Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbaglianti

Numero di risultati: 16 in 1 pagine

  • Pagina 1 di 1

La tecnica della pittura

254039
Previati, Gaetano 1 occorrenze
  • 1905
  • Fratelli Bocca
  • Torino
  • trattato di pittura
  • UNIFI
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Le alterazioni particolari ai colori ricadono sotto quelle leggi generali dell’azione della luce e delle influenze atmosferiche, sulle quali non è più d’uopo insistere per persuadere quanto importi il loro modo di scielta e preparazione, e tanto più nei pastelli che la pretesa di averli quanto mai abbaglianti stimola i fabbricatori a sofisticarne la qualità. E considerata infine la delicata aderenza di questi colori al loro piano di sostegno parrebbe superfluo avvertire della necessità di riparare questi dipinti da ogni urto violento, se non accadesse sempre di vedere adoperato il martello sia nel rinserrarli nelle cornici che negli imballaggi per spedirli e nelle operazioni per la loro sospensione alle pareti. Nè quivi si possono dire ancora sicuri, restandovi permanente la minaccia del vetro di riparo, tanto facile a rompersi e portare un irreparabile guasto a questo delicatissimo ed attraente modo di pittura che avrebbe soppiantato forse tutti gli altri processi se fosse stato possibile renderlo fisso in modo pratico e durevole.

Pagina 135

Personaggi e vicende dell'arte moderna

260964
Venturoli, Marcello 1 occorrenze
  • 1965
  • Nistri-Lischi
  • Pisa
  • critica d'arte
  • UNIFI
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La atmosfera del cinema, nel momento in cui le lampade, da abbaglianti, scemano di intensità (e così rimangono per un lungo istante) è emblematica: di una sorta di irrealtà cui gli uomini si sono assuefatti, ma non persuasi, di una stupefazione che rasenta quasi l’angoscia. E il viso della signora in primo piano è la chiave del quadro: un velo d’aria fumosa balena dinnanzi a quell’incamato cotto, ma non cancella il bagliore vitreo della pupilla: questa di Sugh: è gente che non si arrende, resa vigile dalla propria infelicità.

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GIACINTA

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

Cosí le si accresceva la smania di rivedere i luoghi dov'era trascorsa la sua fanciullezza, cari luoghi che dopo cinque anni di lontananza già prendevano nella sua immaginazione proporzioni grandiose, splendori abbaglianti. Che altro le avrebbero rammentato quel ripostiglio, quegli alberi, quei viali, quel chiosco del giardino di cui le pareva di poter contare ancora sulle piante rampichine, i viticci spenzolanti e le foglie ad una ad una? Ma l'assaliva lo sgomento: - Ah! ... La sua mamma non le voleva bene! Pensando a questo, subito le si gonfiavano gli occhi di lagrime. - Perché non le voleva bene? Perché? E dal dispetto, sentiva seccarsi il pianto. - Sarebbe arrivata a odiar la mamma? E tremava.

CENERE

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Deledda, Grazia 1 occorrenze

Olì vagava qua e là, con gli occhi velati di passione; nei lunghi crepuscoli luminosi e nei meriggi abbaglianti, quando le montagne lontane si confondevano col cielo, ella seguiva con uno sguardo triste i fratellini seminudi, neri come idoletti di bronzo, e mentre essi animavano il paesaggio con le loro grida di uccelli selvatici, ella pensava al giorno in cui avrebbe dovuto abbandonarli per partire con Anania. Ella aveva veduto l'anello ritrovato dal giovine, e sperava e aspettava, col sangue arso dai veleni della primavera. «Olì!», chiamò la voce di Anania, dietro una macchia. Olì tremò, avanzò cauta, cadde fra le braccia del giovine. Sedettero sull'erba ancora tiepida, accanto ad un fascio di puleggi e d'alloro selvatico che esalava un forte profumo. «Quasi quasi non venivo», disse il giovine. «La padrona deve sgravarsi stanotte, e mia moglie, che sta ad assisterla, voleva che io restassi in casa. "No", le dissi, "stanotte devo cogliere il puleggio e l'alloro; non sai che è San Giovanni?" E son venuto. Ecco.» Si frugava in seno, mentre Olì toccava l'alloro chiedendo a che serviva. «Non lo sai, dunque? L'alloro colto stanotte serve per medicina e per tante altre cose: se, per esempio, tu spargi le foglie di quest'alloro qua e là sui muri intorno ad una vigna o ad un ovile, gli animali rapaci non potranno penetrarvi, né rosicchiar l'uva, né rapire gli agnelli.» «Ma tu non sei pastore.» «Io però guarderò la vigna del padrone: poi queste foglie le metterò anche intorno all'aia, perché le formiche non rubino il grano. Verrai tu, quando io batterò il grano? Ci sarà molta gente; faremo festa e alla notte canteremo.» «Oh, mio padre non vorrà!», ella disse sospirando. «Ma è curioso quell'uomo! Si vede che non conosce mia moglie: ella è decrepita come le pietre», disse Anania, sempre frugandosi in seno. «Ma dove l'ho messa?» «Che cosa? Tua moglie?», chiese maliziosamente Olì. «Ebbene, una croce! Ho trovato anche una croce d'argento.» «Anche una croce d'argento? Dove era l'anello? E tu non me lo dicevi?» «Ah, eccola. Sì, è d'argento vero.» Egli trasse di sotto l'ascella un involtino: Olì lo svolse, palpò la crocetta e domandò ansiosa: «Ma è dunque vero? Il tesoro c'è?». E pareva così felice che Anania, sebbene avesse trovato la crocetta in campagna, credette bene di lasciarla nella sua illusione. «Si, là, nell'orto. Chissà quanti oggetti preziosi ci saranno! Ma bisognerà che io frughi di notte.» «Ma il tesoro è del padrone.» «No, è di chi lo trova!», rispose Anania; e quasi per avvalorare questo suo principio egli cinse Olì con un braccio e cominciò a baciarla. «Se io troverò il tesoro tu verrai?», le chiese tremando. «Verrai, dimmi, fiore? Bisogna che io lo trovi subito perché non posso più vivere lontano da te. Ah, vedi, quando vedo mia moglie sento voglia di morire, mentre vorrei vivere mille anni con te. Fiore mio!» Olì ascoltava e tremava. Intorno era profondo silenzio; le stelle brillavano sempre più perlate, come occhi sorridenti d'amore, e sempre più dolci erravano nell'aria i profumi delle erbe aromatiche. «Mia moglie morrà presto, Olì, cuoricino mio! Sì, che fanno i vecchi sulla terra? Chissà? Fra un anno, forse, noi saremo sposi.» «San Giovanni lo voglia!», sospirò Olì. «Ma non bisogna desiderare la morte di nessuno. Ed ora lasciami andare.» «Rimani ancora un po'», egli supplicò con voce infantile, «perché vuoi andartene così presto? Che farò io senza di te?» Ma ella si alzò tutta vibrante. «Forse ci rivedremo domani mattina, perché coglierò le erbe prima che sorga il sole: ti farò un amuleto contro le tentazioni ... » Ma egli non aveva paura delle tentazioni: s'inginocchiò, cinse Olì con ambe le braccia e si mise a gemere. «No, non andartene, non andartene, fiore; rimani ancora un poco, Olì, agnellino mio; tu sei la mia vita; ecco, io bacio la terra dove tu posi i piedi, ma rimani ancora un poco; altrimenti io muoio.» Egli gemeva e tremava, e la sua voce commoveva Olì fino alle lagrime. Ella rimase. Solo in autunno zio Micheli si accorse che sua figlia aveva peccato. Una collera feroce invase allora l'uomo stanco e sofferente che aveva conosciuto tutti i dolori della vita, fuorché il disonore. A questo si ribellò. Prese Olì per un braccio e la cacciò via di casa. Ella pianse, ma zio Micheli fu inesorabile. Egli l'aveva avvertita mille volte; e forse avrebbe perdonato se ella avesse peccato con un uomo libero; ma così no, non poteva perdonare. Per qualche giorno Olì visse nella casa in rovina intorno alla quale Anania aveva seminato il grano; i fratellini le portavano qualche tozzo di pane, ma zio Micheli se ne accorse e li bastonò. Allora Olì, per non morire di fame e di freddo, giacché l'autunno copriva di grandi nubi livide il cielo, e il vento umido soffiava attraverso le macchie arrossate dal gelo, s'avviò verso Nuoro per chiedere aiuto all'amante. Fosse caso od avvertenza, a metà strada incontrò Anania che la confortò, la coprì col suo gabbano e la condusse a Fonni, paese di montagna, al di là di Mamojada. «Non aver paura», disse il giovine, «ora ti conduco da una mia parente, presso la quale starai benissimo; sta tranquilla, ché io non ti abbandonerò mai.» La condusse in casa di una vedova che aveva un figliolino di quattro anni. Nel vedere questo bambino, nero, lacero, tutto orecchie ed occhi, Olì pensò ai fratellini e pianse. Ah, chi si sarebbe più curato dei poveri orfanelli? Chi avrebbe dato loro da mangiare e da bere; chi preparerebbe il pane nella cantoniera, chi laverebbe più i panni nel fiume azzurro? E che avverrebbe mai di zio Micheli, il povero vedovo febbricitante ed infelice? Basta, Olì pianse un giorno ed una notte; poi si guardò attorno con occhi foschi. Anania era partito; la vedova fonnese, pallida e scarna, con un viso di spettro, circondato da una benda giallastra, filava seduta davanti ad un fuocherello di fuscelli: tutto intorno era miseria, stracci, fuliggine. Dal tetto di scheggie annerite dal fumo pendevano, tremolanti, grandi tele di ragno; pochi arnesi di legno formavano le masserizie della misera casa. Il bimbo dalle grandi orecchie, vestito già in costume, con un berrettone di pelle lanosa, non parlava né rideva mai: soltanto si divertiva ad arrostire castagne fra la cenere ardente. «Abbi pazienza, figlia», disse la vedova alla fanciulla, senza sollevare gli occhi dal fuso. «Sono cose del mondo. Oh, ne vedrai delle peggiori, se vivrai. Siamo nati per soffrire: anch'io da ragazza ho riso, poi ho pianto; ora tutto è finito.» Olì si senti gelare il cuore. Oh, che tristezza, che tristezza immensa! Fuori cadeva la notte, faceva freddo, il vento rombava con un fragore di mare agitato. Al chiarore giallognolo del fuoco la vedova filava e ricordava; ed anche Olì, accoccolata per terra, ricordava la notte calda e voluttuosa di San Giovanni, il profumo dell'alloro, la luce delle stelle sorridenti. Le castagne del piccolo Zuanne scoppiavano fra la cenere che si spargeva sul focolare. Il vento batteva furiosamente alla porta come un mostro scorrazzante nella notte cupa. «Anch'io», disse la vedova, dopo un lungo silenzio, «anch'io ero di buona famiglia. Il padre di questo moscherino si chiamava Zuanne; perché, vedi, sorella cara, ai figli bisogna sempre mettere il nome del padre affinché gli somiglino. Ah, sì, era molto abile mio marito. Alto come un pioppo, vedi là, il suo gabbano è ancora appeso al muro.» Olì si volse e sulla parete color terra vide infatti un lungo gabbano d'orbace nero, fra le cui pieghe i ragni avevano tessuto i loro veli polverosi. «Non lo toccherò mai», riprese la vedova, «anche se dovrò morire di freddo. I miei figli lo indosseranno quando saranno abili come il padre loro.» «Ma cosa era il padre?», chiese Olì. «Ebbene», disse la vedova, senza cambiar tono di voce, ma col viso spettrale lievemente animato, «egli era un bandito. Dieci anni stette bandito, sì, dieci anni. Egli dovette darsi alla campagna pochi mesi dopo le nostre nozze: io andavo a trovarlo sui monti del Gennargentu, egli cacciava mufloni, aquile, avoltoi, ed ogni volta ch'io andavo a trovarlo, egli faceva arrostire una coscia di muflone. Dormivamo all'aperto, sotto il vento, sulle cime dei monti; ma ci coprivamo con quel gabbano là e le mani di mio marito ardevano sempre, anche quando nevicava. Spesso si stava in compagnia ... » «Con chi?», domandò Olì, che ascoltando la vedova dimenticava le sue pene. Anche il bimbo ascoltava, con le grandi orecchie intente: sembrava una lepre quando sente il grido della volpe lontana. «Ebbene, con altri banditi. Erano tutti uomini abili, svelti, pronti a tutto e specialmente alla morte. Tu credi che i banditi siano gente cattiva? Tu ti inganni, sorella cara: essi sono uomini che hanno bisogno di spiegare la loro abilità; null'altro. Mio marito soleva dire: "Anticamente gli uomini andavano alla guerra: ora non si fanno più guerre, ma gli uomini hanno ancora bisogno di combattere, e commettono le grassazioni, le rapine, le bardanas non per fare del male, ma per spiegare in qualche modo la loro forza e la loro abilità!".» «Bella abilità, zia Grathia! E perché non si battono la testa al muro, se non hanno altro da fare?» «Tu non capisci, figlia», disse la vedova, triste e fiera. «È il destino che vuole così. Ora ti racconterò perché mio marito si fece bandito.» Ella disse si fece con una certa fierezza, non priva di vanità. «Sì, raccontate», rispose Olì, con un lieve brivido per le spalle. L'ombra addensavasi, il vento urlava sempre più forte, con un continuo rombo di tuono: pareva di essere in una foresta sconvolta dall'uragano, e le parole e la figura cadaverica della vedova, in quell'ambiente nero, illuminato solo a sprazzi dalla fiamma lividognola del misero fuoco, davano ad Olì una infantile voluttà di terrore, e pareva di assistere ad una di quelle paurose fiabe che Anania aveva narrato ai suoi fratellini: ed ella, ella stessa, con la sua miseria infinita faceva parte della triste storiella. La vedova raccontò: «Eravamo sposi da pochi mesi; eravamo benestanti, sorella cara: avevamo frumento, patate, castagne, uva secca, terre, case, cavallo e cane. Mio marito era proprietario; spesso non aveva che fare e s'annoiava. Allora diceva: "Voglio diventar negoziante; così ozioso non posso vivere, perché sono sano, forte, abile, e mentre sto in ozio mi vengono le cattive idee". Però non avevamo capitali abbastanza perché egli potesse fare il negoziante. Allora un suo amico gli disse: "Zuanne Atonzu, vuoi prender parte ad una bardana? Si andrà in gran numero, guidati da banditi abilissimi, e si assalterà, in un paese lontano, la casa di un cavaliere che ha tre casse piene d'argenteria e di monete. Un uomo di quel paese è venuto apposta nel Capo di Sopra per raccontare la cosa ai banditi, invitandoli a fare una bardana; egli stesso ci indicherà la via. Ci son foreste da attraversare, montagne da salire, fiumi da guadare. Vieni". Mio marito mi svela l'invito del suo amico. "Ebbene", dico io, "che bisogno hai tu dell'argenteria di quel cavaliere?" "No", risponde mio marito, "io sputo sulla forchetta che può spettarmi dopo il bottino, ma ci son foreste e montagne da attraversare, cose nuove da vedere, ed io mi divertirò. Sono poi curioso di vedere come i banditi se la caveranno. Non accadrà niente di male, via; tanti altri giovani verranno, come me, per dar prova di abilità e per passare il tempo. Ebbene, non è peggio se vado alla bettola e mi ubriaco?" Io piansi, scongiurai», continuò la vedova, sempre torcendo il filo con le dita scarne, e seguendo con gli occhi cupi il movimento del fuso, «ma egli partì. Disse di recarsi a Cagliari per affari ... Egli partì,» ripeté la donna, con un sospiro, «ed io rimasi sola: ero incinta. Dopo seppi come andarono i fatti. La compagnia era composta di circa sessanta uomini: viaggiavano a piccoli gruppi, ma di tanto in tanto si riunivano in certi punti stabiliti, per deliberare sul da farsi. Serviva da guida l'uomo del paese verso cui erano diretti. Capitano della bardana era il bandito Corteddu, un uomo dagli occhi di fuoco e col petto coperto di pelo rosso; un gigante Golia, forte come il lampo. Nei primi giorni del viaggio piovette, si scatenarono uragani, i torrenti strariparono, il fulmine colpì uno della compagnia. Di notte procedevano al fulgore dei lampi. Allora, arrivati in una foresta vicina al Monte dei Sette Fratelli, il capitano riunì i capi della bardana e disse: "Fratelli miei, i segni del cielo non sono per noi propizi. L'impresa riuscirà male; inoltre sento l'odore del tradimento; credo che la guida sia una spia. Facciamo una cosa: sciogliamo la compagnia; vuol dire che l'impresa si farà un'altra volta". Molti approvarono la proposta, ma Pilatu Barras, il bandito d'Orani, che aveva il naso d'argento perché il vero glielo aveva portato via una palla, sorse e disse: "Fratelli in Dio", egli usava sempre dire così, "fratelli in Dio, io respingo la proposta. No. Se piove non vuol dire che il cielo non ci protegga: anzi un po' di disagio fa bene, abitua i giovani a vincere la mollezza. Se la guida ci tradisce la ammazzeremo. Avanti, puledri!". Corteddu scosse la testa di leone, mentre un altro bandito mormorava con disprezzo: "Si vede che colui non può fiutare!". Allora Pilatu Barras gridò: "Fratelli in Dio, sono i cani che fiutano, non i cristiani! Il mio naso è d'argento e il vostro è di osso di morto. Ebbene, ecco che cosa io vi dico: se noi sciogliamo ora la compagnia sarà un brutto esempio di viltà; pensate che fra noi ci sono dei giovani alle prime armi; essi non chiedono che di spiegare la loro abilità come si spiega una bandiera nuova; se ora invece voi li mandate via, date loro esempio di vigliaccheria, ed essi ritorneranno fra la cenere dei loro focolari, resteranno oziosi e non saranno più buoni a niente. Avanti, puledri!". Allora altri capi diedero ragione a Pilatu Barras e la compagnia andò avanti. Corteddu aveva ragione, la guida li tradiva. Entro la casa del ricco cavaliere stavano nascosti i soldati: si combatté e molti banditi rimasero feriti, altri vennero riconosciuti, uno fu ucciso. Perché non lo riconoscessero, i compagni lo denudarono, gli tagliarono la testa, la portarono via con le vesti e la seppellirono nella foresta. Mio marito fu riconosciuto e perciò dovette farsi bandito ... Io abortii». Mentre parlava la donna aveva cessato di filare e aveva steso le mani al fuoco. Olì rabbrividiva di freddo, di terrore e di piacere: come il racconto della vedova era orribile e bello! Ah! Ed essa, Olì, aveva sempre creduto che i banditi fossero gente malvagia! No, erano poveri disgraziati, spinti al male dalla fatalità, come era stata spinta lei. «Ora ceniamo», disse la donna, scuotendosi. Si alzò, accese una primitiva candela di ferro nero, e preparò la cena: patate e sempre patate: da due giorni Olì non mangiava altro che patate e qualche castagna. «Anania è vostro parente?», chiese la fanciulla dopo un lungo silenzio, mentre cenavano. «Sì, mio marito era parente di Anania, ma in ultimo grado, poiché anche lui non era fonnese natìo. I suoi avi erano di Orgosolo. Però Anania non rassomiglia punto al beato», rispose la donna scuotendo il capo con disprezzo. «Ah, sorella cara, mio marito si sarebbe appiccato ad una quercia prima di commettere l'azione vile di Anania.» Olì si mise a piangere; fece chinare la testa del piccolo Zuanne sulle sue ginocchia, gli strinse una manina sporca e dura, e pensò ai suoi fratellini abbandonati. «Essi saranno come gli uccellini nudi entro il nido, quando la madre, ferita dal cacciatore, non torna da loro. Chi darà loro da mangiare? Chi farà loro da madre? Pensate che l'ultimo, il più piccolo, non si sa ancora vestire né spogliare.» «Dormirà vestito, allora!», rispose la vedova per confortarla. «Perché piangi, idiota? Dovevi pensarci prima: ora è inutile. Abbi pazienza. Iddio Signore non abbandona gli uccelli del nido.» «Che vento! Che vento!», si lamentò poi Olì. «Credete voi ai morti?» «Io?», disse la vedova, spegnendo la candela e riprendendo il fuso. «Io non credo né ai morti né ai vivi ... » Zuanne sollevò il capo, disse piano piano: «Io cì!» e nascose ancora il viso in grembo ad Olì. La vedova riprese i suoi racconti: «Io poi ebbi un altro figlio, che ora ha otto anni ed è già servetto in un ovile. Poi ebbi questo. Ah, siamo ben poveri adesso, sorella cara; mio marito non era un ladrone, no; viveva del suo e perciò dovemmo vendere tutto, tranne questa casa». «Come morì?», domandò la fanciulla, accarezzando la testa del bimbo che pareva addormentato. «Come morì? In un'impresa. Egli non stette mai in carcere», osservò con fierezza la vedova, «sebbene la giustizia lo ricercasse, come il cacciatore ricerca il cinghiale. Egli però sfuggiva abilmente ad ogni agguato, e mentre la giustizia lo cercava sui monti, egli passava la notte qui, sì, proprio qui, davanti a questo focolare, dove stai seduta tu ... » Il bimbo sollevò la testa, con le grandi orecchie improvvisamente accese, poi la riabbassò sul grembo di Olì. «Sì, proprio lì. Una volta, due anni or sono, seppe che una pattuglia doveva percorrere la montagna ricercandolo. Allora mi mandò a dire: "Mentre i dragoni mi ricercheranno, io prenderò parte ad una impresa; al ritorno passerò la notte in casa; mogliettina mia, aspettami". Io aspettai, aspettai, tre, quattro notti: filai un rotolo di lana nera.» «Dove era andato?» «Non te lo dissi? Ad una impresa, ad una bardana, ecco!» esclamò la vedova con una certa impazienza: poi riabbassò la voce: «Io aspettai quattro notti, ma ero triste: ogni passo che udivo mi faceva battere il cuore; e le notti passavano, il mio cuore si stringeva, si faceva piccolo come il seme d'una mandorla. Alla quarta notte udii battere alla porta e aprii. "Donna, non aspettare più", mi disse un uomo mascherato. E mi diede il gabbano di mio marito. Ah!». La vedova diede un sospiro che parve un grido, poi tacque; e Olì la fissò a lungo, ma ad un tratto il suo sguardo seguì lo sguardo atterrito di Zuanne. Le manine del bimbo, dure e brune come zampe d'uccello, si agitavano e additavano la parete. «Che hai? Che cosa vedi?» «Un motto ... », egli sussurrò. «Ma che morto! ... », ella disse ridendo, improvvisamente allegra. Ma quando fu a letto, sola, in una specie di soffitta grigia e fredda, sul cui tetto il vento urlava ancora più tonante, smuovendo e sbattendo le assi, ella ripensò ai racconti della vedova, all'uomo mascherato che le aveva detto: «donna, non aspettare più!», al lungo gabbano nero, al bimbo che vedeva i morti, agli uccellini nudi del nido abbandonato, ai suoi poveri fratellini, ai tesori di Anania, alla notte di San Giovanni, a sua madre morta; ed ebbe paura e si sentì triste, così triste che, sebbene si ritenesse dannata all'inferno, desiderò di morire.

Teresa

678478
Neera 1 occorrenze
  • 1897
  • CASA EDITRICE GALLI
  • prosa letteraria
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Non aveva piú coscienza di se stessa, girava, girava, acciecata dalle quattro candele che le sembravano girandole abbaglianti, sentendo nel fianco il cartoccio di confetti che Cecchino aveva in tasca, non osando dirgli di tenerla meno serrata. - È stanca? Moriva; ma non ebbe il coraggio di confessarlo, inebbriata dal moto, dalla musica saltellante, dal calore di quel corpo stretto al suo, e dall'odore di gelsomini, acutissimo, che emanavano i capelli del suo ballerino. - Lei balla da angelo. Per fortuna l'organetto cessò di suonare; Teresina cadde sulla prima sedia, rossa in viso come una brace. La seconda, la terza volta che ballò con Cecchino, non aveva piú tanta suggezione; ma il turbamento cresceva. In fine della serata era giunta al punto da non potergli parlare senza che le tremasse la voce; e quand'egli disse, strisciando le parole, facendo gli occhi espressivi: - Come mi dispiace che passino queste ore! Ella, rapita, fuori di sé, chiese: - Perché? Cecchino non aspettava altro. - Per dovermi separare da una persona tanto simpatica. La sala girava come un arcolaio; girava l'organetto col suonatore; girava la zia Rosa; girava lei, Teresina, stretta fra le braccia di Cecchino. E chi girava realmente erano lor due soli, alle battute finali dell'ultimo galoppo. - Ti sei divertita? - interrogò la zia Rosa, quando furono a casa. - Moltissimo - rispose Teresina con una convinzione che le trapelava dagli occhi. Una volta chiusa nella sua camera, per poco fu felice, riandando col pensiero ogni frase di quel memorabile ballo, ricordando sillaba per sillaba tutto quello che le aveva detto Cecchino: "Posso? La prego, favorisca almeno un confetto. Non balla?", tutto, tutto, fino alle parole "una persona simpatica". Queste, solamente a pensarci, le sconvolgevano il cuore. Guardò amorosamente il confettone, divisa fra il desiderio di mangiarlo, e quello di conservarlo eternamente. Il letto le parve duro, troppo pesanti le coperte. Era stanca, ma non le riusciva di chiudere occhio; se appena le si appesantivano le palpebre, scattava, sembrandole di udire mormorare lì sul guanciale: una persona tanto simpatica E poi le venivano in mente i ritornelli dell'organetto, e si stringeva al materasso, col braccio sinistro arrotondato in alto, il braccio destro teso, nell'illusione di ballare ancora. All'alba si addormentò. Il primo pensiero, svegliandosi, fu per lui; ma invece di essere un pensiero gaio e sorridente, le si affacciò quasi come un dolore, come una spina acutissima passata nella pelle. Inoltrando il giorno, la sua malinconia cresceva. Non aveva mai provato una simile tristezza. Si sentiva cambiata, come se un gran numero d'anni le si fosse aggravato sopra; aveva pensieri mesti di morte, di malattie, uno sconforto, un vuoto. Si toccava l'abito qui, lì, dove lo aveva toccato lui; e le veniva una gran voglia di piangere. All'ora del pranzo aveva il cuore così oppresso, che non poté quasi ingoiare cibo. - Va' a coricarti, poverina, sei stanca. Teresina non se lo fece dire due volte; penava troppo a doversi frenare davanti gli zii; sentiva il bisogno della solitudine, per trovarsi libera col novo ospite che albergava in lei, per poter chiudere gli occhi, e pensare al signor Cecchino. La seconda notte non fu migliore, né il giorno seguente. Il mattino, dalla sua finestra, lo aveva veduto passare, e lo sguardo prolungato che egli le diede, l'aveva, per un istante, resa beata; ma poi la malinconia la riprese, insistente, tormentosa. - Questa ragazza è ammalata, - disse la zia Rosa, accarezzandola con dolcezza - forse le fa male l'aria. - No, zia, non mi fa male. - Sei pallida, inquieta; lasciami sentire il polso. Ti duole il capo? - Un po'. - Lasciala in pace - interruppe il vecchio, gettandole alla sfuggita una delle sue occhiate penetranti. - Non è nulla. - Lo credo che non è nulla, ma la gioventù ha bisogno tratto tratto di qualche rinfrescante; ai miei figli, quando stavano poco bene, davo un cucchiaio di manna. Lo vuoi Teresina, un cucchiaio di manna? È dolce. E poiché Teresina, girellando per la camera, si era allontanata alquanto, il vecchio fece trombetta colle mani alla bocca, in direzione di sua moglie. - È innamorata! E ghignò, crollando la testa sulla dabbenaggine della buona donna, la quale non fu capace di aggiungere altro, restando cogli occhi fissi; quei chiari occhi cristallini, limpidi, che avevano visto molte cose nella vita, ma l'amore mai.

Pagina 74

VORTICE

678760
Oriani, Alfredo 1 occorrenze

Ma la voce ripeteva sempre la stessa domanda di Mignon, povera abbandonata nel freddo di un paese nebbioso, che risognava i trionfi abbaglianti del sole sulla marina napoletana, dove tutto è musica ed incanto, festa ed oblio. E a pochi passi, nell'ombra di un albero piegato a capanna, vide disteso sui cuscini entro una carriola quel ragazzo, che conosceva già. Era il figlio di un ortolano, caduto piccino da un albero e rimasto colle reni fracassate; lo aveva veduto mille volte alla finestra sul grande viale del cimitero, ma si meravigliò nel trovarlo ora alla estremità dell'orto, sulla ripa del fiume, solo, cantando come un uccello fra il verde. La sua sventura era di quelle, alle quali non si vuol pensare; non viveva che dalla cintura in su, sempre così coricato, col volto appannato dall'ombra stessa della sua vita. Eppure viveva. Impetuosamente egli se ne chiese il perché, mentre l'altro cantava sempre quella romanza nella sicurezza di non essere udito da alcuno, sognando forse come Mignon un altro cielo più bello ancora che in quel mattino di maggio pur così pieno di profumi, nel silenzio trepidante del meriggio. Egli, morto a metà, cantava. Con una mano si reggeva ad un ramoscello dell'albero, tenendo il viso in alto, colle spalle quasi nella siepe, così che si distingueva appena tra il fogliame la sua figura. Poi tacque. L'orto era deserto: un uccello pigolò dall'altra ripa del fiume; lontano, ad un campanile suonò ancora una messa. Per non farsi vedere dal malato, scese dal sentiero verso l'acqua e non risalì che oltre il cimitero; ma rimaneva sempre come in un fondo, tra ciuffi di alberette, che nascondevano ogni orizzonte. Era fuggito di casa, istintivamente, per nascondere la propria emozione; invece, fra quella viridezza della campagna, dentro al suo silenzio e alla sua luce, si sentiva nuovamente disorientato. Quindi un'altra paura gli cresceva: nella fretta di evitare la città non aveva temuto anzitutto che un incontro col signor Bonoli o con lo strozzino, a quest'ora naturalmente piccati da un desiderio crudele di curiosità a suo riguardo. Avevano presentato essi medesimi la cambiale in pretura? Il caso era poco probabile; secondo il solito, colle più vecchie convenienze del mestiere, lo strozzino doveva aver finto una qualche girata, giacché tutti i suoi pari sono sempre provvisti delle così dette teste di ferro. Ma egli, incontrandolo, non avrebbe saputo qual contegno tenere; non lo odiava, anzi per una di quelle condiscendenze imposte dalla pratica della vita, riconosceva che, agendo in tal modo, colui faceva solamente il proprio interesse. Di che cosa lagnarsi? Ma dinanzi alla sua faccia di sparviero disseccato, con quegli occhi metallici, la bocca che non sorrideva mai, gli sarebbe stato impossibile resistere. Sotto l'argine del fiume, lungo il ripiano della sponda, erano aperte ancora alcune cavità di alberi abbattuti da gran tempo, che un'erba minuta aveva tappezzato finamente. Il sole dardeggiava, aliavano farfalle, un soffio di scirocco scuoteva mollemente le cime già pesanti dei grani. Si fermò per udire qualche cicala stridere; invece dal fiume ascese la nota dolce e gorgogliante di un rospo. Allora calò dall'argine per nascondersi entro una di quelle buche, all'ombra di una vecchia quercia dai rami rachitici e il tronco giallastro come di una ruggine d'oro. L'erba era soffice. Cavò di tasca la rivoltella a canna corta, nichelata, del calibro dodici: stette lungamente contemplandola, come in una di quelle distrazioni attonite, che ci sorprendono talvolta: l'arma piccina riverberava. Si sarebbe servito di essa? Perché? E quando si è morti? Era già molto difficile morire; ma e dopo? Sino a quel giorno egli non ci aveva mai pensato. Come accade sempre, specialmente finché si è giovani, la morte non aveva esistito per lui; sapeva che, essendo nato, morrebbe, ma questa soluzione lontana ed inevitabile non aveva mai pesato sulla sua coscienza. Non si capisce veramente di dover morire, sino a che il pensiero della morte non si allarga come un'ombra nel mezzo del nostro spirito. Tutto è così facile nella prima parte dell'esistenza! Funzioni ed abitudini vi si ripetono favorevolmente, si mangia, si passeggia, si chiacchiera, si ride, si dorme; poi il mattino vi desta, intorno a voi tutto prosegue: la moglie, i bimbi, la serva, la casa alternano i propri motivi senza un pensiero che tutto ciò sia effimero, che basti la presenza di un insetto a produrvi lo scompiglio, o la morte appiattata in ogni ombra possa in un istante distruggere tutto senza ragione, senza traccia. Si vive così, come se la morte non fosse, in una sicurezza d'immortalità. Invano in tutte le case qualcuno si ammala e muore; si fanno i funerali, la gente li guarda passare distratta, ognuno preoccupato dei propri interessi, in una febbre continua di passioni, e non ci si pensa più. Coloro, che amarono quel morto, piangono qualche giorno, gli altri non dànno importanza al caso o parlando della morte, che li aspetta, rimangono indifferenti come a cosa che verrà poi, un poi problematico nella data ed insignificante finché la data non arriva. Egli era stato come gli altri. Aveva veduto morire il babbo e la mamma senza risentirne troppo dolore. Certo avrebbe desiderato loro più lunghi anni, ma essendo troppo giovane per aver provato gli scoramenti della suprema vigilia, quando la vita non sa più distrarsi dal computo dei propri ultimi giorni, aveva trovato naturalissimo che i vecchi se ne andassero. Invece adesso si trovava dinanzi alla morte nella pienezza di tutte le proprie forze. Non era né credente né incredulo; come nella maggior parte della gente, la vita spirituale era cominciata per lui coll'insegnamento religioso, senza che la religione modificasse troppo il suo sentimento, pur lasciando nel suo pensiero impronte non cancellabili. La concezione cristiana, poco comprensibile nei dogmi e nella tragedia della sua morale, rimaneva quindi la base di tutti i suoi giudizi, sotto la solita indifferenza mondana. Così aveva sposato Caterina anche in chiesa e battezzati i bambini, trovando giustissimo di apprendere loro la religione, che egli non praticava più. E in quella indefinibile cultura guadagnata un po' dovunque, nei caffè, su per i giornali, massa informe di idee e di sentimenti contradditorii, solamente la forza della tradizione durava: la religione era cosa da non parlarne, poiché non se ne sarebbe potuto mai sapere qualche cosa di preciso, ma forse era così, e in fondo ne convenivano tutti, anche coloro che affettavano di spregiarla pubblicamente. Le sue riflessioni non erano mai andate più oltre. Caterina non lo aveva mai vessato per la sua indifferenza religiosa: egli viveva come gli altri nella inconsapevolezza della propria contraddizione, fra un barlume di fede e un pettegolezzo di miscredenza, trionfando di entrambi col non pensarci. Ma la morte, improvvisamente, gli stava davanti nella propria immobilità. Aveva avuto paura. Morire era, prima di tutto andarsene; ma per quanto la natura ripugnasse a tale sparizione e tutte le malattie fossero spaventevoli appunto per questo, non era difficile il fissarvisi. Già nella notte lo aveva fatto: andarsene, piuttosto che restare per la tortura del processo e della prigione!, molto più che la morte essendo inevitabile, si trattava solo di sceglierne il momento, quando tutto il resto delle condizioni nella vita diventava intollerabile. Così, quasi non pensandoci, aveva già abbracciato questo punto di vista: era stato un lavorìo lento, inavvertito del suo spirito, subito dopo il tremendo distacco prodottovi dalla lettura di quella lettera. Quanto poteva soffrire, l'aveva già sofferto nella notte: lo sentiva, era sicuro che per una simile crisi non ripasserebbe più. Si muore forse due volte? La morte è tutta nello sforzo per staccarci dalla vita; se lo era detto, capiva di aver ragione. Il suo pensiero risoluto, quantunque torpido, andava sino in fondo: si sarebbe ucciso! Non aveva deciso il modo, ma il tempo era misurato ormai su quel giorno; era così, non voleva ritornarci più sopra: morire per sé medesimo e per la sua famiglia, alla quale non sarebbe più che d'imbarazzo e di disonore, ecco tutto! Ma il momento dopo, quel momento che pure ci doveva essere, giacché il tempo avrebbe seguitato egualmente, quando egli non sarebbe più, dove sarebbe egli in quel momento? Tutto finiva lì? La religione diceva di no, la maggioranza della gente d'accordo colla religione, e quelli ancora che si vantavano di non crederle, rimanevano perplessi dinanzi al problema. Finire! Sarebbe stato semplice, ma non era chiaro. Che cosa significava allora tutto il prima? La sua testa si perdeva. Confuse memorie gli ritornavano di ammaestramenti, di fatti, di uomini, che si erano trovati come lui dinanzi al grande quesito, e che egli aveva udito a parlarne. Tutti avevano tremato. Il primo momento dopo la morte, la possibilità di un'altra vita, quindi di un giudizio su quella trascorsa, di una vita in un altro mondo, mentre il nostro corpo resterebbe a putrefarsi in questo, di una vita incomprensibile e tuttavia di una supposizione così inevitabile al nostro pensiero, era senza dubbio ciò che rendeva spaventevole la morte, incerto quanto ognuno di noi compie prima d'incontrarla. Senza questo mistero che cosa sarebbe stato il suicidio? Poiché suicidandosi si è sicuri di sottrarsi a tutti i guai, non vi sarebbe dal canto della vita alcuna difficoltà: si ha forse paura di addormentarsi, pur non essendo sicuri del risveglio? Il problema era dunque nel momento dopo la morte. L'esperienza e la scienza umana non avevano trovato un modo per inoltrarsi in quest'ombra; tutti vi arrivavano nella medesima ignoranza, colla stessa angoscia, il più grande come il più piccolo, per sparire silenziosamente, mentre la religione sola dichiarava di averne penetrato il mistero colla parola di Dio. Non di meno la sua spiegazione era oscura; se no come la gente avrebbe seguitato a dubitare? Vi era dunque Dio? Era lui che, volendoci così oscuramente soggetti al suo volere, distribuiva con tanta inesplicabile parzialità la gioia e il dolore? Malgrado l'impossibilità di comprendere il mondo senza un creatore e di sottrarsi alla concezione poetica del cristianesimo, una rivolta gli saliva dal cuore contro questa ingiustizia della vita, che quasi sempre prodigava gli spasimi più micidiali ai più innocenti. Egli stesso ne era stato mille volte testimonio: che cosa non soffrivano i poveri, mentre i ricchi finiscono per annoiarsi non trovando abbastanza divertimenti? Se dopo morte non vi era altro, i signori diventavano ben sciocchi nel fare l'elemosina ai poveri, e questi lo erano anche di più non depredando in qualunque modo i ricchi. Perché fare l'elemosina? Tutto era caso, il fortunato non doveva logicamente che conservare la fortuna a se stesso. Invece non accadeva così: i poveri sopportavano, i ricchi li soccorrevano; forse v'era parità di dolori in tutti, perché i ricchi si suicidavano anche più facilmente dei poveri. Lo aveva sentito dire molte volte, aveva potuto notarlo egli stesso. La morte non era solo in fondo alla vita, ma la colpiva ad ogni istante da per tutto; i bambini vi soccombevano spesso prima di nascere o appena nati, si moriva sempre, in qualunque grado, nelle più inverosimili circostanze: ingegno, ricchezza, danaro non servivano a nulla, la gloria o l'infamia non toglievano niente a quest'uguaglianza della morte, la virtù e il vizio vi conducevano colla stessa rapidità; e dopo, un eguale oblio copriva tutti i defunti, la medesima spensieratezza seguitava nei viventi. Pensando alla morte si finiva col non potere uscire più da tale pensiero: ecco perché la gente non voleva fermarvisi. Tutte queste riflessioni gli toglievano di sentire il dolore della propria posizione; una specie di tranquillità gli si era fatta nello spirito, come una luce fredda, entro la quale tutto gli appariva lontanamente. La sua testa, poco abituata alle meditazioni, si distraeva già nelle sensazioni di quel meriggio. Qualche raggio, filtrando fra le foglie, gli produceva sugli abiti chiazze luminose e scottanti. Il bisogno di muoversi lo riprese. Tutta quella meditazione sul suicidio non gli aveva aggiunto che un terrore di più nella coscienza: se la vita significava qualche cosa, doveva essere ordinata ad uno scopo, che i capricci degli uomini non saprebbero mutare, e quindi tutto si riuniva nella morte come dinanzi ad un tribunale. Le menzogne, i sofismi, le oblivioni così comode e frequenti nella vita, si dissipavano nel suo ultimo istante: tutti vi si trovavano egualmente nudi davanti al proprio passato. Ecco perché si provano talora rimorsi, che ci costringono a condannare le nostre azioni più proficue, o ci impediscono l'abbandono alle nostre tendenze più personali: egli stesso forse non si trovava ora davanti alla necessità del suicidio che per aver voluto sacrificare i propri doveri di marito e di padre ad un ignobile capriccio. Era una sentenza di quella giustizia segreta, che corregge ogni errore dell'altra, e piega tutte le fronti sotto il mistero di Dio? Ma Dio permetteva agli uomini di suicidarsi? Vi erano un inferno ed un paradiso, come affermano i preti con tanta sicurezza, vivendo tuttavia al pari di coloro i quali non volevano crederci? Perché tanti grandi uomini non avevano ammesso una seconda vita? Per quanto questi problemi fossero insolubili, egli credeva di sentire adesso una grande verità nel suicidio: l'uomo, togliendosi la vita, espiava in tale dolore tutto quanto poteva aver commesso, giacché seguitando a vivere non avrebbe potuto soffrire di più. Era quindi inutile voler cercare oltre la vita qualche cosa che non doveva dipenderne; poi vi era questa differenza: gli uomini, uccidendo, sentivano tutti di commettere un delitto, mentre uccidendosi sentono solo di essere infelici. Infatti egli non sapeva altro, non era sicuro di aver ragione, ma la sua tristezza nell'accettare la morte era scevra dai rimorsi, che avevano accompagnato tante altre sue colpe. Questa volta non avrebbe fatto male ad alcuno sottraendosi ad una condanna, che in lui colpirebbe Caterina e i bambini. Sciaguratamente non v'era altra soluzione. Il suo suicidio non era rifiuto della vita, perché non se ne era anzi sentito mai così pieno: vivere nella propria casa tranquilla con Caterina e i bambini, amministrare il piccolo patrimonio, aiutarlo con qualche guadagno, fare la partita al caffè, mandare innanzi i figli finché, diventati grandi, non avessero più bisogno di lui, sarebbe stato un idillio, era l'idillio di quasi tutta la gente! Egli doveva invece suicidarsi, appunto per averlo reso impossibile. Il suo suicidio non aveva quindi le ribellioni pessimiste, che sole possono renderlo tale; come quei coscritti, che affrontano la morte agli avamposti, perché fuggendo dovrebbero sopportare umiliazioni e pene troppo amare, egli non avrebbe voluto né la battaglia né la morte, e subendo l'una e l'altra si riconosceva senza volontà. Era così, perché era così. Questa conclusione vuota fu l'ultima. Allora, perché era venuto lì? Che cosa vi aveva risoluto? Sulla campagna luminosa e calda il cielo si era fatto di una serenità abbagliante, nell'aria passavano ondate di fremiti. Eppure avrebbe dovuto aver deciso qualche cosa, essersi preparato per quella giornata! Vi era ancora una speranza? Come contenersi? Questa domanda non ne nascondeva che un'altra: era dunque stabilito? Tale decisione restava però fuori del suo spirito, giacché non ne provava ancora tutto il peso. - Che cosa faccio qui? - si chiese con un sussulto. A casa sua pranzavano circa al tocco e mezzo: lo aspettavano, manderebbero fuori la serva a cercarlo. Si figurò vivamente la scena. Se non tornava più a casa, dove passare tutta la giornata? Rimaneva perplesso, tutte le angoscie della notte lo riassalivano, eppure non gli veniva nella mente di poterlo finire subito. Più tardi, di notte, solo, in qualche altro luogo, ma allora no. Era impossibile. Si era assegnato un giorno, vi aveva diritto. Poi gli sembrava di avere molte altre cose da fare, lettere da scrivere, vedere qualcuno, rientrare ancora fra gli altri, prima di non vederli più. Aveva bisogno della notte, adesso tutto lo distraeva. Si avviò per ritornare, ma appena ebbe presa questa decisione, ridivenne triste triste; sentì che tutto era finalmente stabilito, non tornerebbe più in campagna, non rivedrebbe più quel luogo. Era la sua ultima passeggiata da solo, che nessuno conoscerebbe mai, e nella quale aveva risoluto di morire. Comminava a testa bassa, non sentiva più la vivezza dell'aria, la vampa del sole, il fresco del verde: il suo sguardo si chinava su quel letto di fiume melmoso, squallido, abbandonato, senza un rumore né un guizzo nelle pozzanghere d'acqua indolenti sotto al sole. E l'idea della morte seguitava nel suo spirito come quel letto di fiume invisibile fra i campi. * * * - Perché, vedi, - gli diceva Caterina sul finire del pranzo, - io sono persuasa che ella ci lascierà tutto. Capisco che non è gran cosa, in ogni modo sarà la dote per Ada, ma bisogna che non seguitiamo a trattarla così. Tu hai sempre detto che la zia Matilde non ti ha amato, e pare anche a me che sia così. Non so, - ella seguitava con quel suo buon senso di donna, nella quale la tranquillità del temperamento favoriva l'equilibrio dello spirito, - se tu abbia ragione sostenendo che ella ti voglia ancora male per un vecchio rancore contro la tua povera mamma, però dovresti mutare contegno verso di lei. - Che cosa vuoi che faccia? - egli rispose, preso nell'interesse di quei discorsi, che preparavano l'avvenire. Infatti Caterina lo aveva subito sgridato per non essersi fatto vedere in quella visita alla zia Matilde, dopo che ella imprudentemente l'aveva avvisata della sorpresa. E sarebbe stata davvero tale, s'egli vi fosse andato, giacché per una antipatia istintiva cansava sempre quella vecchia parente; ma questa, inciprignita naturalmente dal non vederlo arrivare, aveva finito con lo strapazzare Caterina come di un cattivo scherzo. Caterina, irritata dall'insuccesso, dopo aver troppo contato sul magnifico effetto dei bambini, non aveva poi badato all'aria abbattuta di lui. Non di meno il pranzo era proseguito abbastanza bene. Per fortuna i bambini, lieti dei vestiti nuovi e più liberi nei vecchi, che la serva aveva loro rimesso per il pranzo, si erano abbandonati al più vispo chiacchierio, mentre la mamma ogni tanto li sgridava dolcemente per frenarli ed egli acconsentiva con un sorriso. Quindi il discorso era ritornato sulla zia Matilde, la quale avendo oltrepassato i settant'anni non poteva ancora campare molto. Con quella ingenuità di egoismo propria degli eredi, Caterina valutava tranquillamente tale probabilità, traendone una lunga serie di conseguenze per se stessa e per i figli, molto più che i modi di lui con la vecchia le avevano sempre dato pensiero. Ella credeva alla buona, quantunque modesta posizione della propria casa, ma coll'antiveggenza delle madri, quando amano, cominciava a preoccuparsi dell'avvenire. Il suo affetto era specialmente per la bambina. Le difficoltà sempre più tristi per le ragazze di trovare un discreto partito, le avevano messo in cuore una specie di pessimismo, unica sua reazione contro la vita, della quale aveva sempre accettato il corso blando senza chiedersi di più. Ma Ada, che a giudicare da quel momento doveva crescere molto bella, avrebbe avuto bisogno di una certa dote per accasarsi convenientemente dopo la buona educazione, che ella pensava di darle anche a costo dei più gravi sacrifici; su questo argomento Caterina, così arrendevole, non voleva intendere ragioni. - Tu manderai avanti Carlino. Era questa la risposta, quando egli le faceva osservare che per mettere Ada nell'educandato di Fognano occorreva una grossa spesa annuale, mentre poi le ragazze uscendo dal convento non sapevano far nulla per la vita. Caterina, invece, sognava d'interessare a questo suo disegno prediletto la vecchia zia Matilde. - Che cosa vuoi dunque che faccia un giorno Ada? La maestra, la sarta? La fanciulla, già viziata dalle troppe carezze, scuoteva la testa con una smorfietta, ed egli non sapeva come replicare. Quindi colla facilità delle donne a vedere già realizzati i propri sogni, Caterina s'inteneriva orgogliosamente sull'avvenire, vedendo Ada mescolata a tutte le signorine delle migliori famiglie, e più bella di loro fare appena uscita di convento un grande matrimonio. - Stasera, poco prima dell'Ave Maria, ritorneremo dalla zia Matilde per scusarci: verrai anche tu, non me lo negare. Io ti ho sempre lasciato fare quando hai voluto: ti ho forse mai disturbato? - proruppe ad un suo moto; - e poi non si tratta di me o di te. Oramai per noi è finita: che cosa ci può accadere? Invecchieremo così alla meglio, ma essi hanno bisogno di una buona posizione. Tu hai sempre voluto che Carlino debba andare all'università; io ti approvo, ma debbo preoccuparmi anzitutto dell'altra. Io sono la mamma. Un uomo nella vita arriva sempre a cavarsela, ma una donna se non trova presto marito, senza una buona posizione, può essere perduta. - La zia non ci lascierà nulla, - egli osservò: - sai pure che è pazza per quella sua figlioccia. - Lo dici tu, io non lo credo. Sarebbe da parte sua una ingiustizia: è capitale di famiglia, deve ritornare a noi. - Deve! - Non si può gettare via il capitale della famiglia. Egli s'irritò. - Molti lo fanno. - Hanno torto. Adesso ti diverti a farmi arrabbiare: verrai anche tu? - Non ci andiamo, mamma, la zia Matilde mi fa paura, - protestò Ada agitandosi sulla sedia. La zuppa inglese, portata trionfalmente da Anastasia sopra un piatto oblungo, interruppe la conversazione; i fanciulli batterono le mani strepitando, ma la mamma ne tagliò subito col cucchiaio la metà per serbarla all'indomani. - Lascia che la mangino tutta, - egli disse, intenerito dalla smorfia dei bambini. - Ma che cos'hai oggi? mi contraddici sempre. Egli aveva mangiato quasi come al solito, obliandosi nelle abitudini di tutti i giorni, fra il pettegolezzo dei fanciulli, le chiacchiere della moglie e le osservazioni di Anastasia, che si vantava per la riuscita del pranzo. Però gli era parso che questa, di quando in quando, lo scrutasse. - Perché non ne mangia lei? - gli chiese infatti, vedendolo dare la propria porzione a Carlino. Allora Ada s'ingelosì. - Lascia lascia, egli è più piccolo di te. Ma sulla fine dei pranzo l'allegria scemava. I fanciulli non gridavano più, sorvegliandosi a vicenda, malgrado l'attenzione che mettevano a forbire il piatto della crema; Caterina, ricaduta nella preoccupazione della zia Matilde non parlava. Improvvisamente egli si sentì scoppiare il cuore: non esisteva già più per loro. - In quale stato pranzeranno domani! Eppure nulla era ancora mutato intorno. La saletta, quieta come sempre, aveva la stessa aria di pulizia e di modesta agiatezza; la tovaglia, essendo domenica, era bianca, il cavallo di Carlino dormiva dimenticato sopra quella sedia. Tutto invece sarebbe sossopra domani: forse il vecchio mansionario scenderebbe lui pure, attirato inconsciamente dalla paura della morte. Chi sà quali pianti, quali commenti! Dove sarebbe allora il suo cadavere? - Lei non sta bene; - lo destò la voce brusca d'Anastasia. - Io! - Io dunque? proprio lei, che cosa ha? - Infatti anch'io ti ho osservato. - Ma non ho niente! dammi piuttosto da bere, ecco. Che cosa debbo avere? Avete paura che muoia? Aveva cercato di fare la voce scherzosa, affrettandosi a bere per dissimulare il turbamento, ma quell'ultima parola lo trascinò. - Bah! se dovessi anche morire... - Che discorsi sono questi? Siccome Carlino aveva finito di pulire il piatto coi ditini, egli vinto da un impeto di tenerezza si sporse, afferrandolo sotto le ascelle, e se lo mise sulle ginocchia. Il piccino rideva superbo. - Hai ancora il soldo? No? lo avrai nell'altro abitino. - Eccolo, papà: guarda il buco. - Di' alla mamma che ci passi dentro un cordoncino, e te lo metta al collo. Mi hai promesso di non spenderlo: manterrai la promessa? Vuoi più bene a me o alla mamma? Carlino esitava. - Hai ragione, hai ragione: lei è migliore di me; va a prendere il tuo cavallone. Così poté alzarsi per accendere lo zigaro. - Dunque siamo intesi; stasera verrai anche tu dalla zia Matilde, - tornò ad insistere Caterina. - No, non vengo. Vedrai che domani verrà lei da te. - Tu scherzi sempre. - Già! Si era rimesso il cappello per uscire, scordandosi di scrivere quelle lettere; la paura lo riprendeva. Se fosse rimasto ancora qualche tempo, non avrebbe più saputo come andarsene; poi capiva che, solo coi bambini anche per un momento, sarebbe scoppiato a piangere. Fortunatamente il pranzo aveva durato sino alla solita ora, nella quale usciva a prendere il caffè. - Me ne vado, - disse due volte, - senza riuscire a decidersi. Caterina si era alzata per andare in cucina, egli la seguì; avrebbe voluto voltarsi per stringere in un abbraccio furioso le teste dei fanciulli, ma Anastasia rientrava già per sparecchiare. - Va pure, siamo intesi! - ripeté Caterina una ultima volta. Per risposta egli le diede un gran bacio sulla bocca, fuggendo subito dopo. Caterina rimase sorridendo di quella soluzione. * * * Nel caffè, a quell'ora, la gente era già affollata intorno ai tavolini, che lasciavano appena un varco sotto il loggiato: regnava l'allegria, le voci si alzavano scherzose. Al suo apparire molti lo salutarono, mentre altri si ritraevano per fargli posto nel solito crocchio; egli invece si sentiva freddo di dentro. Quel nuovo aspetto di festa nel pomeriggio lo turbava. Per un momento aveva pensato di andare nell'altro grande caffè aperto all'angolo del palazzo Rondinini, frequentato dai più grossi signori, quasi tutti naturalmente di parte moderata, per incontrarvi il Bonoli e lo strozzino, che di rado vi mancavano. Poi una paura irragionevole, che tutti a quell'ora sapessero già della sua cambiale falsa mandata in pretura, lo aveva sorpreso. Perché non lo saprebbero? Se Roberti certamente non ne aveva parlato con altri prima di partire, il pretore poteva bene averne fatto a qualcuno la confidenza; il caso non era molto probabile, e non di meno, nell'odio improvviso, che si sentiva in cuore contro quel giovane magistrato, adesso divenuto inevitabilmente il suo padrone, si ostinava a dubitare. Del signor Bonoli invece e dello strozzino, più interessati e quindi più facili a tale propalazione, quasi quasi non sospettava: il perché non avrebbe saputo dirlo. Quando nello svoltare dalla fontana vide quel pezzo di loggiato, dinanzi al caffè così gremito di gente, fu per arrestarsi, ma parecchi dovevano già aver guardato verso di lui. Colla bruschezza, che dalla lettura di quel biglietto gli aveva così profondamente mutato il carattere, si decise quindi ad andare innanzi. Se altra volta si fosse battuto in duello, avrebbe creduto di risentirne quell'emozione indefinibile allorché i padrini, dopo avervi tratta la camicia e legato il fazzoletto al polso in qualche angolo appartato, vi dicono improvvisamente, con voce breve: - Andiamo. Non gli accadde nulla. I discorsi erano gli stessi degli altri giorni; a un tavolino alcuni radicali, tutta gente della piccola borghesia, vestiti a festa, e quindi con un'aria più importante e una più grossolana affettazione di chiasso, ciaramellavano di politica; altri parlavano d'affari, più in là un crocchio di giovanotti discuteva di donne, naturalmente in termini vivaci ed osceni, i camerieri andavano e venivano, mescolandosi spesso alla conversazione con una famigliarità poco rispettosa, e nondimeno punto antipatica in quelle abitudini di provincia. Sotto il portico cominciava a passare qualche ragazza: allora tutti gli occhi si voltavano e prorompevano giudizi sommarii, espressioni scoppiettanti come razzi. Quel giorno non v'era alcun argomento speciale di pettegolezzo. Egli sedette. Il cameriere, ragazzotto piccolo e pallido, in giacchetta nera, gli portò al solito il caffè senza averne aspettato l'ordine, e gli sorrise deponendolo sul tavolo. Appoggiato colla schiena ad una colonna egli guardava il Duomo. L'enorme portone di mezzo era socchiuso, e sull'arco del suo vano si agitava lievemente un drappo rosso, segnacolo di qualche festa religiosa in quel giorno; la scalinata di granito pareva più bianca nel sole, la fontana gorgogliava da tutti i propri zampilli, avvolta in un pulviscolo d'acqua tenue come un vapore. Tutto quel largo dinanzi al Duomo sino in fondo alla piazza rimaneva deserto, nessun fiacchero stazionava ancora presso il caffè, l'omnibus del grande albergo era già ritornato dalla stazione; solo qualche bicicletta passava tratto tratto nel vuoto, silenziosamente. Siccome quella gente non sapeva ancora nulla della sua disgrazia e, sapendola, si sarebbe subito scostata, colle cautele così pronte ed assennate dell'egoismo, egli tra la distrazione di quei discorsi tornava a ricordarsi tutto quanto sapeva sopra ognuno degli interlocutori. Pochi avevano una posizione solida ed equilibrata, ed anche questi pochi non avrebbero probabilmente davanti ad un giudice, capace di legger loro nelle coscienze, saputo giustificarne l'origine o il modo: tutti gli altri vivevano come lui, fuori della propria orbita naturale, rammendando ogni mattina gli strappi di ogni sera, nella stessa impotenza di frenare i propri vizi o di guadagnare abbastanza per alimentarli senza pericolo. A vederli così vestiti e con tale disinvoltura giuliva, un estraneo avrebbe potuto crederli ricchi e felici, mentre ognuno celava nella propria vita qualche ignobile controscena di compromissioni domestiche o commerciali, vergogne di donne comprate o vendute, orrori di figli assassinati nell'avvenire per inconfessabili passioni. Eppure sarebbero domani i suoi giudici perspicaci, perché sommerebbero tutte le loro osservazioni su lui, e condannerebbero, avvelenando la condanna di scherni, per quella inconsapevole necessità in tutti di separarsi da coloro, che soccombono nella vita. Era così, non poteva essere altrimenti; se no la gente per compiangerlo avrebbe dovuto condannare se stessa. Egli solo si era scioccamente messo in tale condizione di suicidio, mentre gli altri facendo di peggio sapevano restare a galla. Però questa spiegazione superficiale non gli bastava: un'altra forza oscura spingeva innanzi la vita d'illusione in illusione, di guaio in guaio, sino alla fine, che interrompeva tutto senza risolvere nulla. La moglie, i figli, quanti restano dopo, prorompono in lamenti contro il morto, cercano di rassettare la posizione, e invece tornano a comprometterla con la medesima serie di vizi e di sciocchezze. Era questa l'eterna ridda, l'eterna morale: i figli si lagnano dei padri e, divenuti padri, sacrificano l'interesse dei figli al proprio: le donne, per lo più morigerate come ragazze, si abbandonano da spose e da madri ad ogni sorta di eccessi: i patrimoni oscillano, si scompongono, si ricompongono attraverso un tafferuglio di rapine, di leggi, di prodigalità, di avarizie, di casi tragici o fortunati, nei quali non si capisce nulla, ed è impossibile resistere. Tuttavia in quel momento egli falsario, deciso a morire della propria colpa senza chiedere soccorso ad alcuno, si sentiva migliore di quanti lo circondavano. Un orgoglio doloroso gli gonfiava la coscienza. Invece di scusarsi ai propri occhi come aveva tentato più volte nella notte, si compiaceva quasi ad ingrandire l'accusa, spremendone un'acre vanità. Non era egli pronto a morire? Che gl'importava di tutta quella gente? Quale di loro, malgrado tutte le vanterie, che avrebbero fatto sul suo conto, affermando l'uno contro l'altro di averlo conosciuto benissimo, saprebbe solamente indovinare le sue nuove sensazioni in quell'ora? Era una specie di alterezza, che gli faceva guardare intorno come dall'alto: qualche cosa di profondo e di freddo, che doveva somigliare alla emozione del comando supremo per un generale, nel momento di arrischiare sopra l'ultima idea la vita di migliaia e migliaia di uomini. La morte innalza sempre. Invece di scrutare nella sua oscurità, il che lo avrebbe daccapo atterrito, si guardava indietro come per una lontananza, nella quale le cose e gli uomini perdevano coll'esattezza del rilievo quasi tutta la propria importanza. Che cosa era mai la vita, a pensarci bene? Egli avrebbe sempre seguitato a quel modo, con le solite soste al caffè, sempre fra quelle persone, quei discorsi, senza una speranza mai di mutare, di salire, di provare qualche cosa di nuovo. Null'altro. Tant'era dunque andarsene prima che la vita divenisse solamente un seguito interminabile di ore nel vuoto di una prigione, e dopo, più tristamente, un fuorviare fra la folla per evitare certe persone, per cansare certi sguardi; poi, rabbuffi strazianti in casa dalla moglie e dai figli, fuori un bisogno sempre più umiliante di trovare un impiego, un modo egualmente indispensabile ed impossibile di guadagno. - Oh! non dici niente oggi? - gli si volse Cavina, un giovane mastro-muratore dalla fisonomia malaticcia, che la passione e una tal quale raffinatezza di gusto nella musica rendevano al tempo stesso simpatico ed un po' avversato. - Pensi ai miei debiti o ai tuoi? - seguitò con lo scherzo solito fra di loro, che, troppo desiderosi di spendere, finivano collo sbertarsi reciprocamente sulle angustie della propria posizione. Egli sussultò. - Sono così, non lo so; - ma gli parve subito dopo di avere risposto male. Il muratore confessava che sarebbe andato volentieri alla prima rappresentazione del Lohengrin: c'era tempo ancora, un treno partiva sulle quattro. - Bisognerebbe avere cinquanta franchi da buttar via. - Perché cinquanta franchi? - Sai, dopo il teatro viene la cena, la donnetta... Si rideva: altri sarebbero partiti con lui per Modena, avendo in tasca i cinquanta franchi, meno ancora per ascoltare la musica del Lohengrin che per il piacere della gita. Allora Romani ebbe un impeto di sdegno. - Perché spendere cinquanta franchi? Sono cose che bisogna lasciarle fare ai signori. - Ai signori! - un altro replicò celiando - ma sono un signore anch'io, quando spendo cinquanta franchi in una sera: vuol dire che per quella sera ho cinquanta franchi di rendita. Tutti risero. Romani si accorse trepidando di essersi lasciato trasportare dalla collera contro quella falsa facilità del vivere, che lo aveva condotto all'ultimo punto: quindi per distrarre l'attenzione rimise il discorso sul Lohengrin. Allora tutti protestarono: non sarebbe mancato altro che, non potendo assistere alla rappresentazione, ne avessero dovuto subire la disquisizione da Cavina. Ma questi, che parlava benino, non resistette; da pari suo aveva letto troppo o si ricordava abbastanza le spiegazioni del mito lohengriniano. - È un gran bel finale, - concluse dopo non molto, giacché s'imbrogliava nel patto fra Elsa e Lohengrin; - nessuno muore, eppure è una tragedia. Lohengrin ritorna in cielo col cigno: è un motivo, che fa venire la pelle d'oca, lo stesso motivo, col quale viene rimandato il cigno nel primo atto; ma nessun musicista avrebbe mai saputo trovarne uno uguale. Poi è di una naturalezza! - seguitò animandosi: - Lohengrin canta perché non deve morire, mentre in tutti gli altri finali italiani si ammazzano il tenore e la donna obbligandoli a cantare con tutte le loro forze. Ciò è falso: un ferito, un moribondo non possono cantare; sì, altro che cantare in quel momento! - Ma in teatro... - Che c'entra? In teatro si deve rappresentare la verità. Il finale del Rigoletto è bello, lo concedo anch'io, ma la donna trapassata da un colpo di spada come potrebbe cantare? Sono convenzionalismi, che hanno fatto il loro tempo: io dico che la musica deve rispettare le situazioni drammatiche, e non pretendere di far cantare in condizioni impossibili. C'è l'orchestra appositamente: perché il maestro non la fa cantare invece del tenore o della donna? Sì! il duetto della barella nella Forza del Destino! Don Alvaro ferito a morte, che urla come un dannato! Tiriamo via. Io credo che non solo un moribondo o un ferito, ma nemmeno un condannato a morte, proprio all'ultimo momento, lo si possa far cantare. Che cosa ne pensi tu, Romani? - Mi pare che hai ragione. - Perché? Si sono visti tanti condannati salire il patibolo indifferentemente, - disse un altro. - Indifferentemente! Metti loro una mano sul cuore... Ti sentiresti tu di cantare nei loro panni? - ripeté ostinandosi in questa, che a lui pareva una grande idea novella in arte. Ma la conversazione deviò ancora. * * * Mentre il passeggio della gente cresceva pel largo del Duomo e sotto i portici, gli avventori del caffè si diradavano. Le donne sfilavano vestite a colori vivaci, in ritardo dalla moda e non pertanto esagerandola con una volgarità di tagli e d'intenzioni, alle quali la goffaggine del portamento finiva col dare un non so che di maschile. Egli, divenuto più perspicace, interrogava curiosamente ogni fisonomia per indovinare sotto la sua maschera della domenica il segreto di tutti i giorni. Quindi si accorse che in quella bruttezza di quasi tutte le donne mancava appunto ciò che avrebbe potuto riscattarla, l'incantevole e delicata debolezza del sesso. Fu come una rivelazione per lui. Invece colei, che lo aveva perduto, era donna nel più profondo significato della parola. La paragonò mentalmente per cinque minuti a quante passavano, senza arrivare alla spiegazione della sua superiorità: in che cosa consisteva? Dove era adesso? S'immaginava nemmeno che egli potesse trovarsi così? Erano le cinque. Fuori di porta Montanara, per lo Stradone, il passeggio doveva essere incominciato. Daccapo non seppe che cosa fare. Dinanzi all'altro caffè la larga distesa dei tavolini arrivava insino al palco della banda, senza un avventore; si ricordò del primo pensiero, svoltando alla fontana, di andare piuttosto a quel caffè, dove capitavano il signor Bonoli e lo strozzino. Allora non aveva osato, adesso gliene ritornava un desiderio malato. Siccome era rimasto solo al proprio tavolo, si alzò senza salutare alcuno, giunse in fondo al portico, ne discese i gradini, e si mise all'ultimo tavolino presso l'ultima colonna. Chiese il Secolo ed un gelato. Ma, così solo, gli tornava la paura. - Quanto ci vorrà ancora, prima che sia sera? Rapidamente pensò ai nuovi incontri, ai discorsi che dovrebbe ascoltare, a quelli cui sarebbe inevitabile rispondere, alle combinazioni, ai casi inavvertiti tutti gli altri giorni. Avrebbe potuto tradirsi senza accorgersene. Di quando in quando rimaneva senza forze, in una attonitaggine, dalla quale lo toglieva la sensazione improvvisa del pianto, che stava per sfuggirgli. A quanto doveva compiere nella notte aveva deciso di non pensarci, anzi era sorpreso di scordarsene tratto tratto. Come avveniva ciò? Nessuna di quelle terribili strette, di quei dolori trafiggenti, sotto ai quali nella notte aveva creduto tante volte di svenire, gli si era ancora rinnovato: le ore passavano, dandogli solamente una sensazione vacua, come se ne provano assistendo a certi spettacoli senza prendervi interesse. In tale momento il luogo più deserto era appunto il caffè, ma il suo isolamento avrebbe finito coll'essere notato anche lì. Dove andare? Non aveva nulla da fare; e poi a che scopo lo avrebbe fatto? In questa impassibilità stava già la morte. Oramai era fuori del mondo, non apparteneva più a nessuno, non aveva più nulla. La vecchiezza non deve essere altro che la lenta progressione di questo sentimento, l'abbandono reciproco di tutti verso uno e di uno verso tutti per una solitudine annebbiata, silenziosa, immobile. Aveva acceso un altro sigaro. Guardò alle notizie del giornale senza fermarsi ad alcuna, poi le appendici lo attrassero: Un Idillio tragico, di Bourget; I milioni della scema, di Montfermeil: nel primo la scena era a Montecarlo, nei saloni da gioco rutilanti d'oro, invasi da una folla cosmopolita, di tutti i costumi, di tutti i gradi, di tutte le fortune. L'autore dipingeva finamente e rapidamente; egli ebbe la sensazione di quell'ambiente, nel quale la gente andava per tentare di non morire, ottenendo da una vincita la guarigione della propria vita anemica di oro, di fede, di speranza, di amore, perché presso alla morte tutto si fa pallido. E in quella folla, nella quale l'egoismo delle disperazioni non permette lo scambio di alcun sentimento, e fra quelle le pupille chine e vacillanti sui tavoli nello stesso sogno di riscatto; fra quel silenzio, che neppure il delirio della salvezza improvvisa o la sùbita rivelazione della morte arrivano a turbare; in mezzo a quella moltitudine famelica di ozio e di ricchezza, dentro il profumo dei fiori, l'incendio dei lampadari, la pompa abbacinante di un lusso divoratore, Bourget aveva messo due incantevoli figure di donne, sorridenti in un dialogo di amore. Egli ne lesse le prime battute affascinato, arrestandosi in fondo all'appendice, quasi colla stessa sensazione che se si fosse urtato in un muro. A Montecarlo il suicida tenta di forzare ancora una volta la fortuna; può bastare un solo scudo per ritornare felice e trionfante alla vita. Quanti vi avevano vinto la posta della propria esistenza! Quanti altri l'avevano perduta! Erano più i primi o i secondi? Quanti suicidii si compiono all'anno in Italia, in Europa? Egli non lo sapeva, ma se qualcuno gliene avesse detto la cifra enorme, gli sarebbe parsa esagerata: nullameno ebbe come una vaga visione di questi volontari della morte, strano esercito senza generale e senza disciplina, che tutti gli anni si esauriva sino all'ultimo soldato, e si rinnovava tutti gli anni inutilmente. Ogni suicida credeva di agire solo: qualche volta morivano a poca distanza l'uno dall'altro, egualmente separati dalla differenza dei motivi. Chi poteva dire davvero il perché di un suicidio? Egli stesso non avrebbe saputo definire il proprio caso; le ragioni erano molte, forse una per una non sarebbero bastate, forse neppure la loro somma diventava decisiva... Egli ci aveva pensato molto, poi si era accorto di non poter concludere. Era a questo punto, quando Gualtiero Ponti gli batté la mano sulla spalla: - Anche tu leggi il nuovo romanzo di Bourget: bisognerebbe invece, mio caro, poter andare a Montecarlo e vincere. - Vincendo, che cosa faresti tu? - Mi divertirei. - Come? - Seguiterei a giocare. E l'allegro giocatore, del quale aveva il giorno prima tentato di scontare indarno la cambiale, rise al pensiero di chiudere così la parentesi della propria vita. - E la cambiale? - chiese. - No, è stato impossibile. - Allora? - Allora! L'altro si era voltato a guardare una donna. - Ma quando sarai rovinato? - domandò Romani, che provava un bisogno crudele di affliggerlo, benché quello scapestrato non gli avesse fatto alcun male. Gualtiero Ponti si contentò di alzare le spalle. - Andiamo a fare un giro per lo Stradone? fra poco verranno Tamberi, Marzocchi; sai, questa notte Marzocchi ha perduto settecento lire, io mi ero rifatto, poi ho finito col perderne settantacinque. Ceniamo insieme? Non si era ancora seduto. Era un giovanotto piccolo, brutto, coi baffi a spazzola, la testa rotonda e già calva, che mostrava indifferentemente, giacché si era tratto il cappello per asciugarsi il sudore, rimanendo così a capo scoperto; un tic nervoso gli faceva di quando in quando scattare le dita della mano destra. - Tu non ci pensi dunque? - insisté ancora Romani. - A che cosa serve il pensarci? * * * Non c'era altra filosofia nella vita: sciaguratamente non bastava, perché giungeva il momento di dover pensare per forza. Finirebbe così anche colui? Istintivamente rispose di no, conoscendolo troppo bene per supporlo capace di un simile sforzo. Tuttavia in quel momento, per una specie di giustizia che si sentiva dentro, avrebbe avuto bisogno di credere che per lui pure sarebbe venuta quell'ora insopportabile di espiazione. Quindi n'ebbe come uno scatto violento. - Te ne vai? chiese l'altro, vedendolo alzarsi. - No, debbo fare una lettera. - Va' dentro nella sala a scriverla: ti aspetto qui. Infatti qualche cosa bisognava che scrivesse. La prima idea fu di rivolgersi alla zia Matilde per raccomandarle i bambini; non voleva dir altro, non ne sarebbe stato capace. Si era messo all'ultimo tavolino presso la porta, che dava nella seconda sala del bigliardo: notò che due vecchi lo guardavano. Aveva la mano ferma. Gualtiero Ponti si affacciò dalla strada alla vetrina; allora egli si affrettò. Cara zia, 2 maggio 1896. Vi raccomando i miei bambini, abbiate pietà di loro che sono innocenti; io sconto tutte le mie colpe colla morte. E firmò, avvolgendo come al solito tutta la firma dentro il riccio dell'ultima i. - Hai fatto presto, - gli disse Ponti avvicinandosi. L'altro aveva già chiuso la lettera nervosamente, la mano gli tremava nello scrivere l'indirizzo. - Dammela: te la getto nella buca, mentre vado dal tabaccaio a comprare le sigarette, altrimenti potresti scordartene, come accade quasi sempre a me. Romani rimaneva perplesso; se impostava la lettera, la cosa diventava irrevocabile. Una nebbia di sangue gli salì dal cuore agli occhi. Quasi senza comprenderlo, si cercò in tasca il soldo per il francobollo. - Va! ce lo metto io, - disse Ponti colla mano tesa per ricevere la lettera. Quindi la prese senza guardare la soprascritta, e uscì dal caffè. Romani non si poteva muovere, ma pensava, rabbrividendo: - In ultimo, vi è sempre qualcuno che vi spinge. * * * Poiché avevano mutato luogo alla stazione ferroviaria, costruendone poco lontano un'altra più ricca e più goffa, la strada fuori di Porta Vecchia a quell'ora non era più frequentata come in altri tempi. Egli dopo aver errato per molte vie della città, aveva finito per infilare quella; il sole si piegava al tramonto, dalla campagna veniva una frescura di verde umido e di piante in fiore. S'imbatté in don Procopio, il mansionario, che abitava al disopra di lui; il vecchio ottantenne girava ancora solo, con passo abbastanza sicuro senz'altro appoggio che un bastone dal pomo di avorio ingiallito. Era vestito del solito vecchio soprabito con una leggera mantellina al disopra, tutto lindo e rasato di fresco: i capelli bianchi, troppo lunghi, gli uscivano in ciuffi dagli orecchi. - Lei! - esclamò Romani. Il vecchio gli sorrise, scoprendo due ammirabili fila di denti troppo lunghi, di un bianco gialliccio. Romani si era fermato. - Dove va? - disse, cedendo finalmente al bisogno di una conversazione. - Poco lungi, figliuolo mio. Nihil est longe a Deo: è l'avvertimento di Santa Monica al suo figlio Agostino. Ma l'accento tranquillo contrastava con la lirica minaccia del motto latino. - Sono stato sino alla sbarra della ferrovia. - Ritorni ancora indietro con me. - Nella sera si fa fresco, io sono vecchio e mi avvicino al termine. - Che importa? - proruppe l'altro: - bisogna ben finirla una volta con questa vita. - Eh! finirla... finirà certo. Quando si è giovani si parla male della vita, perché non se ne capisce il pregio, e al più piccolo contrasto si pensa persino male di Dio. - Perché dunque permette egli tante infamie? Perché vi è della povera gente, che deve morire in miseria dopo aver fatto ogni sforzo per non meritarla, mentre i farabutti riescono sempre in quello che vogliono? - Lo sapremo dopo, figliuolo mio: finché viviamo, bisogna rispettare la vita come un dono di Dio. - Poteva tenerselo. Ma siccome la voce gli aveva tremato, il vecchio si fermò a guardarlo in viso. - Non vi è altro in questo mondo che la vita: che cosa volete vi sia di più importante? - Come mai dunque certuni se la tolgono? - Pazzie, suggerimenti del demonio! Tutti i dolori passano, è questione di pazienza: dopo, pensandoci, si resta sempre sorpresi di aver disperato. Vedete, io che sono vecchio, ho avuto anch'io le mie disgrazie, i dispiaceri... e poi, se si potesse ricominciare, ricomincerei. - Lei non può avere sofferto veramente nella vita; bisogna esserci dentro per provarla e comprendere come alle volte non c'è altro modo di cavarsela che andandosene. A che cosa serve la pazienza, quando non c'è più alcuna speranza? - Volete farmi parlare perché sono prete, non è vero? Oggi tutti i giovani, che discorrono con noi, pretendono d'imbarazzarci; ma voi stesso in questo momento non potete essere al caso di giudicare sulle tristi condizioni, che spingono certi infelici al suicidio. Romani si era arrestato, aspettando la sua opinione, ma il vecchio tacque. Andava adagio, soffermandosi spesso a guardare quelli che incontravano, mentre una collera sorda spingeva l'altro a bestemmiare davanti a questo prete, il quale pretendeva naturalmente di rappresentare Dio e di poter parlare in suo nome. Quindi seguitò: - Si fa presto a dire che uno, il quale si uccide, è pazzo; ma se non lo fosse? Moltissimi dànno prova del massimo sangue freddo sino all'ultimo istante. - Pazzi, pazzi! La chiesa permette appunto il loro seppellimento in terra benedetta, perché li considera pazzi. Ma se non c'è altro al mondo che la vita, la quale ci fu data per guadagnarne un'altra migliore! Lasciate correre, sono fandonie delle moderne filosofie; ma intanto tutti questi filosofi e questi poeti, che bestemmiano la vita, tirano a campare. - E quelli che si ammazzano? - Matti! - Non è vero! - proruppe: - Vi sono delle circostanze, nelle quali il suicidio diventa l'azione più onesta e più utile, che un uomo possa fare. E poi, perché si deve tribolare tanto? Se Dio... - Non bestemmiare, figliuolo mio. - Non bestemmio; se Dio fosse giusto... - Andiamo, andiamo, - ripeté il vecchio, alzando un pochino la canna in segno di disapprovazione; ma il fischio della vaporiera li interruppe. Si fermarono, il cantoniere chiudeva dinanzi a loro la barriera. - Passa il vapore, lo vedremo, - disse il prete, voltandosi verso la stazione invisibile, alla quale il treno doveva essersi arrestato. Anche Romani non parlava più; l'affermazione così sicura di quel vecchio sulla vita lo aveva scosso; capiva che confessandogli anche la propria tragedia, non solo non lo avrebbe commosso abbastanza da farlo vacillare nelle proprie convinzioni, ma nemmeno da intenerirlo. I vecchi non si appassionano più per alcuno, ma, chiusi in se stessi, si nutrono dei propri giorni, adagio, come per farli durare maggiormente. Quindi rimaneva irritato; il bisogno di discutere, senza rivelarlo, il proprio suicidio, lo tormentava sempre più dolorosamente. I dubbi filosofici, i terrori religiosi della mattina lungo l'argine del fiume, tornavano a sopraffarlo dinanzi a quel prete, che rappresentava la doppia rivelazione della vita e della religione. Egli doveva sapere per aver provato, e perché credeva senz'alcuna incertezza. Lo esaminò. La sua faccia esprimeva una calma senza nessuna vivacità, adesso che la vita era per lui ridotta al minimo; non diceva nemmeno più la messa, tutto si riduceva al pranzo e a quella passeggiata. Eppure era come tutti gli altri; nessuno voleva pensare alla morte. Egli invece fremeva. Dopo aver lasciato impostare quella lettera, un nuovo orgasmo lo aveva obbligato a muoversi, quasi a fuggire, solo nelle strade, per non tradirsi con qualche scoppio irrefrenabile. Che cosa gli importava della vita? In quel momento, pur di finirla subito, avrebbe accettato anche la morte più dolorosa. Era la rivolta degli animali deboli, che trovano nella disperazione il coraggio dell'attacco. Quel prete di una religione, che secondo la gente ha un balsamo per tutti i dolori, non aveva indovinato in lui, non aveva sentito niente nella sua voce! Un sorriso amaro gli contrasse le labbra. Un altro fischio acuto, prolungato, fendé l'aria; s'intesero gli scoppi di un'enorme respirazione che si avvicinava, si vide in alto uno stendardo azzurrognolo di fumo, e il treno passò alla barriera rapido, nero, perdendosi nella campagna, che si assopiva languidamente sotto il tramonto. Don Procopio lo aveva seguito cogli occhi: - Quello sarà sempre giovane, mentre i nostri cavalli, - e si batté una gamba colla canna - non vanno oramai più! Romani era diventato pallido come un cencio; nei suoi occhi sbarrati vi era la fissità dell'agonia, che non vede più o vede già troppo lontano. * * * Non aveva potuto parlarne nemmeno col prete. Questa impossibilità di trovare un'anima, nella quale riversare tutta l'angoscia della propria, gli era diventata uno spasimo maggiore della stessa necessità di uccidersi. Sino dalla notte, dopo la lettura di quella lettera, resisteva all'angoscia di rivoltarsi per terra mordendo qualche cosa: invece aveva dovuto comporsi una maschera simile al volto di tutti i giorni, perché nessuno si accorgesse di quello che soffriva. Gli pareva di essere un sonnambulo, colla coscienza di non poter più uscire dal proprio sogno. La vita seguitava intorno a lui più intensa di prima; la luce animava le cose, l'aria vibrava, alitavano profumi, i rumori salivano dalla terra mescendosi in una sonorità inesauribile, dentro la quale passava un'altra infinità di musiche, mentre la gente affaccendata di sé medesima sembrava non accorgersi neppure del tramonto imminente. Non poteva essere che così. Era come di quelle danze che i più piccoli insetti fanno nei raggi del sole: volano, si riproducono senza posa, in una confusione ardente ed instancabile, e quello che si arresta un istante, cade non visto nell'ombra, sulla terra. Nessuno può fermarsi al dramma o alla morte di un altro, perché il dramma è in tutti, e tutti debbono morire; la pietà è appena un sorriso, che si volge ai feriti capaci di rialzarsi; per quelli che soccombono, la disattenzione previene già l'oblio. Egli stesso non sapeva più che cosa dire agli altri; si sentiva come una di quelle foglie galleggianti nel fosso sotto il temporale del suo sogno: che cosa avrebbe potuto dire una di quelle foglie morte alle erbe dei margini sbattute dalla corrente? Il problema della morte è più lontano e più in alto della vita, dove il tempo dilegua nell'eternità; e quando l'anima s'affaccia nuda a tale problema, se non vi scorge qualche cosa nel buio, ciò vuol dire che la luce della lampada accesa dalla religione in quelle insondabili profondità si è spenta. Il giorno cadeva. Un vapore si distendeva pel cielo, abbassandosi lentamente sull'aria, che si raffreddava; gli oggetti si velavano incertamente, la moltitudine pareva calmarsi. Però le sue voci si facevano più inquiete, tutti i passi si affrettavano. Le grida degli uccelli erano cessate all'improvviso nell'oscurità misteriosa del fogliame: dentro le finestre, prima incendiate dal sole, il buio si era fatto denso come un panno nero, le strade piene di popolo avevano una ondulazione di marcia sotto la notte imminente. Egli aveva oramai finito quel giorno. Le campane della sera disperdevano il proprio gemito nel silenzio delle lontananze, come un'invocazione saliente dalla terra dinanzi al terrore delle tenebre, che stavano per sommergerla. Nell'agonia di tale fine, che non aveva mai avvertito prima di allora, gli parve che la morte sfiorasse tutte le cose. Quanto era succeduto in quel giorno, non succederebbe più, era già perduto irrevocabilmente dove tutto si perde, ciò che fu e ciò che dovrà essere, perché la vita non è appunto che una evanescenza, un suono di suoni, un'ombra di ombre vagolanti in un infinito infinitamente remoto. La sua anima si ravvolse nel lungo brivido di quella solitudine, che solamente il pensiero avrebbe potuto riempire. Poi il crepuscolo si oscurò ancora, le prime stelle spuntarono dalla volta del cielo, mentre per la città si accendevano i primi fanali, fra un mormorio più indistinto di voci, al disopra della folla, che dileguava nella oscurità delle strade. Ma le stelle crescevano sempre nel cielo opaco, troppo grandi e troppo vivide perché la notte potesse appannarle: miriade di mondi viventi di un'altra vita inesplicabile alla nostra, malgrado tutte le rivelazioni della scienza e della fede. Che cosa c'era lassù? Più alto di lassù? Dio? Un minuto dopo la morte, questa domanda sarebbe ancora possibile? * * * Egli soccombeva all'umiltà di un annichilimento finale. La sua volontà si era disciolta al pari di ogni altra cosa nell'ombra, come in un ritorno alla primordiale indeterminatezza dell'essere; non soffriva più. Persino quest'ultimo dubbio, balenatogli più in alto, oltre lo splendore delle stelle, si era spento con tutto quanto moriva intorno a lui, nella dissoluzione della notte. Che importava il motivo della morte, quando bisognava morire? Il medesimo silenzio penetrava in tutti i cuori, la stessa ombra in tutte le teste: non si poteva essere immortali; perché noi pretendevamo dunque di esserlo? Vi era differenza nella morte? Che cosa era il suicidio? Si muore di tutto, tutti si suicidano, giacché ogni gioia troppo intensa, ogni dolore troppo acuto ci costa forse un giorno: qualunque opera ci toglie quella parte di noi stessi, colla quale la compimmo; i nostri figli sono i nostri parassiti sino al giorno che, non potendo più nutrirsi di noi, ci abbandonano per soccombere altrove. In qualsivoglia momento la morte è sempre la stessa: un terrore, un'angoscia, e la soffocazione in fondo. Non ci si pensa, perché tutte le idee adunate intorno alla morte, paradisi, inferni, non riproducono che teatralmente il nostro oggi sullo sfondo di una notte senza domani. Quando l'ora della morte è suonata bisogna rassegnarsi: non è sempre così davanti a tutte le difficoltà della vita? Si chiudono gli occhi, e si ingoia il bicchiere dell'olio di ricino, come fanno i bambini. Una carrozza, che gli passò accanto fragorosamente, coi fanali accesi, gli ridiede la visione del treno sbuffante, fumante, coi grandi occhi sbarrati nella notte, come se venisse contro di lui, e tutta la terra intorno tremasse sotto la violenza del suo impeto. * * * - Vieni con me dalla Marietta: è arrivata una ragazza d'Imola. Romani alzò la testa, Gualtiero Ponti seguitava: - Venturini dice che è bella, vieni con me: poi ceneremo. Ma sebbene la domanda fosse insistente, la voce rimaneva fredda; Romani stava seduto alla cantonata del caffè Rondinini, in quell'ora pieno di gente, sotto il chiarore rossastro dei lampioni a petrolio: tutti erano vestiti a festa. Era la prima ora del passeggio notturno, per la piazza e sotto il loggiato dei signori; le ragazze passavano a frotte negli abiti chiari, sorridendo fra gli sguardi, che le cercavano avidamente. Romani si era seduto, solo, a quell'angolo. Una stanchezza malata aveva finito di vincerlo, dopo tutte quelle corse fuori e dentro la città: si era cacciato per molti vicoli, sino alle mura, che da Porta Pia vanno a Porta Montanara dirimpetto alla linea delle colline, e anche là aveva trovato la stessa gente, coppie di amanti, torme di bambini, crocchi di mamme, e, tratto tratto, un vecchio, che passava come un'ombra nell'ombra sempre più densa della sera. Gli era rimasta negli orecchi la cantilena di alcune voci. - Dove ti sei nascosto oggi, che non ti ho più visto? - ridomandò Ponti. - Ho girato. - Solo? - Così... non sempre, - si corresse, ricordando l'incontro con don Procopio. - Dunque vieni? - No. - Perché? Vieni. - Non ne ho voglia. Sopraggiunse un altro, al quale Ponti fece la stessa proposta, e che accettò. Romani rimase solo daccapo. Perché non aveva accettato? Era stato un rifiuto istintivo, ripugnante, quasi di un ferito, che qualcuno, stupido o villano, invitasse a ballare, poiché gli era accaduto di ricusarsi così nella giornata ad altri inviti, sempre colla stessa sensazione amara di disgusto. Il passaggio delle donne, che talvolta a quell'angolo gli sfioravano quasi il ginocchio colla gonnella, lo tirava inconsciamente ad altri pensieri: qualche profumo vaporante dalle vesti errava nella sera, nomi femminili salivano dai crocchi vicini a lui, mentre al di là della strada, in quel largo dinanzi al loggiato, fra i tavolini, molto signore si erano già fermate, e i camerieri correvano affaccendati, recando o togliendo i bacili. La festa diventava più tentatrice nelle ombre della notte; pochi bambini erano ancora in giro, nell'aria agitata da uno scirocco leggero soffiavano improvvise caldezze. Le donne, quasi belle a quell'ora, avevano nel passo qualche cosa di diverso, un'ondulazione, che gli abiti festivi rendevano più provocante, quindi voltavano il capo allungando i sorrisi, o si chiamavano fra loro a sussurrare una confidenza non difficile ad immaginarsi. Egli si accorgeva di osservare tutto questo intorno a sé. E quell'invito brutale di Ponti gli ritornava più insistente dalla varietà di quella scena trepida di voci e di fruscii femminini. Perché aveva adunque rinunciato? Fra la folla delle donne ne distinse alcune, delle quali in gioventù era stato l'amante: passavano come le altre, sedotte e seduttrici, in quella prima notturna promessa della primavera. Si capiva, si vedeva che la gente, immemore delle proprie sciagure, o magari a cagione di queste, voleva esaltarsi gaudiosamente in tutte quelle sensazioni, che, risvegliate dai rapidi contatti della strada, nei brevi incontri ai caffè, ingrosserebbero a cena fra la crapula dei discorsi e la fiamma dei bicchieri, per irrompere più tardi nei convegni colle donne irritate dalla troppo lunga attesa. Egli stesso aveva fatto così mille volte, senza riflettervi. Conosceva quelle stanze della Marietta, nell'angolo di un vicolo, sopra un'osteria, poco lungi dalla piazza. La Marietta, non ancora vecchia, pareva quasi un uomo alla durezza della fisonomia e con quella voce grossa. Raramente capitava da lei qualche bella ragazza. Se avesse seguito Ponti, non vi sarebbero in due rimasti più di mezz'ora, giacché in quel luogo si entrava e si usciva, avendo preso tra le braccia per cinque minuti una donna incognita, come lungo la strada i carrettieri si arrestano talvolta ad una bettola e vi bevono un litro in piedi, presso il banco dell'oste. Anche Camilla doveva spesso aver fatto come le altre, prestandosi all'amore momentaneo, nel baratto assurdo di un bacio contro uno scudo, senza piacere, senza pudore, senza memoria. Si ricordano forse certe cose e certi appuntamenti? Ma se ciò non fosse, forse la gente impazzirebbe; tutto nella vita ha la propria immagine falsa, l'amore e la gloria, il vizio e la virtù, e quando il sangue fermenta improvviso, o l'anima non resiste più alla visione di sé medesima, si ricorre a queste falsificazioni come ad un rimedio, che placa il male senza ingannarlo e ci lascia, nella prostrazione dello sforzo compito, una più pronta facilità al riposo. Il suo sguardo frugò rapidamente la strada, che da quell'angolo del caffè Rondinini saliva parallelamente al Corso, per vedere se Ponti ritornava, pentendosi già in cuore di non averlo seguito. Tutto quell'incubo di morte, così soffocante da venti ore, gli faceva schizzare dalla coscienza un desiderio acuto, quasi stridente, di gustare anche una volta quel piacere che, falsato, rimane pur sempre senza confronto con alcun altro. Perché resistere? Aveva egli paura che gliene fosse domandato conto dopo la morte? Come quei condannati, cui era tutto permesso nell'ultimo giorno, e che si sentivano prendere subitamente da golosità frenetiche, egli avrebbe voluto adesso una donna a qualunque costo; era quasi un orgoglio di sfida lanciato al mistero della tomba, un estremo impeto di profanazione contro tutto quanto stava per abbandonare. Le stesse contraddizioni, delle quali nel giorno aveva tanto sofferto, gli si mutavano in un bisogno anche più spasmodico di afferrare per l'ultima volta la vita nel suo momento più intenso, e spremerla, col superbo sottinteso della morte, in una sola stretta. Pregustava già una gioia acre nel constatare l'inintelligenza della donna davanti all'orrore imminente di tale tragedia, con quella falsità di carezze sempre uguali nell'amore gratuito o venduto. Sul marciapiede di contro, rasente all'ultimo gradino della grande scalinata, in quel momento passò l'Anitra, una donna di trent'anni, cui il portamento dei fianchi troppo bassi aveva meritato questo nomignolo: era sola, vestita al solito con una certa modestia, malgrado il proprio mestiere di etèra plebea. Si alzò di scatto per seguirla, nessuno gli aveva badato. Dovette passare attraverso molti gruppi di donne, ma dai loro sguardi si accorse subito di essere sospettato, perché andava troppo dritto su quella traccia. Sapeva dove ella abitava: un vicolo remoto, lercio, dal nome purissimo "Delle Vergini": ma l'Anitra rasentò la fontana a sinistra. Si era accorta di lui. Allora egli non osò più accelerare il passo, il pentimento lo ripigliava. Ella proseguiva adagio, con quel suo pesante ondulamento delle anche, che si distingueva bene nell'ombra rotta dai fanali. I capelli neri le facevano un grosso mazzo sulla nuca. La gente si rarefaceva ancora, lungi dalla piazza, l'ombra s'infittiva: egli passò sull'altro marciapiede per essere più libero. - Perché non la fermo? - si chiese, senza saper rispondere. Tuttavia quell'orgasmo gli durava, si sentiva battere il cuore, come altre volte recandosi a qualche convegno passionale; aveva i sensi irritati e quella leggerezza, che il desiderio della donna sembra dare a tutto il corpo. L'altra rivolse la testa. Egli la riconobbe: il suo viso tondo dalle guance troppo rosse, col mento quasi da bambina, gli occhietti chiari. Gli parve di distinguere persino quella riga grassa sotto il collo, la cosa che più in lei gli era piaciuta. - Non ha altro lei! Anche Camilla, che cosa aveva di più? Quando si è eccitati, si farebbero delle pazzie per loro, e dopo non ne resta niente. Le donne sono tutte uguali: Caterina getterà qualche urlo, poi non ci penserà più, come le altre. Gli sciocchi siamo noi, a credere che esse ci amino. Chi ama? Io stesso, che mi sono rovinato per questo, amo forse Camilla adesso? Intanto proseguiva sul marciapiede, sempre alla stessa distanza. Un uomo fermò l'Anitra, che girò ancora la testa indietro; egli si arrestò, mentre i due invece seguitavano innanzi chiacchierando a bassa voce. Allora svoltò al primo vicolo allungando il passo per ritornare in piazza. Erano le otto e mezzo. Improvvisamente, tra quella moltitudine festiva, si ricordò di una biroccia incontrata nel pomeriggio, lungo la strada di circonvallazione, dinanzi al nuovo macello. L'aveva guardata con una sensazione di stupore, poi non ci aveva pensato altro. Era una delle solite biroccie, verniciate di turchino, dalle ruote alte, tirata da un grande mulo secco; un vecchio carrettiere senza giacca le veniva di fianco, con un mozzicone di frusta nelle mani e una pipetta quasi senza cannuccia fra i denti. Egli si era dovuto ritrarre sull'orlo del fosso per non lasciarsi schiacciare, seguendola collo sguardo sino alla svolta della strada, dove il canale si allarga in una immensa pozzanghera. La biroccia, colma di stracci e scossa da un triste tremito di paralisi, pareva tratto tratto stridere lamentosamente sotto il cumulo delle miserie, che le gonfiavano i fianchi. Gli stracci, gettati gli uni sugli altri a palate, si confondevano in un colore sudicio, dentro al quale qualche cosa biancheggiava ancora, un rimasuglio di candore fra tutte quelle immondizie lasciate indietro dalla vita, e nullameno raccolte da qualcuno per viverne. Egli aveva veduto tutto alla prima occhiata, l'aggrovigliamento di quei cenci tessuti con ogni sorta di fibre, lacerati, sfrangiati, coperti di macchie e di croste, che ricordavano altre piaghe, esalandone ancora il puzzo grasso e penetrante. Una polvere cinerea ondeggiava sopra di essi ad ogni traballone senza potersene staccare, mentre la massa, scrollandosi con una mollezza di carne in putredine, rabbrividiva ancora sotto un volo di mosche affamate. E sopra i suoi fianchi, lievi brandelli riaccendevano tratto tratto nel sole qualche pallore di lino o luccicore di seta, tosto soffocato dalla bigia pesantezza degli altri stracci, che si spostavano senza cadere, come se tutte le loro morti vi si tenessero avvinghiate. Una fetida nausea di cadaveri veniva da quella bara, coi segni tuttavia visibili della vita passata, già fermentante nell'ultima dissoluzione. Tutto lì dentro era stato nuovo in altri giorni: quante migliaia di gente vi aveva lasciato il segreto della propria esistenza! Quanto vino, quanto sudore, quante lacrime, quanto sangue vi erano caduti! Quanti sogni vi rimanevano ancora, che sparirebbero nella medesima buca! Dalla camicia della vergine al mantello del soldato, dalla fascia del bimbo al grembiule del beccaio, dalla veste che tutto un popolo aveva ammirato, all'abito che l'accattone aveva lasciato solamente morendo, forse nulla di quanto la vita umana aveva adoperato per nascondere la propria nudità, mancava in quella bara. Il pensiero avrebbe potuto frugarvi senza fine, come dentro un cimitero. Egli ne aveva ricevuto confusamente questa impressione nella fugacità di un istante, poi aveva riflettuto che dovevano essere stracci troppo sordidi per cangiarsi in carta dopo il solito imbianchimento, e destinati quindi come concime a qualche grassa coltivazione. Adesso la visione immonda gli ritornava in piazza come un finale ironico, che conchiudesse quella festa, trattando allo stesso modo gli abiti e coloro che li portavano. Infatti la bellezza nella vita non dura più della primavera nell'anno: uno splendore di qualche mattino, una purità sorridente di cielo, qualche dolcezza nei tramonti, poi il sole brucia tutto daccapo, e l'autunno imputridisce quanto il sole ha bruciato, e l'inverno seppellisce quanto l'autunno ha imputridito. Quella folla di immemori era attesa come lui dalla morte a un gomito improvviso della strada: uno per uno avrebbero provato la stessa angoscia subitanea nel crollo di tutto il passato, davanti alla impenetrabile oscurità dell'avvenire. E vi arriverebbero forse peggio di lui, logori, maculati di putredine come i cenci di quella biroccia, esalando già prima di morire il fetore della decomposizione sepolcrale. Forse valeva meglio andarsene così, ancora intatto, nella pienezza delle proprie forze e del proprio dolore. La gente condanna i suicidi per dispetto della paura, che questi non hanno avuto. Un pensiero bizzarro gli solcò la mente: se la gente, volendo, potesse non morire mai, vi sarebbero egualmente dei suicidi? Qualcuno si ammazzerebbe ancora, per odio della vita? Il problema era troppo profondo nella sua stravaganza, perché egli potesse trovarne la soluzione, ma vi pensò nondimeno qualche tempo. Sapeva che le bestie non si suicidavano, pur essendo esposte a tutti gli stessi mali fisici della umanità. Era dunque l'anima che anelava alla morte, era la mente che si ribellava alla inutilità dello spasimo! Infatti la povera gente, quella che vive più materialmente, non pensa mai al suicidio: non la fame uccide, ma l'umiliazione di mostrarsi affamato fra la gente satolla. Chi nacque accattone, mendica per tutta la vita, e trova forse la felicità in quest'ozio; chi invece è costretto da un disastro a questuare, non potrà mai perdonare né a se stesso né agli altri lo strazio di tale subordinazione. La sua angoscia in quel momento stava appunto nel sentirsi come un mendicante fra la folla allegra e spendereccia, che non gli avrebbe dato un soldo. Essere espulso dal mondo, come sono cacciati i poveri importuni dalla porta, quando si commise l'errore di lasciarla loro oltrepassare! - La carità? - pensava. - Ma, se ci scacciamo l'un l'altro da tutti i posti, se dovendo tutti morire, la morte degli altri non ci tocca nemmeno... Dov'è la carità? Anch'essa è un lusso di certi istanti: si dà qualche cosa, perché la momentanea gioia di chi riceve aumenta la nostra giocondità. È come nei pranzi: ci vogliono degli invitati; ma si amano forse i proprii invitati? Bisogna essere in molti ad una festa di ballo; ma la soddisfazione di ognuno è appunto nel primeggiare sugli altri, vedendoli così segretamente iracondi del piacere loro tolto. * * * Sapeva che non vi sarebbe entrato, ma da venti minuti passeggiava sull'altro marciapiede, dinanzi alla porta della propria casa. La gente si era diradata anche nella piazza, solo nei due grandi caffè, più vivamente illuminati, proseguiva la festa della domenica. Poche donne passeggiavano ancora. Egli si era diretto verso casa, per abitudine: Caterina doveva aspettarlo e, non vedendolo comparire, avrebbe certamente pensato che volesse evitare un nuovo discorso sulla zia Matilde. Lungo la strada notò molte finestre illuminate; era quella l'ora più dolce, dalle nove alle nove e mezzo, quando le donne rientravano, e si andava a cena chiacchierando della giornata, con quella contentezza di non aver lavorato, e non pensando ancora alle necessità dell'indomani. Egli si riproduceva nella mente la scena di Caterina coi fanciulli a tavola; questi volevano senza dubbio l'altra metà della zuppa inglese serbata a pranzo per il giorno dopo, mentre ella, indispettita per la nuova assenza di lui, si ostinava nel rifiuto. Improvvisamente, questo piccolo dolore dei bambini, prodotto dalla sua assenza, gli divenne intollerabile. - La mia assenza! - si ripeté sottolineando questa parola, della quale si era inconsapevolmente servito. Caterina era poi andata dalla zia Matilde? Questa domanda lo forzava a riflettere sull'orario, secondo il quale la posta distribuiva le lettere; ma si persuase subito che la sua non sarebbe recapitata prima delle nove, all'indomani. Chi era il postino, che faceva il servizio per il rione della zia Matilde? Forse essa, riconoscendo la calligrafia, avrebbe aperto la lettera prima ancora che quegli avesse potuto uscire di casa: e allora? In un baleno vide tutto il dramma dopo la propria morte, ma così rapidamente, in una luce così intensa, che non poté sostenerla. Camminava senza accorgersene, a testa bassa, con tale fiacchezza, che qualcuno fra i rari passanti avrebbe necessariamente finito col notarlo; arrivava dal campanile di San Lorenzo, il più alto della città, nel mezzo della strada, sino alla barriera. La notte era stellata, il fiume, ridivenuto quasi secco fino dalla mattina, non mormorava più come nella notte antecedente; i primi fanali del borgo illuminavano sinistramente le alte spalliere del ponte in ferro. A forza di andare su e giù, la coscienza tornava ad assopirglisi nel ritmo stesso di quell'impulso, ma nel passare dinanzi alla propria porta alzava sempre gli occhi. Due finestre v'erano illuminate, quella della saletta da pranzo e, all'ultimo piano, l'altra della camera da letto di don Procopio. Se non che la luce filtrando appena di fra le griglie, diventava impossibile sorprendere nell'interno il passaggio di un'ombra. Si ricordò dei progetti con Caterina nel primo periodo del matrimonio per un restauro alla facciata della casa: sarebbe stata una spesa di quasi duemila lire, alla quale avevano rinunciato senza fatica. Caterina invece avrebbe desiderato di accomodare qualche stanza nel podere a Santa Lucia in Vado per potervi villeggiare di qualche guisa nell'estate. Anche quello era stato un sogno impossibile. Tutto dileguava, per sempre! Si dovrebbe vendere ogni cosa dopo, quasi subito, in mezzo a una disperazione piena di rimproveri contro di lui: eppure egli non ne soffriva più in quel momento. Come se il grande distacco si fosse già compito, vedeva tutto a una distanza troppo grande, con quella indifferenza che ci lasciano le cose impossibili alla nostra volontà. In lui non sopravviveva che l'abitudine, quel fascio di rapporti indefinibili, onde l'uomo è legato alla propria casa, quella incapacità di pensare sé medesimo in modo diverso dal come si è vissuti, tutte quelle impronte incancellabili, colle quali la vita compose la nostra fisonomia spirituale. La casa, con quanto vi stava dentro, era come una parte di lui stesso. Il tempo passava. Quella passeggiata lenta, uguale, aveva finito coll'attrarre l'attenzione delle due guardie daziarie sedute al fresco fuori della gabella; si erano alzate e lo spiavano. Allora egli diè volta bruscamente, ma quando fu al campanile non seppe andare oltre. Voleva vedere quella finestra ancora una volta. L'orologio della piazza sonò le dieci e un quarto, il lume passava sempre attraverso le griglie: allora si ricordò che Caterina soleva spesso la sera ripassare la lezione dell'indomani a Ada. - Finché c'è il lume non me ne vado, - borbottò ostinatamente. Ma le guardie si erano messe a passeggiare, e venivano verso di lui: dovette tornare indietro. Per un momento pensò di salire con un pretesto, salutare tutti e scappare; titubava, si sentiva affranto. Ritornò ancora, ma siccome le guardie stavano ferme in mezzo alla strada, a quaranta passi dalla gabella, fumando, si persuase di essere sorvegliato. Quasi ciò potesse distogliere i sospetti, traversò la strada per venire sull'altro marciapiede, volgendo daccapo la schiena alla propria casa. Poi un passo sollecito gli risuonò dietro. - Oh tu, Romani! - Tu, Landi? - Esci di casa? - Sì. - Io non ho potuto cenare a casa mia: un'altra scena con quella linguaccia di mia moglie! Vado al Falcone, accompagnami. * * * Aveva già bevuto due ponci, seduto all'ultimo tavolino di sinistra nella prima sala, col gomito appoggiato sulla cassa di vetro, nella quale si conservavano le paste. Gaudenzi, l'impiegato del telegrafo, non si era ancora veduto, l'avv. Guglielmi doveva essere al club, quel vecchio maestro chiacchierino giocava nell'altra sala, e s'udiva spesso la sua voce in falsetto salire fra scoppi di risa. Una malinconia fredda gli era penetrata sino dentro le carni, come certe umidità notturne, contro le quali non sembra giovare alcuna bontà di panni. Nel caffè, pieno degl'insoliti avventori domenicali, il chiasso cresceva più villano; erano gruppi di artieri in gazzarra dal pomeriggio, vestiti con pretensiosità plebea, dalle faccie inintelligenti e vanitose. Quasi tutti portavano un piccolo cappello a cencio sull'orecchio, e tentavano sui divani o sugli sgabelli la posa più provocante, giacché pareva loro una specie di conquista quel bere ai tavoli, dove per solito sedevano i signori. Nei loro discorsi, quasi tutti di politica, ritornava sempre la stessa frase con voce sempre più alta, o con accento più marcato, mentre in fondo ai loro sguardi vaghi nel primo imbambolimento dell'ebbrezza, s'accendevano piccole fiamme. E i più irrequieti si guardavano intorno, cercando qualcuno dall'aspetto signorile per la compiacenza di potersi momentaneamente, davanti a lui, mostrare in una ostilità mimica. Egli vedeva tutto questo senza che alcuno gli badasse, perché non era mai stato veramente un signore. Colla testa abbandonata sull'alta spalliera rossa del divano, una mano in tasca, osservava i cerchi di fumo turchiniccio allontanarsi, dilatandosi lievemente dalla punta dello zigaro, nell'aria già greve di tutti quegli aliti. Al momento di entrare sotto il loggiato aveva rivolto la testa verso il grande orologio della piazza, illuminato: segnava le dieci e mezzo. Le ore, così lente nel giorno, si erano tuttavia involate con una rapidità raccapricciante. Si tastò la rivoltella nella tasca sinistra della giacca, pensando un'altra volta, con un senso d'impazienza, come non avesse incontrato né lo strozzino, né il signor Bonoli, né il pretore, che dovevano conoscere il suo dramma. Credeva che la loro vista sarebbe bastata a raddoppiargli l'energia, almeno per quella necessità d'ingannarli sino all'ultimo col fingersi indifferente. Invece, per tutta quella lunga giornata, nulla era venuto ad aiutarlo: aveva recitato troppo bene dissimulando. La sua fine doveva compiersi come per qualunque altra malattia, senza né ricevere né dare ad altri alcuna insolita emozione. Perché? A che cosa serve la morte? Perché era nato? Se non vi erano perché, tale infinita inutilità diventava il più profondo dei misteri. Nel bisogno di scostarsi dall'ultimo momento, il suo pensiero fluttuava daccapo all'urto delle sensazioni, che gli si rinnovavano nella memoria. Il babbo e la mamma, pieni per lui di tenerezza, lo avevano allevato in un bel sogno di avvenire, addormentandosi per sempre nella tristezza sconsolata di una disillusione finale; egli aveva amato i proprii bambini, rifacendo sopra di essi il medesimo sogno. Perché? Questa parola lo sbalzava da un altro lato; Camilla era passata una sera dinanzi a lui, si erano parlati, egli aveva provato un rimescolamento profondo, non aveva capito più bene, si era rovinato per lei senza accorgersene, e senza che ella se ne accorgesse. Perché? Lo strozzino, d'accordo col signor Bonoli, aveva portato la sua cambiale falsa al pretore: volevano mandarlo in galera? Volevano costringerlo al suicidio? Perché? Che cosa importava loro? Era così. Tutte le vite si rompono come bicchieri l'uno contro l'altro, senza che alcuno abbia mai potuto leggervi la marca di fabbrica, o indovinare chi verrà a raccoglierne i cocci. Solamente allora si accorgeva di aver sempre agito senza un perché; tutta la sua esistenza non aveva un solo atto necessario, che la spiegasse, all'infuori dell'avere mangiato e dormito, due bisogni istintivi per mantenerla. Il resto rimaneva inesplicabile. Camilla e Caterina erano entrate nella sua vita quasi allo stesso modo, egli non aveva riflettuto in nessuno dei due casi; era diventato padre così, perché le donne rimangono gravide, ecco tutto, e aveva allevato i figli per un altro istinto. Gli affari, i divertimenti dipendevano sempre dalle circostanze, anche quando si voleva combinarli con ogni studio possibile: perché dunque si pensava e si soffriva tanto? La sua mente ritornava alle meditazioni della mattina su quell'argine del fiume, nel silenzio della campagna, con un nuovo terrore degli stessi problemi. Ma invece di domandarsi se Dio era, e come ci giudicherebbe nel momento dopo la morte, si sentiva sopraffare dal mistero primordiale della vita. La nozione, per lui oscura ed inevitabile, di un creatore, non faceva che rendere ancora più inintelligibile il quesito: perché si nasce? Anche se Dio esistesse, e dovesse punirci o premiarci dopo morti, la ragione di averci voluto in questo mondo non si vedeva. Se egli era Dio, che cosa poteva importargli di noi? La nostra vita non spiegava sé medesima, mentre l'antagonismo fra la sua legge e la nostra volontà, per lui che ne doveva sapere anticipatamente il risultato, diventava una ridicolaggine. Che bisogno c'era di nascere, per dover pensar sempre senza capire nulla di nulla, soffrirne di tutte le sorta, e morire non avendo compito niente? Essendo cattivi, aggraviamo l'uno contro l'altro le nostre disgrazie, essendo buoni, ci aiutiamo scambievolmente contro il male che non abbiamo fatto, ma che ci tocca patire ad ogni modo. E davanti a questa tenebrosa fatalità del male, che si varia nella vita per tutta la gamma del dolore, dalla più lieve fitta corporea alla più larga lacerazione spirituale, egli tornava sempre a chiedersi, con l'insistenza spaventata di un bambino: perché si nasce? Un terrore fantastico gli faceva pensare a qualche potere mostruoso, che dirigesse il mondo e vi rinnovasse continuamente tutte le crudeli necessità: così i viventi dovevano divorarsi a vicenda per mangiare, e straziarsi l'un l'altro per godere. Infatti, non vi era gioia nella società, che non fosse un dolore per qualcuno; non nasceva nel mondo un individuo, senza essere composto coi resti di altri morti, non si poteva respirare, senza uccidere milioni di microbi, senza inghiottirne altri milioni, che dovevano ucciderci. La legge suprema era dunque la morte: nessuno vi sfuggiva, nessuno aveva torto o ragione davanti ad essa. L'immaginazione esaltata da quella crisi troppo lunga, gli si smarriva in una continua evanescenza di quadri orribili, che mettevano in quel suo sonnambulismo una specie di incubo. La sua faccia era diventata bianca, cogli occhi fissi, mentre il chiasso delle voci e il tinnìo dei bicchieri nelle sottocoppe e nei bacili cresceva sempre da tutti i tavoli. - Ho qualche cosa sullo stomaco, portami un bicchierino di cognac, - disse. Il cameriere si affrettò sorridendo; il padrone, bell'uomo, già cameriere nello stesso caffè pochi anni prima, si accostò fumando in una elegante pipa di schiuma, a testa di cavallo. - Che cosa ha mangiato, signor Romani? - gli chiese cortesemente. - Non lo so neppur io. - Forse dipende anche da tutta questa gente! - l'altro soggiunse a bassa voce, girando intorno un'occhiata di disprezzo. Si era seduto famigliarmente sopra uno sgabello accanto a lui. - Questa sera la sua partita è andata a monte. Ha letto la nuova appendice del Secolo ? - e si allungò per prendere dal banco un fascio di giornali: - a me pare bella assai. Romani rimaneva distratto. - Ecco Montalti! - esclamò il padrone, vedendo entrare quello scrivano storpio, che venne diritto al loro tavolo; poi capitò Cavina, il muratore wagneriano; Rotoli, il vecchio maestro chiacchierino, che aveva finito la partita nell'altra sala, si fermò anch'esso dinanzi a loro. Era quasi la stessa conversazione di tutte le altre sere. Il padrone ricominciò il discorso sul nuovo romanzo del Secolo - Idillio tragico -di Bourget, spiegando come gli paresse bello, perché Montecarlo vi era dipinto colla massima esattezza. Egli vi era stato, da giovane, nelle proprie peregrinazioni di cameriere. Ma lo scrivano, socialista malcontento, protestò: quello era un romanzo aristocratico, buono a nulla, giacché gli scrittori di vero ingegno non potevano occuparsi che delle miserie popolari. - Ho letto anch'io qualche appendice di questo nuovo romanzo del Bourget, - e pronunziò il nome come era scritto. Allora Cavina lo corresse, corsero frizzi. - Tu sei un wagneriano. - E me ne vanto. - Wagner era socialista. - Va! se daranno il Lohengrin in carnevale, vedrai quanto popolo vi andrà, - ribatté l'altro, che intanto aveva preso il Secolo per leggere le notizie dei teatri. Fortunatamente nessuno di loro si sentiva in vena quella sera, poi vi era troppa gente nel caffè, e Montalti davanti alla brutalità di quelle sbornie, che stavano già per scoppiare, non osava i soliti sproloquii. La voce fessa e la sillabazione troppo staccata e monotona, colla quale declamava, gli avrebbero attirato dal pubblico qualche villana interruzione. Si misero a parlare di donne: anche Cavina quella sera era stato in casa della Marietta. - La ragazza era bella? - chiese Montalti con un luccicore di gatto negli occhi. - C'è ancora, parte col diretto di un'ora dopo mezzanotte. Romani si voltò: - E dove va quel treno? - Bella! a Bologna. Rimase perplesso: - Ci sono altri treni? - Prima di giorno? Quello che da Bologna ritorna per Ancona alle tre, e l'altro che arriva da Ancona verso le quattro e mezzo, perché rimane ancora impedita la linea di Porretta. - Ah! - Deve partire, signor Romani? - gli si volse il padrone. - Sì, - e la voce gli si era fatta quasi dolce. - Dove vai? - domandò Cavina. - Non lo so. - Un mistero dunque? - Grande. Tutti sorrisero. Ma il baccano domenicale li teneva in disagio. Lo scrivano, malgrado le declamazioni socialiste, sapeva di essere poco gradito; Cavina era sospettato di aristocrazia per i modi abbastanza garbati e quella istintiva predilezione della grande arte, che lo traeva imprudentemente a ridere delle commedie e delle musiche gustate dal popolino; il vecchio maestro, benché simpatico per la dolce ingenuità del carattere e l'onestà della lunga vita, s'irritava troppo, nella lieta viridezza di tutte le proprie forze, contro ogni critica alla parte moderata. Egli era rimasto dentro la formula cavourriana, condannando ad alta voce tutti gli eccessi politici e le demenze atee dei nuovi rivoluzionari. - Eh, maestro! - esclamò Cavina; - ecco qui altri due suicidii a Torino; non c'è più religione. - Voi lo dite per ischerzo, giovinastro. - Come si sono ammazzati? - domandò Romani. - Uno si è avvelenato, l'altro si è gettato sotto il treno. E Cavina lesse i due incisi di cronaca, secchi, terribili. - I giornali non dovrebbero nemmeno stampare certi fatti, - disse il maestro: - le teste leggere si esaltano e, una volta esaltate, li commettono più facilmente. - Allora io sono una testa pesante. Possono raccontarne dei suicidii, io non mi suiciderò mai, - replicò Cavina. - Chi può dirlo? - ribatté Romani. - Io! Stai pur sicuro. Ammazzarsi per amore o per debiti, giacché la gente si ammazza quasi sempre per queste due cause? Per amore? Se una donna non ti vuole, ve ne sono sempre troppe disposte a prenderti; e quanto ai debiti, aspetterò che si ammazzino prima i creditori. Se io non ho quattrini per pagarli, mi pare che nell'imbarazzo ci siano essi. Si rise. Romani non rispose. - La gente si ammazza, perché la società è in isquilibrio, - sentenziò Montalti. - Si è sempre ammazzata in tutti i tempi, dev'essere una malattia. - Colpa di non credere in Dio; la nostra vita ha il suo scopo altrove. - Quale? - domandò Romani al maestro. - Quale? - ripeterono ad una voce Cavina e Montalti. - Dio..., - cominciò il maestro. - Non deve aver parlato molto chiaro, - interruppe sorridendo il padrone, - perché si discute ancora su quello che ha detto. Fatto sta che, quando la gente sta male, se ne va; non c'è altro di evidente. Nessuno può dire che non si ammazzerà... le circostanze sono tante! Tutti si arrestarono perché, pochi mesi prima, l'altro suo socio nel caffè si era appunto suicidato con un colpo di rivoltella alla tempia destra. Però Montalti, che voleva sempre dire l'ultima parola scientifica, propose il problema: - Quale categoria di persone dà minor contingente al suicidio? - I preti, perché stanno meglio di tutti, - si affrettò a rispondere il padrone. - I milionari, - ribatté Montalti, con quell'acre accento d'invidia, proprio a quasi tutti i socialisti quando parlano di signori. - T'inganni; c'era appunto venerdì sul Secolo un articolo, non ricordo più di quale scienziato, che spiegava come le probabilità del suicidio aumentino in ragione della ricchezza. - Non può esser vero, - si ostinò Montalti. - Lei, maestro? - tagliò corto il padrone. - Coloro che non sentono più la religione. - Lo sapevo... Romani doveva dire ancora la sua, ma dal tavolo prossimo due o tre operai si erano voltati, udendo il quesito, ed ascoltavano le risposte. Uno proruppe: - Lo dico io: i beccamorti! essi sanno meglio degli altri che la morte è brutta: la morte è come una donna, ma finché non ci pare bella, non commettiamo la sciocchezza di sposarla. - Bene! - fu gridato in coro. - Un bicchierino a Matteo! - Questo voglio offrirlo io, - disse il padrone alzandosi: - mi sei piaciuto nella risposta. * * * Guardava il grande orologio nero fra le due scansie gialle, al disopra della porta. Gli altri se n'erano andati in gruppo, e a poco a poco quasi tutti i tavolini erano rimasti deserti, mentre l'aria della notte, entrando leggera dalla bussola spalancata sul portico, spazzava i vapori dei ponci e dei sigari. Dal fondo della cucina giungeva, tratto tratto, un tintinno dei bacili e dei bicchieri, che il facchino lavava forse per la centesima volta nella giornata. Collo sguardo fisso sul quadrante dell'orologio, egli misurava il muoversi lento della grande freccia, che segnava i minuti; ne mancavano undici a mezzanotte. A quell'ora in punto uscirebbe dal caffè. Il sangue gli batteva a grosse ondate sul cervello, facendogli vacillare la vista. Adesso era quella paura materiale, che i nervi non possono più sopportare nella estrema imminenza della catastrofe, quando il pericolo cessa oramai di esser tale per il compiersi stesso del fatto. Non c'era più tempo di riflettere, di soffrire: fra pochi minuti sarebbe entrato nell'orbita della esecuzione. Quindi tutto quanto aveva patito nel giorno gli si condensava in uno spasimo solo, attanagliandogli ogni fibra del corpo e dell'anima; sentiva, dentro, un incalzare di sensazioni, una ressa di idee, uno sbaraglio di memorie, come quando un falco piomba sopra una nidiata di pulcini e ne ghermisce uno a volo, risalendo al cielo con un solo colpo d'ala, e tutti gli altri si sbandano esterrefatti fra le erbe alte del campo. Il suo sguardo era diventato così acuto, che distingueva veramente quel minimo spostarsi a gradi delle frecce. Tutta la sua vita stava ancora in quel piccolo segmento, interrotto dalle cifre nere e madreperlate del X e del XI, due spazi che si sarebbero riempiti con due dita. Non aveva altro. Avrebbero potuto offrirgli chi sa che cosa, e non sarebbe bastato ad allungargli di un altro dito la vita. Il padrone era tornato dietro il banco, e si era messo a contare dei soldi da una scodella di legno. Romani pensava: - Non ho più che otto minuti. La freccia gira senza sapere il perché, ma se sbagliasse, il tempo passerebbe egualmente nella stessa misura: non si può fermarlo. Ecco qui, questi ultimi otto minuti sono inutili, vuoti, come tutto il resto della mia esistenza! Che cosa posso fare? Rimango qui, non mi muovo, eppure il tempo mi trascina. Debbo finire prima di essere logorato: quando l'orologio si ferma, è forse logoro? Finirò così; una ruota che s'incaglia, e la freccia si ferma. Anche la vita è un circolo come quello dell'orologio: tutte le ore sono identiche, non significano nulla; il tempo non è soggetto all'orologio, più che la vita non dipende da noi. Potrei essere il più potente uomo del mondo, e tutta la mia volontà non saprebbe da questo posto arrestare quella freccia, che va sempre... È già passato un altro minuto. Debbo essere pronto. Si portò ambo le mani al volto, strofinandoselo violentemente come per destarsi. Nel caffè entrò un altro gruppo d'operai, più avvinazzati di quelli che n'erano usciti, ma per fortuna si fermarono in fondo agli ultimi due tavolini presso la bussola. Vide il padrone uscire dal banco e passargli dinanzi per servire prontamente i nuovi avventori, perché i camerieri erano in quel momento nel retrobottega. - Debbo decidermi! Non capiva che questo, la necessità ultima, la stretta suprema, senza nome, nella quale già soffocava. Tutto il resto non esisteva più. La febbre gli faceva battere i polsi, tremava in quell'incertezza dello smarrimento finale, che toglie tutte le direzioni, pur sentendosi nel profondo certi impeti, simili ai guizzi della candela che si spegne. Aveva appoggiato la testa sopra ambo le mani, per non guardare più l'orologio; gli pareva di ascoltarlo, benché non l'udisse. - Appena mi alzo di qui, sarò morto! Caterina, i miei bambini saranno già altre persone; adesso sono ancora mia moglie e i miei bambini... per cinque minuti. Poi, più nulla. Non c'è altro. Ho fatto il possibile inutilmente; quella prima cena all'Aquila d'oro mi ha ammazzato, mi ha ammazzato quella donna, che non ho amato; non la conosco nemmeno, adesso, ella non mi conosce più. Domani ci sarà ancora il sole, senza di me. Non ho più che due o tre minuti... È impossibile, sento che è impossibile, non avrò mai il coraggio di uccidermi! Non lo aveva: la testa gli pesava sempre più sulle mani, come una cosa morta. Si tastò ancora la rivoltella nella tasca. - Con questa, no. * * * Il medesimo gruppo, dal quale Matteo si era voltato per dare anch'egli la propria soluzione al problema proposto da Montalti, rientrò vociando nel caffè; erano stati a bere nella liquoreria sotto il campanile della piazza, e ritornavano per bere. Parve che vedendolo ancora a quel posto, si decidessero unanimemente, senza consultarsi, con una di quelle intese da ubbriachi, a gettarsi sul suo tavolo. Egli spaventato si alzò. In un lampo aveva veduto sulla faccia di Matteo, invanito di quella prima risposta, l'intenzione di riparlarne; si voltò verso il banco, ma era già tardi. Il gruppo lo circondava; avevano gli occhi imbambolati, e sui volti madidi quella espressione vaga di spavalderia ostile. Il padrone ripassò dietro il banco, mentre uno dei più briachi cadeva quasi di peso sopra uno sgabello borbottando: - Cognac! - Beva un bicchierino con noi, signor Romani; ho risposto bene poco fa, non è vero? - Mi sei piaciuto, Matteo, - tornò a dirgli il padrone con accento di sottile canzonatura: - bisogna bere per trovare simili risposte. - Adesso vogliamo bere tutti insieme; anche lei, signor Romani. In quel momento Romani vide le freccie dell'orologio sovrapporsi segnando mezzanotte; così in piedi, n'ebbe come un colpo di martello sul cuore, ma avvertiva ancora benissimo quanto gli accadeva intorno. Senza rispondere, fece atto di andarsene. - Questo poi no, - insisté un compagno di Matteo, mentre il padrone diceva: - Se ne va, signor Romani? - Addio, Enrico! - rispose questi tendendogli la mano. L'accento e la forma del saluto erano così insoliti, che l'altro ne rimase sorpreso, però fu pronto a stringergliela. Romani si mosse: allora Matteo volle sbarrargli la via, ma l'altro lo respinse con un gesto. Si alzò un mormorio di disapprovazione. - Va là, - uno gli gridò dietro, - che anche tu sei un bel signore, per fare così l'aristocratico! Il padrone, invece, gli teneva dietro con occhio pensoso, avendo sentito la sua mano tutta bagnata di un sudore diaccio. * * * Romani traversò il portico con passo tentennante, e si fermò nel largo, davanti alla fontana. La notte era sempre bruna, ma piena di stelle, i fanali avevano un chiarore pallido, velato, come il murmure della fontana chiusa entro quella funerea cancellata a palle di ottone. - No! - rispose ad un pensiero, che lo avrebbe condotto a porta Appia, passando ancora una volta sotto le finestre di casa. Pel loggiato, e per quel largo, non si vedeva alcuno; abbassò la testa, e si avviò verso il corso Garibaldi, che conduceva difilato alla vecchia stazione ferroviaria. Una forza oscura lo spingeva in linea retta, come una cosa, mentre la sua mente acquistava, grado a grado, una certa lucidità: come sempre, la fascinazione della meta lo aveva preso, appena entrato nell'orbita della esecuzione, eccitandogli quel coraggio fisico proprio degli animali. Nella luce opaca della notte le case perdevano i piccoli particolari delle proprie fisonomie, le sonorità anche più lievi sembravano attardarsi nell'aria. Egli sentiva solo di andare, appoggiandosi come sulla sensazione medesima del proprio passo sul marciapiede, così che, nel passare dinanzi ad ogni porta, l'interruzione del muro gli faceva un'impressione meno rapida e tuttavia lontanamente simile a quella degli alberi fuggenti agli sportelli dei vagoni, quando il treno corre veloce. Prima di arrivare alla grande barriera fiancheggiata da due casotti giallognoli, rigati e rabescati come due grandi gabbie da canarino, verdeggiava sul piazzale di una chiesa un piccolo giardino dominato da un alto abete storpio alla cima. Il getto esile della fontana, sprizzante da un sasso e ricadente sopra una minima vasca, sembrava un singulto di bambino nella notte: un ranocchio mise uno strido gutturale e tacque subito. Nessuna finestra era illuminata. Il cancello della barriera apparve alto, massiccio, coi lampioni sulle due grosse colonne centrali; al di fuori nereggiavano i tigli dei due viali fra le case del sobborgo. Egli vide da lontano la guardia passeggiare, fumando uno zigaro, dinanzi alla gabella; nella notte nessun rumore, nessun incontro. La guardia gli aperse colla chiave il piccolo cancello a sinistra, pel quale passavano i pedoni, e rinchiuse. Egli ne risentì la scossa, l'ultima che gli dava la città; piegò a sinistra per la via di circonvallazione, lungo il canale fiancheggiato da due alte file di pioppi bruni, ombrelliferi. L'aria era più fresca, il silenzio diverso: cori di ranocchi si rispondevano a distanza nella notte, passavano dei brividi nell'aria, qualche fronda dormendo pareva percossa da un'ala fuggente, un odore di terra e di verde saliva da per tutto. Egli allentò il passo. Sapeva che avrebbe preso per la scorciatoia del Borghetto, prima d'arrivare al nuovo macello, per salire l'argine sinistro del fiume, presso al grande ponte della ferrovia. La distanza dalla barriera al Borghetto era breve; sulla sinistra sorgevano alcune case nuove di fabbri, di falegnami, di piccoli bottegai, il commercio dei quali viveva appunto non pagando dazio. Egli andava sempre innanzi spinto da quella forza oscura, che in noi sembra sostituire la volontà, quando questa non è più sufficiente a dirigere la vita. Il sonno della campagna era però meno profondo che quello della città: le piante sognavano, e la loro respirazione e i loro fremiti turbavano l'aria; miriadi d'insetti, amanti o lavoratori notturni, vi si muovevano, la terra medesima non aveva quella insensibilità dei selciati e dei marciapiedi. I suoi occhi perdevano la fissità atonica, la frescura tornava a vivificargli la pelle. Improvvisamente gli apparve davanti la vasta pozza, nella quale si allargava il canale, immota come un grande antico specchio appannato; le due righe dei pioppi nascondevano le mura della città. Il Borghetto, formato da un solo vicolo, aveva un unico fanale in fondo: vi passò. La strada, pessimamente selciata, sfiancava, avvallando, per un sentiero fra un'alta siepe e un ruscello, poco più largo di un fosso. Odori immondi e penetranti crescevano appunto dove finivano le case. Dovette badare al come poneva i piedi per non cadere; l'argine s'alzava di contro. La sua linea, biancheggiante pel sentiero che le orme vi avevano impresso e che l'erba orlava scuramente, spiccava nello sfondo dell'aria, simile ad una larga striscia d'argento. Quando vi fu salito, abbassò gli occhi sul fiume vacuo, del quale i grandi archi del ponte in pietra e laggiù la spalliera dell'altro in ferro nascondevano le estremità, quindi si volse contro le mura. Solo la chiesa di sant'Ippolito col suo campanile, e l'altro di san Lorenzo e quello della piazza si distinguevano bene: il resto era una massa cupa, incerta, nell'ombra. Egli n'era già fuori per sempre. E allora gli parve, stando fermo, che la città si allontanasse, oscillando lentamente dinanzi a lui. * * * La notte era bruna. Nell'aria vagavano sentori di foglie e quell'indefinibile aroma, che la terra fecondata sembra alitare nel maggio: l'erba era umida, le stelle brillavano sul silenzio notturno pieno di sussurri. Dentro al fiume larghe pozzanghere s'illuminavano tratto tratto di tenui chiarori, mentre laggiù, sul ponte di ferro, i lampioni parevano contigui, e più lontano l'ombra oscillava. Oltre gli argini del fiume non si coglieva che un avvallamento della tenebra in una invisibile profondità, dalla quale si sentivano salire le preoccupazioni terrifiche della notte. Le linee del paesaggio, circoscritto dagli argini e dai ponti, si confondevano oscuramente, pur serbando lo stesso aspetto regolare intorno a quella cavità del fiume, rimasto senz'acqua e senza voce. Non si vedevano case: solo il ponte della ferrovia aveva un biancicore roseo di muro, sulla cima del quale fantasticamente alto, guardava nella notte il grande occhio rosso del disco. Egli vi si incantò. La colonna di ferro sotto il disco si distingueva appena, giacché il piano della ferrovia, sfuggendo dai parapetti del ponte, vaniva esso pure dinanzi a quella enorme pupilla rossa senza una oscillazione. Così ebbe daccapo paura: i fanali lontani dell'altro ponte in ferro sparivano nella loro chiarezza come dentro un bagliore, mentre quel rotondo occhio rosso non illuminava, e vedeva e doveva essere visto ad un'immensa distanza, come una scolta ciclopica sulla ferrovia deserta nella notte. Era rimasto in piedi, inchiodato sul sentiero biancastro. Dal ruscello, che per una larga chiavica passando sotto l'argine sboccava nel fiume, la nota tremula di un rospo s'interruppe timidamente; gruppi lontani di ranocchi gracidavano con violenza, coprendo un vocìo sottile di grilli, che si confondeva d'intorno. Dopo aver guardato da ogni canto si voltò ancora verso la città; dietro la sua lunga massa, bruna come una scogliera di notte, pallidi chiarori sembravano uscire da invisibili cavità; ma non pensò più che egli era vissuto là dentro per trentasei anni. Solamente guardava. * * * Sul ponte della ferrovia il casello del guardiano era illuminato; egli strisciò guardingamente lungo il parapetto pel sentiero lasciato dall'alta ghiaia, sulla quale poggiavano le rotaie, affrettando il passo per non lasciarsi sorprendere, giacché si ricordava come fosse severamente proibito di transitare per le linee della ferrovia. Non sapeva se il guardiano avrebbe fatto la ronda d'ispezione prima dell'arrivo del treno, ma quel divieto bastava in tale momento a fargli paura. La strada ferrata si allungava dinanzi a lui dritta, piana, nera, con quei due regoli sottili, in una uniformità e in un silenzio inesprimibile: nessuna traccia, nessun suono, nessun segno. Aveva voltato la schiena al disco, e scorgeva dinanzi a sé per cento metri un filo luminoso sulla costola interna delle rotaie; null'altro. Quel piano troppo stretto gli limitava la vista, mentre una impressione gelida gli veniva da quelle due rotaie inamovibili, che non si sarebbero toccate mai. Di qua e di là della strada i campi bassi s'affondavano in un'ombra più densa, dentro la quale si distinguevano appena i ciuffi dei primi grandi alberi. Ma i suoi occhi guardavano sempre sulle rotaie quel tenue filo luminoso, che sembrava avanzare con lui. Finalmente era solo. A quell'ora, in quel luogo, per quella strada non passava alcuno; sentì di non essersi mai trovato in una solitudine simile. Vedeva la ghiaia tersa, quasi vi fosse stata posta da poco tempo, e le rotaie luccicargli dinanzi, brunite. Quindi si ricordò di esservi trascorso in vagone molte volte, di notte e di giorno, senza prestarvi attenzione: chi guarda alla ferrovia? Gli occhi sfuggono sul paesaggio che scompare. Adesso invece la solitudine di quella strada, così diversa da tutte le altre, l'opprimeva. Si fermò al quinto palo del telegrafo, volgendosi indietro, verso la stazione. Incontrò il grande occhio rosso del disco fiso sopra di lui, e laggiù un riverbero largo d'incendio prossimo a spegnersi gl'indicò il luogo della stazione. Pareva molto più lontano che non fosse. D'un tratto, nel silenzio della notte, udì il grosso orologio di sant'Ippolito battere le ore dal campanile; le contò rattenendo il respiro. - Due quarti dopo mezzanotte, - esclamò voltandosi istintivamente verso Forlì, donde doveva giungere il treno. * * * Dall'altro lato della strada un'ombra passò con una lanterna nella mano; istintivamente egli girò dietro il palo del telegrafo, abbracciandovisi per non scivolare dall'alta ripa, e tenne il fiato. La lanterna nell'allontanarsi lentamente allungava un riverbero oscillante sulla vicina rotaia, si udiva la ghiaia stridere sotto un passo pesante. Era la ronda del guardiano; dal fondo della notte doveva presto spuntare la prima luce del treno. Il guardiano vigilava, secondo il solito, quel tratto di linea di là del ponte, perché non vi accadessero disgrazie; a un certo punto la lanterna di un altro guardiano avrebbe risposto alla sua, e il disco muterebbe il proprio rosso ardente in un vivido color verde. Romani sapeva tutto questo, giacché in una bella notte d'estate, l'anno prima, se lo era fatto spiegare dal guardiano sul ponte, ove aveva fatto sosta con alcuni amici. Quella notte gli risorse nella mente coi più minuti particolari; si ricordò dell'immenso soprabito biancastro, una meraviglia fra gli eleganti del paese, che allora portava Mario Angelini. Anche questi era morto. Ma una paura lo tenne nascosto, così abbracciato al palo, togliendogli ogni facoltà di ragionare; aveva pensato che il guardiano nella propria ronda potesse passare dal suo lato, e allora scoprendolo gli avrebbe necessariamente intimato di andarsene. Che cosa rispondere in questo caso? Avrebbe l'altro indovinato il vero motivo? Il palo ogni tanto vibrava, percosso da tremiti improvvisi. Era un dispaccio che passava irresistibile, invisibile sul filo, o una oscillazione, che questo, mosso dall'aria della notte, imprimeva al palo? La sua attenzione rimase per qualche tempo divisa fra il brontolio interno del palo e il luccicore saltellante della lanterna già molto lontana. - Ritornerà dal mio lato? Lo credette istantaneamente, quindi svegliandosi come da un sogno, che quel ritorno avesse già rotto, si disse: - Me ne vado. Nuovamente tutto dipendeva da questo caso. Un'angoscia di speranza lo soffocò, accorgendosi della vivezza dei raggi che la lanterna retrocedeva; sarebbe bastato che un suo bagliore traversasse la strada e gli battesse sul viso ad impedire la disgrazia, per la quale appunto si ordinavano le ronde. La lanterna si avvicinava sempre. Allora tornò a tremare di essere scoperto, ma, per una reazione quasi di collera contro sé medesimo, si mise di sbieco, perché lo spessore del palo lo nascondesse meglio. Voltandosi, laggiù, vide una luce. * * * Era il treno, ma non era ancora che una fiammella misteriosa nella notte. Pareva immobile, tutto rimaneva immoto intorno, il guardiano era scomparso dentro il casello: nel silenzio tranquillo dell'aria non un soffio, il fiume taceva. Un brivido del palo gli passò per tutto il corpo facendolo tremare a verga a verga, mentre, laggiù, quella fiammella rimaneva sempre così piccola e ferma. Un impeto freddo gli raggomitolò l'anima in uno di quei terrori sùbiti, senza nome, dei sogni. E strinse violentemente il palo guardando. La fiamma appariva rossastra come in un'aureola, entro la quale pareva di scorgere le larghe maglie tremule di una rete nera. La sua immaginazione si rappresentò subito la marcia rapida, folgorante, del treno apparentemente fermo per la sua stessa velocità, con quei due immensi occhi di fuoco, che gli rischiaravano la strada. Veniva da lungi, andava lungi, nero, veloce, misterioso, fatale. Nulla poteva arrestarlo; il suo respiro era mostruoso; ansava, soffiava fumo senza perdere la lena, senza spossarsi nel palpito enorme, scivolando sulle rotaie che tremavano, sfondando la notte inconsapevole. Non aveva meta, si arrestava, ripartiva; la gente spariva nei suoi vagoni neri, tappezzati all'interno come stanze, vi si obliava chiacchierando, in una fede sicura al mostro immane, che non aveva mai saputo nulla e non saprebbe mai nulla di coloro, che viaggiavano nel suo ventre. Di giorno e di notte, in qualunque stagione, sotto il sole, sotto la pioggia, sulla neve, andava sempre; il suo tremito diventava più profondo traversando i ponti, il suo respiro si faceva asmatico sotto i tunnels, dai quali prorompeva con un fischio trionfale d'ironia avventandosi giù per le valli, e non di meno ubbidendo docile alla mano, che gl'imponeva di rallentarsi dinanzi alle prime case di un villaggio. Era la forza stessa del sole diventato carbone, che si sprigionava daccapo in un altro fuoco; era la giovinezza eterna del moto, che crea tutte le giovinezze. Si ricordò la frase invidiosa di don Procopio: come è sempre giovane, è sempre come la prima volta che lo si guarda! In un attimo, la sua fantasia aveva riveduto tutti i quadri e tutti i sogni della vita. Quel treno misterioso nella notte trasportava indifferentemente gli uomini e le merci, i dolori e le gioie, era esso medesimo tutta la vita nella sua corsa perpetua che nulla può fermare, nella sua insensibilità, nella sua fiamma, nel suo rombo, nel suo orgoglio vincitore di ogni ostacolo. Bastava salirvi per sfuggire subito a tutte le proprie difficoltà, e non essere più che uno sconosciuto fra sconosciuti, in viaggio verso una meta non confessata, a ricominciare sopra una terra nuova la vita quasi consunta in un'altra. Tutto diventava piccolo dinanzi al prodigio di un treno: impotenza ed impossibilità non sono che conseguenza di un luogo, risultati di un ambiente, mentre la vita sempre giovane, corre sempre, si rinnova, si perpetua, dimentica, divora il tempo e lo spazio, bella come il sole che l'accese, più lunga del sole che si spegnerà. L'uomo non è più nulla, se vuole contraddire o dominare la vita, non ne può saper nulla, non vi deve mutar nulla: la morte vera è quando il nostro corpo si rompe da sé, ma allora la vita intorno non se ne accorge. Bisogna vivere come si può, più che si può, bisognerebbe poter vivere sempre. Un tremito profondo del palo lo scosse; la campagna sempre addormentata non si accorgeva che il treno l'oltrepassava vigile ed indifferente come il pensiero. Allora l'umiliazione, che gettandosi sotto quel treno ne sarebbe stato stritolato senza produrvi nemmeno una scossa sensibile, lo vinse. E se il macchinista, avvertendo il caso, arrestasse la corsa, quel cadavere di uno sconosciuto, che faceva perdere qualche minuto al treno, non sarebbe stato che uno spiacevole incidente per tutti. - Perché si sarà gettato sotto il treno? - si sarebbero appena domandato tra di loro gl'impazienti. - Ma s'intendeva già il suo rombo, si distinguevano i due fanali rossi, dilatati, abbacinanti; la terra incominciava a tremare, l'aria palpitava, dalla notte desta di soprassalto uscivano sussurri inquieti, giù pei campi alcune voci spaurite sembravano richiamarsi. Egli sentì tutto questo. Come se le fiamme dei fanali gli fossero entrate per gli occhi nel cervello, non vedeva più, mentre la stessa convulsione spasmodica lo faceva stringersi sempre più violentemente al palo, che oscillava quasi scosso da una bufera. Era tardi, non c'era più tempo. Il treno gli fuggiva agli occhi enorme, nero, con quel ventaglio di fiamma dinanzi, respingendo tutto col suo respiro di fornace; dalle rotaie parevano sprizzare fiammelle, una colonna di fumo illuminata internamente si distendeva sopra di lui, dietro di lui, come una bandiera: e al disotto, fra lunghe fessure, si distingueva ancora una vivezza di braciere, dal quale sfuggivano faville e bracie, che cadevano e si spegnevano. Egli si volse; il disco guardava col grande occhio verde, lungi dal disco un trenta passi l'ombra del guardiano protendeva ancora la lanterna nera col piccolo vetro rotondo. Nessuno sospettava adunque di una disgrazia. Sarebbe stato uno slancio, uno scricchiolio e più nulla. Davanti alla rapidità spaventevole del treno capì che egli avrebbe potuto essere anche più rapido, gettandosi bocconi sulla rotaia per lasciarsi passare sul collo l'immane valanga. Quest'ultima sensazione gli durò, quando il treno col proprio vento non lo scuoteva più così abbracciato al palo; e i vagoni neri s'inseguivano quasi contigui nell'ombra, e dai finestrini si travedevano dentro gabinetti illuminati, rossi, scuri, in una nudità di legno, o non si vedeva nulla, mentre i vagoni fuggivano chiusi sino alla cima, oscuri e sinistri come catafalchi. * * * La notte non mutava. Seduto presso quel palo, colle gambe abbandonate giù per la ripa erbosa, aveva ancora nella fantasia ansante quella visione. Aveva ascoltato il fischio d'arrivo e quello di partenza, gli ultimi rumori e gli ultimi tremiti nella notte, con l'angoscia che si prova solo sfuggendo momentaneamente alla morte. Nessuno fra quanti viaggiavano su quel treno si era certamente immaginato che a quel palo qualcuno fosse rimasto in dubbio di gettarsi sotto le ruote per finirla colla esistenza; ciarlavano o dormivano, nel pensiero dell'arrivo, trasportati dalla corrente della vita, più impetuosa ancora del treno. Potervi s alire e vivere, null'altro! Egli lo aveva sentito con una intensità, che gli rovesciava nella coscienza tutte le ragioni della morte. Il treno gli era apparso dentro una poesia strana ed imperiosa: la sua forza, il suo impeto esprimevano un trionfo costante nell'orgoglio del suo stesso prodigio. Ognuno dei viaggiatori, rapiti dalla sua foga, avrebbe potuto essere già sfinito nelle novissime disillusioni della morte, e non avrebbe meno provato, nel profondo della coscienza, la vittoria di quella corsa. Ma gli era rimasta nella fantasia quella successione di gabinetti rossi, coi divani a mezzo ricoperti dai grandi, grossolani merletti bianchi, sui quali aveva traveduto qualche testa di donna. Qualcuna andava forse a Parigi, un sogno che egli aveva rifatto tante volte inutilmente, ciarlando cogli amici nelle dolci notti di estate, quando, non sapendo come meglio ammazzare il tempo, andavano sino alla barriera per veder passare il treno della mezzanotte. Egli si ricordava le invidie provate nei brevi tragitti dinanzi ai viaggiatori esteri, così riconoscibili alla disinvolta eleganza del vestito e dei più minuti comodi di viaggio: erano i felici, i veri padroni del mondo, pei quali i climi non avevano inconvenienti e le stagioni mutavano indarno. Il lusso di queste esistenze superiori gli riappariva davanti come un quadro rosso di quegli scompartimenti di prima classe, ammantellati di ricami bianchi, con delle teste di donne soffuse di un tenue pallore. Tutto era bello: i cuoi delle valigie avevano tinte esotiche, i fermagli sprizzavano raggi fra il disordine soffice dei veli, degli scialli, delle coperte gettate alla rinfusa, in alto, sulla piccola rete. Si fumava, si chiacchierava, alcuni leggevano il giornale. Invece egli era venuto in quella notte per gettarsi sotto il treno. Si strinse con ambe le mani la testa per riordinarvi i pensieri: perché dunque non lo aveva fatto? Non seppe rispondere. * * * Ma voleva farlo. Sentiva sempre la suprema inutilità del suicidio, quantunque non gli tornasse nella mente un ricordo della famiglia abbandonata, e non gli rampollasse dal cuore un rimpianto della vita trascorsa. Dopo quella lunga giornata, era rimasto veramente solo. La morte, balenatagli così terribilmente nel primo tumulto di quella lettera, lo aveva poco a poco affascinato come il vuoto, nel quale nessuno sguardo può fissarsi lungamente: egli aveva resistito precipitandosi da ogni lato, ma perdendo sempre qualche cosa in ogni sforzo, sentendo svellersi dal profondo del proprio essere una per una tutte le più sottili radici. Doveva essere così, perché la coscienza arriva sempre nuda dinanzi alla morte. L'anima affacciandosi all'infinito non può essere che sola: i morenti mutano allora fisonomia, poiché sono già assenti prima di essere morti, mentre tutto quanto formava la loro vita non ha più nemmeno il valore di un passato, e il futuro non traspare ancora dalla torbidezza del mistero finale. Così solo, non aveva più né coraggio né paura. Lungamente pensò al tempo che gli rimaneva da passare in quella posizione. Nessuno lo aveva sospettato durante il giorno, nessuno lo aveva ancora visto, nessuno quindi lo vedrebbe su quella strada. Chi poteva pensare che egli stesse per morire? Quale influenza poteva avere la sua morte? Solamente la sua volontà vegliava ancora nell'attesa dell'ultimo momento. * * * Per quella necessità di far pure qualche cosa finché si è vivi, macchinalmente si cercò nelle tasche un sigaro per fumare, ma non ne aveva: poi si sdraiò lungo il sentiero, sul margine della ripa, perché quella posizione, così seduto, gli aveva indolenzito la schiena. La terra gli diede sotto la nuca una impressione di frescura. A sinistra, nel cielo, si era formato un largo, sottile velo scuro, le stelle splendevano piccole e rade. Tutto taceva. Al di sopra di quel silenzio assonnato, la vigilia eterna degli astri rompeva le ombre dell'infinito, ma la tenebra sulla campagna era così densa che tutto vi era naufragato. Il suo sguardo salì attratto dal tremolio di quei fuochi di bivacco, e si perdette nella loro confusione. La volta cerula si allontanava ugualmente, da qualunque punto l'occhio la contemplasse, per una distesa trasparente come le fiammelle che vi bruciavano nella inutilità della loro distanza senza misura. Nella sua mente oscura egli non riceveva che questa impressione. Le poche nozioni scientifiche apprese nelle scuole non avevano potuto dargli un concetto vivente del cielo; le stelle, come tanti mondi simili alla terra, probabilmente popolati come la terra, erano rimaste per lui un'idea vuota, un'ipotesi smentita ad ogni notte dall'apparenza del fatto. Il suo pensiero, troppo piccolo, come quello del popolo, per accogliere le spiegazioni della scienza, ritornava involontariamente alla primitiva concezione poetica del cielo, una volta azzurra, punteggiata di fanali e magnificamente spiegata sul mondo. Ma tutto era sulla terra. Questa rappresentazione immutabile per lo spirito umano e contro la quale nessuna scienza potrà prevalere, non gli dava anche adesso che una sensazione di stupore; per concepire le stelle come tanti mondi uguali al nostro, avrebbe dovuto immaginarsele spente, e allora gli sarebbe parso di non poterle più vedere; quindi l'enormità del loro mistero, moltiplicata per l'infinito del loro numero e per quello anche più terribile dei destini, che vi si svolgevano, avrebbe soffocato istantaneamente il suo pensiero. Egli guardava quel cielo senza una piega, velario diafano e costellato, che avvolgeva la terra oscura, tutta piena di dormienti destinati a morire, mentre l'anima gli si assopiva sempre più in un torpore di coma. Il lungo, dissolvente lavoro dell'agonia si era omai compito dentro di lui: un vuoto aveva inghiottito il suo spirito, e tutto quanto gli restava di vita non era più che un moto di abitudini. Tale ultimo stadio gli dava appunto quella calma, che appare sempre così inesplicabile nei condannati a morte. * * * In quella torpidezza così simile al sonno, che teneva la campagna, il suo corpo si riposava dalla stanchezza della lunga giornata. La frescura era blanda, l'aria tranquilla. Sdraiato lungo il sentiero, colla testa in alto, non vedeva più nella strada ferrata né il disco, né il palo del telegrafo: solo i fili neri di questo, tesi sopra il suo capo, formavano come una scalea di un significato misterioso, mentre gli steli alti del fieno si ripiegavano sul margine della ripa a toccargli le vesti, o cedevano sotto la sua mano distratta, inumidendogliela. Se qualche cosa avesse attraversato la notte in quel momento, soffio o voce, il suo spirito l'avrebbe seguita come si muovono nell'aria le piume di essa più lievi. Il sopore gli si faceva sempre più profondo, la vita vegetale della terra l'invadeva. Era per lui come un benessere di albero sbattuto dal vento, arso dal sole nel giorno, e che di notte ridiventa fresco, e dalle foglie ristorate manda un murmure indistinto. Qualche stella sembrava tremolare nel sorriso della propria luce, altre si stringevano a gruppi entro un albore diafano, e altre più remote scintillavano tratto tratto, quasi barattando segnali di scolte. Ma tutto era pace anche lassù: una dolcezza di riposo si spandeva su tutte le cose; perfino il fiume aveva cessato di muoversi, e i ranocchi adunati nelle pozzanghere dei campi non gracidavano più. * * * Un lungo brivido gli discese dal pensiero giù per le reni, mentre un fischio stridente, quasi di un proiettile, gli passava sulla testa. Il fischio seguitava rompendosi nell'acutezza di appelli ripetuti, la terra tremava: prima ancora di essersi potuto levare in piedi aveva scorto nuovamente la pupilla verde del disco dilatata nell'ombra, e al disotto di essa, sulla ghiaia della strada, un chiarore che si muoveva colla lanterna del guardiano. Era il treno delle tre, un misto, che veniva da Bologna. Rimase dritto, cogli occhi laggiù, spalancati sulla luce saliente dalla stazione invisibile. Non aveva raccolto di terra il cappello, si sentiva un continuo soffio agghiacciato sulla faccia, la gola gli si era improvvisamente disseccata. Sbirciò due o tre volte il vetro verde del disco, sorvegliando l'ombra del guardiano; non tremava, ma era come se tutto tremasse intorno a lui. Aspettava in una tensione, che non gli permetteva di fare un moto neppure coll'anima. Aveva i capelli irti e la bocca aperta: il suo sguardo s'illuminava di una profonda chiarezza interna. Il fischio ricominciò, poi a un certo momento parve un urlo, che l'immane respiro della macchina già in moto soffocasse; stridé ancora. La lanterna del guardiano si era alzata. Si vedevano distintamente i due fanali rossi e, più in alto, una oscillazione oscura di fumo: egli guardava ancora, attonito, senza respirare, scosso dal tremito convulso della terra, che pareva sfuggirgli sotto i piedi. La sua vita non aveva più che alcuni minuti secondi. La macchina ebbe uno sbuffo più violento. Rapidamente, inconsapevolmente, si gettò bocconi colla testa sulle rotaie; la rotaia tremava. Egli guardava venire la macchina, ma non vedeva più che un immenso ventaglio di fiamma alto come una parete, la terra oscillava sotto di lui; chiuse gli occhi e sentì sulla ghiaia, nel medesimo attimo, il palpito del proprio cuore e i battiti dell'orologio. Istintivamente aperse le braccia puntando le palme sulla ghiaia, abbacinato dall'immenso fulgore di quell'incendio, che si precipitava contro di lui rugghiando. I suoi occhi sostennero per un istante l'urto, non capiva, non sentiva; poi gli parve che il ventaglio di fiamme si sollevasse, si vide la macchina lanciata a volo sulla testa, come un'enorme arco di ponte che ardesse, un vento impetuoso gli sferzò il volto, mentre la terra squarciata da un ultimo sforzo si apriva sotto di lui. - No, no! - ebbe appena il tempo di urlare, ritraendo disperatamente la testa, che la macchina gli era forse già a soli venti metri. Un torrente nero; solido, alto: un soffio gelido ed irresistibile lo gettò quasi giù dalla ghiaia, sulla quale puntellava ancora le mani, raggricchiato nello sforzo istintivo di farsi più piccolo, senza potersi muovere, chiudendo gli occhi ad ogni vano fra vagone e vagone, come ad una scudisciata che gli fendesse a mezzo le pupille. E il treno enorme, vertiginoso, freddo, nero non finiva. All'ultimo vagone egli rotolò sul sentiero. Quando si rialzò non vide più il treno. * * * Egli se ne andava lungo il sentiero, a testa bassa. Una vergogna amara di quanto gli era accaduto aumentava sulla sua coscienza, come dopo la pioggia in certe pozzanghere cresce l'acqua. Si era gettato sotto il treno cedendo alla pressione di una forza interna che lo spingeva, e la sua ragione, rianimata dal fracasso della macchina, aveva avuto irresistibilmente paura. La sua volontà, incapace di qualunque sforzo, non si era più mossa, quando puntato sulle mani, colla testa rasente ai predellini dei vagoni, aveva sentito sfilare ruinosamente tutto il treno. L'aria, che fuggiva smaniando fra i larghi raggi delle ruote, gli schiaffeggiava il volto gelato da uno di quegli orrori fantastici, pei quali nella notte i fanciulli perdono la voce. Egli non si era immaginato la morte così enorme, con quella onnipotenza di uragano! Adesso tutta la sua natura di uomo timido ed inetto ripigliava il sopravvento. Una specie di buon senso gli diceva sommessamente che aveva avuto ragione di aver paura: lo spettacolo del treno, veduto colla testa sulle rotaie, era qualche cosa d'inesprimibile, d'insopportabile. Le rotaie oscillavano sotto la sua fronte, quasi come il filo del telegrafo quando il vento soffia impetuoso, la terra reboava, quel ventaglio di fiamma, formato dalla congiunzione dei due fanali, si dilatava sempre come per la spinta di una eruzione, dalla quale sfuggiva in alto un'immensa colonna di fumo. Era una scossa saltellante di valanga, con un rombo di tuono fra schianti di baleni e un vento freddo e una minaccia fulminea che rovesciava, dissolveva tutto dinanzi a sé. Perciò non aveva resistito. Per un solo istante si era irrigidito nel duello, premendo la tempia sul ferro gelido della rotaia collo sguardo ardente su quell'incendio; sarebbe abbisognato che il treno non fosse stato più che a tre metri, e allora forse il delirio stesso gli avrebbe fatto mantenere la posizione. Ma uno spavento lo aveva avviluppato, e lo cacciava nuovamente per quel sentiero nella notte tranquilla. Dove andare? Sentiva di avere ancora paura della morte, che gli era quasi passata addosso con quel treno oscuro e fiammeggiante, nell'impeto procelloso di una vittoria: ne aveva rimasto l'abbarbaglio negli occhi e il vento nei capelli. La sua faccia non gli sarebbe parsa più la medesima, se avesse potuto vederla; era di un pallore lapideo, cogli occhi vitrei e una specie di smorfia immobile sulla bocca. Come tutti i toccati dalla morte, aveva mutato. Nel suo stesso terrore gli rimaneva qualche cosa di estraneo alla vita, un senso di profondità interminabili, un freddo di caduta per una ruina di abissi. Infatti quel treno non gli era parso che si allontanasse per la strada ferrata, ma era dileguato per lo spazio, come il tuono, in uno di quei rapimenti che accendono a razzi le stelle. * * * Si arrestò. Aveva camminato per qualche miglio, senza por mente alla diversità della sottoposta campagna nella tenebra. Si accorse di essere tutto bagnato di sudore e di rugiada, il luogo non pareva mutato, e le rotaie gli si perdevano sempre dinanzi a pochi passi sul piano oscuro della strada. - Diranno che ho avuto paura! Infatti lo avrebbero detto, vedendolo così. Era stato lo sbigottimento inevitabile della morte, giacché il coraggio non è appunto che uno sforzo contro di esso, che la gente non vorrebbe mai vedere in coloro che debbono morire. Il soldato, il condannato titubante divengono istantaneamente spregevoli; bisogna che entrambi fingano il disprezzo, quasi la provocazione, perché tutti si esaltino in questa vittoria della volontà umana. Ma il suicida, che si vantò, per una qualunque ragione, di gettare la propria esistenza come un cencio immondo dietro di sé, non ha più diritto alla paura. In questo caso la gente insorge contro il falso temerario, che voleva sottrarsi alla pressione della morte, più greve ancora di quella dell'aria, giacché ci mantiene aderenti alla vita malgrado tutti i dolori: e le contumelie diventano la rivincita dell'umiliazione, che il coraggio inesplicabile di ogni suicida infligge alla moltitudine sempre invocante la morte e singhiozzante di viltà ad ogni sua apparizione. Chi l'ha voluta davvero, non può ritornare nella vita. È una consacrazione come quella che la religione pratica sui propri sacerdoti, i quali non sanno più riconfondersi cogli altri uomini. Egli si rappresentava tutto questo oscuramente, nelle scene che ne sarebbero seguite a casa sua e nel caffè. Si ricordava di alcuni, che avevano annunziato il proprio suicidio, di altri ancora più infelici, che vi erano sopravvissuti rimanendo per tutti un oggetto di scherno. Se egli fosse tornato addietro, avrebbe intoppato nella ilarità di tutto il paese, unanime, dopo una simile commedia, nel giudicare anche più abbietto il suo dramma. Poi, conosceva la zia Matilde, che appena aperta quella lettera ne avrebbe gettato le alte grida per tutta la casa e per le strade, correndo da Caterina. Come intercettare quindi quella lettera? Perché intercettarla? Per quanti sforzi avesse voluto fare, non gli sarebbe riuscito di tornare indietro: la sua anima vuota non amava, non si doleva più, ma, sola dinanzi a sé medesima, assisteva come uno spettatore al supremo duello della volontà contro l'istinto. Se non che, finite tutte le ragioni del vivere, la vita resisteva ancora al pari di ogni involucro alla pressione che doveva spezzarla, ed egli provava un'ultima indicibile vergogna per se stesso nel riconoscersi così pauroso. Solo una specie di testardaggine, un impegno col proprio orgoglio, l'obbligavano a morire. Aveva sempre la rivoltella in tasca, ma non pensò nemmeno un istante a servirsene; dopo quel primo infelice esperimento, temeva di fracassarsi la testa senza uccidersi, perdendosi così in un'altra fine peggiore di tutte le morti. Infatti un suicida sopravviveva ancora in paese, dopo essersi asportato con un colpo di pistola quasi tutta la parte inferiore del volto: era un giocatore non vecchio, che da quel giorno non aveva più osato uscire di casa, e pel quale la serva, diventata sua moglie, cercava l'elemosina. Ma se avesse potuto davvero analizzare sottilmente se stesso, in quella ripugnanza ad uccidersi con la rivoltella avrebbe scoperto qualche altra cosa, poiché a quel modo si sarebbe veramente ucciso da sé, mentre invece non voleva che morire. Gettarsi sotto il treno e lasciarsi schiacciare! Non egli avrebbe distrutto sé medesimo, ma un'altra forza, un mostro vivente, ansante, il più prodigioso uscito dalla mente umana. Egli sentiva un'ironia nella antitesi della propria debolezza contro tale onnipotenza, nel mutare quello stupefacente veicolo di vita in uno strumento di supplizio. Era come una vendetta contro la società, che lo costringeva a morire colla assurda contraddizione delle proprie leggi coi propri costumi. Infatti il suo suicidio non aveva altro motivo. La natura non ha bisogno del nostro concorso per ucciderci, il mondo solo ci condanna al suicidio: quando la nostra presenza non vi è più possibile, sentiamo la necessità di morire, per non durare come un rimasuglio fra la gente. La società non è pari alla natura, nella quale anche i residui hanno un valore. Ognuno crea se stesso in una classe o in una funzione con indelebili caratteri, ma, distruggendo questa personalità, non gli rimane né posto, né gruppo. Allora erompe la contraddizione fra l'istinto che vorrebbe vivere, e la ragione che non sa più trovarne il modo. Infatti egli non aveva, coll'imprudenza di quella cambiale falsa, sciupato che la propria condizione in paese, così che potendo trasportarsi altrove non avrebbe quasi nulla perduto. La morte, cui si umiliava, era un omaggio al giudizio della società, un tragico complimento all'importanza della classe, nella quale era nato. Come marito, come padre, come uomo, egli consentiva a non poter vivere se non come aveva vissuto fino allora, mentre intorno a lui le migliaia e migliaia vivevano egualmente bene entro la condizione, nella quale sarebbe precipitato; ma poiché la nostra vita è anzitutto spirituale, una mutazione della sorte vi ha infinitamente più importanza che qualunque altra della natura. Dalle più grandi tragedie ai più minuscoli drammi, non si tratta mai che di suicidio, di una immolazione che l'individuo fa di se stesso alla società, come vittima espiatoria delle colpe altrui o delle proprie. Quindi la vergogna dell'aver avuto paura lo mordeva anche allora, che nessuno se n'era potuto accorgere. L'orgoglio necessario al suicidio, quella esaltazione di sentirsi maggiore degli altri, appunto gettando ciò che è tutto per essi, gli era venuta improvvisamente meno. Vile come coloro, per non somigliare ai quali moriva, si era gettato disperatamente indietro dalla rotaia, invece di lasciarvisi sfracellare. Egli aveva provato confusamente, in quei brevi istanti, una specie di compiacenza ironica e superba al pensiero di insudiciare col proprio sangue il lucido cerchio delle ruote, arrestandone forse, magari per un secondo, la marcia trionfale. Lo avrebbero visto fracassato, irriconoscibile, inorridendo in quella inesprimibile paura della morte, che gela istantaneamente tutti i cuori! Sarebbe stata la sua rivincita dopo morte, perché anche il suicidio ha bisogno di averne una. * * * Seduto accanto al palo, coi gomiti sulle ginocchia e la fronte fra le palme, piangeva. Dopo aver girato lungamente innanzi e indietro per il sentiero, in un orgasmo di febbre, era ritornato allo stesso punto, vinto dal fascino misterioso, contro il quale lottava. Era stata una corsa miserabile di fanciullo smarrito per la notte che si sente aggredito a ogni tratto nell'invisibile e non osa gridare nemmeno inciampando. Non poteva decidersi, non sapeva andarsene; qualche altro treno doveva passare prima di giorno. Quando rivide quel palo, ne provò un sollievo come di una meta; la luce del disco era sempre rossa, lontanamente la stazione aveva quel largo riverbero d'incendio. Qualche lagrima calda gli scivolava fra le mani e le guance, sciogliendosi con un sottile bruciore di sale. Era l'ultimo pianto, quello che non si sente più, perché tutto è già morto di dentro: i suoi occhi piangevano, come talvolta le ferite lasciano uscire goccia a goccia il sangue, mentre il moribondo sente ancora che col sangue se ne va la vita. La natura stessa esprime talvolta un simile pianto in certi squallori di paesaggi autunnali su praterie opache, sotto un cielo grigio, senza un vivente che le attraversi e senza case; o fra roccie appannate e riarse, in una nudità di cadavere. E vi è un dolore sotto le pietre, e pare un pianto l'umidità che l'aria del crepuscolo vi lascia. * * * Un gallo cantò. L'aria era ancora così scura, ma il sereno del cielo principiava ad imbiancare in una purezza sempre più scialba: le stelle adesso rade perdevano quel tremolio che le ingrandiva, ogni vapore si era disciolto. Senza che ne apparissero ancora i segni, l'alba si avvicinava. Nell'aria più fredda altri brividi passavano, simili a sussurri mano mano più intensi. Toccò un ciuffo d'erba sull'orlo della ripa, e ne ritrasse le dita imperlate di rugiada. Da quell'altezza della strada cominciava a discernere la campagna. Gli alberi scoprivano già le cime, disegnando la regolarità dei loro filari; poi un altro gallo cantò e un crocchio di rane volle rispondergli, ma la loro voce notturna si spense all'improvviso. Gli parve di udire come uno schiaffo di imposte nel muro, una luce apparì. Non era più la notte. Laggiù il grande riverbero della stazione si appannava, mentre dietro le mura della città quel vapore luminoso aveva cessato di salire dalle strade invisibili, e in alto, molto in alto, i tre campanili spiccavano rigidamente. Un freddo gli strinse lo stomaco. Sebbene il casello del guardiano sembrasse chiuso, si allontanò guardingamente dal palo, perché sul margine della strada, nell'aria sempre più diafana, sentiva di apparire a tutta la campagna. Gli alberi si scrollavano lievemente, sibili d'insetti, tintinni misteriosi preludevano alla grande sinfonia del giorno. Una luce approdava all'ultimo orizzonte respingendo la tenebra, che si orlava di riflessi evanescenti in lunghe strisce, talvolta simili a nuvole stracciate. Ma più che dell'albore, egli aveva paura dei suoni. Le cose più mattiniere intorno a lui si erano già deste; dentro le frondi qualche ala batteva per spigrirsi, mentre gli ultimi sogni strisciavano impalpabili sugli occhi ancora socchiusi. Seguì per qualche minuto il volo spaurito di una nottola, rivedendola ogni volta, con una specie di compiacenza egoistica, traballare sempre più incerta e precipitarsi nuovamente giù nell'ombre più dense, ad ogni chiarore che si diffondeva nell'aria. Si era allontanato mezzo miglio dal palo, ma la città e il ponte di ferro si vedevano ancora. Se non avesse avuto così paura del giorno, gli sarebbe sembrato ancora notte; infatti, laggiù, i fanali rimanevano accesi, appena l'ultima linea dell'orizzonte si era rischiarata, e qualche gallo impaziente aveva lanciato il primo squillo della propria diana. Ma i suoi sensi, vibranti di un ultimo orgasmo, gli rendevano manifesti i più impercettibili segni. Non poteva più ricapitolare quanto gli era accaduto nella notte, sentiva solamente una vergogna crescente, intollerabile di essere ancora lì, senza un motivo. Per tutta la notte era stato solo, adesso invece la luce gli addenserebbe intorno tutti i viventi: il suo coraggio non potrebbe resistere, sarebbe ripreso, ricacciato a forza indietro, più in basso, per sempre, sotto la propria ruina, inconsolabile, immutabile, inutile. Tutto ridiventava un pericolo. Guardava, ascoltava convulsamente; la notte non era più simile a se stessa; la sua frescura, la sua tranquillità, il suo sonno avevano mutato; una inquietudine agitava ogni suono e dava un accento di trepidazione a tutte le voci. La solitudine si riempiva. Guardò l'orologio, ma non distinse i numeri sul piccolo quadrante, e non osò accendere un fiammifero. Dovevano essere le quattro: forse a quella distanza l'orologio di sant'Ippolito si sarebbe ancora udito; poi n'ebbe paura. Qualunque voce gli faceva male; nell'aria colse un vagare di aromi, altri effluvii che s'innalzavano verso il mattino. A che ora passerebbe il primo treno? Sbigottito si voltò verso il disco, ancora così rosso, ma di un rosso meno luminoso. Per le altre strade della campagna la gente doveva aver ricominciato il proprio passaggio, i lattivendoli, gli ortolani, tutti coloro che soddisfano ai primi bisogni della città; nei due grandi caffè della piazza, sempre aperti, nottambuli col volto livido dalla veglia troppo prolungata comincerebbero a parlare di separarsi, perché odiavano istintivamente l'alba e la sua ripresa coraggiosa del lavoro sotto la immutabile necessità dell'andare avanti. Anch'egli era un nottambulo, l'ultimo, per l'ultima volta. Nel tormento di quella paura, soffriva alla preparazione lenta del giorno, più ammirabile forse che lo scoppio stesso del sole trionfante daccapo a sollecitare coi propri raggi tutti i viventi. Egli allora non si muoverebbe, informe cadavere per sempre. Ma non voleva esser visto prima, non aveva bisogno delle sollecitazioni, che gli aumentavano intorno. Se ne andrebbe, se ne andrebbe ad ogni modo, nella disperazione di non aver potuto nulla comprendere, senza la giustificazione di quanto aveva sofferto! Meglio la notte, il buio senza vita: un silenzio eterno e la sicurezza del nulla, perché non vi poteva essere altro, dopo! Il suo odio alla vita glielo rivelava chiaramente. Egli, che aveva tanto patito il giorno innanzi nella rottura graduale di ogni vincolo, adesso non soffriva più che la fretta, colla quale gli pareva di sentirsi cacciato; non v'era altro tempo da perdere. Fra venti o trenta minuti, da quella posizione tutti avrebbero potuto scorgerlo. I canti dei galli si erano venuti ripetendo, poi un muggito aveva dominato tutte le voci. I pioppi tornavano a stormire colla battuta secca della grandine, i salici sibilavano, le quercie sussurravano appena. Da un olmo sotto la strada un gridìo di passere, subitaneo come una risata, lo fece trasalire. Ormai egli stesso avrebbe potuto discernere lungo il binario un uomo a grande distanza, e tuttavia era ancora presto. Si fermò al primo palo del telegrafo, sdraiandosi daccapo sul sentiero per nascondersi. Stava in agguato, coll'occhio teso sulle ultime lontananze della strada, l'orecchio aperto sospettosamente a tutte le voci; le erbe alte, fradice di rugiada, gli bagnavano il volto percosso tratto tratto da un tremito, che gli echeggiava sonoramente sino al fondo dell'anima. Ma tutte le forze gli erano improvvisamente tornate: era l'attacco finale di quel duello troppo lungo colla morte, senza più alcuna incertezza, e più orribile nell'impossibilità di muoversi. Tutto il suo odio si era mutato in coraggio, quasi la morte, che gli verrebbe incontro su quel treno, dovesse avere una forma umana come la sua. Il suo tetro scheletro, colle occhiaie vuote e la lunga falce, gli riappariva nella fantasia cogli altri fantasmi della espiazione cristiana evocati dall'ultimo dubbio: ma temeva solamente di non poter durare per tutta la lunghezza della prova. Il suo sforzo supremo era di non pensar più, non voleva più nulla davanti. La sua coscienza era giunta finalmente al disprezzo della vita, di questa farsa stupida ed atroce, che nessun Dio poteva aver voluto, perché vi si soffre solamente, e coll'amore di un minuto vi si chiamano altri a soffrire e a morire: ecco tutto! Il resto era menzogna. E davanti a questa imperscrutabile necessità il suo individuo urlava nello spasimo di non poter inabissare tutta la terra e, strappando con un gesto titanico dal cielo l'immenso manto stellato, ravvoltolarvisi come in una bandiera nemica, e spirare ultimo sulla ruina finale di quanto era stato. - Ah! - gridò balzando in piedi, immemore di ogni riguardo. Era il treno. Nel pallore crescente della tenebra la sua luce appariva simile a quella di un palloncino roseo librato nell'aria, ma egli non vedeva che la morte. Era scattato in piedi alla prima scossa del terreno come ad un appello, protendendo il volto in una impazienza quasi insolente della fine. Aveva negli occhi un chiarore di cristallo e sulla faccia una fisonomia di marmo. Rimase così immobile, colla volontà tesa contro il treno, calcolando mentalmente la rapidità della sua corsa. Un fremito d'orgoglio lo scosse ancora, nel vederlo già così vicino che si discernevano distintamente i due fanali; aprì le braccia ad un gesto inesprimibile, e si gettò sulla rotaia abbandonato. Era caduto, quasi colla fronte sul ferro, gli occhi rivolti al treno. Avanzò la testa per poggiare il collo sulla rotaia, lasciando penzolare il capo nel vano come da una ghigliottina. Il freddo del ferro alla gola gli fece passare questo paragone nel pensiero. Ma allora tutte le forze lo abbandonarono, si decomposero per le scosse della terra, che gli passavano per tutto il corpo colla violenza di continue scariche elettriche. Si raggricchiò, chiuse gli occhi, travolto dal fragore precipite che già l'investiva; il ferro della rotaia gli friggeva quasi sotto il collo, una vampa gli aveva ventato sugli occhi, mentre nel terrore delirante, ineffabile, di quella cosa senza nome, la sua volontà caparbiamente disperata, come quella di un bambino, ripeteva: - Non importa, non importa! Con un ultimo sforzo premé ancora il collo sulla rotaia. Poi un'estrema convulsione di turbine, di abisso, di valanga, d'incendio, lo fece quasi rivoltolare sopra se stesso; aprì gli occhi nella fiamma, e per una paura più terribile gridò: - Mio Dio! Ma l'enorme macchina gli era già passata furiosamente sulla testa, soffocando nel proprio fracasso di cateratta l'inutile parola. FINE

Penombre

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Praga, Emilio 1 occorrenze

Per l'ampia volta querula, nel coro intarsiato, l'orme di cinque secoli un giorno ha cancellato; or tutto è liscio e candido, e, a quei toni abbaglianti, ammiccan gli occhi i santi e parlano fra lor. - Ahimè! - sussurra il martire che da una nicchia brilla: - uno spruzzo acidissimo mi entrò nella pupilla! - - Che freddo! - esclama un vescovo al muro appiccicato; - É il giorno del bucato! - risponde un confessor. - Ehi, San Tommaso! - brontola dalla base San Luca: - son ritornati i barbari? Povera Italia eunuca! A chi scrisse la bibbia guastar l'appartamento... o artisti del trecento piangetene con me! - Perchè vi fate, o fossili, scimmie di Geremia? è vero, adesso il tempio sembra una trattoria; ma eguali ognor non furono i preti ai tempi andati? Che a profanar sian nati strano per noi non è. O Santi, quando cantano le litanie pagate, o Santi, vendicatevi, e adosso a lor cascate: giù colle vostre clamidi, giù cogli scettri d'oro, gridando in mezzo al coro: Filiste, Iddio lo vuol! E tu, tu cogli il parroco, calvo domenicano, solo sulla tua mensola con Gesù Cristo in mano; forse il beato Angelico fu un tuo vicin di cella, forse la tua facella lambendo a notte il suol, di sotto all'uscio immobile filtrando un po' d'argento, ne illuminò le tavole piene di firmamento; forse il tuo canto fievole sui sonni suoi volava, e il vecchierel sognava madonne in campo d'or. E nel devoto secolo vivere ancor credevi; qui, venerata effigie, antiche aure bevevi; qui de' tuoi vecchi monaci, sulla muraglia bruna, col raggio della luna leggevi i nomi ancor. Care beltà del tempio!.. Sfumando in lontananza, si univan tinte e linee, quasi fanciulle in danza; in fondo in fondo aprivasi un arco a sesto acuto, e, come un detto arguto, traea le menti a sè. E vi parean riflettere le pallide figure pinte da ignoti artefici tra i fregi e le sculture; dell'arte primogenite vive di un soffio appena, ma colla faccia piena d'inenarrabil fè. Erano i buoni e memori testimoni dei morti; occhi celesti, estatici in cima a eccelsi porti, avean veduti i secoli, travolti a cavalloni, cadere in ginocchioni, pentirsi, e dileguar. Te non vedran, mio secolo, te che empiamente pio fai spose allo sbadiglio le insulse preci a Dio; te senza l'ire intrepide dei saggi iconaclasti, senza un amor che basti a darti un altro altar! Ma il non lontano postero ripercorrendo il sito da tuoi pittori ipocriti già di bugie vestito, ripenserà la gloria dei poveri defunti, e i bei profili smunti a liberar verrà. E l'armonia degli organi, e il fumo degli incensi non alzerà quel libero sotto i sereni immensi; del bello eterno apostolo, prete della natura, egli la fede impura tinta di bianco avrà!

TAVOLOZZA

679452
Praga, Emilio 1 occorrenze

Addio corse alle selve, alle pendici ispiratrici, addio dell'arte amori coronati di fiori: siete larve abbaglianti e ingannatrici! O fuggito alle infamie del mondo, vola, vola, ti bea nel sereno, coraggioso, che il calice pieno hai gettato alle spine del suol! Or, dal cielo, tu, artista giocondo, alle tele incompiute sorridi, e dell'arte degli uomini ridi, dipingendo coi raggi del sol!

ATTRAVERSO L'ATLANTICO IN PALLONE

682203
Salgari, Emilio 1 occorrenze

Alle cinque il sole apparve bruscamente sull'orizzonte, inondando l'oceano di raggi abbaglianti. O'Donnell respirò e salutò l'astro con un vero e proprio grido di gioia. "Almeno potrò vedere qualcosa e scorgere forse a tempo gli squali." disse. Guardò verso il sud. L'aerostato non era lontano che un miglio, e nella navicella scorgeva l'ingegnere, il quale alzava le braccia come per incoraggiarlo a fare presto. Raddoppiò gli sforzi e avanzò in quella direzione, respirando a grande fatica. Ma, percorsi tre o quattrocento metri, si arrestò con i capelli irti e il viso sconvolto da un'inesprimibile angoscia. A venti passi aveva scorto un punto nerastro emergere dalle onde e poi una larga pinna natatoria, che era subito scomparsa. "Gran Dio!" esclamò. "Ecco il nemico!" Abbandonò il salvagente, impugnò il bowie-knife e si tuffò. L'acqua era limpida, e si poteva scorgere, a grande profondità, un pesce di grosse dimensioni. Guardò a destra e a sinistra e vide una grande ombra che pareva s'immergesse venti o trenta metri più lontano. La seguì con gli occhi smarriti finché poté, poi tornò in superficie, aggrappandosi al salvagente. Non vide nulla. Aveva scambiato qualche grosso delfino con uno squalo, o lo squalo non l'aveva ancora visto? Si sa che questi terribili mostri, specialmente i tintoreas ci vedono assai male, e poteva darsi che il mostro che si trovava in quelle acque non avesse scorto la preda umana. O'Donnell rimase parecchi minuti immobile, con gli orecchi tesi e gli occhi ben aperti, poi si decise a riprendere il faticoso esercizio. Comprendeva che ormai la sua salvezza non dipendeva che dalla sua rapidità, perché lo squalo non avrebbe tardato a scoprirlo. Fece un ultimo e disperato appello alle proprie forze e si spinse innanzi con la maggior velocità possibile, ma procurando, nello stesso tempo, di non far rumore. Alle sei non era che a cento passi dal Washington, il quale si trovava trattenuto dalle due àncore a soli sessanta metri dalla superficie dell'oceano. L'ingegnere aveva calato le guide-ropes, alle cui estremità pendeva l'ancorotto a patte, che non era stato più staccato dopo l'abbordaggio con la nave dei morti. "Coraggio, O'Donnell!" gli gridò Kelly. "Ancora uno sforzo e siete salvo." "Vengo, Mister Kelly." rispose l'irlandese che era esausto. "Ma dov'è Simone? È morto ... ?" "Mor ... to." rispose O'Donnell, rabbrividendo. "Forse che ... " L'ingegnere si era bruscamente interrotto, gettando un grido di terrore.

I MISTERI DELLA GIUNGLA NERA

682349
Salgari, Emilio 1 occorrenze

Il vento ruggiva tremendamente nella jungla, curvando con mille gemiti e mille scricchiolii i giganteschi vegetali e torcendo in mille guise i cento tronchi dei banian, i rami dei palmizi tara, dei latania, dei pipal e dei giacchieri, e fra le nubi scrosciava incessantemente la folgore che veniva giù, descrivendo abbaglianti zig-zag. Il canotto trascinato dal vento e dalla corrente straordinariamente gonfia, filava come una freccia, dondolandosi spaventosamente fra i gorghi, cozzando e tornando a cozzare contro le molteplici isolette e contro la moltitudine d'alberi che andavano disordinatamente alla deriva. Kammamuri si sforzava, ma invano, di mantenerlo sulla buona via e Tremal-Naik cercava di calmare la tigre, la quale, spaventata da tutti quei fragori e da quell'abbagliante chiarore, ruggiva ferocemente, lanciandosi dall'uno all'altro bordo della imbarcazione con grande pericolo di rovesciarla. Alle dieci di sera Kammamuri segnalò un gran fuoco che ardeva sulla riva del fiume a meno di trecento passi dalla prua del canotto. Non aveva ancora terminato di parlare, che si udì il ramsinga suonare tre volte e su tre diversi toni. - Allerta, padrone! - gridò, dominando colla voce tutti quei formidabili fragori. - Scorgi nessuno? - chiese Tremal-Naik, tenendo stretta pel collo la tigre colla mano sinistra e impugnando colla destra una pistola. - No, padrone, ma il fuoco fu certamente acceso per vedere chi va o viene. Stiamo in guardia; il ramsinga ha segnalato qualche cosa. - Prendi la carabina. Forse daremo battaglia. Il canotto s'avvicinava rapidamente al fuoco, il quale bruciava un ammasso di bambù secchi, rischiarando come in pieno giorno le due rive del fiume. - Padrone, guarda! - disse d'un tratto Kammamuri. - Zitto! - bisbigliò Tremal-Naik, serrando la bocca alla tigre. Due indiani si erano improvvisamente lanciati fuori da un cespuglio di mussenda. Portavano il laccio attorno al corpo e tenevano una carabina in mano. Sui loro petti, si scorgeva distintamente il serpente azzurro colla testa di donna. - Guarda laggiù! - gridò uno di essi. - Vedi? - Sì, - rispose l'altro. - È un ammasso di canne che va alla deriva. - Lo credi? - E perché no? - Temo che nasconda qualche cosa. - Non vedo nulla sotto. - Taci! ... To'. Mi sembrò di avere udito ... - Un ruggito, vuoi dire? - Precisamente. Che ci sia una tigre là in mezzo? - Buon viaggio. - Adagio, Huka. L'uomo che Manciadi deve strangolare ha una tigre. - Questo non lo sapeva. E vuoi tu, che là sotto ci sia il nostro uomo colla sua bestia? - Potrebbe darsi. Quell'uomo è astuto ed audace. - Cosa conti di fare? - Scovarlo con un colpo di carabina. Mira molto basso. Kammamuri e Tremal-Naik avevano udito distintamente il dialogo. Vedendo i due indiani alzare le carabine, si gettarono prontamente nel fondo del canotto. - Non rispondere, padrone, - disse il maharatto, o siamo perduti. Due colpi di carabina rintronarono forando i bambù. La tigre fece un salto emettendo un furioso miagolìo. - Ferma, Darma! - disse Tremal-Naik, rovesciandola. - Che la dea mi fulmini! - gridò uno dei due indiani. - È lui. - Da' il segnale, Huka! - comandò l'altro. - Ah! miserabile! Qualche cosa di lampeggiante brillò al disopra del canotto seguito da uno scroscio formidabile che soffocò l'acuta nota del ramsinga. Tremal-Naik e Kammamuri, che si erano alzati, furono violentemente atterrati mentre la tigre gettava un secondo miagolìo ancor più furioso del primo. - Padrone! - esclamò Kammamuri. - La folgore! Tremal-Naik, ancora istupidito dall'influenza della scarica elettrica s'alzò ginocchioni. Un grido di rabbia gli sfuggì. - Maledizione! ... Abbruciamo! Infatti i bambù, percossi dalla folgore, avevano preso fuoco e abbruciavano rapidamente. - Siamo perduti! - esclamò Kammamuri. - Nel fiume! Nel fiume! - Non muoverti, se ti è cara la vita. Tremal-Naik prese fra le braccia l'ammasso di canne e con uno sforzo disperato le gettò nel fiume. - È lui! - gridò una voce.- Fuoco! Huka! ... Due altre detonazioni rimbombarono. Tremal-Naik udì le palle fischiare ai suoi orecchi. - Da' il segnale, Huka! - Siamo perduti, padrone! - gridò Kammamuri. - Non muoverti, - disse Tremal-Naik. - Afferra la tigre. Si slanciò a poppa e mirò l'indiano Huka che accostava alle labbra il ramsinga. Lo scoppio della carabina fu accompagnato da un tonfo e da un grido. Huka, colpito in fronte dall'infallibile palla del cacciatore di serpenti, era precipitato nel fiume. Il suo compagno esitò un momento, poi fuggì a rompicollo attraverso la jungla, suonando furiosamente il ramsinga che aveva raccolto da terra. Tremal-Naik gli sparò dietro una pistolettata, ma senza riuscire a colpirlo. - Fallito! - gridò egli, gettando con collera l'arma. - Siamo scoperti! - Cosa facciamo, padrone? - chiese Kammamuri. - Mi pare che ogni speranza di approdare a Raimangal sia perduta; il ramsinga metterà in allarme tutti gl'indiani. Maledetta folgore! ... - Andiamo innanzi lo stesso, Kammamuri. Questa notte non ci arresteranno tutti gl'indiani delle Sunderbunds. Da' mano ai remi ed arranca con quanta forza hai; forse arriveremo prima che i miserabili possano prepararsi a riceverci. Io terrò d'occhio le due rive del fiume e abbatterò quanti si mostrano a portata della mia carabina. Avanti! Kammamuri voleva aggiungere qualche parola, forse qualche consiglio, ma Tremal- Naik non gliene lasciò il tempo. - Se hai paura, sbarca, - gli disse. - Io e la tigre andremo innanzi. - Ti seguo, padrone, e Siva ci protegga. Afferrò i remi, si sedette a mezza barca e si mise a remigare con tutte le sue forze. Il canotto, sotto quella potente spinta, discese la fiumana con rapidità vertiginosa, balzando sulle onde. Tremal-Naik, caricata la carabina, si mise a poppa cogli occhi fissi sulle due rive. La tigre si era accovacciata ai suoi piedi e brontolava sordamente ad ogni baleno. Passarono dieci minuti. Le rive, che fuggivano rapidamente dinanzi agli occhi dei due indiani, erano coperte di bambù che tuffavansi nella corrente e da rade palme tara, la maggior parte delle quali abbattute o spezzate dalla furia dell'uragano. D'un tratto Tremal-Naik, che seguiva attentamente il corso del fiume scorse al sud un razzo elevarsi a grande altezza. Quantunque il vento continuasse a ruggire e la folgore a scrosciare, udì distintamente lo scoppio. - Un segnale forse? mormorò egli. - Arranca, arranca Kammamuri! Un secondo razzo si elevò sulla riva opposta descrivendo una lunga parabola. - Padrone? - interrogò Kammamuri. - Avanti, mio prode maharatto. - Siamo stati segnalati. - La mia Ada corre un pericolo: avanti! Attenta, Darma: l'ora della pugna s'avvicina. Il fiume allora correva più rapido restringendosi a mo' di collo di bottiglia; Tremal-Naik s'accorse di essere vicino al cimitero galleggiante. Senza sapere il perché, provò un fremito. - Adagio, Kammamuri. Sento che corriamo un pericolo. Il maharatto rallentò la battuta delle pagaie. Il canotto continuò a filare ed entrò in mezzo al bacino, coperto dalla fitta volta dei tamarindi e dei manghieri. L'oscurità divenne profonda, tanto che i due indiani non vedevano più lontano di cinque passi. Il canotto urtò contro la massa dei cadaveri, ed un tonfo, come di un corpo che s'inabissa, rispose al primo urto. - Padrone, hai udito? - chiese Kammamuri. - Sì, qualcuno si è gettato in acqua. Tremal-Naik si curvò sul fiume per vedere se qualcuno s'avvicinava al canotto, ma nulla scorse. Il canotto per la seconda volta urtò. - Qualcuno passa, - disse una voce che giunse fino ai due indiani. - Che sieno loro? - Oppure dei nostri? L'appuntamento è per la mezzanotte. Tremal-Naik a quella parola "mezzanotte" provò un colpo al cuore. - Mezzanotte! - mormorò, con voce tremante. - L'appuntamento per la mezzanotte! Quale sospetto! - Olà! - gridò una di quelle voci. - Chi passa? - Non rispondere, padrone, s'affrettò a dire Kammamuri. - Al contrario, risponderò. Bisogna che sappia tutto. - Ti perdi. - Chi parla? - chiese Tremal-Naik. - Chi passa? - domandò invece la voce. - Indiani di Raimangal. - Affrettate, che la mezzanotte non è lontana. - Cosa si farà a mezzanotte? - La vergine della sacra pagoda sale sul rogo. Tremal-Naik soffocò un urlo che stava per sfuggirgli dalle labbra. - Siva, Siva, abbi pietà di lei! mormorò. Poi, dominando la sua commozione, chiese: - Non è morto, adunque, Tremal-Naik? - No, fratello, poiché Manciadi non è ancora tornato. - E la Vergine verrà abbruciata? - Sì, alla mezzanotte. Il rogo è pronto e la fanciulla salirà nel paradiso di Kâlì. - Grazie, fratello, - rispose con voce soffocata Tremal-Naik. - Una parola ancora. Hai udito il ramsinga? - No. - Hai veduto Huka? - Sì, accanto al falò. - Sai dove si brucierà la Vergine? - Nei sotterranei, mi pare. - Sì, nella grande pagoda sotterranea. Affrettati che la mezzanotte non deve essere lontana. Addio, fratello. - Arranca, Kammamuri, arranca! - ruggì Tremal-Naik. - Ada! mia povera Ada! Un singhiozzo lacerò il suo petto e soffocò la sua voce. Kammamuri afferrò i remi e si mise ad arrancare con disperata energia. Il canotto sfondò violentemente la massa dei cadaveri ed uscì dalla parte opposta. - Presto! ... presto! - disse Tremal-Naik, fuori di sé. - A mezzanotte salirà il rogo ... Arranca, Kammamuri! Il maharatto non aveva bisogno di essere eccitato. Arrancava così furiosamente, che i muscoli minacciavano di fargli scoppiare la pelle. Il canotto attraversò il bacino ed entrò rapido come un dardo nel fiume. Tosto apparve l'estrema punta di Raimangal col suo gigantesco banian i cui smisurati rami si contorcevano in mille guise sotto i possenti soffi della burrasca. Un lampo ruppe le tenebre mostrando la riva completamente deserta. - Siva è con noi! - esclamò Kammamuri. - Avanti, maharatto, avanti! - disse Tremal-Naik, che s'era gettato a prora. Il canotto spinto innanzi a tutta velocità s'arenò sulla sponda, uscendo d'un buon terzo dall'acqua. Tremal-Naik, caricatosi in furia delle munizioni, Kammamuri e la tigre si slanciarono a terra, raggiungendo il tronco principale del banian sacro. - Odi nulla? - chiese Tremal-Naik. - Nulla, - disse Kammamuri. - Gl'indiani sono tutti nel sotterraneo. - Hai paura a seguirmi? - No, padrone, rispose con ferma voce il maharatto. - Quando è così, scendiamo anche noi. La mia Ada o la morte! S'aggrapparono ai colonnati e raggiunsero i rami superiori, avvicinandosi alla smezzata sommità del tronco. La tigre con un salto solo li raggiunse. Tremal-Naik guardò giù nella cavità. Al chiarore dei lampi scorse delle tacche, che permettevano di discendere. - Andiamo, mio prode maharatto. Io ti precedo. E si lasciò calare nel tronco, scendendo silenziosamente. Il maharatto e Darma lo seguirono da vicino. Cinque minuti dopo i due indiani e la tigre si trovavano nel sotterraneo, in una specie di pozzo semi-circolare scavato nella viva roccia, sei metri sotto il livello delle Sunderbunds.

I PESCATORI DI BALENE

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Salgari, Emilio 2 occorrenze

Di quando in quando, però, fasci di luce scaturivano da quelle masse, e così abbaglianti che gli occhi dei due balenieri non ci potevano resistere. Le acque pullulavano dappertutto correndo in tutte le direzioni, radunandosi nelle bassure, formando torrentelli e stagni, e producendo un ronzio che, di mano in mano che il sole si alzava sempre più splendido e sempre più caldo, diventava più forte. - Corpo di una balenottera! - esclamò Koninson che si era affrettato a tirarsi i capelli sugli occhi per non rimanere cieco. - Si direbbe che oggi messer Febo si è avvicinato alla terra di qualche milione di miriametri. - Se non ci affrettiamo, la nostra vela ci sarà affatto inutile. Fra un paio di giorni la pianura rimarrà scoperta - disse il tenente. - E quando partiremo? - Stasera farà ancora un pò di freddo e tutta quest'acqua e questa neve geleranno. Il tenente non si era ingannato. Verso le 11 di sera, quantunque il sole fosse ancora sull'orizzonte, la temperatura precipitò quasi improvvisamente di parecchi gradi, fino a toccare i tre sotto lo zero e la vasta pianura gelò. I balenieri spiegarono la vela e ripartirono con una velocità notevolissima, essendosi il vento mantenuto assai forte. Alle tre del mattino avevano già percorso trenta e più miglia, ora scendendo ed ora salendo. Ad un tratto l'orecchio di Koninson fu ferito da uno strano muggito che veniva da est. - Abbiamo qualche branco d'alci dinanzi a noi? - chiese egli prendendo il fucile. - Lo spero - rispose il tenente, prendendo la sua arma. Di mano in mano che la slitta procedeva il muggito cresceva sempre, ma sulla pianura non si vedeva alcun essere vivente, per quanto i balenieri aprissero gli occhi. Koninson, che cominciava a diventare inquieto, s'alzò in piedi e si issò sull'albero. Un grido gli sfuggì tosto: - Lasciate la scotta. Abbiamo un fiume dinanzi! - È il Makenzie! - esclamò il tenente. In un baleno, lasciò andare la fune, ma ormai era troppo tardi per arrestare la slitta che divorava la via con una celerità di quindici nodi all'ora. In men che lo si dica, giunse al fiume che correva incassato fra due alte muraglie, barellò un istante nel vuoto, poi precipitò giù inabissandosi nei gorghi del Makenzie.

Le colonne di fuoco continuavano ad innalzarsi ed abbassarsi con le contrazioni dei serpenti, cambiando di frequente tinta che variava dal bianco trasparente al giallo e al rosso ardente e formando delle nebulosità abbaglianti. Poi, a poco a poco, s'innalzò un arco immenso, brillante, il quale sollevando tutti quegli sprazzi di luce variopinta balzò da est ad ovest per poi ritornare, con altro brusco e più rapido salto, ad est. Il fenomeno era allora nel suo pieno splendore. I raggi che si alzavano sul grand'arco, gli uni sottilissimi e gli altri grossi, rossi alla base, verdastri nel mezzo e biancastri all'estremità, si spingevano sino alla testa dell'Orsa Maggiore, formando una specie di cupola di una bellezza incomparabile. I campi di ghiaccio, gli "icebergs", gli "hummocks", le piramidi, i coni, le colonne parevano tutti in fiamme e riflettendo quei vigorosi bagliori illuminavano la regione polare fino agli estremi confini. Ben presto però l'immenso arco fu visto ondeggiare come se fosse stato scosso da un impetuosissimo colpo di vento, formando immense pieghe in senso orizzontale e ben presto sull'orizzonte più non si vide che un ammasso di luce la cui intensità era tale che i due naufraghi furono costretti a difendersi gli occhi colle mani. - Si direbbe che tutto il polo è in fiamme! - disse Koninson, che non parlava più di rientrare nella capanna. - È uno spettacolo che non si è mai stanchi di vedere, e che non si è mai osservato abbastanza bene. - È vero, fiociniere! - rispose il tenente. - Pare di assistere sempre ad un fenomeno nuovo. - Sapreste dirmi, signor Hostrup, da cosa deriva? - Hum, è un po' difficile saperlo, mio caro fiociniere, poichè gli scienziati non sono ancora d'accordo, su ciò. Pare che sia causato da un accumulamento di elettricità e per mio conto credo che sia l'ipotesi migliore e più giusta, considerati i pochi uragani e l'estrema siccità dell'aria che s'oppone alla sua dispersione. - È vero, signor Hostrup, che l'aurora altera le bussole? - Verissimo, Koninson, e non solo quando esse sono in vista della luce, ma anche quando si trovano lontane dal cerchio luminoso, il che fa supporre che le aurore boreali siano in relazione col magnetismo. - E sono sempre uguali queste aurore? - Se ne sono osservate di quelle strane. Mairan ne vide una nel 1726 trovandosi a Breville-Ponte, che era formata da un gigantesco segmento nero traforato regolarmente da punti luminosi. - Questi fenomeni sono però molto frequenti. - Secondo gli anni. Lotten, che fece parte della spedizione d'Islanda per studiare i fenomeni della regione polare, nell'osservatorio da lui stabilito a Bossekop ove rimase otto mesi negli anni 1838-39, ne vide ben 143 in 206 giorni e le più frequenti fra il 17 novembre e il 25 gennaio. - Speriamo di vederne molte anche noi. - Ne vedremo, Koninson. Intanto l'aurora continuava le sue oscillazioni e i suoi bruschi salti, ora scemando di proporzioni ed ora ingigantendo. Tre ore durò, poi nuovi raggi apparvero, fra cui uno biancastro altissimo, indi ricominciò ad ondeggiare, a indebolirsi e finì con lo sfasciarsi e scomparire. Le tenebre, ripreso il loro impero, tornarono a distendersi sui campi di ghiaccio e sull'orizzonte, poco prima infuocato, non rimasero a brillare che gli astri.

LEGGENDE NAPOLETANE

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Serao, Matilde 1 occorrenze

A volte nel suo spirito, sempre freddo, sempre teso, passava un soffio caldo e molle - e le sorgevano in cuore vaghi desiderii di amore, di profumi, di colori abbaglianti, di sorrisi; ma ella cercava vincersi, s'inginocchiava a pregare, leggeva nel vecchio libro dove erano scritte le storie di famiglia e ridiventava l'inflessibile giovinetta, Donna Regina, baronessa di Toraldo. Donnalbina, la seconda sorella, veniva chiamata cosi dalla bianchezza eccezionale del volto. Era una fanciulla amabile, sorridente nel biondo-cinereo della chioma, nel fulgore dello sguardo intensamente azzurro, nei morbidi lineamenti, nella svelta e gentile persona. I tratti duri, fieri, di Donna Regina diventavano femminilmente graziosi in Donnalbina. E veramente ella era la dolcezza di casa Toraldo. Era lei che presenziava i lunghi lavori delle sue donne sul broccato d'oro, alle trine di lucido filo d'argento, agli arazzi istoriati, andando da un telaio all'altro, curvandosi sul ricamo, consigliando, dirigendo; era lei , che, in ogni sabato, attendeva alla distribuzione delle elemosine ai poveri, curando che niuno fosse trattato con , durezza, che niuno fosse dimenticato, ritta in piedi sul primo scalino della porta, vivente immagine della misericordia terrestre. Era lei che portava alla sorella Regina le suppliche dei servi infermi, dei coloni poveri, di chiunque chiedesse una grazia, un soccorso. Nella sua affettuosa e gaia natura, si doleva del silenzio di quella casa, della austera gravità che vi regnava, dei corridoi gelati, delle sale marmoree che niun raggio di sole valeva a riscaldare; si doleva del freddo cuore di Regina che niun affetto faceva sussultare - se ne doleva per Donna Romita. Perché Donna Romita era una singolare giovinetta, mezzo bambina. Così il suo aspetto: i capelli biondo cupo, corti ed arricciati, il viso bruno, di quel bruno caldo e vivo che pare ancora il riflesso del sole, gli occhi di un bel verde smeraldo, glauco e cangiante come quello del mare, le labbra fini e rosse, la personcina esile e povera di forma, bruschi i moti, irrequieta sempre. Ora appariva indifferente, glaciale, gli occhi smorti, le nari terree, quasi la vita fosse in lei sospesa; ora si agitava, una fiamma le coloriva il volto, le labbra fremevano di baci, di parole, di sorrisi, l'angolo delle palpebre nascondeva una scintilla, scivolata dalla pupilla viva; ora diventava irritata, superba, il viso chiuso, sbiancato da una collera interna. Nei giorni d'inverno, quando la pioggia sferza i vetri, il vento sibila per le fessure delle porte, urta nel camino, del largo focolare, Donna Romita si rannicchiava in un seggiolone come un uccello pauroso ed ammalato; nelle caldissime ore di estate, non lasciava le ombre del giardino, errando pei viali. A volte rimaneva lunghe ore pensosa. Pensava forse di sua madre, cui le avevano detto rassomigliasse. Pure, le tre sorelle menavano placida vita. Erano regolate le ore dell'abbigliamento, della preghiera, del lavoro, dell'asciolvere e della cena; erano stabilite equamente le occupazioni di ogni settimana, di ogni mese. Dappertutto Donna Regina andava innanzi e le sorelle la seguivano; ella aveva il seggiolone con la corona baronale, ella aveva le chiavi dei forzieri dove erano rinchiuse le insegne del suo grado ed i gioielli di famiglia; a mensa, ella presiedeva, le due sorelle una a diritta l'altra a sinistra, su' seggi più umili; all'oratorio ella intonava le laudi. La mattina e la sera le due sorelle minori salutavano la maggiore, inchinandosi e baciandole la mano: ella le baciava in fronte. Di rado le chiamava a consiglio, essendo, in lei il senno superiore alla età ed al sesso: ma se accadeva, le due attendevano pazienti di essere interrogate. Era in tutte tre profondo ed innato il sentimento dello scambievole rispetto: in Donnalbina e in Donna Romita un ossequio affettuoso per Donna Regina. Le sue parole erano una legge indiscutibile, cui non si sarebbero giammai ribellate. In fondo l'amavano, ma senza espansioni. Ed essa era troppo rigida per mostrar loro il suo affetto, se le amava. Un giorno re Roberto si degnò scrivere di suo pugno a Donna Regina Toraldo che le aveva destinato in isposo Don Filippo Capece, cavaliere della corte napoletana. Imbruniva. Nel vano di un balcone sedeva Donna Regina, col libro delle ore fra le mani. Ma non leggeva. - Mi è lecito rimanere accanto a voi, sorella mia? - chiese timidamente Donnalbina. - Rimanete, sorella - disse brevemente Regina. Regina era più smorta dell'usato, un po' abbassata la testa, errante lo sguardo. E Donnalbina cercava indovinare il pensiero segreto di quella fronte severa. - Mi ricercavate di qualche cosa, Donnalbina? - chiese infine Regina, scuotendosi. - Voleva dirvi che la nostra sorella Donna Romita mi pare ammalata. - Non me ne addiedi. Mandaste per la medesima Giovanna? - No, sorella, non mandai. - E perché? - Ahimè! sorella, dubito che i farmachi possano guarire Donna Romita. - E qual malore grave e strano è il suo, che non trovi rimedio? - Donna Romita soffre, sorella mia. Nella notte è angosciosa la veglia ed agitati i suoi sonni; nel giorno fugge la nostra compagnia, piange in qualche angolo oscuro; passa ore ed ore nell'oratorio inginocchiata, col capo su le mani. Donna Romita si strugge segretamente. - E sapete voi la causa di tanto struggimento, Donnalbina? - chiese con voce aspra Donna Regina. - Io credo saperla - rispose, facendosi coraggio, la sorella minore. - Ditela, dunque. - Ma la vedete voi? - Ve la chieggo. Tardaste troppo. - Donna Romita si strugge d'amore, o mia sorella. - D'amore, diceste? - gridò Regina balzando sul seggiolone. - D'amore. - E che? Debbo io udire da voi queste parole? Chi vi parlò prima d'amore? Chi vi ha insegnato la triste scienza? Di chi io debbo crucciarmi, di Donna Romita che me lo cela, o di voi, Donnalbina, che lo indovinate e me lo narrate? Come furon turbati il cuore dell'una, la mente dell'altra? Sono stata io così poco provvida, cosi incapace da lasciare indifesa la vostra giovinezza. - L'amore è nella nostra vita - rispose con dolce fermezza Donnalbina. Regina tacque un momento. Aveva corrugate le sopracciglia, quasi a ristringere ed a condensare il suo pensiero. - Il nome dell'uomo? - chiese poi duramente. Donnalbina tremò e non rispose. - Il nome dell'uomo? - insistette l'altra. - È un giovane cavaliere, un cavaliere di nobil sangue, bello, dovizioso. - Il suo nome? - Donna Romita è stata affascinata dalla eloquente parola, dallo sguardo di fuoco. Amò certo senza saperlo… - Il suo nome, vi dico. Debbi io pregarvi? - Oh! no, sorella. Ma voi le perdonerete, voi le perdonerete, non è vero? E cercava prenderle le mani. - Che cosa debbo perdonarle? Ditemi il nome del cavaliere. - Pietà per lei. Ella ama don Filippo Capace. - No!! - Lo ama, lo ama, sorella. Chi non l'amerebbe? Non è egli valoroso, galante con le donne, seducente nell'aspetto? Quando egli mormora una parola d'amore, il cuore della fanciulla deve struggersi in una dolcissima felicità; quando il suo labbro sfiora la fronte della fanciulla, può ella invidiare le gioie degli angeli? Essere sua! Sogno benedetto, aura invocata, luce abbagliante! Pietà per nostra sorella! Essa lo ama - e cadde ginocchioni, balbettando ancora vaghe parole di preghiera. - Ma per chi mi chiedi pietà? - gridò Donna Regina, rialzando bruscamente la sorella in un impeto di collera per chi me la chiedi? - Per Donna Romita… - rispose l'altra smarrita. - Chiedila anche per te. Tu, come lei, ami Filippo Capace. - Io non lo dissi! - esclamò Albina folle di terrore. - Tu l'hai detto. L'ami. Ed io non posso, non posso perdonare. Io amo Filippo Capace - dice con voce disperata Regina. Le ombre della notte involgevano la casa Toraldo: una notte senza speranza di alba. Profondo è il silenzio nell'oratorio. La lampada di argento, sospesa davanti ad una Madonna bruna, brucia il suo olio profumato, diradando il buio con una luce piccola ed incerta. Brilla una sola scintilla nella veste d'argento della Vergine. Se si tende bene l'orecchio, si ode un respiro lieve lieve. Non sul velluto rosso del cuscino, non sulla balaustra di legno lavorato dell'inginocchiatoio, ma sul marmo gelido del pavimento è mezza distesa una forma umana; l'abito bianco e lungo in cui è avvolta ha qualche cosa di funebre. Donna Romita è là da più ore, dimentica di tutto, nell'abbandono di tutto il suo essere, nel profondo assorbimento dell'idea fissa. Ella non sente. il freddo dell'ambiente, non vede l'oscurità, non sa nulla del tempo, non sente lo spasimo delle sue ginocchia, non sente lo spasimo di tutta la sua vita; ella non sente che il suo pensiero tormentoso, onnipresente, onnipotente. - Madonna santa, toglimi questo amore! Madonna santa, strappami il cuore! Madonna santa, fammi morire, fammi morire, fammi morire! Toglimi questo amore! E le invocazioni si moltiplicano; essa stende le braccia alla immagine sacra e torna a chiedere la morte. La fronte ardente si curva sino al suolo, le labbra baciano il marmo, tutto il corpo si torce nella disperazione. Ad un tratto un singhiozzo interrompe il silenzio. Chi piange presso di lei? È forse l'eco del suo dolore? È forse la sua ombra, quest'altra fanciulla vestita di bianco che piange e prega in un angolo! Sì, è l'eco del suo dolore, è la sua ombra che si desola; è Albina. Donna Romita fugge, fugge invasa dal terrore e dalla vergogna, lasciando nell'oratorio un amore ed una sciagura simile alla sua. In quell'ora medesima, nella vasta camera da letto, sola, seduta presso il tavolo di quercia, veglia Donna Regina. Sta immobile, non prega, non piange, non trasalisce. Tutto il volto pare scolpito nel granito, solo ardono gli occhi di un fuoco consumatore. Passano le ore sul suo capo altero, passano le ore sul suo cuore straziato, ma pel loro passaggio non si cangia il suo strazio. Allegre le vie della vecchia Napoli nella primavera novella dell'anno, per la gioia degli uomini; lieto lo scampanìo delle chiese. È la Pasqua di Risurrezione. La pace dal cielo scende sulla terra, nei fiori e nella luce primitiva. Il mondo rivive, rinasce la sua gioventù, un istante sopita. Nell'aria si respira amore. Le due sorelle minori hanno chiesto a Donna Regina un colloquio particolare ed essa lo ha accordato; era tempo che le tre sorelle non si vedevano, l'una fuggendo le altre, mettendo la mestizia e il duolo nella loro casa, lo scompiglio tra i famigliari. Donna Regina è nella grande sala baronale, dove in antico si teneva corte di giustizia; è splendidamente vestita; ha indosso i gioielli magnifici di casa Toraldo, ha daccanto, sovra un cuscino, la corona ingemmata di zaffìri, di rubini e di smeraldi, lo scettro baronale; sul volto un'austerità calma, quasi decisa. Entrano Donnalbina e Donna Romita. Sono vestite di bruno, senza ornamenti. La gaia giovinezza di Donnalbina è svanita, è svanito il suo soave sorriso, è perduta la sua bionda bellezza. Donna Romita china il capo, abbattuta; ancora non ha avuto il tempo di esser giovane e già si sente irresistibilmente attirata dalla morte. Esse s'inchinano a Donna Regina ed ella rende loro il saluto. - Parlate anche per me, Donnalbina - mormora a bassa voce Donna Romita. - Veniamo a dirvi, sorella nostra - prende a dire Donnalbina - che dobbiamo dividerci. Regina non trasalisce, non batte palpebra, aspetta. - È mia intenzione, è intenzione di Donna Romita, dare una metà della nostra dote ai poveri e l'altra parte dedicarla alla fondazione di un monastero, dove prenderemo il velo. - Ogni monaca di casa Toraldo ha diritto di diventare badessa nel monastero che ha fondato - rispose Regina con tono severo. - Sia pure. Attendiamo le vostre risoluzioni, sorella. Ella non rispose. Pensava, raccolta in se stessa. - Siateci generosa del vostro consenso, Donna Regina. Troppo vi offendiamo, è vero… - Desistete - fece quella con un moto di fastidio. - Non desistiamo, no - riprese Donnalbina, affannandosi. - Dio e voi offendemmo. Grave il peccato, grave l'espiazione. Ecco, ancora non giunsero per noi i venti anni e noi abbandoniamo questo mondo così bello, così ridente; noi lasciamo la nostra casa, le nostre dolci amiche, e care abitudini; lasciamo voi, sorella amata, per quanto offesa. Il chiostro ne aspetta. a voi l'onore di conservare il nostro nome, a voi le liete nozze, l'amore dello sposo, il bacio dei figliuoli… - Voi v'ingannate, o sorella - rispose Donna Regina lentamente. - È da tempo che ho deciso prendere il velo in un convento da me fondato. Un silenzio tristissimo segue le infauste parole. - Io non posso sposare Filippo Capace - riprese ella, mentre una vampa di sdegno le correva al viso. - Egli mi odia. - Ahimé! io gli sono indifferente - mormorò Donnalbina. - Io anelo al chiostro. Egli mi ama - pronunziò con voce rotta Donna Romita. E le due sorelle baciarono Donna Regina sulla guancia e ne furono baciate. - Addio, sorella mia. - Addio, sorella mia. - Addio, sorelle. Donna Regina si alzò, prese lo scettro d'ebano torchiato d'oro, e lo franse in due pezzi. E rivolgendosi al ritratto dell'ultimo barone Toraldo, gli disse inchinandolo: - Salute, padre mio. La vostra nobile casa è morta! Non hanno parole le brune vòlte dei monasteri, la pallida luce dei cere trasparenti, il profumo eccessivo e pesante dell'incenso, la profonda voce dell'organo, le bige pietre sepolcrali; non han parola le fredde celle, il nudo e duro letto dove è scarso il sonno, il cilicio sanguinoso, le pagine distrutte dalle lagrime, i crocefissi distrutti dai baci; non han parola i volti ingialliti, gli occhi cerchiati di nero, i corpi consunti, ma rianimati sempre da una fiamma rinascente; non han parola le convulsioni spasmodiche, le allucinazioni, le estasi dolorose. Altrimenti storie meravigliose e drammatiche sarebbero narrate al mondo; altrimenti noi sapremmo tutta la vita delle tre sorelle; altrimenti noi sapremmo il giorno che finì la loro tortura. Ma il giorno, che importa? Sappiamo noi se dopo non si ami ancora? Finisce, forse, l'amore? Noi non possiamo, non possiamo segnare il suo ultimo giorno, né la sua ultima parola.

IL PAESE DI CUCCAGNA

682495
Serao, Matilde 1 occorrenze

Agli occhi esaltati delle fanciulle, delle madri, dei poveri, degli infelici, degli sventurati colpevoli, di tutti quei bisognosi di soccorso, di soccorso morale e materiale, quella apparizione di santi diventava fantastica: li vedean passare in una visione luminosa, dove l'argento dell'aureola, del volto, della persona, dava riflessi abbaglianti, dove il nome finiva per sparire e rimaneva tutta la lunga processione di quelle beate immagini. La folla, oramai, confusa, stordita, fremente di mistica impazienza, non riconosceva più il gruppo degli antichissimi santi del primo tempo di Napoli, sant'Aspreno, san Severo, sant'Eusebio, sant'Agrippino e sant'Attanasio, santi vecchissimi, un po'oscuri, un po'ignoti: rumoreggiò come tuono, quando apparvero le statue dei cinque Franceschi che vegliano intorno a san Gennaro, nel Succorpo: san Francesco di Assisi, di Paola, di Geronimo, Caracciolo, Borgia; urlò nuovamente quando apparve sant'Anna, la madre della Madonna, a cui, dice il popolo, nessuna grazia è negata, mai: nessuno si occupò molto di san Domenico, l'inventore del rosario, poiché nessuno nella confusione di quell'ora pomeridiana, riconobbe il fiero monaco spagnuolo, salvo il fosco impiegato dell'Intendenza, don Domenico Mayer, che era stato respinto contro una muraglia dalla folla, e che teneva il cappello a cilindro abbassato sugli occhi, le braccia conserte in atto fiero e tetro sul soprabitone nero, e una dolorosa smorfia di scetticismo gli piegava le labbra. I santi passavano, passavano, sboccando dalla gran volta nera del Duomo, avviandosi verso Forcella, un po' più presto, adesso, e la folla si agitava a destra e a sinistra, quasi volesse liberarsi dall'incubo di quella attesa. La processione dei santi era lì lì per finire, durando da quasi un ora per la lentezza dell'incesso, finiva con san Gaetano Thiene, con l'angelico san Filippo Neri, con i santi dottori Tommaso e Agostino, finiva con santa Irene, con santa Maria Maddalena de' Pazzi, con la grande santa Teresa, in estasi, tutta ardore, tutta passione, la magnifica santa di Avila, che morì in una combustione di amor divino. Quando i santi cessarono la loro sfilata e i primi canonici della cattedrale comparvero, vi fu un immenso movimento nella gente che aspettava. Tutti tendevano il capo per veder meglio, per non perdere una linea dello spettacolo religioso, e l'attenzione era anche indomabile commozione. Finirono anche i canonici, e finalmente, sotto il grande pallio di broccato gallonato, frangiato di oro, pallido, con il volto raggiante di una espressione profonda di pietà, con le labbra che mormoravano una preghiera, apparve il Pastore della chiesa napoletana. Otto gentiluomini tenevano alti i bastoni del pallio: otto chierichetti, intorno, agitavano i turiboli fumanti d'incenso: e l'arcivescovo, che era un principe della Chiesa, un cardinale, camminava solo sotto il baldacchino, lentamente, con gli occhi fissi sulle proprie mani congiunte: e da tutte le genti che affollavano le vie, i portici, i balconi, le finestre e le terrazze, da tutte le donne che pregavano, da tutti i bambini che balbettavano il nome di san Gennaro, non al pallio, non ai paramenti d'oro, non alla mitria gemmata, si guardava: ma si guardava alle ceree mani congiunte dell'arcivescovo, si guardava teneramente, entusiasticamente, piangendo, gridando, chiedendo grazia, chiedendo pietà, magnetizzando ciò che l'arcivescovo stringeva fra le mani, tremanti di sacro rispetto. Lì, lì, tutti gli sguardi, tutti i sospiri, tutte le invocazioni. Il cardinale arcivescovo di Napoli teneva fra le mani le ampolline, dove era conservato il Prezioso Sangue. Nella grande e bella chiesa di Santa Chiara, tutta bianca di stucco e carica di dorature, simile a un amplissimo salone regale, la folla aspettava il miracolo di san Gennaro. Non era ancora notte, ma migliaia di ceri, sull'altar maggiore, nelle cappelle, e specialmente agli altari della Madonna e dell'Eterno Padre, illuminavano la vasta chiesa, ricca ed elegante. Sull'altar maggiore, sopra la bianca finissima tovaglia, in un piatto d'oro, era esposta la testa di san Gennaro, con la mitria vescovile gemmata, con la faccia rivestita d'oro: e più in mezzo erano le due ampolline del Prezioso Sangue coagulato, esposto alla venerazione dei fedeli. Intorno intorno all'altar maggiore, dentro la balaustra di legno antico scolpito che separa l'altar maggiore e un grande spazio dal resto della chiesa, erano le quarantasei statue di argento, che fanno la guardia di onore alle reliquie di san Gennaro: e innanzi all'altar maggiore il cardinale arcivescovo, insieme coi canonici, officianti il santo patrono di Napoli perché volesse fare il miracolo: dentro la balaustra, accanto all'altar maggiore, un solitario, e favorito, e fortunato gruppo di vecchi e di vecchie, tutti vestiti di nero, con fazzoletti e cravatte bianche al collo, gli uomini a capo scoperto, le donne col velo nero sui capelli, il gruppo osservato, commentato, invidiato da tutti gli altri devoti, il gruppo dei parenti di san Gennaro, il gruppo che solo aveva il diritto di salire sull'altar maggiore, di vedere il miracolo a mezzo metro di distanza. Poi l'immensa folla: nella grande unica navata di Santa Chiara e in tutte le cappelle laterali, fin fuori le due grandi porte, fin sugli scalini, fin nel chiostro di Santa Chiara, donde gli ultimi arrivati si rizzavano sulla punta dei piedi, presi dal bagliore di quelle migliaia di cerei, cercando di vedere qualche cosa, tormentandosi invano per spingersi un passo innanzi, mentre non vi era posto più per nessuno. E tutti agitati, inquieti, dal cardinale arcivescovo che orava, inginocchiato innanzi all'altare, all'ultima, umile femminetta del volgo, tutti attendevano che il divo Gennaro compisse il miracolo. Fervorosamente, col capo abbassato sulla sedia che aveva dinanzi, con la ingenua pietà del suo cuore giovanile, Bianca Maria Cavalcanti pregava, in quell'appressamento del miracoloso istante: pregava san Gennaro nel nome del suo Prezioso Sangue, di dar la pace al cuor di suo padre, di dar la fede al cuore di Antonio Amati: e candidamente, nella grande, saggia, profonda bontà dell'anima sua, nulla chiedeva per sé, bastandole che il cuore turbato, ammalato, straziato di suo padre avesse la tranquillità, bastandole che nel forte e fermo cuore di Antonio Amati, accanto all'amore umano, entrasse la più alta tenerezza dell'amore divino. Ecco, fra poco si sarebbe compito uno dei più grandi miracoli della religione: non poteva san Gennaro fare il miracolo in quei cuori, che essa adorava con tutte le sue forze? Bianca Maria, con le guance insolitamente accese di un sottil foco, di un sottil rossore, pregava con una forza contenuta di mistico entusiasmo, con una passione nova che era entrata a far divampare la sua gelida vita. Sull'altar maggiore, con la faccia volta al cielo, e traspirante una immensa fede, con la voce tremante di una commozione invincibile, il cardinale arcivescovo aveva detto le preghiere latine, dedicate al divo protettore di Napoli: e tutta la folla aveva risposto un lungo e tonante amen; amen vevano risposto le monache patrizie di Santa Chiara, nascoste dietro le inaccessibili graticciate del grande coro e dei coretti. Dopo gli oremus, i furono due o tre minuti di profondo silenzio, e il soffio precursore delle grandi cose parve fosse passato su quel popolo orante. Il gruppo dei parenti di san Gennaro, sull'altar maggiore, intuonò il Credo, n italiano, con grande impeto, e tutta la chiesa continuò il Credo; finito il Credo, ue minuti di aspettativa, molto inquieti, per vedere se cominciava il miracolo. Ma fu ripreso subito un secondo, un terzo Credo, on tale vigorìa d'intonazione, come se tutto il popolo proclamasse di credere, giurasse di credere sulla propria coscienza, dandosi alla fede, nello spirito e nelle fibre, con un grande fragore; inginocchiato, col volto fra le mani, il cardinale arcivescovo orava ancora, in silenzio. Dietro a lui, impetuosamente, a brevissimi intervalli, intuonati dai parenti di san Gennaro, ripetuti da tutta la folla, i Credo ontinuavano, e qua e là, fra il rombo generale, spiccava qualche nota profondamente grave di cuor desolato, spiccava qualche nota acutissima di fibre tormentate… Io credo, ridava la popolazione, con uno schianto di voce in cui parea si rompessero mille speranze, mille voti, mille preghiere. Ah! anche Luisella Fragalà, seduta in un angolo della chiesa, accanto alla malinconica signora Parascandolo, credeva profondamente: tanto che nella piccola convulsione, che cresceva nei suoi nervi di creatura pietosa e religiosa, le lagrime già le scorrevano su le guance, in silenzio: e nella oscura previsione di una sventura che ella sentiva avanzarsi, avanzarsi, senza vederla, senza distinguerla, ma sentendola implacabile nel suo viaggio, ella chiedeva a san Gennaro la forza che egli ebbe nel suo atroce martirio, per sopportare il misterioso cataclisma che le sovrastava. Anche la signora Parascandolo pronunciava il Credo, nsieme col popolo, con voce fioca: ma nelle pause quasi paurose per la trepidazione del miracolo imminente, la povera signora, orfana di tutti i suoi figli, chiedeva a san Gennaro, perché le ottenesse una grazia, perché la togliesse dalla terra d'esilio, donde tutti i suoi figliuoli erano fuggiti, lasciandola sola, brancicante nell'ombra e nel freddo. E la felice madre della rosea e bruna Agnesina come la madre infelicissima, egualmente trafitte, una dal passato, l'altra dall'avvenire, ambedue domandavano, con le lacrime negli occhi, la forza per vincere, la forza per morire. Ma l'ansia del popolo pregante cominciò al quindicesimo Credo; e parole della fede suonavano squillanti, come una sfida gittata alla incredulità, ma portavano il tremore di non so quale ignota paura: la pausa fra un Credo l'altro si prolungava, gittando il popolo in un accasciamento d'attesa, che pareva ne troncasse i nervi: la ripresa era fatta entusiasticamente, quasi il gran sentimento rinascesse formidabile, come tutti i sentimenti delle folle. Le più furiose di passione mistica erano le vecchie dell'altar maggiore: ma dietro di loro, una vampa correva da un cuore all'altro, portando l'incendio divoratore anche nei molli, indolenti temperamenti, anche fra gli scettici che fremevano, quasi una rivelazione ancora oscura li avesse colpiti e si venisse chiarendo ai loro occhi. Al ventunesimo Credo, l silenzio dell'aspettazione ebbe qualche cosa di angoscioso. Tutti gli occhi andavano dalla testa del santo, giacente nel vassoio di oro, alle ampolline di cristallo trasparentissimo, dove si vedeva il grumo nerastro e duro del sangue. La testa scintillava nella sua mitria gemmata, nella sua maschera gialla d'oro, dai riflessi metallici, un po' lividi: il sangue era lì cagliato, una pietra che le preghiere non arrivavano a spezzare, e al ventiduesimo Credo, ntuonato con uno scoppio di collera, qualche grido si udì, di chiamata, di invocazione, disperatamente: - San Gennaro, san Gennaro, san Gennaro… Le febbrili preghiere recitate dal gran popolo orante nella chiesa di Santa Chiara, le preghiere che umilmente, nervosamente, convulsamente, invocavano il miracolo dal santo patrono di Napoli, erano pronunciate con grande fervore da due donne inginocchiate tra la folla, appoggiate coi gomiti alle sedie di paglia, col volto fra le mani, con tutto un abbandono dell'anima e della persona alla grazia che chiedevano. Donna Caterina la tenitrice di lotto clandestino e donna Concetta la strozzina, si erano votate in comune a san Gennaro, per un anello vescovile di oro massiccio, con una grossa pietra di topazio, se faceva loro la grazia di risolvere il loro cruccio: o cambiar il cuore dei due fidanzati, Ciccillo e Alfonso Jannaccone, rendendoli indulgenti alle speculazioni delle due sorelle, o cambiar il cuore delle due sorelle, distaccandolo dall'amor del denaro. Un anello, un anello, un anellone magnifico al miracoloso santo, se faceva quello spirituale miracolo: così pregavano, a bassa voce, ambedue, con lo stesso fervore, col capo abbassato, ripetendo monotonamente la loro offerta, levando ogni tanto i supplici occhi inondati di lacrime, sull'altar maggiore, dove il gran mistero era imminente. Ma il popolo era già dominato dalla paura di quel ritardo: provava il gran terrore che proprio in quell'anno, dopo due secoli e mezzo, il santo, sdegnato forse dei peccati della popolazione, si rifiutasse a fare quel miracolo, che è la pruova della sua benevolenza. E il Credo, ipreso dopo pause più lunghe, più profonde e quindi più emozionanti di silenzio, aveva qualche cosa di pauroso, di collerico quasi, sgorgava come un impulso disperato: ma soprattutto le voci delle vecchie sull'altar maggiore si facevano irose, spaventate, tremanti di dolore e di terrore - e in un silenzio, a un tratto, una di esse disse, con voce dove tremava una familiarità devota, uno scherzo umile e un'impazienza invincibile: - Vecchio dispettoso, ci vuoi far aspettare, eh! - San Gennaro, san Gennaro, san Gennaro! - urlò il popolo, eccitato bizzarramente. Laggiù, verso il fondo della chiesa, presso la muraglia dove dolcifica la vista coi suoi scialbi colori quella smorta e soave Madonna, che dicono sia di Giotto, la figura di don Pasqualino l' assistito ra tutta una preghiera: stava ritto, ma aveva la testa e le spalle piegate, in un atto di profondo ossequio, e quando, ogni tanto, stanco o ispirato, levava la faccia, guardando il cielo dorato e pitturato della chiesa, il bianco dell'occhio pareva stragrande, smisurato, e ogni colore era svanito sulle guance, dove un livido pallore andava crescendo. Attorno a lui, per un magnetico potere di attrazione, tutti coloro che credevano in lui e nelle sue visioni, si erano venuti raccogliendo: tutti turbati in volto, tutti in preda a una disperazione repressa che pure scoppiava sulle diverse fisonomie: tutti giunti in fondo a un abisso di dolore, poiché anche quel sabato aveva portato loro una delusione immensa, due ore prima, con l'estrazione dei numeri: tutti curvati sotto un rimorso mordente, sentendosi ognuno colpevole verso gli altri e verso sé stesso: il marchese di Formosa, curva, quasi decrepita la bella e nobile persona, sentendo l'onta della sua vita senza decoro, dove tutto periva, anche sua figlia, in un agonia di infermità e di miseria; Cesare Fragalà, la cui situazione commerciale sempre più si complicava, sentendo egli la freddezza dei suoi amici negozianti, dei suoi corrispondenti, sentendo la malinconia palese di sua moglie e le sue segrete apprensioni, e sperando sempre, e sempre invano, di accomodar tutto, con una grossa vincita; Ninetto Costa, pallido e sorridente, con gli occhi cerchiati dalle veglie e dalle preoccupazioni, pensando, ogni tanto, alla sua catastrofe, scegliendo, ogni tanto, mentalmente, fra la fuga disonorante e il colpo di rivoltella che non assolve, ma che pacifica; il barone Lamarra, grosso, grasso, floscio, maledicente i suoi sogni ambiziosi di pezzente risalito, fremente all'idea di quella cambiale, firmata da lui e da sua moglie; l'avv. Marzano, il cui dolce sorriso pareva quello di un ebete, e che ogni settimana aumentava le sue privazioni per poter giuocare, avendo cessato di fumare, di prender tabacco, di bere vino, avendo impegnato la sua cartella di pensione, essendo malamente complicato in equivoci affari; Colaneri e Trifari, il professore e il dottore, che non trovavano più studenti, e il primo specialmente, sentendo intorno a sé il sospetto, il discredito, temendo ogni mattina, quando entrava in iscuola, di esser cacciato via da un ordine superiore, di essere accoppato dagli studenti: tutti, tutti, in preda a quella desolazione del sabato sera, l'ora negra, l'ora terribile in cui solo la coscienza parlava, alta, dura, inflessibile. Eppure erano in chiesa, e i più indifferenti, i più increduli mormoravano qualche parola di preghiera: eppure erano ancora attorno all' assistito lo guardavano ardentemente a pregare, e si capiva in quell'attrazione che ancora li aveva vinti, in quegli sguardi bruciati, che, passata la dolorosa cogitazione di quel momento, di quell'ora, la passione attendeva per riprenderseli. Ah, ma quell'ora, quell'ora, in quella grande folla che esalava nella preghiera tutta la sua infelicità, era tremenda per essi, colpevoli, come la fatale notte di Getsemani fu tremenda al Grande Innocente. Disperati, tutti, fissavano l'altar maggiore dove ardevano i cerei e si riflettevano sulla metallica faccia del santo. - San Gennaro, san Gennaro, - urlava la gente, a ogni Credo he finiva. E lo sgomento che il miracolo non accadesse soffiava su quelle teste, scoppiava in quelle voci. Le parenti di san Gennaro erano convulse di dolore e di collera; si era giunti al trentacinquesimo Credo, 'ora passava, con una lentezza di minaccia: ed esse, sentendosi nel medesimo tempo offese dal ritardo del loro santo antenato, e disperate della sua collera, lo interpellavano così: - San Gennaro, faccia d'oro, non ci fare aspettare più! - Sei in collera, eh? Che ti abbiamo fatto? - Vecchio rabbioso, fa il miracolo al popolo tuo! Ed era inesprimibile il sentimento d'ira, di tenerezza, di devozione, di agitazione, che spirava in queste ingiurie, in queste pietose invocazioni. Dice la leggenda che san Gennaro ama molto di farsi pregare e non si sdegna delle parole che le sue parenti e il popolo gli dirigono, e l'emozione del popolo era tanta che, al trentottesimo Credo, versetti della preghiera furono detti disperatamente, come se ogni parola fosse strappata da uno strazio supremo e in fondo scoppiarono le grida: - Faccia verde! - Faccia gialluta! - Santo malamente! - Fa il miracolo, fa il miracolo. Il trentottesimo Credo u clamore: lo dicevano tutti, da un capo all'altro della chiesa, il cardinale, i preti, le vecchie parenti, uomini, donne bimbi, tutti, tutti, presi da un grande furore mistico. E a un tratto, nella pausa di immenso silenzio che susseguì alla preghiera, l'arcivescovo si voltò al popolo: la faccia del sacerdote, irradiata di una luce quasi divina, pareva trasfigurata: e la bianca mano, levata in alto mostrava al popolo l'ampollina: il Prezioso Sangue, nel sottilissimo involucro di cristallo, bolliva. Quale urlo! Ne parvero scosse le fondamenta dell'antica chiesa; ebbe echi così forti e lunghi, che sgomentarono i viandanti delle strade circonvicine; e parve che le sonore campane del campanile vibrassero sole; e il gran pianto, il gran singhiozzo di tutto il popolo inginocchiato, buttato a terra, singultante con la bocca sul freddo marmo, levante le braccia, dibattendosi sotto la grande visione del Sangue che bolliva, non ebbe termine. Come morte, giacevano prostrate sull'altar maggiore le vecchie parenti; una sola possente forza aveva piegato tutta la folla; era tutto un lamento, tutto un sussulto tutta una preghiera; ognuno in quel minuto lunghissimo diceva ad alta voce, fra le lacrime calde e il tremor della voce, la sua parola di dolore. Sull'altar maggiore l'arcivescovo e il clero, tutti in piedi, a voce spiegata, superante la gran voce dell'organo, cantavano il Te Deum.

Racconti umoristici IN CERCA DI MORTE - RE PER VENTIQUATTRORE

682915
Tarchetti, Iginio Ugo 1 occorrenze
  • 1869
  • E. Treves e C. Editori
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Cento fanciulle che vi adorano, le bellezze più abbaglianti dell'Asia, le più vezzose creature del mondo che cadranno ad un cenno ai vostri piedi. Sì io dissi, tenterò di risolvere il problema se Sardanapalo sia stato più grande di Alessandro, e se il Sultano sia il più saggio e il più morale di tutti i re della terra. Dal momento che mi conobbi possessore di un harem mi abbandonai totalmente a questo pensiero, e tentai di richiamarmi alla memoria quanto aveva letto di straordinario e di favoloso su questi ritiri di piacere - la sicura vigilanza degli enunchi, i ventagli di penne di pavone, il molle costume orientale, i tappeti vellutati di Persia, i profumi inebrianti delle Indie, tutto ciò che desta la voluttà e la spinge alla sua massima azione, e al suo massimo sviluppo compatibile colla vita. Il ministro vedendomi assorto profondamente ne' miei pensieri, non osava interrompermi; ed io temendo che egli comprendesse il motivo del mio silenzio, e che io vi perdessi non poco della mia dignità reale, mi affrettai a soggiungere con gravità: - E l'esercito? Quale è l'ordinamento dell'esercito? - Ottimo in sé, disse il ministro, un poco imbarazzato da questa domanda, ma, veramente, le disparità di tribù, costituiscono un motivo incessante di dissensioni tra l'esercito dei Denti bianchi, e quello dei Denti neri. Perocché è bene che Vostra Maestà sappia (io mi era rialzato di due pollici nel sentirmi chiamare Maestà) che vi sono due eserciti, come vi sono due tribù, e che la mancanza di un'altra nazione nell'isola colla quale vi sia possibilità di guerreggiare, fa sì che i due eserciti dello stato vengano spesso alle armi tra di loro. È a deplorarsi che la posizione geografica di Potikoros renda assai difficile e assai fortunosa una guerra colle popolazioni del continente, ciò che accrescerebbe di gran lunga il prestigio della corona, e distogliendo il vostro popolo dal desiderio di costituzioni più libere e più progressiste, gioverebbe non poco a consolidare il trono di vostra Maestà. - Come sarebbe a dire? - Che la popolazione vuol essere sgomentata dalla coscienza della vostra forza, cioè dalla forza dell'esercito che è tutt'uno; e distolta in altro modo dal desiderio di miglioramenti interni, compromettendone, cioè, gli interessi e i destini colla fortuna d'una guerra. - Ma sarebbe dunque necessario ... le condizioni della monarchia sarebbero tali da ..... - Non dico ciò, riprese il mio ministro visibilmente turbato, ma .... ma veramente .... la sicurezza della corona richiede molte cure, molti provvedimenti, la cui necessità vi sarà nota assai presto. Non vi parlerò di alcune tendenze rivoluzionarie che vostro padre ha dovuto soffocare con molto sangue, e che questa vacanza del trono ha potuto sviluppare sensibilmente .... già le idee repubblicane hanno messo radice in molte teste, ma non sarà difficile il divellerle. - Le teste? esclamai io inorridito. - Come piace a vostra Maestà, disse il mio primo ministro, le idee colle teste. Io confesso che la mia anima, per quanta violenza le abbia fatta in ogni tempo la mia ragione, non ha potuto mai perdere un atomo di quella mitezza imbecille dell'agnello di cui l'ha dotata la natura; ond'è che per dare una diversione a quel discorso sì poco uniforme alle mie inclinazioni benigne, soggiunsi: E quale è il costume dell'esercito? - Il più semplice, ed il più economico ad un tempo, la nudità: i vostri sudditi non temono in ciò il confronto della razza del continente; ammirerete sopratutto lo sviluppo dei fianchi e del torace nelle femmine, le quali hanno pure adottato in gran parte la semplicità primitiva di questo costume. - In un paese così economico, io dissi, le finanze dello Stato e dei privati saranno dunque in floride condizioni. - Tristissime! rispose il mio ministro con accento mortificato; e poiché da questo mio viaggio in Europa, ho desunte alcune cognizioni circa i mezzi di rimediare al dissesto economico dello Stato, ho in animo di proporre quanto prima alla vostra approvazione un progetto per remissione di alcuni miliardi di carta monetata che i vostri sudditi accetteranno con gratitudine. - E a quanto ascendono le rendite di mio padre? - Ad una somma considerevole, a parecchie centinaia di milioni, escluso l'appannaggio che vi è assegnato dalla nazione, e che viene pagato puntualmente dalle casse dello Stato. - E ciò non sembra gravoso al mio popolo? - Vostra Maestà è novizia nell'arte del governare: basterà visitare uno stabilimento pubblico, un ospedale, un asilo, un istituto qualunque, e assegnargli una volta ogni tanto qualche centinaio di franchi sulla vostra cassetta privata, perché voi siate creduto il più generoso di tutti i monarchi. Né ciò potrà diminuire i vostri redditi: i tesori di vostro padre sono i più ricchi di quanti ve ne siano nei reami che noi conosciamo. - I più ricchi? - Li ammirerete fra poco: vedrete nella sala dei carboncini, un diamante della grossezza di un uovo d'aquila, che è reputato da noi il più prezioso di quanti sieno sulla terra. Io non potei contenere a questa notizia un sorriso di compiacenza che non isfuggì all'occhio penetrante del mio degno ministro dai denti neri. - E quali sono, io chiesi, i doveri principali del re, le sue occupazioni pubbliche? ... Voi sapete che io non sono stato educato alla Corte e che il governo d'un regno mi giunge alquanto inaspettato. Il mio ministro sorrise a questa domanda che gli parve improntata d'una ingenuità affatto puerile, e disse; Le occupazioni di Vostra Maestà sono pressoché insussistenti; il consiglio dei vostri ministri s'incarica della politica interna - poiché la politica estera non ci crea combinazioni di molta importanza, stante i rapporti amichevoli che conserviamo colle nazioni vicine: le vostre attribuzioni si ridurranno alla firma dei decreti concepiti dal Consiglio, a mostrarvi al popolo nelle circostanze solenni, a procreare principi del sangue allo Stato, a recitare al presidente di qualche deputazione un discorso di circostanza che vi sarà composto dal vostro segretario particolare; e finalmente a vigilare sull'ordine, sulla varietà, sul buon andamento del vostro harem ciò che costituisce una delle vostre attribuzioni esclusive. - Spero, io dissi, di soddisfare a tutti questi mandati, e all'ultimo in ispecial modo, con quello zelo che varrà a meritarmi la simpatia e la gratitudine del mio popolo. Il mio ministro s'inchinò fino a terra. Aveva appunto posto termine a questa conversazione nell'istante in cui il bastimento reale gettava l'àncora nel porto di Potikoros che è la capitale dell'isola di questo nome. Salii allora sulla coperta della nave per ammirare con un più vasto colpo d'occhio le meraviglie naturali del mio regno. Ma la mia attenzione fu distolta da questo esame dalla vista dei preparativi che s'erano fatti pel mio ricevimento solenne. E d'altronde non m'era mostrato ancora a' miei sudditi, che delle ovazioni fragorose partirono dalla riva che era assiepata tutta di popolo; e centinaia di barche ornate di stoffe a vivi colori e di penne preziose di marabù vennero ad attorniare la mia nave. Mi fu forza discendere in una di essa, ove si trovavano riuniti i miei ministri, e che per essere ornata dello stemma monarchico, conobbi che era destinata alla mia persona. Lo stemma reale (poiché quello della repubblica era stato atterrato da mio padre) consisteva in un elissi diviso da un fusto di palmizio in due campi, come da una sbarra; nell'uno di essi era rappresentato un braccio che brandiva uno di quegli ossi di balena già nominati a memoria dell'atto ardimentoso che aveva procurato il trono a mio padre; nell'altro vi era un merlo nero che, come seppi più tardi dal mio ufficiale araldico, vi era stato posto in onore di un uccello di questa famiglia, che il re defunto aveva fatto venire dall'Europa, e che aveva formato la meraviglia de' suoi sudditi, non essendovi in tutta l'isola di Potikoros che dei merli bianchi come la giuncata. Non starò a parlare dell'imbarazzo in cui mi sono trovato per rispondere alle numerose domande che mi venivano fatte da' miei ministri e dalle deputazioni delle città secondarie del mio regno. Si era bensì pensato a mettere nel mio seguito alcuni interpreti, ma il concetto di queste domande era sì oscuro, e mi erano formulate in modo sì singolare, che io mi trovava sulle spine a rispondervi. Aveva appena posto piede nella mia lancia, che un grido prolungato del popolo e dell'esercito salutò il mio arrivo, e avendo io interrogato uno de' miei interpreti sul significato di quel grido, seppi che esso voleva dire; «ben venga il nostro re che è arrivato dal paese dei merli neri.» Io m'inchinai rispettosamente dinanzi alla folla assembrata sulle zattere e lungo la spiaggia, e vi fu un momento in cui mi sentii il prurito di arringare la moltitudine e di guadagnarmene la simpatia facendo l'elogio dei merli bianchi, ma il bisogno di servirmi degli interpreti che avrebbero ammorzato colla loro lentezza tutto il mio fuoco oratorio, me ne distolse. E d'altronde la folla era tanta e il baccano sì assordante, che la mia voce vi si sarebbe perduta senza frutto. Di mano in mano, che aprendoci a stento una via tra le barche, ci andavamo avvicinando alla riva, lo spettacolo diventava più imponente, ed il fragore cresceva per modo che le mie povere orecchie ne erano letteralmente assordate. Il grido di: «viva il re che viene dal paese dei merli neri!» era ripetuto da tutte le bocche; e le dame Potikoresi specialmente lo strillavano con certe voci da soprano in modo da farmi rizzare sulla testa ad uno ad uno tutti i miei capelli reali. Come Dio volle, noi giungemmo finalmente alla riva, ove mi soffermai un istante ad osservare gli apparecchi della mia incoronazione e i due eserciti schierati lungo la spiaggia. E qui non potrei dire l'impressione inattesa che provai alla vista del mio esercito. I Denti neri pei quali mi era sembrato che avrei dovuto provare un orrore insuperabile, avevano aspetto sì dolce, sì mite, sì affettuoso che mi sentii subito attratto verso di essi da una forza di simpatia irresistibile, mentre i Denti bianchi mi parvero d'indole sì ribelle, sì feroce, sì fiera che ne fui quasi atterrito. Quei denti lunghi, affilati, bianchi, orribilmente bianchi, scoperti fino alla radice dal labbro un po' rovesciato, acuminati e curvi verso la punta come i canini, parevano fatti per afferrare, per mordere, per lacerare la carne viva, palpitante - davano ai loro visi un'apparenza orribilmente ferina. I denti neri, pel contrario, tozzi, brevi, quadrati, bene incassati e coperti dalla gengiva, promettevano indole e tendenze sì mansuete, che avrei dato metà l'isola di Potikoros perché il mio regno non fosse stato popolato che di quella razza. Più tardi, quando rientrai nella vita privata, ho fatto delle numerose esperienze sul colorito dei denti, e sulla natura dei caratteri relativi. Non so se Lavater e Gall abbiano esteso anche a ciò i loro studi, ma io credo di non essermi mai ingannato sui rapporti che ho fatti e sulle deduzioni che ho tratte in proposito. Diffidate di quelle persone che hanno i denti bianchi e regolari, ma sopratutto bianchi. Difficilmente una donna munita di denti piccolissimi, ben fatti, candidi di quella candidezza abbagliante che esse ambiscono tanto, è una donna saggia e fedele. Le bellezze più famigerate, le cortigiane più celebri, le donne più note per grandi vizii o per grandi delitti ebbero, tutte indistintamente, un pregio siffatto. I denti neri o ingialliti, mal collocati, indicano quasi sempre mitezza d'animo, sofferenza, virtù, rassegnazione. Una donna dai denti neri sarà ributtante, ma mai cattiva: si può essere sicuri della virtù di una donna munita di tali denti. Ma forse l'aver io perduto un regno per causa d'uomini muniti di denti bianchi mi ha tratto a queste convinzioni e a questo ostinato assolutismo nell'affermarle - desidero di essere smentito. Certo è però che appena io vidi quella metà del mio esercito, conobbi che non sarei rimasto sicuro sul mio trono; e pensai con dolore a quelle parole che mi aveva detto il mio primo ministro, che, cioè, i Denti neri costituivano la migliore metà del mio regno. E stava meditando appunto su questo pensiero, quando mi parve di scorgere che il mio primo ministro e gii altri onorevoli membri componenti la commissione gettassero sguardi inquieti sulla riva e specialmente sulle file dell'esercito dei Denti bianchi, interrogandosi e parlandosi a vicenda con qualche inquietudine. Per altro lato le file di quell'esercito apparivano sì diradate, e il contegno dei soldati sì provocante e sì fiero che io, sospettando di qualche disordine, domandai le ragioni di quel contegno dell'armata e di quel discorrere caloroso de' miei ministri. Sono dolente, disse uno de' miei ufficiali, di dover comunicare a Vostra Maestà una notizia alquanto spiacevole. Sono scoppiati dei torbidi in alcune provincie dello Stato, e una buona metà dell'esercito dei Denti bianchi si è ribellata al governo. L'altra metà che voi vedete, pende esitante tra il favorire la vostra installazione sul trono o congiungersi ai ribelli. I soli Denti neri rimangono fedeli a Vostra Maestà, ma il loro valore non è pari a quello dell'altra metà dell'esercito. Bisognerà affrettare la vostra incoronazione. Questa solennità acquieterà tutti i tumulti, questo fatto compiuto troncherà le esitanze di tutti quelli che non sanno tuttora se darsi alla monarchia, o secondare le idee repubblicane delle provincie sollevate. Ci giunge anche notizia che in alcuni luoghi siano stati abbattuti gli stemmi reali, e deturpato il sacro merlo nero che ne formava l'impresa, ma si è provveduto a che sieno presto ricollocati. Allorché, appena compiuta la vostra incoronazione, Vostra Maestà sarà entrata nella sala del Tribunale solenne, come richiede l'usanza, e avrà pronunciato giudizio sui delitti consumati nella giornata, l'esercito e la popolazione, compresi dalla vostra saggezza, non opporranno altro ostacolo alla vostra ascensione sul trono. - Mio Dio! io dissi, sotto quali tristi auspici incomincia il mio regno! Ancora non ho posto piede sulle rive de' miei dominii che una fiera ribellione ne agita metà le provincie, e la parte più valorosa dell'esercito mi abbandona per appoggiarne la rivolta .... Ma andiamo, io proseguii con voce più ferma andiamo a compiere - se ciò s'ha a far subito - questa formalità dell'incoronazione; e quindi se il prode esercito dei Denti neri presterà il suo braccio alla monarchia, non dispero con esso solo di sottomettere i ribelli, di consolidare il mio trono, e di conservare intatte le sacre. costituzioni del paese. - Andiamo, ripeterono in coro i miei ministri facendo atto di adesione alle mie parole. E uno degli ufficiali aggiunse; l'incoronazione potrà compiersi sul momento: tutto è preparato, il paludamento reale, la corona, il sacro osso nasale .... - Il sacro osso nasale! ... interruppi io trasalendo, come sarebbe a dire? - L'osso di balena che Vostra Maestà introdurrà nelle sue narici reali. - Nelle mie narici! - È la consuetudine del paese, è l'obbligo essenziale del re. Vostro padre .... - Lo so, lo so, io interruppi, non proseguite .... ma quale orrore! esclamai fra me stesso e io non ci aveva pensato ... ma ciò è impossibile ... il mio naso .... il mio naso greco! il più puro naso greco che io abbia mai veduto .... ah! io mi ribellerò a questa abitudine crudele, a questa tortura terribile. Se io tornassi in Europa! Se la ribellione mi privasse del mio regno .... tornarci col naso forato, trapassato da un osso di balena ... no, no, ciò non può essere E rivoltomi a' miei ministri dissi loro, dissimulando quanto poteva il mio spavento: illustrissimi signori, io sono felice di procedere sull'istante alla mia incoronazione, ma è occorsa credo una cattiva intelligenza in proposito ... desidererei ... bramerei, se ciò è possibile, che si indugiasse alcuni giorni per ciò che riguarda la formalità dell'osso nasale: una fiera costipazione, un potente raffreddore che mi sono buscato lungo il viaggio, l'infiammazione delle pareti interne delle narici rendono senza dubbio questa operazione alquanto pericolosa; pregherei l'eccellentissimo ministro che mi ha accompagnato fino a Potikoros a voler far conoscere a' miei sudditi questo desiderio, e disporli all'indugio che è mia intenzione di frapporre al compimento di una formalità, di cui per altro mi tengo altamente onorato. A queste parole i miei ministri si guardarono nel bianco degli occhi esterrefatti, e il ministro della Guerra in ispecial modo diede non dubbii segni della sua meraviglia e della sua disapprovazione. Io ammutoliva per vergogna. Dopo un istante di silenzio il mio primo ministro rispose: noi siamo profondamente convinti della verità delle giustificazioni addotte da Vostra Maestà, ma non sarà molto agevole il convincerne l'armata ed il popolo. La solennità che doveva compiersi oggi, ha radunato qui una buona metà della popolazione di Potikoros, né credo che essa vorrà partirne senza avervi assistito. Cotesto rifiuto può essere interpretato in un senso poco favorevole ed essere causa di disordini non lievi nel regno. In quanto a me, non mi attento a sfidare il furore del popolo, esponendogli il desiderio reale che Vostra Maestà mi ha fatto ora l'onore di manifestare. A questo diniego inatteso io mi sentii venir meno, e trovai appena la forza di aggiungere: se io stesso devo mostrarmi a' miei sudditi .... se posso arringarli io in persona, non dispero di convincerli della verità delle mie asserzioni .... Perché il mio naso .... la mia mucosa .... E in quell'istante essendomi balenata alla mente un'idea stupenda, mi avvicinai al mio primo ministro e gli mormorai all'orecchio: persuadetene la popolazione, disponetela ad attendere, ed io vi affiderò il comando della più florida provincia del regno, vi decorerò del gran Cordone del Merlo nero .... E aggiunsi fra me stesso: se posso uscirne col naso intatto dimetterò sull'istante questi ministri, rifarò il mio gabinetto, allontanerò da me questi sudditi ribelli e corruttibili. Il mio ministro cedette di fatto, come mi era lusingato, a quel tentativo. Rivoltosi al mio seguito disse; veramente .... l'interesse, la quiete dello stato ci impongono di accordare a sua Maestà l'indugio di cui ci richiede. Il momento è grave. Disposto al sacrificio della mia popolarità pel bene del paese, io sono deciso ad arringare il popolo circa i motivi che impediscono temporariamente l'attuazione di questa operazione importante: piaccia al cielo che le mie parole siano ben accolte e credute! Quindi rivoltosi a me che in quel frattempo era salito sopra una specie di carro destinato a recarmi sul luogo dell'incoronazione, aggiunse: andiamo, E ci riponemmo in viaggio. Attraversammo un buon tratto di strada tra le ovazioni vivissime della folla; e giungemmo in breve tempo ad un piccolo rialzo di terra sul quale era innalzato il mio padiglione. Tutta la campagna circostante era gremita di popolo; le dame Potikoresi vestite di un costume assai semplice, spesso di un costume affatto adamitico, stavano raccolte a gruppi sotto i padiglioni naturali che formavano le palme e i banani. Alberi giganteschi di paradiso attorniavano il recinto del luogo destinato alla mia incoronazione, e sovr'essi frotte di fanciulli a cavalcioni qua e là lungo i rami suonavano certi loro strumenti di cocco che producevano un rumore indiavolato. Da quel rialzo di terra si aprivano allo sguardo orizzonti stupendi; da un lato, il mare seminato in ogni punto di isolette quasi impercettibili e tutte verdi per la vegetazione più rigogliosa; dall'altro, campagne sterminate, pianure solcate da fiumi, colli ricoperti di boschi, montagne rivestite di eriche gigantesche; e sovra tutto ciò, il cielo stupendo del tropico, il cielo alto, sereno, sempre infuocato di quella terra prediletta dal sole. Ma io era in preda ad impressioni che moveano da cause ben diverse. Il timore che i miei sudditi volessero esigere sull'istante il compimento di tutte le formalità richieste per la mia incoronazione, il pensiero che, ove pure mi fosse stato accordato tale indugio, io non avrei potuto sottrarmi col tempo all'esigenza di quella moda crudele; e poi la ribellione delle mie provincie, la rivolta dell'esercito, le diserzioni, la poca devozione dei miei ministri, tutto ciò veniva ad amareggiare la mia gioia per modo che fui più volte in procinto di rimpiangere la mia vita modesta, ma libera, di letterato. E per altro lato, ove avessi potuto superare questi ostacoli, quanti piaceri mi aspettavano! La mia stupenda posizione anzitutto; e poi quel lusso, quello sfarzo, quello spensierirsi continuo; e l'harem, l'harem più d'ogni altra cosa; e quel costume sì grazioso, sì semplice, sì stuzzicante delle dame Potikoresi .... tutto ciò era pur preferibile all'oscura aridità della mia gioventù trascorsa. In preda a questi pensieri io era entrato nel ricco padiglione, ove doveva essere incoronato, e donde sarei stato condotto alla reggia. Le sorprese più grate mi attendevano in quel luogo. Oltre i doni ricchissimi in verghe d'oro e d'argento, e in grosse pietre preziose che mi erano state inviate dalle provinci e fedeli del regno, le fanciulle del mio serraglio mi avevano mandato un'ambasciata di dodici delle più belle tra loro, incaricate di ricevermi e prestarmi ogni sorta di servigi nel padiglione. Io non aveva veduto mai bellezze più abbaglianti, né è possibile che possa manifestare l'emozione che provai a quella vista. Il loro abito orientale era tutto ornato di lanugine di cigno e di perle, i loro calzoncini di seta azzurra erano stretti alla caviglia piccola e asciutta da un laccio magnifico a fiocchi d'oro, i loro piedini chiusi in scarpette a ricami erano sì piccini che potevano essere contenuti nella mia mano; tutte le loro forme erano ad un tempo sì piene e sì delicate, e spiravano tanta voluttà che io non aveva mai veduto, o immaginato soltanto, creature più graziose e più seducenti. Ma una ve n'era sovra tutte che colpì in ispecial modo la mia immaginazione. È impossibile il dire quanto ella fosse bella, forse anche impossibile lo immaginarlo: la bianchezza del suo viso era quasi luminosa - abbagliava: le sue fattezze, i suoi profili si perdevano in una specie di vaporosità leggermente rosata; i suoi capelli erano sì sottili, sì neri e sì lucenti che ondeggiavano sotto l'azione della luce come un drappo serico; e mentre io stava contemplando quel prodigio di avvenenza, essa mi si appressò timida e sorridente, e dopo aver pronunciato alcune parole in lingua Potikorese che mi riuscirono per ciò inintelligibili, asciugò il sudore che mi stillava dalla fronte con un suo fazzolettino che non era più voluminoso di una tela di ragno, ed esalava tutti i profumi più inebbrianti. Animato da tanta affabilità, e più ancora dal pensiero che io era re e che quella divina creatura era mia, trovai il coraggio di dirle: Come vi chiamate? - Opala, diss'ella, la più affezionata e la più fedele delle vostre schiave. E pronunciò questa parole nella mia lingua. - Voi non siete nativa del mio regno? le chiesi io meravigliato. - No, disse la fanciulla. La defunta Serenità di vostro padre mi portò seco bambina dall'Oriente, e mi apprese la lingua e i costumi della vostra nazione. Egli mi onorava particolarmente della sua affezione, e mi ha conferito una speciale autorità sulle donne del vostro serraglio. - Mio padre, esclamai tra me stesso, non aveva gusti depravati, non aveva deficienza di senso estetico ... una così bella creatura! Ma egli doveva aver passato i sessant'anni ... è impossibile ... E rivoltomi ad Opala le dissi: Mio padre vi amava? - Molto. - Di che affetto? Il volto di Opala si coprì d'un vivace rossore. Io che capiva a stento in me stesso, non seppi trattenermi dall'abbracciarla, esclamando: io pure vi amerò molto, io vi lascierò intatta l'autorità conferitavi da mio padre. Dio mio! voi siete sì bella!… voi sarete la mia prediletta e la mia regina, - È egli vero? disse Opala. - Quante è vero l'affetto che sente già il mio cuore per voi. - Per me! la vostra schiava .... - Non dite così, interruppi io - e in quell'istante osservai che le altre donne si ritiravano inchinandosi e ci lasciavano soli - dite la vostra amante, la vostra sposa; trovate, se potete, una parola sì dolce che valga ad esprimere ciò che voi sarete per me. Opala si gittò alle mie ginocchia, e abbracciandole disse: Grazie, grazie, io pure vi amerò; io languiva qui così sola, così abbandonata ... perché vostro padre .... era sì vecchio vostro padre ... e sì stizzoso! Voi siete tutt'altra cosa. Perché io non era stata educata qui, in quest'isola ... oh! sì, io vi amerò molto, non vivrò che per voi; e dormirò sul vostro tappeto, vi darò a bere il sorbetto colla mia bocca, vi solleticherò colle penne del mio ventaglio, vi farò riposare la testa sulle ginocchia, vedrete, vedrete! Oh buona creatura! io dissi tra me stesso, sarei pur felice con te, E pensai: se fosse possibile abbandonare il mio regno, fuggire con questa fanciulla, portar meco i tesori di mio padre, quel diamante favoloso, queste verghe d'oro ... e non veder più questi Denti bianchi, questi Denti neri ... questi odiosi ministri ... sottrarmi ad un supplizio spietato .... E mosso da un trasporto di affetto sincero, aggiunsi abbracciandola e sollevandola: sì, mia diletta fanciulla, se io potessi fuggire con te, portarti meco nella mia patria! ... perché devi sapere che mi si vuole già ritogliere il regno, che si pretende deturparmi il viso, forarmi il naso, il mio naso greco, il naso caratteristico della mia famiglia ... E poi ... Ma in quell'istante un fracasso terribile venne a troncare le mie parole. Io mi rivolsi e vidi il primo ministro che entrava ansante impallidito nel padiglione, e dietro ad esso alcuni ufficiali di Corte, uno dei quali mi disse: avvengono dei gravi disordini; è necessario che Vostra Maestà si affretti ad installarsi nella reggia; alla sua incoronazione si penserà dopo ... Il popolo non ha prestato fede alle parole dell'onorevole ministro che voleva giustificare il diniego di Vostra Maestà a subire tutte le formalità di questa incoronazione. Indarno egli ha asserito che ella ne è impedita da un raffreddore potente, che ha inteso egli stesso lungo il viaggio dei fragorosi starnuti reali .... non gli si è creduto: il sentimento nazionale è scosso profondamente da questa notizia, e il rimanente dell'esercito dei Denti bianchi ha abbandonato senz'altro le sue bandiere per congiungersi alle file dei ribelli. Bisogna affrettare l'entrata nella capitale finché la reazione non si è organizzata, e non si è posta in grado d'impedirlo. I Denti neri sono per noi; ove il giudizio pubblico che vostra maestà presiederà oggi, incontri il favore popolare, le sorti della monarchia possono essere ancora rassicurate. Io ho potuto, dissi allora, sollevandomi di tutta la persona, animato da non so qual forza interna, io ho potuto forse mostrarmi debole d'innanzi ad un'esigenza cui le abitudini contratte nella mia patria mi rendevano un poco ripugnante, ma non lo sarò mai d'innanzi agli uomini che vogliono spogliarmi del regno, privarmi dei sacri diritti che mi sono stati trasmessi da mio padre. Se non potrò sedere sul trono di Potikoros, saprò almeno morire difendendolo, E affacciandomi all'uscio del padiglione, e guardando con occhi torvi la folla, esclamai con voce più alta; recatemi le mie armi e il mio cavallo, che io indossi il mio paludamento reale, tutti i miei distintivi di re, e la corona, aggiunsi prendendomela e posandomela sul capo; saprò ben io difenderla da chi si attentasse a tormela. I miei ministri e i miei ufficiali meravigliati da tanto ardimento mi fecero recare in fretta il mio cavallo, e mi aiutarono ad indossare i miei distintivi. Dopo che, fiero del mio coraggio, balzai in sella colla spigliatezza d'un giocoliere e mi avviai in mezzo ad essi alla capitale del regno, e alla reggia. Ma il coraggio veníami meno lungo la via, L'accoglienza poco lusinghiera della popolazione, il freddo contegno de' miei ministri, le urla selvaggie dei ribelli, quei crocchi di Denti bianchi che incontravamo ad ogni istante sul nostro passaggio mi facevano venire la pelle anserina, o ciò che si dice più comunemente la pelle di oca, come se la mia sacra epidermide reale fosse stata l'epidermide del più volgare e del più ignobile de' miei sudditi, E tentando di dare come poteva meglio una diversione qualunque alle mie idee. immaginava come le oche debbano trovarsi in uno stato di spavento incessante se quel fenomeno della loro pelle è continuo, e mi sentiva tratto da un sentimento di pietà, a commiserarle. Che se così non fosse, come potremmo noi esprimere, volendo attenerci strettamente alla medesima frase, lo stato di spavento in un'oca? Potremmo forse dire che l'oca ha la pelle di oca? Io comprendo ora come il quesito che andava formulando in quel doloroso viaggio a me stesso, fosse meno ancora che puerile e non consentaneo alla mia dignità di monarca; pure confesso che me ne trovava imbarazzato, e che fu in virtù di quell'imbarazzo che giunsi alla reggia senza che i motivi di terrore che mi circondavano, avessero potuto cagionare in me dei fenomeni più sensibili e più complicati. La reggia era un edificio stupendo; tutte le meraviglie, tutte le delizie, tutte le ricchezze dell'Oriente vi erano state accumulate a larga mano. Mio padre aveva saputo conciliare fastosamente la mollezza dei costumi orientali colla severa grandiosità dell'architettura europea. Non credo vi sieno in Europa reggie o palazzi di privati più eleganti; certo io non aveva né veduto, né immaginato mai edificio più sontuoso e più splendido. Quantunque le pareti fossero tutte in legno di noce d'India, gli intagli erano sì stupendi, e le decorazioni in oro, in avorio e in argento eseguite sì maestrevolmente, e con tanta grandiosità di dimensioni, che le proporzioni del fabbricato e l'eleganza di quegli ornati non erano inferiori a quelli di qualunque casa europea. Il mio appartamento speciale era uno di quei ritiri incantevoli che si sognano a quattordici anni, di cui spesso non si ha neppure la facoltà di concepire un'idea, uno di quegli edifici che l'architettura nostra costretta nei limiti inesorabili dell'arte e delle sue tradizioni, non avrebbe mai lo slancio e l'ardimento necessario a creare. Io vi rimasi sventuratamente sì poco che non potrei darne una descrizione dettagliata. Non ho serbato memoria che delle stelle mobili che si perdevano nell'azzurro del soffitto di cui non si vedeva il fine, e che gettavano onde di luce abbagliante del colore dello smeraldo. Forse in quel cielo artificiale era rappresentato un intero sistema planetario, co' suoi fenomeni, colle sue orbite, con tutte le sue leggi di evoluzioni. Ricordo il pavimento elastico e semovente, tutto tempestato di rubini, la cui azione di elasticità era combinata per modo, che cedendo dolcemente sotto la pressione del piede e rialzandolo tosto per forza propria, rendeva affatto nulla la fatica del camminare, in guisa che vi si avrebbe potuto passeggiare delle intere giornate senza provare il menomo sintomo di stanchezza. Mi sovvengono pure alla memoria alcune specie di incensieri che appesi a certi arpioni d'oro massiccio sporgenti dalle pareti, si dondolavano per moto proprio; ed emettevano un vapore profumato, in mezzo alle cui spire volteggiavano delle figurine nude, le quali cambiavano forma e colore ad ogni istante, e giunte ad una certa altezza, si assottigliavano e si scioglievano in fumo. Le esalazioni di quei turiboli agivano sì potentemente sui sensi che io mi sentiva come preso da ebbrezza, né poteva prestare attenzione al canto soavissimo di certi uccelli che non vedeva, ma che pensai dovessero essere rinchiusi in una gabbia sospesa nell'azzurro del soffitto. Non parlerò del mio letto, del mio trono, di tutti i mobili delle mie stanze; sarebbe impossibile dirne la foggia, l'uso, i dettagli; erano pelliccie sovrapposte a pellicce, tramezzate di strati di petali di rosa che si mutavano ogni giorno: le sedie si cullavano da sé, volendo ristavano: e le dame di corte - le più attraenti beltà di Potikoros - avvolte in un semplice velo color di rosa, andavano e venivano per le stanze, ansiose di sorprendere ogni mio più piccolo desiderio, ogni mio bisogno più insussistente, e soddisfarlo colla rapidità del pensiero. Appena posto piede nel mio gabinetto particolare, alcune di queste dame mi presentarono il mio nuovo costume di monarca, e si accinsero a spogliarmi del mio abito di borghese (sotto il mantello reale che avea indossato nel padiglione, io vestiva ancora in quell'istante un abito a coda di rondine, di cui non avevo per anco soddisfatto il conto al mio sarto) per mettermi in grado di presiedere al giudizio popolare in tutta l'imponenza, e in tutto lo splendore della mia carica. Ma il mio pudore non mi permetteva di cedere all'invito di quelle dame rispettabili; io mi sentivo salire il rossore fino alla punta del naso; e mi provai a far loro conoscere la mia ripugnanza con un discorso di questo genere: - Egregie signore ... compitissime signore ... le mie abitudini di toeletta; ... il rispetto che io nutro per le loro persone ... non mi permettono di mostrarmi qui in tutta la semplicità del mio costume naturale ... e oltre ciò, i miei arnesi di biancheria, le mie mutande ... in un viaggio sì lungo ... senza la risorsa del bucato ... esse capiranno .... E stava per aggiungere peggio, ma mi avvidi che nessuna di esse intendeva la lingua del mio paese; e non potendo far di meglio, lasciai fare, con quanta confusione da mia parte, permetto a' miei lettori di immaginarlo. Quando mi trovai vestito, attilato, serrato, come in una morsa, dalle cinture di quell'abito tutto ornato di lamine di metallo e di perle, avendo chiesto dell'ora fissata pel giudizio pubblico, e avendo osservato nel mio orologio, (un vecchio orologio di Ginevra che aveva avuto cura di regolare sul meridiano di Potikoros) che vi mancava una buona mezz'ora, chiesi di essere condotto al mio serraglio; e mi vi avviai in mezzo alle persone del mio seguito, parte delle quali mi precedevano agitando dei grossi ventagli di piume, e parte recando con sé alcuni di quegli incensieri che aveva già veduto nelle mie stanze. Dio! dove troverò io espressioni sì eloquenti che bastino a manifestare la sorpresa, la meraviglia che provai alla vista del mio serraglio! Io era rimasto muto ed estatico. Appena ebbi la forza di pronunciare alcune parole per accomiatare gli onorevoli ufficiali della mia casa che mi vi avevano accompagnato. Non farò una descrizione di quel luogo: sarebbe impossibile. L'eleganza, la mollezza, il lusso del mio apartamento erano uno sfarzo meschino a confronto della magnificenza di quello, tutto si confondeva in un'onda immensa di luce: era una di quelle illusioni ottiche che si provano nei sogni da fanciullo; qualche cosa di simile a quelle visioni che si ottengono a quell'età, vellicando le pupille col rovescio della mano. Qua e là negli interstizii d'un lungo colonnato erano appese delle reticelle di seta ripiene di veli e di pizzi, dentro le quali alcune delle mie fanciulle vestite in quel semplice e delizioso costume di Potikoros, si dondolavano agitando i loro piccoli ventagli. Altre stavano sedute su certi divani di raso azzurro, raccontandosi novelle di fate e di genii; altre mangiucchiavano confetti o coccole profumate, di cui mordevano la buccia coi loro dentini (credo aver detto che le donne del serraglio erano tolte tutte dalla tribù dei Denti bianchi) altre infine giuocavano con dei veli, con delle piume; o imbeccavano delle tortorelle che erano grandi quanto uno dei nostri scriccioli, e dei piccoli colibrì che non erano più grossi d'una farfalla. Opala (io l'aveva cercata collo sguardo appena posto piede in quel santuario) Opala già mutata d'abbigliamento e raggiante della bellezza più attraente, era seduta sopra un seggio più elevato, una specie di trono che occupava per segno di distinzione. La sua testa graziosa si riposava in attitudine di pensiero sopra un soffice guancialetto di velluto; i suoi piedini rinchiusi in una pianella impercettibile d'un tessuto serico quasi trasparente, posavano riuniti e composti sopra uno sgabellino d'oro e di avorio, le sue mani piene di una tacita voluttà le pendevano giù pei fianchi in atteggiamento di abbandono, e le sue lunghe palpebre mezzo socchiuse non lasciavano ben indovinare s'ella dormisse o sonnecchiasse per vezzo fantasticando. Al rumore de' miei passi (nessuna pianella del mio guardaroba reale avendo potuto calzare al mio piede, io portava tuttora il mio unico pajo di mezzi stivali a doppia suola), Opala si scosse, e vedutomi, scivolò giù dal suo trono, e venne ad inginocchiarsi a miei piedi. A quella vista tutte le reticelle sospese si abbassarono, non so come, fino al pavimento; le fanciulle ne uscirono così abbigliate come erano, e si prostrarono esse pure ad una breve distanza da noi. Una musica divina e sommessa incominciò in quel momento a farsi udire nel serraglio, e ad elettrizzarmi colle sue note. - Nobili dame, io dissi rialzando Opala, e rivolgendomi alle altre, cui accennai di fare altrettanto, prego .... insisto perché esse si alzino; qui non vi è etichetta di Corte, non vi sono leggi di convenienze ... Prego a voler considerare la mia persona reale come la persona di un semplice amico, come una persona di famiglia ... già; intendo introdurre delle modificazioni nel regime interno di questa nostra società ... voglio dire delle leggi d'uguaglianza una parità di diritti, un equa ripartizione di .... E non venendomi al balzo la parola che calzasse a dovere, temendo di prometter troppo, e desiderando per altro lato di trovarmi qualche istante solo con Opala, aggiunsi: già ... so ben io quel che intendo di fare ... Le prego intanto di risalire nelle loro reticelle, nei loro nidi ... le prego a rioccupare i loro divani ... io mi farò un dovere di venire più tardi .... col tempo ... appena lo permetteranno le gravose esigenze della mia carica, a rendere a ciascuna di esse l'omaggio del mio rispetto e della mia ammirazione. Fui grato alla Serenità di mio padre di aver introdotto nel sistema educativo del serraglio l'insegnamento della lingua del mio paese, poiché tutte quelle mie fanciulle, risalirono all'istante nelle loro reticelle; e Opala, prevenendo i miei desiderii, mi prese per mano e mi condusse nel suo gabinetto particolare. Ci sedemmo sopra un soffice tappeto di Persia. Io era sì stanco per le fatiche della giornata, e sì turbato da tutte quelle apprensioni d'ogni genere, che quello stato di prostrazione m'induceva quasi per bisogno alla tenerezza e ad una espansione confidente e sincera. - Quanto siete buona! io dissi ad Opala abbracciandola, quanto siete bella! Divina creatura! Voi mi avete preceduto in questa reggia, dove io non rimarrò forse molto tempo, e d'onde non mi sarebbe doloroso l'allontanarmi, se non fosse pel pensiero della vostra perdita. Non credeva di trovarvi subito qui, ve ne ringrazio; aveva proprio bisogno di sollevarmi un poco con voi dalle cure dolorose del mio Stato. - Io posso tanto sul vostro cuore? - disse la fanciulla - quanto ve ne sono grata! Oh, voi siete sì diverso da vostro ... era sì nojoso vostro padre. Non amava che di farsi raccontare delle novelle, di passeggiare su e giù per le nostre sale, di regalarci qualche balocco, di farsi accompagnare a braccetto fino alla soglia del suo appartamento, di farsi reggere da noi la coda dell'abito .... Era insoffribile, perdonate, ma era insoffribile .... Già, credo che avesse settant'anni. - Pressapoco. Ecco! Ma voi siete sì giovine, sì bello, sì vivace. Non sapete ... io tremava vedendovi nel padiglione ... temeva che vi si volesse costringere a subire quella barbara usanza del nostro paese. Non che mi impaurisse il pensiero che aveste a perdere il vostro trono, giacché vi avrei amato lo stesso, e voi mi avreste amata ancora di più; ma tremava per me medesima.. mi avrebbe fatto ripugnanza vedervi col naso forato, vi avrei abbracciato con dispiacere. Se aveste veduto vostro padre ... che figura faceva vostro padre col naso così trapassato da quell'osso! Ma ... ora come farete a sottrarvi a quel supplizio? Vi siete rifiutato di acconsentirvi? - Sì. - E credete di poter sfuggire all'adempimento di quest'obbligo crudele? - Non so, diss'io, ma per fermo sono risoluto a niegarmivi. Tanto più che voi mi preferite così, che non mi amereste altrimenti .... - Oh sì, sì, disse la fanciulla abbracciandomi con innocente civetteria, non voglio, io, che vi si guasti il naso, questo naso greco, questo naso così grazioso .... Ma del resto io vi amerei in tutti i modi. E se voi doveste abbandonare quest'isola io vi seguirei lo stesso. Non è vero che voi mi permettereste di seguirvi? Son io, dissi, che vi seguirei, che perdendo il mio regno, troverei un compenso adeguato nell'acquisto che potrei fare del vostro amore. Perché… soltanto che voi mi amiate, che siate disposta a rifuggirvi meco nel mio paese, io avrò la forza di oppormi a tutte le torture che mi minacciano. Credo che i tesori di mio padre superino di gran lunga le più ricche fortune che ci sono in Europa e in quanto ai mezzi di rimpatriare, i miei ministri sono abbastanza corruttibili - come tutti i ministri che ho conosciuto nel mio paese - per lusingarmi che vorranno accordarmeli. - Quanto sarei contenta di venire con voi nel vostro paese! Non crediate già che noi siamo felici qui dentro. Non amiamo nessuno, noi; non siamo amate da nessuno: io per esempio mi reputava assai sventurata prima di vedervi; ed ora ... sento bene che sarò felicissima con voi, tanto più se lungi di qui, perché ... queste dame ... ve ne sono delle graziose, delle più avvenenti di me .... - Non è possibile, io dissi con asseveranza. - Oh, sì, diss'ella ve ne sono delle più graziose ... e voi le amereste. - Mai. - Voi le amereste. - E via, diss'io abbracciandola, non pensate a queste cose. - Una scena di gelosia, a quest'ora, ruminava intanto tra me stesso; e vedendo che Opala aveva gli occhi inumiditi di lacrime, pensai di dare una diversione più lieta al nostro discorso. Ma non trovava argomento di una diversione che tornasse anche acconcia a' miei disegni. Cambiai argomentazioni di sbalzo. - Che occhi furbi che avete, le dissi affissandola con aria che stava tra l'ammirazione e l'insolenza. - Non è vero. - Sì, è vero, avete degli occhi meravigliosi veramente! E che capelli! Lasciatemi toccare .... che trecce piene, abbondanti! Ma non avete freddo ai vostri piedini, così, con quelle pianelle sì trasparenti? - No. - È impossibile. Che piccoli piedi! scommetto che sono più brevi della mia mano. Vediamo, lasciatemi misurare. - Ecco. - Vedete: avanza tutta l'unghia del dito, tanto così .... Siete pur graziosa! Come non amarvi? Bellissima creatura! - Via, via, voi mi adulate .... - No, non è vero. - Sì. - No, ve lo giuro. - Giurate soltanto di amarmi. - Lo giurerò dopo. Datemi un bacio. - Ecco. Ma Opala aveva detto troppo presto questa parola. Mentre che ella curvava il suo volto sul mio si arrestò a mezzo dell'atto: la fanciulla aveva ascoltato un rumore improvviso all'uscio del gabinetto. - Affrettatevi, diceva dal di fuori colla sua voce stentorea, il mio primo ministro, l'ora del giudizio è già trascorsa, e la folla vi attende con impazienza; un indugio maggiore potrebbe peggiorare le gravi complicazioni politiche in cui versiamo, non fatevi aspettare più oltre. Mio Dio! io dissi, interrogando di nuovo il mio vecchio orologio di Ginevra, è vero, l'ora fissata è trascorsa di qualche minuto. Ma è un abuso cotesto .... ho o non ho un'autorità sovrana, assoluta? Disturbarmi, sorprendermi così nelle mie stanze, interrompermi durante le espansioni più doverose delle mie tenerezze domestiche? Se giungo a consolidarmi sul trono, rifarò da capo il regolamento interno della mia casa. E ricordandomi che il ministro attendeva fuori dell'uscio - vengo, soggiunsi a voce più alta, sono da voi, avvertitene il popolo. Quindi abbracciai la fanciulla che mi diceva: è un vero dispetto, venirvi ad importunare a questa ora. Che orrore! Ma ci rivedremo stassera. Mi avviai alla sala del giudizio: era mia intenzione di tenere un contegno severo, di impormi, di farmi temere; ciò che pareami sarebbe tornato assai più efficace di un'indulgenza che i miei sudditi erano ben lungi dal meritare. Oltre a ciò aveva in animo d'introdurre nelle leggi dello Stato alcune disposizioni, la cui saggezza avrebbe potuto dare il concetto più lusinghiero della mia sapienza governativa. - Sarò severo, diceva tra me stesso, ponendo il piede sul limitare della sala, sarò inflessibile: e debbo confessare che in quel momento la mia anima macchinava tristi progetti a danno del mio popolo. Se io riesco a consolidarmi sul trono; se coi tesori di mio padre potrò formare un partito numeroso alla mia causa, muterò sull'istante i vecchi statuti del Regno - ruminava tra me medesimo - e cambierò il governo costituzionale che mi tiene legate le mani in un governo dispotico. Farò, come mio padre, un colpo di Stato. Che cosa è questo governo costituzionale? Una derisione per la mia persona, per la mia qualità, per le tradizioni gloriose della mia casa. Il popolo fa ciò che gli aggrada, e io debbo accennare della testa come un fantoccio snodato di Norimberga quando gli si tira il filo che lo fa gestire. Aveva appreso nel mio paese come si debba governare una nazione: allora era suddito, adesso era re, ma non si trattava che di invertire le parti. - Guai a quel capo dello Stato, ripeteva a me stesso, che non sa fare del suo popolo tanti tipi perfetti di cretino, che invece di pensare a fruire di tutte le risorse della sua posizione, e a dare al paese buon numero di sudditi di sangue reale e plebeo incrociato, si occupa coscienziosamente dell'avvenire e della dignità della nazione che gli ha affidato i suoi destini. Questa testa coronata è una testa già distaccata dal collo. La civiltà è una mannaja che taglia le teste coronate. Io confesso che il mio orgoglio non lasciava più alcun limite alla mia fantasia. In quell'istante di entusiasmo, la teocrazia stessa era ancora poco per la mia ambizione. Entrai nella sala, e presi posto sul trono: a' miei fianchi stavano i ministri, d'innanzi a me i colpevoli, all'intorno la folla. I Denti neri si alzarono e mi fecero un'ovazione fragorosa; ma quegli scellerati Denti, bianchi coi loro orribili denti bianchi, armati dai piedi alla testa, mi guardarono torvi e sdegnosi tacendo. Feci allora un piccolo discorso di occasione che provocò qualche applauso dalla tribuna dei giornalisti stipendiati; dopo di che tentai il mio colpo d'effetto; domandai che mi si portasse la raccolta delle leggi dello Stato, e pregai il mio segretario particolare a dar lettura dei nuovi regolamenti che io aveva raffazzonati a questo scopo lungo il viaggio, e che intendeva inserire in quegli Statuti. Consistevano in una serie di articoli relativi all'abolizione del melodramma dal teatro Potikorese, basati su queste ragioni: essere il dramma musicale il non-senso più enorme, l'assurdo più mostruoso e più ridicolo di cui la scienza si sia resa colpevole. A questo progetto ne andava annesso un altro relativo ai mimi, ai ballerini, ai tenori e ai baritoni dalla trachea più o meno dilatata; ai primi dei quali doveva essere inflitta una pena di ridicolo pel diritto di esercitare il loro mestiere, e ai secondi s'imponeva l'obbligo di ricordarsi consistere tutto il loro merito nella forma e nella dimensione della trachea. Un secondo progetto di legge regolava i diritti degli autori e degli editori. Cinquanta articoli si riferivano esclusivamente a questi ultimi, ed erano sì severi e ad un'ora sì giusti, che mi sento addoloratissimo di doverli ora tacere in causa della loro prolissità. Mi limito a rammentare che in uno di essi, per un caso di pirateria libraria, era proposta la pena della sospensione pei piedi fino a totale estinzione di vita, - e credo che fosse poco. Altri articoli stabilivano pene pei delitti letterari. V'erano severamente puniti i lavori di collezione e di circostanza; quei lavori di schiena che si atteggiano a lavori di testa, ec. ec. Un'appendice a questa disposizione interdiceva alla classe dei professori di credersi letterati, e li chiamava responsali d'innanzi alla posterità della istruzione eunuca e della catalessi intellettuale che è condannata a subire la giovine generazione dei tempi nostri. Un'altra disposizione legislativa toccava delle fame imposte e delle fame usurpate; proponeva pene pei letterati funamboli; condannava a perpetuo bando dall'isola i poeti che si fossero attentati a dar lettura dei loro versi a qualche infelice costretto a subire questa violenza, e vietava finalmente la rappresentazione del dramma e della tragedia - considerate come le più ridicole parodie del dolore e delle sciagure umane. Erano, in una parola, un complesso di leggi inspirate dalla più alta saggezza, e la mia mortificazione non fu sì grande come la mia meraviglia quando intesi che esse erano già state introdotte nel Codice di Potikoros, fino dal tempo in cui quest'isola si reggeva a repubblica. La repubblica aveva dunque giovato a qualche cosa? Per la prima volta io compresi che il Due dicembre di mio padre aveva avuto in sé tutto il carattere di un tradimento indegno, e mi sentii tratto a fare un apprezzamento più benigno di quegli onesti Denti bianchi che coi loro atteggiamenti minacciosi, e coi loro terribili incisivi foggiati ad uncino, reclamavano la ricostituzione del primo sistema governativo dello Stato. Ma in quel momento non poteva, come avrei voluto, soffermarmi su queste considerazioni; e d'altronde il mio interesse personale mi avrebbe reso ingiusto nell'apprezzarle. Credete voi che tutti coloro che sedettero - come io ho seduto - su un trono, non abbiano fatte le stesse considerazioni, benché le abbiano poi soffocate nel fondo della coscienza collo stesso spirito di egoismo? Un fatto meraviglioso si presenta, fino dalle prime epoche della storia dei popoli, agli occhi dell'osservatore e del filosofo. Cinque o sei furbi matricolati regolano a bacchetta i destini di tutta questa massa sterminata di pecore che è l'umanità. Ho letto, non so più dove: mala bestia esser l'uomo, divina cosa la umanità. Non è vero! Per me ho dovuto sempre guardare all'uomo, all'individuo, alla creatura isolata per sapermi trovare meno in disagio colla massa degli uomini; mi sono riconciliato alla meglio, dacché vivo, con tre o quattro di loro, ma credo che non mi riconcilierò mai col resto dell'umanità. D'altronde questa credenza ha cessato di addolorarmi. Ma bando alle digressioni. Era tempo d'incominciare il giudizio, e feci perciò avanzare il primo colpevole. Fu data lettura dell'atto d'accusa. Io era tutto orecchi nell'ascoltare, anzi per servirmi d'una frase inglese, era tutto un orecchio, poiché non ignorava che il mio destino dipendeva totalmente dall'esito di quel giudizio. L'atto di accusa era concepito press'a poco in queste parole: «Akriundaz, della provincia di Pikliya-pokenos, di anni trentadue - della tribù dei Denti neri, di professione incettatore di merli bianchi, è imputato del furto di due pani rubati nella bottega Srikis Tenariasbikeloz esistente sul corso principale della nostra città di Potikoros, con rottura d'un vetro, e senza circostanze attenuanti». Benché la lettura di quell'atto scritto in lingua Potikorese avesse fatto poco meno che spezzarmi i timpani delle orecchie, riordinai come sapeva meglio le mie idee, e invitai l'imputato ad esporre le sue difese. - L'incetta dei merli bianchi, disse egli, essendo diventata più difficile e meno lucrosa per l'introduzione del merlo nero operata dalla Serenità di vostro padre nella nostra isola, e in causa dell'omaggio che vien reso ad esso dal popolo, essendo caduti in dispregio i merli dell'altro colore, io mi sono trovato da qualche tempo fuori della possibilità di vivere dei frutti del mio commercio. Ho chiesto stamane all'onorevole fornaio Tenariasbikeloz che mi fossero dati ad imprestito alcuni pani. Rifiutandomeli egli io ho spezzato un cristallo della vetrina e ne ho tolti due. Io sono un onesto Dente nero. Causa essenziale di questa violenza, fu l'intenzione che aveva di festeggiare, come mi permettevano i miei mezzi, l'assunzione di Vostra Maestà al trono di Potikoros. Questa difesa cui non mancava l'intingolo dell'adulazione, mi dispose in favore dell'imputato. - Avreste dovuto, io dissi, far conoscere alle autorità del vostro paese - parmi, se non erro, Pikliya-pokenos - che vi trovavate nelle circostanze che avete esposte; quel solerte questore di polizia vi avrebbe autorizzato a chiedere l'elemosina senza violare le leggi dell'onestà con una appropriazione sì violenta. - A chiedere l'elemosina! disse meravigliato il mio ministro. E vide che gli uditori avevano sbarrato tanto d'occhi nell'udire quelle parole. - Sì, ripresi io, a voce più alta, lo si sarebbe autorizzato alla mendicità, lo si sarebbe munito di apposita placca, come corre l'uso nei paesi civili dell'Europa. Un bisbiglio immenso si sollevò dalla folla, un bisbiglio di disapprovazione universale. Io sentii salirmi il sangue dai piedi alla testa, e subito precipitare dalla testa ai piedi, e rimontare di nuovo alla testa. - Ignoro, aggiunsi con coraggio, quali sieno le leggi di polizia di questo paese, ed è evidente che non possa sull'istante conformarvimi. Sarà mia premura di prenderne subito cognizione. - Tra noi, interruppe il mio segretario particolare, non è ammessa in alcun modo la mendicità; appena conosciamo il significato di questa parola per le notizie che abbiamo avuto delle usanze invalse in Europa. Nell'isola di Potikoros ogni suddito ha diritto al lavoro; e in caso d'impotenza, ha diritto al mantenimento a spese dello Stato. - Sono leggi veramente saggie, io dissi, veramente apprezzabili. Ringrazio il mio degno segretario particolare di avermene reso informato; ma .... riprendiamo il corso del nostro processo: L'onorevole fornaio .... - Tenariasbikeloz, suggerì uno dei ministri. - Tenariasbikeloz .... si trova egli presente all'udienza? In questo caso deponga se è vero che l'imputato gli abbia chiesto ad imprestito i due pani prima di rubarglieli. Il fornaio si avvicinò al tavolo della presidenza e depose esser vero. - Quando è così, io ripresi, atteggiandomi a severità, udite le giustificazioni dell'accusato, visto la necessità di mantenere inviolate le leggi fondamentali d'ogni diritto civile, tenuto conto dell'asserzione del derubato, e delle altre cause attenuanti, condanno il nominato Akriundaz - credo Akriundaz, incettatore di merli bianchi, alla pena di quattro anni di lavori forzati. Non avessi mai pronunciata quella sentenza! Un urlo di disapprovazione si sollevò dalla folla, un urlo così fragoroso e feroce che i miei stessi ministri se ne sentirono impauriti I capelli mi si drizzarono sì rigidamente sul cranio, che m'accorsi che la mia corona doveva essersi sollevata due buoni pollici dalla testa. I Denti bianchi, digrignando i loro terribili incisivi, domandavano che ne andasse libero l'accusato, e che si sottoponesse invece a processo l'onorevole fornaio Tenariasbikeloz: adducevano a pretesto il diritto che egli aveva di appropriarsi quei pani che aveva chiesti, e che gli erano stati rifiatati; e citavano non so qual articolo di legge, nel quale era detto che ogni cittadino resosi, per qualsifosse ragione, impotente al lavoro, poteva esigere il mantenimento gratuito a spesa dei privati ricchi e dello Stato. Io non so come giungessi a sedare quel tumulto. La fermezza del mio contegno e quella de' miei ministri - sento il dovere di rendere loro questa giustizia - riuscirono a poco a poco a ristabilire un po' d'ordine nella adunanza. La minaccia di far sgombrare la sala da un mezzo pelottone di Denti neri ottenne il suo effetto. Quando la calma fu ristabilita, ordinai che si facesse avanzare il secondo colpevole. Era il direttore del giornale Il Giudizio Universale (il giornale ufficiale di Potikoros) accusato di aver recato il disonore in una onesta famiglia con alcune taccie infamanti, destituite d'ogni verità. L'onorevole direttore parevami una persona seria e meritevole d'ogni riguardo, oltre di che io mi trovava in certo qual modo legato a lui da una vecchia intimità di famiglia, e sentiva il dovere di difenderlo e di pronunciare per esso una sentenza assai mite. - Ove è il gerente? io chiesi: se l'accusato non è direttore responsabile, si conduca qui il gerente e si lasci libero il giornalista. - Il gerente! esclamò il mio giudice istruttore, che cosa è il gerente? Può egli darsi che una persona qualunque si faccia responsabile dei reati di un'altra? Puniamo i reati, o puniamo le coscienze? - Un tale sistema, io dissi, è invalso in tutte le nazioni d'Europa, né io posso giudicare di questa accusa senza conoscere le leggi speciali che regolano la stampa Potikorese. D'altronde .... parmi che questo sia un fallo assai mite; una semplice riprensione .... un semplice ammonimento - Indugierò, ad ogni modo, a pronunciare la mia sentenza fino a che non avrò presa cognizione delle leggi che ho ora accennate. Prego l'onorevole magistrato a fare avanzare il terzo colpevole. Uscitone in tal guisa pel rotto della cuffia, gettai gli occhi sulla folla per conoscere l'impressione che vi avevano prodotto le mie parole. Il disordine si era in parte rinnovato; non era precisamente lo stesso scompiglio, la stessa disapprovazione plateale di prima; ma poco meno. Si vedeva chiaro che la impazienza dell'uditorio stava per prorompere in una dimostrazione più energica e più difficile a reprimere. L'interesse che destava il terzo accusato ebbe virtù di distogliere in tempo i loro animi da questa disposizione. Era egli un alto funzionario governativo, imputato di grave prevaricazione per una somma di molti milioni sottratti alle casse dello Stato. Come suole avvenire in simili casi, le prove erano bensì manifeste, ma confutabili in mille maniere, e facili ad essere ritorte a danno di altri funzionarii. Io diressi ed illuminai in alcuni punti lo svolgimento del processo; ma benché fosse universale la convinzione che si aveva del suo reato, le prove volute dalla legge non avevano tutti i dati necessarii per autorizzarmi a pronunciare un verdetto di colpabilità. Io mi trovava posto in una titubanza terribile - era il caso dell'incudine e del martello - e considerando che l'accusato era un Dente bianco, e faceva parte di quella tribù di cui doveva starmi specialmente a cuore il favore; che egli apparteneva alle alte sfere governative, nelle quali è stabilito il principio che una mano lava l'altra, che questa appropriazione sarebbe stata considerata nel mio paese come una bagattella di nessuna importanza, come uno spostamento di cifre (è la parola addottata da alcuni governi costituzionali per definire i furti governativi) credetti mostrarmi abbastanza severo nel pronunciare una sentenza che lo spogliava semplicemente della sua qualità, e lo esonerava dalla sua carica. Fu la scintilla che cagionò l'incendio: il furore del popolo proruppe sì vivo, sì unanime, sì violento che io mi avvidi subito che non vi era più mezzo a contenerlo. I miei stessi ministri erano rimasti meravigliati della stoltezza del mio giudizio; e temendo che i rivoltosi non li considerassero come facienti causa comune col re, si affrettarono a ritirarsi prudentemente nelle anticamere. Io rimasi come paralizzato, come pietrificato sul trono; e solamente alcuni istanti dopo, quando mi avvidi che la folla gridando «abbasso il re, si destituisca il re,» ed altre graziosita di questo genere, si accingeva a superare lo steccato per impadronirsi della mia persona, pensai a mettermi in salvo nell'interno della reggia. Non dirò quali fossero i pensieri che mi passavano allora pel capo, - rapidi, vari tumultuosi, inutili tutti .... Fu però un'incertezza di un istante. Quando vidi che le persone della mia casa cercavano di rifuggirsi nei gabinetti segreti, e non solo non avevano a cuore la salvezza della mia maestà reale, ma era molto se non attentavano essi medesimi alla mia vita; quando intesi che il tumulto popolare andava orribilmente crescendo, e che i Denti bianchi erano già penetrati in alcune sale della reggia, deliberai di cercare salvezza nella fuga. Mi precipitai verso il mio serraglio, poiché non sentiami la forza di abbandonare il mio regno senza portarne meco la fanciulla che mi aveva affascinato, e abbracciando Opala, le dissi: La rivolta sta per spogliarmi del regno e della vita .... fuggiamo, vieni meco: io sarò ancora il monarca più felice, il più ricco, il più fortunato se potrò trascorrere il resto della mia esistenza con te .... se tu sarai mia, mia cara Opala, mia dolce fanciulla! Sì, sì, fuggiamo nella mia patria, dove la dignità e la coscienza popolare assicurano la monarchia da questi pericoli, dove i re non sono costretti ad infiggersi un osso di balena nel naso, ma menano essi stessi pel naso i sudditi devotissimi .... vieni, vieni .... Ma lascia prima che io prenda i tesori di mio padre .... Ove sono i tesori di mio padre? quel diamante favoloso, quegli smeraldi .... Opala allacciandomi il collo colle sue braccia bianche e delicate, mi diceva colla voce interrotta dal singulto: - Non uscire, non uscire di qui; forse i Denti bianchi non entreranno in questo tempio, rispetteranno il culto che queste vergini rendono all'amore, forse .... - Ma è impossibile, io interruppi, fuggiamo, fuggiamo, ripariamo verso il mare; se possiamo attraversare la capitale senza essere conosciuti, se ... Ma in quel momento si spalancò l'uscio del serraglio, e una turba di Denti bianchi apparve minacciosa sul limitare, Io non vidi che una cosa, i loro denti, tanto essi erano orribili, tanto erano bianchi, lunghi, aguzzi, scoperti dalle labbra che l'avidità del mordere aveva rovesciate e contratte in una smorfia feroce. Lo ripeto, io non vidi che i loro denti; e in questo stesso momento in cui scrivo, quelle orribili rastrelliere che si digrignavano da sé, come segregate dal resto della persona, come attaccate a qualche cosa d'impercettibile, mi balenano dinanzi agli occhi simili alle dentiere artificiali d'un cavadenti collocate per mostra sopra un fondo di velluto nero in una vetrina. Vederli e rabbrividire, e rimanere là immobile e paralizzato sul luogo, come se vi avessi messo radici, fu un punto solo. Un Dente bianco si spiccò allora dal limitare dell'uscio, e venne verso di me, avventandomi una specie di giavellotto che teneva fra le mani. Fu un istante. Opala lo vide, si rivolse, si interpose, e ... oh mio Dio! ... ricevette ella stessa il colpo mortale che mi era stato diretto. Non tenterò qui di evocare quella memoria terribile. Io vedo ancora il suo candido seno lacerato da una ferita profonda, vedo i suoi grandi occhi nuotanti nella morte e nelle lacrime, e ascolto le sue ultime parole interrotte dall'anelito: «io muoio per te ... io ti ho amato .... ricordami.» Commosso, tratto di senno, inferocito a quella vista, volli allora avventarmi, inerme come era, contro i ribelli ... ma quelle orribili rastrelliere mi balenavano ancora dinanzi agli occhi; io le vedeva ancora là, lunghe, bianche, isolate come le dentiere del cavadenti; e sentiva quel rumore sordo, quello scricchiolio freddo e secco che producevano digrignandosi. Mi arrestai a mezzo dell'atto; qualche cosa di nero mi passava dinnanzi alla vista; sentii che le mie forze mi abbandonavano ... vacillai e caddi privo di sensi. Quando rinvenni mi trovai carico di catene, e circondato da alcuni vecchi denti bianchi, i quali avevano costituito un apposito Consiglio di guerra per giudicarmi. Mi fu letto l'atto di accusa, nel quale mi si imputava di aver voluto sovvertire gli ordinamenti dello Stato con una interpretazione falsa e speciosa delle leggi che lo governavano: di aver fatto atto di disprezzo verso le usanze del paese - usanze che avevano forza di legge - rifiutandomi a trafiggere il mio naso greco con quell'ornamento grazioso di balena: di aver poste in grave pericolo la quiete e la sicurezza della nazione, costringendola, in seguito alla mia decadenza dal potere, a riadottare la forma primitiva di governo, il regime repubblicano, o ad eleggersi un re nazionale. In causa dei quali reati io veniva considerato come decaduto dal trono di Potikoros, e condannato alla pena della morte per sospensione. Fui invitato ad esporre le mie difese. Anzi tutto, io dissi non posso ammettere in questo onorevole Consiglio di Denti bianchi il diritto di giudicarmi. Io vedo qui rappresentata una sola metà della nazione. Ove è l'altra metà? Ove sono i degni rappresentanti dei Denti neri? Ma ove pure essi facessero parte di questo consesso, i diritti di un re non posson essere discussi da suoi sudditi, e le sue colpe - se un re può commettere delle colpe - non possono essere né giudicate, né punite da essi. Io venni qui, in un paese i cui ordinamenti si erano rilassati per un lungo interregno, nel quale la demagogia incominciava a difondere le sue dottrine rivoluzionarie, le cui leggi erano violate da un'anarchia impossibile ad arrestarsi. Io vi venni chiamato dal suffragio popolare, invitato da una rappresentanza della nazione, eletto dal voto di tutti i governi d'Europa. Io venni a governare questo popolo cieco e traviato che aveva bisogno di essere ricondotto sotto il regime della monarchia: vi venni per un puro istinto di umanità, per un semplice spirito di abnegazione. Affetti e interessi mi trattenevano in Europa. Il mio sangue, il sangue di mio padre, è uno dei più antichi e dei più nobili tra tutte le dinastie di quel gran continente incivilito. Io ho avuto pietà di voi; io era venuto ad apportarvi l'ordine e la felicità che regnano in molte capitali di quegli stati; mi era sacrificato a mutare il mio berretto di cotone europeo in un turbante di penne, a ricevere quaranta milioni di appannaggio, a comandare a quaranta milioni di sudditi, a vivere da monarca in questa reggia ... aveva fatto tutto questo per voi; quale è la ricompensa che mi avete accordata? Sdegno giustificarmi più oltre: la razza dei re è una razza speciale, e ogni re che si rispetti non può ammettere in voi il diritto di giudicarlo. Gli storiografi stipendiati, i sudditi devotissimi di cui non vi sarà mai deficienza nelle generazioni future mi giudicheranno. Ho detto. Uno scroscio di risa feroci accolse le mie parole, e delle voci si sollevarono dalla folla che gridavano: alla corda, alla corda. Fui condotto al luogo destinato ai supplizii. Quivi un abisso profondo, immenso, si apriva nel seno di una montagna: in fondo alla voragine, sulle punte di granito e di metallo taglienti come lame, roteavano stormi di astori e di aquile. Fui legato ad una corda annodata alla punta di un albero, il quale inclinandosi sull'abisso, ne guardava il mezzo colla cima. Prima che la corda abbandonata a sé, mi sospendesse perpendicolarmente sulla voragine, io diressi ancora alcune parole ai Denti bianchi: - Domando, io dissi, che la salma reale sia trasportata in Europa, per ricevere sepoltura nelle tombe de' miei padri. Che, ove non ottemperaste a questo desiderio, la mia nazione invierebbe immediatamente la sua flotta a bombardare i porti di Potikoros, e impadronirsi dell'isola. Né io pensava in quel momento che era impossibile tornar da quell'abisso, e che mi sarei fatto a brani cadendo sulle punte di granito che formavano il fondo. E comprendeva benissimo che la mia salma doveva aver nulla di più sacro della salma d'un zoccolante; poiché il corpo d'un re e quello d'un mendico producono la stessa specie di vermi; e, come aveva letto nel Amleto, si può gettar l'amo ad un pesce col verme che mangiò di un re, e un mendico può mangiare di quel pesce, per modo che il corpo di un re entri nelle viscere di un mendico. Nondimeno la mia vanità mi spinse a proferire quelle parole. Vanità inutile, poiché i Denti bianchi tornarono a sorridere di quel sorriso feroce che mi aveva poc'anzi agghiacciato il sangue nelle vene, e a contrarre le labbra a quella smorfia infernale, di cui non saprei darvi un'idea se non richiamandovi alla mente quello scoprirsi delle mandibole che osserviamo nei mastini e nelle fiere quando stanno per avventarsi, e che noi soliamo indicare col dire: mostrano i denti. Non si frappose più indugio alcuno al mio supplizio. Fui condotto sull'orlo della voragine, e spintovi in guisa che, essendo stato annodato alla corda, mi trovai sospeso perpendicolarmente sopra l'abisso. I cavalieri dei Denti bianchi, i miei stessi ministri, le persone più autorevoli dello Stato disposti in circolo sull'orlo della voragine, tentavano di tagliare a colpi di freccia la corda che mi teneva sospeso. Era un supplizio lungo, lento, crudele, atrocissimo. Ogni trecciolino della corda tagliato si arricciava da una parte e dall'altra, assottigliando sempre più il centro di essa, su cui erano dirette le freccie. Dopo due ore di patimenti infiniti, la corda rotta in più luoghi, non reggeva più che per un semplice filo al mio peso. Curvandomi e guardando sotto di me, io vedeva l'abisso nero e profondo che mi attendeva, gli uccelli di rapina che aspettavano il mio cadavere per divorarlo, e qua e là le ossa imbiancate degli infelici che avevano subito prima di me quel supplizio tremendo .... Un solo filo reggeva ancora la corda, le freccie passavano fischiando da tutte le parti e non la colpivano: io guardava la corda e l'abisso, poi la corda, poi ancora l'abisso, e mi contraeva, mi arricciava, mi aggomitolava, come avessi potuto con ciò sollevarmi dal fondo della voragine. Non so quanto durasse quell'agonia. A un tratto una freccia colpì nella corda, la ruppe, precipitai, innalzai un grido di orrore e ... oh mio Dio! .... mi svegliai, e mi trovai nel mio letto. - Che vergogna! mi disse Elettra appoggiata col gomito ai mio capezzale, è da jeri sera che tu dormi; sono ora ventiquattro ore .... - Ventiquattro ore! - Sì cotesta tua abitudine di bere ... io ti vegliava inquieta ... - Ventiquattro ore! ripetei tra me stesso stordito: un sogno di un giorno, perocché adesso ... - Siamo di sera. Hai, dormito un giorno intero. - Un giorno! Ed ora, miei lettori, dubiterete ancora che non sia questa la storia di un giorno della mia vita?

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Eva

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Verga, Giovanni 1 occorrenze

Scostò colle sue mani i capelli dalla mia fronte; mi guardò con certi lampi abbaglianti negli occhi - mi guardò a lungo così, tenendomi la fronte fra le mani - e poscia, come rispondendo a se stessa: "Vattene!" mi disse "vattene!" E non mi lasciava, e sporgeva verso le mie le sue labbra sitibonde, e chiudeva gli occhi. Mi richiamò di nuovo, quand'ero sulla soglia dell'uscio. "Dammi qualche cosa di tuo" mi disse; "dammi il tuo fazzoletto." E poscia un'altra volta: "Aspetta! Voglio che anche tu pensi a me." Si staccò dal seno uno spillo d'oro, e mi punse leggermente sulla mano. "Bravo!" esclamò dandovi su un bacio. "Ora vattene. Addio!" Attraversai l'andito al buio, e andavo tastando tutte le serrature dell'uscio, senza trovar modo di aprirle. Al di là dell'altro uscio udivo un fruscio di vesti e di passi, come se Eva andasse e venisse per la camera. Questa situazione si prolungava e cominciava a farsi imbarazzante. Non potevo tornare indietro, e non potevo chiamare la cameriera. Tutt'a un tratto udii uno scoppio di risa fresco, gaio, argentino - uno scoppio di risa che mi chiamava per nome, e comprendeva tutte le mie follie. Mi trovai, non so come, sull'uscio della sua camera; sollevai la portiera, e vidi quella leggiadra testolina che si affacciava fra le cortine del letto incorniciata dai biondi capelli e dai candidi merletti - saettandomi il delirio del suo sorriso, le ebbrezze dei suoi sguardi, e il fascino del suo silenzio. *** Io non saprei dirti quanto durasse cotesto sogno febbrile, e quello ch'io vi provassi. Avevo in seno tutte le gioie, tutti gli entusiasmi, tutte le frenesie ... e mi soffocavano. Sembravami che il cuore mi si dilatasse talmente, per tanta piena di affetti, che il mio petto non bastasse a contenerlo. Provavo nello stesso tempo tal fastidio di me, tal rimorso, come un dolore pungente. Sentivo che ero tremendamente felice. Passavo i giorni sognando ad occhi aperti, alla finestra, o presso il camino, o gironzolando per le vie - senza vedere, senza udire, senza pensare - e la notte divoravo avidamente tutte le ebbrezze. Partivo da lei all'alba, di nascosto, come un ladro che ha rubato il paradiso. Provavo sgomenti inesplicabili; di tratto in tratto il cuore mi palpitava di gioie improvvise, acri e dolorose; sentivo arcane e infinite ispirazioni artistiche che non avrei neppure tentato di esprimere, e impotenze desolanti. *** Ella mi amava veramente. Quell'amore sarà stato un capriccio, ma in quel momento era sincero. Le arrecavo paura e diletto. Delle volte mi guardava timidamente, e all'improvviso mi saltava al collo, ebbra anch'essa d'amore. Aveva certe strane curiosità di sapere come fosse fatto il mio cuore che l'amava in tal modo. Mi chiudeva gli occhi con le mani, metteva la sua bocca nella mia per sentire come fosse caldo il mio alito, ed appoggiava l'orecchio sul mio cuore per udire come battesse. Mi voltava e rivoltava in tutti i sensi, scomponeva i miei capelli, e quando l'affissavo a lungo negli occhi, li chiudeva con un piccolo grido di paura. "Se avessi saputo di doverti amare così" mi diceva, "non ti avrei più cercato. Mi fai male!" *** Delle volte voleva che le suonassi al pianoforte la musica dei suoi balli, ed ella mi appariva improvvisamente dinanzi nel suo leggiadro costume, e spiegava intorno a me tutte le seduzioni - per me! per me solo! - il sorriso inebbriante, gli sguardi pieni di promesse, i capelli disciolti, il seno palpitante ... E tutte le volte finiva saltandomi sulle ginocchia, e annegandomi in un'onda di velo. "Come ti amo!" mi diceva. "Come ti amo!" *** Un giorno mi disse, quasi paurosa: "Come farò a non amarti più?" *** E un'altra volta: "Sai ch'è più di un mese che ti amo così!" Erano esclamazioni di una commovente ingenuità, ma mi arrecavano aspri dolori. "Non mi amerai sempre così?" le dissi. "Oh, sempre!" mormorò con mestizia. "Neanche tu m'amerai sempre così!" *** In cotesto delirio, che si prolungava tanto, capirai che il mio tenore di vita era molto cambiato. Non lavoravo più, non ricevevo più nessuno, non scrivevo più nemmeno alla mia famiglia, tranne delle brevissime lettere, ad uso telegramma, e tutte le volte per chieder danaro. Non puoi immaginare come una tal passione sia divorante per uno che si trovi nella mia disgraziata condizione, e come divori specialmente il denaro, ch'è la cosa più preziosa. Io non spendevo un soldo per Eva, nemmeno per regalarle un mazzolino di viole, ma provavo mille nuovi bisogni: avevo comperato degli abiti nuovi, avevo bisogno di essere elegante, di lavarmi le mani con acqua di Colonia, di essere ben alloggiato, di desinare da Doney, di portar dei guanti - e tutti questi nonnulla sono enormemente dispendiosi per un pensionato del Comune a centocinquanta lire. Ohimè! Vorrei credere che fossi pazzo, perché fui assai vigliacco, perché fui infame. Io divenni esigente sino all'impossibile verso la mia povera famiglia - fino a strapparle il necessario per comprarmi delle cravatte. - Non scrivevo altro che per chiedere denaro, e mentivo anche l'affezione! Oh, mia povera mamma! Oh, padre mio!... e non arrossivo allorché vedevo giungere quel denaro che costava tanti stenti ai miei genitori! No! Non arrossivo! - E allorché le mie richieste si fecero più frequenti, più insistenti, vidi le lagrime di mia madre, lo sconforto di mio padre per non potermi mandare più nulla - e non provai altro dolore che la paura di rimanere senza quattrini - e non esitai, no! ad abusare dell'inesauribile affetto paterno fingendomi ammalato, e scrivendo di aver bisogno di denaro a ogni costo - e non pensai al dolore immenso, alle ansie morali dei miei genitori che per specularci sopra ... Ah! cos'ero divenuto, mio Dio!... dove avevo la testa? che se n'era fatto del mio cuore? Non pensai neanche a morire; non pensai a buttarmi in Arno - avevo bisogno di vivere. La risposta non si fece attendere. Ricevetti un vaglia di centoventicinque lire e una lettera che mi avrebbe lacerato il cuore se non l'avessi avuto di pietra. Mia madre ci aveva aggiunto i suoi scarabocchi e li aveva inzuppati di lagrime; mio padre mi scongiurava di vendere tutto quello che possedevo, se quei denari non mi fossero bastati per fare il viaggio, e di ritornarmene a casa, giacché non poteva mandarmi più nulla. Riscossi il vaglia e lacerai la lettera. Ero malato, non è vero? Avevo un'orribile malattia di cervello o di cuore! Ero pazzo! Non ero io! *** Alcune volte, quando aspettavo Eva delle ore intere nella sua camera, mentre ella riceveva i suoi numerosi amici, mentre la sentivo ridere e folleggiare nel suo salotto, provavo delle collere sorde ma selvagge contro di lei. Allora tutte le amarezze che quell'amore mi costava mi sfilavano davanti agli occhi. Ero geloso, e mi vedevo ridicolo, nascosto dietro il suo uscio a divorare in silenzio la mia gelosia. - Alcune volte sembravami che tutta quella gran gelosia non si riducesse ad altro che ad una febbrile impazienza di stringermi Eva tra le braccia. Poi ella compariva, sorridente, inebbriante - la luce si faceva e mi abbagliava. Ella trovava cento pretesti per venire a stare con me due o tre volte durante quelle visite, e in quei due minuti in cui ella mi saltava sulle ginocchia aveva tali carezze, tali baci, tali parole da farmi impazzire. Sembrava che gli ostacoli irritassero il suo amore e gli dessero mille nuove attrattive. Noi ci dicevamo delle cose futili, sciocche, senza significato, sottovoce, tremanti, estatici. - Poi ella mi lasciava con un bacio e scappava via. *** Una volta mi trovò che ridevo. "Che hai che ridi così?" mi domandò. "Penso alla bella figura che ci fanno quei tuoi amici di là, mentre tu sei qui con me ..." "Oh, mio Dio!... ma ne ridi in un certo modo!..." *** Un altro giorno le dissi: "Senti Eva, delle volte mi assale la tentazione di entrare all'improvviso in quel salotto, e schiaffeggiare tutti quei bei signori." "Sei matto?..." "Lo so anch'io. È una pazzia; ma ci avrei gusto, ecco!" *** Una sera ebbi la tentazione di origliare dietro l'uscio e di guardare dal buco della serratura. Lo feci con un gran battito di cuore - non di vergogna, ma di paura. Quand'ella venne da me, mi trovò così pallido e corrucciato che mi domandò dolcemente che cosa avessi. Io le dissi con amaro sorriso: "Che persone sono quelle, Eva?" "Oh, della migliore società." "Infatti sembrava che si tenessero molto al di sopra di voi. Vi fumavano in faccia!" "Hai visto?" "Sì!" esclamai con un sogghigno dove cercai di mettere tutto il fiele che avevo in cuore. Ella non mi rimproverò la mia indiscrezione. "Hai fatto male" mi disse semplicemente facendosi triste. "Ho avuto torto, lo so." "Non dico ciò per me, ma per te." "Oh, per me!" "Non ridere così, Enrico! Ascoltami; se vuoi essere felice contentati di amarmi e di essere amato come io ti amo. Tu hai il cuore caldo e la mente esaltata. Certe curiosità a mio avviso ti farebbero male." "Ah! voi lo sapete!" "Sì," rispose tranquillamente, guardandomi con tutta franchezza. "Ma che vuoi farci? Tu sai che cosa sono: mi hai amato appunto per questo. Ora per essere quella che sono bisogna che io mi rassegni a siffatte visite, anche quando mi annoiano." "Soltanto questo?" "Soltanto questo." "Oh! non basterà!" "Basterà ... perché ti amo!... Hai torto a lagnarti!" Mi guardò a lungo negli occhi con tanto amore che avrei giurato fosse sincero; mi prese entrambe le mani, e mi disse con serietà - ella che non era mai seria: "Ti amo ancora e voglio che tu mi ami. Mi prometti una cosa?" "Di'." "Giurami che non starai ad origliare dietro quell'uscio." "Ah!" mormorai amaramente con un riso ch'era una contrazione dolorosa del cuore. "Oh, mio Dio!" esclamò torcendosi le mani "Che timore potrei avere di essere spiata se volessi ingannarti?" "Perché non volete dunque che io ascolti?" "Perché ... tu l'hai visto ... Perché quelle familiarità insolenti che per me sono soltanto una mortificazione d'amor proprio, per te sarebbero morsi acuti di gelosia ... Per risparmiarti dispiaceri ..." "Che m'importa se questi non mi vengono da voi!" Ella lesse nei miei sguardi tutta l'amarezza che non c'era nelle mie parole, chinò gli occhi e mi disse solamente: "Come siete ingiusto!" C'era tal suono di verità nella sua voce, e così schietta e dignitosa franchezza nelle sue parole, nei suoi occhi, e nel suo gesto, che mi facevano soffrire orribilmente per tutte le sciagurate contraddizioni della vita. "Sì, lo sento che sono ingiusto!" esclamai. "Ma soffro orribilmente! sono geloso, Eva! Son geloso di te, di tutti quelli che ti vedono in teatro perché tutti ti desiderano; son geloso di tutti quelli che ti parlano, perché ti parlano per averti ..." "Oh!" esclamò Eva con uno scoppio di risa schiette e gaie "se sapeste come dovrebbero invidiarvi quei signori di cui siete geloso!" "Non importa; essi vi fanno la corte!" "Oh, non tutti! Ci sono quelli che vengono per prendere il mio thè, gli altri per trovare gli amici, altri perché la mia casa è di moda, altri pur di far sapere che ci vengono." "Io vorrei che non foste obbligata a ricevere tutte quelle persone, Eva." "Sono tutti abbonati, giovanotti chic, di quelli che dispongono dell'esito di uno spettacolo, ed io appartengo al teatro." "Io intendo che la donna che mi ama appartenga a me anzitutto!" "Allora non avresti dovuto innamorarti di una ballerina." "Oh, io mi innamorai della donna, perdio!" Ella sorrise tristamente. "La donna la vedesti un momento, nel dietro scena ... e scappasti via." "Ma io vi amo così, come siete!" "Lo sai tu come sono? Una donna non è che come vuol essere. Sai tu che cosa sarei senza la mia gonnellina corta e le mie scarpine di raso? Sarei una modesta operaia colle dita punzecchiate dall'ago, e con un vecchio ombrello sotto il braccio; una ragazza che potrebbe dirsi bellina se non avesse gli stivalini rotti e il cappellino di traverso - che andrebbe al mercato, farebbe la cucina, e se avesse fortuna sposerebbe un cuoco o un cocchiere. Ecco che cosa sarei, mio caro; invece ecco che cosa sono: faccio fare anticamera a tanti signori che sarebbero gelosi di te - e tu che non mi avresti neanche guardato se m'avessi vista andare attorno colle scarpe rotte, tu hai fatto delle pazzie per me. Oh! lo so bene ch'è assai meglio non esser costretti a far buon viso a quelli che ci sono uggiosi, e a soffrire delle galanterie insolenti. Ma che vuoi farci? Non son nata duchessa!" Venne a sedermi sulle ginocchia; mi cinse il collo delle sue braccia, e mi baciò a più riprese. "Andiamo, via! non piangere, bambino mio! amor mio! non piangere! mi fai male! Io ti amo davvero, sai! Non ho nulla da sperare da te, anzi potresti nuocermi, vedi che son sincera! Mi credi dunque che ti amo?" "Se tu non mi amassi così io farei una cosa semplicissima, mi ucciderei." "Ah! no!" esclamò essa con quel riso da bambina, tenendosi appesa al mio collo colle mani intrecciate, e dondolandosi sulle mie ginocchia. "Non voglio che tu ti uccida perché sei il mio amore, il mio amore bello! il mio amore bello!" e nella voce aveva la dolce cantilena con cui si cullano i bimbi. *** Alcune sere quelle visite si prolungavano molto innanzi nella notte. Era un giuoco di scherma fra quei signori a chi dovesse rimaner padrone del campo. Una volta Eva entrò improvvisamente e come se fuggisse. Era rossa in viso, e avea le narici dilatate. Chiuse l'uscio a chiave, si gettò su di me con passione, e nascose il mio viso sul suo seno, baciandomi sui capelli, come per impedirmi di uscire, o per nascondermi qualche cosa. "Che hai?" le chiesi svincolandomi dalle sue braccia, vedendola tutta turbata e colle lagrime agli occhi. "Nulla!" rispose. Io impallidii, e non osai domandarle altro. *** Il giorno dopo ella mi vide così cambiato che mi domandò anche lei. "Che hai?" E stavolta fui io che risposi: "Nulla!" Ella si fece pensierosa e parlò d'altro. Passammo quella notte come le altre, soffocando le ciarle infantili sotto i guanciali e scambiandoci i sorrisi nelle dolci ombre dei cortinaggi; però sentivamo che fra noi due c'era qualche cosa che ci faceva morire il bacio sulle labbra ed il riso in cuore. Ella mi guardava con quei suoi grand'occhi spalancati, col gomito sul guanciale, il mento sulla mano, il braccio trasparente attraverso la nebbia dei merletti, e i capelli che gettavano onde dorate sui candidi lini. - Aveva degli accessi quasi tristi e paurosi di tenerezza; mi gettava al collo le braccia nude, e mi nascondeva in petto la sua bionda testolina. - Poi mi stava di nuovo a guardare fisso senza dir parola, colla testa affondata nella tela batista, ed il braccio disteso, mentre le sue piccole dita giocherellavano colla trina della coperta. Una volta, mentre si parlava d'altro, esclamò: "Come son pazza ad amarti così!" E più tardi, dopo uno scoppio di risa tanto allegre e matte che mi facevano un senso di pena: "Come farò quando non mi amerai più?" Poi, senza badare a quel che rispondessi, mi parlò della sua sarta, delle sue vesti, dei suoi cavalli, dei suoi fiori, del teatro, di musica, di balli, mi parlò della mia arte, di me, del mio paese - giammai ella non mi aveva parlato della mia famiglia; era una circostanza che incominciava a sorprendermi. Era delicatezza? era istinto di gelosia? Allorché partivo, sull'alba, ella mi richiamò, mi attirò sui guanciali, allacciandosi tenacemente al mio collo, e mi domandò collo stesso tono della prima volta, come se fra la prima domanda e la seconda non ci fossero passate tutte quelle ore e quelle follie. "Che hai?" "Nulla." "Oh, non partire così!" esclamò colle lagrime nella voce. "Perché me lo domandi? Non mi ami? Non ti amo? Non siamo felici?" Ella appoggiava la testa sul cuscino, rivolta dalla mia parte, e mi fissava senza parlare, coi suoi grandi occhi pieni di lagrime. "Credimi," soggiunsi, "la nostra curiosità è funesta. Io l'ho capito, e non ti ho domandato altro, quando l'altra sera mi hai risposto: nulla." Mi prese le mani e le baciò - le sentii umide di lagrime. "Non mi ami più!" disse. "Dio lo volesse!" esclamai con un'esplosione di tutte quelle angosce che mi rodevano da due giorni. Ella si rizzò a sedere di botto, splendida di bellezza, sotto la fine batista, come una statua greca, e mi si buttò al collo, coprendomi di lagrime e di baci. "Si, tu mi ami! tu mi ami!" singhiozzò "ed io pure ti amo come una pazza!" Poscia, tenendosi allacciata a me come l'edera, nascondendo il suo capo nel mio seno, e parlandomi sottovoce, come vergognosa per quello che doveva dirmi: "Non credi che ti amo?" "Sì!" "Temi che io possa ingannarti per un altro?" "Oh, no!" E chinando maggiormente la testa, e abbassando di più la voce, e abbracciandomi più strettamente: "Perché quella domanda adunque?" "Perché ti amo! Perché son geloso ... in un altro modo." "Come?" "Oh!... non lo so!... non te lo dirò mai!" Tuttavia sembrò aver compreso, poiché allentò le braccia, non disse molto, e ricadde sul guanciale, nascondendovi il viso. "Ascolta!" mi disse vivamente, afferrandomi per le mani, mentre era per partire. "Piuttosto che cessare di amarmi ... quando lo vorrai ... domandami quello che vuoi ... Ti giuro che lo farò!" *** "Non voglio che tu venga a teatro" mi avea detto altre volte. "Perché?" "Perché ... perché ... È una fanciullaggine, lo so ... ma se ti sapessi là ... in mezzo a quella folla ... ciò mi farebbe pena." Io le fui grato di cotesta delicatezza, e promisi, e un giorno, la sera della sua beneficiata, con la logica così strana del cuore umano, le domandai di sciogliermi dalla mia promessa. Ella mi guardò sorpresa. "Perché?" "Voglio vederti." "Non mi vedi adesso?" "No! vederti là ... a quel modo!..." "Mi vestirò qui per te." "Oh, è tutt'altro!..." Ella sorrise e mi disse: "Orgoglioso!" "Orgoglioso?" "Si, vuoi godere del tuo trionfo, e dire: Quella donna che tutti desiderano mi appartiene!" "È vero ... sì!" "Ebbene," soggiunse semplicemente, "dillo pure giacché è la verità." La sua cameriera l'attendeva per pettinarla; prima di lasciarmi ella mi disse, come risovvenendosi: "Però mi prometterai di non essere geloso!" Ahimè! prevedeva forse che avrei dovuto esserlo? Non l'avevo più vista sul palcoscenico, e quando la rividi mi parve tutt'altra! Io comprendo come si possano fare quelle cose che si dicono pazzie - e sono brani di cuore strappato da penose voluttà, brani di ragione torturati dal delirio - per coteste donne che hanno un pubblico per amante, che ci sbattono sul viso tutte le seduzioni, inchiodandoci ad una poltrona d'orchestra, e che ci abbruciano gli occhi col lampo della loro bellezza, costringendoci ad affissarle avidamente. - Cotesta voluttà che s'inebbria di suoni, che abbaglia di luce, che sollecita con acri profumi, che vi fa ondeggiare dei veli dinanzi alla curiosità spasmodica, che ha il sorriso sfacciato, e la nudità pudica, che idealizza tutte le vostre più sensuali passioni, è mostruosa del pari, con tutte le cecità, con tutte le frenesie - e lo spasimo di sguazzarci dentro, le mani, i piedi, il petto, i capelli, di abbeverarsene, di affogarvi la coscienza, il cuore, il sentimento della vita, ha le medesime estasi inenarrabili, i medesimi splendori, le stesse torture, le stesse infamie ... Se si potesse vedere in cuore ad uno di quei felici mortali, su cui passa il turbine di una tal passione, e che va invidiato dalla moltitudine!... Quella donna per cui gli applausi avevano fremiti di desiderio era mia, avea posato la testa sul mio guanciale; ma io non ci pensai che per essere geloso delle sue spalle nude, della trasparenza dei suoi veli, di quei cannocchiali che sembravano baciarla con lingue di fuoco, di quelle mani inguantate che mi sembrava accarezzassero le sue spalle. Partii come un pazzo, assai prima che fosse terminato il ballo, ed andai ad attenderla in casa sua, arso di gelosia, di corruccio, di desiderio - spiegami tu questo contrasto. E allorché udii il suo passo leggiero per le scale, allorché me la vidi comparire dinanzi ancora ansante, allegra, ridente, colle guance rosse e gli occhi brillanti di giubilo, me le gettai al collo, stringendola freneticamente come se temessi di vedermela strappare dalle braccia. Ella credette che fosse l'entusiasmo destatomi dal suo trionfo! "Oh! come son contenta che tu sia stato lì!" mi disse senza scorgere il male orribile che mi facevano quelle parole. "Fu un vero entusiasmo, non è vero? Vedi quanti fiori!" E si pavoneggiava ingenuamente in mezzo agli enormi mazzi che il domestico aveva portato in sala. Io dovevo avere l'aria orribilmente stralunata; ma ella era così compresa della gioia del suo trionfo che non se ne avvide. Si aggirava intorno alla stanza con movimenti bruschi, vivi, quasi serpentini. Si mirava nello specchio, mi abbracciava e mi baciava, come baciava quei fiori, per sfogare la sua contentezza. "Quanto sono felice, mio Dio!" esclamava, senza avvedersi che egoismo c'era nella sua felicità. Suonarono il campanello. Eravamo nel salotto; ella mi prese per mano, e mi fece entrare nella sua camera. "Aspettami qui" mi disse. "È inutile, giacché me ne vado." "Te ne vai! E perché?" "Avrete molte visite ... È la vostra festa ..." "È vero!" disse tutta giuliva. "Vedete che mi rassegno anch'io ..." Ella mi guardò in volto con sorpresa. "Fai il broncio alla mia contentezza? Uh, brutto!" "No." "Davvero?" "Davvero." "Domani dunque?" "A domani." "Buona sera" Io non risposi; ella non se ne accorse. Era impaziente, tutta commossa di gioia, si contentava facilmente della mia affermazione, e non mi leggeva nulla in cuore. *** Partii con tal corruccio in cuore che mi sembrava di odiarla. Quando fui istrada piansi come un bambino. E il giorno appresso, dopo una notte di collera, di gelosia, e d'amore, appena furono le dieci corsi da lei. Avevo bisogno di vederla, di vedere i suoi occhi chiusi, di vederla dormire, e di sognare ancora le dolci notti di abbandono e d'amore. Avevo bisogno di schiudere le sue cortine, e di vedere il sorriso incerto di quelle labbra vermiglie ancora tiepide del respiro notturno, e quegli occhi ancora socchiusi che cercavano i miei. Entrai nella sua camera in punta di piedi, ma trovai ch'era già alzata, e che leggeva una lettera accanto al caminetto. Vedendomi entrare all'improvviso, si scosse bruscamente, come sorpresa, e fece un movimento istintivo e impercettibile quasi per nascondere la lettera che stava leggendo. Non fu che un lampo, ma bastò al mio occhio acutamente sospettoso. Si alzò, venne a gettarmi le braccia al collo, e mi disse con effusione: "Ah! bravo! Mi hai fatto un gran bene!" E gettò la lettera con tutta naturalezza sul marmo del caminetto. "Perché?" io le dissi. "Ieri sera mi lasciasti in tal modo! Vedi, ero così commossa che non mi avvidi che partivi in collera. Tu sei più buono di me ... Ci ho pensato tutta la notte ... Sei ancora in collera?" "Oh, no!" "Ma perché eri in collera? che ti avevo fatto?" Io chinai la testa senza rispondere. "Vedi", soggiunse, "se io avevo ragione di temere quello ch'è avvenuto! Ho più giudizio di te, io, o piuttosto t'amo di più." Mi prese per mano e mi fece sedere accanto al fuoco. "Come sei pallido!" mi disse. "Non hai dormito stanotte?" "No." "Caro! caro! caro!" esclamò con trasporto infantile baciandomi in fronte. Indi con improvvisa e ingenua vivacità: "Vedi, io t'amo per questo! T'amo perché mi ami così, perché sei matto, perché sei geloso, perché sei ingiusto e cattivo. Mi piaci così, ecco!" In questo momento sorprese i miei occhi che involontariamente si fissavano sulla lettera, e credette forse che la mia curiosità fosse rivolta a un braccialetto ch'era anch'esso sul marmo del camino, accanto alla lettera. "Ti piace quel braccialetto?" mi disse prendendolo in mano onde prevenire i sospetti che credeva scorgere in me. "Non l'avevo visto." "Ah!" esclamò come sconcertata. Aprì e richiuse due o tre volte la busta di velluto, facendo scintillare i raggi delle gemme, e soggiunse per riprendere un certo contegno, o per disarmarmi colla franchezza: "È un regalo per la mia beneficiata." "Oh!" "È bello, non è vero?" Io, che avevo la testa a tutt'altro, risposi: "Bellissimo." "È di gran valore." "Varrà per lo meno duecento lire." "Oh!" esclamò Eva, dimenticando a quella mia ingenua scappata tutte le sue preoccupazioni in una schietta risata. "Ne vale almeno duemila!" Ebbene, francamente, io fui umiliato della mia ignoranza sul valore delle gemme. "A che pensi?" ella domandò con una certa inquietudine. "Penso che sono ben fortunati coloro che possono offrire regali di duemila lire." "Tu mi dai il tuo amore che vale assai di più!" Io sorrisi amaramente. Si parlò un po' di tutto, ora serii, ora innamorati, ora quasi giulivi. Ad un tratto, le gettai fra i piedi questa domanda, che la fece trasalire, tanto era fatta bruscamente: "Chi t'ha regalato quel gioiello?" Ella rispose con la maggior franchezza. "Il conte Silvani. Saresti geloso di lui?" soggiunse vedendo che m'ero fatto serio. "Oh, avrei torto!" "E avresti torto davvero!" esclamò essa con tale accento dignitoso che mi umiliò. "Oh, Eva, perdonami!" esclamai quasi fuori di me, "Io m'avvengo che sono ingiusto e cattivo! Faccio dispetto a me stesso!... Ma son geloso! orribilmente geloso!" Per tutta risposta ella mi dette un bacio. "Perché non hai rimandato quel braccialetto?" le domandai dolcemente. Ella mi guardò con tanto d'occhi spalancati, come se stentasse a capire il significato delle mie parole. "Come, rimandarlo? Ma vuol dire rifiutarlo!" "Sì, rifiutarlo." Quel rifiuto sconcertava tutti i suoi principii sinceramente e francamente accettati da tanto tempo. "Ma non si usa in teatro!" mi disse sorridendomi come si fa ad un bambino che ha detto una sciocchezza. "Ah!" sogghignai. "Credevo che ci fosse della dignità anche fra le persone del teatro!" "Ma, mio caro, è un altro genere di dignità. C'è l'uso di far dei regali agli artisti in occasione delle loro beneficiate, e ciò non ha nulla di umiliante pel loro amor proprio. Perché ridi?" "Rido perché sono uno sciocco, un provincialetto, perché non so tutte coteste cose, e soprattutto perché non oserei mai offrire un regalo simile ad una signora per bene ... senza temere di farmi rosso in viso, o di farmi gettar dalla finestra dai suoi domestici." "Ma un'artista non è una duchessa, mio caro! te l'ho già detto." E ci metteva tanto candore che avrebbe disarmato tutt'altro risentimento che non fosse stato il mio. Andavo su e giù per la stanza, ed ella mi teneva dietro con gli occhi, tenera, amorosa, quasi timida - ella che era così orgogliosa! Io sentivo quello sguardo attaccato su di me, e sentivo che cercava il mio, che vinceva la mia collera, e m'irritava. Improvvisamente mi arrestai dinanzi al camino, soverchiato dal fascino mordente che quella lettera esercitava da un'ora su di me, e la presi in mano. Ella trasalì, ma non si mosse. "Entrando ho interrotto la tua lettura"; le dissi, e le porsi la lettera. Ella la prese vivamente. "Oh, nulla d'importante." "Ebbene, leggila pure." "L'avevo già letta", e con un gesto naturalissimo la buttò nel camino. Io non seppi dominare un movimento come per buttarmi sul fuoco. "Chi ti scrive?" le domandai facendomi rosso in volto. "Il conte Silvani." "Ah!" "Mi pare che la mia franchezza dovrebbe disarmare i tuoi pazzi sospetti!" "Tanto più che adesso devo contentarmi della franchezza!" le dissi amaramente, additando il foglio che ardeva. "Oh!" esclamò ella celandosi il viso fra le mani. "Oh!" Sentivo montarmi alla testa dei caldi soffi di collera selvaggia. Ella rimase un istante in silenzio, col viso rosso di vergogna, poi esclamò: "Siete pazzo!" "Avete ragione!" le dissi mettendo tutta la mia amarezza in un sorriso; e aspettai che mi rispondesse qualche cosa per sfogarmi di tutti i sarcasmi che mi bollivano in seno. Ella non mi diceva più nulla; attizzava il fuoco colle molle e aveva l'aria severa. "Quella lettera naturalmente accompagnava quel gioiello!" ripresi dopo un lungo silenzio, poiché sentivo il bisogno ch'ella dicesse qualcosa. "Sì" rispose seccamente. Allora, irritato di tanta calma, le domandai bruscamente: "Perché l'avete bruciata?" "Perché non vi riguardava." Perdei la testa: "È vero;" le dissi, "io non posso farvi dei regali di duemila lire!" Ella si rizzò come se l'avessi morsa al cuore, pallida, con certe lagrime ardenti negli occhi, e mi disse con un accento che non dimenticherò giammai: "Adesso siete più che ingiusto e più che cattivo!" C'era tanta collera nel mio cuore che non ne fui scosso. Rimasi com'ero, appoggiato al caminetto, duro, pallido, fosco. Ella fece due o tre giri per la camera, asciugandosi dispettosamente le lagrime; poi venne a me all'improvviso; prese le mie mani, e mi fissò in volto i suoi occhi lagrimosi. "M'avete fatto molto male!" mi disse. "M'avete detto quello che nessuno m'ha detto; mi avete rinfacciata la mia condizione come io sentivo di meritarmi, ma come nessuno osava dirmelo ... Ora che volete che io faccia?" "Scacciatemi." "Oh, no! ti amo troppo!" "Tu vedi come ti amo, come son geloso, giacché ti faccio piangere, e non fai nulla per togliermi da quest'inferno!" "Che cosa vuoi che io faccia? tutto quello che posso fare per provarti il mio amore non l'ho fatto? Tutto ciò che posso dissimularti per risparmiarti dei dispiaceri non te lo dissimulo? E tu me ne ringrazi con un aumento di sospetti ingiuriosi e d'insulti! La mia sincerità dovrebbe rassicurarti e t'irrita! Gli stessi fastidi che mi prendo per nasconderti quelle cose che possono ferire il tuo amore o il tuo orgoglio dovrebbero provarti che io ti amo tanto, sino a mentire per te!" Io la guardai in viso coll'occhio freddo e scintillante di collera come una lama di acciaio, e le piantai in faccia queste parole, come una pistolettata a bruciapelo: "Non vi credo!" Ella si celò il viso tra le mani, e si lasciò cadere sulla poltrona, come se quelle parole le avessero schiantato il cuore. Poscia levò verso di me il viso tutto bagnato di lagrime, e i singhiozzi le soffocavano la parola: "Perché?" balbettava "perché?" "Perché ti ho visto fingere allo stesso modo sul palcoscenico; perché il tuo volto è una maschera; perché dubiterò sempre che tu mentisca; giacché la tua arte è una menzogna!" gridai fuori di me, sputandole in faccia tutta la mia rabbia, tutta la mia gelosia e tutto il mio amore. Mi attendevo un'esplosione di collera. - Ella si alzò, pallidissima, si tenne ritta in faccia a me, piangendo silenziosamente e cogli occhi come attoniti per tanto dolore. Le labbra le tremarono due o tre volte prima di poter parlare. "Non mi credi!" balbettò. "E che dovrei fare perché tu mi creda? Dillo." "Dovresti abbandonare il teatro." "Oh!" "Dovresti romperla con tutto il mondo." "Oh!" "Dovresti venire a vivere con me." "Oh, no! non lo farò mai, perché ti amo!" mi rispose con uno scoppio di pianto. "Ah! è una ragione singolare!" "Si! Tu pel primo te ne pentiresti, tu!... No! no! no!" Allora, due o tre volte, feci per precipitarmi su di lei, e strangolarla; le gettai in faccia un sorriso che valeva uno schiaffo, e scappai via. Quando la notte tornai a casa, con tutte le smanie, tutte le frenesie, tutte le più pazze risoluzioni in cuore, trovai Eva, sulla soglia della porta, che mi aspettava. "L'hai voluto:" mi disse semplicemente, "ecco che t'ho obbedito." *** Credetti di esser felice. Ella mi apparteneva intieramente; non aveva che me. Mi pareva di avere avvinto più solidamente la sua esistenza alla mia, rompendo tutti i legami che l'attaccavano al mondo esteriore. Io più non sarei stato geloso di tutta Firenze, e avrei potuto uccidere come un cane colui che avesse osato stendere la mano verso la mia felicità. Mille volte avevo fatto quel sogno senza sperare di realizzarlo giammai, e l'avevo abbellito con seducenti particolari. L'idea sola di avere Eva accanto a me, ad ogni ora della mia vita, sotto il mio medesimo tetto, mi avea creato altre volte delle estasi di paradiso. Avevo sognato le ridenti follie di una eterna luna di miele, le passeggiate in campagna, la fiamma del caminetto, la lucerna della sera, i giuochi infantili, e i dolci silenzi. Avevo pensato a tutte le parole più comuni che ella avrebbe potuto dirmi nelle più insignificanti congiunture. L'avevo vista come un raggio di sole in tutti gli angoli della mia camera. Ahimè! il domani, allorché la vidi sotto le povere cortine del mio letto, allorché ebbe freddo e non ebbi altro da metterle sui piedi che il mio paletò, allorché accese il fuoco del mio camino e si tinse le mani - quelle candide manine - e tossì due o tre volte pel fumo, allorché dovette trascurare i suoi capelli per fare il caffè, provai un dolore nuovo e come una spaventosa sorpresa; mi parve che la fata fosse svanita, e non rimanesse più che una bella donnina - di quelle che piacciono - ma io avevo bisogno di adorarla! Un demone maligno si assise sogghignando al capezzale del mio letto sin dalla prima notte, per trascinare nel volgare e nel ridicolo tutte le mie illusioni. La realizzazione dei miei castelli in aria era diventata la sorgente di mille fastidi, di mille sorprese, ed anche di mille dolori. Ero costretto a starmi fuor di casa la maggior parte del tempo per non spoetarmi intieramente l'anima alla vista di lei che, con un'abnegazione senza pari, affaccendavasi nelle cure domestiche. Mi era parso che lo starle sempre vicino dovesse essere una felicità sovrumana, e quella felicità, vista da vicino, aveva particolari così volgari che mi facevano chiudere gli occhi e sanguinare il cuore. Delle notti intiere, col gomito sul guanciale, vedendola dormire accanto a me, bella, serena, quasi felice anche nel sonno - lei che mi aveva tutto sacrificato - domandavo a me stesso se ella soffocasse, come me, le medesime dolorose impressioni, oppure se non le provasse nemmeno perché mi amava di più, o in un altro modo, o se nella donna ci fosse, come un istinto provvidenziale, l'affetto del focolare domestico ... oppure se la sua condizione, l'educazione ricevuta, i suoi sentimenti, la tenessero molto al di sotto della mia ombrosa e delicata suscettibilità ... E finivo per darle torto - a lei! di non aver la delicatezza di risparmiarmi certi particolari volgarissimi che mi sembrava affrontasse con la più volgare disinvoltura ... Non cerco di spiegarti cotesto mostruoso mistero che chiamasi cuore. Non mi sono mai sognato di giustificarlo. Ti faccio osservare un fatto. Cotesta disillusione, cotesta amarezza intima, m'invadeva tutto, la mente come il cuore. L'arte mi negava anch'essa le sue ispirazioni; era forse gelosa, o la vita mi assorbiva troppo per potermi sollevare sino ad essa. Però fu un altro gran dolore per me. Provare la febbre e l'impotenza di creare! L'hai tu provato? Ero stato delle ore intere dinanzi a quel cavalletto, accanto a quella donna che mi aveva riempita l'anima di tanta luce e di tanti colori, che adesso attaccava i bottoni ai miei vestiti, e mi rendeva ebete; e qualche volta mi ero strappato i capelli, qualche altra volta avevo pianto di rabbia, o avevo tirato giù linee o pennellate che il giorno dopo scancellavo. Ella mi guardava con sorpresa, mi stringeva le mani, mi diceva delle parole affettuose. Io le rispondevo sgarbatamente, infastidito, quasi iroso, e delle volte, trovandomi l'anima così vuota, piangevo tutt'altre lagrime. Intanto i bisogni materiali della vita si facevano sentire più che mai. Quel pochissimo di cui potevo disporre era stato dissipato in un lampo; ero indebitato fin sopra ai capelli coll'oste, col padrone di casa, con tutti i miei amici, ed anche coi semplici conoscenti, poiché la necessità mi aveva reso sfacciato. Avevo momenti di preoccupazione tale che le carezze di Eva mi avrebbero fatto montare in collera. Non osavo più scrivere ai miei genitori perché avevo l'orgoglio del mio fallo, ed il mio amore sciagurato non era abbastanza potente per assorbire anche e soffocare il rimorso di strappare il pane di bocca alla mia famiglia onde prolungare la mia dolorosa follia. Ero troppo orgoglioso per far trapelare ad Eva la menoma mia preoccupazione; e allorché ella si mostrava più affettuosa, più sommessa, e cercava timidamente di prender parte alle mie angustie e di venirmi in aiuto, avevo per lei modi aspri e parole dure. Per vivere alla meglio avevo accettato una delle più umili occupazioni - dipingevo ad oleografia; il mio cervello si atrofizzava, ma si tirava innanzi. *** Il verno era ritornato, e rigidissimo. Io andavo al caffè tutte le sere a bere il ponce e a leggere il giornale, mentre Eva mi aspettava a casa. Mi occupavo delle quistioni internazionali e tenevo dietro al corso dei valori pubblici con interesse! Leggevo sino alla quarta pagina; poi facevo quattro chiacchiere coi vicini, e tornavo a casa sbadigliando. Una sera avevo trovato il ponce freddo; la politica volgevasi contraria al mio colore - poiché avevo già un colore politico! - il mio vicino era stato sgarbato; fioccava maledettamente, e tornando a casa avevo trovato il camino spento. "Perdio!" dissi ad Eva aspramente; ella lavorava presso il lume. "Non vien certamente la voglia di tornare a casa." Essa levò su me i suoi occhi sempre dolci e sereni, e non rispose. "Con una notte come questa farmi trovare una ghiacciaia!" ripresi. Vedevo che ella avea il viso livido, che tremava dal freddo sotto il suo scialle, e non pensai che in quella ghiacciaia ella avea dovuto pur starci tutto quel tempo in cui io avevo acconciato l'Europa a modo mio, seduto in un angolo ben riscaldato del caffè. "Non è freddo" rispose. "Perdio, s'è freddo, si gela." "Non c'è più legna", soggiunse timidamente. "Non ce n'è più in Firenze?" Ella chinò il capo sul lavoro e stette zitta. "Non hai danari?" domandai. Era la prima volta che quella parola mi veniva sulle labbra, e malgrado fossi tanto cambiato, mi fece una singolare impressione, come se avesse suonato altrimenti della mia intenzione. "No", rispose Eva dolcemente. "Come! non hai danari?" replicai, senza che la parola quella volta mi ripugnasse. "Hai fatto delle spese straordinarie?" "No." "Ma non siamo che ai venti del mese." "È vero." Malgrado il mio abbrutimento un raggio di luce si fece nella mia mente, e mi parve che attraversasse la parte più sensibile del mio cuore come uno stile di acciaio. "Vuol dire ..." esclamai, sentendo che la voce mi tremava, "vuol dire che i danari che ti ho dato ciascun mese ... non bastavano!" "Che importa?" mi diss'ella sorridendomi con la stessa dolcezza. "Ma allora ... come hai fatto?..." "Avevo del danaro." "Tu!!!" e mi nascosi il volto fra le mani. Il mio orgoglio si contorceva dolorosamente, poiché il mio cuore non si commoveva più. "Sì." "Tu non avevi nulla quando venisti." "Avevo quei pochi gioielli." "Li hai venduti?" "Sì." "Ah!" Ella venne a me dolcemente; mi rialzò il capo, e mi baciò in fronte. "Non mi ami più?" disse. "Perché?" "Perché quello che io ho fatto ti dispiace." "No." "Ti fa arrossire." "Sì." "Non mi ami più! Io non mi son vergognata di quello che hai fatto per me." "È tutt'altra cosa; io sono un uomo." "È lo stesso quando si ama!" Io le baciai le mani, e la guardai con occhi che avevano le migliori intenzioni di adorarla. Ella aveva una cuffietta assai modesta; alcune ciocche di biondi capelli le scappavano attraverso i nastri scoloriti; sul suo seno s'incrociava un leggiero scialletto; aveva le labbra pallide e le mani livide. Le prime parole che mi vennero in bocca furono: "Ed ora come si fa?" "Bisogna aver coraggio!" "Oh, se potessimo contentarci delle belle parole!" le dissi aspramente. "Mio Dio!" rispose ella timidamente, come per rabbonirmi, "non sono stata mai ricca, tu lo sai; quella bella casa e quei bei mobili non mi appartenevano, e, pur troppo, tutto il mio danaro lo spendevo malamente per vivere in un certo lusso; sicché quando gli ho voltato le spalle possedevo ben poco. Ho fatto tutto quello che ho potuto, e te l'ho nascosto per risparmiarti un dispiacere di più. Adesso non ho più nulla." "Io non vi ho chiesto nulla!" le dissi amaramente. "Oh!" "E se l'avessi saputo non vi avrei permesso di infliggermi questa umiliazione che adesso mi rinfacciate!" "Oh!" ripeté Eva con un raddoppiamento di dolore. Io non ebbi cuore per prendere le sue mani, con le quali si celava il viso, e asciugarle le lagrime che vedevo scorrerle fra le dita. "Enrico!" mi disse ella dolcemente come nei nostri più bei giorni d'amore, "vedi come sei diventato? Vedi se m'ingannavo presagendo quel ch'è successo? Tu te ne sei pentito pel primo!" L'abbassamento morale, direi, era così pronunziato in me che non pensai nemmeno di protestare per illuderla; e non pensai che quel mio lugubre silenzio doveva pesarle sul cuore come piombo fuso. Poi, quando me ne avvidi, dopo un lungo e mortale indugio, non trovai di meglio per consolarla che sciorinare un'imprecazione. "Arte pitocca e bugiarda!" esclamai stendendo il pugno verso il cavalletto "che vai tronfia d'orgoglio e non dai pane da sfamare!" Eva mi guardò sorpresa, quasi addolorata. Io le risposi quel ritornello che riepilogava tutte le mie abbiezioni: "Ed ora come si fa?" Non rispose. "Se tu tornassi al teatro?" le dissi con tutta naturalezza, compiacendomi, direi, della mia vigliaccheria. "È impossibile;" rispose colla stessa calma rassegnata; "non è la sola abilità che forma l'artista; ma la carriera fatta, il palcoscenico, il pubblico, i giornali teatrali, i cartelloni degli spettacoli, gli agenti, gli impresari. Bisogna vivere in questo mondo per appartenervi. Io ne sono uscita, e nessuno più mi conosce. Per rientrarvi bisognerebbe che incominciassi da capo." Allora soltanto mi balenò dinanzi agli occhi tutta l'estensione del sacrificio che ella avea fatto alle mie folli esigenze. "E tu sapevi tutto questo?" le dissi. "Sì" rispose tranquillamente "e sapevo anche che doveva arrivare questo giorno." "Ti giuro," esclamai, "che ti renderò tutto quello che mi hai sacrificato, o mi ucciderò!" Ella mi guardò in modo singolare con quei suoi occhi mesti e dolci, e mi disse quasi con un soffio di voce: "Io non me ne sono mai lagnata, e tu non mi avevi mai promesso di ucciderti." *** Passai la notte in magnanime risoluzioni, e appena fu giorno cominciai a darmi le mani attorno per cercare altre occupazioni che mi fruttassero qualcosa. Ma le magnanime risoluzioni non riuscirono che a procurarmi un modesto impiego, presso un fotografo. Di meglio in meglio, dalle nebulose altezze della grande arte io ero arrivato a stendere i colori dietro le fotominiature che si vendevano a dodici lire l'una. E neanche questo bastava. Io ero inquieto, irascibile, dispettoso. Ella trascurava il suo vestire, era triste, e qualche volta stizzosa; aveva certi suoni di voce aspri, certi sorrisi che non la rendevano bella. Io credevo coscienziosamente di farle dei veri sacrifici andando a casa la sera invece di andare al caffè, e fumando la pipa accanto a lei, leggendo il giornale, mentre ella lavorava. Ambedue senza dire una parola, sentendoci gravare quel silenzio sul petto come un peso enorme. Dopo alcuni giorni osservai in lei un cambiamento che mi avrebbe sorpreso se il mio cuore fosse stato più all'erta. Ella cantava per la camera, sembrava allegra, aveva comperata una veste di seta e degli stivalini nuovi coi suoi risparmi - faceva già dei risparmi! - Aveva dei guanti e si abbigliava con cura! Quell'aria di festa si era stesa anche al mio focolare e sulla mia mensa - ed io ne godevo come un parassita! Mi accadde due o tre volte di non trovarla in casa, e non le domandai dove fosse stata. Una sera trovai la chiave nella serratura. La camera era buia. La chiamai e non rispose. Accesi il lume e vidi la camera vuota; sul camino, appoggiata allo specchio, e messa con cura in evidenza, c'era una lettera aperta; era per me - ecco che cosa lessi: " Mio caro Enrico, tu non mi ami più, io non ti amo più nemmeno - e siamo pari. Te l'avevo predetto! Tu mi hai visto attizzare il fuoco, e far la calza; io ti ho visto stendere tranquillamente i colori sulle tue stupide fotografie, senza ispirazione e senza entusiasmo; ecco perché non ci amiamo più. Le asprezze, i diverbi, le amarezze, son degli accessori. Domani forse saremmo arrivati a picchiarci! Ti lascio, e credo fare del bene anche a te. Tu hai bisogno di sognare per buscarti gloria e quattrini; io non ho che la mia giovinezza, e bisogna che ne approfitti se non voglio andare a finire all'ospedale. Tu hai il cuore buono; ti ho parlato con franchezza, e credo perciò di non lasciarti in collera. Io ti voglio sempre del bene, e te lo proverò, quando potrò. Eccoti 500 lire. " *** Devo confessare che la prima impressione destatami da quella lettera fu di sollievo. Tutto quello che c'è di falso e di malsano in tali legami si scorge al sentimento inesplicabile di soddisfazione che si prova rompendoli, anche quando il romperli costi qualche lagrime. Poi, quando la tempesta è passata rimangono qualche volta nei bassi fondi limacciosi le serpi che si sono avviticchiate più strettamente al cuore, e che hanno più tenace vitalità: - il dispetto, l'amor proprio ferito, la vanità schiaffeggiata. Trovandomi solo in quella camera ove m'aveva aspettato tante volte, non pensai ad altro che al modo con cui ella l'aveva abbandonata; e quando mi avvicinai a quei guanciali che conservavano ancora l'impressione del suo capo non pensai a quell'altro letto dove ella forse dormiva, se non perché non era il mio. Non pensai a quei baci che più non desideravo se non perché un altro li aveva. E al nuovo giorno il raggio di sole che veniva dalla finestra era così allegro, diceva tante belle cose della giovinezza, dell'arte, dell'avvenire, della mia famiglia, cui non avevo rivolto il pensiero prima senza una spina nel cuore, che mi trovai con sorpresa l'animo in festa: esso non voleva rammaricarsi ad ogni costo dell'abbandono di Eva. Scrissi ai miei genitori, fumai la mia pipa, riordinai tutti i miei utensili da dipingere, come se non dovessi che ritornare all'arte perché l'arte mi sorridesse, e non pensai ad Eva che pel dispetto di aver trovato fra la cenere del caminetto una busta mezzo arsa, ove l'indirizzo di lei era scritto con quello stesso carattere elegante della lettera che accompagnava il braccialetto del conte Silvani - e per quel biglietto di cinquecento lire che, tutto sdegnato, misi nel portafogli, col fermo proposito di buttarglielo in volto quando l'avessi vista. Ahimè! io non la rividi! non le buttai nulla in viso! Il vuoto che si era fatto nel mio cuore, a furia di vivere soltanto per esso, mi avea prostrato intieramente, e aveva isterilito il mio ingegno. Tutte le orride lingue della miseria del cuore, dell'intelletto e della borsa, lambivano la mia esistenza. L'avvilimento mi snervava, e logorava la mia vita nell'ozio, sulle panche di un bigliardo o di un caffè. I debiti, l'inerzia, e la miseria mi affogavano; tutta l'attività del mio spirito non aveva altra mira che di farmi acconciare alla meglio in quel fango - ed io mangiai tranquillamente il biglietto di cinquecento lire. *** Poi anche questo finì. E allora incominciai un'altra lotta più bassa, più accanita, più dolorosa, la lotta degli espedienti, delle transazioni d'amor proprio, delle viltà, contro un desinare. Dopo aver venduto tutto quello che era vendibile, le tele, i disegni, le scatole, i colori, gli abiti, le scarpe, tutto, mi trovai senza pane, quasi senza vesti, alloggiato come in ostaggio del mio debito, con cinque lire in tasca, e certe allucinazioni come quelle che si devono provare al momento di smarrire la ragione. *** Mi venne in mente di giocare. Mi ricordai di tutte quelle storielle e di tutti quei bei romanzi ove si parla di guadagni enormi fatti con un nulla, e mi parve d'esser ricco possedendo cinque lire e quella bella idea. Salii senza esitare le scale di una casa ove gli artisti e gli studenti poveri andavano a disputarsi l'un l'altro il pane quotidiano; arrischiai una lira, poi l'altra, poi l'altra, poi l'ultima. Vedevo delle fiamme abbaglianti passarmi dinanzi agli occhi, e provavo degli improvvisi sbalordimenti. Mi parve che si facesse un gran vuoto nel mio cuore e ne sentii tutta la penosa sensazione, nel momento in cui si voltava la carta che doveva decidere dell'ultima mia lira. Tu non sai quel che voglia dire l'ultima lira; vuol dire il pane dell'indomani, e si ha lo stomaco vuoto! e i fantasmi dei tuoi bisogni ti attraversano in un lampo lo spirito!... Poi sentii una gran calma improvvisa, come una specie di benessere, una terribile lucidità d'idee. Avevo perduto. Almeno non avevo più nulla! Scesi le scale con passo fermo. Avevo la vista chiara e la mente tranquilla. Passeggiai per le vie più frequentate; lessi gli annunzi degli spettacoli; passai dinanzi alle vetrine di parecchi caffè provando una strana soddisfazione a veder la gente che vi era; andai pel Lungarno alla Pescaia, e stetti una mezz'ora a guardare i bizzarri riflessi del gas sulle acque del fiume, senza pensare un istante che sarebbe stato anche più bello trovarvisi in mezzo. Poi, quando suonò la mezzanotte, mi trovai come per abitudine nella mia strada. Avevo freddo, e mi ricordai che non avevo meglio da fare che andare a letto. *** Il giorno dopo pensai che era naturalissimo di andare a chiedere qualche cosa in prestito al solo amico che non mi voltasse ancora le spalle, come tutti gli altri, Giorgio, e mi meravigliai come quell'idea non mi fosse venuta prima. Quell'idea non mi fruttò che una lunga corsa, ed io non ero molto in forze. Giorgio non era in Firenze. Domandai quando sarebbe ritornato; mi risposero, fra dieci o quindici giorni. - Dieci o quindici giorni! Quella risposta mi lasciò come istupidito; tornai indietro colle mani nelle tasche, e zufolando un'arietta fra i denti. Mi venne in mente di fumare. Cercai in tutte le mie tasche, e non vi trovai che uno scatolino di fiammiferi; era pieno. "Se potessi cambiarlo con un sigaro!..." pensai, "o con un pezzo di pane!" E credo anche che scappai a ridere! Avevo una preoccupazione insistente; quella di ammazzare il tempo come se aspettassi qualche avvenimento e l'indugio mi pesasse. Pensai di trastullarmi colle mie fantasticherie, giacché non avevo più fiducia nell'ispirazione, e di andare alle Cascine per cercarvi la solitudine. Ahimè! la mia mente era vuota, come il mio cuore, come il mio stomaco. Andavo baloccandomi come un imbecille pei viali, ora guardando correre le nuvole più basse e brune su di un cielo di piombo, attraverso gli incrociamenti dei rami nudi, ora tenendo dietro con grande curiosità ai passeri che correvano sull'erba riarsa dal gelo in cerca di cibo - anch'essi avevano fame. Tutt'a un tratto udii uno scalpito accelerato e un grido "guarda!" e mi gettai sul ciglione, tutto sossopra, come se ne valesse la pena! E vidi passare come frecce due cavalieri, anzi un cavaliere e un'amazzone. L'amazzone era lei, Eva! - la riconobbi al riso, rideva allegramente, e alla persona: ma non la vidi in faccia; era rivolta verso il suo compagno, gli parlava e non mi vide - credo almeno che non mi abbia visto. Il suo cavallo era coperto di sudore, aveva le narici rosse e mandava nugoli di fumo. Ella era leggermente inclinata sulla sella; acconsentiva la mano alle redini e tutta la persona ai bruschi movimenti del cavallo, con grazia ardita e sicura. Si udivano stridere il cuoio e le cinghie della sella; il velo le svolazzava dietro coi biondi capelli, e la lunga veste ondeggiava come un prolungamento della sua persona. Il giovane che l'accompagnava aveva la sigaretta fra le labbra, il brio spensierato, e nel sorriso, nel gesto, nel guanto, aveva come l'insolenza di tutte le ricchezze, della gioventù, della salute, dell'avvenenza, della condizione e del danaro. Non so se Eva mi vide; so che vedendola così bella e accanto a quel bel giovane mi parve tutt'altra donna; mi parve che non avrei giammai osato di stringerle la punta di un dito. Più non sentivo il menomo desiderio di lei. C'era come un abisso fra di noi. Ella era così lontana, così in alto, che non provavo né desiderio, né memorie - o erano di tutt'altro genere. - Se mi avesse gettato un pezzo da cinque lire, non l'avrei preso, ma se mi avesse buttato un pezzo di pane, chissà ... quando ella avesse svoltato l'angolo del viale!... *** Verso le sei mi trovai senza avvedermene dinanzi all'osteria dove solevo desinare. Mi sentivo stanco, e mi rammentai che non avevo mangiato dal giorno innanzi. Allora provai una paura improvvisa, rapida come un lampo. "Dio mio!" balbettai, "se lo sapesse mia madre!" Mi aggirai tutta la sera per le vie come un fantasma, senza direzione, senza sapere che fare, guardando stupidamente tutti quelli che incontravo, non per altro che per cercar d'indovinare se avessero desinato. *** Il freddo mi arrecava le convulsioni; avevo le vertigini; la mia camera era gelata, e le coltri della padrona erano povere come il mio vestito. Tutta la notte non potei chiuder occhio: provavo degli stiramenti convulsivi di stomaco, delle nausee che mi facevano assai soffrire. Mi rammentai di Eva, di averla incontrata alle Cascine, e quel ricordo fu come di persona che avessi conosciuto molto tempo addietro. Nella mia mente c'era un penoso sonnambolismo che faceva correre incessantemente il mio pensiero stanco dietro certe larve senza forme precise, o dietro le memorie del passato. Mi ricordavo di tutti i particolari del mio amore per Eva, anzi una forza che non era nella mia volontà vi costringeva quasi ostinatamente il mio pensiero, e parevami che mi ricordassi di un fatto accaduto ad altra persona, o narratomi molto tempo addietro. Non mi sorprendevo nemmeno di non esserne geloso. Prima di tutto l'amore sta in un complesso di circostanze, e in me allora non c'erano che circostanze negative. L'avevo amata quando la mia immaginazione e il mio cuore sarebbero stati ricchi. Quanto alla gelosia, essa richiede, se non un grande amore, almeno una certa dose di amor proprio che renda possibile un parallelo anche ipotetico fra due rivali. - Io avevo fame! *** Avevo anche preoccupazioni lugubri. Pensavo alle ore che mi rimanevano ancora di vita e alle sofferenze che dovevano accompagnare tal genere di morte, come per conciliarmi con quell'idea. Non osavo uscir di casa, non ne avrei avuto la forza, e sembravami che tutti dovessero leggermi in viso la fame. Avevo ancora dell'orgoglio! L'aria era frizzante. Dalla finestra vedevo la gente andar lesta, certuni avevano la cera sorridente: molti una tranquilla spensieratezza; tutti erano certi di trovare a casa il desinare. Vedevo i camini che fumavano, e, attraverso i vetri delle finestre di faccia alla mia, donne affaccendate e fumo di vivande. Vedevo tutto ciò con una dolorosa lucidità di mente, e fermavo il mio pensiero in mezzo a tante domestiche felicità, che vedevo o che indovinavo, con una penosa voluttà; e domandavo a me stesso, con immenso sconforto, se fosse possibile che tutta quella gente felice potesse credere che a venti passi c'era un uomo che moriva di fame. *** La sera le mie sofferenze si fecero insopportabili. Uscii come un pazzo. Mi trascinai dinanzi a tutti i caffè e a tutti i teatri, nascondendomi fra i monelli, cercando il buio, esitando lungamente. Poi, tutt'a un tratto, mi trovai abbietto, rassegnato, contento di esserlo. Vidi uscire una coppia di giovani eleganti dalla Pergola; la donna bella, coperta di pellicce e sorridente; l'uomo con la cravatta bianca, e guardava lei con occhi innamorati. Ella montò in una bella carrozza, gli strinse la mano e gli sorrise. Egli la vide partire, col cappello in mano e gli occhi intenti; allo svolto della via un guanto bianco si affacciò allo sportello del legno, e il giovane salutò nuovamente quel guanto; poi si avvicinò al gas e lesse un piccolo bigliettino che aveva in mano; - gli occhi gli raggiavano, sembrava felice, doveva esser buono. Me gli avvicinai col cappello in mano e gli dissi: "Ho fame." Cotesta terribile verità doveva leggersi chiaramente sul mio volto, poiché quel giovane mi guardò sorpreso, senza parlare, e mi diede un biglietto da cinque lire. Dovette accorgersi delle lagrime che avevo negli occhi febbrili; si fermò a guardarmi e mi disse: "Voi siete giovane, e sembrate sano; come va che avete fame?" Però non attese altra risposta da me - io non avevo alcuna da dargliene - e soggiunse: "Se volete occuparvi venite a questo recapito domani alle undici." *** Era giovane, amato, ricco, felice, aveva del cuore, e quel ch'è più raro, la delicatezza del cuore. Egli mi fece fare il suo ritratto, me lo pagò benissimo, non solo, ma risparmiò anche il mio amor proprio comprendendo le cinque lire che mi aveva anticipato nel prezzo del lavoro. Egli mi aiutò in tutti i modi, col danaro, con le raccomandazioni, cogli incoraggiamenti, ed anche, posso dirlo, colla sua amicizia. Mercè sua entrai in un'altra vita, nella vita operosa, lauta e onorata. Povero giovane! aveva il cuore pieno e l'espandeva! Un bel giorno la sua felicità si esaurì – egli avea creduto che fosse inesauribile. - La sua amante era una gran dama, portava un bel nome, e cambiava spesso d'abiti e d'amiche intime. - Egli ebbe un duello, per una quistione di giuoco, con un capitano di cavalleria, e fu ucciso - il marito fece da secondo del capitano. - I suoi migliori amici gli diedero torto; dissero che egli spingeva le cose sino al romanticismo, che aveva mancato di delicatezza e di saper vivere che l'avea ricompensata di tutti i sacrifici ch'ella gli avea fatti pel passato, e della felicità che gli avea regalato, compromettendola; che era ridicolo mostrarsi più geloso del marito. Egli pagò con la vita. *** Perché ti ho narrato anche questo episodio estraneo al mio racconto? Tant'è, acciò serva a qualche cosa, ti dirò che, non so perché, pensai ad Eva che non era ricca, che non era gran dama, che non aveva un bel nome, e che era nella condizione di dover smungere borsa dai suoi amanti, come la gran dama smungeva i cuori dei suoi. *** Io avevo vissuto vent'anni in dieci mesi, e mi sentivo forte, pieno di vita, di cuore, di memorie e d'immaginazione. Se non avessi tanto goduto e tanto sofferto credo che non avrei mai avuto tanta vigoria di mente e d'anima, tanta felicità di trasmettere nelle mie opere cotesta sovrabbondanza di vita. Avevo una bella riputazione, ero quasi ricco, e godevo la vita - io che avevo avuto l'anima piena di sogni luminosi e di aspirazioni ideali, e l'avevo ancora qualche volta! La contraddizione che c'era nella mia esistenza fra le passioni e i sentimenti, si rivelava nelle mie opere. Ero falso nell'arte com'ero fuori del vero nella vita - e il pubblico mi batteva le mani. Quegli applausi, delle volte, mi umiliavano agli occhi miei stessi, ma sovente mi ubbriacavano. Sembravami che andassi tentoni in cerca di non so che; mi sentivo isolato, e spesso ridicolo; avevo una menzogna per l'arte che avvilivo e per la società che ingannavo; mi inebbriavo di tutti i piaceri, e di tanto in tanto sentivo il bisogno di uscir fuori da quell'atmosfera come un nuotatore che annega. Non mi rimanevano che le passioni più sterili, e le arricchivo di tutte le esuberanze del mio cuore, poiché sentivo il bisogno di avere delle passioni ad ogni costo. Non credevo più nell'amore, dopo averne fatto lo sciagurato esperimento, e dopo aver veduto nelle braccia del grosso capitano di cavalleria quella donna per la quale il mio benefattore avea dato sorridendo i suoi venticinque anni, quella donna così elegante, così delicata, così poetica - e mi sbramavo nel capriccio. Non avevo un caldo sentimento religioso; il sentimento civile lo vedevo sciupato nelle lotte dei partiti, e intorbidato dalle dispute di giornali, rare volte convinti di aver ragione. Vivevo lontano dalla famiglia, in mezzo ad un mondo di usurai e di egoisti e di gaudenti; l'atmosfera era calda di effluvi giovanili. - Come vuoi che io potessi comprender l'arte in tali condizioni?... mettendomela sotto i piedi! Arrossivo delle mie illusioni di una volta, e per non ridere di me che mi ostinavo ancora a sognare in mezzo a tanti che tenevano gli occhi aperti, risi di quella buffonesca serietà, e di quella sordida preoccupazione generale. Risi del contegno ipocrita per nascondere il marcio, della frase elegantemente vaporosa che conteneva desideri volgari, del pudore del velo, e dell'innocenza dello sguardo. Ero ricco di giovinezza, di gloria e di fiducia in me. Più di uno stivalino altiero, di quelli che avevo sognati, avea toccato per me il lastrico della via, e si era posato furtivo sul tappeto della mia scala. Più di un guanto profumato era stato dimenticato sul mio canapè. Ti giuro che i miei sogni valevano assai più della realtà! Ah! le mie duchesse di via Santo Spirito! Se avessi saputo che la scienza della vita dovea costarmi tante e sì care illusioni, io avrei preferito la miseria, l'oscurità e i miei castelli in aria. Non ti dirò di chi fosse il torto, anzi probabilmente era il mio, perch'ero sognatore, perch'ero ombroso e diffidente, perch'ero divenuto scettico, perché amavo da osservatore, e mettevo sempre del riserbo, direi della restrizione mentale, nelle espansioni del cuore. Quando nei trasporti amorosi non si mette lo stesso abbandono dalle due parti, una delle due è ridicola di certo - Non so quale. *** Nei crocchi eleganti che frequentavo sentivo spesso parlare di Eva come si parla del miglior cavallo da corsa, dell'opera in voga, e della più bella pariglia. Era un'appendice necessaria a quella vita di lusso e di piaceri. Io avevo buttato dalla finestra le poche memorie che mi rimanessero di lei - i suoi nastri scoloriti, i suoi stivalini rotti, i suoi guanti scompagnati. - Avevo lasciato da molto tempo quella cameretta dov'ella aveva dormito tanti sonni - ed ora, a volte, sentivo un ardente desiderio di rivederla, d'incontrarla, di gettarle in faccia il lusso della mia felicità. - Non era più amore, ma era vanità. - Io non so quale dei due sentimenti sia più forte; certo spesso si scambiano l'uno per l'altro. Non l'avevo più vista. La dicevano bella come prima, elegante come un mazzo di fiori, e corteggiata come una regina. Molti entusiasmi giovanili si scaldavano parlando di cotesta donna che avevo visto attizzare il fuoco del mio camino; e non rammentai altro che la sua bellezza, la sua eleganza, e il suo sorriso - ricordi che mi montavano alla testa. - Ero dispettoso che la fosse così, e che sembrasse ancora così agli altri. *** Una sera ero al Pagliano, in uno di quei palchetti dove è favore distinto essere ammesso, dove i numi dell'olimpo fiorentino si pigiavano come ad una mostra, per scambiare un sorriso o una stretta di mano, in faccia ad un pubblico di gelosi, con la dea del santuario. Io le sedevo accanto, e la dea mi largiva parole e sorrisi. Tutt'a un tratto la vidi aggrottare il sopracciglio, da vera dea, prendere l'occhialetto, e dirigerlo bruscamente su di un palchetto di faccia - era uno di quei gesti espressivi che usano le gran dame quando non vogliono scendere alla parola - ma siccome non mi curavo di seguire il capriccio di lei, così mi contentai di guardare quel braccio nudo, tanto bello ch'era pudico, e si nascondeva nel guanto sino a metà. Però l'osservazione di lei era così insistente che, senza volerlo, seguii la direzione di quell'occhialetto, e ne vidi un altro che gli rispondeva come una pistola da duellante. La dea si stancò per la prima, e distese mollemente il braccio sul velluto del parapetto. Allora anche l'altro occhialetto scomparve, e riconobbi Eva - Eva sfolgorante di tutta la sua bellezza, colle spalle e le braccia nude, i diamanti fra i capelli, i merletti sul seno, la giovinezza, il brio, l'amore negli occhi - anzi, la voluttà - e il sorriso inebbriante - il sorriso che faceva luccicare come perle i suoi denti. "Chi c'è nel palco numero tre, in seconda fila?" domandò la dea con quell'accento inimitabile che hanno le dee quando parlano dei semplici mortali. L'officioso più lesto e più fortunato rispose: "Il conte Silvani." "È un pezzo che non si vede il conte!" "È stato in Germania." "E ha preso moglie?" "No." "Ah!" Nel vestibolo incontrai di nuovo Eva di faccia a faccia. Ella mi lanciò di bruciapelo uno di quei tali sguardi, come se mi desse un pugno al cuore. La dea aveva un altro genere di sguardi, quelli della lente che vi tiene a distanza poiché l'occhio non vi vuol riconoscere, e domandò, con quel muto linguaggio, all'insolente che osava fissare gli occhi su di lei, come non rimanesse abbagliata da tanto splendore. Eva si contentò di sorridere, levando il capo per dire qualche parola al suo compagno, mentre si appoggiava al suo braccio con un raddoppiamento di leggiadra civetteria; - il conte era alto e le dava il vantaggio di levare il capo verso di lui per parlargli, vantaggio grandissimo per le donne che sanno farlo in un certo modo! - Lasciò anche scivolare la mantiglia sulle spalle, e mi pare che osservasse con la coda dell'occhio se io facessi attenzione a tutta cotesta manovra. Quelle due donne che non si conoscevano nemmeno, che non si sarebbero incontrate giammai, dovevano odiarsi cordialmente. Io non potei dimenticare un momento quegli occhi che mi avevano dardeggiato, e che si erano volti sorridenti verso il conte. *** Un giorno all'improvviso Eva venne da me, leggiadra, pazzerella, sorridente come sempre, girando per tutte le stanze, toccando tutto, facendo frusciare gaiamente la sua veste sul tappeto, come se ci fossimo lasciati il giorno innanzi. Mi domandò se fossi in collera con lei, se avessi pensato a lei, se l'amassi ancora; mi disse che non mi aveva mai dimenticato, che era contenta di vedermi in quello stato, che era orgogliosa di avermi amato; mi disse cento cose seducenti come ella le sa dire, scaldandosi al fuoco, e sollevando la veste per posare i piedini sugli alari. È impossibile esprimerti tutto quello che c'era nelle sue parole, nel suo riso, nei suoi occhi e nei suoi gesti. Mi parlò del passato; mi domandò dei miei amori, e come amassi, e come fossi amato, e se amassi di più o in un altro modo, - e mi diede anche un bacio come mi avrebbe dato una stretta di mano. Poi, dopo ch'ebbe fatto ardere il mio sangue con quella grazia così calma e nello stesso tempo così spensierata, con quei suoi sguardi sorridenti come ad un fratello, col profumo del suo fazzoletto e coi tacchi degli stivalini, ella si alzò tranquillamente e mi stese la mano. - Se ne andava! erano le due, doveva andare dalla modista, dalla sarta, da Marchesini, a fare un giro alle Cascine. Alle sei poi davano in tavola - mille ragioni inoppugnabili! Io chiusi la porta e le presi le mani; ella me le strappò, e si mise a correre per le stanza, ridendo, folleggiando come una bambina, e poi mi si abbandonò tutta tremante, collo stesso sorriso, con un movimento infantile e inebbriante. *** "Matto! matto!" mi disse lisciandosi i capelli allo specchio. "Ed io più matta di te! A proposito, e la tua dea?" "Quale dea?" "Quella del Pagliano, la superbiosa. L'ami molto?" "Punto." "Ti credo. Siete così orgogliosi entrambi! Dovete bisticciarvi sempre. L'amerai per vanità." "Sono troppo orgoglioso per avere di coteste vanità." "Come sei diventato!" e mi guardava tutta sorpresa, con cert'aria ingenua che possedeva ancora. "Dimmi come amano le gran dame" e annodava i nastri del cappellino. "Come le piccole." "Adulatore! Ma io perdo il mio tempo con te! Addio." "Verrai a trovarmi?" "No." "Verrò io?" "No." "Come, no! Ma non capisci che ho bisogno di vederti!" Ella mi guardò e scoppiò a ridere. "Proprio?" mi disse. "Come dell'aria per respirare!" "Sei pur stato tanto tempo senza, e non sei morto!" "Perché sei venuta dunque, maliarda? perché mi hai fatto ardere il sangue colle stesse febbri?..." Ella mi guardò nello specchio, con quel sorriso! e mi disse: "Ero gelosa!" "Dunque mi ami!" "No. Tu non capisci coteste gelosie di donna, tu! e sei un uomo di spirito! Andiamo, via, non più sciocchezze!" riprese con dolcezza dopo alcuni istanti, accarezzandomi la mano per rabbonirmi. "Ti voglio ancora del bene, ma bisogna essere ragionevoli. Non scherziamo più col fuoco!" Ella seguitava ad accarezzarmi le mani, e vedendomi sempre accigliato soggiunse: "Ti giuro che se avessi prevista cotesta nuova follia non sarei venuta!" "Ah! non lo sapevi?" "No! Mi pareva di trovarti più ragionevole." "Ma adesso che vedi come non lo sono, e che son più pazzo di prima, e che son geloso non del tuo cuore, ma del tuo corpo, e che un lembo della tua veste se mi tocca mi fa perder la testa, perché non seguitare, se non ad amarmi, almeno a lasciarti amare?" Eva mi guardò in viso in modo singolare e mi disse tranquillamente: "Perché ho più giudizio di te." "Non mi ami più?" "No." "Perché sei venuta dunque? dimmelo, maledetta! maledetta! Fu un capriccio?..." "Sì ... e se durasse sarebbe una follia ... per te, e per me." Allora io andai all'uscio, senza far motto, e l'apersi. "Senza rancore!" diss'ella stendendomi la mano. E lasciandola cadere dopo aver aspettato inutilmente soggiunse: "È pure una gran disgrazia che siate fatto così." Uscì stringendosi nella veste per non toccarmi. Io corsi a nascondere il viso e le lagrime nei guanciali ancora odorosi del profumo dei suoi capelli. *** Quelle due ore avevano gettato sul mio cuore il soffio ardente delle tempeste del passato. Io l'adoravo, sì, l'adoravo così com'era, l'adoravo perch'era così! Avevo il desiderio frenetico dei suoi guanti che si lasciava strappare e lacerare ridendo, e dei suoi stivalini di cui la seta strideva fra le mie mani. Feci mille pazzie per lei, la cercai, implorai, piansi, passai le notti sotto le sue finestre, vidi l'ombra di lei accanto all'ombra di un uomo dietro le cortine, seguii di notte la sua carrozza per le vie e vidi il suo capo sull'omero di lui. - Ella mi ravvisò, e chiuse le imposte o si tirò vivamente indietro, o volse il capo dall'altra parte. - Sirena! maliarda! che mi aveva inebbriato coll'amore, ed ora mi intossicava con la gelosia! Le scrissi; le scrissi umile, delirante, minaccioso. Ella mi rimandò le mie lettere con un sol motto: " Una follia non si fa due volte o diventa sciocchezza ". - Una sera la rividi in teatro; ella non mi gettò che un'occhiata dal suo palchetto - a me che divoravo la sua bellezza con tutti i sensi e ne ero geloso! La vidi uscire raggiante, superba, colla testa alta, il cappuccio sugli occhi, e il braccio nudo appoggiato a quello di lui. Io feci stridere la seta della sua veste imprigionata sotto al mio piede; ella si volse vivamente e mi gettò in faccia un'occhiata di collera, forse senza riconoscermi. *** E così la seguo da mesi, con questo acre desiderio di lei ch'è memoria e gelosia mischiate insieme; e cerco di vederla; e frequento i luoghi dove spero incontrarla; e la riconosco al portamento, al posare del piede, al muover della testa; e stasera la riconobbi subito appena la vidi, sebbene mascherata, e quando potei farla parlare ed accertarmi ch'era proprio lei non la lasciai più, da lontano o da vicino, e so quel che ha fatto, quel che farà, l'ora in cui la carrozza verrà a prenderla, e poco fa, mentre era seduta nel ridotto, nel momento in cui vidi allontanare il conte per andare a comprarle dei dolci, sedetti accanto a lei e mi tolsi la maschera. "Voi!" esclamò. "Ancora!" "Sì! non tentate di sfuggirmi; voglio il tuo amore!" "Siete pazzo!" mi disse, gettandomi in faccia la doccia fredda della sua calma. "E voi senza cuore!" "Io! che vi ho sacrificato dieci mesi della mia giovinezza, i più belli! che vi ho sacrificato la mia carriera, e che avete messo alla porta quasi in cenci!" "Ah! e volete vendicarvi!..." "No, ve lo giuro. Non sono in collera con voi. Non lo sarei che ove vi ostinaste in questa follia. Noi ci siamo trastullati con una cosa pericolosa, abbiamo preso sul serio il romanzo del cuore; ecco il nostro torto, perché anch'io ci ho creduto per un istante. Ma non siamo abbastanza ricchi per permetterci questo lusso." "Non credete all'amore?" le dissi insolentemente. "non ci credete più?" "Oh, tutt'altro! È il ferro del mestiere. Ma credo a quello degli altri. Anche voi dovete crederci, ma in tutt'altro modo, per scaldare la vostra fantasia e farne risultare dei bei quadri che vi frutteranno onori e quattrini." "Oh, è un'infamia!" Ella si drizzò come una duchessa cui si fosse mancato di rispetto e mi disse seccamente: "Me l'avete insegnata voi! Ora andatevene, ché viene il conte." "Oh! tanto meglio! Voglio conoscerlo questo felice mortale che vi paga i baci e le menzogne!" "Ah!" esclamò con un sorriso che non avevo mai visto in lei "mi ricompensate così! Ma guardatevi! che il conte, oltre il pagarmi tutto questo, regala anche dei famosi colpi di spada!" "Pel nome di Dio!" mormorai ebbro di collera e di gelosia, "che egli non ti pagherà più nulla, e domani sarai sulla strada se non vorrai venire a chiedermi ospitalità!" "Tu sai che ho scommesso!" finì Enrico guardandomi con occhi sfavillanti. *** Enrico si passò la mano sugli occhi, per scacciarne la frenesia che vi lampeggiava, e riprese dopo alcuni istanti di silenzio: "Sono pazzo! lo so anch'io! Ma la ragione mi è insopportabile. Non ho più fede nell'arte, nella vita, di cui posso contare i giorni che ancora mi rimangono, nell'amore ... e son geloso!..." "Hai visto le sue braccia nude?" mi domandò dopo un istante con voce rauca, come se parlasse in sogno. "Ma la tua famiglia?" gli dissi. Non rispose. Poscia, dopo un lungo silenzio e asciugandosi gli occhi. "È il solo dolore che mi rimanga!" "Potrebbe anche essere un conforto, e tale da compensarti ampiamente." Enrico mi rise in faccia con un'ironia quasi insolente. "Mio caro, i sentimenti puri non sono che per le anime pure. Che cosa porterei in mezzo alla mia famiglia che ha sacrificato tutto al mio egoismo?... i miei infami sogni? i miei sozzi desideri? i miei disinganni colpevoli? Grazie a Dio, non sono arrivato così in basso da non comprendere che morrei di vergogna pensando ad Eva, nelle braccia di mia madre, e che profanerei vilmente le labbra di mia sorella, coi baci che ho dato a quella donna!" Si alzò bruscamente, come se temesse qualche altra osservazione. "Fra mezz'ora," mi disse, "al buffet; il conte vi ha dato appuntamento ad un suo amico che parte per Parigi col primo treno. Sono le quattro; hanno ordinato la carrozza per le cinque; sono certo di non mancare." Mi toccò appena la mano, ed uscì. *** Egli mi aveva rovesciata addosso quella narrazione come una valanga, tutta di un fiato, quasi fosse stato uno sfogo supremo e disperato, con parole rotte, con frasi smozzicate, con accenti che solo il cuore sa metter fuori, e cui solo lo sguardo sa dare un significato. Io non potrei accennare la millesima parte dell'impressione che faceva quella dolorosa frenesia, irrompente, concitata e febbrile di un uomo col piede diggià nella fossa, che gemeva, si contorceva ed urlava nel suono della voce, nel tremito delle labbra, nelle lagrime degli occhi, mentre la folla delle maschere urlava anch'essa ebbra di vino e di musica rimbombante. Tutto ciò mi saliva alla testa, mi ubbriacava. Ero rimasto attonito, quasi annichilito dinanzi a quella tempesta del cuore, come dinanzi ad una tempesta degli elementi. Uscii dal palco dopo di Enrico, e lo cercai inutilmente pei corridoi, in platea, sul palcoscenico, da per tutto. Dov'era andato? Vidi l'elegante coppia che aveva attirati tutti gli sguardi dirigersi verso il buffet, e la seguii. Quella strana avventura mi aveva gettato in una singolare preoccupazione. Il trovatore si tolse la maschera; era veramente il conte Silvani, bel giovane, ricco, prodigo, coraggioso. Era l'ora in cui la stanchezza, o il caldo, o il vino, o la follia, fanno cadere tutte le maschere, ed anche Eva si tolse la sua. Aveva il viso rosso, volse in giro un'occhiata quasi timida; poi si assise di faccia al suo compagno. Lo sciampagna spumeggiava nei bicchieri, gli occhi brillavano, e l'eguaglianza sociale regnava in un modo che mai democrazia al mondo ha sognato possibile. A poco a poco vidi radunarsi nella sala tutti quei giovanotti che si erano trovati impegnati, senza saper come, in quella bizzarra scommessa. Si guardavano attorno con curiosità, sorridevano, e si parlavano a bassa voce. Di quando in quando Eva volgeva uno sguardo sulla folla che andava e veniva dall'uscio, e poi tornava a ridere e a parlare col conte. La mezz'ora suonava. Io tenevo gli occhi fissi su di Eva, e tutt'a un tratto la vidi impallidire lievemente, chinarsi all'orecchio del conte e dirgli qualche parola; questi sorrise e accennò negativamente; prese il bicchiere di lei, e lo riempì di sciampagna. Seguii la direzione degli occhi della donna, straordinariamente spalancati, e vidi Enrico, che si teneva sulla soglia, senza maschera, con certa faccia pallida di malaugurio che gli dava l'aspetto di un cadavere. Non so perché - non conoscevo, direi, costui che da due ore - ma il cuore mi batté forte. Infatti vi dovea essere veramente qualcosa di straordinario nel suo aspetto, poiché tutti lo guardarono in un certo modo come di sorpresa. Anche il conte si volse a guardarlo, vedendo che tutti lo guardavano, e sorrise. "Tò! ancora quell'originale!" Enrico gli si avvicinò con tutta calma, e si tolse il berretto con comica serietà. "Ti diverti?" gli disse sorridendo il conte per dire qualche cosa, giacché quel saluto gli avea tirato addosso l'attenzione generale. "Sì! in fede mia, si! quando ti vedo mi diverto." "Mi conosci?" "Diavolo! Chi non ti conosce!" "Bevi alla mia salute, dunque", gli disse porgendogli il bicchiere spumeggiante. "In coscienza non posso; ché tu stai molto male!" "Ah! ah! una delle solite facezie!" sghignazzò il conte rivolto ad Eva. "Adesso ci dirà i nostri segreti!" Io guardai Eva e la vidi pallida come cera. "Oh! oh!" rispose Enrico ridendo come avrebbe potuto ridere uno spettro se gli spettri potessero ridere; "il segreto di pulcinella!" Il conte sembrò imbarazzato per un istante; ma non era uomo da darsi per vinto alla prima, e replicò: "Sapevo la tua risposta: è vecchia come il tuo travestimento." "Da arlecchino d'onore, no! Anzi, per provarti che non sono un ciarlatano, ti dirò quelli di lei" e accennò ad Eva. "Non i segreti del suo cuore, poiché non ne ha; ma posso dirti quelli della sua vita." Eva fece un movimento per alzarsi, quasi avesse perduta la testa, e agitò due o tre volte le labbra pallide senza poter parlare. Attorno a quel gruppo si era formato un cerchio di curiosi, di cui il centro era occupato da quei due uomini che sorridevano. Ci fu un istante di silenzio. Evidentemente il conte avrebbe fatto a meno di quella lotta di frizzi, ma come trarsi indietro? Enrico gli sorrideva sempre, col suo viso cadaverico e gli occhi luccicanti come quelli di un fantasma. "Ah! davvero? E come lo sai?" disse il conte con uno sforzo d'audacia, perché era imbarazzato egli medesimo del suo silenzio. Enrico appoggiò ambe le mani sul marmo del tavolino, si chinò verso di lui sin quasi a soffiargli in faccia le parole, e rispose lentamente: "Lo so, perché sono stato l'amante della tua amante." Nell'occhio del conte passò un lampo, e le sue labbra si contrassero sforzandosi di sorridere ancora. Sembrò ondeggiare un istante sul partito da prendere, e istintivamente volse attorno uno sguardo furtivo e lo fermò su di Eva. Ella era pallidissima, avea le labbra livide e l'occhio smarrito quasi stesse per svenire. Tutti quegli occhi che si fissavano sul conte sembrarono raddoppiare il sangue freddo di lui. Egli esitò un solo momento; poi alzò il bicchiere ricolmo all'altezza del naso di Enrico ed esclamò: "Alla salute dei tuoi amori passati dunque!" e vuotò il bicchiere d'un fiato. Ci fu uno scoppio di applausi. "Bravo!" disse anche Enrico. "Sei un uomo di spirito!" "Grazie!" "Io lo sapevo, e perciò ho fatto la scommessa." "Davvero?" "Sì, ho scommesso che avrei dato un bacio alla tua amante, e che tu non l'avresti avuta a male." "Eh, caro mio! Scommessa arrischiata!" rispose il conte che cominciava a farsi serio. "Ohibò! Sei un uomo ammodo! Guarda!..." E senza precipitazione, con quella calma che non l'aveva abbandonato un solo istante, si chinò su di Eva, la quale era quasi fuori di sé, e non si aspettava certamente quell'eccesso di follia, e la baciò sulla guancia. Il conte si rizzò come un fulmine, e gli applicò un sonoro schiaffo. "Oh, oh" esclamò Enrico senza scomporsi, sorridendo ancora del suo lugubre riso, e passandosi la manica sulla guancia rossa. "Vedi che avevo ragione di non bere alla tua salute." *** Le condizioni del duello furono stabilite quasi subito fra due amici del conte e due dei giovanotti che avevano impegnato la scommessa con Enrico. Silvani era partito. Io accompagnai il mio amico che sembrava diventato un altro, indifferente a tutto, anzi un po' inebetito come quando girava fra la calca del veglione. I suoi occhi luccicavano da pazzo: era la sola manifestazione di quello che dovea chiudersi in petto. Passando attraverso la ridda frenetica dei ballerini e delle maschere sorrideva in modo strano; e un momento si fermò a guardare come uno sfaccendato che si balocca con la sua spensieratezza. - Quella musica, quell'allegria scapigliata e quell'uomo che guardava sorridendo, mi stringevano il cuore. Allorché fummo in carrozza, m'accorsi che Enrico tremava come chi è colto da febbre. Volli dargli il mio paletò; lo rifiutò. "Non occorre;" mi disse, "fa caldo." "Hai la febbre!" "Lo so. Son parecchi mesi che l'ho tutte le sere ... Passerà." E rideva. Era ancora buio. Nella notte era caduta molta neve che imbiancava le strade e i tetti sicché la carrozza vi correva sopra senza far rumore, come se facessimo un viaggio fantastico. Lasciammo il legno al piazzale delle Cascine, e ci mettemmo a piedi per un lungo viale. L'aria era frizzante; i primi chiarori dell'alba imbiancavano debolmente il cielo attraverso l'incrociarsi dei rami inargentati dalla neve; una sfumatura opalina si disegnava in fondo al viale sull'orizzonte, e il viale stesso appariva come una lunga striscia candida su cui risaltava, ad una certa distanza, un'ombra indistinta che si avvicinava senza far rumore, facendo tremolare due fiammelle rossigne ai due lati. L'alba si era fatta più chiara quando il conte e i suoi testimoni ci raggiunsero. Erano avvolti nei loro mantelli e avevano il sigaro in bocca. Ci fu uno scambio generale di saluti fatti in silenzio. Quei due uomini si guardarono senza batter ciglio, quasi non si fossero conosciuti mai. Gli uccelli cominciavano a pispigliare, e un raggio indorato corse come una freccia sui rami più alti. Il conte accese un'altra sigaretta mentre si compivano le formalità preliminari, ed uno dei testimoni alzò il naso verso il cielo dicendo: "Sarà una bella giornata." Poscia tutti i sigari si spensero, e tutti i volti assunsero la maschera di circostanza. Enrico si tolse l'abito e lo piegò accuratamente; vi sovrappose il cappello, rimboccò le maniche della camicia sino al gomito, prese la spada che gli presentavano, la piegò in tutti i sensi sulla punta del piede, e frustò l'aria con essa. Successe un istante di silenzio. Poi si udì una voce: "A voi, signori!". E le due lame scintillarono. Ho ancora dinanzi agli occhi quel triste spettacolo. Enrico avea la guardia un po' spavalda, ma ferma come il bronzo, che gli spagnoli ci hanno lasciato a noi del mezzogiorno; sembrava tutto d'un pezzo dalla punta della spada alla punta del piede, e parava con un semplice movimento del pugno. Il conte era bravo spadaccino, snello, agile, nervoso; la spada gli guizzava fra le mani come un baleno, cavando e ricavando colla rapidità di un mulinello; si raccorciava, si nascondeva quasi sul fianco, e vibravasi improvvisamente come un giavellotto a spuntarsi su quei pochi centimetri di coccia, dietro alla quale Enrico riparavasi come dietro ad uno scudo che coprisse tutta la sua persona. Dopo alcuni istanti il conte ruppe di un passo, e si rimise in guardia come per vedere con chi avesse a che fare. Due o tre minuti rimasero immobili, con il ferro sul ferro, gli occhi negli occhi, l'odio che si scontrava con l'odio. Enrico ritirò la sua spada facendola strisciare lento lento su quella dell'avversario con un movimento felino. Parve che un fremito si fosse comunicato dal suo ferro a tutto il suo corpo, ed assaltò bruscamente. A un tratto si piegò come un arco colla rapidità del lampo, ed io che gli stavo alle spalle vidi luccicare la punta della spada nemica dall'altra parte del suo petto. "Alto!" gridarono i secondi, mettendo la spada fra i duellanti. "Non è nulla!" disse Enrico scoprendosi il petto. "È una scalfittura." Il ferro però aveva fatto quel che avea potuto, e aveva portato via quello che aveva incontrato. Una striscia di carne lacerata solcava il petto di Enrico e la camicia, ch'era stata meno lesta di lui, era stata bucata netta. Il chirurgo - un nostro carissimo amico, molto conosciuto a Mentana come il dottore dal cappello bianco - esaminò la ferita; era infatti orribile a vedersi, ma non era grave, e quei signori potevano ancora seguitare a bucarsi la pelle. "Diavolo!" esclamò Enrico. "Non credevo che ci fosse ancora tanta carne nelle mia ossa." Il dottore voleva fasciargli la ferita. "No," egli rispose; "il signore ha diritto di aver nudo il suo bersaglio." Il conte s'inchinò. Non c'era che dire, quei due bravi giovanotti si scannavano da perfetti gentiluomini Tornarono a mettersi in guardia; ma stavolta erano pallidi entrambi di un pallore sinistro. Lo scherzo di buona società cominciava a farsi serio. Enrico sentiva al certo che non aveva tempo da perdere, perché il sangue gli scorreva fra le dita della mano che si teneva sulla ferita, e la mano e la camicia gli si erano fatte rosse. Si vedeva una terribile tensione in tutta la sua persona, nell'occhio intento, nei movimenti nervosi, nel garretto saldo, nel corpo piegato all'indietro: sembrava una molla d'acciaio che stia per scattare. Il conte l'assaliva colla furia di chi capisce d'avere a che fare con un temibile avversario, e sente di dover uccidere per non essere ucciso. Tutt'a un tratto si vide una striscia di luce correre e serpeggiare come una biscia sulla spada del conte, Enrico andare a fondo tutto d'un pezzo, e saltare indietro levando in alto la spada. Il conte portò vivamente la sinistra sul petto, stralunò gli occhi, abbandonò la guardia e si appoggiò un istante alla spada che si piegò sotto il suo peso; poscia barcollò e cadde su un ginocchio. Tutti si precipitarono su di lui. Enrico si fece ancora più pallido, e lo guardò cogli occhi di un mentecatto. Il dottore dal cappello bianco s'inginocchiò presso del conte, mentre uno dei suoi secondi gli teneva il capo sui ginocchi, e gli aprì la camicia. La ferita non doveva essere grave; era appena visibile, fra la terza e la quarta costola, e mandava pochissimo sangue. Sembrava davvero una cosa da nulla. Il dottore non ebbe bisogno che di una sola occhiata, per ordinare, con quell'accento che hanno soltanto i medici in certe occasioni, rialzandosi bruscamente: "La carrozza! presto, la carrozza!" *** Passarono alcuni mesi senza che io più rivedessi Enrico Lanti. Ero tornato in Sicilia, ma non ne avevo avuto più notizia. Un mattino, verso gli ultimi di ottobre, mi fu recapitata da un contadino una lettera urgente in Sant'Agata-li-Battiati, ove mi trovavo. Il carattere di quella lettera che veniva a cercarmi con urgenza mi era assolutamente sconosciuto, e sembrava tracciato con mano tremante. Però non ci volle molto per correre alla firma, giacché la lettera era brevissima; era di Enrico Lanti e diceva: " Amico mio, vorrei vederti, e siccome me ne rimane pochissimo tempo ti prego di affrettarti, se vuoi rendermi quest'ultimo servigio. " Mi misi in viaggio immediatamente, facendomi guidare dal contadino che aveva recato la lettera. Fuori Aci Sant'Antonio, dopo un cinque minuti di corsa per quella bella strada che svolge agli occhi del viandante l'incantevole panorama della vallata di Aci, tutta seminata di ville e di villaggi, fra le vigne e i boschi di aranci, sino al mare, la mia guida mi additò una casetta elevata su di un ciglione. Bisognò lasciare la carrozza e metterci per una viottola attraverso i campi. Alla svolta del sentiero mi si presentò la casa ridente ed ariosa, ornata di viti e di rosai, con una bella spianata sul davanti, e due magnifici castagni che le facevano ombra. Sotto un di quegli alberi c'era una poltrona colla spalliera appoggiata al tronco; un mucchio di guanciali le dava l'aspetto doloroso che hanno le poltrone degli infermi. Vidi una scarna e pallida figura quasi sepolta fra quei guanciali, e accanto alla poltrona un'altra figura canuta e veneranda - la madre accanto al figliuolo che moriva. Corsi a lui con una commozione che non sapevo padroneggiare. Com'egli mi vide mi sorrise di quel riso così dolce degli infermi, e fece un movimento per levarsi. Si vedeva diggià il cadavere: il naso affilato, le labbra sottili e pallide, l'occhio incavernato. Lo tenni stretto fra le mie braccia, ed egli mi baciò più volte; quel bacio era caldo di febbre; tutta la sua epidermide era riarsa, e l'anelito frequente ed affannoso gli si sprigionava dal petto con un sibilo. Sedetti di faccia a lui. Egli non volle abbandonare le mie mani, e cercava di sorridermi ancora quantunque dovesse molto soffrire, a giudicarne dalla contrazione dei suoi lineamenti, che di tratto in tratto non poteva dissimulare. "Grazie!" mi disse tutto commosso. "Tu almeno non mi hai dimenticato!" Tacque subito, sopraffatto da un violento scoppio di tosse, che, ahimé!, non ebbe neanche la forza di prorompere, ma si contentò di lacerare quel povero petto, facendolo sobbalzare convulsivamente. Poi si abbandonò sui cuscini cogli occhi chiusi, sfinito. Quali occhi! Le palpebre nerastre si affondavano nell'occhiaia incavata, e quando si riaprivano scoprivano qualche cosa che parlava dell'altro mondo. Nell'impeto della tosse tutto quel poco sangue che gli rimaneva sembrava correre, con rossori fuggitivi, sulla mortale pallidezza delle gote; poscia quella pallidezza si faceva più mortale ancora. La madre teneva abbracciati i cuscini dove si perdeva quasi il corpo del figlio, e guardava quelle sembianze adorate, ove la morte sbatteva diggià la sua livida ala, con l'occhio asciutto, quasi il cuore avesse bevuto tutte le sue lagrime. Feci un movimento per alzarmi. Egli che possedeva la squisita percezione di tutto ciò che si faceva vicino a lui, come l'hanno i moribondi di quel male, mi strinse le mani, senza riaprir gli occhi, e mi fece cenno di non muovermi. Dopo qualche secondo volse lentamente il capo, e fissò un lungo sguardo negli occhi di sua madre. Negli occhi della madre e in quelli del figlio non c'erano lagrime: c'era un silenzio che spezzava il cuore. "Mamma!" disse Enrico, e la sua voce fioca vibrava come una carezza in quella dolce parola. "Ecco il mio amico. Tu gli vuoi bene, non è vero?" La povera donna mi stese la mano, ed io la baciai religiosamente. "Dove sono gli altri" domandò Enrico con la curiosità inquieta, particolare al suo stato. "Tuo padre è andato ad accompagnare il medico, e l'Agatina è andata a coglierti una manata di gelsomini che ti piacciono tanto." "Il medico!..." mormorò il moribondo con accento che stringeva il cuore. Nessuno di noi ebbe il coraggio di rispondere. "Ti ho disturbato forse?" mi domandò dopo alcuni istanti. "Oh, no!" "Avevo bisogno di vederti ... e di parlarti." Mi fissò col suo sguardo espressivo e lucidissimo, e soggiunse: "Noi non fummo mai intimi; ma ci siamo incontrati in una tal epoca della mia vita che mi pare di non avere altri amici che te. Eppoi" e sorrise dolorosamente "ho diritto alla tua indulgenza ... come tutti quelli che se ne vanno verso quelli che rimangono ..." "Enrico!" esclamai stringendogli le mani con dolce rimprovero, e rivolgendo involontariamente uno sguardo alla madre di lui. Anch'egli rivolse su di lei quegli occhi che dopo alcuni secondi di angosciosa contemplazione gli si riempirono di lagrime. "Mamma!" le disse dopo una qualche esitazione, "non vorresti dire all'Agatina di fare anche un mazzolino pel nostro amico?" La povera madre si levò in silenzio, e si allontanò. Rimasti soli ci guardammo senza aprir bocca. Nessuno di noi due trovava la prima parola, e quel suo sguardo mi trafiggeva il cuore. "Io muoio!..." diss'egli finalmente, con un accento che non potrò mai dimenticare. "Lo vedi!..." Non potei frenare le lagrime, e gli strinsi la mano con forza. "Coraggio, povero amico mio!" "Credi dunque che mi rincresca di morire?... Io non avrei bisogno di coraggio ... se non fosse per quei poveri vecchi che mi spezzano il cuore!" I suoi occhi, dove soltanto sembrava essersi raccolta la vita, luccicavano di lagrime, mentre li volgeva su tanto sorriso di cielo, su tanto azzurro di mare, su tanto verde di giardini che gli stava attorno. Il suo cuore d'artista, che possedeva la squisita suscettibilità d'idealizzare quelle impressioni dei sensi, doveva grondar sangue parlando di morte fra tante ricchezze di vita. Non ebbe più a lungo la forza di dissimulare l'angoscia che doveva lacerarlo a quelle parole, e mormorò con un sospiro a stento represso: "Com'è bello tutto ciò!... Io solo posso sentirlo in quest'ora ..." Rimanemmo qualche tempo in silenzio. "L'hai veduta?" mi domandò tutt'a un tratto, come se non ci vedessimo soltanto da pochi giorni, o come se seguitasse un discorso incominciato. "No!" risposi con ripugnanza, poiché il ricordo di tal donna mi pareva una profanazione in quel momento. Egli capì, e sorrise ironicamente. "Ah! voi altri puritani!... come siete sciocchi!" Aprì la camicia sul petto per cercarvi un pacchetto di carte. Le ossa sembravano forargli la pelle gialla e arida come cartapecora. "Guardala!" mi disse trionfante, svolgendo da quelle carte una piccola miniatura, "e dimmi se il vostro puritanismo vale il suo sorriso!" Quel disgraziato, diggià per tre quarti cadavere, faceva un ultimo sforzo onde delirare per quella donna che gli sorrideva ancora nel ritratto, e che non si ricordava più di averlo amato. "Quando sarai al punto in cui sono," mi disse Enrico, "o quando sarai vecchio, il che è peggio, maledirai la tua saviezza che ti ha fatto insensibile alla luce, ai profumi, alle dolcezze della giovinezza!..." E c'era tanto calore nel paradosso di quel moribondo che lo rendeva, direi, solenne. "Oh, povero amico mio! Interroga la tua coscienza, interrogala senza rimpianti e senza collera, e non dirai più così." "Che m'importa!" saltò su Enrico con tal impeto quasi un serpe l'avesse morsicato. "Che m'importa della coscienza, e di tutti quei fantasmi che voi altri avete creato a furia di paroloni! Che m'importa del vero e del falso!... Ho tempo di perderci la testa, io?... e neanche voi altri ce l'avete ... voi che m'isterilite il cuore mentre la giovinezza fugge come un lampo! Tu, vedi, sei giovane, sano, forte ... tu mi guardi forse con maggior sorpresa che compassione, e domandi a te stesso come mai sia possibile che la vitalità che senti in te rigogliosa e robusta possa giungere a tanta miseria di deperimento ... Eppure, vedi! Tutta cotesta robustezza, tutta cotesta forza ... un soffio ... e se ne vanno!... E l'uomo ... l'uomo che sente dentro di sé ancora tutto questo inesplicabile mistero di desideri, di speranze, di gioie e di dolori, che la malattia non ha né indebolito, né ucciso, l'uomo che lo sente più forte e tumultuoso per quanto più infiacchiscono le sue forze, domanderà a se stesso, come te, cosa sia dunque questa vita, e questa incognita che chiamano cuore!... Chi lo può dire?... Nessuno. E se nessuno lo sa, chi può dargli torto o ragione?" Tacque anelante, rifinito al pari di un uomo che abbia fatto una lunga corsa; e dopo un triste silenzio ripigliò con esaltazione morbosa: "Ho visto tante mostruosità rispettate, tante bassezze cui si fa di cappello, tante contraddizioni di quello che chiamate senso morale, che non so più dove stia la verità. Tu che mi parli di gioie false dimmi quali sieno le vere: quelle che costano più lagrime, o quelle che lasciano più rimorsi? - O perché rimorsi? – Qual è l'amor vero, quello che muore, o quello che uccide? - E qual è la donna più degna di amore, la più casta, o la più seducente? - dov'è l'infamia? nella donna che ama per vivere, o nell'uomo che vive per godere? - o che tiene il sacco dell'adulterio colla complicità del silenzio - o che gli s'inchina quando lo vede passare in carrozza? Chi sentenzia del bene e del male? Il mondo! Che cos'è? Quali sono i suoi diritti? - e non mentisce? - e non s'inganna? - e non è ipocrita? o non ha altra scienza che quella di negare? - e quell'altra di biasimare?" Si arrestava di quando in quando, e agitava la testa sul cuscino come se i pensieri che gli martellavano il cervello non potessero più irrompere. La parola gli usciva rotta, a sibili, a rantoli: era uno spettacolo straziante. "I pazzi son più felici di voi" e ripeté due o tre volte questa frase. "Se vivete di menzogne, se non avete di certo che le illusioni, perché le maledite quando son belle?... Voi altri savi ... che vi affannate dietro ad illusioni che non raggiungerete giammai ... o che sconfesserete quando le avrete raggiunte, chiamate pazzo colui che si vive beato nelle sue illusioni!... il pazzo come vi chiamerà, voi altri savi?" "E l'arte ..." soggiunse dopo poco, "Menzogna anch'essa!... Menzogna ... o illusione!" Dopo coteste parole stette a lungo in silenzio, cogli occhi chiusi come se la vita l'avesse abbandonato intieramente. Era un lugubre silenzio. Poscia fissandomi in volto uno sguardo relativamente calmo, e dove c'era una tinta di sorpresa: "È strano!" mormorò; "mi pareva che avessi bisogno di parlare di lei ... e che tu mi dicessi che ella ti ha parlato di me ... Ora non lo desidero più ... Ho pensato ad Eva ... e alla mia giovinezza ... e li ho veduti lontan lontano ... Sarà perché sono stanco!" E dopo un altro silenzio: "Posso contare le ore che mi restano di vita, posso dire: Domani ... fra due giorni ... quando quel bel sole farà scintillare l'immensa pianura d'acqua che si stende laggiù, e colorirà del suo bell'azzurro questo cielo ... quando lo stesso albero getterà la stessa ombra sulla mia povera casa, e quegli uccelli schiamazzeranno fra le foglie ... io sarò morto ... non vedrò e non sentirò più nulla ... nemmeno i pianti desolati dei miei genitori che mi chiameranno ... Che rimarrà di me? di tutta cotesta confusione di pensiero che sento in così fragile involucro?... Non lo so! nessuno me lo sa dire! Ciò è ben triste!... Non è vero?" Volse gli occhi lentamente, con stanchezza, su tutto l'orizzonte che lo circondava, e con una certa inesprimibile amarezza: "La vita!..." mormorò chiudendo gli occhi di nuovo, come se quella vista l'affaticasse, o gli lacerasse l'anima, e dopo una lunga esitazione: "Sì! sì ... c'è qualche cosa di vero nell'arte!..." Il dolore m'opprimeva. Non sapevo far altro che stringere fra le mie quelle povere mani scarne. "Tu non muori, tu!" mi disse egli con una sublime e lacerante ingenuità "e forse la vedrai! Prendi" soggiunse dopo qualche secondo d'esitazione consegnandomi quel pacchetto che non aveva abbandonato. "Se mai la rivedrai un giorno ... se si rammenterà di me ... dagliele ... Se no ... fanne quello che vuoi ... bruciale ... Domani forse sarò morto, e mia madre, e mia sorella ... non devono vederle ..." Ed esitò ancora lungamente prima di darmi il ritratto. In questo momento si udirono le voci dei suoi parenti che si avvicinavano. "Maledetta!" esclamò trasalendo e buttando il ritratto per terra. "Maledetta! Menzogna infame che mi hai rubato la felicità vera! Maledetta! E maledetta anche te, arte bugiarda che c'inebbrii con tutte le follie! Maledetta!" Un accesso di tosse sembrò soffocarlo; il corpo era troppo debole; ma lo spasimo lo faceva sollevare sulla poltrona, agitando le braccia smaniosamente; e tentava quasi colle mani contratte di strapparsi dalla bocca e dal petto quel dolore insoffribile. In quel momento temei sul serio che mi morisse tra le braccia. Allorché sopraggiunsero i suoi parenti era abbandonato sui cuscini, con un soffio di vita sulle labbra, cogli occhi fissi e le lagrime che gli rigavano le guance. Qual più doloroso spettacolo di persone che si adoperano, che hanno la terribile certezza di doversi separare per sempre, che hanno il cuore a brani pel dolore, e che devono nasconderselo reciprocamente! Nella madre quel dolore era sovrumano, ma rassegnato, quasi sacro; nel padre era cupo e profondo; nell'ingenua e candida giovinetta era meno dissimulato, ma anche meno vivo, forse perché a quell'età non si crede giammai intieramente alla sventura. "Eccoti i tuoi gelsomini, Enrico!" diss'ella scuotendo il suo grembialino sulle ginocchia del fratello. "Ed ecco per lei ..." aggiunse arrossendo con un grazioso sorriso e inchinandosi con bel garbo. La ringraziai, commosso al vivo. Il desolato genitore venne a stringermi la mano. Vidi la madre che si chinava sui cuscini del figliuolo e gli diceva qualche parola all'orecchio. Dal triste sorriso con cui il figlio rispose indovinai che gli aveva domandato come si sentisse - quella dolorosa domanda che si ripete più spesso quanto minori sono le speranze di avere una risposta rassicurante. Il padre che aveva lasciato il medico pochi momenti prima, non ebbe il coraggio di domandargli. Lo sguardo intelligente del moribondo si affissava con indefinibile espressione sui suoi cari, come se volesse saziarsi della felicità di vederseli accanto mentre sentiva l'angoscia di allontanarsene sempre più ogni secondo. "Perché mi lasci così spesso?" diss'egli al padre con accento che spezzava il cuore, stendendogli la mano che ricadde senza forza. "Accompagnai il dottore, figliuol mio ..." rispose il povero vecchio facendo sforzi sovrumani per dissimulare le sue lagrime. "Ah! ... il dottore!..." esclamò l'ammalato stringendosi nelle spalle. Nessuno osò aprir bocca. Mi alzai, poiché non mi sentivo le forze di assistere più a lungo a quello spettacolo, e perché mi sembrava di dover rispettare il pudore di quelle angosce. "Te ne vai diggià?" diss'egli stendendomi la mano. "Si." "Verrai domani?" "Verrò." Credeva ancora al domani! "Domani!..." esclamò quindi tristamente. "Chi lo sa?... Ad ogni modo," soggiunse stringendomi le mani, "baciamoci ... come due amici che si lasciano per lungo tempo ..." Quel bacio caldo, in cui si sentiva già l'anelito del moribondo, mi trafisse il cuore. Egli mi seguì con quello sguardo che strappava le lagrime finché svoltai l'angolo della viottola. Il padre suo insisteva per accompagnarmi sino allo stradale. Mi parve un delitto rapirgli quegli ultimi e solenni momenti che poteva passare ancora presso il figlio che la morte gli rapiva. Partii addolorato profondamente. Tutta la notte non potei dormire. Sembravami di sentire al mio capezzale il rantolo di quel moribondo, e di vedermi dinanzi agli occhi quello sguardo e quel sorriso nuotanti nell'agonia. Il giorno dopo, di buon mattino, ritornai ad Aci Sant'Antonio. Sulla strada di Valverde incontrai i contadino che mi avea recato la lettera di Enrico il giorno innanzi. Lessi tutta la verità nell'occhiata che egli mi volse, e l'interrogai col solo sguardo. "All'alba!" mi rispose levandosi il cappello e segnandosi. Ordinai al cocchiere di tornare indietro; mi buttai in fondo alla carrozza, e piansi. FINE.

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