Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNICT

Risultati per: abbagliata

Numero di risultati: 7 in 1 pagine

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L'angelo in famiglia

182520
Albini Crosta Maddalena 1 occorrenze
  • 1883
  • P. Clerc, Librajo Editore
  • Milano
  • paraletteratura-galateo
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Per me non ho voglia alcuna di disputare nè di discutere coi filosofanti o cogli umanitarj, se la donna possa disporre o meno di tutti i mezzi di cui si trova padrone l'uomo; ma per l'amore alla sublime dignità del mio sesso, che è pure il tuo, per l'amore che porto a te, mia dolce e tenera amica, debbo pure dirti qualche parola, affinchè abbagliata da quella splendida e sonora espressione, emancipazione della donna, non ti lasci invischiare a gran danno ed a scorno della tua quiete, di quella della tua famiglia e dell'intera società. Lo stesso occuparmi ch'io faccio di te, e l'aver io fatto l'apologia di quella gran donna che è la Gaetana Agnesi, spero non mi ti farà credere nemica d'ogni studio, d'ogni progresso, ed amante solo della conocchia e del fuso. Se così tu la pensassi avresti gran torto, poichè io, pressochè sul finire del secolo decimonono, non mi trovo ancora avanti negli anni, ed essendo tuttora nella vigoria della mente e del cuore, non credo davvero di essere invasa dallo spirito retrivo solito ad attribuirsi a coloro i quali impugnano la troppo decantata emancipazione muliebre. Pur troppo, lo dico con confusione, io non mi sento così libera d'amor proprio da propugnare tali principj per solo spirito di umiltà; ma ancorchè l'umiltà mi permettesse di cercare un livello diverso da quello segnatomi dalla Provvidenza, io troverei compromessa la mia dignità nel mutare le condizioni nelle quali Iddio, la natura e la società hanno collocata e mantenuta la donna. Ma, buon Dio, perdono! Non voglio io no sostenere le mie convinzioni per assecondare soltanto il mio amor proprio, il quale sarebbe vulnerato allorchè queste dovessero cadere; ma solo per amor vostro, per amore delle anime che Voi mi destinate a consigliare, io debbo, io voglio parlare ed operare oggi e sempre. Sì, io voglio, io debbo aver sempre quella retta intenzione di piacere a Voi solo, sì quella retta intenzione di procurare la vostra gloria che ho jeri consigliato alle care mie giovinette, e con ciò porterò pace e conforto all' anima mia vacillante nel bene e nella virtù e, spero, qualche giovamento agli altri. Non meno delle dame americane, io credo che la tua e la mia intelligenza sia dotata di acutezza e di sufficiente profondità per assumere e disimpegnare convenientemente cariche ed impieghi più o meno importanti: anzi io spingo più in là il mio giudizio, e penso che se la capacità della donna è meno profonda, è però in generale più pronta ed intuitiva di quella del suo compagno, epperò la Provvidenza e più propriamente Iddio le ha assegnato un regno, mentre dell'uomo non ha fatto che un ministro, potente finchè vuoi, ma un ministro. Per disimpegnare le diverse cariche di giureconsulto, di matematico, di astronomo, di funzionario, e va dicendo, un uomo studia molti anni della sua vita a guadagnarsi colla scienza un grado che lo abiliti ad esercitarlo; e forte di questo ufficio ne forma la primaria occupazione della sua vita, impegnandovi tutta la sua capacità, tutta l'attività sua. Egli giova grandemente e realmente alla società cui serve e della quale è membro, se nel disimpegno del suo impiego, alto o basso che sia non importa, si applica con probità e con coscienza. Tu lo vedi; io non ti ho qui delineato un funzionario trascurato o negligente, poichè io amo credere un'eccezione chi non lo è, ed esorto te parimenti a credere buono chi non è palesemente e pubblicamente cattivo. Ma appetto di questo integro e probo magistrato, o scienziato, o industriale, o commerciante, io ti presento una donna nel suo regno. Vedi là quella donna debole, di delicata complessione, ma di animo forte e robusto, sedere regina, vera regina nel seno della sua famiglia. Essa non ha scettro nè corona, almeno in apparenza; ma non per questo il suo regno è meno vero, nè meno potente, nè i comandi che essa emana sono meno rispettati ed eseguiti. Se adunque l'uomo può esercitare le sue funzioni coll'apprendimento di una sola arte o scienza, la donna non può esercitare le sue senza il complesso di molte qualità, e quanto più essa si trova in condizione civile ed elevata, tanto più cresce in lei l'obbligo di estendere le sue cognizioni pratiche e teoriche, d'ordine morale, intellettuale e materiale. Sì, io sostengo essere la famiglia il regno della donna, e sostengo altresì che le famiglie sconnesse, o mal guidate, o pericolanti, o discordi, lo sono appunto perchè colei che ne dovrebbe tenere il governo non è conscia dell'altezza della propria missione, quindi non si cura o trascura, o non vuole o non sa assumerne il peso dolce ma gravissimo. Qual meraviglia se gli interessi anche materiali di quella famiglia ne sono pregiudicati, se gli animi sono esacerbati, se ognuno dei suoi componenti vuol fare a proprio capriccio, e se tutta quella casa non è altro se non una cospirazione per rovinare sè stessa moralmente e materialmente? Certamente se tu volessi il mio consenso alla tua determinazione di studiare medicina, matematica, legge o che so io, per poi diventare medichessa, matematica, legale o scienziata, io te lo negherei recisamente, perchè, oltre le ragioni addotte, aggiungerei che la tua complessione, e fors'anche la tua salute, naturalmente più delicate o meno robuste di quella dell'altro sesso, mal reggerebbero alla fatica dei lunghi studj, delle veglie e delle esperienze pesanti cui saresti obbligata. O tu dunque comprometteresti la tua sanità, ovvero la tua dignità, e probabilmente l'una e l'altra. Chi nol sa, che la donna è più dell'uomo soggetta a cento malori ed esigenze, ed ha bisogno di maggiori riguardi? Tu, poniamo, eserciti medicina. Si suona alla tua porta una notte, due, tre; il malato richiede una cura assidua e faticosa; molti altri malati richiedono ugualmente la tua assistenza, e tu non puoi arrivare a tutti curarli, senza sagrificare il tuo sonno, la tua quiete, il riposo dell'animo tuo... Via, tu m'intendi; l'uomo è libero da ogni pensiero della famiglia, ha membra più robuste delle tue, è soggetto a meno malori, è insomma destinato dalla Provvidenza ad essere medico, avvocato, ministro, e può essere medico, avvocato, ministro migliore per fermo, di quanto potrei essere io o potresti essere tu in sua vece. Tu devi essere una regina, e la colpa è unicamente tua se nol sei, se nol diventi. S'intende che regina non vuol dire donna felice, gaudente, senza pensieri; questo è il concetto che si formano gl'idioti e gl'inesperti di coloro i quali si trovano al potere; concetto che non potrebbe essere più erroneo. Regina vuol dire donna la quale ha assunto il delicato e faticoso incarico di assegnare gli ordini, di disimpegnare essa stessa quelli che non può commettere altrui, di governare il suo regno in modo che in esso ognuno si trovi libero nelle proprie attribuzioni, eppure soggetto e legato a lei in guisa che senza conoscerlo, e senza sentirne il peso, da essa debba dipendere in ogni sua mossa, affinchè non avvenga disordine alcuno. Io ignoro se tu sarai chiamata a divenir sposa e madre, e quindi regina a tua volta di uno o più membri, quanti saranno i componenti la tua famiglia; ma se anche tu dovessi rimanertene zitella destinata ad ubbidire, diverrai partecipe del regno della donna posta al governo della tua casa, e su te pure peserà una parte della sua responsabilità se non vorrai essere un membro inutile e passivo. Più tardi ci accadrà di ragionare dell' obbligo tuo di prender parte alle occupazioni domestiche, le quali non avviliscono la donna a qualunque condizione essa appartenga; ma ora per non affastellare troppa roba, mi contento di dimostrarti non essere a te conveniente uscire dalle mura del tuo pacifico regno, per inseguire quella larva che si chiama emancipazione della donna, e che io sarei invece tentata di tradurre così: ludibrio vero della donna. Ti ripeto; io non mi credo invasa dalle vecchie idee, tanto più che, giacchè t'ho mentovata l'Agnesi, so benissimo che essa quantunque del secolo passato, pure era scienziata, e grande scienziata, e come la Bassi ed altre donne illustri, insegnava all'università di Bologna, dove il Papato, che si dice retrivo ed oscurantista, le aveva collocate. Sì, fu il Pontefice Benedetto XIV che nominò l'Agnesi alla cattedra di matematica, non già la Repubblica nè la Rivoluzione. So altresì che in tutti i secoli vi furono donne le quali fiorirono nelle lettere e nelle scienze, e risalendo fino ai primordj del Cristianesimo, trovo frammischiate alle magnifiche epistole di San Girolamo, quelle di santa Paola, di santa Eustochio e d'altre dame: epistole che dimostrano in modo assoluto ed indiscutibile quanto elevata ed estesa fosse la loro intelligenza e la loro coltura. Tu vedi adunque che coloro i quali si dicono innovatori, perchè gridano ai quattro venti essere giunto il tempo di sciogliere la donna dai vincoli dell'ignoranza, calcolano positivamente sull'ignoranza dei loro ascoltatori, poichè non potrebbero nè dovrebbero tacere o disconoscere la storia, la quale dice e prova, che prima della loro venuta questi vincoli eran rotti, e la donna se voleva ne aveva l'opportunità e coltivava il suo ingegno più che essi nol dicano. Ad onta degli esempj addotti, io ti ripeto per la centesima volta essere la donna chiamata anzitutto al sublime magistero della famiglia, e che quelle che, come l'Agnesi ed altre poche, hanno dovuto assumere cariche più propriamente destinate all'uomo, provano la regola perchè ne sono l'eccezione, non altrimenti di alcuni uomini, i quali (chiamati da alcune circostanze personali e specialissime) si sono posti alla direzione ed al regime di una famiglia cui mancava la naturale sovrana, o rapita dalla morte, o rapita dai pregiudizj sociali che l'hanno resa nulla o dannosa a coloro ai quali doveva servire di guida e d'appoggio. E poichè t'ho proposto a modello la grande nostra Milanese del secolo scorso, non posso tacerti aver essa accettato solamente per obbedienza al Pontefice e con ripugnanza dell' animo suo la carica universitaria, dalla quale si tolse appena le fu possibile. Anzi, appena le fu dato, consacrò a Dio il suo cuore ed il suo corpo, ambì crearsi una famiglia, e se la creò negl'indigenti da lei stessa presi ad alimentare, a soccorrere; negl' infermi che curò dapprima nella sua medesima casa, indi nell'ospizio Trivulzio che diresse nei suoi ultimi dieci anni di vita, e dove morì serena e contenta colla imperitura giovinezza dei giusti ad ottantatre anni, compianta, invidiata ed ammirata da tutti. Inchiniamoci alla modestia ed all'altezza di quella donna, che parve voler rifiutare gli onori del genio, per aspirare soltanto a quelli della donna nascosta fra le domestiche mura. In cielo la sua corona dev'essere e sarà invero molto brillante! Tu pure, se hai ricevuto da Dio un ingegno elevato, un criterio fino e perspicace, se ti senti chiamata a coltivare gli studj, non è giusto ti condanni a maneggiare, come prima ti diceva, soltanto la conocchia ed il fuso; no, studia ed approfondisci pure le lettere e le scienze per quanto il comportano la tua condizione e le tue obbligazioni; se saprai economizzare il tuo tempo, potrai sempre trovarne quanto basti per coltivare la tua mente ed allargare le tue cognizioni. Ma per carità, non rinunciare mai e poi mai al tuo regno, poichè se il regno è un peso ed un dovere, è anche un onore ed un diritto, e tu devi guardarti bene dal distoglierti dalla casa per attaccarti alla sbarra od alla tribuna. Ahimè! cesseresti d'essere regina e vera regina, per diventare ministro, e forse non buono ministro. Per oggi basta, t'ho fino assordata colle mie parole; ma lasciami la lusinga che non permetterai mai alla tua mente ed al tuo cuore di cedere all'adescamento dell'emancipazione: no, sta ferma al tuo posto; siedi regina sul tuo trono; stringi lo scettro, e preparati a ricevere in Paradiso la corona preparata a chi degnamente avrà governato la propria casa. A chi ti biasima o ti compiange, rispondi coraggiosamente che hai ricevuto da Dio un sublime e preciso mandato, quello del regime della tua famiglia, e che in questo sta appunto il regno della donna.

Pagina 226

Eva Regina

203985
Jolanda (Marchesa Plattis Maiocchi) 2 occorrenze
  • 1912
  • Milano
  • Luigi Perrella
  • paraletteratura-galateo
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O abbagliata da quella luce, se insieme al corpo ha dato con trasporto tutta l'anima; o sgomenta se si è solamente concessa, nel gran letto nuziale ell'è un po' come una naufraga che le azzurre e lucenti onde d'un mare immenso trasportano in loro balia. Azzurro e luce, sì, ma l'accecano, la paralizzano, ma le fanno turbinare agli orecchi ritmi nuovi, parole nuove. Ieri le pare già molto lontano, e la sua vita antecedente, piccola, oscura e ristretta. Nel suo dolce stordimento, la giovine sposa intravede obblighi, occupazioni, assai più gravi e più importanti di quelli del passato, il suo gaio e innocente passato che saluta senza rimpianto, come al meriggio si saluta il trascorso mattino. « La vita laboriosa e severa — scrive ancora il De Gubernatis — per la donna incomincia soltanto l' indomani delle sue nozze; la compagna dell'uomo allora ha una prima nozione del dovere, una prima conoscenza del dolore, e col dolore una prima iniziazione al culto dell' ideale. »

Ma vi ritorna abbagliata, ma il sole s' insinua per ogni spiraglio e la perseguita, e le fa arrivare fino giù, nel nascondiglio, il suo raggio fecondo, l' inno della vita. Ella allora ribadisce le sue catene, si rivolge tutta al suo passato di dolore e di morte, vi si afferra come a una suprema àncora di salvezza, balbettando nuovi voti, nuove promesse. Ma non sono sincere. Nulla è più di sincero in lei se non quel grande continuo, prepotente impulso, più forte di tutto che la sospinge verso la liberazione e la vita.

Pagina 475

C'era una volta...

218865
Luigi Capuana 1 occorrenze
  • 1910
  • R. Bemporad e figli
  • Firenze
  • paraletteratura-ragazzi
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Aprì gli occhi, e rimase abbagliata.

Pagina 277

Mitchell, Margaret

220956
Via col vento 1 occorrenze
  • 1939
  • A. Mondadori
  • Milano
  • Paraletteratura - Romanzi
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Ballò tutta la sera come abbagliata e parlò meccanicamente e sorrise meravigliandosi della stupidaggine degli altri che la credevano una sposa felice e non vedevano che aveva il cuore spezzato. No, grazie a Dio, non lo vedevano! Quella sera, dopo che Mammy l'ebbe aiutata a svestirsi e se ne fu andata, e Carlo emerse timidamente dallo spogliatoio chiedendosi se doveva passare una seconda notte in poltrona, ella scoppiò in lagrime. Pianse finché Carlo si arrampicò sul letto accanto a lei e cercò di confortarla; pianse senza parole finché non ebbe piú lagrime, e rimase a singhiozzare tranquillamente col capo sulla sua spalla. Se non vi fosse stata la guerra, si sarebbe avuta una settimana di visite attraverso la Contea, con balli e conviti in onore delle due coppie di sposi, prima che esse partissero per Saratoga o White Sulphur per il viaggio di nozze. Se non vi fosse stata la guerra, Rossella avrebbe avuto da indossare abiti per il terzo, quarto e quinto giorno, ai ricevimenti dei Fontaine, dei Calvert e dei Tarleton in suo onore. Ma non vi furono né ricevimenti né viaggi di nozze. Una settimana dopo il matrimonio Carlo partí per raggiungere il colonnello Wade Hampton; e quindici giorni dopo anche Ashley e lo Squadrone si misero in moto, lasciando tutta la Contea deserta di giovani. In quelle due settimane Rossella non ebbe mai occasione di vedere Ashley da solo, né di scambiare una parola con lui. Nemmeno nel terribile momento della partenza, quando egli si fermò dinanzi a Tara mentre si recava a prendere il treno, ella poté dirgli una parola. Melania, in cuffia e scialle, tranquilla nella nuovamente acquisita dignità di donna, era al suo braccio; e tutto il personale di Tara, bianco e negro, uscí per salutare Ashley che andava in guerra. Melania disse: - Devi baciare Rossella, Ashley. Ora è mia sorella; - e Ashley si chinò e le sfiorò con le labbra fredde il volto rigido e impassibile. Rossella non ebbe alcuna gioia da questo bacio: non era soddisfatta perché era stata Melania a suggerirlo. Melly la soffocò in un abbraccio, dicendole: - Verrai ad Atlanta a fare una visita a me e alla zia Pittypatt, no? Cara, desideriamo tanto di averti con noi! Desideriamo conoscere meglio la sposa di Carlo. Trascorsero cinque settimane durante le quali vennero dalla Carolina del Sud lettere di Carlo, timide, estatiche, innamorate, piene del suo amore e dei suoi progetti per il futuro, dopo la guerra; del suo desiderio di essere un eroe per amor suo, e della sua adorazione per il suo comandante Wade Hampton. Nella settima settimana giunse un telegramma del colonnello stesso e poi una lettera, una bella e dignitosa lettera di condoglianza. Carlo era morto. Il colonnello avrebbe voluto telegrafare prima, ma Carlo credendo che la malattia fosse cosa da nulla, non aveva voluto preoccupare la famiglia. Il disgraziato ragazzo non era soltanto stato truffato nell'amore che credeva di aver conquistato, ma anche nelle sue alte speranze di onore e di gloria sul campo di battaglia. Era morto ignominiosamente dopo una breve polmonite, a seguito di una rosolia, senza essersi neanche avvicinato agli yankees. A suo tempo nacque il bambino di Carlo; e siccome si usava dare ai figlioli il nome del comandante del loro genitore, egli fu battezzato Wade Hampton Hamilton. Rossella aveva pianto di disperazione quando aveva saputo di essere incinta e aveva desiderato di morire. Ma portò la sua gravidanza con un minimo di disturbi, mise al mondo il bimbo con poche sofferenze e si ristabilí cosí rapidamente da far dire a Mammy che questa era una cosa volgare, perché una signora doveva soffrire di piú. Provò poco affetto per il bambino, pur cercando di nasconderlo. Non lo aveva desiderato e non era contenta della sua venuta; ed ora che lo aveva, le sembrava impossibile che fosse suo, parte di lei. Benché fisicamente si fosse rimessa molto presto, mentalmente era stordita e sofferente. Il suo spirito era depresso, malgrado gli sforzi di tutta la piantagione per sollevarla. Elena aveva la fronte aggrottata e preoccupata e Geraldo, bestemmiando piú del solito, le portava da Jonesboro inutili doni. Perfino il vecchio dottor Fontaine ammise di essere imbarazzato dopo che il suo tonico composto di zolfo e di erbe non le aveva giovato. Disse a Elena in via privata che era il dolore che rendeva Rossella cosí irritabile e a volta a volta indifferente. Ma Rossella, se avesse avuto voglia di parlare, avrebbe potuto dire che si trattava di un dolore assai diverso e piú complesso. Non disse che era la noia, lo sgomento di essere madre e soprattutto l'assenza di Ashley che le dava quell'espressione cosí addolorata. La sua noia era acuta e continua. La Contea era priva di ogni divertimento e di ogni manifestazione di vita sociale, da quando lo Squadrone era andato alla guerra. Tutti i giovanotti interessanti erano partiti: i quattro Tarleton, i due Calvert, i Fontaine, i Munroe e tutti quelli di Jonesboro, Fayetteville e Lovejoy che erano giovani e attraenti. Erano rimasti soltanto i vecchi, gli invalidi e le donne; queste passavano il loro tempo a far la maglia e a cucire, a coltivare con piú abbondanza cotone e grano e ad allevare maggior numero di maiali, pecore e mucche per l'esercito. Non si vedeva mai un vero uomo, eccetto quando una volta al mese veniva il commissario dello Squadrone, il maturo corteggiatore e di Súsele, Franco Kennedy, a rifornirsi di viveri. Gli uomini dei commissariati non erano molto eccitanti, e il timido corteggiamento di Franco la infastidiva fino a renderle difficile l'essere cortese nei suoi riguardi. Se almeno lui e Súsele si fossero decisi! Ma se anche il commissario dei viveri fosse stato piú interessante, ciò non avrebbe mutato la sua situazione. Ella era vedova, e il suo cuore era nella tomba; per lo meno tutti ne erano convinti e pensavano che ella dovesse agire in conformità. Ciò la irritava perché, per quanto cercasse, non riusciva a rammentare nulla di Carlo se non la sua espressione di vitello moribondo, quando ella gli aveva detto che lo avrebbe sposato. E anche questa immagine andava scomparendo. Ma era vedova e doveva sorvegliare il proprio contegno. I divertimenti delle ragazze non erano piú per lei. Doveva ormai essere grave e seria. Elena glie lo aveva fatto capire il giorno che aveva trovato il luogotenente di Franco che gironzolava con Rossella nel giardino e la faceva ridere di cuore. Profondamente colpita, Elena le aveva detto come era facile che si chiacchierasse sul conto di una vedova. La condotta di questa doveva essere assai piú circospetta di quella di una donna con marito. «E Dio solo sa» pensò Rossella mentre ascoltava ubbidiente la dolce voce di sua madre «che le donne sposate non si divertono affatto; dunque per le vedove tanto vale morire.» Una vedova doveva portare degli orribili vestiti neri senza neanche una guarnizione per ravvivarli, né fiori né nastri né pizzi e neanche gioielli: soltanto spille di onice o collane fatte coi capelli del defunto. E il velo di crespo nero che portava sulla cuffia, doveva arrivarle alle ginocchia e poteva essere accorciato solo dopo tre anni di vedovanza, per giungere all'altezza delle spalle. Le vedove non potevano chiacchierare vivamente né ridere forte. Anche quando sorridevano, il loro doveva essere un sorriso triste e tragico, e - questa era poi la cosa piú terribile - non potevano in nessun modo mostrare di provar piacere nella compagnia maschile. E se qualche uomo fosse cosí indelicato da mostrare dell'interessamento, ella doveva ghiacciarlo con un dignitoso riferimento al ricordo del proprio marito. «Oh, sí,» pensava Rossella tristemente. «Vi sono delle vedove che si rimaritano, ma quando sono vecchie e raggrinzite. E Dio solo sa come vi riescono, con tutti i vicini che si occupano sempre di loro! E di solito è con qualche vecchio vedovo desolato, il quale deve badare a una grande piantagione e a una dozzina di bambini.» Il matrimonio era già una brutta cosa; ma la vedovanza... Oh, allora la vita era finita per sempre! Come erano sciocchi quelli che le dicevano che il piccolo Wade Hampton doveva esserle di gran conforto ora che Carlo non c'era piú, e com'erano noiosi dicendole che ora aveva uno scopo nella vita! Tutti affermavano che doveva essere assai dolce per lei avere questo pegno postumo del suo amore; e naturalmente ella non li disingannava. Ma questo pensiero era il piú lontano di tutti dalla sua mente. S'interessava pochissimo a Wade e qualche volta stentava perfino a ricordarsi che era suo. La mattina, quando si svegliava, nei primi momenti di dormiveglia era ancora Rossella O'Hara; il sole brillava tra i rami della magnolia dinanzi alla sua finestra, i merli cantavano e il piacevole odore del lardo fritto saliva alle sue narici. Era di nuovo giovane e spensierata. Quindi udiva un vagito affamato, e vi era sempre in lei un attimo di sorpresa durante il quale pensava: «Ma come, c'è un bambino in casa!» E allora si ricordava che era suo. E Ashley! Oh, piú di tutto Ashley! Per la prima volta in vita sua ella detestò Tara, detestò la lunga strada rossa che conduceva dalla collina al fiume, detestò i campi purpurei coi verdi germogli del cotone. Ogni palmo di terreno, ogni albero ed ogni ruscello, ogni viale ed ogni sentiero le ricordavano lui. Egli apparteneva ad un'altra donna ed era andato alla guerra, ma il suo spirito vagava ancora sulle strade nel crepuscolo e le sorrideva coi suoi occhi grigi e sonnolenti nell'ombra del porticato. Ogni volta che lo strepito di zoccoli le giungeva dalla strada delle Dodici Querce, per un dolce attimo ella pensava: Ashley! Ora odiava le Dodici Querce, che una volta aveva amato. Le odiava, ma vi era trascinata, per poter udire John Wilkes e le ragazze parlare di lui; udir leggere le sue lettere dalla Virginia. Le facevano male ma voleva udirle. Le erano antipatiche Lydia cosí rigida e Gioia scioccherella e chiacchierona, e sapeva di essere ugualmente antipatica a loro. Ma non poteva rimanerne lontana. Ed ogni volta che tornava a casa dalle Dodici Querce, si metteva a letto di malumore e rifiutava di alzarsi per andare a cena. Questo rifiuto di mangiare era quello che maggiormente preoccupava Elena e Mammy. Mammy le portava dei vassoi pieni di cibi allettanti, insinuando che adesso che era vedova poteva mangiare quanto voleva; ma Rossella non aveva appetito. Quando il dottor Fontaine disse gravemente a Elena che il dolore spesso può minare un temperamento florido e condurlo alla tomba, la signora O'Hara impallidí, perché questo era il timore che ella nascondeva nel profondo del cuore. - E non si può far nulla, dottore? - Un cambiamento d'aria sarebbe la miglior cosa per lei - rispose il dottore, ansioso di liberarsi di un'ammalata cosí restia. E cosí Rossella, senza entusiasmo, partí col suo bambino, prima per recarsi a visitare i suoi parenti O'Hara e Robillard a Savannah e poi per andare presso le sorelle di Elena a Charleston. A Savannah furono gentili con lei, ma Giacomo e Andrea e le loro mogli erano vecchi e amavano sedere tranquillamente a parlare di un passato che non aveva alcun interesse per Rossella. Lo stesso fu coi Robillard; e Charleston fu addirittura terribile. Zia Paolina e suo marito, un piccolo vecchio pieno di una cortesia formale e volubile e con l'aria assente di una persona che vivesse in un altro secolo, abitavano in una piantagione sul fiume, molto piú isolata di Tara. I loro vicini piú prossimi abitavano a una distanza di venti miglia che bisognava percorrere attraverso foreste vergini, paludi, boschi di cipressi e di querce. Le querce, con i loro drappeggi di musco grigio, davano sempre i brividi a Rossella, e le ricordavano le storie di Geraldo di spiriti irlandesi erranti fra le nebbie color di cenere. Non vi era nulla da fare tutto il giorno se non lavorare a maglia; e la sera ascoltare lo zio Carey che leggeva ad alta voce le opere istruttive di Bulwer Lytton. Eulalia, nascosta in un giardino dalle alte mura in una grande casa presso la Batteria di Charleston, non era piú divertente. Rossella, abituata all'ampio paesaggio di colline rossastre, ebbe l'impressione di essere in prigione. Vi era qui piú vita sociale che presso zia Paolina; ma Rossella non provava alcuna simpatia per i visitatori, con le loro tradizioni, le loro arie, le loro enfasi a proposito della famiglia. Sapeva che tutti la ritenevano il prodotto di una «mésalliance» e che erano ancora stupefatti che una Robillard avesse sposato un volgare irlandese. Rossella sentiva che la zia Eulalia la scusava dietro le spalle; cosa che la irritava perché, come suo padre, ella non teneva affatto all'aristocrazia della famiglia. Ed era fiera di ciò che Geraldo era riuscito a fare senz'altro aiuto se non il suo astuto cervello d'irlandese. E anche quelli di Charleston se la prendevano tanto per il Forte Sumter! Dio mio, ma non capivano che se non fossero stati loro a commettere la sciocchezza di sparare le prime fucilate che avevano portato alla guerra, vi sarebbero stati altri pazzi che lo avrebbero fatto? Abituata alle voci acute della Georgia dell'altipiano, le voci gravi e strascicate della pianura le davano noia. In certi momenti aveva voglia di urlare. Durante una visita di cerimonia giunse a un tal punto di esasperazione che ricorse al dialetto di Geraldo, con gran scandalo di sua zia. Allora decise di ritornare a Tara. Meglio essere tormentata dal ricordo di Ashley che dall'accento di Charleston. Elena, occupata giorno e notte a raddoppiare il prodotto della piantagione per aiutare la Confederazione, fu terrorizzata quando si vide tornare a casa la figlia maggiore, magra, pallida e inasprita. Aveva avuto ella pure il cuore spezzato; quindi, coricata accanto a Geraldo che russava, passava la notte a cercare che cosa potrebbe fare per alleviare il dolore di Rossella. La zia di Carlo, Pittypatt Hamilton, aveva scritto parecchie volte chiedendole di permettere a Rossella di recarsi ad Atlanta per un lungo soggiorno; ed ora, per la prima volta, Elena considerò con serietà la proposta. «Sono sola con Melania nella vasta casa - scriveva Miss Pittypatt - senza protezione maschile ora che il caro Carlo è morto. È vero che c'è mio fratello Enrico, ma non abita con noi. Forse Rossella vi ha parlato di Enrico. La delicatezza mi vieta di scrivere lungamente sul suo conto. Melly ed io ci sentiremo piú tranquille e sicure con Rossella in casa. Tre donne sole stanno meglio di due. E forse Rossella troverà un po' di sollievo al suo dolore, curando - come fa Melly - i nostri bravi soldati negli ospedali di qui... E poi, Melly ed io desideriamo tanto di vedere il caro piccino...» Cosí il baule di Rossella fu chiuso di nuovo con dentro i suoi abiti da lutto, ed ella partí per Atlanta con Wade Hampton, la sua bambinaia Prissy, una quantità di avvertimenti sul suo contegno da parte di Elena e di Mammy e cento dollari in biglietti della Confederazione datile da Geraldo. Non desiderava particolarmente di andare ad Atlanta. Riteneva zia Pittypat la piú noiosa vecchia che dar si potesse; e l'idea di vivere sotto lo stesso tetto con la moglie di Ashley le ripugnava. Ma la Contea, con tutti i suoi ricordi, era un soggiorno impossibile; e qualsiasi mutamento era il benvenuto.

Pagina 145

Passa l'amore. Novelle

241833
Luigi Capuana 1 occorrenze
  • 1908
  • Fratelli Treves editori
  • Milano
  • verismo
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Anche lei era abbagliata dalla divisa e dai luccicanti bottoni di rame e dalla daga e dal kepì che Zitu portava con aria spavalda. E stava ad osservare sottecchi, fingendo di non essersi accorta di niente. Tanto più che don Franco, a cui Zitu continuava di tratto in tratto a regalare buoni bicchieri di vino, ora dal Patacca e ora dallo Scatà, si espandeva in grandi elogi di quel bravo figliuolo, fior di galantuomo, che rispettava tutti e si faceva rispettare da tutti! Per ciò Benigna e donna Sara cascarono dalle nuvole la sera che don Franco, tornato a casa tutto accigliato, prima di cavarsi il cappello e di posare la mazza nel solito angolo, esclamò quasi con un grugnito: - Qui non ci deve più venire nessuno! Quel nessuno, si capiva, era Zitu. - Perchè? Che cosa significa? - osò di domandare donna Sara. - Significa che voi siete una stupida e costei una civetta! Significa che io non voglio gente tra' piedi, in casa mia. Non sono padrone, forse? E sbatacchiò all'angolo la mazza, che cadde per terra.

Pagina 315

Il drago. Novelle, raccontini ed altri scritti per fanciulli

246726
Luigi Capuana 1 occorrenze
  • 1895
  • Enrico Voghera editore
  • Roma
  • Verismo
  • UNICT
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La bambina, abbagliata, aveva accostato subito la faccia alla faccia del babbo; poi, per significargli la gioia che le inondava il cuore, gli aveva dato un bacio, esclamando: — Oh, babbino ! E s'era messa a battere le mani e a tempestarlo di domande: — Dove vanno, babbo, le stelle quando c'è il sole ? Il babbo sorrise : — Vanno a dormire. — E dove vanno quelle colombe ? — A cercare il cibo pei loro figlioletti. — Chi ha fatto tutte queste cose ? — Le ha create Dio. — E Dio, chi lo ha fatto ? — Nessuno. — Si è fatto da sè ? — Lo saprai quando sarai grande. — Perchè la nonna, guardando i seminati, ha detto ieri : Se il Signore li benedice ? — Perchè Dio deve benedire tutte le cose, se vuole che vengano bene. — E se non le benedice? — Vanno a male. — E non potresti benedirle tu? E non potrei benedirle io ? — Tu si, perchè sei piccina. — Fammele benedire dunque; farò venir bene ogni cosa. Allora il babbo la sollevò in alto, come un ostensorio, quasi convinto in quell' istante che l' atto della bambina dovesse essere davvero, su tutte le cose attorno, un influsso benefico eguale alla stessa benedizione di Dio. E la bambina, che aveva sollevato la manina per benedire, disse seria seria : — Vedrai, babbo, come verranno bene ! Il babbo se la strinse al petto; e dalla commozione aveva gli occhi pieni di lagrime.