Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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C'era due volte il barone Lamberto

219508
Gianni Rodari 29 occorrenze
  • 1996
  • Edizioni EL - Einaudi Ragazzi
  • Trieste
  • paraletteratura-ragazzi
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In mezzo al lago d'Orta, ma non proprio a metà, c'è l'isola di San Giulio. Sull'isola di San Giulio c'è la villa del barone Lamberto, un signore molto vecchio (ha novantatre anni), assai ricco (possiede ventiquattro banche in Italia, Svizzera, Hong Kong, Singapore, eccetera), sempre malato. Le sue malattie sono ventiquattro. Solo il maggiordomo Anselmo se le ricorda tutte. Le tiene elencate in ordine alfabetico in un piccolo taccuino: asma, arteriosclerosi, artrite, artrosi, bronchite cronica, e cosí avanti fino alla zeta di zoppía. Accanto a ogni malattia Anselmo ha annotato le medicine da prendere, a che ora del giorno e della notte, i cibi permessi e quelli vietati, le raccomandazioni dei dottori: «Stare attenti al sale, che fa aumentare la pressione», «Limitare lo zucchero, che non va d'accordo con il diabete», «Evitare le emozioni, le scale, le correnti d'aria, la pioggia, il sole e la luna». Certe volte il barone Lamberto sente un dolorino qui o lí, ma non riesce ad attribuirlo con precisione ad una delle sue malattie. Allora domanda al maggiordomo: — Anselmo, una fitta qui e l'altra lì? — Numero sette, signor barone: l'ulcera duodenale. Oppure: — Anselmo, ho di nuovo quelle vertigini. Che sarà mai? — Numero nove, signor barone: il fegato. Ma ci potrebbe essere anche lo zampino del numero quindici, la tiroide. Il barone confonde i numeri. — Anselmo, oggi vado malissimo con il ventitre. — Le tonsille? — Ma no, il pancreas. — Col suo permesso, signor barone, al pancreas abbiamo assegnato il numero undici. — Cosa mi dici! Il numero undici non è la cistifellea? — Cistifellea cinque, signor barone. Controlli lei stesso. — Non importa, Anselmo, non importa. Che tempo fa? — Nebbia, signor barone. Temperatura in diminuzione. Neve sull'arco alpino. — Sarà ora di andare in Egitto, eh? Il barone Lamberto possiede una villa anche in Egitto, a due passi dalle piramidi. Ne ha un'altra in California. E poi una sulla Costa Brava, in Catalogna, e una sulla Costa Smeralda, in Sardegna. Possiede pure appartamenti ben riscaldati a Roma, Zurigo e Copenaghen. Ma d'inverno, piú che altro, va in Egitto a cuocersi al sole le vecchie ossa, specialmente quelle lunghe, il cui midollo è tanto importante perché è la fabbrica dei globuli rossi e dei globuli bianchi. Cosí, anche quella volta vanno in Egitto. Però ci restano poco. Difatti succede che, durante una passeggiata lungo il Nilo, incontrano un santone arabo e fanno un po' di conversazione con lui. In seguito a questo incontro il barone Lamberto e il maggiordomo Anselmo volano in Italia con il primo aereo e tornano a chiudersi nella villa sull'isola di San Giulio, a fare certi esperimenti. Passa del tempo e non sono piú soli. Nelle

Quei bravi ragazzi hanno deciso di lanciare, a mezzanotte in punto, dei razzi di segnalazione per salutare un altro gruppo di boy scouts attendato su un'altra montagna. Uno dei razzi illumina in pieno il solenne aerostato e le sue ventiquattro ceste. Il secondo sfiora senza volerlo il pallone e gli appicca il fuoco. In quel momento i trasvolatori sono, per fortuna, a poche decine di metri dalla cima della montagna. L'incendio si estende pian piano. Insomma, prima che il pallone esploda, i ventiquattro Elle fanno in tempo ad atterrare e ad arrendersi ai boy scouts, che essi hanno scambiato per poliziotti. Una volta che si sono arresi, peggio per loro, non possono più gridare «non vale!». La notizia vaga per alcune ore da una radiotrasmittente a un'altra, senza trovare la strada ufficiale. Un radioamatore di Domodossola, che non ha capito esattamente come stanno le cose, fa in tempo a trasmettere che sul monte Moro sono atterrati i dischi volanti. Uno di Locarno, in cima al Lago Maggiore, non riceve perfettamente la trasmissione e capisce che ventiquattro boy scouts stanno mangiando salsicce in Val Vigezzo. I radioamatori del Piemonte, della Lombardia e del Canton Ticino sono tutti ai loro apparecchi e fanno una confusione da non dire, con tanti «passo e chiudo» che chiariscono ben poco. È quasi l'alba quando giunge ad Orta, finalmente chiara e distinta, la notizia che la banda dei ventiquattro Lamberti è stata catturata senza colpo ferire, a duemila metri sul livello del mare, da un gruppo di ragazzini in calzoni corti. Subito scattano ordini e contrordini. Un motoscafo della polizia, pieno di uomini armati, si accosta cautamente all'isola... in tempo per vedere le imposte di una finestra della villa che si spalancano con fracasso e la testa spettinata del maggiordomo Anselmo, che si affaccia a gridare proposizioni incomprensibili. — Cosa dice? Piú forte, per favore! Anselmo agita anche l'ombrello, come se la cosa avesse il potere, di amplificare la sua povera voce, arrocchita dagli strapazzi e dagli spaventi. — Il barone è morto! — egli grida. — Mandate un falegname per la cassa! Povero Anselmo. Ha impiegato una giornata intera a ricordarsi che la camera in cui i banditi l'hanno rinchiuso sta proprio sopra lo stanzino di servizio. Ha lavorato tutta la notte a scavare un buco nel pavimento per scendere nello stanzino e affacciarsi alla finestra. È sporco di calcinacci, coperto di polvere, ha le mani sanguinanti. — E morto il barone! — egli grida. — Ma voi, che fate? Non avvicinatevi o vi spareranno ! È gente decisa a tutto ! — Calma, — gli risponde un poliziotto, — calma e cessato allarme! I banditi sono stati catturati. Anselmo non sta a sentire altro. Corre nelle soffitte per riprendere la discussione con quei sei dormiglioni, ma non può discutere di nulla, perché essi continuano a dormire il sonno dell'innocenza. Tutto quel che Anselmo può fare è di scrivere in stampatello un biglietto che mette bene in vista, per il momento in cui si sveglieranno: PER CAUSA VOSTRA IL BARONE LAMBERTO È MORTO. SIETE LICENZIATI IN TRONCO. Poi corre ad aprire la camera in cui è prigioniero il giovane Ottavio. Il quale, dal canto suo, dorme il sonno dell'incoscienza. — Che ore sono? — domanda sbadigliando, quando Anselmo spalanca le finestre. — Le cinque e mezza. — Del pomeriggio? — Del mattino, del mattino! Si alzi, presto. — A far che? A quest'ora non ci può essere niente di urgente da fare. — Non si ricorda piú che è morto il barone suo zio? — Giusto, — dice Ottavio, — bisogna pensare ai funerali in barca.

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Ne passeranno degli anni e dei secoli prima che le acque azzurre del Cusio rivedano un funerale come quello del barone Lamberto, piú bello di un film a colori. Anche la giornata ce l'ha messa tutta per essere ricordata. C'è una luce che sembra argento fuso. Le montagne hanno innalzato tutt'intorno i loro sipari verdi e azzurri e dietro le cime svetta il Monte Rosa, come un gigante che guardi di sopra le spalle delle persone comuni. Tra vicini e lontani, posti sulla riva o sulle colline, piú in alto o piú in basso, quanti saranno i campanili intorno al lago? Piú di trenta sicuramente. E tutti, fin dall'alba, si scambiano rintocchi solenni. E su ogni campanile c'è un sacrestano o un chierichetto che si godono lo spettacolo. Cinquantamila persone si sono raccolte sulla sponda orientale del lago e almeno altrettante sulla sponda occidentale. Il promontorio su cui sorge la città di Orta è cosí carico di folla che, se non fosse di solida roccia, rischierebbe di sprofondare. Il barone Lamberto era già famoso prima che l'isola fosse occupata dai banditi. Era già famoso da vivo, figuriamoci da morto. La salma dovrà essere trasportata in barca dall'isola a Orta, di qui proseguirà per Domodossola, dove il barone Lamberto ha la tomba di famiglia. Tra l'isola e Orta non ci sono che quattrocento metri di lago: troppo pochi per consentire al corteo funebre di spiegarsi in tutta la sua lunghezza. Perciò è stato disposto che esso non segua una linea retta, ma si sgomitoli in un'ampia serie di curve, perdendo tempo in andirivieni pittoreschi, come certi ponti cinesi che per andare dal punto A al punto B seguono tutto un percorso a zig zag, per consentire a chi li attraversa di ammirare il panorama da diversi punti di vista. Apre la sfilata il barcone con i preti e i chierichetti. Tra questi spiccano i nipotini del barcaiolo Duilio, che si ficcano sempre dappertutto. Sono tanto vivaci che uno si aspetta di vederli correre sull'acqua senza affondare. Si litigano il secchiello dell'acqua santa, l'aspersorio, il turibolo dell'incenso e si beccano anche qualche scappellotto dal viceparroco. Seguono ventiquattro barche tutte uguali, ciascuna reca a bordo un direttore generale di banca e il suo segretario, in totale quarantotto funzionari vestiti di scuro, scurissimi in volto. Il fatto è che, quando sono giunti sull'isola, il barone Lamberto era già stato chiuso nella cassa. — Ma come, — hanno detto, — e noi? — Loro cosa? — ha chiesto Ottavio, faccia di bronzo. — Ma... naturalmente... avremmo voluto rendere omaggio alla salma... tra l'altro riconoscere ufficialmente il barone... — Il riconoscimento è stato effettuato dai membri della famiglia, cioè da me, che sono l'unico nipote, e dal maggiordomo Anselmo. Cosí i ventiquattro direttori sono rimasti con i loro sospetti, e mentre il funerale serpeggia sul lago, essi si domandano se nella cassa ci sia veramente il barone o un misterioso impostore. E in questo caso, dove sarà il barone vero e proprio? Dopo i banchieri, ecco il barcone con la cassa del morto. Alla sua guida c'è Duilio, detto Caronte per burla, oggi nei panni di un autentico traghettatore di anime. Il barcone alza una bandiera nera con una grande Elle d'oro in mezzo. Dietro il barcone vengono due barchini. Su uno, il nipote Ottavio finge di piangere in un fazzoletto bianco bordato di nero; in realtà, se non avesse paura di perdere l'equilibrio, ballerebbe dalla contentezza: tra qualche ora saprà quanta parte delle sterminate ricchezze dello zio finirà nelle sue tasche assetate. Sull'altro barchino, in piedi, appoggiato all'ombrello dignitosamente arrotolato, c'è Anselmo, che rimugina i suoi sospetti sul nipote Ottavio. Ma chi gli crederebbe, se lo accusasse apertamente? Va bene, si può provare che è stato lui a mettere il sonnifero nella cena degli abitanti delle soffitte. E con questo? Quale medico, quale giudice di tribunale crederanno mai che il barone è morto perché il suo nome non è stato piú pronunciato? Lo guarderebbero storto. Forse gli direbbero: — Lei vuol farci credere alla storia del mago. Guardi che viviamo nel Secolo Ventesimo. Anselmo piange. Anche di lontano, se uno ha per le mani un buon cannocchiale da marina, può vedere i lacrimoni che rotolano giú per le guance e sgocciolano sull'ombrello. Seguono altre barche con autorità di ogni genere, civili e militari, nazionali ed estere. Poi vengono le barche con i vessilli delle associazioni che il barone Lamberto ha beneficato, da quel vero benefattore del popolo che è sempre stato: la Bocciofila di Orta, l'Unione delle Banche Angloprussiane, la Società degli Amici dell'Alta Finanza, la Società Amici del Fisco, la Juventus Polisportiva di Armeno, eccetera. I vessilli formano una bellissima macchia di colore. Poi ci sono centoventisette motoscafi carichi di corone di fiori, giunte dai cinque continenti del pianeta, una perfino dalla Terra del Fuoco. Solo a contare le corone, gli astanti hanno un bel lavoro. C'è chi ne conta un paio di piú, chi un paio di meno. Per non litigare, si accordano sulla cifra totale di trecentoventi. Ma c'è un signore piccolo, nervoso, che si ostina a dire che sono trecentoventuno. C'è sempre qualche originale che non si vuol rimettere al parere della maggioranza. Intanto, tra decine di migliaia di bocche corrono bisbigli e sussurri, domande e risposte, esclamazioni e commenti: — Povero barone Lamberto, con tutti i suoi soldi... — Eh, Lamberto, si, che era ricco. — Lamberto era anche buono. — Chi? Lamberto? Era piú buono del pane. — Ma è quel Lamberto che... — Sí, sí, proprio quel Lamberto lí. — E quale Lamberto voleva che fosse? — Di Lamberto ce n'è uno... Anzi, c'era. — C'era una volta Lamberto. In fondo al corteo naviga una grande chiatta piena di musicanti. È la banda dei tranvieri di Milano, fatta venire apposta in treno, che suona una marcia funebre dopo l'altra. — Il barone Lamberto era un vero amante della musica. — Lamberto amava tutte le cose belle. — Eh, il cuore di Lamberto... — Come dice? Lamberto è morto di mal di cuore? — Dico che aveva un gran cuore, Lamberto. — Povero Lamberto.

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Se un ascoltatore potesse portarsi a ventimila metri di altezza e in quel punto convergessero tutte le parole che vengono pronunciate sul lago e intorno al lago da tutte quelle persone, si può supporre che egli, l'ascoltatore, registrerebbe una serie ininterrotta di: — Lamberto, Lamberto, Lamberto... È vero che la gente parla anche d'altro. Mentre seguono il funerale, gli industriali di Omegna parlano di caffettiere e frullini, i fabbricanti di rubinetti di San Maurizio d'Opaglio si scambiano informazioni sugli sceicchi arabi che hanno ordinato una partita di rubinetti d'oro, i fabbricanti di ombrelli di Gignese sospirano a causa dell'estate troppo asciutta per i loro gusti, i montanari della Valstrona discutono sui prezzi del legname, i pittori astratti di Verbania dicono male dei loro colleghi figurativi e viceversa. Ma c'è sempre uno, almeno uno, che nomina Lamberto, e quando lui è giunto alla «o» del nome, c'è sempre un altro che attacca con la lettera «elle». La cosa non è stata programmata da nessuno, ma di fatto ecco che centomila, centocinquantamila persone, a voce alta o bassa, maschile o femminile, pronunciano a turno quel nome: — Lamberto, Lamberto, Lamberto... A un tratto — ma era inevitabile, c'era da aspettarselo, c'era da scommetterci che succedeva! — dalla cassa del morto si sentono uscire dei colpi energici. Tutti si voltano da quella parte. I preti e i chierichetti smettono di cantare. La banda smette di suonare. La gente trattiene il fiato. I colpi aumentano d'intensità. C'è chi sviene subito per l'emozione, c'è chi tiene duro: a svenire c'è sempre tempo... Finalmente, con uno schianto, il coperchio della cassa si solleva, si solleva un altro po', si solleva ancora un po', si rovescia del tutto e finisce in acqua, mentre il barone Lamberto si alza in piedi, si guarda intorno e grida: — Tutto sbagliato! Caronte, riportami a casa mia! Anselmo, guarda che ti perdi l'ombrello! Ottavio, dove scappi? Ottavio, appena afferrata la nuova situazione, si è tuffato dal suo barchino e nuota vigorosamente verso la riva. Il barone Lamberto continua a gridare allegramente: — Tutto sbagliato! Tutto da rifare! Il funerale è rinviato a data da destinarsi, perché il morto non gioca più! Da Orta e dintorni sale al cielo una grande, lunghissima: — Oh! Poi una grande, lunghissima: — Ah! Poi un applauso tempestoso, grida di evviva: — Viva Lamberto! — Grazie. Difatti sono vivo! Il direttore della banda dei tranvieri non si lascia prendere di contropiede dagli avvenimenti. A un suo segnale i centoventi musicanti del celebre complesso di strumenti a fiato attaccano la marcia trionfale dell'Aida. Anselmo ripesca l'ombrello che per la sorpresa aveva lasciato cadere in acqua, lo apre, lo richiude, non sa piú quel che fa. — Signor barone, — egli grida, — che cosa desidera per pranzo? Le andrebbero dei piccioni alla Cavour o preferisce un'anitra alla mantovana? Il barone non gli dà retta. È troppo occupato a godersi la sua festa. E in questo momento, il famoso ascoltatore che si trovasse a ventimila metri d'altezza, nel punto di convergenza di tutte le voci e parole che si levano dal Cusio, sentirebbe ripetere con maggiore intensità e con piú forza che mai: — Lamberto, Lamberto, Lamberto... — Dunque Lamberto è vivo. — Quello di Lamberto dev'essere stato un caso di morte apparente. — Fortunato Lamberto! — Però diciamo la verità: Lamberto se lo meritava... — Lamberto di qua... — Lamberto di là... Nella generale esultanza, spiccano per contrasto i ventiquattro direttori generali e i loro ventiquattro segretari. Non gridano, non parlano, non dànno il minimo segno di gioia. Essi puntano i loro quarantotto piú quarantotto occhi sul barone Lamberto, ne scrutano la figura, ne studiano la fisionomia, la confrontano con i loro ricordi, con le fotografie in loro possesso che tolgono ogni momento dal portafoglio, si guardano tra di loro, consultandosi silenziosamente. Finalmente ordinano ai loro barcaioli di puntare sull'isola, al seguito di Caronte che sta già attraccando al piccolo pontile. Il barone Lamberto, sbarcando, si volge a salutare un'altra volta, stringendosi le mani sopra il capo, nel gesto dei pugilatori vittoriosi. — Viva Lamberto! — gli risponde la folla. Poi, lentamente, essa si scioglie, perché non c'è piú niente da vedere. Soddisfatta, però, perché è la prima volta nella storia del lago che un funerale si conclude con il lieto fine. C'è ancora qualche tafferuglio a metà strada tra l'isola e Orta, dove la cassa del morto è finita in acqua e gli appassionati se ne disputano le ultime schegge, che intendono conservare per ricordo della bella giornata. Ottavio, a quest'ora, è già lontano. Si ferma solo a Firenze a far benzina. È difficile che si senta ancora parlare di lui, sulle verdi rive del Cusio. Ciao, Ottavio.

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Delfina è la prima a svegliarsi dopo due giorni e tre notti di sonno forzato. Non si rende conto subito di essersi svegliata; anzi, le sembra di aver cominciato un nuovo sogno, nel quale scende dal cielo una banda che suona la marcia trionfale dell'Aida. Non capisce bene se quelli che entrano dal finestrino della soffitta sono raggi del sole o squilli di trombe. Ha gli occhi aperti, ma non vuol dire, in sogno si hanno sempre gli occhi aperti, tranne quando si sogna di averli chiusi. Si stira le braccia e le gambe ed urta con il piede in una sedia. Ahio! Com'è duro questo letto... Delfina si guarda intorno e vede la signora Merlo sdraiata per terra, con la testa sotto il tavolo. Finalmente realizza che anche lei è sdraiata sul pavimento e salta su, come se si sentisse punta. Corre a guardare dal finestrino e vede che sul lago c'è una grande festa popolare. Corre a guardare sul tavolo e trova il biglietto scritto da Anselmo: «Il barone morto... colpa vostra... licenziati in tronco...» — Cosa? Cosa? Signora Merlo! Signora Zanzi! A forza di pizzicotti, ceffoni, bicchieri d'acqua nel collo, urlacci, riesce a svegliare i suoi cinque compagni. — Tocca a me? — borbotta il signor Giacomini. E subito attacca, sbadigliando: — Lamberto, Lamberto, Lamberto... — Alt! — grida Delfina. — Stop! Non c'è piú niente da lambertare: siamo licenziati, guardate qui. Forse siamo anche accusati di lamberticidio. Signor Armando, per favore, non si riaddormenti. — Che ore sono? — farfuglia il signor Armando. — Domandi piuttosto che giorno è. Il signor Armando guarda il suo orologio, che non segna solo le ore, ma anche i mesi e i giorni. — Perbacco! Ma quanto abbiamo dormito! Che cosa è successo, insomma? — Mi sembra, — dice il signor Bergamini, — di sentire la fanfara dei bersaglieri. Belle trombe. — È la marcia dell'Aida, — lo corregge Delfina. — Ho conosciuto una volta a Treviso una signora che si chiamava Aida. Teneva un'osteria e non cucinava male affatto. A proposito, voi non avete fame? Cosa c'è oggi da mangiare? — Signor Bergamini, lei non ha ancora capito la situazione. — E a dire la verità non ci capisco niente nemmeno io. Andiamo in cerca di qualcuno che ce la spieghi. Tutti d'accordo scendono le scale e arrivano nel grande atrio della villa in tempo per vedere il portone che si spalanca e una folla che irrompe con grida festose. Ci sono poliziotti, carabinieri, vigili urbani... — Cielo, — bisbiglia la signora Merlo, — non saranno mica qui per arrestarci? — Io, — dice il signor Giacomini, — non apro bocca se non c'è il mio avvocato. — Io, — proclama la signora Zanzi, — non so niente. Dormivo, io. — E noi, no? — Non lo so. Quando dormo, io non mi guardo in giro per vedere cosa fanno gli altri. Ma ecco il signor Anselmo, tutto allegro, che corre incontro a Delfina e l'abbraccia, urtandola con l'ombrello. — Cara, cara signorina Delfina, questo è il piú bel giorno della mia vita! — E il licenziamento in tronco? — Come non detto! Siete tutti riassunti al lavoro. Anzi, non mi meraviglierei neanche tanto cosí se il signor barone, per festeggiare l'avvenimento, vi aumentasse lo stipendio. — Un momento... Ma il signor barone non è morto? — Il signor barone è piú vivo di prima. — E quel biglietto? — Come non scritto. — Allora torniamo di sopra, — propone il signor Bergamini. — Il pranzo è pronto? — Calma, — dice Delfina, — voglio vederci chiaro. — Se è il signor barone che vuole vedere, eccolo, - dice Anselmo, tutto contento. Il barone Lamberto sta entrando fra gli applausi generali. Sorride, fresco come un mattino di primavera. I sei lo guardano con dodici occhi spalancati. Quello è il barone? E dov'è finito il vecchio signore incartapecorito, tanto somigliante a una tartaruga, che hanno conosciuto alcuni mesi or sono, al momento della loro assunzione? Se lo ricordano bene, il vegliardo tremolante, che parlava con un filino di voce, sempre sul punto di spezzarsi... Che diceva, appoggiandosi a due bastoni dal pomo dorato, puntando su di loro gli occhietti nascosti dalla cascata delle palpebre: — Mi raccomando, il nome dev'essere pronunciato con chiarezza... Non gridato... non sussurrato... non cantato... Ad ogni sillaba il suo giusto peso... Facciamo una prova, prima tutti insieme, poi uno alla volta... Pronti? Via... Lamberto, Lamberto, Lamberto... — Com'è ringiovanito, — osserva la signora Zanzi. — Pare proprio un altro, — aggiunge il signor Armando. Delfina è sempre piú scura in volto. Non sorride nemmeno quando il signor barone si china a baciarle la mano, dicendo: — Ma sa che lei è sempre più carina? — Mi pare, — dice Delfina con serietà, — che a questo punto lei ci debba delle spiegazioni, non dei complimenti. Siamo stati perfino accusati della sua morte. — Una morte provvisoria, — sorride il barone, — niente di serio. — Meglio per lei, — dice Delfina, — ma sarebbe ora che lei ci dicesse tutto quello che non ci ha detto l'altra volta. — Vuol sapere troppo, — sospira il barone. — E se vi raddoppiassi la paga? La signora Merlo apre già la bocca per ringraziare, commossa, ma Delfina è piú svelta di lei: — Vogliamo sapere il perché del nostro lavoro. A che serve. Che cosa produce. Che cosa ha a che fare con la sua vita e con la sua morte. Il barone sospira di nuovo. Il signor Anselmo, scandalizzato dal comportamento di Delfina, vorrebbe intromettersi, ma il barone glielo impedisce. — Buono, Anselmo, — egli dice. — La signorina Delfina ha ragione. Non è solo carina, è anche intelligente. Vorrei sapere se gli altri sono d'accordo con lei... Gli altri abbassano gli occhi, sospirando. Non sanno bene cosa gli conviene rispondere. Ma non possono mettersi contro Delfina. — Va bene, — cede il barone, — vi dirò tutto. Ma per il momento non può dire niente, perché stanno arrivando i ventiquattro direttori generali delle sue banche, seguiti dai ventiquattro segretari che portano le cartelle. Marciano per tre, con passo militare, decisi a vedere il barone in faccia da vicino. La folla si divide per farli passare. Essi circondano il barone con aria minacciosa. Il direttore generale della Banca Lamberto di Singapore, che è il piú anziano del gruppo e parla per tutti, dice: — Signore, potremmo restare soli? Il barone, sorpreso, li guarda uno per uno. Non gli sembrano tanto contenti della sua rinascita. Come mai? — Anselmo, — egli dice, — accompagna la signorina Delfina e i suoi amici in soffitta. Li raggiungerò tra un momento. A tutti gli altri signori e signore, i miei piú sentiti ringraziamenti e un cordiale arrivederci. Come vedono, ho una riunione d'affari... Ecco, siamo soli. Cioè, siamo soltanto quarantanove. Chi chiede la parola? — Io, — dice il direttore generale di Singapore. — Prego. — Sarò breve. Anzi, sarò interrogativo. Come mai lei ha due orecchie? — Mi sembra di averne il diritto. Anche i gatti ne hanno due. — A chi apparteneva, allora, l'orecchio che i banditi ci hanno inviato? — A me. — In questo caso, lei aveva tre orecchie, non due. — Le dirò... — Ci mostri le mani, per favore, — lo interrompe il direttore generale. Il barone esegue, dando lui stesso un'occhiata. Toh! Il dito amputato è ricresciuto completamente, e figura al suo posto come niente fosse. — Come mai ha dieci dita? — incalza l'inquisitore. — E lei, quante ne ha? E lor signori, quante ne hanno? E quante ne ha il Papa di Roma? — Lasci in pace Sua Santità. Lei è un impostore! — Riconosco, — ammette sorridendo il barone Lamberto, che i fatti sono alquanto strani ed insoliti. — E fa bene, — lo interrompe nuovamente il direttore generale di Singapore. — Quanto a noi, non riconosciamo in lei il barone Lamberto, proprietario e presidente delle banche che qui rappresentiamo. — Chi sono io, allora? — Sono fatti suoi, egregio signore. La sua carta d'identità non c'interessa. Della scomparsa del barone Lamberto risponderà alla polizia. — Ben detto, — ripetono in coro gli altri ventitre direttori generali. I ventiquattro segretari si affrettano a prendere nota anche di questa importante battuta. Il barone Lamberto sorride. Non per la battuta, né per la minaccia di far intervenire la polizia. Gli è venuta in mente un'altra cosa. È questa che lo fa sorridere. — Signori, — dice, alzandosi di scatto e dirigendosi verso le scale, — abbiano la bontà di attendermi qualche minuto. Mi sono ricordato di una cosa d'importanza decisiva. Nel frattempo manderò il mio maggiordomo a servire dei rinfreschi. — Ma cosa le salta in mente? — Dove va? Venga qua! — Fermate l'impostore! Ventiquattro piú ventiquattro scalmanati inseguono vociando il barone Lamberto, che sale i gradini a tre per volta, spalanca la porta delle soffitte, piomba sul gruppetto in attesa e fa: — Signorina Delfina, mi vuole sposare? — Come ha detto, scusi? — Le ho chiesto se mi vuole sposare. Non sarebbe una cosa magnifica? Mi è venuta in mente proprio adesso, mentre discutevo con questi signori. Da quando l'ho conosciuta il mio cuore batte solo per lei, i miei occhi vedono solo i suoi occhi verdi e i suoi capelli rossi. Sento che siamo fatti l'uno per l'altra e che vivremo per sempre felici e contenti. La signora Zanzi e la signora Merlo si abbracciano per la gioia, confidandosi che loro l'avevano sempre pensato. Il signor Armando ci resta di gesso, perché un pensierino su Delfina l'aveva fatto anche lui. Il signor Bergamini e il signor Giacomini battono le mani e si permettono di scherzarci sopra: — A quando i confetti? — Viva la signora baronessa! — Un momento, — dice Delfina, senza scomporsi, non ho ancora detto la mia opinione. — Dica di sí, Delfina, — insiste il barone, — e questo sarà il piú bel giorno della mia vita. — Invece dico di no. Sorpresa, esclamazioni, commenti vari: «Ma che maniera di buttar via la fortuna!», «Ecco, non le basta un barone, forse vuole un principe azzurro», «È perfino maleducazione, rispondere di no a un signore cosí perbene!» — È proprio un «no-no», o è soltanto un «no-forse», oppure un «no-vedremo», o magari un «no-aspettiamo un po' di tempo»? — incalza il barone. — Mi lasci qualche speranza. Mi dica almeno «ni». — Ma neanche per sogno. Per il momento il matrimonio è l'ultimo dei miei pensieri. — E il primo qual è? — domanda il signor Armando. — Il primo, — dice Delfina, — è di capirci qualcosa in tutto questo pasticcio. Il barone ci aveva promesso una spiegazione. — Piú che giusto, — sospira il barone (quante volte gli tocca sospirare, oggi). — Vi dirò tutto. — Era ora, — commentano i ventiquattro direttori di banca, che si sono infilati anche loro nella soffitta (i ventiquattro segretari sono rimasti fuori sulle scale, per assoluta mancanza di spazio). — L'anno scorso, in ottobre, mi trovavo in Egitto... Il barone Lamberto rivela il suo segreto. Racconta ogni cosa per filo e per segno, mentre Anselmo fa di sí, di sí con la testa. Anselmo, anzi, interviene una volta per ripetere le parole precise del santone arabo incontrato per caso all'ombra della Sfinge: «Ricordati che l'uomo il cui nome è pronunciato resta in vita». Tutto ora diventa chiaro alla mente dei ventiquattro direttori di banca. Essi passano dal sospetto alla commozione. Quando il barone arriva al punto in cui i banditi gli tagliano prima l'orecchio poi il dito, essi non resistono: cadono in ginocchio, gli baciano le mani, specialmente il dito nuovo. Qualcuno gli bacia anche l'orecchio. Quando il barone arriva al momento in cui si sveglia nella cassa da morto, la signora Merlo si fa il segno della croce e la signora Zanzi, appassionata del gioco del lotto, mormora tra sé: «Morto che parla fa quarantasette». Anselmo piange e lascia cadere due o tre volte l'ombrello, che i direttori di banca si chinano a raccogliere per mettersi in vista. — Ecco, — dice il barone, — questo è tutto. E ora, che ne direste di fare un brindisi alla salute dei presenti? — A proposito di salute, — dice Delfina, — se ho capito bene, siamo noi che le abbiamo restituito la sua. — Certo. — E senza nemmeno essere dottori, — prosegue Delfina. — Siamo proprio meglio dei maghi. Abbiamo mantenuto in vita questo gran signore con la nostra voce. Con il nostro lavoro. Di cui non comprendevamo nemmeno il significato. Per settimane, per mesi, quassú a ripetere il suo nome come pappagalli, senza sapere perché. A proposito, un disco o un nastro registrato, non avrebbero ottenuto lo stesso effetto? — No, signorina, — spiega Anselmo. — Avevamo fatto qualche esperimento, ma non funzionava. — Ci voleva la voce umana, — dice Delfina, — ci volevano i nostri polmoni. Per mesi abbiamo tenuto nelle nostre mani la vita del barone Lamberto senza saperlo, senza nemmeno sospettarlo... — Già, — esclama il signor Armando, sorpreso, avremmo magari potuto chiedere un aumento di stipendio. — Di più, — scopre il signor Giacomini, stupito, — avremmo potuto chiedere anche un miliardo. Lei, signor barone, ce lo avrebbe dato un miliardo. Lei, signor barone, ce lo avrebbe dato un miliardo, se glielo avessimo chiesto? — Si capisce, — ammette il barone, — anche due. — Ma allora, — balbetta il signor Bergamini, sbalordito, — allora, in un certo senso, siamo stati... truffati. — Macché truffati! — esplode il direttore della banca di Singapore. — Siete stati pagati benissimo. Ma senti che roba! — La manodopera, — commenta il direttore della banca di Zurigo, — ha sempre delle pretese scandalose. — Adesso però, — dice Delfina, — non serviamo piú. — Per carità! — si affretta a dire il barone. — Avrò bisogno di voi come prima, a qualunque prezzo. — No, signor barone! — grida dal fondo delle scale uno dei segretari. — Questo no! — Come? Chi è che si permette? Resti al suo posto, lei! Faccia silenzio! Sembra che i ventiquattro direttori generali vogliano saltare tutti insieme sul povero piccolo segretario, per schiacciarlo con il loro peso. — Piano, piano, — fa il barone incuriosito, — lo lascino dire... Venga su, lei, parli apertamente. — Signor barone, — dice il segretario, emozionatissimo, — lei non ha piú bisogno di nessuno. Sono ore che nessuno pronuncia piú il suo nome, eppure lei, a quanto pare, continua a vivere, non accusa disturbo veruno e non accenna minimamente ad invecchiare. — È vero! — esclama Anselmo. — È proprio vero, signor barone! — È vero, è vero, — gridano, al colmo dell'entusiasmo, i ventiquattro direttori di banca. Delfina e i suoi amici si guardano. Il barone guarda Delfina. Sembra che la storia stia arrivando a una svolta decisiva. — Anselmo, — dice il barone, — controlliamo. Anselmo cava di tasca il suo libriccino e comincia il controllo delle ventiquattro malattie, del sistema scheletrico, del sistema muscolare, del sistema nervoso, dell'apparato circolatorio, eccetera eccetera. È tutto a posto. Non c'è una sola cellula che faccia i capricci. La circolazione dei reticolociti è in aumento. — Interessante, — mormora il barone, — interessante. Mi sento come nei miei giorni migliori. Come mai? — Signor barone, — insiste il piccolo segretario, deciso a far carriera, — il perché è chiarissimo. Lei è rinato, signor barone! La sua vita di prima, quella che era appesa al filo della voce di questi... di questi sei... di questi signori, è finita. Là fuori, sul lago, è cominciata per lei una seconda vita. Lei non ha piú bisogno di nessuno! Di nessuno! — Interessante, — ripete il barone, — dev'essere proprio cosí. Mi sento veramente rinato. Quasi quasi prenderei un altro nome, per dimenticare quello di prima. Che ne direste di Osvaldo? — Mi permetto di consigliare Renato, — osa ancora il piccolo segretario. — Perché? — Renato vuol dire, appunto, nato due volte. E poi... e poi... col suo permesso, anch'io mi chiamo Renato. — Bravo, — dice il barone. — Ragazzo intelligente. Anselmo, segnati cognome e indirizzo. Merita una promozione. Dunque, mi pare che a questo punto possiamo sciogliere l'assemblea. — E noi? — domanda la signora Merlo. — Siamo licenziati? — domanda il signor Armando. — Avremo almeno la liquidazione? — domanda il signor Bergamini. I ventiquattro direttori di banca protestano in coro: — Anche la liquidazione! Ma dove andremo a finire? Il barone Lamberto-Renato, invece, sorride. Strano sorriso, però. Sembra che stia pensando di fare uno scherzo a qualcuno. Uno scherzo maligno... — Ma sí, — dice dopo aver sorriso per un centinaio di secondi, — la liquidazione ci vuole. Anselmo, prepara per ciascuno di questi tre egregi signori e di queste gentili signore... un sacchetto di camomilla. Scegli l'annata migliore. Consiglierei... Tibet del Settantacinque. — Bravo! — approvano i direttori di banca e i loro segretari. — Bravissimo! — grida il piccolo segretario Renato, per battere il ferro finché è caldo. Delfina e i suoi amici restano silenziosi e meditabondi. Anche perplessi. Anche indignati. Cinque paia d'occhi fissano Delfina. Forse lei ha una buona risposta pronta. Si capisce che la sta pensando da come corruga le sopracciglia, da come si batte col dito medio sul ginocchio. Anche il barone Lamberto guarda Delfina con curiosità. Lei per un pezzo resta zitta fissando un punto nell'aria, non si capisce esattamente dove, forse una trave del soffitto, forse un vetro della finestra, dietro il quale passa maestosamente una nuvola bianca. — D'accordo, — essa dice finalmente, tra la sorpresa generale, — accettiamo il dono generoso del signor barone. — Le sue camomille sono piú profumate delle rose di Bulgaria. Ma noi non vogliamo essere da meno di lui, vero? Ho pensato che anche noi possiamo regalargli qualche cosa... — Piú che giusto, — approva il direttore della banca di Singapore. — Fate una colletta con i vostri risparmi e regalate al barone Lamberto un oggetto ricordo d'oro o d'argento. — Un servizio da caffè, — propone un altro direttore. — Un orologio a cucú. — Un portachiavi a forma di isola di San Giulio. — Zitti, voi, — ordina il barone. — Ascoltiamo Delfina. — Grazie, signor barone, — dice Delfina, con un piccolo inchino. — Propongo dunque ai miei cinque compagni di offrire gratis al barone, per l'ultima volta, un saggio della nostra bravura. In fin dei conti egli non ci ha mai visti mentre pronunciavamo il suo nome. Siete pronti? E senza neanche guardare i suoi imbarazzati compagni, Delfina attacca: — Lamberto, Lamberto, Lamberto... Poi anche il signor Armando si fa coraggio e tira fuori la voce: — Lamberto, Lamberto, Lamberto... Uno alla volta gli altri si uniscono al coro: — Lamberto... Lamberto... Lamberto... «Belle voci, ottima pronuncia», pensa il maggiordomo Anselmo, soddisfatto: è stato lui, a suo tempo, a scegliere i sei dicitori tra centinaia di candidati. Il barone ascolta con un sorrisetto fermo come una vespa all'angolo della bocca. Poi il sorrisetto vola via. Al suo posto un'espressione di stupore gli si disegna su tutta la faccia. Anche i ventiquattro direttori, poco fa semplicemente curiosi e interessati, appaiono stupefatti. Delfina affretta il ritmo, battendo il tempo con la mano sul ginocchio e incitando con le occhiate e con i gesti i suoi compagni a far sempre piú in fretta. — Lamberto Lamberto Lamberto... Con l'allenamento che hanno, passano da sessanta colpi al minuto a ottanta, a cento, a centoventi... A duecento colpi al minuto sembrano sei diavoli scatenati che stiano litigando a colpi di scioglilingua. — Lambertolambertolambertolam... Sotto gli occhi dei presenti, sempre piú meravigliati, il barone Lamberto-Renato comincia a ringiovanire, ringiovanisce, continua a ringiovanire. Ora gli si darebbero venticinque anni. E un giovanotto che potrebbe partecipare ai Giochi Universitari, un attor giovane pronto a salire sul palcoscenico per interpretare parti da primo amoroso. Passa dall'età della laurea a quella della maturità classica. E non si ferma, perché Delfina e compagni non si fermano, non cessano di sparare il suo nome a velocità di mitragliatrice: — Lambertolambertolambertolamberto... Quando il barone è arrivato ad avere diciassette anni ed è già diventato cosí snello che i vestiti gli stanno larghi addosso, comincia anche a diventare piú piccolo, attraversando all'indietro l'età della crescita. — Basta! Basta! — grida il maggiordomo Anselmo, atterrito. I ventiquattro direttori hanno la bocca spalancata, ma non trovano parole da far uscire. Lamberto sembra un ragazzo nei panni del suo papà: i pantaloni sono molto piú lunghi delle gambe, i segni della barba sono spariti dalla sua faccia. Ora avrà quindici anni... — Lambertolambertolambertolamber... — Basta, per carità! Lamberto ha un'espressione sorpresa, non capisce bene quello che gli sta capitando... Si tira indietro le maniche della giacca che gli coprono le mani... Si tocca la faccia... Adesso avrà, sí e no, tredici anni... E ora Delfina smette di dire il suo nome e fa segno agli altri di smettere. Si fa un gran silenzio, si vede Anselmo che sparisce di corsa da qualche parte, ma torna quasi subito, portando un bel vestitino con i calzoni corti: — Signorino, si vuol cambiare d'abito? Questo è quello che le fu regalato nel millenovecento..., anzi nel milleottocentonovantasei... È un po' fuori moda, ma tanto carino. Venga, signorino, venga... Mentre Anselmo accompagna Lamberto in un'altra stanza a vestirsi da giovinetto, si sentono dei singhiozzi... È il segretario di nome Renato che si dispera. — Credevo, — egli dice a Delfina tra le lacrime, — che voi non aveste piú alcun potere sulla vita del signor barone. Ahimè, la mia carriera è finita! — Su, su, — lo consola Delfina, — non se la prenda, lei è tanto giovane, domani è un altro giorno, eccetera eccetera. — Mi dica almeno in che cosa ho sbagliato. — In questo, — gli spiega con pazienza Delfina, — che lei ha formulato una teoria ma non si è preoccupato di verificarla. — Ma è vero o no che il barone stava bene senza che piú nessuno pronunciasse il suo nome? — Forse durava ancora l'effetto del funerale, con tutta quella gente a nominarlo gratis. Ad ogni modo io ho voluto fare una prova. Intanto che c'ero, ho voluto anche vedere che cosa sarebbe successo introducendo nell'esperimento la variabile della velocità. È chiaro e distinto? — Altroché, — sospira Renato. — Lei ha proprio una mentalità sperimentale. Vorrebbe sposarmi? — No, naturalmente. — Perché? — Perché no. — Ah, capisco... Ma ecco che Lamberto ricompare, tenuto per mano da Anselmo, con l'aria di un ragazzetto sperduto e confuso. Si guarda in giro, senza saper che fare. Guarda i presenti come se non li avesse mai visti. Vede Delfina e un timido sorriso compare sul suo faccino. — Delfina, — dice, — vuole diventare la mia mamma? — Ci mancherebbe, — risponde Delfina. — Prima mi vuole per moglie, ora mi vuole per madre. Deve sempre attaccarsi a me per stare in piedi? Lamberto sembra sul punto di piangere. Proprio in quel momento il direttore generale della banca di Singapore, che si è rapidamente consultato con i suoi colleghi, prende la parola per dire: — Signor barone... Anzi... hm... hm... signorino... la situazione ci sembra ora cambiata in modo radicale. Lei non ha piú l'età per presiedere ventiquattro banche in Italia, Svizzera, Hong Kong, Singapore e Altrove... Bisognerà nominarle un tutore, perché è minorenne. A questo provvederemo nella prossima assemblea dei direttori generali. Nel frattempo... Ci è venuta un'idea. Con il suo aspetto fresco e attraente, lei sembra fatto apposta per commuovere il pubblico. Gireremo un film pubblicitario per la Tv, nel quale si vedrà una cassaforte delle Banche Lamberto e Vediamo un po'... Lei si rinchiuderà nella cassaforte sorridendo e pronunciando queste parole: «Qui dentro sto al sicuro come nella mia culla». Le va l'idea? Lamberto guarda Anselmo, guarda Delfina, in cerca di consiglio. Ma Delfina non apre bocca. Gli tocca proprio fare da solo. Stringe i denti e i pugni. Ci pensa su un bel po', finalmente si alza e con voce ferma risponde: — Manco per niente! Il mio tutore sarà Anselmo, che è abituato a obbedirmi, non uno di voialtri, vecchi gufi di banca! E quanto a me... voglio studiare... Voglio fare... La sua faccia s'illumina. Finalmente Lamberto sorride apertamente, allegramente. Si mette perfino a saltellare intorno per la stanza. — Voglio diventare un artista del circo equestre. È sempre stato il mio sogno e questa volta ho tutta una vita per realizzarlo. — Bravo! — grida la signora Zanzi, sempre piú commossa. — La cosa è assurda, impossibile e perfino indecente, — sentenzia il direttore della banca di Singapore. — Lei è indecente, assurdo e perfino un po' antipatico, — gli risponde Lamberto. — Bravo! — grida la signora Merlo. I direttori di banca parlano tutti insieme. Delfina e gli altri parlano tutti insieme. Anche Anselmo parla e parla, mentre Lamberto continua a ballare, saltare e mostrare la lingua al signore di Singapore. — Farò il trapezista, l'acrobata, il giocoliere, ballerò sulla corda, domerò i leoni e gli elefanti, farò il pagliaccio, il suonatore di tromba e di tamburo, ammaestrerò foche, cani, pulci e dromedari... Farà... farà... Che cosa farà? Questo non si può ancora sapere. Ma Delfina adesso è molto contenta del regalo che ha pensato per lui. Proprio in quel momento il signor Giacomini, che per non restare con le mani in mano aveva lanciato l'amo dalla finestra, tira su un pesce di otto etti. — Chi ha detto, — grida il signor Giacomini, eccitatissimo, — che questo era un lago morto? Anselmo, prepari la padella per il fritto. E chi parla male del Cusio l'avrà da fare con me.

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Un originale che, invece di mandare le sue acque a sud, come fanno disciplinatamente il Lago Maggiore, il lago di Como e il lago di Garda, le manda a nord, come se le volesse regalare al Monte Rosa, anziché al mare Adriatico. Se vi mettete a Omegna, in piazza del Municipio, vedrete uscire dal Cusio un fiume che punta diritto verso le Alpi. Non è un gran fiume, ma nemmeno un ruscelletto. Si chiama Nigoglia e vuole l'articolo al femminile: la Nigoglia. Gli abitanti di Omegna sono molto orgogliosi di questo fiume ribelle e vi hanno pescato un motto che dice, in dialetto:

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Si capisce che poi, alla fin dei conti, il mare riceve le sue spettanze: difatti le acque della Nigoglia, dopo una breve corsa a nord, si gettano nello Strona, lo Strona le porta al Toce che le versa nel Lago Maggiore e di qui, via Ticino e Po, esse finiscono nell'Adriatico. L'ordine è ristabilito. Ma il lago d'Orta è contento lo stesso di quello che ha fatto. È sufficiente come spiegazione di una favola che obbedisce solo a se stessa? Speriamo di sí. Resta poi da aggiungere che i ventiquattro direttori generali delle Banche Lamberto, rientrati nelle loro sedi, si affrettarono ad assumere persone di ambo i sessi e a pagarle perché ripetessero a turno, giorno e notte, i loro riveriti nomi. Speravano cosí di guarire dalle loro malattie e di far camminare il tempo all'indietro. Invano. Chi aveva i reumatismi, se li dovette tenere. A chi era calvo, non spuntò alcun capello in capo, né biondo né bruno. Chi aveva compiuto i sessantacinque anni, non recuperò un solo minuto. Certe cose succedono una volta sola. A dire la verità, poi, certe cose possono succedere solo nelle favole. Non tutti saranno soddisfatti della conclusione della storia. Tra l'altro non si sa bene che fine farà Lamberto e cosa diventerà da grande. A questo, però, c'è rimedio. Ogni lettore scontento del finale, può cambiarlo a suo piacere, aggiungendo al libro un capitolo o due. O anche tredici. Mai lasciarsi spaventare dalla parola Fine.

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In mezzo al lago d'Orta, ma non proprio a metà, c'è l'isola di San Giulio. Sull'isola di San Giulio c'è la villa del barone Lamberto, un signore molto vecchio (ha novantatre anni), assai ricco (possiede ventiquattro banche in Italia, Svizzera, Hong Kong, Singapore, eccetera), sempre malato. Le sue malattie sono ventiquattro. Solo il maggiordomo Anselmo se le ricorda tutte. Le tiene elencate in ordine alfabetico in un piccolo taccuino: asma, arteriosclerosi, artrite, artrosi, bronchite cronica, e così avanti fino alla zeta di zoppìa. Accanto a ogni malattia Anselmo ha annotato le medicine da prendere, a che ora del giorno e della notte, i cibi permessi e quelli vietati, le raccomandazioni dei dottori: «Stare attenti al sale, che fa aumentare la pressione», «Limitare lo zucchero, che non va d'accordo con il diabete», «Evitare le emozioni, le scale...

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Essa sta molto attenta a non calcare sulla seconda sillaba, perché non si senta quel «bèèè bèèè bèèè» che le è stato rimproverato. Anche lei come la signora Merlo, per non annoiarsi, lavora a maglia e ci si trova bene. Non deve nemmeno contare i punti, le sue mani contano per lei. In un'altra stanza delle soffitte il giovane Armando ascolta le riflessioni della signorina Delfina. — Questo lavoro, — dice Delfina, — non mi convince. — Io lo trovo facilissimo, — ribatte Armando. — Pensi se avessimo dovuto ripetere la parola «pterosauro». — E cosa vuol dire? Rettile volante della preistoria. C'era la settimana scorsa nelle parole incrociate. — Cosa c'entra? Questo lavoro sarebbe misteriosissimo anche se dovessimo ripetere giorno e notte la parola «polenta», o «pancotto». — Io non ci vedo niente di misterioso: il barone paga, noi facciamo quello che ci ordina di fare. Punto e basta. Lui ci mette il capitale, noi il lavoro. Attacca l'asino dove vuole il padrone. — E il prodotto? Io ho lavorato dieci anni in una fabbrica di calze. Il padrone pagava (male, a dire la verità), io lavoravo e alla fine saltavano fuori le calze. Noi che cosa produciamo? — Signorina, non complichi troppo le cose. Faccia conto che la paghino per fare pubblicità al sapone Pik Puk. Lei non deve produrre il sapone, deve solo dire: Pik Puk, Pik Puk, Pik Puk. E la gente corre a comprare il sapone perché quando si lava la faccia le sembra di sentire la sua bella vocina e di vedere il suo bel nasino. — Lasciamo da parte i complimenti. Noi non stiamo facendo la pubblicità al barone Lamberto, che non è in vendita. Lavoriamo di nascosto, come se si trattasse di una cosa proibita. — Sarà un segreto militare. — Ma via... — Un segreto atomico. — Ma andiamo... — Signorina, ho calcolato che ogni volta che pronuncio la parola Lamberto guadagno cinquecento lire. Le sembrano poche? Il trattamento è ottimo. La cucina, di prima classe. Oggi, per esempio, il signor Anselmo ci ha servito risotto coi tartufi e anatra alla pechinese. Io ho lavorato dodici anni in una fabbrica di frigoriferi, ma sempre a pane e mortadella. Qui avevo cominciato a ingrassare, ma quando ho chiesto, a nome di tutti, che una delle soffitte fosse attrezzata a palestra, siamo stati accontentati nel giro di ventiquattr'ore. E che attrezzi: roba da miliardari. E anche a lei piace fare ginnastica. Di che si lamenta? — Non mi lamento, ma delle cose mi piace sapere il perché. — E quando l'ha saputo, che ci fa? Il caffè? Ora è il turno della signora Merlo. In un'altra stanza della soffitta riposano beatamente il signor Bergamini e il signor Giacomini, il quale, come al solito, sta pescando. Ha gettato l'esca dalla finestra e aspetta. L'attività principale del vero pescatore è aspettare. A prendere i pesci sono buoni tutti. Questa, almeno, è la sua opinione. — È come alle Olimpiadi, — spiega. — L'importante è partecipare, non vincere. Alle sue spalle anche il signor Bergamini aspetta. Un caso quasi miracoloso ha voluto che si ritrovassero insieme un vero pescatore e un autentico osservatore di pescatori, quello che non si spazientisce se il pescatore non pesca nulla, ma tiene le mani in tasca, fuma la pipa, osserva e lascia passare il tempo senza fare commenti. Quando parlano, il pescatore e l'osservatore di pescatori rievocano pesche passate, avvenute altrove, o si confidano opinioni su svariati argomenti. — Ha notato, — dice il signor Giacomini, — che il signor Anselmo non abbandona mai il suo ombrello? — Secondo me, — risponde il signor Bergamini, — lo porta anche quando fa la doccia. Infatti il signor Anselmo tiene sempre un ombrello di seta nera appeso al braccio per il manico di legno. — Brava persona, però. — Niente da dire. Quando è il turno del signor Giacomini, egli lascia la canna fissata alla finestra e prega il signor Bergamini di dare un'occhiata al galleggiante. Il signor Bergamini è un vero osservatore di pescatori: continua ad osservare anche quando il pescatore si allontana. Intanto presta orecchio alle chiacchiere delle signore Zanzi e Merlo, che sferruzzano in soggiorno. La signora Merlo è preoccupata. Essa ha un cugino che si chiama Umberto e un altro che si chiama Alberto. Quando tocca a lei il turno, quei due nomi le arrivano continuamente fin sulla punta della lingua, cento volte è già stata lí lí per fare «Um» o «Al», invece di «Lam». Dopo va via liscia, perché la seconda e la terza sillaba sono uguali nei tre nomi: Umberto, Alberto, Lamberto. Ma la prima sillaba è sempre il risultato di una lotta che si svolge, tra cervello e lingua, a velocità elettronica. Ogni volta essa deve scegliere la sillaba giusta tra «Lam», «Al» e «Um». — Finora, per fortuna, — dice, — non mi sono mai sbagliata. — Vedrà che ci prende la mano. Ma non creda, anch'io ho le mie difficoltà. Mi vengono in mente ogni sorta di parole che cominciano per «lam», come lampo, lampadina, lampione, lampreda. La prima sillaba va d'incanto. Le tentazioni vengono con la seconda. Capirà, è una questione di coscienza: sono pagata per dire Lamberto; se dicessi lampeggiatore mi sembrerebbe di rubare il salario. Ogni tanto, giú in cucina, il maggiordomo Anselmo pigia il bottone giusto e ascolta le conversazioni che si svolgono in soffitta. Gli fanno compagnia, mentre prepara il timballo di riso o le bracioline alla panna. Non lo fa per spiare, ma per imparare tante cose. È un vero studioso, lui. Il signor barone, invece, mai ascolterebbe una conversazione privata. La sua povera mamma, quand'era piccolo, gli ha insegnato che non si deve origliare. Lui ascolta solo per controllare che il lavoro venga eseguito come si deve: — Lamberto, Lamberto, Lamberto... Quelle voci gli dànno una sensazione di sicurezza. È come se ci fosse sempre una sentinella a vegliare su di lui per tenere lontani i nemici. Lo sa bene che quelli lassú ripetono il suo nome solo perché sono pagati per farlo. Ma lo fanno con tanto scrupolo e qualche volta perfino con tanta grazia che il barone non può fare a meno di pensare: «Senti come mi vogliono bene».

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Vieni a vedere. Anselmo accorre tanto in fretta che dimentica l'ombrello e a metà strada deve tornare indietro a prenderlo. — Guarda: un capello. Erano quarantacinque anni che non si vedeva niente del genere sulla mia testa. — Un momentino, signor barone. Anselmo va a cercare la grande lente con cui il barone osserva i francobolli della sua collezione. Nella lente il capello sembra un albero dorato dal sole. Ma c'è di piú... — Se il signor barone permette, — dice Anselmo, — non si tratta di un semplice capello, bensí di un capello naturalmente ondulato, forse ricciuto. — Quand'ero piccolo, — sussurra il barone, commosso, — la povera mamma mi chiamava «il mio ricciolino». Trovandosi con la lente in mano, Anselmo ne approfitta per esplorare attentamente tutta la superficie del cranio padronale, in silenzio. Sotto la pelle la cupola delle ossa rivela la sua ingegnosa architettura, primo modello naturale del Pantheon, del Cupolone di Michelangelo e del casco da motociclista.

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La pelle diventa liscia a vista d'occhio. Dai suoi strati piú profondi salgono cellule giovani, piene di vita e di speranza, per prendere il posto di quelle vecchie che tramontano malinconicamente. — Anselmo, — dice il barone, — non mi diventare poeta. A me la mia faccia sembra ancora quella di ieri. Due capelli non fanno primavera. La mattina seguente, però, deve ammettere anche lui che le rughe si stanno cancellando. La pelle, al tocco, non dà più quella sgradevole impressione di carta vetrata. I capelli, in vari punti del cranio, formano ciuffetti sbarazzini. Gli occhi, fino a qualche settimana fa seminascosti dalla pesante cortina delle palpebre, si affacciano alla luce con rinnovata vivacità. Si vede l'iride azzurra che circonda il foro nero della pupilla come il lago d'Orta circonda l'isola di San Giulio. — Direi, — riferisce il barone, analizzando le proprie sensazioni, — che i coni e i bastoncelli della mia retina si siano svegliati da un lungo sonno. Il nervo ottico era un tubo intasato: adesso i messaggi vanno e vengono dal cervello a velocità supersonica. Mi sembra presto per cantare vittoria, ma un fatto è certo: da molti anni nessun medico e nessuna medicina riuscivano a darmi un tale senso di benessere. Anselmo, io comincio a star meglio. — Controlliamo, — propone il maggiordomo, cavando di tasca il suo taccuino. — Avanti. — Numero uno, asma. — L'ultimo accesso è stato diversi mesi fa. Eravamo appena tornati dall'Egitto. — Numero due, arteriosclerosi. — Abbiamo mandato il sangue a Milano per le analisi la settimana scorsa... — Ha ragione il signor barone. Sono arrivate con la posta di stamattina: tutto in regola. Il signor barone ha oggi le arterie di un uomo di quarant'anni. Numero tre: artrosi deformante. — Guarda tu stesso le mie mani, Anselmo. Le loro cinquanta e passa ossa non sono mai state piú agili. Non parliamo degli otto ossicini del polso: smaniano addirittura di essere messi alla prova. Il signor barone si alza di scatto e va a sedersi al pianoforte. Due o tre corse su e giú per la tastiera ed ecco che in tutta la villa si diffondono i robusti accordi delle Variazioni di Beethoven su un valzer di Diabelli. Da quarantadue anni il barone Lamberto non toccava un tasto. Ora s'interrompe, alza il coperchio della coda, schiaccia un bottone. — Lamberto, Lamberto, Lamberto... Il barone strizza l'occhio al maggiordomo. Nelle soffitte il lavoro procede come sempre. Il barone si rialza, fa due o tre passi e scoppia a ridere: — Guarda, — dice, — ho dimenticato di reggermi ai miei due fedeli bastoni dal pomo d'oro, e non casco. Ossa e muscoli sono tornati a fare il loro dovere. Avrei quasi voglia di una bella nuotata nel lago. — Non esageriamo, signor barone. Cancelliamo il numero 24 , zoppia, e riprendiamo i controlli. — Dài, ricomincia pure. — Numero quattro, bronchite cronica. — Ho tossito l'ultima volta per Carnevale, perché mi era andato un boccone di traverso. — Numero cinque, la cistifellea. — L'infiammazione dev'essere andata in vacanza, caro Anselmo, perché da quella parte non sento più alcun disturbo. I controlli durano diversi giorni. Il barone Lamberto e il suo fido maggiordomo passano sistematicamente in rassegna, senza nulla trascurare: — il sistema scheletrico; il sistema muscolare (ci vogliono due mattine solo per quello, perché i muscoli sono più di seicento e vanno controllati uno per volta); — il sistema nervoso (è cosí complicato che fa venire i nervi); — l'apparato digerente (il barone ormai digerirebbe anche i gusci delle lumache); — l'apparato circolatorio; — i vasi linfatici; — le ghiandole endocrine; — il sistema riproduttivo. Tutto in ordine, dai corpuscoli tattili, che avvertono il cervello se l'acqua del bagno è troppo calda o troppo fredda, alle trentatre vertebre della colonna, sia quelle mobili che quelle fisse. Ogni parte del corpo, ogni componente di quella parte, ogni elemento della componente, vengono esaminati con severità, perché non si permettano di nascondere qualche malanno, il principio di un guasto, il sospetto di un sabotaggio. I due esaminatori, come viaggiatori coraggiosi, percorrono e ripercorrono il labirinto delle vene e delle arterie, sbucando da ventricoli e orecchiette, mescolandosi alle emazie e ai leucociti. — Signor barone, i reticolociti si stanno moltiplicando che è un piacere. — E che cosa sarebbero i reticolociti? — Dei globuli rossi piú giovani. — Avanti con la gioventú, allora. Barone e maggiordomo s'infilano nel tunnel di Corti e penetrano nell'orecchio, sbarcano nelle isole di Langerhans dalle parti del pancreas, si arrampicano sul pomo d'Adamo, si avventurano nel groviglio dei glomeruli di Malpighi che se ne stanno raggomitolati nei reni, fanno l'altalena con l'ossigeno e l'anidride carbonica dentro e fuori dai polmoni, salgono sul ponte di Varolio, soffiano nella tromba di Eustachio, suonano gli organi del Golgi, tendono tendini, riflettono sui riflessi, fagocitano fagociti, fanno il solletico ai villi intestinali, mettono in moto la doppia elica del Dna. Ogni tanto si perdono di vista. — Signor barone, dove si è nascosto? — Sto aprendo il piloro. E tu, dove sei? — Qua vicino. Sto succhiando i succhi gastrici. Ci troviamo tra un momento nel duodeno. Anselmo tiene il diario di bordo del viaggio. Ma tanti esami forse non sarebbero tutti indispensabili. Basterebbe la prova specchio. Chiunque, vedendo il barone Lamberto, gli darebbe, sí e no, quarant'anni e si accorgerebbe a occhio nudo che è sano in lungo e in largo. Poche settimane or sono era un vecchio tenuto su solo dalle medicine e dai suoi due famosi bastoni col pomo d'oro, e adesso eccolo lí, un uomo nel pieno vigore, quasi un giovanotto, diritto, alto, biondo, sportivo. Ha preso l'abitudine di fare il giro dell'isola a nuoto tutte le mattine per tenersi in esercizio. Esegue sul pianoforte i pezzi piú faticosi senza sudare. Fa ginnastica. Spacca la legna per il caminetto. Rema, porta la vela senza imbrogliarsi tra fiocco e randa, si tuffa dai trampolini e, dove non ci sono, dagli alberi. Le sue ventiquattro banche, intanto, gli mandano tutte le settimane il resoconto dei profitti. E nelle soffitte della sua villa sei ignari lavoratori, giorno e notte, lo nominano senza sapere il perché (ma Delfina continua a domandarselo): — Lamberto, Lamberto, Lamberto... — Il vecchio arabo aveva proprio ragione, — osserva il barone, soddisfatto. — Come diceva esattamente? «Il nome è detto»... «il nome vive»... qualcosa del genere, mi pare. — Ho annotato le sue testuali parole, — dice Anselmo, sfogliando il suo taccuino. — Eccole qua: «L'uomo il cui nome è pronunciato resta in vita». — Bello, — commenta il barone, approvando col capo. — Bello. «L'uomo il cui nome è pronunciato...» E anche vero, visti i risultati della cura. Ah, l'antica saggezza degli uomini del deserto! — Se non ricordo male, — precisa Anselmo, — si tratta di un segreto dei faraoni. Il barone riflette. — Loro però sono morti tutti. Come mai, se conoscevano quel detto? — Si vede che non ci credevano. Pensavano che fosse un proverbio dei nonni, non una ricetta buona per tutte le malattie. — Dev'essere cosí, — conclude il barone. — Ma che strano personaggio, quel santone. Io lo avevo scambiato per un mendicante. — L'aspetto era quello. Il tugurio in cui viveva, poi, sembrava un pollaio. Le galline gli camminavano anche sulla testa. — Forse per beccarci i pidocchi, — ride il barone. Appoggia una mano sul pianoforte e con un balzo lo scavalca, esclamando: — Oplà. Se nasco un'altra volta, farò l'artista in un circo equestre. — Ma cosa dice, signor barone? Lei non può piú morire! — Già, non ci pensavo. — Il barone pigia un bottoncino. — Lamberto, Lamberto, Lamberto... Ogni mattina gli spunta un dente nuovo. La vecchia dentiera è finita nella spazzatura. Egli può schiacciare le noci con i suoi molari personali. — Lamberto, Lamberto, Lamberto... «L'uomo il cui nome è pronunciato resta in vita».

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A Roma c'è la Cupola di San Pietro. Dall'alto della Cupola, se si sa dove guardare, si vede un attico circondato da un grande terrazzo, dove siede sotto un ombrellone un giovane sui trentacinque anni, dall'aspetto meditabondo. È Ottavio, il nipote del barone Lamberto, che riflette. Egli ha perso al gioco dei birilli l'ultimo avanzo del patrimonio lasciatogli dalla sua povera mamma. Oggi l'oste gli manderà il conto delle gazose, che consuma a centinaia, offrendone generosamente agli amici. Come farà a pagare? — Sono rovinato, — egli constata. — L'unica mia speranza è che lo zio Lamberto si decida a morire e mi lasci erede del suo patrimonio. Almeno di un paio di banche... Ormai deve avere quasi cento anni. Sarebbe bene che mi facessi vedere da lui, per ricordargli che sono l'unico figlio della sua unica sorella. Che faccio? Vado o non vado? Farò testa e croce con la mia ultima moneta da cento lire. Ecco, testa. Si parte. Cinque ore di macchina, cinque minuti di barca, cinque minuti a piedi per le viuzze dell'isola di San Giulio, e Ottavio bussa al portone della villa baronale. Gli viene ad aprire un giovane atleta sorridente. — Buongiorno, chi desidera? — Il barone Lamberto, per favore. Quel giovane si ritira con un inchino. Poi torna, col sorriso di prima. — Con chi vuol parlare, prego? — Ma, insomma, mi sta prendendo in giro? Ho chiesto del barone Lamberto. Dov'è? — Ma è qui, davanti a te. Ottavio, nipote mio, unico figlio della mia unica sorella, non riconosci piú il tuo amato zietto? A Ottavio, per la sorpresa, gli viene un colpo e casca per terra. Quando torna in sé cerca di scusarsi: — Il piacere di vederti in cosí buona salute è stato troppo forte. Al cuore non si comanda. Ah, ma sono proprio contento. Come hai fatto? Hai trovato una nuova cura? — Nuova, ma anche antica, — ridacchia il barone. — Un segreto, — interviene il maggiordomo Anselmo, strizzando l'occhio al suo padrone, quasi per invitarlo rispettosamente alla prudenza. — Un segreto cinese? — azzarda Ottavio. — Acqua, acqua, — dice Anselmo. — Indiano? — Acqua, acqua. — Persiano? — Acqua, acqua, signor Ottavio. — Be', — dice il barone, — ti ho visto con piacere. Ora scusami un momentino. Anselmo, offrigli qualcosa, un'aranciata, una camomilla, quello che preferisce. — Una gazosa, grazie. Quando Anselmo ricompare con la gazosa, è di ritorno anche il barone, in tenuta da subacqueo. — Vieni a fare un giretto con me nei bassifondi? — Grazie, zio. La maschera mi fa venire il mal di denti. — Allora, accomodati. Anselmo ti mostrerà la tua stanza. Ci vediamo a cena. Il barone Lamberto si allontana, saltellando come una cavalletta. I suoi riccioli biondi ondeggiano festosamente al vento della sera. — È in gran forma, — dice Ottavio. — Nessuno direbbe che ha novantatre anni. — Ne compirà novantaquattro domani alle quindici e venticinque, — precisa Anselmo. «La situazione è tragica, — pensa Ottavio sdraiato sul letto nella sua camera, mentre conta distrattamente le travi del soffitto. — Speravo di trovare un moribondo e mi vedo davanti un campione olimpionico con tutti i muscoli, i denti, i capelli al posto giusto. L'eredità si allontana. Chi pagherà le rate per la mia fuoriserie? Con quali soldi giocherò ai birilli? Qua urgono provvedimenti». Il primo provvedimento che prende, dopo cena, è di rubare in cucina il trinciante con cui Anselmo ha tagliato il fagiano al cognac, e di nasconderselo sotto il cuscino. Poi va a dormire, ma punta la sveglia a mezzanotte. La sveglia ha un carillon che suona l'inno di Garibaldi: Si scopron le tombe, si levano i morti. Terminato l'inno, Ottavio si alza senza far rumore, non s'infila nemmeno le ciabatte, a piedi nudi va ad origliare alla porta dello zio Lamberto. Lo sente russare vigorosamente. È l'ora. Scivola dentro, si accosta al letto, prende la mira al chiaro di luna che entra dalla finestra e col trinciante d'argento — zac zac — taglia la gola allo zietto. Poi torna a letto senza ricaricare la sveglia. La mattina, aprendo gli occhi, sente cantare:

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Ottavio si scusa col dire che l'acqua del lago gli dà l'orticaria e resta in casa a riflettere. Riflette e gironzola. Fruga in tutti i cassetti, negli armadi e sotto i tappeti, cercando la medicina segreta dello zio Lamberto. Capita anche in sala di musica ed ecco sente una vocina gentile gentile uscire dalla coda del pianoforte: — Lamberto, Lamberto, Lamberto... Ottavio non crede nei fantasmi e nei pianoforti parlanti, perciò ispeziona lo strumento e finisce per trovare il congegno nascosto da cui esce quella vocina, che ripete senza stancarsi: — Lamberto, Lamberto, Lamberto... È successo che il barone, prima di uscire, ha pigiato il bottone per controllare che nelle soffitte fervesse il lavoro a norma di contratto, poi si è dimenticato di spegnere e l'altoparlante ha continuato a fare il suo dovere. — Lamberto, Lamberto, Lamberto... «Molto interessante, — dice fra sé il giovane ricercatore, — anche se un po' monotono. Vediamo dove va a finire il filo». Cammina e cammina, il filo e il nipote Ottavio finiscono in soffitta e lí c'è una bella ragazza con i capelli rossi e gli occhi verdi che tiene d'occhio un fumetto di Linus e intanto recita, con voce chiara e distinta: — Lamberto, Lamberto, Lamberto... — Signorina, guardi che io mi chiamo Ottavio, — dice il medesimo. — Spiritoso, — osserva il giovane Armando, sopraggiungendo. — Si scansi e ci lasci lavorare. Delfina, tocca a me. Delfina si alza e si stira le braccia. Armando siede al suo posto e attacca: — Lamberto, Lamberto, Lamberto... Ottavio è molto incuriosito e vorrebbe saperne di piú. — Signorina, — dice alla ragazza, seguendola in un'altra stanza, — come mai si chiama Delfina? — Mio padre era un gran re, era il re di Francia. Era un signore molto nobile, con una parrucca fatta di fili d'oro. In Francia il figlio primogenito del re si chiama Delfino. — Perché? — Perché il re di Francia è anche il re dei delfini. Quando la levatrice si accorse che non era nato un maschio, ma una femmina, tutti dicevano: «Chissà come si arrabbierà il re, chissà come si arrabbierà il re di Francia». Mio padre, invece, fu contentissimo lo stesso e decise di chiamarmi Delfina. E fece bene. Infatti, per merito di questo nome, sono molto brava nel nuoto e nei tuffi. — Non credo una parola di quello che dice, anche se lo dice con tanta grazia. — Ha ragione di non credermi. Difatti non sono figlia del re di Francia, ma di un povero pescatore. Una notte egli usci a pescare con la sua barca nell'Oceano Indiano. Quando fu al largo si accorse che un delfino seguiva la sua scia con insistenza. Mio padre aveva in tasca un tozzo di pane, che doveva essere tutto il suo cibo per molti giorni e altrettante notti. Egli ne fece due parti e ne offri una al delfino. Per combinazione quel delfino non era un delfino, ma il re d'Inghilterra trasformato in delfino da una cattiva strega e condannato a vagare per gli oceani fino a quando un pescatore avesse diviso con lui il suo ultimo pezzo di pane. Il delfino mangiò il pane, ridiventò il re d'Inghilterra, sali sulla barca di mio padre, si fece portare a riva e di qui alla stazione, dove prese il treno per andare a uccidere la strega. — E come ricompensò suo padre? — Con un bellissimo ricordo. Quando io venni al mondo, in onore di quel re d'Inghilterra venni chiamata Delfina. — Anche questa è una bella favola. Ora però vorrei che mi dicesse la verità. Perché ve ne state lí a ripetere il nome di mio zio Lamberto? — Non lo sappiamo. — Non vi sarete mica ammattiti tutti e due!... — Tutti e sei, allora, perché siamo in sei. È il nostro lavoro. Siamo pagati per questo. Piú vitto, alloggio e caramelle a piacere. — Strano lavoro. — Ce n'è anche di piú strani. Ho conosciuto uno che ha lavorato trent'anni a contare i soldi degli altri. — Sarà stato un cassiere di banca. E da quanto tempo fate questo lavoro? — Da otto o nove mesi. — Capisco. — Allora è proprio bravo, perché io, invece, non ci capisco niente. Ho accettato il posto solo perché è pagato meglio di altri. Ma a dire la verità ne sono un po' stufa. Ho l'impressione che mi faccia male alla salute. — Anche gli altri cinque cominciano ad avere dei doloretti, delle fitte qui e li, un po' di nausea la mattina, qualche giramento di testa. — Sarà perché state sempre al chiuso. — Sarà. Arrivederla. — Come, arrivederla, dove va? — Vado a dormire. Sa, mi sono alzata presto per fare il mio turno. Ottavio vorrebbe trattenerla per tentare di saperne di piú. Ripassando per la stanza di prima, vede il giovane Armando che disegna su un quaderno a quadretti. Non disegna, dipinge. Non dipinge, solo copre di nero un quadretto sí e l'altro no. Intanto ripete, con voce professionale: — Lamberto, Lamberto, Lamberto... «Qui, — riflette Ottavio, — come direbbero i nostri vecchi, che la sapevano lunga, gatta ci cova. E qui, se non mi sbaglio, dev'essere il segreto dello zio Lamberto». Scendendo le scale incontra il maggiordomo Anselmo. — Dov'è stato, signor Ottavio? — Sul tetto, a vedere il panorama. Il maggiordomo non fa commenti, ma decide che sarà il caso, per il futuro, di tener d'occhio i movimenti del signorino. — C'è una barca disponibile? Dovrei fare una corsa a Orta. — Nella darsena ci sono tre barche a remi, tre a vela e tre motoscafi. — Andrò col motoscafo, — dichiara Ottavio. — I motori, se non si tengono in esercizio, arrugginiscono. — Parole sante, — approva Anselmo. Ottavio attraversa il braccio di lago che divide l'isola di San Giulio dalla cittadina di Orta. Cerca un medico, si fa visitare e dice che non riesce a dormire. — Ha provato a contare le pecore? — Ne conto un milione per sera, ma non mi addormento. — Ha provato a recitarsi il Piemonte di Giosue Carducci? — Con pessimi risultati: lo sforzo di ricordare un verso dopo l'altro mi tiene sveglio. — Provi a studiare a memoria i Promessi Sposi. — Non sarebbe piú semplice se prendessi un buon sonnifero? — Ottima idea, — esclama il medico, — non ci avevo pensato. Ora le scrivo la ricetta. Come si chiama, lei? — Giovanni Pascoli. — Che strano! C'era anche un poeta che si chiama- va cosí. — Era mio nonno. Il povero nonno Giovannino. Ottavio, ad ogni buon conto, ha dato un nome falso. Il suo progetto è di mettere il sonnifero nella cena di quei sei che stanno nelle soffitte. Chi dorme, infatti, non piglia pesci e non può nemmeno ripetere «Lamberto, Lamberto, Lamberto...» Ottavio la pensa cosí: «Mettiamoli a tacere, per prova, per vedere quello che succede. Se quel che credo di aver indovinato è vero, allo zio Lamberto gli verrà perlomeno la polmonite. Poi da cosa nasce cosa...» Continua a pensare, il giovane pensatore: «Se non ci fosse di mezzo Delfina, potrei avvelenarli tutti e sei e dare la colpa ai cibi guasti. Ma quella ragazza mi piace, è troppo carina per morire giovane. Mi andrebbe per- fino di sposarla. Ma bando, per ora, ai sogni matrimoniali: provvediamo prima ad assicurarci l'eredità». Cosí nella sua testa, un progetto si mescola all'altro. Col sonnifero in tasca si dirige alla riva, sale sul motoscafo e si avvia pian piano. Cosí piano che si fa sorpassare da una barca carica di turisti olandesi in gita d'istruzione. Essi vanno sull'isola a visitare la famosa basilica del santo. Li porta il barcaiolo Duilio, che tutti chiamano Caronte per dimostrare che hanno letto i classici. I turisti gli gridano qualcosa in olandese, ridendo. Ottavio non si offende. Tanto piú che ben presto quella barca, dopo aver toccato appena il piccolo imbarcadero dell'isola, si stacca come scottata e torna indietro. Caronte rema più in fretta che mai e, passando, grida anche lui qualcosa. — Cos'ha detto? — Sull'isola non si può sbarcare. Ci sono i banditi. — Ma quali banditi? — Vada pure avanti, se ci tiene ad incontrarli, ma non dica che non l'ho avvertito. Prima di toccare terra, Ottavio incontra ancora una

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Si va a fare un po' di vela. Ottavio si scusa, dice che il lago gli dà il mal di mare e intanto riflette: «Questi trincianti del giorno d'oggi non taglierebbero neanche il brodo di dadi. Proverò con qualcosa di piú serio». La notte seguente prova con una carabina automatica rubata in sala d'armi. Carica la sveglia, dorme un paio d'ore per essere calmo e riposato al momento decisivo; poi, senza nemmeno aspettare che termini l'inno di Garibaldi, s'insinua silenziosamente nella camera dello zio Lamberto, che russa senza sospetto alcuno, gli appoggia la bocca della canna al cuore, preme il grilletto e lascia andare sette colpi. Tornando a letto si frega le mani: «Stavolta voglio ben vedere!» E chi gli dà la sveglia, la mattina? Di nuovo lo zio Lamberto, vispo come un pesce persico, che canta:

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. — Io vado a dare un'occhiata, — decide Ottavio. E dirige la prua verso la darsena. Lo accoglie un cittadino mascherato che gli mostra un mitra e gli fa: — Benvenuto, signore, l'aspettavamo. Posi là barca, grazie. Da oggi sono sospese le regate. — Cos'è, — domanda Ottavio, — è scoppiata la guerra? — L'isola è occupata, signore. Ma lei può sbarcare, perché fa parte della famiglia. Altre istruzioni le saranno comunicate in seguito. Ottavio obbedisce. Si può discutere con un mitra?

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L'isola di San Giulio sembra fatta tutta a mano, come un gioco di costruzioni. Metro per metro, secolo dopo secolo, dandosi il cambio, uomini e altri uomini le hanno dato forma con il loro lavoro. Se si vede del verde, la natura non c'entra: sono i giardini delle ville. Non si vedono rocce, ma pietre, mattoni, vetrate, colonne, tetti. L'insieme è compatto come i pezzi di un rompicapo. Di sera le differenze dei colori scompaiono, i profili si fondono, l'isola sembra un monumento in un sol blocco di pietra nera a guardia dell'acqua cupa. Da qualche finestra invisibile parte un raggio di luce, come un cordone gettato per tenere legata l'isola alla terraferma. Sul lungolago di Orta la gente conta le luci. — Sono quelle della villa del barone Lamberto. — Per forza, c'è rimasto solo lui. La notizia che l'isola è stata occupata dai banditi ha richiamato migliaia di persone sulla riva. Ci sono gli abitanti di Orta, usciti dalle antiche stradine, dai nobili palazzotti e dalle ville fiorite, o scesi dai fianchi della montagna. Ci sono i turisti, che lasciano raffreddare la cena sui tavoli degli alberghi. Non ci sono i profughi, che si sono ficcati a letto per rimettersi dallo spavento. Al centro dell'attenzione sono i turisti olandesi e il barcaiolo Duilio, che sono stati i primi a dare l'allarme. Ma i turisti olandesi parlano olandese e non si capisce una parola di quello che dicono. Tocca a Caronte rispondere alle domande. — Com'erano, com'erano? — Chi? — Ma i banditi, no? — Avevano la maschera sulla faccia. — Nera? — Nera, blu, chi lo sa. Io tenevo d'occhio le armi. — Fucili o mitra? — Fucili, mitra e anche rivoltelle. E ne ho visti due che piazzavano un cannoncino. — Tu come lo sai che era un cannoncino? — Saprò ben distinguere un cannoncino da un paiolo per fare la polenta. — Lo sai distinguere anche da un mezzo litro rosso? A questo sfacciato, Duilio volta la schiena per rispondere a un signore piú gentile, che domanda: — Erano tanti? — Tanti. — Quanti, piú o meno? — Piú di venti e meno di trenta. — Parlavano italiano? — Certo. Altrimenti come avrei fatto a capire quando mi hanno detto che nessuno poteva scendere e che dovevo fare marcia indietro? Parlavano italiano. — Bene? — Non sono mica il maestro, per dare i voti. — Buona questa, Caronte: i voti ai banditi. Sette piú, cinque meno. — Ma adesso i voti non li dànno piú neanche i maestri. — Insomma, forse avevano un accento, che so, milanese, siciliano, inglese, tedesco... — Banditesco, — interrompe uno spiritoso. Duilio ha già raccontato venti volte com'è andata. Tutti quelli che l'hanno sentita raccontare da lui, a loro volta, l'hanno ripetuta altre venti volte a chi non l'aveva sentita, ma c'è sempre qualcuno che arriva adesso adesso e vuol sentire la storia da capo, cosí poi potrà riferirla a quelli che arriveranno piú tardi. Gli olandesi continuano a parlare olandese e intorno a loro sono in molti a fare di sí con la testa, anche se non capiscono un'acca. Un tale, a un certo punto, si rivolge a un olandese grosso, che gli altri chiamano «Professor» e gli fa: — Do you speak english? Il professore si rischiara tutto e attacca a parlare in inglese, ma quello là si spaventa e scappa. Altri olandesi provano a parlare in tedesco, o in francese, allora si trovano cittadini che hanno lavorato in Germania, o in Francia, e capiscono queste lingue. Cosí la comunicazione è stabilita e i turisti sono ai sette cieli. — C'era uno che dava ordini a bassa voce, — racconta — Duilio, e intorno a lui altri ripetono, per chi era distratto o troppo lontano: — Uno dava ordini a bassa voce. Il particolare sembra molto importante. Forse quello era il capo. Ma forse no. C'è materia per discutere. Una donna cambia improvvisamente la rotta, osservando: — Chissà poi perché avranno occupato l'isola di San Giulio, domando io. Sulle prime si sentono solo dei borbottii informi, tipo: — Mah! — Boh! — Vattelapesca. — Hm. Poi si affacciano le congetture. — Per me, dev'essere tutta pubblicità. — E di che cosa? — Che ne so: del dentifricio, del panettone... — Cosa c'entra il panettone, che siamo d'estate. — Perché, alla televisione non fanno la pubblicità al gelato anche d'inverno? — La réclame è l'anima del commercio. — Non si venderanno mica anche l'isola. — Dev'essere una pensata del sindaco. — Io non c'entro, — grida il sindaco, che ha sentito. — Certe pagliacciate non mi riguardano. — Allora, secondo lei, è una pagliacciata? Dove ha visto i pagliacci con i cannoni? — Non esageriamo! I cannoni... — L'ha detto Caronte. — Caronte ha detto cannoncini. — Allora sarà la réclame dei cannoncini alla crema. — Per me, — afferma una signora alta, elegante, che tutti ascoltano volentieri perché ha dei bellissimi occhi, potrebbe essere un trucco del barone Lamberto per sabotare il turismo sull'isola. — Già, forse gli dà fastidio il rumore degli zoccoli. — Forse lo disturba l'odore del formaggio olandese. Risate. — Perdoni, signora. Il barone Lamberto ha novantaquattro anni e non si sa quante malattie. Col suo udito, non lo disturberebbero nemmeno le cannonate. E poi, a essere sinceri, non ha mai fatto storie. — Gran brava persona. — Anche il suo maggiordomo, quello dell'ombrello. — Due brave persone. — Magari hanno un po' troppo il gusto del mistero. Tutta quella servitú invisibile che si sono portati... — Già, almeno sei persone di servizio e non se n'è mai vista una in libera uscita. — Sempre in soffitta, dicono. — Guardate, anche adesso le soffitte sono illuminate. Tutti si voltano a guardare dalla stessa parte. — Tornando ai banditi, — dice un milanese che soggiorna nel miglior albergo, — tempo fa ho sentito parlare di un gruppo di pittori astratti di Omegna, Verbania e Domodossola che hanno lanciato un manifesto contro le cartoline illustrate, chiedendone la distruzione e minacciando di passare all'azione. — Cioè? Dare l'assalto alle tabaccherie? — Fare dei falò di cartoline illustrate sulle pubbliche piazze? — Il signore vuol dire che potrebbero aver occupato l'isola per ricattare l'intera nazione: o vengono distrutte tutte le cartoline illustrate della penisola, isole comprese, oppure... — Già, che cosa potrebbero minacciare? — Di far saltare San Giulio. — Búm! — Questa mi sembra diffamazione bella e buona. Ho conosciuto molti pittori astratti: erano tutti ottimi padri di famiglia. Uno era perfino nonno. — Io ne ho conosciuto uno che era una madre di famiglia. — Ed era anche zia, perché aveva una sorella sposata con due figli. — Io non insisto, — borbotta il milanese, — dico solo quel che ho sentito dire. — Dove? — In treno. — Bella roba. In treno la gente ci va apposta per sballarle grosse, tanto nessuno può controllare. Una volta ho viaggiato con un tale che pretendeva di essere stato rapito dai marziani. — A proposito, non dimentichiamo gli Ufo. — Cioè? — I dischi volanti. Gli spaziali. Sbarcano un po' dappertutto, non potrebbero essere sbarcati sull'isola di San Giulio? — In questo caso Caronte avrebbe visto degli ometti verdi con le corna. Qualcuno, arrivato da poco, capisce solo a metà e dice al suo vicino: — Pare che sull'isola ci siano degli ometti verdi con le corna. — Ma allora è pericoloso stare qui. — La penso come lei. Andiamo a bere una birra. Qualcosa però li trattiene. Un brivido di eccitazione ha percorso la folla. Dall'isola si è staccato un puntino luminoso, che avanza verso la riva di Orta. — Arriva qualcuno. — Un marziano? I presenti muniti di cannocchiale scrutano nell'oscurità per essere i primi a dare informazioni su quel «qualcuno» che sta attraversando il confine invisibile tra il mistero e la terraferma. — È uno che affonda troppo i remi. Deve fare una fatica del diavolo. — Ha un ombrello appeso al braccio. — Allora è il signor Anselmo. — Cosa vi dicevo? Tutto un trucco del barone. Ora manda il maggiordomo a dettare le sue condizioni. Un giovinastro di cattivo gusto si protende verso il vogatore e gli batte il tempo con la voce: — Ooo-òp! Ooo-òp! — Ma cosa fa? — osserva un esperto di regate olimpioniche, pioniche, — non vede che è un «singolo»? Il timoniere, sul «singolo», non c'è. Il signor Anselmo — è proprio lui, oltre che dall'ombrello lo si riconosce dai capelli bianchi — si accosta all'imbarcadero, ansando. — Dov'è... dov'è... il sindaco. — Cosa vi dicevo? È una pensata del sindaco. — Pronti, sono qua. Chi mi vuole? Il signor Anselmo si schiarisce la voce e si aggiusta il manico dell'ombrello sul braccio. Il momento è solenne. Tutti si invitano reciprocamente al silenzio, producendo un gran frastuono. — Signor sindaco, — esordisce Anselmo, — sono incaricato di trasmetterle il seguente messaggio: «Primo, l'isola di San Giulio è militarmente occupata dalla banda dei Ventiquattro Elle». — Come ha detto, Emme? — No, ha detto Enne. — Elle, come Lamberto, — precisa Anselmo. — Posso proseguire? — La prego, — dice il sindaco di Orta. — E voi altri (alla folla), non interrompete piú. Perbacco. — «Secondo, il sindaco di Orta è incaricato di convocare entro quarantott'ore i direttori generali delle ventiquattro banche di proprietà del barone Lamberto». Eccole l'elenco e i numeri di telefono, signor sindaco. — E chi pagherà tutte queste chiamate intercomunali e internazionali? Guarda, guarda... Zurigo, Hong Kong, Singapore... Stiamo freschi! — «Terzo, — prosegue Anselmo, passandosi il fazzoletto sulla fronte,— il barcaiolo Duilio è incaricato di portare sull'isola, ogni mattina alle otto, i rifornimenti». Dov'è Duilio? — Presente. — Eccole la nota della spesa. In questa busta ci sono i soldi. Il resto, mancia. — E se io non ci sto? — «Quarto, — riprende Anselmo senza rispondergli, se questi ordini non verranno eseguiti, la città di Orta sarà bombardata dall'isola». Nessuno rompe piú il silenzio. La cosa si è fatta seria. — «Quinto. E vietato avvicinarsi all'isola in barca, a nuoto, per via subacquea e per via aerea. Firmato: I Ventiquattro Elle». Anselmo ha finito. Accenna a un inchino, borbotta un «buonasera» in fretta, volta la barca e punta sull'isola. Si sente il tonfo dei remi che entrano nell'acqua. Un po' troppo in profondità, come qualcuno ha già osservato. Ora però nessuno ha piú voglia di fare osservazioni. Si sentono solo sussurri, bisbigli, colpi di tosse. Il sindaco sta correndo in municipio per attaccarsi al telefono. Chiama il prefetto, il ministro dell'Interno, la sua propria signora, che si trova al mare a Viareggio. Poi comincia sospirando a chiamare i numeri che gli sono stati consegnati da Anselmo. I curiosi che continuano a guardare l'isola hanno ora l'impressione che sia diventata piú nera e compatta. Le luci che bucavano la sua massa si sono spente. E come se l'isola avesse troncato i contatti con la terraferma, per prepararsi ad un lungo assedio. Cosí deve averla vista, prima dell'anno Mille, l'imperatore Ottone quando vi si rinchiuse il re d'Italia Berengario, e ci vollero delle settimane per costringerlo alla resa. Sconfitto Berengario, si rifugiò a San Giulio sua moglie, la regina Willa, con tutti i tesori del regno. Ottone dovette ricominciare da capo l'assedio, che questa volta durò un bel pezzo; chi dice due mesi, chi tre. Alla fine fecero un patto: la regina consegnò all'imperatore i suoi tesori e quello la lasciò libera di andare dove voleva. Uno a uno. Vecchie storie di gente morta da mille anni. Ma le pietre dell'isola se le ricordano e prendono, adesso, un'aria minacciosa nel buio. — Andiamo a dormire, — dice la gente. — Andiamo.

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I banditi sono arrivati per via d'acqua, a piccoli gruppi, sotto vari travestimenti. Alcuni hanno affittato una barca a Pettenasco. Erano in uniforme da boy scouts, hanno spiegato che venivano da Domodossola in gita. Altri hanno rubato a Omegna, prima dell'alba, un'imbarcazione a vela appartenente al primario dell'ospedale. A Pella, ricorderanno due frati allegri e simpatici che si sono fatti portare all'isola in motoscafo e dopo aver pagato il pilota gli hanno dato anche la benedizione. Il pilota ha scherzato con loro: — San Giulio, però, non aveva bisogno del motoscafo per attraversare il lago. Distendeva sull'acqua il suo mantello, ci montava sopra e via, senza vela né motore. — Noi non siamo tanto santi, — hanno detto i due falsi frati, — e poi, come vedi, non portiamo mantello perché non è la stagione. Sull'isola si sono riuniti nell'antica basilica, come un gruppo di pellegrini. Il capo ha dato gli ordini: questi di guardia sulle coste, questi sul campanile, questi altri alle mitragliatrici e ai cannoncini, gli ultimi tre con lui, alla villa del barone Lamberto. Hanno bussato, Anselmo è venuto ad aprire e si è sentito chiedere: — Piove, lí dentro? — No, perché? — Scusa, vediamo che porti l'ombrello. — Ci sono affezionato. E un ricordo del mio povero babbo, che era di Gignese e faceva l'ombrellaio. — Bravo, onora il padre e la madre. Ora dentro, chiudi la porta, qua la chiave, chiama il barone. — Chi devo annunciare, per favore? — Scegli tu: questa è una pistola, questo è un mitra. Fila. Anselmo ha obbedito ed è corso dal barone, che si stava allenando al punching ball e lo ha accolto con entusiasmo: — Guarda, Anselmo, guarda che diretto, osserva come raddoppio, ammira che schivate, nota il movimento delle gambe. Domani farai una corsa a Milano, ti do l'indirizzo di una palestra, mi andrai a cercare un pugile disposto ad allenarmi. Direi un peso medio, che te ne pare? O sarà meglio un medio-massimo? Per la paga, offrigli solo il doppio di quello che chiede, non bisogna esagerare. — Signor barone, permetta una parola. — Dimmi, Anselmo. Ma cos'hai? Com'è che ti trema l'ombrello? — Ci sono giú dei signori, signor barone... — Mandali via, non aspetto nessuno. — Non si può, signor barone. Sono armati. — Armati... Che tipi sono? — Non si vede, signore. Hanno il volto coperto dalle maschere. — Mascherati! Ma è tutto uno sbaglio, carnevale è passato da un pezzo. — Se il signor barone vuole rifugiarsi in soffitta, o in cantina, dirò a quei signori che al momento è assente, che provino a ripassare domani. — No, Anselmo, cosí non va. Sei troppo vecchio per

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esporti a certi rischi. Scendo immediatamente. Intanto offri a quei signori aranciata, camomilla, quello che desiderano. Anselmo è tornato dai banditi. — Il signor barone verrà subito. — Esatto, è proprio quello che deve fare. Il barone si è tolto la tuta da ginnastica, ha indossato un paio di blue jeans e una maglietta azzurra, si è presentato ai suoi visitatori con un ampio ospitale sorriso. — Buongiorno, signori. In che cosa posso esservi utile? Il capo ha fatto un cenno a due dei suoi uomini, che si sono allontanati per fare una ricognizione completa della villa. — Signor barone, — ha detto il capo, — lei è nostro prigioniero. — Non ricordo di aver dichiarato la guerra a nessuno, — ha risposto il barone, — e non ricordo di aver perduto alcuna battaglia. — La sua risposta, — ha detto il capo, — dimostra che lei è un uomo coraggioso. Me ne compiaccio. Odio avere a che fare con quelli che appena vedono un'arma se la fanno sotto dalla paura. Ma questo non cambia la sua situazione. Coraggioso o no, lei è prigioniero lo stesso. — E di chi, se la domanda è lecita? Non vorrà che mi arrenda al primo sconosciuto. Si presenti, mi presenti i suoi amici, poi si vedrà. — Lei, — ha ripreso il capo, — è prigioniero dei Ventiquattro Elle. — Come ha detto, Emme? — No, Elle, signor barone. Elle come Lamberto. — Che combinazione! È proprio il mio nome. — È anche il nostro, signor barone. Siamo ventiquattro e ci chiamiamo tutti Lamberto. — Piacere, — ha detto il barone, — anzi, piacere moltiplicato ventiquattro. Non credevo che il mio nome fosse tanto diffuso. Ho conosciuto, all'infuori di me, tre soli Lamberti: uno a Milano, uno a Venezia e uno a Costantinopoli, che però era di Forlí. Era capitato in Turchia per affari, commerciava in marmellate. Ricordo di avergli chiesto l'ora per la strada. E sa che cosa mi ha risposto? Mi ha risposto cosí: «È l'ora di andare a bere una birra. Venga con me». È cosí che ci siamo conosciuti. A proposito di birra, Anselmo, non hai ancora offerto da bere a questi signori... — Grazie, piú tardi, — lo ha interrotto il capo. — Prima lei mi deve ascoltare con attenzione. Intanto non si preoccupi delle armi, non abbiamo alcuna intenzione di farle del male, se lei accetterà le nostre condizioni. — Capo, — (sono tornati i due che hanno ispezionato la villa e uno di loro, da vero maleducato, ha interrotto la conversazione), — tutto a posto. Però su nelle soffitte ci sono dei tipi strani. Dicono che sono dipendenti del barone, incaricati di ripetere a turno, giorno e notte, il suo nome. Ce n'è uno seduto davanti a un tavolo, che fa: «Lamberto, Lamberto, Lamberto...» E non si è fermato nemmeno a mostrargli la pistola. — Dev'essere il signor Bergamini, — ha spiegato il barone, — uomo tranquillo e dedito al lavoro. — Che cos'è questa storia? — ha domandato il capo. — Un divertimento, — ha detto il barone, — il capriccio di un miliardario. Mi piace sapere che c'è sempre qualcuno col mio nome in bocca. Dà soddisfazione, come a grattare dove prude. Insomma, è un hobby. Avete qualcosa in contrario? — Assolutamente no, — ha assicurato il capo, — la cosa non interferisce con i nostri piani. — Mi fa piacere, — ha commentato il barone, striz- zando l'occhio al povero Anselmo, bianco come un fantasma. — Del resto li pago bene. Non vorrete creare ostacoli alla libertà di lavoro, spero. — Le ho già detto di no, — ha ripetuto il capo. — Anzi, la cosa fa piacere anche a noi, perché anche noi ci chiamiamo Lamberto. — Ecco, è questo che mi stupisce. Nemmeno uno che si chiami Giuseppe, Reginaldo, Stanislao? Come avete fatto a mettere insieme ventiquattro titolari del nome in questione? — Con un'inserzione nei giornali, — ha detto il capo. — E ora, lasciamo le chiacchiere e veniamo al dunque. — Si dice anche «veniamo al sodo», — ha corretto il barone. — Ecco come stanno le cose. L'isola è occupata militarmente. La villa è isolata dal resto del mondo e della Via Lattea. Lei, signor barone, è nostro prigioniero. — Per riavere la libertà, dovrà versarci un miliardo per ciascuna delle sue ventiquattro banche. Fanno in totale ventiquattro miliardi. — Piú l'Iva? — ha domandato il barone, senza scomporsi. — Piú le marche da bollo? Se il capo ha risposto nessuno ha sentito, perché proprio in quel momento è entrato il nipote Ottavio, accompagnato dal bandito che lo ha catturato al suo ritorno da Orta con le tasche piene di sonniferi. — Zio caro, che succede? — Niente, Ottavio. Molto fumo e poco arrosto. — Ah, ah, — ridacchia il capo. — Per una battuta simile sarei quasi disposto a farle lo sconto. — Le sembro il tipo che tira sul prezzo? — ha domandato il barone Lamberto. E senza aspettare risposta si è alzato, ha annunciato che intendeva riprendere il suo allenamento al punching ball ed è uscito dalla stanza, seguito da due banditi con le armi in pugno. — Lei questa sera, — ha detto il capo al maggiordomo Anselmo, — prenderà la barca e andrà ad Orta... — Io non so remare! — ha piagnucolato Anselmo. Imparerà strada facendo, — ha detto il capo. E cosí che è cominciata l'invasione dell'isola di San Giulio. Al calar delle tenebre, Anselmo è salito in barca per compiere la sua missione. Era cosí agitato che gli è caduto l'ombrello in acqua. Proprio in quel momento il signor Giacomini, dalla soffitta, ha tirato su la lenza e l'ombrello è rimasto attaccato all'amo. Il signor Anselmo si è rifiutato di partire senza l'ombrello. Uno dei banditi è dovuto salire a recuperarlo. — È tutto bagnato, — si è lamentato Anselmo. — Aspettino — che lo asciughi. È corso a prendere l'asciugacapelli, ha asciugato l'ombrello di fuori e di dentro. Finalmente è partito per Orta. Il resto è già stato raccontato.

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Adesso a Orta c'è spettacolo ventiquattr'ore su ventiquattro. L'isola è circondata da una stretta cintura di imbarcazioni cariche di poliziotti che tengono d'occhio i banditi. Intorno a questo primo cerchio ce n'è un secondo di barche piene zeppe di curiosi e inviati speciali che tengono d'occhio la polizia. Per tutto il lago, col bel tempo o con la pioggia, altri professionisti o dilettanti dell'informazione vanno e vengono in motoscafo o approfittano dell'occasione per dedicarsi allo sport della vela. Di notte sulle barche si accendono fari, lampade tascabili o ad acetilene, candele e torce: mancano solo i fuochi artificiali, perché non è la festa di San Giulio. L'antica cittadina è invasa da turisti che preferiscono i soggiorni avventurosi alle villeggiature troppo tranquille. Non c'è piú un letto libero negli alberghi del Cusio, del Verbano e dell'Ossola. I campeggi sorgono come fungaie sulle rive del lago, presso i paesi a mezza costa, nei boschi e nelle valli prealpine. Giornalisti, radio- e telecronisti sono giunti dalle cinque parti del mondo, perché il barone Lamberto è famoso dal Polo Nord al Polo Sud per via delle sue banche; sicché non solo gli italiani, ma pure gli svizzeri, i tedeschi, i borgognoni, gli americani e gli afroasiatici vogliono essere informati per filo e per segno di ogni cosa che lo riguardi. Ci sono cronisti accampati sotto i portici in piazza, altri appollaiati sui balconi e sui tetti. Ci sono cannocchiali e telescopi puntati sull'isola da tutte le svolte panoramiche delle strade che fanno il giro del Cusio, sulla sponda orientale come su quella occidentale. Ci sono potenti teleobbiettivi in costante osservazione sui campanili di Pogno, San Maurizio d'Opaglio, Alzo, Pella, Corconio, Lortallo e Vacciago; ma non proprio sulle punte dei campanili, che sono troppo aguzze, bensí sui davanzali delle celle campanarie. Altri osservatori ambitissimi dalla stampa, sono: —il Belvedere di Quarna, dove la birra è sempre fresca; —il santuario della Madonna del Sasso, a strapiombo sul lago; —un'osteria della Valstrona, di dove non si vede niente, però ci si mangia un'ottima polenta e coniglio; —la torre di Buccione, costruita nel secolo dodicesimo, ma sempre in gamba; —il convento del monte Mesma, dove i frati raccolgono ingegnosamente l'acqua piovana, ma offrono agli ospiti un saporoso vinello); —il santuario della Madonna della Bocciola; —e, naturalmente, proprio alle spalle di Orta, nel punto più elevato del promontorio, il piazzale del Sacro Monte, di dove, se scoppia un temporale, si fa presto a rifugiarsi nelle cappelle in cui le statue di terracotta colorata, coperte di polvere e tarlate dalla vecchiaia raccontano silenziosamente la storia di san Francesco. I fotografi giapponesi, che sono i piú sistematici, hanno occupato i due punti piú alti della zona, e cioè: —l'Alpe Quaggione (1150 metri sul livello del mare); —la vetta del Mottarone (1491 metri sul medesimo). Essi, peraltro, si lamentano perché da entrambi questi punti si vede il lago da nord a sud, da Omegna a Gozzano, mentre non esiste un punto altrettanto alto e altrettanto panoramico per vedere l'intero lago da sud a nord, se si eccettua la già citata torre di Buccione, che però è occupata in forze dalla Tv messicana. Un giornalista inglese ha piazzato la sua tenda nei boschi sopra Ameno e di lí, ogni mattina, si gode lo spettacolo del Monte Rosa che esce dalle nuvole alla luce del sole, quando ancora tutte le altre montagne sono sepolte in una nebbia azzurrina, e le chiama, una dopo l'altra, a disporsi nel paesaggio, una dietro l'altra, una accanto all'altra, fino a riempire tutto lo spazio sotto il cielo. Il giornalista ha descritto con entusiasmo lo spettacolo in un articolo che il suo direttore ha buttato nel cestino, dettando subito dopo un telegramma urgentissimo: «Lascia perdere il paesaggio, la gente non vuol sapere che cosa fa il Monte Rosa, ma che cosa fa il barone Lamberto». Allora il giornalista ha scritto, ma solo per se stesso, una poesia che comincia cosí:

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Questo non impedisce al solerte cronista britannico di scendere ogni mattina a Orta in motocicletta a svolgere il suo lavoro. Di solito arriva in tempo per la conferenza stampa del barcaiolo Duilio. — Cos'ha comprato, stavolta? — Dodici polli, sette conigli, pasta, riso, formaggi di cinque qualità, trenta chili di frutta, caffè, zucchero, sale. — Quanto sale? — Due pacchetti di quello fino e due di quello grosso. Quando Duilio monta in barca per trasportare i rifornimenti all'isola, lo salutano grandi applausi e i fotografi gli gridano: — Guarda da questa parte, Duilio! Sorridi! Alza bene quel mazzo di banane. I fotografi dànno del tu a tutti. Di ritorno dall'isola, Duilio è seguito da un corteo di barche stracolme di cronisti, che fanno domande e prendono appunti: — Cos'hanno detto i banditi? — Ha visto il barone? — Ha visto il signor Guglielmo? — Ha fatto il militare? — A che età si è sposato? — Quanti figli ha? — Quanti litri di vino beve in un giorno? Eccetera, ogni sorta di domande. Ma i giornalisti, a differenza dei fotografi, gli dànno sempre del lei. I ragazzini seguono la barca a nuoto, sia all'andata che al ritorno, divertendosi a farsi cacciare dai poliziotti e dai vigili urbani. Arrivano venditori di palloncini, di noccioline, di torroni, di mandorle tostate. C'è anche uno che vende, chissà perché, vedute del Colosseo. E c'è chi le compra. C'è sempre chi compra qualsiasi cosa, con qualunque tempo. I bar, i caffè e i negozi rimangono aperti tutta la notte, perché tanta gente non sa dove andare a dormire e rimane a bighellonare o a bivaccare dove può, bevendo birra e masticando panini. Di notte vengono anche quelli di Gozzano, di Borgomanero, di Omegna e di Gravellona, che di giorno non hanno tempo perché lavorano. Riescono a sapere tutto lo stesso, questi pendolari: quanti polli ha comprato Duilio e quanti litri di vino ha bevuto. Il sabato e la domenica arrivano, con tutti i mezzi, i milanesi, i torinesi e gli industriali di Busto Arsizio. Duilio, quando parte per l'isola, qualche volta c'è sua moglie a salutarlo piangendo, come se partisse per la guerra. — Non andare, Caronte (anche lei lo chiama affettuosamente cosí), ti faranno del male, cosa c'entri tu, cosa te ne importa del barone Lamberto, pensa ai tuoi figli, che potrebbero restare orfani. — Ma se sono già tutti grandi, sposati e padri di famiglia! — Pensa ai tuoi nipotini. — Guarda lí come si preoccupano i nipotini. Ce ne sono tre o quattro tra la ragazzaglia che si tuffa e schiamazza presso il pontile. Anche loro sono acciuffati dai giornalisti e intervistati dalla televisione. — Ti piace di piú Zorro o l'Uomo Ragno? — Sei piú bravo in cibernetica o in antropologia strutturale? — Quanto fa tre per otto ventiquattro? Insomma, c'è il cinema continuato. I commercianti portano il sindaco in palma di mano, come se fosse tutto merito suo. La banca locale ha aperto tre nuovi sportelli. C'è sempre qualcosa da commentare: ora un avvocato di Milano organizza un torneo di calcio notturno, ora un venditore ambulante di cavatappi si mette a dare dimostrazione pubblica della bontà di quegli oggetti, utilissimi per chi possieda bottiglie tappate. Poi ci sono concerti di clavicembalo e di strumenti a percussione, esibizioni di gruppi corali, corse nei sacchi. I contadini della zona si raccomandano ai telecronisti: — Vedete d'infilarci una buona parola per i nostri vini, il Gattinara, il Ghemme, il Sizzano, il Fara... Volete mettere lo Spanna con l'acqua minerale? Il terzo giorno arriva un pullman con l'aria condizionata. Per concessione speciale del vigile urbano, impressionato dal suo contenuto, l'autista può parcheggiare in piazza, che sarebbe zona pedonale. È targato Mi, che significa Milano. Ne scendono per primi ventiquattro signori vestiti di grigio scuro. Poi ne scendono altri ventiquattro signori, un po' piú giovani, vestiti di blu. Quarantotto camicie bianche e quarantotto cravatte tutte insieme fanno un bellissimo effetto. E chi sono mai? Sono i ventiquattro direttori generali delle banche di proprietà del barone Lamberto, ciascuno con il suo segretario per prendere appunti, correre al telefono, portare la borsa dei documenti. La folla trattiene il respiro. Chi ha mai visto ventiquattro direttori generali di banca in una volta sola? In carne ed ossa, con le scarpe lucide, molti con gli occhiali, tutti con un'aria severissima. — Largo, largo, — fanno i segretari. A fatica si forma nella ressa un sentiero, lungo il quale, in fila indiana, i ventiquattro signori, e poi anche gli altri ventiquattro, si avviano per schierarsi sulla riva, in vista dell'isola. Ecco, si levano tutti insieme quarantotto cappelli, in segno di rispetto. Se li rimettono. Restano lí in piedi, immobili, a guardare. La stampa e gli altri mezzi di comunicazione di massa vanno all'assalto del gruppo, sparando domande in almeno venti lingue diverse, ma ottengono risposte solo da uno dei ventiquattro segretari, che è stato scelto a portavoce. Dal canto suo, egli risponde solo: — No comment. Dopo pochi minuti i ventiquattro banchieri e i loro segretari salgono in Comune, nell'ufficio del sindaco, che consegna loro un messaggio del barone Lamberto, portato segretamente da Duilio. Il messaggio dice: Gentili signori, vi ringrazio di esservi disturbati per me. Vi spero in buona salute. La mia è ottima. Due ore al giorno di palestra non riescono nemmeno a farmi sudare. Vi pregherei di procurarmi gli attrezzi occorrenti perché io possa esercitarmi nel sollevamento dei pesi, l'unico sport che mi è consentito nelle presenti circostanze. Vi auguro buon soggiorno sulle amene sponde del Cusio. Vostro affezionatissimo Lamberto Sotto la firma, il capo dei banditi ha aggiunto, in stampatello maiuscolo: POSCRITTO - IN CAMBIO DEL BARONE LAMBERTO NOSTRO PRIGIONIERO ESIGIAMO LA CONSEGNA DI VENTIQUATTRO MILIARDI, UNO PER CIASCUNA DELLE SUE BANCHE. NON SI ACCETTANO ASSEGNI, MINIASSEGNI, CAMBIALI E GETTONI DEL TELEFONO. I ventiquattro direttori generali si guardano negli occhi e lo stesso fanno i loro ventiquattro segretari.

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L'autista li porta velocemente a Miasino, dov'è stata affittata per loro una villa del Seicento, con affreschi del Settecento, quadri dell'Ottocento ed elettrodomestici del Novecento. Qui essi trascorrono la notte, al riparo dall'improvviso temporale che flagella i poveracci accampati qua e là nel vasto paesaggio sinistramente frustato dai lampi. Ma c'è uno che non può dormire per altre ragioni. È il piú giovane dei ventiquattro segretari. Con una macchina presa a noleggio, egli corre a Milano per procurarsi gli attrezzi richiesti dal barone. I ventiquattro direttori generali hanno discusso a lungo, durante la cena, la delicata questione. Alla fine, con ventiquattro voti favorevoli e nessun contrario, hanno deciso di obbedire ciecamente agli incomprensibili ordini del padrone. — Avrà i suoi scopi. — Forse prepara una trappola. Non dobbiamo ostacolarlo. La mattina dopo, mentre Duilio sta per partire per l'isola con il suo carico di generi alimentari e diversi, il segretario arriva in tempo a consegnargli gli attrezzi, comprati a peso d'oro in una palestra della metropoli lombarda, aperta anche la notte. — Che cosa c'è in quei pacchi? — domandano i poliziotti addetti alla sorveglianza del carico. — Attrezzi sportivi, maresciallo. — Non pistole, cannoni, bombe atomiche? Apra, apra, faccia vedere. Sotto gli occhi di mille curiosi si taglia la corda, si svolge la carta, compaiono delle sbarre, dei dischi di ferro. Un brigadiere, che è stato campione italiano di sollevamento, riconosce ufficialmente i pesi regolamentari. — E a chi servono? — Al signor barone, maresciallo. Intende allenarsi in questa disciplina sportiva. — Quanti anni ha, il signor barone? — domanda il maresciallo. — Novantaquattro, maresciallo. Il maresciallo appare dubbioso. Alla fine borbotta che «non è mai troppo tardi» e mette il timbro sulla merce sospetta. Orta e dintorni hanno un ottimo argomento di discussione per la mattinata. Di bocca in bocca la notizia subisce, naturalmente, qualche trasformazione. A mezzogiorno a Stresa, dall'altra parte della montagna, un cameriere d'albergo comunica al suo chef che il barone Lamberto parteciperà alle prossime Olimpiadi nella specialità del lancio del martello. Alle quattordici e trenta del pomeriggio a Laveno, sulla sponda lombarda del Lago Maggiore, un gelataio rivela a un cliente tedesco che il barone ha segretamente battuto il record mondiale di salto con l'asta. — Ja, ja, — dice il tedesco, leccando il gelato.

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Insomma, sotto c'è un portico dove si sta a chiacchierare all'asciutto quando piove, sopra c'è una sala alla quale si accede per una scala esterna; cosa assai utile, perché la gente può vedere la sfilata dei funzionari quando salgono e quando scendono e, di tempo in tempo, i garzoni del caffè, quando portano, secondo le ore, gli aperitivi o i digestivi. Sono quarantotto ordinazioni per volta: un bel colpo. Il sindaco, per non far torto a nessuno, fa prendere le bibite ora da un bar ora da quell'altro. Pagamento alla consegna. Pagano a turno i ventiquattro direttori generali e la televisione può riprendere in diretta ora un assegno della Banca Lamberto di Hong Kong, ora uno della Banca Lamberto di Montecarlo o di Montevideo. Il lavoro piú pesante è per Duilio, che deve portare avanti e indietro dall'isola i messaggi. I banditi hanno posto un ultimatum: «Se entro quarantott'ore non riceveremo il denaro del riscatto, cominceremo a mandarvi il barone Lamberto a pezzetti: prima un orecchio, poi un dito, e cosí via, fino a totale consumazione del soggetto». I banchieri hanno risposto che l'ordine glielo deve dare il barone Lamberto, per iscritto, altrimenti loro non sono autorizzati a pagare, né in lire né in noccioline. Il capobanda fa presente la cosa a Lamberto e lo prega di fornire un suo manoscritto. — Immediatamente, — risponde il barone. E scrive su un foglio, in inglese: « Gentili signori, che ne direste di un giretto in giostra? Vi invito al Prater di Vienna per il prossimo Natale». — Perché ha scritto in inglese? — domanda il capo, che non ha studiato le lingue. — Con quei signori io parlo sempre in inglese, per il decoro. — Qui c'è la parola Vienna, cosa c'entra? — Ho dato ordine di prelevare i fondi dalla mia Banca di Vienna, che al momento è quella piú fornita di banconote italiane di piccolo taglio. I ventiquattro direttori generali discutono a lungo il testo del messaggio. — La calligrafia è senz'altro quella del signor barone. — Sí, ma lo stile non è il suo. — Ha ragione il collega: non ricordo che il barone abbia mai usato la parola «giostra». — Anche quel «giretto», al posto di «giro», mal si addice al suo carattere, alieno da frivolezze e diminutivi. — Lo scritto, — aggiunge un altro, — contiene anche distrazioni assolutamente in contrasto con la mente lucida e concentrata del barone. Difatti, quando si accenna al Prater di Vienna, si parla della Grande Ruota, non di una qualsiasi giostra. — Una giostra è roba adatta, tutt'al piú, alla Fiera di Crusinallo. All'unanimità l'assemblea decide di respingere il messaggio, chiedendone uno in tedesco. — Perché in tedesco? — domanda il capobanda al barone, sottoponendogli la richiesta. — Evidentemente il direttore della mia banca di Vienna, essendo lui quello che deve tirar fuori materialmente i quattrini, vuol essere ben sicuro di aver capito. — Avanti, scriva. — E la penna? — Eccola lí. — No, scusi, quella è la penna con cui ho scritto il messaggio precedente. Io non ho mai usato la stessa penna per piú di un documento. Anselmo, portami una penna nuova. Anselmo obbedisce e il barone scrive, in tedesco: «Gentili signori, con la presente ordino che da tutte le mie banche siano licenziati in tronco tutti gli impiegati che non sanno ballare il tango. Firmato: Lamberto». — Cosa c'entra il tango? — domanda il capo dei Ventiquattro Elle, indicando l'unica parola del messaggio che riesce a capire. — È una parola in codice per dire «miliardo». Non vorrà mica che parli di soldi apertamente. E se il biglietto cade in mano a qualche spia? — Più che giusto, — ammette il capo, dimostrandosi comprensivo. Il messaggio arriva dove deve arrivare. I ventiquattro direttori generali lo leggono ad alta voce e la discussione è aperta. — Siamo alle solite: la calligrafia è indubbiamente quella del barone Lamberto. Anche la firma è la sua. Sono in grado di provarlo. Cosí dicendo, l'oratore mostra una cartolina postale che il barone gli ha spedito l'anno scorso da Miami, Florida. La cartolina passa di mano in mano. Tutti controllano e confrontano la firma con quella del messaggio. — Lo stile, però, rivela una personalità ben diversa da quella che conosciamo. — Esatto. Il signor barone non ama il tango. — Può darsi che non l'ami adesso, perché ha novantaquattro anni, ma che l'abbia amato in gioventú. — Lo escludo. Il signor barone, a memoria d'uomo, ha sempre amato solo i bilanci in attivo, i tassi di sconto, i libretti di assegni e i lingotti d'oro. I presenti applaudono. Anche i ventiquattro segretari cessano un istante di prendere appunti per battere le mani. All'unanimità l'assemblea decide che il messaggio non è soddisfacente e che a questo punto occorre una prova non equivoca che il barone Lamberto è ancora in vita. I banditi dovranno inviare una sua fotografia fresca di giornata. — Gli daremo la fotografia, — acconsente il capobanda. — Anselmo, — ordina il barone, — prendi dalla mia collezione di macchine fotografiche un apparecchio a sviluppo istantaneo e passa ad eseguire. Anselmo scatta la foto, aspetta qualche secondo, strappa il cartoncino. Il barone Lamberto è venuto benissimo. Pare un divo del cinema. Sorride che gli si vedono tutti i denti. Ha un ricciolo che gli ricade sull'occhio destro. — Ora, — dice il capo, — hanno tutto quello che vogliono. gliono. Se non mollano i soldi, mi dispiace per lei, ma il prossimo capitolo sarà piú doloroso. — Non si preoccupi, — risponde il barone Lamberto, ogni cosa a suo tempo. Altro viaggio di Duilio dall'isola di San Giulio al palazzotto della Comunità. I ventiquattro direttori generali si passano la foto di mano in mano senza batter ciglio, in attesa che il barcaiolo esca dalla sala. Appena è uscito, scoppia la tempesta. — Tradimento! Questo non è il barone Lamberto! — Truffa aggravata! Millantato credito e falso in atto pubblico: quest'uomo è un impostore! — Troppo bello per essere vero. — Meno male che abbiamo chiesto la foto. Pian piano la tempesta si calma. Cessano le esclamazioni e si passa alle osservazioni piú attente, alle riflessioni più meditate. — A guardarlo bene, — si sente dire, — qualche somiglianza — con il barone Lamberto c'è. — Dove? — Per esempio... nelle orecchie. — Il vero barone Lamberto è molto piú anziano. Guardino. In cosí dire l'oratore estrae dal portafoglio una fotografia che lo ritrae accanto al barone Lamberto sulla terrazza di un albergo a Lugano. In questa foto il barone si appoggia a due bastoni, ha la faccia di una tartaruga, ha gli occhi sepolti sotto le palpebre, è piú morto che vivo. Subito tutti frugano nei loro portafogli ed estraggono fotografie nelle quali fanno coppia col barone, e il barone non è un giovane sportivo dal ciuffo spavaldo, ma un vecchio signore che sta in piedi solo perché non soffiano i monsoni.

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Ora le faremo la fotografia di profilo, ma gliela manderemo, a quei signori, accompagnata da un orecchio. — Quale orecchio? — domanda il barone Lamberto. — Uno dei suoi. Stia tranquillo, abbiamo con noi un medico-chirurgo. Le farà l'operazione a regola d'arte. Non sentirà il minimo dolore. — Grazie, molto gentile. Il capo fa sul serio. E anche il medico-bandito. Sta affilando un rasoio su un pezzo di cuoio con uno stile inconfondibile. — Scusi, — domanda il barone Lamberto, — lei ha fatto il barbiere, per caso? — Per servirla, signor padrone. — Allora respiro: non mi guasterà l'allineamento delle basette. Il barone Lamberto è calmo e sereno. Strizza l'occhio al povero Anselmo, che non sviene solo perché si appoggia all'ombrello, e gli domanda, con aria semplice: — Come sta Delfina? — Bene, grazie, signor barone. — E il resto della famiglia? — Ottimamente, signor barone. Rassicurato circa il lavoro che si svolge nelle soffitte, il barone è anche piú tranquillo di prima e si permette di scherzare: — Dottore, — dice, — vuol vedere se c'è anche del cerume da togliere? — Sarà fatto, signor barone. Mentre il dottore taglia l'orecchio, Anselmo guarda da un'altra parte. Dopo un po', non sentendo né voce né rumore, si volta e vede il dottore che sta fasciando la testa al barone, mentre il capo dei banditi infila l'orecchio tagliato in una busta. — Glielo mandiamo caldo caldo, — dice. I ventiquattro direttori generali ricevono contemporaneamente la foto di profilo del barone, il suo orecchio destro e un biglietto su cui il capo dei ventiquattro Lamberti ha scritto: «Questo è il primo pezzo. Domani, o i quattrini o il secondo». Nove direttori generali svengono, altri nove corrono a lavarsi la faccia nel lavandino, gli ultimi sei restano senza parola. I ventiquattro segretari prendono nota di questi avvenimenti senza permettersi reazioni personali. La foto di profilo ottiene effetti contrastanti. Il naso è senza dubbio quello del barone Lamberto. Ma il collo? Cosí pienotto, liscio e abbronzato non somiglia per nulla ai bargigli rinsecchiti che si notano, sopra la cravatta, nelle fotografie ricordo in possesso degli illustri personaggi. A esaminare l'orecchio viene chiamato un dottore. — Bel taglio, — dice, — lavoro da professionista. Si potrebbe riattaccare in pochi minuti e non si vedrebbe nemmeno il segno. — Che altro ci può dire? — Ecco, per conto mio, questo è l'orecchio di un uomo sano, ben nutrito, che vive parecchio all'aria aperta e fa molto movimento. Età compresa fra i trentacinque e i quarantacinque. — Ne è sicuro? — Ci metterei la mano sul fuoco. — Ci metterebbe anche un piede nell'olio bollente? — Senza esitare. — Allora questo non è l'orecchio del barone. È l'orecchio di un impostore. — La cosa non mi riguarda, — dice il dottore. — Per conto mio, passo e chiudo. — È un bel mistero, — si dicono l'un l'altro i ventiquattro direttori generali. — Tutto farebbe presumere che un impostore abbia preso il posto del signor barone. — Lo accusa la fotografia, lo accusa l'orecchio. Ma perché diavolo un impostore si sarebbe assoggettato a questa dolorosa operazione? Perché fingersi il barone in un momento in cui non c'è nulla da guadagnare e tutto da perdere? Dopo aver allineato una gran quantità di punti interrogativi, decidono che la notte porta consiglio e vanno a dormire nella villa di Miasino. La mattina dopo s'interrogano a vicenda: c'è chi ha sognato cavalli bianchi, c'è chi ha sognato l'Oceano Pacifico, c'è pure chi non ha sognato per nulla, o ha dimenticato il suo sogno. Ancora una volta il vecchio proverbio non ha mantenuto la promessa: nessuno ha sognato un consiglio che faccia al caso. — Aspettiamo il secondo pezzo, — propone il piú prudente, — poi decideremo. Il secondo pezzo è il dito indice della mano destra. Il capo dei Ventiquattro Elle, non avendo ricevuto risposta positiva al suo messaggio con orecchio allegato, si scusa con il barone: — I suoi dipendenti non si preoccupano molto della sua integrità corporea. Sono stato più crudele io a tagliarle un orecchio, o i suoi ventiquattro direttori ad infischiarsene? — Secondo me, — dice il barone, — avete fatto uno a uno. — Avanti il dottore, — dice il capo. Il medico-bandito arriva sorridendo con i suoi ferri. — L'altro orecchio? — domanda. Il capo gli spiega il nuovo programma e il medico esegue, mentre il barone gli raccomanda: — Stia attento a non sbagliare dito. L'indice è questo, tra il pollice e il medio. Anselmo guarda dall'altra parte per non soffrire e vede nello specchio il barone che gli strizza l'occhio. — Come sta Delfina, Anselmo? — In buona forma, signor barone, — balbetta il maggiordomo. — E il resto della famiglia? — Sempre al lavoro, signor barone. Sa, quando bisogna guadagnarsi da vivere... Anselmo si volta: l'operazione è finita. Il capobanda sta leccando la busta in cui ha infilato il dito tagliato e il bandito-medico, dopo aver medicato la mano del barone, si accinge a rifare la fasciatura della testa. — Che mi venga un colpo, — esclama a un tratto. — Guarda, capo. Il barone finge di spaventarsi: — È grave? — Questa è buona, — dice il capo, — se me la raccontassero in treno, non ci crederei. — Ma cosa c'è? — domanda il barone. — Cos'è successo? — È successo che il suo orecchio è ricresciuto, — spiega il bandito-medico. — Se non glielo avessi tagliato io stesso, con queste mani... — Se non l'avessi infilato io stesso nella busta... — aggiunge il capo, perplesso. — Be', — fa il barone, — non capisco tanta meraviglia. Anche alle lucertole ricresce la coda. Potate un albero e i suoi rami si allungheranno piú robusti di prima. In autunno le foglie cadono, a primavera rispuntano. Il sole la sera tramonta a occidente, la mattina rinasce a oriente. Vecchi trucchi della natura. — Sarà, — dice il bandito-medico, — per me è la prima volta che vedo rinascere un orecchio. Ha fatto qualche cura speciale, ultimamente? — Sí, ho fatto una cura per fare ricrescere i capelli. Sa, ero diventato completamente calvo. Un mio caro amico mi ha procurato una ricetta orientale. — Questi cinesi, — borbotta il capo, — ne inventano di tutti i colori. Ma non perdiamoci in chiacchiere. E scrive il messaggio da accompagnare al dito: «Questo è il secondo pezzo. Domani mattina, se non avremo i soldi, vi manderemo un piede intero». Alla vista del dito, svengono venti direttori su ventiquattro; i rimanenti si rifugiano sotto il tavolo. I segretari prendono nota d'ogni cosa sui loro taccuini senza battere ciglio. Il medico chiamato a esaminare il reperto, detta: — Dito indice mano destra, in perfetto stato di conservazione. Taglio netto a metà della falange. Il dito appartiene a persona in buona salute, di età compresa fra i trentacinque e i quarantacinque anni. — Ancora l'impostore! — si sente esclamare. — La nocca, — prosegue il medico, scrutando la medesima con una lente a cinquanta ingrandimenti, presenta il tipico callo del pugilatore. — Cosa? — Vuol dire che il padrone del dito fa del pugilato. Come minimo, si allena con il sacco di sabbia. Osservino con i loro occhi personali. — Il signor barone non ha mai fatto pugilato. Anzi, fino a una decina di anni fa è stato presidente dell'Associazione — Contro gli Sport Violenti, ha finanziato campagne di stampa contro la caccia e la lotta libera. In India è stato insignito della Medaglia della Mitezza. — Che altro ci può dire sul dito? — La pelle presenta altre notevoli callosità, provocate dall'uso prolungato dei remi... dallo strofinamento con corde di canapa... — Un cordaio? — La vela, signori: lo sport della vela. — Un marinaio? Si fanno ipotesi sull'impostore; ma rimane, congedato il medico dopo avergli pagato la parcella piú l'Iva, la domanda fondamentale: perché mai un impostore si farebbe fare a pezzi al posto del barone? — Un santo, forse... L'isola porta pure il nome di un gran santo, che la scelse per edificare la sua centesima chiesa. — Il barone Lamberto è sicuramente un uomo di alti meriti, protettore delle vedove e degli orfani, promotore del credito, devoto alle finanze, eccetera, ma da questo a supporre un intervento celeste in suo favore, ci corre. — Bisognerebbe interpellare il parroco. — Trattandosi del barone, piuttosto il vescovo. — Signori, — dichiara una voce energica, — non mescoliamo il sacro al profano. Per noi l'impostore è soltanto un impostore. Abbiamo una sola cosa da fare: respingere la sua impostura. — Benissimo, rimandiamo il dito al mittente e mettiamo per iscritto che non lo riconosciamo come proprietà del barone Lamberto. La proposta è accolta. — Esigiamo, — aggiunge un altro dei piú arditi, — di vedere l'intero barone in persona. — Eccellente suggerimento. — Questo taglia la testa al toro. — Speriamo che non provochi al barone altri tagli. — Ma se si tratta di un impostore! — Ah, sí, l'avevo dimenticato. Duilio sta già volando su per la scala della Comunità. Poi rivola giú, inseguito da giornalisti, fotografi, telecronisti d'ambo i sessi. — Che cosa succede? — A che punto sono le trattative? Duilio mostra la busta chiusa, nella quale c'è il dito del barone, il messaggio del capobanda e il contromessaggio dei ventiquattro direttori generali. Viene una bellissima fotografia, ma la busta rimane un mistero per tutti. È troppo piccola per contenere ventiquattro miliardi. È troppo spessa per contenere solo un foglio di carta. Dall'alto delle colline circostanti i cannocchiali da marina e i telescopi astronomici inquadrano la busta, Duilio col braccio alzato, il palazzotto della Comunità. Gli ultimi arrivati (ce ne sono sempre) domandano ingenuamente: — Chi è quello? — Ma è il famoso barcaiolo Duilio, soprannominato Caronte. — Interessante. E che fa, con quella busta in mano? La caccia al tesoro?

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A prendere un po' d'aria. — Buona idea, vengo con lei. Ottavio passeggia maledicendo il banditismo. Quello degli altri. — Adesso dove va? — A bere un bicchier d'acqua. — Ho giusto sete anch'io, andiamo pure. Ottavio è costretto a bere l'acqua, che non gli piace, per guadagnare altro tempo. Anche Anselmo lo tiene d'occhio. Se Ottavio si dirige verso le scale, ci sono tutti e due, il bandito addetto alla sua persona e Anselmo, che gli domandano a una voce: — Dove vuol andare? — Sul tetto, a vedere il panorama. — Non c'è bisogno, — dice il bandito, — domandi a me, che le descrivo Orta e dintorni meglio di una guida. — Io glieli posso descrivere in italiano, in inglese e in tedesco, — dice Anselmo. — Il francese, purtroppo, lo leggo, non lo parlo. Lo spagnolo lo parlo, ma non lo capisco. In questo periodo, poi, il barone, non potendo uscire sul lago, sta sempre appiccicato al nipote. Pretende che assista ai suoi allenamenti con i pesi. Una volta gli fa addirittura calzare i guantoni da boxe. — Ottavio, facciamo un paio di riprese, — dice, sempre con il punching ball mi annoio. — Troppo onore, zio. — Dài, non voglio picchiarti sul serio, farò finta. — Sono contrario al pugilato per ragioni sentimentali. Non c'è niente da fare, gli tocca incrociare i guantoni con lo zio Lamberto. Al primo colpo, va al tappeto e comincia a contare: — Uno, due, tre, quattro... — Cosa stai facendo? — In assenza dell'arbitro, mi conto da solo. Nove, dieci... Sono K.O., non puoi piú toccarmi. — Con te non c'è gusto a boxare, — dice lo zio. Per fortuna tra i banditi c'è un ex campione regionale dei pesi medi, che accetta di allenare il barone e gliele suona ai punti in dodici riprese. Il barone è ai sette cieli. Ottavio è a terra. Poi succede il fatto dell'orecchio. Poi quello del dito. Ora Ottavio perfeziona il suo piano: farà morire il barone e darà la colpa ai banditi. Ma per quanto pensi e rimugini, non riesce mai a trovare l'occasione buona. Finalmente capita l'imprevisto. Quella sera il barone trattiene Anselmo a giocare agli scacchi. — È l'ora, signor barone, — sussurra il maggiordomo, spostando la regina, — bisogna che porti la cena in soffitta. — Manda Ottavio, — ordina distrattamente il barone. — Non ci sa fare, — protesta Anselmo, — rovescerà il sale. — Ti ho detto di mandare Ottavio. — Cos'avete da borbottare, voi due? — interviene il capobanda, sollevando gli occhi dal fumetto di Asterix su cui sta meditando. — Silenzio, o vi butto gli scacchi nel lago. Anselmo è costretto a pregare Ottavio di portare la cena ai sei lavoratori. Lo fa con le lacrime agli occhi e la morte nel cuore. Un sospetto spaventoso gli dà il mal di stomaco. Ma al barone bisogna obbedire. Il giovane Ottavio deve supplicare le sue gambe di non tradire la contentezza, mettendosi a ballare il valzer. A vederlo portare il vassoio su per le scale, si direbbe che per tutta la vita egli abbia fatto il cameriere nei grandi alberghi del Lago Maggiore. Quando arriva sul pianerottolo si ferma un attimo, fingendo di aggiustare i tovaglioli arrotolati nei bicchieri. Invece mette nella zuppiera una quantità di sonnifero che farebbe dormire sei locomotive. Eccolo a posto. — Da cosa nasce cosa, — egli canticchia, soddisfatto. — Abbiamo un nuovo cameriere, — annuncia il signor Armando ai suoi compagni. Sorride anche la signora Merlo, che è di turno: — Lamberto, Lamberto, Lamberto... Nel sorridere si confonde, e dice due o tre volte: — Alberto, Alberto... Nessuno se ne accorge, per fortuna, tranne il nipote Ottavio, che le restituisce il sorriso e scherza: — Non mi chiamo né Lamberto né Alberto, mi chiamo Ottavio.

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Fanno un'ora a testa, di notte due ore. — Lamberto, Lamberto, Lamberto... — Lamberto, Lamberto, Lamberto. Alla signorina Delfina, ogni tanto, viene da ridere. Prima di addormentarsi, pensa: «Che razza di lavoro! A che cosa mai potrà servire? I ricchi sono matti». Gli altri cinque non ridono e non si fanno domande. Sono ben pagati, perché ricevono uno stipendio pari a quello del presidente della Repubblica, piú vitto, alloggio e caramelle a piacere. Le caramelle sono per quando gli si secca la lingua. Di che cosa dovrebbero darsi pensiero? — Lamberto, Lamberto, Lamberto... Anche la domenica. Anche il giorno di Natale. Anche l'ultima notte dell'anno. Essi non sanno che in ogni angolo delle soffitte sono nascosti tanti piccoli microfoni, cui corrispondono in ogni punto della villa minuscoli altoparlanti altrettanto invisibili. Ce n'è uno sotto il cuscino nel letto del barone, uno dentro il pianoforte nel salone delle feste. Ce ne sono due nel bagno padronale: uno fa corpo con il rubinetto dell'acqua fredda, l'altro con il rubinetto dell'acqua calda. In qualunque momento, si trovi in cantina o in biblioteca, in sala da pranzo o al gabinetto, il barone Lamberto pigia un bottone e ascolta: — Lamberto, Lamberto, Lamberto... Anche il maggiordomo Anselmo, almeno una volta ogni mezz'ora, controlla che lassú, nelle soffitte, il lavoro proceda senza interruzioni, che il nome sia pronunciato esattamente, che ogni sillaba abbia il giusto rilievo, che i sei si guadagnino onestamente il pane e le caramelle. Il barone, in principio, non è del tutto soddisfatto. — Da' retta, Anselmo, — egli si lagna, — la maiuscola non si sente. — Purtroppo, signor barone, non esiste un modo di pronunciare le maiuscole diversamente dalle minuscole. — La lingua parlata ha di queste manchevolezze. — Lo so, ma è ben fastidioso. La «Elle» iniziale del mio nome suona esattamente come la «elle» di lumaca, lucertola, lecca-lecca. È deprimente. Mi domando come abbia potuto tollerare, il grande Napoleone, che la «Enne» del suo nome imperiale avesse lo stesso suono di quella di navalmeccanico, nottolino, natica. — Naso, nausea, nittitazione, — aggiunge Anselmo. — Che vuol dire nittitazione? — L'atto di aprire e chiudere rapidamente gli occhi. Il barone riflette. — Dovrebbero almeno sforzarsi, mentre pronunciano il nome, di vederlo con gli occhi della mente, con la sua grande Elle al primo posto. — Questo si può fare, — dice Anselmo. — Metteremo su tutte le pareti delle soffitte dei cartelli con il nome scritto in stampatello, perché lo vedano mentre lo pronunciano. — Buona idea. Poi bisognerebbe avvertire la signora Zanzi di non tenere cosí lunga la seconda sillaba di Lamberto, smorzando la terza: ne risulta un effetto di belato — «bèèè bèèè» — che bisognerebbe evitare a tutti i costi. — Sarà fatto, signor barone. Se permette, allora, pregherò anche il signor Bergamini di non separare troppo nettamente le tre sillabe del nome. Ne risulta, se cosí posso esprimermi, un effetto da stadio calcistico. Sembra l'invocazione di un tifoso: Lam-ber-to — Lam-ber-to... — Provvedi, Anselmo, provvedi. E da parte loro ci sono richieste? — La signora Merlo vorrebbe il permesso di lavorare a maglia quando è il suo turno. — Concesso, purché non le venga in mente di contare i punti ad alta voce. — Il signor Giacomini vorrebbe l'autorizzazione a pescare dalla finestra della soffitta nord, che guarda a picco sull'acqua. — Ma non ci sono pesci, nel lago d'Orta... — Gliel'ho fatto osservare. Gli ho spiegato che il Cusio è un lago morto. Mi ha risposto che per lui l'importante è pescare, non prendere pesci, e che un lago morto o un lago vivo, per un vero pescatore, sono assolutamente la stessa cosa. — Allora s'accomodi. Il barone si alza, aiutandosi con i suoi due bastoni dal pomo d'oro massiccio, fa tre passi zoppicando (n. 24, zoppia) fino al divano piú vicino e vi si lascia cadere. Pigia un altro bottone e si pone in ascolto: — Lamberto, Lamberto, Lamberto... — Questa è la voce della signorina Delfina. — Sí, signor barone. — Che bella pronuncia. Si distingue benissimo ogni lettera del nome che, come tu Anselmo avrai notato, è composto di lettere tutte differenti. — Anche il mio, se il signor barone permette. — Anche il tuo. E anche Delfina. Sono belli i nomi in cui nessuna lettera compare piú di una volta. Qualche volta sono belli anche gli altri. La povera mamma, per esempio, si chiamava Ottavia, un nome in cui la «t» è raddoppiata e la «a» è ripetuta. Nel suo caso questo suonava molto bene. Però mi dispiace che mia sorella abbia voluto battezzare Ottavio il suo unico figlio. Ottavio comincia e finisce con la stessa vocale. Le due «o» fanno l'effetto di due parentesi. Un nome tra parentesi, che roba... Sarà per questo che l'Ottavio mi è tanto antipatico. Non credo che lo lascerò erede di tutte le mie ricchezze... Purtroppo non ho altri parenti... — No, signor barone. — Tutti morti prima di me, tranne l'Ottavio. E lui sarà li che aspetta il mio funerale, s'intende. Abbiamo notizie del caro nipotino? — No, signor barone. L'ultima volta ha chiesto in prestito venticinque milioni per pagare un debito di gioco. È stato un anno fa. — Ricordo, li aveva persi ai birilli, da quel vizioso che è sempre stato. Be', Anselmo, preparami una camomilla. Il barone Lamberto possiede la piú ricca collezione di camomille del mondo. Contiene camomille delle Alpi e degli Appennini, dei Pirenei e del Caucaso, delle Sierre e delle Ande, perfino delle valli himalayane. Ogni tipo è catalogato in appositi scaffali, con un cartellino su cui sono indicati il luogo, l'anno e il giorno della raccolta. — Suggerirei, — dice Anselmo, — una Campagna Romana del 1945 . — Fa' tu, fa' tu. Un giorno all'anno la villa apre cancelli e portoni e i turisti possono visitare le collezioni del barone Lamberto: quella delle camomille, quella degli ombrelli, quella dei pittori olandesi del Seicento... Arrivano i visitatori da ogni parte del mondo e i barcaioli d'Orta, che li trasportano all'isola con le loro barche a remi o a motore fanno affari d'oro e d'argento.

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. — A proposito, — domanda Delfina, — l'altro giorno sono arrivati su degli strani tipi armati. Chi erano? — Cacciatori di passaggio, — spiega in fretta Ottavio. — Ci sono lepri sull'isola? — domanda il signor Giacomini che, oltre ad essere un autentico pescatore, è anche un autentico cacciatore. — Starne di passaggio, — inventa Ottavio tra i denti. — Per secondo, come vedono, filetto di bue ai pistacchi, con contorno di cavolfiori al velluto e melanzane in tortino. Per finire, budino di pesche e cassata alla siciliana. — Sempre cassata, sempre cassata, — borbotta il signor Bergamini, — e mai polenta. — Desidera polenta per domani, signor Bergamini? - domanda premuroso Ottavio. — Polenta di primo, polenta di secondo e polenta per dolce! — Il signor Bergamini parla solo per sé, — precisa la signora Zanzi, — per noi quel che fa il signor Anselmo è ben fatto. Ottavio li guarda mangiare, fregandosi mentalmente le mani. A metà cena il signor Armando dà il cambio alla signora Merlo, che attacca a sua volta la minestra. — Buona, — essa dice, — pare condita con le albicocche. — Bisognerà che mi faccia dare la ricetta dal signor Anselmo. E anch'essa ripete, con convinzione: — Quello che fa il signor Anselmo, è sempre ben fatto. Ottavio, dal momento che ci si trova, tenta di attaccare discorso con la signorina Delfina. — Mi piacerebbe, — dice, — invitarla a fare due passi. — Dove, sul tetto? — Ma no, a Milano in via Montenapoleone... a Roma in via Veneto... a Barcellona sulle Ramblas... a Parigi in rue de Rivoli... — E a Carpi? — A Carpi... Dov'è Carpi? — Ecco, vede, non sa la geografia. — Signorina, lei ha sempre voglia di scherzare. Ma io dico sul serio. Mi piacerebbe regalarle una collanina... — Di castagne secche! — finisce Delfina al suo posto. — Mi piacerebbe portarla sulle Dolomiti. — A cavalcioni sulle spalle? Guardi che peso sessanta chili, anche se ne dimostro quarantasette. — Verrebbe con me a Singapore? Che vigliacco! Ha appena finito di metterle il sonnifero nella minestra e le fa tutti questi salamelecchi. Ma ora deve scendere per tranquillizzare il sospettoso Anselmo. La partita a scacchi è finita con la vittoria del barone. Ora è cominciata una partita a tressette. Giocano il barone e Anselmo contro due banditi. Vince ancora il barone. Però si vede che le continue vittorie gli fanno venire sonno, perché sbadiglia guardando l'orologio. — È tardi, — egli proclama, — vado a letto. — Sono curioso, — dice il capobanda. — Curioso di che? — Di vedere se domattina le sarà rispuntato il dito come le è rispuntato l'orecchio. — È possibile. Vogliamo scommettere? — Non ho la testa alle scommesse. Debbo decidere se mandare all'assemblea il suo piede destro o invitare qui un paio di quei signori perché vedano che lei è ancora vivo. — Perché non manda me a Orta, invece? — sorride il barone. — Le do la mia parola d'onore che vado, mi esibisco e torno. Vado a nuoto, se vuole. I due uomini si guardano a lungo negli occhi. Il bandito legge in quelli del barone una superba calma, che egli attribuisce a lunghi anni di abitudine alla ricchezza e alla potenza. Il barone legge in quelli del bandito una fredda determinazione. E un uomo che non ci penserebbe due volte a schiacciarlo come una mosca. Le sue maniere gentili sono una spolverata di zucchero di vaniglia su una bomba al tritolo. Il barone ha un brivido. «Per fortuna, — pensa, — sono inattaccabile. Basta che non mi cedano i nervi». Uno sbadiglio. Un altro sbadiglio. — Vado a letto, — ripete il barone, — sogni d'oro a tutti. — Buonanotte, zio, — sorride Ottavio, falso come Giuda. — Buonanotte, signor barone —. Questo è Anselmo. Il bandito non dice niente. Il barone Lamberto si corica e si addormenta immediatamente, di un sonno pieno di sogni confusi. Egli sogna di esser sul ring per un incontro di boxe. Il suo avversario è Ottavio, ma è anche il capobanda e sorride con cattiveria. Nel guantone sinistro stringe un trinciante d'argento, con il destro agita una carabina a ripetizione. Poi lascia cadere le due armi e solleva il manubrio dei pesi. «Che fai? — vorrebbe dire Lamberto. — È contro tutte le regole». Ottavio avanza, levando sempre piú in alto l'attrezzo. Il suo sorriso si trasforma in una smorfia di minaccia. — Ottavio, sei impazzito? Il barone non riesce a parlare. Le parole gli si aggrovigliano in bocca, gli s'impastano sulla lingua, gli ostruiscono la gola e il naso, impedendogli di respirare. — Facciamola finita, — dice Ottavio nel sogno, — basta con la camomilla! Anselmo non si vede. Il barone ha l'impressione che all'inizio dell'incontro egli fungesse da arbitro. Ma sí, eccolo là, sta giocando a tombola con il capobanda. «Anselmo, Anselmo», vorrebbe chiamare il barone; ma il nome del maggiordomo gli si attacca al palato, gli rotola nella trachea, gli diventa un peso insopportabile nel cuore. Il barone Lamberto si sveglia in un lago caldissimo e appiccicoso, dov'è impossibile nuotare. Sollevare il braccio dall'acqua è come sollevare una montagna. Il braccio viene su carico di alghe, di pesci morti, di cartacce e rifiuti. Finalmente il barone si sveglia nel suo letto. Ma l'incubo non è scomparso. Egli respira a fatica, sente che la gola gli si stringe, acuti dolori gli scoppiano nel petto. Allunga la mano per tirare il cordone del campanello e non ci riesce. Vorrebbe chiamare Anselmo, ma la bocca è come murata. Raccogliendo le ultime briciole di energia, infila una mano sotto il cuscino e preme il bottone dell'altoparlante. Gli risponde un russare affannoso. Nessuno piú sta pronunciando il suo nome. «Dormono, — pensa il barone, — e io muoio». Ma non fa in tempo a spaventarsi, perché è già morto. Anselmo a trovare il suo corpo, ormai freddo, la mattina alle sei, quando porta il caffè. Senza stare a disperarsi e a fare scene, pigia i bottoni degli altoparlanti, Tanti, uno dopo l'altro. Niente. Il lavoro nelle soffitte sembra cessato. Anselmo corre su, ansando, entra, spalanca una porta dopo l'altra, grida, scuote i corpi immobili sdraiati in disordine sui letti e sul pavimento. — Traditori! Assassini! È cosí che rispettate il contratto? Dormono cosí profondamente, che uno li crederebbe morti se non si udissero i loro respiri regolari, forse un po' pesanti. Anselmo prende a schiaffi la signora Merlo, molla un calcio negli stinchi al signor Armando, getta brocche d'acqua in faccia agli altri, li afferra per le braccia. Non c'è niente da fare. Non si sveglierebbero nemmeno se risuonassero le trombe dell'Apocalisse. «Sonnifero, — pensa Anselmo, guardandosi intorno per recuperare l'ombrello che ha lasciato cadere non sa piú dove. — Qui c'è la mano di Ottavio». — Sveglia! Sveglia! — grida piangendo. — Tornate al lavoro! Le sue grida hanno allarmato le sentinelle dei banditi, che accorrono per informarsi sulla loro causa. — Il barone è morto, — singhiozza Anselmo, — lo hanno lasciato morire nel sonno. Non c'è piú niente da fare per voi in questo posto. Andatevene via! — Calma, — dice il capobanda, chiamato da un suo discepolo. — Calma e gesso. Vediamo la salma. Non ci sono dubbi. Il barone è defunto. La constatazione viene fatta dal bandito medico: — Per me, — egli dice, — si tratta di un collasso cardiocircolatorio. — Nessun indizio sospetto? Niente tracce di iniezioni? — C'è la possibilità che qualcuno abbia avvelenato il barone? — Lo escludo nel modo piú assoluto. Il barone è morto di morte naturale.

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GIANNI R O D A R I — Per curiosità, — dice il capobanda, — osserva un po' la mano. Il bandito medico toglie la fasciatura, guarda, si rischiara la voce: — Il dito è ricresciuto solo a metà. Se il barone fosse vissuto fino a stamattina, avrebbe avuto due indici e dieci dita in tutto, come prima. Venti contando le dita dei piedi. — Lei, — dice il capobanda al signor Anselmo, — vada nella sua stanza e ci resti. Due a tenerlo d'occhio. Dov'è quell'altro? Ottavio è ancora a letto e dorme il sonno degli angeli. Quando lo informano che lo zio Lamberto è passato a miglior vita, come si diceva una volta, si fa dare un fazzoletto e ci nasconde gli occhi, perché nessuno veda che sono asciutti. Lo chiudono a chiave e passano alle soffitte. Qui non ci sono provvedimenti da prendere: tutti dormono come ghiri in letargo e non c'è verso di fargli aprire gli occhi. Basta chiudere a chiave anche loro e mettere una sentinella sul pianerottolo. — Ora, — dice il capobanda, — a noi. Da vivo, il barone — Lamberto valeva per noi la prospettiva di ventiquattro miliardi. Per il suo cadavere non ci daranno nemmeno un soldo. — Abbiamo il nipote, — osserva un discepolo. — Quello vale anche meno. Nel suo ultimo testamento il barone gli ha lasciato solo una barca a vela. Lui lo ignora, ma io lo so di sicuro e senza il minimo dubbio. La nostra impresa è fallita. Non ci rimane che squagliarcela. — E cadere nelle mani della polizia che circonda l'isola? — L'aviatore che doveva venirci a prelevare con il suo aeroplano... — Non si farà vivo, perché non c'è piú niente da guadagnare nemmeno per lui. Il capobanda vede la situazione senza illusioni. — Dobbiamo trovare la maniera di andarcene senza essere notati. — Forse se ci trasformassimo in uomini invisibili... — Non dire scemenze. — Scaviamo un tunnel sotto l'isola, sotto il lago, sotto le montagne e usciamo in territorio svizzero. — Sta' zitto e fammi pensare. — Perché, solo tu puoi pensare? — Pensate anche voi, pensiamo tutti insieme, ma che nessuno parli per dire stupidaggini. Pensano e pensano, ma è come grattare un muro di marmo: non viene via niente, le unghie non ci prendono. Ogni tanto uno ha uno scatto, apre la bocca, tutti si voltano dalla sua parte, ma l'idea, sul punto di essere formulata in parole, si è dileguata. — Ce l'avevo sulla punta della lingua, — si scusa quello. I ventiquattro Lambert, uno dopo l'altro, si distraggono. C'è chi vorrebbe trovarsi su una spiaggia delle Baleari, chi su una terrazza d'albergo a Macugnaga, a contemplare il Monte Rosa. Solo il capo sa concentrarsi come si deve. Gli fanno fin male i denti, da tanto si concentra. Ma l'idea non arriva. — Proviamo con il vocabolario, — egli dice a un certo punto. Non tutti sanno cosa sia un vocabolario, ma restano zitti per non passare da analfabeti. Del resto il capo ha già preso un librone da uno scaffale, infila un dito a caso tra le pagine, apre e legge: — «Finimondo». Be', se venisse la fine del mondo, nella confusione potremmo scappare fino a Brindisi. Proviamo ancora. La parola seguente è: «Lince. Mammifero europeo dei Carnivori, abile predatore, con pelo morbidissimo e orecchie a punta sormontate da un ciuffo di peli». Poi esce: «Borotalco». — Splendido, — dice uno, — facciamo venire venti- quattro sacchi di borotalco, ci nascondiamo dentro e rispediamo la merce alla ditta con la scusa che è bianco e noi lo volevamo rosa. Durante il viaggio saltiamo giú dal camion... — «Trapezio», — legge il capo, continuando ad infilare il dito a caso nelle vecchie pagine, in cerca di un suggerimento utile. Escono in fila disordinata: «Mirmecologia. Studio zoologico delle formiche»; «Scovolino. Arnese filiforme di feltro per pulire pipe, bottiglie e simili»; «Caciotta. Formaggio tenero in forma schiacciata e rotondeggiante, dell'Italia centrale». Ottima per la merenda, ma inservibile per la fuga. Il capo insiste con rabbia crescente. Adesso le parole non le legge più, le spara come pallottole: «Dodecaedro. Metaforico. Sobbollire. Prolegomeni. Finestra». Alla parola «finestra», i banditi sospirano di sollievo. Questa, almeno, sanno cosa vuol dire senza leggere la spiegazione. Poi salta fuori la parola «pipí» e tutti scoppiano a ridere. Non sapevano che il vocabolario contenesse anche quelle parole lí. Dal gran ridere, qualcuno se la fa addosso, la parola. Il capo non ride. Ha aperto il vocabolario a una pagina qualunque ed è rimasto li, col dito puntato e gli occhi spalancati. Sembra di sentire il ronzio del suo cervello che riflette. Ne passano dei minuti di silenzio, prima che riapra bocca. — Cretino, — dice. — Ah, ci stanno scritti anche gli insulti? Di bene in meglio. — Cretino io, a non averci pensato prima, — precisa il capo. — Cos'hai trovato? — Dài, leggi. — Non tenerci sulle spine. — «Pallone», — legge il capo. Gli altri ventitre Lamberti lo guardano senza capire, col vago sospetto che il capo, per lo sforzo mentale, stia perdendo la ragione. — Cosa c'entra la Juve, — bisbiglia un Lamberto al suo vicino. — E l'Inter, allora? Ma il capo dei Lamberti non sta pensando al campionato. La parola letta nel vocabolario gli ha fatto ricordare qualcosa che è successo nei primi giorni dell'occupazione. — Eravamo nelle cantine, io, il barone e il suo maggiordomo. — Avete un'idea di quanto siano grandi le cantine della villa? Quel giorno io le ho visitate metro per metro, piano per piano. Lo sapevate che ci sono cinque piani sotterranei? — Non ce l'avevi mica detto, come facevamo a saperlo? — Nel quinto, cioè il piú profondo, il barone tiene, anzi teneva il suo museo personale. Me l'ha mostrato solo perché lo minacciavo con la pistola. Ci conservava la carrozzina in cui lo portava a spasso la sua balia, il triciclo su cui ha imparato a pedalare, la cassaforte della sua prima banca, la fotocopia del primo miliardo, insomma, i suoi ricordini personali. Una stanza del museo è completamente occupata da grossi pacchi legati con una robusta corda. E sapete che cosa c'è in quei pacchi? Quel giorno il barone ha detto proprio cosí: «Qui dentro c'è il piú bel sogno della mia vita. Ci sono tutti i pezzi del pallone aerostatico con cui avevo in mente di conquistare il Polo Nord, che ancora non era stato raggiunto da nessuno. Ci sono i teli, le parti della navicella, le bombole del gas. In questa cartella ci sono i disegni e le istruzioni. Anche un bambino, volendo, potrebbe rimontare il pallone in poche ore». Io l'ho ascoltato con un orecchio solo, perché allora non m'interessava. Fortuna che me ne sono ricordato in tempo. Avete capito, adesso? — No, — borbottano due o tre voci, in tono di mortificazione. — Fuggiremo in pallone. — Bravo, cosí la polizia ci sparerà e... fiiiit, il pallone si sgonfierà. — Fuggiremo di notte. — Ci vedranno con i riflettori... — No, se faremo sapere alla polizia che i riflettori dànno fastidio al barone Lamberto, perché la loro luce, penetrando dalle finestre, gli impedisce di dormire. — E dove andremo? — In Svizzera. — E dopo? — E dopo la mamma vi rimboccherà le coperte, vi darà una caramella col buco e un bacetto in fronte. Finiamola con le chiacchiere e mettiamoci al lavoro. Non tutti i Lamberti sono persuasi, ma il capo sembra di nuovo tanto sicuro di se stesso... Non resta che seguirlo. Qualcuno ha un'idea migliore? Nessuno. C'è altro da tentare? Non c'è. Almeno ora c'è un programma chiaro: gonfiare il pallone, salirci, fuggire di là dalle montagne.

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A Orta, quando sorge di nuovo il sole, nessuno sa nulla di quel che è successo sull'isola durante la notte, però molti hanno l'impressione che sarà una giornata speciale. Intanto, il pullman che porta giú da Miasino i banchieri arriva un quarto d'ora prima del solito. Eccoli che salgono con passo elastico la scaletta esterna del palazzotto della Comunità, in fila indiana. C'è sempre chi si diverte a contarli: — ...quarantasei, quarantasette, quarantotto. Ora, perché ridiscendono velocemente? Perché la donna delle pulizie non ha finito di lavare il pavimento. Dovranno aspettare nel sottoportico. La folla li circonda silenziosa e attenta. Quelli che hanno già imparato a conoscerli li additano a quegli altri — pochi, per la verità — che ancora non sanno distinguere il direttore generale di Amsterdam dal direttore generale di Alessandria d'Egitto. I piú bravi riconoscono a occhio nudo, uno per uno, anche i ventiquattro segretari personali. — Potete entrare, — grida la donna dal balconcino, ma non buttate le cicche per terra! Risalgono, spariscono dietro la porta. La folla si guarda in giro in cerca di altri fenomeni degni di studio e vede tornare dall'isola il barcaiolo Duilio, che ha già fatto il primo viaggio con le provviste. Caronte salta giú dalla barca e corre verso i portici della piazza, inseguito dai giornalisti piú giovani (i piú anziani stanno ancora facendo colazione sulle terrazze degli alberghi). — Dove va? — Caronte, un sorriso per la stampa. — Come stanno i suoi nipotini? E passato il mal di pancia a sua suocera? Il barcaiolo entra in una cartoleria e ordina, senza riprender fiato: — Presto, trenta chili di scotch. — Cosa? Trenta chili di?... — Di scotch, di scotch! — Ma io non ne ho né trenta chili né trenta etti. Ecco tutto quello che ho. La cartolaia esibisce cinque o sei rotolini di nastro autoadesivo di diverse misure. — Mi dia questi. Dove posso trovare il resto? — Dai casalinghi, qui accanto. Duilio corre al negozio dei casalinghi. Poi batte i tabaccai. Se mette insieme cinque o sei etti di scotch è tanto. — Ci pensiamo noi! — gridano i giovani giornalisti. Difatti essi si dividono in squadre e con le loro macchine si dirigono parte verso Gozzano e Borgomanero, parte verso Arona e Sesto Calende, parte verso Omegna e Gravellona Toce, a fare incetta di scotch. Dopo un'oretta tornano con montagne di rotolini di tutti i colori, che consegnano a Duilio con l'orgoglio di chi sta partecipando ad un'impresa storica. — Io l'ho comprato blu, perché si adatta al colore del lago. — Ecco, tre chili di scotch offerti dalla Gazzetta di Quarna! — Tre chili e sei etti a nome del Corriere della Val Strona! Duilio scaraventa il tutto nella barca e punta la prua sull'isola. Il nuovo argomento di discussione mantiene viva la curiosità fino all'ora dell'aperitivo. — Che ci faranno con tutto quello scotch? — Ma è chiaro: serve per imballare i soldi del riscatto. — E la carta? — Vedrete che manderanno a comprare anche la carta. Quando Duilio torna dall'isola e corre verso i portici, la folla lo aspetta già dal cartolaio. Lui invece entra nel negozio di ferramenta, mostra una catenina d'acciaio sottile sottile e ordina: — Cinquecento metri di questa. — Ti posso dare cinquecento cacciaviti, — dice il ferramenta, — cinquecento chiodi a rampino, cinquecento badili. Il mio negozio è il più fornito del Cusio. Ma la catena d'acciaio, per combinazione, di quella misura lí, l'ho finita. Posso ordinarla, in un paio di giorni te la faccio avere. — Mi serve subito, — ribatte Duilio. — Mi dica dove posso trovarla. — Perché non prendi cinquecento martelli? — insiste il commerciante. — Guarda, ho anche cinquecento tenaglie, cinquecento pinze... Insiste, prega, supplica. Nessuno è mai uscito dal suo negozio a mani vuote. Ma Duilio è irremovibile. Si fa per dire, perché si muove di corsa e va in cerca del sindaco. — Signor sindaco, cosí e cosí: che cosa consiglia? — Consiglio il signor Giuseppe di Omegna. Il signor Giuseppe è famoso per trovare qualsiasi cosa nel tempo di recitare la Cavallina Storna. Potete chiedergli una Fiat del 1913 , un cannone della guerra Quindici-Diciotto, un costume da Re Sole, una biga dell'epoca di Nerone, una macchina per pelare polli: non batte ciglio, parte e trova. Per lui trovare mezzo chilometro di catena d'acciaio è uno scherzo. Prima di sera, sempre per accontentare i banditi e riempire di nuove forniture la barca di Duilio, il signor Giuseppe trova: — ventiquattro cestoni da bucato; — una padella coi buchi per arrostire le castagne; — le opere complete del filosofo tedesco Emanuele Kant; — una carta topografica delle Alpi; — un salvadanaio di coccio a forma di porcellino, che ad infilargli una monetina nella pancia ringrazia muovendo il codino. I banditi, evidentemente, hanno bisogno di vari materiali per completare il pallone che stanno montando di nascosto, ma per confondere le idee mandano a chiedere anche cose che non hanno niente a che fare con l'aeronautica. Il risultato è raggiunto. Nel palazzotto della Comunità, dove siedono in permanenza i banchieri e i loro segretari, le idee sono piú confuse che mai. Si aspettano una risposta alla loro richiesta di vedere il barone Lamberto in carne, ossa e persona, e sono invitati a procurare un setaccio per i fagioli. Temono di veder comparire, in un pacco ben confezionato, un piede del barone, giusta la minaccia dei banditi, e si vedono costretti a esaminare la richiesta di una scatola di lecca-lecca. E le ore passano. La situazione si fa sempre piú strana. Già il sole discende tra le montagne d'occidente. Sul lago soffia fredda la brezza della sera. Sulla riva di Orta chi ha un maglione lo indossa. Nei bar diminuiscono le ordinazioni di birra e gelati e aumentano quelle di bevande calde. La giornata è stata piena di avvenimenti imprevisti e di oggetti incomprensibili, ma le trattative non hanno fatto un passo avanti. Poi si fa proprio notte, non c'è piú niente da dire. È una notte senza luna. Nel buio San Giulio — le cui coste sono debolmente illuminate dai riflettori degli assedianti (la potenza dei fari è stata diminuita per non disturbare il sonno del barone) — sembra l'isola dei fantasmi, a guardarla vengono i brividi. A una cert'ora un giornalista di sentinella sulla piazza di Orta, crede di vedere sul tetto della villa una grande ombra nera. Ma è tanto giovane che nessuno gli dà retta. I colleghi piú anziani non mettono nemmeno il naso fuori del caffè dove si sono rintanati a giocare a poker. — Un'ombra nera, eh? Sarà il diavolo. — Non hai visto se ha le corna? — Non hai sentito odor di zolfo? Dopo un po' neanche quel giornalista vede piú l'ombra nera. — Mi pareva che fosse proprio là, sul tetto. Dev'essere stata un'illusione ottica. Invece, naturalmente, era il grande pallone che prendeva il volo. Nessuno lo vede salire nel buio, con i ventiquattro Elle accoccolati sotto la sua pancia, nei ventiquattro cestoni da bucato. L'inverna, il freddo vento che soffia sul lago da sud, lo spinge verso i monti della Val d'Ossola. La sua silenziosa navigazione nella notte è quanto mai tranquilla. In poche ore potrebbe superare la frontiera senza nemmeno vederla, entrare in arie svizzere senza pagar dogana. Potrebbe... Ma le cose, a un certo punto, decidono di andare per un altro

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L A COLLANA F A N T A ST IC A Edizione speciale pubblicata su licenza di Edizioni EL, San Dorligo della Valle (Trieste) 1992, 1996 Edizioni EL, San Dorligo della Valle (Trieste) 1996 Altan/Quipos S.r.l. per le illustrazioni Progetto grafico della copertina: Gaia Stock Stampa e legatura Grafica Editoriale Printing Il presente libro deve essere venduto esclusivamente in abbinamento alla testata di riferimento. Tutti i diritti di copyright sono riservati. Ogni violazione sarà perseguita a termini di legge. Gianni Rodari C'era due volte il barone Lamberto ovvero I misteri dell'isola di San Giulio Illustrazioni di Francesco Altan C'era due volte il barone Lamberto

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