Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Il discorso dell'on. Degasperi a Milano

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Alcide de Gasperi 6 occorrenze

Degasperi a Milano

Rodinò e dichiara di sentirsi a disagio nel pronunciare un discorso in mezzo ad amici che meglio forse avrebbero affidato tale compito a un giovane sul cui animo non sia ancora passato il soffio gelido dell’esperienza, che oggi potrebbe meglio trovare le parole d’incitamento perché vergine di vittorie e di sconfitte. Non può sfuggire al pensiero che qualcuno possa ricordare al presidente del gruppo parlamentare popolare e a chi da tre anni oramai è membro della direzione del partito come le sue parole possano risentire delle apparenti o reali sconfitte che il gruppo parlamentare ha in questi ultimi anni sofferto. E infatti considerando la sua attività ricorrono alla sua memoria tre quadri che paiono riassuntivi.

L’oratore accenna in argomento alle note direttive del partito e ricorda come sotto il ministero Bonomi in una seduta della Camera l’insistenza colla quale i popolari richiedevano che, a proposito del progetto di riforma burocratica, il ministero elaborasse anche delle proposte per il decentramento istituzionale degli enti locali incontrasse il disinteresse o la diffidenza anche dei partiti di maggioranza. Non c’è bisogno di dire come le direttive di governo si siano svolte poi in un senso antitetico. La riforma amministrativa Acerbo reca un decentramento amministrativo entro gli organi dello Stato ma nega ogni maggiore autonomia alle provincie e non conosce le regioni. Avviene così nelle nuove provincie che, mentre col nuovo ordinamento si va approssimandosi all’organizzazione statale propria allo Stato austriaco (sotto—prefetture eguali a capitanati distrettuali), vi si demoliscono quelle autonomie locali che di tale organismo burocratico erano l’indispensabile contrappeso, fornito dalle forze elettive. L'oratore accenna ancora all’insuccesso ottenuto nella lotta per la rappresentanza proporzionale e finisce: «A giudicare dagli effetti immediati noi dovremmo concludere come quell’imperatore romano che, accorso dall’estremo lembo dell’Asia, per difendere l’ultima frontiera della Gran Bretagna, essendovi sorpreso dalla morte, diceva sconsolato al suo centurione: Omnia fuit; nihil expedit».

Il primo è una grigia giornata del settembre 1920 quando i consiglieri nazionali, dopo aver percorso l’Italia vedendo ovunque le bandiere rosse issate sulle fabbriche e i magazzini ferroviari, si raccolsero a Roma per stabilire che cosa avessero da dire al popolo italiano. Bisognava allora non soltanto ripetere la parola della «salda resistenza agli elementi di disgregazione anarchica della compagine nazionale» come era fissata già nei nove punti popolari per la formazione del ministero Nitti, ma bisognava aggiungere una direttiva risoluta che corrispondesse alla nostra scuola cristiano-sociale e alle esigenze del momento economico. Come un’eco molto lontana risuona ora quell’appello del Partito popolare italiano: «Il popolo italiano è ancora in tempo a scegliere fra la rivoluzione che ci porti la dittatura di classe e la legale trasformazione dei rapporti sociali, la quale crei le basi della nuova economia, e per essa della nuova organizzazione sociale e della nuova politica». L’appello continuava dichiarandosi contro il comunismo anche perché ci renderebbe schiavi dell’estero, ma contemporaneamente proclamava che l’«assoluta economia individualista del salariato non avrebbe più dovuto dominare incontrastata e segnava nella cooperazione, nella rappresentanza sindacale di tutti i fattori della produzione, nel partecipazionismo e nell’azionariato operaio, agevolati da norme giuridiche, la soluzione democratica cristiana del problema e conchiudeva: «facciamo appello alla coscienza nazionale perché, riscosso da sé il fatalismo suicida che pare l’abbia invasa, reagisca con tutta la forza della verità contro le suggestioni della propaganda rivoluzionaria. Il nostro paese non uscirà dalla presente stretta se abbandonata ogni violenza ed ogni pervertimento materialista, non verrà restaurato il senso morale e cristiano della vita e l’autorità della legge, espressione superiore delle esigenze collettive di tutte le classi sociali». L’idea di riforma economica sociale che dominava allora i nostri propositi venne però sviata dalla manovra dell’on. Giolitti il quale, pur accettando il principio antisociale del controllo nelle aziende industriali, meditava già di sfruttare la situazione per spingere verso la collaborazione ministeriale, giovandosi anche della tolleranza che egli lasciava alla già forte pressione fascista. Fisso in questo scopo, egli scioglieva nell’aprile 1921 la Camera e nella relazione al Re faceva appello ai lavoratori perché «invitassero i loro rappresentanti tutti a prendere nella vita politica una parte attiva anziché limitarsi alla funzione della sola critica»; e, tra amici, diceva: «bisognerà che si decidano a calar giù dall’albero». Cosicché il calcolo parlamentare soffocò il tentativo sociale e i popolari non hanno la fortuna di un periodo relativamente tranquillo come fu quello dell’ultimo decennio del secolo XIX nel quale il Centro germanico elaborò e fece votare la legislazione sociale più progredita del mondo. Non è però che i nostri sforzi si allentassero e che sia mancato ogni risultato. Basti accennare alla regolazione dei contratti agrari (legge Micheli e Mauri), al latifondo, alle proposte per le camere dell’agricoltura, ai progetti per la registrazione delle associazioni sindacali e per il Consiglio superiore del lavoro. Ma è certo che la bufera politica sopravvenuta troncò o rese nulla gran parte dell’opera legislativa che un partito come il nostro, venuto dalla scuola cattolica sociale, avrebbe voluto e potuto svolgere in favore del paese. Un altro punto sul quale si concentrarono in questi ultimi anni gli sforzi del partito, fu quello dell’organizzazione del Parlamento che è anche il problema della formazione parlamentare del governo. Ma si ricordi come scoppiò la crisi Bonomi. Labriola, che era allora nella grande compagine della democrazia, proclamò che bisognava «liberare il governo dalla triennale schiavitù dei popolari». Di Cesarò rimproverò ai ministri popolari di essere stati in Vaticano in occasione d’un grande lutto. Di fronte alla crisi, la direzione del partito confermava che la collaborazione del gruppo popolare non è possibile senza garanzie di carattere programmatico ed organico che diano maggiore stabilità alla vita parlamentare. Il quadro sintetico e conclusivo di questa situazione è dato da quella seduta dei direttori dei gruppi democratici e popolari che si raccolsero nel febbraio del ’22 nella sede della democrazia. Fu là che, frustrato ogni tentativo di corridoio e di manovra subacquea, i democratici addivennero con noi ad una discussione che portò ad una intesa programmatica sulla libertà d’insegnamento (esame di Stato), e alla proclamazione del principio del comitato di maggioranza che doveva organizzate il governo. Ben si ricorda però che ogni soluzione logica della formazione della maggioranza venne frustrata dalla spregiudicata manovra di Mussolini che, smentendo Federzoni, dichiarò di votare per l’ordine del giorno Celli. E si venne così a Facta, ministero che doveva cadere per la contraddizione interna e perché vano si dimostrò ogni sforzo di raggiungere una tregua fra i due estremi. Mussolini aveva parlato della possibilità dell’insurrezione contro lo Stato e i socialisti proclamarono lo sciopero generale politico. La situazione si svolse così, che il Consiglio nazionale popolare, raccolto il 20 ottobre 1922, a due anni dalla riunione che abbiamo citato nel principio, si credette in presenza di una minaccia della rivoluzione di destra, onde l’appello diceva: «Non è vano il timore che siano in pericolo le istituzioni dello Stato italiano», ma continuava «non si può tornare indietro e credere di poter governare senza mantenere saldo il regime democratico non nella forma inorganica e accentratrice di ieri, ma nella forma organizzata e decentrata di domani», e concludeva facendo appello alle nuove forze della nazione di voler decidersi a vivere entro le istituzioni costituzionali rinunciando alle organizzazioni armate. La collaborazione che venne data poi, a rivoluzione compiuta, non rinnega queste tendenze perché, come verrà proclamato a Torino, essa mira alla normalizzazione costituzionale. C’è bisogno di dire, conclude l’oratore, che anche su questo terreno, a giudicare dai risultati immediati, noi siamo dei vinti?

Forse più tardi, anche chi non lo vede oggi, vedrà che in mezzo a tutte le ristrettezze abbiamo risolto positivamente il quesito che ha tormentato i cattolici di tutti i paesi nell’ultimo cinquantennio, cioè se dovesse esistere un partito clericale o, come si diceva in Francia, «parti religieux», nel senso di una organizzazione politica al servizio di un’altra forza politica dominante che faccia concessioni religiose, o un partito politico autonomo, ad ispirazione cristiana, con propria idea politica fondamentale. Fu il travaglio del Centro dopo la prima fase della lotta sua confessionale, fu il principio che distinse Lueger dai cattolici conservatori, fu la lotta che si svolse in Francia al principio del secondo impero fra due uomini, degni entrambi di grande ammirazione. Allora Veuillot celebrava clamorosamente la politica trionfante e lanciava i suoi sarcasmi contro quelli che chiamava pettegolezzi dei parlamentari e molti furono allora i discorsi sacerdotali che, proclamando la propria incondizionata adesione alla nuova politica, esaltavano il Principe «que la Providence avait suscité pour arreter sur le bord de l’abîme la France et l’Eglise». Montalembert scrisse allora un libro per biasimare i giornalisti e i politici che tripudiavano sulla «tomba provvisoria della libertà»; e non si rileggono senza emozioni le seguenti parole scritte più di 72 anni fa: «Uomini che hanno invocato per tutta la loro vita la libertà, che hanno conquistata la fiducia e la giusta ammirazione dei cattolici mostrando loro come la libertà poteva servire al bene della verità, questi medesimi uomini sono arrivati oggidì a dichiararla inutile e pericolosa. Le costituzioni, le discussioni, i parlamenti, il controllo dei legislatori, delle assemblee non provocano presso di loro che un sorriso o lo scherno. Essi hanno trovato un padrone che vuol loro bene, e sembrano affidarsi ciecamente al favore di questo padrone e alla durata di questo favore. Chiudono gli occhi, si tappano gli orecchi su azioni che hanno fatto rivoltare tutta la gente onesta, su violazioni manifeste del decalogo, sotto il pretesto che si tratta di questioni indifferenti alla religione e di rappresaglie scusabili». Lo stesso Montalembert si levò dai banchi della minoranza a difendere il sistema rappresentativo, dichiarando che les couloirs di una assemblea valgono bene le anticamere dei palazzi. Non so, dice l’oratore a questo punto, se le riforme Bianchi verranno accolte dal capo del governo. Le previsioni non sono mai caute abbastanza quando si pensi al dinamismo dell’on. Mussolini e al fatto che questa estate pareva possibile una collaborazione colla Confederazione del lavoro. Ma se il concetto imperialista prevalesse, non è dubbio che i popolari alla Camera, pochi o molti che saranno, fra Veuillot e Montalembert, sceglieranno l’atteggiamento di Montalembert.

Guardando molti che oggi militano nel partito dominante, si capisce che erano pronti a salire tanto alla caserma rossa come a quella nera. E solo la circostanza politica che ha deciso, allo svolto di una via. Fra i due estremi sappiamo mantenere il nostro posto. Il tempo, disse un gran maestro della politica, sa per tutti trovare dei segreti che il genio stesso non trova. Siamo, conclude l’oratore. tutti d’accordo su questa linea strategica fondamentale? Ebbene, lasciamo da parte altre distinzioni tattiche che hanno un valore temporaneo. Non crede che tra le così dette tendenze di sinistra, centro e destra il divario sia essenziale. I Whigs, ha detto una volta O’ Connel, sono dei Tory non ancora entrati in maggioranza, e i destri sono spesso i sinistri vent’anni dopo. L’oratore preferirebbe che alla tradizionale topografia inglese si preferisse piuttosto la terminologia delle assemblee ateniesi. Colà esisteva una montagna, una pianura e… una «costa». Alla costa appartenevano in genere i negozianti, coloro che trasportavano dal mondo degli affari nella politica i loro metodi opportunisti e mercantili. Così nei partiti moderni vi sono i costeggiatori, i quali seguono ogni insenatura, girano attenti ogni scoglio e si tengono pronti ad approfittare del flusso e del deflusso. Ebbene, se ve ne sono anche nel nostro partito, noi dobbiamo trascinarli tutti verso il largo, proclamando che oramai la pessima legge elettorale ha almeno il vantaggio di disimpegnarci dalle preoccupazioni della manovra. Si va al largo, battendo bandiera propria, conquistandoci la libertà di predicare al popolo italiano che la sua salvezza sta nella democrazia cristiana. È questa libertà che i futuri deputati popolari chiederanno al potere nella Camera nuova, colla speranza di poter infondere, anche in parte di coloro che oggi ci sono nemici, la persuasione che tali principii saranno anche la fortuna della patria.

La nostra propaganda elettorale

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Alcide de Gasperi 2 occorrenze

L’oratore, che è stato più volte applaudito fervidamente dalla vivace assemblea, termina augurando che a tale opera di rinnovamento partecipi Venezia colle sue tradizioni e coll’opera del giovane e valoroso candidato prof. Ponti.

L’oratore non osa avvicinare questa nostra età alla gloriosa età precostantiniana, ma vi corre col pensiero per ril'evare che le lotte politiche si riducono sempre in fondo a lotte di principio e per trarne l’auspicio che anche alla moderna Italia il nostro sovversivismo porti il trionfo d’una fratellanza e d’una giustizia profondamente cristiana. Questo il significato e il nostro motto crociato: «Libertas». Come politici non ci affidiamo tuttavia solo all’azione lenta e sicura dell’idea. Libertas è per noi anche un programma di azione entro lo Stato. Questa parola oltrepassa la rivendicazione immediata delle libertà politiche, per significare la liberazione dei cittadini, delle associazioni, dei comuni, degli enti locali dall’eccessivo accentramento dello Stato. Quando al congresso del partito in questa Venezia Sturzo riferì sul decentramento parve ai più che si trattasse d’un problema tecnico amministrativo che non riguardasse la vitalità dello Stato e della Nazione. Ma oggi l’uso e l’abuso che fa dello Stato il partito al potere, persuaderà anche gl’indifferenti di ieri che il problema deve riguardarsi come il problema centrale italiano. Nell’80, gli uomini di destra si accorsero delle gravità del problema quando la Sinistra, assunta al potere, incomincerà ad abusare dell’amministrazione per i suoi scopi politici. Allora Silvio Spaventa si pose il quesito: come conciliare il principio parlamentare che dà il governo ad un partito colle garanzie di libertà e giustizia e d’imparzialità che deve avere il cittadino? E rispose proponendo la giunta amministrativa e il tribunale amministrativo. Ma queste riforme non bastarono. L’abuso dell’articolo 3 della legge comunale e provinciale ha finito col concedere ai prefetti tali poteri discrezionali che equivalgono in realtà ad una sospensione della costituzione. Il partito attuale poi abusa dell’organismo dello Stato in una misura che gli antichi partiti non conoscevano. I comuni sono scheletri, le provincie cadaveri, le associazioni sindacali vivono o muoiono ad arbitrio di sua eccellenza.

Votare con sincerità di spirito

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Alcide de Gasperi 1 occorrenze

Rinunzia per ora a precisarne il carattere e ad occuparsi dello stile che gli avversari, in qualche articolo di questi ultimi giorni, hanno usato contro di noi.Lo sottoporremo al giudizio del pubblico in un momento di serenità. Constatiamo tuttavia con piacere che finora incidenti gravi non si ebbero. L'incidente di Cembra, sul quale non è fatta la luce, dev’essere affidato subito all’imparziale sentenza dei giudici. Abbiamo l‘intima convinzione che i nostri amici sono senza colpa, e auguriamo che possano provare subito la loro innocenza Ieri mattina vennero bruciate lungo la via migliaia di copie del nostro settimanale. Abbiamo però assicurazione che l‘autorità interverrà di qui innanzi energicamente a proteggere la libertà di stampa. Confidiamo in queste assicurazioni, e commenteremo poi. La campagna avversaria è stata vivacissima. Tutte le correnti del fascismo locale, anche quello del ‘19, anche quello del ’21, dando tregua ai propri dissensi, si sono fuse in un blocco contro di noi, trascinando con sé anche parte dei liberali che, fino a poche settimane fa, ci tenevano a distinguere innanzi alla popolazione trentina le proprie responsabilità da quelle del fascismo locale. Nella campagna abbiamo visto fascisti che nel ’19 scrivevano e stampavano: «Noi dichiariamo la guerra, la guerra buona, senza quartiere al prete e a tutte le cose sue», predicare l’ossequio alla religione. Tutti convertiti, tutti mutati nella sincerità del loro spirito? Non giudichiamo gli uomini, non giudichiamo le coscienze. Ma un celebre storico ha scritto che in fondo ad ogni lotta politica si trova sempre un dissenso religioso. Il popolo sente istintivamente che tutta questa lotta contro il Partito popolare non avrebbe rifatta la concordia fra gli elementi più disparati, se non li unisse l’ostilità contro il prete. Si dice che si rivoltano solo contro il prete che fa politica. In realtà però lo si vuole non contenere entro i limiti che la prudenza pastorale consiglia, ma ricacciare completamente ai margini, completamente ai margini della vita pubblica. È bastato nel comizio di Vermiglio che un giovane prete si mostrasse ad applaudire, perché gli gridassero: «Vada in chiesa, non contamini la religione»! Così lo si vorrebbe spogliato dei suoi più essenziali diritti di cittadino che anche nelle recenti istruzioni ecclesiastiche sono espressamente riservati e garantiti. Confidiamo che il clero non si lasci intimidire e difenda con prudenza ma con fermezza la propria posizione d’italiani di pieno diritto. Noi protestiamo contro gl’insulti diretti contro il nostro maestro don Sturzo. (Applausi). Egli ha abbandonato da tempo il posto di segretario del partito, non ha parlato in pubblico per tutta questa campagna elettorale, non ha nessuna ingerenza nella amministrazione dello Stato; perché tanto accanimento da parte di coloro che hanno tutti i poteri? Perché l’insulto e il dileggio che abbiamo visto disegnato in questi giorni sulle nostre vie? Il popolo sente istintivamente che l’avversione è più insistente e più acre, appunto perché si tratta di un prete. Anche per questo il Partito popolare in questa campagna non ha voluto confondere le sue sorti con quelle del partito dominante. Noi non neghiamo i provvedimenti buoni del governo, né abbiamo ragione di non ammettere che molti fascisti siano religiosi, ma sentiamo che nella vasta corrente si sono convogliati elementi, dei quali dobbiamo diffidare. Può darsi che, Dio non voglia, questi elementi cerchino di preparare la lotta anticlericale in Italia. Perciò il Partito popolare deve stare in riserva. Si dice che il Partito popolare intralci con ciò l'esperimento fascista e perciò ci s‘invita a spezzare il nostro bastone ed a seguire la corrente. Ma il governo ha già assicurata, in forza del meccanismo elettorale, un’enorme maggioranza, ha la milizia; perché questa corsa sfrenata al sistema totalitario, perché negare la funzione storica e sincera dei partiti? E se l’esperimento fascista non riuscisse? Se cioè esso portasse sì a buone o non cattive novelle di legge, ma non risolvesse coi metodi il compito principale che è quello della pacificazione e della concordia nel paese? Finora questa auspicata meta non è raggiunta e crediamo che colla forza non si raggiungerà. Certi metodi la trasferiscono sempre più lontana. E allora che cosa ci riserva l'avvenire? Non è bene che vi sia un partito d’ordine, il quale distingua nettamente le responsabilità e riaffermi la legge d’amore e la giustizia sociale del cristianesimo? Parlando a quattr‘occhi, i più dicono, crollando il capo, che le cose in tal modo non possono continuare. Per ragioni d’ingenuità, d’opportunità, di debolezza finiscono tuttavia coll’approvare ed incoraggiare proprio ciò che vorrebbero biasimare. È così che il voto diventa per costoro un atto d’ipocrisia ed una menzogna convenzionale. Bisogna invece reagire alla seduzione dei tempi. Bisogna non disertare la propria coscienza, bisogna votare con sincerità di spirito e libertà di mente. (Vivissimi applausi).

Il dovere dei popolari nell'ora presente

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Alcide de Gasperi 7 occorrenze

Rispondiamo piuttosto a coloro i quali, nonché a diminuire, tendono invece a sopravvalutare le possibilità tattiche dell’opposizione, creando così uno stato di attesa miracolista e di impazienza morbosa, con scadenza a termine fisso. Non bisogna dimenticare che codesta (e ci si perdonino i termini bellicosi, applicati ad un’opposizione inerme) non è battaglia alla bersagliera, ma guerra moderna, che viene vinta da chi ha i nervi più resistenti; né si trascuri che le forze morali che combattono per la nostra parte vanno avanti non a sbalzi, ma per un processo di permeazione. Già esse hanno fatto un enorme cammino. Chi può negare ch’esso è dovuto in buona parte al fatto politico eccezionalissimo della secessione parlamentare, la quale ha riscosso tutto il paese, costringendolo ad affrontare in tutta la loro crudezza i termini estremi del presente conflitto politico? I congressi di queste ferie ne sono una prova. Secondo l’oratore conviene dunque affrontare l’avvenire con fiducia, con fermezza e senza impazienti nervosismi; e bisognerebbe che i popolari ovunque si trovino, sul terreno parlamentare o nei comitati locali, di queste virtù della milizia politica sapessero dare l’esempio.

A questo punto l’on. Degasperi spiega i rapporti dei popolari cogli altri partiti di opposizione. Dopo il 27 giugno ci troviamo sulla stessa linea tattica cogli altri partiti di opposizione: gli uni accanto agli altri, non frammisti, né confusi; non vincolati da alcun patto per l’avvenire, ma istintivamente solidali nella difesa dei diritti costituzionali contro la tirannia dello Stato—partito. Fino a tanto che lo scopo non sarà raggiunto e fino a tanto che il metodo legalitario sarà da tutti accettato ed osservato, questa linea difensiva comune va mantenuta. È vero: le differenze di origine, di programma e di finalità fra questi partiti sono essenziali; con leale reciprocanza esse non vengono né attenuate né dissimulate. Senonché sull’Aventino non si discute, non si delibera, non si combatte per la costituzione dello Stato-avvenire; ma si rivendicano i diritti naturali, comuni a tutti gli uomini e la validità delle leggi presenti, garantita a tutti i cittadini. Notate del resto che proprio l’accordo tattico, nonostante così profondi e non dissimulati contrasti, è la prova più decisiva dell’altissimo grado di pressione che aveva raggiunta la situazione politica in Italia e della irrefrenabile forza di resistenza ch’essa aveva suscitato. A fornire questa prova, il Partito popolare contribuisce coll’integrità delle sue forze morali, colla tradizione dei suoi principii legalitari, col suo carattere riformatore e ad un tempo antirivoluzionario; onde è spiegabile come le ire si appuntino proprio contro di esso e come si tenti di spezzare questa linea tattica che, prevalentemente in causa della nostra partecipazione, si potrà difficilmente presentare all’Italia e al mondo come la trincea dei cospiratori contro il presente ordine sociale. Eccovi così fugacemente accennate le cause degli sforzi fatti dagli avversari per staccarci dalle opposizioni ed eccovi nello stesso tempo adombrate le ragioni per cui noi a tali sforzi dobbiamo opporre la fermezza più perseverante.

Già in una circolare del luglio scorso la direzione del partito invitava le sezioni tutte a vigilare e ad operare, affinché le caratteristiche del partito venissero nettamente e vigorosamente affermate. Bisogna insistere oggi più che mai su tale direttiva. Dopo la limitazione e, spesso, la cessazione forzata di ogni attività, conviene oggi pensare ad una ripresa generale. Se nel campo organizzativo e delle pubbliche manifestazioni dobbiamo ancora tener conto della pressione governativa, ci rimane però la possibilità di attrezzarci per le battaglie di domani. A ragione l’Avanti! ricordava nelle recenti polemiche che «il moderno movimento democratico cristiano è indubbiamente (per i socialisti) più temibile del vecchio clerico—moderatismo». Per noi trentini che abbiamo opposto all’avanzata del socialismo il baluardo delle nostre organizzazioni, che ci costarono tanti anni di lavoro, non è necessario ricorrere ad esempi lontani. La preparazione e la maturità dei nostri fu tale, che quando la proporzionale amministrativa ci portò alla collaborazione con tutti i partiti, la nostra energia propulsiva non subì attenuazioni. Ma per ricordare esempi illustri di grandi predecessori, pensate a Decurtins che poté senza compromissioni o confusioni convocare il primo congresso internazionale per la legislazione del lavoro, aprendo le porte a tutti i partiti, appunto perché aveva fatto precedere un intenso lavoro di organizzazione e di chiarificazione entro gli operai cattolici svizzeri, o rievocate il fatto eminentemente caratteristico che il più autorevole delegato del Centro il quale assieme al Gröber e al prelato Mausbach fu chiamato in un’ora grave a cercare e concludere un modus vivendi coi socialisti più temperati, alla vigilia della costituzione di Weimar, fu proprio quel canonico Hitze, al quale si deve la legislazione sociale dell’impero germanico, opera che mirava a sottrarre i lavoratori alle seduzioni del socialismo. Non cito questi esempi per farne delle applicazioni a casi concreti che in questo momento non sono oggetto delle mie considerazioni, ma per avvalorare la mia tesi che tanto più i partiti sono attrezzati a sopportare una situazione di fatto che venga imposta dai rapporti di forza sul terreno politico, quanto maggiore è la loro chiarezza e la loro fermezza sul terreno delle dottrine e quanto è più intensa la vitalità del loro programma e della loro azione autonoma. È forse questa una conclusione troppo ovvia, ma io sento il bisogno di dirla, perché si sappia che nel momento in cui esigenze imprescrittibili della vita politica e civile portano i popolari a manifestazioni comuni con uomini e con partiti lontani dalle loro dottrine, essi sentono però nel tempo stesso il dovere di assicurare al loro programma cristiano tutta la virtù intrinseca di attrazione, di assimilazione e di rigenerazione politica e sociale.

In verità chi sta a Roma e non sente la voce della provincia ed è portato a giudicare dell’attuale governo sulla scorta delle decisioni del Consiglio dei ministri è tentato di accusarci di esagerazione; ma non lo farete certo voi, esclama l‘oratore — che pure appartenete ad una «provincia tranquilla». Anche le «provincie tranquille», quelle cioè funestate da un numero minore di conflitti offrono questo quadro: leggi impudentemente e impunemente violate, crimini non perseguiti dalla giustizia, contadini ed operai che devo— no abbandonare la terra dei loro padri per farsi emigrati politici, impiegati costretti a tutte le abdicazioni per non perdere un tozzo di pane, lavoratori privati di ogni libertà di associazione e sottoposti al monopolio sindacale più imperativo, cittadini illegalmente spogliati dei loro diritti amministrativi, spesso abusi di funzionari e talvolta corruzione di capi. Ma che cosa è tutto questo al paragone di quanto avviene nelle provincie più agitate? E c’è chi suppone che un partito il quale ha quotidianamente sotto gli occhi un simile panorama e sente giungere a lui innumeri voci di angoscia, di sdegno, di protesta, possa attenuare la sua opposizione, inaugurata quando un orrendo delitto politico non aveva ancora proteso sul regime la sua tragica ombra ed i fiancheggiatori non avevano ancora proclamato fallito il loro esperimento? Se noi, — dice l’oratore —, dopo averla spiegata, lasciassimo cadere la bandiera di combattimento, altra schiera più ardimentosa verrebbe a risollevarla; tanto insostenibile ormai, tanto insopportabile appare il presente stato di cose.

Gronchi, fra le più intolleranti interruzioni della maggioranza, ancora nelle prime sedute della nuova Camera: si ripeterono con accento più solenne, pari alla tragicità dell’ora, nel manifesto delle opposizioni e trovarono precisa espressione nelle dichiarazioni fatte dall’oratore a nome della direzione del P. P. I. il 16 luglio, dinanzi ai deputati, ai membri del Consiglio nazionale e ai segretari provinciali del partito. D’allora ad oggi nessun fatto, nessun provvedimento è intervenuto ad attenuarle, molti ad accrescerle. Si può rinunciare a ricordarle particolarmente, perché esse premono tutti i giorni sulla vita pubblica ed incalzano anche i più longanimi, anche i più ottimisti, i quali avevano riposto le loro ultime speranze nel patetico Incipit vita nova, pronunciato, in un momento che parve decisivo, dal capo del governo. Oggi come allora e più di allora vi ha ragione di ripetere le parole con cui in luglio l’oratore intendeva caratterizzare il sistema di governo: «una fazione la quale si è impadronita a mano armata del potere e a mano armata lo difende; una volontà la quale si riserva di usare alternativamente le armi del partito per dominare lo Stato e le forze dello Stato, per conservare la dittatura al partito; che ricatta le persone per bene con la minaccia del peggio per lo Stato e allarga le basi del partito con le clientele delle pubbliche amministrazioni. Questo giuoco di compensazione alternata importa che talvolta parli il duce, talvolta il presidente del Consiglio, con diverso e spesso contraddittorio linguaggio ma sempre col fine di rinsaldare le conquiste del fascismo, tollerando le leggi costituzionali e il sistema parlamentare solo in quanto possano dare l’investitura formale del potere di fatto, ma non come elemento costitutivo e risolutivo».

Fin d’ora tuttavia dovremo rivedere le nostre cognizioni e prepararci delle risposte concludenti a delle questioni che già spuntano sull’orizzonte e possono divenire predominanti. Queste per esempio: se il rinvigorito sentimento della dignità nazionale, il senso della disciplina e il concetto della missione ideale dello Stato, congiunti e compromessi dal fascismo colla politica reazionaria, si riconcilieranno in via di fatto coi criteri costituzionali di libertà e di democrazia; e se ne nascerà una nuova corrente politica. Se avrà pratico e largo sviluppo il tentativo di creare un partito neo—liberale il quale, risalendo alle origini, superi il semisecolare contrasto dei gruppi parlamentari liberali e dei suoi uomini più rappresentativi. Se infine la lotta fra le tre tendenze del socialismo porterà alla costituzione di un forte nucleo riformista con larghe e sicure adesioni operaie. Per giudicare di quest’ultima prospettiva gli elementi sono già numerosi: le dichiarazioni dei capi confederali di non voler ricadere nei passati ed espiati errori, la solenne rivendicazione della libertà sindacale, fatta assieme agli operai cattolici, ai quali una volta si negava ostinatamente il diritto di esistenza, le affermazioni dei congressi unitari per il gradualismo e il metodo democratico contro la violenza e la dittatura. Questi sintomi che costituiscono la posizione polemica degli unitari contro i comunisti ed in parte contro i massimalisti, dobbiamo considerarli senza illusioni eccessive, ma anche senza esclusivismi. Sorpassarli vorrebbe dire correre il rischio di trovarsi domani sul terreno delle realizzazioni di fronte a sviluppi e quindi a funzionalità ignorate. Poiché il fascismo, lasciando disgraziatamente sfuggire l’ora della pacificazione, ha perduta l’occasione di disimpegnare i sindacati dai partiti, è da credere che parte notevole degli operai industriali ritorneranno domani nelle organizzazioni socialiste, dalle quali spiritualmente non si sono mai staccati. Di qui l’interesse che il politico deve rivolgere a tale problema, tanto più se ha la convinzione, come noi l’abbiamo, che la questione sociale è presso a riprendere tutta la sua attualità.

Noi non verremo meno a questa linea e ci proponiamo di riprendere questo sforzo con tutto il vigore, sia di fronte alle classi operaie come ai ceti medi; onde, indipendentemente da quello che potrà essere la risultante delle forze parlamentari per la formazione dei governi, il partito nel paese, per le sue idee, per la figura politica, per la sua attività sociale, rappresenti per l’Italia quell’elemento di equilibrato progresso e di sano riformismo che in altri Stati rappresentano i partiti d’ispirazione cristiana. L’oratore avverte però che se tutti questi partiti, sorti quasi ovunque per la conquista delle libertà religiose, scolastiche e famigliari entro lo Stato liberale, hanno assunto un carattere democratico, il Partito popolare italiano, sopraggiunto più tardi quando lo Stato moderno era divenuto monopolizzatore anche sul terreno economico sociale, della libertà ha fatto addirittura il fulcro del suo programma, onde, nella presente crisi della libertà, il mettersi dalla parte della reazione equivarrebbe a tradire le ragioni d’esistenza del partito. Difendendo la libertà, i popolari difendono la loro bandiera. Dopo aver ricordato che il carattere democratico del partito è una logica conseguenza del movimento sociale, da cui esso deriva, l’oratore ha terminato con un inno entusiastico alla democrazia cristiana. (Una lunga ovazione ha coronato infine il discorso).

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