Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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La questione dell'università italiana

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Alcide de Gasperi 1 occorrenze

Incaricato dalla Presidenza dell’Associazione a fungere in questa assemblea da relatore sulla questione universitaria, mi limiterò anzitutto ad una breve cronaca di quegli avvenimenti i quali fecero sì che una questione ristretta prima ad interesse ed importanza locale, allargasse mano mano la propria cerchia, tanto da diventare tutto d’un tratto in questi ultimi tempi una questione austriaca, nel senso più largo della parola. La prima tappa era stata segnata ancora nel 1863, quando il deputato on. Consolati presentava alla Dieta di Innsbruck la proposta che all’Università di Innsbruck almeno le materie più difficili della facoltà legale e medica venissero spiegate contemporaneamente in tedesco e in italiano. In seguito a questa proposta fu istituita già all'ora una cattedra giuridica italiana, la quale cessò assai presto. Undici anni fa però parve che il governo ritirasse il disegno primitivo, e furono istituite le prime cattedre parallele della facoltà giuridica. Nel 1899 il governo fece un passo in avanti e col voto dell’intera facoltà giuridica venne stabilita l’erezione di due nuove cattedre, l’una per la procedura civile, l’altra per l’economia politica, e vennero invitati a prepararsi alla libera docenza il dr. Francesco Menestrina e il dr. Giovanni Lorenzoni. Nel primo semestre infatti del 1900 il primo di questi giovani studiosi si presentava coi suoi titoli a conquistare la cattedra di procedura civile. Ma allora incominciò l’agitazione dei tedeschi. Ai 14 marzo del medesimo anno il deputato Erler presentava alla Dieta un’interpellanza in cui chiedeva quali provvedimenti intendesse prendere il Governo di fronte all’invasione degli italiani per salvare il carattere tedesco dell’Università di Innsbruck. L’interpellanza però rimase senza risposta e il dr. Menestrina dopo aver conquistato passo passo il terreno, sembrava ormai fosse giunto alla meta. Ma gli studenti tedeschi radicali incominciavano l’agitazione, e minacciavano d’impedire con la violenza la solenne prolusione in italiano del nuovo libero docente dr. Menestrina. Contemporaneamente, nella seduta del 6 luglio 1901 della Dieta provinciale, il dr. Pajr presentava un’interpellanza diretta contro la utraquizzazione dell’Università di Innsbruck. All’interpellante si associava il dr. Mjrbach, allora Rettore dell’Università, e per gli italiani il barone Malfatti. Giacché fin d’allora e deputati e studenti italiani, mentre accettavano quel riconoscimento di fatto dei nostri diritti, l’utraquizzazione dell’Università di Innsbruck, protestavano però contro di essa come una mezza misura, né degna degli italiani, né sufficiente, né come i fatti ebbero di recente a dimostrare possibile fra il radicalismo nazionale dell’Università innsbrucchese. Intanto a scongiurare una lotta sul terreno accademico, la facoltà giuridica aveva deciso che la prolusione del prof. Menestrina si facesse in forma privata, il che anche avvenne. Gli studenti tedeschi radicali, per allora corbellati, andarono alle vacanze con un arrivederci a quest’autunno che voleva dire: Quod differtur, non aufertur. Gli studenti trentini poi tornarono ad Innsbruck con la certezza che la lotta sarebbe scoppiata alla prima lezione del prof. Menestrina. Tutti sanno che la previsione si avverò; ed ora siamo proprio al momento epico della lotta. Il giorno 27 ottobre, il nuovo docente privato saliva la cattedra tra gli applausi degli italiani e i fischi dei tedeschi; la lotta intorno a quella cattedra si ripeté tre volte; gli italiani, forti dell’appoggio di tutto il paese che applaudiva da lontano e da vicino; i tedeschi forti del diritto dei più: eppure, cosa strana! tutti, e chi applaudiva e chi fischiava, combattevano contro la medesima cosa; contro l’utraquizzazione dell’Università di Innsbruck; gli italiani, perché volevano, sulle conseguenze logiche degli avversari, conquistare un’università nazionale; i tedeschi perché volevano mantenere all’università innsbrucchese il carattere tedesco. Intanto, come contraccolpo ai fatti di Innsbruck, successero le dimostrazioni di Vienna e di Graz e le grida di: «Vogliamo l’università italiana!» echeggiarono fin sotto l’atrio del Parlamento. D’allora in poi la questione dell’università italiana diventò una questione austriaca. Un’ora dopo la dimostrazione, i giornali della capitale parlavano a lungo della questione, ne rifacevano la storia e la maggior parte simpatizzavano in certa maniera, naturalmente senza smentire i loro connazionali, per le domande degli italiani. Solo l’organo dei pantedeschi, l’Ostdeutsche Rundschau, si faceva scrivere dal teatro della lotta un articolo, in cui osservava che gli studenti tedeschi nel loro fervore giovanile avevano sbagliato tattica e che essi avevano ripetuto in tale maniera quegli atti di generosità dei tedeschi, per i quali essi aiutavano i propri avversari. Parallela all’azione universitaria, si svolgeva l’azione parlamentare. I deputati italiani, appena avuto sentore dei fatti di Innsbruck, presentavano alla camera un’interpellanza, dove chiedevano al Governo l’erezione di una completa università italiana a Trieste, ora che risultava evidentemente vano il tentativo di una mezza misura a Innsbruck. Qui intanto gli avvenimenti erano precipitati. Il senato accademico, cedendo alle violenze degli studenti tedeschi radicali, ordinava l’interruzione delle lezioni al prof. Menestrina. Questo passava ogni limite ed esasperò a ragione all’estremo gli italiani. La parola d’ordine degli studenti era: ad Innsbruck! e chi poté, lasciò Vienna e Graz e compari sul teatro della lotta. Eravamo al giorno 7 novembre, e tutti aspettavano con ansia la rispo- sta del ministro Hartel. Il prof. Pacchioni telegrafava da Vienna di sperare bene. Al Parlamento, sulle gallerie, gli studenti italiani pendevano dalle labbra del ministro: ad Innsbruck si aspettava al telegrafo. E la risposta venne: tutti lo sanno: fu la risposta di un ministro che non vuole dire chiaramente né si né no. L’Hartel diceva pressapoco: finora il Governo credette bene di venire incontro ai desideri degli italiani con le cattedre parallele ad Innsbruck; se la cosa, per le lotte nazionali, non sarà possibile, come pare, il Governo dovrà pensare a provvedere altrimenti a che gli italiani possano godersi un’istruzione superiore. I deputati ed in genere gli studenti in Vienna videro in queste ultime parole una promessa abbastanza chiara per l’Università a Trieste. A Innsbruck, invece nel grande comizio del 7 novembre in cui erano rappresentati tutti gli studenti, vari municipi e la stampa, gli studenti votarono un ordine del giorno radicale su tutta la linea. Io non voglio qui decidere, se esso fosse giustificato o ingiustificato, opportuno o meno opportuno: su tale cosa deciderà il futuro e questo futuro speriamo non sia ancora giunto. Certo è che la stampa tedesca e slava interpretò la risposta in genere più favorevolmente che noi: tanto è vero che la parola d’ordine per tutte le nazioni non equiparate fu questa: se ricevono l’università gli italiani, perché non ce ne danno una anche a noi? E d’improvviso ci trovammo a lato nuovi e più forti competitori — gli sloveni, i croati, i ruteni, gli czechi, i tedeschi: la questione era precipitata al plurale. La stampa tedesca ne approfittò per trarre la cosa in ridicolo, e si parlò d’università ladina e d’una per gli zingari. In seguito a questo ed alle condizioni di moribondo in cui si trovava il Parlamento, qui non fece passi in avanti la nostra causa, benché i nostri deputati non perdessero alcuna occasione sia nel plenum della Camera, sia nelle commissioni o per via di interpellanza. Ad Innsbruck successe una sommossa verso destra. Gli studenti tedeschi radicali capirono che le loro violenze facevano il nostro comodo ed ubbidendo alla Ostdeutsche Rundschau, riprovarono per vile interesse il passato e promisero di essere per l’avvenire gli uomini dell’ordine. Altrettanto chiedeva il Rettore agli italiani, ma questi non s’impegnarono. L’università venne tuttavia riaperta e le lezioni del prof. Menestrina ripigliarono il loro corso tranquillamente, però tra le dichiarazioni dei giornali tedeschi che dicevano: l’ultima concessione che vi facciamo. E la questione rimase insoluta. È chiaro che ora essa si trova in un periodo di tregua, non concessa da noi ma portata dalla necessità delle cose: quando ne uscirà? non è facile il dirlo: probabilmente la lotta scoppierà di nuovo quando si inaugurerà la seconda delle due cattedre stabilite, quella del dr. Lorenzoni. Questo è certo, che il Governo si troverà sempre più stretto nel dilemma o di mantenere e completare le cattedre parallele in Innsbruck e scontentare tanto italiani che tedeschi, o di concederci un’università propria su terra italiana, accontentarci almeno noi. Il Governo avrebbe pure escogitata una via di mezzo, quella cioè di completare le cattedre in Innsbruck, poi dichiararle indipendenti, istituendo un’accademia per sé e gli italiani in Innsbruck. Ma questo progetto, oltreché con ogni probabilità non incontrerebbe le simpatie dei tedeschi, non potrebbe essere accettato dagli italiani. Che cosa vorrebbe dire un’accademia italiana o una semi—universita‘ incompleta in terra tedesca, come vi si adatterebbe la nostra dignità e quella dei docenti? Del resto noi non avremmo conquistato che una scuola professionale mai un centro di cultura nazionale. Poiché, o signori, quale è la ragione prima della nostra domanda? Certo vi hanno parte anche motivi professionali: che il medico, il professore, l’avvocato possano studiare in quella lingua nella quale insegnano e non debba accadere, come avviene a taluno, di rifare poi per la pratica i suoi studi in italiano. Ma non è questa, o signori, la ragione principale. Noi vogliamo università italiana su suolo italiano per stabilirvi la nostra palestra di cultura e i nostri laboratori della scienza, ove agli studenti italiani austriaci sia possibile di coltivarsi anche oltre quello che tende l’esaminatore, ove la gioventù prenda amore alla scienza alle lettere, sì da crescere degna della nostra grande cultura nazionale! Le università, o signori, sono state sempre non solo i laboratori del pensiero scientifico, ma anche le fucine ove si idearono e produssero i grandi rivolgimenti intellettuali dei popoli. Ebbene, o signori, noi vogliamo un’università italiana la quale ci metta in grado di gareggiare con le altre nazioni dell’Austria, noi vogliamo un’università ove si formi una generazione che trovi il vanto non nello sprezzare i tedeschi e la loro cultura, richiamandosi ai nostri grandi Padri, ma nel far sempre meglio dei tedeschi nel superare la loro cultura, vogliamo in poche parole una università italiana la quale sviluppi il nazionalismo positivo dei doveri e non solo dei diritti, in maniera che si possa dire agli italiani in Austria non che gli italiani sono semplicemente gli avversari nazionali degli slavi o dei tedeschi, ma che sono un popolo, che è più colto e più sviluppato degli slavi e dei tedeschi. E questa nostra domanda, o signori, ci è garantita dalla costituzione nel paragrafo 19 delle leggi fondamentali. La legge c’è, ma chi vi pon mano? I tedeschi ci sogliono rinfacciare difficoltà pratiche, mancanza di professori e di studenti. Il corpo docente italiano di Innsbruck, con la sua risposta al prof. Waldner, pubblicata dai giornali, si dispensa dal confutare questo poco solido argomento. Ma se anche la nostra debolezza esistesse di fatto, non si entrerebbe nel circolo vizioso di non concederci la cultura, perché non abbiamo la cultura? Una debolezza vera fu forse che per il passato non abbiamo affermato abbastanza forte questo diritto, e a questo c’è ancora tempo di rimediare; marchiamo forte il nostro diritto di un’università italiana. E poiché per ora le circostanze pratiche e la voce comune indicano Trieste come sede dell’Università, affrontiamo tutti la ritrosia del Governo e la pervicacia dei tedeschi radicali con un grido unanime: Viva l’università italiana di Trieste! Ancora una dichiarazione che riguarda specialmente noi, studenti delle Associazioni cattoliche. Lo studente socialista Ferdinando Pasini, fungendo da relatore dell’ottavo congresso della Società degli studenti trentini, finiva la sua relazione con le precise parole che non posso fare a meno di leggere: «Tutta quanta la mia relazione è stata fatta col tacito presupposto, che la nostra campagna sia diretta ad ottenere un vero istituto superiore di studi aperto a tutti i soffi della scienza moderna, senza menoma restrizione allo spirito della libera ricerca e del libero pensiero, non quale anche la loro solita intransigenza ed intolleranza, i clericali già cominciano a pretendere. Gli studenti di quel partito, nel loro congresso del 18 settembre a.c. a Mezzocorona, vollero occuparsi, quest’anno, anche della questione universitaria, ma in seduta segreta, dove, secondo le scarse e riservate notizie della Voce Cattolica si discusse vivamente e a lungo sulla questione, e si decise di invitare i deputati e in modo speciale quelli di parte clericale a occuparsi energicamente della università italiana, provvedendo al sentito bisogno degli studenti accademici italiani. Di occuparsi in che modo ai deputati di parte clericale non è qui veramente detto, e noi ne resteremmo ancora all’oscuro, se non sapessimo fin dal giugno scorso, che nella festa universitaria della fondazione della Società Cattolica in Innsbruck, tra i discorsi e i brindisi delle persone importanti intervenute, ce n’è stato anche uno, e precisamente un deputato “in nero ammanto” che credette bene di augurare alla futura università cattolica italiana! E questo, mi diceva in confidenza uno di quei giovani véliti del clericalismo, questo è il programma e il voto di noi studenti cattolici: vogliamo proprio una università di carattere confessionale, sul tipo di quella che si sta piantando ora in Salisburgo. Non ne abbiamo ancora proclamata e iniziata pubblicamente la lotta, ma, a dire la verità, se due anni fa al congresso di Pergine abbiamo espresso il voto per una Università a Trento, si era perché crediamo che una università cattolica non possa sussistere in Austria fuorché a Trento. Denuncio fin d’ora, o signori, queste perfide intenzioni che non si ha il coraggio di portare alla luce del sole, perché si sappia qual valore dobbiamo accordare alla cooperazione, che costoro vorrebbero fingere alla nostra causa, le denuncio con tutte le forze dell’anima contro un tale programma, destinato a buttare presto o tardi, e probabilmente nel momento più difficile della lotta, il flagello della guerra civile tra gli italiani dell’Austria e magari a distruggere per sempre tanti sforzi ininterrotti ch’essi hanno fatti per migliorare le condizioni intellettuali della loro nazione; le denuncio esortando i nostri deputati di parte non clericale a continuare nella campagna universitaria col metodo seguito fino ad oggi; cioè col prescindere affatto dai clericali, anzi con l’ignorarne addirittura l’esistenza poiché essi non offrono per tutte, indistintamente, le varie correnti del pensiero moderno, quelle garanzie di libertà che noi saremmo sempre disposti a garantire anche al loro pensiero; e perché noi piuttosto di mettere capo ad una università, che riuscirebbe un pericolo costante per la civiltà ribadendo i ceppi dell’ingegno umano, preferiamo mille volte e più di rinunciarvi per ora e per sempre». Signori! io non v’ho letto questo sfogo del signor Pasini per avere occasione di un attacco personale. E certo però ch’egli è un ingannato o un ingannatore. Giacché, come fu già dichiarato da un mio collega in una solenne adunanza di studenti ad Innsbruck, è falso che l’Associazione universitaria cattolica tridentina abbia avuta l’idea di un’università italiana cattolica, ovverosia confessionale; e sappia il signor Pasini, che se l’idea l’avessimo avuta, avremmo avuto anche il coraggio di pubblicarla come abbiamo avuto il coraggio di manifestare tant’altre idee di ordine religioso che hanno costato a qualcuno di noi, oltre che ingiurie e isolamento perfetto, anche pugni e schiaffi. Ma di questo, o signori, si è già parlato abbastanza ad Innsbruck. Volevo soltanto «denunciare» anch’io qualche cosa qui davanti al vero popolo trentino, innanzi ai suoi rappresentanti, volevo, ripeto, «denunciare» anch’io qualche cosa. Denuncio fin d’ora, o signori, — dirò anch’io col Pasini, — questo perfido sistema di creare pregiudizi o false opinioni in riguardo agli avversari per poi annientarli, sistema che è tanto più da deplorarsi quando si tratti di una questione che è di tutti gli italiani. Riguardo a noi, i fatti vennero a smentire queste false insinuazioni. Nessuno di noi mancò in quei giorni né al lavoro delle assemblee, né a quello dei comitati. Pareva che la pace fosse fatta e non si dovesse temere «il flagello della guerra civile». Ma poi, passate le burrasche, parvero ritornare i consigli antichi, e da Vienna si tentò ogni mezzo per cacciarci dal comitato, si tirarono in campo le nostre opinioni religiose ed ecclesiastico—politiche, e si tentò in pubblica adunanza di metterle in contraddizione, udite, o signori, con l’università italiana. Era la pratica della teoria, tanto applaudita a Rovereto, di Ferdinando Pasini, il quale non contento di escludere noi studenti e di presentare ordini a nome di tutti gli studenti accademici trentini, esortava «i deputati di parte non clericale a continuare nella campagna universitaria col metodo seguito fino ad oggi, cioè di prescindere affatto dai clericali, anzi con l'ignorarne addirittura l’esistenza». Ebbene, o signori, contro tale altezzoso sistema di sorpassarci e di ignorarci, noi protestiamo energicamente e con tutta l’anima e v’assicuro che cercheremo di far sentire in tutte le occasioni la nostra esistenza. Vivaddio! Non è questo nostro paese nella sua gran maggioranza cattolico? Non sta il popolo, il vero popolo, dietro di noi, o i suoi rappresentanti non sono in maggioranza di parte cattolica? Non c’è bisogno di esortazioni, ma se fosse il caso noi vorremmo dire ai nostri deputati: Rispondete a queste esortazioni di parte anticlericale con l’occuparvi con sempre maggiore energia della questione universitaria, e gli studenti e l’immensa maggioranza del Trentino saranno con voi. Ancora una cosa. Il signor Pasini terminava la sua applaudita filippica, motivandola con l’assicurare che i clericali non concederebbero agli avversari la libertà di pensiero e di ricerca. Lasciate che gli risponda con un augurio. No, o studenti anticlericali, andate pure nei laboratori, nei gabinetti, nelle biblioteche, cercate di ricercare, studiate e ristudiate col vostro ingegno libero da tutti i ceppi. Cercate! Novelli Ulissi, ripartite da Itaca, non cacciati dalla noia, come diceva nella sua ultima conferenza sulle funzioni sociali del pessimismo il prof. Pasini, ma attirati dalla sete del vero e del buono. Avventuratevi sul mare tempestoso, passate le colonne d’Ercole, lanciatevi arditamente per l’oceano infinito, vagate e cercate! Se la stella vi sarà propizia, se non farete prima naufragio, troverete il monte della salute. Dopo tante fatiche e tante aberrazioni ritornerete sulle antiche vie degli avi, alla religione delle vostre madri, al Vero davanti al quale chinan la fronte e Dante Alighieri e Michelangelo e Raffaello e il Vico e il Muratori e Alessandro Manzoni e tutte le maggiori glorie italiane.

Il primo Congresso Cattolico Trentino

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Alcide de Gasperi 1 occorrenze

Io vi vengo a parlare ancora di ideali, di programmi, di idee! C’è anche fra i cattolici un gruppo di empirici ai quali tutto questo pare un chiacchierio inutile. Altri invece, buon’anime, lasciano volentieri che i giovani sognino, purché non facciano altro che sognare. Non baderemo né a questi né a quelli, ma nella coscienza dei doveri del presente e dei diritti che aspettiamo dall’avvenire, discutiamo per ora l’oggi, preparandoci un poco la strada per l’indomani. Oggi nel campo studentesco le cose sono a questo: la maggior parte degli studenti, chiusi in una società, di cui l’esistenza sola basta a testimoniare il relativismo della fiacca intelligenza trentina; gli altri pochi raggruppati intorno ad una bandiera issata di recente fra applausi scarsi, ma con intendimenti ben determinati. I primi, quando cessarono di essere tutto e tutti, non trovarono nel loro programma un solo concetto direttivo che positivamente li distinguesse dai nuovi venuti, e per conservare l’armonia degli intenti finirono col dichiarare di non essere qualcosa e si chiamarono i non clericali; i secondi, staccatisi in prima dagli altri per un problema privato, di scienza, maturando le idee e i tempi, vennero successivamente a schierarsi con coloro che si dicono cattolici in senso più stretto, perché non staccano la vita domestica dalla pubblica, ma vogliono che l’uomo intero segua i cenni della Chiesa nella quale crede. Le società cattoliche trovarono però fra la gioventù studiosa due grandi nemici: le tradizioni del passato e le correnti predominanti del presente. Il passato della vita universitaria, il passato recente non conobbe società che facessero calcolo anzitutto delle convinzioni morali-religiosi e, mentre nelle università si combattevano epiche lotte fra i tradizionali principi cattolici e le nuove idee sorte in nome di una scienza che fece poi il fallimento, toccava ai figli di un paese cattolico starsene indifferenti quasi che non si trattasse di cose loro. Era forse riflesso del liberalismo moderno, indiscusso da altri tempi, forse anche nei buoni paura di crear maggior male. Ma intanto si fece strada il pregiudizio che le società dovessero di regola essere neutre, che le confessionali portassero inutili discordie, e le mamme ancor ora, quando congedano il candidato, gli raccomandano a calde lacrime le solite devozioni e continuano: Non impicciarti con società o, alla più, sta là dove ci possono star tutti. E per fortuna le poverette trovano anche qualche buon prete che sa tranquillarle in proposito! Da questa atmosfera infida parve un giorno ci dovessero liberare i socialisti. Erano giovani e si dicevano fautori dell’avvenire; si presentavano in nome di una dottrina e di un movimento ch’era ad un tempo religione e programma d’una vita intera. Parlavano di principii e di idee, riducevano la lotta nei suoi veri termini. «Dove passerete voi, passeremo anche noi» scrissero dopo il congresso di Pergine. Non fu vero! Nessuno s’accorse dopo l’entrata del socialismo, che negli studenti — le eccezioni non contano — siano penetrate nuove idee, abbiano fatto scuola nuovi ideali, e soprattutto che questi ideali siano stati messi a programma d’una società o scritti su di una nuova bandiera. Tutto si ridusse ad un po’ di radicalismo dalle tinte più vivaci; in questo o quel congresso si udirono delle frasi più forti e più arrischiate. Che era stato? I socialisti avevano cambiato al vecchio fonografo liberale il cilindro, ve n’avevano sostituito uno nuovo e si sonava allegramente; erano le medesime frasi, gli stessi motivi, ma più ben intonati, più forti secondo le nuove invenzioni. Di queste frasi parecchie suonavano accusa contro di noi; le più parevano fatte apposta per crearci attorno pregiudizi ancor maggiori e così s’aggiunse al passato il presente. Il nostro programma, le nostre idee giungono quasi sempre indirettamente agli orecchi degli studenti che escono di ginnasio, quasi mai a quelli dei genitori. Gioverà oggi che parliamo in questa Trento, centro intellettuale — almeno per gli studenti — ripetere quello che siamo e quello che vogliamo. L’Associazione universitaria ha scritto sulla propria bandiera: Pro Fide, Scientia et Patria. Permettete, o signori, che oggi sia assolutamente pratico. Lascerò gli astrattismi ed esprimerò i nostri ideali più concretamente: Cattolici italiani, democratici! Ruskin disse una volta: «Noi adoperiamo uomini, che considerino come loro prima conquista saper governare sé stessi, come seconda il saper giovare alla Patria ed alla società». Con la nostra formula noi vogliamo quello che desiderava Ruskin. Cattolici! Siamo al punto fatale della divisione. Non risusciterò, signori, antiche polemiche, né ripiglierò i classici argomenti che svolsero i trentini in quei giorni, in cui si dovette rompere un infausto letargo e riscuotere il paese a quella vita, di cui oggi appunto ci rallegriamo. Ma è strano che di tutti quei rumori non sia arrivata nei circoli universitari tanta eco, da giustificare e motivare il nome che abbiamo dato alle nostre società. Giovani, negli anni nei quali con tutta l’anima si cerca ovunque il vero e l’ideale, venuti alle università, che furono per tutto il secolo XIX le officine di nuovi rivolgimenti intellettuali e sociali ostili al cattolicismo, avrebbero dovuto accorgersi che, alle soglie dell’aula magna, vengono a toccarsi cogli estremi confini due mondi avversi: mondi di idee e di convinzioni, ma che fuori nel turbine sociale corrispondono a due grandi soluzioni pratiche e radicali della vita presente ed avvenire. Questo contrasto, questa lotta suprema essi avrebbero dovuto affrontare e coraggiosamente superare in sé stessi e consacrare gli entusiasmi e le forze giovani all’una causa o all’altra. Si preferirono invece — pochi eccettuati — alle soluzioni radicali le soluzioni intermedie. Le idee «moderne» fecero un vile compromesso con quel po’ di cattolicismo che doveva restare per amor delle tradizioni familiari, ridotto naturalmente ad una somma più o meno grande di messe basse per non disgustare le ferie alla mamma. E quel tanto di cattolicismo che non si adattava al compromesso venne chiamato clericalismo, e a noi, che decisamente avevamo preso le parti di uno dei combattenti e ci eravamo dichiarati per una soluzione radicale, si gridò: fanatici, e turbatori della pace. Signori, anche Cristo un giorno ha detto: Non vengo a portar pace, ma spada. Ma regnava una pace in cui il bene era confuso col male, col vantaggio del peggio. Il Trentino e un paese, negli abitanti dei suoi monti cattolico, nelle sue classi colte, nella borghesia, in genere, pagano. Mentre la fede dei lavoratori di questa dura terra trentina restò salda malgrado la marea, che ascendeva quasi difesa da baluardi naturali, non ne rimasero illese le nostre città, i nostri borghi. Lo spirito invadente del paganesimo, qualunque nome portasse penetrò in questa società colta, ove coltura divenne più o meno sinonimo di scetticismo. O chiamate voi forse religione cattolica quelle quattro usanze rimaste per forza d’inerzia, come far battezzare i bambini, assistere a qualche funzione di parata e far posare la croce sul feretro, mentre la vita privata e pubblica è informata a principii pagani o a vieti compromessi, mentre i libri,la stampa quotidiana, l’arte, il teatro, le istituzioni sono inspirati ad ideali che sono fuori o contro il cristianesimo? No, o signori, il cattolicismo è qualche cosa di più integrale, non estraneo a niente di bene, avverso a qualunque male, una regola fissa che deve seguire l’uomo dalla culla alla bara, l’anima e il midollo di tutte le cose. I nostri contadini comprendono che fra loro e i signori c’é una grande diversità di convinzioni, benché non sappiano misurare la profondità dell‘abisso; e quando muovono alla chiesa e vedono il dottore o l'avvocato seduti alla porta del pizzicagnolo o dell’oste del paese osservarli con un cert’atto di superiorità e disprezzo, brontolano qualcosa che esprime il voto di un popolo intero più che non avvenga in cento comizi. E se domandate loro dell'origine di questi mali, vi rispondono: Ma, sono stati all’università! Conosco un buon uomo intelligente che aveva posto le più belle speranze su di un nipote che in ginnasio non aveva mai fatto parlar male di sé. A suo tempo, espresse allo zio il proponimento di andare all’università, e lo zio, pur continuandogli la sua benevolenza, incominciò a dargli del lei. E al nipote meravigliato motivava la mancata confidenza così: Mio caro, lei ora va all’università, quando ritornerà non penserà più come me ed è meglio ci avvezziamo ora a trattarci con deferenza. Nessuno vorrà negare che i nostri popolani nell’indicare la origine del male, non colpiscano nel segno. Sì, dall’università ci venne il paganesimo intellettuale, se non sempre la crisi morale. Ebbene, o signori, volevate voi che giovani convinti della loro fede ed entusiasti della sacra poesia della religione paterna, saliti là dove più distintamente s’ode il rumore della battaglia suprema, se ne stessero indifferenti osservatori? No, noi abbiamo ascoltato la voce del dovere, ci siamo stretti in un fascio, abbiamo spiegato la nostra bandiera e abbiamo offerto alla causa cattolica il nostro tributo di forze giovanili. Noi, ricordandoci delle parole di Montalembert, non abbiamo nemmeno supposto di non accettare le condizioni di un’epoca militante. Non bastava conservare il cristianesimo in sé stessi, conveniva combattere con tutto il grosso dell’esercito cattolico per riconquistare alla fede i campi perduti. Contribuire ora e più tardi al ritorno delle classi colte trentine all’antica fede della città del Concilio, e distruggere così l’abisso fatale aperto fra il popolo e la colta borghesia, ricondurre quell’armonia necessaria ad un popolo tendente ad alti destini, ecco quello a cui noi tendiamo e che esprimiamo mettendo a capo del nostro programma la parola cattolici. E a questo scopo ci soccorre la fede che solleva i cuori e la scienza che arma la mente. A chi nega la conciliazione dell‘una con l'altra, risponda Pasteur. Disse una volta ad un cotale che gli domandava se fra i risultati delle sue esperienze e la Bibbia avesse mai trovato contraddizione: Signore, io passai la vita nello studio, e giunto alla fine credo quanto crede un povero contadino della Bretagna. Se vivessi ancora penso che le mie esperienze mi condurrebbero a quella fede che anima la più povera vecchiarella brettone! Signore! signori! I polacchi dicono che per loro polonismo e cattolicismo è la medesima cosa. Polacco significa già cattolico. Parlando di noi trentini potremo dire a più ragione: Cattolici significa già italiani. E avremo una parola di meno nella formula. Ma viviamo, o amici, in un paese di confine, ove valse fin'ora per buon italiano chi giurò spesso d’esserlo, ove una borghesia di petrefatti ricantò nei caffè e nelle accademie ideali vecchi, tramontati già, se non mai sorti, per le masse popolari, belli se commuovono un popolo intero, quando seguirli venga stimato virtù; spogli di splendore, abbrutiti quando non facciano conto della realtà delle cose e dell’anima popolare e vengano rappresentati senza uomini o partiti come passione senza il riconoscimento delle leggi morali e dell‘ordine civile! Questi uomini e questi partiti o giovani, che ne ereditarono il fonografo, ripetono ancora oggi in buona o mala fede una terribile accusa contro i cattolici: mancar essi di patriottismo ed amore alla propria nazione. Ricorderò sempre, o signori, con sdegno la risposta che a me e ad un mio collega diede uno studente radicale in Vienna, quando eravamo accorsi come tutti ad interessarci d’una questione comune: Voi cattolici — lo sapete — non vi teniamo come italiani. Ah! Viva Dio, avremo dovuto rispondergli, i cattolici sono italiani da secoli, da quando sorse la nazione intorno alla cattedra di San Pietro; voi siete — se lo siete — italiani da dieci-dodici lustri. I cattolici hanno dietro quasi due periodi storici che furono guelfi, voi, forse, il ghibellinismo di cinquanta anni. Ma ci parve meglio ridergli in faccia. E così dovrei far oggi e passar oltre e dire: Guardate che cosa hanno fatto i cattolici trentini per la difesa della loro lingua e dei loro costumi, e vi basti. Se oggi sviluppo alquanto il nostro pensiero, non è per rispondere a certi giovanotti che di questi giorni proprio vanno, a rovina della patria e a vantaggio di un partito, ripetendo antiche menzogne, né per ottenere la patente di buon italiano da certi signorini che poi dichiarerebbero, magari dal podio del teatro sociale, di non crederci; ma io penso alle madri ed alle famiglie, ove la calunnia poté trovare credenza. A loro gioverà gridare di nuovo: No, questi giovani che si propongono d’essere anzitutto cattolici, non dimenticano socialmente di essere anche buoni italiani. Difendendo la fede e i costumi dei padri, compiono il primo dovere che incombe ad ogni italiano che non abbia dimenticato Dante, Raffaello, Michelangelo, Manzoni per Proudhon, D’Annunzio o Zola, né san Tommaso per Kant o Nietzsche, né il nostro apostolo latino san Vigilio per il teutonico Marx. La differenza capitale fra noi e gli altri è questa: gli altri coscientemente o no seguono un principio che si ripresenta sotto varie forme dall’umanesimo e dalla rinascenza in poi, per la quale una volta agli uomini fu Dio lo Stato, poi l‘Umanità, ed ora è la Nazione. E come Comte e Feuerbach parlavano di una religione dell’umanità, così ora si parla d’una religione della patria, del senso della nazione, sull’altar della quale tutti i commemoratori delle glorie altrui ripetono doversi sacrificar tutto e idee e convinzioni. Questo concetto trapelò anche da noi in molte occasioni e quando si dice che davanti al monumento a Dante devono sparire tutte le misere divisioni di partito, che cosa si vuole insegnare altro alla gioventù se non altro che la Nazione va innanzi tutto, che essa solo può pretendere una religione sociale, mentre il resto è cosa privata? Signori, non è vero! Noi ci inchiniamo solo innanzi a un Vero supremo indipendente e immutato dal tempo e dalle idee umane e al servizio di questo noi coordiniamo e famiglia e patria e nazione. Prima cattolici e poi italiani, e italiani solo fino là dove finisce il cattolicismo. Pratica: non furono i cattolici che ordinarono i fatti di Wreschen, ma furono coloro che senz’altro ritegno di giustizia e moralità gridano: la nazione soprattutto. No, Iddio, il Vero innanzi tutto! Nella pratica della vita questo principio non ci ha impedito di accorrere ogni qualvolta lo richiedesse l’onore di tutti gli italiani: e noi giovani anche per l’avvenire non perderemo nella nostra propaganda democratica cristiana; rammenteremo sempre che vogliamo creare non soltanto buoni cattolici, ma anche buoni italiani, amanti della lingua loro e dei loro costumi, fieri di appartenere a quella Nazione che fu nella storia la prediletta della Provvidenza. Un’altra parte del nostro programma è espresso nella parola «democratici». Signore e signori! Se le esigenze del Congresso e la ristrettezza del tempo lo permettessero, io vorrei parlare a lungo su questo argomento. E non perderei tempo! A quei signorini universitari che se ne stanno anche durante gli anni dello slancio e dell’altruismo epicureamente lontani dal popolo e s’avvezzano per tempo al caffè donde c’è venuta una borghesia parassitaria, vorrei ripetere oggi questa parola. Anche in questo riguardo il periodo universitario e fatale: dall’università si esce democratici o aristocratici già fatti. O che da giovani ci si avvezza a ridurre il mondo ai giornali che si leggono e ai membri della propria classe, e allora il giovane, divenuto dottore, avvocato, non discenderà fra le grandi masse popolari come fratello ai fratelli, ma come rappresentante di quella borghesia che si attirò nei tempi nostri tanti odi e maledizioni. O che si vede già da giovani oltre la barriera borghese venire una moltitudine di gente che vuole passare e si comprende la giustezza della tendenza, e allora si stende al di là la mano; vi fate a loro compagno e considerate tutta la vita come una faticosa erta su cui dovete salire voi e il popolo ad una meta comune. Non è mancanza di modestia, o signori, se noi, studenti cattolici, ci mettiamo senz’altro fra i democratici. Io credo che nessuna associazione universitaria ha tanti membri che si siano, come molti dei nostri, buttati all’istruzione popolare ed abbiano affrontato con coraggio, quando i loro studi lo permisero, il problema di creare nel popolo trentino democratici cristiani. Ma questo spirito democratico che ci anima, non è, o signori, una concessione alle tendenze di oggidì, ma un frutto di quel cristianesimo compreso socialmente, praticato dentro e fuori dell’uomo, in tutta la vita pubblica. Signore! signori! Con questo programma che abbraccia tutta la vita, abbiamo alzato l’anno scorso, all’autora del secolo XX la nostra bandiera. Questa bandiera l’abbiamo portata in mezzo alla gioventù studiosa, chiamando a raccolta e continuando a combattere. Noi vogliamo creare caratteri, vogliamo chiarezza d’idee. La nostra società è sorta come un’accusa contro i compromessi morali e religiosi. Noi rompiamo questa massa incolore, fortemente, ma lealmente! Numquam incerti, semper aperti! Non tema qualche buono che con ciò creiamo dissidi incancellabili. Vogliamo la guerra, ma per la pace. Quando gli studenti si troveranno di fronte con ideali chiari, con propositi precisi, sarà più facile intendersi. Ma fino a che regna la nebbia e il mare batte furioso, noi — la cavalleria leggera dell’esercito cattolico — stiamo sull’attenti, e al primo rumore che precorre l’assalto, gridiamo rivolti a tutti: Alle dighe; e vi ci lanciamo per i primi!

Due monumenti

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Alcide de Gasperi 1 occorrenze

L'uno si va elevando lassù tra il verde delle conifere e voi, contadini di Civezzano, quando uscite la mattina al lavoro dei campi siete soliti ammirare quella sua facciata bianca che s’impone sempre più a questa conca di Pergine e alle valli; l'altro, se lo cercate, lo trovate in un giardino pubblico; e gli passa davanti più o meno riverente la folla dei cittadini che si riversa la sera in Piazza Dante cercando svago o spasso o un ritrovo. Questi due monumenti, o amici, son come una pagina della nostra storia modernissima e, ad un tempo, segnano i due cardini fatali intorno a cui si svolgeranno le lotte nostre nel futuro, in un futuro molto vicino. Sorge il primo presso il Santuario della Madonna di Pinè, ove i buoni trentini quasi annualmente vanno in pellegrinaggio a rinforzare e a dimostrare il sentimento religioso e la pietà. Sorge dedicato al Divin Redentore, quasi protesta che il Trentino dopo un secolo rinnegatore dei benefici del cristianesimo, vede sempre in lui, nel Nazareno, la verità e la salute. Sta là come un giuramento che il Trentino rimarrà sempre la diocesi degna di un san Vigilio. Quelli che verranno dopo di noi e leggeranno delle generose offerte dei comuni e dei privati, saranno grati alla generazione presente e la loderanno. Ma d’altra parte vi sono anche dei trentini degeneri che non credono quello che ci insegnano le nostre mamme, non ascoltano più la voce delle nostre campane, dimenticano tutto il buon Trentino passato, seminato di croci e di campanili. Anche in questo Trentino resta un ricordo marmoreo ed è il monumento a G. Canestrini, inaugurato clamorosamente in Trento fra applausi e imprecazioni. Questo monumento —— l’hanno dichiarato essi — non fu omaggio ad uno scienziato più o meno grande, ma omaggio a idee e teorie contrarie a quelle che abbiamo creduto fino ad ora, e quello che si disse e si fece in quell’occasione fu come uno schiaffo in viso a chi sente e pensa cattolicamente, fu una sfida lanciata a tutti che vogliono il Trentino cristiano, dal Vescovo all’ultimo prete di montagna, lanciata a voi buoni contadini, a voi buoni operai. Ebbene, o amici, la storia dovrà decidere se noi cattolici trentini abbiamo accettato coraggiosamente la sfida, e se abbiamo combattuto da valorosi la battaglia. La guerra, la battaglia! Voi abitatori delle valli e dei monti non ne avete ancora sentito che i rumori lontani, ma ora il nemico è venuto ed ha fatto la dichiarazione di guerra. Per cinque anni giravano le città e i villaggi, parlando di vantaggi economici, di progresso e di scienza. Ma ora che ci hanno detto chiaro che cosa essi intendano per progresso, di qual specie di scienza intendevano di dire: baldanzosi per la conquista di un paio di città, si credettero sicuri tanto da calare la maschera e lanciar sfide a tutto il Trentino. Ebbene, noi cattolici, questa sfida l’accettiamo: e l’accettiamo non soltanto per respingere gli aggressori ma anche per conquistare. In queste due parole c’è tutto il nostro programma: formare una falange irremovibile che sostenga qualunque assalto e non lasci passare il nemico e contemporaneamente addestrare delle squadre di cavalleria leggera che muovano all’assalto e alla riconquista: c’è posto per i vecchi e per i giovani. Accenno a ciò qui in questa adunanza, credo opportunamente, perché i battaglioni di questo esercito sono formati quasi tutti dalle Società agricole operaie. Ricordatevene, o amici, sulle Società operaie pesa ora, si può dire, l’esito della battaglia, il destino della patria. Che non avvenga di nessuna di quelle che sono qui rappresentate ciò che accadde a qualcun’altra, la quale limita la sua attività a qualche pratica religiosa in comune, alla bandiera forse issata con qualche entusiasmo e poi ripiegata e messa nell’armadio ove con essa viene seppellita anche la vita sociale. Si ricordino tutti quelli che lavorano nel campo delle società operaie che esse hanno assunto ora — di fronte al Trentino cattolico — un grande compito d’istruzione e di educazione. In piazza ora si parla stortamente e a rovescio dell’inquisizione, di Galilei, dell’evoluzione, della democrazia; ebbene ora conviene spiegare nelle Società operaie che cosa fu l’inquisizione, che ne fu di Galilei, che cosa è l’evoluzione, qual’é la democrazia vera, che cosa vuole la democrazia cristiana. Solo, o signori, a patto di formare nel Trentino una coscienza nuova, d’infondere nelle valli un nuovo slancio di vita, saremo degni della vittoria. Qualcuno mi obbietterà che è cosa difficile, impossibile. A quello io addito Civezzano, perché gli serva d’esempio. Anche questo paese una volta andava a rilento e passava per «malva», ed ora dobbiamo venire da Trento a Civezzano per imparare che cosa sia la vita che cosa frutti un lavoro continuo. Con una settantina di Società operaie come quella di Civezzano noi rideremmo di qualunque sfida. Avanti dunque — dico rivolto alle altre - al lavoro, preparatevi alla guerra! Due grandi eccitamenti, due grandi fiotti di vita sono venuti a noi in questi ultimi tempi: 1) il Congresso cattolico che fu come le nostre grandi manovre, ove si vide il lavoro pratico, sociale prestato in cinque anni dai cattolici, e si sentì anche lo spirito nuovo che informava le masse dei contadini e degli operai poichè, o amici, non era più «la scarpa grossa» isolata, impaurita da ogni cosa nuova che si batteva sui marciapiedi di via Larga, ma erano cinque, anzi diecimila «scarpe grosse» organizzate in assetto di guerra; e passavano via superbi della loro coccarda sotto una bandiera, soggiogati da un’idea comune; 2) il Congresso degli altri, l’offesa recata, la sfida lanciata. C’è qualcuno al quale piacerebbe quel bustarello tolto via donde l’hanno messo e rotolato chissà dove! No, amici, lasciatelo lì anche perché ci serva d’ammonimento. Come quel generale persiano aveva l’incarico dal re di ripetergli ogni qual tratto: «O re, ricordati della sconfitta di Maratona», affinché il re ben si preparasse alla riscossa contro la Grecia, così quel busto ci ammonisca sempre del dovere sacro che abbiamo di rintuzzare l’offesa, di marciare alla riscossa. Se ognuno di voi che passa davanti al busto di Canestrini si ricordasse dell’obbligo di istruirsi, di prepararsi alla battaglia, allora nelle Società operaie si educherebbero tal «rospi» che quel tal dottore, riuscirebbe a stento a schiacciare Allora il nostro esercito — lasciate che m’immagini la nostra conquista morale in modo palpabile — fatto più cosciente più svelto e più leggero, discenderà dai monti nostri, su cui imperano le nostre croci, alle città, e forse allora si apriranno quelle certe finestre dei signori «filistei» che le hanno chiuse al di del congresso, compariranno alla luce del sole certe bandiere che non si vollero issare e faremo campo in piazza Dante dinanzi al monumento di Canestrini. E non l’oltraggeremo, no! ma se l’iscrizione sarà spazzata via dalle ali del tempo (vedi discorso Altenburger) e se gli anticlericali nelle angustie della sconfitta non provvederanno a rifarla, ce la faremo noi la scritta, magari sulle tracce della vecchia, di fronte al Vaticano. E scriveremo: A G. Canestrini — studiò e faticò molto —— ma sbagliò la strada - Ri- posa in pace. Allora l’arma non sarà un trofeo della vittoria del «libero pensiero», come si augurava il barone Altenburger, ma un ricordo della sua sconfitta. E l’unico interprete e testimone fedele dei sentimenti e delle idee della nostra età resterà il monumento alla Comparsa dedicato al divin Redentore il quale disse: Non praevalebunt!

Giornalismo ed educazione nei seminari

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Sturzo, Luigi 40 occorrenze
  • 1902
  • Scritti inediti, vol. i. 1890-1924, a cura di Francesco Piva, pref. di Gabriele De Rosa, Roma, Cinque Lune-Ist. Luigi Sturzo, 1974, pp. 217-233.
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Non pochi sono contrari a permettere la lettura relativamente al numero e alla qualità dei giornali, preferendo solamente i religiosi; altri sono contrarii in modo assoluto; molti sono favorevoli ad una libertà che non ostacoli una razionale disciplina.

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Prescindendo dalle disposizioni che i superiori dei singoli seminari d'Italia abbiano potuto dare in proposito, (il che non entra nella discussione) proverò di esaminare il problema nei suoi rapporti con la educazione dei chierici obiettivamente e, spero, con quel delicato discernimento che occorre a trattare argomenti, la cui soluzione pratica non dipende da noi.

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Perché possa esser completa l'educazione del chierico, occorre avere un'adeguata ed intiera visione di quel che dovrà essere e di quel che dovrà fare da sacerdote; a quel fine fa d'uopo coordinare tutti gli elementi educativi, l'ambiente, la scuola, la direzione dello spirito, la disciplina; affinché la grazia, operando con la natura, trovi meno ostacoli possibili sia negli abiti mentali, che in quelli volitivi.

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Nel Medio Evo vescovi e sacerdoti erano a parte del reggimento feudale e legislativo e della vita pubblica del tempo, che da Costantino a Bonifacio VIII divenne, in una lunga elaborazione, cristiano. Allora l'ordinamento della proprietà feudale e del diritto internazionale sorreggeva quella forma di partecipazione politica, che recò molto bene e anche (per difetto degli uomini) del male alla Chiesa.

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Or si è ripetuto mille volte che il sacerdote di oggi deve entrare fiducioso nella vita moderna per redimere a Gesù Cristo la società attuale atea e paganeggiante. Questo principio si è voluto presentare come una novità mentre è la legge storica e perenne della Chiesa che non invecchia, ma che trasforma le potenzialità naturali della società in mezzi o coefficienti di vita soprannaturale, e che insieme adatta le modalità del suo ministero alle esigenze delle epoche, dei popoli, delle nazioni, allo stato e mentale e volitivo degli uomini, alle aspirazioni individuali e collettive.

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A questo ideale dunque devono essere preparati di lunga mano, con illuminata educazione i chierici, affinché la loro

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Né ciò fa meraviglia, perché fin nelle pure speculazioni del domma e nella reggenza e amministrazione spirituale, la Chiesa ebbe a lagrimar molti mali da vescovi, frati e sacerdoti; e gli Arii, i Fozii e i Luteri non sono soli. Le istituzioni però che sorreggevano la partecipazione del clero alla vita pubblica furono di gran bene ai popoli e alla civiltà. E non si possono mai abbastanza deplorare gli effetti della riforma e specialmente del giansenismo e del cesarismo che infettarono tanta parte del clero latino, alto e basso; e che fecero del prete un servitore umilissimo del potere regio, e la rincantucciarono nelle sacrestie e nei cori, a curare solamente le feste e la pietà spesso di una turba di beghine, molte volte fittizia, superficiale, ipocrita. La società rimase in gran parte e nelle sue appartenenze di vita pubblica abbandonata a sé stessa, in preda degli errori del filosofismo prima, del liberalismo poi; e se non si oppone un riparo, anche del socialismo in avvenire.

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Così il sacerdote tende a ripigliare il suo posto in mezzo alla società; per comprendere e regolare le aspirazioni dei popoli, per santificarne il movimento progressivo, per esserne il maestro ed il padre, per far rispettare dai pubblici poteri la Chiesa, partecipandovi anche con il suo carattere sacerdotale (nei modi e con i limiti dovuti). In questa azione si sintetizza la funzione stessa della Chiesa di rigeneratrice in Cristo non solo delle anime ma anche della vita sociale dei popoli.

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L'educazione pertanto, arrivando a formare un abito mentale e volitivo, che è un prodotto insieme di principii naturali e soprannaturali, di inclinazioni personali e di abitudini sociali, di fatti biologici e tradizionali, individuali ed ambientali, di passioni, di convinzioni e di profonde modificazioni del proprio io (che ha una decisiva importanza per tutta la vita), non si può restringere al solo concetto caratteristico essenziale del sacerdozio, ma pervade tutte le facoltà dell'uomo e le modalità di ogni attività anche la più eccelsa e divina.

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Il complesso dell'educazione chiericale si forma destando idee teoriche e pratiche in ordine alla vita, nutrendo sentimenti attuosi, iniziando a un certo grado di attività sacerdotale, facendo sì che i mezzi ricreativi e fantastici divengano ausiliarii potenti della formazione delle idee e dei sentimenti del giovane. Tutti questi mezzi vengono completati, regolati nella loro origine e nel loro sviluppo, elevati a una finalità soprannaturale, per la viva direzione dello spirito, che penetra sino al profondo delle coscienze giovanili, ne studia le inclinazioni, i bisogni, le aspirazioni, le abitudini interne, ne disciplina l'esplicazione, per poter meglio edificare tutto l'edificio spirituale.

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Sta qua il segreto dell'educazione dei chierici; segreto chiuso alle anime superficiali, ed a coloro che non hanno nessuna preparazione scientifico-pedagogica, né adeguata cultura moderna, o reale contatto con la vita sociale, e quasi nessuna coesione di animi con la gioventù; la quale vive di sentimenti e di fantasie, turbinata dalle passioni, modificata dagli ambienti, i cui contrasti violenti portano turbamenti di spirito, scosse indicibili, oscillazioni continue, segrete aspirazioni di animo, incertezze, entusiasmi, reazioni.

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Ho detto che il destare nei chierici idee teoriche e pratiche, il nutrire dei sentimenti attuosi, l'iniziare a un certo grado di attività sacerdotale, il dirigere bene lo spirito, l'ordinare a elevati fini i mezzi ricreativi, sono il complesso dell'educazione del giovane chierico, e che tutto ciò deve convergere a formare il sacerdote tipo adatto ai bisogni moderni.

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Però io non ho creduto mai che un giovane possa arrivare sino al ventiquattresimo anno con le sole idee della scuola; che egli possa prepararsi adeguatamente alla vita, senza sentire l'influsso vivo, palpitante, vitale del contatto quotidiano con le idee tradotte in fatti nel mondo che ci circonda; che egli si debba mummificare in uno sgobbone, riducendosi a vivere del solo pensiero dei libri. Il professore (e così il rettore, il padre spirituale, il prefetto, ecc.) devono pel giovane essere il veicolo delle idee vive, idee non solo scientifiche o letterarie, ma pratiche, di vita vissuta, di aspirazioni, di agitazioni; veicoli che purificano, rettificano, aggiungono, rendendo le stesse idee nuovo elemento di istruzione e di educazione.

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A ciò servono i periodici ed i giornali cattolici di scienze, di letteratura, di sociologia, di politica, di azione cattolica, di movimento locale, di notizie di vita quotidiana. Tutto questo elemento di civiltà, di pensiero, di vita, che la stampa ogni giorno distribuisce agli uomini, è un elemento necessario alla educazione (nei dovuti modi e nella regolare misura, s'intende); necessario perché è ordinato alla vita pratica, perché riduce con l'applicazione al fatto concreto la teoria, eleva alla teoria con la critica il fatto concreto; siegue le correnti di un pensiero veloce che commuove i popoli, rivoluziona le scienze, determina nuove concezioni di arte, lega l'attività di nazioni disparate, di città lontane, di provincie non conosciute, uniti e stretti, dai vincoli di solidarietà, dalle aspirazioni di lotte, dalla forza del pensiero. Ieri la vita delle città si restringeva a poche relazioni; tolta al popolo e al sacerdote la vita pubblica, a cui pensava il paterno governo dei ministri, degli intendenti, dei senatori, d'intesa più o meno coi vescovi e col ministero ecclesiastico — ristretti i commerci, senza strade né comunicazioni — poco sviluppate le industrie, poco diffuso l'insegnamento — tutto si riduceva alla vita cittadina o di famiglia e a pochi avvenimenti politici, conosciuti attraverso... le dogane regie.

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La funzione educativa del giornale è immensa, non tanto per la continuità, quanto per la materia vivente di cui esso è composto, e per la rispondenza a un ciclo determinato di attività nella azione dei popoli, che si potrà chiamare partito, scuola scientifica o letteraria, relazioni religiose, organismi sociali od economici. Or se a destare le passioni fantastiche, a determinare un'educazione nell'animo del giovane sono efficacissimi la storia ed il romanzo, rappresentanze di vita vissuta o di vita immaginaria; quanto non contribuirà all'educazione di chi deve vivere nel mondo per santificarlo, la storia quotidiana dei dolori e dei rimedi, della lotta fra il bene e il male, fra la città di Dio e la città di satana, in cui si compendia tutta la storia e la sua filosofia, tutta l'attività umana naturale e soprannaturale?

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Si metta il chierico in una segregazione completa, totale dalla vita , si faccia sì che non conosca nulla di civiltà, di progresso, di scienze, di nuovi libri, di politica, di agitazione di partiti, di relazioni economiche, di aspirazioni popolari, di liberalismo o di socialismo, di democrazia cristiana e di Opera dei Congressi, di lotte amministrative e di documenti pontificii (elementi giornalistici della giornata); e si avrà o il prete che pensa alla benedizione, al messale, al breviario e al predicozzo a pochi fedeli riuniti in Chiesa; o per una reazione violenta, il prete che senza criteri sia sbalzato nel vortice della vita moderna col pericolo di perdersi. In ogni caso sarà chi entrando nella vita attiva senza tradizioni né adeguata educazione, vive senza palpiti, senza idee (che si

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Ora tra le attività sacerdotali, per comando di pontefici e di vescovi, per bisogno di popoli, oggi è da annoverarsi questa azione sociale detta democrazia cristiana o azione popolare; anzi l'abito, le idee, le convinzioni di questa azione devono esser in tutti i sacerdoti, qualunque possa essere il loro ufficio, perché tutti non solo sono uomini e cittadini, ma e più sono ministri di Dio, che stanno a contatto delle famiglie, nelle quali entra l'errore con la politica e la scienza, l'immoralità con le lettere e con i giornali; l'egoismo con le lotte amministrative o economiche.

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Tra le attività sacerdotali, il giovane ne prediligerà alcune o una sola, quella a cui inclinazioni, educazione, ambiente, circostanze lo avranno più o meno determinato. E il seminario, che è il semenzaio dei sacerdoti, che debbono nella multiforme attività delle diocesi, nella diversità dei bisogni e delle opere sacerdotali, edificare il regno di Dio nelle anime, deve saper destare e coltivare nei chierici i diversi desideri e le attitudini disparate, perché possa formarsi una specializzazione adatta ai bisogni, e perché non solo non si sciupino tante potenzialità in posti ed uffici, non adatti alle inclinazioni speciali, ma si destino nuove e potenti energie di attività e di zelo.

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., come è possibile che, nel tempo in cui queste idee maturano, fermentano, divengono ideale aspirazione, desiderio di vita, essi stiano come chiusi in una stufa, disputando solo sulle regole sillogistiche di Aristotele, o sugli errori di Nestorio o di Fozio, o ripetendo a tempo perso con Ariosto (si studia nella 5 ginnasiale)

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Infine, è necessario che il giovane chierico viva (nei debiti modi e nelle giuste misure) della vita quotidiana di idee teoriche e pratiche della quale vive la società; che il chierico di questa vita, elevata a missione sacerdotale rigeneratrice, se ne formi un ideale; che questo ideale pervada tutte le sue fibre morali, ascetiche, intellettuali, sportive, affinché questo pensiero dominante soffochi tanti altri pensieri inutili o dannosi; affinché nelle conversazioni invece di parlare di preeminenze [sic] di diritti di mozzetta o di mitra,di precedenza nelle processioni o nel suono delle campane (cose che nel nostro meridionale paralizzano tanta parte di attività sacerdotale), invece di pensare alle caccie e alle campagne,invece di sospirare il momento del sacerdozio per avere un posto in curia o una pieve o un. beneficio, o per sottrarsi al giogo della vita comune, o per conoscere il mondo a lui chiuso, che vede solo attraverso i vetri delle finestre o i pettegolezzi di sagrestia o i libri che parlan da morti e non da vivi; — sospiri a impiegare le sue forze nel campo dell'azione cattolica, che ha bisogno di giovani istruiti, volenterosi, entusiasti, atletici.

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Ogni uomo, invecchiando, tende a conservare sé stesso nella forma vitae che l'educazione giovanile gli ha creato, e che è stato il palpito, l'entusiasmo, la visione fantastica dei suoi begli anni. Sorgono così le due correnti che compendiano l'attività umana, la progressiva e la conservativa, che si compiono a vicenda. Or come è possibile avere una complessa, razionale, multiforme corrente di vita progressiva nel nostro campo, quando negli anni, attraverso i quali si matura questa forma vitae,dai diciotto ai venticinque, si vuole che la nuova corrente di idee e di opere debba essere vietata e chiusa alla mente, al sentimento, all'attività giovanile?

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E i superiori oculati sanno a prova come destare e nutrire vivo questo sentimento, che in un giovane diviene come la forma volitiva della sua vita, come il motivo determinante delle sue opere, e che ha profonda indelebile influenza sino alla tarda vecchiaia.

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La conoscenza vera dei mali reali della società e dei rimedi che la Chiesa addita e che i cattolici mettono in opera, della lotta aspra che si combatte, del compito concreto che aspetta i chierici, valgono a destare potente il sentimento.

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Ma ciò è poco, troppo poco pel giovane e non è tutto per la vita sacerdotale: che male vi sarebbe, se, come faceva il vescovo Blandini di Girgenti, i superiori, con discrezione e discernimento, avviassero i giovani già maturi a pigliar parte alla vita dei circoli cattolici di azione e di cultura, della stampa, dei congressi? Si avvezzerebbero a far qualche conferenzuccia, a stare in contatto con i giovani cattolici studenti ed operai, (ai quali comunicherebbero con l'ardor giovanile l'aroma dello spirito raccolto), a scrivere qualche articolo nei giornali e nei periodici (l'Era novella incoraggia tanto e così bene questa attività), ad aiutare in tante e tante circostanze i comitati, quando il lavoro di congressi, di pellegrinaggi o di altro abbonda e mancan le braccia. Il giovane così intravede il suo campo di lavoro e di azione, pregusta il piacere della fatica e del sacrifizio, modifica le abitudini dell'animo, si spoglia delle piccole meschinità del collegiale chiuso e ristretto, e sveste l'abito di quella forma societatis,che per dieci o dodici anni di vita comune necessariamente gli si deve imprimere nella mente.

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Quasi in nessun seminario si trascura l'esercizio oratorio, per educare i giovani alla composizione e alla declamazione e per prepararsi bene a questo importantissimo ufficio sacerdotale.

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E cade qui di parlare dell'altra difficoltà che suole aver gran peso nella mente di molti; « il permettere al chierico queste attività che chiamerò iniziali, specialmente la lettura dei giornali e la partecipazione a un po' di vita di azione cattolica, reca, dicesi,distrazione forte sia nello studio che nella pietà ».

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E la vita comune, a tanti di peso, riuscirà un motivo di esplicazione di energie complesse, nel quotidiano attrito e sviluppo di idee e di sentimenti.

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Anzi io credo qualche cosa di più; son sicuro che quando non si sente oppresso dalla regola, ma può in certo modo aver coscienza della propria personalità, il giovane esplica meglio le sue facoltà e diviene per convinzione e per abito di coscienza, quel che la sola regola morta lo costringerebbe a divenir in apparenza. Del resto, se un giovane (parlo dei più grandicelli, di coloro che frequentano le scuole scientifiche), quando ha da esplicare in certo modo la sua attività, e gli è perciò concessa una misurata libertà, non sa mantenere la virtù ed il carattere chiericale; se per assistere o per fare una conferenza o per scrivere un articolo o per occuparsi degli affari di un congresso cattolico, egli è capace di abusare, di violare la disciplina; allora è meglio cacciarlo dal Seminario; la sua virtù è falsa, è fittizia, è insufficiente; non potrà mai essere buon sacerdote in mezzo al popolo, in mezzo ai mali che inondano la società, nel vivo contrasto delle passioni individuali e sociali.

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Altri dicono tutto ciò distrae dalla pietà, divaga lo spirito, fa penetrare la dissipazione nell'animo di chi è destinato a servire nel Santuario.

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E poi non è la sola scuola che prepara alla vita; ma tutto ciò che con la scuola è atto a perfezionare le tendenze e le facoltà umane.

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I giorni e le ore debite, le occupazioni segnate, i giornali riconosciuti idonei allo sviluppo graduale delle idee e dei sentimenti dei chierici e alle cognizioni da acquistare come complemento della scuola e della giornaliera discussione; la partecipazione a un po' anche di vita attiva che non modifichi sostanzialmente la regolare successione delle occupazioni chiericali e lo spirito di preparazione, che è la ragion formale della istituzione dei Seminari, sono limiti necessari, che applicati con discernimento riescono di grande vantaggio all'educazione del chierico.

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La pietà non consiste nel passare tutte le ore a recitar preghiere, ma principalmente nell'abito virtuoso dell'umiltà, nell'esercizio della presenza di Dio, nel desiderio di patir per Gesù Cristo e per Lui mortificar sé stesso, nell'ordinar tutto a Dio come ultimo fine.

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Francesco di Sales, a lasciar Dio per Dio.

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Anzi la direzione dello spirito nei seminari deve determinare quelle disposizioni d'animo, che i chierici devono avere nel ministero sacerdotale; tra cui principale l'abito della sollevazione della mente a Dio fra tutte le più svariate, agitate, complesse occupazioni; e lo spirito di zelo e di abnegazione sino ai sagrificii più inauditi.

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Ci vuol fede in Dio sincera, forza a lottare, preghiera fervente, ed una preparazione di spirito fatta di lunga mano; perché gli entusiasmi sono facili a sbollire (quanti se ne son visti), le ambizioni tentano l'animo del sacerdote, e la tranquillità di un, posto senza tante noie, quante ce ne sono nell'azione cattolica, molti animi frolli seduce. Io ho più fiducia, per l'avvenire dell'azione cattolica, nella sapiente direzione dello spirito ecclesiastico dei seminari, che in tutti gli altri mezzi educativi, pur tanto efficaci. E qui cade opportuno il notare che la proibizione della lettura dei giornali e periodici cattolici, suole generare nell'animo del giovane un desiderio intenso e potente di conoscere e di sapere quel che dicono quei fogli di carta per lui proibiti, ma che però egli vede in mano altrui, che trova nella famiglia, e dei quali loro parla qualche professore o qualche amico. La reazione si desta violenta anche negli animi buoni, specialmente perché il giornale cattolico ha l'impronta di un carattere non solo negativamente non cattiva, ma positivamente buona e religiosa e consentanea alle aspirazioni dei chierici.

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Resta a far un cenno dei mezzi ricreativi, della cui potenza educativa nessun dubita.

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Sventuratamente di questi drammi non ne conosco, ed è doloroso che nella gran parte dei seminari si è costretti a rappresentare quei drammi medioevali di cavalieri, di congiure, di briganti,

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vigilanza sarà ad arte elusa; onde si avrà un male disciplinare, cioè la violazione di una legge del superiore, che costituisce uno stato d'animo non disciplinato, ed educa ad un sentimento pernicioso, cioè il far di nascosto; e un pericolo permanente che possano cioè cadere in mano a giovani inesperti giornali e periodici non buoni.

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di assassini, di guerre, di torri misteriose, di sotterranei tenebrosi, di spettri e di diavoli, che formano il repertorio antiartistico e antieducativo, che abbonda nelle nostre collezioni, fatte pochissime e rare eccezioni, (come i drammi di Lemoyne e le commedie di Cantagalli) a non parlare di certi drammi ascetici, che per lo più fan cadere dal sonno attori e spettatori.

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Così una gita in campagna, una bicchierata, una tombola, possono divenire mezzo di propaganda; possono esser chiuse da un voto, da un telegramma, da una piccola raccolta per qualche giornale cattolico o pel parroco a cui vengono tutte le temporalità, o per operai cattolici in isciopero — da una conferenza briosa, da un entusiastico brindisi —. Elemento educativo divengono i libri di premio scelti fra i tanti che si pubblicano di democrazia cristiana, di sociologia, di letteratura; i concorsi e le gare giovanili su argomenti del giorno, coronate dal plauso dei superiori; le gite nelle vicine borgate, a visitare Comitati e Circoli, Cooperative e Unioni Professionali... Tutto può e deve contribuire a rendere i chierici idonei all'alto ministero a cui sono chiamati.

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