Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Parlamento e politica

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Luigi Sturzo 2 occorrenze

Così impostata la battaglia, viene naturale rispondere al primo quesito se oggi sia matura una sintesi programmatica che interessi profondamente la nazione come cardine politico; questa sintesi è data da una compagine statale forte, coerente in sé, atta a superare le difficoltà interne ed esterne e resistere ai movimenti di disgregazione. Il bisogno ne è sentito da tutti, e tutti convengono che per ottenerlo è necessario in primo luogo il risanamento della finanza statale, il ripristino della forza della legge, la sicurezza dei rapporti con l’estero. Politica finanziaria, politica interna e politica estera sono tre cardini inscin¬dibili dello stato. Lo sforzo fatto dall’Italia dopo la guerra per superare la crisi che l’ha minata proprio al centro di questi tre cardini della politica statale, è stato eccezionale. Possiamo discutere se si poteva far meglio, se uomini e partiti abbiano bene assolto al loro cómpito, se i provvedimenti adottati siano stati completamente opportuni. Dobbiamo convenire che pur avendo passato tale periodo di sconquasso, a riguardarlo bene abbiamo noi stessi la impressione che ancora incomba il pericolo. Oggi la finanza statale è migliorata, il bilancio comincia a reggere, la fiducia ritorna; siamo agli inizi, occorre avere coraggio, affrontare la riforma della finanza dello stato, quella dei comuni e delle provincie, i cui progetti sono pronti, e insistere di fronte a tutti sulla tesi delle economie sino alle forme più audaci e più estreme, perché ogni sacrificio è giustificato per assicurare la vita alla collettività stessa di cui lo stato è organo e sintesi. Ma non vi potrà essere salda finanza se non vi è una politica interna forte che rimetta in primo piano la osservanza delle leggi, il rispetto all’autorità dello stato, la saldezza delle istituzioni, la sicurezza della economia privata, la garanzia del diritto. A ciò contribuisce sicuramente la fiducia generale che la crisi economica venga superata. Questo terzo elemento è dato principalmente dalla politica estera che investe, nel suo com¬plesso, i più gravi problemi dell’esistenza e dello sviluppo della nostra vita nazionale. È una vecchia tradizione del nostro regno che la politica estera sia subordinata alla politica interna; in¬vece, se subordinazione vi dovesse essere, sarebbe al contrario. La politica estera è e deve essere basata sulle ragioni economiche, morali e storiche del nostro paese; paese di emigrazione, abbiamo il dovere di fare una politica di valorizzazione dei nostri connazionali all’estero, di migliorare i nostri rapporti commerciali, di crearci una sfera di simpatie nel campo della economia, di stabilire quelle garanzie che valgano a rendere meno soggetta la nostra politica a gruppi finanziari e a stati egemonici. La politica del piede in due staffe, della amicizia da un lato e dell’alleanza dall’altro, dei protocolli che affermano e negano, dell’altruismo paesano che tradisce una debolezza e dell’infingimento che tende a far credere al successo, ormai è una politica sfruttata e assurda. Certo, le soluzioni avute nella politica estera da Vittorio Veneto ad oggi non sono in armonia coi nostri diritti, coi nostri interessi, con la nostra posizione futura. Tutta la serie dei trattati fino a quello di Rapallo segnano degli strappi; oggi però bisogna essere realisti e prendere quel che esiste ai nostri riguardi come punto di partenza per l’avvenire. Noi abbiamo bisogno di esportare mano d’opera e di importare materie prime; noi dobbiamo volgere le nostre attività verso Oriente; noi dobbiamo riprendere il nostro posto nel Mediterraneo. È una politica: farla o non farla; con serietà, con antiveggenza, creando una storia, uomini adatti, mezzi congrui. La politica estera è la più difficile per noi, per la posizione stessa della nostra patria, per il gioco degli interessi delle nazioni egemoniche, per la tradizione stessa della nostra politica e per la povertà economica che ci fa forzatamente tributari all’estero. In questo punto debole della nostra posizione nazionale, debbono convergere gli sforzi degli studiosi e degli uomini politici, su¬perando quella indifferenza ai problemi di politica estera, che per gran tempo ha segnato la caratteristica della nostra educazione nella vita pubblica.

E mentre gli uni credono che a rafforzare la compagine statale e darvi valore all’interno e all’estero devesi insistere ancora di più nella concezione dello stato centralizzatore, e aumentano ogni giorno la cerchia delle sue attività; altri, con noi, credono all’inverso che lo stato debba essere solamente organo politico attorno ai tre cardini della politica finanziaria, della politica interna e di quella estera e a quanto vi è inerente per la difesa del territorio, per la tutela della giustizia e del diritto e per il coordinamento e la integrazione delle altre attività pubbliche del paese. Da questa concezione noi deriviamo gran parte del nostro programma di ricostruzione pratica, in rapporto coi problemi più vivi e agitati che rispondono oggi alle esigenze im¬mediate e preparano il domani forte e risolutivo. I problemi fondamentali della nostra vita sono tre: uno economico, l’altro organico, il terzo spirituale. Il partito popolare italiano fin dal suo sorgere ha visto questi problemi nella loro ragione astratta e nella loro portata reale, e ha voluto precisare nel suo programma il punto di vista differenziale e fondamentale, quando ha riaffermato come punto di partenza e di arrivo la libertà. È il nostro motto: è stato il nostro grido, il fondamento del nostro appello. Parve strano, ci è stato negato che fosse necessario proclamarlo perché esisteva, hanno dovuto accorgersi, nel travaglio del dopo guerra, che la libertà in gran parte non esisteva più, era soffocata. Non la libertà economica, nelle costrizioni statali, negli inceppamenti formalistici e nelle ingiuste protezioni; non la libertà organica, nei privilegi particolaristici, nell’abolizione dell’autonomia, nell’accentramento burocratico; non la libertà morale, nella scuola monopolizzata, nella chiesa ancora sottoposta a vincoli esterni ed economici ed a proibizioni giuridiche, resti di vecchio giurisdizionalismo vuoto di senso. Lo stato e debole dove dovrebbe essere forte: nella tutela della legge, nel rispetto al diritto dei cittadini, nella garanzia allo sviluppo di tutte le libere energie; è invece forte dove non dovrebbe avere ingerenza diretta, ma solo coordinatrice e integratrice: nello sviluppo di tutta la vita che ferve alla periferia e che crea le energie produttrici del paese, morali, organiche ed economiche. Non noi solamente, molti furono anche gli uomini, studiosi e parlamentari, che all’indomani della guerra affermarono la necessità del ritorno alla libertà economica, per riprendere rapidamente il ritmo della produzione alterata e arrestata durante la guerra. Gli stessi uomini di governo vi aderirono; però, strano a ricordarsi, non vi fu periodo più rovinoso per la nostra economia di quello, per l’appunto, del dopo guerra. Istituti, consorzi, enti, gestioni fuori bilancio, monopoli si moltiplicarono in maniera incredibile; quelli creati durante la guerra furono conservati ed ampliati, soffocando ogni libera iniziativa, impedendo con leggi e decreti improvvidi la ripresa del ritmo economico, credendo che con semplici paraventi di cartone si potesse arrestare la forza dell’imperativo economico, legge ferrea della vita. Gli stessi favori economici e giuridici alle cooperative debbono essere inquadrati in una esatta visione di tali problemi, per non creare facili illusioni e formare una economia fittizia a danno della finanza dello stato. Debbono essere ridotte le protezioni allo stretto necessario per le esigenze dello stato, ed essere dirette a creare industrie indigene che si possano reggere da sé. Debbono perciò rivedersi le tariffe doganali, con un largo spirito di economia produttiva, senza tendere a sovrapporre le industrie all’agricoltura; debbono essere soppressi i regimi di sovvenzioni, e attenuarsi e ridursi secondo le esigenze reali della vita del paese le statizzazioni in materia economica e produttiva. È un audace colpo a tutta la congerie demagogica dello stato produttore, dello stato economo, dello stato protettore, dello stato assicuratore; è una audace rinunzia a tutto un bagaglio di parassitismo economico, che si è vestito tante volte di ragione sociale, per cui hanno peccato tutti in Italia, meno pochi, pochissimi ed inascoltati. Ma fino a che qualche po’ di denaro e di credito c’era, da poterlo anche sciupare tentando gli esperimenti (come, ahimè, falliti! A cominciare dalle poste di stato, per finire alle ferrovie dello stato, ed all’ormai defunto monopolio del caffè che ha avvelenato tanti stomaci italiani), era tollerabile che tutti i democratici d’Italia battessero le mani, e che gli increduli nell’avvento della economia associata fossero ritenuti della gente vieta e sorpassata. Ma quando la lira italiana oscilla a 20 centesimi, e abbiamo nel nostro territorio almeno due milioni di italiani in più di quelli che comporti la nostra potenzialità lavoratrice e produttiva, oggi non è lecito buttare allegramente il denaro dello stato, cioè della nazione, in sì tristi esperimenti. Bisogna assolutamente avere un programma di smobilitazione economica dello stato, senza quella perdita di tempo che tiene tuttora in vita dei consorzi di approvvigionamento già condannati, e che fa temere la sopravvivenza del monopolio del grano con l’annunzio di un miliardo di presunti utili, quando manca la ragione della sua esistenza per il pareggio di costo fra il grano prodotto e quello importato, le cui oscillazioni potrebbero correggersi con un razionale regime doganale. Occorre sopprimere quei dicasteri dove si annida la speculazione parassitaria, creata con arte attraverso leggi, e regolamenti nelle cui pieghe non sanno leggere gli stessi ministri che li controfirmarono. Tre quarti almeno della legislazione economica esistente si dovrà annullare, e per buon tempo è bene che i deputati — avvocati o medici — si astengano dal fare nuove leggi in materia. Le mie parole sono forti; i desideri sono radicali, e vorrei avere il tempo per dimostrare quali errori economici sono stati compiuti e quanto sia necessaria la libertà economica che tutti invochiamo, ma che non si ha il coraggio e la forza di restituire al paese; perché in Italia il governo, qualunque governo, è ormai prigioniero della burocrazia legata, anche senza malizia, a una nuova classe di affaristi di stato. Questo nostro grido di libertà economica non è però un grido di iconoclasti, né vuole abbattere quelle conquiste sociali che sono state invocate da gran tempo da tutte le scuole. Il regime delle assicurazioni operaie, la tutela del lavoro igienico e morale, le provvidenze atte ad agevolare le forme economiche del partecipazionismo non contraddicono al concetto di libertà economica nel senso già espresso in confronto alla pretesa eco¬nomica statale; solo limitano la ragione economica privata per una funzione sociale del capitale, e ne determinano certi rapporti col lavoratore come persona umana operante, non come cosa o strumento dell’opera. Ciò è ormai pacifico anche fra i partiti e fra i rappresentanti diretti degli interessi dei produttori. Quello che non è pacifico e attesta sempre il medesimo errore, è che il regime sociale associativo, mutuale, previdente del lavoro, lo si voglia far divenire servizio statale, monopolistico, meccanico; e che lo stato voglia creare attorno a tali istituti una classe, un partito, una burocrazia, una casta privilegiata e predominante.

La regione

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Sturzo, Luigi 45 occorrenze
  • 1921
  • Opera omnia. Seconda serie (Saggi, discorsi, articoli), vol. iii. Il partito popolare italiano: Dall’idea al fatto (1919), Riforma statale e indirizzi politici (1920-1922), 2a ed. Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2003, pp. 194-231.
  • Politica
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Da molti si è creduto sinora che le questioni del decentramento amministrativo, dell'autonomia locale e della costituzione della regione fossero da lasciare ai professori ed ai comunalisti, perché l'opinione pubblica e gli uomini esponenti di essa non si sono appassionati a tali problemi; si seguiva in ciò quasi inconsciamente quell'indirizzo che la politica burocratica italiana ha assunto come suo speciale cómpito: svuotare, cioè, l'amministrazione libera ed autonoma di ogni cómpito specifico, rendere i controlli amministrativi e contabili strumento politico, ridurre a semplice attività dipendente dallo stato, quella che doveva essere manifestazione e attività amministrativa libera e responsabile. D'altro lato ogni ulteriore forma di attività, specialmente nel campo sociale, veniva organizzata dal centro al di fuori di ogni organo elettivo e rappresentativo di interessi generali, tendendo contemporaneamente alla formazione di organi classisti, speciali, particolaristici; ai quali perciò veniva tolta la caratteristica propria e la libertà organica, per il fatto stesso che si affidava a elementi burocratici la ragione politico-sintetica e la decisione definitiva di ogni questione tecnica e amministrativa. Quali e quanti siano i comitati, le commissioni, le giunte consultive, autonome, miste, presso le prefetture e presso i ministeri, non lo può sapere nessuno, e sarà difficile fare una guida del perfetto cittadino, che dia il filo, novella Arianna, per girare sicuro il labirinto della nostra burocrazia. Come ultima espressione di simile tendenza, fin da prima della guerra, ma con sistema accelerato e durante e dopo la guerra, sono stati creati monopoli, enti, consorzi, federazioni, istituti amministrativi, commerciali e industriali, per poter riuscire a risolvere un problema assillante, quello di sfuggire agli eccessivi controlli dello stato e alle barriere amministrative costruite dall'abile mano burocratica per il cosidetto gioco di scaricabarile, ovvero rimbalzo delle responsabilità, e avere nello stesso tempo il denaro dello stato, al di fuori di quella elementare responsabilità politica che costringe il ministro a rispondere dei suoi atti al parlamento.

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Nitti nel luglio 1919 ad una commissione di deputati popolari prima e al segretario politico del partito dopo, a favore delle autonomie delle terre redente, specialmente scolastiche, che per il significato della nomina dell'on. Credaro a commissario di Trento sembravano compromesse. Questa posizione presa dal partito popolare fu costantemente continuata dal succedersi di ministeri; si ottenne che nel discorso della corona e nella legge di annessione, se ne facesse speciale accenno; si deve all'azione singola e collettiva dei deputati popolari e della deputazione trentina la più oculata e strenua difesa di quelle autonomie. Come a coronamento di questa azione il sottoscritto, segretario politico del partito, andò a Trento nel gennaio 1921 per una solenne affermazione autonomistica e regionale.

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Prima di entrare in argomento, credo opportuno riassumere brevemente come si sia svolto il pensiero e l'attività del partito popolare italiano attorno a tali problemi e alla loro pratica soluzione.

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«ritenuto che uno dei postulati fondamentali del programma del partito popolare è l'autonomia e il decentramento amministrativo a base regionale; e che a tale criterio si e ispirato il gruppo parlamentare nel proporre l'istituto delle camere regionali di agricoltura, come ente autarchico, primo esperimento di decentramento amministrativo dell'agricoltura (che è così varia e distinta nelle diverse regioni d'Italia) e di rappresentanza di interessi di classe a base sindacale (vero elemento ricostruttivo del paese);

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In rapporto a tale voto, i deputati popolari del mezzogiorno (luglio 1920) deliberarono il seguente importante ordine del giorno:

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5. - La battaglia per la proporzionale amministrativa è stata impostata come uno strumento di autonomia e di libertà; e le affermazioni notevoli dal centro alla periferia, in ordini del giorno e in discorsi, crearono un ambiente adatto alla più larga propaganda nel paese a favore della riorganizzazione dello stato sulla base del più largo decentramento e delle forze regionali del paese. I discorsi dei nostri parlamentari nelle vivaci discussioni del luglio e del novembre 1920, e tutto il periodo della lotta elettorale amministrativa e il successivo delle assemblee provinciali dei comuni popolari, ebbero per elemento-forza il nostro programma autonomista. Le circolari della direzione del partito (novembre 1920), i discorsi del sottoscritto a Torino ed a Roma nell'ottobre 1920, a Napoli nel novembre 1920, a Torino, Padova, Brescia, Verona, Genova e Trento nel gennaio 1921, gettarono la base concreta del successivo movimento regionalistico svolto nel presente anno e che ha autorevole e importante espressione nell'attuale congresso nazionale.

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«5° — che nell'ordinamento centrale si tenga a riunire le funzioni simili in forma organico-sintetica per impedire la suddivisione di competenze sulla base di una oggettivazione schematica di categorie prestabilite, che impedisce la visione completa di un affare qual è prospettato dalla realtà per la molteplicità di interferenze unilaterali da ministero a ministero e da divisione a divisione, sì da intralciare l'andamento dei servizi stessi; e si proceda quindi alla riduzione di ministeri, di direzioni generali e divisioni, create spesso più per sfogo di carriera e per eccesso di centralizzazione che per necessità organica dei pubblici servizi;

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«confida che a tali criteri fondamentali saranno ispirati gli studi e le proposte della commissione e la conseguente azione del governo».

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«3° — che siano semplificati i controlli e resi veramente efficienti e si tenga a garantire la pubblica amministrazione più che altro nel momento di agire e deliberare, impersonando la responsabilità senza attenuazioni preventive, con la molteplicità di organi e col funzionamento di competenze;

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Tangorra a nome del gruppo parlamentare popolare a proposito della riforma dei servizi pubblici;

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«invita la direzione del partito a promuovere pubblicazioni atte a creare attorno al problema del decentramento e dell'autonomia amministrativa una coscienza popolare, necessaria perché le soluzioni invocate siano assistite dal consenso e dal favore generale».

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«impegna il proprio gruppo a tutelare e favorire le autonomie e libertà locali esistenti nelle terre redente e a promuovere la riforma, in senso autonomistico, dei comuni e delle provincie, riforma già promossa con R. D. 18 maggio 1918 e ancora allo studio della speciale commissione;

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7. - Sciolta la camera, la questione regionale fu riaffermata come una delle tre libertà messe a base della lotta elettorale politica, come cioè: la libertà organica,e fu segnata come una conquista della nuova legislatura con le seguenti parole messe nell'appello al paese: «maturata oramai nella coscienza pubblica la necessità della riforma dell'organamento statale, sulla base di un largo decentramento fino alla costituzione amministrativa della regione, che si riallaccia alle pure tradizioni italiche e che servirà a rafforzare lo stato nelle sue vere funzioni politiche»; e fu riaffermata da me solennemente nel discorso elettorale dell'Augusteo a Roma («Parlamento e Politica»); e nei discorsi elettorali di De Gasperi e Anile.

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Giolitti l'aveva consacrata nella relazione al re pel decreto di scioglimento del parlamento e poscia ebbe a farla ripetere al re nel discorso della corona. I giornali parlarono di vittoria popolare.

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Bonomi non ebbe nessuna difficoltà a dichiarare che le affermazioni venute dal banco del governo non volevano in alcuna guisa limitare per i popolari la libertà d'azione che spetta ad ogni gruppo della maggioranza.

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- Altra occasione di affermazione autonomista è stata la battaglia sulla libertà scolastica: battaglia iniziale per l'esame di stato; però un primo cenno a proposito di autonomia scolastica regionale si ebbe al congresso di Napoli, nell'ordine del giorno Anile, riguardo al problema universitario; altro più deciso si è avuto nella posizione presa dal gruppo parlamentare a favore dei comuni autonomi nell'amministrazione delle scuole elementari (legge 4 giugno 1921) per i quali nel luglio passato fu presentato apposito progetto di legge. La questione dal lato tecnico viene oggi ripresa nel congresso nazionale, su relazione dell'on. Piva.

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Bonomia confermò essere suo preciso intendimento di profittare delle vacanze per preparare un disegno di legge che, tenendo conto degli studi già fatti in questa materia, attui un decentramento amministrativo a base regionale soprattutto in fatto di lavori pubblici, istruzione, agricoltura, sanità, assistenza sociale.

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Un rapido esame di tali oggetti dà chiara la visione dell'importanza e della necessità dell'ente che viene a costituirsi, e quindi ne determina anche la ragione organica e rappresentativa.

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Il controllo industriale e commerciale della vita del paese è confuso con una speculazione economica che grava su quel dicastero; il quale dovrebbe essere unificato con quello dell'agricoltura e del lavoro, e chiamarsi della economia nazionale, e dovrebbe limitarsi a funzioni di statistica, di controllo, di propulsione, e trattare sul serio quello che è suo cómpito: tariffe doganali, trattati di commercio, sviluppo di forze economiche, legislazione sociale. Accanto a questo ministero della economia nazionale dovrebbe funzionare il consiglio superiore del lavoro o meglio il consiglio economico.

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. — Come i comuni hanno servizi statali delegati (a cominciare dal sindaco che non solo è ufficiale di stato civile, ma nei piccoli comuni ha funzioni di pubblica sicurezza), come le provincie provvedono a determinati servizi igienici (fornitura del pus vaccinico), così alle regioni possono attribuirsi, nello sviluppo delle leggi, dei veri servizi statali: ad esempio potrebbero far parte di organi misti presso le amministrazioni dello stato, come potrebbero essere una specie di consigli misti di finanza presso le intendenze regionali (e a sperare che si sopprimano le intendenze provinciali) per quegli atti amministrativi che entro una certa cifra possono essere compiuti sul posto, senza intervento del ministero. È inutile insistere in un elenco di proposte; il sistema è vantaggioso allo stato e ai cittadini, e non è contrario alle tradizioni della nostra vita pubblica.

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A completare l'esposizione credo opportuno accennare in proposito allo stato di diritto e di fatto,trovato nelle provincie annesse riguardo alle autonomie (amministrative e legislative); anche in riferimento ai corpi tecnici esistenti.

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La «provincia» nella Venezia Giulia e nella Venezia Tridentina è qualche cosa di più della provincia nostra anche nei rispetti territoriali, e per la stessa sua genesi storica si avvicina molto a quella che noi chiamiamo «regione». Sostanzialmente, poi, è anche maggiore la concordanza fra la competenza delle diete provinciali e quella che noi vorremmo attribuita agli organi rappresentativi della regione. Le diete provinciali delle terre redente hanno anzitutto (patenti imperiali del 1861) una vera e propria funzione legislativa: per alcune materie (come p. es. l'agricoltura, le pubbliche costruzioni, la beneficenza) sono anzi l'unico organo legislativo, essendo esclusa ogni ingerenza del parlamento centrale. Per altre materie (come per es. gli affari comunali, la pubblica istruzione elementare, gli oggetti di culto ecc.), la competenza legislativa delle diete, pur soverchiando i limiti dei regolamenti d'esecuzione, è sussidiaria e complementare, tenuta com'è a rispettare le norme generali dettate dal parlamento. Ma in qualcuna di tali materie (come per i comuni) negli ultimi decenni il parlamento aveva ceduto ogni suo potere a favore delle diete. Quando non fosse chiaro se una materia rientrava nella competenza del parlamento centrale o delle diete provinciali, la presunzione era a favore delle diete, per disposizione espressa sancita dal parlamento di Vienna nel 1907.

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Ma non mancano le eccezioni alla regola, dettate o da particolarità politiche proprie a singole materie o da situazioni speciali di luogo. Così per l'azienda scolastica elementare, preoccupazioni politiche da una parte e finanziarie dall'altra, hanno portato ad affidarla virtualmente ad organi misti — i consigli scolastici provinciali, distrettuali e locali la cui composizione però, in parte di provenienza autonoma, in parte statale e in parte elettiva (delegati dei maestri), è pur sempre regolata solo da leggi provinciali. Così, d'altra parte, per l'agricoltura in alcune provincie (Venezia Tridentina ed Istria) la massima parte della gestione pratica fu dalle diete delegata a consigli provinciali agrari di composizione mista ma non prevalentemente governativa. Altrove invece (p. es. nella provincia di Gorizia e Gradisca) anche l'agricoltura è posta alla diretta dipendenza della giunta provinciale, con un proprio ufficio agrario. In qualche campo, come in quello delle strade non nazionali, l'esperienza dell'ultimo periodo prebellico è contro gli organi separati e misti (comitati stradali distrettuali), e la legislazione provinciale tendeva a porre le strade, che non siano di valore puramente comunale, alla diretta dipendenza di uffici della giunta provinciale.

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Il primo problema va posto così: — si deve tendere a fare della regione un ente unico, organico, rappresentativo, che adempia, con propria amministrazione, finanza e responsabilità, ai vari compiti indicati nella elencazione delle funzioni suddette; ovvero la regione rimane come circoscrizione, ragione collettiva e differenziata di vari enti o meglio organismi specifici rappresentativi, diretti o misti, per ogni singola funzione importante? Nell'attuale ordinamento delle terre redente è già, in embrione, posto e risolto il problema. Per chiarezza è meglio esemplificare: — attualmente esistono in ogni provincia camere di commercio, con rappresentanza diretta delle classi o categorie interessate e a scopi determinati; si riconosce oramai da tutti che per la circoscrizione limitata (la provincia) e per le funzioni date dallalegge, tali camere non rispondono allo scopo e dovranno esser trasformate; supposto che prevalga (com'è da augurarsi) l'organizzazione commerciale per regioni, devono tali camere essere organo specifico a sé o essere assorbite dall'organo edalla rappresentanza regionale?

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Lo stesso è a dirsi per esempio del magistrato delle acque nel Veneto, dei consorzi ed enti portuali, degli enti per lavori pubblici a carattere locale decentrato, dei consigli scolastici per regione, delle commissioni per la disoccupazione, degli enti per le assicurazioni e previdenze sociali, delle future rappresentanze locali delle classi lavoratrici e così via. In sostanza, si deve arrivare ad una sintesi regionale rappresentativa, ovvero ad una serie di organismi ed enti a contenuto specializzato di categoria e quasi classista?

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Si può anche concepire (in sostituzione e non in aggiunta) un senato elettivo a base amministrativa ed economica, che legiferi di pari grado con la camera dei deputati; non si possono concepire corpi amministrativi locali specializzati, senza spezzare l'unità reale della vita e senza che divengano o enti rachitici, organi impacciati, forze avulse dalla realtà, oppure forze guidate a scopi sovvertitori dell'ordinamento politico.

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Chiarisco le parole in corsivo: ente elettivo-rappresentativo,perché non sia formato tramite elezioni di secondo grado di enti locali, né per via di nomina statale, ma in base a elettorato diretto, a suffragio universale, comprese le donne, e a sistema proporzionale; ente autonomo-autarchico,perché esso in base alla sua legge costitutiva governi veramente, e da tale legge derivi il suo carattere; non sia quindi un ente statale, con poteri delegati che abbia per capo un governatore; ente amministrativo-legislativo,che abbia finanza propria, con facoltà di imporre tributi; che amministri tali fondi con legge di bilancio; che, nel complesso della sua attività specifica, statuisca leggi e approvi regolamenti tali da avere vigore nell'ámbito del proprio territorio. Non nego, con ciò, il possibile intervento statale; quale esso debba essere, vedremo più innanzi.

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È chiaro anzitutto come una funzione coordinatrice delle attività speciali delle regioni spetti ai vari dicasteri specifici; dico coordinatrice, sianei rapporti fra varie regioni tra di loro, sia nella distribuzione e assegnazione a ciascuna regione di fondi speciali (agricoltura, istruzione, lavori pubblici e così via), sia per la parte reclami in seconda istanza per le materie nelle quali la legge stabilisce un intervento statale; oltre, s'intende, a quanto dà luogo ad azione contenziosa o giurisdizionale, per le quali restano ferme le attuali leggi vigenti, salvo una revisione per migliorare gli istituti stessi, cosa che non ha diretta connessione con la riforma regionale.

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Ma ben altre funzioni dovrebbero essere demandate all'ente provincia, rispondenti a necessità organiche della vita locale. In primo luogo, l'organizzazione e la rappresentanza (diretta o indiretta) di quanto nel campo della cooperazione, delle assicurazioni sociali, della previdenza, della beneficenza, del lavoro, dell'agricoltura viene creato come organo tecnico o arbitramentale o di propulsione o di propaganda attualmente presso le prefetture e le intendenze di finanza o come organi autonomi di enti centrali, da passarsi, come abbiamo detto, alle regioni, dovrebbero trovare nelle provincie un mezzo di decentramento locale adatto a funzioni amministrative permanenti e a dare naturale sviluppo a quanto corrisponde agli interessi collettivi, senza le preoccupazioni politiche o burocratiche, di prefetture o di intendenze. E anche quando, nei vari corpi tecnici e consultivi da creare, occorra la rappresentanza del governo o di enti statali o semistatali, l'ente provincia è molto più adatto della prefettura a dare a tale corpo carattere amministrativo non politico.

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istituzione di contributi di miglioria obbligatori a favore dei comuni e delle provincie per devolvere a loro vantaggio il plus valore di beni stabili dipendenti dalla esecuzione di opere pubbliche e abolizione dell'imposta comunale sulle aree edificabili;

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3) istituzione a favore dei comuni di un'imposta generale sulla spesa con carattere indiziario ed a larga base e abolizione delle imposte speciali che ora colpiscono indici di agiatezza, cioè: valore locativo dell'abitazione, vetture e domestici, cavalli da sella e da tiro, pianoforti, bigliardi e simili;

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6) istituzione a favore dei comuni di un'imposta ad alta aliquota sul consumo delle bevande alcooliche e abolizione della corrispondente tassa di licenza;

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4) istituzione di un'imposta comunale con sovrimposizione a favore delle provincie sui redditi delle industrie, commerci e professioni; abolizione della tassa di esercizio e rivendita;

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8) istituzione di speciali contributi a favore dei comuni e delle provincie a carico di coloro che più intensamente fruiscono di determinati servizi pubblici;

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10) cessione definitiva a favore dei comuni di tutti i dazi interni di consumo di spettanza dello stato;

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9) passaggio a favore dei comuni delle imposte sui pubblici spettacoli di ogni specie con diritto ed applicazione di aliquote accentuatamente progressive. Passaggio ai comuni della tassa di bollo sui biglietti delle tramvie urbane;

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Nel discutere se l'ente regione debba essere un organo unitario sintetico (e quindi politico nel senso originario e tipico della parola) ovvero una circoscrizione per enti specifici a tendenza o a tipo classista o almeno sotto l'aspetto di rappresentanza di interessi, ho già dato la chiave per la soluzione del problema, nel senso di aver fissata la linea di massima che arriva al consiglio economico al centro, e alla periferia a corpi speciali rappresentativi nell'unità regionale; ed ho aggiunto, accennando alle funzioni provinciali, che gli organi del lavoro, della cooperazione e della mutualità, che oggi hanno una vita stentata, assiderati anche dal prevalente carattere statale, debbono nella loro rappresentanza, diretta o mista, trovare nelle provincie il coordinamento, lo sviluppo e la sede.

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Precisati così i criteri e i limiti dell'autonomia locale, tutte le altre questioni speciali hanno il loro inquadramento e la loro soluzione in base a queste direttive.

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Potrà sembrare a qualcuno che nella soluzione del problema locale (comuni, provincie, regioni), non si sia tenuto sufficientemente conto di uno dei nostri postulati organici, cioè: il riconoscimento giuridico delle classi, la loro rappresentanza e il loro coordinamento nella vita locale e generale del paese.

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Si dice che proprio quando la tendenza nel campo della vita economica è centralizzatrice, e si procede per organizzazioni che chiamo a linea verticale,a grandi sindacati specializzati, a grandi trusts industriali ecommerciali, e quando perfino l'agricoltura, tipicamente locale, assurge a grande organismo unitario, con confederazioni e banche, e gli interessi dei lavoratori tendono ad un livellamento unico di salari, di tipi di contratti, di sistemazione rappresentativa e giuridica, e quando si è lavorato indefessamente a svuotare gli enti locali, comune e provincia, di ogni competenza od ingerenza nello sviluppo di tali attività, lasciando ad essi solo le beghe e le lotte elettorali e l'obbligo di mettere tasse e pagare stipendi; si vuole invece con un colpo secco mutare rotta stabilendo o promuovendo un'organizzazione che chiamiamo a linea orizzontale,che interrompe per regioni e per provincie la costruzione unitaria e crea organi diretti e locali dell'amministrazione pubblica del paese.

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In questo stato di formazione e di sviluppo, la tendenza più sana è quella di non fissare le forze economiche vaganti contraddicentisi, in lotta di concorrenza (anche sotto l'aspetto politico) nei propri organismi autonomi e tecnici e nella loro caratteristica specializzata; ma dare a tali forze, attraverso rappresentanze locali, provinciali, regionali e nazionali, armonizzate con gli organi sintetici di politica locale o nazionale (comune, provincia, regione, stato), la voce necessaria affinché classi e interessi possano farsi valere, senza prevalere, ed abbiano veste propria libera e diretta, senza ricorrere a menzogne di rappresentanze burocratiche o a intrighi politici di corridoi e di gabinetti.

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Né è a temere che queste grandi forze trovino ostacolo nel loro naturale sviluppo; al contrario, si avrà maggiore sviluppo quando da un lato lo stato rinunzia a fare il commerciante, l'industriale, l'agricoltore e a impacciare con l'intrusione burocratica la libera economia, quando gli organi decentrati sono mantenuti nei limiti di rappresentanza e amministrazione degli interessi pubblici locali, e i corpi tecnici ed economici mantengono la loro caratteristica di rappresentanze di interessi e di classi coordinate insieme. Pertanto è cómpito e dovere del partito popolare italiano affrontare questa nuova battaglia nell'interesse reale della vita organica e dello sviluppo economico e morale della nostra nazione.

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«invita lo stesso gruppo: 1) a far opera perché il governo mantenga gli impegni di presentare un progetto sulla regione, e, se del caso, a presentare anche altro progetto d'iniziativa parlamentare, perché il problema venga posto in termini concreti e definiti; 2) a coordinare a tale fine il proprio atteggiamento nella discussione delle leggi in corso di esame (camere regionali di agricoltura; consiglio superiore del lavoro) altre già elaborate (riforma della finanza locale) o proposte (riforma delle camere di commercio), in modo da non pregiudicare il concetto fondamentale organico dell'ente regione, anzi da realizzarne i criteri direttivi; 3) a interessarsi perché sia concretizzato in effettivi provvedimenti organici, in rispondenza ai nostri criteri programmatici, l'art. 1° della legge 13 agosto 1921, n. 1030 dove è stato stabilito di «attuare un largo decentramento amministrativo con maggiore autonomia degli enti locali»;

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«delibera di dare larga diffusione a questi cardini di riforma organica e preparare all'uopo un'azione generale di studio e di propaganda;

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. (*) (*) Molte delle idee e delle proposte contenute in questa redazione han trovato pratica formulazione legislativa e attuazione pratica nella costituzione del 1947 e negli statuti regionali delle quattro regioni a statuto speciale. (N. d. A.)

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Parlamento e politica

401995
Luigi Sturzo 3 occorrenze

Così impostata la battaglia, viene naturale rispondere al primo quesito se oggi sia matura una sintesi programmatica che interessi profondamente la nazione come cardine politico; questa sintesi è data da una compagine statale forte, coerente in sé, atta a superare le difficoltà interne ed esterne e resistere ai movimenti di disgregazione. Il bisogno ne è sentito da tutti, e tutti convengono che per ottenerlo è necessario in primo luogo il risanamento della finanza statale, il ripristino della forza della legge, la sicurezza dei rapporti con l’estero. Politica finanziaria, politica interna e politica estera sono tre cardini inscin¬dibili dello stato. Lo sforzo fatto dall’Italia dopo la guerra per superare la crisi che l’ha minata proprio al centro di questi tre cardini della politica statale, è stato eccezionale. Possiamo discutere se si poteva far meglio, se uomini e partiti abbiano bene assolto al loro cómpito, se i provvedimenti adottati siano stati completamente opportuni. Dobbiamo convenire che pur avendo passato tale periodo di sconquasso, a riguardarlo bene abbiamo noi stessi la impressione che ancora incomba il pericolo. Oggi la finanza statale è migliorata, il bilancio comincia a reggere, la fiducia ritorna; siamo agli inizi, occorre avere coraggio, affrontare la riforma della finanza dello stato, quella dei comuni e delle provincie, i cui progetti sono pronti, e insistere di fronte a tutti sulla tesi delle economie sino alle forme più audaci e più estreme, perché ogni sacrificio è giustificato per assicurare la vita alla collettività stessa di cui lo stato è organo e sintesi. Ma non vi potrà essere salda finanza se non vi è una politica interna forte che rimetta in primo piano la osservanza delle leggi, il rispetto all’autorità dello stato, la saldezza delle istituzioni, la sicurezza della economia privata, la garanzia del diritto. A ciò contribuisce sicuramente la fiducia generale che la crisi economica venga superata. Questo terzo elemento è dato principalmente dalla politica estera che investe, nel suo com¬plesso, i più gravi problemi dell’esistenza e dello sviluppo della nostra vita nazionale. È una vecchia tradizione del nostro regno che la politica estera sia subordinata alla politica interna; in¬vece, se subordinazione vi dovesse essere, sarebbe al contrario. La politica estera è e deve essere basata sulle ragioni economiche, morali e storiche del nostro paese; paese di emigrazione, abbiamo il dovere di fare una politica di valorizzazione dei nostri connazionali all’estero, di migliorare i nostri rapporti commerciali, di crearci una sfera di simpatie nel campo della economia, di stabilire quelle garanzie che valgano a rendere meno soggetta la nostra politica a gruppi finanziari e a stati egemonici. La politica del piede in due staffe, della amicizia da un lato e dell’alleanza dall’altro, dei protocolli che affermano e negano, dell’altruismo paesano che tradisce una debolezza e dell’infingimento che tende a far credere al successo, ormai è una politica sfruttata e assurda. Certo, le soluzioni avute nella politica estera da Vittorio Veneto ad oggi non sono in armonia coi nostri diritti, coi nostri interessi, con la nostra posizione futura. Tutta la serie dei trattati fino a quello di Rapallo segnano degli strappi; oggi però bisogna essere realisti e prendere quel che esiste ai nostri riguardi come punto di partenza per l’avvenire. Noi abbiamo bisogno di esportare mano d’opera e di importare materie prime; noi dobbiamo volgere le nostre attività verso Oriente; noi dobbiamo riprendere il nostro posto nel Mediterraneo. È una politica: farla o non farla; con serietà, con antiveggenza, creando una storia, uomini adatti, mezzi congrui. La politica estera è la più difficile per noi, per la posizione stessa della nostra patria, per il gioco degli interessi delle nazioni egemoniche, per la tradizione stessa della nostra politica e per la povertà economica che ci fa forzatamente tributari all’estero. In questo punto debole della nostra posizione nazionale, debbono convergere gli sforzi degli studiosi e degli uomini politici, su¬perando quella indifferenza ai problemi di politica estera, che per gran tempo ha segnato la caratteristica della nostra educazione nella vita pubblica.

E mentre gli uni credono che a rafforzare la compagine statale e darvi valore all’interno e all’estero devesi insistere ancora di più nella concezione dello stato centralizzatore, e aumentano ogni giorno la cerchia delle sue attività; altri, con noi, credono all’inverso che lo stato debba essere solamente organo politico attorno ai tre cardini della politica finanziaria, della politica interna e di quella estera e a quanto vi è inerente per la difesa del territorio, per la tutela della giustizia e del diritto e per il coordinamento e la integrazione delle altre attività pubbliche del paese. Da questa concezione noi deriviamo gran parte del nostro programma di ricostruzione pratica, in rapporto coi problemi più vivi e agitati che rispondono oggi alle esigenze im¬mediate e preparano il domani forte e risolutivo. I problemi fondamentali della nostra vita sono tre: uno economico, l’altro organico, il terzo spirituale. Il partito popolare italiano fin dal suo sorgere ha visto questi problemi nella loro ragione astratta e nella loro portata reale, e ha voluto precisare nel suo programma il punto di vista differenziale e fondamentale, quando ha riaffermato come punto di partenza e di arrivo la libertà. È il nostro motto: è stato il nostro grido, il fondamento del nostro appello. Parve strano, ci è stato negato che fosse necessario proclamarlo perché esisteva, hanno dovuto accorgersi, nel travaglio del dopo guerra, che la libertà in gran parte non esisteva più, era soffocata. Non la libertà economica, nelle costrizioni statali, negli inceppamenti formalistici e nelle ingiuste protezioni; non la libertà organica, nei privilegi particolaristici, nell’abolizione dell’autonomia, nell’accentramento burocratico; non la libertà morale, nella scuola monopolizzata, nella chiesa ancora sottoposta a vincoli esterni ed economici ed a proibizioni giuridiche, resti di vecchio giurisdizionalismo vuoto di senso. Lo stato e debole dove dovrebbe essere forte: nella tutela della legge, nel rispetto al diritto dei cittadini, nella garanzia allo sviluppo di tutte le libere energie; è invece forte dove non dovrebbe avere ingerenza diretta, ma solo coordinatrice e integratrice: nello sviluppo di tutta la vita che ferve alla periferia e che crea le energie produttrici del paese, morali, organiche ed economiche. Non noi solamente, molti furono anche gli uomini, studiosi e parlamentari, che all’indomani della guerra affermarono la necessità del ritorno alla libertà economica, per riprendere rapidamente il ritmo della produzione alterata e arrestata durante la guerra. Gli stessi uomini di governo vi aderirono; però, strano a ricordarsi, non vi fu periodo più rovinoso per la nostra economia di quello, per l’appunto, del dopo guerra. Istituti, consorzi, enti, gestioni fuori bilancio, monopoli si moltiplicarono in maniera incredibile; quelli creati durante la guerra furono conservati ed ampliati, soffocando ogni libera iniziativa, impedendo con leggi e decreti improvvidi la ripresa del ritmo economico, credendo che con semplici paraventi di cartone si potesse arrestare la forza dell’imperativo economico, legge ferrea della vita. Gli stessi favori economici e giuridici alle cooperative debbono essere inquadrati in una esatta visione di tali problemi, per non creare facili illusioni e formare una economia fittizia a danno della finanza dello stato. Debbono essere ridotte le protezioni allo stretto necessario per le esigenze dello stato, ed essere dirette a creare industrie indigene che si possano reggere da sé. Debbono perciò rivedersi le tariffe doganali, con un largo spirito di economia produttiva, senza tendere a sovrapporre le industrie all’agricoltura; debbono essere soppressi i regimi di sovvenzioni, e attenuarsi e ridursi secondo le esigenze reali della vita del paese le statizzazioni in materia economica e produttiva. È un audace colpo a tutta la congerie demagogica dello stato produttore, dello stato economo, dello stato protettore, dello stato assicuratore; è una audace rinunzia a tutto un bagaglio di parassitismo economico, che si è vestito tante volte di ragione sociale, per cui hanno peccato tutti in Italia, meno pochi, pochissimi ed inascoltati. Ma fino a che qualche po’ di denaro e di credito c’era, da poterlo anche sciupare tentando gli esperimenti (come, ahimè, falliti! A cominciare dalle poste di stato, per finire alle ferrovie dello stato, ed all’ormai defunto monopolio del caffè che ha avvelenato tanti stomaci italiani), era tollerabile che tutti i democratici d’Italia battessero le mani, e che gli increduli nell’avvento della economia associata fossero ritenuti della gente vieta e sorpassata. Ma quando la lira italiana oscilla a 20 centesimi, e abbiamo nel nostro territorio almeno due milioni di italiani in più di quelli che comporti la nostra potenzialità lavoratrice e produttiva, oggi non è lecito buttare allegramente il denaro dello stato, cioè della nazione, in sì tristi esperimenti. Bisogna assolutamente avere un programma di smobilitazione economica dello stato, senza quella perdita di tempo che tiene tuttora in vita dei consorzi di approvvigionamento già condannati, e che fa temere la sopravvivenza del monopolio del grano con l’annunzio di un miliardo di presunti utili, quando manca la ragione della sua esistenza per il pareggio di costo fra il grano prodotto e quello importato, le cui oscillazioni potrebbero correggersi con un razionale regime doganale. Occorre sopprimere quei dicasteri dove si annida la speculazione parassitaria, creata con arte attraverso leggi, e regolamenti nelle cui pieghe non sanno leggere gli stessi ministri che li controfirmarono. Tre quarti almeno della legislazione economica esistente si dovrà annullare, e per buon tempo è bene che i deputati — avvocati o medici — si astengano dal fare nuove leggi in materia. Le mie parole sono forti; i desideri sono radicali, e vorrei avere il tempo per dimostrare quali errori economici sono stati compiuti e quanto sia necessaria la libertà economica che tutti invochiamo, ma che non si ha il coraggio e la forza di restituire al paese; perché in Italia il governo, qualunque governo, è ormai prigioniero della burocrazia legata, anche senza malizia, a una nuova classe di affaristi di stato. Questo nostro grido di libertà economica non è però un grido di iconoclasti, né vuole abbattere quelle conquiste sociali che sono state invocate da gran tempo da tutte le scuole. Il regime delle assicurazioni operaie, la tutela del lavoro igienico e morale, le provvidenze atte ad agevolare le forme economiche del partecipazionismo non contraddicono al concetto di libertà economica nel senso già espresso in confronto alla pretesa eco¬nomica statale; solo limitano la ragione economica privata per una funzione sociale del capitale, e ne determinano certi rapporti col lavoratore come persona umana operante, non come cosa o strumento dell’opera. Ciò è ormai pacifico anche fra i partiti e fra i rappresentanti diretti degli interessi dei produttori. Quello che non è pacifico e attesta sempre il medesimo errore, è che il regime sociale associativo, mutuale, previdente del lavoro, lo si voglia far divenire servizio statale, monopolistico, meccanico; e che lo stato voglia creare attorno a tali istituti una classe, un partito, una burocrazia, una casta privilegiata e predominante.

Si è a lungo discusso se le elezioni generali politiche, così rapidamente affrettate, fossero, come suol dirsi, un salto nel buio, ovvero l’inizio della ripresa della vita nazionale. Nella politica il successo è molte volte prova e sanzione insieme; e l’insuccesso costituisce la ragione dell’avversario. Mutevoli come sempre i venti del favore popolare, ieri secondavano le correnti del disfacimento e della rivoluzione, oggi dànno la spinta al movimento antibolscevico e nazionale; per l’uno e per l’altro, un appello al paese può riuscire proficuo e vantaggioso, può essere invece un motivo di più aspri contrasti e di più violenti urti nel campo della vita politica ed economica. Noi non fummo tra coloro che reputavano assolutamente necessario un immediato mutamento di rappresentanza nazionale, né per la stessa ragione l’avversammo e ci ponemmo contro; l’abbiamo guardato come una delle fasi della nostra crisi che investe, insieme ad ogni altro istituto, la più alta espres¬sione del potere e della rappresentanza popolare. Varranno le presenti elezioni a far superare la crisi parlamentare italiana, che risale a prima della guerra, a ridare alla nazione un organo veramente vitale, centrale, fattivo, saldo, dal quale i governi attingano potere e autorità, che sia sintesi di forza morale e di ragione politica? Ovvero le elezioni del 1921 saranno altra prova generale, altro tentativo di approssimazione espressiva di un popolo, che sembra aver perduto l’unità mo¬rale e intellettuale nel significato di nazione, e che la ricerca nella mobilitazione di un voto; che {{163}}forse torna ad essere turbato dal cozzo di fazioni, nella sua origine e nella sua portata equivoco, e nelle sue finalità reazionario? Ecco l’esame che affronterò dal punto di vista generale, per arrivare a stabilire quale contributo ha dato e deve dare il partito popolare italiano, perché l’istituto parlamentare rappresenti genuinamente il pensiero collettivo della nazione, ne sia organo autorevole, e avvii l’azione governativa e direttiva del paese verso una politica di ricostruzione e di rinnovamento. La lealtà mostrata dal nostro partito, in due anni e più di esistenza, e l’azione intesa verso la soluzione della crismi che travaglia la nostra vita pubblica, sono garanzia della nostra azione futura.

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