Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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IL MAESTRO DI SETTICLAVIO

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Boito, Camillo 1 occorrenze

Era una trasformazione sfolgoreggiante di forme, di tinte, di luci, in cui di quando in quando si apriva uno squarcio di tenebre tanto fitte, che si credeva di avere la repentina visione del- l'infinito; e in mezzo a quella festa abbacinante ci si sentiva attratti a cercare con gli occhi in alto o in basso il mistero di coteste mac- chie nerissime. Intanto nelle fondamenta delle Zattere e della Giudecca il pas- seggio della enorme folla era impedito dalle baracche e dalle ten- de, ove, vociando a più non posso, vendevano ogni sorta di roba, specialmente vino, liquori, gelati, aranci, frittelle, galani inzucche- rati , e grandi mazzi di finocchio in seme. Il ponte di piatte scric- chiolava sotto i piedi dei passanti, che dovevano procedere lenti e fermarsi a ogni poco, tanta era la calca; scricchiolavano sull'acqua i battelli, le gondole, i sandoli, le barche d'ogni genere, che, non ostante alla maestria ed alle bestemmie dei rematori, si urtavano come se dovessero sconquassarsi. I ferri lucidi delle prore davano il cozzo nelle forcole , che in quella ressa non potevano più servire al loro uso; ed i remi o stavano inoperosi o giovavano a formare cuneo tra le bande delle barche vicine. In certi momenti si sarebbe potuto passare a piede asciutto dalle Zattere alla Giudecca su quel brulicame di piccoli navigli, che si muovevano tutti insieme, len- tamente, maestosamente, a seconda dell'acqua in riflusso; in certi altri momenti si poteva credere di trovarsi nella frenesia degli ab- bordaggi, degli arrembaggi d'un combattimento navale. I bar- caiuoli mostravano i pugni, si dimenavano furiosamente, minac- ciavano di saltare sopra le gondole per ammazzarsi: e tutto finiva in burletta quando il motto canzonatorio d'un compagno, gridato con accento buffo, faceva sbellicare dalle risa i popolani, i gondo- lieri e i contendenti medesimi. Nel tutt'insieme un baccano india- volato, un pandemonio allegro e indescrivibile. Ma ecco princi- piano in un battello i canti: già gli accordi si odono dai più vicini, già si comincia a chiedere silenzio, già si tace, si ascolta, ed i suo- ni si diffondono in uno spazio via via maggiore, disturbati soltanto da qualcuno che grida zitto e dai frastuoni lontani, fra i quali si distinguono le voci fesse dei rivenditori ambulanti. Il gran trionfo fu per il concerto dello Zen e specialmente per la marinaresca a tre parti: i battimani non finivano più, si voleva il bis si acclamavano i cantanti, si vociava: fuori il com- positore che, pallido e raggiante, dovette rizzarsi in punta di piedi sui dorso della poppa. Nene e Mirate, nella melodia patetica, la quale andava a successioni di seste, si stringevano forte le mani e si guardavano fissi negli occhi; lo Zen aveva mangiato la sua brava aringa salata. Esaurito il programma, Nene, verso le due, avrebbe desiderato di tornare a casa, tanto più che alla Maria mi- nacciava un po' di mal di stomaco per cagione del dondolìo della barca; ma una occhiata di Mirate ed un invito dello Zen, ch'era stato accettato con entusiasmo da tutta la comitiva, vinsero facil- mente la riluttanza della fanciulla. Lo Zen dalla vendita del pianoforte non suo aveva cavato, per mezzo dell'amico antiquario, intorno a trecento svanziche, di cui un centinaio, poco più, era rimasto nelle sue proprie tasche. Gli pesavano. Veramente, durante il giorno, gli era corsa nella fantasia la fisima di pagare un qualche acconto dei molti debiti; ma quei buoni giovanotti avevano cantato tanto bene, dovevano avere la gola tanto arida, che il non offrir loro un po' di cena sarebbe parsa una crudeltà. Andarono dunque tutti nel giardino Checchia alla Giudecca, me- no la Maria che, non sentendosi bene, pregò di essere lasciata in barca, dopo avere con le lagrime agli occhi sollecitato la padron- cina a sbrigarsi per timore che il povero nonno fosse sveglio e stesse in angustia. Il giardino vastissimo era tutto a pergolati bassi, che formavano una serie di piccoli viali coperti, ove, intorno alle frequenti tavole lunghe e strette, stava un mondo di gente a cenare. L'illuminazione consisteva nei soliti fanaletti e lampioncini penzolanti e in candele circondate da cartocci di vari colori, per proteggerle dal ventolino, che rinfrescava ed esilarava dopo la soffocante giornata. Il canto e gli applausi avevano aguzzato l'appetito persino della fanciulla nei capelli rossi della quale l'auretta scherzava; e si lasciava fare nel- l'orecchio da Mirate, seduto al suo fianco, le più audaci dichiara- zioni d'amore e sorrideva e sospirava e beveva il vino, che il teno- re le versava spesso dal boccale panciuto, su cui stavano dipinte certe rose non meno pavonazze delle chiazze della tovaglia. Dopo il salame ed i polli arrosto capitarono le frittelle: i giovani cantanti mangiavano e nello stesso tempo guardavano i due innamorati, ghignando sotto i baffi e parlando tra loro ad alta voce in gergo furbesco; i chitarristi tacevano, divoravano e mettevano in saccoc- cia; lo Zen aveva afferrato il maestrino, autore della marinaresca, il quale era giunto a Venezia da pochi giorni raccomandato al maestro dai suoi amici scrittori della strenna, e gli stava snoccio- lando le virtù del setticlavio. "Quale è la tonica nella chiave di Do". "Il Do. "Mi canti una terza maggiore". " Do Mi. "Una minore". " Re Fa. "E la tonica nella chiave di Re". " Re. "Niente affatto". "Come?" "È sempre il Do. "Non intendo". "Intenderà subito. Faccia il salto di terza". " Re Fa. "È una terza maggiore o minore?". "Maggiore". "Signor no". "Ella stesso mi diceva dianzi ch'è minore". "Minore nella chiave di Do e maggiore in quella di Re. "E Do Mi". "Nella chiave di Re è minore". "Oh confusione, oh babilonia! Sempre gli stessi nomi hanno da essere e sempre i medesimi intervalli. Stia a sentire" e il maestro continuava imperterrito il ragionamento, e si sgolava solfeggian- do: Do Re, Do Mi, Do Fa, Do Sol, Do La, Do Si, Do Do Intanto Nene, che aveva le fiamme al viso, si era alzata, umida di sudore, e al braccio di Mirate, girando nei pergolati più tranquilli, s'allontanava. Uscirono dal cancello posteriore, che non metteva sulla via, ma in un campaccio disabitato. S'avanzarono nelle tene- bre e nel silenzio sull'erba alta: Nene traballava. Il cielo s'era an- nuvolato; se non fossero stati i bagliori, che di quando in quando guizzavano sull'orizzonte, cielo e laguna si sarebbero confusi in una oscurità sepolcrale. I rumori distanti, i pallidi riverberi dei lu- mi oltre il muro di cinta facevano sembrare più cupa la nerezza e la taciturnità del luogo, ove non pareva più di essere accanto a Venezia, di vivere nella realtà di questo mondo. Un gatto si cacciò fra i piedi della fanciulla, scappando; ella cadde sull'erba. "Hai paura?" le domandò il tenore. "No" rispose Nene, e gli stese le braccia, perché la rialzasse. Il vento, che fischiava, stava spegnendo le candele sui deschi, malgrado il riparo dei cartocci, e faceva scappar la gente, quando Nene, sul cui volto un triste pallore aveva sostituito il rosso acceso di prima, tornò alla tavola con Mirate. Lo Zen, sorseggiando l'ul- timo mezzo boccale, continuava a disputare sul setticlavio; ma il maestrino, appena vide comparire i due giovani, colse la buona occasione per salutare in fretta e darsela a gambe. Gli altri se l'era- no svignata prima, non senza una certa curiosità di sapere ove si fossero cacciati Giulietta e Romeo. Avevano anzi cercato, invano, di scovarli. Il battello con i lumi tutti smorzati e il grande felze di verdura e la Maria sopita e i barcaiuoli morti dal sonno, aveva un aspetto si- nistro. Attraversò il canale della Giudecca fra poche barche piene di donne e d'uomini briachi, mentre scoppiava l'ultimo razzo e s'accendeva l'ultimo moccolo di fuoco di bengala. Passando sotto un ponte, nel rio stretto e buio, udirono un corpo cadere sui gradini e due persone, che s'erano fermate a guardare, dirsi fra loro: "S'è rotto il capo: vedi quanto sangue". "No, è vino. S'alzerà domattina". Cominciava la pioggia a goccioloni. Nene aveva freddo e trema- va. In quel frattempo il nonno non trovava pace. Dacché Nene era montata in barca egli aveva ripetuto cento volte a se stesso: "Ho fatto quanto potevo. Che colpa ho io se la ragazza non somiglia a sua madre e a sua nonna? Da chi ha ella ereditato tanta disobbe- dienza, tanta ostinazione, tanta vanità, tanta smania per gli svaghi mondani? Potevo io chiuderla in un convento o serrarla in una pri- gione? Ho l'animo tranquillo, proprio tranquillo". E sentiva dentro una inquietudine, una impazienza, che non si ricordava di avere provato mai. Era andato a letto, aveva spento il lume, s'era rivol- tato da tutte le parti: le materasse pungevano. Allora aveva preso la risoluzione di tornare a vestirsi; era sceso giù nell'orto. Tendeva le orecchie: le foglie stormivano. Poi, traversata l'ortaglia sino alla riva e alzato il grosso saliscendi arrugginito, che mandò un acuto cigolío, aveva aperto. S'era ap- poggiato allo stipite: fissava l'acqua nera sotto i piedi. Si udivano a distanza i rumori della festa, le grida allegre; si vedevano i razzi, i riflessi dei fuochi. A poco a poco sui gradini bagnati e sdrucciole- voli i grossi topi ricominciarono le loro corse, senza curarsi del vecchio, il quale rimaneva immobile e assorto. Anzi un sorcione finì per tentare di rodergli le pantofole, ricamate da Nene. Allora il vecchio si riscosse, e rientrò, passo passo, in casa. Si pose a sedere innanzi al pianoforte e suonò, senza pensarci, alcune battute della marinaresca, le quali ancora gli ronzavano nelle orecchie; ma si interruppe tosto, seccato da quella musica scipita e triviale. Frat- tanto gli correvano nella mente certi ricordi della sua giovinezza: un amore profondo e calmo per la figliuola del suo maestro, finita etica di vent'anni, in memoria della quale aveva composto, la sera stessa della morte, una marcia funebre. Cercò di rammentarsela; provava, riprovava; i primi accordi non venivano, ma certi brani del canto sì; poi di nuovo s'annebbiava la seconda parte, svaniva la cadenza. Ma a forza di studiare, la marcia tornò tutta intera, tale e quale, nella memoria e sotto le dita del maestro, che ne provò una viva compiacenza, quasi una sensazione di gioia. Una barca, che passava con gravi tonfi di remi e strepiti di gente avvinazzata, destò il vecchio dai cari sogni lontani; andò alla fine- stra; gli tornò la spina nel cuore. Guardava e, dopo un istante, ri- guardava l'orologio. Non si fidava della lancetta; contava sulle dita le ore e i quarti, quando suonavano e ribattevano al campanile vi- cino. "E non torna!" ripeteva "Non torna! Non si rammenta più del suo povero nonno!". Poi s'affaticava a ragionare: "Le mie sono fisime da rimbambito. Che male c'è, in fondo, nel cantare e nel farsi sentire, nel desiderare un passatempo onesto, nel volere una qualche libertà dopo tanta soggezione? Può una ra- gazza starsene tappata in casa tutta la vita, perché manca di madre e di padre, e perché l'unico suo parente è un vecchio fastidioso e decrepito? La colpa è mia, che ho preteso troppo. Sono stato io l'egoista: non ho voluto scomodarmi, non ho saputo fare nessun sacrifizio. La giovinezza ha i suoi diritti, che la vecchiaia non deve calpestare. Altro è l'estate, altro l'inverno. Sarebbe bella ch'io me la pigliassi con l'estate perché fa caldo!". Si gettò sul letto, vestito. "Eppure" bisbigliava "sarebbe ora che tornasse. Quei giovinastri, quello scavezzacollo di Mirate, quella testa bislacca dello Zen non mi lasciano quieto". Si alzò di nuovo; andò di nuovo al balcone, ove soffiava il vento fresco e umido, che agitava i suoi capelli candidi come aveva sconvolto quelli di Nene; guardò le nubi dense, illuminate dai re- pentini bagliori. Cominciava la piogga, minacciava il temporale; "Dio, Dio, che cosa succede di lei!" e stava per discendere ancora nell'orto in preda ad un'angoscia sempre crescente ed oramai in- sopportabile, quando udì la gran chiave nel portone della riva alza- re il saliscendi. Respirò. Sentì la voce della nipote e ringraziò il cielo; ma chiuse in fretta la finestra e spense il lume. Non voleva che si indovinassero i suoi affanni.

Versione elettronica di testi relativi al periodo 800 - 900 Donna Folgore

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Faldella, Giovanni 1 occorrenze

D'inverno la neve le dà il riposo del candore, che confonde ogni cosa nella purezza abbacinante, il riposo del candore, quanto diverso dal riposo, che dà il verde, in cui pullula l'annunzio di nuova vita! Quando la serenità invernale consentiva agli occhi suoi il nitido panorama, essa indugiavasi a godere il diadema delle Alpi, marosi arrestati dal Dito di Dio: sulla pianura del Po e dei confluenti suoi, dai piedi delle Alpi ai candidi poggi monferrini, spaziava, dilagava la nebbia. Allora alla romita contemplatrice pareva di contemplare lo spettacolo da una specola sopra le nubi, da un altro pianeta, dal Paradiso. Il sole saettava la nebbia padana, la illustrava e diradava a fiocchi di bambagia, che principiava a lasciarsi traforare dai campanili; poi negli screpoli, nelle radure comparirono chiese, interi villaggi, isole; poi tutta la pianura del Po scintillante nei solchi e nelle punte, come un'argenteria libera dall'imballaggio. E la Contessa, resasi suora del Santo Oblio, batteva le mani e benediceva all'omnipotenza del Creatore. Prosa non ispregievole dopo tanta poesia. A compire la felicità della reclusa, essa accorgevasi, che la rinunzia al lusso e alla lussuria le aveva anche impreziosito il gusto dei cibi semplici e delle bevande schiette. Ma non ancora è spenta la razza dei diavoli di Dante e della Basvilliana, che si contendono le anime. I diavoli di Nerina sono i capricci. Soddisfattone uno, spregiarlo, e intraprendere la serie degli altri. Che fate, angeli tutelari di Nerina? Dormite? Dormi, anima della madre sua? Dormi un sonno marmoreo, come nel busto del Cimitero di Torino, o sei ingessata, come il modello nel salone di San Gerolamo? Svegliatevi! Provvedete! Non mirate voi, quale sconvolgimento si prepara, quale pervertimento si opera nella psiche complessa, multipla di Nerina? Essa era ormai stanca di regnare su quel piccolo mondo di segregate. Supa mitonà , Bimblana, Gibigianna, Gilda ecc., le preparate a schernirla come Contessa Cento su 'na rama , erano state facilmente avvinte al carro della sua solitudine religiosa, e la riconoscevono regina di rarissime virtù. Ma che diventa mai la solitudine, se l'anima interiore non è riempita dalla grazia di Dio? Dopo una piova primaverile, Nerina contempla sitibonda la pianura del Po, che si rimbarba di verde. E sente poco per volta vuotarsi l'interno dell'anima sua, e incrostarsi la superficie di nuovi desiderii e prudori voluttuosi. Che è mai un eremo alla sua nuova vista? È un buco, un vuoto schiacciato, seppellito, dimenticato dalla Natura, maledetto, escluso dalla Vita; si chiami il convento delle Meteore o l'Ospizio del Santo Oblio. Peggio le pare un'ingiuria, una ritorsione della Natura, che nessuna forca può espellere. La reclusa del Santo Oblio sente il bisogno irrefrenabile di riallacciarsi alla vita mondana. E rapidamente accumula in sé tanta energia di elettricità psicologica, da superare l'orrenda riverenza delle pitonesse nella mitologia antica, o la forza medianica sorgente in Eusapia Paladino. È la precorritrice di una stazione radiografica ultrapotente per una telegrafia senza fili, per una trasmissione telodinamica del pensiero e della volontà femminile. La sua possa di magnetismo animale, per le correnti maravigliose, che la scienza ha già lealmente riconosciuto, sebbene non sia ancora riuscita a spiegarle, arrivava, toccava persino il suo secondo marito nel penultimo Oriente. Adriano Meraldi, lasciando ai colleghi affaristi del Trust per l'esportazione delle acque del Giordano la ricerca del legname più resistente e più economico per le botti, si era dato alla caccia della pantera e della iena con una passione scientifica da imitare il naturalista Michele Lessona, e con una felicità artistica da aspirare a Nembrodt del fucile e della penna. Dalla Persia era calato nell'India sacra, dove aveva incontrato la truppa signorile dei battifolli torinesi in cui era incorporato il baroncino Svembaldo Svolazzini, angelico rampollo del fiero neofeudatario di S. Gerolamo. Le accoglienze oneste e liete, che si fecero il letterato e il baroncino dello stesso paese d'origine, ricordano quelle di Virgilio e Sordello nel purgatorio di Dante. A tanta distanza da S. Gerolamo sparvero le differenze sociali tra il figlio dell'economo cadastraro e il figlio del nobile Mecenate. Che importa, se il professorino aveva nelle ripetizioni delle vacanze annoiato con i latinetti il baroncino? La carità del natio loco, il dolce suon della comune terra livellava in quella lontananza plebeo e patrizio, Chirone ed Achille, lasciando soltanto emergere i vincoli dei soavi ricordi ed affetti. * Illustre professore! * disse il baronetto saltando al collo di Adriano Meraldi. * Dolce tirone! * gli rispose Meraldi, stringendoselo al petto. Il professorino Meraldi a S. Gerolamo aveva trascurata la popolana Gilda per correre dietro alla capricciosa tota Nerina . Ed il baroncino Svembaldo aveva raccolta per sé la purissima popolana; e come un giovane Dio se ne era fatto l'altare della sua religione. I ricci, gli occhi, la luce della fronte e dell'anima di Gilda erano per lo Svembaldo tesori impagabili, non surrogabili. * Umanità! * egli esclamava a se stesso: * Rispetta le pure simpatie dell'amore, che sono tramiti divini. Egli si era afforzata la sua fede amorosa nelle fatiche del viaggio e della caccia alle Indie. L'incontro e la presenza di Adriano Meraldi gli rinfocolò nel cuore un braciere non mai spento. In quella vegetazione feconda di tutto l'amplesso dell'acqua e del sole, egli, come se possedesse il pennello e la poesia di Tullo Massarani, divinizzò l'immagine di Gilda a nuova Sacuntala. Clemente Corte, artiglieria piemontese fusa nel coraggio e nel genio garibaldino, studiava le conquiste inglesi nelle Indie ad ammonimento e correzione delle velleità coloniali d'Italia. Svembaldo Svolazzini anelava ritornare in Italia per la piena, santa, perenne conquista della sua Gilda. Meraldi e il baroncino, sulle rive del sacro Gange, come per un contagio spirituale, risentono insieme gli stimoli dei primi amori di S. Gerolamo; e tali stimoli vengono maggiormente acuiti da una inopinata comparsa. Sbarcava, col suo manto di madonna gerosolomitana, con il collo lungo, che pareva tornito da Fidia, e con il profilo greco non scismatico, Suora Ermellina Diotamo, che dal Santo Oblio veniva a dirigere un Collegio di Dame inglesi a Calcutta. Quando essa si era accomiatata dalla Contessa Nerina, questa con una prosternazione, che mascherava la lampeggiante voglia di un tradimento, la aveva pregata: * Madre santa, se Ella vede quel ... signore, gli dica, gli dica ... * E di più non aveva detto. Suora Ermellina riportò ad Adriano Meraldi il profumo tentatore della diavolessa lontana, i cui tentacoli per vie incognite ritornavano direttamente imperiosi a lui. Provò a disperdere quel profumo nella danza serpentina di una bajadera. Inutilmente desiderò l'incolumità di un fachiro. Egli soggiacque alla terribile ripresa di malore ignobile; per cui si rinnovò la minaccia dell'amputazione chirurgica della gamba sinistra. Ed egli pure dovette adottare l'uso d'una stampella. Invece quale balzo di elasticità angelica darà l'orgasmo di Svembaldo Svolazzini, allorché apprenderà da Suora Ermellina, che anche Gilda è assicurata al Santo Oblio? Appena potranno, Svembaldi e Svolazzini partiranno in guerra contro il Santo Oblio. Ma d'altra parte, che dovrebbe importare irosamente del Santo Oblio a Federico De Ritz? Perché se ne cruccia e se ne tormenta? Che desidera di più? Egli con una votazione magnifica, quasi plebiscitaria, è stato eletto deputato al parlamento Nazionale dal suo ligio feudale collegio di Ripafratta. Si sarebbe detto un compenso popolare alla sua sventura matrimoniale, solatium uxorium , friggeva a se stesso, per paura che l'aria lo sentisse, l'abate prof. Eleuterio Vigo Razzoni, primo cappellano della sua corte, e suo grande, eminentissimo elettore. L'on. Conte nel palazzo dei Cinquecento a Firenze, per votare sì, alzava la gloriosa stampella, come faceva l'eroico Benedetto Cairoli. E l'alzata era più animosa, quando si trattava di sollecitare la liberazione della madre Roma; ciò che induceva a bisbigliare qualche gufo clericaleggiante: * Veh! l'idea nazionale di Roma o Morte si regge sulle grucce. I buzzurri andranno a Roma di gamba zoppa in die judicii. Crepi l'astrologo clericaleggiante! rispose la Fortuna d'Italia; e l'Italia al 20 Settembre del 1870 compiva il suo fatale ingresso a Roma per la breccia di Porta Pia. Federico De Ritz non imitò Enotrio Romano che fece squacquerare le oche del Campidoglio contra l'Italia, come se questa vi salisse a scappellotti e calci. Non mostrò il contorcimento di budella mostrato da Giuseppe Mazzini, per la nobile invidia, di non averla condotta lui l'Italia a Roma. Federico De Ritz con il suo buon senso e con il suo buon cuore sentì che l'Italia compiva a Roma il miglior ingresso patriottico e cristiano con la maschera guerriera e gianduiesca di re Vittorio, con la probità catoniana del flebotomo Giovanni Lanza e con la scienza moderna di Quintino Sella, anzi che con i sonagli della vieta retorica e con i barili di fiele dei profeti in malora. Federico De Ritz ne provò una così sana ed alta soddisfazione, da poter rinunziare alla stampella destra, surrogandovi un bastoncino. Ma come la liberazione di Roma aveva tolto al partito avanzato italiano il programma, per cui combatteva, e inflittagli la necessità di cercare un altro programma di riforme progressive, così a Federico De Ritz quell'estrema soddisfazione patriottica e politica riapriva l'animo ad altre cure personali. Le corna rodono! * Rodono le corna! lo avvertiva un proverbio romanesco sonettato dal Belli. E gli rivogava in seno tutta la complessa filosofia delle corna. Non si addiceva a lui la filosofia allegra, con cui Massimo D'Azeglio terrificava il nipote prossimo ad ammogliarsi: le corna sono la pace di casa, perché la moglie fedele fa scontare la sua fedeltà con le bizze domestiche, mentre la moglie infedele copre la sua infedeltà con le moine al marito. Né meno gli entrava l'erudizione latina, che avrebbe potuto confermargli l'abate Vigo Razzoni: significare le corna presso gli antichi romani forza, potenza. Onde la laude oraziana del vino " addis cornua pauperi" , aggiungi corna, cioè forza al povero che in grazia sua più non trema davanti le Altezze reali e le baionette del Regio Esercito, è una laude, che più delle preghiere cristiane può far parte del programma minimo dei socialisti. Se non che quell'eterno buffo dell'avvocato Ilarione Gioiazza applicava il precetto oraziano " adde cornua pauperi" al ricco padrone di casa, che si godeva la bella mogliera del povero portinaio. Appunto per ricreare, rifiorire l'anima, Federico De Ritz si rivolse all'amico avvocato Ilarione Gioiazza, domandandogli: * Ed ora, che dobbiamo fare, dopo la presa di Roma? * Per me, * gli rispose Gioiazza, a cui le maggiori batoste maritali dell'amico De Ritz non avevano tolto del tutto il rimorso pella supposta primizia peccaminosa di Capri, * per me lasciami fare l'avvocato. Commetti pure un delitto o un crimine. Ed io ti difenderò volontieri davanti al Tribunale Correzionale o la Corte d'Assisie. Commetta un delitto il papa, ne commetta il Re fuori della costituzione; ed io li difenderò volontieri davanti il Senato costituito in alta corte di Giustizia; ma lasciatemi fare l'avvocato. Una simile domanda Federico De Ritz rivolse al prof. Spirito Losati; e ne ottenne questa risposta: * Tolto il potere temporale al Papa bisogna studiare, se occorra togliergli il potere spirituale, o piuttosto spiritualizzare il Papa stesso. Finora non ho risolto a quale appigliarmi delle due corna del dilemma. Federico De Ritz ragionava non potersi dire di lui, che portasse magnificamente le corna, poiché era riuscito ad internare la moglie in un luogo di santità immune. Anzi quasi quasi vantava la gloriola vendicativa, crudele del secondo marito della Pia dei Tolomei. Ma ad ogni modo della sua già empia, ed ora Pia, gli ritornava l'ossessione. Desiderava mortificarla con amplessi tirannici carcerarii, ripugnando al suo carattere nobile il sistema del terribile Orsenigo (novellato da Vittorio Imbriani), il quale Orsenigo uccise di lenta vergogna la moglie con amplessi retribuiti a similitudine meretricia. Il Conte Federico domanda al suocero papà Vispi il consiglio, se visitare Nerina; e papà Vispi gli risponde romanamente: no! * Nerina isolata nel ritiro può divenire una santocchia per un'altra vita. Ad ogni contatto di questa vita si disfarà, come la materia, che resiste sotto la campana pneumatica, e si scioglie al minimo soffio d'aria. Federico De Ritz domandò il permesso di visitare Nerina al Canonico Puerperio, cioè Giunipero. Questi, che aveva già dovuto soffiare: "la Contessa è un diavolo, anzi una donna da perderci l'anima" , gli rispose amabilmente, dimostrativamente di no: * Senta, veda ... ciò che è capitato a un mio collega direttore spirituale ed amministrativo di un manicomio, ossia casa di Salute. Vi era stato ritirato per necessità di decenza un giovine signore, già valoroso ufficiale di artiglieria. La giovine signora volle pietosamente visitarlo. Il marito violò la moglie. Che ne nascerà? Non vorrei accadesse il rovescio a Lei, perché la sua signora contessa è stata certamente una pazza morale o meglio imm ... Lasciamola alla guardia di Dio e della Madonna Salvatrice! Tutte queste ripulse non domarono le voglie di Federico De Ritz verso Nerina. Forse le basse voglie gli sarebbero state vinte da una ripetuta, quasi violenta chiamata telegrafica, che il partito gli fece al Parlamento. Se non che dal Parlamento, dalla smunta politica italiana lo distorse la notizia pubblicata dai giornali di Torino: che vi era giunto l'egregio scrittore piemontese Adriano Meraldi divenuto celebrità europea. La notizia perveniva pure al Sant'Oblio , dove la contessa Nerina, acquistando sul personale un ascendente, da disgradarne quello della superiora suor Crocifissa, aveva organizzato un perfetto servizio postale clandestino a suo comodo, e mediante la speciale abilità di un affascinato curatino si procurava il frutto proibito di giornali freschi, sotto la specie di nocciolo di gomitoli o modelli di vestiario. A quella notizia la Contessa Nerina si sentì secretamente invasata, trionfata dal suo antico carattere meccanico divenuto simbolico: il carattere capriccioso deleterio della signora di Challant, macina di maschi, secondo il novelliere vescovo Bandello, e secondo il poeta drammaturgo Giacosa, Venere sanguinaria, che prometteva e dava mille deliziose agonie, e spingeva l'un contra l'altro armati gli amanti, e baciandole, fatava le spade, che vicendevolmente li trafiggessero. * Ah! Meraldi a Torino! Come lo cercheranno, lo ustoleranno, se lo disputeranno, se lo divoreranno quelle smorfie di signore torinesi, cagne, gatte, carogne! Essa spedì immediatamente due biglietti. L'uno: All'eg.o scrittore Sig.re Adriano Meraldy celebrità europea * Torino "Sempre tua Nerina sposa amante." L'altro: * All'on. sig.re Conte avv. Federico De Ritz * Torino "Tua pentita, penitente Nerina, ma sempre tua, tua per sempre." * * * Adriano Meraldi aveva divisato di partire quella mattina per isciogliere il più santo voto del suo cuore, recandosi ad abbracciare i suoi vecchi genitori a san Gerolamo. Invece il biglietto di Nerina gli diede un altro dirizzone. Il Conte Federico De Ritz nell'accostarsi all'Ospizio del Sant'Oblio sopra una timonella del signor Barolla di Passabiago noto concessionario di vetture pubbliche, si sentiva scalpicciare di dietro un altro veicolo più veloce. Discesero quasi contemporaneamente Federico De Ritz ed Adriano Meraldi al cancello del Santo Oblio; ed ambidue licenziarono le rispettive vetture. Si posero di fronte, ambidue appoggiata l'ascella sinistra sopra una gruccia; e si guardarono. Balenò loro l'esempio di quei due eminenti letterati e patrioti subalpini, rivali anche nella poesia e nella politica, i quali una sera si trovarono sullo stesso pianerottolo, davanti lo stesso usciolino di una famosa e distratta principessa cosmopolita, da cui avevano avuto un appuntamento alla stessa ora precisa? Quei due cavalieri moderni, mostratisi i biglietti come uno scambio di poteri, e filosoficamente persuasi, che niuna bellezza di questo mondo vale la spesa di un rancore, tirarono a sorte chi dovesse entrare. Ma la farsa filosofica qui non era possibile. Invece di una principessa cosmopolita, che dispensava le sue grazie benefica a tutti, come il sole, si annidava al Santo Oblio Nerina dotata dell'incantagione, per cui le serpi affascinano mortalmente gli uccelli. Invece della farsa essa esige la tragedia. Il Conte Federico De Ritz, premendo sulla stampella, alza il bastoncino e grida fieramente ad Adriano Meraldi: * Difenditi! * Ecco i due zoppi di fronte ad avvelenarsi con gli occhi, prima di percuotersi coi bastoni; i due zoppi: Federico azzoppato da Marte per l'amore della patria e dell'umanità; Adriano azzoppato da Venere o più precisamente da lue venerea. Era un vespro del caduco autunno; e l'atmosfera pareva impregnata di vapori e versi ossianeschi cesarottiani. I belligeranti, fiancheggiando la muraglia del Santo Oblio, combattevano sotto una pianta di fischianti foglie. Il loro piede zoppo diveniva piè di vento per scavalcarsi e saltalenare a mo' dei galletti. Ma essi combattevano come i primi uomini, che con la clava si contesero le prime donne (non di teatro); combattevano come i primi uomini selvaggi. E si bastonavano, come burattini al teatrino Gianduja. Nerina accoccolata, contorta, mentre si sbattocchia la battaglia tra Meraldi e De Ritz, grida a se stessa: * Che colpa è la mia, se Dio mi ha creata serpe? * Poi geme: * Sant'Oblio! Sant'Oblio! Soffro, perché sento qualche cosa spegnersi in me. Saranno mortali le bastonature dei due zoppi? Se non di bastone, c'era da morirne di vergogna.

Oro Incenso e Mirra

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Oriani, Alfredo 1 occorrenze

Naturalmente i seminaristi esterni, (si chiamavano così quelli che praticavano solamente le scuole) erano i più poveri: nel seminario affollato di centocinquanta allievi, una categoria, quella dei ricchi, che pagavano intera la dozzena, vestiva di rosso, un rosso splendido, abbacinante; l'altra, di coloro a mezza dozzena, portava la veste nera con una larga fascia rossa a nodo sulla cintura: i paria del di fuori vestivano da prete come potevano. Spessissimo il nero dei loro abiti diventava rameo, ferrigno, gialliccio: tutta la gamma delle slavature vi si mostrava al sole, i cappelli di felpa lasciavano dalle cuciture passare il cartone, i mantelli nascondevano male i propri buchi fra le pieghe, mentre le scarpe al disotto sembravano sorridere con troppa allegria di tutti questi inconvenienti. Nullameno anche fra questi esterni vi erano delle suddivisioni: alcuni vivevano abbastanza bene presso qualche parente, tutti avevano già delle relazioni, mentre Giannino non conosceva nella città che il signore, dal quale aveva già ricevuto il soprannome di vescovo. Questi, ancora giovane, era caduto poco prima assai pericolosamente, azzoppandosi dalla gamba destra. Quel primo inverno fu rigidissimo. Il piccolo "vescovo" tutte le mattine sulle otto passava per il Corso, svoltando all'angolo del palazzo Zannoni per andare al seminario senza attraversare la piazza, giacché la miseria degli abiti e l'aria sparuta del viso lo avevano segnalato alle atroci buffonerie dei monelli, che una volta gli erano già corsi sopra a palle di neve fra le risate di tutti. Nullameno il suo coraggio, simile a quello dei passeri che seguitano a cantare anche quando la neve ha coperto tutti i campi, non aveva bisogno di molti sforzi per resistere a tale vita. La mattina non faceva colazione: tornando a casa dal seminario, se per la vecchia Geltrude non era giorno di fornello, comprava in una piccola bottega, sempre la stessa, il solito mezzo chilo di pane bruno e tre soldi di frutta o tre soldi di maiale; divideva il tutto in due parti, e la giornata era trascorsa. Nel pomeriggio bisognava tornare a scuola, poi andava a spasso se non capitava qualche funzione di chiesa, e finalmente a letto col mantello dell'arciprete e tutti gli altri vestiti sulle coperte. Lì studiava allo scarso lume di un lanternino a petrolio, ma anche questo bisognava non lasciarlo ardere troppo. Ai libri aveva già provveduto: un canonico ricco e quasi pazzo per le anticaglie gliene aveva prestati parecchi, alcuni fra i migliori compagni ne diedero altri, da ultimo un ex professore di filosofia, prete buono e strano, malviso al vescovado, gli fornì il resto. Restava ancora la spesa per la carta quando non gli riusciva di farsela regalare. Nel primo mese guadagnò sedici soldi in due accompagnamenti funebri al cimitero, e poté così comprare qualche quaderno con un cartoccino di penne: a quella per le male copie pensavano i manifesti delle colonne. In una sera di neve, rincasando sull'ora di notte, aveva osato strappare un lembo di avviso che il vento gli sbatteva quasi sul volto: sulle prime, spaventato della propria audacia, credette in buona fede che i manifesti non si potessero rompere, poi si rinfrancò e, avendo studiato nel giorno i luoghi più propizi, usciva la sera circa sulle otto a fare così la propria provvista. Era una vita povera e semplice, alla quale per diventare sublime sarebbe bastata la coscienza del sacrifizio. Egli invece non ne sapeva nulla: aveva una voglia ardente di farsi prete in quel fanciullesco entusiasmo delle prime preghiere e dei primi abbarbagli mistici: sapeva che a casa il padre e le sorelle mangiando quasi sempre formentone lavoravano anche più di lui, ed egli li amava dolcemente, senza passione. Alla parrocchia futura non pensava mai, anzi quando il padre gliene aveva parlato sognando già di riposarsi vecchio all'ombra del campanile figliale, egli ne aveva quasi sofferto: benché torbido, il suo sogno sarebbe stato di studiare sempre e magari di predicare, se la voce glielo avesse permesso. Ma allora era troppo gracile, con un collo non più grosso di una canna e una voce roca, attraverso la quale tratto tratto passavano sibili di mal augurio. Non ci voleva meno di una giovinezza così casta e calma per non provocare lo stesso terribile malore, del quale la mamma era morta, appiattato quasi visibilmente sotto le sue carni biancastre. Giornali non ne leggeva perché scomunicati, poi i compiti di scuola lo tenevano occupato tutto il giorno. Egli voleva figurarvi fra i migliori nella speranza per sé e pe' suoi di essere l'anno venturo accolto gratis nel seminario, come ad alcuni altri era accaduto. Ma il suo ingegno non era molto, e la miseria invece di attirargli simpatie gli manteneva intorno quella diffidenza fredda, che tutti sentono per la gente troppo povera. Solo quel vecchio professore di filosofia sembrava prediligerlo: ma anzitutto, poverissimo anch'egli e malato nelle gambe, viveva con una sorella altrettanto vecchia, poi afflitto da una formidabile voracità non aveva di che appagarla in casa propria. Però gli era rimasto dell'abitudine professorale un bisogno insaziato di ripetere le antiche lezioni di seminario, le stesse che vi si danno oggi ancora, tutto un guazzabuglio di frasi e di pensieri dentro un mulinello di sillogismi buoni tutto al più per divertire l'incapacità di un seminarista, ma che per lui erano invece tutta la verità possibile allo spirito umano. Il suo odio contro Rosmini, del quale negava iracondamente anche l'ingegno, lo faceva alla prima obbiezione uscire dai gangheri. Sulle quattro pomeridiane, finita l'ultima lezione, il "vescovo" doveva quindi andare da don Riva in via del Filatoio per accompagnarlo a spasso: uscivano adagio dall'uscio alto tre scalini e andavano lungo il muro verso porta Montanara. Il vecchio appoggiato sul bastone, colla grossa testa bianca, un mantellone bigio e le povere gambe grosse come due tronchi, parlava forte fermandosi spesso con un gran gesto della mano sinistra per confermare un argomento. Le ragazze sorridevano incontrando quella strana coppia. Forse la loro più lunga passeggiata fra andata e ritorno non oltrepassava un chilometro, ma v'impiegavano un'ora e mezzo: qualche volta il "vescovo", sospeso quasi gelosamente a tutte le parole dell'altro, osava una obbiezione che faceva fermare di botto il professore. - Ah! tu credi - ribatteva coll'aspra superiorità del dotto, cui l'invidia degli emuli contristò la vita fra l'ignara indifferenza del pubblico: - ecco.... E spessissimo invece di rispondere all'argomento oppostogli non faceva che ripetere il proprio. Nullameno quella vita era ben dura. Ogni giorno l'ingenua confidenza del ragazzo riceveva atroci smentite: come tutti i buoni, specialmente quando sono poveri, egli aveva preso alla lettera le parole di carità, di amore, di pietà verso Dio e verso gli uomini, che sbocciavano come piccoli fiori celesti nei manuali di preghiere, o passavano con una sonorità grossolana in tutte le prediche dei parroci. La sua anima innocente aveva sperato quasi colla certezza della fede che nel seminario tutti i professori gli farebbero da padre e i compagni da fratello, mentre il vescovo alto e solenne nella dolcezza della propria autorità avrebbe vegliato su lui come un santo. Invece i professori simili a tutti gli altri maestri praticavano di mala voglia il proprio mestiere prediligendo gli scolari più servili, o dai quali potessero nelle feste attendere qualche regalo; i compagni, come quelli del suo villaggio, gareggiavano odiandosi reciprocamente e i più ricchi dominavano fra di loro, mentre egli povero, colle scarpe rattoppate e quella vesticciuola talare tutta a rammendi, diventava il bersaglio di ogni motteggio. Persino la mingherlina struttura gli nuoceva. Poi avendo confessato imprudentemente ad un amico di campare con sette soldi al giorno, questo miracolo di sacrificio parve a tutti ignobile, e lo battezzarono "Ugolino" il sublime affamato del più tragico fra i canti di Dante. Egli sulle prime rispose, poscia piegò la testa piangendo. Alle funzioni ecclesiastiche gli accadeva lo stesso; i preti se ne disputavano i pochi lucri accorrendo di lontano alle buone messe, mercanteggiando tutti gli uffici con una crudità di linguaggio troppo inconsapevole, perché non fosse una necessità della loro vita. Al disotto di loro i chierici si aspreggiavano anche più biricchinescamente nella contesa dei piccoli servigi, pagati a soldi, così che abbisognava davvero il caso di una gran festa o di un mortorio molto ricco perché il povero Giannino vi potesse penetrare. Il suo incasso più lauto in un mese furono tre lire. Siccome nessuno era più magramente vestito di lui, si divideva dai compagni sulla porta del seminario per tornare a casa coi libri stretti da una correggia fra due assicelle, scantonando vergognoso ai vicoli, colla bocca sempre sorridente per un difetto del labbro superiore e gli occhi buoni ombrati da ciglia lunghissime. I suoi giorni migliori erano quelli di vacanza, il giovedì e la domenica, perché poteva restare a letto fino alle dieci leggendo qualche libro prestatogli da don Riva, mangiando ad un'ora dopo mezzogiorno la minestra calda colla vecchia Geltrude. Questi erano sempre giorni di fornello: Giannino vi metteva tre soldi, essa quattro per cucinare generalmente dei maccheroni: talvolta la vecchia vi aggiungeva un pezzo di formaggio o di tonno o una pera. Due volte l'anno - per santa Geltrude e per la madonna della chiesa di San Francesco, la madonna mora come la chiamavano le treccole - ella lo convitava per quel bisogno anche nei più miseri, specialmente quando vivono solitari, di fare un sacrificio a qualcuno. Ma il ragazzo alla prima occasione rendeva l'invito aggirandosele intorno con una festosità di cagnolino, mentre l'altra cucinava il suo regalo: e quei giorni egli parlava anche di più, colla illusione di aver mangiato il doppio, sebbene qualche po' di fame gli fosse egualmente rimasta. La vecchia invece discorreva sempre pochissimo, stava molte ore del giorno fuori guadagnando misteriosamente quanto le serviva a campare, poi rincasava con un grosso caldano pieno di carbonella, che si metteva sotto le sottane, e nell'angolo della prima stanzetta presso la finestra ricominciava a fare la calza. Passavano dei giorni interi senza vedersi. Ella non saliva al granaio se non per spazzarlo perché il ragazzo si rifaceva il letto e si tirava l'acqua necessaria da sé. E nei momenti più tristi della sua solitudine, appena sbocconcellato in piedi, alla finestra, il poco pane, scendeva da lei per sentirsi dire qualche parola con uno di quei bruciori di essere amato, così dolorosi nella giovinezza quando la mamma sola potrebbe ancora accarezzarci come un bambino, ed è morta invece da gran tempo, ella lo salutava senza parlare con una occhiata, reclinando subito dopo la testa sulla calza. La finestra di quella cameretta, come l'altra del suo granaio, davano sui tetti di contro; non si vedeva che un piccolo piano inclinato, rigato, muffoso, scuro: quasi nessuna voce arrivava fino lassù, i vetri erano appannati, il freddo più intenso che nella strada. La vecchia andava a letto sull'avemaria per non accendere il lume, chiudendosi dentro a catenaccio; egli rincasava un'ora e mezzo o due ore dopo per fare altrettanto, spesso sorpreso da un gelo, che nemmeno il letto bastava a vincere, perché gli veniva dallo stomaco non abbastanza pieno. Faceva tutto a letto, le preghiere, le lezioni, i conti, i sogni, nei quali la giovane fantasia si rifugiava coll'istinto degli uccelli, che cercano il bosco, ma dai quali usciva spesso con una stanchezza desolata. Quanti anni gli occorrerebbero per diventare prete? Anche senza perderne alcuno, fra rettorica, filosofia, morale, teologia, tutti gli ordini e il tempo della coscrizione, sarebbero sette; sempre così solo, come un piccolo viaggiatore smarritosi al primo viaggio verso una mèta, che gli s'intorbidava nel pensiero. Infatti il seminario e il duomo grande della città colla pompa delle loro scuole e delle loro funzioni gli avevano offuscato quel primo ingenuo ideale di prete orante fra gl'increduli e i derelitti. E però la sua devozione più dolce era per la madonna, che gli ricordava la mamma morta pregando che lui, il primogenito maschio, si facesse prete: in famiglia non aveva altra tenerezza di ricordo perché la vita dura vi rendeva più esigenti tutti gli egoismi, e fuori non aveva ancora trovato un cuore che rispondesse al suo. Tutti lo avevano più o meno deriso, anche i migliori; gli altri, i preti, avviandolo per la loro carriera, erano stati anche più freddi. Ma per quanto desolata quella solitudine dei suoi sedici anni in un granaio, con dieci franchi al mese per vivere, rare volte la malinconia lo vinceva sino al pianto, anzi nelle giornate più rigide e caliginose di quel primo inverno il suo coraggio si mantenne imperterrito come nella tensione delle prime ore in una battaglia; poi la primavera lo vinse. Si sentì più solo: nella scuola gli pareva quasi d'essere smarrito fra i compagni, mentre le parole dei professori vi passavano lentamente come un gorgoglio e le orazioni stesse, rompendoglisi nella testa, svanivano in alto simili ai bioccoli bianchi delle siepi fra il vento e il sole. Era la prima volta che questo gli accadeva. Una tristezza accorata gli veniva dalla ebrietà della natura in quei primi giorni di fecondazione, mentre le donne passavano per le strade con uno splendore sul viso pari a quello dei santi dipinti nelle vetriate, e tutti, anche i monelli, presi nell'allegria di quella immensa festa, non lo guardavano più. Egli invece, deposto il pesante mantello regalatogli dall'arciprete, se ne andava entro quella veste talare appena sufficiente per disegnare un'ombra sul selciato: era più pallido, senza appetito nemmeno per mangiare il poco che aveva. Ma nessuno se ne accorgeva. Allora lo ripigliavano improvvisi pentimenti. Sarebbe stato meglio per lui rimanere col padre a fare il cantoniere: a sedici anni avrebbe avuto già mezza paga con poca fatica, e passerebbe la giornata nella strada sbadilando un fosso fra una chiacchiera ed un saluto, lieto nel sole primaverile come i suoi compagni. Invece era un malato, vestito di un ragnatelo che gli faceva freddo anche adesso che tutti incominciavano ad aver caldo, segregato dalla vita comune in una esistenza claustrale, senza la fraternità del convento e la sua quiete studiosa. I suoi condiscepoli nel seminario potevano forse soffrire per la mancanza di libertà, ma avevano tutte le ore occupate e si tenevano l'un l'altro compagnia. Egli invece, solo con don Riva, finirebbe come lui. Il vecchio prete peggiorava tutti i giorni, giacché avendo bisogno di cibi sostanziosi non ne aveva neppure abbastanza di quelli più ordinari, e gli altri preti lo sfuggivano appunto per la sua miseria; mentre il vescovo, arricchito per la terza volta da un'altra eredità di centomila franchi, fingeva d'ignorare come l'antico professore di filosofia nel seminario morisse quasi di fame. Adesso per condurlo a spasso bisognava dargli il braccio portandolo quasi di peso, quantunque Giannino anch'esso male in gambe si sentisse soventi la schiena bagnata da cattivi sudori. Una domenica fuori di Porta Pia, mentre passavano lentamente dinanzi alla bottega dei sali e tabacchi, il vecchio ritirò il braccio disotto al suo, ed appoggiando ambo le mani sulla canna disse col viso quasi nascosto dietro il bavaro rialzato del soprabitone: - Pagami un soldo di caradà... non ne ho... non ne ho! Il ragazzo provò alla gola uno stringimento improvviso di pianto a quella voce così sorda, ed entrò nella bottega.

VORTICE

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Oriani, Alfredo 1 occorrenze

E in quella folla, nella quale l'egoismo delle disperazioni non permette lo scambio di alcun sentimento, e fra quelle le pupille chine e vacillanti sui tavoli nello stesso sogno di riscatto; fra quel silenzio, che neppure il delirio della salvezza improvvisa o la sùbita rivelazione della morte arrivano a turbare; in mezzo a quella moltitudine famelica di ozio e di ricchezza, dentro il profumo dei fiori, l'incendio dei lampadari, la pompa abbacinante di un lusso divoratore, Bourget aveva messo due incantevoli figure di donne, sorridenti in un dialogo di amore. Egli ne lesse le prime battute affascinato, arrestandosi in fondo all'appendice, quasi colla stessa sensazione che se si fosse urtato in un muro. A Montecarlo il suicida tenta di forzare ancora una volta la fortuna; può bastare un solo scudo per ritornare felice e trionfante alla vita. Quanti vi avevano vinto la posta della propria esistenza! Quanti altri l'avevano perduta! Erano più i primi o i secondi? Quanti suicidii si compiono all'anno in Italia, in Europa? Egli non lo sapeva, ma se qualcuno gliene avesse detto la cifra enorme, gli sarebbe parsa esagerata: nullameno ebbe come una vaga visione di questi volontari della morte, strano esercito senza generale e senza disciplina, che tutti gli anni si esauriva sino all'ultimo soldato, e si rinnovava tutti gli anni inutilmente. Ogni suicida credeva di agire solo: qualche volta morivano a poca distanza l'uno dall'altro, egualmente separati dalla differenza dei motivi. Chi poteva dire davvero il perché di un suicidio? Egli stesso non avrebbe saputo definire il proprio caso; le ragioni erano molte, forse una per una non sarebbero bastate, forse neppure la loro somma diventava decisiva... Egli ci aveva pensato molto, poi si era accorto di non poter concludere. Era a questo punto, quando Gualtiero Ponti gli batté la mano sulla spalla: - Anche tu leggi il nuovo romanzo di Bourget: bisognerebbe invece, mio caro, poter andare a Montecarlo e vincere. - Vincendo, che cosa faresti tu? - Mi divertirei. - Come? - Seguiterei a giocare. E l'allegro giocatore, del quale aveva il giorno prima tentato di scontare indarno la cambiale, rise al pensiero di chiudere così la parentesi della propria vita. - E la cambiale? - chiese. - No, è stato impossibile. - Allora? - Allora! L'altro si era voltato a guardare una donna. - Ma quando sarai rovinato? - domandò Romani, che provava un bisogno crudele di affliggerlo, benché quello scapestrato non gli avesse fatto alcun male. Gualtiero Ponti si contentò di alzare le spalle. - Andiamo a fare un giro per lo Stradone? fra poco verranno Tamberi, Marzocchi; sai, questa notte Marzocchi ha perduto settecento lire, io mi ero rifatto, poi ho finito col perderne settantacinque. Ceniamo insieme? Non si era ancora seduto. Era un giovanotto piccolo, brutto, coi baffi a spazzola, la testa rotonda e già calva, che mostrava indifferentemente, giacché si era tratto il cappello per asciugarsi il sudore, rimanendo così a capo scoperto; un tic nervoso gli faceva di quando in quando scattare le dita della mano destra. - Tu non ci pensi dunque? - insisté ancora Romani. - A che cosa serve il pensarci? * * * Non c'era altra filosofia nella vita: sciaguratamente non bastava, perché giungeva il momento di dover pensare per forza. Finirebbe così anche colui? Istintivamente rispose di no, conoscendolo troppo bene per supporlo capace di un simile sforzo. Tuttavia in quel momento, per una specie di giustizia che si sentiva dentro, avrebbe avuto bisogno di credere che per lui pure sarebbe venuta quell'ora insopportabile di espiazione. Quindi n'ebbe come uno scatto violento. - Te ne vai? chiese l'altro, vedendolo alzarsi. - No, debbo fare una lettera. - Va' dentro nella sala a scriverla: ti aspetto qui. Infatti qualche cosa bisognava che scrivesse. La prima idea fu di rivolgersi alla zia Matilde per raccomandarle i bambini; non voleva dir altro, non ne sarebbe stato capace. Si era messo all'ultimo tavolino presso la porta, che dava nella seconda sala del bigliardo: notò che due vecchi lo guardavano. Aveva la mano ferma. Gualtiero Ponti si affacciò dalla strada alla vetrina; allora egli si affrettò. Cara zia, 2 maggio 1896. Vi raccomando i miei bambini, abbiate pietà di loro che sono innocenti; io sconto tutte le mie colpe colla morte. E firmò, avvolgendo come al solito tutta la firma dentro il riccio dell'ultima i. - Hai fatto presto, - gli disse Ponti avvicinandosi. L'altro aveva già chiuso la lettera nervosamente, la mano gli tremava nello scrivere l'indirizzo. - Dammela: te la getto nella buca, mentre vado dal tabaccaio a comprare le sigarette, altrimenti potresti scordartene, come accade quasi sempre a me. Romani rimaneva perplesso; se impostava la lettera, la cosa diventava irrevocabile. Una nebbia di sangue gli salì dal cuore agli occhi. Quasi senza comprenderlo, si cercò in tasca il soldo per il francobollo. - Va! ce lo metto io, - disse Ponti colla mano tesa per ricevere la lettera. Quindi la prese senza guardare la soprascritta, e uscì dal caffè. Romani non si poteva muovere, ma pensava, rabbrividendo: - In ultimo, vi è sempre qualcuno che vi spinge. * * * Poiché avevano mutato luogo alla stazione ferroviaria, costruendone poco lontano un'altra più ricca e più goffa, la strada fuori di Porta Vecchia a quell'ora non era più frequentata come in altri tempi. Egli dopo aver errato per molte vie della città, aveva finito per infilare quella; il sole si piegava al tramonto, dalla campagna veniva una frescura di verde umido e di piante in fiore. S'imbatté in don Procopio, il mansionario, che abitava al disopra di lui; il vecchio ottantenne girava ancora solo, con passo abbastanza sicuro senz'altro appoggio che un bastone dal pomo di avorio ingiallito. Era vestito del solito vecchio soprabito con una leggera mantellina al disopra, tutto lindo e rasato di fresco: i capelli bianchi, troppo lunghi, gli uscivano in ciuffi dagli orecchi. - Lei! - esclamò Romani. Il vecchio gli sorrise, scoprendo due ammirabili fila di denti troppo lunghi, di un bianco gialliccio. Romani si era fermato. - Dove va? - disse, cedendo finalmente al bisogno di una conversazione. - Poco lungi, figliuolo mio. Nihil est longe a Deo: è l'avvertimento di Santa Monica al suo figlio Agostino. Ma l'accento tranquillo contrastava con la lirica minaccia del motto latino. - Sono stato sino alla sbarra della ferrovia. - Ritorni ancora indietro con me. - Nella sera si fa fresco, io sono vecchio e mi avvicino al termine. - Che importa? - proruppe l'altro: - bisogna ben finirla una volta con questa vita. - Eh! finirla... finirà certo. Quando si è giovani si parla male della vita, perché non se ne capisce il pregio, e al più piccolo contrasto si pensa persino male di Dio. - Perché dunque permette egli tante infamie? Perché vi è della povera gente, che deve morire in miseria dopo aver fatto ogni sforzo per non meritarla, mentre i farabutti riescono sempre in quello che vogliono? - Lo sapremo dopo, figliuolo mio: finché viviamo, bisogna rispettare la vita come un dono di Dio. - Poteva tenerselo. Ma siccome la voce gli aveva tremato, il vecchio si fermò a guardarlo in viso. - Non vi è altro in questo mondo che la vita: che cosa volete vi sia di più importante? - Come mai dunque certuni se la tolgono? - Pazzie, suggerimenti del demonio! Tutti i dolori passano, è questione di pazienza: dopo, pensandoci, si resta sempre sorpresi di aver disperato. Vedete, io che sono vecchio, ho avuto anch'io le mie disgrazie, i dispiaceri... e poi, se si potesse ricominciare, ricomincerei. - Lei non può avere sofferto veramente nella vita; bisogna esserci dentro per provarla e comprendere come alle volte non c'è altro modo di cavarsela che andandosene. A che cosa serve la pazienza, quando non c'è più alcuna speranza? - Volete farmi parlare perché sono prete, non è vero? Oggi tutti i giovani, che discorrono con noi, pretendono d'imbarazzarci; ma voi stesso in questo momento non potete essere al caso di giudicare sulle tristi condizioni, che spingono certi infelici al suicidio. Romani si era arrestato, aspettando la sua opinione, ma il vecchio tacque. Andava adagio, soffermandosi spesso a guardare quelli che incontravano, mentre una collera sorda spingeva l'altro a bestemmiare davanti a questo prete, il quale pretendeva naturalmente di rappresentare Dio e di poter parlare in suo nome. Quindi seguitò: - Si fa presto a dire che uno, il quale si uccide, è pazzo; ma se non lo fosse? Moltissimi dànno prova del massimo sangue freddo sino all'ultimo istante. - Pazzi, pazzi! La chiesa permette appunto il loro seppellimento in terra benedetta, perché li considera pazzi. Ma se non c'è altro al mondo che la vita, la quale ci fu data per guadagnarne un'altra migliore! Lasciate correre, sono fandonie delle moderne filosofie; ma intanto tutti questi filosofi e questi poeti, che bestemmiano la vita, tirano a campare. - E quelli che si ammazzano? - Matti! - Non è vero! - proruppe: - Vi sono delle circostanze, nelle quali il suicidio diventa l'azione più onesta e più utile, che un uomo possa fare. E poi, perché si deve tribolare tanto? Se Dio... - Non bestemmiare, figliuolo mio. - Non bestemmio; se Dio fosse giusto... - Andiamo, andiamo, - ripeté il vecchio, alzando un pochino la canna in segno di disapprovazione; ma il fischio della vaporiera li interruppe. Si fermarono, il cantoniere chiudeva dinanzi a loro la barriera. - Passa il vapore, lo vedremo, - disse il prete, voltandosi verso la stazione invisibile, alla quale il treno doveva essersi arrestato. Anche Romani non parlava più; l'affermazione così sicura di quel vecchio sulla vita lo aveva scosso; capiva che confessandogli anche la propria tragedia, non solo non lo avrebbe commosso abbastanza da farlo vacillare nelle proprie convinzioni, ma nemmeno da intenerirlo. I vecchi non si appassionano più per alcuno, ma, chiusi in se stessi, si nutrono dei propri giorni, adagio, come per farli durare maggiormente. Quindi rimaneva irritato; il bisogno di discutere, senza rivelarlo, il proprio suicidio, lo tormentava sempre più dolorosamente. I dubbi filosofici, i terrori religiosi della mattina lungo l'argine del fiume, tornavano a sopraffarlo dinanzi a quel prete, che rappresentava la doppia rivelazione della vita e della religione. Egli doveva sapere per aver provato, e perché credeva senz'alcuna incertezza. Lo esaminò. La sua faccia esprimeva una calma senza nessuna vivacità, adesso che la vita era per lui ridotta al minimo; non diceva nemmeno più la messa, tutto si riduceva al pranzo e a quella passeggiata. Eppure era come tutti gli altri; nessuno voleva pensare alla morte. Egli invece fremeva. Dopo aver lasciato impostare quella lettera, un nuovo orgasmo lo aveva obbligato a muoversi, quasi a fuggire, solo nelle strade, per non tradirsi con qualche scoppio irrefrenabile. Che cosa gli importava della vita? In quel momento, pur di finirla subito, avrebbe accettato anche la morte più dolorosa. Era la rivolta degli animali deboli, che trovano nella disperazione il coraggio dell'attacco. Quel prete di una religione, che secondo la gente ha un balsamo per tutti i dolori, non aveva indovinato in lui, non aveva sentito niente nella sua voce! Un sorriso amaro gli contrasse le labbra. Un altro fischio acuto, prolungato, fendé l'aria; s'intesero gli scoppi di un'enorme respirazione che si avvicinava, si vide in alto uno stendardo azzurrognolo di fumo, e il treno passò alla barriera rapido, nero, perdendosi nella campagna, che si assopiva languidamente sotto il tramonto. Don Procopio lo aveva seguito cogli occhi: - Quello sarà sempre giovane, mentre i nostri cavalli, - e si batté una gamba colla canna - non vanno oramai più! Romani era diventato pallido come un cencio; nei suoi occhi sbarrati vi era la fissità dell'agonia, che non vede più o vede già troppo lontano. * * * Non aveva potuto parlarne nemmeno col prete. Questa impossibilità di trovare un'anima, nella quale riversare tutta l'angoscia della propria, gli era diventata uno spasimo maggiore della stessa necessità di uccidersi. Sino dalla notte, dopo la lettura di quella lettera, resisteva all'angoscia di rivoltarsi per terra mordendo qualche cosa: invece aveva dovuto comporsi una maschera simile al volto di tutti i giorni, perché nessuno si accorgesse di quello che soffriva. Gli pareva di essere un sonnambulo, colla coscienza di non poter più uscire dal proprio sogno. La vita seguitava intorno a lui più intensa di prima; la luce animava le cose, l'aria vibrava, alitavano profumi, i rumori salivano dalla terra mescendosi in una sonorità inesauribile, dentro la quale passava un'altra infinità di musiche, mentre la gente affaccendata di sé medesima sembrava non accorgersi neppure del tramonto imminente. Non poteva essere che così. Era come di quelle danze che i più piccoli insetti fanno nei raggi del sole: volano, si riproducono senza posa, in una confusione ardente ed instancabile, e quello che si arresta un istante, cade non visto nell'ombra, sulla terra. Nessuno può fermarsi al dramma o alla morte di un altro, perché il dramma è in tutti, e tutti debbono morire; la pietà è appena un sorriso, che si volge ai feriti capaci di rialzarsi; per quelli che soccombono, la disattenzione previene già l'oblio. Egli stesso non sapeva più che cosa dire agli altri; si sentiva come una di quelle foglie galleggianti nel fosso sotto il temporale del suo sogno: che cosa avrebbe potuto dire una di quelle foglie morte alle erbe dei margini sbattute dalla corrente? Il problema della morte è più lontano e più in alto della vita, dove il tempo dilegua nell'eternità; e quando l'anima s'affaccia nuda a tale problema, se non vi scorge qualche cosa nel buio, ciò vuol dire che la luce della lampada accesa dalla religione in quelle insondabili profondità si è spenta. Il giorno cadeva. Un vapore si distendeva pel cielo, abbassandosi lentamente sull'aria, che si raffreddava; gli oggetti si velavano incertamente, la moltitudine pareva calmarsi. Però le sue voci si facevano più inquiete, tutti i passi si affrettavano. Le grida degli uccelli erano cessate all'improvviso nell'oscurità misteriosa del fogliame: dentro le finestre, prima incendiate dal sole, il buio si era fatto denso come un panno nero, le strade piene di popolo avevano una ondulazione di marcia sotto la notte imminente. Egli aveva oramai finito quel giorno. Le campane della sera disperdevano il proprio gemito nel silenzio delle lontananze, come un'invocazione saliente dalla terra dinanzi al terrore delle tenebre, che stavano per sommergerla. Nell'agonia di tale fine, che non aveva mai avvertito prima di allora, gli parve che la morte sfiorasse tutte le cose. Quanto era succeduto in quel giorno, non succederebbe più, era già perduto irrevocabilmente dove tutto si perde, ciò che fu e ciò che dovrà essere, perché la vita non è appunto che una evanescenza, un suono di suoni, un'ombra di ombre vagolanti in un infinito infinitamente remoto. La sua anima si ravvolse nel lungo brivido di quella solitudine, che solamente il pensiero avrebbe potuto riempire. Poi il crepuscolo si oscurò ancora, le prime stelle spuntarono dalla volta del cielo, mentre per la città si accendevano i primi fanali, fra un mormorio più indistinto di voci, al disopra della folla, che dileguava nella oscurità delle strade. Ma le stelle crescevano sempre nel cielo opaco, troppo grandi e troppo vivide perché la notte potesse appannarle: miriade di mondi viventi di un'altra vita inesplicabile alla nostra, malgrado tutte le rivelazioni della scienza e della fede. Che cosa c'era lassù? Più alto di lassù? Dio? Un minuto dopo la morte, questa domanda sarebbe ancora possibile? * * * Egli soccombeva all'umiltà di un annichilimento finale. La sua volontà si era disciolta al pari di ogni altra cosa nell'ombra, come in un ritorno alla primordiale indeterminatezza dell'essere; non soffriva più. Persino quest'ultimo dubbio, balenatogli più in alto, oltre lo splendore delle stelle, si era spento con tutto quanto moriva intorno a lui, nella dissoluzione della notte. Che importava il motivo della morte, quando bisognava morire? Il medesimo silenzio penetrava in tutti i cuori, la stessa ombra in tutte le teste: non si poteva essere immortali; perché noi pretendevamo dunque di esserlo? Vi era differenza nella morte? Che cosa era il suicidio? Si muore di tutto, tutti si suicidano, giacché ogni gioia troppo intensa, ogni dolore troppo acuto ci costa forse un giorno: qualunque opera ci toglie quella parte di noi stessi, colla quale la compimmo; i nostri figli sono i nostri parassiti sino al giorno che, non potendo più nutrirsi di noi, ci abbandonano per soccombere altrove. In qualsivoglia momento la morte è sempre la stessa: un terrore, un'angoscia, e la soffocazione in fondo. Non ci si pensa, perché tutte le idee adunate intorno alla morte, paradisi, inferni, non riproducono che teatralmente il nostro oggi sullo sfondo di una notte senza domani. Quando l'ora della morte è suonata bisogna rassegnarsi: non è sempre così davanti a tutte le difficoltà della vita? Si chiudono gli occhi, e si ingoia il bicchiere dell'olio di ricino, come fanno i bambini. Una carrozza, che gli passò accanto fragorosamente, coi fanali accesi, gli ridiede la visione del treno sbuffante, fumante, coi grandi occhi sbarrati nella notte, come se venisse contro di lui, e tutta la terra intorno tremasse sotto la violenza del suo impeto. * * * - Vieni con me dalla Marietta: è arrivata una ragazza d'Imola. Romani alzò la testa, Gualtiero Ponti seguitava: - Venturini dice che è bella, vieni con me: poi ceneremo. Ma sebbene la domanda fosse insistente, la voce rimaneva fredda; Romani stava seduto alla cantonata del caffè Rondinini, in quell'ora pieno di gente, sotto il chiarore rossastro dei lampioni a petrolio: tutti erano vestiti a festa. Era la prima ora del passeggio notturno, per la piazza e sotto il loggiato dei signori; le ragazze passavano a frotte negli abiti chiari, sorridendo fra gli sguardi, che le cercavano avidamente. Romani si era seduto, solo, a quell'angolo. Una stanchezza malata aveva finito di vincerlo, dopo tutte quelle corse fuori e dentro la città: si era cacciato per molti vicoli, sino alle mura, che da Porta Pia vanno a Porta Montanara dirimpetto alla linea delle colline, e anche là aveva trovato la stessa gente, coppie di amanti, torme di bambini, crocchi di mamme, e, tratto tratto, un vecchio, che passava come un'ombra nell'ombra sempre più densa della sera. Gli era rimasta negli orecchi la cantilena di alcune voci. - Dove ti sei nascosto oggi, che non ti ho più visto? - ridomandò Ponti. - Ho girato. - Solo? - Così... non sempre, - si corresse, ricordando l'incontro con don Procopio. - Dunque vieni? - No. - Perché? Vieni. - Non ne ho voglia. Sopraggiunse un altro, al quale Ponti fece la stessa proposta, e che accettò. Romani rimase solo daccapo. Perché non aveva accettato? Era stato un rifiuto istintivo, ripugnante, quasi di un ferito, che qualcuno, stupido o villano, invitasse a ballare, poiché gli era accaduto di ricusarsi così nella giornata ad altri inviti, sempre colla stessa sensazione amara di disgusto. Il passaggio delle donne, che talvolta a quell'angolo gli sfioravano quasi il ginocchio colla gonnella, lo tirava inconsciamente ad altri pensieri: qualche profumo vaporante dalle vesti errava nella sera, nomi femminili salivano dai crocchi vicini a lui, mentre al di là della strada, in quel largo dinanzi al loggiato, fra i tavolini, molto signore si erano già fermate, e i camerieri correvano affaccendati, recando o togliendo i bacili. La festa diventava più tentatrice nelle ombre della notte; pochi bambini erano ancora in giro, nell'aria agitata da uno scirocco leggero soffiavano improvvise caldezze. Le donne, quasi belle a quell'ora, avevano nel passo qualche cosa di diverso, un'ondulazione, che gli abiti festivi rendevano più provocante, quindi voltavano il capo allungando i sorrisi, o si chiamavano fra loro a sussurrare una confidenza non difficile ad immaginarsi. Egli si accorgeva di osservare tutto questo intorno a sé. E quell'invito brutale di Ponti gli ritornava più insistente dalla varietà di quella scena trepida di voci e di fruscii femminini. Perché aveva adunque rinunciato? Fra la folla delle donne ne distinse alcune, delle quali in gioventù era stato l'amante: passavano come le altre, sedotte e seduttrici, in quella prima notturna promessa della primavera. Si capiva, si vedeva che la gente, immemore delle proprie sciagure, o magari a cagione di queste, voleva esaltarsi gaudiosamente in tutte quelle sensazioni, che, risvegliate dai rapidi contatti della strada, nei brevi incontri ai caffè, ingrosserebbero a cena fra la crapula dei discorsi e la fiamma dei bicchieri, per irrompere più tardi nei convegni colle donne irritate dalla troppo lunga attesa. Egli stesso aveva fatto così mille volte, senza riflettervi. Conosceva quelle stanze della Marietta, nell'angolo di un vicolo, sopra un'osteria, poco lungi dalla piazza. La Marietta, non ancora vecchia, pareva quasi un uomo alla durezza della fisonomia e con quella voce grossa. Raramente capitava da lei qualche bella ragazza. Se avesse seguito Ponti, non vi sarebbero in due rimasti più di mezz'ora, giacché in quel luogo si entrava e si usciva, avendo preso tra le braccia per cinque minuti una donna incognita, come lungo la strada i carrettieri si arrestano talvolta ad una bettola e vi bevono un litro in piedi, presso il banco dell'oste. Anche Camilla doveva spesso aver fatto come le altre, prestandosi all'amore momentaneo, nel baratto assurdo di un bacio contro uno scudo, senza piacere, senza pudore, senza memoria. Si ricordano forse certe cose e certi appuntamenti? Ma se ciò non fosse, forse la gente impazzirebbe; tutto nella vita ha la propria immagine falsa, l'amore e la gloria, il vizio e la virtù, e quando il sangue fermenta improvviso, o l'anima non resiste più alla visione di sé medesima, si ricorre a queste falsificazioni come ad un rimedio, che placa il male senza ingannarlo e ci lascia, nella prostrazione dello sforzo compito, una più pronta facilità al riposo. Il suo sguardo frugò rapidamente la strada, che da quell'angolo del caffè Rondinini saliva parallelamente al Corso, per vedere se Ponti ritornava, pentendosi già in cuore di non averlo seguito. Tutto quell'incubo di morte, così soffocante da venti ore, gli faceva schizzare dalla coscienza un desiderio acuto, quasi stridente, di gustare anche una volta quel piacere che, falsato, rimane pur sempre senza confronto con alcun altro. Perché resistere? Aveva egli paura che gliene fosse domandato conto dopo la morte? Come quei condannati, cui era tutto permesso nell'ultimo giorno, e che si sentivano prendere subitamente da golosità frenetiche, egli avrebbe voluto adesso una donna a qualunque costo; era quasi un orgoglio di sfida lanciato al mistero della tomba, un estremo impeto di profanazione contro tutto quanto stava per abbandonare. Le stesse contraddizioni, delle quali nel giorno aveva tanto sofferto, gli si mutavano in un bisogno anche più spasmodico di afferrare per l'ultima volta la vita nel suo momento più intenso, e spremerla, col superbo sottinteso della morte, in una sola stretta. Pregustava già una gioia acre nel constatare l'inintelligenza della donna davanti all'orrore imminente di tale tragedia, con quella falsità di carezze sempre uguali nell'amore gratuito o venduto. Sul marciapiede di contro, rasente all'ultimo gradino della grande scalinata, in quel momento passò l'Anitra, una donna di trent'anni, cui il portamento dei fianchi troppo bassi aveva meritato questo nomignolo: era sola, vestita al solito con una certa modestia, malgrado il proprio mestiere di etèra plebea. Si alzò di scatto per seguirla, nessuno gli aveva badato. Dovette passare attraverso molti gruppi di donne, ma dai loro sguardi si accorse subito di essere sospettato, perché andava troppo dritto su quella traccia. Sapeva dove ella abitava: un vicolo remoto, lercio, dal nome purissimo "Delle Vergini": ma l'Anitra rasentò la fontana a sinistra. Si era accorta di lui. Allora egli non osò più accelerare il passo, il pentimento lo ripigliava. Ella proseguiva adagio, con quel suo pesante ondulamento delle anche, che si distingueva bene nell'ombra rotta dai fanali. I capelli neri le facevano un grosso mazzo sulla nuca. La gente si rarefaceva ancora, lungi dalla piazza, l'ombra s'infittiva: egli passò sull'altro marciapiede per essere più libero. - Perché non la fermo? - si chiese, senza saper rispondere. Tuttavia quell'orgasmo gli durava, si sentiva battere il cuore, come altre volte recandosi a qualche convegno passionale; aveva i sensi irritati e quella leggerezza, che il desiderio della donna sembra dare a tutto il corpo. L'altra rivolse la testa. Egli la riconobbe: il suo viso tondo dalle guance troppo rosse, col mento quasi da bambina, gli occhietti chiari. Gli parve di distinguere persino quella riga grassa sotto il collo, la cosa che più in lei gli era piaciuta. - Non ha altro lei! Anche Camilla, che cosa aveva di più? Quando si è eccitati, si farebbero delle pazzie per loro, e dopo non ne resta niente. Le donne sono tutte uguali: Caterina getterà qualche urlo, poi non ci penserà più, come le altre. Gli sciocchi siamo noi, a credere che esse ci amino. Chi ama? Io stesso, che mi sono rovinato per questo, amo forse Camilla adesso? Intanto proseguiva sul marciapiede, sempre alla stessa distanza. Un uomo fermò l'Anitra, che girò ancora la testa indietro; egli si arrestò, mentre i due invece seguitavano innanzi chiacchierando a bassa voce. Allora svoltò al primo vicolo allungando il passo per ritornare in piazza. Erano le otto e mezzo. Improvvisamente, tra quella moltitudine festiva, si ricordò di una biroccia incontrata nel pomeriggio, lungo la strada di circonvallazione, dinanzi al nuovo macello. L'aveva guardata con una sensazione di stupore, poi non ci aveva pensato altro. Era una delle solite biroccie, verniciate di turchino, dalle ruote alte, tirata da un grande mulo secco; un vecchio carrettiere senza giacca le veniva di fianco, con un mozzicone di frusta nelle mani e una pipetta quasi senza cannuccia fra i denti. Egli si era dovuto ritrarre sull'orlo del fosso per non lasciarsi schiacciare, seguendola collo sguardo sino alla svolta della strada, dove il canale si allarga in una immensa pozzanghera. La biroccia, colma di stracci e scossa da un triste tremito di paralisi, pareva tratto tratto stridere lamentosamente sotto il cumulo delle miserie, che le gonfiavano i fianchi. Gli stracci, gettati gli uni sugli altri a palate, si confondevano in un colore sudicio, dentro al quale qualche cosa biancheggiava ancora, un rimasuglio di candore fra tutte quelle immondizie lasciate indietro dalla vita, e nullameno raccolte da qualcuno per viverne. Egli aveva veduto tutto alla prima occhiata, l'aggrovigliamento di quei cenci tessuti con ogni sorta di fibre, lacerati, sfrangiati, coperti di macchie e di croste, che ricordavano altre piaghe, esalandone ancora il puzzo grasso e penetrante. Una polvere cinerea ondeggiava sopra di essi ad ogni traballone senza potersene staccare, mentre la massa, scrollandosi con una mollezza di carne in putredine, rabbrividiva ancora sotto un volo di mosche affamate. E sopra i suoi fianchi, lievi brandelli riaccendevano tratto tratto nel sole qualche pallore di lino o luccicore di seta, tosto soffocato dalla bigia pesantezza degli altri stracci, che si spostavano senza cadere, come se tutte le loro morti vi si tenessero avvinghiate. Una fetida nausea di cadaveri veniva da quella bara, coi segni tuttavia visibili della vita passata, già fermentante nell'ultima dissoluzione. Tutto lì dentro era stato nuovo in altri giorni: quante migliaia di gente vi aveva lasciato il segreto della propria esistenza! Quanto vino, quanto sudore, quante lacrime, quanto sangue vi erano caduti! Quanti sogni vi rimanevano ancora, che sparirebbero nella medesima buca! Dalla camicia della vergine al mantello del soldato, dalla fascia del bimbo al grembiule del beccaio, dalla veste che tutto un popolo aveva ammirato, all'abito che l'accattone aveva lasciato solamente morendo, forse nulla di quanto la vita umana aveva adoperato per nascondere la propria nudità, mancava in quella bara. Il pensiero avrebbe potuto frugarvi senza fine, come dentro un cimitero. Egli ne aveva ricevuto confusamente questa impressione nella fugacità di un istante, poi aveva riflettuto che dovevano essere stracci troppo sordidi per cangiarsi in carta dopo il solito imbianchimento, e destinati quindi come concime a qualche grassa coltivazione. Adesso la visione immonda gli ritornava in piazza come un finale ironico, che conchiudesse quella festa, trattando allo stesso modo gli abiti e coloro che li portavano. Infatti la bellezza nella vita non dura più della primavera nell'anno: uno splendore di qualche mattino, una purità sorridente di cielo, qualche dolcezza nei tramonti, poi il sole brucia tutto daccapo, e l'autunno imputridisce quanto il sole ha bruciato, e l'inverno seppellisce quanto l'autunno ha imputridito. Quella folla di immemori era attesa come lui dalla morte a un gomito improvviso della strada: uno per uno avrebbero provato la stessa angoscia subitanea nel crollo di tutto il passato, davanti alla impenetrabile oscurità dell'avvenire. E vi arriverebbero forse peggio di lui, logori, maculati di putredine come i cenci di quella biroccia, esalando già prima di morire il fetore della decomposizione sepolcrale. Forse valeva meglio andarsene così, ancora intatto, nella pienezza delle proprie forze e del proprio dolore. La gente condanna i suicidi per dispetto della paura, che questi non hanno avuto. Un pensiero bizzarro gli solcò la mente: se la gente, volendo, potesse non morire mai, vi sarebbero egualmente dei suicidi? Qualcuno si ammazzerebbe ancora, per odio della vita? Il problema era troppo profondo nella sua stravaganza, perché egli potesse trovarne la soluzione, ma vi pensò nondimeno qualche tempo. Sapeva che le bestie non si suicidavano, pur essendo esposte a tutti gli stessi mali fisici della umanità. Era dunque l'anima che anelava alla morte, era la mente che si ribellava alla inutilità dello spasimo! Infatti la povera gente, quella che vive più materialmente, non pensa mai al suicidio: non la fame uccide, ma l'umiliazione di mostrarsi affamato fra la gente satolla. Chi nacque accattone, mendica per tutta la vita, e trova forse la felicità in quest'ozio; chi invece è costretto da un disastro a questuare, non potrà mai perdonare né a se stesso né agli altri lo strazio di tale subordinazione. La sua angoscia in quel momento stava appunto nel sentirsi come un mendicante fra la folla allegra e spendereccia, che non gli avrebbe dato un soldo. Essere espulso dal mondo, come sono cacciati i poveri importuni dalla porta, quando si commise l'errore di lasciarla loro oltrepassare! - La carità? - pensava. - Ma, se ci scacciamo l'un l'altro da tutti i posti, se dovendo tutti morire, la morte degli altri non ci tocca nemmeno... Dov'è la carità? Anch'essa è un lusso di certi istanti: si dà qualche cosa, perché la momentanea gioia di chi riceve aumenta la nostra giocondità. È come nei pranzi: ci vogliono degli invitati; ma si amano forse i proprii invitati? Bisogna essere in molti ad una festa di ballo; ma la soddisfazione di ognuno è appunto nel primeggiare sugli altri, vedendoli così segretamente iracondi del piacere loro tolto. * * * Sapeva che non vi sarebbe entrato, ma da venti minuti passeggiava sull'altro marciapiede, dinanzi alla porta della propria casa. La gente si era diradata anche nella piazza, solo nei due grandi caffè, più vivamente illuminati, proseguiva la festa della domenica. Poche donne passeggiavano ancora. Egli si era diretto verso casa, per abitudine: Caterina doveva aspettarlo e, non vedendolo comparire, avrebbe certamente pensato che volesse evitare un nuovo discorso sulla zia Matilde. Lungo la strada notò molte finestre illuminate; era quella l'ora più dolce, dalle nove alle nove e mezzo, quando le donne rientravano, e si andava a cena chiacchierando della giornata, con quella contentezza di non aver lavorato, e non pensando ancora alle necessità dell'indomani. Egli si riproduceva nella mente la scena di Caterina coi fanciulli a tavola; questi volevano senza dubbio l'altra metà della zuppa inglese serbata a pranzo per il giorno dopo, mentre ella, indispettita per la nuova assenza di lui, si ostinava nel rifiuto. Improvvisamente, questo piccolo dolore dei bambini, prodotto dalla sua assenza, gli divenne intollerabile. - La mia assenza! - si ripeté sottolineando questa parola, della quale si era inconsapevolmente servito. Caterina era poi andata dalla zia Matilde? Questa domanda lo forzava a riflettere sull'orario, secondo il quale la posta distribuiva le lettere; ma si persuase subito che la sua non sarebbe recapitata prima delle nove, all'indomani. Chi era il postino, che faceva il servizio per il rione della zia Matilde? Forse essa, riconoscendo la calligrafia, avrebbe aperto la lettera prima ancora che quegli avesse potuto uscire di casa: e allora? In un baleno vide tutto il dramma dopo la propria morte, ma così rapidamente, in una luce così intensa, che non poté sostenerla. Camminava senza accorgersene, a testa bassa, con tale fiacchezza, che qualcuno fra i rari passanti avrebbe necessariamente finito col notarlo; arrivava dal campanile di San Lorenzo, il più alto della città, nel mezzo della strada, sino alla barriera. La notte era stellata, il fiume, ridivenuto quasi secco fino dalla mattina, non mormorava più come nella notte antecedente; i primi fanali del borgo illuminavano sinistramente le alte spalliere del ponte in ferro. A forza di andare su e giù, la coscienza tornava ad assopirglisi nel ritmo stesso di quell'impulso, ma nel passare dinanzi alla propria porta alzava sempre gli occhi. Due finestre v'erano illuminate, quella della saletta da pranzo e, all'ultimo piano, l'altra della camera da letto di don Procopio. Se non che la luce filtrando appena di fra le griglie, diventava impossibile sorprendere nell'interno il passaggio di un'ombra. Si ricordò dei progetti con Caterina nel primo periodo del matrimonio per un restauro alla facciata della casa: sarebbe stata una spesa di quasi duemila lire, alla quale avevano rinunciato senza fatica. Caterina invece avrebbe desiderato di accomodare qualche stanza nel podere a Santa Lucia in Vado per potervi villeggiare di qualche guisa nell'estate. Anche quello era stato un sogno impossibile. Tutto dileguava, per sempre! Si dovrebbe vendere ogni cosa dopo, quasi subito, in mezzo a una disperazione piena di rimproveri contro di lui: eppure egli non ne soffriva più in quel momento. Come se il grande distacco si fosse già compito, vedeva tutto a una distanza troppo grande, con quella indifferenza che ci lasciano le cose impossibili alla nostra volontà. In lui non sopravviveva che l'abitudine, quel fascio di rapporti indefinibili, onde l'uomo è legato alla propria casa, quella incapacità di pensare sé medesimo in modo diverso dal come si è vissuti, tutte quelle impronte incancellabili, colle quali la vita compose la nostra fisonomia spirituale. La casa, con quanto vi stava dentro, era come una parte di lui stesso. Il tempo passava. Quella passeggiata lenta, uguale, aveva finito coll'attrarre l'attenzione delle due guardie daziarie sedute al fresco fuori della gabella; si erano alzate e lo spiavano. Allora egli diè volta bruscamente, ma quando fu al campanile non seppe andare oltre. Voleva vedere quella finestra ancora una volta. L'orologio della piazza sonò le dieci e un quarto, il lume passava sempre attraverso le griglie: allora si ricordò che Caterina soleva spesso la sera ripassare la lezione dell'indomani a Ada. - Finché c'è il lume non me ne vado, - borbottò ostinatamente. Ma le guardie si erano messe a passeggiare, e venivano verso di lui: dovette tornare indietro. Per un momento pensò di salire con un pretesto, salutare tutti e scappare; titubava, si sentiva affranto. Ritornò ancora, ma siccome le guardie stavano ferme in mezzo alla strada, a quaranta passi dalla gabella, fumando, si persuase di essere sorvegliato. Quasi ciò potesse distogliere i sospetti, traversò la strada per venire sull'altro marciapiede, volgendo daccapo la schiena alla propria casa. Poi un passo sollecito gli risuonò dietro. - Oh tu, Romani! - Tu, Landi? - Esci di casa? - Sì. - Io non ho potuto cenare a casa mia: un'altra scena con quella linguaccia di mia moglie! Vado al Falcone, accompagnami. * * * Aveva già bevuto due ponci, seduto all'ultimo tavolino di sinistra nella prima sala, col gomito appoggiato sulla cassa di vetro, nella quale si conservavano le paste. Gaudenzi, l'impiegato del telegrafo, non si era ancora veduto, l'avv. Guglielmi doveva essere al club, quel vecchio maestro chiacchierino giocava nell'altra sala, e s'udiva spesso la sua voce in falsetto salire fra scoppi di risa. Una malinconia fredda gli era penetrata sino dentro le carni, come certe umidità notturne, contro le quali non sembra giovare alcuna bontà di panni. Nel caffè, pieno degl'insoliti avventori domenicali, il chiasso cresceva più villano; erano gruppi di artieri in gazzarra dal pomeriggio, vestiti con pretensiosità plebea, dalle faccie inintelligenti e vanitose. Quasi tutti portavano un piccolo cappello a cencio sull'orecchio, e tentavano sui divani o sugli sgabelli la posa più provocante, giacché pareva loro una specie di conquista quel bere ai tavoli, dove per solito sedevano i signori. Nei loro discorsi, quasi tutti di politica, ritornava sempre la stessa frase con voce sempre più alta, o con accento più marcato, mentre in fondo ai loro sguardi vaghi nel primo imbambolimento dell'ebbrezza, s'accendevano piccole fiamme. E i più irrequieti si guardavano intorno, cercando qualcuno dall'aspetto signorile per la compiacenza di potersi momentaneamente, davanti a lui, mostrare in una ostilità mimica. Egli vedeva tutto questo senza che alcuno gli badasse, perché non era mai stato veramente un signore. Colla testa abbandonata sull'alta spalliera rossa del divano, una mano in tasca, osservava i cerchi di fumo turchiniccio allontanarsi, dilatandosi lievemente dalla punta dello zigaro, nell'aria già greve di tutti quegli aliti. Al momento di entrare sotto il loggiato aveva rivolto la testa verso il grande orologio della piazza, illuminato: segnava le dieci e mezzo. Le ore, così lente nel giorno, si erano tuttavia involate con una rapidità raccapricciante. Si tastò la rivoltella nella tasca sinistra della giacca, pensando un'altra volta, con un senso d'impazienza, come non avesse incontrato né lo strozzino, né il signor Bonoli, né il pretore, che dovevano conoscere il suo dramma. Credeva che la loro vista sarebbe bastata a raddoppiargli l'energia, almeno per quella necessità d'ingannarli sino all'ultimo col fingersi indifferente. Invece, per tutta quella lunga giornata, nulla era venuto ad aiutarlo: aveva recitato troppo bene dissimulando. La sua fine doveva compiersi come per qualunque altra malattia, senza né ricevere né dare ad altri alcuna insolita emozione. Perché? A che cosa serve la morte? Perché era nato? Se non vi erano perché, tale infinita inutilità diventava il più profondo dei misteri. Nel bisogno di scostarsi dall'ultimo momento, il suo pensiero fluttuava daccapo all'urto delle sensazioni, che gli si rinnovavano nella memoria. Il babbo e la mamma, pieni per lui di tenerezza, lo avevano allevato in un bel sogno di avvenire, addormentandosi per sempre nella tristezza sconsolata di una disillusione finale; egli aveva amato i proprii bambini, rifacendo sopra di essi il medesimo sogno. Perché? Questa parola lo sbalzava da un altro lato; Camilla era passata una sera dinanzi a lui, si erano parlati, egli aveva provato un rimescolamento profondo, non aveva capito più bene, si era rovinato per lei senza accorgersene, e senza che ella se ne accorgesse. Perché? Lo strozzino, d'accordo col signor Bonoli, aveva portato la sua cambiale falsa al pretore: volevano mandarlo in galera? Volevano costringerlo al suicidio? Perché? Che cosa importava loro? Era così. Tutte le vite si rompono come bicchieri l'uno contro l'altro, senza che alcuno abbia mai potuto leggervi la marca di fabbrica, o indovinare chi verrà a raccoglierne i cocci. Solamente allora si accorgeva di aver sempre agito senza un perché; tutta la sua esistenza non aveva un solo atto necessario, che la spiegasse, all'infuori dell'avere mangiato e dormito, due bisogni istintivi per mantenerla. Il resto rimaneva inesplicabile. Camilla e Caterina erano entrate nella sua vita quasi allo stesso modo, egli non aveva riflettuto in nessuno dei due casi; era diventato padre così, perché le donne rimangono gravide, ecco tutto, e aveva allevato i figli per un altro istinto. Gli affari, i divertimenti dipendevano sempre dalle circostanze, anche quando si voleva combinarli con ogni studio possibile: perché dunque si pensava e si soffriva tanto? La sua mente ritornava alle meditazioni della mattina su quell'argine del fiume, nel silenzio della campagna, con un nuovo terrore degli stessi problemi. Ma invece di domandarsi se Dio era, e come ci giudicherebbe nel momento dopo la morte, si sentiva sopraffare dal mistero primordiale della vita. La nozione, per lui oscura ed inevitabile, di un creatore, non faceva che rendere ancora più inintelligibile il quesito: perché si nasce? Anche se Dio esistesse, e dovesse punirci o premiarci dopo morti, la ragione di averci voluto in questo mondo non si vedeva. Se egli era Dio, che cosa poteva importargli di noi? La nostra vita non spiegava sé medesima, mentre l'antagonismo fra la sua legge e la nostra volontà, per lui che ne doveva sapere anticipatamente il risultato, diventava una ridicolaggine. Che bisogno c'era di nascere, per dover pensar sempre senza capire nulla di nulla, soffrirne di tutte le sorta, e morire non avendo compito niente? Essendo cattivi, aggraviamo l'uno contro l'altro le nostre disgrazie, essendo buoni, ci aiutiamo scambievolmente contro il male che non abbiamo fatto, ma che ci tocca patire ad ogni modo. E davanti a questa tenebrosa fatalità del male, che si varia nella vita per tutta la gamma del dolore, dalla più lieve fitta corporea alla più larga lacerazione spirituale, egli tornava sempre a chiedersi, con l'insistenza spaventata di un bambino: perché si nasce? Un terrore fantastico gli faceva pensare a qualche potere mostruoso, che dirigesse il mondo e vi rinnovasse continuamente tutte le crudeli necessità: così i viventi dovevano divorarsi a vicenda per mangiare, e straziarsi l'un l'altro per godere. Infatti, non vi era gioia nella società, che non fosse un dolore per qualcuno; non nasceva nel mondo un individuo, senza essere composto coi resti di altri morti, non si poteva respirare, senza uccidere milioni di microbi, senza inghiottirne altri milioni, che dovevano ucciderci. La legge suprema era dunque la morte: nessuno vi sfuggiva, nessuno aveva torto o ragione davanti ad essa. L'immaginazione esaltata da quella crisi troppo lunga, gli si smarriva in una continua evanescenza di quadri orribili, che mettevano in quel suo sonnambulismo una specie di incubo. La sua faccia era diventata bianca, cogli occhi fissi, mentre il chiasso delle voci e il tinnìo dei bicchieri nelle sottocoppe e nei bacili cresceva sempre da tutti i tavoli. - Ho qualche cosa sullo stomaco, portami un bicchierino di cognac, - disse. Il cameriere si affrettò sorridendo; il padrone, bell'uomo, già cameriere nello stesso caffè pochi anni prima, si accostò fumando in una elegante pipa di schiuma, a testa di cavallo. - Che cosa ha mangiato, signor Romani? - gli chiese cortesemente. - Non lo so neppur io. - Forse dipende anche da tutta questa gente! - l'altro soggiunse a bassa voce, girando intorno un'occhiata di disprezzo. Si era seduto famigliarmente sopra uno sgabello accanto a lui. - Questa sera la sua partita è andata a monte. Ha letto la nuova appendice del Secolo ? - e si allungò per prendere dal banco un fascio di giornali: - a me pare bella assai. Romani rimaneva distratto. - Ecco Montalti! - esclamò il padrone, vedendo entrare quello scrivano storpio, che venne diritto al loro tavolo; poi capitò Cavina, il muratore wagneriano; Rotoli, il vecchio maestro chiacchierino, che aveva finito la partita nell'altra sala, si fermò anch'esso dinanzi a loro. Era quasi la stessa conversazione di tutte le altre sere. Il padrone ricominciò il discorso sul nuovo romanzo del Secolo - Idillio tragico -di Bourget, spiegando come gli paresse bello, perché Montecarlo vi era dipinto colla massima esattezza. Egli vi era stato, da giovane, nelle proprie peregrinazioni di cameriere. Ma lo scrivano, socialista malcontento, protestò: quello era un romanzo aristocratico, buono a nulla, giacché gli scrittori di vero ingegno non potevano occuparsi che delle miserie popolari. - Ho letto anch'io qualche appendice di questo nuovo romanzo del Bourget, - e pronunziò il nome come era scritto. Allora Cavina lo corresse, corsero frizzi. - Tu sei un wagneriano. - E me ne vanto. - Wagner era socialista. - Va! se daranno il Lohengrin in carnevale, vedrai quanto popolo vi andrà, - ribatté l'altro, che intanto aveva preso il Secolo per leggere le notizie dei teatri. Fortunatamente nessuno di loro si sentiva in vena quella sera, poi vi era troppa gente nel caffè, e Montalti davanti alla brutalità di quelle sbornie, che stavano già per scoppiare, non osava i soliti sproloquii. La voce fessa e la sillabazione troppo staccata e monotona, colla quale declamava, gli avrebbero attirato dal pubblico qualche villana interruzione. Si misero a parlare di donne: anche Cavina quella sera era stato in casa della Marietta. - La ragazza era bella? - chiese Montalti con un luccicore di gatto negli occhi. - C'è ancora, parte col diretto di un'ora dopo mezzanotte. Romani si voltò: - E dove va quel treno? - Bella! a Bologna. Rimase perplesso: - Ci sono altri treni? - Prima di giorno? Quello che da Bologna ritorna per Ancona alle tre, e l'altro che arriva da Ancona verso le quattro e mezzo, perché rimane ancora impedita la linea di Porretta. - Ah! - Deve partire, signor Romani? - gli si volse il padrone. - Sì, - e la voce gli si era fatta quasi dolce. - Dove vai? - domandò Cavina. - Non lo so. - Un mistero dunque? - Grande. Tutti sorrisero. Ma il baccano domenicale li teneva in disagio. Lo scrivano, malgrado le declamazioni socialiste, sapeva di essere poco gradito; Cavina era sospettato di aristocrazia per i modi abbastanza garbati e quella istintiva predilezione della grande arte, che lo traeva imprudentemente a ridere delle commedie e delle musiche gustate dal popolino; il vecchio maestro, benché simpatico per la dolce ingenuità del carattere e l'onestà della lunga vita, s'irritava troppo, nella lieta viridezza di tutte le proprie forze, contro ogni critica alla parte moderata. Egli era rimasto dentro la formula cavourriana, condannando ad alta voce tutti gli eccessi politici e le demenze atee dei nuovi rivoluzionari. - Eh, maestro! - esclamò Cavina; - ecco qui altri due suicidii a Torino; non c'è più religione. - Voi lo dite per ischerzo, giovinastro. - Come si sono ammazzati? - domandò Romani. - Uno si è avvelenato, l'altro si è gettato sotto il treno. E Cavina lesse i due incisi di cronaca, secchi, terribili. - I giornali non dovrebbero nemmeno stampare certi fatti, - disse il maestro: - le teste leggere si esaltano e, una volta esaltate, li commettono più facilmente. - Allora io sono una testa pesante. Possono raccontarne dei suicidii, io non mi suiciderò mai, - replicò Cavina. - Chi può dirlo? - ribatté Romani. - Io! Stai pur sicuro. Ammazzarsi per amore o per debiti, giacché la gente si ammazza quasi sempre per queste due cause? Per amore? Se una donna non ti vuole, ve ne sono sempre troppe disposte a prenderti; e quanto ai debiti, aspetterò che si ammazzino prima i creditori. Se io non ho quattrini per pagarli, mi pare che nell'imbarazzo ci siano essi. Si rise. Romani non rispose. - La gente si ammazza, perché la società è in isquilibrio, - sentenziò Montalti. - Si è sempre ammazzata in tutti i tempi, dev'essere una malattia. - Colpa di non credere in Dio; la nostra vita ha il suo scopo altrove. - Quale? - domandò Romani al maestro. - Quale? - ripeterono ad una voce Cavina e Montalti. - Dio..., - cominciò il maestro. - Non deve aver parlato molto chiaro, - interruppe sorridendo il padrone, - perché si discute ancora su quello che ha detto. Fatto sta che, quando la gente sta male, se ne va; non c'è altro di evidente. Nessuno può dire che non si ammazzerà... le circostanze sono tante! Tutti si arrestarono perché, pochi mesi prima, l'altro suo socio nel caffè si era appunto suicidato con un colpo di rivoltella alla tempia destra. Però Montalti, che voleva sempre dire l'ultima parola scientifica, propose il problema: - Quale categoria di persone dà minor contingente al suicidio? - I preti, perché stanno meglio di tutti, - si affrettò a rispondere il padrone. - I milionari, - ribatté Montalti, con quell'acre accento d'invidia, proprio a quasi tutti i socialisti quando parlano di signori. - T'inganni; c'era appunto venerdì sul Secolo un articolo, non ricordo più di quale scienziato, che spiegava come le probabilità del suicidio aumentino in ragione della ricchezza. - Non può esser vero, - si ostinò Montalti. - Lei, maestro? - tagliò corto il padrone. - Coloro che non sentono più la religione. - Lo sapevo... Romani doveva dire ancora la sua, ma dal tavolo prossimo due o tre operai si erano voltati, udendo il quesito, ed ascoltavano le risposte. Uno proruppe: - Lo dico io: i beccamorti! essi sanno meglio degli altri che la morte è brutta: la morte è come una donna, ma finché non ci pare bella, non commettiamo la sciocchezza di sposarla. - Bene! - fu gridato in coro. - Un bicchierino a Matteo! - Questo voglio offrirlo io, - disse il padrone alzandosi: - mi sei piaciuto nella risposta. * * * Guardava il grande orologio nero fra le due scansie gialle, al disopra della porta. Gli altri se n'erano andati in gruppo, e a poco a poco quasi tutti i tavolini erano rimasti deserti, mentre l'aria della notte, entrando leggera dalla bussola spalancata sul portico, spazzava i vapori dei ponci e dei sigari. Dal fondo della cucina giungeva, tratto tratto, un tintinno dei bacili e dei bicchieri, che il facchino lavava forse per la centesima volta nella giornata. Collo sguardo fisso sul quadrante dell'orologio, egli misurava il muoversi lento della grande freccia, che segnava i minuti; ne mancavano undici a mezzanotte. A quell'ora in punto uscirebbe dal caffè. Il sangue gli batteva a grosse ondate sul cervello, facendogli vacillare la vista. Adesso era quella paura materiale, che i nervi non possono più sopportare nella estrema imminenza della catastrofe, quando il pericolo cessa oramai di esser tale per il compiersi stesso del fatto. Non c'era più tempo di riflettere, di soffrire: fra pochi minuti sarebbe entrato nell'orbita della esecuzione. Quindi tutto quanto aveva patito nel giorno gli si condensava in uno spasimo solo, attanagliandogli ogni fibra del corpo e dell'anima; sentiva, dentro, un incalzare di sensazioni, una ressa di idee, uno sbaraglio di memorie, come quando un falco piomba sopra una nidiata di pulcini e ne ghermisce uno a volo, risalendo al cielo con un solo colpo d'ala, e tutti gli altri si sbandano esterrefatti fra le erbe alte del campo. Il suo sguardo era diventato così acuto, che distingueva veramente quel minimo spostarsi a gradi delle frecce. Tutta la sua vita stava ancora in quel piccolo segmento, interrotto dalle cifre nere e madreperlate del X e del XI, due spazi che si sarebbero riempiti con due dita. Non aveva altro. Avrebbero potuto offrirgli chi sa che cosa, e non sarebbe bastato ad allungargli di un altro dito la vita. Il padrone era tornato dietro il banco, e si era messo a contare dei soldi da una scodella di legno. Romani pensava: - Non ho più che otto minuti. La freccia gira senza sapere il perché, ma se sbagliasse, il tempo passerebbe egualmente nella stessa misura: non si può fermarlo. Ecco qui, questi ultimi otto minuti sono inutili, vuoti, come tutto il resto della mia esistenza! Che cosa posso fare? Rimango qui, non mi muovo, eppure il tempo mi trascina. Debbo finire prima di essere logorato: quando l'orologio si ferma, è forse logoro? Finirò così; una ruota che s'incaglia, e la freccia si ferma. Anche la vita è un circolo come quello dell'orologio: tutte le ore sono identiche, non significano nulla; il tempo non è soggetto all'orologio, più che la vita non dipende da noi. Potrei essere il più potente uomo del mondo, e tutta la mia volontà non saprebbe da questo posto arrestare quella freccia, che va sempre... È già passato un altro minuto. Debbo essere pronto. Si portò ambo le mani al volto, strofinandoselo violentemente come per destarsi. Nel caffè entrò un altro gruppo d'operai, più avvinazzati di quelli che n'erano usciti, ma per fortuna si fermarono in fondo agli ultimi due tavolini presso la bussola. Vide il padrone uscire dal banco e passargli dinanzi per servire prontamente i nuovi avventori, perché i camerieri erano in quel momento nel retrobottega. - Debbo decidermi! Non capiva che questo, la necessità ultima, la stretta suprema, senza nome, nella quale già soffocava. Tutto il resto non esisteva più. La febbre gli faceva battere i polsi, tremava in quell'incertezza dello smarrimento finale, che toglie tutte le direzioni, pur sentendosi nel profondo certi impeti, simili ai guizzi della candela che si spegne. Aveva appoggiato la testa sopra ambo le mani, per non guardare più l'orologio; gli pareva di ascoltarlo, benché non l'udisse. - Appena mi alzo di qui, sarò morto! Caterina, i miei bambini saranno già altre persone; adesso sono ancora mia moglie e i miei bambini... per cinque minuti. Poi, più nulla. Non c'è altro. Ho fatto il possibile inutilmente; quella prima cena all'Aquila d'oro mi ha ammazzato, mi ha ammazzato quella donna, che non ho amato; non la conosco nemmeno, adesso, ella non mi conosce più. Domani ci sarà ancora il sole, senza di me. Non ho più che due o tre minuti... È impossibile, sento che è impossibile, non avrò mai il coraggio di uccidermi! Non lo aveva: la testa gli pesava sempre più sulle mani, come una cosa morta. Si tastò ancora la rivoltella nella tasca. - Con questa, no. * * * Il medesimo gruppo, dal quale Matteo si era voltato per dare anch'egli la propria soluzione al problema proposto da Montalti, rientrò vociando nel caffè; erano stati a bere nella liquoreria sotto il campanile della piazza, e ritornavano per bere. Parve che vedendolo ancora a quel posto, si decidessero unanimemente, senza consultarsi, con una di quelle intese da ubbriachi, a gettarsi sul suo tavolo. Egli spaventato si alzò. In un lampo aveva veduto sulla faccia di Matteo, invanito di quella prima risposta, l'intenzione di riparlarne; si voltò verso il banco, ma era già tardi. Il gruppo lo circondava; avevano gli occhi imbambolati, e sui volti madidi quella espressione vaga di spavalderia ostile. Il padrone ripassò dietro il banco, mentre uno dei più briachi cadeva quasi di peso sopra uno sgabello borbottando: - Cognac! - Beva un bicchierino con noi, signor Romani; ho risposto bene poco fa, non è vero? - Mi sei piaciuto, Matteo, - tornò a dirgli il padrone con accento di sottile canzonatura: - bisogna bere per trovare simili risposte. - Adesso vogliamo bere tutti insieme; anche lei, signor Romani. In quel momento Romani vide le freccie dell'orologio sovrapporsi segnando mezzanotte; così in piedi, n'ebbe come un colpo di martello sul cuore, ma avvertiva ancora benissimo quanto gli accadeva intorno. Senza rispondere, fece atto di andarsene. - Questo poi no, - insisté un compagno di Matteo, mentre il padrone diceva: - Se ne va, signor Romani? - Addio, Enrico! - rispose questi tendendogli la mano. L'accento e la forma del saluto erano così insoliti, che l'altro ne rimase sorpreso, però fu pronto a stringergliela. Romani si mosse: allora Matteo volle sbarrargli la via, ma l'altro lo respinse con un gesto. Si alzò un mormorio di disapprovazione. - Va là, - uno gli gridò dietro, - che anche tu sei un bel signore, per fare così l'aristocratico! Il padrone, invece, gli teneva dietro con occhio pensoso, avendo sentito la sua mano tutta bagnata di un sudore diaccio. * * * Romani traversò il portico con passo tentennante, e si fermò nel largo, davanti alla fontana. La notte era sempre bruna, ma piena di stelle, i fanali avevano un chiarore pallido, velato, come il murmure della fontana chiusa entro quella funerea cancellata a palle di ottone. - No! - rispose ad un pensiero, che lo avrebbe condotto a porta Appia, passando ancora una volta sotto le finestre di casa. Pel loggiato, e per quel largo, non si vedeva alcuno; abbassò la testa, e si avviò verso il corso Garibaldi, che conduceva difilato alla vecchia stazione ferroviaria. Una forza oscura lo spingeva in linea retta, come una cosa, mentre la sua mente acquistava, grado a grado, una certa lucidità: come sempre, la fascinazione della meta lo aveva preso, appena entrato nell'orbita della esecuzione, eccitandogli quel coraggio fisico proprio degli animali. Nella luce opaca della notte le case perdevano i piccoli particolari delle proprie fisonomie, le sonorità anche più lievi sembravano attardarsi nell'aria. Egli sentiva solo di andare, appoggiandosi come sulla sensazione medesima del proprio passo sul marciapiede, così che, nel passare dinanzi ad ogni porta, l'interruzione del muro gli faceva un'impressione meno rapida e tuttavia lontanamente simile a quella degli alberi fuggenti agli sportelli dei vagoni, quando il treno corre veloce. Prima di arrivare alla grande barriera fiancheggiata da due casotti giallognoli, rigati e rabescati come due grandi gabbie da canarino, verdeggiava sul piazzale di una chiesa un piccolo giardino dominato da un alto abete storpio alla cima. Il getto esile della fontana, sprizzante da un sasso e ricadente sopra una minima vasca, sembrava un singulto di bambino nella notte: un ranocchio mise uno strido gutturale e tacque subito. Nessuna finestra era illuminata. Il cancello della barriera apparve alto, massiccio, coi lampioni sulle due grosse colonne centrali; al di fuori nereggiavano i tigli dei due viali fra le case del sobborgo. Egli vide da lontano la guardia passeggiare, fumando uno zigaro, dinanzi alla gabella; nella notte nessun rumore, nessun incontro. La guardia gli aperse colla chiave il piccolo cancello a sinistra, pel quale passavano i pedoni, e rinchiuse. Egli ne risentì la scossa, l'ultima che gli dava la città; piegò a sinistra per la via di circonvallazione, lungo il canale fiancheggiato da due alte file di pioppi bruni, ombrelliferi. L'aria era più fresca, il silenzio diverso: cori di ranocchi si rispondevano a distanza nella notte, passavano dei brividi nell'aria, qualche fronda dormendo pareva percossa da un'ala fuggente, un odore di terra e di verde saliva da per tutto. Egli allentò il passo. Sapeva che avrebbe preso per la scorciatoia del Borghetto, prima d'arrivare al nuovo macello, per salire l'argine sinistro del fiume, presso al grande ponte della ferrovia. La distanza dalla barriera al Borghetto era breve; sulla sinistra sorgevano alcune case nuove di fabbri, di falegnami, di piccoli bottegai, il commercio dei quali viveva appunto non pagando dazio. Egli andava sempre innanzi spinto da quella forza oscura, che in noi sembra sostituire la volontà, quando questa non è più sufficiente a dirigere la vita. Il sonno della campagna era però meno profondo che quello della città: le piante sognavano, e la loro respirazione e i loro fremiti turbavano l'aria; miriadi d'insetti, amanti o lavoratori notturni, vi si muovevano, la terra medesima non aveva quella insensibilità dei selciati e dei marciapiedi. I suoi occhi perdevano la fissità atonica, la frescura tornava a vivificargli la pelle. Improvvisamente gli apparve davanti la vasta pozza, nella quale si allargava il canale, immota come un grande antico specchio appannato; le due righe dei pioppi nascondevano le mura della città. Il Borghetto, formato da un solo vicolo, aveva un unico fanale in fondo: vi passò. La strada, pessimamente selciata, sfiancava, avvallando, per un sentiero fra un'alta siepe e un ruscello, poco più largo di un fosso. Odori immondi e penetranti crescevano appunto dove finivano le case. Dovette badare al come poneva i piedi per non cadere; l'argine s'alzava di contro. La sua linea, biancheggiante pel sentiero che le orme vi avevano impresso e che l'erba orlava scuramente, spiccava nello sfondo dell'aria, simile ad una larga striscia d'argento. Quando vi fu salito, abbassò gli occhi sul fiume vacuo, del quale i grandi archi del ponte in pietra e laggiù la spalliera dell'altro in ferro nascondevano le estremità, quindi si volse contro le mura. Solo la chiesa di sant'Ippolito col suo campanile, e l'altro di san Lorenzo e quello della piazza si distinguevano bene: il resto era una massa cupa, incerta, nell'ombra. Egli n'era già fuori per sempre. E allora gli parve, stando fermo, che la città si allontanasse, oscillando lentamente dinanzi a lui. * * * La notte era bruna. Nell'aria vagavano sentori di foglie e quell'indefinibile aroma, che la terra fecondata sembra alitare nel maggio: l'erba era umida, le stelle brillavano sul silenzio notturno pieno di sussurri. Dentro al fiume larghe pozzanghere s'illuminavano tratto tratto di tenui chiarori, mentre laggiù, sul ponte di ferro, i lampioni parevano contigui, e più lontano l'ombra oscillava. Oltre gli argini del fiume non si coglieva che un avvallamento della tenebra in una invisibile profondità, dalla quale si sentivano salire le preoccupazioni terrifiche della notte. Le linee del paesaggio, circoscritto dagli argini e dai ponti, si confondevano oscuramente, pur serbando lo stesso aspetto regolare intorno a quella cavità del fiume, rimasto senz'acqua e senza voce. Non si vedevano case: solo il ponte della ferrovia aveva un biancicore roseo di muro, sulla cima del quale fantasticamente alto, guardava nella notte il grande occhio rosso del disco. Egli vi si incantò. La colonna di ferro sotto il disco si distingueva appena, giacché il piano della ferrovia, sfuggendo dai parapetti del ponte, vaniva esso pure dinanzi a quella enorme pupilla rossa senza una oscillazione. Così ebbe daccapo paura: i fanali lontani dell'altro ponte in ferro sparivano nella loro chiarezza come dentro un bagliore, mentre quel rotondo occhio rosso non illuminava, e vedeva e doveva essere visto ad un'immensa distanza, come una scolta ciclopica sulla ferrovia deserta nella notte. Era rimasto in piedi, inchiodato sul sentiero biancastro. Dal ruscello, che per una larga chiavica passando sotto l'argine sboccava nel fiume, la nota tremula di un rospo s'interruppe timidamente; gruppi lontani di ranocchi gracidavano con violenza, coprendo un vocìo sottile di grilli, che si confondeva d'intorno. Dopo aver guardato da ogni canto si voltò ancora verso la città; dietro la sua lunga massa, bruna come una scogliera di notte, pallidi chiarori sembravano uscire da invisibili cavità; ma non pensò più che egli era vissuto là dentro per trentasei anni. Solamente guardava. * * * Sul ponte della ferrovia il casello del guardiano era illuminato; egli strisciò guardingamente lungo il parapetto pel sentiero lasciato dall'alta ghiaia, sulla quale poggiavano le rotaie, affrettando il passo per non lasciarsi sorprendere, giacché si ricordava come fosse severamente proibito di transitare per le linee della ferrovia. Non sapeva se il guardiano avrebbe fatto la ronda d'ispezione prima dell'arrivo del treno, ma quel divieto bastava in tale momento a fargli paura. La strada ferrata si allungava dinanzi a lui dritta, piana, nera, con quei due regoli sottili, in una uniformità e in un silenzio inesprimibile: nessuna traccia, nessun suono, nessun segno. Aveva voltato la schiena al disco, e scorgeva dinanzi a sé per cento metri un filo luminoso sulla costola interna delle rotaie; null'altro. Quel piano troppo stretto gli limitava la vista, mentre una impressione gelida gli veniva da quelle due rotaie inamovibili, che non si sarebbero toccate mai. Di qua e di là della strada i campi bassi s'affondavano in un'ombra più densa, dentro la quale si distinguevano appena i ciuffi dei primi grandi alberi. Ma i suoi occhi guardavano sempre sulle rotaie quel tenue filo luminoso, che sembrava avanzare con lui. Finalmente era solo. A quell'ora, in quel luogo, per quella strada non passava alcuno; sentì di non essersi mai trovato in una solitudine simile. Vedeva la ghiaia tersa, quasi vi fosse stata posta da poco tempo, e le rotaie luccicargli dinanzi, brunite. Quindi si ricordò di esservi trascorso in vagone molte volte, di notte e di giorno, senza prestarvi attenzione: chi guarda alla ferrovia? Gli occhi sfuggono sul paesaggio che scompare. Adesso invece la solitudine di quella strada, così diversa da tutte le altre, l'opprimeva. Si fermò al quinto palo del telegrafo, volgendosi indietro, verso la stazione. Incontrò il grande occhio rosso del disco fiso sopra di lui, e laggiù un riverbero largo d'incendio prossimo a spegnersi gl'indicò il luogo della stazione. Pareva molto più lontano che non fosse. D'un tratto, nel silenzio della notte, udì il grosso orologio di sant'Ippolito battere le ore dal campanile; le contò rattenendo il respiro. - Due quarti dopo mezzanotte, - esclamò voltandosi istintivamente verso Forlì, donde doveva giungere il treno. * * * Dall'altro lato della strada un'ombra passò con una lanterna nella mano; istintivamente egli girò dietro il palo del telegrafo, abbracciandovisi per non scivolare dall'alta ripa, e tenne il fiato. La lanterna nell'allontanarsi lentamente allungava un riverbero oscillante sulla vicina rotaia, si udiva la ghiaia stridere sotto un passo pesante. Era la ronda del guardiano; dal fondo della notte doveva presto spuntare la prima luce del treno. Il guardiano vigilava, secondo il solito, quel tratto di linea di là del ponte, perché non vi accadessero disgrazie; a un certo punto la lanterna di un altro guardiano avrebbe risposto alla sua, e il disco muterebbe il proprio rosso ardente in un vivido color verde. Romani sapeva tutto questo, giacché in una bella notte d'estate, l'anno prima, se lo era fatto spiegare dal guardiano sul ponte, ove aveva fatto sosta con alcuni amici. Quella notte gli risorse nella mente coi più minuti particolari; si ricordò dell'immenso soprabito biancastro, una meraviglia fra gli eleganti del paese, che allora portava Mario Angelini. Anche questi era morto. Ma una paura lo tenne nascosto, così abbracciato al palo, togliendogli ogni facoltà di ragionare; aveva pensato che il guardiano nella propria ronda potesse passare dal suo lato, e allora scoprendolo gli avrebbe necessariamente intimato di andarsene. Che cosa rispondere in questo caso? Avrebbe l'altro indovinato il vero motivo? Il palo ogni tanto vibrava, percosso da tremiti improvvisi. Era un dispaccio che passava irresistibile, invisibile sul filo, o una oscillazione, che questo, mosso dall'aria della notte, imprimeva al palo? La sua attenzione rimase per qualche tempo divisa fra il brontolio interno del palo e il luccicore saltellante della lanterna già molto lontana. - Ritornerà dal mio lato? Lo credette istantaneamente, quindi svegliandosi come da un sogno, che quel ritorno avesse già rotto, si disse: - Me ne vado. Nuovamente tutto dipendeva da questo caso. Un'angoscia di speranza lo soffocò, accorgendosi della vivezza dei raggi che la lanterna retrocedeva; sarebbe bastato che un suo bagliore traversasse la strada e gli battesse sul viso ad impedire la disgrazia, per la quale appunto si ordinavano le ronde. La lanterna si avvicinava sempre. Allora tornò a tremare di essere scoperto, ma, per una reazione quasi di collera contro sé medesimo, si mise di sbieco, perché lo spessore del palo lo nascondesse meglio. Voltandosi, laggiù, vide una luce. * * * Era il treno, ma non era ancora che una fiammella misteriosa nella notte. Pareva immobile, tutto rimaneva immoto intorno, il guardiano era scomparso dentro il casello: nel silenzio tranquillo dell'aria non un soffio, il fiume taceva. Un brivido del palo gli passò per tutto il corpo facendolo tremare a verga a verga, mentre, laggiù, quella fiammella rimaneva sempre così piccola e ferma. Un impeto freddo gli raggomitolò l'anima in uno di quei terrori sùbiti, senza nome, dei sogni. E strinse violentemente il palo guardando. La fiamma appariva rossastra come in un'aureola, entro la quale pareva di scorgere le larghe maglie tremule di una rete nera. La sua immaginazione si rappresentò subito la marcia rapida, folgorante, del treno apparentemente fermo per la sua stessa velocità, con quei due immensi occhi di fuoco, che gli rischiaravano la strada. Veniva da lungi, andava lungi, nero, veloce, misterioso, fatale. Nulla poteva arrestarlo; il suo respiro era mostruoso; ansava, soffiava fumo senza perdere la lena, senza spossarsi nel palpito enorme, scivolando sulle rotaie che tremavano, sfondando la notte inconsapevole. Non aveva meta, si arrestava, ripartiva; la gente spariva nei suoi vagoni neri, tappezzati all'interno come stanze, vi si obliava chiacchierando, in una fede sicura al mostro immane, che non aveva mai saputo nulla e non saprebbe mai nulla di coloro, che viaggiavano nel suo ventre. Di giorno e di notte, in qualunque stagione, sotto il sole, sotto la pioggia, sulla neve, andava sempre; il suo tremito diventava più profondo traversando i ponti, il suo respiro si faceva asmatico sotto i tunnels, dai quali prorompeva con un fischio trionfale d'ironia avventandosi giù per le valli, e non di meno ubbidendo docile alla mano, che gl'imponeva di rallentarsi dinanzi alle prime case di un villaggio. Era la forza stessa del sole diventato carbone, che si sprigionava daccapo in un altro fuoco; era la giovinezza eterna del moto, che crea tutte le giovinezze. Si ricordò la frase invidiosa di don Procopio: come è sempre giovane, è sempre come la prima volta che lo si guarda! In un attimo, la sua fantasia aveva riveduto tutti i quadri e tutti i sogni della vita. Quel treno misterioso nella notte trasportava indifferentemente gli uomini e le merci, i dolori e le gioie, era esso medesimo tutta la vita nella sua corsa perpetua che nulla può fermare, nella sua insensibilità, nella sua fiamma, nel suo rombo, nel suo orgoglio vincitore di ogni ostacolo. Bastava salirvi per sfuggire subito a tutte le proprie difficoltà, e non essere più che uno sconosciuto fra sconosciuti, in viaggio verso una meta non confessata, a ricominciare sopra una terra nuova la vita quasi consunta in un'altra. Tutto diventava piccolo dinanzi al prodigio di un treno: impotenza ed impossibilità non sono che conseguenza di un luogo, risultati di un ambiente, mentre la vita sempre giovane, corre sempre, si rinnova, si perpetua, dimentica, divora il tempo e lo spazio, bella come il sole che l'accese, più lunga del sole che si spegnerà. L'uomo non è più nulla, se vuole contraddire o dominare la vita, non ne può saper nulla, non vi deve mutar nulla: la morte vera è quando il nostro corpo si rompe da sé, ma allora la vita intorno non se ne accorge. Bisogna vivere come si può, più che si può, bisognerebbe poter vivere sempre. Un tremito profondo del palo lo scosse; la campagna sempre addormentata non si accorgeva che il treno l'oltrepassava vigile ed indifferente come il pensiero. Allora l'umiliazione, che gettandosi sotto quel treno ne sarebbe stato stritolato senza produrvi nemmeno una scossa sensibile, lo vinse. E se il macchinista, avvertendo il caso, arrestasse la corsa, quel cadavere di uno sconosciuto, che faceva perdere qualche minuto al treno, non sarebbe stato che uno spiacevole incidente per tutti. - Perché si sarà gettato sotto il treno? - si sarebbero appena domandato tra di loro gl'impazienti. - Ma s'intendeva già il suo rombo, si distinguevano i due fanali rossi, dilatati, abbacinanti; la terra incominciava a tremare, l'aria palpitava, dalla notte desta di soprassalto uscivano sussurri inquieti, giù pei campi alcune voci spaurite sembravano richiamarsi. Egli sentì tutto questo. Come se le fiamme dei fanali gli fossero entrate per gli occhi nel cervello, non vedeva più, mentre la stessa convulsione spasmodica lo faceva stringersi sempre più violentemente al palo, che oscillava quasi scosso da una bufera. Era tardi, non c'era più tempo. Il treno gli fuggiva agli occhi enorme, nero, con quel ventaglio di fiamma dinanzi, respingendo tutto col suo respiro di fornace; dalle rotaie parevano sprizzare fiammelle, una colonna di fumo illuminata internamente si distendeva sopra di lui, dietro di lui, come una bandiera: e al disotto, fra lunghe fessure, si distingueva ancora una vivezza di braciere, dal quale sfuggivano faville e bracie, che cadevano e si spegnevano. Egli si volse; il disco guardava col grande occhio verde, lungi dal disco un trenta passi l'ombra del guardiano protendeva ancora la lanterna nera col piccolo vetro rotondo. Nessuno sospettava adunque di una disgrazia. Sarebbe stato uno slancio, uno scricchiolio e più nulla. Davanti alla rapidità spaventevole del treno capì che egli avrebbe potuto essere anche più rapido, gettandosi bocconi sulla rotaia per lasciarsi passare sul collo l'immane valanga. Quest'ultima sensazione gli durò, quando il treno col proprio vento non lo scuoteva più così abbracciato al palo; e i vagoni neri s'inseguivano quasi contigui nell'ombra, e dai finestrini si travedevano dentro gabinetti illuminati, rossi, scuri, in una nudità di legno, o non si vedeva nulla, mentre i vagoni fuggivano chiusi sino alla cima, oscuri e sinistri come catafalchi. * * * La notte non mutava. Seduto presso quel palo, colle gambe abbandonate giù per la ripa erbosa, aveva ancora nella fantasia ansante quella visione. Aveva ascoltato il fischio d'arrivo e quello di partenza, gli ultimi rumori e gli ultimi tremiti nella notte, con l'angoscia che si prova solo sfuggendo momentaneamente alla morte. Nessuno fra quanti viaggiavano su quel treno si era certamente immaginato che a quel palo qualcuno fosse rimasto in dubbio di gettarsi sotto le ruote per finirla colla esistenza; ciarlavano o dormivano, nel pensiero dell'arrivo, trasportati dalla corrente della vita, più impetuosa ancora del treno. Potervi s alire e vivere, null'altro! Egli lo aveva sentito con una intensità, che gli rovesciava nella coscienza tutte le ragioni della morte. Il treno gli era apparso dentro una poesia strana ed imperiosa: la sua forza, il suo impeto esprimevano un trionfo costante nell'orgoglio del suo stesso prodigio. Ognuno dei viaggiatori, rapiti dalla sua foga, avrebbe potuto essere già sfinito nelle novissime disillusioni della morte, e non avrebbe meno provato, nel profondo della coscienza, la vittoria di quella corsa. Ma gli era rimasta nella fantasia quella successione di gabinetti rossi, coi divani a mezzo ricoperti dai grandi, grossolani merletti bianchi, sui quali aveva traveduto qualche testa di donna. Qualcuna andava forse a Parigi, un sogno che egli aveva rifatto tante volte inutilmente, ciarlando cogli amici nelle dolci notti di estate, quando, non sapendo come meglio ammazzare il tempo, andavano sino alla barriera per veder passare il treno della mezzanotte. Egli si ricordava le invidie provate nei brevi tragitti dinanzi ai viaggiatori esteri, così riconoscibili alla disinvolta eleganza del vestito e dei più minuti comodi di viaggio: erano i felici, i veri padroni del mondo, pei quali i climi non avevano inconvenienti e le stagioni mutavano indarno. Il lusso di queste esistenze superiori gli riappariva davanti come un quadro rosso di quegli scompartimenti di prima classe, ammantellati di ricami bianchi, con delle teste di donne soffuse di un tenue pallore. Tutto era bello: i cuoi delle valigie avevano tinte esotiche, i fermagli sprizzavano raggi fra il disordine soffice dei veli, degli scialli, delle coperte gettate alla rinfusa, in alto, sulla piccola rete. Si fumava, si chiacchierava, alcuni leggevano il giornale. Invece egli era venuto in quella notte per gettarsi sotto il treno. Si strinse con ambe le mani la testa per riordinarvi i pensieri: perché dunque non lo aveva fatto? Non seppe rispondere. * * * Ma voleva farlo. Sentiva sempre la suprema inutilità del suicidio, quantunque non gli tornasse nella mente un ricordo della famiglia abbandonata, e non gli rampollasse dal cuore un rimpianto della vita trascorsa. Dopo quella lunga giornata, era rimasto veramente solo. La morte, balenatagli così terribilmente nel primo tumulto di quella lettera, lo aveva poco a poco affascinato come il vuoto, nel quale nessuno sguardo può fissarsi lungamente: egli aveva resistito precipitandosi da ogni lato, ma perdendo sempre qualche cosa in ogni sforzo, sentendo svellersi dal profondo del proprio essere una per una tutte le più sottili radici. Doveva essere così, perché la coscienza arriva sempre nuda dinanzi alla morte. L'anima affacciandosi all'infinito non può essere che sola: i morenti mutano allora fisonomia, poiché sono già assenti prima di essere morti, mentre tutto quanto formava la loro vita non ha più nemmeno il valore di un passato, e il futuro non traspare ancora dalla torbidezza del mistero finale. Così solo, non aveva più né coraggio né paura. Lungamente pensò al tempo che gli rimaneva da passare in quella posizione. Nessuno lo aveva sospettato durante il giorno, nessuno lo aveva ancora visto, nessuno quindi lo vedrebbe su quella strada. Chi poteva pensare che egli stesse per morire? Quale influenza poteva avere la sua morte? Solamente la sua volontà vegliava ancora nell'attesa dell'ultimo momento. * * * Per quella necessità di far pure qualche cosa finché si è vivi, macchinalmente si cercò nelle tasche un sigaro per fumare, ma non ne aveva: poi si sdraiò lungo il sentiero, sul margine della ripa, perché quella posizione, così seduto, gli aveva indolenzito la schiena. La terra gli diede sotto la nuca una impressione di frescura. A sinistra, nel cielo, si era formato un largo, sottile velo scuro, le stelle splendevano piccole e rade. Tutto taceva. Al di sopra di quel silenzio assonnato, la vigilia eterna degli astri rompeva le ombre dell'infinito, ma la tenebra sulla campagna era così densa che tutto vi era naufragato. Il suo sguardo salì attratto dal tremolio di quei fuochi di bivacco, e si perdette nella loro confusione. La volta cerula si allontanava ugualmente, da qualunque punto l'occhio la contemplasse, per una distesa trasparente come le fiammelle che vi bruciavano nella inutilità della loro distanza senza misura. Nella sua mente oscura egli non riceveva che questa impressione. Le poche nozioni scientifiche apprese nelle scuole non avevano potuto dargli un concetto vivente del cielo; le stelle, come tanti mondi simili alla terra, probabilmente popolati come la terra, erano rimaste per lui un'idea vuota, un'ipotesi smentita ad ogni notte dall'apparenza del fatto. Il suo pensiero, troppo piccolo, come quello del popolo, per accogliere le spiegazioni della scienza, ritornava involontariamente alla primitiva concezione poetica del cielo, una volta azzurra, punteggiata di fanali e magnificamente spiegata sul mondo. Ma tutto era sulla terra. Questa rappresentazione immutabile per lo spirito umano e contro la quale nessuna scienza potrà prevalere, non gli dava anche adesso che una sensazione di stupore; per concepire le stelle come tanti mondi uguali al nostro, avrebbe dovuto immaginarsele spente, e allora gli sarebbe parso di non poterle più vedere; quindi l'enormità del loro mistero, moltiplicata per l'infinito del loro numero e per quello anche più terribile dei destini, che vi si svolgevano, avrebbe soffocato istantaneamente il suo pensiero. Egli guardava quel cielo senza una piega, velario diafano e costellato, che avvolgeva la terra oscura, tutta piena di dormienti destinati a morire, mentre l'anima gli si assopiva sempre più in un torpore di coma. Il lungo, dissolvente lavoro dell'agonia si era omai compito dentro di lui: un vuoto aveva inghiottito il suo spirito, e tutto quanto gli restava di vita non era più che un moto di abitudini. Tale ultimo stadio gli dava appunto quella calma, che appare sempre così inesplicabile nei condannati a morte. * * * In quella torpidezza così simile al sonno, che teneva la campagna, il suo corpo si riposava dalla stanchezza della lunga giornata. La frescura era blanda, l'aria tranquilla. Sdraiato lungo il sentiero, colla testa in alto, non vedeva più nella strada ferrata né il disco, né il palo del telegrafo: solo i fili neri di questo, tesi sopra il suo capo, formavano come una scalea di un significato misterioso, mentre gli steli alti del fieno si ripiegavano sul margine della ripa a toccargli le vesti, o cedevano sotto la sua mano distratta, inumidendogliela. Se qualche cosa avesse attraversato la notte in quel momento, soffio o voce, il suo spirito l'avrebbe seguita come si muovono nell'aria le piume di essa più lievi. Il sopore gli si faceva sempre più profondo, la vita vegetale della terra l'invadeva. Era per lui come un benessere di albero sbattuto dal vento, arso dal sole nel giorno, e che di notte ridiventa fresco, e dalle foglie ristorate manda un murmure indistinto. Qualche stella sembrava tremolare nel sorriso della propria luce, altre si stringevano a gruppi entro un albore diafano, e altre più remote scintillavano tratto tratto, quasi barattando segnali di scolte. Ma tutto era pace anche lassù: una dolcezza di riposo si spandeva su tutte le cose; perfino il fiume aveva cessato di muoversi, e i ranocchi adunati nelle pozzanghere dei campi non gracidavano più. * * * Un lungo brivido gli discese dal pensiero giù per le reni, mentre un fischio stridente, quasi di un proiettile, gli passava sulla testa. Il fischio seguitava rompendosi nell'acutezza di appelli ripetuti, la terra tremava: prima ancora di essersi potuto levare in piedi aveva scorto nuovamente la pupilla verde del disco dilatata nell'ombra, e al disotto di essa, sulla ghiaia della strada, un chiarore che si muoveva colla lanterna del guardiano. Era il treno delle tre, un misto, che veniva da Bologna. Rimase dritto, cogli occhi laggiù, spalancati sulla luce saliente dalla stazione invisibile. Non aveva raccolto di terra il cappello, si sentiva un continuo soffio agghiacciato sulla faccia, la gola gli si era improvvisamente disseccata. Sbirciò due o tre volte il vetro verde del disco, sorvegliando l'ombra del guardiano; non tremava, ma era come se tutto tremasse intorno a lui. Aspettava in una tensione, che non gli permetteva di fare un moto neppure coll'anima. Aveva i capelli irti e la bocca aperta: il suo sguardo s'illuminava di una profonda chiarezza interna. Il fischio ricominciò, poi a un certo momento parve un urlo, che l'immane respiro della macchina già in moto soffocasse; stridé ancora. La lanterna del guardiano si era alzata. Si vedevano distintamente i due fanali rossi e, più in alto, una oscillazione oscura di fumo: egli guardava ancora, attonito, senza respirare, scosso dal tremito convulso della terra, che pareva sfuggirgli sotto i piedi. La sua vita non aveva più che alcuni minuti secondi. La macchina ebbe uno sbuffo più violento. Rapidamente, inconsapevolmente, si gettò bocconi colla testa sulle rotaie; la rotaia tremava. Egli guardava venire la macchina, ma non vedeva più che un immenso ventaglio di fiamma alto come una parete, la terra oscillava sotto di lui; chiuse gli occhi e sentì sulla ghiaia, nel medesimo attimo, il palpito del proprio cuore e i battiti dell'orologio. Istintivamente aperse le braccia puntando le palme sulla ghiaia, abbacinato dall'immenso fulgore di quell'incendio, che si precipitava contro di lui rugghiando. I suoi occhi sostennero per un istante l'urto, non capiva, non sentiva; poi gli parve che il ventaglio di fiamme si sollevasse, si vide la macchina lanciata a volo sulla testa, come un'enorme arco di ponte che ardesse, un vento impetuoso gli sferzò il volto, mentre la terra squarciata da un ultimo sforzo si apriva sotto di lui. - No, no! - ebbe appena il tempo di urlare, ritraendo disperatamente la testa, che la macchina gli era forse già a soli venti metri. Un torrente nero; solido, alto: un soffio gelido ed irresistibile lo gettò quasi giù dalla ghiaia, sulla quale puntellava ancora le mani, raggricchiato nello sforzo istintivo di farsi più piccolo, senza potersi muovere, chiudendo gli occhi ad ogni vano fra vagone e vagone, come ad una scudisciata che gli fendesse a mezzo le pupille. E il treno enorme, vertiginoso, freddo, nero non finiva. All'ultimo vagone egli rotolò sul sentiero. Quando si rialzò non vide più il treno. * * * Egli se ne andava lungo il sentiero, a testa bassa. Una vergogna amara di quanto gli era accaduto aumentava sulla sua coscienza, come dopo la pioggia in certe pozzanghere cresce l'acqua. Si era gettato sotto il treno cedendo alla pressione di una forza interna che lo spingeva, e la sua ragione, rianimata dal fracasso della macchina, aveva avuto irresistibilmente paura. La sua volontà, incapace di qualunque sforzo, non si era più mossa, quando puntato sulle mani, colla testa rasente ai predellini dei vagoni, aveva sentito sfilare ruinosamente tutto il treno. L'aria, che fuggiva smaniando fra i larghi raggi delle ruote, gli schiaffeggiava il volto gelato da uno di quegli orrori fantastici, pei quali nella notte i fanciulli perdono la voce. Egli non si era immaginato la morte così enorme, con quella onnipotenza di uragano! Adesso tutta la sua natura di uomo timido ed inetto ripigliava il sopravvento. Una specie di buon senso gli diceva sommessamente che aveva avuto ragione di aver paura: lo spettacolo del treno, veduto colla testa sulle rotaie, era qualche cosa d'inesprimibile, d'insopportabile. Le rotaie oscillavano sotto la sua fronte, quasi come il filo del telegrafo quando il vento soffia impetuoso, la terra reboava, quel ventaglio di fiamma, formato dalla congiunzione dei due fanali, si dilatava sempre come per la spinta di una eruzione, dalla quale sfuggiva in alto un'immensa colonna di fumo. Era una scossa saltellante di valanga, con un rombo di tuono fra schianti di baleni e un vento freddo e una minaccia fulminea che rovesciava, dissolveva tutto dinanzi a sé. Perciò non aveva resistito. Per un solo istante si era irrigidito nel duello, premendo la tempia sul ferro gelido della rotaia collo sguardo ardente su quell'incendio; sarebbe abbisognato che il treno non fosse stato più che a tre metri, e allora forse il delirio stesso gli avrebbe fatto mantenere la posizione. Ma uno spavento lo aveva avviluppato, e lo cacciava nuovamente per quel sentiero nella notte tranquilla. Dove andare? Sentiva di avere ancora paura della morte, che gli era quasi passata addosso con quel treno oscuro e fiammeggiante, nell'impeto procelloso di una vittoria: ne aveva rimasto l'abbarbaglio negli occhi e il vento nei capelli. La sua faccia non gli sarebbe parsa più la medesima, se avesse potuto vederla; era di un pallore lapideo, cogli occhi vitrei e una specie di smorfia immobile sulla bocca. Come tutti i toccati dalla morte, aveva mutato. Nel suo stesso terrore gli rimaneva qualche cosa di estraneo alla vita, un senso di profondità interminabili, un freddo di caduta per una ruina di abissi. Infatti quel treno non gli era parso che si allontanasse per la strada ferrata, ma era dileguato per lo spazio, come il tuono, in uno di quei rapimenti che accendono a razzi le stelle. * * * Si arrestò. Aveva camminato per qualche miglio, senza por mente alla diversità della sottoposta campagna nella tenebra. Si accorse di essere tutto bagnato di sudore e di rugiada, il luogo non pareva mutato, e le rotaie gli si perdevano sempre dinanzi a pochi passi sul piano oscuro della strada. - Diranno che ho avuto paura! Infatti lo avrebbero detto, vedendolo così. Era stato lo sbigottimento inevitabile della morte, giacché il coraggio non è appunto che uno sforzo contro di esso, che la gente non vorrebbe mai vedere in coloro che debbono morire. Il soldato, il condannato titubante divengono istantaneamente spregevoli; bisogna che entrambi fingano il disprezzo, quasi la provocazione, perché tutti si esaltino in questa vittoria della volontà umana. Ma il suicida, che si vantò, per una qualunque ragione, di gettare la propria esistenza come un cencio immondo dietro di sé, non ha più diritto alla paura. In questo caso la gente insorge contro il falso temerario, che voleva sottrarsi alla pressione della morte, più greve ancora di quella dell'aria, giacché ci mantiene aderenti alla vita malgrado tutti i dolori: e le contumelie diventano la rivincita dell'umiliazione, che il coraggio inesplicabile di ogni suicida infligge alla moltitudine sempre invocante la morte e singhiozzante di viltà ad ogni sua apparizione. Chi l'ha voluta davvero, non può ritornare nella vita. È una consacrazione come quella che la religione pratica sui propri sacerdoti, i quali non sanno più riconfondersi cogli altri uomini. Egli si rappresentava tutto questo oscuramente, nelle scene che ne sarebbero seguite a casa sua e nel caffè. Si ricordava di alcuni, che avevano annunziato il proprio suicidio, di altri ancora più infelici, che vi erano sopravvissuti rimanendo per tutti un oggetto di scherno. Se egli fosse tornato addietro, avrebbe intoppato nella ilarità di tutto il paese, unanime, dopo una simile commedia, nel giudicare anche più abbietto il suo dramma. Poi, conosceva la zia Matilde, che appena aperta quella lettera ne avrebbe gettato le alte grida per tutta la casa e per le strade, correndo da Caterina. Come intercettare quindi quella lettera? Perché intercettarla? Per quanti sforzi avesse voluto fare, non gli sarebbe riuscito di tornare indietro: la sua anima vuota non amava, non si doleva più, ma, sola dinanzi a sé medesima, assisteva come uno spettatore al supremo duello della volontà contro l'istinto. Se non che, finite tutte le ragioni del vivere, la vita resisteva ancora al pari di ogni involucro alla pressione che doveva spezzarla, ed egli provava un'ultima indicibile vergogna per se stesso nel riconoscersi così pauroso. Solo una specie di testardaggine, un impegno col proprio orgoglio, l'obbligavano a morire. Aveva sempre la rivoltella in tasca, ma non pensò nemmeno un istante a servirsene; dopo quel primo infelice esperimento, temeva di fracassarsi la testa senza uccidersi, perdendosi così in un'altra fine peggiore di tutte le morti. Infatti un suicida sopravviveva ancora in paese, dopo essersi asportato con un colpo di pistola quasi tutta la parte inferiore del volto: era un giocatore non vecchio, che da quel giorno non aveva più osato uscire di casa, e pel quale la serva, diventata sua moglie, cercava l'elemosina. Ma se avesse potuto davvero analizzare sottilmente se stesso, in quella ripugnanza ad uccidersi con la rivoltella avrebbe scoperto qualche altra cosa, poiché a quel modo si sarebbe veramente ucciso da sé, mentre invece non voleva che morire. Gettarsi sotto il treno e lasciarsi schiacciare! Non egli avrebbe distrutto sé medesimo, ma un'altra forza, un mostro vivente, ansante, il più prodigioso uscito dalla mente umana. Egli sentiva un'ironia nella antitesi della propria debolezza contro tale onnipotenza, nel mutare quello stupefacente veicolo di vita in uno strumento di supplizio. Era come una vendetta contro la società, che lo costringeva a morire colla assurda contraddizione delle proprie leggi coi propri costumi. Infatti il suo suicidio non aveva altro motivo. La natura non ha bisogno del nostro concorso per ucciderci, il mondo solo ci condanna al suicidio: quando la nostra presenza non vi è più possibile, sentiamo la necessità di morire, per non durare come un rimasuglio fra la gente. La società non è pari alla natura, nella quale anche i residui hanno un valore. Ognuno crea se stesso in una classe o in una funzione con indelebili caratteri, ma, distruggendo questa personalità, non gli rimane né posto, né gruppo. Allora erompe la contraddizione fra l'istinto che vorrebbe vivere, e la ragione che non sa più trovarne il modo. Infatti egli non aveva, coll'imprudenza di quella cambiale falsa, sciupato che la propria condizione in paese, così che potendo trasportarsi altrove non avrebbe quasi nulla perduto. La morte, cui si umiliava, era un omaggio al giudizio della società, un tragico complimento all'importanza della classe, nella quale era nato. Come marito, come padre, come uomo, egli consentiva a non poter vivere se non come aveva vissuto fino allora, mentre intorno a lui le migliaia e migliaia vivevano egualmente bene entro la condizione, nella quale sarebbe precipitato; ma poiché la nostra vita è anzitutto spirituale, una mutazione della sorte vi ha infinitamente più importanza che qualunque altra della natura. Dalle più grandi tragedie ai più minuscoli drammi, non si tratta mai che di suicidio, di una immolazione che l'individuo fa di se stesso alla società, come vittima espiatoria delle colpe altrui o delle proprie. Quindi la vergogna dell'aver avuto paura lo mordeva anche allora, che nessuno se n'era potuto accorgere. L'orgoglio necessario al suicidio, quella esaltazione di sentirsi maggiore degli altri, appunto gettando ciò che è tutto per essi, gli era venuta improvvisamente meno. Vile come coloro, per non somigliare ai quali moriva, si era gettato disperatamente indietro dalla rotaia, invece di lasciarvisi sfracellare. Egli aveva provato confusamente, in quei brevi istanti, una specie di compiacenza ironica e superba al pensiero di insudiciare col proprio sangue il lucido cerchio delle ruote, arrestandone forse, magari per un secondo, la marcia trionfale. Lo avrebbero visto fracassato, irriconoscibile, inorridendo in quella inesprimibile paura della morte, che gela istantaneamente tutti i cuori! Sarebbe stata la sua rivincita dopo morte, perché anche il suicidio ha bisogno di averne una. * * * Seduto accanto al palo, coi gomiti sulle ginocchia e la fronte fra le palme, piangeva. Dopo aver girato lungamente innanzi e indietro per il sentiero, in un orgasmo di febbre, era ritornato allo stesso punto, vinto dal fascino misterioso, contro il quale lottava. Era stata una corsa miserabile di fanciullo smarrito per la notte che si sente aggredito a ogni tratto nell'invisibile e non osa gridare nemmeno inciampando. Non poteva decidersi, non sapeva andarsene; qualche altro treno doveva passare prima di giorno. Quando rivide quel palo, ne provò un sollievo come di una meta; la luce del disco era sempre rossa, lontanamente la stazione aveva quel largo riverbero d'incendio. Qualche lagrima calda gli scivolava fra le mani e le guance, sciogliendosi con un sottile bruciore di sale. Era l'ultimo pianto, quello che non si sente più, perché tutto è già morto di dentro: i suoi occhi piangevano, come talvolta le ferite lasciano uscire goccia a goccia il sangue, mentre il moribondo sente ancora che col sangue se ne va la vita. La natura stessa esprime talvolta un simile pianto in certi squallori di paesaggi autunnali su praterie opache, sotto un cielo grigio, senza un vivente che le attraversi e senza case; o fra roccie appannate e riarse, in una nudità di cadavere. E vi è un dolore sotto le pietre, e pare un pianto l'umidità che l'aria del crepuscolo vi lascia. * * * Un gallo cantò. L'aria era ancora così scura, ma il sereno del cielo principiava ad imbiancare in una purezza sempre più scialba: le stelle adesso rade perdevano quel tremolio che le ingrandiva, ogni vapore si era disciolto. Senza che ne apparissero ancora i segni, l'alba si avvicinava. Nell'aria più fredda altri brividi passavano, simili a sussurri mano mano più intensi. Toccò un ciuffo d'erba sull'orlo della ripa, e ne ritrasse le dita imperlate di rugiada. Da quell'altezza della strada cominciava a discernere la campagna. Gli alberi scoprivano già le cime, disegnando la regolarità dei loro filari; poi un altro gallo cantò e un crocchio di rane volle rispondergli, ma la loro voce notturna si spense all'improvviso. Gli parve di udire come uno schiaffo di imposte nel muro, una luce apparì. Non era più la notte. Laggiù il grande riverbero della stazione si appannava, mentre dietro le mura della città quel vapore luminoso aveva cessato di salire dalle strade invisibili, e in alto, molto in alto, i tre campanili spiccavano rigidamente. Un freddo gli strinse lo stomaco. Sebbene il casello del guardiano sembrasse chiuso, si allontanò guardingamente dal palo, perché sul margine della strada, nell'aria sempre più diafana, sentiva di apparire a tutta la campagna. Gli alberi si scrollavano lievemente, sibili d'insetti, tintinni misteriosi preludevano alla grande sinfonia del giorno. Una luce approdava all'ultimo orizzonte respingendo la tenebra, che si orlava di riflessi evanescenti in lunghe strisce, talvolta simili a nuvole stracciate. Ma più che dell'albore, egli aveva paura dei suoni. Le cose più mattiniere intorno a lui si erano già deste; dentro le frondi qualche ala batteva per spigrirsi, mentre gli ultimi sogni strisciavano impalpabili sugli occhi ancora socchiusi. Seguì per qualche minuto il volo spaurito di una nottola, rivedendola ogni volta, con una specie di compiacenza egoistica, traballare sempre più incerta e precipitarsi nuovamente giù nell'ombre più dense, ad ogni chiarore che si diffondeva nell'aria. Si era allontanato mezzo miglio dal palo, ma la città e il ponte di ferro si vedevano ancora. Se non avesse avuto così paura del giorno, gli sarebbe sembrato ancora notte; infatti, laggiù, i fanali rimanevano accesi, appena l'ultima linea dell'orizzonte si era rischiarata, e qualche gallo impaziente aveva lanciato il primo squillo della propria diana. Ma i suoi sensi, vibranti di un ultimo orgasmo, gli rendevano manifesti i più impercettibili segni. Non poteva più ricapitolare quanto gli era accaduto nella notte, sentiva solamente una vergogna crescente, intollerabile di essere ancora lì, senza un motivo. Per tutta la notte era stato solo, adesso invece la luce gli addenserebbe intorno tutti i viventi: il suo coraggio non potrebbe resistere, sarebbe ripreso, ricacciato a forza indietro, più in basso, per sempre, sotto la propria ruina, inconsolabile, immutabile, inutile. Tutto ridiventava un pericolo. Guardava, ascoltava convulsamente; la notte non era più simile a se stessa; la sua frescura, la sua tranquillità, il suo sonno avevano mutato; una inquietudine agitava ogni suono e dava un accento di trepidazione a tutte le voci. La solitudine si riempiva. Guardò l'orologio, ma non distinse i numeri sul piccolo quadrante, e non osò accendere un fiammifero. Dovevano essere le quattro: forse a quella distanza l'orologio di sant'Ippolito si sarebbe ancora udito; poi n'ebbe paura. Qualunque voce gli faceva male; nell'aria colse un vagare di aromi, altri effluvii che s'innalzavano verso il mattino. A che ora passerebbe il primo treno? Sbigottito si voltò verso il disco, ancora così rosso, ma di un rosso meno luminoso. Per le altre strade della campagna la gente doveva aver ricominciato il proprio passaggio, i lattivendoli, gli ortolani, tutti coloro che soddisfano ai primi bisogni della città; nei due grandi caffè della piazza, sempre aperti, nottambuli col volto livido dalla veglia troppo prolungata comincerebbero a parlare di separarsi, perché odiavano istintivamente l'alba e la sua ripresa coraggiosa del lavoro sotto la immutabile necessità dell'andare avanti. Anch'egli era un nottambulo, l'ultimo, per l'ultima volta. Nel tormento di quella paura, soffriva alla preparazione lenta del giorno, più ammirabile forse che lo scoppio stesso del sole trionfante daccapo a sollecitare coi propri raggi tutti i viventi. Egli allora non si muoverebbe, informe cadavere per sempre. Ma non voleva esser visto prima, non aveva bisogno delle sollecitazioni, che gli aumentavano intorno. Se ne andrebbe, se ne andrebbe ad ogni modo, nella disperazione di non aver potuto nulla comprendere, senza la giustificazione di quanto aveva sofferto! Meglio la notte, il buio senza vita: un silenzio eterno e la sicurezza del nulla, perché non vi poteva essere altro, dopo! Il suo odio alla vita glielo rivelava chiaramente. Egli, che aveva tanto patito il giorno innanzi nella rottura graduale di ogni vincolo, adesso non soffriva più che la fretta, colla quale gli pareva di sentirsi cacciato; non v'era altro tempo da perdere. Fra venti o trenta minuti, da quella posizione tutti avrebbero potuto scorgerlo. I canti dei galli si erano venuti ripetendo, poi un muggito aveva dominato tutte le voci. I pioppi tornavano a stormire colla battuta secca della grandine, i salici sibilavano, le quercie sussurravano appena. Da un olmo sotto la strada un gridìo di passere, subitaneo come una risata, lo fece trasalire. Ormai egli stesso avrebbe potuto discernere lungo il binario un uomo a grande distanza, e tuttavia era ancora presto. Si fermò al primo palo del telegrafo, sdraiandosi daccapo sul sentiero per nascondersi. Stava in agguato, coll'occhio teso sulle ultime lontananze della strada, l'orecchio aperto sospettosamente a tutte le voci; le erbe alte, fradice di rugiada, gli bagnavano il volto percosso tratto tratto da un tremito, che gli echeggiava sonoramente sino al fondo dell'anima. Ma tutte le forze gli erano improvvisamente tornate: era l'attacco finale di quel duello troppo lungo colla morte, senza più alcuna incertezza, e più orribile nell'impossibilità di muoversi. Tutto il suo odio si era mutato in coraggio, quasi la morte, che gli verrebbe incontro su quel treno, dovesse avere una forma umana come la sua. Il suo tetro scheletro, colle occhiaie vuote e la lunga falce, gli riappariva nella fantasia cogli altri fantasmi della espiazione cristiana evocati dall'ultimo dubbio: ma temeva solamente di non poter durare per tutta la lunghezza della prova. Il suo sforzo supremo era di non pensar più, non voleva più nulla davanti. La sua coscienza era giunta finalmente al disprezzo della vita, di questa farsa stupida ed atroce, che nessun Dio poteva aver voluto, perché vi si soffre solamente, e coll'amore di un minuto vi si chiamano altri a soffrire e a morire: ecco tutto! Il resto era menzogna. E davanti a questa imperscrutabile necessità il suo individuo urlava nello spasimo di non poter inabissare tutta la terra e, strappando con un gesto titanico dal cielo l'immenso manto stellato, ravvoltolarvisi come in una bandiera nemica, e spirare ultimo sulla ruina finale di quanto era stato. - Ah! - gridò balzando in piedi, immemore di ogni riguardo. Era il treno. Nel pallore crescente della tenebra la sua luce appariva simile a quella di un palloncino roseo librato nell'aria, ma egli non vedeva che la morte. Era scattato in piedi alla prima scossa del terreno come ad un appello, protendendo il volto in una impazienza quasi insolente della fine. Aveva negli occhi un chiarore di cristallo e sulla faccia una fisonomia di marmo. Rimase così immobile, colla volontà tesa contro il treno, calcolando mentalmente la rapidità della sua corsa. Un fremito d'orgoglio lo scosse ancora, nel vederlo già così vicino che si discernevano distintamente i due fanali; aprì le braccia ad un gesto inesprimibile, e si gettò sulla rotaia abbandonato. Era caduto, quasi colla fronte sul ferro, gli occhi rivolti al treno. Avanzò la testa per poggiare il collo sulla rotaia, lasciando penzolare il capo nel vano come da una ghigliottina. Il freddo del ferro alla gola gli fece passare questo paragone nel pensiero. Ma allora tutte le forze lo abbandonarono, si decomposero per le scosse della terra, che gli passavano per tutto il corpo colla violenza di continue scariche elettriche. Si raggricchiò, chiuse gli occhi, travolto dal fragore precipite che già l'investiva; il ferro della rotaia gli friggeva quasi sotto il collo, una vampa gli aveva ventato sugli occhi, mentre nel terrore delirante, ineffabile, di quella cosa senza nome, la sua volontà caparbiamente disperata, come quella di un bambino, ripeteva: - Non importa, non importa! Con un ultimo sforzo premé ancora il collo sulla rotaia. Poi un'estrema convulsione di turbine, di abisso, di valanga, d'incendio, lo fece quasi rivoltolare sopra se stesso; aprì gli occhi nella fiamma, e per una paura più terribile gridò: - Mio Dio! Ma l'enorme macchina gli era già passata furiosamente sulla testa, soffocando nel proprio fracasso di cateratta l'inutile parola. FINE

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