Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Il Mezzogiorno e la politica italiana

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Sturzo, Luigi 33 occorrenze
  • 1923
  • Opera omnia. Seconda serie (Saggi, discorsi, articoli), vol. iii. Il partito popolare italiano: Dall’idea al fatto (1919), Riforma statale e indirizzi politici (1920-1922), 2a ed. Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2003, pp. 309-353.
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Così è detto al capo V; e nel primo congresso nazionale tenuto a Bologna nel giugno del 1919 fu riaffermato che il problema del mezzogiorno è di carattere «nazionale». Questa impostazione data da noi a nome di un partito — e non più come opinione personale, alla ripresa dell'attività politica del dopo guerra, — passò ad altri partiti, che in varie forme fecero anch'essi simili affermazioni, benché non le avessero inserite nel loro programma; da ultimo anche il fascismo, che sembrava escludere affermazioni credute particolariste come questa, ha sentito che al problema del mezzogiorno deve darsi portata nazionale.

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Sì, è vero, vi sono problemi speciali, come quello degli agrumi e degli zolfi in Sicilia, quelli del terremoto a Messina, in Calabria, nella Marsica, la malaria, le arvicole, le frane in molte regioni, i porti di Bari, Palermo e Napoli, le bonifiche a Caserta, Salerno, Cosenza e Cagliari; ma in quali regioni non vi sono problemi locali di varia natura e di urgente soluzione?

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«Il periodo è caratterizzato dalla democrazia, che ha tentato di domare prima, di assorbire poi, infine di scompaginare la corrente proletaria; essa, vero strumento borghese, servì assai bene alla incipiente industria italiana, anche e specialmente a quella parassita, a carico e a spese dell'agricoltura e delle classi medie; e nel suo gioco politico pose sul medesimo piano le due forze del capitale industriale e del lavoro industriale, avvantaggiando il primo con la protezione e l'altro con i salari, ambedue assalendo per diverse vie lo stato in un'azione di pompaggio del denaro della campagna e dei risparmi non bene affidati, né allo stato come contributo d'imposte, né alle banche come mezzo di deposito e di impiego. Era il momento della trasformazione e dello sviluppo della nostra economia giovane e incerta, e le crisi ne soffocavano l'inizio; la classe più intelligente e fattiva prese naturalmente il dominio e la direttiva della vita pubblica, e fu la industriale che governò per interposta persona.

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«I commercianti degli zolfi, dei nitrati, dello zucchero, ricorsero al medesimo sistema e ne ebbero favori; ma la vera agricoltura fu assente dallo stato democratico e parlamentare; diede occasione alla larga letteratura sui patti agrari, specialmente del mezzogiorno, dalla inchiesta Jacini in poi; vide in molte plaghe depauperarsi la campagna a causa dell'emigrazione contadina; e cominciò a sentire la politica come espressione di vita provinciale, ove il feudo elettorale del collegio uninominale, i buoni rapporti con la prefettura e i carabinieri, la preminenza amministrativa all'ombra del proprio campanile, rappresentavano la somma della sapienza politica di equilibrio fra l'agente delle imposte e lo sfruttamento del lavoratore, che diedero i tristi bagliori dei fasci del ʼ93 e delle agitazioni del ʼ98.

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Dicevo, adunque, che la pressione della finanza bancaria ed industriale sul governo e sull'indirizzo statale, non poteva riferirsi a problemi meridionali, se non per coordinazione diretta o indiretta, e quindi la valutazione politica di tali problemi veniva a mancare nel peso della bilancia degli affari.

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Il dominio era ed è purtroppo in mano all'alta banca, e questa non è mai esistita nel mezzogiorno; il Banco di Napoli e il Banco di Sicilia sono enti pubblici, che hanno un cómpito ben circoscritto e giustamente al di fuori dei giochi di speculazioni e di impieghi aleatori, ed hanno, non certo a loro vantaggio, la funzione di istituti di emissione, che ne limita ancora di più la vitalità e lo sviluppo e ne burocratizza la organizzazione. Comunque, l'azione di tali istituti è ben localizzata e poco influisce sul resto della economia nazionale e dell'orientamento statale. L'alta banca e l'alta finanza erano altrove, nella loro sede più naturale: influivano sulla vita politica — in quanto è espressione e spesso conseguenza del fenomeno economico e ne determinavano lo sviluppo, in quanto la politica può, a sua volta, creare e sviluppare il fenomeno economico.

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Le stesse industrie, a tipo domestico e artigiano, — che prima del 1860 avevano nel mezzogiorno promettente sviluppo, non inferiore a quello del nord, quale la seta, la lana e il cotone — non potevano attirare l'attenzione dei finanzieri, perché vennero meno col cadere delle linee doganali interne e non poterono tentare la loro trasformazione industriale, perché lontane dal mercato generale. La stessa marina mercantile napoletana e siciliana — che primeggiava in confronto alle altre con l'unificazione perdette la sua posizione; la Sicilia rimase ancora per parecchio tempo nel tentativo di trasformazione e certo ne ebbe vantaggio, finché anche questa industria non si coordinò con quella ligure.

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A questa domanda, che è la domanda centrale del problema, e come critica storica pel passato e come costruzione per l'avvenire, mi sforzerò di dare una risposta chiara e, spero, decisiva, per la migliore comprensione della «questione meridionale».

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Come l'alta Italia ha una zona naturale di commercio e di comunicazioni che s'irradia nell'Europa centrale, specialmente del nord e dell'est, ed ha il suo sbocco a Genova — ed è bastata l'apertura delle Alpi prima e la triplice alleanza poi, a creare fino allo scoppio della guerra una economia che avesse per centro Milano — e in séguito alla guerra abbiamo meglio conosciuto il valore economico di Trieste e Fiume in rapporto al bacino danubiano; così il mezzogiorno continentale e le isole hanno la loro zona nel Mediterraneo, e sono non solo il ponte gettato dalla natura fra le varie parti del continente europeo in rapporto alle coste africane ed asiatiche, ma il centro economico e civile più adatto allo sviluppo di forze produttive e commerciali e punto di interferenza degli scambi. Il Mediterraneo fu sempre il bacino dell'Europa più denso di traffici; e la civiltà di vari millenni dimostra che sempre il Mediterraneo avrà una sua economia che non può venir meno, perché basata su necessità naturali. Anche quando il commercio con le Americhe aprì altri sbocchi all'attività umana e spostò le correnti europee; anche quando la formazione dei grandi stati del centro Europa variò il punto di riferimento e di convergenza degli interessi del mondo civile; anche quando la rapidità dei trasporti, a mezzo delle macchine a vapore per terra e per mare, modificò enormemente il ritmo dei traffici; con le naturali oscillazioni dei nuovi fattori di vita economica e politica, il Mediterraneo rimase un baricentro di attività produttiva che congiungeva l'Europa all'Africa del nord e all'Asia fino ai Carpazi. E il taglio dell'istmo di Suez fu il passo gigantesco che servì a riattivare i commerci di mare con le Indie fino all'estremo Oriente, senza il lungo giro delle coste oceaniche dell'Africa.

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Era possibile un'intesa commerciale ed economica con l'Albania, invece del sogno di occupazione o di protettorato o simili, infranto a Vallona? Sono domande, alle quali la nostra storia darà una risposta, che fin da ora io credo sarà negativa; servono a dimostrare che nel Mediterraneo c'è da fare una politica, non analitica, particolaristica, del caso per caso, ma coordinata e lungimirante.

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A parte la non completa valutazione storica e pur consentendo in molti rilievi economici, egli obbediva a preoccupazioni polemiche: quella di dimostrare che la unità italiana non ha danneggiato il mezzogiorno ( tesi che per noi è superata e dal fatto e dal valore che noi diamo all'unità nazionale, al di sopra di qualsiasi altro interesse), e la preoccupazione di dimostrare che a un mezzogiorno naturalmente povero, occorre la solidarietà nazionale per farlo risorgere, il che può divenire un errore di impostazione del nostro problema. Il mezzogiorno, non ostante le sue povertà naturali, la contrarietà del suo clima e la sua deficiente organizzazione sociale e politica, ebbe periodi di floridezza; e questi coincisero con una politica mediterranea. Veramente la parola «politica» nel senso moderno non è punto esatta, perché più che linee e direttive di politica voluta e prestabilita (a parte il periodo romano), vi furono fenomeni e fatti politici sotto l'influsso delle economie prevalenti. Queste crearono città come Siracusa e Agrigento, Taranto e Bari, Pesto, Capua e Benevento, Amalfi e Salerno, Palermo e Napoli; cioè il mezzogiorno della costa lussureggiante o della pianura ferace, a cui faceva capo la produzione agricola e pastorizia dell'interno, e la ricchezza mercanteggiata nel Mediterraneo. Il mezzogiorno povero — che soffre di tutte le avversità del clima, di tutte le asprezze della terra, di tutte le oppressioni fiscali, delle incursioni barbariche, della rapacità straniera, che per essere difeso diventa feudo della Santa Sede — è quello che non ha potuto polarizzare la sua economia verso la costa, non ha potuto formare il ceto agrario libero e produttivo con l'enfiteusi, non ha potuto superare le difficoltà dei trasporti e avvicinarsi al mondo che pulsa negli affari e nella vita: lotta gigantesca di secoli per ogni popolo, nel flusso e riflusso della civiltà e della economia.

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Si domanda da parecchi se è mai possibile che, nelle condizioni presenti, il mezzogiorno possa superare le difficoltà economiche; e, sia pure favorito da un indirizzo politico prevalentemente mediterraneo, vincere la lotta della concorrenza e passare da un'economia quasi passiva a un'economia attiva.

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Commette un grave errore chi nega al mezzogiorno lo sforzo di superamento, limitato a modeste energie, reso difficile da condizioni asperrime, a crearsi una agricoltura razionale (nessuno dirà che l'agricoltura del 1860 e quella di oggi siano le stesse), a tentare la trasformazione dei prodotti propri. Lo sforzo è stato discontinuo, limitato ad alcune zone, provato da crisi fortissime, senza una vera assistenza da parte dello stato, la cui opera è stata deleteria principalmente per tre ragioni: per il regime doganale, per la pressione tributaria e per la uniformità di legislazione economica.

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La spinta a una grande trasformazione economica deve essere data dalla certezza del vantaggio, e dalla sicurezza che sarà per quanto è possibile duratura. Per quante leggi si facciano, non si possono superare queste barriere della economia; né d'altro lato era possibile per il passato, e molto meno sarà possibile per l'avvenire, pretendere che lo stato abbia mezzi adeguati a concorrere utilmente ed efficacemente alla trasformazione economica del mezzogiorno; né è a credere che lo stato possa impunemente violare le leggi economiche, e creare d'un tratto una forza produttiva ove non esista.

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Lo sforzo politico deve essere, per legge naturale, pari allo sforzo economico, necessario a vincere gli ostacoli che si frappongono ad avere una produzione rimunerativa. Qui sta il nodo del problema; qui debbono convergere le forze autonome, quelle nazionali e quelle statali; cioè quelle morali, quelle economiche e quelle politiche.

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Del resto, tanto l'assenza di tale dazio quanto la sua permanenza dà luogo a speculazioni di mugnai o a guadagni di commercianti o a utili di latifondisti, nel gran crogiolo che è il traffico di simili derrate.

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Chi non ricorda il danno notevole che viene a noi per il fatto dei nostri centri rurali agglomerati e densi di popolazione agricola, quali nelle Puglie, nell'interno della Sicilia e della Sardegna, e in quasi tutto l'interno del continente? Sono case di contadini che, considerate come abitazioni urbane, vengono regolarmente colpite. E questo fenomeno demografico e sociale, imposto da condizioni fisiche, storiche e politiche, e che è argomento di inferiorità economica, si ripercuote in tutto il regime fiscale ed economico dello stato. I comuni sono classificati in base alla popolazione, agli effetti del dazio di consumo e delle varie tasse comunali. Questa classificazione opera in senso inverso per i sussidi e gli aiuti finanziari dello stato, per le scuole, per gli acquedotti e per ogni altro provvedimento. Onde, a correggere questa sperequazione, sono state create leggi a favore, quali le leggi speciali per la Sardegna, per la Basilicata, per la Calabria, e la legge fondamentale del 1906 per tutto il mezzogiorno. Ma mentre la pressione tributaria e il regime doganale operano con costanza e normalità, le leggi di favore non sono applicate: ovvero, nella loro applicazione, subiscono, e per i limiti del bilancio e per le ulteriori difficoltà finanziarie (dalla guerra libica ad oggi), una costante diminuzione, sicché il di-squilibrio fra le regioni delle altre parti l'Italia e il nostro mezzogiorno ne viene più che mai aggravato.

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Si facevano le leggi: accenno a quelle agrarie. Il disboscamento pazzo del mezzogiorno imponeva una ricostruzione forzata, che rinsaldasse le nostre pendici appenniniche e i nostri burroni, se mi è lecito dire, nembrodici. La legge del 1877 fu il salvacondotto di tutto il devastamento delle foreste alte e dei densi sottoboschi. Quando si pensò al rimboscamento, si ideò una commissione di classifica, la quale dimenticò che le Alpi erano una cosa e un'altra le montagne e le rupi del mezzogiorno. Si parlò della zona del castagno uguale per tutta Italia; o geografia ignorata dalla burocrazia, come ti sei vendicata a nostro danno!

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Così rispondo affermativamente al quesito, che assilla il pensiero italiano e meridionale, se il mezzogiorno può trasformarsi da un regime economico passivo a un regime attivo — si intende, nella affermazione di una politica mediterranea; — ma a condizione che si superino le tre barriere poste dal regime doganale, dalla pressione tributaria, dalla legislazione uniforme e livellatrice.

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Sotto questo aspetto deve guardarsi il problema delle spese pubbliche nel mezzogiorno, che non sono semplici criteri di favori che lo stato elargisce, ma ragioni organiche di vita locale e mezzo e strumenti di sviluppo generale, che lo stato integra o assume a suo carico, per la rivalutazione di energie produttive.

Pagina 338

A questa domanda l'istinto mi dice di rispondere di sì; ma prima di rispondere, occorre analizzare i fattori sostanziali di questa rinascita.

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A far ciò occorrono mezzi idonei. Il rilievo principale, che ho letto in molti libri che parlano del mezzogiorno, è che non vi sono capitali e che il ritmo del denaro è tardo. Gli statisti daranno ragione a coloro che dicono che il mezzogiorno non ha capitali; io dico che esso non ha fede nel suo capitale, e quindi gli altri non hanno fede in esso, non perché di fatto non vi siano dei capitali — benché in misura inferiore alla media generale per abitante italiano, — ma perché questo capitale o è messo nelle casse postali e di risparmio, ovvero in istituti che sviluppano la loro attività principale fuori del mezzogiorno, e in imprese che poco ci daranno in fatto di risorse e di compensi.

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Errore e miseria han portato una parte del ceto semiborghese, e anche del ceto operaio, verso l'impiego: l'istruzione secondaria di ginnasio, di scuole tecniche e anche (strano a dirsi) di scuole agrarie, han preparato una falange in cerca di posti.

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Perché non moltiplicare simili istituzioni, invece di sciupare tempo, denaro, energie, nell'asprezza delle lotte locali, di carattere personalistico, senza ideali, senza grandi soddisfazioni, che vincolano ogni sana attività e contristano e rendono abietti a sé e agli altri inutili, vittime e succubi della malavita locale qualunque ne sia il nome specifico o storico?

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Un secolo di sforzi, dopo l'abolizione della feudalità, dopo la quotizzazione dei demani comunali, dopo la vendita del patrimonio ecclesiastico, con tutti gli errori commessi, è valso a formare una prima zona intermedia fra il semplice lavoratore salariato e il latifondista; ed è erroneo dire che non esista il ceto medio nell'agricoltura meridionale. Certo, in nessun posto, meno nelle zone litoranee (che fan così bella cortina alle asprezze dell'interno), il successo del ceto medio è alla pari di quello del Piemonte o della Liguria. Ma bisogna aggiungere che né la politica generale, né la cultura scolastica, né l'avviamento professionale hanno contribuito assai a questa radicale trasformazione, che è tanto più difficile nel mezzogiorno, quanto minore è il capitale circolante e quanto più avverse sono le condizioni della natura, che non possono essere vinte senza grande sforzo. Però questo sforzo è, e deve essere, veramente nostro: poggiato su basi tecniche, solide, di attività e di intelletto. Dico «intelletto», perché la nostra cultura scientifica e ideologica, deve mirare, nella sua generalità, a formare una base realistica ai nostri problemi economici, tecnici e politici; perché le idee sono la prima forza, sono quelle che determinano la volontà, che creano le energie, che formano la grande sintesi dell'attività umana.

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È un vecchio pregiudizio, non espresso certo in termini così chiari, né prospettato in un quadro sintetico, come ho creduto di fare oggi a Napoli; è un vecchio pregiudizio, al quale sono legati interessi colossali, per ragioni di politica internazionale non del tutto italiane, né del tutto utili all'intera compagine del nostro paese.

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Ebbene, nessuno dei vecchi stati, che la guerra ha trasformato o distrutto, ha interessi diretti nel Mediterraneo in contrasto con noi; se la Jugoslavia tende a Salonicco, non può per questo danneggiarci, mentre si deve fare con la Jugoslavia nell'Adriatico una politica che si coordini alle nostre esigenze. Gino Arias, scrivendo appena dopo l'armistizio, depreca il ritorno di una politica economica con la Germania e gli ex-stati austriaci, perché potrebbe a nostro danno ripetersi il tentativo di asservimento del periodo triplicista; e crede che l'agricoltura italiana ne possa fare a meno. Oggi le condizioni economiche e politiche dell'Europa centrale non consentono imperialismi economici a nostro danno; né i rapporti fra l'Italia e la Germania di oggi hanno qualsiasi somiglianza o proporzione con quelli di quarant'anni fa. Per giunta, la nostra capacità industriale oggi è migliorata e lo sarà del pari domani, per quella utilizzazione di forze idroelettriche, che ci daranno una, per quanto parziale, autonomia dalla soggezione del carbone.

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Ebbene, questa politica sarà la nostra, insieme a quella mediterranea: politica puramente economica, di lavoro, di scambi, di cooperazione, di pace, di dignità verso l'estero (affrettiamoci a chiudere la vertenza di Rapallo e Santa Margherita con la Jugoslavia); in cui le due parti dell'Italia, nord e sud, abbiano due centri di sviluppo e di convergenza, come un insieme economico, che spunta più chiaro dalle rovine della guerra; la quale, insieme alla sicurezza dei nostri confini e al completamento della nostra unità, speriamo ci abbia dato la coscienza della nuova posizione politica. Non certo quella di essere l'ancella o il terzo incomodo dell'Intesa (che nulla seppe dare a noi del bottino di guerra, cosa che oggi ci giova nella valutazione morale degli altri popoli); non certo quella di puro equilibrio nel gioco delle grandi forze internazionali in contrasto, come avviene oggi nell'urto dell'Inghilterra con la Francia; ma quella posizione centrale, che possa farci fare una politica di pacifica espansione mediterranea e adriatica, che valga a valorizzare la nostra economia e gli sforzi produttivi delle nostre industrie e dell'agricoltura. Così il sud un'altra volta, dopo l'unità morale e politica conquistata nel 1860, si ricongiunge al nord nella unità economica, intravista, iniziata e voluta nel tormento del dopo guerra.

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Non voglio la taccia di sognatore: ogni idea nuova e vasta ha difficoltà a penetrare; la discussione sui giornali è stata notevole. La vecchia Intesa cade: meno l'interesse comune delle riparazioni tedesche e dei debiti e crediti, oggi il legame politico fra Inghilterra e Francia e Italia è scosso; i rapporti di buon vicinato e di vitalità economica dovrebbero continuare, superando naturali contrasti. Se la Francia diverrà monopolizzatrice del ferro e del carbone (cosa che all'Italia non giova), deve pur aver un mercato per vendere tali materie prime. Inoltre la Francia e l'Italia hanno interesse a non volere un'Austria legata o, peggio, unita alla Germania; e l'Italia dal suo canto ha tutte le ragioni a non volere ricostruito l'ex-impero austro-ungarico, neppure sotto l'aspetto di unione economica danubiana, che ricreerebbe con più asprezza, nel bacino adriatico, le vecchie lotte economiche e politiche. L'Adriatico deve essere mare comune all'una e all'altra sponda, e deve entrare nella nuova sfera di attività economica; Trieste deve risorgere, Fiume non deve morire; il loro hinterland sono Jugoslavia, Ungheria, Austria e Cecoslovacchia, e reciproco mercato è l'Italia: ponte verso ovest, sbocco di mare, forza economica superiore alla loro, nazione che non fa e non può fare imperialismi, e non può destare apprensioni ed ostilità.

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Per questo noi neghiamo il diritto a ministri e a uomini politici di venire a scoprire le nostre regioni, a compatire le nostre miserie; domandiamo ai partiti e al governo di conoscere fin dove la politica nazionale trova la sua convergenza nello sviluppo degli interessi locali.

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Per noi popolari il problema è sintetico; comincia col risanamento della nostra vita pubblica da ogni forma di parassitismo locale e di oppressione governativa, che crea l'abbiezione del pulcinellismo e del girellismo, lo sfruttamento delle basse voglie di partito, attenuando le attitudini a comprendere e a vivere la politica del paese. Noi vogliamo cooperare a far vivere il mezzogiorno con la sua vita e la sua figura, non avulso dal ritmo della economia e della politica nazionale, ma come parte integrante dell'Italia una: una di spirito, di volontà, di interessi, di fede, di vita e di avvenire. Sprezza e calpesta il mezzogiorno, chi ne sfrutta gli istinti e ne mantiene l'asservimento politico. Noi popolari, pochi, modesti, sinceri, diciamo una parola di verità e di amore al mezzogiorno: tutti i popolari, non solo i meridionali, tutti i fratelli di ogni parte d'Italia

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Essa non ha saputo elevarsi a forza motrice della vita del mezzogiorno, perché ha superato l'affarismo provinciale e non è mai divenuta un vero partito nazionale.

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A questo risorgimento del mezzogiorno noi — popolari e meridionali — vogliamo cooperare, come ad una nuova forza sorgente per la saldezza e grandezza della patria italiana, che riaffermi, nel futuro domani, i vecchi e i nuovi diritti nel Mediterraneo.

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Introduzione alla sez. "Riforma statale e indirizzi politici (1920-1922)

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Sturzo, Luigi 17 occorrenze
  • 1923
  • Opera omnia. Seconda serie (Saggi, discorsi, articoli), vol. iii. Il partito popolare italiano: Dall’idea al fatto (1919), Riforma statale e indirizzi politici (1920-1922), 2a ed. Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2003, pp. 101-131.
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1. - Ho dato il titolo di «Riforma statale e indirizzi politici» a questa raccolta di discorsi tenuti dal 1° ottobre 1920 al 18 gennaio 1923(*), (*) L'introduzione porta la data del 1° febbraio 1923, ma fu scritta nel dicembre 1922, come tra novembre e dicembre dello stesso anno fu composto il discorso pronunziato a Napoli il 18 gennaio 1923. Questi due studi, insieme al discorso di Torino del 20 dicembre 1922, furono scritti sotto le vive impressioni dell'avvento del fascismo e della costituzione del primo governo Mussolini con la partecipazione dei liberali, dei democratici radicali e dei popolari. Costoro vi parteciparono a titolo personale, sotto l'insegna della «normalizzazione»; la mia opposizione politica e spirituale al nuovo regime si espresse sostenendo la propria e autonoma personalità dei partiti nelle libertà politiche e sul piano delle più urgenti riforme statali. Le formule attenuate e qualche volta criptiche usate in questi tre scritti erano allora chiare a chi voleva capire e per chi conosceva la mia volontà di dare battaglia al momento opportuno. Il momento arrivò col congresso di Torino; il discorso pronunziato fu inserito in «Popolarismo e fascismo», che insieme a «Pensiero antifascista» farà seguito al presente volume. (N.d.A.) che rispecchiando, in tentativi di sintesi, lo stato d'animo politico del momento e il punto di vista del partito del quale esprimevo il pensiero, hanno tutti un unico piano programmatico di riforma statale,nella sua concezione organica e nel dinamismo della libertà, ed hanno un particolare sviluppo di indirizzi politici,che si imperniano in quella forma democratica e spirituale che è la ragione d'essere del popolarismo.

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2. - Il fatto ha molte spiegazioni: il partito popolare italiano servì mirabilmente a fare entrare i cattolici nella vita politica senza pregiudiziali antiunitarie e antinazionali, che avevano reso impotente la lunga protesta religiosa, che li allontanava dalla vita attiva nello stato liberale del risorgimento. Questo fatto nazionale di notevole importanza non fu colto dalla stampa come un vero atto di autonomia politica; e parecchi, anche a fini polemici, intravidero un travestimento del vecchio clericalismo e una permanente influenza del Vaticano nella politica militante del nostro paese. Ma poiché il partito popolare italiano, nell'acre atmosfera postbellica, prese vivaci posizioni di carattere sociale, e dal campo delle semplici affermazioni teoriche o dall'attuazione puramente economica (come aveva fatto fin allora la scuola cristiano-sociale con a capo Giuseppe Toniolo) passò ad operare sul terreno politico e sindacale delle lotte del lavoro; a molti parve che qui si esaurisse il suo compito, nei contrasti e nei contatti con i socialisti, in una lotta fatta (dicevano) di concorrenza, e in una preparazione parlamentare per un più deciso orientamento di sinistra. Nel visibile contrasto delle due posizioni derivate da aspetti fenomenici e da episodi polemici, non fu visto il fermento teorico e l'azione programmatica che veniva ad innestarsi nel corpo politico del paese; per cui fu più volte creduto (anche senza scopi polemici) che il partito popolare italiano — che aveva ricongiunti in uno sforzo nazionale e sociale molti cattolici d'Italia nel difficile travaglio del dopoguerra — avesse perduto la sua funzione momentanea; e le due tendenze originarie, con ideologie e interessi contrastanti, dovessero convogliarsi, come in Francia, verso forme politiche più realistiche, gli uni verso destra con i movimenti conservatori e nazionali, gli altri verso sinistra con i movimenti democratici, radicali e socialisti.

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Con queste premesse, oggi l'avvento del fascismo fa affermare a molti, facili a impressionarsi, che il partito popolare, come espressione politica di cattolici, non ha più ragion d'essere, date le affermazioni cattoliche e le tendenze spiritualiste del partito al governo; che oramai il movimento sociale non ha un'efficiente prevalenza, e deve confondersi nel nuovo corporativismo nazionale. Anche in questa concezione semplicista, l'equivoco e il pregiudizio mantengono il loro dominio e danno vivaci spunti ai giornali quotidiani.

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Note fondamentali e specifiche di tale scuola sono la forma organica, come base economica e politica della società, che porta al riconoscimento giuridico della classe; e la finalità pratica, che mira a sopprimere la lotta di classe come diritto sociale, pur ammettendola come fenomeno transeunte, da superare ed eliminare, in quanto possibile, nella dinamica interclassista dell'organizzazione statale.

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E come la filosofia razionalista, pur nel variare di metodi edi sistemi, cerca di ridurre il fenomeno religioso a proporzioni individuali, subiettive e subintellettuali; così la politica razionalista tende a fermare la ragione sociale della religione a un fatto di tolleranza e di subordinazione allo stato, e quindi ad elevare lo stato al di sopra delle proprie funzioni giuridiche, politiche ed economiche, a funzioni, anzi a struttura etica autonoma, della quale la religione può essere un mezzo utile e di educazione e di dominio.

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. - L'esperienza pratica dei cristiano-sociali o dei cattolico-sociali, e oggi dei popolari, direttamente e indirettamente al governo, partecipanti e viventi nello stato moderno, è servita a sgombrare molti pregiudizi attorno alla loro concezione statale, a far loro valutare nella realtà i presupposti teorici e a formare una corrente intermedia della concezione statale, che oggi ha l'adesione pratica di quanti rifuggono dal monismo liberale e da quello socialista, portati alle loro estreme conseguenze.

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L'influenza socialista sulla società borghese è servita a rifare tutta una concezione economica di fronte al più sfrenato liberismo, non mai a creare una teoria politico-statale. Mentre per il liberalismo razionalista, il primo politico (stato) diviene primo etico; per il socialismo, il primo economico (stato proletario) diviene primo etico; nell'un caso e nell'altro, lo stato è sostanzialmente il tutto (ragione panteista).

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Se ciò avviene in forma collettiva e duratura, determina le reazioni, che possono arrivare a ristabilire un certo equilibrio. Lo stesso è a dirsi se si abusa dell'autorità; questo è un fenomeno più pernicioso, perché più ordinato, più intelligente e più efficace, e le reazioni sono più gravi e piene di pericoli. La storia ha indici indubbi che l'abuso dell'autorità arriva a maggiori eccessi che l'abuso della libertà.

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Perciò, per noi, lo stato, in quanto società organizzata politicamente, è diverso dalla società e non si confonde col regime; non vi è quindi uno stato liberale o uno stato fascista o simili; vi è uno stato a regime liberale, a regime democratico, o a regime assoluto e così via; ma lo stato esiste con qualsiasi regime; e nella sua natura fondamentale e nelle suefacoltà naturali, con qualsiasi regime è sempre lo stesso.

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L'opera di disincaglio dello stato da tutte le superfetazioni create dal parlamentarismo democratico, spesso demagogico, sotto la pressione socialista, giova — è vero — a sgombrare il terreno da inutili inciampi; ma la non perfetta percezione della crisi, il timore di indebolire lo stato e forse anche la sopravvalutazione del potere politico, li fa tendere non solo ad un più forte accentramento amministrativo, ma anche a tentativi di riforme istituzionali in senso anti-liberale.

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La grande industria e la rapidità dei commerci han reso necessari i grandi stati, ed han contribuito ad elevare le masse popolari a un tenore di vita e di cultura, che li fa partecipi necessari della vita nazionale.

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Sotto questo aspetto, il nazionalismo dovrebbe negare l'imperialismo; perché ammesso che ogni nazione civile, cioè arrivata al suo grado di civiltà e di autonomia, ha diritto a governarsi e valorizzarsi; per ciò stesso non può non riconoscere il medesimo diritto ad altra nazione che si trovi o che arrivi a tale grado, e che si sviluppi nello stesso senso. L'imperialismo, come dominio su popoli civili o meglio che hanno coscienza di sé, è la soppressione del nazionalismo altrui. La civiltà progredita può dividere la Svezia dalla Norvegia, l'Irlanda dall'Inghilterra, può far ritornare a vita la Polonia e la Boemia, non ammette che la Francia disintegri la Germania e tenti larvate annessioni, o che la Russia miri a riprendersi la Polonia.

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- Oggi, per gli eccessi di un internazionalismo che nega la patria, perché la identifica con la società borghese o capitalista, molti tendono a svalutare e a combattere qualsiasi movimento internazionale. Ora, per il fatto che lo stato non è tutta la società, non può affatto negarsi, che entro i limiti dei fini morali, sociali, economici, politici della società, possa ammettersi una comunione fra persone e organismi di diversi stati (si esclude, s'intende, il caso di stati belligeranti, ai fini della difesa). Così non può negarsi oggi un contatto, non dico nel campo religioso, intellettuale ed economico, ma anche nel campo politico.

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La tendenza internazionale moderna trae la sua origine e la sua forza da una maggiore democratizzazione delle nazioni: l'ufficio centrale del lavoro a Ginevra è un tentativo di normalizzazione internazionale delle correnti operaie; la società delle nazioni, pur priva di autorità e di sanzioni autonome, è lo sviluppo di un processo storico e ideale di una certa importanza.

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A questue direttive ho tentato di dare una interpretazione storica e polemica con i miei discorsi.

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Anche il fascismo era minoranza, e credo lo sia ancora oggi, ed è arrivato a dominare, sia pure sotto l'aspetto di fazione armata, perché aveva i consensi dell'idealità nazionalista e della reazione conservatrice. Oggi esso si sforza di essere governo di tutti, per quanto sia ancora impregnato dello spirito di parte, e cerca di attenuare la posizione di fazione armata fino a confonderla con lo stato, e di disimpegnarsi dalla reazione conservatrice, tentando di mettersi al disopra dei contrasti economici.

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A questo tentativo il partito popolare italiano può rispondere largamente ed efficacemente anche per quella funzione morale, che è insita nella sua ispirazione cristiana. Ma quale possa essere nel decorso del tempo e dello svolgersi degli eventi la posizione pratica e politica del partito popolare italiano, fino a che esso rappresenta la sintesi programmatica e la teoria del «popolarismo» che gli ha dato anima e vita, compierà di sicuro un'alta e reale funzione nella vita del paese. Questa nostra nazione che come stato unitario ha tradizioni non ancora radicate e non tutte grandi; e che ha pochi elementi intellettuali direttivi di vita politica, che traggono origini alle sorgenti cavouriana, giobertiana e mazziniana del risorgimento; questa nostra nazione, che ha attraversato e attraversa una formidabile crisi economica e politica; questa Italia, che ha compiti internazionali di primo ordine, ma la cui inferiorità economica e l'incertezza politica ne ha attenuato l'importanza reale e decisiva che potrebbe e dovrebbe avere; attraverso lo sforzo politico, che è sintesi e rappresenta tutto il complesso di energie spirituali e materiali, deve arrivare alla sua completa valorizzazione. A questo sforzo solo i partiti che hanno una coscienza ideale, la fermezza delle convinzioni e la saldezza delle opere, possono oggi efficacemente concorrere.

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