo, se non ciò che fosse al tutto verisimile. Si esige adunque, affinchè l' imaginazione abbia il suo maggiore sfogo, una qualche cognizione dell' operare delle cose che compongono l' universo; ma non una cognizione perfetta, anzi manchevole, vaga, da molte parti indeterminata. Trovandosi in tale stato d' imperfezione la cognizione intorno all' operar delle cose; la mente del fanciullo ne sa abbastanza per fingere delle cose sull' esempio di quelle che avvengono realmente in natura; ma ne sa ancora bastevolmente poco per trovare verosimile tutto ciò che non è metafisicamente impossibile: la verisimiglianza ha per lui ancora ampiissimi confini, l' inverisimiglianza gli ha angustissimi. Già abbiamo veduto che, da principio, il fanciullo non ha altra regola nella sua mente per misurare l' impossibile in natura, se non l' assurdo metafisico; perciò egli è disposto a credere possibile, a credere vero e reale tutto ciò che non contiene in sè intrinseca contradizione e questa stessa a lui visibile; perocchè non sempre la coglie. La possibilità fisica adunque, per lui altrettanto estesa quanto la possibilità metafisica, è immensa, non ha confini; e questo è il teatro della sua fantasia. Ma questa potenza intrinseca non può giocolare sur un tanto teatro, se non ne apparò prima l' arte; cioè se non ha qualche cognizione delle cose esteriori e del loro operare, ch' egli dee pur fingere e in qualche modo simulare. Ora quest' arte l' appara tostochè, percepite le cose esterne, comincia ad osservarne le loro azioni, a formarsene degli astratti, a notarne alcuni grossolani lineamenti e confini; i quali limitassero bensì un poco per lui la sfera della possibilità fisica, ma non tanto ch' ella non restasse ancora infinitamente più estesa della reale. Ora questo stato dello spirito del fanciullo è appunto quello, che risponde al quinto e al sest' ordine d' intellezioni. Da principio l' operar della natura per lui non ha limiti, ma nè pur quasi esiste: perocchè non avendo percepito che alcuni esseri, egli non vede che quegli soli, che a lui richiama e ripete la fantasia, che da se stessa si muove. Quando poi egli è già in possesso di alcune idee astratte delle azioni e si è formati alcuni tipi grossolani dell' operar delle cose, il che comincia egli a fare al quart' ordine, egli è in possesso di tutte e due le condizioni necessarie alla massima attività della sua imaginazione, perocchè d' una parte: 1 egli sa fingere delle cose e de' fatti; perchè ha già delle idee astratte che a ciò lo dirigono e de' tipi ricevuti dall' esperienza; 2 e in questo lavoro non è angustiato e ristretto dalle misere leggi della verisimiglianza, leggi che ancor non conosce; e però spazia larghissimamente colla sua imaginazione, senza trovare ostacolo, per i campi di un mondo fantastico e dilettevolissimi senza confini. Ma questo stato felice, in cui la sua fantasia e sa muoversi e nel muoversi non trova alcun ostacolo che la trattenga, alcuna legge che la restringa, non dura a vero dire gran tempo. Perocchè l' avvolgersi continuo colle cose reali della natura e le nuove osservazioni, ch' egli fa di continuo sul loro operare, lo rende accorto de' confini più precisi, entro a cui son racchiuse le nature nelle loro azioni: i tipi dell' operare delle cose, che egli s' era formato in mente e che erano incerti abbozzi, e più cotali scarabocchi ovvero geroglifici che accurati disegni, vanno ricevendo più distinti contorni, si disegnano con più esattezza, si colorano con più chiaroscuri, ricevono fin anco gli ultimi tocchi, che li rende similissimi alla realità. Ogni passo, che egli fa in questa scienza, ogni linea ch' egli aggiunga al disegno, che s' è formato in mente, e colla quale via meglio il determina, fa perdere immensamente alla sua imaginativa, svela per chimeriche innumerevoli sue creazioni, condanna per grossolane, puerili, assurde infinite invenzioni, che prima nella sua semplice ingenuità a lui parevano le cose più vere, le più care, fino le più importanti. Così l' età sopravvegnente porta via continuamente molti idoli fantastici, che più non piacciono, quando se ne vede troppo patentemente la falsità. [...OMISSIS...] Ma non passano molti anni, che le novelle vostre non gli piacciono più: voi dovete acconciarle con più industria, acciocchè gli riescano interessanti: viene ben presto il tempo che egli vuol delle vere storie (2). Il periodo d' una straordinaria quantità d' azioni della fantasia, che si vede nell' infanzia al terzo e quart' anno, cioè al quinto e sesto ordine d' intellezioni, vedesi del pari nella vita dell' umanità. I tempi favolosi si trovano nelle storie di tutti i popoli: l' Oriente, la Grecia, il Settentrione hanno le loro favole: a tutte le storie sono preceduti i poeti. Questo periodo mitico è più o meno lungo, secondo che l' infanzia delle nazioni è più o meno prolungata. Le favole non si possono più sostenere presso que' popoli, nei quali la cognizione precisa delle cose reali ha reso impossibile la loro illusione. Allor quando alla mitologia greca si pretese di sostituire nella letteratura le streghe e gli spettri del Nord, si dava indizio di conoscere, che il mondo non poteva più comportare in alcun modo le bambolaggini greche; ma poi per errore credevasi di soddisfare alle sue nuove esigenze col presentargli delle nuove bambolaggini, le boreali. Non poteva riuscire il tentativo, nè riuscì: il mondo cristiano ha oggimai bisogno di schiettissima verità . Sarebbe tuttavia erroneo il credere, che con questo nome di verità s' intendesse solamente la realità; questa non è che una parte di quella: la verità abbraccia di più: ha la sua storia e la sua poesia; e son vere ugualmente. Ben avviene che i popoli, che occupano interamente la loro attività in interessi reali e in cose positive, divengono alienissimi da tutte le generali teorie, e da quanto v' ha di grande nel mondo ideale. Questi vanno all' eccesso contrario: legano del tutto la loro fantasia, perocchè a questa non rimane più a innovar cosa alcuna, condannata, per somma grazia, a solo ristampare le realità. Non è già che alla imaginativa di tali popoli manchin le forze; ma queste forze sono legate del tutto. Perocchè la potenza d' imaginare non può produr nulla, che abbia qualche interesse per l' uomo, se non sia tale, che rechi qualche illusione; che possa almen essere conosciuto per tutto simile al vero. Ma non dà alcun valore che al reale, poichè al reale tanto s' affissa, che lo ha sempre presente, nè crede che altro vi sia che il reale; questi trova puerile tutto ciò che reale non è, e ride, o almeno non cura nè anche quello, di chi dubita se sia reale. Ognuno vede quanto al ritratto, che noi facciamo di tali popoli, rassomigliano gli Americani degli Stati7Uniti. Ma tutto ciò, che abbiamo detto, non ispiega ancora certi fenomeni dell' animo del fanciullo al tempo, in cui la sua imaginazione prende quel rigoglio di cui abbiamo parlato. Uno di questi fenomeni si è, che entro quel periodo il fanciullo trae ben sovente più piacere dall' imaginario che dal reale. [...OMISSIS...] Le quali parole nel tempo stesso che descrivono con evidenza il giuoco dell' imaginazione puerile, toccano anco delle cagioni che entrano a produrlo. E certo il piacere di operare da sè, di vagheggiare le proprie creature, dell' averne sempre di nuove e fresche, e tutte atte ad illudere in quell' età per la ragione detta di sopra; valgono in parte a spiegare come il fanciullo così avidamente si dia a chimerizzare e fantasticare. Ma perchè non si vede un somigliante giuoco nelle bestie? Hanno pur anche esse l' imaginativa e provano piacere delle rinnovellate imagini: ma come ottimamente venne osservato, tratte una volta in inganno dall' imaginazione, per esempio delle uve di Zeusi, non ne vogliono sapere di vantaggio di simiglianti illusioni tutte proprie dell' uomo. Vero è, che l' attività, che dispiega l' uomo imaginando, non è solo sensuale, ma intellettuale altresì; giacchè l' imaginazione vien diretta e guidata dalle idee astratte, ciascuna delle quali è un cotal tipo non finito, sul quale innumerevoli cose possono esser create e foggiate, ed è ciò che rende sì vasto l' imaginar dell' uomo sopra quel delle bestie. Tuttavia quest' attività intellettuale che s' accompagna all' attività dell' imaginazione, e cresce tanto e l' ampiezza e il diletto dell' operare di questa; in che modo potrebbe ella esser fonte di tai piaceri, se non fosser piacevoli gli stessi oggetti, ch' ella presenta? Dunque non è solo l' attività come attività la cagione perchè il fanciullo si diletta degli imaginati oggetti, ma è qualche cosa ancora di dilettoso, che in questi egli ritrova e gusta: e che può esser la cosa che così lo attrae? Se non è la realtà dell' oggetto, che, come vedemmo, egli ritrova soverchiamente angusta e povera, che il diletti, non può esser altro che la stessa entità metafisica della cosa: cioè a dire egli si diletta dell' oggetto come oggetto, poco poi calendogli che esso sia reale o non sia; egli contempla e gusta la natura, la essenza delle cose; di questa è incantato e preso. Questa è una contemplazione dilettevole sì, ma disinteressata; una contemplazione tanto più nobile quanto è più segregata dalla fredda realità. Egli è l' istinto d' imparare a conoscere l' entità delle cose, che lo muove, che lo trattiene a contemplare internamente nel proprio spirito, senza darsi gran pena della cosa al di fuori: egli è rapito dal bisogno che prova il suo intendimento di suggere per così dire l' essere, più essere che egli possa, i gradi, l' ordine intimo, le forme di quest' essere, che sono appunto l' essenza delle cose limitate, di cibarsene come del suo nobilissimo cibo, celeste, vitale. L' oggettivo, l' ente in sè (non reale, non ideale, ma astratto da questi primordiali suoi modi) è quello ch' io chiamo il mondo metafisico. A quest' età il fanciullo apre le sue ali e vola ad esso senza schermi. La mente si compiace nell' aderirvi come la bocca del bambino al seno materno. Egli è per questa stessa ragione, che fino al tempo nostro, benchè sì ricco oggimai di esperienza, avidamente son letti i romanzi. Ma v' ha forse alcun, che li legga, perchè egli creda, che le cose siano avvenute, come essi le narrano? Sarebbe troppa semplicità. Chi li legge vuol vedere in essi come sia la natura umana, come ella operi. Vuol imparare a conoscere il cuore umano, vuol contemplare l' indole delle passioni, le pieghe di questo cuore, che palpitando in tanti individui diversi è finalmente in tutti il medesimo. Allo stesso modo gli uomini guardano il figurino, affine di conoscere l' usanza corrente; a nessuno poi importa che la pinta imagine sia per avventura Madame tale o Monsieur tale, le quali realtà riuscirebbero così frivole, così importune, così lontane da quel che cercasi, che farebbero noia anzichè piacere. Il desiderio di conoscere le cose in sè stesse nella loro oggettiva essenza, anzichè nell' accidentale loro realità, è lo stesso che il desiderio del sapere; perocchè il sapere tutto a questo si riduce nella formale sua parte; nè il sapere più o meno delle cose reali e positive rende per sè l' uomo più savio e più dotto. E questo è uno degli istinti più forti dell' umana natura: l' anima si precipita nell' entità oggettiva come nel suo bene, tostochè ella possa, tostochè si veda aperta una via per pigliarsene qualche parte, foss' anco un briciolo. Da questa tendenza poi efficacissima, che porta l' anima intelligente a contemplar le cose, come sono in se stesse, non come sono nel mondo reale, moltissimi fenomeni dell' umana vita ricevono facile spiegazione, e bastimi fare qui cenno soltanto di quello, che più da vicino s' attiene al nostro discorso. Quest' è la facilità, la prontezza, la necessità, che ha lo spirito di passare da una cosa simile ad un' altra, cioè a far si che una cosa gli serva di segno o d' indizio d' un' altra. Non importa che la somiglianza sia poca, che il segno sia imperfetto, che meriti piuttosto nome d' indizio che di ritratto: la mente non fermasi a quell' oggetto rozzo e reale, come negli esempi di sopra accennati all' uomo di cera o di carta: pensa immediatamente all' uomo vero, ma notisi bene, dico l' uomo vero, non dico il reale; perocchè al fanciullo niente gl' importa di sapere che esso sussista; gl' importa solo di pensare, di contemplarsi quell' uomo, di cui nel suo spirito ha già ricevuto l' idea, e nella idea appunto l' essenza. Tanto egli è vero che questo passaggio spontaneo da cose così distinte tra loro, com' è un po' di cera e di carta, da un uomo, accade per la forza dell' istinto, che sprona del continuo la mente a ricorrere alle cose in se stesse; che un tal passaggio, chi ben lo considera, riguarda sempre una cosa esterna e materiale, dalla quale si passa ad una cosa interna ed oggettiva. E quand' anco avvenisse che da una cosa esterna si passi in un' altra pure esterna, sempre però ciò si effettua per questo modo; che egli dalla cosa esterna passi prima a contemplare quella, che egli ha nella mente, e poscia da questa cosa interna viene all' altra esterna. Questa osservazione medesima dimostra la possibilità delle lingue. Si noti, che la maggior parte de' suoni, che formano una lingua, segnano le cose come sono nella loro natura e non nella loro sussistenza. Or come sarebbe possibile, che all' udire i suoni delle parole il fanciullo fosse tratto a pensare alle cose, colle quali essi hanno una cotale analogia, se non fosse già inclinato da natura a correre colla mente alle cose in se stesse, prendendone occasione da checchessia gli si presenti? - Chi vide la scuola de' sordomuti, e la incredibile facilità, onde intendono le cose mediante de' segni, si convincerà della cosa stessa. Non fa già bisogno, che i maestri gli dicano innanzi, che i gesti, che adoperano con esso loro, sono de' segni: questo sempre viene presupposto, questo lo sanno da sè, glielo dice la natura: la natura è quella che li avvia a considerare tutte le esterne cose, e non soltanto i gesti dei maestri, come de' segni di altre cose, cioè della natura, dell' essenza delle cose. Se la natura non lo dicesse loro, niun potrebbe farglielo intendere: perocchè il concetto che una cosa sia segno, e sopratutto segno convenzionale d' un' altra, è in sè stesso così difficile a snodarsi, così gratuito a stabilirsi, dirò anche così strano e mirabile; quando si considera la cosa colla mente e non coll' istinto, che non potrebbe essere mai ricevuto, ammesso, ritenuto costantemente; come pure senza alcuno sforzo, fanno, e ogni giorno i bambini, gli idioti, i muti. E` che l' uomo non può fermarsi al reale; è che egli tosto che può farlo, fugge da esso come la freccia dall' arco, per cogliere e infiggersi nella natura delle cose, oggetto della sua intellettuale contemplazione: è per questo ch' egli, lungi dal trovar difficile il pensiero, che una cosa sia segno dell' altra, trova anzi impossibile il non considerare tutte le cose reali per segni. Questo spiega le lingue, i geroglifici, le scritture, le mimiche, i simboli, i miti, le arti tutte d' imitazione, l' antichissimo linguaggio enigmatico, la sapienza parabolica de' primi uomini, l' aver Iddio ammaestrati gli uomini sempre per segni, per figure: l' interpretarsi per segni ogni cosa che avviene, sia falsamente ed arbitrariamente siccome fanno gli auspici, gli aruspici, i fatidici, gl' indovini presso tutti i popoli, in tutti i tempi; sia veramente come fanno gli ispirati incominciando da' primi profeti, a cui Dio parlava per visioni e per segni, fino ai Padri della Chiesa e agli interpreti delle Sante Scritture, che negli stessi fatti più semplici del Vangelo leggono quasi direi significati de' morali documenti e de' profondi misteri (1). La tendenza, che porta l' uomo alla contemplazione delle cose in se stesse è essenzialmente morale; appunto perchè ella è essenzialmente oggettiva (2), e del soggetto interamente obliviosa. Se dunque l' imaginazione, che si spiega nel fanciullo, non producesse altro effetto che questo, fosse solo un aumento di contemplazione intellettiva delle cose nel loro essere metafisico; indubitatamente, che ella gioverebbe alla bontà morale, senzachè da essa venisse a questa alcun danno. E così sarebbe, se l' umano istinto , che segretamente dirige le potenze alle loro operazioni, avesse per suo mobile solo l' accennato, voglio dire la tendenza dell' intelletto ad affissarsi nell' entità delle cose, senza più. Ma egli ha un altro mobile tuttavia, e questo è il piacere che ritrae dalla realità. Convien riflettere, che l' uomo è un essere reale, e che perciò ci tende ancora a dei godimenti reali. Benchè adunque il suo intelletto si compiaccia nella luce della verità, nella visione delle essenze; tuttavia vi ha in lui un' altra tendenza a lato di quella, la tendenza cioè che lo porta verso a tutti quei beni reali, che gli posson dare diletto. Due adunque sono i mobili dell' istinto umano: l' uno ci porta verso l' entità in se considerata, l' altro verso l' entità reale . Questi due mobili dirigono segretamente lo spirito nostro nelle sue operazioni per una strada opposta. La tendenza del tutto intellettiva a fissarsi nella cosa in se considerata ci stacca dalla realità, che le riesce del tutto inutile; la tendenza a godere della realità a questa ci rimena. Indi avviene, che quando il fanciullo immagina viene bene spesso da lui contemplato come una natura di cose in se, non curando la ricerca, se sia reale o no. Quando prevale in lui questa prima tendenza, egli parte dal reale come da un simbolo, e finisce nell' essenza della cosa come nel simboleggiato. L' essenza qui è il fine del movimento dello spirito, la cosa contingente e reale non ne è che il principio e l' occasione. Ma se nel reale egli concepisca qualche cosa di dilettevole, e indi venga a giocare la seconda tendenza, allora avviene nello spirito del fanciullo il contrario: cioè che quanto egli imagina facilmente lo crede cosa reale. In questo caso lo spirito di lui fa un contrario viaggio; egli parte dall' imaginario e viene al reale: la imaginazione è il principio del movimento, la credenza alla realità ne è il termine. Ognuno s' avvede, che con queste parole noi abbiamo discoperto la sorgente di molti errori infantili. Perocchè come la mente, che dal reale partendo, si dava all' entità in se, trova ed aderisce al vero; così la mente, che parte dall' immaginato e dall' entità in sè contemplata, e viene a vedervi dentro il reale, trova il falso ed a questo s' abbraccia. Vero è, che nella stessa imaginazione si ha un principio di reale, perchè è il sentimento che soffre, ed il sentimento è un reale, nè può essere modificato che da qualche reale azione. Ora quando noi soffriamo qualche azione nel sentimento nostro concludiamo, che un reale esiste; nè a torto fin qui: perocchè l' error nostro comincia solo allora, che noi vogliamo determinare, che cosa sia questo agente reale, e giudichiamo dover essere quello appunto che ci apparisce. Questa illusione è perfetta ne' sogni, nei quali non dubitiamo punto della realità delle cose, che ci si rappresentano, perchè la loro rappresentazione, cioè la loro azione nel sentimento nostro è perfetta. Nella veglia stessa se l' imagine è viva e presente, ci illude e a mal grado del ragionamento, che vorrebbe trarci d' inganno, noi sofferiamo una commozione tutta simile a quella della realità. [...OMISSIS...] In questi fatti non ha luogo la volontà libera del fanciullo: le imagini e i sentimenti di paura sono delle realità, e le realità muovono la persuasione, inducono il nostro spirito a credere ad esse. Quand' anco il fanciullo sapesse speculativamente, a non dubitarne, che i suoi timori non hanno alcun fondamento, che quegli spettri non sussistono; tuttavia sussiste l' impressione e la reale commozione del sentimento in lui: egli soffre ad ogni modo l' impressione d' una realità. Avvi ancora una tendenza a credere, che gli oggetti sieno in se stessi, come sì vivamente gli appaiono: questa tendenza che suppone in ciò che apparisce un ente, è figlia dell' intendimento, che dovunque non può vedere cosa alcuna se non a condizione, che vi vegga degli enti. Onde lo spirito li suppone anche dove non sono, perocchè gli è il modo più facile di concepirne qualche cosa, di cui ha voglia: altramente dovrebbe sospendere l' atto suo per un tempo assai lungo, fino allora che abbia scoperto il vero ente a cui rattaccar que' fenomeni. Per quantunque in questo modo nascano degli errori nella mente infantile, tuttavia essi non sono ancora quella classe di errori che noi vogliamo qui designare come funesti alla moralità. Nè pure appartengono alla classe degli errori funesti, quelli che nascono da altre leggi pure dell' intendimento, le quali noi abbiamo disegnate di sopra. Abbiamo detto cioè che l' intendimento in ciò che percepisce « non solo percepisce necessariamente un ente, ma ancora suppone sempre che l' ente percepito sia il più perfetto ed assoluto, che egli possa concepire stante la qualità e quantità delle sue cognizioni ». Questa gran legge dell' intendimento riceve una modificazione nella sua applicazione secondo lo stato dello spirito fornito più o meno di sperienze e di cognizioni, come vedemmo; sicchè lo spirito al tutto vuoto del neonato suppone nel primo ente, che gli sorride e che percepisce, l' illimitato, perocchè il supporre ciò non gli è conteso dalle altre sue cognizioni, che ancora non ha. Ma dal momento che altre cognizioni acquista, non può più supporre illimitazione dell' ente percepito, perchè una tale illimitazione cadrebbe in contraddizione colle cognizioni avute. Tuttavia la sua supposizione è sempre al maggior vantaggio possibile degli enti che percepisce; non mettendo egli confini a questi, se non è costretto dalla necessità dell' esperienza e delle cognizioni in lui crescenti. Egli dunque prende degli errori anche per questa via, per la quale si lascia condurre « dal principio d' integrazione » e li prende di nuovo per la voglia di conchiudere qualche cosa, pel bisogno d' intendere. Conciossiachè se egli potesse non supporre niente, tutto percepire ; sostenere gli atti del suo intendimento che aspirano all' assoluto, fino che non è ben chiaro di questo, cioè del dove sia da collocarsi: eviterebbe egli questi errori. Ma tuttavia anche questi errori, che vannosi poi da se stessi correggendo di mano in mano che cresce l' età, non sono degli errori funesti alla morale bontà. Gli errori funesti tra quelli, a cui dà occasione l' attività fantastica, son quelli che si prendono da fanciullo, quand' egli aggiunge fede alla realità delle sue imaginazioni, non violentato a ciò dalla forza reale di esse, nè condotto da un principio intellettivo d' integrazione, ma unicamente spinto dal desiderio, che egli stesso ha, che quegli oggetti fantastici sieno reali, quatunque nol siano. Non è, che il fanciullo tessa tutto da se stesso a se questo inganno, egli propriamente non imagina nulla nè bene nè male: nè vuole ingannarsi: nè sa che fare di creazioni sue proprie. Ma se poi queste in lui si eccitano da oggetti esterni, che agiscono sopra di lui, allora può andarne ingannato primieramente ne' due modi detti, e poscia nel terzo. « I fanciulli abbandonati a se stessi (ecco il fatto assai bene osservato) possono aver paura d' un oggetto reale, d' un negro, d' uno spazzacammino, delle maschere, e rinfrescarsene la memoria con ispavento; ma ben poche chimere si foggiano da se stessi. Di rado una idea li preoccupa senza che sia stata lor suggerita ». Questo fatto dimostra che essi son fatti per la verità e non per le illusioni. Alle illusioni adunque sono cacciati dall' azione d' incitamenti esterni. Ma alle illusioni libere, a quegli errori, che noi dichiariamo moralmente funesti, non si danno se non ispinti dai loro desiderii e dai loro affetti. Questi riguardano o il tempo passato, o il futuro; e dirigono l' imaginazione loro per modo « che le cose passate e le future non le imaginino, se non quanto possono dar loro piacere ». A questo fine egli è necessario che sia loro formato il concetto del tempo, concetto che aiuta appunto per questo l' attività d' imaginare, la quale spazia nelle cose già avvenute, ed in quelle che si aspettano, ed egli è al quart' ordine, come vedemmo, che il fanciullo si forma la concezione de' due tempi, e al quinto quello de' tre tempi, il presente, il passato, il futuro: onde vedesi ragione, perchè all' età in cui è pervenuto il nostro fanciullo, comincino le sue illusioni volontarie. Queste derivano dal prendere per segreto conduttore della sua memoria e della sua imaginazione il piacere ed il dolore. Mosso da questo principio egli è tutto memoria, tutto imaginativa per le cose che gli piacciono, smemorato e senza fantasia per quelle che gli dispiacciono. Ecco delle osservazioni: [...OMISSIS...] Le speranze imaginarie della giovane età cominciano nel fanciullo col formarsi in lui il concetto del tempo avvenire, e aiutano meglio la formazione di questo concetto: perchè quelle speranze segnano dei punti nel futuro, come i diletti da lui goduti, assai più che i dolori stessi obbliati, li segnano nel passato. Or che lo spirito del fanciullo contempli a preferenza le imagini liete del passato, e le imagini liete dell' avvenire, non istà ancora qui il male: questo è natura. Ma che egli dia corpo a queste imagini, che egli spinto dall' amor de' piaceri voglia credere reale quello che non è tale, questo è l' errore che nasce da un mal principio, da un animo che ha cominciato già a torcere dalla morale rettitudine. Se si considera attentamente, come si sogliono guastare i fanciulli delle grandi famiglie, si troverà per lo più divenire il guasto da questo che si promuove nella loro mente la formazione di un mondo fantastico, a cui essi dan fede, e in cui credono d' occupare un posto del pari imaginario; dal qual posto movendo i lor pensieri e le loro azioni commettono dei continui torti alle persone reali del mondo reale, e fanno continui abusi delle cose pure reali. Poveri fanciulli! Tutti sono falsati i loro pensieri, i loro giudizi, i loro affetti, le loro abitudini: l' imaginazione li tradì, ma l' imaginazione non fu che la maga, di cui i genitori, gli amici, gl' istitutori, la turba di quanti hanno da far con essi si servono a gara per illuderli e perderli (1). La specie di errori immorali, di cui parliamo, mostrasi in un' ampiezza molto maggiore nella storia dell' infanzia de' popoli. Questi non si accontentano di crearsi una moltitudine di fantasmi; ma li fecero altrettanti esseri reali: l' idolatria n' è la prova. E l' idolatria non fu solo presso i popoli antichi o fra selvaggi; ma non fu detto a torto che nel mezzo stesso dei popoli cristiani e civili avvi una cotale idolatria; perocchè dovunque sono delle eccedenti passioni, queste non finiscono di reclamare dall' imaginazione degli idoli, a cui dian fede, a cui si prostrino adoratori: di reclamare che essa dilati i confini del mondo reale e lo metamorfosi, o ne crei un altro dentro di quelli, qual loro più piace che sia. Convien ben poco aver osservata la sformata vaghezza d' illudersi, che fanno gli uomini, per non riconoscere la verità lampante di ciò che diciamo. Ella si scorge per tutto. Nella società; e voi trovate che gli uomini vogliono essere ingannati di dolci parole, e si inimicano a quelli, che sinceri e schietti d' ingannarli ricusano. Nella letteratura e nelle arti; e v' ha pure chi ancor piange la mitologia, o tratta d' inventarne una nuova. Nella storia; e non la si vuol mai pura, nè la si crede, se per esser creduta non si fa raccomandare da qualche favola che ella accoglie (1). Ne' fatti e nelle parole è il medesimo; vi ha sempre una forza, che spinge occultamente a dar sussistenza a quell' amato imaginario, che non ne ha veruna. Per questo Platone si era messo in apprensione de' poeti; e non volea che nell' educazione de' giovinetti s' adoperassero se non i lirici, che inneggiavano alla divinità o cantavano la virtù e la lode de' virtuosi (2). Ma qui deve farsi una importantissima riflessione. Quegli errori occasionati dallo sviluppo della fantasia, che io ho indicato come funesti alla moralità del fanciullo nell' articolo precedente, cangiano di natura, se essi si considerano nell' età, in cui l' uomo non ha ancora la coscienza di se stesso, il concetto dell' Io, e poi nell' età susseguente alla formazione di questa coscienza, di questo concetto. Fino a tanto che l' uomo non intende il monosillabo Io, l' uomo è un sentimento sostanziale, che opera colle leggi della sua spontaneità: queste leggi sono inerenti alla sua natura, si consideri essa nello stato d' integrità o pure in quello di naturale corruzione. Ma da quel punto che l' uomo ha percepito sè stesso, incontanente in lui avviene un cangiamento immenso relativamente al suo operare libero e morale. E nel vero un soggetto che non percepisse intellettualmente se stesso, non può fare se stesso oggetto e fine del suo operare volontario. Perocchè la volontà è quella, che opera tendendo ad un oggetto conosciuto dall' intelletto; ora se l' uomo non si è ancora reso oggetto del proprio intendimento, egli non può nè pure essere oggetto della propria volontà. Innanzi adunque a quel tempo, nel quale l' uomo si forma la coscienza di se stesso, l' intelligenza dell' Io; egli opera bensì soggettivamente ma non rende mai se stesso soggetto termine fisso delle sue operazioni. Ma tosto, che egli si è formata la coscienza di sè, egli può mettere questo sè a segno e scopo fisso del suo volere e del suo operare. Qual immenso rivolgimento di cose non vi ha qui nel mondo morale del fanciullo! L' egoismo non può cominciare prima che l' uomo abbia inteso se stesso. Dalla notizia adunque dell' Io comincia la possibilità del vero egoismo (1). Egli è vero che anche prima della coscienza di sè possono cadere nell' uomo de' falli morali, ma questi, come dicevo, d' altra natura. Perocchè que' falli non potevano consistere se non in questo, che la spontaneità dell' operar soggettivo ci conducesse colla sua violenza ad operare contro l' esigenza degli oggetti. Ora questo sarebbe certamente un fallo, ma questo fallo sarebbe indiretto e negativo piuttosto che una trasgressione diretta e positiva. Mi spiego: Se io ho due oggetti innanzi e pospongo il più degno al meno degno, io posso far ciò per due modi; il primo perchè un istinto cieco mi sproni ad operare con tal veemenza e prontezza, che io fo torto a quell' oggetto più degno non perchè l' odii, od ami di più il men degno; ma unicamente perchè mi strascina il torrente dell' operare spontaneo e cieco, che opera senza por mente agli oggetti; anzi distraendomi dal raffrontarne e giudicarne il prezzo; il secondo perchè io liberamente antepongo e sceglio il piacere o bene che trovo nel men degno al valore intrinseco del più degno. Nel primo caso io pecco, ma indirettamente e negativamente, più per debolezza e corruzione di mia natura che per malizia. Nel secondo pecco direttamente, positivamente, maliziosamente. Ora, dico io, questo secondo modo di peccare suppone quasi sempre la coscienza di me; egli è un modo di peccare che almeno per lo più nasce dall' egoismo. Perocchè se io scelgo volontariamente fra un piacere o un bene del soggetto e il mio dovere, egli è mestieri che io abbia reso quel piacere soggettivo, o quel bene, che io preferisco, oggetto del mio proprio intendimento, che n' abbia però non già il mero sentimento generatore dell' istinto, ma propriamente la cognizione, onde spunta la volontà; e se il piacere o bene, che scelgo, mi è intimo; se egli consiste in qualche ingrandimento di me stesso, se in una parola appartiene al mio sentimento sostanziale (ciò che sono io stesso), debbo anco avere la coscienza mia propria per concepirlo; la quale in ogni caso mi nasce, o mi si forma nell' atto stesso dell' elezione. Così avviene, che per la coscienza di se stesso l' uomo possa introdurre nella sua perversione l' elemento il più funesto di tutti, l' egoismo, pel quale l' uomo mette per fine dell' operare se stesso, e a se stesso sacrifica tutto il resto. L' egoismo , che consiste a porre per fine se stesso, e che comincia a questa età, riceve anch' esso due gradi. L' uno è quel, che nasce dal dimenticare gli altri e non pensare che a se; l' altro è quel che pensa benissimo agli interessi altrui, ma per sacrificarli ai proprŒ. Ognuno vede che questo secondo grado è assai più malvagio del primo. Il primo di questi gradi nasce e cresce per lo più nel seno dell' ignoranza, è proprio delle persone volgari. [...OMISSIS...] Questa specie d' egoismo è quello, che traversa e impedisce nel mondo i più nobili progetti e quando questi debbono essere discussi in un' assemblea, molte volte sorge l' uno o l' altro individuo, il quale fa opposizione ad un bene sommo, mosso il più da minuto interesse: la ragione più frivola, un inconveniente, che si annienta se si confronta col bene della cosa proposta, basta per farla andare a monte. Direbbesi che ne' piccoli paesi, dove le passioni dovrebbero essere eccitate, e si ha da fare con un minor numero di votanti, i progetti di pubblico vantaggio dovrebbero meglio riuscire: non è vero; quello che non fa la violenza della passione, il fa in quella vece l' egoismo dell' ignoranza. Nei fanciulli si manifesta questa specie di egoismo ogni qual volta hanno da fare con persona che niente loro ricusa: questo trovare d' essere soddisfatti ad ogni loro richiesta fa sì che essi non siano mai condotti a riflettere sulla molestia, che altrui cagionano e pensino solo al proprio piacere. Sofia nelle lettere di M. Guizot ne è un esempio ammirabilmente dipinto. Il secondo grado di egoismo non comincia a quest' età: essa è una reità più matura. Moltiplice è poi la rea prole dell' egoismo. L' egoismo fa sì che l' uomo giudichi con misura diversa sè stesso e le cose proprie, e gli altri e le cose altrui. Questa è si funesta cosa, che è la forma di tutti i mali morali; di guisa che non sarà perduta mai qualsiasi vigilanza, qualsivoglia industria per guardarne il fanciullo: poichè, se l' educatore pervenisse a conservare nel fanciullo sempre, in ogni cosa, anche nelle minime, la rettitudine dell' anima, e l' imparzialità del giudizio, egli n' avrebbe fatto in breve tempo un uomo perfetto. Del pari gli artifizi fanciulleschi, le piccole ma frequenti menzogne dell' età infantile, prendono un carattere più grave, quando dall' egoismo già formato procedono. Quanto grande non è l' errore di quelli, che giudicano i fanciulli dai soli fatti esterni materialmente presi! Un fatto medesimo, una stessa finzione, una stessa menzogna in due fanciulli diversi può avere una gravità morale infinitamente diversa! La perspicacia, il discernimento degli spiriti, ecco la prima dote del savio educatore. Al quint' ordine ancora si manifesta l' apatia o noia morale, malattia pericolosissima ne' fanciulli. Vedemmo, che all' ordine antecedente, cioè al quarto, si sveglia nel fanciullo la voglia d' influire sulle volontà altrui; voglia nascente dal combattimento tra la volontà propria che il fanciullo non vorrebbe sacrificare, e l' altrui, che sente di dover pure rispettare e preferire alla propria (1). Ma il dovere influire sulla volontà altrui per tirarla e conciliarla alla propria è già una molestia pel fanciullo, un legame; e non può sostenerlo, se non a forza della sua benevolenza e del suo morale sentimento. Ora, intervengono dei momenti nei quali la benevolenza nel cuore del fanciullo rimane inoperosa, attesochè il fanciullo è distratto in altro, e il morale sentimento è in lui lasso ed inerte. In questi momenti è deplorabile lo stato del fanciullo. L' altrui volontà gli è di noia, ogni regola gli è un restringimento angustioso. Egli allora è colto da un mostruoso capriccio: s' intesta, e trova un diletto proprio ad usare tutta la sua attività fisica: gli sembra di sentirsi più grande ribellandosi alla legge, usando senza freno della sua naturale libertà. A tutti quelli che hanno trattato a lungo coi fanciulli, non sarà sfuggita questa pericolosa malattia morale. Un' autrice spiega l' ostinazione d' un fanciullo che imparando a leggere diceva sempre b7a7u, bu, nè voleva ripetere b7a7u bau, in questa maniera: [...OMISSIS...] . Ora, sebben questo gusto della libertà sfrenata, assoluta, questa vaghezza di bravar tutto, fin la legge, non si manifesti di subito, se non dopo l' età in cui è comparsa la voglia d' influire su gli altri; tuttavia potrebbe anco prima apparire. Ma ella suppone l' apatia o noia morale, per la quale la benevolenza verso gli altri è raffreddatasi, e non brilla più all' intendimento la bellezza e venerabilità della volontà d' un essere intelligente. Qual parte possa avere in tali fenomeni, talora improvisi e momentanei, l' azione dell' angelo delle tenebre è cosa segreta e nascosta all' umana investigazione; ben pare difficile lo spiegarli colle sole leggi ordinarie, secondo le quali opera l' umana natura. Che se l' egoismo è già nato nel cuore umano, la malattia, di cui parliamo, prende anch' essa tosto da questo un carattere più grave e maligno. Ma se l' aver trovato se stesso col proprio intendimento, il che è quanto dire l' essersi formato la coscienza di sè, è da una parte come l' aver trovato uno scoglio, contro cui può rompersi la morale bontà; così d' altra parte egli è ancora come l' aver trovato un passaggio, pel quale può distendersi un' immensa e fortunata navigazione. E veramente la consapevolezza della propria dignità morale non è possibile, fino a tanto che l' uomo non siasi formata la coscienza di se medesimo. Ella è questa coscienza che fa sì, che l' uomo possa giudicare se medesimo, possa imputare a se stesso le azioni, intendere l' imputazione, che gli vien fatta dagli altri, la lode, il biasimo, il premio ed il gastigo. Chi non vede che passo incalcolabile è questo! Quanti mezzi nuovi alla moralità! Qual forma novella di moralità, dacchè incomincia qui l' uomo a poter riflettere sul proprio operare, attribuirlo a se, e sentire, che, se è buono, gli aggiunge dignità, se è malo, lo degrada ed invilisce! Fra i vantaggi morali poi, che viene traendo l' uomo dalla coscienza di se stesso, si è quello della memoria delle cose passate e del calcolo delle future. La coscienza di se stesso importa la coscienza della propria identità ne' vari tempi; la cognizione della varietà de' tempi e dell' identità di se stesso sono relative, e vanno perciò innanzi di pari passo. [...OMISSIS...] Egli è ben degno di osservarsi nel fanciullo, per quali gradi perviene a conoscere, come diciamo, se stesso, la propria unità, la propria identità. Vi ha un tempo, nel quale egli conosce già quella degli altri, senza conoscere ancora l' identità di sè stesso; per la ragione che abbiamo detto, che l' attenzione sua prima se ne va al di fuori, e poi si ripiega sopra se stessa. In questo tempo egli deve portare un diverso giudizio degli altri e di sè: giudizio che parrebbe ingiusto; di quelli che dicevano fatti a due misure, e che pure non è tale. Egli giudica in questo caso diversamente degli altri e di sè, non per riprovevole parzialità, ma unicamente perchè diversamente conosce gli altri e sè stesso; negli altri ha già conosciuto la medesimezza in più tempi, quando di sè non l' ha ancor percepita: non ha percepito sè stesso in un tempo solo alla volta; e però in un tempo giudicò di sè come se fosse un personaggio diverso da quello che si giudicò in altro tempo. Udiamo ancora le altrui osservazioni: [...OMISSIS...] . Basta dunque un solo fatto, ed il fanciullo giudica degli altri, che sono boni o che sono cattivi: di sè non giudica nulla di stabile, ma soltanto al momento, che opera, giudica della sua azione. Questo dimostra manifestamente quel periodo di tempo, durevole alquanto nella vita infantile, nel quale il fanciullo è pervenuto a conoscere la medesimezza o identità degli altri in più tempi; onde di essi, come di soggetti unici, porta un solo definito giudizio; e tuttavia non ha ancora posto mente sulla medesimezza o identità di se stesso in più tempi, ma giudica solo le proprie azioni presenti, e fa però de' giudizi vari come varia la qualità delle azioni, senza indurre niuna sentenza universale e definitiva a dannazione, o a favore di sè medesimo. E dissi, che questo periodo di tempo è alquanto durevole nella vita infantile. - Tanto è vero che si manifesta anche nell' infanzia delle nazioni, e nel popolo minuto, che in gran parte non esce di fanciullezza. Onde avviene, che una nazione giudica così severamente dei difetti dell' altra, se non perchè la considera come un individuo, e da alcune azioni particolari trae la condanna di tutto il corpo? Onde l' entusiasmo popolare, sia contro le persone, oggetto del suo odio, nelle quali non vi è bene alcuno, sia a favore delle persone, oggetto del suo amore, nelle quali non vi è alcun difetto?

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