Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNICT

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Cipí

206582
Lodi, Mario 18 occorrenze
  • 1995
  • Edizioni E. Elle
  • Trieste
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
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. — Se c'è da lottare, eccomi pronto insieme a voi! — disse Cipí. — Promettiamolo! — gridò Passeri. — Alla fine tornerà Palla di fuoco e la nostra vita ritornerà felice! — Prometto! — gridarono i passeri dalla gronda. In quel momento, di fronte alle minacciose nuvole nere che mettevano paura solo a guardarle, sentirono nel cuore una grande forza.

Le nuvole galoppanti si lanciarono alla carica contro il muro nero e ad un tratto parti una cannonata: ma il proiettile rimbalzò a zig zag contro le corazze, crepitò e tirandosi dietro il fuoco sbatté con la testa contro la terra che sobbalzò. A Cipí si rizzarono le piume sul capo. Le nuvole non cedettero, si unirono e ripeterono l'assalto: stavolta la cannonata trapassò il nuvolone e andò a scoppiare contro un albero, che s'incendiò. Allora accadde il finimondo: piccole nubi veloci uscirono dal nuvolone come reattori e lanciarono una mitragliata di proiettili di ghiaccio che crepitarono sui tetti. — Scappiamo! — gridò Cipí e si lanciò fuori; ma un proiettile lo colpi sul becco e lo fece sbandare: il passerotto fece dietro-front e tornò sotto la tegola vicino a Passeri. Anche gli altri passeri tremavano di paura e gridavano: — Scappiamo al bosco! Andiamo via da qui! — Restate qua! — gridava Cipí dalla tegola, — fuori c'è la morte! Molti però non l'ascoltarono. — Io ho paura! Io scappo al bosco! — dicevano. E Cipí: — Restate! Il tetto rimbomba, ma ci salva! Purtroppo molti cedettero alla paura e si lanciarono fuori: qualcuno fu ucciso sulla soglia, altri caddero nel cortile, nessuno arrivò alle piante del bosco. Intanto la guerra divampava: cannonate da ogni parte, assalti, comandi rabbiosi, nuvole disfatte gridavano con la camicia strappata, altre, impazzite, abbracciavano le nemiche credendole amiche, altre si scioglievano in pianto. La guerra durò tutta la mattina e solo nel tardo pomeriggio Palla di fuoco riuscí a mettere un poco di ordine nel cielo devastato. — Ecco che cosa capita a chi si azzuffa! Guardate come siete ridotte! — esclamò disperdendo le ultime nuvole. Poi allungò le sue calde braccia nel cortile, nel bosco e sui prati a tirar su la testolina dei fiori e a carezzare pietosamente i corpi freddi dei passeri uccisi. Infine, alzò le sue lance dorate in un arco di meravigliosi colori che abbracciava tutta la terra in segno di pace. Allora gli uccelli uscirono dai rifugi e ripresero la vita interrotta dalla guerra. — Chi ha vinto la lotta? — si domandavano. — Nessuno. — Anche le altre volte? — Sempre. — E perché la fanno? — Chi lo sa?!

. — disse Cipí, — vado io a vedere! Planò sul cortile coperto di farfalle bianche, si avvicinò all'uscio socchiuso, entrò di scatto e subito uscí, poi volò dai compagni: — Impasto giallo buonissimo, ce n'è per tutti, — disse. — Io vado! — sospirò Beccodolce che non capiva piú nulla. — Un momento! — gridò Cipí. — Non facciamo la fine degli altri! Lui è là e ci guarda! — Ma io ho fame! — Anch'io! — gridò Cipí, — ma ragiono. Se mi ubbidite forse riusciamo a mangiare tutti senza farci prendere. — Come si fa? — chiese Beccodolce con un filo di voce. Cipí spiegò il suo piano: — Qui non c'è il filo e «lui», per prenderci, deve uscire a chiudere l'uscio: noi entreremo due per volta e quelli che sono fuori, quando vedranno «lui» uscire, grideranno: «Pericolo!» Intesi? — D'accordo, — dissero i passeri. — Un'altra cosa! — aggiunse Cipí, — dobbiamo fare in fretta; io, ad ogni turno, conterò fino a dieci e poi dirò: cambio! A questo comando chi è dentro deve uscire anche se ha ancora fame; non importa farsi il gozzo, importa non morire! — Comincio io? — domandò Beccodolce. — Cominceremo dai piú giovani. Io e Passerì saremo gli ultimi. Pronti? — Pronti! — risposero tutti. I primi due scesero, entrarono nel pollaio e beccarono con avidità. — Ah, finalmente un po' di cibo! Fuori, intanto, scrutavano nel polverio delle farfallette che volteggiavano fitte, le mosse dell'uomo. Dopo un po' Cipí gridò: — Cambio! I due passeri abbandonarono il cibo e volarono sul muro a fare da sentinelle: altri due entrarono. — Dobbiamo far presto, — comandò Cipí, — cosí faremo più turni. In quell'istante alla finestra apparve l'ombra del nemico. — Pericolo! — gridarono tutti insieme. E i due che erano dentro fuggirono come razzi. Poi l'ombra scomparve ed essi ritornarono a beccare. — Vedete? — spiegava Cipí, — «lui» ci sta osservando ed aspetta che entriamo nel pollaio per catturarci tutti insieme. Ma si sbaglia! — Bravo Cipí! — disse una voce. — Silenzio! — ordinò Cipí, — non facciamo rumore, potrebbe costare caro ai nostri amici che beccano! — Poco dopo ordinò: — Cambio! — e altri due entrarono. In poco tempo tutti riuscirono a beccare un po' d'impasto giallo. Cipí entrò per ultimo insieme con Passeri e subito dopo cominciò il secondo turno. Fu in quel momento che il nemico, spazientito perché i passeri non entravano tutti insieme, uscì dalla casa e corse verso il pollaio. — Pericolo! Pericolo! — gridarono a tutta voce le sentinelle. I passeri scattarono verso la luce ma solo uno riuscí a fuggire. L'altro lottò a lungo col nemico armato di scopa e alla fine, colpito alla testa, stramazzò al suolo. — Aveva troppa fame, non è scappato subito con me, — disse quello scampato. Quando l'uomo usci, chiuse il pollaio e i passeri se ne andarono in cerca di altro cibo, affamati e delusi. E le farfallette, indifferenti, non smettevano di danzare e di cadere.

— E cominciò a lanciare sulle loro spalle vampate di calore. — Oh Dio mio... muoio...! — mormoravano le farfallette svegliandosi dal lungo sonno, e per scappare scivolavano le une sulle altre e correvano in cerca di una strada che le portasse lontano, in salvo. Per fortuna trovarono tutte chi un rigagnolo e chi una cunetta o un canale in cui infilarsi. — Addio! Addio! — dicevano partendo. Man mano che se ne andavano, la terra tornava qua e là alla luce e le erbe rialzavano il capo. Attraverso mille strade le farfallette sciolte arrivarono al nastro d'argento e, tutte insieme, incominciarono il lungo viaggio attraverso la pianura. Cammina cammina arrivarono al mare e là, purificate e alleggerite risalirono un giorno esultanti in cielo dove il vento le fustigò a dovere e cominciò a farle correre di qua e di là, senza posa. Esse, che l'avevano combinata grossa, tacquero e ubbidirono e cosí cominciò la primavera. In primavera, si sa, il vento ha molto da fare per tenere sgombro il cielo da centinaia di nuvolette bianche e di nuvoloni che vengono lí a godersi il sole, tuttavia non si dimenticò della promessa fatta a Cipí e venne. Cipí, che era stato avvisato, aveva radunato i passeri sopravvissuti davanti al buco del signore della notte. C'erano proprio tutti: c'era la dolce Cippicippi, c'era Chiccolaggiú, c'erano anche i curiosi, i passeri che avevano gridato «abbasso Cipí» il giorno dell'assemblea sull'albero grande; e in un angolo, nascosta e trepidante, c'era Mamí. Il vento arrivò, arrivò come una furia, fece il giro del cortile, si fermò un momento sopra la Torre fumante e disse: — Dunque voi volete una prova... una prova sicura... vediamo un po'...! Cosí dicendo parti di scatto, infilò la testa nel buco del signore della notte e vi entrò tutto con un sibilo acuto che fece tremare i calcinacci delle pareti. Poi ne usci trascinando con sé tutto quel che c'era dentro: polvere, avanzi di ossa, piume lacerate... — Il vestito dei miei piccoli! — gridò Cippicippi, riconoscendo le piume dei suoi figli. E scoppiò in un pianto dirotto. Mentre Chiccolaggiú e le altre madri cercavano fra le piume quelle dei propri cari, il vento gridò: — Ecco la prova. Vi basta? — E se ne andò rapido come era venuto, senza pretendere un ringraziamento, a continuare il suo lavoro. Nel buco si sentiva il signore della notte brontolare. Le madri e i passeri gridavano disperati: — Assassino! Mascalzone! Esci di lí e te la daremo noi una lezione! Ma Cipí cosí disse: — Amici, le parole di offesa non servono a nulla. Ora che abbiamo la prova e che abbiamo individuato il nostro nemico, dobbiamo trovare il modo di cacciarlo via. — Cacciamolo subito! — disse uno. — Ricordate che il mostro ha un becco uncinato e artigli potenti contro i quali nulla possono il nostro piccolo becco e la nostra forza, — avvisò Cipí. — Ma noi siamo tanti! — esclamò Chiccolaggiú con gli occhi stravolti. — Spargeremo dell'altro sangue! — ammonì Passerì. — Compagni, un'idea! — esclamò Cipí. — Sentiamo! — dissero i passeri stringendosi attorno a lui. — Il mostro ha bisogno di mangiare perché, come avete visto, non è vero che si nutre di ombre di comignoli; ebbene, noi dobbiamo fare un patto: nessuno deve piú incantarsi alle sue parole e nessuno degli altri passeri deve venire sul nostro tetto di notte, e se vorrà venire noi lo cacceremo a beccate! Cosí, preso dalla fame, il mostro se ne dovrà andare, se non vorrà morire nel buco. — È giusto! — disse Cippicippi, — ma bisogna essere tutti d'accordo. — Chi accetta la proposta venga con me, - disse Cipí volando sul grande albero. Tutti lo seguirono. Sul grande albero si stabilirono i turni delle sentinelle e cosí per una, due, tre, cinque, dieci notti, quando il signore della notte mandava fuori le stelline a dire: — Venite con noi nel regno della felicità, venite... venite... — nessuno l'ascoltava e guai a chi si avvicinava. La dodicesima notte, sfinito dalla fame e pieno di vergogna, il mostro dovette cedere: usci dal buco, prese il volo, spari silenzioso nella notte e da quella volta non lo videro mai piú.

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Quando avrai le piume andremo insieme a vedere tutto: la palla di fuoco, il nastro d'argento, la pianta... Uno dei fratellini aprì gli occhi e disse: — Noi a vedere giú ci andiamo quando siamo grandi. — E io, invece, ci vado subito! — gridò Cipí e sgusciò sotto l'ala della mamma, scavalcò il nido e scappò: ma il salto fu cosí lungo che andò a sbattere il becco contro il camino.

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Appena i fratelli di Cipí impararono a volare, mamma passera accompagnò i figlioli a vedere che cosa c'era intorno al palazzo sul quale erano nati. Prima andarono sull'alto susino dell'orto dove ogni sera prima di dormire i passeri del tetto si raccontavano i fatti della giornata. Per Cipí fu facile quel volo, ai fratelli invece batteva forte il cuore: ma tutto andò bene. Appena là, Cipí volò sulla cima della pianta e di là incominciò ad esplorare il mondo. — Mamí, vieni a vedere: che cosa c'è qui? che c'è là? — Ora andremo a vedere tutto, — rispose la mamma. E il volo proseguì. Appena entrarono nel grande albero fiorito, si posarono su un ramo e una vocina disse: — Ahi! mi fai male! — e subito un fiorellino si staccò e cadde a terra. — Addio! — sussurrarono gli altri fiorellini. — Chi sono, Mamí? — domandò Cipí. E la mamma: — Sono fiocchi bianchi che Palla di fuoco pian piano trasformerà in palline rosse e squisite. All'improvviso si sentí una musica leggera che vibrava lungo tutta la pianta. — Mamí, e questo che cos'è? — Le api. Cantano le canzoni ai fiorellini. In questi giorni c'è il loro festival, — rispose la mamma sorridendo. Stettero un po' in silenzio ad ascoltare il canto degli insetti e poi Mamí disse: — Via! - e spiccò il volo verso il nastro d'argento che luccicava in mezzo al verde riflettendo il cielo come uno specchio. Era una festa di colori e Cipí volava guardando giú incantato e diceva: — Che bello, Mamí! Guarda là, guarda lí! — Quando fu sopra al fiume gridò: — Mamí, laggiú c'è un altro come me. Chi è, Mamí? Chi è? — Giú, — comandò la mamma buttandosi in picchiata, — andiamo a vedere. Con uno scatto Cipí passò davanti a tutti. — Vola anche lui come me! — gridava mentre — precipitava. — Mamí, mi viene incontro! Ad un tratto, quando gli sembrò di poterlo toccare, patapunfete! l'argento andò in mille pezzi, l'uccellino sparì e Cipí si trovò nell'acqua fino al collo. Con un guizzo saltò fuori e, bagnato come un pulcino, riuscí a raggiungere la riva dove si scrollò l'acqua e si pettinò. Mamma passera, che si era fermata in tempo insieme con i fratelli, gli venne vicino e gli disse ridendo: — Un bagnetto fa sempre bene, ora lo faranno anche i tuoi fratelli insieme con me. E comandò: — Dentro anche voi!

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Il fiore, a quella brusca domanda, arrossì sulle punte dei petali, cercò di chiudere il viso nella corolla e con un filo di voce rispose: — Io... sono stata io... Cipí si mise a ridere: — Tu fai osservazioni a un uccello? Come ti chiami? — Mi chiamano... Margherí, — rispose aprendo un poco i petali per far sentire la voce. — E tu? — Io invece, mi chiamano... Cipí. — Non ti vedo mai da queste parti, — riprese Margherí con piú coraggio, — perché non vieni mai qui, tu che hai le ali? È un posto magnifico, sai: qui, nascosta fra l'erba, vedo Palla di fuoco in tutto il suo cammino e sento l'acqua raccontare storie di paesi lontani... Un posto piú bello di questo io credo che non c'è... — Sospirò e concluse: — Sono in mezzo a tante cose belle, eppure mi sento tanto sola... Da tanti giorni il vento si è dimenticato di me e l'unica carezza che ricevo è quella di una vecchia biscia che passa di qui quando va a caccia di ranocchie. — Che cos'è la biscia? — domandò Cipí incuriosito. — È una creatura senz'ali e senza zampe, lucida e liscia, che striscia silenziosa fra le erbe e fa una carezza lunga da me a te; ma non si ferma mai, carezza e va. Perché non vieni qualche volta a farmi compagnia?...— supplicò il piccolo fiore aprendo arditamente i petali. — Verrò, — promise Cipí, — ma ora devo andare: la mia mamma e i fratelli hanno finito il bagno. — Ciao Cipí, — sussurrò il fiore. — Arrivederci, Margherí! — disse l'uccellino spiccando il volo. Come risero i fratelli quando videro Cipí! Ma la mamma li fece tacere e disse: — Cari figlioli, ora che sapete già volare vi devo dire una cosa un po' triste: ognuno di voi dovrà, d'ora in poi, arrangiarsi da solo, cercarsi il cibo, trovarsi una brava compagna, farsi un bel nido e... diventare anche lui papà! La nostra legge vuole cosi! Ma badate! — esclamò. — Il mondo è pieno di pericoli. C'è l'animale coi baffi e con gli artigli invisibili che cammina senza far rumore e dorme con un occhio chiuso e uno aperto... e in fondo al buco nero c'è l'uomo e ci sarà da soffrire il freddo e la fame. — Io... io... — disse Cipí, — io, Mamí, ti verrò a trovare tutti i giorni! — Anch'io! Anch'io! — ripeterono gli altri. — Ora torniamo a casa, — disse la mamma. E Cipí: — Intanto che torniamo, facciamo le corse? — Via! — gridò la mamma, partendo come un razzo. E si buttarono a capofitto nel cielo limpido come un cristallo.

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. — Ora ti porto l'acqua, — rispose Cipí, — hai paura a star sola? Essa disse di no col capo. Allora Cipí usci dal cespuglio, si guardò attorno per rassicurarsi che non c'era piú pericolo, spiccò un lungo volo sopra i prati fioriti ed arrivò al fiume. Là c'era la margheritina, incantata a guardare nuvolette bianche che correvano per arrivare prima a farsi carezzare dalle cime dei pioppi. — Cipí, vieni a vedere le corse delle nuvolette! — Ora non posso, ho fretta! — rispose il passero calandosi giú a far provvista d'acqua. — Quando tornò su, il fiore lo salutò: — A rivederci presto! — Ciao, Margherí... ti racconterò... — disse Cipí in fretta, e tornò. Arrivato al cespuglio, rigurgitò goccia a goccia l'acqua nel becco della compagna assetata. — Grazie... tu sei tanto buono... — Niente ringraziamenti, — rispose Cipí, io son qui per aiutarti fin che sarai guarita. Hai fame? E benché la passeretta dicesse di no, Cipí le portò chicchi e piccoli insetti e l'imboccò con pazienza, proprio come la sua mamma aveva fatto con lui quand'era piccino. Intanto Palla di fuoco era cascato pian piano in braccio ai pioppi del fiume e men- tre essi gli cantavano la ninnananna, arrivò la notte: le stelle cominciarono ad accendere i lumini tremolanti e le lucciole di siepe in siepe arrivarono al cespuglio per fare un po' di luce ai due uccellini sperduti. Ma Cipí e la passeretta, rannicchiati sul fondo, non videro nulla: udirono invece di tanto in tanto il grido spaventoso che una civetta affamata lanciava sulla campagna muta. Cosí passò la notte. Al mattino, quando l'alba e l'aurora cominciavano a pitturare il mondo con vivaci colori, l'uccellino aprí gli occhi e sus- surrò: — Cipí, non abbandonarmi... l'ala mi fa ancora tanto male, ma voglio guarire, voglio tornare a volare... se mi stai vicino sento che ce la farò. — Non dubitare, Cipí non tradisce gli amici! — disse il passero. E si slanciò fuori dal cespuglio in cerca di cibo per sé e per la compagna.

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Altre volte, sospirando, chiedeva a Cipí: — Raccontami cosa vedi quando voli: il grande albero è ancora vestito di bianco? I prati hanno ancora tanti occhi colorati? — E Cipí, pazientemente, le spiegava che tutte le piante avevano ormai smesso l'abito nuziale e, infilato il verde grembiule di fatica, erano indaffarate a nutrire i frutti che crescevano un poco ogni giorno sotto la carezza del sole. — Palla di fuoco sta maturando certe palline rosa che saranno una bontà... — le diceva. E lei: — Chissà se un giorno potrò uscire da questo nascondiglio e salire incontro a lui! Ho gran voglia di scaldarmi al suo fuoco, di vedere i colori... vero, Cipí, che sono magnifici i colori? Piú di tutti a me piace l'argento del nastro serpeggiante, e a te? — A me il giallo dei chicchi di granoturco. — E mi piacciono i mille occhi violetti di una piantina che vive sola in un cortiletto. E a te cosa piace ancora? — Il rosso delle palline del grande albero! — Potrò vederli ancora i colori, Cipí? - supplicava la passeretta disperata. — Certo che li vedrai, — spiegava Cipí. Una volta le disse: — Se vorrai... ti accompagnerò io, quando sarai guarita, a vederli... però se vorrai...! — Come sei buono! — esclamò la passeretta, — non dimenticherò quello che hai fatto per me tu che sei il piú bello e il piú generoso di tutti gli uccelli! — Dunque verrai? — Certo che verrò! — E poi, se vorrai... — continuò Cipí, — mi piacerebbe giocare con te, qualche volta. — Qualche volta, dici? Io con te verrò sempre a giocare, se ti farà piacere! Io so cento giochi, e tu? — Io so appena fare le corse! Dopo questa risposta, Cipí stette un pezzo a pensare, ad un tratto si fece coraggio e chiamò: — Passerí...! sai? Credo che sarei capace di fare un'altra cosa.., se vorrai... — Un gioco? — Piú bello, piú bello! — Piú bello di un gioco che cosa c'è? — Insieme... io e te... vuoi che la facciamo una casetta di piume... un nido, insomma! Uffa, non capisci? A queste parole la passeretta non rispose: si avvicinò a Cipí e con la punta del becco lo baciò sulla testolina. — Perché no? — esclamò ridendo. E per la prima volta da quando era stata ferita senti la felicità nel cuore. — Voglio guarire! — gridò.

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In pochi giorni cominciò a muovere l'ala, a uscire dal cespuglio, a fare i primi voli. Salita su un piccolo gelso apri le ali, gonfiò le piume e si fece scaldare dalle carezze di Palla di fuoco che faceva ormai ribollire la terra. Un chiaro mattino la passeretta disse a Cipí: — Sono guarita! Ho una voglia matta di giocare! Vieni? — Via! — gridò Cipí, e si lanciarono tutti e due nel cielo gridando di felicità. Che corse pazze quei giorni! Dal grande albero dalle palline rosse al nastro d'argento, dalla cima della collina alle nuvolette rosa, dalla bandierina della torre all'erba dei prati, li portava l'irresistibile desiderio di volare, di giocare, di vivere finalmente liberi. Quando Mamí li vide, esclamò: — Che matti! Dio li fa e poi li accoppia! Qualche volta, a sera, ansanti s'accorgevano... di non aver mangiato. — Che importa? — gridava Cipí. — Mangeremo domani! — sospirava Passerí. — E si addormentavano stanchi e felici dove capitava: sotto una tegola o sul fieno o sotto le stelle, l'uno accanto all'altra, cosí vicini che il battito dei due cuori pareva un battito solo. Un giorno però decisero: — Adesso basta giocare, ci mettiamo al lavoro e facciamo la nostra casetta. — Parola di Cipí! — disse lui. — Parola di Passerì! — disse lei. E si misero a cercare un posto quieto e sicuro. — Sarebbe bello in riva al nastro d'argento, vicino agli occhi colorati dei prati! — sospirò la passeretta. — Sarebbe bello... ma l'uomo ci porterebbe via i piccoli! — osservò Cipí. — E sulla vetta di quella pianta alta e snella che dondola ad ogni carezza di vento? — Cullarsi al vento è bello, — rispose Cipí, ma i nostri figli non saranno sicuri. — E sul grande albero dalle palline rosse? — Troppo chiasso! — Io vorrei un posto da cui si vedesse sempre Palla di fuoco, — disse Passeri, impaziente di cominciare. Cerca e cerca finalmente trovarono: sul palazzo dove Cipí era nato, proprio sullo spigolo del tetto opposto c'era una tegola libera: da lí si vedeva Palla di fuoco dal mattino alla sera, quando calava stanco al di là del nastro d'argento su una strisciolina verde cosí vicina all'acqua che se fosse stato un po' distratto qualche volta ci sarebbe cascato dentro. — Qui faremo la nostra casa, — dissero, e si misero subito al lavoro.

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— ripeté Cipí incuriosito; stava per uscire quando i due venti si scagliarono l'uno contro l'altro, menando frustate a destra e a sinistra. Cipí, colpito da una frustata che gli scompigliò le piume, batté la testa contro la tegola. — Vieni dentro! — gli raccomandò Passerí, — e stiamo quieti. Ma cosa fanno? — Litigano, non senti? — Ma perché? — Non lo so. Ora si udiva, confuso ai sibili delle frustate, il brontolio di qualcuno molto arrabbiato che s'avvicinava a grandi passi facendo traballare il cielo. Le stelle, che avevano appena acceso il loro lumicino, senza fiatare lo spensero, si chiusero in casa e andarono a letto tremando. «Usciremo un'altra sera», pensarono. Solo una, in un angolino, non si decideva a ritirarsi: ma un nuvolone accese all'improvviso un suo potente fiammifero: tutto il cielo per un attimo ne fu illuminato. Allora anche l'ultima stella spense il lume e andò a letto. Che notte! Il nuvolone brontolava: — Dove sono i nemici? Buuumm. Se li trovo li accomodo io! Buuumm —. E accendeva un altro fiammifero per scovarli. Cipí osservava meravigliato e tremante. Il cielo era un campo di battaglia: ad ogni lampo si vedevano sempre nuovi combattimenti: svelte nuvole che scivolavano le une sopra le altre, nuvoloni neri che si guardavano minacciosi pronti a saltarsi addosso. Per tutta la notte si radunarono sonando trombe e tromboni ed al mattino si lanciarono all'assalto. — Passerì, guarda, trottano come cavalli! - gridò Cipí indicando nuvole nere che in groppa al vento del mare assalivano il nuvolone venuto dalla collina.

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Qualche volta, quando il sonno tardava a venire, ascoltava i rumori della notte: ogni sera, chissà perché, le coppe di bronzo della torre si mettevano a litigare facendo un chiasso tremendo che correva per la campagna e faceva tremare le uova sotto il corpo di Passerì. — Fortuna che il nido è molleggiato con la neve dei pioppi, — essa diceva, — se no le uova andrebbero a pezzi! Il guaio era che a sentir quelle, anche le altre coppe di bronzo dei dintorni saltavan su a brontolare; dopo un po' però il chiasso cessava e la notte ritornava calma. I figli di Cipí ruppero il guscio un mattino di settembre, mentre le rondini, lí vicino, parlavano della prossima partenza. — Zitte! — gridò Passerì a tutte quante. Allora le rondinelle si fecero attorno al nido e la passeretta alzò le ali. Erano nati tutti e tre! Cipí saltò al collo di Passerì, l'abbracciò stretta e sparì. Di buco in buco, di tetto in tetto, di pianta in pianta, come aveva fatto la sua mamma quando era nato lui, gridò la sua felicità: — Tre! — diceva. — Tre! Sono tre! Non gli uscivano altre parole, ma gli uccelli capivano cos'era accaduto. Fatto il giro del paese, si ricordò di Margherí che gli aveva raccomandato di andare a raccontarle le belle notizie della sua vita, allora puntò verso il nastro d'argento e calò sul prato. Ma la margheritina non c'era piú perché l'uomo era appena passato col ferro tagliente e aveva reciso tutti gli steli, che allineati sul prato morivano a poco a poco. — Margherí! — chiamò cercandola in lungo e in largo. Una vocina soffocata sospirò: — Cipí!... - Questa è la sua voce! — disse, cominciando a buttare all'aria con furiosi colpi di becco l'erba ammucchiata dalla falce. — Dove sei, Margherí? Dove sei? — ripeteva. — Son qui... — sospirò il fiore. Cipí frugò ancora fra gli steli, finché la trovò, ormai morente, con la bella testolina schiacciata contro la terra. — Oh, Cipí... hai fatto bene a venire... — disse appena fu liberata, rivolgendo al sole, con un estremo sforzo, i delicati petali bianchi. Cipí l'afferrò col becco e la trasse fuori: — Io ti porto via, a vedere i miei piccini... sono tre, meravigliosi! — Lasciami, ti prego, mio caro Cipí... ormai è finita... — sospirò, — lasciami morire qui, fra gli steli che furono i fedeli compagni della mia vita... Allora Cipí la depose delicatamente sull'erba falciata, con la corolla al sole. Con un filo di voce, la margheritina continuò: — Sono felice che tu sia papà... bravo Cipí... insegna loro ad amare le cose care e belle... salutami il sole e il vento... ah, come è breve la vita... — Riprese fiato un poco e poi sussurrò: — Ricordati sempre di Margherí... — e reclinata la testolina, spirò. In quell'istante una bianca nuvoletta amica della margherita corse davanti al sole a dirgli, lagrimando, che il fiorellino che tanto l'amava era spirato e per un momento il prato restò in ombra, come parato a lutto. E fu cosí che anche il vento lo venne a sapere: allora fermò la carezza che tanto piaceva a Margherí, e l'acqua del nastro d'argento che aveva raccontato al simpatico fiorellino tante storie di paesi lontani, passò in punta di piedi, facendo cenno alle ranocchie di tacere. Cipí s'alzò verso uno stormo di rondini che arrivavano e le avverti: — È morta Margherí, il fiorellino poeta...! Gli uccelli fecero larghi giri silenziosi sul prato fin che Palla di fuoco a poco a poco, con la faccia rossa di pianto, si coricò nel suo letto nebbioso. Tornato accanto ai suoi piccoli che già lo chiamavano papà, Cipí non sapeva se ridere o piangere, perché era tanto contento, ma anche tanto triste. — Povera Margherí, — sussurrò alla passeretta, — è morta proprio oggi che sono diventato papà...

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— gridarono le altre, — le nostre gocciolane si stringono per il freddo intorno ai granelli di pulviscolo e giocano a fare le stelline bianche. — Da me una stellina si è staccata e vola giú come un paracadute! — gridò il nuvolone. Un fiocco bianco danzava infatti leggero nel cielo gelido e diceva: — Sorelle goccioline, io volo, addio! Perché non diventate anche voi farfalline bianche e leggere? Perché non venite con me? — A che fare? — A trasformare i giardini spogli in ricami, le piante e le erbe in pizzi...! — Veniamo... veniamo anche noi! — esclamarono alcune goccioline e la danza incominciò. In poco tempo da ogni nuvola incominciarono a staccarsi sempre piú numerose lievi farfallette bianche che si lasciavano cadere lentamente, volando verso la terra. Ogni nuvola pigra e scura si trasformò in milioni di farfallette volteggianti, ed era un bel gioco e taluna diceva: — Io voglio adagiarmi su quella pianta solitaria! — e un'altra: — Io voglio fare l'equilibrista sul filo! Primi a vedere le farfallette bianche furono i figli di Cipí che giocavano a contare le nuvole; gridando di gioia si lanciarono in volo per acchiapparle. Ma i passeri anziani li ammonirono: — Fra poco, quando le farfalle avranno coperto la terra, non riderete più! — Perché? — domandarono i passeretti. — Perché avrete fame. E fu proprio cosí; dapprima le farfalle erano rade e trovavano tutte un posto sulla terra, poi divennero più fitte e larghe e quando la terra fu coperta si accumularono le une sulle altre. In poco tempo tetti, campi, alberi, siepi e cortili furono coperti di farfalle bianche e i passeri, smarriti e affamati, volavano dal tetto alla campagna in cerca di qualche chicco: raspavano, raspavano, ma non trovavano niente. Il primo giorno nessuno riuscí a farsi il gozzo e i passeretti pigolavano: — Ho fame! Ho fame! Cipí disse: — Amici, bisogna far qualcosa per questi passeretti, dobbiamo aiutarli; se qualcuno di noi trova cibo deve avvisarli: d'accordo? — D'accordo! — risposero i passeri e partirono in cerca di cibo. Cipí esplorò la riva del nastro d'argento, dove un tempo aveva conosciuto Margherí: tutto era sepolto sotto un manto soffice e impenetrabile di farfallette sulle quali, stanche di vagabondare, ne calavano sempre di nuove. Cipí frugò sotto la sponda, vicino all'acqua, in su e in giú: niente. Intanto le farfallette volteggiavano e cadevano sempre più fitte e i passeri avevano sempre piú fame.

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Ho voluto aspettare a scendere ed ora nessuno gioca con me! Cipí e Passerì si abbracciarono dalla gioia e andarono a svegliare gli altri, poi insieme fecero un giro esplorativo sulla campagna che, se non fosse stato per la fame che stringeva lo stomaco, a guardarla sarebbe stato uno spettacolo meraviglioso: gli alberi avevano una bianca parrucca, i prati dormivano sotto lenzuola ricamate, certi comignoli avevano messo una ridicola cuffia da notte e i pali avevano un cappellino bianco. Solo le facce delle case erano, chi sa perché, scure e imbronciate. Poco dopo Chiccolaggiú lanciò un altissimo grido: — Cibo! — E via tutti dietro a lei. In mezzo a un cortile c'era un boccone giallo che pareva dire: son qui per voi, non scendete? — L'ho visto prima io... è mio! — disse Chiccolaggiú planando sul cortile. Ma Cipí la fermò: — Un momento! Pericolo! A quell'avvertimento tutti, compresa Chiccolaggiú, volarono sul tetto del porticato e si misero a discutere. — «Lui» non c'è, la sua casa è lontana, - esclamò Chiccolaggiú. — Ma ci sono le sue impronte, guarda! - osservò Cipí. Tutti allora distolsero lo sguardo dal boccone e osservarono perplessi le orme dell'uomo. — Ieri, il boccone c'era? — domandò Cipí. — No, — rispose una passeretta. — Amici, qui c'è pericolo, — esclamò allora Cipí. — Meglio andar via. — Un boccone cosí bello e grosso! - esclamarono alcuni con l'acquolina nel becco. — Il boccone è mio ed io vado a mangiarlo! — soggiunse Chiccolaggiú. Cosí dicendo spiccò il volo e scese accanto al boccone, ma Cipí l'insegui e quando le fu vicino le disse: — Se l'uomo ha portato sin qui il boccone, il pericolo ci deve essere. Sta' attenta! — Ma io muoio di fame! — Sii forte, Chiccolaggiú... guarda... osserva bene... non vedi che il boccone sta ritto sulla punta? — È vero! — osservò la passera meravigliata. — Guarda, guarda... il boccone è infilato! — scoprí Cipí. — E le farfallette sono state levate e rimesse... vieni via Chiccolaggiú... troveremo

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Il giorno seguente cominciò a interrogare gli uccelli del tetto. — Lo sai tu chi c'è là dentro? — chiese a Piumaleggera. — Quella è la casa del signore della notte, — rispose la passera. — E chi è questo signore della notte? — E il protettore degli infelici, conforta chi ha una pena, aiuta chi ha bisogno. — Io vorrei sapere perché ha il becco tagliente se lui mangia le ombre dei comignoli e beve il tremolio delle stelle! — domandò Cipí a un vecchio passero. — Non temere per questo, — consigliò il vecchio passero, — vivi felice con la tua passeretta e lascialo in pace: è un tipo strano che racconta storielle a chi è nei guai, ma credo che non faccia male a nessuno. — Quel tipo non mi piace affatto! — brontolò Cipí. — Perché di giorno non si fa mai vedere? E se non mangia come noi perché ha il becco appuntito? Io dico che lí sotto ci sta un mistero... e se c'è, presto o tardi lo scoprirò! E se ne andò da Beccodolce. Beccodolce era molto triste, e disse perché: — Da tre giorni il piú buono dei miei ultimi figli è partito da casa e non l'ho piú visto. Era andato a conversare, sul far della sera, con due stelline che l'avevano invitato sopra i tetti, e non è piú tornato... «Sul far della sera? Due stelline? E non è piú tornato?» ripeteva Cipí preso dal dubbio. E subito domandò: — Conosci il signore della notte? — Sí, — rispose quella, — ci sono andata subito da lui... — E lui che cosa ti ha detto? — Mi ha detto che i figlioli spesso lasciano la famiglia per andare in cerca della felicità, e non tornano più... Mi ha detto tante parole belle per farmi coraggio, ma il mio cuore è a pezzi e non so darmi pace. «In cerca della felicità? » brontolò Cipí sbirciando il buco di quel signore. E via di corsa da Chiccolaggiú. — A te non sono mai scappati dei figlioli? — le chiese Cipí a bruciapelo. — A me non capiterà mai! — esclamò Chiccolaggiú, e alzando il ciuffo con un gesto minaccioso, aggiunse: — Guai se tentassero! Lo so che da un po' di tempo sul nostro tetto c'è la moda di scappar da casa... ma ci provino i miei figli! Cipí, incuriosito, chiese: — Dagli altri tetti i passeretti fuggono? — Uno del bosco m'ha detto che là nessuno se ne va. «O bella... — pensò Cipí, — questa cosa è davvero misteriosa». E poi domandò: — Tu, il signore della notte, lo conosci? Chiccolaggiú scoppiò in una risata. — Alla larga da chi vive nell'ombra, — disse. Poco dopo il passero poliziotto era da Cippicippi. — Quanti figli hai messo al mondo tu? — le domandò Cipí. — Tre dozzine, — rispose la passera, ma subito si rattristò e soggiunse: — Due me li ha fatti fuori quel criminale di animale baffuto, altri sei sono partiti senza piú far ritorno. — Sul far della sera? — Sí. — Erano andati a parlare con le stelline? — Sí, ma tu, come lo sai? Cipí non rispose: d'un balzo tornò sotto la sua tegola e disse alla sua compagna: — Sai Passerì? Ci sono passeretti che vanno a parlare con le stelline e non tornano piú. Su questo tetto c'è un mistero che bisogna scoprire, e se tu mi aiuterai... Ma la parola gli mori in gola perché davanti ai suoi occhi apparve uno spettacolo meraviglioso.

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Due stelle calate in quel momento dal cielo si erano fermate di fronte a Cipí ed avevano cominciato a giocare fra loro, roteando e diffondendo tutt'intorno bagliori accecanti. A un certo punto la loro luce si fece rossa come il fuoco e sprizzando scintille azzurre, una stellina con voce gentile si mise a parlare cosí: — Cari uccellini, perché quando arriva la meravigliosa notte scappate sempre nei rifugi a dormire? Subito l'altra stellina sprizzò scintille verdi e continuò: — La notte è incantevole: passa la luna regina del cielo e noi stelline le facciamo ala riverenti come tante damigelle di corte. Perché la fuggite? Appena questa voce tacque, l'altra incominciò: — Noi siamo venute dal cielo per portarvi nel paese della felicità senza fine. Non abbiate paura delle ombre... fissate la nostra luce e venite... fissate la nostra luce e venite... venite... Cipí, che sino a quel momento era rimasto senza fiato, sussurrò a Passeri: — Vieni a vedere, Passerì... due stelle del cielo sono calate sul tetto e parlano... La passeretta, incuriosita, si fece accanto a Cipí. Le luci delle due stelle intanto non si stancavano di invitare: — Ogni sera, appena Palla di fuoco è scomparso, noi verremo a conversare con voi, gentili passeretti... Fissate la nostra luce e venite senza paura... fissate la luce e venite... Passerì fu percorsa da un brivido, si strinse a Cipí e sussurrò: — Ho paura, Cipí, tanta paura... — Paura di due stelline discese dal cielo? — No, Cipí, — esclamò la passeretta tremando tutta, — quelle non sono due stelline... quelli sono occhi parlanti... non vedi che dietro a loro c'è un'ombra nera? È lui! A quelle parole Cipí fece un salto indietro: — È lui! si, è vero... quella è la testa... quello è il becco uncinato... uh, che unghioni ha! Allora in silenzio si ritirarono sotto la tegola e da una fessura dalla quale potevano vedere senza essere visti, osservarono la scena. — Fissate la nostra luce e venite senza paura... noi vi porteremo dove c'è la felicità — ripetevano gli occhi parlanti senza stancarsi mai. A quel punto si senti sui tetti uno zampettío leggero: due uccellini si avvicinavano incantati alle luci che continuavano a ripetere: — Avanti, cari uccellini, non abbiate timore, noi vi portiamo nel regno della felicità senza fine... — Li conosci? — chiese Cipí alla compagna. Le due luci mandavano ora bagliori vivissimi ed era facile riconoscere tutt'intorno le cose. — Uno è figlio di Cippicippi e l'altro mi pare il figlio di Chiccolaggiú. — Avvertiamoli! — disse Cipí. Ma non fece a tempo ad aprir becco perché i due uccellini in quell'istante spiccarono il volo verso le luci e quando arrivarono là, il signore della notte li afferrò con gli unghioni, spense le luci e la notte tornò buia e silenziosa come prima. Dove c'erano le stelline restò, vuoto e nero come una tomba, il buco del signore della notte: degli uccellini nessuna traccia. — Mascalzone! — esclamò Cipí. — Altro che nutrirsi di ombre di comignoli! — È incredibile... è una cosa incredibile... - ripeteva sbalordita Passerì. — Ora che il mistero è svelato ho paura, tanta paura che lui ci faccia del male. Ucciderà i nostri figli? — Per i nostri figli e per tutti dobbiamo fare qualcosa, — concluse Cipí. E tutta la notte pensarono che cosa avrebbero potuto fare.

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Io chiamai Passeri e lei, appena si affacciò, si accorse che dietro a quelle luci colorate, c'era un'ombra nera. — È vero, — disse Passerì. E Cipí: — In quell'istante sentimmo zampettare e fu ancora Passeri a riconoscere i figlioli di Chiccolaggiú e di Cippicippi che, ormai incantati dalle parole, andavano verso le luci. Volevamo avvertirli ma non ne avemmo il tempo perché i due uccelli spiccarono improvvisamente il volo verso gli occhi del mostro, il quale li afferrò e li uccise... A quelle parole sali al cielo un altissimo grido di Chiccolaggiú che, perduta ogni speranza di ritrovare il figliolo, sfogava il suo dolore. — Le luci si spensero, — terminò Cipí, — il mostro ritornò nel buco e la notte tornò tranquilla come prima. Amici, questo io non ve l'ho detto per darvi un dolore, ma perché voglio che nessuno piú fugga da casa. Stiamo in guardia, amici! E facciamo qualche cosa! — Anche l'altro figlio m'aveva detto che aveva un appuntamento, — gemeva Cippicippi, — non ci si può fidare piú nemmeno delle stelle... — Ma non erano stelle, Cippicippi, erano gli occhi di quella canaglia! — spiegò il solito passero dalla cima dell'albero. — Allora spiegatemi, — disse Cippicippi, — perché le altre volte quando sono andata da lui, i suoi occhi luminosi mi dissero parole buone, le sole parole buone che diedero un po' di pace al mio cuore? Se è un assassino, perché non uccide anche me? — È vero! — dissero a destra. — Ti rispetta perché tu sei una mamma, - si gridò a sinistra, — e gli procuri il cibo! Un passero vecchio del tetto, già tutto spelacchiato dal tempo, disse: — Io ho sempre sentito parlar bene di lui, non sarà questa testa calda di Cipí a cambiare il mondo! — Viva Cipí! — gridarono alcuni passeri. — Abbasso Cipí. È un bugiardo! Viva il signore della notte! — risposero altri. A morte! — Calma! Calma! Sul grande albero si scatenò in breve una tremenda confusione: passeri che credevano a Cipí e altri che credevano al signore della notte cominciarono a offendersi e a calunniarsi e Cipí non riusciva a calmarli: dalle parole passarono alle beccate e ci fu qualcuno che nella rissa perdette alcune piume. — Fate la pace! Basta, — supplicava Cipí, ma nessuno l'ascoltava. Col cuore spezzato si ritirò sul carabiniere di sinistra seguito dai pochi passeri che gli avevano creduto e da lí osservò quelli rimasti; alcuni lo guardavano con occhio torvo e fra essi c'erano tante madri, compresa Chiccolaggiú che, con la testa fra le ali, singhiozzava cosí forte da far sussultare il ramo.

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. — Però potevano fare a meno di dire che sono un bugiardo! Io ho detto la verità per il bene di tutti! — Sii calmo, Cipí, vedrai che la verità presto o tardi viene sempre a galla... piuttosto diamoci da fare per cercare delle prove! — Viva le cose giuste! Via gli imbroglioni dal nostro tetto! — esclamò Cipí. E cominciò subito a insegnare ai suoi figlioli le storie vere della sua vita che li facevano restare a becco aperto. Narrava che cosa accade a chi precipita nel buco nero della torre fumante e a chi fugge dal tetto quando c'è la guerra dei nuvoloni, narrava che l'animale baffuto finge di dormire ed ha gli artigli affilati (e mostrava il didietro ancora graffiato); insegnava a stare alla larga dall'uomo, specie quando ha fra le mani la canna lucente (e mostrava le cicatrici di Passerí); diceva che le stelle del cielo non vengono a giocare sul tetto coi passeretti (e mostrava il buco dicendo: là c'è l'orco dal becco uncinato che ammazza chi si incanta!). Però raccontava anche le storie belle delle cose del mondo: i vestiti colorati che gli alberi mettono in primavera, il festival delle api, la vita e la morte di Margherí e le altre incantevoli storie della vita. Poi li portò a visitare i posti dove gli altri passeri facevano i nidi e cosí parlava con tutti: con quelli degli altri tetti, con quelli del giardino, con quelli della torre, e a tutti chiedeva: — Scappano di casa i vostri passeretti? — Scappare? Cosa vuoi dire? — gli rispondevano. — Qui da voi c'è un signore della notte? — Chi è? — domandavano. — Felici voi che non lo conoscete! — gridava Cipí. Un giorno capitò sui tetti di un castello antico. — Scappano di casa qui? — Ahimè, siamo disperate! — gridarono alcune mamme. — Tutti i giorni se non è uno, sono due che se ne vanno. — Tutti i giorni? Vorrete dire tutte le notti! — precisò Cipí. — È vero, spariscono di notte. Ma tu come lo sai? — Ditemi continuò Cipí— c'è vicino a voi un signore della notte? — Ne abbiamo due, — risposero le mamme, perché la nostra famiglia è grande ed uno non basterebbe a consolare le povere madri disperate! Cipí si arrabbiò, ma poi, ricordando le parole di Passeri. (bisogna portare le prove), si calmò. Intanto le mamme lo supplicavano: — Se sai dove sono andati i nostri figli, dillo! Non farci stare in pena! — I vostri figli vanno a finire nella pancia dei signori della notte! — gridò e le lasciò là con tanto d'occhi per la sorpresa. Mentre tornavano una voce li chiamò: — Ehi, voi! Cipí e i figlioli si voltarono e si trovarono accanto un passero arrabbiato che disse a Cipí: — Io sono del castello antico. Mi hanno detto che sei venuto là a dir male di chi ci protegge! — Anch'io prima credevo che i signori della notte fossero amici, e poi ho scoperto che uccidono i passeretti che credono nell'incantesimo! — rispose Cipí. Quel passero allora si buttò con impeto su Cipí e con un colpo di becco gli strappò alcune piume: — Toh, bugiardo! — gridò. — E guai se lo dici ancora! Cipí, attaccato all'improvviso sbandò, ma subito riprese il volo diritto e rispose: — E la verità! Ma quello, picchiando come una furia gli diede un'altra beccata e stavolta gli fece sanguinare il capo. — Smettila... torna a casa se no... — ammonì Cipí. — Provati! — urlò minaccioso quell'uccello slanciandosi col becco aperto su Cipí. Ma questa volta Cipí non si lasciò sorprendere: con una finta evitò l'attacco, si alzò di scatto, piombò come una saetta sull'avversario e lo beccò: — Vattene! — gli gridò. Quello, irato, si gettò a becco aperto su Cipí. Ma ancora una volta Cipí riuscí a schivarlo, ad alzarsi, a piombare in picchiata e a dargli un'altra beccata sul dorso. E cosí cominciò una furibonda lotta che i tre piccoli seguivano da lontano, timorosi di vedere da un momento all'altro il papà cadere morto. Poco dopo invece si vide il passero prepotente, con le piume scompigliate, fuggire gridando: — Basta! Basta! Mi arrendo! Cipí lo lasciò andare e quello se ne fuggí scornato e rabbioso verso il castello antico. I figlioli fecero festa a Cipí e a casa raccontarono a Passerì la splendida vittoria di papà. Ma Cipí era molto triste. Disse: — Poveretto... ora odierà me e non capirà piú chi è il suo nemico... Una passera chiacchierona che aveva visto la lotta da lontano, andò da Cippicippi e dalle altre mamme a raccontare l'accaduto e diceva: — Quel Cipí non mi piace. Oltre che bugiardo s'è fatto anche prepotente. Ha picchiato uno del castello antico che non gli aveva fatto niente, poverino! Da quando gli è venuta la mania contro il signore della notte è proprio diventato cattivo! Le idee moderne lo hanno rovinato!

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Lo stralisco

208606
Piumini, Roberto 32 occorrenze
  • 1995
  • Einaudi
  • Torino
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Nell'anno 1456, oltre a innumerevoli eventi che, seppure poco contassero, non lasciarono il mondo tale e quale (giacché non solo non cade foglia che Dio non voglia, ma non s'alza ciglio senza scompiglio, e non salta rana senza far frana), accadde a Prato il fatto che vogliamo raccontare. In quell'anno Filippo Lippi, frate ormai di non bianchissima fama, avendo sfogliato piú sottogonne e colletti di donne che torni di scolastica, però pittore apprezzato e voluto, fu chiamato al monastero di Santa Margherita in quella città, a dipingere sopra l'altare maggiore una Madonna e Angeli, e in altre case e chiese per altri lavori. Nato nel 1406, come si calcola facilmente, aveva Filippo allora la tonda età di cinquant'anni, creduta meno adatta a cose forti e nuove di quella di quaranta, di trenta: e dei venti non parliamo. Ma pare poi che ciò sia vero per coloro appunto che stanno a contarsi gli anni addosso, a calcolare passi, passaggi, cedimenti: mentre chi, giorno dopo giorno, anno per anno, allunga con semplice lena la mano ai frutti, può arrivare senza ceder gioia ed appetito a cinquanta, a sessanta e chissà quanti ancora: fino a che la pietà di Dio, annoiata del suo lieto peccare, lo toglie dal mondo alla buon'ora... A cinquant'anni, dunque, si muoveva Filippo in avere e levar voglie come un danzatore provetto: e non si pensi che fosse vocazione tardiva, o desiderio e gioco avessero premuto a lungo sotto la tonaca prima di far pollone, ché da sempre Filippo fu galante: e si ricorda che, lui frate fresco ma già buonissimo pittore, avendogli ordinato Cosimo de' Medici un'opera a casa sua e vedendolo con l'occhio e la mente e il corpo persi dietro una donna, trascorrere piú ore alla cantonata a veder se passava, guardarla passare, fare che ripassasse, dirle parole, piú che a condurre il pennello secondo buona ragione, e credendo quel fiero signore gli si dovesse piú che ad altri rispetto e servizio, fece chiudere il pittore in casa, perché non perdesse il tempo di fuori. Il primo giorno di quella prigionia, si dice, Filippo chiamò aiuto: ma le orecchie nei dintorni erano, per volere di chi poteva, piú sorde e fasciate che a quei fuggenti da Gavinana su per Appennino, con dietro a canaio la caccia maramalda. Il secondo giorno Filippo fece silenzio, ma non per far pittura. Seguendo il modo, non celebre allora, degli evasi, tagliò a strisce un paio di lenzuoli, ne fece corda torta e si calò dalla finestra, e divenne uccel di bosco in città: e Cosimo, si racconta, dapprima lo fece cercare con cattive intenzioni, poi, volendo finita la pittura da quella mano, gli mandò voci a dire che liberamente tornasse, e per la porta aperta entrasse e uscisse a piacere, giacché lui aveva capito che gli ingegni sono forme celesti, e non ciuchi alla macina.

Letteratura 303 Dello stesso autore nel catalogo Einaudi Tre d'amore La rosa di Brod Roberto Piumini Lo stralisco Il ritratto segreto Filippo a Prato Einaudi © 1995 Giulio Einaudi editore s. p. a., Torino per Lo stralisco 1987 e 1995 Prima edizione «Libri per ragazzi» 1987 ISBN 88-06-13869-3

A prua, con la faccia magra dritta a Sud-Est, sedeva l'unico non marinaio di bordo: il veneziano Gentile Bellini. A tre giorni dalla partenza, ormai a Sud delle isole dalmate, non aveva rinunciato a salire sul ponte prima dell'alba per godersi ogni istante degli eventi di luce che trasformano, sul mare, la notte in giorno. Con curioso rispetto i marinai della Santo Paolo spiavano da poppa la sua concentrazione silenziosa, e si scambiavano smorfie di timido scherno, che non diventavano mai parola. Domenico Cavino, il comandante, aveva detto che quell'uomo andava a Costantinopoli per volere della Serenissima, con un incarico importante. Si sapeva che era un pittore: forse andava dunque a dipingere: ma nessuno sapeva cosa, e per chi, e nessuno chiedeva. A parte quella muta ammirazione del mattino, d'altronde, Gentile Bellini non si mostrava appartato o scostante con l'equipaggio: parlando anzi la loro stessa frettolosa lingua di canale, scherzava durante le manovre e la pesca, dava l'aiuto che poteva e qualche volta, benché disponesse di un piccolo alloggio a poppa, vicino a quello del comandante, mangiava con i marinai sul ponte, comportandosi, nella quieta allegria del pasto, da buon compagno di viaggio. Ora Gentile non guardava piú il sole: ancora basso sull'orizzonte, abbagliava tuttavia, e feriva gli occhi. Vagava il pittore con lo sguardo fra le progressive fasce di splendore che, sopra e sotto, allargavano la doppia immensità del mare e del cielo. Chissà da dove e quando spuntati, quattro gabbiani facevano strilli attorno al bordo alto della vela, pronti a tuffarsi sugli scarti di pesce che i marinai lanciavano in acqua: erano troppo rumorosi e vistosi per non distrarre Gentile dalla sua lontana contemplazione. Il suo sguardo passò dallo spazio a loro, e da loro al ponte della nave, adattandosi alla prossimità delle cose. Incontrò cosí lo sguardo di Marco, il mozzo della Santo Paolo, meno svelto degli altri a fingere di guardare altrove. Il pittore sorrise, e il ragazzo, incerto, con un sorriso gli rispose. — Che pesci sono? — disse Gentile a voce alta, scendendo il basso scalino da prua al centro del ponte, e avvicinandosi ai tre marinai, seduti al parapetto sinistro. — Lampughe, padron Bellini! — disse il piú vecchio, che si chiamava Volpe da Torcello. — E sono buoni? — Buoni per un marinaio, discreti per un capitano: ma il Doge li sputa! — disse Jacopo, cui toccava, nella gerarchia di bordo, di parlare per secondo: il burlone della barca. Tutti risero, anche il timoniere, lontano quattro passi dal gruppetto. Gentile, come spesso faceva, si fregò la corta barba appena ingrigita. — Per i gabbiani, sono buonissimi! — disse il mozzo, indicando il cielo con una smorfia, con voce strozzata. — Ma non sai che non sentono i sapori? — lo canzonò Volpe, che come marinaio anziano aveva il compito ufficioso di mortificare il ragazzo. Marco non rispose, e abbassò la faccia sul ventre biancastro e sfilacciato della sua Lampuga. — Questa non la so, Volpe! — disse Gentile, sedendo vicino al vecchio. — Come puoi dirlo? — Padron Bellini, è cosa che si dice, anche se non è scritta sui Vangeli, — disse Volpe da Torcello, voltando a metà la testa verso il pittore. — Il fatto è che i gabbiani hanno il becco duro, e la lingua troppo piccola per sentire i sapori, che sono tanti... — Forse è cosí, — disse Gentile. — Però, la pupilla di un occhio è anche più piccola di una lingua di gabbiano: e guarda quanti colori possiamo vedere! Spalancando la bocca, i tre sospesero la pulizia del pesce. Poi, a partire da Volpe, scoppiò una risata: e quella di Marco fu la piú sonora. — Vedi, sputacchio, quante cose si sanno a leggere i libri? — sbraitò sul mozzo Volpe, riprendendo il gioco crudele della persecuzione.

Kama Katuray aveva infatti subito riferito che Maometto concedeva a lui la scelta dell'abbigliamento: Il pittore, stordito dall'abbondanza e dalla magnificenza delle stoffe, dei turbanti e dei monili, aveva alla fine indicato un'ampia veste color rosso sanguigno, ornata da un enorme colletto bruno, della stessa tinta della barba del Sultano. Un gonfio turbante di seta bianca con calotta rossa completava la scelta: Gentile progettava di ritrarre Maometto all'interno di una specie di finestra ad arco tondo decorata, sul cui davanzale fosse appoggiato un ricchissimo tappeto trapunto di gioielli: come se fasto e ricchezza, restando in primo piano, liberassero nella figura, non piú ornata di quella di un facoltoso mercante, la natura dell'anima e dello sguardo. Solo un'ora, dunque, Gentile poté studiare la figura dell'Imperatore, scegliere e proporre la posizione, schizzare su alcuni fogli di pergamena delle linee di contorno. Senza preavviso, ad un tratto, Maometto si era alzato dallo scranno dove sedeva, e seguito dai suoi dignitari, rimasti immobili lungo le pareti fino ad allora, se ne era andato. — Per oggi basta, Signore, — aveva detto Kama Katuray a Gentile, rimasto con il carboncino a mezz'aria. — Il nostro luminoso Imperatore, come certo sai, ha innumerevoli impegni di governo: ti fa sapere per mia voce che non potrà concederti, ogni mattina, più del tempo che ora ti ha concesso. Il resto della giornata, Gentile l'aveva trascorsa nel suo alloggio, o camminando nella parte dei giardini del palazzo accessibili dal porticato, che digradava a terrazzi verso lo stretto di mare, fra file di aranci e piccoli cedri ombrosi. Al tramonto, seppure breve, la visita di Maometto era stata cordiale: quando poi Gentile aveva detto di essere disposto a ritrarre Amilah, l'Imperatore aveva mostrato negli occhi e nel sorriso una gratitudine gioiosa, infantile. Ora, a mezzanotte, il pittore seguiva l'uomo vestito di nero, trasportando la leggera cassa degli attrezzi e i rotoli di tela attraverso corridoi silenziosi, illuminati da rare torce profumate. Non incontrarono nessuno, e l'impressione di Gentile fu che il popolo di servi e guardie del palazzo, piú che immerso nel sonno, stesse obbedendo all'ordine ricevuto di lasciare assolutamente sgombri quei passaggi. Erano corridoi che non conosceva, lontani da quelli che durante il giorno aveva passato, e percorrendoli nell'alterna luce delle torce appese, Gentile guardava fuggevolmente l'infinito ornamento dei mosaici lungo le pareti. A metà di un corridoio l'uomo vestito di nero si fermò accanto a una parete: premendo contemporaneamente con la mano e un ginocchio su due piastrelle, fece scattare un congegno, e una porta stretta si aprí. Un piccolo corridoio perpendicolare a quello appena lasciato era illuminato da lampade a boccia, disposte sul pavimento a cinque passi una dall'altra. La porticina si chiuse alle spalle di Gentile, e i due avanzarono per una trentina di metri nello stretto e silenziosissimo passaggio tra pareti scabre, prive di ornamenti. Il pittore immaginò che quel percorso evitasse il quartiere degli Eunuchi, posto a strettissima sorveglianza dell'harem di Maometto. Alla fine del corridoio, una porta simile a quella prima superata ruotò senza rumore: Gentile, attraverso l'apertura, vide dapprima qualcosa che sembrò un bosco. Poi, seguendo il muto compagno, sbucò fra una dozzina di grossi vasi di palme che formavano una specie di giardino interno, sul lato di un'ampia stanza circolare, dalle pareti completamente tappezzate di fili verticali di pietruzze colorate bianche e azzurre. Quattro candelabri, alle estremità di due diametri incrociati, mandavano calda e piena luce al centro, dove una grande pedana quadrangolare era completamente ingombra di cuscini gialli e arancio. Fra quelli, Gentile vide la schiena avvolta nella seta di una donna addormentata: solo i capelli scuri e lisci erano visibili, e avvolgendo le aderivano al capo. L'uomo vestito di nero non oltrepassò la linea degli ultimi vasi, ma fece cenno a Gentile di entrare senza paura nella stanza. Lui rimase nell'ombra del piccolo palmeto, da dove poteva vedere ogni cosa senza essere veduto, vicino alla porticina segreta, invisibile come una grotta boschiva. Sentendosi allo scoperto, e solo, in quello spazio riservato, in cui certo nessun'altra persona era ammessa oltre all'Imperatore e i fedelissimi servitori, Gentile si fermò qualche momento, intimidito e incerto: poi appoggiò su un largo sgabello di pelle la sua grande scatola, e si avvicinò di qualche passo, lentissimamente, alla pedana centrale della stanza. Il respiro corto e la sveltezza del cuore lo rendevano agitato, mano a mano che si accostava al corpo coperto di seta verde, immobile nella luce abbondante ma discreta dei lampadari. Gli sembrò dapprima esile: ma guardando lo vide fiorire in armoniosa completezza. La lenta e lunga curva dell'anca saliva nell'onda del fianco, e poi del polpaccio a metà scoperto, fino alla grazia sottile della caviglia e all'arzigogolo finissimo del piede. I capelli, di nero profondo, con un remoto barbaglio rossastro, si gonfiarono ad un movimento del capo in una bolla setosa. Per vedere il volto dell'addormentata, Gentile avrebbe dovuto aggirare il giaciglio: guardò verso il boschetto di palme: il silenzioso accompagnatore accennò, appena visibile, che proseguisse la sua esplorazione. Spostandosi a sinistra, a passi lievi, il pittore si portò oltre il baldacchino, sorprendendo la fronte sgombra e il viso di lei. Uno sgomento del capo, del corpo, delle viscere, gli fece di colpo piegare le ginocchia: per un urto, un peso improvviso, un abbagliamento dell'anima, cadde in ginocchio a due metri dal giaciglio: finché la notizia che gli occhi davano, la novella che lo sguardo leggeva, lo fecero finalmente tremare fino alla profondità, e gli tolsero il fiato. Non riuscí a confrontare quel volto con altri, pure bellissimi, che aveva veduto; né gli accadde di giudicarlo il migliore: gli sembrò invece il primo, l'unico possibile, di una nuova e sconosciuta natura, in cui proporzione dolcezza e grazia a tale equilibrio erano giunti da impegnare per la sua raffigurazione e la sua lode generazioni intere di pittori e di poeti. Alzò la faccia oltre il corpo di lei: come chiedendo aiuto con gli occhi a quelli del suo accompagnatore: ma non vide, accecato di lacrime violente e abbondanti, altro che il misterioso e pacato intrico dei palmizi. Non vide, per lacrime ed ombra, lo sguardo di riservata simpatia, di mesta comprensione, che forse dal folto dei rami gli giungeva.

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Se a quest'ultima incertezza non accordò spazio nel pensiero, credette Gentile di aver trovato rimedio alle prime due. Per quanto riguardava la posizione del soggetto, scartata l'ipotesi di un macchinoso gioco di specchi che raddrizzasse l'immagine della dormiente, pensò a una soluzione elementare: sdraiarsi sul fianco, a rispettosa distanza da Amilah, in modo da poterla osservare a lungo, in un normale punto di vista. E in quella stessa notte Gentile si coricò a quel modo, come se, sebbene distante, le dormisse accanto. Quanto all'espressione del sonno, si accorse che ogni tanto, muovendo il corpo o la testa, Amilah perdeva nei lineamenti il totale abbandono, e gli permetteva di cogliere e segnare nella sua memoria l'immagine di un volto desto e mobile, simile certo a quello che aveva da sveglia. Il suo modello, d'altra parte, era mobile, e non lo si poteva in alcun modo far restare a lungo nella stessa posizione: Gentile accettò da subito di essere paziente, e aspettare ogni volta che la bella tornasse in una utile angolatura o spostare il cavalletto in un diverso punto di vista. Quelle erano certo condizioni di lavoro che mai aveva affrontato, né mai avrebbe immaginato di affrontare: ma da quando era giunto a Costantinopoli, gli sembrava, tutto aveva un carattere straordinario, irreale. Gentile viveva quei momenti, persino quelle praticissime progettazioni, come parti di un sogno continuo, di una stordita eccitante avventura. Quando, dopo tre ore, ebbe un'idea abbastanza precisa di come avrebbe proceduto nel suo lavoro notturno, con gli occhi oppressi, ma non sazi, della bellezza di Amilah, ininterrottamente guardata, il pittore si alzò, raccolse la cassetta che non aveva nemmeno aperto, ed entrò nel boschetto di palme. Senza nessun cenno di obiezione o sorpresa, l'uomo vestito di nero lo segui per la porticina, che richiuse, e poi lungo il corridoio illuminato dalle lampade a boccia, e quelli, oltre la seconda porta segreta, tutti silenziosi. Nell'ampio letto, fra i cuscini dai colori solari, la bellissima ignara avverti tuttavia nel sonno una specie di leggerezza, un togliersi di qualcosa, un vago sgravamento: sospirando lentamente si voltò, mutò posizione, e forse sogno.

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Ma anche, voleva osservarla globalmente e a lungo, per farsene un ricordo incancellabile, e ridipingerla a Venezia, in un nuovo ritratto, che gli avrebbe illuminato la vita. Per giustificare quell'ultimo sguardo ostinato, egli portava dunque con sé tela e attrezzi: li avrebbe disposti nel solito modo, fingendo ogni tanto un piccolo ritocco, durante la lunghissima osservazione. Quando sbucarono nella piccola foresta di palmizi, e il pittore ne uscí silenziosamente, Amilah giaceva sulla pedana nella stessa posizione in cui Gentile l'aveva vista la prima volta: stava sul fianco sinistro, volgendo la nuca all'osservatore, con la veste di seta verde che aderiva dal morbidissimo fianco al polpaccio. Gentile preparò silenzioso cavalletto e colori, poi aggirò il giaciglio, e come aveva fatto la prima notte si sdraiò sul fianco a tre passi da lei, e la guardò. Vide che respirava piú velocemente del solito, ed aveva un colore piú acceso. Pensò che avesse sogni inquieti: se questo gli impediva la finzione di vederla da morta, gli dava un'immagine piú vivace ed intensa da portare via per il futuro lavoro della memoria. Dopo un lungo momento in quella singolare posizione il pittore si alzò, tornò al cavalletto, intinse il pennello e si preparò a fingere qualche tocco al ritratto, per ingannare l'uomo vestito di nero, invisibile e immoto fra le palme. Quando la commedia della pittura gli sembrò sufficiente, depose il pennello e alzò la faccia, movendo il piede per tornare all'addormentata. Si fermò, gelato. Lei sedeva sul giaciglio, composta, e lo guardava con una specie di ritroso disgusto. Gentile restò immobile, nel terrore. Non capiva se il suo accompagnatore fosse ancora nell'ombra, dietro di lui, o fosse sparito. — Straniero, morirai, — disse Amilah con voce bassa, quasi cortese. — A nessuno è consentito entrare nell'harem dell'Imperatore e conservare la vita: ma prima spero, se capisci e parli la mia lingua, che spiegherai alcune cose. Il pittore fece, data la circostanza, qualcosa di strano: confrontò in rapida occhiata il ritratto con la persona che gli aveva parlato, approfittando dell'unica e forse ultima occasione: poi, rapidamente, voltò il capo a guardarsi alle spalle, come cercando una via di fuga. Fra le foglie di palma nessun movimento: ma sentí che nell'ombra l'uomo vestito di nero ascoltava e vedeva. E non fu troppo sorpreso, un attimo dopo, di sentire al centro della nuca la punta di una lama sottile, che usciva dalle foglie di palma come la lingua rigida e mortale di un rettile mostruoso. Non dubitò nemmeno un istante che, se avesse cominciato a pronunciare parole compromettenti per il Sultano, quella lama gli sarebbe entrata silenziosamente nel cervello, convincendolo a tacere per l'eternità. Amilah, immobile, aspettava, guardando senza compassione l'atterrito imbarazzo del pittore, che balbettava la sua mutezza senza allontanarsi di un passo dal ritratto, e dalla pungente minaccia che gli stava dietro. — Io credo, straniero, — lei disse dopo un poco, — che non sia questa la prima volta che entri qui. Ora capisco l'origine di certi odori che, nonostante il profumo dei fiori e delle essenze, io avvertivo al mattino: erano le vernici che tu usavi: giacché io penso che su quella tela ci sia il ritratto della mia figura addormentata... Tacque di nuovo, aspettando che Gentile parlasse: ma, come prima, lui non seppe aprire bocca, e attendeva gli eventi: e intanto, quasi senza volere, continuava con rapidissime occhiate a confrontare modello e ritratto, e con la parte dell'anima non occupata da sgomento e paura, arrivava a compiacersi dell'opera. Si sentiva condannato. La bella avrebbe chiamato presto gli eunuchi, e poiché nessuno sarebbe venuto in sua difesa, avrebbe pagato con la vita, chissà in che modo atroce, l'affronto all'intimità dell'harem... Ma continuava a confrontare Amilah al ritratto, anche per evitare lo sguardo opprimente e doloroso di lei. — Poiché non parli, straniero, — disse Amilah, — ti dirò come ti ho sorpreso: è stato a causa del modo in cui questa mattina, al cancello del giardino, tu mi hai guardata. Il tuo sguardo era diverso da quello d'ammirazione che, sotto i veli del rispetto e della paura, sono abituata a ricevere. Diverso anche dallo sguardo prezioso e forte che il mio signore mi dona... Era uno sguardo infinitamente ladro. Tacque di nuovo. Ora Gentile non guardava piú il ritratto: convinto di dover presto morire, si riempiva l'anima dell'immagine di lei, per ricordarsela nell'eternità. — Il tuo sguardo mi ha reso inquieta, straniero, - continuò Amilah con voce tenue, alzando appena la faccia. — Per l'intero giorno un misterioso sgomento mi ha tenuto, e alla sera il mio sonno è stato incerto e lieve, contrariamente al solito. Cosí non mi è sfuggita la tua presenza... Ma ho detto abbastanza: parla tu, adesso.

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E lentamente, a faccia alta, guardando la parte posteriore della tela dipinta come se guardasse la porta della morte, il Sultano rivelò ad Amilah ogni cosa. All'inizio, inquieta e sorpresa, la favorita mosse gli occhi verso il volto dell'amante, come per invitarlo a rivolgersi a lei: poi, mano a mano che la rivelazione si completava, abbassò lo sguardo alle proprie mani, riunite in una specie di abbraccio dolente fra le ginocchia. Impietrito nella sua assenza, Gentile ascoltava le parole dell'Imperatore, e vagava con gli occhi sulle pareti ingioiellate della grande stanza, verso il portico, a sinistra, nel giardino che andava schiarendosi di un azzurro annuncio luminoso. Il Sultano parlò a lungo, raccontando le ragioni del suo desiderio. Poi, al primo raggio di sole, che caricò d'oro e verde il giardino, proprio mentre una coppia di pavoni mattinieri attraversavano indifferenti lo smeraldo del prato, trascinando le code mirabili, l'Imperatore tacque. Nel silenzio fragile, carico di grido, che seguí, osservando il prezioso passaggio dei pavoni, Gentile si chiese, storditamente, se la bellezza del mondo possa mai ripagare dolore e morte, e non seppe cosa rispondere. Poi ricondusse, nel suo mesto privilegio, gli occhi al ritratto di Amilah, per la prima volta alla luce del sole, e subito li senti riempirsi di lacrime. In quel momento, svelta e leggera come una danzatrice, la bella si alzò, raggiunse un tavolino dalle gambe d'avorio traforato che stava vicino alla portafinestra, sollevò da uno scrigno un pugnale dalla lama corta, curva e sottile come la prima falce di luna. L'Imperatore e Gentile la guardarono con la stessa espressione sul volto. Tutti e due credettero prossima, per diverse ragioni, la propria morte, senza provare paura: ma lei restò lontana dall'uno e dall'altro, e tenendo discosta l'arma come fosse una piccola serpe, si avvicinò al cavalletto. — Luminoso signore, — disse con voce arrochita da un pianto solo pensato, — quello che le tue labbra hanno detto, è per me piú minaccioso ed orrendo che l'annuncio di una malattia mortale. Da quando ho capito la verità che mi hai rivelato, ho maledetto ogni istante passato a prepararmi a piacerti, e ogni fibra della mia bellezza, poiché tu l'hai tanto amata da non volerla veder mutare. Io sono prigioniera dell'angoscia, giacché sento che questo ritratto, che poco fa pure ho desiderato guardare, contiene l'anima eterna della mia bellezza. Io invecchierò, luminoso signore: anzi sono già ora, e non di poco, invecchiata. Quello che questa notte è accaduto mi segna l'anima e il volto, aggiunge piaghe d'ombra al mio corpo e al mio cuore. Oggi, amato, la mia bruttezza è iniziata, perché stupore e dolore mi graffiano terribilmente. Né io saprò a lungo, signore, o forse vorrò, mascherare il nero bacio del tempo, la greve carezza che, ogni giorno di piú, abbasserà la curva del mio seno, smaglierà la seta del mio ventre... Invece, questo ritratto non muterà. Tu potrai certo, luminoso signore, quando non sarò piú bella come vuole il tuo desiderio, allontanarmi da te: ma fino ad allora, nella memoria di ogni istante in cui ci siamo amati, io ti chiedo di scegliere tra me, che sto passando, e questa eterna figura, che già non è piú la mia. Se scegli me, la distruggerò. Se scegli lei, sarò io a finire, giacché sarei solo d'ingombro. Sollevò il pugnale di un poco, e restò in attesa. Alto il volto, il Sultano piangeva. Perle lucenti gli scivolavano verso la barba sottile, come piccoli scoiattoli di cristallo vivo in cerca di un rifugio nel bosco. Nel suo esilio al di là del ritratto anche Gentile piangeva: non piú ormai per timore di morte, non per timore per l'opera sua, e nemmeno per la solitudine di prima, ma per avere, con il Sultano, progettato quel pianto, spinto quella innocente nel cappio di tanto dolore, riempito i suoi occhi di un simile terrore. — Te, e perdono, — disse il Sultano. Ora, sfrenate, le lacrime gli bagnavano il volto, come quelle di un bambino. Senza violenza, leggermente, Amilah fece un passo in avanti e colpi. Gentile, fra le lacrime, vide la lama curva spuntare, come un serpentello, fra i capelli del ritratto, e scendere sbieca sulla fronte, per la guancia, sul collo. Poi la vide sparire, e spuntare di nuovo piú in alto, sopra la testa, e calare verticalmente, tagliando il volto dipinto come un fulmine che lacera una quercia. Poi ancora tre volte, lentamente, frusciando appena, finché la tela colorata, simile a vela stracciata dalla tempesta, cominciò a franare in brandelli, pendendo giú dal legno a lembi, cadendo a strisce difformi sul pavimento prezioso. Se mai pittore vide morire una pittura, Gentile fu quello. Incurante di lui, Amilah posò il curvo pugnale e si rivolse al Sultano, che la guardava fra le lacrime come si guarda oltre un diluvio il sole. Con una specie di passo lento, danzato, certo appartenente al loro repertorio d'amore, la bella si avvicinava a lui: e Gentile, fra le sue lacrime, vide negli occhi di Maometto la commossa vergogna mutarsi in desiderio. Un tocco leggero, alle spalle, lo avverti che si doveva andare. Non salutato, non guardato, non visto dalla coppia di amanti, passò a testa bassa fra le foglie fruscianti del piccolo palmeto, varcò per l'ultima volta la porticciola segreta, entrò nel corridoio silenzioso, in cui molte volte aveva, avvicinandosi a lei nella notte, sentito i colpi forti del proprio cuore. Dietro a lui, calmo sacerdote, l'uomo vestito di nero accostò la porticella, e silenzioso come sempre accompagnò per il lungo passaggio l'ospite alle sue stanze.

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Rispettata, evitata dalle vili barche corsare dei Dardanelli, la nave imperiale uscí nell'aperto Egeo, puntando senza indecisione a Sud, per tagliare in linea breve il mare, lontano dalle confuse correnti insulari. Cielo burrascoso, mare scaglioso d'onde, volato da spruzzi gelidi, vento teso, accompagnarono per due giorni e due notti la navigazione. L'alba del terzo giorno apparve nuziale: luce e spazio, altezza e profondità, colori e vento in equilibrio calmo, smagliante. La stretta nave filava sulle onde allungate, propizie, abbassando e rialzando di poco la prua, terminante a chiocciola come la punta di una pantofola. I nove marinai, lanciandosi ogni tanto brevi richiami con voci acute, fischianti, regolavano le vele per raccogliere al massimo il vento compatto da Settentrione. Gentile, che durante le giornate burrascose era rimasto quasi continuamente sdraiato sulla cuccetta rigida, tormentato da malesseri d'anima e di corpo, alternando sonni agitati a veglie torpide, al calmarsi del mare sali sul ponte, e trovato un luogo appartato a prua, senza conversare con i marinai affaccendati, rimase per ore a guardare l'orizzonte: svarianti danze di gabbiani, affollate fughe di pesci appena sotto la superficie, ai lati della chiglia tagliente. A destra, netta e lontana, la sagoma di Sciro sembrò stare immobile a lungo: poi, quasi d'un tratto, apparve indietro, come una gigantesca balena all'improvviso fuggita nel mare. Riportando avanti lo sguardo, appena a destra della linea di prua, a tre o quattrocento metri dalla nave, Gentile notò qualcosa di bruno e irregolare, e si alzò incuriosito, coprendosi la fronte con la mano. Una zattera di lato beccheggiava sulle onde. Un palo alto poco piú di una persona, spoglio, stava al centro. Se mai aveva portato una vela, era del tutto scomparsa. La zattera sembrava vuota: ma presto, nei momenti in cui l'onda la inclinava a favore della nave, qualcosa di chiaro si poté scorgere: un misterioso groviglio. Gentile si voltò verso i marinai, per richiamare l'attenzione: ma il turco dalla pelle buia che stava alla barra già spingeva per piegare la rotta verso il relitto. Il capitano e gli altri si riunirono a prua, a mano dritta, mentre la vela, piú chiusa al vento, si afflosciava, facendo rallentare la nave. La zattera, quasi immobile sul mare, si avvicinava: alghe verdastre e nere le orlavano il bordo, smangiato dal sale: ma il corpo di tronchi era saldo. Spinta da vento e correnti, chissà da quanto vagava, inanimata, per le aperte acque dell'Egeo. Quando fu ancora piú vicina, da bordo videro cos'era quel bianco: due scheletri, uno grande e l'altro minuto, intricati, legati ai tronchi da robuste corde di pelle, che resistendo ad ogni strattone del mare non avevano ceduto, stringendosi anzi e tirandosi, saldando quel groviglio di ossa al legno muschioso. I due scheletri erano abbracciati, con le bocce bianche dei crani appoggiate uno alle spalle dell'altro, in figura di strana e spaventosa tenerezza. — Sono pescatori? — chiese Gentile a Mutak Amat, il capitano. — Uno doveva essere molto giovane... Un ragazzo. Forse padre e figlio... La zattera, quasi ormai a contatto con la nave, sfilava dondolando e ruotando lentamente lungo la fiancata. Nessuno, da bordo, allungò pali o lanciò funi per trattenerla. — Pescatori, forse, — disse il turco, salutando gli scheletri con un bacio veloce. — Ma di solito i pescatori annegano sulle loro barche... Potrebbero essere naufragati su un'isola e aver costruito la zattera per tentare il ritorno... Certo, quel legno è in mare da piú di due anni. Rallentando e sbandando vistosamente sulla scia della nave la zattera restò indietro, e diede l'impressione di dirigersi, senza fretta, verso la sfumata Sciro. — Ma lo scheletro piccolo ha ossa troppo sottili, - disse Mutak Amat dopo un silenzio. — Scommetterei la mia nave contro una conchiglia che quello è uno scheletro di donna... Gentile si senti chiudere la gola, come se una mano violenta gliela stringesse. — Sposi? — disse piano. — Sposi naufragati? Il capitano indugiò. — Forse, — disse, e lanciò un corto comando al timoniere, che spinse la barra per catturare il vento. Subito la vela si gonfiò, e la nave, leggermente scricchiolando, si inchinò alla spinta e accelerò. — O forse amanti... — disse Mutak Amat. — Certe tribù dell'Egitto, o della lontana terra dei Berberi, usano legare gli amanti illegittimi su una zattera, e affidarli alla crudele pietà del mare... Gentile rispose allo sguardo del turco senza una parola. Poi tornò a guardare a Nord. Ormai la zattera non si distingueva piú. Talvolta sembrava al pittore di vederne uno spigolo, breve forma scura sul profilo di un'onda. Ma altre macchie, simili a quella, apparivano in altre parti, e subito scomparivano nel misterioso orizzonte.

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. — Ma è come se, in verità, girassero per l'aria attorno, invisibili e dolorose, chiedendo con lamenti di venire al mondo degli occhi, e io solo sentendole non posso che averne pietà, e farle in disegno, giacché mi sembrerebbe poco generoso, e anzi gran peccato, lasciarle li a piangere, tutte trasparenti... Il priore, tenendo la faccia scura, fra sé rideva di quegli argomenti da angelo astuto, o demonio garbato, e dava al discepolo meno scappellotti che carezze: e finì poi per concedergli tempo e comodità, che imparasse a dipingere, dicendogli da buon padre davvero: — Filippo, Dio t'ha fatto un bel dono: ora cerca di farlo tu alle povere figure che dipingi, ché per adesso ti escono storte e infelici, e come colpite da varie disgrazie. Studia dunque e lavora con sguardo e con pennello, visto che la grammatica ti mette un gran prurito... Al mondo, c'è bisogno di ogni arte, e ben si vede qual è la tua. E Filippo divenne pittore, e quanto poi premiò con fatti e fama il buon priore, tutti sanno: come dice il cronista, «negli anni acerbi non che ne' maturi, tante lodevoli opere fece, che fu miracolo». Ma poiché accade che, per studi o intuizione, se non pura invenzione, il narratore sappia o veda piú dello storico, non taccio di un'altra opera giovanile di Filippo, che cronista e priore, fortunatamente, non vennero a sapere. Diventato bravo, capitò che Filippo lavorasse un giorno, un po' discosto, a certi nudi maschili e femminili per migliorare proporzione e composizione, quando gli si mise alle spalle un signore di Firenze, noto piú per le voglie che per le veglie, che rimase li stordito e affannoso, e poi disse a strascicavoce: — Perché l'arte di pittura in cui eccelli, giovane caro, non dovrebbe servire a riprodurre quegli atti sublimi per cui la natura continua la specie umana? O, più liberamente, cimentarsi con le gioiose e varie posizioni dell'amore corporale, facendo al tempo stesso gloria a sé, e alla bellezza delle creature? Si capisce quel che il signore voleva, e lo capi Filippo, che se fosse stato frate, come sembrava, avrebbe detto di no in buona o cattiva maniera, ma essendolo meno cosí rispose: — Messere, non c'è ragione che non sia: ma certo i soggetti che dici, per essere parecchio nuovi e inconsueti nell'arte, richiederebbero tempo e impegno maggiore... Quanto denaro varrebbe, al tuo parere, la fatica? Il signore fece l'offerta, Filippo la sua, e si misero d'accordo: e in qualche anno, fin quando non poté con soggetti piú castigati farsi valere, per quello e altri guardatori Filippo, guadagnando buona moneta, esercitò parte della sua bravura nel dipingere corpi innamorati, baciamenti, congiunzioni, non meno arditi che belli: piú di cento opere fece, di gran mercato, sebbene non firmate. In ciò, oltre al chiaro servizio che forniva a sé e alle voglie di coloro, forse uno piú grande ne fece, seguendo quella sua idea suggestiva, alle infinite coppie degli amanti defunti, che divenuti spirito volano eternamente, tentando abbracci e amplessi, e non avendo corpi e figura non li possono fare, e si dolgono molto: e in quei disegni segreti, in quelle scene furtive, potevano finalmente, come al bel tempo della vita, tornare in lizza col loro desiderio. Ma è tempo di avviarsi a narrare la storia, senza la quale il racconto non sarebbe cominciato: qui la parola, in confronto a prima, fornirà necessari dettagli, scendendo lo sguardo, per così dire, dalle altezze dell'aquila a quella dell'oca, del rondinotto, o magari, in ordine al canto, dell'usignolo. Lo stile, pur restando leggero, si terrà lontano dal frivolo, poiché a storia piena e compiuta di cose umane meglio s'addice affettuosa e prudente allegria che spreco di lazzo.

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Veniva Filippo da Firenze a Prato, che nemmeno allora era gran viaggio, però da fare piú volentieri in compagnia che in solitudine. Gli camminava accanto fra Diamante, stato novizio con lui a San Domenico, e come lui entrato, con assai meno valore, nello studio e nella pratica della pittura. Non era quella una passeggiata: i due frati pittori raggiungevano Prato per diversi lavori, che li avrebbero laggiú trattenuti almeno tre mesi, o forse quattro, a seconda non solo della durezza dei muri, o delle pieghe dei manti, ma della cortesia della gente, del sapore del vino e di altre allegrie. Procedevano per una stradicciola di terra, delle molte che, tutte buone, attraversavano la campagna a portata di voce una dall'altra, e per ingannare la fatica delle gambe e il calore dell'aria, poiché era una fine d'aprile che sembrava portare a giugno piú che a maggio, si divertivano a ricordare le cose del noviziato, e su quelle più saporite si fermavano a ridere e allargare la parola. Eran giunti in quel modo alle risposte di Filippo quando il priore gli aveva chiesto da dove venissero le figure che faceva sui libri. — Il fatto è, caro Diamante, che non era tutto inganno o burla quello che dicevo, — spiegava Filippo, con movimenti di mani a rinforzare. — Anche ora, che non sono piú pittore di scarabocchi, davanti all'una o all'altra figura che sto facendo mi prende una frenesia, un'inquietudine del completamento... E non come a cavar fuori un'immagine pensata, mia, cui la mano obbedisca, una visione, ma come se il pennello fosse una spatola che gratta via una crosta di nulla, liberando la figura che sotto esisteva... Fra Diamante, ben convinto di esser peggior pittore del compagno, però senza spiacere o gelosia, dopo un attimo disse: — Se così è la pittura, fra Filippo, spiegami: perché la mia spatola, raschiando come tu dici il nulla, trova sempre di sotto figure peggio disegnate e peggio tinte di quelle che trovi tu? E divertito dalla propria arguta umiltà, Diamante scoppiò in fragorosa risata, e con lui Filippo, come colui che, da un buon amico, con garbo è riportato da troppo solenni premesse a concrete e sensate conclusioni. Si divertivano così i due frati, rinforzando ad onda la risata dell'uno quella dell'altro, e diventando, come accade fra amici, il medesimo spasso cagione di spasso nuovo: e si appoggiava ciascuno al tronco di un albero, di qua e di là della strada: e non sentirono, né si accorsero, di avere alle spalle un cavaliere, il cui cavallo, spaventato dalle risa clamorose, scalciava e scavezzava, scartando e mettendo a prova chi lo cavalcava. Costui, che per abiti e portamento appariva di buona borsa, tirando a due mani le funi sul collo della bestia, gridò con voce sgarbata: — Non ci sono messe da dire, o elemosine da domandare, frati, che ve ne state da ubriachi a sbarrare la strada? Tono e voce sorpresero i due carmelitani, e li fecero voltare, ancora rossi di divertimento, che si spense del tutto. Ma mentre fra Diamante, vista la fonte del rimbrotto, si atteggiava a umile espressione, Filippo, natura piú spavalda e orgogliosa, alzò il viso contro il cavaliere, e rispose: — In nessun luogo della nostra regola, messere, è scritto che non si debba onorare Dio con la risata, che è come la festa dell'anima. Quanto a sbarrare la strada, ce ne scusiamo, non ci accorgevamo del fatto: e poiché noi non siamo ubriachi piú di quanto tu sia prepotente e grosso di maniera, ti augureremo il buon viaggio e ti benediremo, se sapremo il tuo nome. Io sono Filippo Lippi, e il mio compagno è Diamante del Carmine, e siamo fiorentini. Sulla bestia quietata il cavaliere si sporse: con voce meno alta ma piú brusca, parlò: — A Firenze è conosciuto il mio nome, e anche la mia faccia: se non li sapete, vuol dire che abbiamo biada in diverse greppie. Ora fate spazio, o lo farà il mio frustino! Spronò il cavallo, alzando insieme lo scudiscio minaccioso. Filippo, con un balzo, si levò dalla via, e si voltò a guardare la polvere del passaggio, con una smorfia di spregio. — Io lo conosco, — disse fra Diamante, risalendo dal fossetto in cui era sceso fin dal primo grido. — Chi è? — Messer Francesco Buti. — Abbia le grazie che merita, — disse freddo Filippo: assai lontano, in pazienza e in umiltà, dal dover essere dei frati. Poi, in un silenzio di malumore, ripresero la via.

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Lavorò Filippo, con l'aiuto di fra Diamante, a molte opere in Prato, ma non quella del monastero di Santa Margherita, il perché lo vedremo: e lavorando insegnava all'amico le cose di pittura, e spesso diceva: — Né come frate, Diamante, né come uomo posso farti insegnamento giovevole, ma solo in far figure. Prendi dunque di questo, che è il meglio, e al resto non badare. — Parlando male dite, frate Filippo, fai male, — gli rispondeva il buon carmelitano. — Io ti conosco abbastanza, e le cose che vedo nel tuo cuore, a saperle leggere bene, sono eccellenti. — Vera santità è la tua, Diamante: di quel tipo assai raro, che sa e vuole conoscere e vedere in ogni cosa il buono, — diceva Filippo. — Ma pure mi spiace d'esserti capitato io per esercizio... Su molte cose, in verità, il pio uomo doveva allora chiudere gli occhi, o faticare per trovarne il valore, o praticare pazienza, giacché non mancavano a Prato, come in nessun luogo del mondo per chi le vada cercando, donne da guardare e da desiderare, e a cui lanciare con gli occhi complimenti ed elogi, domande infocate, giuramenti di desiderio, promesse di piacere: e non mancavano quelle che, per scarso calore della vita o di chi la doveva loro scaldare, a tali sguardi esitavan poco a rispondere, incendiate: e da sguardi a messaggi, a incontri, ad abbracci, con Filippo si disponevano a correre, per qualche tratto almeno, la bella via della passione: e poiché quella via assai di rado passava vicina ai luoghi delle pitture, con lento piede avanzavano pale ed affreschi, e lunghe ore di preghiere e di attesa toccavano a Diamante, incerto e pauroso a proseguire da solo i santi e gli angeli che Filippo trascurava. E poiché le cose del piacere restan segrete e protette meglio finché il piacere dura, accadde presto che in Prato si sapesse e dicesse delle gran gioie e corse del frate: e pure se la notizia non nasceva da favorevoli labbra, né si riferiva a cose commendabili, per la misteriosa natura della fama per niente nuoceva, anzi qualcosa aggiungeva al nome del nostro pittore. Né mancarono casi in cui, curiose delle diverse arti, piacenti madonne chiamarono il frate, o convinsero ignari mariti a chiamarlo, per opere previste o impreviste in casa loro: di quelle doti facendo in breve sazievole prova. Ma dall'opera del monastero, come si è detto, Filippo si teneva lontano: certo per una tenace antipatia verso l'aria conventuale, e per propensione di lui a non cacciare in boschi prossimi, quel lavoro era sempre rimandato: sempre si mandava a dire che sarebbe fatto alla fine del corrente, e poi invece si spostava oltre uno nuovo, generato per questa o quella bravura del pittore. Finché accadde che un giorno, di ritorno dalla chiesa di San Domenico, dove eran finite due tavole, andando verso il Ceppo, casa di un certo Francesco di Marco, per accordarsi su un ritratto, Filippo e Diamante furono sorpresi da un temporale di quelli che non si crederebbero se non si vedessero: quelli che si raccontano a lungo, fino ad uno peggiore: che sembrano mandati da Dio per avvertire gli uomini che il gran diluvio non è passato ma solo sospeso, e dunque siano preparati. Colpiti da quel crollo fresco del cielo in mezzo a una piazza, i due frati corsero a tonache alzate a ripararsi sotto uno sporto di bottega, largo abbastanza da proteggere il grosso, mentre vi arrivavano dalla parte opposta, cieche nell'acqua, tre monache in corsa: e ci fu un mezzo scontro, un arruffío di stoffe brune, un ridi e grida da ragazzi sotto quella tettoia. Ma poiché sembrò ai convenuti che l'acqua di fuori fosse peggio che stare lì stretti, e alle monache di non dover temere nulla da quei due servi di Cristo, ridivisi alla meglio in partibus generis, i cinque se ne restarono là sotto, mentre il cielo precipitava a scrosci sul largo selciato, e il mondo si bagnava. Un rimbombo fresco, totale, avvolgeva quella nicchia del creato: un'intimità struggente, da pulcini intanati, mescolandosi ai reciproci odori sollecitati dalla pioggia, regnava nel riparo. Tutti tacevano, senza guardare altro che il fosco sciacquar dell'aria davanti: ma il complessivo respiro, adeguato a ritmo comune, univa i corpi piú di un pieno toccamento: e certo quel contatto sentiva piú chi di corpo ancora era fatto: meno chi, almeno in parte, lo aveva perso o scordato nel passeggio dei chiostri. - Se continuerà abbastanza, - disse Filippo a voce alta per farsi sentire sopra il fruscio violento, rivolto alle teste chine delle monache, - se continuerà abbastanza, tutta quest'acqua se ne andrà per passi e caverne, e scenderà all'inferno, e lo spegnerà! Frate Diamante, alla destra di Filippo, il quale chissà come aveva nel mischio iniziale trovato posizione piú esposta alle donne, abituato alle uscite del compagno, rise in modo convenevole e discreto. Delle tre rifugiate, rise un po' quella vicina a Filippo, però tenendo la testa abbassata, come ridendo d'altro. Quella al centro si chinò a farsi riparo, oltre che del potente sgocciare, del sapore eretico che usciva di bocca al frate sconosciuto. La terza, che nella tresca d'inizio era finita, o stata spinta, piú lontana dai frati, alzò invece la testa a guardare Filippo: e lui la guardò, per nessun'altra ragione che non c'è al mondo cosa migliore da guardare che un volto di donna. Ora v'è chi crede che un uomo da donne, nel senso in cui Filippo era, di quelle senta e prenda comunque e sempre il facile e il leggero: cose degli occhi, di pelle, di polpe, di ventraia: non sappia insomma vedere e desiderare altro che corpo di piacere: il quale, per quanto bene se ne pensi e dica, è delle donne una parte soltanto. Senza discutere troppo questa opinione, diciamo che ogni cosa dipende da quanto quell'uomo sia rimasto uomo, e non divenuto solo, ormai, vogliosa bestia automatica. Filippo era pittore, un poeta d'immagini: quanto basta per mantenere mente ed anima capaci di viste e desideri alti, complessi, e anche sublimi. Persino in quelle sue opere giovanili meno destinate alla Musa che alla foia dei guardatori, pur accettando la regola triviale dei soggetti, egli l'aveva giocata con tali arguzie e qualità di figura, che se quei lavori, nati nascosti e poi chissà come dispersi, fossero ancora noti, non nutrirebbero meno degli ufficiali le sapienti chiacchiere dei critici d'arte. Dopo la premessa, il fatto: sotto quella tettoia di bottega, davanti a quel diluvio di Calvana, in quel fumo d'acqua saltante e monaci avvaporati, ciò che Filippo vide nel volto della novizia non fu cosa che potesse dimenticare né subito né mai: e lo lasciò a bocca proprio aperta, occhi fissi, respiro interrotto e cuore in capriola. Piú che la sola bellezza, straordinaria davvero, non avendo lei alzato lo sguardo per vedere che tempo faceva, ma curiosa di colui che pronunciava simili frasi sull'inferno, e parlava del suo spegnimento, gli occhi verdi e la bocca tornita mostrarono un sorriso, piú annunciato che vero, subito spento alla vista dello sguardo del frate: ma non talmente in fretta che lui non lo cogliesse, e diventasse innamorato. Giacché se all'uomo comune basta a volte un lungo sguardo per farsi invadere l'anima da una donna, a un pittore come Filippo assai meno occorreva: e fu lei a respingere il getto d'estasi meravigliata di lui, abbassando faccia e capo come avevano le ritrose sorelle. Fu un breve scroscio, ma un attimo assai lungo. Fra Diamante sotto il cappuccio; Filippo a guardare, sopra due simili, una testa velata di nero, che conservava nella posizione china un tremolio di fuggitiva, l'ostinazione allertata di chi si nasconde. Poi l'acqua d'improvviso calò. Prima fra tutte la monaca piú alta allungò il piede e si avviò fra le pozzanghere, mentre le altre due, sorprese da quella solerzia che loro toccava, dopo un'incertezza la seguirono, sollevando con le mani solo di mezza spanna i lembi della tonaca. Filippo lasciò passare un momento, poi uscì allo scoperto e prese la strada dietro a quelle. — Fratello mio, — disse Diamante, arrivando con passo affannato a toccargli il braccio. — Buon Filippo, non era dall'altra parte che stavamo andando? — Prima sì, — disse il pittore. — Ma ora, dovunque sia, si va da questa parte.

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. — Sia ringraziato Iddio Onnipotente, frate Filippo, - disse madre Pia, strizzando gli occhi svelti, come a studiare il volto di quel rinomato. — Ero convinta ormai che ci avessi dimenticate, o per misteriose ragioni preferissi fare ogni altra opera, in città, che la nostra: e arrivandomi notizie della tua bravura, oltre che del tuo lieto spirito, sospiravo come chi ha perduto, prima di averla, la sua felicità. Era una monaca di corpo grande, mente aperta e serena: di carnagione linda e rosata, il volto quasi tondo tendeva al sorriso senza farne spreco. Parlava a voce lenta, ornando le parole di pensiero. Ammirava l'arte di Filippo, avendone visto esempi: ma aveva anche sentito delle libertà che il frate pittore si prendeva. Prudente, non sospettosa, era pronta ad affrontare senza fuga le vicende e le questioni che il suo ruolo di autorità e di spirituale vigilanza le poneva. — Non avevo dimenticato quest'opera, madre Pia, - disse Filippo sorridendo quieto. — E neppure preferivo altre: anzi tardavo per un motivo contrario. Mi accade infatti, qualche volta, di fare certi sogni, a cui credo come Iddio stesso me li mandasse: e in uno di quelli vidi me a dipingere la pala sul vostro altare, e sentivo una voce potente attorno, dicente: «Attento Filippo, tieni saldo il pennello, ché questa sarà la tua opera maggiore...» Così, madre, ero qui in Prato come preso dal timore di farla, di cominciarla: e per questo a lungo sono rimasto lontano, come fa il cavallante che rimanda alla fine, per studio e anche timore, la doma del puledro piú inquieto... Nel fare queste predicazioni, lo sguardo di Filippo restava dritto e fermo, come accade a chi ha affrontato già gli occhi attenti e gravi della propria coscienza, senza venirne sconfitto. — Dunque ora sei deciso, frate Filippo? — disse la monaca. — Buona madre, sì: troppo rimandare è peggio che non fare. Se, come il sogno diceva, in quest'opera si decide il mio valore, occorre infine mettere alla fatica ogni forza, destrezza e fede: sperando in piú nel tuo generoso aiuto, e protezione. Il tono serio e convinto, così diverso da quello che la badessa prevedeva, o temeva, la spinse ad affettuosa fiducia: non le spiaceva anzi che, a causa di quel sogno, il pittore affrontasse l'opera con tanta decisione, e quella sfida. — Un'altra ragione del mio indugio... — aggiunse Filippo a fronte corrugata, come per dolente sforzo di parola. — Un'altra ragione è che, sapendo di dover fare figura grande della Nostra Madre Vergine, io ho invano cercato nel borgo, in questi giorni, un volto di donna che ne sembrasse degno. Posso dire, in lealtà, che quasi falsi, o almeno secondari erano i lavori che andavo compiendo: e piú pesante e vero, sebbene solo di sguardo, quello di cercare per tutto il mio modello: visitando fontane e lavatoi, percorrendo il mercato, parlando a fanciulle per studiarne il volto in mutevole espressione, passeggiando nei luoghi dove passeggiano donne giovani e fresche, osservando ostinato, forse addirittura importuno: ma in nessuna ho trovato la grazia e luce necessarie al volto della Madre di Cristo... Nemmeno pensando a donne di Firenze, o di altri luoghi di Toscana, mi è venuto in mente un volto che convenga... Poi, ieri pomeriggio, nel mezzo della burrasca che c'è stata, mentre preparavo al coperto certe tinture, un'idea, quasi un sogno da sveglio mi ha colpito: che avrei forse trovato qui, fra le monache di Santa Margherita, la buona faccia che cercavo. Quasi una voce mi diceva che nulla di piú saggio potevo fare che cercare nel luogo sacro del monastero la pietosa espressione di Maria: quanto meno un modello acerbo, una prima effigie su cui lavorare con devozione e pazienza... Non è infatti solo bellezza di lineamenti, pura gloria di forme, che occorre trovare, ma l'unità pietosa e densa di amore e fede, di devozione e passione... Nel dire, senza alzare la voce, Filippo aveva tuttavia accelerato e come accumulato il ritmo delle parole, e tacque all'improvviso, a mani giunte, dita premute alla bocca, come a frenare l'impeto imprudente, tacitare l'irruente e sacrale perorazione. Madre Pia non disse: reverente aspettò. Con voce pacata, come avendo esercitato, senza levar forza, un pudico controllo, continuò il frate: — Dunque ti chiedo, madre, di poter osservare, nel modo e nel tempo, e col rispetto che vorrai, le monache di Santa Margherita: e fermamente spero che troveremo fra loro un buon modello per la madre di Cristo Redentore. La badessa restò silenziosa, avendo a sua volta congiunto le mani, in una riflessione che sembrava preghiera. Generosamente portata a credere il meglio, si era chiesta se non fossero stati infine quegli sguardi, quella santa ricerca di un volto, a gettare ingiustamente su Filippo i sospetti e le voci che di lui s'eran sentiti: aveva risposto che certo sì: piú ancora commossa, ora, da quell'equivoco sacrificale, si sforzava di frenare entusiasmo e simpatia, volgendo in fatti favorevoli l'ormai larga benevolenza. — Faremo discretamente, frate Filippo, — disse poi, sorridendo. — Questa sera, a Vespro, da una cortina della sacrestia, potrai vedere non visto le monache in volto. Fra le novizie ce n'è qualcuna così fresca e... Basta: io credo che la troverai. E la gioia quieta della preghiera, in cui saranno vedute, non potrà che essere di giovamento. Ma, se come speriamo, l'avrai trovata, come procederemo? Il pittore, ascoltando, aveva abbassato le mani. Le riportò giunte alle labbra, e disse: — Non potremo certo far posare la monaca in chiesa: sarebbe indiscreto, e anche inutile... Quello che serve può esser fatto in altro modo. — Come, frate Filippo? — chiese la badessa, che ormai faticava a non mostrare godimento per quella pia cospirazione. — Ritrarrò la prescelta in sede separata, — disse Filippo con approvanti cenni del capo, quasi l'idea nascesse in quel momento. — Sarà utilissima prova, e assai piú riservata. — Si può fare, frate Filippo... C'è una piccola stanza luminosa che dà sul chiostro. E poi? — E poi... — indugiò il pittore, — poi, collaudata per così dire l'immagine, io la passerò sulla tavola grande, con le modifiche che il santo soggetto richiederà. Sarà quel volto, ma anche diverso... Nessuno vedrà lassú una monaca, ma solo una Madonna... — Che bel progetto, frate Filippo, — disse la badessa, con un sorriso ampio. — Ora, non resta che scegliere, tra le agnelle, quella piú adatta...

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. — Sicché suor Marta ha avuto migliore educazione di molte fanciulle, e certo di tutte quelle destinate a servire Nostro Signore in questo monastero. Insieme a suor Anna, umile donna della campagna, ma dotata di felicissima mano, che qui dentro ha imparato quello che sa, suor Marta copia testi sacri, lavorando con preciso bel gusto. Ma questo ha poca importanza, frate Filippo... Confesso che, quando decidemmo di procedere alla scelta del volto, a stento mi trattenni dall'indicarti io stessa quella che tu hai preferito... — Assai bene facesti a non parlare, madre Pia, — disse compunto il frate. — Così il mio sguardo, non prevenuto dal suggerimento, ha potuto stendersi liberamente sul volto di tutte: e la mia scelta, insieme alla tua segreta, ci appare ora dunque di maggior valore. — Mio buon Filippo, — disse la badessa, calando il tono di voce a piú confidenza, e anche piú discrezione. — Tu sai che la vita delle monache è precisa, guidata da regole ferme e severe... Puoi dirmi per quanto tempo suor Marta sarà sottratta al suo lavoro, in modo che io possa provvedere al meglio, e disporre per evitarle troppi turbamenti? — Difficile saperlo ora, madre Pia, — rispose Filippo. — Ma poiché in tutte le fasi di quest'opera, per le fonde ragioni che sai, io intendo procedere senza fretta, credo che non sarà necessario cambiar di molto la giornata di suor Marta: basterà, penso, un'ora quotidiana, per un numero di giorni non inferiore a dieci, e forse non troppo superiore... — Se suor Marta vorrà, come credo, rinunciare senza dispiacere al gioco mattutino, — disse sorridendo la badessa, — la posa potrà esser fatta addirittura senza rompere le regole della vita... A proposito delle quali, frate Filippo, è necessario che ti informi di alcune cose. — Ti ascolto, madre Pia. — Benché, come sai, il nostro non sia ordine chiuso, nei primi tre anni del monacato è proibito alle suore di rivolger parola ad uomo, tranne che al confessore, e altrettanto è proibito che uomo loro si rivolga... Che accade, frate Filippo? Qualcosa ti turba? — Solo poco, madre Pia, — disse piano lui. — Pensavo alle piccole e obbligate richieste che un pittore usa rivolgere al suo modello durante le pose. Semplici frasi, d'altronde, come: «Alza un poco la faccia», o «Voltati di là...» — Mi duole che nemmeno questo ti sia consentito, — disse la badessa. — E certo, lo sarebbe di piú, nel nostro caso, correggere la modella toccandola con la mano... — Intendo, reverenda madre, — disse Filippo. — E credo insomma che qualche cenno potrà bastare. — Un'altra regola darà ancor meno problemi, — disse suor Pia. — Ed è che negli stessi primi tre anni la monaca non resti in presenza di persone che non siano famigliari mai sola. Suor Marta sarà accompagnata da una sorella anziana: a proposito di questo, mi viene in mente che costei non sarà obbligata al silenzio, e le potrai eventualmente, non bastando i cenni, chiedere di far eseguire a suor Marta i movimenti necessari... — Solo quelli necessari, del resto, — disse Filippo, abbassando il capo con esemplare, remissiva discrezione. — Assegnerò il compito ad una monaca semplice e paziente, frate Filippo: non ti sarà di nessun disturbo. — Di questo son sicuro, e ti ringrazio. — Infine, caro pittore, cosa di pochissimo conto, a suor Marta non sarà concesso vedere, né prima né poi, il ritratto che farai, giacché la regola della modestia, nel nostro ordine, è assoluta. — Capisco perfettamente, madre Pia, — disse il pittore, sollevando lo sguardo con quasi allegra simpatia. — E sono preso da profonda ammirazione, da profondo rispetto per questa vostra disciplina, così forte da saper togliere a donne l'eterno desiderio, nato nell'Eden, di guardarsi... Ma dovrà pur accadere che, quando il volto della Madonna sarà fatto, suor Marta lo veda... — Naturalmente, frate Filippo, — disse la badessa, dolcemente. — Ma sarà appunto il volto di Maria. Se è tolta a suor Marta la vanità della propria bellezza, concessa le sia la gioia di farne dono alla Madre di Cristo! — Amen, amen! — disse Filippo, in convenevole tono.

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Su uno sgabello al centro, a quattro passi dall'ingresso, sedeva suor Marta, con il volto abbassato e le mani posate, una accanto all'altra, sulla veste bruna. A sinistra, un poco piú indietro, sopra altro sgabello sedeva suor Caterina, assai piccola e provvista di baffi, con occhi neri e vispi, dedicati ad ogni movimento del pittore. Filippo si muoveva dal cavalletto al tavolo ingombro di svariati stracci, colori e pennelli, a metà tra porta e finestra: in modo da godere tutta la luce senza toglierne al modello nemmeno un raggio. — Suor Caterina, — disse senza alzare la faccia, rimestando in una ciotola, — io so bene che suor Marta non può dire né ricevere parola: sicché dico a te che sarebbe bello se alzasse il volto, giacché persino l'umiltà è superba, quando è troppa, e la pittura vuole piena visione. Arrossendo leggermente, suor Marta alzò il viso, mentre suor Caterina, incerta sulla risposta, e sul dover rispondere, si agitava sbuffando sullo sgabello con movimenti di un inquieto pappagallo sopra il trespolo. — Ma poiché avvengono i miracoli, suor Caterina, - disse Filippo guardando gli occhi della giovane, che però erano fissi alla soglia, — perché siano completi occorrerebbe dire a suor Marta di guardare o colui che dipinge, o almeno l'angolo destro alto di questa tela: qui, dove metto il dito. E mentre suor Marta, appena sbiancata, arrossiva di nuovo, il dito del frate si alzò allo spigolo dell'intelaiatura: e gli occhi di lei, nello spostarsi a quel punto, incontrarono gli occhi di Filippo, in un silenzio tumultuoso: poi si fissarono all'angolo della tela. — Ora, suor Caterina, — continuò pacato il pittore cominciando a toccare col pennello, — ora devi sapere che, come molti del mio mestiere, io sono assai portato a parlare durante l'opera... Di solito discuto con i miei compagni, giacché è lavoro di compagnia, e si parla e si scherza... Ma qui son solo: dunque parlerò con nessuno, o con me stesso, come fanno i pazzi, pur non essendo pazzo. Suor Caterina, dopo ancora un po' di quell'agitazione sul trespolo, sospirò: — E di che parlerai, frate Filippo? — Di nient'altro che la pittura, suor Caterina, — lui disse, senza levare gli occhi da suor Marta. — È tutto ciò che so ed amo, oltre la sacra fede, e soltanto di questo io so parlare. — Allora, sentiamo, — disse l'anziana monaca, sistemandosi definitivamente sullo sgabello: e la voce aveva un tono di compiacenza. — Io, sai, sono donna di poca sapienza, e non so altro latino che quello delle preghiere: ma se tu non parlerai in latino, mi piacerà sentir le storie di ogni cosa, che non offendano nome e legge di nostro Iddio: e se poi ci sono altre orecchie, e chiuderle non possiamo, staranno chiuse per conto loro: o sentiranno cose della pittura, che non mi pare possa far danno... — È quello che anch'io credo, suor Caterina, — sorrise Filippo, e dipingendo cominciò a parlare. Parlò di figura e paesaggio, dei modi degli antichi pittori e di quelli nuovi. Parlò delle meraviglie di Giotto, e dei colori, e delle sostanze per farli, e degli strumenti. Respirando ogni tanto a fondo, gli occhi fissi all'angolo alto della tela, suor Marta nulla faceva che mostrasse un ascolto. Suor Caterina, immobile come un bambino alla fiaba, a occhi sgranati seguiva liberamente il corpo del pittore, che a tratti appariva a tratti scompariva dietro l'ingombro quadro del cavalletto. Da argomento ad argomento, giunse Filippo a discorrere sulla pittura dei volti. — Il volto umano, suor Caterina, è certo il capolavoro visibile, se quello invisibile è l'anima: e anche, in verità, il più glorioso e difficile oggetto della nostra pittura... Poiché non basta a dipingere un volto, come potresti credere, sommare con decenza parte a parte, copiare linee e forme, ombre e colori: occorre prendere ogni cosa che quel volto contiene, il suo bello e il suo brutto, la sostanza di ogni suo tempo, il suo desiderio, la sua pace e la sua guerra... Il volto, suor Caterina, è l'abisso dell'anima, e non è mai uguale, nemmeno nel sonno più fondo. Non solamente, se bene rifletti, nessuno al mondo ha mai visto o vedrà un volto uguale ad un altro, ma nemmeno mai lo stesso due volte nella stessa persona, e ciò perché mille eventi ad ogni istante, combinati fra loro, lo mutano e trasformano, cosí come ogni foglia che cade, o nasce, muta infinitamente l'aspetto del bosco. Sicché grande stupore prende, considerando le cose, su come possa un amante riconoscere al mattino il volto della sua amata, o l'amata quello di lui, e non gridarsi invece, spaventati ed affranti: «Chi sei? Dov'è chi amavo?»... Se ciò non accade, io credo, è perché l'amore, come la pittura, si dedica assai piú all'anima dell'amato, al suo segno eterno e inconsumabile, che alla visibile superficie: e in qualche modo altrettanto fa la pittura. Essa prende sì, e fissa, il volto: ma lo fa nel momento eterno del suo mutare... La pittura, quando è buona, fa il ritratto non proprio al volto, ma all'anima che, volendo o non volendo, gli sta dietro nascosta... Se poi, suor Caterina, oltre al carattere, c'è in quel volto una bellezza, una bellezza che è luce di interna fiamma, il pittore non la coglierà come la bellezza del fiore, o della pietra preziosa, ma come va colta l'estasi d'un pensiero, la visione di un movimento pieno, forte, sterminato... L'inquietudine di suor Caterina si fece sensibile. Non tutto ormai comprendeva in quei passaggi, e certo aveva apprezzato piú gli elementari e leggendari racconti su Giotto e i poverelli, o su Duccio a Siena: però non osava chiedere, o protestare, come non avrebbe fatto con un predicatore arrivato da fuori a render di fuoco e passione la quaresima delle monache. — Se poi consideriamo, suor Caterina, — continuò il pittore, — che Nostro Signore, quasi malcontento di ogni sua altra creazione, ne ha voluto fare una perfetta e superiore, ci spieghiamo l'esistenza del volto di donna. E non di qualsiasi, giacché è sicuro che esistono catapecchie di volti, volti privati di ogni grazia e luce, rospini e caprini, volti acerrimi di streghe, di galline, adatti a popolare l'inferno: io parlo di quelli rari e fini, che il buon pittore, se alto è il soggetto, si sceglie... In essi la sapienza e bontà del creatore sono sparse senza avarizia, con esatta proporzione, desiderio e premio a se stessi: di fronte a quelli il pittore sta, prima e durante l'opera, con occhi attoniti: e piú che un naufrago affamato steso a spiare il passaggio di un pesce sul fondo, egli studia di cogliere col pennello il colore, la forma, l'amorosa figura... A stento suor Marta controllava il respiro. Lo sguardo inchiodato alternava spasimi luminosi a opacità briache. Le mani premevano più di prima, come a stirar pieghe, convulse, la stoffa della veste bruna. I piedi si muovevano, cercavano paese, sul cotto del pavimento. — Ché poi in un volto, suor Caterina, — incalzava Filippo, — come la fiamma è il centro della luce, gli occhi sono il centro della bellezza: perle di presenza, gocce divine d'assenso, laghi rotondi di pianto e di sorriso... La vecchia monaca corrugava la fronte, pizzicata dal tono ardente piú che dalle arcane parole. — E la bocca, sorella mia, come insegnano i maestri piú antichi dell'arte, è in generale, e ancor piú nel presente caso, medesima fonte dell'armonia... Come negli occhi sprofonda il desiderio di chi guarda, cosí la bocca sporge in muta promessa, nascenti parole, possibili baci: e questo lo disse anche Giotto, di cui prima narravo: ed ugualmente predicava, dipingendo la chiesa d'Assisi, che la forma e il colore delle labbra, rosa dischiusa, son la massima gioia ed estasi per il pittore, e l'uomo: come testimoniò anche il Beato Angelico, pittore e priore di San Domenico... Perseverando l'agitazione, suor Caterina stentava non solo a districare sacro e profano, ma a seguire la pura e semplice onda dell'argomento. E non poteva vedere, coperte com'erano, le arrossate orecchie di suor Marta: le quali avevan sentito, continuavano a sentire quel che c'era da sentire. E il cuore, piú invisibile ancora, la colpiva dentro. E il respiro peggiorava l'affanno. E lo sguardo, pur sempre fisso al dovere, non sentiva piú il desiderio di tornar basso.

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Alla fine della mattinata, suor Caterina aveva imparato che la pittura è molto piú complicata a dire che a fare, mentre Lucrezia Buti aveva saputo, della bellezza in generale e della sua, piú cose di quante avesse appreso in tutti gli anni della vita. Le parole di Filippo le tornavano alla mente come un canto appena imparato: le riascoltava nel pensiero talvolta per il significato, talvolta per il suono, e all'uno o all'altro la riprendeva il gioioso capogiro di quando, muta e seduta, li aveva dapprima ascoltati. Nel pomeriggio si dedicò al suo lavoro di copista. La mano, di solito veloce e sicura, tremava come se le parole da scrivere non fossero la grave e piatta sapienza di un padre scolastico, ma quelle di una lettera di sposa appassionata. Liberando la mente con ostinate ripetizioni di preghiere, sforzandosi di ricacciare memoria e fervore del mattino, riuscí a compiere la metà del solito lavoro, trovandosi alla fine stanca il doppio. A Vespro tentò cento volte di non portare gli occhi alla cortina da cui, quel giorno, era uscito come un volo lo sguardo di qualcuno. Come la scrittura del pomeriggio, il canto le usciva spezzato e faticoso: e consciamente abbassò la voce, perché le consorelle piú vicine non si accorgessero della cosa. Piú tardi, nella solitudine quieta della cella, sedette a lungo davanti alla finestra, a guardare la fuga degli alberi verso la montagna, a settentrione. Già alta sul piano dei coltivi, a destra, una stradella portava ad un casolare di contadini, proprio al bordo del bosco. Da lassù veniva un misto di muggiti, abbaiamenti, alti starnazzi di polli, alternati a pause silenziose. In una di quelle, come incastonata, si fece sentire lontanamente la strofa di una canzone di ragazza. Lucrezia la riconobbe col cuore, e con le labbra la riprese in sussurro. Era un canto che soleva fare con Bianca, la sorella maggiore, quando erano piccole: una di fronte all'altra, pronunciando alternamente le strofe: chi taceva toccava sul proprio corpo le parti indicate da chi cantava.

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Provò a dimenticare il ritratto che nasceva. Le riapparve l'immagine di sé vista a Firenze: i capelli già raccolti a cestino... Un'immagine non chiara, simile a quella di un fantasma, o di un morto. Tentò di pregare. Chiese a Dio e alla Madre di Gesú di proteggerla da ogni tentazione.

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Tre volte, come il gioco voleva, cantò e toccò a velocità crescente la fronte, il naso e i denti con la punta del dito, sorridendo.

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Cosa sarà piú gradito a Dio, e alla sua santa Madre, che ascoltare lodi di lei, mentre lavoriamo in suo onore? Suor Caterina esitò assai poco. — Che bella idea, frate Filippo! Il silenzio, quando non è proprio obbligato, è così pesante... Dunque reciteremo piú volte le lodi di Maria! — Conosci le lodi mariane di san Macario? — chiese Filippo, congiungendo le mani ispiratamente. — Di san Macario? — ripeté la monaca. — No, in verità, frate Filippo. Io conosco le solite, le nostrane... — Non ha importanza, — disse grave lui. — A nostra Madre non potrà che dar gioia esser lodata in modi diversi: anche a lei, come a Cristo, dobbiamo cantare «vocibus variis »... — Amen, — disse suor Caterina, fervida e curiosa. Nella chiara stanzetta, piú tardi, si udirono dunque, mentre occhi scrutavano, mani si muovevano, pennello sfiorava, colore si stendeva, assai strane lodi alla Vergine: sulla purezza di quel latino, oltre che dell'intenzione, era certo opportuno che la pietosa Madre di Gesú chiudesse occhi ed orecchie. «Mater amabilis!» diceva suor Caterina. «Es dulcis et pulcherrima!» Filippo rispondeva. «Gratia tibi agimus», riprendeva suor Marta: la regola del silenzio non poteva valere, evidentemente, anche per le orazioni. « Rosa mystica!» «Desiderium hominum!» «Non imprudenter loquere!» «Turris eburnea!» «Meam eris dulcitudinem?» «Sed hoc est impossibile!» «Domus aurea!» «Vis monacha senescere?» «Sic frater mens voluit!» «Stella matutina!» «Sors tua est terribilis». «Qua re flevi magnopere». «Vas insigne devotionis!» «Pulchritudinem perdis!» «Quam videre nec potai...» «Mater adorabilis! » «Quomodo esse potuit?» «Non est hic quoddam speculum... » Alla fine, tuttavia, suor Caterina avrebbe desiderato conoscere le lodi di san Macario, visto il tono intenso con cui frate Filippo e suor Marta le avevano pronunciate. — Quanti altri giorni durerà il lavoro, frate Filippo? — chiese la monaca. Si era avvicinata a lui, pur restando oltre la tela, e aveva fatto la domanda a bassissima voce. — Non molti, suor Caterina, — rispose il frate con intimissimo bisbiglio. -- La mia opera è a buon punto arrivata.

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Lasciando il quadro velato, si mise a preparare i colori, e sorrideva. Allo scoccare dell'ora suor Caterina e suor Marta entrarono silenziose. Una andò a sedere sullo sgabello centrale, l'altra si avvicinò a Filippo indaffarato, non senza una fuggevole occhiata al dipinto coperto. Mesta ed eccitata ad un tempo, disse suor Caterina: — Frate Filippo, oggi taceremo. E giunse le mani, e intricò le dita, crucciata. Il pittore alzò brevemente lo sguardo: vide in lei il dispiacimento risentito di chi aveva ricevuto un ordine, e pur scontenta intendeva obbedire. La guardò affettuoso, complice nella silenziosa protesta, rispettoso della dolentissima obbedienza, ammirato persino: e fece un cenno d'intesa. Suor Caterina, contegnosamente, oppressa da quel nuovo silenzio, raggiunse a corti passi l'appartato sgabello e sedette, e per distrarsi dal disagio cominciò un borbottío di private, sperimentatissime orazioni. Lucrezia, a volto alto, non fissava ormai piú l'angolo della tela che già il giorno prima, in certi affannati versetti delle lodi di san Macario, aveva abbandonato, ma gli occhi del pittore, che con i suoi pienamente le rispondeva, solo interrompendosi per silenziosi tocchi di pennello. Se avesse guardato quel che della tela poteva vedere, Lucrezia si sarebbe accorta che non era la stessa dei giorni passati: anzi era una tavola scura, piuttosto massiccia, come se Filippo avesse preferito dipingere ora su legno. Lo stesso modo della pittura non era quello dei giorni andati: fatto adesso di tocchi leggeri, vaganti, rapidi, lievemente concitati. Ma suor Marta a quello non badava: solo guardava, con lo sguardo fisso, gli occhi devoti del suo pittore. Nel maturo silenzio del mattino, ornato solo da strilli di rondini affaccendate nel piccolo cielo del chiostro, Filippo non stava dipingendo un volto, ma un busto di sposa: una veste di stoffa leggera, rosata, scollata a quadro su un collo bianchissimo, nel giro doppio di una collana di pietre rosse e azzurre. Attorno allo spazio del volto, si stendeva una chioma libera e mossa, gonfia di luce e trapunta di fiori nuziali. Era un ritratto di sposa senza volto, in cui mancava anche il più piccolo tocco di nero. Nonostante i lunghi sguardi a Lucrezia, Filippo niente dipingeva di ciò che vedeva, ma soltanto ciò che immaginava, e voleva. Lungo e silenzioso mattino: barbagli bianchi di cavolaie alla porta, come fiori incuriositi dell'opera muta; canti di uccelli nuovi fra lo strillo fervoroso di rondini; sotto a tutto, dallo spazio che splendeva oltre le mura del monastero, sterminato frinío di cicale. Nessun suono usciva, invece, dal tremito solerte delle labbra di suor Caterina, che a tratti chiudeva gli occhi, e gonfiava l'invisibile petto, sotto la stoffa bruna, di penitenziali cospirazioni. Immobile negli occhi di Filippo, Lucrezia si stordiva al canto degli uccelli, al profumo delle rose che veniva dal chiostro, al ronzìo solare degli insetti che, capitati alla finestrella, fuggivano presto da quello spazio freddo e inerte, verso pollini e colori. Era affascinata dal fervore dell'opera, dalla propria emozione: respirava in silenzio, calma di una gioia paziente. Le campane del duomo di Prato, un po' lontane, suonarono il culmine del giorno. Filippo alzò la faccia verso suor Caterina, immobile statuetta di legno presso il muro, intenta al suo muginìo. Riaprendo gli occhi da una di quelle brevi abluzioni nel buio, lo vide farle un cenno di richiamo, discreto come ogni cosa della mattina, e spostarsi davanti al cavalletto. Con un piccolo balzo la monaca scese dal trespolo, e gli andò vicina. — Suor Caterina, — bisbigliò a voce calda il pittore, — per l'ultimo tocco mi occorre un po' d'olio, di quello puro... Mentre esco a respirare nel chiostro, potresti tu, che sai a chi e dove chiedere, portarmene una boccettina? Ma senza spreco: due soli cucchiai. Senza aspettare assensi, Filippo arretrò fino alla soglia e uscí nel chiostro sempre tenendosi a vista, per togliere alla monaca ogni possibilità di guardare il dipinto. E suor Caterina lo seguí, come trascinata, ancor prima di considerare che avrebbe agevolmente potuto tenerlo d'occhio dalla cucina non distante: e mosse le corte gambe lungo il porticato, abbagliandosi a tratti per il sole. Ora Lucrezia era sola. Una vampata le corse il volto, il collo, il corpo intero: un caldo capogiro la stordí. Chiuse gli occhi, per togliersi la tavola dall'anima, lí a tre passi soltanto: ma li riapri subito, come le palpebre avessero sfiorato spine. Sperò che suor Caterina tornasse; sperò persino che il pittore, venendo a far qualche ribalderia, la obbligasse al rifiuto, allo sdegno... Ma suor Caterina, adocchiando dalla cucina Filippo che fiutava languido rose, non si affrettava, e scambiava qualche parola con la suora pentoliera, che era tra le sue confidenti e curiosa quanto bastava della faccenda di pittura: tanto che quell'olio avrebbe potuto gocciar piú presto dalle olive, che a esser tirato, come lo si tirava, dall'orciolo. E Filippo, compiaciuto del tempo, si crogiolava nello sguardo della monaca: sedendo persino a braccia conserte su una panchinetta di pietra, e chiudendo gli occhi al sole, come per riposarli un poco. Là dentro, Lucrezia si sentiva tirare anima e capelli verso il ritratto, abisso quadrato nella luce della soglia. E nessuno tornava. Suonò la campana a Duomo, come dire che l'attimo passa, e non è eterno il tempo delle creature. Tremando si alzò. Barcollò passi, aggirò il cavalletto, guardò, vide: una figura splendente, nuziale, un canto gioioso di colori e bellezza: e al centro della festosa immagine il suo volto, ma non dipinto, giacché Filippo non aveva lavorato su tela, né su legno, ma su finissima lastra di specchio. Fra veste e capelli, fra collana e fiori di serto, Lucrezia vide il proprio volto malconosciuto: mobile, splendente, arrossato, sorpreso e ridente volto di sposa. Quando suor Caterina tornò, svegliando al passaggio il finto sopito con uno stropiccio di gola, ed entrò abbassando la testa per non vedere nemmeno di sfuggita il ritratto, e posò l'ampollina d'olio sul tavolo di Filippo, Lucrezia sedeva al suo posto, quietamente. E allora rientrò il pittore dal chiostro, con un petalo di rosa fra le dita macchiate di vernice bruna. Guardò Lucrezia, vide uno sguardo di pianto felice. Guardò il dipinto, e notò sullo specchio, nella parte vuota del volto, l'impronta fresca e ancora vaporante di un bacio. Un bacio a sé, al ritratto incantato, a lui stesso? Non importava: era dato.

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Notizie partirono, arrivarono a Firenze. Un furibondo Francesco Buti cavalcò verso Prato, a buona ragione saltando ostacoli e minacciando frati pellegrini: ma nulla di certo e di chiaro poté sapere dalla stupefatta badessa se non che, senza segno o ragione, anzi al mezzo di una pietosa obbedienza, suor Marta era scomparsa. Violento, greve, il signore fece domande su giovani del borgo che avessero mostrato interesse o attenzione verso la fuggita, e la badessa a dire con sdegno rispettoso che forti e precise eran le regole e la disciplina, stretta la sorveglianza, e lui a rispondere con lingua sciolta che di ciò bene si vedevano i risultati... A tutte queste conversazioni, a quel rumore bisbetico, da lontano e silenzioso, riservatissimamente assisteva frate Filippo, intento a dipingere, finché durava la luce diurna, il volto di Madonna sull'altare: con l'intesa che non fosse piú della fuggita. Davvero assorto nel suo lavoro, nulla sembrava importargli del tumulto, di nulla sembrava inquieto: sazio delle sue gioie, di abbracci: intento a fare quello che quasi come l'amore amava: la pittura.

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p. 1 Lo stralisco 73 Il ritratto segreto 149 Filippo a Prato Stampato nel giugno 1995 per conto della Casa editrice Einaudi dalla Fantonigrafica - Elemond Editori Associati C.L. 13869

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Sakumat e Alika lo trovarono sudato, aggrovigliato a se stesso nel letto, in un dormiveglia violento e doloroso. Al mattino riposava tranquillamente, ma era molto pallido. Un leggero sudore gli bagnava l'orlo delle labbra e della fronte. Ganuan vegliava con Sakumat vicino al letto del figlio. — Gli accade cosí a lunghi intervalli, — disse il burban guardando la faccia del bambino addormentato. - A volte passano mesi, mai piú di una decina, però. Poi, per una settimana o due, resta debole e dorme a lungo; infine torna vivace come prima. I medici parlano di un accumulo delle sostanze che gli nuocciono. Benché protetto, qui dentro, è impossibile che non gliene arrivi una piccola quantità... Questi attacchi di febbre, dicono i medici, lo purificano. — Mi chiedo, signore, — disse Sakumat a testa bassa, — se non siano di danno le polveri e i colori della pittura. Io li maneggio con molta attenzione, ma forse non abbastanza per la sua delicatezza. — Non temerlo, amico mio, — rispose il burban, — non ci sono segni diversi in questo suo malore, e nemmeno è precoce: anzi è questo il piú lungo intervallo tra le crisi che abbiamo potuto misurare. Del resto, a suo tempo mi informai su questa possibilità, e tutti l'hanno esclusa. I tuoi colori sono per mio figlio solo fonte di contentezza. Fu come il burban aveva previsto. Nei giorni seguenti, pur restando a letto senza forze, Madurer non mostrò piú segni di sofferenza. Negli intervalli dei lunghi sonni quieti, in cui passava quasi metà del giorno, riprese i suoi colloqui con il pittore. — Ora c'è da dipingere la terza stanza, Sakumat... — Sí. Come la dipingeremo? — Ci penso molto. Sto prendendo una decisione. — Ma non c'è fretta, piccolo amico. Tu sei stanco, e un poco anch'io. Non ci sarà nessuna conseguenza cattiva se interrompiamo per qualche tempo il lavoro. — Sí, certo. Ma il pensiero non mi costa troppa fatica: e allora ci penso. Il bambino chiese di trasportare il suo letto nella terza stanza, dalle pareti ancora intatte. Le guardava a lungo, in silenzio, tenendosi una mano davanti alla bocca con atteggiamento grave. — Posso conoscere un po' dei tuoi pensieri, Madurer? — chiese Sakumat qualche tempo dopo. — Ecco, io... Non sono proprio dei pensieri, Sakumat: sono come dei desideri, dei desideri di immagini che lottano fra loro... Immagini in contrasto nel mio pensiero. So che una vincerà, ma è ancora presto per sapere quale. — Non vuoi parlarmi di queste immagini, Madurer? Forse, con le parole, sarà piú facile decidere. Ma il bambino si era di nuovo addormentato. I suoi riposi, densi come possono essere solo quelli che seguono le grandi stanchezze, non duravano meno di un paio d'ore. Sakumat usciva allora da palazzo e montava il suo vecchio cavallo. Attraversava al passo il villaggio, guardato con mutissima curiosità dalla gente, che sapeva qualcosa della sua presenza presso il burban. Quando il pittore, a quelli che piú arditamente sollevavano verso di lui la faccia, accennava un saluto, provocava inchini e timide ritirate. Fuori dal villaggio lanciava il cavallo ad una andatura piú energica, senza mai spingerlo alla corsa. Sentiva, piú che nel corpo consumato della bestia, nel proprio la pesantezza dei mesi passati a dipingere, e faticava a ritrovare l'agilità e il gusto della cavalcata, che sempre aveva avuto. Tuttavia insisteva, lasciando che lo sguardo corresse attorno molto piú veloce del cavallo, a urtare in silenzio i larghi fianchi pietrosi della vallata, la cui immagine tornava come un'eco spogliata, continua e nitida. E gli sembrava di notare pietre e spazi e tinte con nuova precisione: di sapere, in qualche modo, prevedere le cose che il paesaggio poco a poco svelava... Al ritorno trovava quasi sempre il bambino addormentato, e attendeva accanto al letto il suo risveglio. Se Madurer tardava a svegliarsi, camminava a lungo accanto alle pareti delle stanze dipinte e con lo sguardo ripassava ogni ricchezza delle pitture, ogni segno lasciato dai giochi pensosi fatti assieme al bambino.

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Sulle pareti della terza stanza nacque il prato, ed era un prato a primavera. L'erba di un verde fragrante era entusiasta, corta e compatta; i fiori avevano steli brevi e corolle appena schiuse. Le condizioni di Madurer miglioravano di giorno in giorno; presto il bambino poté seguire il lavoro di Sakumat senza stare a letto, e porgergli come usava fare i pennelli che gli servivano. Quando, durante il giorno, cadeva in uno dei suoi sonni, trovava al risveglio piccole zone d'erba piú alta e fiori piú sviluppati. Poi cominciarono ad apparire le farfalle, e Madurer ne cercava esemplari raffigurati sui libri per portarli a Sakumat che li dipingeva sul prato. C'erano farfalle di tutto il mondo, tra quei fiori: ma qualche farfalla, come molti fiori, non si sarebbero potuti trovare in nessun luogo, e in nessun libro. — Posso aiutarti a dipingere, Sakumat? — chiese un giorno il bambino. — Questi fiori gialli sono facili da fare... Ne posso dipingere uno anch'io? Sakumat rimase con il braccio sollevato, immobile, e abbassò la testa. — Cosa c'è, Sakumat? — chiese Madurer, facendo un piccolo passo indietro. — Non vuoi che dipinga il fiore giallo? Non è molto importante. Non voglio rovinare il prato. Il pittore si voltò adagio. — Scusami per non averlo pensato, — disse, — dipingerai il fiore giallo, e anche altri fiori, se vuoi. — No, non voglio rovinare il prato, assolutamente. Non dipingerò niente, perché non sono capace. — Non rovinerai il prato, Madurer. Non è difficile dipingere il fiore giallo. Io ti aiuterò: non sarà difficile. — No. Ho paura di sbagliare. Non voglio piú dipingere, adesso. Sakumat depose il pennello e osservò a lungo il prato, come se non fosse accaduto nulla. Poi chiamò il bambino vicino a sé. — Ecco come faremo, — disse, — io ti insegnerò a dipingere il fiore giallo sulla pergamena. Cosí potrai sbagliare, e non ci sarà danno. Quando i tuoi fiori andranno bene, mi aiuterai a fare quelli del prato. Cosí Sakumat, un poco ogni giorno, insegnò a Madurer a dipingere i fiori, e gli steli dell'erba: e poiché fiori e farfalle non sono molto diversi, anche le farfalle. Ci vollero tre settimane perché Madurer fosse soddisfatto delle proprie capacità, e cominciasse ad aggiungere piccolissimi fiori e farfalle al prato, che era diventato un maturo campo di giugno, ricco di vita colorata. Nessun fiore mancava ormai nello spessore dell'erba. La pittura di Madurer si faceva ogni giorno più coraggiosa, mescolandosi a quella di Sakumat, spettinando un po' l'ordine delle forme, il tessuto del verde: come se qui e là una grossa lepre avesse saltellato, o si fosse acquattata ad annusare i pericoli del campo. E il prato assorbiva quelle diversità come una vera foresta d'erbe e corolle, caldo e luminoso sotto un cielo senza tristezza. Madurer, un giorno, cominciò ad aggiungere delle spighe sottili, dorate, che spiccavano nell'erba e spingevano, però non troppo, la loro cima nell'azzurro del cielo. — È arrivato il grano, nel nostro prato? — disse sorridendo Sakumat, che si fermava qualche volta alle spal- le del bambino, a guardarne il lavoro. — L'ha portato il vento fino qui, dalla grande vallata del Firat? — Non è grano, — rispose Madurer serio serio, — queste non sono spighe di grano. — Non è grano? Però sembra grano: un grano sottile... — Sí, è simile al grano. Ma sono spighe di stralisco. — Stralisco? È una pianta che non conosco, — disse Sakumat, avvicinando con curiosità la faccia a una delle spighe dipinte, per studiarla meglio. — Nessuno lo conosce, — disse Madurer, — è una specie di pianta luminosa. — Luminosa? — Sí. Splende nelle notti serene. È una specie di pianta-lucciola, capisci? Noi adesso non la vediamo splendere, perché è giorno. Ma di notte lo stralisco illumina il prato. Sakumat non rispose, continuando la sua osservazione. Quella sera parlò al burban, e gli chiese di mandare un uomo a Malatya, presso il mercante Kayaty, che stava nella piazza della moschea... Dopo una settimana, in piena notte, Sakumat scosse il bambino addormentato con dolcezza. Nel buio della stanza, seduto su un cuscino a quattro passi dal letto, stava il burban, silenziosamente. — Svegliati, Madurer. — Cosa c'è? Cosa c'è, Sakumat? — Guarda. Il bambino, confuso, si mise a sedere sul letto. Tutto intorno, nel buio, centinaia di spighe sottili splendevano di luce d'oro. Inclinate di qua e di là brillavano nel prato scuro, e sembravano oscillare al vento. — Lo stralisco! — gridò il bambino balzando in piedi sul letto, stordito. — È una notte serena, — disse Sakumat. Madurer guardò in alto. Centinaia di punti lucenti splendevano nel buio del cielo. A faccia in su, sprofondando con i piedi nel letto, Madurer girava su se stesso, e guardava. Apriva e chiudeva velocemente le mani davanti al petto, come per afferrare l'aria, e respirava profondamente. — Oh! Mio padre lo sa? — disse, senza abbassare lo sguardo. — Sí, Madurer. Sono qui, — disse il burban a bassa voce. Anche lui, invisibile sul cuscino, respirava profondamente. Il suo fiato, piú vasto e lento di quello di Madurer, sembrava l'onda del vento che piegava lo stralisco.

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Anche quando il bambino si riprese, e ricominciarono i lunghi e quieti riposi diurni, i medici restarono a Nactumal per continuare le loro osservazioni. Si informavano continuamente sul suo appetito, gli chiedevano in modo giocoso notizie sulle sensazioni del corpo, si facevano raccontare i suoi sogni. Quando i medici erano presso Madurer, Sakumat si allontanava dal palazzo e compiva i suoi giri a cavallo lungo i fianchi della vallata, qua e là per i sentieri scabri e l'orlo pietroso dei pascoli. Qualche volta lasciava il cavallo a brucare e camminava lentamente lungo quelle file aride di pietre, chinandosi ogni tanto a sfiorare con le dita una sporgenza tagliente, o la consistenza della polvere bianca in cui la roccia si sfaldava al contatto. I medici partirono dopo una settimana, salutando il bambino e il pittore con inchini silenziosi. Quando se ne furono andati, il burban chiamò Sakumat e disse: — Amico mio, la speranza si perde. Costretti alla sincerità, i medici hanno detto che mio figlio non vivrà a lungo. Il suo corpo, da sempre incerto ospite del mondo, sta per spegnersi. La potente e cieca forza della vita, quella che non mi ha permesso di diventare sordo mentre pronunciavano le parole, che ora non mi lascia impazzire per il tormento, sta abbandonando la sua carne leggera. Amico mio, io non ho mai conosciuto un dolore cosí grande: nemmeno quando mori Aviget, la sposa del mio cuore. Eppure ne vorrei uno maggiore, perché troppo piccolo mi sembra quello che è in me. Ganuan abbassò il volto e pianse, e Sakumat pianse con lui. Poi il pittore chiese: — Quanto potrà vivere ancora, signore? — Dicono non oltre un anno. — Desideri che io me ne vada? — Non ho desideri: ma questo è l'ultimo che potrei avere. Resta, se puoi. Sakumat tornò a cavalcare. Il suo giro si fece piú ampio, seguendo la strada che in rapida diagonale attraversava i campi magri e giungeva poco sotto il crinale settentrionale della vallata. Da qui, percorrendo in altezza il fianco settentrionale, usciva ed entrava in boschetti di basse querce tenaci e spinose, esponendosi a tratti di scarpata che il vecchio cavallo affrontava molto prudentemente. Compiendo una larghissima curva a ridosso dei monti, la pista piegava poi a sud, lungo il versante occidentale, incrociando sentieri appena accennati, scie scabre di greggi e di carovane. Da qualsiasi punto di quel percorso, tranne che nei brevi tratti alberati, si poteva scorgere il palazzo bianco del burban, giú in basso, stagliato come una pietra di primo rango nel pietrame del fondovalle. La discesa, lungo il lato sud, era meno diretta della salita, per un terreno dalla vegetazione aspra, interrotta da chiazze di fiori colorati e dai cespugli quasi azzurri di cupatja. Il giro si completava su una pista ben battuta che attraverso i pascoli piú ricchi della valle, dove brucavano quieti montoni abbandonati, riportava alle prime case del villaggio. Sakumat fece tre volte l'intero percorso, come se ad ogni ritorno dimenticasse di averlo compiuto, senza badare al passo sempre piú rotto del cavallo. Poi guidò la bestia alle stalle e rientrò nel palazzo, dove un alto silenzio regnava. Madurer era ancora addormentato. Ganuan sedeva a occhi chiusi presso il letto del bambino. Sakumat percorse le pareti dipinte, osservando le montagne e la pianura, la città assediata e il mare, il vascello pirata e il prato rigoglioso, in cui il segno sparso dello stralisco gli sembrò piú marcato ed evidente del solito. Per tre volte, lentamente, come aveva fatto attorno alla valle, percorse i paesaggi e notò cose che non sapeva, forme e gesti e colori che non ricordava di avere creato. Il burban, ai primi cenni di risveglio di Madurer, si allontanò come un'ombra. — Buongiorno, Sakumat, — disse il bambino. — Buongiorno anche a te, Madurer. — Ho fatto una gran dormita, vero? — Sí, un buon riposo. Ora stai bene? — Sì, bene. Un po' debole, come le altre volte. — Resterai a letto qualche giorno. Ti leggerò delle storie. — Benissimo! E poi continueremo a lavorare. Chiederò al burban mio padre di far terminare in fretta le nuove stanze. Non dovrebbe mancare molto. — Non molto. Ma abbiamo da lavorare ancora sulle nostre figure, Madurer. Ho delle idee, ma devo pensarci meglio. Come capitava a te prima di decidere il prato, ricordi? — Si. — Intanto, finché non ti alzerai, leggeremo delle fiabe, e guarderemo le figure dei libri. — E faremo qualche disegno sulla pergamena? — Se non ti stancherà troppo. Ti insegnerò a dipingere gli uccelli. Ma nei giorni seguenti le forze di Madurer non furono sufficienti a disegnare. Sakumat gli lesse molte storie, parlando con lui delle vicende e dei personaggi. Notava intanto come la forza stentasse, molto piú della volta precedente, a ritrovare le strade nell'organismo del piccolo. Ma il pensiero di Madurer, tra un riposo e l'altro, era rapido e desto. Soltanto, a tratti, lo prendeva una specie di distrazione, un momento di assenza, nel quale gli uscivano parole svagate, forse senza significato: come se il suo stesso pensiero, imprendibile, le facesse risuonare senza i legami del linguaggio. Anche i sonni diurni diventarono piú lunghi e insistenti. — Costruire nuove stanze è una buona idea, — disse Sakumat. — Ma io ne ho una migliore. — È quella a cui hai pensato in questi giorni? — Sí. E mentre ci pensavo diventava piú bella. — Allora dimmela, Sakumat. — Ecco: se noi continuiamo ad allargare le pareti, non potremo piú dominare il paesaggio. Voglio dire che diventerà troppo grande per giocarci davvero. Resterà per molto tempo uguale, e sarà meno vivo. Madurer taceva, attentissimo. — Insomma, credo che queste pareti ci. bastino, - disse Sakumat. — Ma sono complete! — osservò Madurer. — Il Tigrez è grande nel mare, e piú grande non potrebbe diventare. Il prato è completamente fiorito. C'è anche lo stralisco che brilla di notte. Che altro possiamo dipingere? Sakumat giocava parlando con le mani del bambino, come spesso faceva. — Ricordi come abbiamo dipinto le cose, Madurer? — disse, stringendogli un po' piú forte le dita, — come era piccola la nave, all'inizio? E com'era acerbo il prato? — Si, li abbiamo fatti poco a poco. Piano piano. — E ricordi una cosa ancora piú antica? Che il mondo non fa salti, e non si ferma? Madurer rimase in silenzio, soppesando fra le sue dita piccole quelle piú grandi del pittore. — Vuoi dire che i nostri paesaggi possono continuare? — disse. — Possono continuare, sí. E cambiare. Se noi vogliamo. — Cambiare come? Diventare più belli? — Sono già belli, Madurer. Ma possiamo andare avanti nella storia, aggiungere il resto della vita. Il bambino sembrò affaticato. Stava rientrando nel torpore. — Sí, facciamo cosí, — disse, — poi mi spiegherai, come... Anche per Sakumat era stata una conversazione faticosa. Ascoltò il respiro fragile del bambino assestarsi in cadenza piú regolare. Poi chiuse gli occhi. Come dalle ferite di un ramo, dalle palpebre chiuse uscivano lacrime chiare.

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Ormai passava gran parte della giornata sui cuscini, a guardare il lavoro del pittore. Non aveva avuto altre crisi, ma le forze non erano tornate. Raggiunto un certo grado, anzi, avevano cominciato a diminuire. Lentamente il bambino si faceva pallido, e respirava con maggiore affanno. — Ricordi quando ti chiesi dove andava il carro di Talya, Madurer? — disse il pittore, — ricordi cosa mi hai risposto? — Ho risposto: «Va molto lontano, Sakumat». — Anche la nave va molto lontano. — Però, Sakumat, tu mi hai chiesto: «Ma va verso la collina, o verso la pianura?» — Nel mare c'è solo l'orizzonte, Madurer. — Allora la nave va verso l'orizzonte, — disse il bambino. Guardava intensamente il vascello che, un poco inclinato a sinistra, era ormai lontano nel mare, con le vele gonfie tinte di rosa. — Dopo l'orizzonte, c'è un altro orizzonte, — disse Sakumat. Dipingeva con le spalle al bambino, ritoccando con il pennello le piccole onde ribollenti ai fianchi del veliero. — Noi non lo vediamo l'orizzonte che c'è dopo, — osservò il bambino. Però c'è. — Madurer lo vede? — Come? — disse Sakumat, voltando il capo. — Madurer, il mozzo, quello che sta sulla punta della nave, — ripeté il bambino a voce appena piú alta, — lui vede l'altro orizzonte, vero? — Certo. Lo vede. Lui vede tutti gli orizzonti, e li vede per primo. I sonni di Madurer occupavano piú di metà delle giornate e la notte intera. Erano lievemente agitati, ma senza angoscia: come se, in essi, il bambino cercasse di spiegare qualcosa a qualcuno, o a se stesso, senza riuscirci pienamente. Quando si svegliava non si rendeva mai conto di aver dormito a lungo. — Com'è lontano il Tigrez! Se noi non sapessimo che è il Tigrez, non lo potremmo riconoscere! — disse a un risveglio. — E il Tigrez: vedi le vele? Solo il Tigrez ha le vele cosí, in tutto il mare tra Grecia ed Egitto. — Che orizzonte sta vedendo, adesso, Madurer? — Un orizzonte uguale a quello che vediamo noi, probabilmente, — disse Sakumat, — il mare è molto grande. Contiene tanti orizzonti. — Ma dopo l'ultimo orizzonte, cosa vedrà Madurer? — Non c'è l'ultimo orizzonte, — disse Sakumat, — il mondo è rotondo. L'orizzonte non finisce mai. — Allora, quando il Tigrez non ci sarà piú... Voglio dire, quando non lo vedremo piú, continuerà dall'altra parte dell'orizzonte, fino a tornare indietro! — esclamò con forza leggera il bambino. — Certo. Un giorno o l'altro, il suo orizzonte sarà quello, — e Sakumat indicò con il pennello tinto d'azzurro l'altro lato della stanza, dove intatta si stendeva la linea del mare. Con qualche difficoltà, gioiosamente, Madurer si spostò sui cuscini per vedere meglio il mare da quella parte. — È vero! — disse sforzando la voce, — quando avrà fatto il giro, lo vedremo arrivare dall'altra parte! E sarà ancora un puntino, ricordi? Sakumat posò il pennello e andò a sedersi accanto al bambino. — Si. Dovremo avere pazienza, quando spunterà, perché il puntino potrebbe essere un'altra nave. Non c'è solo il Tigrez, sui mari del mondo. Ridevano leggermente, guardando insieme il mare libero. — Certo, non c'è solo il Tigrez, — disse Madurer, — però, se non sarà quello il puntino giusto, prima o poi il Tigrez spunterà. — Sicuro, — fece Sakumat, — chi lo ferma, il Tigrez? Il bambino tornò a guardare la parete su cui la nave ormai piccolissima viaggiava verso il primo orizzonte. — Io vorrei che fosse molto veloce, — disse, — che andasse in fretta a... Che trovasse presto i suoi orizzonti. Sakumat lo guardò. — Hai detto una cosa bellissima, Madurer. — Che cosa ho detto? — Che il Tigrez va a trovare i suoi orizzonti. Questa è una poesia. — Allora io sono un poeta, Sakumat! — E piuttosto bravo, direi, — disse il pittore, abbassando la testa. Madurer rideva. Inquietamente si voltò verso l'amico. — Tu hai la faccia stanca, Sakumat, — disse poi, serio, — sei molto pallido, e anche un po' magro. — Sono davvero pallido e magro, Madurer? Bisogna che vada a guardarmi in uno specchio... Ma forse è meglio che non ci vada. Non mi vorrei spaventare. Lasciamo lo spavento nello specchio. — Si. La tua immagine è là che aspetta, per farti spavento: ma tu non ci vai! — esclamò il bambino. Poi aggiunse, calmo: — Forse ti stanchi perché non posso ancora aiutarti a dipingere. — Non lo credo, Madurer, — disse il pittore, — non è faticoso, lavorare con íl pennello. E la nave va cosí veloce, che fra poco basteranno tre colpi di colore... Madurer tornò con lo sguardo al mare sgombro, alla sua destra. Tacque qualche minuto, pensando e respirando lentamente. Poi chiuse gli occhi e, per qualche istante, si addormentò. Sakumat si passò le mani sulla faccia, in silenzio. La barba era ormai lunga, e numerosi fili bianchi vi segnavano le ondulate piste del tempo. Il bambino riapri gli occhi. — E se dall'altra parte del mondo, fra un orizzonte e l'altro, affondano il Tigrez? — disse accigliandosi, come se avesse fatto in quell'istante un sogno di sciagura. — Può capitare, Madurer, — disse Sakumat lentamente, scostando le mani dal volto, — il vecchio Krapulos è certo un gran capitano, la ciurma è sveglia e fidata, la nave è forte... Ma può capitare. Tu pensi che capiterà? — No. Ma ci proveranno! — disse Madurer quasi con ira. — Chi ci proverà? — Gli spagnoli. E poi anche i greci. — Tutti insieme? Ahi, povero Tigrez... — Non tutti insieme. Prima gli spagnoli, dalle parti della costa libica, e quasi un mese dopo, i greci. — Ma Krapulos, è greco anche lui! Come mai gli dànno la caccia? Sono altri pirati? — Non ricordi cosa diceva quel ragazzo nella storia di Zineb e i pirati, Sakumat? Diceva: «Tutti i pirati sono nemici di tutti». — No, diceva: «Per un pirata, tutto il mondo è pirata». — È piú o meno la stessa cosa, no? — Sí, infatti. E poi, cosa accadrà? — Dunque, gli spagnoli andranno a picco in un baleno, perché combattevano ubriachi di vino. — Sia lode ad Allah, e al suo profeta. E i greci? — Con i greci sarà piú dura. Il Tigrez sarà colpito da una bordata. — Vittime a bordo? — Purtik, il nostromo. Via la testa con una palla di cannone. — Beh, era un rinnegato. Prima o poi la doveva perdere, la testa. Lascia una vedova a Rodi, se non ricordo male... Ma si è già risposata da ventitré anni. Madurer rise debolmente. — Invece lo sai chi fa vincere il Tigrez? — disse. — Madurer. — E come fa? È solo un mozzo. — Sí, però ad un certo punto della battaglia con i greci, c'è da andare in fretta sul pennone per manovrare la vela quadra, e sotto il tiro dei greci nessun altro ce la fa. Ci provano in sette, e cascano giú come mosche, e si sfracellano un po' sul ponte, e un po' finiscono in mare. — Poveracci! Allora va su Madurer? — Sí, va su come un gatto. — Ma i greci non sparano anche a lui? O sono sbronzi di vino greco? — No, sparano e mirano dritto. Ma Madurer non è mica scemo. Sale coperto dall'albero, e cosí in fretta che nessuno riesce a prendere la mira. Eppoi c'è il mare agitato, e tutto si muove. — Bene. E cosí riesce a girare la vela quadra. — Allora il Tigrez fa la manovra giusta, e sperona la nave dei greci. Muoiono quasi tutti, perché lí ci sono i pescecani. Tre si salvano, e diventano pirati. — Ahi, povero Krapulos! Tre nuove bocche da sfamare! — Due bocche in piú, Sakumat. Purtik ha perso la testa, e quindi la sua bocca non c'è piú. — E quelli che tentavano di salire alla manovra? Quelli che si sono spiaccicati e caduti in mare? — Ah sí. Quelli... Sono morti in due. Uno coi pescecani, e uno proprio fracassato sul ponte. Due su sette sono morti. Cosí non c'è una sola bocca in piú da sfamare! — E chi erano? — Gente da poco, anzi da niente. Non si sa nemmeno come si chiamavano. Per ricordare i loro nomi, dovremmo dire quelli di tutti gli altri. Insomma, esistevano poco anche prima, capisci? — Come la farfalla verde sul muschio verde. Madurer rise. — Allora il Tigrez ci guadagna, con i due pirati nuovi! — disse Sakumat. — Certo! — disse Madurer. — Perché poi saranno fedelissimi a Krapulos. Sono di Salamina, suoi compaesani. Anzi, uno è suo cugino. — Com'è piccolo il mondo, — disse Sakumat alzando le spalle. — E allora, per il nostro mozzo, ci sarà un premio? — Diventerà nostromo. — Cosí, di colpo? Non è un pochino troppo giovane? E gli altri pirati non sono invidiosi? — No, nessuno è invidioso. E poi nessuno di loro vuole fare il nostromo. Non vogliono le responsabilità. Ma siccome un nostromo ci vuole... E poi, quando c'è la battaglia, possiamo fare che Madurer ha già sedici anni. A sedici anni si può fare il nostromo, vero? — Sul Tigrez sí, — disse Sakumat. — Ma ora sei stanco, Madurer, dovresti... Madurer lo interruppe, con un gesto della mano. — Tutte quelle battaglie rallenteranno un po' il viaggio, però! — Sí, un po'. Ma ci sarà buon vento. Tutto il vento che occorre. — Forse è meglio che la battaglia con gli spagnoli non c'è stata. Facciamo cosí. Quella battaglia non c'era. — Pensa se lo sapessero gli spagnoli, che festa farebbero! — disse Sakumat. — Ma adesso riposa, Madurer. Il bambino si abbassò tra i cuscini. — Quando il Tigrez tornerà e sarà vicino, si vedrà che Madurer è nostromo? — Si vedrà di sicuro. E forse, allora, sarà già diventato capitano. Un capitano si vede da lontano, no? Quel gioco fu l'ultimo che Madurer fece con lena.

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Quando tutto fu cenere Sakumat guardò Nactumal per l'ultima volta e rimontò a cavallo. A Malatya, due giorni piú tardi, lo riconobbero a stento. Molti domandarono che cosa lo avesse tenuto lontano: a tutti Sakumat rispose che era stato un lungo lavoro, e niente piú. Quando si sparse la notizia del suo ritorno cominciarono a bussare alla sua casa, per chiedergli di dipingere scene di caccia e di bagni, di uccelli e di fiori. Dopo aver detto di no al decimo che era venuto, e avere per la decima volta rifiutato di spiegarne la ragione, Sakumat vendette la casa e salutò gli amici per sempre. — Sei stato via cosí a lungo, e già te ne vai? Sorrideva e li abbracciava in silenzio. Partí e cavalcò per tre settimane, oltre le montagne, lungo il fiume Ceyhan, oltre Adana, e Içel, oltre la foce del turbolento Göksu, lungo il mare. Piú in là, al limite di un piccolo villaggio sparso fra rocce grandi come elefanti, comprò una casetta che sembrava una roccia fra le altre, a pochissima distanza dalla spiaggia. Da li sentiva il rumore delle onde, continuamente, ma come un silenzio. Conobbe le persone del villaggio e si fece qualche amico, con il quale beveva il tè, cucinava e parlava quietamente delle cose presenti. Visse a lungo in pace, facendo il pescatore.

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Passò la limpida costa d'Arcadia, il fischiante stretto di Cerigo: poi, con la prua ormai a Nord, la gran luce di Zea e del Capo d'Oro. A Sciro il capitano della Santo Paolo seppe di fitte scorribande corsare nell'Egeo orientale, e propose a Gentile di allargare il viaggio verso Nord, aggirando il passo pericoloso dei Dardanelli. — Cosí non vedrò Tenedo, dove la flotta achea si nascose... — disse il pittore, lisciando la corta barba. Come, maestro? Che flotta? — disse Domenico Cavino, che non era uomo rozzo, ma dovendo imparare l'arte della navigazione non aveva avuto gran tempo per le leggende antiche. — Non ti inquietare, mastro Domenico, — sorrise il pittore. — Sono solo ubbie da chierico... Dimmi invece come proseguirà il mio viaggio, visto che ci è sconsigliato passare i Dardanelli. — Ad Alessandropoli c'è buona gente di Venezia, - disse il capitano. — Sarà facile organizzare da li per via di terra una carovana che risalga la Mariza e l'Ergene, lungo l'antica pista. In meno di dieci giorni sarete a Costantinopoli, senza pericolo di vele pirate. Gentile non fu scontento o impaziente per la novità: da alcuni giorni il traballio della galea sulle instancabili corte onde dell'Egeo gli era divenuto pesante: ma ci vollero altre quattro giornate di prudente rotta, prima rasentando il Monte Santo, poi traversando d'un fiato tenendosi a destra l'alta Samotracia, fino alla fosca linea accaldata della costa dei Traci. Ricevute da Domenico Cavino le carte di avvio della Serenissima, il ricco mercante Jacopo Carbonin, ad Alessandropoli, fu ospite solerte di Gentile, e si incaricò di organizzare il resto del viaggio: ma per una via diversa da quella prevista dal capitano della Santo Paolo. — Percorreremo la costa verso Oriente, arrivando alla fine del golfo di Saros, — disse al pittore. — Poi attraverseremo all'ascella la lunga penisola del Chersoneso, che è come un lungo becco sui Dardanelli, e sotto i monti Tekir ci imbarcheremo lungo costa verso Costantinopoli: li il mare è sicuro e ben guardato ormai dalle navi del Sultano. Preso da una stanchezza generale, Gentile non aveva nulla da obiettare a quei progetti e a quelle modifiche di viaggio: si lasciava trasportare e guidare da quegli uomini con fiducia, godendosi in un piacevole stordimento le forme e i colori inconsueti del paesaggio. — Farò lo stesso percorso, al ritorno? — chiese al suo ospite la sera prima della partenza. Il florido veneziano lo guardò e sorrise. — Cosa ti diverte, Jacopo? — chiese Gentile. Sedevano nel portico dell'ampia casa del mercante, all'estremità occidentale della piccola città. Era il tramonto, e da poco avevano salutato il capitano della Santo Paolo, che tornava al porto, pronto a contrattare una partita di legno pregiato di Taso per il viaggio di ritorno: sapeva già quale abate, in terra padovana, avrebbe pagato per quel legno da intarsio una cifra molto soddisfacente. Il portico della casa di Jacopo guardava il mare, e il sole accendeva di sangue una larga chiazza verso Occidente. — Ho sorriso, mastro Gentile, perché da molti anni abito qui, — disse pacato il mercante. — Sono ormai disabituato al modo in cui noi Latini ci preoccupiamo del futuro. Nessun abitante di questa città, voglio dire, avrebbe mai chiesto, come tu hai fatto poco fa, qualcosa che riguarda un futuro tanto lontano... — Tanto lontano, Jacopo? — si stupí Gentile, a sua volta sorridendo. — Dopotutto, l'opera che vado a fare a Costantinopoli non potrà durare piú di tre o quattro mesi. Certo sarò di ritorno prima dell'inverno... Il mercante aggiustò con un morbido movimento delle mani la tunica gialla, molto piú ampia e comoda di quelle in uso a Venezia, e sorridendo nuovamente si chinò a versare vino dolce nella coppa del pittore. — Tre o quattro mesi: un futuro davvero lontano, - disse. — Se qualcuno qui dicesse a un creditore: «Ti pagherò fra tre mesi», quello gli salterebbe al collo per strangolarlo. — Vuoi dire, Jacopo, che in questo paese, o in Turchia, nessun debito può durare piú di due mesi? — Oh no, amico mio: qui i debiti durano come in ogni parte del mondo, e forse anche più a lungo: ma durano di giorno in giorno, capisci? Se il debitore non riesce ad evitare il creditore, lo saluta e gli dice: «Ti pagherò domani, mio caro»: e il creditore è contento, anche se sa benissimo che il sole tramonterà molte volte prima che lui possa stringere fra le dita quello che gli è dovuto... In ogni caso, mastro Gentile, io credo che se la tua opera presso il Sultano verrà bene, e sarà gradita, e se tu non vorrai rimanere per sempre nella sua reggia, incantato dalla magnificenza e dalle ricchezze che vedrai, il tuo ritorno sarà piú rapido e sicuro di quanto non sia stata la venuta. Forse, addirittura, il Sultano ti farà trasportare da una delle sue navi scortate: e nessuno dei pirati straccioni della costa turca, o di Chio, è in grado di sfidare i vascelli imperiali. — Sento nella tua risposta una parte che non dici, Jacopo, — disse Gentile dopo aver bevuto un sorso di vino liquoroso. — I pittori non sono dunque solo osservatori della superficie delle cose! — disse il mercante, aprendo le mani. — Forse, — continuò Gentile, — quello che mi taci, pensando ai tuoi doveri di ospite, riguarda ciò che mi aspetta se la mia opera sarà sgradita a Maometto? Forse pensi che, in tal caso, mi rimanderà su una tartana sfasciata, o su un mulo zoppo? O addirittura che non mi rimanderà affatto, tagliandomi la testa con una scimitarra d'oro? Il mercante rise apertamente. — Il Sultano è troppo saggio per tagliar la testa a un pittore della Serenissima, — disse poi. — Ma ci sono molti modi, in Oriente, mille piú di quelli che noi conosciamo, per punire qualcuno, o mostrargli disapprovazione... Ma non c'è motivo di credere che questo accadrà a te, maestro Gentile: la tua fama era presso di noi assai prima della tua persona. Gentile tacque, un poco riflettendo sulle parole del veneziano, un poco abbandonandosi, come gli capitava spesso dall'inizio di quel viaggio orientale, a un dolce assopimento del corpo e della mente. Profumo di stoppie e terra, frutta, bestiame, eucalipto, legno bruciato, arrosti, incensi, si mescolavano nell'aria azzurro cupo della sera. Il sole era ormai scomparso, senza drammatici barbagli, nell'orizzonte fosco, e grossi e veloci pipistrelli, come colpi di ciglia, gettavano ombre nel cielo oltre gli archi del porticato. — Se non ti è cosa importuna, mastro Gentile, — disse il mercante con voce quieta, — e se non tocca cose segrete, raccontami come è nata quest'impresa... — Lo faccio con piacere, Jacopo, — disse Gentile. — E sono certo che, se nel racconto indugerò un poco su cose o immagini o parole veneziane, non ti sarà del tutto sgradito.

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3. — Miei cari, — disse il Doge, quando i due fratelli furono seduti sugli scranni coperti di velluto, davanti a quello piú alto di lui. — Come sarebbe contento, vostro padre Jacopo, a vedervi cosí ben riusciti e onorati! — Son sei anni che è morto, — disse Gentile, abbassando appena la faccia. — Benedetto sia il suo ricordo. Dopo un'occhiata veloce al fratello maggiore, Giovanni disse: — Ma io credo, signore, che nostro padre non potrebbe provare gioia piú grande di quando, ancora ragazzi, ci teneva nella bottega, e guidava senza toccarle le nostre mani e la mente, facendoci considerare le forme e le figure, e ci insegnava, perdonando i nostri errori, a impastare le terre per la pittura... — Anch'io lo credo, mastro Giovanni, — approvò il Doge, muovendo il capo avanti e indietro in un assenso solenne. — Ma è il momento ora di parlarvi della ragione per cui io e gli Anziani della Serenissima vi abbiamo convocato. Forse, avrete pensato, vi si vuole affidare un lavoro in uno dei nostri bei palazzi... Invece è cosa diversa, e benché nessuno vi possa imporre quel che la vostra volontà non accetti, la richiesta che stiamo per farvi è per la Repubblica di grande impegno e valore, e non vi parrà giustamente altro che lode e privilegio il fatto che sia rivolta a voi. I due fratelli pittori tornarono a guardarsi per un istante, e come erano abituati da sempre in un attimo si lessero sotto la compunta tranquillità, e la rispettosa curiosità dei volti, la scintilla di un sorriso, un complice ammiccamento sul procedere ampolloso del Doge. — Del resto, fratelli Bellini, — continuò il Reggitore con un movimento delle bianche mani, — alla fine di tutto uno solo di voi sarà impegnato... Ma ora vi dirò piú chiaramente. Gli Anziani, nei loro scranni ai lati del Doge, presero fiato nello stesso momento, come i cantori all'inizio di un inno: e per un attimo ai due fratelli pittori parve che il resto del discorso sarebbe stato davvero cantato da tutti quei vecchi in palandrana. Invece il Doge riprese da solo: — Il Sultano dei Turchi, Imperatore Maometto, che vive e regna a Costantinopoli, e con il quale la Serenissima ha da anni rapporti di pace ed alleanza, ci manda a chiedere un pittore, il piú valente che abbiamo, per un'opera nel suo palazzo. Sebbene non ufficialmente, ci fa sapere che quest'opera sarà un suo ritratto, e verrà esposto a venerazione sopra la porta interna del Palazzo Imperiale. Voi sapete piú di me, maestri, come gli usi e la religione dei musulmani non favoriscano la rappresentazione delle figure umane... Pare dunque che non ci siano nelle terre dell'Islam artisti capaci d'altro che meravigliosi ornamenti. La richiesta di un pittore capace ci è giunta in modo solenne e direi quasi pressante, tale da non permetterci dubbi né esitazioni. Né dubbi o esitazioni abbiamo avuto, del resto, nel pronunziare subito i vostri nomi: però ne abbiamo ancora, e non sono risolti, su a chi di voi chiedere e affidare l'opera... Il Doge tacque, volgendo ai lati lo sguardo lungo le due file di Anziani, come per raccogliere il loro consenso a quanto diceva. Poi tornò a vagare con gli occhi dalla faccia di Gentile a quella di Giovanni, che restarono in silenzio, ben convinti che il discorso non fosse finito. — Insomma, benedetti figli di Jacopo, — disse il Doge unendo le mani quasi a preghiera. — C'è stata una discussione molto appassionata, che vi risparmieremo: dovete solo sapere che i nostri venerabili Anziani, animandosi nel descrivere e commentare la bellezza delle vostre opere, e le qualità del vostro tocco, eran diventati come i ragazzini delle sponde che gridano durante le gare sul Canal Grande... Presi da discreto disagio, i due fratelli lo sciolsero in una risata, a cui si unirono gli Anziani, come a premiare la bonomia del Doge. — Alla fine, — disse il Signore facendo abbassare subito la voce di tutti, — alla fine ci siamo detti: scelgano loro. Piú di tutti noi, voi sarete rispettosi della vostra differenza, e generosi nella decisione. Scegliete dunque, maestri, chi di voi, se vorrà, potrà svolgere questo incarico prezioso, per il quale è annunciata, naturalmente, una generosa ricompensa. Non bisogna che lo facciate subito, s'intende. Il Doge tacque. Senza guardare il fratello, Giovanni prese la parola. — Illustre Signore, e voi nobili Anziani, non mi occorre consultare mio fratello Gentile io lo indico senza dubbio, e subito, come il piú adatto alla missione, la cui proposta onora anche me. Io non voglio, e certo nemmeno lui, discorrere qui, per questa ragione, sui diversi modi della nostra arte: cioè di come io penso e faccio le opere di pittura, o di come le pensa e fa lui... Se voi avete discusso, se vi siete accalorati, è stato vostro diritto e gioco: ma noi, quando insieme scoprimmo sotto lo sguardo amoroso e leale di Jacopo nostro padre, le diversità del nostro stile, subito le accettammo ed amammo come fossero parte dell'uno e dell'altro: in tale modo che mai ne vorremmo o sapremmo fare oggetto fra noi di discussione, e tanto meno di preferenza e contesa. Altre ragioni, in verità decisive, spingono invece a scegliere Gentile per questa missione: accade infatti che, come forse sapete, io stia in pieno lavoro alla Scuola Grande: e ad un punto tale che, interrotto o affidato ai soli aiuti, il danno sarebbe irreparabile, e la spesa rovinata. Un viaggio come quello che proponete, poi, richiede forza e buona salute: e io, benché qualche anno più giovane di mio fratello, sono di natura piú fragile e malsana. Vado soffrendo da mesi un perfido male ai piedi, che mi costringe a dipingere seduto, e non mi permette di sopportare altri viaggi che quello da casa mia a San Marco... Gentile ha tempra robusta, adatta ai viaggi, e per di piú ha da pochi giorni dato l'ultima pennellata al Salone del Maggior Consiglio, proprio oltre quella parete. Egli è dunque libero da impegni presenti, e nessun contratto lo lega per i prossimi mesi. Infine, rivelo che in un periodo della giovinezza in cui io ero affidato a una balia a Treviso, a causa della mia debole salute, Gentile ebbe una balia turca qui a Venezia, che gli raccontava storie dell'Oriente e gli insegnò la misteriosa lingua di Costantinopoli. E Gentile cosí bene l'apprese, che sempre era lui ad accompagnare nostro padre Jacopo alle fiere di piazza, dove i mercanti del Levante vendono terre colorate e i preziosi pennelli damasceni. Vedete dunque, Signore e Venerabili, come sembra che la stessa mano di Dio si sia mossa a indicare quale di noi due possa, se vorrà, prendere la via. E Giovanni, sbirciando questa volta Gentile con un sorriso truffaldino, abbassò la faccia come colui che umilmente s'apparta. Gentile sorrise. Il Doge, guardandolo, lo incoraggiò a parlare. — Signore illustre, e Anziani venerabili, — disse il pittore, — nonostante quello che mio fratello ha detto, pur accettando come sacra e benedetta la differenza delle nostre pitture, io sono nell'animo convinto che egli sia miglior pittore di me. Tuttavia, quello che lui dice sul corso dei nostri lavori, sul suo malanno, e sulla mia conoscenza della lingua turca, è la verità. Inoltre, io non nego che un viaggio nelle terre d'Oriente molto mi piacerebbe, giacché ricordo le storie che non solo la balia turca, ma nostro padre ci raccontava: storie di cavalieri e cavalli straordinari, di leoni e deserti, stupende magie e musiche, damigelle incantate. Io e Giovanni lo ascoltavamo in silenzio, seduti ai suoi piedi, con la schiena contro il muro del campiello ancora caldo di sole: e l'odore salato del canale diventava per noi il profumo dei porti d'Oriente. Alla fine, ricordi, Giovanni? nostro padre diceva: «E domani, pesciolini, ve ne conterò una nuova! » Giovanni Bellini, che durante il racconto di Gentile aveva mutato la sua espressione allegramente cospirativa in una di intensa e commossa memoria, alzò verso il Doge gli occhi rossi di pianto. — Miei cari, miei cari, — disse il Signore, sporgendosi in avanti sullo scranno, dopo una pausa rispettosa, — mi sembra che quello che occorreva sia ottenuto. Giovanni non può, e non vuole. Gentile vuole e può. A voi va bene, a noi va bene: anche all'illustre Maometto piacerà.

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Salutò e congedò Jacopo Carbonin, che da molti anni conosceva, e assunse l'incarico di condurre a Costantinopoli Gentile per via di mare. La nave di Naguat Tafi era un'imbarcazione di medio peso, solida e ricca. Portava la vela turca, e due file di remi rossi come chele d'aragosta; sottili ornamenti d'oro lungo il bordo, e per polena una testa di cavallo di metallo lavorato, con la criniera di argento massiccio. Come tutte le navi dei Dignitari dell'Imperatore alzava tre bandiere rosse sul pennone, proprio sotto la travetta di coffa. Naguat Tafi era un ospite silenzioso, che si fece dovere ed onore di non accennare nemmeno con una parola, durante i quattro giorni di navigazione, al motivo per cui Gentile si recava presso Maometto. Parlava poco, del resto, anche di altre questioni, eseguendo il suo lavoro di comando in modo discreto ed efficace. A Gentile non restò, per quanto gli occhi arrossati dalla polvere di pista dei giorni precedenti glielo permettevano, che osservare la costa scorrere a sinistra, e il traffico muto delle barche di pescatori: nere lente e sottili, come rari insetti acquatici zigzagavano nella prima fascia di mare, senza arrivare mai ad incrociare la rotta della nave. Gli giungevano da terra, mai lontana piú di due miglia, essenze forti di menta, incenso, lavanda ed arancio: una mistura simile a quella che sentiva al mercato di San Marco, a Venezia, quando vi si fermava per sentire odori e vedere colori. Due ragazzini dalla pelle scura, vestiti poveramente, correvano ogni tanto sul ponte stretto, ma non per gioco. Sembravano indaffarati a portare ordini, o a misteriosi controlli. Passando vicini a Gentile, tenevano la testa rigidamente abbassata, come se avessero avuto ferma proibizione o temessero grandemente di guardarlo negli occhi. Il pittore ricordò il mozzo della Santo Paolo, cosí maltrattato dall'equipaggio, e gli sembrò che quei due piccoli marinai turchi fossero piú fortunati e felici di lui, e non solo per il fatto che erano in due. Mentre uno stormo di gabbiani sottili disordinava l'azzurro sopra la vela, Gentile pensò che non sempre le terre o le navi dove sventola la bandiera cristiana, sono migliori di quelle dei fedeli di Allah.

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Gentile entrò nel ventre chiassoso e frizzante della città mentre intorno a lui il taciturno Naguat Tafi guidava con cenni indiscutibili la manovra e gli uomini dell'equipaggio l'eseguivano svelti, con la pelle scabra delle tempie e del collo appena lustra per il caldo terrestre. Uno dei due ragazzini, arrampicato sulla coffa, segnalava a qualche invisibile osservatore di terra, forse verso una torre bianca che dominava la baia, con due bandierine in continuo movimento. Aggirando ormai a forza di remi un basso promontorio, la piccola nave si affacciò lentamente ad una rada larga mezzo miglio, ben protetta dal vento, che sembrava essersi per miracolo liberata dall'assedio delle costruzioni della città. Un bosco di pini e ginestre scendeva da una scarpata semicircolare fino alla spiaggia dorata, che aveva forma di falce. Appena si sentiva, oltre le sponde verdi della collina, lo sterminato brusío di Costantinopoli. Mezza dozzina di persone dalle vesti ampie e ricche, aspettavano quietamente, ferme e distanziate, sulla spiaggia. Dietro di loro, appoggiate al suolo fra portatori accovacciati, sei portantine chiuse da drappi verdi ed azzurri erano in attesa. Naguat Tafi fece togliere i remi dall'acqua. La forza della nave si spense in un mezzo giro, frenata dall'ancora subito gettata nel basso fondale. Una barca che, sola, era ferma a cento metri da riva, si accostò alla nave, nel punto dove la fiancata si apriva poco sopra il livello del mare. Preceduto dall'ingombro ammagliante di un turbante di seta, sali a bordo Kama Katuray, fiduciario del Sultano, che si rivolse inchinandosi a Gentile, e lo salutò in veneziano. Egli parlava, oltre al turco, tutte le lingue del Mediterraneo dalla porta orientale fino a quella d'Occidente, che s'affaccia ai terribili abissi dell'oceano. — o parlo la tua lingua, Kama Katuray, — disse Gentile, rispondendo con un inchino a quello del dignitario. — Benché sia felice di sentire il suono della mia... — Felice l'uomo che parla molte lingue, e ha un solo pensiero, — sorrise Kama Katuray. — Ti prego di seguirmi, Signore: sei atteso a palazzo.

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Per tutti i dieci metri della loro altezza, le pareti mostravano scalini a intervalli di trenta centimetri, come se, durante la costruzione, si fosse molte e molte volte deciso, a ritmo regolare, di aumentare l'ampiezza della sala. Ogni fascia, che percorreva interamente i quattro lati, ciascuno di cinquanta metri, era mosaicata in modo diverso: da geometrie ad angoli vivi prevalenti in quelle basse, a figure sempre piú curvilinee verso l'alto, tanto da imporre il senso ottico di un'evaporazione, di un espanso rigoglio luminoso. I colori prevalenti di questa meraviglia d'ornato andavano dal rosso-arancio delle fasce inferiori al verde-azzurro delle superiori. Il pavimento era di marmo assolutamente nero, e il soffitto di madreperla rosazzurra infinitamente venata. Attraverso le quattro ampie porte moresche che, esattamente al centro di ogni lato, interrompevano le fasciature di mosaico, quattro chiostri riempivano l'immenso salone di una luce multipla e vaporosa che si modificava durante il giorno, tingendo in sfumature sempre diverse la preziosa fioritura dei disegni. Nel pieno del pomeriggio, mentre avveniva la cerimonia di saluto, la luce prevaleva da Ovest: e i mosaici della parete orientale gettavano luce rossastra all'interno, come quella di fiamme miracolosamente fresche. Stordito da quella meraviglia di colore e di spazio, Gentile quasi non badava alla sessantina di dignitari seduti su sgabelli molto bassi attorno al trono di Maometto: erano Visir, Ambasciatori di stati interni, rappresentanti della Serenissima a Costantinopoli. Portavano vesti stupende, che a Gentile sembrò fossero state scelte in tinte arancio-rosate, in armonia con la luce del salone. L'Imperatore dei Turchi, entrato per ultimo dal lato occidentale, provenendo dai vapori di luce dorata, si era accomodato sul seggio in oro massiccio, tempestato di cento rubini, al centro del salone, e con un corto cenno della voce aveva fatto alzare il volto abbassato di tutti. A una distanza di dieci passi, Gentile rinunciò a soddisfare il suo interesse e la sua curiosità di pittore sul volto del suo soggetto, aspettando future prossimità: ne ammirò la veste assolutamente bianca, il bianchissimo turbante e le brune mani aneliate. Notò, a distanza, un volto sottile, bruno e ossuto, una barba coltivata a siepe lungo la mandibola, il naso ampio e deciso, e gli occhi molto scuri. Ogni tanto, Gentile si distraeva dalla rispettosa ammirazione del Sultano, per tornare allo stupore del mosaico: tanto piú che Maometto non sembrava guardare lui piú di qualche altro fra i presenti: fissando un punto alto, davanti a sé, rimaneva seduto e immobile, con le mani inanellate appoggiate alle ginocchia. Si alzò allora un anziano Visir, che dopo un doppio inchino rivolto al Sultano, a Gentile e ai rappresentanti di Venezia, iniziò a proclamare con voce salmodiante: — Grande è la gloria di Allah il potente, ispiratore del nostro sovrano, vaso di infinite benedizioni, che con sapienza e generosità ci governa e ci guida... Gentile si perse nel panegirico, vagando con lo sguardo attorno al vecchio notabile, che avanzava lentissimo nella sua argomentazione. Guardò di nuovo il Sultano, fermo e, all'apparenza, concentratissimo; poi dedicò attenzione alle vesti dei Dignitari, che a prima vista sembravano tutte uguali, ma differivano in realtà per mille cose. Alcuni portavano giubbetti preziosi, lavorati finemente con cuciture di perle, altri avevano ricami sulle tuniche, in fili d'oro e argento; certi portavano in testa turbanti schiacciati, con cupole di cuoio, o rilevati e gonfi, fermati al nodo da borchie o gemme. — ... e lode alla gloriosa Signoria della Repubblica di Venezia, città degna di stare al fianco di Costantinopoli nel diadema della creazione, che con meravigliosa e solerte amicizia... Maometto, all'apparenza, ascoltava: ma come se la voce del vecchio provenisse dalla luce, un metro al di sopra della testa dei presenti. Di nuovo Gentile si distrasse, e senza frenare un sorriso pensò che l'Imperatore, contrariamente agli impazienti signori veneziani, non avrebbe avuto difficoltà a sopportare la posa per il ritratto. — ... e lode all'onorevolissimo e magnifico pittore Gentile Bellini, dalla cui mano e dal cui pennello escono, per fama generale, le meraviglie del disegno e dell'ornamento, tali da suscitare... Benché quella parte dell'infinito sermone lo riguardasse, e con tale solennità elogiatoria da imbarazzare chi fosse stato dieci volte più vanitoso e presuntuoso di lui, Gentile tornò a perdersi nei mosaici che, come un orizzonte di sogno, lo circondavano. Il sovrano, statua di se stesso, emergeva con il suo bianco nella confusa nube rossastra della luce e degli abiti. Non ancora del tutto riposato dal lungo viaggio per mare e per terra, Gentile sentí un denso torpore affacciarsi alla nuca, e le palpebre appesantirsi. Respirò profondamente, e si pizzicò con decisione la carne della coscia, sotto la veste, per lottare contro l'abbandono. Dopo un'ora il vecchio dignitario cessò di parlare: e benché il pittore non avesse ascoltato che a tratti il suo discorso, era certo che nulla era stato detto più di quello che già aveva detto il Doge, quando insieme a Giovanni lo aveva convocato. Pure, né Maometto né il Balio della Signoria, o alcuno dei presenti nel salone del palazzo imperiale, mostravano di pensare che una sola di quelle sonanti parole avrebbe potuto essere taciuta. Tutti, ad un cenno breve del Sultano, si alzarono e passarono a salutare l'ospite pittore: e tutti, nei loro inchini, pronunciavano lodi ed auguri, in uno strano filo di mormorio, che alle orecchie di Gentile divenne presto insignificante e vago come quello di una fontana, o un quieto stormire di fronde al vento della sera.

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L'alloggio era completamente rivolto a Nord, verso lo stretto abbagliante, affollato di barche da pesca e da trasporto come un immenso canale veneziano. Stanco per la cerimonia, il pittore si aggirava nelle quattro stanze, osservando i preziosi vasi di ceramica dipinta, i tappeti, i cuscini, le casse di legno lavorato, il letto ampio e alto che, in omaggio alle sue abitudini di straniero, era stato costruito appositamente per lui. Camminò lentamente in quello spazio vasto, protetto, gradevole, e poi nel porticato di trenta metri che correva all'esterno delle stanze. Annusò il vento profumato che scivolava nello stretto come una seconda corrente, portando gli odori dell'Asia a mescolarsi con quelli del Mediterraneo. Sulla costa di fronte, oltre il via vai dei pescatori e dei commercianti del Mar Nero, colline boscose accompagnavano lo sguardo verso Settentrione, come a mostrare già lí, alla terra africana su cui Costantinopoli sorgeva, la freschezza verde del Nord. A sinistra, al di là di minareti variopinti, il sole calava. I quattro servi silenziosissimi che erano a disposizione di Gentile, capaci di soddisfare in anticipo i suoi bisogni, erano all'improvviso scomparsi. Il pittore se ne chiese distrattamente la ragione, guardando il cielo del tramonto e il volo malinconico di due cicogne verso la costa settentrionale. Considerò che, in altre circostanze, gli sarebbe sembrato singolare non aver scambiato col suo soggetto qualche parola intorno al ritratto: ma al momento, immerso nella magica e torpida solennità della corte orientale, egli dubitava che mai addirittura sarebbe accaduto. In fondo, pensava remissivo, perché un pittore chiamato a dipingere il volto dell'Imperatore dei Turchi e capo dell'Islam, avrebbe dovuto avere un colloquio con lui? Quali cose hanno da dirsi un simulacro potente e venerabile, con l'incaricato di riprodurne l'immagine? Fino a quel punto, considerò Gentile, nessun segno era stato dato che il suo rapporto con Maometto potesse essere piú intimo e colloquiale di quello tra un artigiano e una statua divina: certo, pensava, l'avrebbero condotto all'immobile e silenziosa presenza del Sovrano, e li, umilmente e silenziosamente, avrebbe lavorato... Si chiese, senza molto inquietarsi, come avrebbe in quelle condizioni potuto ottenere dall'Imperatore l'espressione o la posizione adatta all'opera, o suggerire gli spostamenti del corpo o del volto rispetto alla luce, che sono necessari alla lunga esecuzione di un ritratto... Decise che si sarebbe adeguato, spostando il cavalletto nel modo opportuno, senza scomodare né interpellare il maestoso soggetto... Smise di porsi quei problemi, rimandando ogni cosa al momento in cui si fossero presentati. Si perse a guardare una luna dorata che a destra, sulle colline della sponda opposta, si spingeva lentamente nel cielo appena abbandonato dagli echi rossastri del sole. Sentì un rumore nella stanza dietro di sé. Pensò che i servi fossero tornati ad accendere le lampade. Anche nella città sotto di lui e nei piccoli villaggi lontani al di là dello stretto, luci di fiamma si accendevano, come frammenti di sole che solo ora, nell'ombra crescente, si facessero notare. Senti alle spalle due leggeri colpi di mano: un frammento d'applauso. Si voltò, incuriosito: e vide a tre passi Maometto, in una liscia veste dorata; al posto del turbante aveva una piccola calotta di seta nera. Due passi dietro all'Imperatore, un po' di lato, stava un personaggio sconosciuto, alto e magro, completamente vestito di scuro, con braghe a fascia aderenti, spada e pugnale appese ad una cinghia di pelle nera che gli attraversava il petto. Gentile, col fiato sospeso, non disse parola. L'Imperatore sorrise, e senza muovere le mani unite davanti al ventre, piegò appena la testa di lato. Poi disse con voce profonda: — Ospite, non spaventarti per la mia visita inattesa: nulla ti minaccia. Considera questo, dopo la parata di oggi, il mio vero e fraterno benvenuto. Gentile goffamente apri le braccia, in un vago gesto di ringraziamento e accoglienza. — Mi cogli impreparato, Signore, — disse. — Qui ogni cosa è tua, né io conosco questa casa abbastanza da saperti offrire qualcosa, come ad un ospite conviene... — Godiamoci dunque senza altre preoccupazioni la stupenda luna, che non appartiene a nessuno, eppure si mostra a tutti con la meravigliosa intimità di una sposa, — disse Maometto, avvicinandosi al pittore, e voltandosi accanto a lui verso il quieto e vasto luccichío dei Dardanelli. L'uomo vestito di nero, ombra silenziosa, rimase alle loro spalle, immoto. — Il mio accompagnatore non è muto, — disse l'Imperatore, — ma è come se lo fosse. Non è sordo, ma è come se lo fosse. È piú fedele a me di quanto sia la mia stessa mano: e della mia mano è anche piú saggio e preciso. Non inquietarti per la sua presenza: egli è solo in certo modo presente. Gentile tornò a guardare la luna. Anche Maometto, accanto a lui, la guardò per un lungo momento: come se lassú ci fosse, svelabile allo sguardo, il modo giusto per dire le parole.

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