Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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le straordinarie avventure di Caterina

215672
Elsa Morante 27 occorrenze
  • 2007
  • Einaudi
  • Torino
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
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Massimo era molto piú coraggioso e importante, si vedeva, e chiese a Piuma: — Perché mai quell'aria compunta? Subito Piuma sollevò le spalle e la testa e fece un bellissimo sorriso. — E smettila di abbaiare! — continuò Massimo. — È il mio stomaco che abbaia, io non ne ho colpa, — rispose il povero Piuma. Per consolarsi, tutti e due ripensarono al pranzo che avevano fatto due giorni prima. Avevano mangiato spaghetti e prosciutto, e insalata! Poi si fermarono vicino al mulino a vento, che stava alla fine del ponte. Passarono quattro oche grasse, un frate col suo sacco e tutti annusavano l'aria che odorava di pane fresco, di brodo e di prezzemolo. A questo punto Massimo disperato fece: — Aaaaah! — e Piuma: Uuuuuh! — e di nuovo stettero zitti, finché Piuma tirò a Massimo la manica della giacca. — Ehi, vuoi star fermo? — borbottò Massimo. — Non vedi che sto pensando? Il buon Piuma aspettò che l'amico finisse di pensare, con la faccia piena di speranza. E infatti, dopo tre minuti, Massimo gli strappò il berretto con entusiasmo e strillò: — Pensato! Pensato! Saremo ricchi, oggi! Saremo milionari. Ehi, Pic! Un ornino che passava di là si avvicinò. Era vestito da « gangster », col ciuffo e un tatuaggio sul naso. Era tanto piccolo, che arrivava appena al gomito di Piuma, ma il suo aspetto era spaventoso: — Che cosa desideri? — domandò. — Ti va di guadagnare otto soldi? — E perché no? — Allora mi dovrai fare da compare. — Bene. — Si tratta di questo. Io e il mio amico daremo uno spettacolo di pugilato, qui sulla piazza. Si radunerà una gran folla, e tutti saranno sicuri che vinco io, che sono un peso massimo. E invece vincerà Piuma. Tu devi strillare: — Forza, Piuma! — e devi cercare di scommettere cento lire con qualche ricco signore presente. Poi tu mi darai le cento lire, e io ti darò gli otto soldi. — Eh, che razza di spilorcio senza coscienza! Otto soldi a me? Non ti vergogni? — Dodici soldi! Nemmeno un centesimo di piú! E tu, Piuma, perché piangi? — Io non so fare il pugilato! — balbettò Piuma. — Eh, stupido! Non capisci che io mi lascerò buttar giú con un soffio? Non farai nessuna fatica! E sai che cosa significa questo per te? — No. — Significa la gloria! — La gloria? — Certo. Sarai campione, ragazzo mio, — e Massimo batté la spalla di Piuma, che faceva un sorriso felice. Poi chiamò Anchise, che passava sul ponte, per nominarlo arbitro: — Avrai sei soldi di paga, — gli disse. E incominciò a gridare. — Avanti, avanti, signori ! Grande partita di pugilato fra un peso massimo e un peso piuma! Non si paga niente! Non si paga niente! In pochi secondi, un'intera popolazione si era raccolta intorno a loro: bambini, oche, eccellenze e milionari. Fra gli altri, si fermò un signore che lasciava capire di essere un milionario, giacché portava l'abito a coda e il cilindro; e Pic gli corse vicino. Quel signore, insieme a tutti gli altri, guardava con aria di compassione il povero Piuma, come per dire: « Ecco uno che fra poco sarà una frittata ». Uno, due, tre! La partita cominciò. Il povero Piuma ballava senza capir niente, e finalmente, con aria modesta, si decise a buttar via qualche pugno. Ma tutti ridevano e gridavano: — Arrenditi, ornino. — Bene, grasso! — Bravo il grasso! — e facevano il tifo per Massimo. Il signore distinto e milionario diceva con tono di conoscitore: — Boh! Boh! Boh! Allora Pic cominciò a brontolare: — Sarà, ma quel piumino li dev'essere un furbo che si conserva il colpo per dopo. Secondo me vince lui. — Eh! Eh! — rise il milionario. — Si vede bene, ragazzo mio, che tu di pugilato non ne capisci niente! — Ah, sí? E io le dico che quell'omino vince! — Son disposto a scommettere cinquanta lire. — Anche cento. — Vada per cento. Proprio in quel minuto, si vide Piuma sferrare un sinistro, e Massimo traballò e cadde a terra. Anchise contò solennemente fino a dieci, ma l'infelice Massimo rimase fermo come un morto. Piuma era vincitore! Allora tutti gridarono: — Bene Piuma! Evviva Piuma! — Si vedevano tutto intorno sventolare i fazzoletti; Piuma fu sollevato in trionfo, e le ali del mulino cominciarono a girare in fretta. Piuma si accorse perfino che sulla fronte gli stava crescendo una stella. Era la gloria, amici! La Gloria! Intanto il milionario, a malincuore, prese cento lire dalla sua borsa d'oro e le porse a Pic. L'infelice Massimo non dava ancora segno di vita; Piuma provò a dargli un piccolo calcio, ma il suo buon amico non si mosse. Allora Piuma cominciò a pensare : « Che sia morto per davvero? Che sia morto d'appetito? » E si provò a fischiare sottovoce l'Inno dei sette vincitori, che era il loro fischio di famiglia. Niente. Il buon Piuma tremò dalla paura, e, chinandosi sul suo ottimo e unico amico, chiamò singhiozzando: — Massimo! Massimo! — Ehi, stupido! — rispose Massimo a bassa voce. — Non capisci che faccio per sembrare « K. O. » sul serio? — e aperse mezzo occhio. Proprio con quel mezzo occhio aperto vide una cosa terribile. Ascoltate! Vide il perfido Pic, il « gangster », che se ne scappava, e stava già dietro il mulino, con un foglio da cento in mano. Allora il disgraziato si alzò d'improvviso e, dando calci e pugni a tutti quanti, corse dietro a Pic, e Piuma gli correva dietro, e tutti gli altri, quantunque

A quel tempo, essa non aveva nessun Editore. Aveva due gatti di diversa grandezza, ma di uguale importanza, e un certo numero di fratelli e sorelle minori di lei. Costoro erano gli unici lettori suoi, a quel tempo: e fra quei lettori, pochi ma scelti, le presenti storie ebbero un vero successo. Il ricordo di quel successo incoraggia, adesso, l'Autrice, a offrire le medesime storie a voi, in un bel libro stampato da un vero Editore. Essa spera che questo libro vi piaccia, e vi faccia divertire. La vostra amicizia sarebbe per lei un onore, che la consolerebbe, oggi, nella sua vecchiaia. Augurandovi, dunque, buona lettura, essa si dichiara la Vostra fedele e affezionata AUTRICE

Vieni a trovarmi, qualche volta! — Bah! — disse il povero mercante. — Andiamo a fare una passeggiatina per il Palazzo dei Sogni, eh? - propose Tit. Si vedeva che anche lui era un po' nervoso. Era notte, e il Palazzo cominciava ad animarsi. Gli uccellini parlanti si sgrollarono nelle loro gabbie, e la scimmia di Pippo si preparò a mangiare lo zucchero. Pippo arrivò, con un paio di scarpe in mano, e il pappagallo disse: — Buon giorno, padrone! Si vedevano lí tutte le vostre compagne di scuola vestite come Principesse, con grandi diademi in testa. Belle fate, e bambole che parlavano, e soldatini di stagno che sapevano guerreggiare sul serio, passeggiavano per i corridoi. Una tavola con polli arrosto, e zuppe dolci, e cioccolata, e panna, sorgeva in mezzo ad una grande sala. C'era poi un'alta torre, con sulla cima un uomo bruttissimo che sparava a tutti quelli che passavano, e c'era un barbiere con un paio di forbici piú grandi di lui. — Effetti del mangiar troppo di sera, — borbottavano le bambole, osservando quei sogni spaventosi. — Questa sera non si vede Sua Eccellenza Tom; come mai? — chiedevano alcuni bambini importanti, vestiti da generali. Uno strano ragazzetto con un ciuffo rosso correva in bicicletta su e giú per un mappamondo e aveva una faccia molto seria. Una bambina piú grande corse incontro ad un piccolo che non sapeva camminare ancora, e disse piano: — Dunque non è vero che sei morto! — Era il suo fratellino, quello, che qualche giorno prima era scomparso, ed ora, la notte, continuava a camminare, nel Palazzo del Sogno. — Andiamo a vedere se c'è Rosetta, — disse d'improvviso Caterí. Andarono a cercare l'uscio dov'era scritto: Signora Rosetta, ma Rosetta non c'era. C'era invece un'altra donnettina che spazzava le stanze. — E dov'è Rosetta? — chiese Caterí. — Io sono un'amica di Rosetta, — rispose la donnina, — Rosetta non viene mai, ora. — E perché? — chiese Caterí. — Ma perché deve aspettare sua sorella, quella che se n'è andata. Non mangia, non beve e non dorme, Rosetta; e dunque non sogna. Come potrebbe venire qui? piange sempre, la povera Rosetta. — Oh, Rosettina mia! — gridò Caterí scoppiando a piangere. — Me l'ero quasi dimenticata. Ma ora abbiamo ritrovato Bellissima e torniamo indietro, che ne dici, Tit? — Certo, certo, — disse Tit. — Vado a ordinare l'automobile. Poco dopo, si sentí l'automobile che suonava. Caterí corse giú con Bellissima, perché oramai era tempo di partire; ella sali sull'elegante automobile rossa, che si mosse dicendo : Puff! Puff! Puff! — Addio, addio, Palazzo, Castello della Regina, Guardaboschi e meraviglie. Addio, povero mercante! — Vi aspetterò trentun anni, — gridò il Mercante a Bellissima, — e il trentunesimo anno, se ancora non vi avrò visto, verrò io stesso a cercarvi, per dirvi: « Volete diventare mia moglie? » — No, — fece Bellissima. Si poteva vedere, da lontano, il povero Mercante che si arruffava la barba; ma presto non si vide piú nulla, per quanto era veloce l'automobilina.

Spesso pensava a Rosetta e a Bellissima e alla sua casa, e chiamava Tit nella speranza che egli rispondesse; ma Tit non parlava! Due volte al giorno un Nano si affacciava e posava un piatto di minestra sul davanzale. Un giorno il Nano disse: — È stato arrestato Pic; aveva un sacco pieno di ciottoli e ha confessato. Ora è in prigione e fra poco tornerà al ginnasio. E se ne andò tutto contento. Allora Tit aperse gli occhi.

a un bellissimo mattino d'estate, con tanto sole che le ali delle rondini in cielo parevano rosse. Certamente questo sogno speciale fu mandato come Primo Premio di Consolazione all'eccellente Paolo Pietro, Soldato del Re.

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che non ha piú bisogno di bambinaia perché lui oramai ha imparato a soffiarsi il naso. - Mi basterebbe il contorno d'insalata senza la carne. - Non c'è insalata, Caterí. - Allora una pagnottina di pane. - Non è possibile, Caterí. - Mezza pagnottina. - Non c'è. - Un boccone di pagnottina. - Nemmeno. - Mezzo boccone di pagnottina. Rosetta sospirò. - Andrò a vedere se c'è qualcuno che ha calze rotte da rammendare e fazzoletti da lavare. Chi sa che non ritorni con qualche cosa, Caterí. - No, no, — disse Caterina. - Non farlo, ti prego, Rosetta. Non è vero che io abbia fame. Non parlo di Bellissima, poi, che non ha mai fame. Non andartene, cara Rosa. Ora che la gallina è morta, chi mi farà compagnia? Bellissima non sa neppure parlare. Sa dire soltanto « sí » e « no » con la testa, e anche per questo bisogna darle una spinta. - Bellissima, - disse Rosetta, - sorveglierai bene Caterí finché io non torno? - e abbracciò la buona Bellissima. Ella disse subito di sí. Era molto buona e molto seria. Proprio una brava donnetta. - È una stupida, - disse Caterí, - non capisce nemmeno quello che le hai detto. La povera Bellissima piegò la testa in avanti, offesa. Rosetta si mise lo scialle e il cappuccio e promise di tornare subito. Caterí si sedette nel cantuccio, vicino al letto, aspettando Rosetta, e intanto, per non annoiarsi, fingeva di andarle dietro e di vedere tutto quello che Rosetta faceva. Ecco, Rosetta va al primo cancello e chiama : - Signora, avete bambini da custodire, avete calze da rammendare ? - Oh, finalmente siete venuta! Ecco qua; ho dodici e cento bambini da custodire e sedici calze da rammendare. Vi pago anticipato. - Quanto? - Arrosto, insalata e una pagnotta. — Vado subito a portarli a Caterí. - Ma un po' anche per te. - Sí, sí. - Ecco Rosetta che torna a casa e bussa. - Hanno bussato, è vero, Bellissima?

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E la povera Caterina si mise a piangere, perché era piccola e sola e la nera e brutta notte cominciava a scendere. E quella stupida di Bellissima non sapeva far altro che rimanersene sulla spazzatura, buona a niente, guardando tristemente il buio coi suoi occhietti di filo rosso. D'improvviso si sentí: Toc, toc. Ecco: forse è Rosetta. Andiamo tutti ad aprire.

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Tanto non servi a niente e non sei buona a niente. Se valessi almeno un centesimo ti venderei e mi comprerei una mollica di pane. Ecco.

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— chiese la signora Guardaboschi, accennando a Caterí, la quale, sentendo che si parlava di lei, si rincantucciò e abbassò gli occhi. — Ma no, signora, — rispose Tit, piuttosto risentito, — é la madre di Bellissima. Avete nessuna notizia di Bellissima? — No, — rispose la signora, e subito anche i due cingallegrini fecero segno di no con la testa. Tit allora voleva salutarli e andarsene, ma la signora disse che era tardi, e buio, e che volentieri avrebbe dato ospitalità a lui e a Caterí. Essi furono molto contenti, perché erano stanchi, e desideravano dormire un poco; ma intanto la brava signora Guardaboschi raccontava del suo signor marito, che quella sera era lontano, e del suo cingallegrino maggiore che già andava a scuola. Quanto a intelligenza, tutti i maestri lo affermavano, non c'era niente da dire, ma era svogliato, svogliato! E la signora raccontò tante storie del suo signor marito e dei cingallegrini, ma Tit ogni tanto si addormentava, e Caterí doveva dargli una spinta perché si svegliasse. Poi la signora Guardaboschi volle mostrar loro tutta la casa, e finalmente li accompagnò nella loro camera che era assai bella, tutta di paglia.

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Le fate cominciarono a discutere animatamente intorno a questo fatto, e alcune di esse rimasero a lungo sopra pensiero. Anche molte bambine e nani che avevano smesso di giocare ascoltarono la storia delle viri della brava Grigia e dissero che avrebbero voluto conoscerla; ma la Regina delle Fate disse che Grigia era cosí modesta che non usciva mai di casa e ogni volta che c'erano visite correva a nascondersi in un cantuccio. Per vestito aveva un grembiule grigio e un fazzoletto che le aveva dato per carità un ricco mercante di stoffe. Si diceva che egli le avesse detto: « Scegli fra tutte queste stoffe! », e le avesse posto davanti tessuti d'oro e d'argento, a fiori e a stelle, e trasparenti come il vetro. E Grigia aveva scelto il grembiule e il fazzoletto. Aveva preso anche un nastrino celeste con una perla, ma non se l'era mai messo, e l'aveva riposto nella sua sacca. Mentre tutti continuavano a parlare di Grigia, Tit riprese a camminare per il bosco. Era proprio una bella notte. Pensate, se noi potessimo assistere ad una festa simile! Vicino ad ogni filo d'erba c'era una lucciola che faceva la guardia, e le cameriere, con ricami sul grembiule, giravano portando i rinfreschi dentro tazzine gialle. I dolci

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Caterina era molto confusa mentre saliva la scala d'oro del castello, anche perché due o tre lucciole si misero a ridere vedendo che le si era sciolta la treccia. Per fortuna il castello era deserto, e anche la Signora tornò subito dai suoi ospiti, e allora Caterí si senti piú tranquilla. Il castello era tutto illuminato e lucidato, e le lunghe tavole erano piene di cibi squisiti, come la cavalletta in umido e la frittata con le lumache. Caterí e Tit mangiarono ancora parecchio, e perlustrarono le sale, le stanzine, i corridoi; ma Bellissima non c'era. Allora si sedettero nel salotto verde, per giocare a carte. Caterí si divertiva molto a giocare a carte in quel castello magnifico, e anche Tit. Egli era assai allegro, e, gettando tre carte sulla tavola verde, gridò cantando: — Fante, cavallo e re! — Re degli straccioni — rispose chi sa di dove una voce, con l'aria di prendere in giro.

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Tit si chinò in avanti con mossa ful- minea, e il pugnale andò a conficcarsi nel muro; allora Tit andò a prenderlo con un sorriso, e tenendo un pugnale in ciascuna mano, guardò negli occhi Pic: — Pic, — disse, — ti consiglierei, ora, di buttare a terra il tuo pugnale. Pic lasciò cadere il suo pugnale e allora un tale tremito invase i tre briganti, che caddero loro anche le barbe. Tit raccolse con noncuranza il terzo pugnale e per la gioia fece un salto. — Ora vado a chiamare la polizia, — dichiarò. — No! — gridò Pic. — Ti prego, forte, invincibile Tit. Mi rimanderanno al ginnasio. Abbi pietà di me! I denti dei tre briganti battevano per la paura. Caterí ne sentiva il rumore, di sotto al tavolino dove s'era nascosta, e di dove guardava la scena con un occhio solo. Intanto, che cosa accadeva nell'animo di Tit? Egli guardò la trombetta d'argento che giaceva sul tavolino, e i suoi occhi s'intenerirono: — Che cosa avrebbe fatto, lei? — chiese come a se stesso. E d'improvviso si volse: — Quella è la finestra, — disse. — Saltate per di là, carte moschicide. Levatevi di qua, divoratori di brodo. E se vi farete vedere ancora da queste parti... — Ma non fu necessario che Tit finisse la minaccia, perché i tre, senza pugnali e senza barba, erano già fuori della finestra.

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Poi si mise a passeggiare guardando il soffitto, e si ricordò di Caterí: — Puoi cominciare a farti vedere, Signora, — disse. — È tutto fatto.

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Caterí inciampò nella vesta, dalla sorpresa, e una mosca che abitava là sul soffitto si mise a ballare. Una foglia di quercia si affacciò e gentilmente si mosse per fare da ventaglio. Tit si sollevò con fatica, e alla vista di Caterina si mise a ridere: — Sei molto elegante, signora, con codesto abito a strascico, — le disse poi, per non offenderla. Caterí si vergognava, ma era felice: — Sei guarito, eh, Tit? — mormorò. — Se hai fame, ti darò la minestra che ha portato il nano. Tit mangiò, e fu molto allegro, a rivedere la trombetta d'argento. La casina di legno rosso, al sole, pareva dipinta a nuovo, per la soddisfazione. Tit si addormentò, e nel frattempo lo scoiattolo si affacciò per chiedere come stava. — Pic è stato arrestato, — annunziò trionfalmente lo scoiattolo. Caterí pensava: « Ah, che bella giornata! » e andò nel bosco e prese ciclami, erbe e foglie, per addobbare la casina. In terra, fece un tappeto, e in alto, sulla finestra, mise un grande ramo per trofeo; poi, dal fondo, guardò Tit, e capi che egli sognava qualcosa di molto bello, perché una farfalla, incuriosita, s'era posata sul suo naso. Quando Tit si risvegliò, fu contento di vedere che la casina era diventata piú bella d'un teatro, e volle vicino a sé la sua trombetta d'argento. — Chi sa se rivivrò del tutto, — osservò. — Sono stato proprio in punto di morte. — Oh, sí, Tit! Precisamente, — confessò Caterí, e, non sapendo che dire, si mise a piangere per far capire la sua contentezza. Tit la guardò impietosito e pieno di cortesia. — Tu sei stata sempre qui? — domandò. — Oh, sí! — disse Caterinuccia modestamente. — E come dormivi? — chiese Tit meravigliato, osservando la piccolezza della casina.

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Caterinuccia; per mostrare come, si distese a terra, e allora Tit, al pensiero di una simile scomodità, le dichiarò eterna riconoscenza. E per non dimenticarsene mai, le fece un nodo alla trecciolina. Poi si distese piuttosto stanco e guardò fuori della finestra: — Vedi quelle cupole rosse, — disse, — lontano lontano? Caterí guardò. Dalla parte opposta a quella dove sorgeva il palazzo dei sogni, all'altro confine dei possessi della Signora, si vedevano molte cupole rosse come il sole con bandiere bianche e gialle sventolanti sulle cime. Doveva essere qualche ricchissimo regno. — Lí abita la Principessa delle Querce, — disse Tit a voce bassa. Caterí non aggiunse nulla. Aveva osservato che la voce di Tit tremava nel dire quel nome. Egli guardò la trombetta d'argento: — Una volta questa tromba suonava, — disse. Caterí taceva indovinando che Tit stava per raccontarle la sua piú grande impresa. — La Principessa delle Querce, — disse Tit guardando quelle grandi cupole, — doveva sposare il Principe Felice. Io conoscevo il Principe

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C'è anche una scimmietta viva che mangia lo zucchero afferrandolo a volo e un pappagallo che dice a Pippo: — Buon giorno, padrone —. Di guardia sta un cane che è bravissimo a sfondare i cerchi di carta. Appena giunti Caterinuccia lasciò un momento Tit per visitare la propria casa. C'era una cucina con tante piccolissime pentole di coccio e parecchie bambole che parlavano e camminavano. Inoltre vi trovò un cassettone ricco di scompartimenti con tutti i corredi delle bambole. La cucina era fornita di piattini tazze e posate, e di strofinacci e anche di forme per fare i dolci con la farina; e di un gatto quasi appena nato con un collaretto. I bambini possono abitare la notte nel Palazzo, ma appena viene il giorno arriva un guardiano col berretto d'oro come ai Giardini Pubblici e grida: — Uscita! — Poi chiude i cancelli. Soltanto Caterinuccia poté penetrare nel suo appartamento di giorno, grazie al viaggio straordinario che aveva compiuto con Tit. Ella andò a guardare anche la casa di Rosetta; sulla porta era scritto: Signora Rosetta in una targa di ottone lucido, ma Rosetta non c'era. Le stanze erano tappezzate di carta a fiori e alle pareti erano appoggiati grandi armadi pieni di biancheria. C'era abbondanza di polli arrosto, di pane caldo e di calze da rammendare riunite dentro un cesto presso una poltrona. Un canarino dentro una gabbia simile a un castello era addormentato; tutte le bestie di quel palazzo dormono durante il giorno. Tit non ha una casa, ma foreste e praterie con tigri e alberi del pane e uccelli del Paradiso dalle ricche piume. Palmizi lunghi e sottili sorgono a grandi distanze per il deserto, e da un lato si leva una montagna oscura in cui si nascondono i banditi fra un precipitare di torrenti. In un chiostro che odora d'aranci e di giacinti, presso fontane bianche, passeggiano molte principesse coi capelli chiusi in reti d'oro. Caterinuccia avrebbe desiderato di visitare tutto il Palazzo, ma dovette ritornare vicino a Tit che in fondo non rimpiangeva troppo di non potervi andare anche lui perché lo conosceva tutto da cima a fondo. Trascorsero delle bellissime ore perché Tit descrisse a Caterinuccia molte case del Palazzo, fra cui anche le vostre, e le descrisse anche il castello della Regina delle Fate, che si trova poco lontano.

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Ma io sono timido, e non so come avvicinarla; ella è cosí riservata che quando la Regina ha visite, corre a nascondersi. E il povero mercante ricominciò ad arruffarsi la barba. Tit guardò lontano, verso i suoi chiostri pieni di principesse, e poi guardò la sua tromba d'argento. Infine si rivolse con simpatia al grosso mercante: — Appena sarò guarito, — disse, — andremo, io e Caterí, a parlarne alla Regina. Il mercante si alzò in piedi, e sollevò le braccia per la gioia. Col suo vocione, li ringraziò undici volte. Infine starnutò per liberarsi subito di tutto il suo dolore. — E mi concedete ospitalità fino a quel giorno? — supplicò. — La mia ansia è tale, che non potrei continuare a girare vendendo stoffe. — Sí, sí, certo! — gridò Tit. — Ma qui non c'è posto, — osservò Caterí. — Oh, non importa! — esclamò il mercante con entusiasmo. — Rimarrò disteso davanti all'uscio a far la guardia, fino a quel giorno. Il cuore mi batte. Etcí! Vorrei che i giorni volassero. Uh, uh, uh! E il bravo mercante si stese dinanzi all'uscio, lisciandosi la barba; Caterí gli portava la minestra, ed egli era davvero soddisfatto. Ogni giorno chiedeva a Tit se gli pareva di sentirsi meglio. Finalmente, un mattino, Tit dichiarò: — Oggi mi alzo dal letto. Caterí batté le mani e cominciò a saltare, e Tit si alzò e passeggiò in su e in giú, finché si senti di nuovo forte come prima della disgrazia. — Ora andiamo dalla Regina, — disse. — Uh, uh, uh! — approvò il mercante. — Io vi aspetterò fuori del cancello, perché non ho il coraggio d'entrare. Se la donna del mio sogno accetterà, uscendo mi direte: « Tutto bene a. Si avviarono. Il castello era di legno scuro ornato di lamine d'oro; le scale erano coperte di un tappeto rosso, e la ringhiera era fatta di giacinti. La Regina delle Fate stava cucinando un pasticcio per

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il pranzo e si ripulí bene le mani con uno strofinaccio, prima di andare incontro a Tit e a Caterí. — Sono contenta che la brava Grigia abbia trovato marito, — dichiarò appena Tit le ebbe detto la ragione della visita. E chiamò: — Grigia! Si sentirono dei passettini, ma non si vide nessuno. — O Grigia, non essere cosí modesta, — disse la buona Regina, — e cosí paurosa. Non mi riesce di vedere che uno dei tuoi occhietti rossi, che fa capolino dall'uscio. Avanti, avanti, Grigia! Si udí uno strano borbottio. — Ma su, Grigia, — seguitò la Regina. — È possibile che tu abbia paura di mostrare qualche cosa di piú di un occhio e di una ciabatta? Coraggio, Grigia. Grigia si avanzò, nascondendosi la faccia. Aveva il solito grembiule grigio e il solito fazzoletto rosso. Tutta tremante, andò dinanzi a Caterí.

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— Non ci vedeva bene a causa delle lagrime ed era tanta la sua confusione che non si ricordava che era notte. Quando distinse Caterí, Bellissima e Tit, Rosetta cominciò a ridere e a piangere, fino ad essere così buffa che anche l'automobile rise e fece: Tuff! Tuff! Tuff! Entrarono in casa e subito notarono che, sul tavolino, i due piatti del servizio di Rosetta erano pieni, uno di stufato e uno d'insalata. — Mangiamo! Mangiamo! — strillarono. Ma Bellissima stette a guardare. — Figurati, Caterì, — disse Rosetta, — che io ero tanto contenta di ritornare! E invece, non trovai piú nessuno. Ho finalmente trovato un impiego, Caterì.

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L'automobile cominciò a dire: Tuff! Tuff!Tuff!, per far sapere che era pronta, e la Principessa fece un inchino e disse: — Addio —. Poi, guardando Caterina, le disse cortesemente: — Ti mandelò un alioplano. — Addio, addio, Tit, — gridarono. Caterí stava seduta sulla casa di legno della gallina che era morta, e Bellissima le asciugava gli occhi con le sue mani di stoffa. — Verrò a trovarvi! — gridò Tit. Caterí stava per dirgli: — Hai lasciato la tua trombetta d'argento! — ma vide che sopra c'era scritto: Questa è per Caterina. Intanto l'automobile correva lontano. Da quella sera, Caterinuccia aspettò la visita di Tit; ella si mise per l'occasione il nastrino celeste con una perla che Bellissima aveva scelto nella valigia del Mercante, e che aveva sempre tenuto in serbo per donarlo a lei. Tit venne, e ritornò, e spesso va a trovarla, insieme alla piccola Principessa. Cantano sulla chitarretta delle canzoni meravigliose, che parlano di palazzi rossi e di bandiere, di tigri, di cingallegre e di giacinti. Cantano di banditi che dormono sulle montagne e di principesse dai bei capelli che passeggiano per i giardini tenendo in mano una margherita. Cantano di avventure straordinarie che tutti i bambini conoscono, quando alla sera partono per il Palazzo del Sogno, e che è inutile io vi dica, perché anche voi le conoscete. Al Palazzo del Sogno, i cinque amici si ritrovano spesso, a casa di Caterì e nel regno di Tit; qui vivono le piú gloriose avventure, ad

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Udita che ebbe questa canzone, Caterí si mise a dormire, contenta, con Bellissima ai piedi del letto. Quella sera corse subito verso il Palazzo del Sogno sicura dell'eterna amicizia di Tit.

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Poi tornarono verso il teatro, ma non trovarono piú nessuno; tutti gli autocarri erano partiti e solo il signor Negretti era rimasto a terra. Subito montò sull'asino per inseguire gli autocarri; ma essi erano chi sa dove, oramai, e non riuscì a vedere che un po' di polvere a un'enorme distanza. Poi l'asino si stancò e disse che per lui ormai era tempo di mettersi in pensione; e non volle piú camminare. Negretti pensò di cercarsi subito un'occupazione dignitosa, e bussò all'uscio del Fornaio che abitava lì vicino: — Mi vuoi per fare il pane? — gli chiese. — Signor Negretti, — rispose il fornaio, — con le sue mani nere vuol toccare la mia bella farina? — e gli sbatté la porta in faccia. « La prima è andata male, ma la seconda andrà meglio », pensò il signor Negretti. E si presentò al Salumaio. — Permette, signore, che io faccia il salumaio insieme a lei? — Sei solo? — No, signore. Ho un somaro. — Bene, bene. Mi servirà per fare la mortadella. — Ma il mio somaro è di legno. — E con un somaro di legno, ti presenti al Signor Salumaio? — E il salumaio offeso gli sbatté la porta in faccia. Negretti pensò: « Anche la seconda è andata male, ma chi sa che non vada bene la terza! » E si presentò alla Signora Marchesa, che abitava in una bella casa col tetto rosso. — Che cosa sai fare? — domandò la Marchesa. — Tutto, signora. — Sai fare la calza? — No, signora. — Sai cucire a macchina? — No, signora. — Sentite? Dice che sa far di tutto, e non sa neppure fare la calza, e nemmeno cucire a macchina. Non ti vergogni? Bene, vuol dire che porterai a spasso il mio canino. — Quanto mi dà? — Un soldo al giorno. — Sta bene. Allora la Marchesa chiamò il canino, e questo venne. Aveva un ciuffo bianco in testa, il naso nero e gli occhietti azzurri. Negretti lo condusse subito a spasso, ma quel canino era indiavolato. Per far dispetto, metteva sempre le zampe dentro le pozzanghere, e Negretti doveva

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— e se ne andò a dormire, dondolando la coda con aria furba. Anche Negretti andò a letto, nella stessa camera in cui dormiva il canino. Era tanto stanco, e pensava alla sua compagnia che se ne era andata, e specialmente alla signorina Alberelli, che era fatta di un bel legno bianco e si chiamava cosí perché aveva un albero ricamato sul vestito. La signorina Alberelli gli aveva promesso di sposarlo, ma ora tutto era finito. E il povero Negretti sospirò e si addormentò. Poco dopo, si svegliò di soprassalto, perché sentí fare: — Bu! bu! - Si rizzò e chiese subito: — Che cosa desidera, Eccellenza? — Voglio andare a spasso a vedere la luna, — disse il canino. Il povero Negretti avrebbe preferito continuare a dormire, ma rispose: — Subito, Eccellenza, — e si alzò; e il canino, contentissimo, cominciò a saltare e a ballare. Poi alzò il naso verso la luna, e cantò in suo onore una canzone che diceva cosí:

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E quando lo videro, fecero una festa magnifica, misero in fila gli idoli, le palme, eccetera, e in mezzo a musiche di ogni genere celebrarono il matrimonio della signorina Alberelli col signor Negretti. Il canino girava intorno annusando, ed ebbe tutti gli ossi che voleva. Il giorno dopo si fece una rappresentazione in onore della Marchesa, ed essa in premio regalò alla sposa un bel paio di calze quasi nuove. Infine la compagnia ripartì, col signor Negretti al volante, al posto d'onore. L'asino che voleva andarsene in pensione fu messo in un prato, e là, mangia e mangia, diventò grasso come un bue. Speriamo che non lo veda il Signor Salumaio. Il signor Negretti ricominciò a ballare e a cantare cosí bene, che tutti gridavano: bis! bis! Insieme a lui cantava la signora Negretti Alberelli e potete immaginare se erano allegri. Infine si fabbricarono una elegantissima casa col tetto di legno, dove vennero al mondo tanti bei negrettini; e tutta la gente andava a trovarli per ascoltare la loro storia. E al loro passaggio si sentiva ripetere: Riverito! Riverito! Cosí finí la strana avventura del mio bravo amico signor Negretti.

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— Io sono di professione cuoco, e l'amico è servitore, — rispose Massimo, — e, proprio in questo momento, il nostro signor padrone ci ha scacciati perché avevamo fatto l'elemosina a un povero vecchio. — Sí, sí, — aggiunse Piuma, piangendo, — un povero vecchio, senza casa né tetto! Uh! Uh! — e si asciugava le lagrime con un bel fazzoletto a quadri; era un regalo della sua fidanzata Caterina, la quale poi sposò uno che cuoceva le pietre in un forno, e ci faceva l'oro. — Poverini! Cosí é la vita! — esclamai, con voce profonda. E li invitai a colazione nel mio ricco palazzo tutto fatto di vetri colorati, e con

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Era scomparso, e certo oramai cominciava a spendere quelle magnifiche cento lire. Ahimè! Ora tutta la folla, arrabbiata, inseguiva Piuma e Massimo: oche, cavalli, milionari, e, scappa e scappa, finalmente i due si ritrovarono soli sopra una panchina. E cominciavano a sospirare.

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Elsa Morante Le straordinarie avventure di Caterina Disegni in nero e a colori dell'autrice Einaudi

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Pane arabo a merenda

219735
Antonio Ferrara 23 occorrenze
  • 2007
  • Falzea Editore
  • Reggio Calabria
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
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Tornando a casa Maristella è caduta. La ruota anteriore della sua bici ha incontrato un sasso e si è impennata. C'è di buono che Maristella non piange mai. L'aiuto a rialzarsi e torniamo verso casa sua a piedi, tenendo le bici per il manubrio. La signora Nasochiuso ci vede arrivare da lontano, perché è affacciata al balcone. Quando arriviamo è già davanti al portone, le mani sui fianchi e gli occhi che sprizzano scintille. - Di nuovo col marocchino! — urla — Cosa ti avevo detto? - Ma, mamma, siamo solo andati a fare un giro. - Basta! Non rispondere! — e parte lo schiaffo. Non piange neanche adesso, Maristella. Ascolta in silenzio la sfuriata di sua madre, a mento sul petto. - Guarda come sei conciata! Sembri una stracciona! E qui, cos'hai? — urla aprendo con forza la mano della figlia. L'accendino di Aziz cade sull'asfalto del cortile. - Subito a casa! E tu fila via, marocchino! Raccolgo l'accendino in silenzio, monto sulla bici e torno a casa. Per strada mi vengono in mente tutte le parole che non ho usato. Sento tutti í pensieri che mi escono dalla testa, come bolle che scoppiano. Un bambino può diventare cattivo, a furia d'esser buono.

Vendo accendini, però aspetto pure che i clienti carichino la spesa in macchina e poi riporto a posto il carrello, così recupero la moneta da due euro. Le prime volte mi vergognavo un po, adesso sono il più veloce di tutti. Alcuni sono contenti di lasciarmi il carrello, così possono subito salire in macchina, senza prima tornare indietro a metterlo a posto. Questo succede per esempio quando piove. Quando piove posso guadagnare anche dieci euro, se non ci sono altri marocchini a prendere i carrelli. - Vai a lavorare! — mi dice un signore coi baffi. - Sono qui apposta — penso io e sto per dirlo, ma poi sto zitto, sorrido e vado a cercare qualche altro signore col carrello. Una commessa all'entrata regala un'arancia a un bambino. Sua madre lo riprende: - Come si dice alla signora? Il bambino guarda la commessa e dice: - Sbucciala. Dieci minuti prima che il supermercato chiuda prendo anch'io un carrello e faccio la spesa come un italiano. Mi piace andare in giro a scegliere. Le cose che compero di solito sono banane, pane, pepe, latte. I carrelli dei signori italiani sono sempre strapieni di pizze, biscotti, cioccolato, merendine. - Chissà quanti figli hanno! — pensavo le prime volte. Poi ho capito. Quasi tutti hanno un solo figlio o una sola figlia, però consumano tanto perché in casa hanno la tele, che trasmette un sacco di pubblicità. Per fortuna noi a casa non abbiamo la tele.

Antonio Ferrara è nato a Portici, in provincia di Napoli. A Napoli ci è rimasto fino all'età di ventuno anni. Adesso vive a Novara con la moglie Marianna, che fa la fotografa, con la figlia Martina, che fa la studentessa e la violinista, e con i gatti Simba e Minou, che fanno i gatti. È sempre fuori di casa, sempre fuori dagli schemi. È sempre fuori.

Un giorno è venuta a bussare alla nostra porta. Ero a casa da solo. - Sono venuta a chiederti dove fai la pipì — ha detto con la sua inconfondibile voce nasale. Ho pensato ad uno scherzo. - Nel gabinetto, naturalmente — ho risposto ridendo - e tu? - Non sei forse tu che fai la pipì per le scale? — ha insistito la Nasochiuso. Allora ho capito. Mi è passata la voglia di ridere. L'ho guardata a lungo senza dire niente. Avrà pensato che avevo paura. Ma io volevo risponderle col silenzio. È andata via borbottando, convinta della sua idea. Hanno suonato di nuovo. Questa volta era Maristella, la figlia della signora di prima. - Non mi chiedi cosa sono venuta a fare? — ha domandato. - No, non te lo chiedo. - Peccato, perché ti avrei risposto che sono venuta per chiederti scusa — mi ha detto e poi è rimasta un po' in silenzio — per mia madre, voglio dire! - Shukran — le ho detto sorridendo. - Cosa? - Grazie. In arabo. A questo punto Maristella si è messa a masticare la cicca che aveva in bocca con aria meditabonda. Poi, a sorpresa, mi ha dato un lungo bacio sulla guancia. Io ero terribilmente imbarazzato e avrei voluto dirle di smettere. Però ho pensato a quello che mi dice sempre la mamma: - Non interrompere mai qualcuno che ti stia mostrando affetto — e ho aspettato che finisse. Subito dopo è scappata via ridendo come una matta.

Quando suona i nostri vicini corrono a sentirlo e ognuno gli porta qualcosa da mangiare, da bere o da vestirsi, così ogni volta Aziz se ne va via con un piccolo tesoro. Qualcuno, a volte, gli porta anche qualche nuovo tegame di cui sperimentare il suono, o una vecchia caffetteria da picchiettare, o una caraffa da far tintinnare. Aziz apprezza molto queste piccole sorprese e percuote scrupolosamente, sorridendo, tutto quello che gli passa per le mani. L'ultima volta, a parte i grandi, c'erano venti bambini, che si conoscevano già tutti tra loro.

Nelle curve la borsa si inclina fin quasi a cadere, ma poi miracolosamente resta sempre in equilibrio. A un semaforo rosso mollo la bici sul marciapiede, tiro fuori il fazzoletto e mi piazzo davanti alla macchina, proprio in mezzo alla strada: provo a segnalare all'autista col fazzoletto.

Si ferma a quattro passi di distanza e si siede sulla coda. Resta così per un po', poi si alza e raggiunge la bandierina del calcio d'angolo. È una bandierina gialla, alta pressappoco come lui, che sventola allegra, fissata su uno stecco storto. Le gira intorno un paio di volte, la annusa, poi si siede sulla pancia, la lingua fuori. Sembra un soldato a guardia del suo fortino. Guarda dritto davanti a sé, fermo come una sfinge. Di tanto in tanto guarda la bandierina con interesse disciplinato. Di colpo si tira su, si gratta, alza la zampa e innaffia la bandiera. - Fortuna che già era gialla — penso, continuando a suonare. Intanto il cane, zitto com'era venuto, si gira e se ne va via. Un soffio di brezza leggera mi sfiora il collo, ma non riesce più a far sventolare la bandiera, appesantita dall'innaffiatura.

Lei fa danza moderna e a volte balla mentre io suono. Mi chiede spesso della mia città d'origine, Casablanca. A Casablanca ci sono ancora il nonno e la nonna. La loro casa è molto vicina al suq, il mercato, e quindi c'è sempre molta confusione. Omar, il fornaio, è amico del nonno e mi regala sempre una focaccia. Zio Kamir, che fa il venditore di tappeti, offre il tè a tutti i clienti, anche a quelli che si fermano soltanto a guardare. Intanto urla e fa gesti per attirare l'attenzione dei turisti, così a volte versa per sbaglio il tè su un tappeto costoso e urla ancora più forte per il dispiacere. Nel negozio di frutta e verdura la nonna compra datteri, meloni, sceglie da grandi ceste, annusa il pepe, la cannella, l'aglio, i chiodi di garofano. Le case non hanno le tapparelle, come a Novara. Tutte le finestre hanno le persiane, che proteggono dal sole e lasciano guardare fuori. Tutte le porte hanno una tenda per fare ombra. Poco lontano dal mercato c'è la chiesa, dove i nonni vanno a pregare, solo che in Marocco le chiese si chiamano moschee e i campanili minareti. Il nonno, in giardino, la sera innaffia le piante piano piano, come se versasse il tè. È sempre allegro. Sorride anche quando parla al telefono. Lo so perché l'ho visto sorridere mentre parlava con la nonna. Dice che chi ti ascolta può sentire il sorriso nella tua voce. Mi dice anche: - Parla lentamente, ma pensa con rapidità.

. - A trovare Aziz. Non si era già d'accordo? - Sì. - Allora? - Allora, confermo. Scendo subito. - È svitata — penso. Fa freddo, a Novara. Povero Aziz, nella sua baracca. A Casablanca adesso saranno in maniche di camicia. - Eccomi — dice Maristella mentre inforca la mountain bike rossa. - Andiamo. Pedaliamo affiancati in silenzio. La guardo con la coda dell'occhio. È simpatica, tutto l'opposto di sua madre. Mi piace quando si aggiusta i capelli dietro le orecchie. Ecco, deve averlo fatto, ma non ho voluto girarmi a guardare. Che peccato non aver visto! Ormai non lo fa più. Ci siamo. Ecco Aziz. - Tu devi essere Maristella. - Come mi conosci? - Eh, così, di fama — sorride Aziz mentre mi lancia un'occhiata complice. - Sei tu quello che dipinge gli accendini? - Sì. come lo sai? - Beh, anch'io, la fama corre. Aziz regala a me un accendino con su dipinta la città di Novara, a Maristella uno con la città di Casablanca. Dalla tasca della sua giacca sporge la copertina di un libro: "Le città invisibili", di Calvino. - È bello? — gli chiede Maristella. - Eh, sì. - Ti manca molto? - Quindici pagine, poi te lo regalo. - Shukran — ringrazia Maristella.

Quando la mia zia preferita, Kamala, è venuta a trovarmi, ho messo su un concertino mica male. Da allora, non so perché, non è mai più venuta a trovarmi e mi manda soltanto una cartolina al mio compleanno. E pensare che gira tutto il mondo per lavoro. Forse adesso conosce dei ritmi nuovi, di quelli che suonano nel Perù o a Timbuktù.

Dice che ha una bella camera con tante cose da far vedere, ma che di rado viene qualcuno a vederle. - Io le vedrei volentieri — gli ho detto. Così l'ho seguito attraverso un tinello, una cucina e un lungo corridoio, poi per due rampe di scale fino in camera. La camera di Aldo è grande come tutta la nostra casa, ma c'è molta più roba. Aldo ha dei giocattoli bellissimi. Per tutto il tempo che siamo stati insieme lui ha giocato al computer con un videogioco di guerra, mentre io esaminavo tutto quel bendiddio. Si è interrotto soltanto per prendere il tè con la torta alle tre, il latte coi biscotti alle quattro e mezzo e un bicchiere di qualcosa con tre qualità di stuzzichini alle sei e un quarto. Verso sera suo papà mi ha accompagnato a casa con una macchina grande come un autobus, tutta luci, freni e frecce e la musica a tutto volume. All'incrocio di largo Leopardi una vecchietta ci ha attraversato la strada sulle strisce e il papà di Aldo ha cominciato a suonare il clacson a più non posso. Un vigile che era lì all'incrocio si è awicinato, ha estratto dal taschino il blocchetto delle contravvenzioni, la penna e ha detto: - Uso del clacson in centro abitato e disturbo ai pedoni: fa venticinque euro! - Ma se era lì da mezz'ora, lenta come una lumaca! Ma dai! - Allora? - Silenzio. - A-l-l-o-r-a?! - Va be', va be', lasciamo perdere! il papà di Aldo si è frugato nelle tasche e poi ha sventolato una banconota da cinquanta euro sotto il naso dell'ufficiale. - Mi dispiace ma non ho il resto — ha sentenziato il vigile senza scomporsi. - Non importa, tenga pure: faccio un'altra suonatina e siamo a posto! E così dicendo il papà del mio amico ha strombazzato ancora, accelerando e sgommando come Schumacher mentre il vigile prendeva il numero di targa.

Non riuscivo a non pensare a Maristella. La maestra improvvisamente mi ha chiesto: - Nadir, dimmi due pronomi. - Chi? Io? - Bene, benissimo! Ora sentiamo un altro. Mi e proprio andata bene! Torno sempre allegro da scuola. - Bravo, Nadir. Se torni così allegro dalla scuola significa che ci vai volentieri! — esclama la mamma. - Mamma, non confondiamo l'andata con il ritorno! - preciso un po' seccato. Ieri sera sono passato in bici sotto casa di Maristella e ho visto la luce accesa. Ho sentito l'aria fresca sul viso e gli insetti sfiorarmi le gambe (avevo messo i pantaloni di Luca). Ho avuto per tutto il tempo nelle orecchie un ritmo bello e triste, come la voce di un tamburo antico. Ho rallentato e ho pedalato a tempo. Un pipistrello mi ha accompagnato fino a casa. Ho voglia di telefonare a Maristella per chiederle se domani le va di fare un giro in bici, però ho sempre paura che risponda sua madre. Ci provo. - Pronto? Con chi parlo? - Calzoleria Scarpetti! - Oh, scusi, ho sbagliato numero! - Non si preoccupi: venga pure e le cambieremo il paio di scarpe.

Il papà mi ha raccontato che l'anno scorso un giornalista della televisione andò a intervistarlo a Casablanca. In quel momento il nonno stava conducendo alla fiera del bestiame il suo asinello ridotto pelle e ossa. Mentre il giornalista gli faceva le domande e la telecamera lo riprendeva, passò di lì un gruppo di scolari. Il più alto di loro, attirato dalla televisione e per fare lo spiritoso, gridò: - Ehi, nonnetto, mi venderesti quel bellissimo asino? - Ben volentieri — rispose il nonno — ma prima dovresti sentire tuo padre se è disposto a mantenerne due! Intanto la nonna, sorridente, passava sotto il portico con le uova appena raccolte avvolte nel grembiule, rimboccato come un nido. Il giornalista concluse la sua intervista augurandogli: - Spero di poter tornare l'anno prossimo a festeggiare il suo novantaduesimo compleanno. - Perché ne dubita? — gli chiese il nonno — non si sente bene?

A me, invece, ha detto che sono bravo a scrivere. - Sei bravo, Nadir. — ha detto — E quando avrai troppa pena, troppo dolore, e se non vuoi parlare con nessuno, scrivi. Ti aiuterà. Così ha detto. È strano, scrivere. Le gioie e le tristezze le penso in arabo e le scrivo in italiano. Ma vengono fuori lo stesso, è questo che conta.

Prima la maestra ha spiegato l'importanza delle virgole, a che servono e quando si usano. Ci ha spiegato che le virgole consentono a chi scrive, di esprimere più adeguatamente il proprio pensiero e le proprie emozioni e a chi legge, di comprendere esattamente il testo e intanto di respirare in maniera naturale durante la lettura. Durante la spiegazione, Aldo ha mangiato quattro merendine, un pacchetto di patatine e due tavolette di cioccolato. La verifica di Aldo (la maestra l'ha letta ad alta voce) è stata questa: L'uomo entrò nella casa sulla testa, portava un cappello grigio ai piedi, grossi stivali gialli sulla faccia, un delicato sorriso in mano, un bastone d'avorio nell'occhio, uno sguardo penetrante.

Quando viene a casa nostra va dritto filato in cucina, ma non per mangiare: si siede sul pavimento e si mette a picchiare con entrambe le mani su tutte le pentole, i bricchi, i mestoli e tutto quello che trova in dispensa. È bravissimo ed è capace di suonare per intere giornate senza che gli venga mai fame o sete, voglia di un bicchiere di limonata, o di far la pipì.

Gabriele, e non riesco a concentrarmi. Mi piacerebbe avere un cane così, tutto nero come lui. Lo chiamerei Nerone. - Non so proprio dove hai la testa, oggi — si lamenta la maestra — va a posto, che è meglio. Ma domani guarda che ti interrogo ancora! E metto il voto! - All'uscita da scuola è lì come un'apparizione. Chi? Proprio lui, Nerone! Mi si avvicina e mi lecca come un vecchio amico. Lo presento a Maristella e lui lecca pure lei. Adesso siamo una squadra. Ah, ho restituito a Maristella il suo accendino.

Quando li ho provati Andrea e sua madre hanno cominciato a ridere come due matti. Io un po' mi vergognavo e un po' ero contento di farli divertire, così ho cominciato a fare il pagliaccio, anzi il pinguino, ho camminato in maniera buffa e ho fatto finta di inciampare. Quando sono tornato a casa ho chiesto subito alla mamma di accorciarmi i calzoni. - Non posso, adesso. Mettili lì sul divano — mi ha detto. Allora ho chiesto a mia sorella Aisha se poteva farlo lei. Aisha ha solo tre anni più di me ma è bravissima a cucire. - Devo prima aggiustare i calzini del papà! Metti lì su divano! lo però avevo voglia di indossarli subito e così sono andato in camera mia, ho preso le forbici lunghe che la mamma tiene nella cesta da cucito e ho accorciato i pantaloni da solo. Nello specchio la misura adesso mi sembrava proprio giusta. Mi sono guardato davanti, di dietro, di profilo, con le mani in tasca, accovacciato e in posa da corsa: perfetti! Mi sono spogliato e sono andato a letto. Poco dopo, mentre io già dormivo, è arrivata la mamma che, vedendo i pantaloni, ha pensato: - Povero bambino, voglio fargli una sorpresa, così domattina si sveglierà contento! Mi ha dato un bacino sulla fronte e poi mi ha accorciato i pantaloni. Mezz'ora dopo è arrivata Aisha. Altro bacino e altra sforbiciata. Questa mattina, per strada, avevo un po' freddo ai polpacci.

Ricomincio a lavorare. Accompagno le signore profumate alla macchina, le aiuto a caricare, porto via il carrello vuoto e prendo la monetina. Mentre sistemo un carrello qualcosa attira la mia attenzione: in uno dei carrelli già messi a posto c'è ancora qualcosa. Hanno dimenticato una borsa! Nella grande quantità di pacchi, sacchetti e regalini dev'essere sfuggita. Nella borsa c'è un telefonino e un portafoglio. Dentro il portafoglio ci sono cinque banconote da cinquanta euro: duecentocinquanta euro! Guardo meglio e vedo che ci sono anche dei documenti. Una patente, per la precisione. Sulla patente c'è scritto: Teresina Nasochiuso, corso Cavour, 9. La mamma di Maristella! Non c'è dubbio, è lei, anche perché la foto le somiglia tantissimo, con quella solita espressione da puzza sotto al naso. - Nadir! — sento chiamare da lontano. È la voce di Maristella. Mi giro e vedo la sagoma inconfondibile di Nerone che mi corre incontro. Racconto a Maristella del ritrovamento e poi appoggio un momento la borsa sul tetto di una mercedes scura parcheggiata lì vicino, così posso coccolare meglio Nerone.

Abita anche lui a Novara, nel quartiere di Sant'Agabio. È più povero di noi. Vive e dorme in una casa con una porta di lamiera. La lamiera si accartoccia in un punto come un angolo di pagina. Io e il mio papà andiamo a trovarlo spesso. Suona benissimo i bonghetti, il tamburo e la batteria Ha insegnato anche a me. Gli piace molto anche leggere libri italiani. - Tra un po' mi compero la macchina — dice sempre - vedrai! Quando dice così a me viene voglia di ridere, perché so che è così povero che non ha nemmeno la casa, figuriamoci la macchina! - Non prenderti mai gioco dei sogni degli altri — dice il papà sottovoce. Allora io non rido.

Lavoro dalle quattro e mezzo del pomeriggio fino alle sette e mezzo, cioè da quando chiude la scuola a quando chiude il supermercato. Alle otto sono a casa. Sono piccole le case degli italiani. Sono posate le une sulle altre. Il papà prepara il tè verde, profumato e aspro. Lo assaggia per primo e poi lo versa in tutte le tazze. La mamma cuoce il cuscus col vapore, in una pentola speciale di terracotta. I granellini di semola devono essere separati continuamente con le dita per non farli appiccicare. I miei fratelli, Aisha e Hussein, aiutano a preparare. Il piatto è al centro del tavolo. Mi piace mangiare con le mani, anche se a scuola uso la forchetta. Con le mani puoi fare le palline di semola e puoi prendere, insieme al cuscus, i pezzetti di carne e di verdure. Veramente tutto va fatto con la mano destra, perché con la sinistra non si può toccare il cibo. A scuola, la prima volta che ho mangiato in mensa, mi hanno dato il prosciutto. - È buono, sai? Preferisci il crudo? — mi ha chiesto Luisa la cuoca, che è un po' sorda. A me non interessa se il prosciutto è buono o cattivo. Non lo mangio e basta. Non lo so perché, però lo ha detto il papà ed è pure scritto nel Corano. - L'apparecchio acustico che ho comprato adesso funziona proprio bene. Capisco tutto! — mi ha detto sorridendomi Luisa. - Ah, sì? È costato molto? — le ho domandato. - Mezzogiorno e un quarto.

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A Livio, che ci ha creduto. Ad Arianna, che ci ha creduto e mi ha aiutato a non perdere il filo.

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Chi sono p. 8 I jeans » 10 A scuola » 12 Casa sua » 14 Lavoro » 16 A casa » 18 La vicina » 20 Casablanca » 22 Il nonno » 26 La nebbia » 28 Aldo e suo padre » 30 Le virgole » 34 Aziz » 36 Pentole » 38 Il tamburo » 40 La musica del cuore » 42 Le città » 44 Il ritorno » 46 Aiuta » 48 Regali » 50 Sul campo » 52 L'arresto » 56 I buchi neri » 58 Tipi extra » 60 La spesa super » 62 Il portafoglio » 64 L'inseguimento » 66 Che pasticcio » 68 Pane arabo e cioccolata » 70

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