Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNICT

Risultati per: a

Numero di risultati: 45 in 1 pagine

  • Pagina 1 di 1

Al tempo dei tempi

219427
Emma Perodi 45 occorrenze
  • 1988
  • Salani
  • Firenze
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

e giungere presto a casa, ma allora sì che andava piano e che le gambe le facevano cicche ciacche. Basta, tutte le cose vengono a termine e venne a termine anche quella passeggiata notturna per le vie di Palermo. Appena a casa la vecchia dovette mettersi a letto perchè non ne poteva più, e in letto lesse il biglietto di donna Tura, che diceva:

- Maestà, non ne ho, ma ho una figlia a casa, tanto buona e tanto bella che si strozza per Vostra Maestà. - Sì? - disse il Re, e battè su un timbro d'argento. Comparve un cameriere, e il Re gli ordinò di portargli tre canne di corda ben solida. Quando gli fu recata, la porse al mercante perché la desse alla figlia. Il pover uomo si sentì morire dalla vergogna. Torna a Messina, e appena a casa, chiama la figlia minore e le dice: - Vedi a che cosa m'hai esposto? Il Re me ne ha fatta un'altra delle sue. Quando gli ho detto che volevi strozzarti per lui, m'ha dato questo pezzo di corda. - La ragazza, disperata, si mise a singhiozzare. Dopo alquanto tempo il mercante dovette partire di nuovo per Palermo per i suoi negozi, e quella volta non chiese alle figlie che cosa volevano che portasse loro, per non esporsi a fare per la minore un'altra ambasciata al Re. Ma lei stessa, vedendo che si preparava per il viaggio, gli disse: - Padre mio, per il bene che mi volete, dovete farmi un piacere: andate dal Re e ditegli che io m'ammazzo per lui! - Figlia mia, sei pazza! Ti pare che io possa tornare per la terza volta dal Re dopo che mi ha trattato come mi ha trattato? - Padre mio, fatelo, se non volete trovarmi morta al vostro ritorno. - E qui gli si gettò ai piedi e tanto pianse e tanto lo supplicò, che riuscì finalmente a strappargli la promessa che sarebbe andato dal Re e gli avrebbe fatta l'ambasciata. Il mercante giunge a Palermo, sbriga i suoi negozi, ritorna al palazzo e chiede udienza al Re. Fu ammesso alla presenza del Sovrano, che anche quella volta finse di non conoscerlo e gli domandò se aveva merce preziosa da mostrargli. - Maestà, ho a casa una figlia tanto bella e tanto buona! Questa figlia manda a dire a Vostra Maestà che si ammazzerà per lui. - Il Re aveva infilato nella cintura un bel coltello col manico d'oro tutto lavorato. Lo prese e lo dette al povero padre, che perse il lume degli occhi e glielo avrebbe volentieri conficcato nel cuore.

lo ringraziò e corse a casa col sacchetto. Dalla felicità, neppur s'accorgeva quanto pesasse. - Figliole mie, - disse, giungendo a casa - ci capita una gran fortuna! Maricchia, ora raccontaci quel che t'è accaduto col Cavaliere. - La figlia raccontò tutto per filo e per segno, e la madre le consegnò il sacchetto, dicendole: - Eccoti il danaro, disponne tu, perchè t'appartiene! - Nel sentir questo, Maricchia smise di filare, buttò la conocchia qua, il fuso là e si mise a saltare e a ballare ripetendo: - La sorte l'ho avuta! La sorte l'ho avuta! Quando si fu un po' calmata, disse alla madre: - Ora, madre mia, chiudiamo a chiave Caterina, Vituccia e Rosa, e usciamo noi due. Prima andiamo in chiesa a ringraziare Dio, la Madonna e i santi, e poi dal negoziante a comprare tutto quello che ci bisogna. - Così fecero, di fatto. Uscirono, andarono in chiesa e poi entrarono nella più bella bottega di Trapani dove si servivano tutti i signoroni e dove i mercanti di levante e quelli di Spagna e di Francia portavano le loro mercanzie. Il negoziante, nel vedere quelle due poverette entrare timidamente, le squadrò, e, più per invitarle ad andarsene che per invogliarle a entrare, disse loro con mal garbo: - Che cosa volete? - La ragazza, senza lasciarsi intimidire da quell'accoglienza, rispose: - Vogliamo tutto quello che avete di più bello nel magazzino. - E per chi dev'essere? - Per me, - rispose Maricchia arditamente. Il negoziante la guardò con aria di compassione. - Figliuola mia, voi non potete certo comprare neppure la roba di scarto del mio negozio. - Se non potessi, non vi direi di farmi vedere tutte le galanterie che avete. Dai miei vestiti non dovete giudicarmi. - A queste parole, dette con tanta sicurezza, il negoziante non seppe che rispondere e credette che Maricchia fosse qualche gran signora travestita. Del resto non ci rimetteva nulla a contentarla, ed era anche curioso di vedere com'andava a finire quella faccenda. Salì dunque sulle scale e buttò sul banco diverse pezze di broccato, di ermisino, di damasco e di altri tessuti di seta. Bisognava vedere Maricchia come s'era fatta rossa in viso dalla felicità nel pensare che poteva comprare quel che le pareva e piaceva! Prendeva le sete, le metteva a distanza per vedere che effetto facevano, se le avvicinava al volto, le guardava di sotto, le guardava di sopra e diceva: - Questa non mi piace, questa non mi garba, quella non è di mio genio, - e faceva scendere altre pezze ed altre ancora prima di scegliere qualcosa. - Sta' a vedere, - pensava il negoziante - che alla fine delle fini questa smorfiosa non piglia nulla. - Quando tutto il banco fu coperto di pezze, allora Maricchia incominciò a dire: - Questo drappo starebbe bene a Caterina, proprio bene, non vi pare, madre mia? E questo broccato celeste non si addice alla carnagione di Vituccia? Guardate, guardate, questo broccatello se non par fatto a posta per Rosa? - e girava, guardava di sotto e di sopra senza ancora scegliere neppur un palmo di roba. - Buona donna, spiccíatevi! - diceva il negoziante, non potendo dar udienza agli altri avventori. - Vedete quanta gente aspetta - Maricchia, tutta risentita, gli rispondeva che doveva prender molta roba e che lei era giunta prima di tutti. A farla breve, la ragazza alla fine scelse due vestiti per ciascuna delle sorelle, due per la madre, e per sè ne prese una decina, oltre a pezze intere di tela di lino e di canapa, a sciarpe, fazzoletti e a tante e tante altre cose necessarie. Il negoziante fece il conto e quando lo presentò a Maricchia, rideva sotto i baffi, pensando: - Ora viene il bello! - Ma Maricchia, benchè vestita da povera, pagò tutto in tante monete d'oro sonante, e dato a portare un gran fagotto alla madre e caricatasi lei, uscì dal negozio a testa alta e se ne andò a casa. In un momento mandò a chiamare la più brava sarta di Trapani, quella che serviva le signorone, le dette a fare tutti quei vestiti e li volle pronti in breve tempo; chiamò il primo calzolaio e gli ordinò scarpe per sè, per la madre e le sorelle; chiamò la modista, la cucitrice di bianco, e tutti la servirono presto perchè prometteva di pagare con moneta sonante. Quando fu tutta rivestita, che non pareva più quella di prima, andò con la madre a vedere un bel quartiere al piano nobile del palazzo di una baronessa. Il quartiere le piacque e ne pagò subito la pigione. Uscendo, passò dall'orefice, comprò orecchini di perle, collane, anelli, fermagli e un anello con un diamante che destinò al promesso sposo. Tutte quelle compre, tutto quel viavai a casa di donna Paola incuriosirono il vicinato. Tutti, e specialmente le donne, parlavano di lei, e spiavano quel che faceva; ma nessuno arrivò a scoprire da che parte le fosse venuto tutto quel ben di Dio di danari; nessuno però mormorava sul suo conto, perchè tanto lei quanto le figlie erano state sempre oneste, e onore ne avevano da vendere. Quando tutto fu pronto, una domenica, madre e figlie, si vestirono tutte in gala, liscie e pettinate, e andarono al palazzo che avevano fatto già addobbare come si conveniva a gente ricca. Il Cavaliere, frattanto, non aveva detto niente nè al padre nè alla madre di tutti questi imbrogli, e un giorno che vide passare Maricchia insieme con la madre di sotto a casa sua, vestita come una foglia d'arancio, fece finta di vederla per la prima volta e d'esser colpito dalla bellezza della fanciulla. Egli chiamò la madre e le disse: - Guardi, guardi, signora madre, che bella ragazza che passa! Guardi che personale, che colorito, che fattezze, che capelli. E gli occhi? Mi ha guardato sorridendo! Oh, quanto mi piace - Mandaglielo a dire subito, - risponde la madre. Ecco che chiamano Raffaello, il vecchio servo di casa, e gli dicono di seguire quelle due signore e informarsi chi erano e dove abitavano. Il vecchio va, domanda, interroga, e torna a dire alla padrona che si chiamano così e così, che stanno in un bel palazzo da poco tempo. Allora il Cavaliere scrive una lettera, in cui dice che vuole imparentarsi con la ragazza e che si preparassero a far la conoscenza di suo padre e di sua madre, e dentro alla lettera mette di nascosto un anello di diamanti. Raffaello prende la lettera, se ne va al palazzo della ragazza, entra, fa passare l'ambasciata e consegna la lettera alla madre. Quando Maricchia ebbe letta la lettera e vide che il Cavaliere la chiedeva davvero in isposa, s'inorgoglì tutta, si mise a fare sgambetti e piroette e subito gli rispose, ed anche lei mise nella lettera l'anello di diamanti che aveva comprato per lo sposo. Il giovane stava in vedetta ad aspettare il ritorno di Raffaello. Quando lo vide, gli corse incontro e, aperta la lettera, si mise subito in dito l'anello e pareva impazzito dalla felicità. Il padre e la madre, sentendo che quella famiglia abitava in un palazzo grandioso, dissero: - Debbono essere gente nobile. - E la sera, con la carrozza di gala e i lacchè, andarono col figlio a far la conoscenza della sposa. Lo sposo le portò due braccialetti, una collana, un fermaglio ed altre cose belle e preziose. E Maricchia, a fianco alla madre, e seguita dalle sorelle andò incontro aì visitatori fino in cima allo scalone, e poi si diressero nelle sale tutte illuminate a cera e dettero loro un magnifico rinfresco. Quella sera stessa il Cavaliere e Maricchia si scambiarono promessa di matrimonio, e figuriamoci un po' come fossero tutti felici! Dopo che ebbero chiacchierato un pezzo, il Cavaliere disse al padre e alla madre: - Io vorrei che le cose si sbrigassero presto; sapete che le cose lunghe diventan serpi. Lasciamo passar l'Avvento e Carnevale e subito facciamo le nozze. - Bene, bene! - dissero tutti. Maricchia però storse la bocca perchè il termine proposto le parve lungo, ma poi, ripensando che c'era da fare il corredo, si rasserenò e prese a ciarlare come il resto della compagnia, allegra e contenta. Quella sera stessa la balia del Cavaliere, che era rimasta in casa a far da cameriera, andò in camera della signora per ispogliarla, e le disse: - Queste nozze non s'hanno da fare - Che dite, Vincenza! - Dico che non s'hanno da fare, perchè Vostra Signoria non può imparentarsi con gente bassa, salita in grandezze non si sa come. - Badate come parlate, Vincenza. - So quel che dico, e se Vossignoria vuol venire con me domattina, la conduco da persone che le diranno chi era e chi non era donna Paola Ciraulo non più tardi che un mese fa. - La signora non rispose, ma, voltati di qua, rivoltati di là, non dormì mai in tutta la notte, ripensando alle parole della cameriera; però non disse nulla nè al marito nè al figlio. La mattina dopo era pronta presto e usciva insieme con Vincenza. Vanno in una straduccia e bussano a una casuccia. - Chi è? - domanda una voce. - Comare Momina, aprite per cortesia, - dice Vincenza. Comare Momina apre, si scusa di non poter far entrare nella camera perchè il marito e i figli si vestono, e va nella strada, socchiudendo l'uscio. - Comare, la conoscete donna Paola Ciraulo? - E come no! Siamo state vicine vent'anni e più, da quando si maritò con compar Totò buon'anima, che era facchino al porto, fino a che non è diventata signora. - E com'era? - Più poveretta assai di me, perchè rimase vedova con quattro piccine e per isfamarle s'è logorata le braccia e tutti noi qui le abbiamo fatto la carità. - E ora? - Comare Momina si strinse nelle spalle. - Che volete che vi dica, comare mia, la fortuna le è venuta tutt'a un tratto. Ora è una signora, sta in un bel palazzo, e le sue quattro figlie marciano con abiti di seta. Mistero! Mistero! - La signora aveva inteso abbastanza. Fece cenno alla cameriera di salutare la comare e tutte e due se ne andarono: Vincenza tutta lieta, la signora con un diavolo per capello. Arrivò a casa di corsa e tutta trafelata andò dal figlio e gli disse: - Quella ragazza tu non la sposerai, se la madre non confessa come da pezzente è divenuta signora! - Il povero Cavaliere si sentì morire. Egli non voleva dire che i quattrini a donna Paola glieli aveva dati lui, e a Maricchia non voleva rinunziare. - Perchè prestate orecchio alle calunnie? - Non sono calunnie; è la verità che un mese addietro donna Paola stava in una catapecchia ed era una pezzente, dunque? - Avrà rivendicato qualche eredità! - Ma che eredità, se è figlia di poveri, se il marito era facchino del porto, se.... - La signora soffocava dalla rabbia all'idea che suo figlio potesse imparentarsi con certa gente. - Io sposerò Maricchia anche figlia di facchino, anche povera! - disse. In quel mentre capitò il padre, che aveva udito il diverbio, e quando fu informato del motivo di esso, dichiarò anche lui che non voleva assolutamente che si facesse il matrimonio, anzi ordinò al figlio di prepararsi a partire per Palermo ove aveva un vecchio zio, e gli promise che la moglie l'avrebbe trovata più bella di Maricchia e certo di miglior condizione, e senza dargli tempo d'avvertirla, lo fece imbarcare su una nave già pronta e lo spedì via. Torniamo a Maricchia. Aspetta aspetta il Cavaliere, il Cavaliere non si vedeva e Maricchia era nelle smanie. Passa un giorno, ne passano due, ne passano tre, finalmente Maricchia manda la cameriera al palazzo del promesso sposo a prender notizie, e la cameriera fa l'ambasciata a donna Vincenza. - Mi manda la signorina Maricchia a prendere notizie del suo promesso sposo, lo riverisce e gli fa dire che aspetta con impazienza una sua visita. - Risponde donna Vincenza trionfante: - Dite a Maricchia, figlia di Totò il facchino del porto, che il Cavaliere è andato a Palermo a sposare una signora pari suo e che tornerà soltanto con la moglie. -

Dopo averle riposte a chiave in un cassetto, il barbiere disse: - Siate forte però e sedete qua, - e le indicò una sedia. Poi prese un rasoio e incominciò a tagliarle una striscia di pelle in mezzo alla fronte. Ma appena dette il primo colpo di rasoio, la vecchia si mise a strillare come un'anima dannata. - Ahi! Ahi! Ahi! - Volete che smettiamo? - chiese il barbiere. - No, no Scorticatemi, chè voglio apparir bella come la sorella mia, e dopo che mi avrete scorticata, andrò dal cavadenti a farmi cavare le radici dei denti rotti, poi mi strapperò i cernecchi e allora a Palermo, nè in tutto il mondo ci sarà ragazza più bella e più fresca di me. - Il barbiere rideva a più non posso. Egli dette un altro colpo di rasoio più giù, e la vecchia strillò più che mai. - Ahi! Ahi! Ahi! - Smetto? - domandò il barbiere. - No, no! Scorticatemi, chè voglio apparir bella come la sorella mia. - Il barbiere continuò a scorticarla, e taglia taglia, finalmente giunse a scorticarle la gola. Ma qui la pelle era più dura che sul viso ed egli, volendola intaccare, le tagliò il gargherozzo e donna Peppa morì senza farsi cavare le radici dei denti rotti, e senza strapparsi i cernecchi, che non aveva. Alle grida della donna si radunò una gran folla davanti alla bottega, e la gente, vedendo la vecchia ridotta peggio d'un Ecce Homo, incominciò a far tumulto. - Arrestatelo ! - diceva, accennando al barbiere. - Mettetelo a morte. È lui che l'ha ammazzata, poveretta. - Vennero le guardie e davvero lo volevano ammanettare e portare in prigione, ma il barbiere cavò fuori la carta firmata da donna Peppa e nessuno osò più accusarlo. Ora lasciamo la vecchia morta e torniamo alla sorella viva. Al primo colpo di rasoio che il barbiere aveva dato in mezzo alla fronte di donna Peppa, nello stesso punto preciso era caduta la pelle nuova a donna Tura ed a quel posto erano ricomparse le rughe. Più il barbiere scorticava una sorella, e più la pelle cadeva all'altra che l'aveva perfidamente consigliata a farsi scorticare. Quando donna Peppa tirò il fiato per l'ultima volta, donna Tura era ridotta un mascherone e le sue vesti belle, linde ed eleganti s'erano convertite in luridi stracci. In quel momento il Re la fece chiamare per preparargli la biancheria, e quando si vide davanti quella vecchia sudicia e brutta, con i baffi lunghi e le labbra bavose che le pendevano sul mento, andò su tutte le furie. - Chi siete? Perchè siete venuta fin qui a insudiciare con le vostre manacce la mia biancheria? Andatevene! Io voglio donna Tura. - La vecchia ebbe un bel dirgli che donna Tura era lei; il Re la fece cacciare dalle guardie, ed ella dovette tornarsene a morir sola sola nella misera casuccia. Ogni notte poi le appariva la sorella col viso tutto scorticato e sanguinante, che le diceva con voce lamentevole a piena di doloroso rimprovero: - Perfida! m'hai fatto morire, ma sei stata punita. -

Fece cenno al marito, che subito andò a prendere un boccale di vino di quello buono, ella fece le frittelle e mangiarono e bevvero allegramente. Ma aspetta l'abate con gli orecchini, l'abate non venne più e non si curò di mandar neppure il salario. Il mugnaio sbuffava, la mugnaia pure e un bel giorno, stanca di dar latte a ufo, divezzò il bimbo e lo tirò su con un po' di pappa, mentre prima tutte le premure erano per lui. Il mugnaio, vedendo passare i mesi senza che l'abate ricomparisse, andò a Palermo a cercarlo, e cerca di qui, cerca di là non gli venne mai fatto d'incontrarlo. Ogni persona che fermava, dicendo: «Scusi, lo conosce un abate così e così?» gli rideva in faccia, perchè il nome non lo sapeva e abati ce ne erano tanti e tanti. Se ne tornò dunque al mulino con le pive nel sacco e prese a perseguitare il piccino che s'era figurato dovesse portare la ricchezza in casa sua, e che invece doveva campare a sue spese, perchè a chi poteva renderlo? A desinare il mugnaio non permise più al bimbo di stare a tavola con lui, la moglie e il loro figlio. Gli faceva mettere un po' di minestra in un tegamino rotto e nero, e lo mandava a mangiare col gatto e col cane per terra, in un cantuccio. A dormire non volle più che stesse in camera con loro; gli fece mettere un po' di paglia in uno stanzino buio, e lì lo teneva, e quando il figlio lo chiamava a baloccarsi con lui, il mugnaio diceva: - Lascialo stare; quello lì non è fatto per baloccarsi; se vuol mangiare un pezzo di pane deve guadagnarselo e deve ripagare a tua madre il latte che gli ha dato e il resto. Quello lì non è tuo fratello! - Così il piccino crebbe, ed appena potè zampettare dovette lavorare dalla mattina alla sera a coltivar la terra, ed ebbe appena da sfamarsi: sempre e poi sempre marito e moglie gli ripetevano: - Ti teniamo per carità; meritavi che ti si fosse abbandonato in un bosco. - Una sera il Principino, poteva avere un dieci anni, chiedeva al figlio del mugnaio un'arancia. - Dammela, fratuzzu, dammela! - Ma tu non sei fratello mio! - rispose l'altro. - Se tu fossi mio fratello te la darei, a te non te la do. Tu sei figlio di un'altra madre. Va' e cercala tua madre in Palermo. La conosci tu? L'hai mai veduta? Che bella madre! Come si cura del figliuolo! - Queste stesse parole il Principino se l'era sentite dire tante volte, ma non ci s'era potuto assuefare e gli facevano sempre una gran pena. Zitto zitto se ne andò a piangere nello stanzino buio e fra le lacrime diceva: - È mai possibile che il mio babbo e la mia mamma non si rammentino di me? Che mi abbiano abbandonato in questo modo per farmi patire tanto? Ma non ha cuore di madre la mia? - Aveva appena terminato di proferire questa domanda, che lo stanzino fu illuminato da un debole chiarore e in mezzo a quel chiarore comparve una donna pallida pallida, scarna scarna e avvolta in un gran lenzuolo bianco. - Che possono fare i morti per i vivi? - disse la donna con un fil di voce. - Io morii quando tu nascesti, figlio mio, e su te non ho potuto vegliare. Tuo padre, il principe di Cattolica, ti affidò a un abate nel quale riponeva piena fiducia. Quel perfido, invece, s'è impossessato del tuo. Va' a Palermò, istruisciti e quando sarai in età, chiedi che giustizia sia fatta. Io pregherò per te! - Mentre il Principino sbalordito dall'apparizione e tutto tremante stava per rivolgerle una domanda, i contorni della figura si dileguarono, il chiarore svanì, ed egli si trovò di nuovo al buio, sulla paglia, ma meno afflitto, meno desolato di prima perchè sapeva che sua madre vegliava su di lui. Glielo aveva detto dove doveva andare, ed egli subito le obbedì. Del resto glielo aveva detto anche il figlio della mugnaia che se ne andasse perché in quella casa era un intruso. Non appena fece giorno il Principino s'alzò dal suo giaciglio di paglia, uscì, e invece d'andare nel campo a lavorare, prese la via che conduceva a Palermo. Era digiuno, non aveva scarpe in piedi, eppure camminava senza sentir la fame nè i sassi della via: camminava pieno di speranza e di letizia. Giunse così a Porta Nuova, sotto il palazzo del Viceré, ma era sfinito e si lasciò cadere in terra. Venne una ronda di guardie e il capo gli dette un calcio, dicendogli: - Alzati, mendicante; qui non sono tollerati gli accattoni! - Si alzò e andò oltre, giù per il Cassaro, fino a Piazza Vigliena. Ma qui era l'ora della passeggiata e le dame passavano nei magnifici cocchi a quattro e sei cavalli, i cavalieri cavalcavano su focosi destrieri con ricche gualdrappe, ed altre guardie scacciarono il Principino, dicendogli: - Va' oltre, pezzente! - E andò oltre, finchè non giunse all'angolo di Via dei Chiavettieri, dove allora non c'erano altro che botteghe di fabbro, e appunto in una di quelle botteghe entrò il Principino, che aveva fame, a disse al padrone: - Mi prenda come garzone; ho voglia di lavorare e sono forte. Domani e nei giorni seguenti mi guadagnerò il pezzo di pane che ora le chiedo per non morir di fame. - Questa domanda d'imprestito e non d'elemosina, il tono con cui era fatta e l'aspetto dignitoso del fanciullo, coperto di pochi stracci, commossero il capo mastro, che subito lo fece ristorare, se lo prese in casa e lo mise a tirare il mantice. Il ragazzo lavorò sempre con zelo; non c'era caso che s'imbrancasse con i monelli di strada; se lo mandava a riportare il lavoro o a comprar qualcosa, tornava subito, non parlava, non chiedeva nulla e si contentava del cibo che era abbondante e buono in confronto di quello che gli dava con tanto mal garbo il mugnaio; e se la moglie del fabbro gli dava qualche oggetto di vestiario, ringraziava con effusione e aggiungeva: - Mia madre, che è in Paradiso, pregherà per lei e per la sua famiglia! - Così di giorno in giorno il garzone si faceva voler più bene e ormai era come uno di casa. Appunto per la confidenza che aveva con lui, il fabbro una volta gli domandò: - Ma insomma, si può saper di chi sei figlio e come si chiamano i tuoi genitori? - Non li ho mai conosciuti. Fui messo a balia da una mugnaia, un abate mi portò al mulino quando avevo pochi mesi, pagò per un po' di tempo il baliatico e poi non si fece più vivo, e allora il mugnaio e la moglie presero a maltrattarmi e a rinfacciarmi il pane che mi davano. Non rammento che maltrattamenti, rimproveri e fatiche, - aggiunse il ragazzo con un sospiro. - Ma non hai proprio nessun indizio de' tuoi genitori? - Il poverino non voleva narrare l'apparizione della madre perchè quel segreto era la sua sola gioia e la

La madre doveva andare di qua e di là a preparar lavoro, pennecchi, stoppa, cotone e tele, ma prima d'uscire aveva sempre la precauzione di chiudere a chiave le figlie, che stavano a lavorare notte e giorno. Una domenica Maricchia, che era la più bella delle sorelle, non volle andare alla messa con le altre, e la madre, per precauzione, chiuse la porta a chiave. La ragazza, benchè fosse festa, si mise a filare, e intanto, affacciata alla finestra, guardava la gente che passava per divagarsi. Mentre non passava nessuno le cadde il fuso ed ella pensò: - Ora, al primo che passa, chiedo in favore di raccogliermi il fuso, e se lo fa, quello sarà lo sposo mio. - Di lì a un momento passò un bellissimo e giovane Cavaliere, e Maricchia dentro di sè disse: - O corte o morte! - Poi rivolta al Cavaliere: - Signor Cavaliere, per favore, mi vuol raccogliere quel fuso? - Il Cavaliere si voltò in su alla chiamata e rispose: - Non puoi scendere a prenderlo da te? - No che non posso; sono rinchiusa in casa. - E perchè sei rinchiusa? - Perché mia madre e le mie sorelle sono andate alla messa, ma io, dovendo terminare questo filato, che non ho potuto fare in settimana, me ne sono rimasta a casa. E poi, se devo dir la verità, sono rimasta anche per veder chi passava e tentare la sorte. - Come sarebbe a dire? - Deve sapere, signor Cavaliere, che faccio una gran vitaccia; se voglio mangiare debbo lavorare giorno e notte. Ora ho detto fra me: «Se mi cade il fuso, quello che me lo raccoglie deve essere il mio sposo.» - Guarda che combinazione! Io cerco moglie

La Regina, che continuava a odiarla, per farle dispiacere, trasgredì l'ordine del marito, le disse che la lettera era giunta e gliela fece anche leggere. La sfortunata Reginuzza n'ebbe un colpo tremendo. - Dal momento che mi vuole scacciare, me ne andrò da me, - disse. La suocera si sentì allargare il cuore, ma non fiatò. La notte Mariuccia prende il bimbo, monta sul cavallino sauro e se ne va, senza dir nulla a nessuno. Dopo lungo viaggiare giunge in un bosco, e quando n'esce vede il palazzo del serpente. Allora smonta da cavallo per lasciar pascere l'animale, e col suo bimbo fra le braccia siede sulla gradinata e sospira. Il serpente la vede, la riconosce, e schizzando fuoco dagli occhi, le s'avvicina e le dice: - Vieni qua, amica, fra noi dobbiamo fare certi conti. - Anche Mariuccia lo riconobbe subito e si mise a tremare. - Fammi tutto quello che vuoi, basta che tu non tocchi questo innocente, - disse stringendo a sè il piccino. Il serpente le ordinò di salire la gradinata, d'entrare nel palazzo, e sempre sibilando, sempre fissandola con gli occhi che schizzavano fuoco, la cacciò nell'ultima stanza del palazzo, ce la chiuse a chiave e disse: - Tu mi avevi promesso la mano di sposa; invece mi dasti con inganno l'arancia rossa e per colpa tua perdetti l'effigie d'uomo e divenni serpente. Dunque me la pagherai. Ti condanno a veder morire di fame tuo figlio ed a fare la stessa morte di lui. - Figuriamoci la disperazione di Mariuccia! Si mise alla finestra a gridare: - Cavallino mio, aiutami! La mangiatoia d'argento te l'avevo fatta quand'ero Reginuzza. Se mi liberi dal serpente e se riacquisto l'affetto del Reuccio mio sposo, te la farò d'oro e non ci sarà cavallo meglio trattato di te! Sai che mantengo quello che prometto e che alla Corte non passava giorno che non ti governassi io! - La finestra accanto a quella dov'era Mariuccia ripetè le parole di lei, poi le ripetè la finestra seguente, e le ripeterono tutte finchè non le ripetè quella che era sopra al prato dove pasceva il cavallino sauro. In quel momento il serpente strisciando usciva dalla porta del palazzo e la chiudeva con sette chiavi enormi. Il cavallino non disse nè ài nè bài. Intanto che il serpente infilava la prima delle sette chiavi nella

. - Le sette Fate divennero a un tratto sette vipere. - Sentitelo, il presuntuoso! Vuole nientemeno che la Reginuccia! Ah! ah! ah! - e tutte e sette gli andarono a rider sul muso, canzonandolo. - Un bel cavaliere non può forse pretendere alla mano di qualsiasi principessa? - domandò il giovane. - Ah! ah! ah! cavaliere perchè ha il cavallo! Leviamoglielo! - E una delle Fate cavò fuori la bacchetta e disse - Comandiamo e vogliamo che il cavallo rompa la cavezza e fugga! - La Fata non aveva appena detto così, che si sentì giù un gran fracasso e poi lo sealpitìo di un cavallo in fuga. - Ah! ah! ah! - fecero le Fate - il cavallo è scappato e il cavaliere non è più cavaliere. E come farà a pretendere alla mano della Reginuccia? - Ruggiero, nel vedersi così schernito, andò su tutte le furie. - Maledette! Maledette, andatevene! - urlava. - Sì, sì, ma prima ti toglieremo quel che ti avevamo regalato, pezzente, - dissero le Fate, e tramutandosi a un tratto in civette gli s'avventarono alla faccia e si misero a strappargli a uno a uno i peli dei baffi e quelli della barba! Ruggiero cercava di difendersi e strillava come un dannato : - Ahi! Ahi! Ahi! - Quando lo ebbero tutto pelato e scorticato che faceva sangue da tutte le parti, lo buttarono in terra e due si misero a storcergli le gambe che gli avevano raddrizzate, due a spingergli le ossa per farlo ritornare piccino, e tre, perchè la fatica era maggiore, a rifargli la gobba e non si contentarono di fargliela di dietro, gliela fecero anche davanti. Poi, così conciato, lo abbandonarono, e volando via dal finestrone se ne andarono per non farsi vedere mai più! Figuratevi la rabbia del gobbo! Figuratevi le esclamazioni della sora Maruzza e della sora Leonora quando entrarono in camera di Ruggiero e lo videro ritornato come prima e anche peggio! Figuratevi i commenti del vicinato! Basta dire che Ruggiero non si alzò più, non si fece più vedere da nessuno e di lì a pochi mesi morì dalla rabbia. Il cortile dove le Fate ballarono si chiama ancora Lu curtigghiu di li sette Fati ed il perchè ve l'ho detto.

Al tempo dei tempi viveva a Palermo un Duca che era il primo signore della città. Basti dire che aveva maritata l'unica sorella col Re stesso; ma il palazzo del Duca era più bello e più vasto dì quello del suo Sovrano e cognato. Basti dire che nel cortile del palazzo c'era un giardino grandissimo, con grotte, laberinti, vasche, statue, e che nelle sale del pianterreno c'erano tesori d' ogni specie, venuti di Levante e venuti d'Occidente. Una di quelle sale poi era tutta piena di quadri dei più celebri pittori e tra quei quadri ce n'era uno specialmente davanti al quale tutti quelli che entravan nella sala si fermavano a bocc'aperta, perchè rappresentava una ragazza di una bellezza non mai veduta. Il nipote Reuccio un giorno andò a far visita allo zio e, capitando per la prima volta nella sala delle pitture, si fermò davanti al quadro che attirava tutti ed esclamò: - Ma che bellezza! Ma chi ha mai servito di modello a questa tela? - Lo zio storse la bocca nel vederlo così estasiato davanti al quadro e lo chiamò per fargliene osservare altri; ma il Reuccio non gli dava ascolto e restava lì ad ammirare le bellezze della fanciulla che rappresentava. Nel vedere che tutte le chiamate erano inutili, lo zio s' avvicinò al Reuccio e gli disse: - Ma ti piace davvero? - E me lo domanda? A chi non piacerebbe? - Vorresti conoscerla questa ragazza? Vorresti andare dove sta lei? - Sicuro che ci vorrei andare; anzi, sento che sarei infelice se non la vedessi. Ma come sapere dov'è? Come andarci? - A questo ci penso io, - disse il Duca. - Io ho un porco fatato, che vola per l' aria come un' aquila. Stasera tu lo monti, chiudi gli occhi, indichi dove tu vuoi andare e il porco ti ci porta. - Per dir la verità il Reuccio non era punto allettato dall'idea di cavalcare il porco volante! Per fortuna il tempo era coperto, ma se mentre s'inalzava al disopra della capitale del Regno, la luna fosse comparsa, che cosa avrebbero detto mai i sudditi di suo padre, coloro sui quali un giorno doveva regnare? Però era tanto il desiderio che aveva di vedere da vicino l'originale del magnifico quadro, che si fece animo e disse fra sè e sè: - Per l'appunto deve comparire la luna in quel momento? Non lo credo, perchè il cielo è tutto bigio uniforme. E poi, anche se mi vedono ? M'invidieranno perchè non è da tutti possedere un porco che vola. - Così rassicurato, stabilì con lo zio che dopo il pranzo di Corte sarebbe andato da lui per cavalcare il porco. Di fatto la sera andò dallo zio, si fece condurre il porco nel cortile, lo inforcò, gli disse dove doveva portarlo e in un battibaleno si trovò su una terrazza dov'era seduta la bella ragazza del quadro a prendere il fresco. Per fortuna il cielo rimase coperto, l'aria scura, e nessun indiscreto raggio di luna illuminò il Reuccio mentre s'inalzava sui tetti della capitale a cavallo al porco grasso pinato. Però la luna comparve quando il porco discese sulla terrazza dove la bella ragazza stava a prendere il fresco, ed una risata squillante accolse il giovane Principe, una risata che mise in mostra i denti bianchi di lei, che non apparivano nel quadro, e la fece comparire anche più attraente agli occhi dell'ammiratore. - Oh, che buffo animale volante! ,- esclamò la bella ragazza. - Non avevo mai veduto un cavaliere servirsi di un animale simile per traversare lo spazio aereo. - Dica, bella fanciulla, che nessun cavaliere sarebbe capace di un' sacrifizio simile e tanto meno un Reuccio par mio. Che cosa crede che mi abbia fatto sprezzare il ridicolo? Soltanto il desiderio di vederla e conoscerla. - Nel sentire che il cavaliere era nientemeno che il Reuccio, la bella ragazza cambiò subito tono. - Vostra Altezza sarà stanco, - gli disse - la prego di sedere e riposarsi. Io intanto farò preparare la cena, alla quale spero vorrà farmi l'onore di partecipare. - Naturalmente il Reuccio accettò e la ragazza battè su un timbro d' argento. Subito comparve un bel paggio al quale ella ordinò di chiamare il maggiordomo. Il maggiordomo comparve, e benchè fosse un tantino troppo grasso, pure era bello anche lui. A questo la bella ragazza impartì gli ordini per la cena. Doveva esser servita nella sala di parata, e subito si dovevano diramare gl'inviti a venti dame e a venti cavalieri. Il maggiordomo s'inchinò ed uscì. Frattanto il Reuccio non si saziava, al chiarore della luna, di guardare la bella ragazza, che gli rivolgeva mille domande. Voleva sapere del Re, della Regina, del Duca zio, delle feste che si davano alla Corte, dei tornei cui aveva partecipato, delle guerre; insomma lo assaliva di domande e gl'impediva di rivolgere a lei quelle che tanto gli premevano, cioè chi era, come si chiamava e dove si trovavano. A un certo punto fu annunziato che la cena era pronta, ed allora il Reuccio offrì la mano alla bella ragazza e passarono in una sala già affollata di gente, e quel che colpì il Principe si fu che tutte le signore erano belle quasi come la bella ragazza e tutti gli uomini erano pure bellissimi. Egli si guardò in uno specchio e al confronto degli altri gli pareva d'essere un vero mostro. Il Reuccio ebbe a cena il posto d'onore accanto alla giovane padrona di casa, che pareva non avesse nè padre nè madre, nè zii nè zie, nè sorelle nè fratelli, perchè a tavola non c'erano che le venti belle commensali e i venti bei commensali. Anche i servi che porgevano i vassoi, cambiavano i piatti e mescevano i vini prelibati, erano tutti bellissimi, e tutti, servi e convitati, guardavano il Reuccio con una specie di repulsione, tutti, meno che la bella ragazza che gli rivolgeva continuamente la parola: Altezza qui, Altezza là, ed era per lui tutta sorrisi. La cena terminò e incominciarono le danze, ma la bella ragazza disse al Reuccio di sentirsi stanca e, lasciando la compagnia in sala, lo condusse di nuovo sulla terrazza dove egli sarebbe rimasto sempre a guardarla, se il porco, che era stato dimenticato, non si fosse messo a grugnire per avvertirlo che era tempo di tornare alla capitale. Il Reuccio pensò che tornando di giorno ed essendo veduto a cavallo a quello strano animale, sarebbe divenuto la favola del Regno e risolse di accingersi al viaggio. La bella ragazza si mostrò afflittissima della partenza del Reuccio e si fece promettere che sarebbe tornato. Si dissero addio e il giovane, inforcato il porco, tornò al palazzo del Duca zio in un momento, e di là alla Reggia, senza esser veduto da alcuno. Il giorno dopo era di nuovo dallo zio a chiedergli in prestito il porco. Ma lo zio non l'intendeva di affaticare tanto un animale così prezioso, che lo portava per il mondo a vederne tutte le maraviglie, senza fatica nè pericolo. Sì, no, finalmente il Reuccio tanto disse, tanto si raccomandò, promise tanta gratitudine che, il Duca

Al tempo dei tempi, viveva a Messina un mercante che aveva tre figlie tutte belle e buone. Un giorno il mercante chiama le figlie e dice loro: - Ragazze mie, i miei negozi mi costringono a partire; vado a Palermo, starò assente un pezzo, e desidero compensarvi della mia assenza con un dono. Che cosa volete che vi porti dal viaggio? - La maggiore disse: - Io voglio un vestito di broccato color di rosa. - La mezzana disse: - Io voglio un vestito di broccato color verde mare. - E io, - disse la minore - voglio che andiate dal Re e gli diciate che piango per lui e non ho pace. - Il mercante abbraccia le figlie e s'imbarca per Palermo, Appena giunto sbriga le sue faccende, poi compra il vestito di broccato rosa per la figlia primogenita, quello di broccato verde mare per la seconda, ma prima d'andare dal Re ci pensa un pezzo, perchè non sapeva come il Re avrebbe presa l'ambasciata della figlia. Basta: la nave stava per far vela, e un giorno quel padre si fece coraggio e andò al Palazzo Reale dove fece passare l'ambasciata. - Dite a Sua Maestà che c'è un mercante messinese che brama parlargli. - Il Re, che era molto superbo, credendo che volesse proporgli l'acquisto di merci preziose, lo fa passare e gli domanda con alterigia: - Avete qualche cosa di bello da mostrarmi? - No, Maestà, non ho nulla; ma in patria ho lasciato una figlia tanto buona e tanto bella che sempre piange per Vostra Maestà. - Nel sentire queste parole, il Re dette una guardataccia tale al mercante, che il poveretto si mise a tremare a vetta a vetta. Poi batte su un timbro d'argento, e al cameriere che compare, gli ordina di portargli il fazzoletto più grande che ci sia nella sua guardaroba. Il cameriere gli porta un fazzolettone che pareva un lenzuolo e si ritira. Il Re lo spiega, lo agita e dice: - Buon uomo, a vostra figlia che piange per me, datele questo fazzoletto. Potrà asciugarsi le lacrime per un anno! - Figuriamoci il padre con che cuore s'imbarcasse e tornasse in patria! Appena la nave fu in vista, tutte e tre le figlie furono prese da una grande smania per sapere se il padre aveva portato loro quello che gli avevan chiesto; ma la più smaniosa era la minore. La nave gettò l'àncora nel porto, il mercante sbarcò, andò a casa, e la maggiore delle figlie gli corse incontro e gli domandò: - Signor padre, me l'avete portato il vestito di broccato color di rosa? - Eccotelo! - rispose il padre, e glielo dette. - Com'è bello I Proprio come lo volevo! Grazie, signor padre, grazie! - Allora la mezzana domandò al mercante: - E a me, signor padre, l'avete portato il vestito di broccato color verde mare? - Eccotelo! - rispose il padre, e glielo dette. - Com' è bello ! Proprio come lo volevo Grazie, signor padre, grazie! - E la mia ambasciata l'avete fatta al Re, signor padre? E che cosa v'ha risposto? - domandò la minore. - Mi ha dato questo fazzoletto e mi ha detto che avrai da asciugarti le lacrime per un anno! - La ragazza si mise a piangere e da quel giorno pianse tanto, che ogni giorno bagnava il fazzoletto grande come un lenzuolo per asciugarsi le lacrime e tante volte il vento della notte non bastava a rasciugarlo. Di lì a qualche tempo il padre dovette partire di nuovo alla volta di Palermo per i suoi negozi, e anche quella volta domandò alle figlie quel che volevano per regalo. La maggiore gli chiese una collana di smeraldi, la mezzana un fermaglio di rubini; la minore gli disse: - Signor padre, dovete farmi il favore di andare dal Re e dirgli che io mi strozzo per lui. - Figlia mia, ti pare che io possa andare una seconda volta dal Re dopo l'affronto che mi fece? - Signor padre, non dovete negarmi quel che vi chiedo, abbastanza sono infelice; mi promettete che anderete dal Re e gli riferirete le mie parole? - Il mercante voleva molto bene a tutte le figlie, ma quella minore era la sua prediletta. Nel sentirsi pregare a quel modo da lei, non seppe dirle di no. Basta, partì, andò a Palermo e dopo che ebbe sbrigato i suoi affari, s'incamminò verso il Palazzo Reale,

Al tempo dei tempi abitava a Palermo, in un vicoletto che sboccava davanti al Monastero di Santa Chiara, un gobbetto, figlio unico di una gobba, e nipote di una vecchia, gobba anche lei. Nonna, figlia e nipote erano poveri quanto mai, ma facevan di tutto per non apparire tali, e quando uscivano erano vestiti civilmente. Però non si levavano mai la fame ed erano tutti e tre secchi allampanati e gialli come poponi. Nel vicinato la nonna era conosciuta per la sora Maruzza, la madre per la sera Leonora e il figlio per il sor Ruggiero, e tutti li salutavano con rispetto perché non davano confidenza a nessuno e non facevano parlare di sè. La sora Maruzza era vecchia vecchia, la sera Leonora era vecchia anche lei, e al sor Ruggiero, che non aveva baffi ed era tutto pelato, gli si poteva dare tanto diciotto quanto cinquant'anni. Quanti ne avesse davvero lo sapevano soltanto la nonna e la madre, che non glielo avevano voluto dire mai. Però gli ripetevano sempre: - Ruggiero, prima di morire ti capiterà una gran fortuna. Lo predissero le sette Fate che sfilarono davanti alla tua culla appena fosti nato. - E ogni volta che la nonna o la madre dicevano così, Ruggiero domandava ansioso, come se non lo sapesse: - E che cosa predissero? - Allora la nonna o la madre gli rispondevano invariabilmente: - Che una notte, quando l'avessero stimato opportuno, ti sarebbero venute a prendere, e una di esse ti avrebbe fatto vedere tante maraviglie del mondo; e poi, tutte le altre a turno, avrebbero fatto lo stesso, e così nessuno avrebbe viaggiato tanti paesi, nè potrebbe raccontare tante cose quante te. - Purchè non sia stata una burla! - rispondeva sempre Ruggiero. - Per ora non sono stato mai fuori delle porte e non ho neppur visto il duomo di Monreale. - Monreale è su in cima a un colle, noi abbiamo questa superfluità della gobba e le salite non possiamo farle; danari per pagare una lettiga non ne abbiamo mai avuti, dunque il magnifico duomo non possiamo vederlo, - concludeva o l'una o l'altra delle due donne, e Ruggiero lasciava cadere il discorso e rimaneva immobile a pensare. Ogni sera, quando andava nella sua camerina piccina piccina, stava una mezz'oretta sul terrazzino a guardare nel vicoletto e poi lasciava sempre il finestrone socchiuso con la speranza che fosse venuta la prima Fata per portarlo a veder le maraviglie del mondo, e spengeva il lumino a olio perchè entrasse con più sicurezza. I gobbi riposano poco e Ruggiero stava quasi sempre desto, e se una nottola passava, volando, vicino al finestrone, o un gatto correva sul tetto, faceva un balzo e il cuore gl'incominciava a battere forte forte. Di giorno pensava se la predizione si sarebbe avverata e qualche volta vi prestava fede, e allora era allegro; qualche volta gli pareva impossibile, e allora era tutto cupo e malinconico; ma di notte sperava sempre, sempre aspettava e badava a ripetere: - Anch'io devo avere un giorno o l'altro qualche sollievo, altrimenti la mia vita sarebbe troppo troppo penosa! - Una notte (il giorno seguente ei compiva appunto vent'anni, ma Ruggiero non lo sapeva) il gobbino ansava penosamente seduto sul letto, perchè era un gran caldo e con tutto il finestrone aperto non riusciva a prender fiato. - Poveretto me! - diceva sospirando. - Che bella vita! Tuttì i giovani, belli o brutti, lavorano, ma anche si svagano e almeno mangiano quant'hanno fame e dormono come ghiri. Io, lavorare non posso, di svaghi non c'è neppur da parlarne, la fame non ho memoria d'essermela levata mai, e la notte, invece di dormire, sto qui a far lunari e ad aspettare chi non viene. - Non aveva terminato di pronunziare queste parole, che la sua camera s'illuminò come di giorno e dal finestrone aperto entrarono sette civette con gran starnazzar d'ali. Due si posarono sulla spalliera da capo, due su quella da piedi, due sulle seggiole che erano ai due lati del letto e una proprio sulla mano di Ruggiero. Tutte lo fissavano con i loro occhietti d'oro e quella che gli s'era posata sul pugno e che pareva parlasse per tutte, prese a dire, mentre le altre agitavano le ali per fargli vento: - Perchè credi di aver la bocca? - Per parlare e mangiare. - Allora perchè non te ne sei mai servito? Se lo dicevi prima ti avremmo aiutato; non sai che siamo le tue comari? - Lo so, ma come potevo sapere che mi avreste udito se mi fossi lagnato dalla fame? Le sette civette si guardarono, come per dire che aveva ragione, poi fecero al gobbetto una riverenza e quella che gli s'era posata sul pugno, disse: - Se ti manca la bellezza, e questa non è colpa tua, non ti manca però l'acume, e io vorrei essere pronto di mente come te, piuttosto che sciocco come tanti bellimbusti. Ma se vuoi esser bello, potremo farti sparir la gobba, non senza provar dolore però. - È meglio soffrire una volta sola che sempre come soffro io quando cammino, quando salgo le scale, e soprattutto quando sono a letto e sento il bisogno di dormire, e invece l'asma mi fa soffiar come un mantice. Dunque sono pronto a soffrire per perder la gobba. - Allora, - rispose la civetta - te la faremo sparir subito, perchè correresti rischio di morire per mancanza di fiato, dovendo correr con noi nell'aria. - Le sette civette, a un cenno di quella che parlava, si gettarono sul gobbetto. Una lo prese col becco per la punta del naso, due per le mani, due per i piedi, una per la pelle dello stomaco, un'altra per la pelle del ventre, e dopo averlo sollevato dal letto fino al soffitto, lo lasciaron cadere in terra supino da quell'altezza. - Ohi! ohi! ohi! - urlava il disgraziato. - Per bello apparire, qualche cosa bisogna sofrire! - gli disse per tutta consolazione la civetta. - Ora ti guariremo come non potrebbe guarirti neppure il chirurgo del Re, e a mezzanotte sarai sano e arzillo e ti porteremo a vedere il mondo. - Mi porterete a seppellire! - gemette l'infelice. - Scommetto che non ho più una costola sana. - Oh non si muore per così poco, - rispose la civetta. - Anche se tu avessi la spina dorsale rotta, questo te la guarirebbe. - E nel dir così cavò di sotto l'ala sinistra un barattolino piccino piccino e le altre civette fecero lo stesso. In quel barattolino tuffò una penna che si strappò dall'ala destra e con quella penna, prima la civetta che parlava e poi tutte le altre, unsero la schiena del gobbetto. - Ti duole più? - gli domandò a operazione finita. - No, il dolore è calmato; ma prima che possa dirmi guarito!... - Guarito sei già e la gobba è sparita. Toccati e prova a camminare. - Ruggiero si toccò e sentì che la gobba non ce l'aveva più; si provò a scender dal letto e a camminare, e non soltanto lo fece senza dolore, ma s'accorse che era cresciuto almeno almeno due palmi. - Che bella cosa! M'avete fatto proprio un regalo da comari! - esclamò. - E ora, - disse la civetta che parlava - ora dobbiamo far la festa di ballo. - Dove? - Giù nel cortile. Per cortile è piccolo, ma per sala è grande. - E detto questo volò via e tutte le altre civette fecero lo stesso e di giù si misero a urlare tutte: - Ruggiero, scendi, scendi! S'aspetta te solo e la festa è in tuo onore! - Ruggiero scese e rimase di sasso nel vedere che le sette civette s'erano trasformate in sette donne una più brutta dell'altra, tutte gobbe sdentate, con una bazza lunga lunga, una scuffia sui cernecchi arruffati, e che tutte e sette giravano come trottole, con le gambe a ipsilonne, intorno al cortile illuminato come di giorno. A quel rumore s'erano destate tutte le persone del vicinato, e chi socchiudeva l'uscio, chi il terrazzino per vedere che cosa accadeva. Ma non appena gettavano gli occhi su una delle Fate, si facevano il segno della croce e scappavano a rimpiattarsi sotto le lenzuola. Così non videro che nel girare le sette Fate gobbe avevano messo nel mezzo Ruggiero, e lo facevano girare anche lui, e che Ruggiero non era più gobbo ed era tanto cresciuto. Quanto alla sora Maruzza e alla sora Leonora non sentirono nè il rumore che facevano le sette Fate, nè le loro risate nel veder girare Ruggiero, perchè erano tutte e due sorde, e per di più la notte si fasciavano la testa dalla paura di prender malanni. Gira gira, Ruggiero aveva la lingua fuori e soffiava come un mantice: - Basta, pietà! - balbettava. Ma sì ! Le sette Fate parevano ammattite e non si fermavano. A un tratto però il giovane cadde in terra. Allora tutte lo circondarono e tutte si tolsero la scuffia e con quella gli facevano vento e tutte ripetevano: - Poverino! Poverino! - Aria! Aria! Aria! - balbettava Ruggiero. - E aria sia! - disse quella delle Fate che gli era davanti. A queste parole ella si stese per terra, le braccia le si tramutarono a un tratto in ali enormi, la sottana formò la coda e il corpo le si coprì tutto di penne. In un battibaleno era diventata una civetta. Le sei Fate, non appena la compagna ebbe fatto questo mutamento, sollevarono di peso Ruggiero, glielo misero bocconi sulla schiena e augurandogli il buon viaggio, sparirono. Il cortile tornò buio e silenzioso e i curiosi che s'erano affacciati tornarono a letto. L'immensa civetta volò in alto, nella notte buia,

- domandò a Ruggiero. - Lo vedo! Oh, come è bello, ma come fa paura! Quel fuoco sale, sale!... È forse l'inferno? - No. È il vulcano Etna. Guarda intorno quanta neve! Questa è una delle maraviglie del mondo e nessun uomo può vederla meglio di te, perchè nessuno è trasportato quassù da un uccello. Guarda che fiamme, guarda che getti di materie infocate! Questa è lava che, una volta raffreddata, diventa dura e nera. Ma prima di raffreddarsi scorre come un torrente sui fianchi del monte giù fino al mare e distrugge tutto. A questa maraviglia ripenserai nella tua cameretta solitaria. - Dopo essersi librata un pezzo sulla bocca del cratere, l'immensa civetta volò via, e volò verso lo stretto di Messina, lo traversò ad una altezza enorme e continuò a volare verso settentrione fino al golfo di Napoli. Qui si fermò. Era notte, ma le vie formicolavano di gente che andava in processione, portando immagini, ceri accesi e cantando preci, così che ci si vedeva come di giorno. Ruggiero guardava maravigliato, e stava per domandare il perchè di quelle processioni notturne, quando la civetta lo prevenne: - Questa gente, - disse - teme che la lava che scorre dalla bocca del Vesuvio, un altro vulcano che è qua vicino, giunga fino a Napoli e la distrugga, e per questo prega. - Di lì un momento l' immenso uccello era già al disopra di Resina e seguiva, in senso inverso, il torrente di fuoco che s'avanzava sempre. Così, seguendolo, trasportò Ruggiero fino alla sommità del vulcano dal cui cratere usciva tutta quella lava accompagnata da razzi, da fasci di scintille, da boati, da fumo, da lapilli e da cenere. - Ma questo sì che è l'inferno! - esclamò Ruggiero. - No, non è l'inferno neppur questo, ma una cosa bella e spaventosa, una meraviglia del mondo, che pochi hanno veduta e nessuno bene come te. E ora torniamo a casa, perchè vedo che incomincia ad albeggiare. - Di fatto la civetta diresse il volo a mezzogiorno, e prima che il cielo si facesse color di perla, aveva trasportato Ruggiero nel vicoletto, era entrata dal finestrone nella camera e lo deponeva sul letto. - Che fame! - esclamò il giovane. - Questa corsa per il mondo me la fa sentire tremenda. - E io ti darò da calmarla, - rispose la Fata. E con un'ala toccò la tavola sgangherata e quella tavola s'apparecchiò da sè come per incanto e sopra vi comparvero tanti vassoi pieni di vivande che dicevano mangiami. - Ora sei contento? - domandò la civetta. - Contentissimo. Non son più gobbo, ho veduto due maraviglie del mondo e posso sgrinzirmi la pancia. - Mangia, ma bada di non crepare, - disse la civetta e volò via. Ruggiero mangiò per due, ma ciò nonostante rimase tanta roba sulla tavola da sfamare una brigata. Dopo essersi sgrinzito davvero la pancia, andò a letto e dormì come un ghiro. Intanto la nonna e la madre s'erano alzate da un pezzo e la prima era scesa a accendere il fuoco in cucina, la seconda a spazzare, quando videro nel cortile una gran folla di donne, d'uomini, di ragazzi che tutti gesticolavano, gridavano senza che esse capissero nulla perchè erano sorde spaccate e avevano ancora la testa fasciata per paura dei malanni. Però s'accorsero che tutti accennavano al terrazzino di Ruggiero e su quello tenevano fissi gli occhi. - Che gli sarà successo? - si domandarono una all'altra le due vecchie. E la sora Maruzza con la ventola in mano, la sora Leonora con la scopa sotto il braccio salirono in camera del giovine. Questi dormiva bocconi e le coperte gli stavano bene stese sulla schiena. - Che n'ha fatta della superfluità della gobba? - domandò la sora Maruzza. - Chi ha portato tutta questa grazia di Dio? - domandò la sora Leonora, accennando la tavola imbandita. Le due vecchie non si potettero levar la curiosità perchè la sola persona che avrebbe potuto parlare era Ruggiero, e Ruggiero continuò a dormire come un ghiro. E dormì tutto il giorno, tutta la sera, e quando lui si destò, la nonna e la mamma, stanche della giornata, già s'erano fasciate la testa e l'avevano nascosta sotto le lenzuola. A mezzanotte precisa eccoti le sette civette in camera di Ruggiero! Tutte gli fanno una bella riverenza, tutte lo fissano con gli occhietti d'oro, ma una sola, quella che gli s'era posata sul pugno, gli dice: - Vuoi ballare ? Vuoi viaggiare stanotte? Vuoi vedere qualche altra meraviglia? - Per dir la verità, del ballo ne farei a meno. Brutto io, brutte voi, facciamo ridere chi ci vede. - Vorresti esser bello? - Ma sicuro che vorrei. - E perchè non hai parlato? La bocca tu l'hai, e a che ti serve? - A parlare e a mangiare. - Dunque parla e di' come vorresti essere. - Vorrei essere bianco e rosso invece che giallo, - aver le gambe diritte, la testa piccola, tanti capelli.... - E poi? - Un bel par di baffi e la barba. - E per così poco ti peritavi! - esclamò la civetta. - Stenditi sul letto e bello sarai. - Ruggiero si mise lungo disteso sul letto e la civetta che parlava gli si posò sul petto e tutte le altre si gettarono su di lui, e chi gli tirava col becco le gambe per raddrizzargliele, chi gli beccava il viso per fargli nascere baffi e barba, chi lo tirava per le spalle per allargargli il torace, insomma facevano a chi più lo martoriava e lo tormentava. - Ohi! Ohi Ohi! - urlava Ruggiero. - Così mi ammazzate! - Per bello apparire, qualche cosa bisogna soffrire! - rispondeva la civetta che gli s'era posata sul petto, e faceva cenno alle altre di continuare. - Da qui a poco del dolore non ti ricorderai più e sarai contento di esser bello. - Che me ne importa della bellezza se devo morire? - Non si muore per così poco! - sentenziò la civetta, e cavato fuori un barattolino piccino piccino, di sotto l'ala sinistra, v'intinse una penna dell'ala destra e con quella si diede a ungere tutto il corpo dell'infelice. Le altre sei civette fecero lo stesso, e di lì a un momento gli spasimi del martoriato erano cessati come per incanto. - Tastati il viso, - gli ordinò la civetta. Ruggiero allungò la mano e sentì due baffi lunghi, la barba, e tutto contento esclamò: - Fate mie, se m'aveste regalato un regno non vi sarei tanto grato quanto di questo dono! - E arzillo saltò dal letto e fu lui che propose: - Facciamo nel cortile la festa di ballo? - Facciamola ! - gridò la civetta, e dal finestrone volò via seguita dalle compagne. Ruggiero scese le scale e nell'aprir l'uscio vide il cortile illuminato a giorno, sentì sonare tanti strumenti, ma quel che lo colpì di più fu il fissare sette bellissime ragazze, vestite come tante regine e con la corona d'oro e di pietre preziose nei capelli. - Bello tu, belle noi! - gli dissero le Fate circondandolo. - Balliamo! - E si presero per mano e incominciarono a ballargli intorno, a fargli riverenze e a sorridergli dolcemente.

Il Reuccio fu condotto in un momento sulla solita terrazza dove la bella ragazza prendeva il fresco, e anche quella sera ella gli rivolse tante domande per non dargli tempo di rivolgerne a lei, gli offrì la cena, alla quale parteciparono le venti dame belle e i venti bei cavalieri e lo lasciò partire prima che facesse giorno, soltanto a patto che sarebbe tornato. Il terzo giorno il nipote era di nuovo dal Duca zio a pregarlo e scongiurarlo di prestargli il porco. Da prima il Duca si rifiutò, ma poi promise che glielo avrebbe prestato; però, quando il padrone avvertì il porco di tenersi pronto per la sera, l'animale disse che non voleva più servir di cavalcatura al Reuccio, che si trovasse un altro mezzo per andare dalla bella ragazza, perchè a lui annoiava di star confinato tante ore su una terrazza, dove non c'erano neppur querci e per conseguenza ghiande, e dove non trovava neppure un trogolo per dissetarsi. Il Duca gli rispose: - Hai ragioni da vendere, ma senti, porco mio, che cosa devi fare: per stasera portacelo. Quando son seduti a cena, tu trasformati in gatto, va' nella sala, balza sulla tavola e ruba il pesce dal piatto della bella ragazza. Lei per iscacciarti ti tirerà il bicchiere, che non ti colpirà, ma andrà in tanti pezzi. Quando il Reuccio si alzerà da tavola, scivolerà sul pavimento di marmo, andrà a cadere sui pezzi di vetro che gli si conficcheranno nel viso e lo faranno tanto soffrire. Siccome è intollerante del dolore, non vorrà più tornare dalla bella ragazza che glielo ha procurato. In tal maniera, porco mio, si salva capra e cavoli, perchè il rifiuto d'imprestarti a lui non viene da me, ma è il Reuccio stesso che non ti chiede più; mi hai capito? - Il porco, che viveva vicino alla Corte e sapeva che cosa era la politica, approvò il piano del suo padrone e lo seguì a puntino. Di fatto, quando tutti furono seduti a cena e il Reuccio era tutt'occhi per la bella ragazza, esso si trasforma in gatto, balza sulla tavola, ruba dal piatto di quella una bellissima triglia e scappa. La bella ragazza, indispettita, prende la coppa di finissimo cristallo che aveva davanti e gliela scaglia contro. Il gatto fa cilecca e scappa, ma la coppa si infrange sul pavimento. I servi subito raccolgono i pezzi più grossi, ma gli altri li lasciano, e quando il Reuccio s'alza da tavola, scivola sul pavimento dove il gatto aveva strascinata la triglia e cade lungo disteso in terra e mille pezzetti di cristallo gli si conficcano nel viso.

Al tempo dei tempi viveva a Palermo nel suo palazzo un Principe che non aveva nè padre, nè madre, nè fratelli, nè sorelle, nè zii, nè cugini e neppure amici perchè era tanto brutto che gli dispiaceva di farsi vedere. Questo Principe dunque non sapeva a chi lasciare i suoi fendi e per questo, quand'era già avanti coll'età, prese moglie per avere un erede. Per l'appunto sposò un'orfana, che non aveva nessuno come lui e non la presentò nè ai nobili suoi pari, nè alla Corte del Vicerè che governava la Sicilia per il Re di Spagna. La tenne sempre chiusa nel bel palazzo, e prima che la moglie gli desse l'erede tanto desiderato, prese un abate che era stato precettore suo per affidarglielo, perchè a quei tempi i giovani nobili erano sempre affidati a un precettore che era sempre abate. Quest'abate conosceva tutte le faccende della famiglia, sapeva che il Principe non aveva nessun parente e più volte aveva frugato nell'archivio dove si serbavano i documenti e gli atti di compra e di possesso dei beni che gli avevano fatto sempre gola. La Principessa, quando fu il momento, fece un maschio, ma ella, poveretta, soffrì tanto che di lì a tre giorni mori. Il Principe, dal dolore di vederla morire, morì egli pure. Che fa allora l'abate che sapeva tutti i fatti di famiglia? Licenzia la balia del Principino orfano col pretesto che aveva poco latte, e, invece di procurarne un'altra, una sera rinvolge il Principino in una coperta e va in campagna, dalla parte di Piana de' Greci dove sapeva che abitava un mugnaio con la moglie. La donna allattava un suo bambino già grandicello e l'abate tante gliene disse che la persuase, per il lacchezzo d'un buon salario, a divezzare il suo e a prendere ad allattare il piccino che le aveva portato, senza però dirle chi fosse. Per qualche mese l'abate andò a vedere il Principino, portò il salario alla balia e qualche regaluccio, le fece sperare un bel paio di pendenti quando all'allievo fosse spuntato il primo dente, una bella collana quando sarebbe andato solo.... insomma, fece molte chiacchiere, ma quando la balia e il marito gli domandavano come si chiamava, dove stava, chi erano

. - Senti, - disse al marito - io non posso vedere che questo ragazzo fatichi a questo modo. Non sarebbe meglio farlo studiare, invece che lavorare? Anche se non ricupererà i suoi beni, una volta istruito ci darà sempre aiuto, perchè è tanto buono e riconoscente! Del resto la figlia nostra non potrebbe tirare avanti la bottega! e lui lo farà bene, avendo un po' d'istruzione. - Il fabbro si lasciò convincere dalle parole della moglie e tolse il Principino di bottega a tirare il mantice, lo mise a scuola e spese di bei quattrini per fargli insegnare prima a leggere e scrivere e fare di conto, e poi il latino, le scienze e tutto quello che si insegnava allora. Intanto il Principino raggiunse l'età maggiore e il fabbro fece fare l'albero genealogico della famiglia di Cattolica, cavò tutti gl'incartamenti e gli atti per intentar lite all'abate e provare che non lui, ma il giovinetto era l'erede dei titoli e delle ricchezze. Incominciò il processo, e l'abate, che sapeva d'aver torto marcio, non si stancava di mandar rotoli di doppie d'oro, ora ai giudici, ora al presidente del tribunale. E via via che il tempo passava e che si avvicinava il momento della sentenza, quei rotoli aumentavano di volume. Il fabbro, poveretto, si limitava a pagar gli avvocati e faceva già un gran sacrifizio, ma non aveva mezzi per battersi con l'abate a rotoli di belle doppie di Spagna. E quando dopo due anni venne pronunziata la sentenza, fu, naturalmente, favorevole all'abate. S'appellarono, e il fabbro, che non voleva darsi per vinto, vendette diverse case per sostener le spese e non badava a spendere; ma l'altro ungeva sempre le ruote, e ogni momento rinfrescava la memoria dei giudici e del presidente a forza di rotoli di belle doppie d'oro sonanti e, naturalmente, vinse. Il Principino, vedendo i gran sacrifizi fatti dal fabbro per lui, lo pregò e lo supplicò di non continuare la causa. - Lasci che mi metta a lavorare in qualche modo per rifarla delle spese incontrate per me, - gli diceva - ma rinunzi a far valere i miei diritti. Io non posso permettere che lei vada in rovina, continuando una lite che l'abate saprà sempre vincere perchè dispone di tanti mezzi. - In queste cose non t'ingerire. Io ho una figlia sola e la sua dote è assicurata. Di quel che ho guadagnato con le mie braccia sono padrone di fare quel che voglio, e intendo di continuare la lite, dovessi rimetterci anche la camicia. Lasciami pensare al mezzo di richiamare al dovere questi giudici comprati dall'abate, e poi.... Principino intanto si struggeva dalla pena, non perchè desiderasse le ricchezze, ma perchè, andandone al possesso avrebbe potuto rendere al fabbro tutto quello che aveva speso nella lite. S'accorgeva bene che in casa avevano limitato le spese, che la moglie aveva impegnato l'oro, che nessuno si faceva più un vestito nuovo. E tutto perchè ? Per quel processo che non finiva mai. Una notte il Principino non poteva dormire, agitato da mille pensieri, uno più doloroso dell'altro. A un tratto esclamò: - Madre mia, aiutami tu, non permettere che il tuo figlio non possa sdebitarsi con questa brava gente che lo ha raccolto povero, estenuato dalla fame e che per lui ha fatto tanto; madre mia, aiutami! - Il giovane Principe, dopo questa invocazione, sentì una manina delicata accarezzargli la fronte e una voce debole debole e lontana lontana, disse: - Figlio mio, nessuno ti può aiutare, se non il re di Spagna. Lui solo ti può far rendere giustizia. Figlio mio, abbi dunque pazienza, costanza e fermezza! - La voce tacque, ma il giovane Principe si sentì consolato, e ogni volta che parlava col fabbro (sempre parlavano della lite, perchè, si sa, la lingua batte dove il dente duole) gli ripeteva: - Nessuno ci può aiutare, se non il re di Spagna. Lui solo ci può far rendere giustizia. Ci vuol pazienza, costanza e fermezza! - Il fabbro, a forza di sentir questo, si convinse che, di fatto, il Re solo poteva far rinsavire i giudici e, zitto zitto, di nascosto anche alla moglie, vende un'altra casa e le annunzia che deve partire per certi suoi affari. Invece s'imbarca per la Spagna, sbarca a Barcellona, piglia pratica alla Sanità e se ne parte per Madrid. Al palazzo non conosceva nessuno e non era vestito come le persone di Corte; per questo tutti lo sbirciavano con disprezzo, ma egli non ci badava. Era giorno d'udienza e il Re riceveva tutti. Dopo lungo aspettare il fabbro fece passare l'ambasciata al Re, disse che veniva da Palermo e fu ricevuto. Appena alla presenza del Re, che era nientemeno che Carlo V, disse, gettandosi in ginocchio: - Maestà, grazia per il principe di Cattolica! - Il Re lo guardò maravigliato perchè non pareva davvero un Principe, e lo invitò a rialzarsi ed a parlare. Il fabbro allora cavò fuori tutte le carte che comprovavano le ragioni del Principino e le copie delle sentenze. Il Re, senza indugio, le esaminò, chiamò un suo giureconsulto a esaminarle, poi un altro ancora, e vedendo che si commetteva a Palermo certe nefandezze, esclamò: - Povero me, come sono ben servito! Così si amministra in Sicilia la giustizia in mio nome? - Proprio così, Maestà, - rispose il fabbro - soltanto chi ha quattrini ha ragione, anche quando commette una sfacciata usurpazione. - Ma questo non accadrà più, - assicurò il Re, e preso penna, carta e calamaio, scrisse una lettera per il Vicerè che doveva esser comunicata ai giudici, la munì del suo reale suggello e consegnandola al fabbro, disse: - Tenete, andate in Sicilia e abbiate fiducia che nessuno oserà più trasgredire agli ordini miei. - Il fabbro, tutto consolato e pieno di speranza tornò a Palermo, consegnò la lettera del Re al Vicerè, fece riaprire la causa, ebbe di nuovo una sentenza contraria e non se ne curò. Però il Principino se ne afflisse molto, e la notte dopo che fu pronunziata la sentenza, non riuscì mai a dormire. Sempre invocava la madre ed esclamava: - Madre mia, ma la giustizia è proprio morta a Palermo? Come, non è rispettata neppure la volontà del Re? Come, dovrò vedere quel perfido abate godersi i beni della mia famiglia e non potrò neppure rimborsare quest'eccellente popolano dei sacrifizi che fa per me? Non vedi, madre mia, che s'è disfatto di tutto quel che possedeva; non vedi che stenta per mantenere tuo figlio? Non credi che questo sia uno strazio per me? - L'infelice, dopo questa invocazione sentì un alito freddo sfiorargli il viso e due labbra gelate si posarono sulle sue, e quindi la solita voce affettuosa pronunziò lentamente queste parole: - Figlio mio, abbi pazienza, costanza e fermezza. Io pregherò per te. - E suggellando la promessa con un lungo bacio, si allontanò. Il fabbro sbraitava per la sentenza dei giudici, e tante ne disse che stavano per arrestarlo; ma il Vicerè non lo permise perchè aveva nelle mani la lettera del Re e temeva qualche guaio serio. Il Principino, intanto, a tutti gli sfoghi del suo benefattore, rispondeva invariabilmente con le parole della madre: - Ci vuol pazienza, costanza e fermezza! - Ma che pazienza! - gridò una volta il fabbro. - Te lo faccio vedere io che cosa ci vuole! - E vende l'ultima casetta che possedeva con la bottega e tutto, e se ne va in Ispagna di nuovo. La moglie, che fino a quel momento non s'era lagnata e le era parso tutto giusto quel che il marito aveva fatto per il Principino, quando vide chiuder la bottega e dovette lasciar la casa, divenne una vipera. - Mio marito è pazzo - diceva a chi non voleva sentirla - è pazzo da legare! S'è mai veduto che un padre dia fondo a tutto quello che ha, riducendo la famiglia alla miseria, per far valere i diritti di uno che non è neppur suo parente? Ecco qui, la nostra Angelina, non per vantarmi, era la ragazza più ricca di tutto il rione, e ora ha appena la camicia! Chi se la piglierà così nuda bruca? Nessuno. Ed ella ci rimprovererà sempre di averla sacrificata. - Non lo farò mai, mamma, - disse la fanciulla. - Io sono felice e non mi dispiace punto di non trovar marito. Sto bene così. Non vi pentite di quel che avete fatto per il Principino; io vorrei col mio lavoro, aiutarlo. - Angelina era abilissima nel fare ricami sulla tela, riproducendovi cacce, cortei reali e tante altre cose, che davano un pregio singolare alla biancheria. Ella si mise a lavorare e lavorava per le nobili dame e guadagnava tanto da campare sè e la madre mentre il fabbro viaggiava per la Spagna. Il Principino s'era rimesso a lavorare pure, e così la moglie del fabbro non mancava di nulla. Ecco che il fabbro sbarca a Barcellona, giunge a Madrid e si presenta al Re. - Maestà, il Vicerè di Sicilia ne fece un bel conto della vostra lettera! - Il Re si turbò. - Che sentenza hanno pronunziato i giudici? - domandò. - Una bella sentenza! Hanno dichiarato che l'abate ha tutto il diritto di valersi dei beni del principe di Cattolica e che il Principino è un truffatore. E l'abate se la gode nel palazzo e il Principino tira il mantice e suda a battere da mane a sera il ferro sull'incudine! - Al Re vennero i brividi nel sentir questo. Poi incominciò a gridare e a battere i piedi. Prese la corona e la scaraventò contro il muro dicendo: - Che mi vale questa corona se non sono Re in Palermo -

Provarono a pungerla con gli spilli, ad avvicinarle la fiamma agli occhi, a toccarla con oggetti infocati, nulla. Era bella, bianca, con le labbra scolorate, e non si alterava punto. Chi diceva che era viva, chi diceva che era morta e bisognava sotterrarla, e intanto tutti correvano al palazzo a vederla esposta su un bel letto, tutta vestita di bianco. La madre del Cavaliere seppe che cosa era accaduto a Maricchia, ma donna Vincenza si guardò bene dal dirle che era caduta in terra quando la cameriera le aveva fatto la sua ambasciata, e credette che fosse così per malattia e si rallegrò tutta di poter richiamare il figlio a Trapani. Il Cavaliere, che non sapeva nulla, sperando che i genitori avessero cambiato opinione, tornò subito tutto contento e donna Vincenza, che gli andò incontro per le scale, gli disse con finta compassione: - Poveretta! Che fine ha fatta! - Chi? - domandò il giovane turbato. - La zita di vossignoria! Non lo sapete? È morta da un pezzo! - Il Cavaliere, a quella notizia, non salì neppure in casa. Riscese le scale, e via al palazzo dove abitava Maricchia. Va su, entra, e in sala, circondata da ceri, vede la zita su un letto, tutta vestita di bianco, con la madre inginocchiata accanto e le sorelle prostrate e piangenti. Al rumore che fa, esse alzano la testa e donna Paola gli va incontro e gli dice: - V'ha mandato Iddio! - e gli racconta che appena egli fu partito, Maricchia seppe dalla cameriera di sua madre che era stato mandato a Palermo per prender moglie, e che quella notizia l'aveva fulminata. - Ma dunque è così da un pezzo? - Donna Paola gli fece cenno di sì. - E non s'è alterata? Non s'è putrefatta? - Vedete, è bella e fresca come da viva, e le sue carni odorano. - Dunque non è morta? - Alcuni medici dicono di sì, perchè non s'è cibata più da settimane e settimane; altri dicono di no. - Ah, Maricchia adorata! - esclamò il Cavaliere baciandola in fronte. - Ti giuro che, viva o morta, ti serberò sempre fede di sposo, e che nessuna donna fuori di te sarà mia moglie! - A quel bacio, a quelle parole, Maricchia ebbe un sussulto. Egli le prese le mani e se le portò alla bocca, chiamando: - Maricchia! Maricchia, sposa mia! - Maricchia allora aprì gli occhi, si guardò intorno, sorrise al promesso sposo e a un tratto si alzò sul letto. La madre e le sorelle piangevano e ridevano dalla gioia, e chi la baciava di qua, chi di là. Lentamente Maricchia scese dal letto e disse: - Sposo mio, ho tanto sofferto da quando mi fu fatta l'ambasciata di donna Vincenza. Sentivo tutto e non potevo nè movermi, nè parlare. - Quale ambasciata? - chiese il Cavaliere. Maricchia gliela riferì e il giovane saltò su tutte le furie e disse: - Prima di sera, Maricchia, ti giuro che tu sarai mia moglie. Ma ora lascia che vada a punire chi ti ha fatto tanto male. - E di fatto andò al suo palazzo, cacciò di casa la perfida, e quindi dichiarò al padre e alla madre che la sera stessa avrebbe celebrato le nozze con Maricchia. - Con la figlia di Totò, il facchino del porto! - esclamò la madre. - Perchè vuoi abbassarti tanto? - Mamma, Maricchia mi vuol bene davvero e questo è quel che conta. Ne dubitereste dopo quel che è accaduto? - La madre si strinse nelle spalle e non osò contraddirlo, il padre neppure, così quella sera stessa, nella sala dove Maricchia era stata tanti giorni esposta come morta, fu benedetto il matrimonio. E siccome gli sposi si volevano molto bene, vissero lungamente felici e contenti

Al tempo dei tempi vivevano a Palermo in una casuccia di loro proprietà due sorelle vecchie, grinzose e brutte da far paura. Donna Peppa era lunga lunga, secca secca con la testa tutta pelata, la bocca tutta sdentata che pareva un forno, e due occhiacci di rospo che guardavano uno a levante e l'altro a ponente. Donna Tura invece era piccina, tonda, sciancata, con due occhietti di porco, certi baffi da far invidia a un dragone e certe labbra bavose che le pendevano sul mento fuggente, che riposava su tre pappagorgie, una più cascante dell'altra. Un giorno una di queste vecchie buttò una catinella d'acqua dal terrazzino che guardava su un vicolo, e l'acqua, cadendo dall'alto, fece la schiuma. In quel mentre venne a passare il cameriere del Re, il quale, vedendo la schiuma, si figurò che fosse acqua saponata e pensò: - Guarda guarda, in questa casa ci deve stare gente pulita e chi sa che non ci sia qualche bella ragazza. - Ora lasciamo questo cameriere e pigliamo il Re. Bisogna sapere che il Re aveva la manía dell'acqua e non predicava altro che pulizia. Cambiava ogni momento le cameriere del Palazzo Reale perchè gli pareva che non fossero abbastanza pulite, e le voleva giovani, non giovandosi che le vecchie lavassero la sua biancheria, gliela stirassero, nè gli spolverassero i vestiti. Una volta ne mandò via una sui due piedi perchè la vide grattarsi la testa con l'indice; un'altra volta ne cacciò una come una ladra perchè la sorprese con la punta del mignolo nel naso. Un giorno poi mise sottosopra tutto il palazzo e fece correre anche le guardie perchè vide una pulce attaccata alla carne del collo di una povera donna di faccende. Dunque il Re cercava sempre donne di servizio e ogni tanto domandava a' suoi camerieri: - Dite, ce l'avreste una ragazza giovane, sana e pulita di molto per entrare al mio servizio? - Venne il giorno che fece questa domanda anche a quel cameriere che aveva veduto cader l'acqua dal terrazzino della casa di donna Peppa e di donna Tura. - Don Giovanni, - gli disse il Re - che novità ci sono? - Io, Maestà, non ho alcuna novità da raccontare; soltanto oggi ho adocchiato una certa casa dove deve esservi una ragazza bella e pulita; se Vostra Maestà la vuol vedere.... - Sì, don Giovanni, la voglio proprio vedere e subito domattina prima di mezzogiorno. - Vedremo, Maestà! - Che vedremo! - ribattè il Sovrano. - Con me non si dice vedremo! Domani quella ragazza ha da esser qui a tutti i costi, così ordino, e così voglio! - Quando il Re ordinava e il Re voleva, bisognava obbedire senza fiatare. E così fece don Giovanni, che uscì, camminando all'indietro, senza risponder nulla. La mattina dopo era appena giorno quando il cameriere andò a bussare all'uscio delle due sorelle. - Chi è? - domanda donna Peppa fra il sonno, con una vociaccia più brutta di lei. Il cameriere, nel sentire quella voce chioccia di donna bavosa e vecchia, stava per fuggire, ma poi pensò: - Sarà la donna di servizio, - e rispose: - Sono il cameriere di Sua Maestà il Re nostro signore per grazia di Dio! - Ma che re e non re ! Noi col Re non abbiamo mai avuto nulla da spartire, e a quest'ora non si viene a molestar la gente; andatevene! - La sorella, sentendo che era un messo del Re, mise le gambe fuori dal letto, s'infilò la sottana e scese per andare ad aprirgli. Risalì col cameriere e questi si guardò intorno e domandò: - Che siete sola? O le altre dove sono? - Ma si può sapere chi cercate? - domandò donna Tura mettendosi le mani sui fianchi e fissandolo con gli occhietti di porco. - In casa ci sono io, e lì in quella stanza c' è la mia sorella Peppa. - Chiamatela, chè debbo parlare con lei. - Donna Tura, lemme lemme andò a chiamarla. Quando il cameriere si vide davanti quelle vecchie orrende, si sgomentò tutto, ma pensò: - Col Re non si scherza, e se lo faccio aspettare e non gli porto nessuno, sale in furia e mi manda certo a morte; se, invece, vede un orrore di donna, è capace di mettersi a ridere e di sgridarmi soltanto; dunque è meglio portargliene una di queste, benché facciano spavento tutt'e due. - Allora il cameriere disse a donna Tura, che era la maggiore: - Il Re vi vuole subito, e il Re non intende di aspettare. Dunque vestitevi per bene e io vi ci accompagno. - Ma il signor Re che può mai volere da me? - Non lo so, e non facciamo chiacchiere inutili. Piuttosto sbrigatevi in un momento. - Donna Tura andò in camera sua tutta tremante e confusa. E mentre si pettinava i cernecchi, pensava: - Ma che vorrà mai il signor Re? Ma che vorrà? - Quand'ebbe terminato di pettinarsi, si mise una sottanuccia nuova di cotone a fiori, un paio di pendenti falsi, un vezzo di vetro, si legò intorno al collo enorme un nastro vecchio, perchè era povera, e si infilò un paio di scarpe, le meglio che avesse. Poi si buttò sulle spalle una certa mantellina dell'anno mai, e così agghindata, che pareva la Befana, si presentò al cameriere. Non appena don Giovannino la vide, si sentì morire e sospirando disse: - Via, andiamo!!! - Scendono le scale, escono e salgono nella carrozza che aveva portato il cameriere e i cavalli partono. Ma avevano fatto pochi passi che donna Tura disse: - Fatemi il favore di far fermare un momento che debbo scendere, - e lo disse con l'intenzione di scappare e non tornar più perchè non aveva coraggio di comparire davanti al Re così brutta e mal vestita. Il cameriere chiama il cocchiere, fa fermare e donna Tura scende e tutta piangente imbocca un vicolo e si mette a correre all'impazzata, ansando come un mantice. Mentre correva così, senza sapere dov'andarsi a nascondere, viene a passare una Fata, che, vedendola tanto disperata, la ferma e le dice: - Figlia, che hai che piangi tanto? - State zitta! Peggior disgrazia non poteva capitarmi. Il Re mi ha mandata a chiamare, e come faccio a presentarmi a lui così brutta e vecchia da far paura? - Figlia mia, non t'affliggere; non sei brutta davvero; anzi, sei tanto bella, - e le passò la mano sulla testa, sul viso, sulle spalle e poi se ne andò. Bastò quella carezza della Fata perchè a un tratto da brutta si facesse bella, da vizza si facesse fresca. E come cambiò lei, così cambiò tutto quello che aveva addosso: il vestito si convertì in un abito sontuoso di broccato, i pendenti falsi in orecchini di diamanti, il vezzo di vetro in un magnifico vezzo di perle e quel mantellaccio dell'anno mai in un sontuoso mantello tutto foderato d'ermellino. Donna Tura, quando si vide così ben vestita da parere una principessa, smise a un tratto di piangere, si fece tutt'allegra e tornò addietro a cercare la carrozza. Figuriamoci come restasse il cameriere nel vedere quella bella ragazza che gli faceva cenno di aprir lo sportello! - Ma chi è lei? - le domandò. - Chi sono? Ma quella di poco fa. - Ma come mai in un momento è così cambiata? - Questo non deve importarvi; aprite e andiamo dal Re! - Il cameriere si sentì allargare il cuore di condurre al Re quella bella cameriera vestita come una gran signora e dette ordine al cocchiere di sferzare i cavalli. Arrivarono al Palazzo e don Giovanni per una porticina e per una scala di servizio, condusse donna Tura in un salottino privato del Re e le disse d'aspettare. Quando il Re entrò la squadrò da capo a piedi. - E lei chi è? - le domandò. Donna Tura fece una bella riverenza e rispose con una vocina tutta latte e miele: - Maestà, sono la nuova cameriera portata da don Giovanni. - Badi, - le rispose il Re che vedendola così bella e ben vestita non s'attentava a darle del voi come alle altre - io sono molto esagerato per la pulizia. - Per questo, - rispose donna Tura - Vostra Maestà può stare tranquilla, perchè io sono veramente sofistica e non posso tollerare nè macchie, nè polvere e non mi piace altro che l'acqua. Guardi le mie mani, come sono pulite, e le unghie? Così le tengo sempre anche quando faccio il servizio. - Il Re s'accostò per guardarle le mani e sentì che la cameriera era tutta profumata. - Bene! Bene! - esclamò. - Lei è proprio la cameriera che fa per me, e lei sola pulirà i miei abiti, avrà cura della mia biancheria e delle mie stanze particolari. Se mi contenta, non dubiti che la pagherò bene e alla mia Corte potrà invecchiare. - Donna Tura fece un'altra bella riverenza e uscì per farsi indicare dal cameriere quel che doveva fare. Ora lasciamola e torniamo all'altra sorella. Donna Peppa, il giorno dopo, aspetta aspetta, e non vedendo tornare la sorella, si veste e va al Palazzo del Re a cercarla, e là giunta la fa chiamare. Donna Tura le va incontro tutta impettita e la guarda d'alto in basso come se neppure la conoscesse, perchè era brutta e vestita male e, senza neppur lasciarla parlare, le mette in mano un'elemosina e le dice: - Buona donna, eccovi una moneta, andate in pace! - Donna Peppa se ne andò, brontolando e sputando veleno, e si fece anche più gialla e più secca dalla grande invidia che la rodeva. - Come, siamo cresciute insieme, siamo invecchiate insieme, siamo sorelle e mi tratta così? -

Al figlio della Regina, battezzato con gran pompa, fu messo nome Giuseppe, a quello della Principessa, Gaetano. La Principessa, appena seppe che al Re era nato l'erede del trono, mandò il marito a dire alla Regina che le concedesse il favore di permetterle che insieme col proprio figlio allattasse il Principe reale. La Regina fu tutta contenta di non farlo allevare da una contadina e fece ringraziare la dama e le assicurò che se fosse campata cent'anni, non si sarebbe mai dimenticata di quella gran prova d'affetto e di cortesia. I due bimbi, allattati dalla Principessa, crescevano insieme come fratelli e si volevano un ben dell'occhio. Quando furono più grandetti ebbero tutti e due la stessa aia ed erano educati e riveriti come due principi reali. Se il Principe reale aveva un cavallino, ne aveva uno pure il figlio della dama di Corte; se uno aveva un abito, un trastullo, l'altro l'aveva eguale. Quando incominciarono a studiare, furono affidati agli stessi maestri, impararono le stesse cose e le stesse lingue, e tutti e due erano egualmente avanti e tutti e due erano valenti nel cavalcare, nel tirar di spada e in tutti quei giuochi e quegli esercizi che si addicono ai nobili cavalieri. Un giorno, quando già erano giovinetti, il Principe padre di Gaetano disse al figlio: - Gaetano, non è conveniente che tu dia del tu al Reuccio, perchè egli è figlio di un Re di corona e tu sei figlio soltanto di un Principe, dunque non siete eguali e non puoi trattarlo da eguale. Devi parlargli con rispetto e dirgli Altezza reale. - Il figlio, ubbidiente, appena si trovò col Reuccio incominciò a dirgli: Altezza reale qua, Altezza reale là, Altezza reale su, Altezza reale giù. - Sei ammattito? - gli domandò il Reuccio, sentendolo parlare a quel modo. - Io non permetto che tu mi tratti così. Siamo o non siamo amici? - Amici sempre, e io più che mai affezionato e devoto all'Altezza vostra; ma ormai, io, figlio di suddito, non posso trattare il figlio del mio Re, colui che un giorno sarà mio sovrano, diversamente da quel che è trattato da tutti. Dunque, Vostra Altezza reale deve perdonarmi se seguo i consigli di mio padre. - Il Reuccio protestò, andò in collera, ma alla fine dovette sottostare al volere dell'amico e continuò a volergli bene e a non vedere se non per gli occhi di lui. Dove andava il Reuccio andava Gaetano; quel che faceva uno faceva l'altro, erano davvero due corpi in un'anima sola e fra tutti e due non avevano che una volontà. All'età di sedici anni il Reuccio ebbe desiderio d'incominciare a cacciare, ma non volle nè falconieri, nè battitori, nessun altro che il suo amico Gaetano; e il Re glielo concesse e gli dette cani eccellenti e falchi ammaestrati. Montarono a cavallo col falco in pugno, seguiti dai cani, e andarono in campagna a divertirsi. I primi due giorni non accadde, durante la caccia, nulla di notevole; la sera portavano una gran quantità di uccelli e li spartivano d'amore e d'accordo: metà al Re per la tavola reale, metà al Principe per la tavola principesca. Un giorno però i due amici s'internarono in un bosco, scappucciarono i falchi e gli dettero la via. Di lì a poco questi uccelli, venendo uno dal lato di levante e uno da quello di ponente, scesero sul pugno del Reuccio e del Principino e ognuno aveva fatto prigioniera una colomba bianca come la neve con un collarino nero. Le colombe non parevano punto spaventate quando i due giovani le presero. - Io, per conto mio, - disse il Reuccio - non ho nessuna voglia di uccidere la mia colomba. - Neppur io voglio uccidere la mia, - rispose il Principino. - Incateniamo i falchi e mettiamo le colombe in libertà. - Così fecero e le due colombe volarono via. Di lì a un poco il Reuccio, stanco, si sdraiò sull'erba ai piedi del cavallo e s'addormentò; il Principino, invece, rimase a vegliare sul Reuccio. A un tratto sente uno stormir di foglie, e alzando gli occhi vede venire le due colombe bianche come

Ma invece di chiamare le cameriere e farsi vestire, si mise a gridare: - Povera me! Povera me! Dopo tanto aspettare dovevo proprio scegliere colui che sette anni è animale e sett'anni è uomo. - Di lì a un poco sentì fare di nuovo alla porta: - Bum! Bum! - Chi è? - Sono il notaro e avverto la Principessina che si aspetta lei sola per firmare il contratto nuziale. - Vengo! - rispose Mariuccia, ma aveva appena pronunziate queste parole che cadde svenuta, e quando, dopo pochi minuti, entrò in camera sua il padre, tutto infuriato e senza neppure bussare, la trovò lunga distesa per terra più bianca di un panno lavato, più fredda di una statua di marmo. Figuriamoci che scompiglio! Furono chiamate le cameriere, i medici; il Principe licenziò il notaro, disse agli invitati che la figlia era più morta che viva, e allo sposo, che insisteva per vederla, fece una spallata e lo consigliò d'andarsene, perchè bisogna sapere che il Principe adorava la figlia, non l'aveva mai veduta malata e credeva che quel cavaliere misterioso col serpente sull'elmo fosse un iettato, perchè appena comparso lui capitavano tanti guai alla sua Mariuccia. A forza di rimedi, alla fine la Principessina si riebbe, fu messa a letto, ma non faceva che piangere e singhiozzare e strapparsi i capelli, e le sole parole che le uscissero di bocca erano: - Povera me! Povera me! - Il Principe lasciò due donne a vegliarla, trattenne due medici al palazzo e pareva ammattito dal dolore. Le due donne che dovevano vegliare Mariuccia. benchè avessero promesso di non chiudere occhio, li chiusero tutti e due prima che il Principe avesse accompagnato i medici nelle rispettive camere per interrogarli sul malore preso alla figlia, e di lì a poco russavano, facendo rumore quanto due tromboni sonati con tutta forza. Uno dei medici sentenziò che la troppa gioia aveva sconvolto i nervi della Principessa; ma l'altro, più prudente, rispose che prima di pronunziarsi doveva aspettare il giorno dopo per vedere se lo svenimento si ripetesse o no. Insomma nessuno di loro dette al Principe una risposta concludente. Frattanto Mariuccia, nel suo dolore, aveva la consolazione di sentir russare come ghiri le due donne, con le teste ciondoloni, una a destra e l'altra a sinistra del suo letto, e sperava che facessero tutto un sonno fino a giorno chiaro per aver prima agio di conoscere dal cavallino la risposta del Mago della grotta. Appena incominciò ad albeggiare e gli uccellini del cortile si destarono, cinguettando sommessamente, Mariuccia pian piano scese dal letto, si vestì in fretta e in furia, e giù per i corridoi, per le scale segrete, per i passaggi reconditi per non esser vista, fino alla stalla del cavallino sauro. Quando il cavallino la sentì avvicinare, si mise a nitrire, e Mariuccia nel sentirlo si consolò. - Cavallino bello, l'hai visto il Mago della grotta? - L'ho visto. - E che t'ha detto? - M'ha detto che tu non ti disperi e m'ha consegnato due bellissime arance, una rossa e una gialla; quella rossa la dài a mangiare allo sposo e poi ti vesti da uomo e scendi giù. - Ah, se mi liberi da lui, cavallino bello, ti ho promesso la mangiatoia d'argento e te la faccio! - Sbrigati, - rispose il cavallino - a queste cose penseremo poi. - Mariuccia risale quatta quatta in camera sua e ritrova le donne che dovevano vegliarla, le quali russavano ancora come ghiri. Si mette a letto e finge di dormire anche lei. Di lì a un poco ecco che sente fare alla porta: - Bum! Bum! Bum! - Le donne si svegliano, corrono ad aprire ed al Principe, che entra seguito dai medici, assicurano: - La Principessina non s'è mai risentita in tutta la notte. Un sonno più tranquillo non si poteva sperare. - E i medici la guardano, le tastano il polso, mentre Mariuccia finge ancora di dormire, e sentenziano che il pericolo è passato, che il deliquio non si ripeterà. In quel mentre Mariuccia apre gli occhi, sorride al padre e dice di sentirsi bene, che anzi vuol alzarsi per ricevere lo sposo, il quale, poveretto, deve essere in grande angoscia. - Sì; è già in sala da un pezzo che aspetta tue notizie, - risponde il padre. Mariuccia si fa vestire dalle cameriere, e col viso sorridente va un momento in giardino, dove finge di cogliere le due arance, e poi raggiunge lo sposo in sala e gli regala l'arancia rossa. - A quando le nozze? - domanda il cavaliere col serpente sull'elmo. - A domani, se non c'è nulla in contrario; - risponde Mariuccia e si scusa di lasciarlo subito perchè ha da preparare tante cose. Invece va nella guardaroba del padre, prende un vestiario completo da uomo, poi si chiude in camera, e zaffete! con una forbiciata si taglia le trecce, si traveste e via dal cavallino sauro, che nitrisce sentendola avvicinare. - Eccomi pronta, - gli dice. - Che cosa debbo fare? - Salimi in groppa e dove ti porto vieni! - Mariuccia lo inforca, e il cavallino trotta e galoppa e la conduce in una città e si ferma davanti al palazzo del Re. - Sali su dal Re, - le dice - e domandagli se ha bisogno d'un cameriere. Se ti domanda come ti chiami, devi rispondergli che ti chiami don Peppino e che sei stato in casa del Principe tuo padre. - Mariuccia aveva piena fede nel cavalluccio: quanto esso ordinava ella lo faceva senza discutere. Salì dunque dal Re, fece passare ambasciata e si offrì per cameriere. Al Re piacque e la prese. Bisogna sapere che questo Re aveva un figlio, il quale, appena vide il nuovo cameriere disse al padre: - Io soli sicuro che quel cameriere è una donna. - Sarà. Se vuoi sincerartene domani fa' venire l'orefice di Corte con molti oggetti e di' al cameriere di scegliere. Da quel che sceglie t' accorgi se è maschio o femmina. - La sera don Peppino andò a governare il cavallino sauro e il cavallino gli disse: - Bada che domani il figlio del Re ti sottoporrà ad una prova: farà portare dall'orefice di Corte diversi oggetti d'oro e ti dirà di sceglierne uno. Tu devi scegliere un anello da uomo. - Non dubitare che non mi tradirò, - rispose don Peppino. Il giorno dopo, mentre il cameriere spolverava lo studio del Re, eccoti l'orefice col Reuccio. Sulla tavola espone tanti oggetti diversi, perchè il Re voleva scegliere doni per la Corte. Allora il Reuccio dice a don Peppino: - Ti voglio fare un regalo; scegli quello che vuoi. - E don Peppino, senza esitare, sceglie un anello da uomo con una pietra. - Te lo dicevo che era un uomo! - osservò il Re al figlio quando furono soli. - No, padre; forse ha capito che lo sottomettevamo a una prova, ma sono sicuro che don Peppino è donna. Non vedete che viso bello e delicato che ha? Non vedete che personale snello, che vitina sottile? - È così perchè è giovane, - rispose il Re. - No, padre; giurerei che è donna:

Allora una delle Fate gli toccò le spalle con la bacchetta fatata, e nel punto ove si posò la bacchetta spuntarono a Ruggiero due grandissime ali. Le ali spuntarono pure alle sette Fate, che si sollevarono nell'aria e invitarono Ruggiero a far lo stesso. Nella notte senza luna il corteo traversava silenzioso lo spazio. La Fata che volava avanti a tutte prese la direzione d'oriente e volò volò sopra il mare calino, su tutte le isole dell'Arcipelago greco, sulle città addormentate, finchè non giunse a una più vasta, più bella di tutte, situata su un porto magnifico. Qui le Fate scesero sulla terra e Ruggiero fece altrettanto. - Siamo in Egitto, nella terra delle maraviglie. Ora, quando sorgerà la luna, voleremo alle piramidi, alla Sfinge, al deserto, alle oasi, seguiremo il Nilo, e tu, in breve tempo avrai veduto quel che altri non vede se non in molto tempo. - Sorse la luna nella notte serena e le Fate e il giovane ripresero il volo. E Ruggiero vide il Cairo addormentato, con i bazars deserti, le moschee bianche, gli alti minareti, i superbi palazzi, i giardini silenziosi e olezzanti, e vide le grandi piramidi e la testa immensa della Sfinge circondata dalla sabbia, e i palmizi e il deserto stempiato come il mare, e il gran fiume fecondatore dell'Egitto, fino alla terza cateratta e le capanne dei Fellaks lungo le rive, e vide le oasi verdeggianti. - Già la luna impallidisce e presto sorgerà il sole, - disse una delle Fate - torniamo. - E preso altro corso rifecero il cammino in senso inverso, e prima che il sole si affacciasse di dietro al capo Zafferana a dardeggiare la marina di Palermo, erano nel cortile del Convento di Santa Chiara e tutte le Fate penetravano nella camera di Ruggiero. - La vista di tante meraviglie, mi ha dato un desiderio, - disse il giovane. - Parla! - Vorrei un veloce cavallo come quelli dei beduini che ho veduti galoppare nel deserto per assalire le carovane, - disse. - Lo avrai. Accanto alla cucina, giù a terreno, c'è una bottega abbandonata. Sfonda la porta marcita e troverai una stalla, e davanti alla mangiatoia un cavallo arabo, tutto bardato. - Ruggiero le ringraziò con effusione di tutto il bene di cui lo colmavano, e le Fate, ritornate civette, volaron via silenziose. Figuriamoci che folla quella mattina nel cortile, che chiacchierio e che vocìo! La sora Maruzza e la sora Leonora, quando scesero con la testa fasciata per non prender malanni, videro la gente, videro i gesti coi quali la folla accennava il terrazzino di Ruggiero, ma non capirono nulla, e neppure udirono raspare e nitrire il cavallo. Ma incuriosite da quei gesti e da quegli accenni, così presto come glielo permettevano la gobba e le gambe intirizzite dalla vecchiaia, salirono in camera di Ruggiero, spalancarono l'uscio; non potettero però fare un passo avanti e rimasero ferme sulla soglia. Chi era mai colui che se ne stava a pancia all'aria steso sul letto di Ruggiero? Chi era quel bel giovane così lungo, che con i piedi toccava il fondo del letto, con tanto di baffi e con tanto di barba? Forse qualche ladro? Forse qualche assassino? Non era certo Ruggiero, che a letto doveva stare sempre a sedere con un mucchio di guanciali e guancialini dietro la schiena. E Ruggiero dov'era? Ma in quel mentre Ruggiero aprì gli occhi, sorrise alle due donne e le chiamò: - Nonnina! Mammina! - La voce era la sua, ma più chiara, più forte. - Ruggiero! - risposero tremando le due donne. - È un secolo che non vi ho vedute. Ieri sera quando mi svegliai già dormivate e non vi potetti dare la gran notizia, ma oggi ne ho un'altra da darvene; così le saprete a coppia, come le ciliege. - E senza aggiunger altro, buttò via le coperte, balzò dal letto e si presentò alle due donne dritto, fiero, impettito e lisciandosi la barba. La nonna e la mamma non sapevano se piangere o ridere, ma subito si fecero il segno della croce e incominciarono a recitare le preghiere quando lo videro ballare in camicia, mentre lo avevano sempre veduto evitare qualsiasi movimento per non soffiare come un mantice. Esse non ebbero la forza di parlare e andarono in camera e accesero tutte le lampade a San Giuseppe, alla Bedda Matri, al Bambino e rimasero in orazione senza più pensare ad accendere il fuoco nè a pulir la casa, perchè in quel cambiamento di Ruggiero non vedevano chiaro. Il giovane intanto s'era vestito e lisciato e, aprendo l'armadio aveva trovato giustacuori bellissimi tutti trapunti d'oro e d'argento, calze fini che gli fasciavano le gambe ben tornite, scarpe all'ultima moda, fiocchi, guanti, cinturini preziosi e spade ornate di pietre di gran valore. Figuriamoci se lui, assuefatto a far ribrezzo a sè stesso, gongolasse nel vedere tanta bella roba che lo avrebbe fatto apparire più avvenente e più seducente! Scelse un giustacore di velluto color granato, con una stella d'oro ricamata sul petto, delle calze di seta color perla, un tocco nero con penne bianche, un mantello di velluto nero, e dopo aver cinto la più ricca fra le sue spade, scese giù. I nitriti e le zampate del cavallo arabo lo guidarono alla stalla. Il bell'animale, che aveva in fronte una stella bianca, era già bardato e sellato. Il giovane lo montò agilmente, lo toccò con gli sproni e via per il Cassaro al Palazzo Reale. Era l'ora della passeggiata e tutte le dame chi in lettiga, chi a cavallo, con lungo stuolo di cavalieri e dietro a questi palafrenieri in gran numero, riempivano le vie. La bellezza di Ruggiero, la sua eleganza, la ricchezza della bardatura del cavallo arabo, fremente sotto la mano del cavaliere, attrassero su questo tutti gli occhi delle dame, principesse, duchesse, marchese, contesse e baronesse, ma egli passava quasi senza vederle, finché i suoi occhi non furono attratti dalla figlia del Re, montata su una bianca giumenta. La Principessa era tutta vestita di bianco a ricami d'argento, e un velo ricamato di perle le avvolgeva la leggiadra persona come un fiocco di sottilissima nebbia. Ruggiero vide che era circondata di guardie, che i cavalieri fermarono i cavalli per lasciarla passare, che le dame si alzavano dalle lettighe per inchinarla e capì chi fosse, senza domandarlo a nessuno. Egli mise il suo cavallo dietro al corteo e l'accompagnò fino al Palazzo Reale. Ormai per lui non c'era che la figlia del Re, e voleva ad ogni costo averla in isposa. Quella sera le sette civette volarono in camera di Ruggiero e lo trovarono con la fronte appoggiata alla mano, in atteggiamento pensoso. Appena entrate, ciascuna si toccò con la propria bacchetta prima sulla testa, e la testa si convertì in quella di una bellissima giovane, poi sulle due ali che si mutarono in due braccia bianche, poi sulle gambe e finalmente sul petto e sul collo. Quelle sette giovani erano davvero le sette bellezze e non si sarebbe saputo chi scegliere. - Stanotte, - disse quella che parlava - tu devi fare fra noi la scelta di una sposa, e le altre saranno le sue serve. Guardaci bene a una a una e indica quella che più ti piace. Sono io forse? -

- Brontolò e si logorò tre giorni sola sola, senza neppur mangiare; il quarto rieccola a Palazzo Reale a far chiamare donna Tura. Questa scende, la guarda, al solito, d'alto in basso, le fa l'elemosina e le dice: - Buona donna, eccovi una moneta, andate in pace! - Ma donna Peppa le aggranfia la mano mentre l'altra le faceva l'elemosina e le dice: - Se non mi confessi come facesti a diventare giovane e bella, prima sfilo tutto il rosario e poi ti faccio arrestare. - Zitta, zitta! - rispose donna Tura. - Vieni stasera sotto la Torre Pisana, alla mezzanotte, e ti getterò giù una borsa con l'indicazione che chiedi e il danaro che occorre per pagare chi ti darà gioventù e bellezza. - La vecchia allampanata se ne andò allora tutta contenta, e la sera sul terrazzino di casa sua cantava con la voce di strega mummificata:

Esse si posano su un ramo basso di querce, a pochi passi dal Reuccio, e una dice : - Comare, come state? - Bene, e voi? - Bene. - E come stanno a casa vostra? - Tutti bene. - Ma lo sapete quel che vi dico? Quel giovinetto lì che dorme così tranquillamente è il Reuccio, e il Reuccio deve morire. - E perchè? - Perchè ora, appena si desta, andrà da suo padre e vorrà una spada con l'impugnatura tutta d'oro e pietre preziose. Quando gliela porteranno la cingerà e nel cingerla cadrà morto.

- incomincia a gemere, e tutto irato si volge alla bella ragazza e la rimprovera acerbamente. Questa vuol calmarlo, ma il sangue incomincia a scorrere sul volto del Reuccio, che tutto irato corre alla terrazza, chiama il porco, lo inforca e giunge insanguinato da far paura al Palazzo Reale. In un momento fa svegliare tutti, dal Re all'ultimo stalliere, e grida e si lamenta e mette sottosopra la Reggia. Il Re, quando lo vede, si mette le mani nei capelli e si figura chi sa che cosa, la Regina cade svenuta, i medici lo esaminano e non sanno che dire, e in un momento tutta la capitale è informata che il Reuccio è moribondo. Ne è informato anche il Duca zio, che corre subito, si sbraccia, propone rimedi e pare caschi dalle nuvole vedendolo in quello stato. In un momento furono chiamati a consulto i medici della capitale, e tutti, vedendo il viso del Reuccio che mandava sangue da mille ferite, si stringevano nelle spalle e dicevano che era una malattia strana e nuova e non sapevano che cosa consigliare. Intanto il paziente, che piangeva per una pipita alzata intorno all'unghia del dito mignolo, figuriamoci che cosa facesse ora che soffriva per davvero! Pareva un cane arrabbiato e lo sentivano urlare dalla piazza intorno del Palazzo Reale e la folla accorreva sgomenta e lo commiserava. - Qui non c'è che da fare un bando! - suggerì il Duca zio che già aveva suggerite tante cose. E il Re, che non aveva più testa, e si faceva guidare in tutto e per tutto dal cognato, disse: - Facciamo il bando! - Il bando fu fatto e annunziava: «Chi guarirà il Reuccio avrà una grande ricopensa.» Lasciamo il Reuccio a smaniare e torniamo dalla bella ragazza. Il giorno dopo della fuga del Reuccio, quando ella sedette a tavola e andò per mangiare una triglia, nell'aprirla vide che gettava sangue. Ella chiama il cuoco e lo rimprovera perchè non aveva cotto bene il pesce. - Il pesce è stato al fuoco un'ora, e in un'ora si cuoce dieci volte una triglia. Questa non è cosa naturale, - risponde il cuoco. Allora la bella ragazza chiama la sua cameriera che era una Fata, e le domanda che cosa voleva dire quel sangue. - Che qualcuno che pensa a Vossignoria sta per morire svenato. - È dunque il Reuccio che muore per le ferite dei pezzetti di cristallo! - esclamò la ragazza. - Insegnatemi come debbo fare per guarirlo. - Vossignoria si vesta da dottore, con un lungo gabbano nero, gli occhiali, e intanto io le preparerò un unguento che, messo sulle ferite, ne farà uscire tutti i pezzetti di vetro, e il Reuccio sarà immediatamente salvo. - La bella ragazza si traveste da dottore, s'impiastriccia il viso con una pomata giallastra, si tinge le sopracciglia, e, preso l'unguento preparato dalla cameriera, parte per la capitale, che era molto distante. Per tutto incontrava messi reali che facevano il bando. «Chi guarirà il Reuccio avrà una gran ricompensa!» E per tutto vedeva capannelli di gente che parlava della malattia del Reuccio. Giunta che fu a Palermo, andò subito sotto il Palazzo Reale e chiese di essere ammessa in camera del Reuccio. I servi, vedendo un medico, salirono dal Re e gli fecero l'ambasciata. Il povero Re, da che il figlio era in quello stato, non dormiva e non mangiava più, e sempre aspettava che il bando fatto gli portasse chi aveva il rimedio per guarire il Reuccio. Non appena gli dissero che c'era un medico così e così, ordinò che lo facessero salir subito. Quando comparve la ragazza travestita da medico, le fece mille complimenti e la condusse nella camera del Reuccio. Ella, nel vederlo così conciato per colpa sua, si mise a piangere sotto gli occhiali e promise al Re che, se l'avesse lasciata sola, gli avrebbe guarito il figlio. Il Re uscì, i medici di Corte che assistevano il ferito uscirono, e il finto medico rimase solo e si sentiva lacerare il cuore vedendo il Reuccio tutto nero in viso, tutto gonfio e sanguinante, spasimare a quel modo. La bella ragazza cavò fuori il vasetto dell'unguento, e piano piano ne unse tutto il viso al Reuccio, ma per quanto facesse con tutta delicatezza, egli sempre urlava e smaniava. Però di lì a un momento tutti i pezzetti di vetro mettevano fuori la punta dalle ferite, e la bella ragazza li prendeva a uno a uno con la punta delle dita e li cavava. Dopo un'ora erano tutti usciti, il Reuccio non urlava nè smaniava più e si sentiva sollevato. Figuriamoci la contentezza del Re, quando, a operazion finita, fu richiamato in camera del figlio! Egli avrebbe dato metà del Regno al finto medico.

. - A vostra figlia, mentre filava alla finestra, è caduto il fuso. Io gliel'ho raccolto ed ella mi ha detto: «Chi mi raccoglie il fuso dev'essere mio sposo.» Io non ho nulla in contrario; dunque accompagnatemi a casa mia e vi comunicherò le mie intenzioni, ma badate bene di non dire nulla a nessuno. - Ma come è mai possibile che un tanto signore sposi mia figlia? Io sono poverissima e non ho altro che le braccia per lavorare e gli occhi per piangere. - Non vi date pensiero di nulla; venite a casa mia e tutto si accomoderà. - Donna Paola, la vedova, lasciò a casa sua le tre figlie maggiori e accompagnò il Cavaliere al suo bel palazzo, nella via principale della città, e quando furono giunti dinanzi al portone spalancato da cui si vedeva un ampio cortile circondato da colonne e in fondo un magnifico giardino, il Cavaliere le disse: - Aspettatemi un momento qui, chè salgo e scendo subito. - La donna aspettò e lo vide salire al primo piano e di lì a poco tornare con un sacchetto di tela in mano, che reggeva con gran fatica. - Eccovi del danaro, - le disse. - Prendete in affitto una bella casa, ammobiliatela decorosamente, rivestitevi tutte, e quando sarà ogni cosa in ordine, avvertitemi ed allora mio padre e mia madre verranno a chiedervi la mano della vostra figliuola. - La donna era mezza sbalordita e appena appena

Torna a Messina e quando la figlia gli compare davanti, le dice: - Tieni, ecco che cosa ti manda il Re, - e le dà il coltello. La ragazza, dopo quel giorno non ebbe più pace e smaniava sempre. Finalmente prese la determinazione di andare lei stessa a Palermo dal Re, e tanto disse e tanto fece, che il padre le procurò un cavallo e la provvide di danaro e di una lettera per un nipote che aveva a Palermo. La ragazza parte, giunge alla capitale, cerca il cugino e gli narra tutto. Alla fine gli dice che vuole essere messa fra le schiave che erano offerte in vendita al Re. Venne il giorno della vendita; tutte le schiave furono portate sulla piazza davanti al Palazzo Reale e il Re scese per fare la scelta. Quando vide quella bella ragazza, subito la comprò, e da quel momento, Rosetta fu addetta al servizio delle guardarobe reali. Il Re s'informò dov'era, e ogni momento andava in guardaroba, con un pretesto o con un altro, per vederla e parlarle, e Rosetta gli rispondeva appena, fuggiva quando lo vedeva, e in ogni modo e maniera gli faceva capire di non poterlo soffrire. Un giorno il Re le disse: - Rosetta, vedi, io piango sempre per te! - Questo voleva Rosetta. Presto presto cava di tasca il fazzoletto che il Re le aveva mandato per il padre e gli dice: - Ecco, vedete, Maestà, com'è grande! Questo basta ad asciugare le lacrime di un anno. - Il Re guarda il fazzoletto, lo riconosce e pensa: - Ma che questa schiava sia la figlia del mercante! - Dopo alcuni giorni torna in guardaroba dove Rosetta rammendava i merletti e le dice: - Vedi, Rosetta, se tu non mi vuoi bene, io mi strozzo! - Che Vostra Maestà si strozzi pure! - E gli dà la corda lunga tre canne. - Ah! questa è proprio la figlia del mercante che si vendica, - pensò il Re. Dopo alcuni giorni torna in guardaroba. - Rosetta, mi vuoi bene? - le domanda. - Se non mi vuoi bene, m'ammazzo! - Che Vostra Maestà s'ammazzi pure! - E gli porge il coltello. Dopo questa prova, il Re si convinse che Rosetta era proprio la figlia del mercante che egli aveva tanto disprezzata e le disse: - Ti ho conosciuta e so chi sei. Un tempo mi volevi bene; perchè non me ne vuoi più? - Perchè tutto finisce, - risponde Rosetta. - Vedi, se non mi vuoi bene, io m'ammazzo davvero. - Che Vostra Maestà s'ammazzi pure! - Il Re, a quelle parole, sfodera il coltello, se l'avvicina al cuore, finge d'uccidersi e cade disteso in terra. La ragazza, senza scotersi, scende in camera sua, dove c'era una finestra che guardava sulla piazza del palazzo. Il giorno dopo il Re si fece mettere su un cataletto e si fece portare sotto la finestra della camera della schiava. Questa s'affaccia, e accortasi che era tutta una finzione, gli sputa sul viso. - Puh, per una donna quant'ha patito! - e poi fa una finestrata. Il Re, vedendosi scoperto, cessò l'inganno e incominciò a mandar gente da Rosetta a pregarla di non disprezzarlo. Prima le mandò il gran cancelliere, e Rosetta gli disse d'andarsene perchè del Re non voleva sentirne parlare. Poi le mandò il gran tesoriere, ed anche a lui rispose sullo stesso tono. Poi le mandò l'arcivescovo, il gran siniscalco, e a tutti ella diceva che il Re poteva far miracoli, ma per lei era come se non esistesse. Finalmente un giorno il Re scese dalla schiava, le si gettò in ginocchio e la supplicò tanto, che Rosetta, convinta che le voleva bene davvero e che era abbastanza punito del disprezzo con cui l'aveva trattata, acconsentì ad accettarlo per isposo. Fece venire il padre e le sorelle a Palermo e lo sposalizio si fece con gran pompa.

Aveva il cuore candido come la neve, non faceva mai torto a nessuno, aiutava i poveri, era misericordioso con tutti. Ma Guglielmo, benchè fosse anche bello e colto, non era felice. Il pessimo governo del padre, le tante ingiustizie e ruberie commesse che avevano così impoverito il popolo di Sicilia, erano per lui come un continuo rimprovero. Quando il giovinetto Re vedeva i mendicanti a frotte recarsi alla Reggia chiedendo l'elemosina, provava un dolore da non dirsi ed esclamava con tutto il fervore: - Vergine santa, datemi il mezzo di rimediare a tanta miseria e vi erigerò un tempio che non vi sarà l'eguale nel mondo. - Un giorno Guglielmo traversava su un bianco cavallo il quartiere della Kalsa, in prossimità del mare, tutto abitato da Saraceni pescatori. Era triste secondo il solito e si recava con poco seguito a pregare nella piccola cappella della Vittoria, dalla quale il bisavolo suo, il conte Ruggiero d'Altavilla era penetrato con l'aiuto della Vergine Maria in Palermo, assediata inutilmente già da cinque mesi per mare e per terra. Mentre procedeva pensoso con le redini abbandonate sul collo del cavallo, esce da un tugurio una vecchia centenaria, nera come un tizzo spento, con gli occhiacci cispellosi, i capelli tutti bianchi, e stendendo la mano adunca fino ad afferrare il cavallo per il morso, dice nella sua lingua: - Io, Re potente, so molte cose che nessuno sa. Se tu rinunzi a pregare oggi Maria di Nazareth, se volgi briglia ed entri nella moschea maggiore e preghi Allah e il suo profeta, io ti rivelerò dove tuo padre nascose tutti i tesori che tolse ai Siciliani quando ritirò tutta la moneta sonante e dette invece moneta di cuoio con la sua effigie. -

Il Duca, in preda alla frenesia, neppur se ne accorse, e conficcata la torcia in una punta di ferro, incominciò a dar colpi ripetuti contro il coperchio del sarcofago, che conteneva il cadavere del padre e poggiava su quattro eleganti colonnine. Quei colpi sordi, l'imperversare della burrasca, gli ululati del vento, lo scrosciar della pioggia, lo scoppio dei tuoni formavano un rumore assordante che avrebbe sgomentato chiunque altro meno invaso del Duca dalla frenesia di procurarsi la moneta d'oro per avere il bellissimo cavallo. Batti batti, egli non riuscì a sollevare il coperchio del sarcofago, ma lo smosse dai suoi sostegni e ad un colpo più forte tutto il sarcofago precipitò in terra con altissimo fracasso e s'infranse. La testa del cadavere, nella caduta, si staccò dal busto e rotolò sul pavimento come una palla, e il Duca, senza badare ad altro, la rincorse, la sollevò e cercò d'introdurre le dita in bocca. Ma i denti forti erano strettamente chiusi e pareva non volessero permettere alla mano sacrilega d'impossessarsi della moneta posta lì dentro dalla moglie pietosa. Ma il Duca voleva lo scudo, lo voleva ad ogni costo, e introdotta prima la lama del suo pugnale fra i denti come cuneo li dischiuse, poi tirò con ambo le mani e la bocca rese finalmente il suo tesoro. Ma a quel punto la torcia si spense e il Duca rimase al buio nella cappella mortuaria, col teschio del padre fra le mani. E allora solo sentì l'orrore di quella notte di burrasca, e quel teschio, quello scheletro decapitato, giacente sul pavimento, quel sarcofago infranto, tutte quelle cose vedute fugacemente al bagliore vivo dei lampi, lo riempirono di spavento. Gettò il teschio, e reggendo fra mano lo scudo d'oro, fuggì dalla cappella, e chiamati i servi volle partir subito dal castello, benchè il vento infuriasse tuttavia, l'acqua scrosciasse e i fulmini scoppiassero con rumore assordante. La mattina dopo verso il meriggio era nel suo palazzo di Palermo, sul quale splendeva il sole, e il Duca avrebbe potuto illudersi che tutto quello che aveva fatto durante la notte fosse il ricordo di un cattivo sogno, se non avesse avuto fra mano lo scudo d'oro fiammante. Quando il valletto recando per la briglia il magnifico cavallo comparve davanti al palazzo Morvagna, il Duca non dette tempo ai due finti mercanti saraceni di magnificare le bellezze dell'animale e i suoi pregi. Scese rapidamente le scale, si aprì un varco fra la folla degli ammiratori, e messo in mano ad uno dei mercanti lo scudo, prese con le sue mani le briglie e trasse il cavallo nel palazzo. Prima ancora che i mercanti saraceni giungessero alla Reggia, il re Guglielmo era informato che il duca di Morvagna aveva sborsato lo scudo d'oro per l'acquisto del cavallo e mandava un drappello della guardia reale, composta tutta di seguaci di Maometto, a prendere Roberto. Quando il giovane fu al cospetto del Re, questi gli disse: - Come, non tremi per il tuo crimine, sciagurato Duca? Così, tu dai l'esempio d'ubbidienza ai miei ordini, tu che sei uno dei grandi feudatari del Regno? Non sai che feci bandire ovunque che tutte le monete di bronzo, d'argento e di rame fossero recate al mio tesoriere? Chi ti dette quella moneta d'oro? - Il Duca tutto tremante rispose: - Maestà, quando il padre mio venne a morte, durante il regno del glorioso re Ruggiero II, vostro genitore, mia madre gli mise in bocca uno scudo d'oro. Io ignoravo questo fatto, che mi fu ieri appunto rivelato da mia sorella Costanza, la quale, vedendomi smaniare per possedere il superbo cavallo, me lo rivelò ed io andai stanotte al castello di Morvagna, infransi la tomba paterna e dal teschio cavai lo scudo. - Il Re fece chiamare Costanza, e la gobba si presentò arditamente a Guglielmo e negò tutto quello che aveva detto il fratello e giunse perfino a giurare sul Cristo, che ella non sapeva dello scudo nè d'altro. Guglielmo montò in furia e ordinò che il duca Roberto venisse legato a quattro cavalli e questi spinti in quattro diverse direzioni affinchè il suo corpo fosse squartato. Il Duca, prima di morire, chiese al Re la grazia che s'interrogasse i servi che lo avevano accompagnato al castello e nella cappella di questo si vedesse se aveva detto menzogna, narrando che il sarcofago era caduto e il teschio giaceva per terra lontano dal resto dello scheletro. La grazia gli fu accordata, e mentre il Re interrogava i servi, il fido cancelliere Matteo andava a Morvagna a esaminare la tomba. - Sono perduta! - esclamò la perfida Costanza quando lo seppe. - Più che mai esalto Allah e il suo profeta Maometto e rinnego Cristo, purchè i miei alleati mi aiutino. Non ho io comprato quell'aiuto, vendendo l'anima mia? - Che vuoi? - domandò l'uccello nero. - Voglio che dalla cappella del castello di Morvagna sparisca ogni traccia di manomissione della tomba paterna. Voglio che mio fratello muoia. - È impossibile che i tuoi alleati penetrino nella cappella, su cui sorge la croce. Impossibile che calpestino

Poi prese lo scettro e lo scaraventò in terra dicendo: - A che mi vale questo scettro se non comando nulla in Sicilia e i giudici comandano più di me? - Poi prese il manto d'ermellino e lo strappò tutto, dicendo: - A che mi vale questo manto mentre nel mio Regno mi contano quanto Pulcinella? - Il fabbro, nel vederlo così infuriato, credeva che se la sarebbe presa anche con lui e l'avrebbe mandato a marcire in qualche prigione o a remare su qualche galera. Invece il Re, tutto buono si volse a lui e, mettendogli in mano una borsa piena di doppie d'oro, gli disse: - Andate a Palermo e udrete di gran notizie! pover uomo ringraziò ed uscì lesto lesto. Più presto che potè s'imbarcò su una nave che faceva vela per la Sicilia e con quelle doppie d'oro rabbonì la moglie e levò il Principino da battere il ferro sull'incudine e da limare chiavi e toppe. Ma torniamo al Re. Subito subito fece chiamare un suo fido servitore. - Don Josè, - gli disse - io debbo partire per un lungo viaggio, ma non voglio partire da Re. Qui farete credere che sono all'Escurial a far gli esercizi religiosi e che non voglio esser disturbato, avete capito? - Maestà, sì. - Procuratemi un vestito da abate, ma vecchio e bisunto, tagliatemi i baffi, fatemi la chierica.... - Don Josè credeva che il Re fosse impazzito. - Presto, don Josè, andate e stasera portatemi il vestito che v'ho chiesto. Non vi movete? Sono o non sono il re di Spagna, d'Aragona, di Castiglia, di Leone, di Sicilia e del Nuovo Mondo? Il discendente di Ferdinando e d'Isabella di Castiglia, sono o non sono Carlo V re e imperatore? - Sì, Maestà, siete il più potente sovrano del mondo e sui vostri domini non tramonta mai il sole; ma appunto per questo, mi pare che l'etichetta richieda che il Re ne' suoi viaggi sia accompagnato.... - Al diavolo l'etichetta e tutto il resto, obbedite! - E don Josè obbedì e la sera stessa portò il vestito da abate al suo Sovrano e dovette tagliargli i fieri baffi, la barbetta prepotente e col rasoio fargli una bella chierica nel centro della testa. Così trasformato il Re uscì dal Palazzo Reale di Madrid senza esser riconosciuto da nessuno, montò un ronzino, procuratogli pure da don Josè e su quello pian piano percorse solo le strade maestre del suo Regno, accorgendosi che molte cose andavano male, che molte altre non erano come gli davano ad intendere ministri e cortigiani, e s'imbarcò finalmente a Barcellona. Una burrasca gettò la nave sulle coste di Trapani, dove il Re comprò un mulo e su quello si avviò alla capitale dell'isola. Ma se le cose andavano male in Ispagna, andavan peggio in Sicilia. Strade non ce n'erano, le campagne erano incolte e deserte, e il Re fu fermato tre volte nel viaggio dai malandrini. I primi gli presero la borsa con le monete d'oro, i secondi il mulo, i terzi, non potendo prendergli altro, gli levarono le scarpe con le fibbie d' argento, il mantello e l'abito talare, cosicchè dovette fare il viaggio a piedi e scalzo e senza nulla che lo riparasse dal freddo e dalla pioggia. Figuriamoci che umore avesse quando pose finalmente il piede nella sua fedele città di Palermo. Se gli fosse capitato davanti il Vicerè che governava in suo nome, lo avrebbe per lo meno mandato alla forca. Fortuna che sapeva l'indirizzo del fabbro e andò a trovarlo! Il brav'uomo lo riconobbe subito e lo ristorò, lo calzò e lo vestì, altrimenti il Re sarebbe morto di fame ne' suoi felicissimi Stati. Il fabbro tempestò, fece l'ira di Dio perchè di nuovo il Tribunale discutesse la causa e la discusse. Il Re quel giorno era nell'aula vestito da misero abate. A un certo momento s'accorse che un giudice fa- ceva una soperchieria, e pian piano disse: - Ma perchè, signor giudice, non usate giustizia? - Ah, padre abate, occupatevi dei fatti vostri! Se non ve ne andate, vi tiro il calamaio! - Il Re non voleva altro. Si sbottona la tonaca, si apre il colletto della camicia e fa vedere il Toson d'oro. I giudici rimasero come morti. - Giudici infami, - esclamò il Re drizzandosi - così vendete la giustizia? Ordino e comando che subito questi cinque furfanti siano legati alle code dei cavalli e trascinati per la città. Voglio che il popolo veda che le loro ingiustizie, le loro infamie non sono approvate dal Re. - Subito questi giudici furono presi, legati alle code di focosi cavalli, trascinati per le strade e in un battibaleno erano bell'e morti. Poi furono squartati, scorticati e con la pelle dei giudici il Re fece fare tanti seggi e su questi seggi ordinò che sedessero sempre i giudici quando dovevano giudicare e condannare, perchè non dimenticassero quel che era capitato ai loro predecessori. Il perfido abate perdette la causa e finì la vita in una prigione, e il Principino fu reintegrato nei suoi titoli e nei suoi beni e per riconoscenza sposò Angelina, la figlia del fabbro. Il Re fece alla sposa doni sontuosi e volle che le nozze fossero celebrate nella cappella Palatina, nel Palazzo Reale. Il Vicerè, poveretto, la passò brutta e così tutti i funzionari che governavano l'isola a nome del Re, il quale, facendo giustizia, si acquistò l'amore e la riconoscenza dei Siciliani. Il principe di Cattolica gli fece fare una statua che fu messa di fronte alla casa del presidente Airoldi nel Vicolo degli Agonizzanti. Il vicolo prese il nome di Cortile del Re, e la strada per la quale furon trascinati i giudici rei, fu chiamata la Calata dei Giudici e così si chiama ancora. Angelina e il Principe furono felici e contenti e lei fu Viceregina e il Principe Vicerè dell'isola per anni e anni. FINE.

. - Costanza, al pari del tesoriere, aveva capito che la vendita del cavallo a condizione che fosse pagato con uno scudo d'oro nascondeva un tranello del re Guglielmo, e poichè non bramava altro che perdere il fratello, si sarebbe disfatta di tutti i suoi monili, che pur le erano così cari, per procurargli quello scudo. Ella attese in giardino che giungesse la sera, e quando il Muezzin, dal minareto della vicina moschea, invitando i fedeli alla preghiera, mandò il solito grido, Costanza ripetè con maggior fervore che mai: - Allah è grande, Maometto è il suo profeta, - e subito aggiunse: - e Cristo è un impostore. - Non aveva terminato di pronunziare queste parole, che il solito uccello nero si appollaiava su un ramo basso di melogranato in fiore e diceva: - Costanza, quello che vuoi domanda. - Domando che a mio fratello sia procurato uno scudo d'oro. - Che lo vada a prendere nella bocca del cadavere del Duca suo padre, dove lo mise un tempo la Duchessa sua madre. - E ce lo troverà? - Ce lo troverà e morrà, e tu avrai le sue ricchezze. - Costanza non volle saper altro. Ella andò nel vasto cortile del palazzo, circondato dal colonnato, in cui l'acqua mormorava nei bacini di porfido e le rose e i gelsomini si avvincevano ai fusti delle palme, e accostandosi al fratello, che sedeva pensoso presso una fontana, con fare mellifluo, gli disse: - Fratel mio; la tua tristezza mi ha tanto amareggiata, e in queste ore trascorse nel silenzio e nella meditazione, la mia mente s'è dischiusa ai ricordi d'infanzia. E ho ricordato d'aver udito dalla bocca della santa madre nostra, che ella stessa aveva messo nella bocca del marito morto uno scudo d'oro. Vai, scoperchia il sarcofago, fruga il cadavere e sarai consolato. - Il duca Roberto s'alzò di scatto, fece sellare il suo cavallo e con una scorta di armati andò al castello di Morvagna, ove nella cappella riposavano a fianco, nei ricchi sarcofaghi, il padre e la madre sua. Vi giunse nelle ore tarde della sera, mentre infuriava un temporale, e subito andò nelle sue stanze e ordinò a tutto il seguito d'andare al riposo. Egli, invece, accesa una torcia, e preso un piccone di ferro, scese nella cappella. La comparsa del lume in quel luogo

Al tempo dei tempi, quando in Sicilia regnava Ruggiero II il Normanno, venne a morte il Principe di Morvagna. Costui era tanto avido di danaro, che fino all'ultimo momento, quando già aveva il rantolo dell'agonia, si raccomandò alla moglie che gli desse una ciotola di monete d'oro per tuffarci per l'ultima volta le mani prima di spirare. La moglie gli dà la ciotola e il Principe infila le dita fra le monete e sorride appena. Di lì a poco chiudeva gli occhi per sempre. La Duchessa, che era molto affezionata al marito, non abbandonò mai il cadavere del Duca finchè non fu messo nella bara, e prima di avvolgerlo nel lenzuolo funebre, di tela finissima, gli mise in bocca una moneta d'oro, perchò sapeva che spesso faceva così anche da vivo e ci provava piacere. La Duchessa sopravvisse pochi anni al marito e poi andò ad occupare accanto a lui un sarcofago di basalto nella cappella annessa al castello di Morvagna che costituiva il fendo principale della famiglia, avuto in dono dal primo Ruggiero quando istituì il feudalismo in Sicilia. Erede del nome e del feudo rimase un fanciullo per nome Roberto, il quale aveva due sorelle: una si chiamava Maria, ed era bella e buona come un angiolo; l'altra aveva nome Costanza, ed era gobba, dispettosa, invidiosa e perfida quanto mai. Maria, quando ebbe diciotto anni, entrò in un convento, e pur amando teneramente il fratello, volle dedicarsi alla Vergine Maria; Costanza rimase nel palazzo Morvagna, occupandosi soltanto a nascondere la sua deformità per buscarsi un marito che la conducesse alla Corte e le desse un gran nome e molte ricchezze, poichè per le leggi di quel tempo tutti i beni della famiglia spettavano al fratello Roberto, non appena avesse raggiunta la maggiore età. Costanza esultò quando Maria prese il velo nel Convento della Martorana, perchè sapeva che tutti la chiamavano la bella e lei la brutta e la gobba, e più che mai cercò di nascondere i suoi difetti sotto i ricchi abiti, e più che mai si studiò di mostrarsi cortese ed aggraziata per procurarsi un buon partito. Frattanto il duca Roberto da fanciullo s'era fatto giovinetto e al pari della sorella monaca, era bello di viso, bello di persona, agile e destro in tutti gli esercizi del corpo e così buono e sincero da destare simpatia in chiunque. Per questo e per il suo grado e le sue ricchezze Costanza lo invidiava, ora che non poteva più invidiare la sorella, e si disperava che egli avesse tutto e lei niente. Un giorno, mentre era ritta davanti alla vasca di marmo bianco e di squisita fattura che ornava il giardino, le venne fatto di specchiarsi nell'acqua, e si vide così brutta e così deforme, nonostante i belletti, i monili e le vesti sontuose, che pensando al fratello esclamò: - Lui tutto e io niente! - Non appena ebbe pronunziato queste parole, vide un uccello nero posarsi su un ramo vicino e sentì una voce che diceva: - Se vuoi qualche cosa l'hai da comprare! Se vuoi qualche cosa l'hai da comprare! - E con che devo comprare questo qualche cosa, se tutto è del duca Roberto? - rispose Costanza. - Ma una cosa è tua e quella la puoi dare. - E quale? - L'anima! A questa risposta Costanza capì che l'uccello era il Diavolo in persona o almeno Maometto, e rispose: - La darei volentieri, per ottenere almeno la bellezza! - Quella è impossibile. - Allora le ricchezze di mio fratello. - Quelle sì, e se le vuoi le avrai fra pochissimo tempo perchè tuo fratello morrà. Ma tu, da oggi in poi, sera e mattina, quando il Muezzin sale sul minareto della moschea, devi ripetere: «Allah è grande, Maometto è il suo profeta e Cristo è un impostore!» - Ma questa è una bestemmia! - La vuoi dire, sì o no, sera e mattina? Se la dici avrai tutte le ricchezze della casa Morvagna, il ducato con i feudi numerosi, il palazzo, le ville, i vassalli nobili e plebei, la potenza, la grandezza e.... alla morte, una tomba sontuosa, degna di una potente regina. - E avrò un marito? - Avrai un marito bello, buono, ricco, aitante cavaliere. - Ebbene, esalterò sera e mattina Allah e il suo profeta e rinnegherò Cristo. - E così fece da quel giorno la perfida Costanza, e se una volta non lo faceva o perchè non udisse il Muezzin, o perchè fosse in compagnia di gente, era sicura che, andando in giardino, le sarebbe apparso l'uccello nero per rammentarle la promessa. In quel tempo occupava il trono di Sicilia Guglielmo I, detto il Malo, per la sua malvagità, il quale era succeduto a Ruggiero II suo padre. Avido di ricchezze, non badava a impoverire i suoi sudditi per procurarsele, e non sapendo più come mungerli aveva fatto ritirare sotto pena di morte tutte le monete di bronzo, d'argento e di rame per sostituirle con quelle di cuoio coniate con la sua effigie. In tal maniera era riuscito a empire il suo tesoro e ad aver mezzi per costruirsi ville sontuose nei dintorni di Palermo e ad ornarle di tutte quelle ricchezze che usavano i Saraceni. In quelle ville passava il tempo nell'ozio e nei piaceri, circondato da Saraceni e non si curava delle guerre civili, delle miserie e delle altre calamità che affliggevano il suo popolo. Una volta il re Guglielmo, per vedere se qualcuno aveva serbato monete di metallo violando l'ordine regio di consegnarle tutte al tesoriere della corona, mise in vendita a Palermo il più bel cavallo delle sue stalle, un animale di forme perfette, con l'occhio vivo, le narici frementi e agilissimo nella corsa. Lo fece condurre prima in giro per la città, tenuto per la briglia da un valletto e seguito da due Saraceni della guardia reale, travestiti da mercanti che gridavano, uno in arabo e l'altro in latino e poi in greco: - Nobili e plebei, accorrete ad ammirare questo stupendo animale, che perviene dalla scuderia del gran califfo d'Egitto. Non se ne domanda che uno scudo d'oro in moneta sonante. Chi lo vuol comprare? In tutto il Regno del signor nostro Guglielmo e neppure nel resto d'Italia c'è cavallo più bello nè più generoso di questo. Ha il piede leggiero e veloce, è un fulmine in guerra e conduce sempre chi lo cavalca alla vittoria. Chi compra quest'animale? chi lo compra? - Così gridavano i due finti mercanti, uno in arabo e l'altro in greco e in latino per tutte le piazze e i crocevia della magnifica città di Palermo, ed a preferenza si fermavano davanti ai palazzi dei grandi: essi si fermarono pure davanti al palazzo del duca di Morvagna. Il duca Roberto tornava appunto da una passeggiata a cavallo quando comparvero i due finti mercanti e si misero a magnificare in arabo, in greco e in latino i pregi del cavallo. Roberto, appena vide il bellissimo animale, guardò con disprezzo quello che montava e desiderò ardentemente di possedere l'altro. Ma sentendo che i mercanti esigevano che fosse pagato con uno scudo d'oro, esclamò: - Misero me! Dove trovare quello scudo d'oro, ora che c'è soltanto moneta di cuoio? Per avere quello scudo d'oro, che mi permettesse di pagare questo cavallo, darei uno de' miei feudi! - Il Duca rimase a guardare il cavallo come in estasi e non entrò nel palazzo se non quando i due Saraceni ebbero condotto oltre l'animale per offrirlo in vendita. Non appena il duca Roberto fu nel palazzo, fece chiamare il suo tesoriere Ben-Hamil, il Saraceno che era stato tesoriere di suo padre e del nonno suo. - Ben-Hamil, - gli disse il Principe - quando il Re nostro ordinò la consegna di tutte le monete di bronzo, d'argento e d'oro, ubbidisti tu? - Ubbidii. - E non rimase nelle nostre casse neppure uno scudo d'oro? Non avesti vaghezza di conservarne neppur uno celato in qualche nascondiglio? - No, signore; perchè la vita mi è più cara dell'oro, e l'avrei perduta trasgredendo all'ordine del Sovrano. - Oh, se io avessi uno scudo d'oro! - sospirò il Principe - sarei il cavaliere più felice della terra perchè potrei acquistare lo stupendo cavallo che si vende oggi a Palermo. - E forse quello scudo ti sarebbe fatale, o mio Principe. - E qui il tesoriere abbassò la voce e aggiunse: - Non credi che questa vendita sia un tranello del perfido che opprime Cristiani e Saraceni, che ha ridotta povera la magnifica isola di Sicilia e vi fomenta di continuo le discordie e la guerra? - Roberto non badò neppure a queste parole e tutto il giorno non fece che sospirare e bramare il bel cavallo che i due Saraceni continuavano a condurre per la città e offrivano a chi non poteva acquistarlo. All'ora del pranzo, quando sedette a mensa di fronte alla sorella Costanza, era tutto taciturno e pensieroso e respingeva il cibo. - Che cosa ti tiene in angustia, fratel mio? - gli domandò la gobba. - La mia miseria, sorella. Non so che darei per avere uno scudo d'oro in moneta sonante. - Monete in valuta sonante non ce ne sono più nel Reame, - rispose la sorella - dopo che piacque al signor nostro Guglielmo di cambiarle tutte. - Lo so, ed appunto perchè uno scudo d'oro è più raro in Sicilia che una mosca bianca, io lo cambierei con uno dei feudi di cui il gran conte Ruggiero investì il nostro avo normanno in compenso dell'aiuto prestatogli per l'acquisto dell'isola. - E che ne faresti, fratel Roberto di quello scudo?

Il tuo Dio non ti aiuta a far cessare tanta miseria; prega il mio e sarai esaudito. - Lungi da me, vecchia tentatrice; io sono cristiano e morrò cristiano. Se il mio Dio non m'aiuta, si è perchè vuol mettere alla prova la mia costanza e la mia fortezza, - e spronato il cavallo si diresse alla cappella della Vittoria. Ma fatti appena pochi passi vide due bimbi stesi in terra accanto al cadavere di una donna, della madre loro, e più lungi un uomo nel fiore dell'età, livido, estenuato empirsi la bocca con una manciata d'erba e con quella saziare i crampi dello stomaco vuoto. Le lacrime fecero velo allo sguardo del giovinetto Re il quale, toltasi dal collo una croce d'oro, l'ultimo gioiello che conservasse e che aveva carissimo, la mise nelle mani del sacerdote che era accorso a riceverlo sulla porta della cappella, e gli disse: - Vendila e soccorri quegl'infelici. - E sempre col volto inondato di lacrime entrò nel tempio, s'inginocchiò sulla nuda terra e con tutto il fervore dell'anima pregò: - Vergine beata, tu che proteggesti visibilmente l'impresa dell'avo mio e lo aiutasti a liberare l'isola di Sicilia dai Saraceni infedeli, da questo tempio da cui tu lo facesti penetrare in Palermo io ti prego e ti scongiuro di farmi conoscere ove il padre mio nascose i tesori tolti ingiustamente al popolo siciliano. Signora del Cielo, tu vedi il mio cuore, tu sai che, se io ti chiedo quella rivelazione, non è per cupidigia, ma per calmare la fame di tante migliaia d'infelici che, giorno e notte, maledicono la cupidigia del padre mio. Signora del Cielo, consolatrice degli afflitti, esaudiscimi, ed io farò erigere a gloria Tua il tempio più bello di tutta la cristianità, un tempio unico che sarà un canto perpetuo di lode in Tuo onore. - Il giovinetto Re, terminata la preghiera, alzò i begli occhi ad un rozzo quadro della Vergine che ornava la cappella, e gli parve che gli occhi di Lei si movessero e la bocca fosse atteggiata a un benigno sorriso. Più consolato si alzò, rimontò a cavallo e fece ritorno alla squallida Reggia, ove nelle sale magnifiche, ornate di mosaici, non echeggiava mai nessuna gaia risata, ove i volti dei cortigiani erano velati di mestizia, ove tutti i discorsi si aggiravano sulle pubbliche calamità. Guglielmo non usava, come il padre, dilettarsi nel soggiorno degli incantevoli palazzi della Cuba e della Ziza. Vi aveva fatto togliere, come dalla Reggia, tutti gli oggetti di valore, per convertirli in grano da distribuire ai poveri; li aveva spogliati della suppellettile preziosa, e le nude pareti delle sale, i giardini incolti, non echeggiavano più di suoni e canti, non vi si vedevano più danzatrici. Quando egli usciva a diporto andava nei boschi della vicina collina di Monreale, oppure all'Abbazia di San Martino ove i Benedettini pregavano e lavoravano la terra per dar pane agli affamati. Ma non vi andava con seguito di cavalieri, nè di falconieri e di cani, come gli altri re, sibbene con pochi fidi, per rinvigorire le membra nell'aria pura dei boschi ed esser poi più forte per sopportare le calamità. Una volta era appunto nei boschi che rivestivano la collina di Monreale, e da una radura aveva contemplato il mare deserto di vele, perchè il commercio era morto, la magnifica conca in cui si adagiava Palermo, tutta inselvatichita perchè mancavano i mezzi per coltivarla, e Palermo, dove si addensavano tante miserie. A quella vista il giovinetto Re esclamò: - Signora del Cielo, Vergine gloriosa, fate che il mio popolo non debba più rimpiangere la signoria dei Saraceni ! Al tempo di essa questo mare era coperto di navi che portavano qui i prodotti di tutti i paesi e ne portavano via le derrate e le merci; questa conca era una vera conca d' oro per la feracità del suolo ben coltivato, ove nascevano mèssi e frutti in gran copia; la città di Palermo era ricca e il popolo vi trovava lavoro ben remunerato. Ora Voi vedete lo squallore e la miseria, e questa è opera dei Cristiani! Signora del Cielo, Vergine gloriosa, fate cessare tanta onta, tanta sventura! - Così pregò lungamente il giovinetto Re. A un tratto la sua mente si offuscò, gli occhi quasi gli si chiusero, le gambe si rifiutarono di sostenerlo ed egli ebbe appena il tempo di stendersi sull'erba, che già dormiva. Egli s'era coricato all' ombra di uno scuro carrubbo, che spandeva i suoi rami su di un largo tratto di terreno, quando in sogno gli comparve la Vergine seduta sul trono, con due angioli, e ai lati di lei erano gli apostoli; più sotto quattordici santi; più basso ancora, a destra e a sinistra, san Pietro e san Paolo, e maestoso in mezzo ad essi, come sorreggente tutto quell'edilizio celeste, il Cristo col volto spirante mansuetudine e bontà. Gli occhi di Guglielmo fissavano estatici le figure bellissime, quando le labbra della Vergine si schiusero e la voce soave disse: - Guglielmo, l'afflizione del tuo cuore mi ha commossa, e per te e per il popolo tuo ho interceduto presso il mio Divin figliuolo. Egli, nella sua benignità, ha concesso che ti apparissi e ti parlassi. Ascolta, Guglielmo: i tesori estorti dal padre tuo al popolo siciliano, sono nascosti nel terreno sul quale tu dormi; scava e li troverai, e costà appunto erigi un tempio a perpetua espiazione dei peccati di colui che rese odioso in Sicilia il culto del cristianesimo. - Non appena la Vergine dal trono ebbe terminato di parlare, la figura del Cristo alzò la mano in atto di benedire. Poi tutta l'apparizione dileguò e il giovinetto Re si destò dal sonno; ma ancora gli risuonava nelle orecchie la voce dolcissima e negli occhi serbava la visione di quel lembo di paradiso. Si alzò sbalordito, pronunziò una fervida preghiera di ringraziamento, e pieno di fede nella promessa celeste, si tolse dal tòcco una piuma d'airone e la piantò sotto il carrubbo ove l'erba era schiacciata dal peso del suo corpo, per non confondere quel carrubbo con altri che crescevan vicino, e tutto lieto raggiunse il seguito e fece ritorno alla Reggia di Palermo. Qui, senza rivelare ad alcuno il sogno avuto, annunziò che il giorno dopo sarebbe partito per Kalata Busambra, dov'era un forte eretto dai Saraceni. E di fatto vi si recò, e là, presi seco alcuni villani con zappe e vanghe, tornò a Monreale. Egli si diede ansiosamente a cercare il carrubbo sotto il quale aveva dormito, credette riconoscerlo alla penna d'airone conficcata nel terreno, e lì ordinò che fosse scavato il suolo. Scava scava non fu trovato nulla, e il piccone incontrò la dura roccia, che fu messa a nudo, e in essa non si vedeva nessuna apertura. Scoraggiato il buon Re, ma non sfiduciato, fece rimettere la terra a posto, licenziò i villani, remunerandoli del lavoro fatto, e con digiuni e preghiere cercò benignarsi la Vergine gloriosa, raffermandole la fede nel Suo aiuto. Ogni giorno il Re, sperando di avere una nuova visione, si recava nel bosco di Monreale. Il terzo giorno

. - Mariuccia prese subito un'asse del letto, e con quella si mise a battere contro l'uscio. Batti batti, l'uscio cedette e la Reginuzza entrò in sala dove ci erano tante sedie tutte con ornati di bisce dorate aggrovigliolate insieme. Si rammentò allora d'aver serbato l'arancia gialla che le aveva data il cavallino nel palazzo del Principe suo padre quando fuggì, e la cavò di tasca. Aveva la buccia secca secca, ma tagliandola in mezzo, vide che conteneva ancora un po' di succo. Con quel succo bagnò la testa delle bisce dorate e, come per incanto, ritornarono tutte donne giovani e belle e le raccontarono che il serpente le aveva tutte convertite in bisce perchè non l'avevano voluto sposare. Anche Mariuccia narrò i casi suoi, ed esse, sentendo che era figlia di Principe e moglie di un Reuccio le dissero: - Giacchè non hai dame nè cameriste, noi saremo le tue dame, le tue cameriste e le aie di tuo figlio, - e da quel momento Mariuccia fece una vita tranquilla in mezzo a tutte quelle donne che la servivano con amore. Gli anni passarono, il figlio di Mariuccia si fece un bellissimo giovinetto ed era sempre in groppa al cavallino o accanto alla sua mamma, circondato dalle sue aie che gl'insegnavano chi una cosa e chi un'altra così che era istruito, gentile e cortese come si conviene al figlio di un Reuccio. Lasciamo Mariuccia al palazzo sul limitare del bosco e torniamo al Reuccio. Terminata la guerra, che era durata tre anni, con lo sterminio del nemico, il Reuccio coperto di gloria se ne tornò alla Corte del Re suo padre, tutto bramoso di rivedere la sposa e di abbracciare il figlio che ancora non conosceva. Il popolo gli mosse incontro acclamandolo, la Regina e il Re gli andarono incontro fino alle porte della città. Appena li scorse, non vedendo nè Mariuccia nè il figlio accanto a loro, si turbò tutto e corse a chiedere dove fossero. Il Re e la Regina si guardarono maravigliati. - Ma non scrivesti tu che dovevano essere scacciati? - domandò il Re. - Io?! Ma io scrissi che li teneste di conto più che la pupilla degli occhi vostri. - Ma la lettera l'abbiamo serbata, - disse la Regina. Basta. Tutta la gioia del Reuccio svanì. Vide la lettera e sentenziò: - Questa non l'ho scritta io. Qui c'è inganno, ma chi è stato il traditore? Ah, se l'avessi qui! - Il povero Reuccio non faceva che disperarsi e far cercare la moglie e il figlio. Egli se ne stava sempre rinchiuso nella sua camera e non parlava se non coi messi che tornavano dall'aver cercato la Reginuzza e il bambino. Così passarono molti anni senza che il suo dolore si calmasse, e spesso la madre gli diceva: - Vedi, ormai non c'è più speranza di ritrovarli; dovresti pensare a prendere un'altra moglie per assicurare la successione al trono. - Ma egli rispondeva: - Non sposerò mai altra donna; se Mariuccia e il figlio mio sono morti, io vivrò di dolore, ma nessuna Principessa prenderà il posto della mia sposa. - Un giorno alcuni signori della Corte stabilirono d'andare a caccia in un bosco lontano lontano, e tanto dissero e tanto fecero che indussero il Reuccio ad unirsi a loro. Partono a cavallo, battono il cinghiale, ma sul più bello si scatena una tempesta. I fulmini abbattevano gli alberi, il vento schiantava i rami, la pioggia e la grandine venivano giù come Dio le mandava. I cacciatori spronarono i cavalli per uscire dal bosco e schivare il pericolo d'esser fulminati. Appena all'aperto scorsero un bellissimo palazzo, bussarono e furono accolti gentilmente da tante cameriere, che li fecero entrare in una gran sala, dove in un vasto camino ardeva il fuoco. Da quella sala passò Mariuccia col figlio per andare nelle sue stanze, e tutti i cacciatori s'alzarono, credendola la padrona del palazzo, e l'ossequiarono. Ella, non appena ebbe fissato il Reuccio, lo riconobbe e impallidì, ma non disse nulla sul momento e si ritirò insieme col figlio. Però di lì a poco disse al giovinetto: - Hai veduto quel cacciatore più alto di tutti e col portamento così nobile, benchè pallido e come affranto dal dolore? Ebbene, quel cacciatore è il Reuccio tuo padre. Va' da lui e baciagli la mano. - Il fanciullo tornò nella sala, s'accostò al cacciatore che la madre gli aveva indicato, mise un ginocchio in terra e baciandogli la mano, gli disse: - Padre mio, beneditemi! - Figuriamoci quel che provasse il Reuccio in quel momento! Rialzò il fanciullo, se lo strinse al petto e pianse di gioia su quel capo che aveva tanto bramato di baciare. Poi si fece condurre dalla madre, e qui nuovi abbracciamenti e nuove lacrime. Mariuccia gli raccontò tutto quello che aveva sofferto e quanto l'aveva aiutata il cavalluccio e la promessa che gli aveva fatta di dargli una mangiatoia d'oro. Naturalmente il Reuccio insieme con la moglie, il figlio e il seguito andarono subito alla Corte. Il cavallino fu montato dal fanciullo e in città si fecero grandi feste a tutti, e anche al cavallino, che ebbe la sua mangiatoia d'oro e una stalla tutta di marmo e visse tanti anni, grasso bracato, e vide il Reuccio divenir Re, la Reginuzza divenir Regina e poi regnare anche il figlio di Mariuccia. Finalmente un giorno anche il cavallino sauro morì, e il Re gli fece erigere una statua.

- esclamò a quella vista Guglielmo. - Non permettete che il nemico del genere umano impedisca che io possa usufruire della Vostra benignità; fate che io possa sollevare le angustie del mio popolo! - Questa volta il Re non cadde nel sonno dopo la fervida invocazione, ma desto udì la voce dolcissima che gli diceva: - Vicino al carrubbo al cui piede sono seppelliti i tesori, vedrai una pianta di rosa tutta fiorita. Lì conficca la spada che ha sull' impugnatura la croce, e il nemico implacabile del genere umano, Satana, fuggirà nel vederla. - Il Re cadde ginocchioni ringraziando la Vergine della Sua benignità e si diede a cercare la pianta di rosa fiorita; ma in quel momento il cielo si fece di piombo, si alzò un vento impetuoso, e fulmini e tuoni accompagnati da acqua e grandine resero impossibile al Re di proseguire. Rifugiato in una grotta naturale attese lungamente il cessar della bufera, ma quando questa si calmò la notte era già calata, i sentieri del colle erano convertiti in tante fiumane, cosicchè Guglielmo dovette attendere l'alba. E questa sorse radiosa. Le piante verdissime parevano tutte rivestite di nuove foglie, il cielo era di un azzurro pallido, incantevole e l'aria di una purezza deliziosa. Dopo la consueta preghiera mattutina il Re si diede di nuovo a cercare la pianta di rosa fiorita, ma ahimè! il temporale aveva portato via tutti i petali dei fiori e vide non poche piante di rosa, ma nessuna aveva fiori. Cerca cerca finalmente ne scoprì una, spoglia pure di rose, ma nel fondo di una fossa che l'acqua vi aveva scavato al piede riempiendola, vide molti petali incarnativi mescolati al fango, e lì nella terra conficcò la spada con l'impugnatura a forma di croce, quella stessa spada che i suoi avi avevano cinta nell'impresa di Terrasanta prima di approdare a Salerno e d'incominciare la conquista delle Puglie. Col cuore pieno di speranza nell'efficacia del santo segno per fugare Satana e i suoi demoni, Guglielmo fece ritorno alla Reggia di Palermo, e fatti chiamare i villani di Malata Busambra, i quali erano fuggiti durante la tempesta suscitata dal gran nemico del genere umano per impedirgli di ritrovare i tesori seppelliti dal padre, tornò nel bosco di Monreale. Là con sua immensa gioia trovò la spada ov'egli l'aveva conficcata, e poco distante vide una specie di voragine aperta nel terreno, dalla quale Satana certo era sprofondato nell' interno, vedendo la croce. Lì Guglielmo fece scavare, e appena a pochi palmi nel terreno le vanghe dei villani incontrarono la roccia. Tolta la terra si vide una porticina di ferro, che il Re fece rompere, e aperta quella apparve una lunga scala scavata nella roccia. Scese quella scala, e qual non fu la sua gioia, la sua commozione trovandosi in una grotta ampia come una piazza, con tutte casse di ferro giro giro, che contenevano monete sonanti. Il Re risalì e spedì un messo a Palermo con l'ordine d'inviargli cento mule, e quando queste giunsero le fece caricare di monete; poi, lasciati alcuni cavalieri a guardia del tesoro, andò a Palermo. Dopo sei giorni la grotta era vuotata, e Guglielmo quel giorno stesso faceva un bando. Valletti e paggi giravano per le città e per le campagne annunziando che il Re ritirava tutta la moneta di suola, come la chiamavano, e dava in cambio moneta sonante, e sempre in quel giorno partivan messi per tutte le città del mondo per invitare gli architetti più celebri a presentare un disegno del tempio, che doveva sorgere sulla collina di Monreale, bello e maestoso come niuno altro tempio della cristianità; i maestri mosaicisti a presentare disegni per ornare le navate con i fatti più noti dell'antico e del nuovo Testamento, e gli scultori per farvi i lavori di marmo. Nell'abside doveva esser raffigurata in mosaico la Vergine in trono, coi due angeli, gli apostoli ai due lati, più sotto quattordici santi, e più sotto ancora e dai lati, san Pietro e san Paolo e finalmente il Cristo, come era apparso a Guglielmo la prima volta. Vennero gli architetti in Palermo e presentarono i disegni; vennero i mosaicisti da Venezia e da Costantinopoli, e vennero gli scultori da Pisa e da Firenze, ma nessuno dei disegni parve a Guglielmo quale egli lo aveva sognato. E sempre pregava la Vergine che ispirasse Lei gli artisti per il tempio che voleva dedicarle. Una mattina nel destarsi Guglielmo trovò i disegni tracciati sulle pareti della sua camera. Su una c'era la facciata, su un'altra una delle porte laterali, sulla terza l'abside con la visione riprodotta, e sulla quarta uno dei lati interni della navata. Nessuno può ridire l'esultanza di Guglielmo. Cadde ginocchioni, pregò con tutto il fervore di cui era capace il suo cuore riconoscente, e subito, chiamati architetti, maestri mosaicisti e scultori, ordinò loro di copiare il disegno, d'ingrandirlo e di preparare i materiali. E nell'anno 1174 fu posto mano alla costruzione e vi furono impiegati per ordine del Re tutti coloro che non avevano lavoro. La costruzione durò quindici anni, e Guglielmo spese per il tempio somme enormi, e sempre sollecitava architetti e maestri mosaicisti di terminarlo presto, per timore di morire senza vederlo compiuto. Annesso alla cattedrale costruì un convento, vi fece venire i Benedettini di Cava, e sopra il trono reale, nell'interno della cattedrale, fece fare un mosaico che lo rappresentava in atto di offrire il tempio alla Vergine. Il Re non aveva figli, ma non si crucciava tanto della successione al trono, quanto di quella della cattedrale. Mancava poco che fosse ultimata quando il Re, che era nel fiore degli anni, ammalò di un male che nessuno conosceva. Egli non pregava perchè gli fosse concessa la salute, soltanto supplicava la Vergine che gli concedesse tanti giorni di vita per veder terminato il tempio. E la grazia gli fu concessa. Quel giorno di gioia egli lo visse e sentì le benedizioni del popolo. Poi si spense, ma Guglielmo vive ancora nella memoria del popolo siciliano, e il tempio è là in alto, con le sue colonne, con le sue porte bronzee, con i suoi mosaici preziosi su fondo d'oro, e quando il sole del tramonto penetra dalle alte finestre, pare un lembo di paradiso ed è degno trono alla Vergine. E ancora il popolo, orgoglioso di quel tempio, dice:

Il Re, la Regina, il Reuccio, la Reginuzza siedono a mensa nel centro della tavola, le due coppie di rimpetto e tutte e due sotto il baldacchino con la corona, e più giù siedono i grandi del Regno, le dame di Corte e, prima fra queste, la madre del Principino che aveva allattato il Reuccio. Il Principino stava all'erta per vedere sbucare il serpente e colpirlo. Intanto le musiche sonavano, gli staffieri andavano e venivano portando le pietanze nei grandi vassoi d'argento e tutti erano contenti e felici e più contento di ogni altro il Reuccio che non non si saziava di guardare la sposa. A un tratto il serpente con tre teste e sei occhi di fuoco, striscia sotto la tavola e si accinge per assaltare il Reuccio. Il Principino lo vede, esce dal nascondiglio, brandisce la mazza di piombo e gliela dà sulla testa e lo ammazza. Ma prima di morire il serpente batte furiosamente la coda e manda un urlo che pare un tuono. I grandi di Corte che erano seduti dalla parte opposta della tavola, e avevano invidia dell'amicizia che il Reuccio nutriva per il Principino, vedendolo uscir dal nascondiglio, alzar la mazza e lasciarla ricadere accanto al Reuccio, approfittano di quel fatto, per gridare che è un assassino e subito saltano su, sfoderano le spade e si gettano su di lui. Figuriamoci il parapiglia! La Regina sviene, la Reginuzza sviene, tutte le dame svengono, meno la madre del Principino che si slancia come una belva contro i suoi aggressori, gridando: - Mio figlio non è un assassino Mio figlio darebbe la vita per il Reuccio! - Ma chi l'ascolta in quel momento? Il Re fa cenno alle guardie che portino il Principino in prigione e ordina che per il suo nero tradimento sia impiccato subito come un villano. Soltanto le suppliche e le lacrime della Principessa e della Regina lo rimuovono da questo proposito. E ordina invece che sia impiccato il terzo giorno. Prima di esser condotto al supplizio il Principino chiese in grazia di dire una parola al Re ed al Reuccio. Il condannato era già nell'oratorio dove il carnefice e il frate dovevano andarlo a prendere, quando comparve il Sovrano col figlio. - Altezza reale, - disse l'infelice rivolto a quest'ultimo - se vi rammentate, or fa appunto un anno voi voleste andare a caccia, e arrivati che fummo in un folto bosco, i falchi, lasciati liberi, acchiapparono due colombe bianche col collarino nero. - Me ne rammento, - disse il Reuccio. - Dopo voi vi addormentaste, le colombe tornarono, una da levante e l'altra da ponente. - E qui il Principino narrò quello che le colombe avevano detto e terminò col ripetere:

. - E che vuoi andarci a fare? - rispose lo zio. - Voglio dirle che ho capito benissimo che voleva farmi morire. - E poi, quando glielo hai detto? - Ammazzarla! Mi pare d'aver diritto di vendicarmi. - Fa' quel che vuoi, - rispose lo zio, che non voleva, dopo quel che era successo, contraddire il nipote. Quando è notte, il Reuccio inforca il porco, gli dice dove deve portarlo, chiude gli occhi e il porco parte volando. Vola vola, arriva in un momento sulla terrazza dove la bella ragazza stava a prendere il fresco al lume di luna e appena le è davanti le dice: - Tu sei quella che volevi farmi morire. Per questo ho il diritto di uccider te, - e sfodera una taglientissima spada la cui lama luccicava al lume di luna, e gliela avvicina al collo, mentre con l'altra mano l'afferrava per i capelli. - Prima d'ammazzarmi, lasciate, Altezza, che io parli, - risponde la bella ragazza. - Parla, ma sii breve e pensa che le tue arti non fanno più presa su di me. Conosco la tua infamia e voglio il tuo sangue, per tutto quello che mi hai fatto spargere. - Ditemi: - domandò la bella ragazza. - Chi vi guarì, chi vi rese la vita? - Risponde il Reuccio: - Un medico forestiero, venuto non si sa di dove e misteriosamente sparito. - Vi farò conoscere io questo medico forestiero, - diss' ella. - Guardate questi pezzetti di vetro! Guardate quest'anello! - Il Reuccio, vedendo quelle cose, rimase allibito. - Il medico straniero ero io; io vi guarii e chiesi per la vostra salvezza questa sola ricompensa. Dovete sapere che io non volli il vostro male, ma lo volle una persona malvagia, gelosa di me e noiata che le chiedeste continuamente il porco per venire a trovarmi. - Il Reuccio, senza che lei si spiegasse di più, capì chi era quella persona malvagia, e dopo essersi fatto promettere dalla bella ragazza che di lì a una settimana sarebbe andata alla Corte per celebrare con lui le nozze, risalì sul groppone del porco e via dallo zio. - Ho saputo tutto quel che avevate macchinato contro di me, - gli disse appena gli fu davanti. - Siete fratello di mia madre e non voglio macchiarmi col vostro sangue, ma vi ordino di sparir subito da questa città e dal Regno. - Il Duca zio fingeva di non capir nulla. - Sei ammattito, nipote? Il viaggio aereo ti ha sconvolto il cervello, oppure te lo ha indebolito la gran perdita di sangue? - Se volete salva la vita, non mi mettete a cimento, non parlate di quel sangue che grida vendetta contro di voi. Sparite! - Il Duca zio non aveva mai veduto il Reuccio così in furia e fu assalito dal timore che lo ammazzasse davvero. Il porco era lì presente, e senza pensare all'ilarità che avrebbe destato se gli abitanti della capitale lo vedevano cavalcare quello strano animale per le vie dell'aria, gli saltò in groppa e fuggì, nè mai più ricomparve. Il Reuccio s'impossessò del palazzo di lui, lo fece preparare per ricevervi la sposa, che giunse accompagnata dalle venti bellissime dame, dai venti bellissimi cavalieri, dai bei paggi, dal maggiordomo un tantino troppo grasso, ma bello anche lui, dalla cameriera Fata, che non la lasciava mai, e dai bei camerieri, e s'insediò nel palazzo. Subito si fecero le nozze, con banchetti pubblici che durarono tre giorni e tre notti. Gli sposi furono felicissimi e ogni anno la bella Reginuccia regalò al marito un bellissimo figlio. Dopo ventiquattro anni di matrimonio ne avevano ventiquattro, e lei era sempre bella, più bella del quadro che figurava fra le pitture del palazzo del Duca.

Essi riferirono tutto a Guglielmo che, riconosciute veritiere le parole del Duca, lo fece rimettere in libertà, ma condannò Costanza ad essere arsa viva perchè aveva falsamente accusato il fratello. E il giorno che salì il rogo, eretto davanti alla Reggia, si vide un uccellaccio nero aggirarsi intorno al luogo del supplizio, per impossessarsi subito dell'anima della perfida gobba. Ma questa, per le fervide preghiere della sorella Maria, si pentì, e così il Diavolo non ebbe l'anima sua Il Duca rimase in possesso del bel cavallo e con quello compì imprese gloriose e conquistò in un torneo la mano e il cuore di una bella Principessa greca figlia dell'imperatore di Bisanzio. Roberto e la Principessa si sposarono, vissero felici e contenti per anni e anni e videro i nipoti dei nipoti.

. - Le due colombe volano una verso levante e l'altra verso ponente, e il Reuccio si desta e dice: - Gaetanino, presto a cavallo, perchè devo andare a palazzo, così mi leverò un pensiero. Sì, glielo dirò subito, al Re mio padre, che deve farmi fare una spada, che l'eguale non si sia mai veduta nel mondo. - Ci siamo - dice il Principino e, spronati i cavalli si dirigono alla Reggia, e il Reuccio manifesta il suo desiderio al padre. Il Re, che gli avrebbe dato la corona, lo scettro e magari il Regno, mandò a chiamare l'armaiuolo più abile, l'orafo più celebre della città e dà loro ordine di fare una cosa magnifica e di non risparmiare oro, pietre preziose, nè lavoro, che avrebbe largamente compensati. Di fatto quei due artieri fecero della spada una cosa magnifica. La lama era damaschinata e pieghevole come un giunco e l'impugnatura era traforata come un merletto e luccicava da acciecare, tante erano le pietre preziose incastonate nell'oro. Il cinturino poi era una maraviglia. Il Principino che sapeva che cosa sarebbe accaduto al Reuccio appena avesse cinto la spada ricchissima, non lo lasciò un minuto per paura di vederlo cadere morto. Anzi, per impedire che questo accadesse, gli chiese il permesso di cingerla lui per primo. - Cingila pure, - gli risponde il Reuccio. La cinse e gli stava a pennello. Questo bastò per rompere l'incantesimo, e quando il Reuccio si provò la spada non morì, nè diventò di marmo. Ripresero i due amici a far la vita solita e a divertirsi, ma il Principino non fiatò col Reuccio di quel che aveva inteso dire alle due colombe bianche col collarino nero. Dopo sei mesi che gli salta in testa al Reuccio? di andare proprio nel bosco dov' era stato una volta e dove i falchi avevano fatto prigioniére le due colombe. Propone quella gita all'amico, che non sapeva contraddirlo, e partono. Quando giungono nello stesso bosco e nello stesso punto, il Reuccio si sdraia sulle medesime zolle dove aveva dormito sei mesi prima, e il Principino rimane a vegliare su lui perchè si aspettava che accadesse qualche cosa di strano come la prima volta. Di fatto giungono volando pian piano le due colombe bianche come la neve col collarino nero, una da levante e l'altra da ponente, e si posano sul ramo basso di querce a pochi passi dal Reuccio. - Comare, che c'è di nuovo? - E che può esserci? Questo giovinetto deve morire. - Ma non c'è rimedio? - No, comare, deve morire perchè deve morire. Ora, appena desto, andrà da suo padre e vorrà un vestito più bello e più ricco che sia possibile, e quando se lo proverà, cadrà in terra morto.

Pagina 11

Dopo sei mesi al Reuccio riprese il ticchio di tornare per la terza volta nel bosco a cacciare. Chiama il Principino, salgono a cavallo senza seguito, si mettono in pugno i falchi incappucciati, si conducono dietro la muta dei cani e via. Scappucciano i falchi, corrono di qua, corrono di là e finalmente i due uccelli tornano sul pugno dei cavalieri, uno da levante e l'altro da ponente, portando prigioniere due colombe bianche come la neve col collarino nero. - Io, per conto mio, - disse il Reuccio - non ho nessuna voglia di uccidere la mia colomba. - Neppur io voglio uccidere la mia, - rispose il Principino. - Incateniamo i falchi e mettiamo le colombe in libertà. - Così fecero e le due colombe volarono via e il Reuccio, preso dal sonno, si coricò ai piedi del suo cavallo e s'addormentò profondamente, mentre il Principino vegliava su lui. A un tratto ricompariscono le due colombe bianche, una da levante e l'altra da ponente e vanno ad appollaiarsi sul ramo basso di querce. - Che c'è di nuovo, comare? - Nulla; per due volte l'ha passata liscia, ma alla terza morirà perchè deve morire. - - In qual modo? - Appena il Reuccio si sveglierà andrà dal padre a dirgli che vuol prender moglie. Il padre acconsentirà e gli procurerà la sposa. Però, mentre sederanno al banchetto nuziale, sotto il baldacchino di fronte al Re e alla Regina, sbucherà di sotto la tavola un serpente e soffocherà il Reuccio e la Reginuzza. - Non c'è nessun rimedio per impedire questa disgrazia? - C'è, ma lui, di riffa o di raffa, deve morire. - E qual' è questo rimedio? - Che un amico fidato stia dietro agli sposi durante il banchetto con una mazza di piombo pronta a schiacciar la testa al serpente. Se gliela schiaccia, il Reuccio è libero e il serpente muore.

Pagina 14

Il Reuccio si desta e vuol correre a spron battuto alla Reggia per chiedere al padre il consenso al suo matrimonio. Di fatti, va dal Re e gli espone il suo desiderio. Il Re, che non sapeva contraddirlo in nulla, manda un'ambasceria al Re di Portogallo che aveva una figlia bellissima, per chiedere la Principessa in sposa per il figlio. Giunge la sposa in Palermo e si fanno feste non mai vedute. Il popolo esultava, il Re e la Regina esultavano, il Reuccio era mezzo matto dalla felicità

Pagina 16

Di lì a poco s'aprì un finestrino in cima alla torre, comparve una testa, e una voce di donna chiamò: - Peppa, ci sei? - Ci sono, - rispose donna Peppa di giù. Allora dall'alto cadde un sacchetto pesante ai piedi di donna Peppa, la testa di donna scomparve e il finestrino si richiuse. - Mi voleva ammazzare! - disse donna Peppa - e per questo ha sacrificato anche dimolti danari. Meno male che l'ho passata liscia e che i danari mi rimangono. - Tutta contenta s'incamminò per tornare a casa, ma andava piano piano, un po' per la vecchiaia, un po' perchè quel sacchetto le pesava. Giunta che fu davanti a Sant'Antonio eccoti che di dietro a una cantonata sbucano fuori quattro mori con la papalina e vanno per chiapparla. Ma donna Peppa spalanca le braccia per chiedere aiuto, e i quattro musulmani, vedendo quella bocca che pareva un forno, quel viso incartapecorito, quei radi cernecchi ritti dallo spavento, la prendono chi sa per quale strega e fuggono spaventati. Allora sì che donna Peppa arrancava per isbrigarsi

Pagina 172

Io andai da un barbiere, mi feci tutta scorticare e sotto mi tornò la pelle fresca come a quindici anni. Poi andai da un cavadenti, mi feci levare tutte le radiche dei denti rotti e mi tornarono tutti come perle. Finalmente mi strappai i cernecchi e per ogni capello bianco strappato, me ne tornarono cento castagni. Fa' come me e tu pure sarai giovane e bella. Qui troverai il danaro per le spese necessarie.» Donna Peppa quella notte non chiuse occhio, e, volta di qua, volta di là, non pensava altro che a tornare giovane e bella e andare a presentarsi al Re come cameriera. - Ai miei tempi, - diceva fra sè - ero bella, molto più bella di Tura, che è stata sempre piccola e tozza. Se mi tornasse il personale come a vent'anni, oltre il viso e le spalle! Se potessi cacciar dal Palazzo Reale quella smorfiosa di mia sorella !... - e le pareva già di vedersi tornata una bella ragazza, bella davvero, e stabiliva quali vestiti, quali gioielli si sarebbe comprata con le monete che le aveva gettate la sorella dal finestrino. La mattina si alzò a stento, e si mise al terrazzino ad aspettare che aprissero le botteghe. Quando vide che i bottegai incominciavano a comparire sulle soglie, si vestì e se ne andò dal primo barbiere di Palermo. - Buon giorno, - disse. - Buon giorno, - rispose l'altro - in che posso servirvi? - Vorrei che mi scorticaste il viso. - Il barbiere fece un salto. - M'avete preso per un macellaio? Dovete sapere che io sono maestro nell'arte, e chi si affida alle mie mani non ha neppure una scalfittura alla pelle. - Ma io voglio essere scorticata e pago bene, - e nel dir questo battè sul sacchetto delle monete. A quel suono il barbiere si rabbonì. - Se volete proprio essere scorticata, vi posso scorticare, ma ad un patto. - E quale? - Che mi firmiate un foglio nel quale dichiarate

Pagina 175

. - Ma no, - replicò il Principino - non posso tacere, ora che sono sotto il colpo di un'orrenda accusa, - e continuò a narrare, e quando giunse al punto dell'abito disse: «E chi lo sa e lo narrerà....» allora divenne di marmo fino al petto. - Per carità, non continuare, taci! - gridò il Reuccio. - No, no; meglio esser convertito in una statua di marmo, che morire con la taccia d'ingrato e di traditore, - e continuò il discorso fino al fatto del matrimonio del Reuccio. Ogni momento questi lo interrompeva, gli metteva una mano sulla bocca per farlo chetare, ma il giovane disse tutto tutto, e quando ebbe terminato di parlare, non era più vivo: era convertito in una statua di bianco e nitidissimo marmo, più bella di qualsiasi statua scolpita dal più celebre artista. Il dolore del Reuccio non ebbe limiti. Si strappava i capelli, si percuoteva, abbracciava la statua dell'amico, lo chiamava coi nomi più teneri e ripeteva sempre: - Infelice! Aveva fatto tanto per me ed è stato calunniato. Mi ha amato teneramente e lo hanno accusato di volermi uccidere. Sventurata Principessa che ha perduto il figlio, ella che era stata per me una seconda madre affettuosa. Fratello, - aggiungeva, baciando le labbra insensibili della statua - fratello mio, ora sento quanto mi eri caro! - Il Reuccio si chiuse nell'oratorio ov'era la statua dell'amico, e vi trascorse sei mesi senza voler vedere più nessuno, neppur la moglie, pregando sempre e sempre chiamando il suo Gaetano, l'amico vero. Al termine dei sei mesi il Reuccio volle fare una passeggiata, non per distrarsi, ma per visitare i luoghi ov'era stato insieme con l'amico. Fece sellare un cavallo e andò al bosco ove insieme avevano cacciato. Stanco della passeggiata, dopo tanto tempo che non usciva più, sedette sotto una querce, ma era tanto il dolore che provava, che non riuscì a prender sonno. Mentre pensava all'amico e si angustiava, ecco che giungono le due colombe bianche col collarino nero, una da levante e l'altra da ponente, e vanno a posarsi su un ramo basso. - Che notizie ci sono, comare? - Che volete che ci sia? Lui si salvò e l'amico che lo protesse diventò di marmo perchè parlò. - Ma non c'è rimedio? - Sicuro che il rimedio c'è. Bisognerebbe che uno ci uccidesse con un medesimo dardo e col nostro sangue bagnasse la statua di marmo del Principino; allora il marmo tornerebbe carne. - Il Reuccio, a sentir questo, balza su, prende l'arco che aveva portato per cacciare, lo scocca e le due colombe gli cadono ai piedi morte. Le raccoglie, balza in sella e via alla Reggia. Col sangue delle colombe bianche col collarino nero, copre tutta la statua e la statua diviene di carne. Il Principino rinvivisce, e figuriamoci la gioia della madre, e anche del Reuccio nel riacquistare l'amico fidato, il fratello! Ordina una festa per tutto il Regno, una speciale per Palermo e a Corte fa preparare un banchetto, balli, suoni e illuminazioni. Il Principino rivelò tutta la perfidia de' suoi accusatori, ma non volle che il Re li condannasse a morte, perché era buono come un angiolo e rendeva sempre il bene per il male. La Reginuzza prese a voler bene al Principino come a un fratello e volle che sposasse la propria sorella che era bellissima.

Pagina 21

A questa figlia, che si chiamava Mariuccia, il Principe voleva più bene che alla pupilla degli occhi suoi e si disperava perchè lei non voleva marito. Ogni volta che le presentava un giovane che voleva sposarla, Mariuccia rispondeva: - Non fa per me! - e con questo lo saldava. Il padre, dopo essersi sentito rispondere: «Non fa per me!» due o tre volte, finalmente domandò alla figlia: - Ma si può sapere chi farebbe per te? - È inutile, vedendo un giovane così per un momento, non posso osservarlo bene. Lei, signor padre, deve fare un bando e invitare tutti quelli che aspirano alla mia mano a venire a tre banchetti che darà nella gran sala del palazzo, il primo, il dieci e il venti del mese entrante. Io mi travestirò da paggio, li osserverò bene come si comportano a tavola e poi sceglierò quello che mi piacerà. - Il Principe fece il bando, e siccome Mariuccia era bella davvero, era accorta, e possedeva feudi immensi, palazzi a Catania e in altre città, nonchè danari e gemme da ornare dieci signore, dopo il bando si presentò una quantità enorme di pretendenti da tutte le parti dell' isola. C'erano fra quelli molti principi, baroni e conti ricchissimi, molti cavalieri valorosi e anche molti giovani che non avevano un soldo e neppure nobiltà; ma il bando non diceva che i pretendenti dovessero esser nobili, sicchè furono tutti ammessi al banchetto del primo del mese e tutti sgranarono tanto d'occhi quando videro, sedendo a tavola, che Mariuccia non c'era. Intanto lei travestita da paggio girava per la sala, ascoltava i discorsi, guardava, sbirciava, ma non sceglieva perchè uno le pareva che avesse la bocca storta, quell'altro che fosse giallo, un terzo troppo magro e via di seguito. E poi uno mangiava troppo, un altro vuotava troppi bicchieri di vino, a farla breve non c'era pretendente che le andasse a genio. Terminato il banchetto, il padre la chiamò e Mariuccia gli disse chiaro e tondo che fra i commensali non c'era nessuno che facesse per lei. - Ebbene, - rispose il padre - a quest'altro banchetto guardali meglio, e uno ne troverai. - Venne il dieci del mese, fu preparato l'altro banchetto e Mariuccia, travestita da paggio, si mise a girare per la sala ed a sbirciare i pretendenti. Guarda di qua, osserva di là neppur quella volta scelse lo sposo. Ce n'era uno più bello degli altri con un serpente sull'elmo, ma si metteva un pollo intero in bocca e lo inghiottiva senza masticare, e questo a Mariuccia faceva ribrezzo perchè le pareva che mangiasse da animale e non da cristiano. Quando il banchetto terminò, il Principe la fece chiamare e la figlia gli disse chiaro e tondo che fra i commensali non c'era nessuno che facesse per lei. - Bada, - le disse il padre - se non scegli uno sposo nel banchetto che darò il venti del mese, io ti rinchiudo in una torre, ti ci tengo finchè vivi e adotto per figlia qualche parente che si scelga subito un marito e mi dia degli eredi ai quali lasciare le mie ricchezze. - Mariuccia a queste parole capì che la scelta doveva farla in ogni modo, ma più pensava ai pretendenti e meno si sentiva disposta ad accettare uno di essi per marito. C'era, è vero, quel cavaliere col serpente sull'elmo, ma aveva più dell'animale che del cristiano. Basta, fu apparecchiato il terzo banchetto, i commensali sedettero a tavola e Mariuccia, vestita da paggio e mescolata alla servitù, guardava di qua, sbirciava di là. A un tratto s'accorse che il cavaliere col serpente sull'elmo non le levava gli occhi da dosso, anzi, quando anche non voleva, era costretta da quello sguardo ad accostarsi a lui e ad abbassare gli occhi. Un po' per la minaccia del padre e il timore d'essere rinchiusa per tutta la vita nella torre, un po' per quello sguardo affascinante che pareva le comandasse: «Devi scegliere me! Devi scegliere me!» Mariuccia lo scelse davvero, e terminato il banchetto andò dal padre. - Li hai guardati bene, hai scelto? - le chiese il Principe. - Sì, signor padre, ho scelto il cavaliere col serpente sull'elmo. - Il padre storse la bocca. - Fra tanti principi, baroni e conti, che tutti conoscono e hanno feudi a bizzeffe, sei proprio andata a scegliere quello che non si sa chi sia, nè di dove venga! - Eppure è il solo che sposerò fra tutti. - Il Principe aveva promesso di contentarla, e quella sera stessa dichiarò a tutti i pretendenti che il prescelto era il cavaliere col serpente sull'elmo. Questi si fece avanti, chinò un ginocchio in terra e disse al Principe che era altamente onorato della scelta della Principessina e lo pregava di farla chiamare per scambiar subito con lei promessa di matrimonio e offrirle i doni che aveva recati. Il Principe, naturalmente fece chiamare la figlia, che comparve magnificamente vestita, ma quando si vide davanti lo sposo, tremò tutta, perchè le parve che la guardasse più come un serpe che come un cristiano. Ma aveva promesso e si lasciò complimentare da lui e offrire monili bellissimi di zaffiri e smeraldi, di carbonchi e diamanti; ma appena il cavaliere se ne fu andato, Mariuccia incominciò a piangere dicendo: - Povera me, che scelta ho fatta! Povera me, che scelta ho fatta! Quello m'inghiottirà in un boccone come inghiottisce i polli; quello non è un cristiano, ma un animale! - Mentre piangeva così, si rammentò del cavallino sauro al quale tutti i giorni portava una bella razione di biada e che in quel giorno aveva trascurato. Scese nella scuderia, prese l'orzo e glielo porse. Ma il cavallino contrariamente al solito lo rifiutò. - Che hai, cavallino bello? - gli chiese la ragazza, prendendogli il muso fra le mani - hai sete? - E gli porse da bere. Ma il cavallino rifiutò la limpida acqua che Mariuccia gli offriva, come aveva rifiutato l'orzo. Allora ella gli alzò la testa per guardarlo bene e s'accorse che il cavallino piangeva. - Ma che hai che piangi - Piango per te, - rispose il cavallino sauro. - Piango perchè hai scelto per isposo chi non dovevi scegliere. - E perchè non lo dovevo scegliere? - Perchè il cavaliere al quale hai dato promessa è un certo tale che per sette anni è uomo e per sette anni è serpente. - Ah, povera me! - esclamò Mariuccia. - Per questo inghiottisce i polli interi e ha negli occhi quello sguardo di serpe! - Sicuro, e io piango perchè ti voglio bene e non posso vederti infelice. - Liberami da lui, cavallino bello, e ti farò una mangiatoia tutta d'argento e ti terrò come terrei l'amica più cara. - Il cavallino sospirò e rispose: - Ora non posso liberarti. Bisogna che stanotte io parli col Mago della grotta. Vieni qui domattina e forse ti potrò aiutare. - Com'era disperata Mariuccia! E dire che quella sera doveva assistere a un gran ricevimento e presentare a tutti il cavaliere come sposo! Invece di farsi

Pagina 53

E si mise a piangere. Il padre gli disse: - Domani lo conduci nella distilleria del palazzo dove estraggono l'essenza di bergamotto; se perde i sensi per il forte odore, è donna. - Il domani il Reuccio condusse il cameriere nella distilleria col pretesto di prendere una boccetta d'essenza di cedro. Don Peppino, sentendo già da lungi il forte profumo, cercò un pretesto per non entrarvi, ma il Reuccio disse voglio, e il cameriere dovette obbedire. Però non v'era appena entrato che cadde lungo disteso in terra. Il Reuccio mandò a chiamare le donne della Regina e fece trasportare il finto don Peppino nelle stanze della madre. Qui Mariuccia si riebbe, confessò tutto, disse di chi era figlia, e il Reuccio, appena lo seppe, dichiarò che la voleva sposare. - O lei o nessuna! - La Regina storse la bocca perchè gli aveva destinato una sua nipote e non poteva soffrire quella intrusa. Ma il Re, interrogato, dette il consenso, e la Regina, volere o volare, dovette chinar la testa. Di lì a pochi giorni si fecero le nozze con gran pompa, e la Reginuzza non solo si fece amare dal marito e dal suocero, ma anche da tutto il popolo. Soltanto la Regina l'odiava a morte, e tanto più prese a odiarla quando il maggiordomo annunziò a tutti che di lì a poco la Reginuzza avrebbe dato alla luce un figlio. Ma ecco che il Re di un paese vicino muove guerra al suocero di Mariuccia. Il suocero era vecchio e alla guerra dovette andare il Reuccio. Com'era disperato di lasciar la moglie, e quanto la raccomandò alla Regina! - Madre mia, - badava a ripeterle - dovete volerle bene come a me, e non appena nasce il piccino dovete mandarmi un corriere per dirmi come sta Mariuccia e se il nascituro è maschio o femmina. - La madre glielo promise, benchè non potesse digerir la nuora, e il Reuccio partì. A suo tempo la Reginuzza dette alla luce un bellissimo maschio e la Regina subito scrisse una lettera al figlio, la consegnò a un corriere fidato e gli disse di portarla al Reuccio al campo. Il corriere parte a spron battuto e corre corre per portare più presto la notizia al Reuccio, ma quando ha viaggiato alcune ore, ecco che il cavallo gli cade e si tronca una gamba. Che fare? Proseguì la via a piedi guardando di qua, guardando di là se vedeva una casa dove potesse avere un' altr'a cavalcatura. Finalmente, all'uscire da un bosco, vide un bellissimo palazzo, con tutte le finestre chiuse, il portone chiuso che pareva disabitato. Nonostante il corriere ne salì la gradinata di marmo e si mise a bussare, e giù, bussa che ti busso! Dopo un pezzo che bussava, dal bosco uscì un serpente che gli s'avvicinò strisciando e gli disse: - Che fate a quest'ora qui? - Sono il corriere del Re e mi ha spedito la Regina per andare dal Reuccio a portargli la notizia che la Reginuzza ha fatto un bel maschio. Però, poco distante di qui mi è caduto il cavallo e s'è rotto una gamba. Volevo domandare alla gente di questo palazzo se era possibile avere un'altra cavalcatura. - In questo palazzo ci sto io solo, - disse il serpente - ma posso benissimo darvi ospitalità per la notte e domani fornirvi un cavallo. Entrate! - Il serpente si rizzò fino a giungere ad aprir la porta, introdusse il corriere nel palazzo, gli cucinò la cena, e gli fece ogni sorta di gentilezze. Però, non appena il corriere fu addormentato, gli frugò in tasca, prese la lettera scritta dalla Regina, la lesse, poi la risigillò e gliela rimise in tasca. La mattina dopo il corriere si alza, il serpente gli fa trovar pronta la colazione e il cavallo, gli fa mille complimenti e gli dice: - Al ritorno dovete assolutamente passar di qua; voglio che me lo promettiate. - Il corriere glielo promise e partì. Al ritorno il serpente gli dette da cena, da dormire, gli prese la lettera dalla tasca e gli ce ne mise un'altra scritta da lui, in cui diceva al Re di scacciar Mariuccia e il piccino e di farla bruciare viva. Il Re, quando lesse quella lettera, credette che il figlio fosse ammattito e se n'andò dalla Regina: - Ma perchè, - domandò - nostro figlio è così arrabbiato con la moglie? Ma come mai ha perso per lei tutto l'affetto? Chi l'ha così cambiato? Io non capisco nulla, - e si grattava la testa, ma, per quanto si grattasse, capiva meno di prima. - Badiamo bene però di non dir nulla a Mariuccia, poveretta! - soggiunse poi. Però Mariuccia aspettava con ansia la lettera del marito, sperava che contenesse mille tenerezze, e ogni giorno chiedeva al Re e alla Regina: - È venuta la lettera dal campo?

Pagina 69

Sono dieci novelle in cui l'autrice toscana, che visse a lungo a Palermo e poté raccogliere dalla viva voce del popolo un ricco patrimonio di leggende, coglie nella sua essenza l'arcano dell'isola, riportandoci a una realtà fiabesca che ha nutrito per secoli la fantasia della gente. Emma Perodi (Firenze 1850 - Palermo 1918), scrittrice e educatrice, fu una delle più efficaci favoliste italiane dei decenni a cavallo fra Otto e Novecento. Nel 1883 diresse il «Giornale dei Bambini». Il suo libro più famoso, Le novelle della nonna, risale al 1893. Pubblicò numerosi volumi di fiabe, racconti e novelle, soprattutto con l'editore Salani. Ai primi del Novecento si trasferì a Palermo dove diresse la casa editrice Biondo. Carlo Chiostri (1863 - 1939) nacque a Firenze, dove per più di trent'anni si dedicò all'illustrazione di oltre duecento volumi di letteratura popolare e per l'infanzia, per gli editori Salani, Bemporad, Sandron. Tra le sue illustrazioni più note quelle per Ciondolino di Vamba nel 1893, per Pinocchio di Collodi nel 1901, per la serie di avventure di animali di Tommaso Catani, e soprattutto quelle, sempre vibranti di magia, per le raccolte di novelle delle famose «cinque P» della fiaba italiana: Palau, Perodi, Petrai, Petrocchi e Provaglio. Il presente volume riproduce fedelmente il testo e le illustrazioni dell'edizione Salani del 1909 (volume in brossura di cm 12,5 x19). L'illustrazione di coperta è quella originale di Carlo Chiostri. EMMA PERODI Al tempo dei tempi.... Fiabe e leggende delle Città di Sicilia. DISEGNI DEL PITTORE CARLO CHIOSTRI.

Pagina Copertina illustrata

Cerca

Modifica ricerca