Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNIFI

Risultati per: abbagliante

Numero di risultati: 5 in 1 pagine

  • Pagina 1 di 1

Oro Incenso e Mirra

678742
Oriani, Alfredo 1 occorrenze

Poi la mascherina ripassò gettandogli dagli occhi verdi un rapido sguardo abbagliante. Il circolo si era diradato intorno al caminetto. - La conosce quella mascherina? - chiese il giovane deputato a Lelio Fornari. - Ho appena qualche sospetto. - Io credo di averla riconosciuta. Lelio già ricomposto aspettò la rivelazione, ma l'altro, che voleva essere pregato, tacque. - Vuoi fare un giro con me, cattivo? - arrivò saltellando quella mascherina, la brunetta del maggiore, che aveva tentato di turbargli il primo incontro colla principessa. Allora Lelio ridiventò amabile. - Temo di attirarmi troppi odi. - Vieni egualmente, sono io che ti difenderò. - Avresti il coraggio di comprometterti per così poco? - Ella ebbe un grazioso movimento di testa, prendendogli il braccio per trascinarlo dietro la principessa, della quale si vedeva lo scialle bianco riflesso nell'ultimo specchio in fondo all'appartamento. - Tu ami la principessa. - No. - Provamelo. - Non vi è che un modo. - Quale? - Provare invece che ti amo, lo accetteresti? - Prima che mi sia offerto? È vero che non sono una signora, me lo hai detto dianzi: tratti così con tutte le altre donne? - Senti, mascherina, in questo momento tu mi abbomini: vorresti vendicarti di tutto il male che non ti ho fatto. La principessa tornava indietro; Lelio ebbe un fremito, sul suo viso apparve come uno sdegno di noia. - Me ne vado, me ne vado, non voglio rendere altri geloso - gli urlò sul viso la mascherina piantandolo improvvisamente in mezzo alla stanza così che la principessa udisse; e fuggì con un grande svolazzo di sottane tutta contenta di aver potuto compiere quella piccola malignità. Allora Lelio scioccamente si mise dietro alla principessa rimproverandosi di fare una così magra figura, e pensando a quale degli amici avrebbe chiesto il favore di quella presentazione. Ma il cotillon tardava. Nell'allegria crescente delle sale passavano dei soffi di follia e di passione; l'aria troppo riscaldata da quell'eccesso d'illuminazione a gas si era riempita di profumi e di una polvere sollevata dallo scalpiccio di tutti quei piedi, che turbinava sulle larghe fiamme dei becchi dorati; tutti i visi si erano animati, i gesti parevano febbrili, le voci salivano sino alle urla più squarrate per ridiscendere ad un murmure sommesso nella stretta dei colloqui ostinati, fra lo stridore vitreo delle malignità e le tentazioni di tutte quelle carezze arrischiate o sopportate. Persino molti vecchi si erano lasciati vincere dall'orgasmo generale, e passavano a braccetto di qualche maschera affettando di satireggiare sè medesimi nell'esagerazione del portamento, ma in fondo trepidanti di una tale ripresa di giovinezza, che li rituffava nell'onda inebriante della vita dopo tanti anni trascorsi in secco sull'ultimo lido. Solo la processione delle mamme e delle zie, ammantellate di nero, seguitava colla stessa lentezza annoiata, riposandosi a grandi distanze da un divano all'altro, o nel passare davanti ad una pendola la consultavano con lunghe occhiate, mentre la ressa fuggente delle mascherine le urtava momentaneamente, e qualcuna affannata, saltellante, nell'iride dei propri colori, stringeva all'improvviso una di esse al collo, le sussurrava fra il nero del cappuccio qualche parola, e scappava furbescamente prima di ricevere la risposta. Quindi le ombre proseguivano crollando il capo con una rassegnazione contenta della gioia altrui. I più annoiati erano i pochi provinciali, perché anche Bologna come tutte le capitali per quanto piccole ha questa categoria alle proprie feste, e i giovanetti di primo carnevale, cui la confidente facilità degli altri eleganti faceva soffrire nell'amor proprio; quindi si raggruppavano qua e là per riunire tutte le loro debolezze in un assalto di maldicenza, o isolati sopra una poltrona tentavano tratto tratto di ostentare la noia. Alcuni bevevano. Lelio Fornari si riconobbe ridicolo. Tutto il suo orgoglio era prostrato da quelle poche scherzose parole della principessa, che dicendogli di farsi presentare aveva risposto così repentinamente al suo urlo inconsapevole. - Irma! Girellò ancora pel vasto appartamento seguendola da lontano per attendere almeno qualche gesto, ma ella sembrava averlo dimenticato. Benché riconosciuta già da tutti, seguitava a tenere la maschera per divertirsi di quel frastuono senza prendervi troppa parte, barattando qualche stretta di mano colle più intime conoscenze, che le si inchinavano ossequiosamente come se fosse già smascherata. E a poco a poco il suo codazzo si era ingrossato, molte signore in toeletta da ballo venivano a complimentarla, altre l'avevano invitata a cena. - E Giulio, tuo marito? - È a Roma. Le sale per la cena erano al pianterreno, ma un piccolo gruppo di signore con quella prepotenza aristocratica, cui i circoli borghesi non sanno mai resistere, si era fatta apparecchiare una tavola nell'ultimo gabinetto presso il botteghino del caffè, malgrado il tintinnìo dei bacili e dei bicchieri, che ne usciva come da uno sbocco di officina. Lelio a poca distanza dalla principessa in quel momento, avrebbe dato un anno della propria superba giovinezza per essere fra quegli invitati, ma tutto il suo ingegno e la sua educazione non potevano meritargli simile onore. Il conte Turolla invece, capitando in quel punto, offrì il braccio alla principessa, che lo pregò di trarle il mascherino. Egli levò prima delicatamente i due lunghi spilloni, che le fissavano lo scialle sul mazzo dei capelli, quindi tirando al disopra di questo la fettuccia elastica le liberò il viso. La principessa apparve rossa, cogli occhi gonfi, tutta in sudore: la sottile peluria delle sue gote pareva brinata. - Oh! - esclamò scherzosamente - chissà come sono! E si avviò la prima senza degnare Lelio Fornari nemmeno di uno sguardo. Questa indifferenza, che qualunque altro di quel piccolo mondo aristocratico avrebbe preso per una necessità dell'etichetta, ferì profondamente l'amor proprio del giovane romanziere. Tutti gli odi malati della sua vanità proruppero come una muta di cani al primo allentare dei guinzagli dietro le orme fuggenti di una volpe. Nessuno degli eleganti invitati a quella breve cena olimpica valeva quanto lui, che senza titoli sapeva di discendere da un'antica famiglia feudale, forse con poco lustro nelle cronache, ma di un sangue più puro, se mai sangue puro poté conservarsi nelle famiglie, che quello medesimo dei Montalto. Sciaguratamente una stessa decadenza economica aveva forzato tutti i suoi parenti a destreggiarsi nelle professioni: alcuni erano rimasti in campagna, mutati in piccoli proprietari, economi ed incolti senza più alcun orgoglio di tradizione. Suo padre era fra questi. Egli invece aveva studiato legge, ma non ne avrebbe mai esercitato il mestiere subdolo e proficuo, meno ancora per una ripugnanza dell'ingegno che per la nativa alterezza del carattere. Viveva quindi parcamente colla pensione assegnatagli dal vecchio padre sulla dote materna la prima metà dell'anno a Bologna, e nella estate si ritirava sui monti ad una villa assai malandata col nobile pretesto di comporvi qualche libro. Tutto ciò gli sembrava ancora di un grande tono aristocratico, sebbene quella vita a Bologna gl'infliggesse tratto tratto dolorose umiliazioni. Infatti dal grosso club cittadino avendo voluto passare all'altro dei nobili frammezzato anch'esso di borghesi importanti, benché un qualche arricchito troppo presto venisse periodicamente escluso, si era urtato a parecchie difficoltà di antipatie. Non vi si giuocava e non vi si faceva grande lusso, ma la poca pensione ve lo esponeva egualmente ad amari riserbi nell'evitare certe partite di piacere o nell'accettare certi inviti. Infatti egli rimproverava sovente a se medesimo questa debolezza. La sua larga cultura filosofica, gli istinti ribelli, che nella prima giovinezza, quando in Italia il socialismo non era ancora partito, lo avevano tratto passionatamente nel campo dei novatori più rivoluzionari, e un buon senso sicuro, cui doveva le migliori osservazioni ne' suoi romanzi ancora saturi di vecchio romanticismo, gli mettevano facilmente a nudo l'inane vanità di tale pretensione. E non pertanto l'alterigia inguaribile dello spirito, esagerata ancora dalla finezza del suo gusto, lo condannava inesorabilmente a cercare l'eletta compagnia mondana fra gente, alla quale gli sarebbe stato impossibile comunicare le proprie idee, e che giudicava i suoi libri un semplice dilettantismo. Quindi tale noncuranza della principessa lo sferzò a sangue sul cuore. "Una civetta come tutte le altre!" mormorò poco dopo mentalmente rituffandosi nel veglione. Ma lo spettacolo gli parve allora anche più volgare. Nessuna maschera era elegante, nessun costume rivelava un'idea o almeno una sufficiente cultura nell'imitazione: poco lusso e non molta grazia. Oramai tutte le signore erano discese a cena; rimanevano le figlie e le mogli degli impiegati, che profittando dell'intervallo cominciavano a ballare senza più soggezione degli altri, in un allegro oblio della propria meschinità. Qualche coppia vagava a braccetto, assorta, beata momentaneamente di una intimità chissà da quanto tempo sospirata. Egli non volle ballare: alcune fra quelle ragazze senza maschera lo ammirarono sinceramente. "Che buffonata!" pensò all'improvviso insolentendo tristamente contro quel sollazzo di una piccola gente curvata tutto l'anno sotto il peso della economia domestica. Tuttavia una vanità anche più piccola lo attirava irresistibilmente verso quell'ultimo gabinetto, nel quale cenava la principessa. Resistette, poi colla solita sofistica di tutte le passioni si persuase di vincere una falsa paura coll'andarvi, e traversò il vasto appartamento fino allo stanzino del caffè per chiedere delle sigarette. Nel passare per quell'ultimo gabinetto, ove non sedevano a tavola che quattro uomini e quattro donne, nessuno gli badò; egli ripassò altero, senza guardare, avendo già rinunciato internamente a quella presentazione. - To'! non ceni? - gli chiese gaiamente un maestro di pianoforte, allegro giullare torinese non senza qualche piccola qualità di artista, che divertiva tutte le signore di Bologna. - Non ho fame. - Sei innamorato? Ah! tu no, me lo ero scordato. - E tu dove ceni? - Dalla contessa Ghigi, la divina; dev'essere laggiù nell'ultima saletta colla principessa Montalto, la marchesa Ruffoni e la signorina Antici. Me lo hanno detto. Tu non conosci alcuna di loro? - Alcuna. - Vuoi che ti presenti?... fra noi artisti.... Lelio Fornari frenò a stento un sorriso di albagia. - Come vorrai. - Allora vieni con me. - Alla loro tavola? - C'inviteranno: ci vado a posta. - Tu puoi farlo, io no; non le conosco. L'altro s'ingannò sul tono sardonico delle parole. - Dopo, non mancherà tempo. Quale ti piace di più? - Nessuna veramente. - Io preferirei la principessa come donna. E il giullare commentò questa preferenza con un gesto lubrico. - Allora presentami a lei. - Ciao. Lelio Fornari tornò nella sala del caminetto. Il giovane deputato, in colloquio grave col prefetto, parlava dell'ultima crisi ministeriale così incostituzionalmente risolta dal presidente Agostino Depretis; il prefetto andava guardingo, mentre l'altro ripeteva con una certa enfasi i soliti luoghi comuni dei giornali. Egli si mescolò alla conversazione. Più colto e perspicace d'entrambi si mise a difendere Depretis, disegnando un po' confusamente la sua complessa figura di vecchio parlamentare. Naturalmente la discussione si rinfocolò, ma egli otteneva così di trattenerli finché ripassasse tutto quel gruppo di signore colla principessa, e allora il prefetto le avrebbe indubbiamente fermate fornendo al maestro Armandi un momento opportuno per la presentazione. Poi non gli spiaceva di farsi vedere da lei in tale compagnia semi-diplomatica. Quindi il suo spirito aizzato trovò qualche paradosso originale: Agostino Depretis, così profondamente scettico dopo essere stato così caldo rivoluzionario, era la più viva espressione del momento politico in Italia. - Chi può credere adesso fra l'epopea, che si dissolve, e la commedia, che riannoda la vita suscitata dall'epopea? È l'ora dei volteggiatori politici: la sinistra arrivata al potere ne impara le difficoltà tradendo tutto il proprio programma. Agostino Depretis è forse ancora il solo fra tutti quelli che gli mutano intorno, il quale conservi alto il sentimento della grandezza nazionale. - Egli inizia una nuova êra di corruzione - proruppe il deputato. - L'avrà dominata. - È certamente un uomo superiore - replicò il prefetto contento dell'aiuto imprevedibile, che gli veniva dal giovane romanziere. - Ah! ecco un gruppo di signore. Infatti la principessa si avanzava prima fra il conte Turolla ed Armandi; questi affettava grottescamente delle arie da domestico. Il prefetto e il deputato s'inoltrarono per salutarle, si formò crocchio: Lelio rimaneva un po' dietro al prefetto. Allora Armandi lo presentò: la principessa ricevette il suo inchino, gli tese la mano colla solita cortesia, e passò oltre senza parlare. Lelio e il deputato rimasero addietro, soli. - La più bella è sempre la contessa Ghigi: la principessa non è che piccante. Lelio Fornari sollevò bruscamente la testa come sotto la puntura di una ironia, ma quando tornò nel salone gli dissero che la contessa Ghigi e la principessa Montalto se n'erano già andate.

I FIGLI DELL'ARIA

682310
Salgari, Emilio 4 occorrenze

Più che nebbie erano banchi di nuvole di spessore straordinario, a strati sovrapposti e di una bianchezza abbagliante, gravide però di pioggia. Sulla valle l'acqua doveva cadere in gran copia, udendosi sotto l'aerotreno un crepitio incessante. Lo "Sparviero", che si manteneva a un'altezza di settecento metri, ben presto si trovò in mezzo ai banchi, tuffando gli aereonauti fra le masse vaporose ed ora uscendone, non avendo quegli strati dovunque un eguale spessore. Non si deve credere che le nuvole formino sempre delle masse compatte, come appaiono agli sguardi delle persone che si trovano in terra. Sovente formano dei veri banchi, di lunghezza e di larghezza considerevole, separati da leggeri strati d'aria più o meno vasti che lasciano cadere la pioggia sugli strati inferiori, senza lasciarla cadere fino a terra. Se ne trovano a tremilacinquecento metri d'altezza e a millecinquecento, e perfino a soli duecento metri dalla superficie della terra. Lo "Sparviero", dopo essere scivolato fra quei banchi, tornò a rivedere il sole, passando sopra un nuovo gruppo di montagne che si dirigevano verso il sud-ovest. I villaggi ricominciavano a comparire, circondati da campi coltivati con gran cura e da risaie sconfinate che terminavano in mezzo a paludi. Essendosi lo "Sparviero" abbassato fino a duecento metri, gli aeronauti scorgevano sovente dei contadini, i quali, come in altri luoghi, vedendo quel gigantesco uccello solcare l'atmosfera, fuggivano a rompicollo e si gettavano nei solchi; coprendosi perfino colle erbe e colla terra per paura di venire divorati da quella bestia che dovevano scambiare sempre per un terrribile drago. Intanto, panorami meravigliosi e sempre nuovi, si svolgevano dinanzi agli sguardi degli aereonauti. Ora erano smaglianti praterie dove pascolavano miriadi di montoni; ora catene di colline coi fianchi coperti da foreste più che secolari e interrotte da valloni e da burroni dove scrosciavano o muggivano impetuosi corsi d'acqua; ora piantagioni superbe, divise in grandi quadri con cura meticolosa, dove crescevano gelsi, piante di cotone ed indaco; ora immense ortaglie che circondavano graziosi villaggi; di quando in quando qualche torre lanciava i suoi tetti arcuati e adorni di campanelli al di sopra d'un fortino perduto sulle creste di qualche altura. Al sud, a una grande distanza, si vedeva giganteggiare sempre la grande muraglia, che seguiva le capricciose curve e le salite d'una catena di monti. Al nord invece, seminascosta dalla nebbia, appariva una pianura sconfinata, che scintillava vivamente sotto i raggi del sole, era la steppa od il deserto di Gobi, o meglio lo Sciamo, come lo chiamano i tartari. A mezzodì un gran nastro d'argento si delineò verso l'ovest, tagliando tutto l'orizzonte. - Il Fiume Giallo - disse il capitano, dopo averlo osservato attentamente con un buon cannocchiale. - Siamo sui confini dell'antico impero cinese; al di là vi è la Mongolia. - Andremo a vederlo? - chiese Fedoro. - Anzi, seguiremo per qualche tratto il suo corso, prima di slanciarci attraverso il deserto. - E perché volete attraversarlo, mentre la nostra rotta per andare in Europa sarebbe il sud-ovest? - chiese Rokoff. Il capitano guardò il cosacco per qualche minuto, ma non rispose, anzi si allontanò raggiungendo il macchinista che teneva la ruota del timone. - Che strano uomo! - esclamò Rokoff. - Che abbia tutt'altra intenzione che di condurci in Europa? Comprendi qualche cosa tu Fedoro? - No, Rokoff. - Quale scopo può avere per condurci attraverso lo Sciamo? - Non riesco a indovinarlo. - Che voglia invece condurci in Siberia? - - A fare che cosa? - Ho pensato che quest'uomo potesse essere ... indovina chi, Fedoro. - Non saprei. - Un agente segreto della polizia russa, incaricato di scoprire gli esiliati che fuggono dalle miniere siberiane. - In tal caso, imbarcando noi sul suo "Sparviero", avrebbe preso un granchio colossale - disse il russo, ridendo. - Io credo invece che sia uno scienziato. - Appartenente a quale nazione? Vorrei sapere perché non ce lo dice - disse Rokoff. - Forse un giorno ce lo dirà. D'altronde noi non possiamo lamentarci della sua ospitalità, quindi non c'importa di sapere se sia americano o russo o inglese o italiano ... Italiano! Ha un accento così dolce che lo riterre per tale, Rokoff. Non te ne sei accorto? - Infatti la sua pronuncia mi pare che non abbia la ruvidezza della lingua inglese, né tedesca, né ... - Signori, l'Hoang-ho - disse il capitano avvicinandosi bruscamente. - Ci terreste a una partita di caccia sui suoi isolotti o sulle sue rive? Si dice che i fagiani dorati ed argentati abbondino fra i canneti. - Farei volentieri alcune fucilate, capitano - disse Rokoff, prontamente. - Ho dei buonissimi fucili da caccia che metto a vostra disposizione. Quando giungeremo in un luogo deserto scenderemo. L'Hoang-ho, o Fiume Giallo, si svolgeva dinanzi agli sguardi degli aeronauti, aprendosi il passo fra due rive coperte da giganteschi pini e da numerose capanne. Questo fiume, chiamato giallo perché le sue acque, scorrendo su un letto d'argilla giallastro ne assumono il colore, è uno dei più importanti della Cina, raggiungendo una lunghezza di ben tremilanovecentonovanta chilometri. Nasce nella Mongolia - fra le aspre montagne del Kulkum, dove viene chiamato dagli indigeni Haro-mu-ren. Dopo immensi serpeggiamenti va a bagnare le terre delle provincie cinesi di Kan-Suhe, di Scen-Si e del Sian-Si, entra fra quelle dell'Ho-Nam e del Kiang-Su e va a scaricarsi nel Mar Giallo duecentoventi chilometri al nord dell'Yang-tse-Kiang, l'altro gigantesco fiume della Cina. È un corso d'acqua rapidissimo, molto largo, irto di bassi fondi che ne rendono la navigazione difficile e sommamente pericolosa per le sue piene. Disastri enormi ha prodotto in tutti i tempi, subissando molte città ed ingoiando migliaia e migliaia di abitanti, nonostante le gigantesche dighe costruite dai primi imperatori cinesi e continuate fino ai nostri giorni. Nel momento in cui lo "Sparviero" giungeva, numerosi pescatori si trovavano disseminati attorno agli isolotti, montati su sha-ting, specie di barche piatte, e alcune giunche dalle forme tozze, colle immense vele formate da giunchi intrecciati, solcavano il fiume. Vedendo apparire quel mostro volante, che procedeva con velocità fulminea e con un rombo sonoro, uno spavento indicibile si era sparso fra i cinesi. Le giunche si affrettavano a dirigersi verso le rive, mentre i pescatori, pazzi di terrore, balzavano in acqua, abbandonando le loro barche alla corrente. - Un drago! Un drago! - urlavano tutti. Gli abitanti delle sponde, udendo quei clamori, si precipitavano fuori delle capanne, ma, appena scorto il mostro volante, s'affrettavano a rientrare, gridando e facendo gesti disperati. Rokoff e Fedoro si divertivano immensamente del terrore dei cinesi e anche il capitano pareva che si compiacesse dell'effetto che produceva la sua macchina volante, la quale seguiva le capricciose curve del fiume, tenendosi a un'altezza di soli cento metri. A un tratto però le loro risa si tramutarono improvvisamente in un'esclamazione di sorpresa e anche d'angoscia. Lo "Sparviero" aveva superato una curva, quando d'un tratto un colpo di cannone rimbombò sulla riva destra, in mezzo ad un folto gruppo di pini seguito subito dal ben noto ronfo metallico d'un grosso proiettile. Un fortino, nascosto fino allora dalle piante, si era improvvisamente delineato all'estremità d'un piccolo promontorio dominante il corso del fiume ed alcuni artiglieri, che occupavano una bastionata, avevano fatto fuoco contro il mostro, scaricando un grosso pezzo d'artiglieria. La palla, di grosso calibro di certo, era passata pochi metri sopra il fuso, perdendosi poi fra le boscaglie della riva opposta. Un po' più abbasso e forse la macchina sarebbe stata fracassata. - In alto! In alto! - aveva gridato il capitano, slanciandosi verso il macchinista. Rokoff e Fedoro avevano staccato rapidamente due fucili che si trovavano sospesi alla balaustrata armandoli precipitosamente. In quell'istante un secondo sparo rimbombava all'estremità del bastione, dietro un terrapieno. Altri soldati, dei manciù, avevano smascherato un secondo pezzo e credendo in buona fede d'aver a che fare con qualche mostro, avevano fatto fuoco. Un momento dopo l'ala di babordo, troncata a metà, quasi nel centro dell'armatura, si ripiegava bruscamente, spostando il fuso. Il capitano aveva mandato un grido di furore. - Canaglie! Ci rovinano! Rokoff e Fedoro avevano risposto con due colpi di fucile, abbattendo uno degli artiglieri. Gli altri, vedendo cadere il loro compagno, si erano precipitati all'impazzata verso una casamatta, abbandonando il pezzo. Fortunatamente, anche i manciù che si trovavano all'opposta estremità del bastione, ne avevano seguito l'esempio, rifugiandosi entro il fortino. - Signore! - gridò Rokoff. - Cadiamo? - No, - rispose il capitano, che aveva ricuperato prontamente il suo sangue freddo. - I piani inclinati ci sostengono e pel momento non v'è alcun pericolo. È un'avaria che ripareremo. Il fuso infatti si manteneva all'altezza primitiva, però aveva rallentato la sua corsa e si era inclinato verso l'ala ferita. Le eliche orizzontali e quella di rimorchio funzionavano con velocità vertiginosa sostenendo l'apparecchio, ma le ali non agivano più, per non guastare interamente quella che era stata colpita dal proiettile. - Resisteremo? - chiese Rokoff che s'aspettava di vedere, da un momento all'altro, lo "Sparviero" precipitare nelle acque profonde e vorticose del fiume. - Sì, - rispose il capitano che cercava di dare alle eliche la maggior rapidità possibile. - Non approdiamo? - chiese Fedoro. - La riva destra è vicina. - Non ho alcun desiderio di farmi assassinare dai manciù! Se ci vedessero scendere qui verrebbero a scovarci. Bisogna che ci allontaniamo fino a trovare qualche isola o qualche sponda deserta. - E se cadiamo prima di giungervi? - chiese Rokoff, che non si sentiva affatto tranquillo. - Il vento che soffia dietro di noi ci porta e agisce a meraviglia sui piani inclinati. Guardate: non discendiamo nemmeno d'un centimetro. - Maledetti cinesi! ... - Ci hanno scambiato per demoni. - E l'ala? - L'accomoderemo - rispose il capitano. - Non si tratta che di fare una solida saldatura e una rilegatura all'asta, e io, in previsione di possibili accidenti, ho portato con me tutto il necessario per le riparazioni. Il mio macchinista s'incaricherà di guarire la nostra povera ala. Si vede ancora il fortino? - No, signore, è nascosto da una curva del fiume - rispose Fedoro. - E io scorgo dinanzi a due o tre miglia di distanza, un'isola che fa per noi. Sono deserte le rive? - Non vedo che boschi di pini e canneti. - Speriamo di calare inosservati. Lo "Sparviero", sempre sorretto dai suoi piani inclinati e rimorchiato dall'elica prodiera, s'avanzava lentamente sull'Hoang-ho, spinto anche dal vento che era, fortunatamente, favorevolissimo. Era però sempre un po' sbandato dal lato dell'ala spezzata, tuttavia pareva evitato il pericolo d'un capitombolo improvviso. L'isola ingrandiva a vista d'occhio. Era un bel pezzo di terra, di forma allungata, situato proprio in mezzo al fiume, in un punto dove questo aveva una larghezza di oltre due chilometri. Folti canneti circondavano l'isolotto e sulle rive crescevano numerose piante, per la maggior parte pini, querce e giuggioli. Numerosi uccelli acquatici, gru, oche, schiavi d'acqua, alcedi e marangoni svolazzavano in mezzo ai canneti, formando, colle loro grida rauche, un baccano assordante. - Bell'isolotto, - disse Rokoff che lo guardava attentamente. - E non vi è alcun abitante - disse Fedoro. - Ne prenderemo possesso senza contrasti e spiegheremo la bandiera dello "Sparviero", se ne ha una. - L'ha, ma non si espone, almeno per ora - disse il capitano che lo aveva udito. - Ehi, macchinista, rallenta e lasciamoci cadere dolcemente. I piani inclinati basteranno. L'isola, che aveva un circuito d'oltre un miglio, si prestava magnificamente alla discesa dello "Sparviero" poiché, mentre le rive erano coperte di folti alberi, l'interno invece era solamente ingombro di sterpi e di piccoli cespugli. Arrestato il movimento turbinoso delle tre eliche, l'aerotreno che aveva già raggiunto la punta estrema dell'isolotto, cominciò ad abbassarsi lentamente, sorretto dai piani inclinati, i quali agivano come due immensi aquiloni. Passò sopra i primi alberi sfiorandone le cime, poi calò dolcemente proprio in mezzo a quel brano di terra, coricandosi fra i cespugli. Le due ali, con un mezzo giro dell'albero motore, si erano distese orizzontalmente, in modo da rimanere perfettamente nascoste a qualunque navigante che scendesse o salisse il fiume. - Che cosa ne dite di questa discesa? - chiese il capitano con voce assai lieta. - Che non poteva riuscire migliore - rispose Rokoff. - Potete andare superbo della vostra macchina, signore. Eppure io avrei giurato che saremmo precipitati in mezzo al fiume. - Sì, se il mio "Sparviero" non fosse stato munito dei suoi piani inclinati - disse il capitano. - Andiamo a vedere l'avaria prodotta da quella maledetta palla. Sbarcarono balzando fra gli sterpi, sotto i quali si udivano pigolare numerosi uccelli e si vedevano fuggire bande di piccoli rosicchianti, ed esaminarono l'ala. Il proiettile aveva spezzato nettamente l'asta principale, a circa metà altezza, asportandone un pezzo lungo trenta centimetri e forando la seta, sicché le nervature superiori, non più sorrette, si erano ripiegate. Era una mutilazione grave, ma non irreparabile. - Quanto tempo ti è necessario? - chiese il capitano al macchinista. - Non meno di dodici ore - disse l'interrogato. - Rispondi della saldatura? - Sarete soddisfatto. Abbiamo una buona scorta d'aste d'alluminio e la fucina. - Ti possiamo essere utili? - Farò tutto da me. - Portami dei fucili da caccia. Poi volgendosi verso Rokoff e Fedoro, disse: - Signori, facciamo una battuta fra i canneti della nostra possessione. Un po' di carne fresca spero che l'accoglierete bene. I fagiani dorati e argentati non devono mancare fra questi cespugli. - Una passeggiata la faccio volentieri - rispose Rokoff. - E poi mi preme di sapere se i manciù del fortino sono rimasti sui loro bastioni. - Temete che vengano a disturbarci? Non credo che ci abbiano veduti calare su questo isolotto. - Non abbiamo percorso molte miglia, capitano. - Una mezza dozzina. - Siamo ancora troppo vicini. - Li consiglierei a non venire qui - disse il capitano. - Abbiamo una mitragliera che tira stupendamente. Signori, in caccia!

A un tratto però a quell'oscurità successe una luce intensa, abbagliante, seguita da tuoni formidabili che sembravano scoppi di mine colossali o di polveriere. Linee di fuoco correvano a destra e a sinistra degli aeronauti atterriti, facendo scintillare il fuso, il quale pareva che fosse diventato incandescente. Erano folgori che passavano a pochi metri e che subito scomparivano in mezzo alle masse di vapore che il vento travolgeva burrascosamente. Un odore acuto, che pareva di zolfo, si espandeva all'intorno soffocando gli aeronauti. Tutto era in fuoco. Migliaia di scintille correvano sulle ali, sui piani inclinati, sulle eliche, sul ponte, sulle vesti stesse degli uomini. Perfino la barba di Rokoff era piena. - Capitano! - gridò il cosacco cercando di dominare, colla sua robusta voce, quei rombi e quegli scoppi. - Che cosa succede? - Siamo in mezzo alla meteora - rispose il comandante, con voce soffocata. D'improvviso quelle luci si spensero, i tuoni cessarono bruscamente, i ruggiti del vento si quietarono. Non si udiva altro che un continuo crepitio, come se della grandine minuta percuotesse i fianchi del fuso. Una calma profonda era successa a tutto quel tramestio. Lo "Sparviero" aveva cessato di roteare e s'abbassava lentamente verso il lago, sempre avvolto fra una fitta nebbia che impediva di vedere a due o tre passi di distanza. - Signore, cadiamo - disse Fedoro, slanciandosi verso il capitano. - Ho fermato le ali e le eliche - rispose questi. - Il lago sta sotto di noi. Non udite le onde muggire? - A suo tempo arresteremo la discesa. Cerchiamo per ora di uscire da queste nubi o verremo tutti fulminati. Non spaventatevi, signor Fedoro, e nemmeno voi, signor Rokoff. Credo che il momento più terribile sia passato. - Ma questa calma? - chiese Rokoff. - Scendiamo nel centro della tromba. Ecco il vento che riprende il suo movimento circolare; tentiamo di spezzare le sue spire. Macchinista! A tutta velocità! I ruggiti del vento ricominciavano e lo "Sparviero" tornava a roteare su se stesso. Le ali ben presto si rimisero a battere a colpi vigorosi, precipitati e il fuso, forando con uno slancio irresistibile la colonna d'aria, sfuggì alla stretta della formidabile tromba. Ma anche fuori da quella meteora, l'uragano imperversava con furia incredibile. Lo "Sparviero", dopo qualche istante, veniva trascinato verso settentrione, senza essere più capace di tenere testa alle raffiche. Correva all'impazzata, travolto, sbattuto in tutti i sensi, ora salendo e ora abbassandosi fino quasi a sfiorare i cavalloni del lago. Vibravano le ali, incurvavansi i piani, fremevano i fianchi del fuso. Certi momenti pareva che fosse lì lì per rovesciarsi e precipitare, fra le acque spumeggianti, gli aeronauti. Quanto durò quella corsa? Venti minuti o un'ora? Nessuno sarebbe stato capace di dirlo. Delle grida strapparono Rokoff dal suo sbalordimento. Guardò giù. Un promontorio si prolungava sul lago e su un'alta rupe scorse, alla luce dei lampi, un vasto edificio a tetti arcuati. Su una specie di terrazzo, degli esseri umani si dimenavano, alzando le braccia verso lo "Sparviero", che l'uragano trascinava in una corsa vertiginosa. - Signore! - gridò. - Una casa ... un convento ... una fortezza ... non so ... là ... guardate ... guar ... Non poté proseguire. Un lampo abbagliante aveva avvolto il fuso, mentre una linea di fuoco piombava in mezzo al ponte. Fece per aggrapparsi alla balaustrata, ma prima che l'avesse toccata si sentì scaraventare nel vuoto, mentre un rombo formidabile scuoteva l'atmosfera. Erano scoppiati i serbatoi dell'aria liquida o la macchina? Non poté saperlo. Udì vagamente un tonfo seguito da un grido, poi si sentì sprofondare e coprire da un'onda spumeggiante. Quando, ancora stordito da quell'improvviso capitombolo e ancora abbagliato da quella luce che per poco non gli aveva abbruciato gli occhi, tornò alla superficie, lo "Sparviero" era scomparso! - Per le steppe del Don! - esclamò. - È saltato in aria o l'uragano l'ha trascinato entro la nube nera? Un'onda che lo investì impetuosamente, riempiendogli la bocca d'acqua amara e salata, gli tolse, almeno pel momento, l'idea di occuparsi dei compagni. - Pensiamo a salvare la pelle, per ora - disse. - Poi vedremo di sapere che cosa è avvenuto dello "Sparviero". Dove sono caduto? Sarà lontana la riva? Avrò molto da lottare per uscire vivo da questo lago. Le onde si succedevano alle onde, ora spingendolo in alto, ora precipitandolo negli abissi mobili e ora coprendolo e sballonzolandolo in tutti i versi. Anche il lago era in tempesta e non era cosa facile sottrarsi ai suoi assalti. Rokoff era però un valente nuotatore. Si lasciò portare dalle onde e come poté si sbarazzò della sua lunga casacca, che gl'impediva di muoversi liberamente. Era rimontato a galla, quando sentì sotto mano qualche cosa che le onde trastullavano. Credendo che fosse qualche albero o qualche oggetto caduto dallo e Sparviero", allungò le braccia e strinse un corpo umano che pareva privo di vita. - Mille steppe! - gridò, rabbrividendo. - Qualcuno dello "Sparviero"? Con uno sforzo supremo sollevò il capo dell'annegato, cercando di ravvisarlo. Proprio in quel momento un lampo vivissimo illuminò le acque del lago. Un urlo di disperazione gli sfuggì. - Fedoro! È morto forse? Gran Dio! No ... non è possibile! Pur continuando a nuotare con suprema energia per non venire subissato dalle onde che lo incalzavano da tutte le parti, col braccio sinistro si strinse al petto l'amico, cercando di tenergli la testa fuori dell'acqua. Nel fare quell'atto gli parve che un tremito avesse scosso quel corpo che poco prima aveva creduto inerte. - No ... non è morto! - gridò. - Salviamolo! La cosa però era tutt'altro che facile, perché non sapeva dove si trovasse, quantunque si rammentasse vagamente di aver scorto, poco prima della caduta, un promontorio e una vasta costruzione. E poi le onde erano ben lungi dal calmarsi e aveva da sostenere l'amico. - Se non potrò salvarlo, almeno morremo insieme - pensò il bravo cosacco. - Ah! Se ci fosse qui anche il capitano ad aiutarmi? Ma chissà se sarà ancora vivo. Nuotava con furore, facendo sforzi prodigiosi per non venire travolto dai marosi, girando gli sguardi in tutte le direzioni per vedere se scopriva la riva. I muggiti delle onde e i fischi acuti del vento lo stordivano, eppure continuava a lottare coll'energia che infonde la disperazione. No, non voleva morire. Nuotava da dieci minuti, quando gli parve, fra le urla del vento e lo scrosciare delle acque, di udire delle grida umane. Alzò gli occhi e distinse confusamente su una rupe la medesima costruzione che aveva veduto poco prima di venire precipitato nel lago. - La costa è vicina - pensò. - Cerchiamo di raggiungerla e badiamo soprattutto di non venire sfracellati contro le rocce. Si lasciava portare dalle onde, nuotando solamente coi piedi, per tema che la violenza della risacca gli strappasse dalle braccia Fedoro. A un certo momento si trovò dinanzi una superficie spumeggiante, quasi calma. Non più marosi e non più controndate. Era entrato in qualche piccola baia difesa da uno o più promontori o da qualche linea di scogliere? Almeno lo suppose. Comunque fosse, colà l'acqua era tranquilla e se vi era una terra vicina, l'approdo non doveva essere né difficile, né pericoloso. - Ecco una fortuna insperata - disse Rokoff. - Se ... Non proseguì. Le sue gambe avevano toccato un fondo duro, probabilmente roccioso, irto di punte. Si rizzò e s'accorse d'aver l'acqua solamente fino al petto. - Siamo salvi! - esclamò. A cinquanta o sessanta passi si estendeva un breve tratto di costa, una specie di punta abbastanza bassa per potervi approdare senza fatica. Più oltre, invece, s'alzava una rupe gigantesca sulla quale Rokoff aveva scorto, alla luce dei lampi, quella massiccia costruzione che gli era sembrata un monastero o una fortezza. Le onde, in causa d'una ripiegatura della costa e d'una scogliera altissima, non potevano giungere fino al luogo dove trovavasi il cosacco. Si frangevano con mille muggiti contro quegli ostacoli che non potevano rovesciare, provocando, in quella specie di baia o di cala, solamente una certa ondulazione. Tenendo sempre alto Fedoro, il quale non dava ancor segno di tornare in sé, Rokoff attraversò velocemente l'ultimo tratto e raggiunse la spiaggia, arrestandosi sotto la gigantesca rupe che cadeva a piombo. - Se vi fosse qualche rifugio - mormorò, gettando un rapido sguardo verso la parete. L'oscurità era però così fitta da non poter vedere a dieci passi di distanza, essendo ormai calata la notte e il cielo sempre coperto da quell'immensa nuvola nera che il vento non era ancora riuscito a disgregare e lacerare. - Lo cercherò più tardi - pensò. - Ora occupiamoci di Fedoro. Depose l'amico su uno strato di sabbia fine e lo spogliò della casacca e del panciotto, mettendogli una mano sul petto. - Il cuore batte - disse con voce giuliva. - Quale fortuna averlo trovato subito! Se le onde mi spingevano pochi passi lontano, era finita per questo povero Fedoro. Gli aprì la bocca, prese la lingua e si mise a tirarla con movimenti lenti e eguali per riattivare il funzionamento dei polmoni. Coll'altra mano intanto gli alzava ora l'uno ora l'altro braccio. La pioggia cadeva a torrenti e il vento spazzava rabbiosamente la spiaggia, ma Rokoff non se ne preoccupava e continuava a operare quelle trazioni con delicatezza. A un tratto un profondo sospiro sfuggì dalle labbra del russo. - La respirazione è riattivata - disse Rokoff - tutto va bene. Lasciò la lingua e si mise a strofinargli vigorosamente il petto con un pezzo di lana strappata dalla fodera della giubba. Fedoro tornava rapidamente in sé, rigettando di quando in quando, sotto quelle pressioni, delle boccate d'acqua. Finalmente anche i suoi occhi si aprirono. - Dove ... sono ... io? - chiese con voce debole. - Rokoff ... capitano ... - Eccomi, sono presso di te - rispose il cosacco, coprendogli il petto. - Tu ... amico ... Rokoff ... che cos'è accaduto? - Una catastrofe, un accidente, non lo so nemmeno io. Siamo stati scaraventati entrambi nel lago, forse dalla folgore e ti ho trovato per puro caso, nel momento in cui stavi per andare a tenere compagnia ai pesci. - Ah! Sì ... mi ricordo ... quella luce ... quel rombo ... poi le onde ... E mi hai salvato? - Ti ho portato qui. - E il capitano? - Non ne so più nulla. - E lo "Sparviero"? - Scomparso, forse caduto nel lago, fracassato dalla folgore o dallo scoppio dei serbatoi d'aria liquida o della macchina. - No ... no! ... - esclamò Fedoro. - No, caduto. - Come lo sai tu? - chiese Rokoff sorpreso. - Quando le onde mi hanno portato a galla, io l'ho veduto ... sì ... me lo ricordo ... il vento lo trascinava verso il nord ... rapidamente ... - Non è scoppiato? - No, Rokoff. - Quanto mi sarebbe rincresciuto che quel meraviglioso treno-aereo fosse stato annientato e che quel valoroso capitano fosse stato ucciso. Sei certo d'averlo veduto fuggire, Fedoro? - Sì, Rokoff, il vento lo travolgeva. - E non bruciava? - No. - Allora non sono i suoi serbatoi che sono saltati? - È stata la folgore che è piombata sul ponte e che ci ha precipitati nel lago. - Ah! Respiro! ... - esclamò il cosacco. - Allora lo rivedremo tornare dopo cessato l'uragano. - Ma noi dove ci troviamo? - Presso un monastero o una fortezza. - Non facciamoci scoprire, Rokoff - disse Fedoro. - Rimaniamo nascosti fino al ritorno dello "Sparviero". Il capitano verrà a raccoglierci, ne sono certo. - Non lo dubito nemmeno io. Sarà però necessario cercarci un nascondiglio; il monastero sta sulla cima di questa rupe e domani potremmo venire scoperti. Rimani qui, vado a vedere se posso trovare qualche crepaccio o qualche caverna. Mi pare che questa parete sia tutta screpolata. - Tu sei senza casacca! - esclamò Fedoro. - Indossa la mia. - Ho dovuto abbandonarla alle onde per poterci salvare entrambi, tuttavia non preoccuparti di me. Ho la pelle dura io e il freddo non ha presa sulle mie carni. Non muoverti e aspetta il mio ritorno. Il cosacco s'allontanò seguendo la rupe che appariva tutta screpolata alla sua base. Essendo i lampi cessati, era costretto a procedere a tentoni e cercare il rifugio colle mani. La burrasca, lungi dal calmarsi, imperversava con rabbia estrema. Onde gigantesche correvano pel lago, frangendosi furiosamente contro le coste con boati e muggiti formidabili e dalle nevose vette dei monti scendevano raffiche gelate e d'una tale violenza, che talvolta il cosacco si sentiva mancare perfino il respiro. - Sarà impossibile allo "Sparviero" poter tornare finché dura quest'uragano - pensava Rokoff, senza cessare di perlustrare. - Il vento soffia sempre dal sud e chissà dove lo avrà trascinato. A un tratto si fermò, mandando una imprecazione. Fra le tenebre aveva scorto dei punti luminosi gialli, verdi, rossi e azzurri che s'avanzavano seguendo la parete. Parevano lanterne cinesi, o qualche cosa di simile. - Che i monaci ci abbiano veduto approdare e vengano a cercarci? - si chiese. - O che ci abbiano anche veduto a cadere nel lago? Mi ricordo d'aver notato degli uomini, un momento prima che la folgore avvolgesse lo "Sparviero". Gridavano e alzavano le braccia verso di noi. Cosa fare? Attenderli o fuggire? Fuggire? E dove, se questa parete è tagliata a picco? Stette un momento esitante, non sapendo a quale partito appigliarsi, poi decise di raggiungere Fedoro, onde avvertirlo del pericolo che li minacciava. - Lui conoscerà i tibetani meglio di me - disse. I punti luminosi o meglio le lanterne continuavano ad avanzarsi, seguendo ora la parete rocciosa e ora la spiaggia. Pareva che gli uomini che le portavano cercassero qualche cosa, perché ora si fermavano e abbassavano le lampade, ora si disperdevano e ora si raggruppavano di nuovo. - Fedoro - disse Rokoff, quando fu vicino all'amico. - Stiamo per venire scoperti e non sono riuscito a trovare alcun nascondiglio. - Ho notato anch'io quei punti luminosi - rispose il russo. - Che quegli uomini cerchino noi? - Non ho alcun dubbio. Siamo stati veduti cadere dallo "Sparviero" o approdare. - Chi saranno costoro? - Dei monaci, suppongo. Mi hai detto d'aver veduto un'enorme costruzione. - Sì, Fedoro, ma poteva essere anche una fortezza. - Non ne esistono su questo lago; qui non vi sono che monasteri. - Sono cattivi i preti di questo paese? - Non credo, però avrei preferito non essere scoperto. - Bah! Se sono monaci, non ci faranno paura - disse Rokoff, mostrando i suoi pugni. - Mi sento in forza per affrontarne cinquanta. - Non vi è alcun modo di fuggire? - Ricacciarci nel lago. - Non pensiamoci; la tempesta invece di scemare aumenta sempre e le onde cominciano a giungere anche qui. Vediamo quale accoglienza ci faranno questi buddisti; se si mostrano ostili daremo battaglia. - Le mie braccia sono pronte a grandinare pugni santissimi che faranno loro vedere le stelle e anche il sole. Fedoro si era alzato. I monaci non erano lontani che cinquanta o sessanta passi e continuavano ad esplorare la spiaggia. Erano una mezza dozzina, non vi era quindi da temere con un uomo della forza di Rokoff. - Andiamo ad incontrarli - disse Fedoro risolutamente. - Anche rimanendo qui ci troverebbero egualmente. - Ti seguo - disse il cosacco, rimboccandosi le maniche della camicia. Avevano percorso mezza distanza, quando videro le lanterne fermarsi, proiettando la luce innanzi. Delle esclamazioni che parevano di stupore, sfuggirono agli uomini che le portavano. - Ci hanno veduto - disse Fedoro. - Chi sono, dunque? - chiese Rokoff. - Monaci, che portano delle tonache di grosso feltro con un manto bianco? - Sì, e che dà loro l'aspetto di fantasmi, specialmente fra questa oscurità. Fedoro mosse incontro a loro alzando le mani e dicendo in cinese: - Pace! ... Pace! ... I sei monaci stettero un momento immobili, col più vivo stupore impresso sui loro volti giallognoli, poi deposero le lanterne e si inginocchiarono dinanzi ai due naufraghi coi segni del più profondo rispetto, pronunciando delle parole che né il russo, né il cosacco riuscivano a comprendere. - Eh! che cosa ne dici, Fedoro? - chiese Rokoff. - Che questi uomini ci adorano. - Che ci prendano per figli della luna o delle tempeste? - Per i figli del grande Buddha, amico mio. Devono averci veduto cadere dallo "Sparviero". - Per le steppe del Don! Sapremo approfittare della loro ignoranza per farci regalare almeno una buona cena e un comodo letto. Spero che non saranno poi così stupidi da credere che i figlioli di Buddha vivano d'aria. Alzatevi, reverendi, basta colle adorazioni: abbiamo fame ed anche freddo. E siccome i monaci non accennavano a levare la fronte che tenevano posata al suolo, ne prese uno e lo sollevò come fosse un pupattolo, mettendolo in piedi. Gli altri s'affrettarono a rialzarsi, cacciando fuori le lingue lunghe una buona spanna e dimenandole in tutti i sensi. - Abbiamo capito, ci salutate - disse Rokoff. - Ma basta; conduceteci con voi. I monaci si guardarono l'un l'altro cercando probabilmente di comprendere ciò che chiedeva il cosacco, poi uno di loro, che portava al collo un grosso monile formato di pietruzze traforate e molto trasparenti, fece alcuni segni, indicando replicatamente la cima della roccia. - Che c'invitino a salire lassù? - chiese Rokoff. - Mi sembra - rispose Fedoro. - Non puoi farti capire da costoro? - Non comprendono il cinese. Nel loro monastero ci sarà, spero, qualcuno che lo parlerà, essendo i tibetani tributari della Cina. Sì, Rokoff, c'invitano a seguirli. - Andiamo - rispose il cosacco. - Mi sento gelare il sangue e desidererei un buon fuoco. Tre monaci si misero dinanzi, illuminando la spiaggia colle loro lampade e levando i ciottoli che potevano far cadere i due aeronauti, gli altri seguivano. - Molto gentili - disse Rokoff. - Mi pare che questa avventura debba finire meglio di quello che credevo. Purché lo "Sparviero" torni presto! ... Non si sa mai quello che può accadere, anche ai figli di Buddha, in questo paese che gode poco buona fama. Seguirono la parete per tre o quattrocento passi, poi salirono una stretta gradinata e raggiunsero il piano superiore, su cui giganteggiava una enorme costruzione, con alti tetti arcuati e doppi e due torri di stile cinese. - Che siamo caduti presso il monastero di Dorkia? - disse Fedoro. - È uno dei più belli? - chiese Rokoff. - Non solo, ma anche il più celebre del Tengri-Nor, visitato ogni anno da migliaia e migliaia di pellegrini e perfino dal Dalai-Lama. - Saranno ricchissimi questi monaci? - Prodigiosamente, Rokoff. - Allora siamo certi di trovare una buona tavola.

E poi è anche pur là che sorge il Kalas degl'indiani, l'enorme piramide che ha la forma d'una pagoda rovinata, la dimora del Mahabeo o Gran Dio, il primo e il più fiero degli Olimpi; la montagna sacra che ha veduto risplendere per la prima la luce abbagliante della divinità e che secondo la leggenda ha quattro facce: una d'oro, la seconda d'argento, la terza di rubini e la quarta di lapislazzuli e dove fu costruito il primo tempio buddista due secoli innanzi l'era cristiana. Montagna divina, dai cui fianchi scendono i più sacri fiumi dell'India: il Gange, l'Indo, il Tsangbo e il Satlegi e dalle cui caverne sono usciti i quattro animali più famosi e più venerati: l'elefante, la vacca, il leone e il cavallo, simbolo dei quattro corsi d'acqua reputati sacri. Il cosacco, il russo e anche il capitano, nel vedere stendersi dinanzi a loro quella misteriosa regione e quegli altipiani che pareva non avessero più fine, avevano provato una viva commozione. - Non so se sia quest'aria fredda o lo squallore di questo deserto, mi sento scombussolato - aveva detto Rokoff. - Che sia la rarefazione dell'aria? - Può essere - aveva risposto il capitano. - Noi ci troviamo già a quattromila metri sul livello del mare e continuiamo ad innalzarci. Non sarei sorpreso, se procedendo, vi cogliessero delle nausee. - Che paese orribile! Non si vedono che montagne, neve e ghiacciai: burroni e gole e abissi che sembrano senza fondo. Buddha non doveva trovarsi troppo bene in questi luoghi e doveva rimpiangere sovente la dolce temperatura della sua verdeggiante Ceylon. - E gli abitanti, dove sono? Non vedo una capanna, né una tenda in alcun luogo. - Non ne vedremo tanto presto, signor Rokoff. Chi potrebbe vivere in questo orribile deserto? Solamente nel cuore dell'estate, delle bande di briganti si radunano nelle gole in attesa del passaggio dei pellegrini mongoli che si recano a visitare i monasteri del lago Tengri-Nor per gettare in quelle acque, ritenute sacre, le ceneri dei loro più celebri capi. - Perché vadano più presto nel nirvana di Buddha? - chiese Fedoro. - Tale è la loro credenza - rispose il capitano. - Gl'indiani le gettano nel Gange ed i tibetani nel Tengri-Nor. - Sì, signor Fedoro. Qui d'altronde la religione di Brahma e di Budda si fondono, perché anche gl'indiani intraprendono dei lunghi pellegrinaggi nel Tibet essendovi qui il loro monte sacro, il Merù dei loro antichi, che riguardano come il pistillo del simbolico fiore del loto che per loro rappresenta il mondo. - Ma cos'è quel cono immenso che si rizza laggiù tutto bianco e coi fianchi coperti di ghiacciai? - chiese Rokoff, additando un'immensa piramide che spiccava vivamente sul purissimo orizzonte. - Il Kremli, un masso di seimila metri d'altezza che serve per le sepolture celesti - rispose il capitano. - Portano lassù i morti? - No, le sole ossa dei più famosi capi reputati degni della sepoltura celeste, invece di quella terrestre. Quelle ossa devono prima venire polverizzate, quindi convertite in pillole per darle da mangiare alle aquile. - Le quali devono portarle in cielo, secondo la credenza dei tibetani. - Sì, signor Rokoff. - E la sepoltura terrestre in che consiste allora? - chiese Fedoro. - È un po' diversa e meno onorifica, dovendo avere per feretro il ventre dei cani e dei lupi. Il morto, dopo essere stato lasciato sospeso per sette giorni ad un angolo della sua casa, rinchiuso in un sacco di pelle, si taglia a pezzi e si porta su una cima qualunque a pasto dei cani. - E se invece lo mangiano gli avvoltoi? - chiese Rokoff, ridendo. - Tanto meglio perché, a dispetto dei Lama, andrà più presto in paradiso. - Che strane cose - disse Fedoro. - Sono cose da pazzi - soggiunse Rokoff. - Capitano, andremo a visitare anche la capitale del Tibet. - Vi passeremo sopra senza fermarci. I Tibetani non amano gli stranieri e, se ci prendessero, sarebbero capaci di farci fare una brutta fine, in fondo a qualche sotterraneo pieno di scorpioni. Lo "Sparviero" si librava su quegli sterminati e spaventevoli altipiani ... - Che cosa dite? - chiese Fedoro. - È così che fanno morire i loro prigionieri, quando non preferiscono invece squartarli e darli da mangiare ai selvaggi di U. - Speriamo di non lasciarci prendere. - Non ci abbasseremo che nei luoghi assolutamente deserti. Qui non corriamo alcun pericolo, essendo questi altipiani spopolati, ma al sud, nella regione dei laghi, nelle profonde valli dello Tschans-tschu, dovremo usare molta prudenza. I Lama non scherzano e non tollerano gli europei nel loro paese. Ecco il grande altipiano. - E il freddo che aumenta - disse Fedoro. - E crescerà sempre più - aggiunse il capitano. - Indossiamo i nostri vestiti d'inverno e riscaldiamo il fuso. L'aria liquida è buona nei paesi caldi, non qui. Lo "Sparviero" che s'innalzava sempre, aveva raggiunto una altezza di cinquemila metri sul livello del mare, per poter raggiungere il margine dell'immenso altipiano e non bastava ancora perché più al sud si vedevano delinearsi catene di montagne ben più alte, che formavano una barriera gigantesca. Il panorama che s'offriva agli sguardi degli aeronauti era d'una bellezza selvaggia e insieme spaventevole. Pareva che da un momento all'altro fossero piombati sulle sterminate pianure della Groenlandia o fra le orribili montagne dell'Islanda. Era un caos di pianure che s'alzavano in forma di gradinate mostruose, intersecate da abissi, da spaccature, da gole o da piramidi colossali che pareva dovessero toccare il cielo. Tutto era bianco per la neve caduta, d'un candore immacolato, che feriva crudelmente gli occhi i quali non potevano sopportare tutto quello splendore. Qua e là dei ghiacciai giganteschi, scintillavano come diamanti di dimensioni esagerate, rovesciando lentamente i loro fiumi di ghiaccio nei profondi burroni dove si scioglievano a poco a poco, alimentando torrenti che più tardi dovevano tramutarsi in corsi d'acqua d'una mole e d'una lunghezza infinita e riversarsi verso l'India, verso la Mongolia, verso il Turkestan e nelle fertili vallate dell'impero cinese. Un vento freddissimo, che faceva vibrare le ali dello "Sparviero" e che fischiava e ruggiva fra i piani inclinati, soffiava tratto tratto, imprimendo all'aerotreno delle brusche scosse. Era così secco che le carni degli aeronauti si raggrinzivano e che le labbra si screpolavano. Quando le raffiche diventavano più impetuose, sollevavano gli strati nevosi, scombussolandoli, alzandoli ed abbattendoli, facendoli turbinare in mille guise e formando talvolta delle vere trombe di neve che raggiungevano anche lo "Sparviero", facendolo roteare su se stesso, nonostante le battute precipitose delle ali. Poi d'un tratto i fischi ed i muggiti cessavano, le nevi ricadevano, il silenzio tornava sull'immenso altipiano, un silenzio pauroso che produceva una profonda impressione sugli animi degli aeronauti, come se fosse foriero di qualche improvvisa catastrofe. D'un tratto sordi fragori si propagavano nelle vallate e negli abissi, fragori che aumentavano rapidamente d'intensità. Erano valanghe che si staccavano dalle cime dei picchi, che rotolavano di scaglione in scaglione per poi inabissarsi, con orrendo frastuono, nelle profonde spaccature che s'aprivano in tutte le direzioni. - Che paese orribile! - esclamò Rokoff, il quale, dopo essersi ben coperto con pellicce dategli dal capitano, aveva ripreso il suo posto a prora del fuso. - Non credevo che ne esistesse uno simile. E quanto durerà? - Non meno di tre giorni - rispose il capitano. - Ho impresso al mio "Sparviero" la maggior rapidità possibile, ma la distanza da attraversare è enorme e poi questo vento ci ostacola la corsa. - Non finirà per produrre qualche guasto alle nostre ali? - Si riaccomoderanno - rispose il capitano. - Che brutto momento se la vostra macchina si dovesse immobilizzare in mezzo a questi altipiani. - È d'una robustezza eccezionale e non si guasterà, signor Rokoff. Noi compiremo felicemente la traversata del Tibet e caleremo nell'India. - Nell'India? - esclamarono a una voce Rokoff e Fedoro. - Non andremo più verso l'oriente? - No, signori - rispose il capitano, mentre la sua fronte si abbuiava. - In seguito a circostanze impreviste, sono costretto a mancare alla mia promessa. La nostra rotta sarà il Bengala, dove voi potrete trovare subito qualche nave in partenza per l'Europa. In una ventina di giorni sarete a Odessa. - Avete comunicato con qualcuno durante il nostro viaggio? - chiese Fedoro. - No, non avendo amici nell'Asia centrale. La mia presenza è reclamata in altri paesi dove voi non potrete seguirmi, quantunque con molto rincrescimento da parte mia, avendo imparato ad apprezzarvi e stimarvi come due veri amici. - Questa vostra improvvisa risoluzione mi stupisce, capitano. - Non dipende da me, bensì da quell'uomo che voi avete trovato a bordo del mio "Sparviero" dopo la pesca delle famose trote del Caracorum. Egli non può seguirmi in Europa. - Per quale motivo? - Vi prego di non chiedermi alcuna spiegazione su ciò. Ah! Guardate come la catena dei Fschong-kum-kul scintilla! È meravigliosa! E dietro vi sta il lago, un bel bacino che fra poco vedremo. Macchinista, alziamoci ancora o andremo a infrangerci contro quei picchi. Come soleva far sempre, quando non desiderava dare spiegazioni, il capitano aveva bruscamente cambiato discorso, approfittando della comparsa di quelle montagne che parevano sorte improvvisamente sull'altipiano. Fedoro e Rokoff ritennero inopportuno insistere su quel discorso, rivolgendo tutta la loro attenzione sull'imponente panorama che si estendeva dinanzi ai loro sguardi stupiti. L'altipiano cambiava, alzandosi rapidamente in scaglioni sempre più giganteschi, i quali andavano ad addossarsi agli Fschong-kum-kul. Non vi erano più né spaccature, né burroni, né gole, ma il terreno appariva tormentato come se un formidabile terremoto lo avesse sconvolto. Si vedevano enormi rupi rovesciate e spezzate, ammassi sterminati di macigni, crateri di antichi vulcani coi margini franati, avvallamenti strani, poi bacini coperti di ghiacciai, veri mari di luce che abbagliavano gli occhi con tale intensità, da non poterli guardare più d'un minuto. Al sud, la catena ingigantiva rapidamente. Era un caos di piramidi e di guglie, bianche di neve, che si slanciavano arditamente verso il cielo come se volessero traforarlo, solcate qua e là da spaccature che dovevano avere delle dimensioni straordinarie. Lo "Sparviero" aveva incominciato a risalire, potentemente aiutato dalle eliche orizzontali, le quali funzionavano vertiginosamente intanto che le due immense ali battevano colpi precipitati. La respirazione cominciava a diventare penosa per tutti, anche pel capitano, che pur doveva essere abituato alle grandi altezze. Provavano dei capogiri, delle nausee, dei ronzii agli orecchi e un'estrema debolezza. Era il male delle montagne, prodotto dalla estrema rarefazione dell'aria, ben noto agli alpinisti e soprattutto agli abitanti della catena delle Ande, che lo chiamano il puna. - Capitano - disse Rokoff - che cosa succede? Mi sembra di essere ubriaco e che il mio stomaco provi il mal di mare. - E a me pare di soffocare - disse Fedoro - sento il cuore e le tempie battere precipitosamente, mentre invece la testa mi sembra che venga stretta da un cerchio di ferro. - Siamo a settemilacinquecento metri, signori miei - rispose il capitano dopo aver osservato i barometri sospesi alla balaustrata. - A simili altezze l'aria è quasi irrespirabile, però le vostre nausee cesseranno subito appena avremo varcato quella catena di monti e torneremo ad abbassarci. - Soffrono anche gli animali portati a simile elevazione? - Più degli uomini, signor Rokoff, e infatti su questi altipiani non vedete né cammelli, né montoni e nemmeno jacks. Si gonfiano, perdono le forze, la loro respirazione diventa affannosa e bruciante e sovente cadono al suolo fulminati. - Ci innalzeremo ancora? - No, non sarebbe prudente; l'asfissia potrebbe manifestarsi, o per lo meno avvenire delle emorragie al naso e agli orecchi, che è meglio evitare. - Avete mai superato queste altezze? - chiese Fedoro. - Ho potuto raggiungere i diecimila metri, facendo uso di serbatoi d'ossigeno, eppure non ritenterei la prova. Volevo provare ad attraversare tutto lo strato d'aria che circonda il nostro globo. - Per giungere alla luna? - chiese Rokoff, ridendo. - No, per vedere il sole violetto. - Violetto! ... Che dite mai, signore? - E che, anche voi credete che il sole sia giallo come noi lo vediamo ora? - Io non l'ho mai veduto cambiare colore, capitano. - Nemmeno io, eppure non è giallo e se non esistesse intorno al nostro globo la massa d'aria, tutto il mondo diventerebbe, almeno di giorno, violetto. - Questa è grossa! - Può sembrarvi tale; eppure, dopo gli ultimi studi e le ultime e più diligenti osservazioni fatte dagli scienziati europei ed americani, non vi è più da dubitare, signor Rokoff, per quanto la cosa possa parervi inverosimile. Se si squarciasse la nostra atmosfera, che è un velo ingannevole che fa ostacolo alla vista vera, si vedrebbero delle cose spettacolose che prima non si supponevano esistere. Togliete l'aria e con vostro grande stupore vi apparirebbe il cielo, anche in pieno meriggio, non più azzurro come lo vedete ora, bensì nero come il fondo d'una botte di catrame e al sommo di quell'abisso tenebroso vedreste fiammeggiare un. grande astro del più bel violetto e che altro non è se non il nostro sole. - Il cielo nero? - Sì, signor Rokoff. - E perché ci appare invece azzurro? - In causa delle rifrazioni della nostra atmosfera, la quale è satura ormai di luce, di vapori, di miriadi di germi erranti e di polveri impalpabili. Langley, il segretario dell'Istituto Smithsoniano degli Stati Uniti, e Su, il famoso astronomo dell'osservatorio di Washington, l'hanno ormai luminosamente provato. - E come mai i raggi del sole ci appaiono gialli? - Perché oltre alle fiamme violette, ne ha pure di gialle e siccome queste sono le più lunghe e hanno una maggiore estensione ci giungono prima. Quando le violette arrivano, le prime hanno già saturata la nostra atmosfera. - Sicché anche gli altri astri, che a noi sembrano d'oro più o meno giallo o rossiccio, avranno invece tinte diverse. - Sì, signor Rokoff. La stella Scorpione, per esempio, è d'un rosso fiammeggiante, mentre la sua vicina, che le tiene compagnia, è un piccolo sole verde pallido! Sirio invece è d'un viola oscuro; la Beta della costellazione del Cigno è pure violetta, mentre la sua compagna è giallo-pallido. - Deve essere però enorme il nostro sole per sprigionare tanto calore. - Un milione e duecentocinquantamila volte più grosso della terra, signor Rokoff. - Che meschina figura farebbe il nostro globo. - E altrettanto meschina la farebbe il sole messo a fianco di Acturus, il re dei soli, che espande pel cielo cinquemila volte più luce e calore dell'astro che ci illumina - disse il capitano. - Eppure anche il nostro sole deve produrre del calore in quantità enorme - disse Fedoro. - Tanto che nel solo spazio d'un secondo potrebbe, se accumulato, portare al grado di ebollizione cinquecento milioni di chilometri cubi di ghiaccio. - Misericordia! - esclamò Rokoff. - Mi pare di sentirmi cucinare malgrado quest'aria gelata che mi fa scoppiare la pelle del viso. - Ma allora il nostro globo non deve ricevere che una piccola parte del calore che irradia il sole - disse Fedoro. - Una quantità infinitesimale - rispose il capitano. - Diversamente, la nostra terra da migliaia d'anni sarebbe stata abbruciata e ora non sarebbe più che un semplice carbone. - Capitano, non vi è pericolo che il sole possa aumentare la massa di calore che ci manda? - Se si deve credere agli scienziati, il calore del sole non ha ancora raggiunto il suo massimo sviluppo, anzi continuerebbe ad aumentare per sette od ottocentomila anni, poi dovrebbe succedere un periodo di ristagno e quindi di decadenza, perché l'astro finirà col consumarsi. - E che cosa avverrà, quando comincerà a raffreddarsi, per la nostra umanità? - chiese Rokoff. - Se non l'avrà abbruciata prima di giungere a quel periodo, tristi giorni dovranno passare gli abitanti del nostro globo. La terra, non più riscaldata, diverrà infeconda, anche in causa del continuo ritirarsi dei fuochi centrali; le sue estremità si copriranno di ghiaccio e i poli invaderanno a poco a poco l'America e l'Australia. I popoli saranno costretti a radunarsi sotto l'equatore, finché suonerà anche per quelle regioni l'ora fatale. - Capitano, ora mi fate rabbrividire pel freddo - disse Rokoff. - Mi pare di trovarmi rinchiuso in un monte di ghiaccio. Mi sento venire la pelle d'oca pensando a quei giorni. - Serbate i vostri brividi per altre occasioni - disse il capitano ridendo. - Fra dieci, o venti, o centomila secoli non vi saremo più, state sicuro. Lasciate quindi che tremino i nostri tardi pronipoti. Signori, passiamo la catena! Badate alle nausee!

. - Noi vi avevamo veduti ieri sera lottare contro la tempesta avvolti fra una luce intensa, abbagliante. Buddha illuminava il vostro grande uccello per guidarlo anche fra le tenebre. - È vero - disse Fedoro - ma il genio del male pareva che in quel momento fosse più forte di noi e chi sa dove ci avrebbe spinti se noi non ci fossimo lasciati cadere fra le onde del lago. - Voi non eravate soli. - No, avevamo altri due compagni. - Dove si sono recati costoro? - A visitare i monasteri del settentrione. - Andrete poi anche a Lhassa? - Dobbiamo visitare il Dalai-Lama - rispose Fedoro. - Siamo incaricati d'una missione per lui. - Da parte del grande Buddha? - Sì. - Si lagna dei suoi fedeli? - È anzi soddisfattissimo, ma desidererebbe che i pellegrinaggi diventassero più numerosi e più frequenti. - La colpa non è nostra, bensì dei briganti che infestano i passaggi degli altipiani. - Buddha li sterminerà certamente - disse Fedoro. - È già stanco delle innumerevoli scelleratezze che compiono quei miserabili e abbiamo anzi già ricevuto l'ordine di farli divorare, dove li incontreremo, dal nostro terribile uccello. - Deve essere terribile quel mostro - disse il Lama, mentre un brivido di terrore lo faceva sussultare. - Divora cento uomini cattivi al giorno e con pochi colpi delle sue ali abbatte dei villaggi interi. Quattro giorni or sono ha distrutto un covo di banditi, bruciandolo completamente. - Ha il fuoco nel ventre? - chiese il Lama stupito. - Vomita fiamme che nessuno può spegnere. - Quanta potenza vi ha dato Buddha! Dove risiede ora il nostro Dio? - Sta pregando sulla vetta del Tant-la. - E quando tornerà a mostrarsi ai suoi fedeli? - Deve compiere ancora molte incarnazioni, prima di tornare uomo - rispose Fedoro sempre imperturbabile. - Forse fra mille anni si degnerà di mostrarsi sulle acque del Tengri-Nor, montando un uccello simile al nostro, ma cento volte più grande. Tremino allora i cattivi, gli empi. Tutti verranno distrutti dal fuoco del suo mostro e dannati per tutta l'eternità a cucinare nel lago di Boracee sotto forma di scorpioni. - Basta, Fedoro - disse Rokoff, il quale non comprendeva nulla. - Domanda se ha una cena da offrirci e del fuoco per asciugarci. Questo monastero è freddo come una ghiacciaia. - Stiamo discutendo su Buddha. - Me ne infischio io del loro Dio color della terracotta. - Un po' di pazienza. Il Lama li lasciò parlare, poi riprese: - Non parla il cinese, il vostro compagno? - No - rispose Fedoro. - Egli non conosce che la lingua che si parla sulle montagne della luna, dove si trovano i Lama della Mongolia, che si sono guadagnati il nirvana. - Desidera qualche cosa? - Si lagna d'aver fame e freddo e di essere ancora bagnato. - Potevate dirlo prima. Tutto ciò che si trova nel mio monastero è a disposizione dei figli prediletti del grande Buddha. S'accostò a un piccolo tam-tam e fece vibrare due volte il disco metallico. Il monaco che aveva la collana entrò, inchinandosi fino a terra. Il Lama scambiò con lui alcune parole, poi si volse verso i due europei, dicendo: - Seguitelo e avrete cena, fuoco e da dormire. Io intanto approfitterò del vostro riposo per avvertire del vostro arrivo il Bogdo Lama del monastero di Dorkia. - Pare che non sia questo quello di Dorkia - pensò Fedoro. - Purché non ci invitino a recarci colà! Mi spiacerebbe che il capitano non ci trovasse più qui. S'inchinarono dinanzi alla statua di Buddha e seguirono il monaco che aveva staccato dalla volta una lanterna. Al di fuori li attendevano gli altri cinque monaci, pure muniti di lampade. Rifecero parte del corridoio, poi salirono una scala a chiocciola che doveva condurre ai piani superiori ed entrarono in un'altra stanza, più vasta di quella di prima, egualmente tappezzata e illuminata e fornita d'un caminetto dove ardeva un allegro fuoco. Nel mezzo vi era una tavola, molto bassa, e all'intorno dei comodi divani. I sei monaci, con cenni, invitarono i due europei a sedersi, poi uscirono per rientrare poco dopo portando dei vasi e dei tondi d'argento, finemente cesellati, e dei bricchi col collo assai lungo e molto artistici. - Che ci sia da mangiare, lì dentro? - chiese Rokoff. - Certo - rispose Fedoro. - Se questi monaci ci lasciassero ora soli! Non mi piace che vedano come mangiano i figli della luna o del cielo. - Li pregherò di andarsene, quantunque non capiscano una parola di cinese. - Mandali via con una spinta; capiranno meglio. - Oh! Rokoff! Dei figli di Buddha che maltrattano i loro adoratori! ... I monaci continuavano a portare vasi, tondi, recipienti, chicchere, bricchi, coprendo tutta la tavola. Fedoro li lasciò fare, poi con una mimica molto espressiva, indicò loro la porta. Fu subito compreso perché i monaci, dopo un altro e più profondo inchino, se ne andarono non senza manifestare però un certo stupore che non sfuggì al russo. - Probabilmente avevano ricevuto l'ordine di servirci - disse a Rokoff, il quale, per non venire più disturbato, aveva spinto un divano contro la porta. - Ne faremo senza - rispose il cosacco. - Quelle facce smorte m'avrebbero fatto perdere l'appetito. Sai che son ben brutti questi tibetani, specialmente quando caccian fuori le loro lingue d'appiccati? Ora che siamo soli, asciughiamoci un po'. Credo di avere dei pezzi di ghiaccio dentro la camicia. Stava per spogliarsi, quando Fedoro gli mostrò parecchie tonache di feltro pesantissimo, che parevano affatto nuove e che si scaldavano presso il caminetto. - Devono averle portate per noi - disse. - Getta via le tue vesti e indossa queste. Ti troverai meglio. - E tu? - Io faccio altrettanto. To'! Vi sono anche delle camicie di seta e delle calze. Questi bravi monaci hanno pensato a tutto. Vedo anche delle scarpe somiglianti a quelle dei cinesi. - Allora lascia i tuoi stivali, che spandono acqua da tutte le parti. - È il ghiaccio che si fonde. Ma ... per le steppe del Don! Che figura faremo noi vestiti da monaci! - Superba, Rokoff - disse Fedoro, ridendo. - Tu poi, colla tua statura e colla tua lunga barba rossa, diverrai maestoso. D'altronde, dei figli di Buddha vestiti all'europea non devono ispirare fiducia agli abitanti di questa regione. - Ah! Siamo figli di Buddha! - Non so ancora quale posizione veramente noi occupiamo, ma altissima di certo, al rispetto che ci dimostrano questi monaci. - Diventiamo allora buddisti - disse Rokoff. - Dopo tutto, una religione vale l'altra. Si riscaldò alla fiamma del caminetto, indossò una superba camicia di grossa seta cruda, infilò le calze e le scarpe e si cacciò dentro a una tonaca ben calda, mandando un lungo sospiro di soddisfazione. - Come ti sembro? - chiese a Fedoro, che faceva altrettanto. - Tu farai morire d'invidia tutti i Lama dei monasteri - disse il russo. - Che aspetto imponente! Sei un magnifico superiore, parola d'onore. - To'! un'idea! - Parla, Rokoff. - Se chiedessi un monastero? A un figlio, o segretario, o messo di Buddha non si dovrebbe negarlo. - Penseremo a questo dopo la cena. - Mille fulmini! Mi dimenticavo che ho il ventre vuoto. Speriamo di trovare in questi recipienti qualche pezzo di jack o un prosciutto d'orso. Ho udito narrare che i monaci mangiano bene. - Uhm! della carne! Non ne troverai, mio povero amico. - Eh! Forse che i Tibetani vivono d'erbe cotte? Rinuncio fin d'ora a diventare il superiore d'un convento. - Come vuoi che un buddista osi mangiare un animale? Mangeresti tu l'anima di tuo padre, o di tuo fratello, o di qualche caro amico? Qui la metempsicosi vive sovrana. - Non ti capisco, Fedoro - disse Rokoff. - Ignori dunque che i buddisti credono che l'anima d'un defunto s'incarni subito nel corpo d'un animale? Se ammazzi un bue, un cavallo, un orso, un cane, un gatto, magari un verme qualunque, potresti uccidere tuo padre incarnato in uno qualunque di quegli animali o insetti. - Sicché qui le bestie si lasciano vivere. - Finché muoiono di vecchiaia o per qualche accidente inatteso. Solo, allora, e non tutti i buddisti, osano ancora cibarsi di quelle carni. - Al diavolo i buddisti e le loro stupide superstizioni. Buon Dio, che cosa mangeremo noi? - Vediamo, Rokoff; sento sfuggire dei profumi che non mi sembrano sgradevoli. - Procediamo a una visita e facciamo la scelta. Alzarono i coperchi cacciando il naso dentro a quindici o venti recipienti d'argento e il cosacco dovette convincersi che non v'era nemmeno l'ombra d'una costoletta o tanto meno del sospirato pezzo d'arrosto. Vi erano invece delle salse di tutti i colori, dell'orzo bollito nel latte, dei pasticci pure d'orzo, delle erbe di varie specie, condite con certe poltiglie nere. In un grande piatto d'argento scoprirono però un magnifico pesce che nuotava in una certa materia trasparente e gommosa. - Che questo abitante delle acque non contenesse l'anima di nessun buddista? - chiese Rokoff. - Hanno fatto forse un'eccezione a noi - rispose Fedoro. - E noi mostreremo che i figli di Buddha non sdegnano i pesci. Che cosa sarà poi questa salsa? - Sarà impossibile saperlo. Assaggia, amico Rokoff. - Non è cattiva, almeno alla mia bocca. - Allora divoriamo, finché si scalda l'acqua del tè. Il pesce scompare ben presto, quantunque dovesse pesare almeno quattro chilogrammi, poi a poco a poco sparirono anche le focacce e l'orzo al latte e finalmente anche le salse. Otto o dieci chicchere di tè squisito, finirono quella cena che era meno cattiva di quanto dapprima i due europei avevano creduto. - Peccato non aver con me la mia pipa e la mia borsa di tabacco - disse Rokoff - Non si fa uso qui di tabacco - rispose Fedoro. - Avrebbero dovuto portarci almeno qualche bottiglia di vino. - Non si conosce qui il vino; fanno però molto uso d'acquavite d'orzo che bevono tiepida e non so davvero perché non ce l'abbiano portata. Bah! Quando verrà il capitano vuoteremo una bottiglia di più. - Chissà quando tornerà, Fedoro. Il vento deve averlo trascinato molto lontano; non poteva più resistere. - E che le ali non siano state spezzate, mio caro Rokoff. - Sarebbe stato meglio. In tal caso non sarebbe caduto molto lontano. Mi rincrescerebbe però assai che fosse toccata qualche disgrazia a quel valoroso aeronauta. - Io non ho alcun dubbio che abbia potuto raggiungere le spiagge settentrionali e prendere felicemente terra - rispose Fedoro. - Con una simile macchina e così perfetta, si può sfidare impunemente qualsiasi uragano. No, io sono completamente tranquillo e sono certo che appena cessato questo ventaccio furioso, lo vedremo ritornare a riprenderci. - Avrà osservato dove siamo caduti? - Come noi abbiamo veduto, il monastero non gli è sfuggito agli sguardi. Rokoff facciamo un buon sonno e aspettiamo domani. Questo tepore invita a chiudere gli occhi. - Seguo il tuo consiglio - rispose il cosacco. Si sdraiarono sui divani coprendosi con dei pesanti feltri e chiusero gli occhi, mentre gli ultimi tizzoni scoppiettavano nel caminetto. Il loro sonno fu cortissimo. Un colpo di tam-tam che fece rintronare la sala, li fece balzare in piedi. - Che sia già l'alba? - si chiese Rokoff, fregandosi gli occhi. - No, la fiamma non si è ancora spenta - disse Fedoro. - Che cosa vogliono da noi? Ci hanno chiamato, è vero? - Ci invitano ad aprire. - Che sia giunto il capitano? - Uhm! Non odi il vento ruggire al di fuori! - Allora li mando a quel paese. - No, non guastiamoci con questi monaci, Rokoff; non è prudente. Il cosacco allontanò il divano e aprì la porta. I sei monaci, ancora gli stessi che li avevano trovati sulla spiaggia, entrarono prosternandosi dinanzi ai due europei, poi fecero segno a loro di seguirli - Cominciano a diventare noiosi coi loro inchini - disse Rokoff. - Sarebbe stato meglio se ci avessero lasciato dormire fino a domani. Che cosa vogliono? - Non ne so più di te - rispose Fedoro. - Se ci pregano di seguirli, ci sarà qualche cosa di nuovo che ci riguarda. - Che ci conducano ancora da quella mummia vivente? - Lo vedremo, Rokoff. Seguirono i monaci che li attendevano nel corridoio e furono condotti nella sala dove vi era la statua di Buddha. Il vecchio Lama li aspettava pregando dinanzi al Dio. - Ci mancherebbe altro che ci facesse inginocchiare dinanzi a questo pezzo di terracotta - disse Rokoff, che era diventato di pessimo umore. - Che questi monaci invece di dormire passino le notti pregando? Il Lama, vedendoli entrare, si era alzato, poi, dopo un inchino, disse a Fedoro: - Preparatevi a partire. - A partire! - esclamò il russo, sorpreso. - E per dove? - Pel monastero di Dorkia. - A che cosa fare? - Il Bogdo-Lama di quel convento desidera vedervi. Fedoro aggrottò la fronte, fingendosi indignato. - Noi non siamo i servi del Lama di Dorkia - disse con voce acre. - Perché non viene lui qui? - Io non posso altro che obbedire - rispose il monaco. - È mio superiore, comanda a tutta la regione e se io volessi rifiutarmi, sarebbe capace di mandare qui i suoi guerrieri e farci tutti prigionieri. - Noi dobbiamo aspettare qui il nostro terribile uccello e anche i nostri compagni. - Se tornano, dirò loro che siete nel monastero di Dorkia - rispose il Lama. - Ce lo promettete? - Ve ne dò la mia parola. - Come andremo noi a quel convento? - Il Bogdo-Lama ha mandato dei cavalli e una numerosa scorta. - Chi l'ha avvertito che noi siamo scesi qui? - Su tutte le spiagge del lago si è sparsa la voce che dei figli del cielo percorrevano la regione montati su un'aquila di grandezza prodigiosa ed è giunta anche agli orecchi del Bogdo-Lama di Dorkia, il quale ha mandato messaggeri e scorte in tutti i conventi per condurre a lui i santi uomini, nel caso si fossero degnati di scendere sul Tengri-Nor. Non indugiate, la scorta vi attende. Fedoro tradusse a Rokoff l'esito di quel colloquio, non senza celargli le sue apprensioni. - Se ci rifiutassimo? - chiese il cosacco. - Il Lama di Dorkia, a quanto ho capito, è potentissimo e potrebbe ricorrere alla forza. Potremmo noi resistere a tutti i suoi guerrieri, che ascendono forse a delle migliaia? - Sicché non ci rimane che obbedire. - Purtroppo Rokoff. - Ah! Diavolo! Mi pare che quest'avventura s'imbrogli; non vedo chiaro in questa faccenda. Se al Lama di Dorkia saltasse il ticchio di tenerci prigionieri? - O fare di noi dei Buddha viventi? - disse Fedoro. - Prenderemo a pugni il Lama e i suoi monaci. - Dunque? - chiese il vecchio, con una certa ansietà. - Siamo pronti a seguire la scorta - rispose il russo. Avremmo però desiderato fermarci presso di voi alcuni giorni. - E io sarei stato orgoglioso di ospitarvi nel mio monastero - rispose il monaco, con un sospiro. - Avrei attirato, durante la buona stagione, migliaia e migliaia di pellegrini, colla vostra presenza. Accompagnò i due europei fino sulla porta del convento, sulla cui gradinata stavano schierati numerosi monaci, portando delle lanterne, poi baciò i lembi delle loro tonache, dicendo: - Spero di rivedervi presto: che il grande Buddha, vostro padre, vegli su di voi. - Vi promettiamo di tornare - rispose Fedoro. - Non dimenticatevi però di avvertire i nostri fratelli, se giungeranno, che siamo stati condotti a Dorkia. - Saranno miei ospiti. La scorta mandata dal possente Lama del celebre monastero si componeva di cinquanta uomini d'aspetto brigantesco, con ampie vesti di grosso feltro, armati di lunghi moschettoni a miccia e di larghe scimitarre e montati su piccoli cavalli colle groppe villose e le gambe secche come quelle dei cervi o degli stambecchi, animali senza dubbio impareggiabili, che non dovevano temere né gli aspri sentieri di quelle orribili montagne, né i freddi intensi degli altipiani. Due cavalli più robusti, col mantello bianco, con una lunga gualdrappa rossa che ricadeva fino a metà delle gambe e le criniere adorne di nastri, attendevano i due figli di Buddha. Il comandante della scorta, un montanaro d'aspetto imponente, con un barbone che gli saliva fino quasi agli occhi e che indossava il pittoresco costume dei Butani, si avanzò verso Fedoro e Rokoff, e dopo essersi inginocchiato tre volte dinanzi a loro, disse in cinese: - Ricevete fin d'ora i saluti del possente Bogdo-Lama di Dorkia, il quale sarà altamente onorato d'ospitarvi. Poi li condusse verso i cavalli, invitandoli a salire. I cavalieri intanto avevano acceso delle piccole lanterne cinesi appendendole alle canne dei loro moschettoni. - Decisamente noi stiamo per diventare personaggi celesti - disse Rokoff, accomodandosi sulla larga, ma anche molto dura sella del cavallo. La scorta si era messa in moto: dieci cavalcavano dinanzi ai due europei; gli altri dietro su due file. La notte era orribile, essendo l'uragano tutt'altro che cessato. Un vento impetuosissimo e così freddo da far tremare persino i cavalli, nonostante il loro villoso mantello, soffiava dalle montagne circostanti, cacciandosi entro le gole con ruggiti tremendi e in lontananza si udivano i boati delle valanghe, rotolanti dai ghiacciai. Il lago, che lambiva il sentiero percorso dalla scorta, presentava uno spettacolo terribile. Montagne d'acqua si rovesciavano contro le spiagge con fracasso spaventevole, rimbalzando e ricadendo, formando gorghi e colonne liquide e lanciando cortine di spuma fino addosso ai cavalieri. Sopra, l'immensa nuvola nera, in balìa dei venti che si incontravano in tutte le direzioni, roteava vertiginosamente, ora abbassandosi quasi fino a sfiorare le creste dei marosi e ora squarciandosi. I lampi però erano cessati. Solamente il tuono, di quando in quando, faceva udire la sua possente voce. - Bella notte, per farci fare un viaggio - disse Rokoff, che rialzava a ogni istante il bavero della sua tonaca. - Mi pare che questo vento mi strappi, pezzo a pezzo, tutta la carne del mio volto. - Non mi stupirei se ciò ti toccasse - rispose Fedoro. - Certe volte i venti acquistano una tale violenza, in queste regioni, e sono così secchi, da strappare perfino la carne delle braccia. Il capitano Gill, del corpo degli ingegneri reali inglesi, che ha visitato queste regioni, ha provato quei terribili morsi del vento tibetano. - Il Bogdo-Lama poteva ben attendere domani, invece di esporci di notte, a questo viaggio. Aveva paura che scappassimo? - Io sospetto invece qualche cosa d'altro. - Ossia? - Che temesse che il Lama che ci ha ospitati ci nascondesse, facendo poi spargere la voce che noi eravamo tornati in cielo. - Che questi signori monaci abbiano l'intenzione di tenerci prigionieri? - Lo temo, mio povero Rokoff. Saranno orgogliosi di possedere due figli di Buddha viventi. È ben vero che ne hanno degli altri, ma non discendono dal cielo, né sono mai stati veduti volare sul dorso d'un uccello. - E noi ci lasceremo sequestrare tranquillamente? - Pel momento ci conviene adattarci alle circostanze e fare buon viso alla cattiva fortuna. - Io mi ribellerò e farò un massacro di tutti i monaci di Dorkia - disse Rokoff. - Un figlio di Buddha che ammazza gli adoratori del padre! Tutto sarebbe finito e la nostra santità, che per ora ci protegge, sfumerebbe subito. Non scherziamo coi tibetani, Rokoff. Se avessero il più piccolo sospetto che noi siamo degli europei, chissà quanti orribili tormenti ci farebbero soffrire. No, manteniamoci tranquilli, fingiamo di essere veramente figli del cielo e aspettiamo il ritorno del capitano. - Che cosa potrà fare lui se i Lama ci tengono prigionieri? - Dispone di mezzi potenti colla sua aria liquida, lo hai già veduto. - E se fosse morto? Fedoro non osò rispondere. Il drappello intanto continuava a costeggiare il lago, galoppando rapidamente. La via era orribile, cosparsa di macigni, di crepacci, di pezzi di valanghe e saliva sempre fiancheggiando talora degli abissi spaventevoli, in fondo ai quali muggivano o scrosciavano le onde del Tengri-Nor. I cavalli però non si arrestavano un solo istante e superavano, con un'abilità e una sicurezza straordinaria, tutti quegli ostacoli. Non interrompevano la loro corsa nemmeno quando il sentiero diventava così stretto da permettere appena il passaggio a un solo cavaliere per volta. Eppure il vento, in certi passaggi, soffiava con tale furore, che Fedoro e Rokoff temevano di venire strappati dalla sella e scaraventati in fondo a quei paurosi baratri. Che magnifici cavalieri erano quei tibetani! Saldi sulle loro selle, pareva che formassero un solo corpo coi loro destrieri e non esitavano mai, anche quando dovevano scendere entro profondi avvallamenti o dovevano saltare dei crepacci che mettevano le vertigini. Quella corsa indiavolata fra abissi e burroni, fra i muggiti delle acque da un lato, i ruggiti del vento dall'altro, durò tre lunghe ore. Cominciavano a diradarsi le tenebre, quando il capo della scorta mandò un grido stridente. I cavalli s'arrestarono un momento, grondanti di sudore e di spuma, poi si cacciarono uno dietro l'altro su uno stretto ponte gettato sopra un profondo burrone. Giunti dall'altra parte, agli occhi di Fedoro e di Rokoff apparve un enorme edificio che s'innalzava maestosamente su una vasta piattaforma scendente verso il Tengri-Nor. - Dorkia - disse il capo della scorta, accostandosi ai due europei. - Il Bogdo- Lama vi attende.

Cerca

Modifica ricerca