Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Narco degli Alidosi

214052
Piumini, Roberto 18 occorrenze
  • 1987
  • Nuove Edizioni Romane
  • Roma
  • paraletteratura-ragazzi
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disse il conte «perché tu hai dato a me, che cavaliere già sono, un'idea molto opportuna per il nostro viaggio. Quanto a te, se non ti basterà una sciarpa spessa e ben avvolta, cavalcherai davanti, fuori dalla mia trista scia: e dietro solo se avremo il vento in poppa». Fu dunque dato ordine a mastro Eudaveo, il fabbro, di forgiare un elmo nuovo al signore: un elmo tutto chiuso, con una fessura per gli occhi da cui solo la luce passava, e che sfiatava all'alto per un camino simile a quello delle fornaci. Con quello in testa il conte, e davanti ben insciarpato benché di luglio Blabante, partirono da Castel del Rio e cavalcarono a nord, lungo il Santerno, e poi per Imola bella, e la pianura. Loro andavano avanti, e la strada indietro. Il paesaggio era quieto, e quieto il cammino. Tra i pacifici suoni di luglio, spiccava ogni tanto lo stridìo di un uccello che troppo vicino svolava al camino dell'elmo.

E Narco si fermò davanti a Blabante e domandò: «Allora, amico mio, quanti di questi giri ho fatto fino ad ora?» «Quaranta ne hai fatti, signore. Sessanta son da fare». Narco abbassò la testa, e a fronte corrugata riprese a girare, dicendo qualche parola a voce bassa. «Che girare è questo?» bisbigliava. «Non è fatto l'uomo per andare dritto per la sua strada, da un punto all'altro, come fa la luce del sole, e non come io faccio, ripestando lo stesso sentiero, la stessa erba?» E passò il tempo che passò. «Quanti altri maledetti giri ho fatto, Blabante?» gridò il conte. «Trenta, mio signore: e con quelli già fatti, settanta». Narco ricominciò a girare, ma svogliato, e trascinava i piedi e dava calci all'erba. «Non si legano i ciuchi attorno al pozzo a girare?» brontolava crucciato. «E poi, dopo legati, non li si benda perché non li offenda quel girare sciocco, sempre uguale? E allora è cosa da uomo girare così, se un ciuco ne può avere offesa?» E passò il tempo che passò. «Quanti diavolacci di giri ho girato, insomma, Blabante?» imprecò il conte. «Altri dieci, mio signore: e con questi, sono ottanta». Narco sputò nell'erba e riprese a girare: ma era come se avesse le gambe di legno. E fece un giro, e un altro, e intanto blaterava: «Ah, questo girare è una corda che strozza! È una padella che frigge! E non lo dicono che quei bufali d'Africa, dove sono i leoni, quando gli va la mosca nel cervello girano in tondo finché cadono, scemi e morti per il girare? E cosa sto facendo io, cristiano battezzato?». Fece un altro giro, e un altro giro ancora. «Ma se Dio diede quella condanna ai bufali dal cervello appestato, vuol dire che questo girare è cosa da bestie pazze, da bestie indegne e malate!» E fece un giro ancora: ma fu l'ultimo. A gambe larghe si piantò davanti a Blabante e gridò: «Basta! Non finirò questa tortura e vergogna! Quello è l'olmo di Satana! Ciglia del demonio son quelle foglie cilestrine! Piolo dell'Inferno è quel tronco! A ottantacinque giri io mi fermo, mi fermo! E altri non ne farò, se non viene Dio a comandarmelo!» Da dietro la sciarpa, Blabante rispose: «Signore, frustami e battimi, e magari tagliami la testa: ma temo di avere fatto io la confusione che tu temevi di fare. Temo, signore, di aver sbagliato la conta, e aver contato quarantacinque giri per quaranta, e trentacinque per trenta, e quindici per dieci: così, coi cinque che seppure scalciando hai terminato da poco, siamo arrivati a cento, e non a ottantacinque: cento giri, se Dio non viene ad aggiustarmi il conto...» Narco tacque, confuso. Poi sorrise: «Non ti taglio la testa, né ti batto o frusto, mio furbo amico, e generoso. E ricorderò questo calcolo sbagliato quando torneremo, Dio voglia in buon profumo, a Castel del Rio! Ma ora basta: andiamo a sentire la seconda prova». Poco più tardi, salendo una collina, Narco domandò: «Se io avessi continuato, Blabante, seguendo il tuo inganno, i miei giri oltre i cento, mi avresti fermato o mi avresti lasciato girare?» «Considera, mio signore» rispose Blabante «che solo ora so che tu mi avresti perdonato l'errore, o come tu lo chiami, l'inganno: sicché, fermandoti e dandotene avviso, avrei rischiato la tua ira, e magari la mia testa; non fermandoti, tu avresti fatto quindici giri in più attorno all'olmo. E valgono più, signore, quindici giri di pianta per un conte, o una sola testa, ma mia, per un cristiano?»

Risalirono la larga valle dell'Adige che anche allora (poiché il tempo sposta le montagne, ma lentamente) portava a, valichi verso la parte tedesca. Bisogna dire che quei due cavalieri, il più elegante e portante sempre con l'elmo in testa, ma anche l'altro, con la bella sciarpa, di gradevole e signorile andatura, svegliavano la sana curiosità dei rustici e dei pellegrini, e quella insana dei grassatori o amici di grassatori, che in quella vivevano come in ogni altra valle del mondo. Sicché, dopo una sosta per cibo e riposo in quel di Rovoreto, e incamminati verso Trigento, i nostri due attraversavano la fitta boscaglia: e alla brutt'ora si videro circondati da otto barbacce e sguardi furfanti, e stretti attorno come capri dai lupi. «Ammazzate il servo, e prendiamoci il cavaliere!» gridò quello che sembrava il capo. Narco levò la spada e dichiarò: «Messeri briganti, benché vi conti per otto, se io muovo questo ferro almeno tre di voi, se non quattro, cadranno morti prima che io sia vinto! Ma se lasciate correre via il mio compagno, appena il rumore del suo cavallo sarà scomparso io pianterò la spada in quel tronco e vi seguirò dovunque, come si segue il destino: questa è parola di un Alidosi!» I loschi, da cavallo a cavallo, fabularono fra loro, mentre Blabante aveva in faccia, da una parte, giusta paura, e dall'altra grande riconoscenza verso il suo signore. Alla fine, finito di grufolare, uno dei comparacci tirò un calcio al cavallo di Blabante, che sparì nitrendo nel fitto del bosco. Narco piantò la spada nel tronco (che forse, con suo cervello vegetale, si domandò il perché) e tra quattro e quattro cavalli avviò il suo verso dove lo volevano portare. Il viaggio durò meno dell'ora e finì sotto un'altissima parete di roccia, che solo con cavalli alati si poteva salire: ma si sentì un fischio, si spostò una frasca, e un ingresso di caverna si fece vedere, così basso e stretto che uomini e cavalli solo per uno vi potevano passare, e anche a testa chinata. Però dentro la caverna si allargava a pancia di vacca, e c'era posto per i cavalli, i briganti, e persino una ventina tra pecore e porci che certo non erano lì nati, né ingrassati. Poche torce davano luce, appese alle pareti con ganci di rame. Come se la facile cattura li avesse stancati, i briganti mandarono Narco a sedere in fondo alla grotta, e si misero a tracannare vino e formaggio pesto, facendo rumorosi sogni in aria. E proprio come chi riceve un regalo in uno scrigno chiuso ritarda ad aprirlo per il piacere della speranza e dell'attesa, quelli andavano blaterando chi fosse e non fosse il prigioniero nell'elmo. «Certo un nobile!» gridava uno. «Si vede dal mantello e dal cavallo! Chiederemo due botti d'oro, per ridarlo indietro!» «E se fosse un vescovo?» strillava un secondo. «Non vedete che strano elmo a forma di cupola santa? E sì, per me è un arcivescovo coi fiocchi, che andava in Tedeschia per conto del papa!» «Ciò è meglio!» urlava il primo, o un altro, che tra barbe e sfrange di formaggio parevano uguali. «È meglio! Quanto è vero che il papa è più straricco di un duca!» E chi la pensava più grossa, la diceva. Ma mentre da quelle bocche informaggiate usciva quella sapienza, dalla bocca di Narco, e poi dal comignolo dell'elmo, se ne usciva piano piano quel che sappiamo, e andava a invisibili veli riempiendo l'aria della caverna a partire dall'alto e poi sempre più giù. Perché si sa che i mali odori non sono come le preghiere che passano i soffitti e vanno in cielo. E così l'aria diventava mano a mano meno decente, se così si poteva chiamare come prima era, con tutti quei cavalli e porci e pecore e formaggi e ladri in digestione. La sentirono, primi, i cavalli, e tra i cavalli, primo, quello di Narco riconoscendo e sapendo da dove veniva, infilò a testa bassa l'ingresso della caverna e sgaloppò fuori, come un rinato in paradiso. Dentro, a testa alta e narici inquiete, gli altri cominciavano a scalciare e nitrire, e a tirare briglie e darsi colpi di zoccolo e di fianchi. «Che hanno, i cavalli?» chiedevano i briganti. «Che ci sia pericolo, là fuori? Io non ho sentito fischi...» «Ma va' a vedere, peso di culaccia!» gridava il capo. Chi doveva si alzò, e alzandosi mise la testa nella zona d'aria che il prigioniero, fermo laggiù, aveva condito. «È la peste!» boccheggiava. «Non mi pareva che questi porci del prete di Mori avessero un tanfo del genere! Che li nutrisse ad avanzi di incenso, quel taccagno?» I briganti seduti ridevano. Ma appena scese anche a loro l'aria in questione, si alzarono con smorfie, buttando di qua e di là braccia e gambe in un ballo di disgusto: e intanto anche pecore e porci, che stanno più in basso, sentivano, e sapendo di non essere la fonte della disgrazia si spaventavano tremendamente, e con belati e grugniti mollavano quello che avevano in viscera, foraggio o incenso che fosse, sicché il guaio della caverna peggiorò. E cavalli, uomini, pecore, perfino galline che prima tacevano e non si eran viste e sentite e correvano

Ridendo a squarciamascella, la masca gettò uno sguardo a Blabante, che col volto coperto e la fronte crucciata se ne stava in disparte. «Fermo!» disse lei. «Non andate!» «Andiamo!» gridò Narco. «Fermi, fermi!» lei continuava, e smesso di ridere guardava ad occhi fitti la faccia nascosta di Blabante. «Come ti chiami, giovane coperto? E perché te ne stai così, ora che il sole splende, e il freddo inverno è lontano?» Narco degli Alidosi, già alla soglia, gridò: «Blabante, andiamo dunque!» Ma quello, come se una stregatura uscisse dagli occhi della masca, restò dove era e disse: «Mi chiamo Blabante, signora. E sono al seguito di Narco, il mio conte». «Senti senti! Storta una cosa, se ne fa una dritta!» disse la masca, che sempre più sentiva un curioso piacere a guardare quegli occhi stranieri. «Ma perché, chiedo ancora, stai per metà coperto e non lasci che ti si guardi in libertà?» Lo scudiero rispose: «Masca Nedarella, questa copertura mi sta sul volto a causa della mia timidezza. Una natura così schiva e mite mi è stata data, che farmi vedere alla luce del giorno mi è intollerabile». La masca era turbata. «Ma» domandò «se una donna bella e potente come nessun'altra ti volesse vedere, e persino baciare?» Blabante alzò di un altro dito l'orlo della lana, fin quasi agli occhi semichiusi e schivi. «Se quella donna fosse, tanto per paragone, anche solo cento volte meno bella di te, Masca Nedarella, io l'aspetterei nell'ombra della sera, sotto un albero di giardino simile a quello che qui fuori tende i rami, e quietamente mi mostrerei e mi farei baciare». «Allora, bel Blabante, poiché sento che il resto della tua faccia mi piacerà più di quello che già mi piace, ti aspetterò stasera all'ombra del prugno, e i raggi del mio sguardo ti illumineranno la bella cera!» Il tempo da allora alla sera, la masca Nedarella non seppe come passarlo. Il cuore le batteva, il petto le ansimava. Si fece e disfece e rifece i capelli. Si rese bella, bellissima, stupenda. Si mise una veste, un'altra e un'altra ancora... Alle sue labbra, desiderose del bacio di Blabante, sembrava di essere sospese su un abisso. Finalmente il giorno finì, la luce calò, venne l'ombra della sera. Grilli e usignoli, senza paga, suonavano la più bella musica del creato. Le rose del giardino, senza compenso, mandavano il loro profumo d'amore. La masca Nedarella, bella come mai, col cuore strapicchiante, aspettava sotto il prugno. C'era poca luna, spesso nascosta da nuvole a forma di draghi, folletti, vaghe navi... Proprio mentre la luna stava dietro una nuvola a forma di maschera, si sentì un fruscìo. «Sei tu, Blabante?» «Sì». «Io sono qui, mi senti?» «Sì». «Vieni, allora, abbracciami, e dammi il tuo bacio e prendi il mio!» sussurrò la masca, e preso e trascinato a sè chi era arrivato, e strappata da lui la sciarpa, lo strinse e accostò alla sua bocca la sua. Quel bacio quasi la uccise. Quel bacio la stordì. Quel bacio la ammalò: non d'amore, come qualcuno crede, ma di tremendo fetore. Perché non Blabante era venuto nel buio serale, avvolto nella sciarpa, ma come qualcuno ha immaginato lo stesso Narco degli Alidosi al quale, passato l'effetto degli sciacqui vegetali, il fiato era tornato più turpe che mai. Sicché cadde la masca Nedarella, svenuta e tramortita e folle: e certo l'effetto non sarebbe stato più clamoroso, se il bacio lo avesse avuto, come desiderava, dal desiderato Blabante. Sicché quella fu la sua pena: e poiché una masca impazzita perde i suoi poteri, tutti i malefici che dalle mani invidiose le si erano sparsi nel mondo in quel momento cessarono di esistere, mentre la povera perfida si rotolava sotto il prugno, con la luna che un po' guardava, un po' si copriva di nuvole pietose. E Narco, e il buon Blabante, cavalcavano sotto la stessa luna, ridendo fresche risate giù per la collina, come fa e ride l'acqua di un ruscello.

Un giorno due massari se n'erano appena andati, lasciando sul lustro del pavimento sei cesti di maialini grufolanti, e Narco si volse al fido Blabante che gli era scudiero più che servo, consigliere più che scudiero, amico più che consigliere: «Avvicinati, Blabante, e dimmi: perché i due rustici ora usciti, si sono inchinati davanti a me in quel modo?» Senza avvicinarsi, Blabante rispose: «Mio signore, si sono inchinati al loro conte, come usa, per mostrare rispetto e devozione». «Fido Blabante» disse Narco «questa è cosa che so... Ma, per quanto rispetto e devozione volessero mostrare, il loro inchino era eccessivo, e io non me lo spiego. Aiutami a trovarne la ragione». Disse Blabante: «Quanto desideri la verità, signore? Tanto da volerla

mi condannò a non potermi avvicinare a chi amo senza svanire! Perciò, amato amante, o lontani, o niente!» Narco e Blabante si risero uno sguardo. «Ma io ti chiedo, signora, una prova d'amore! Vieni verso di me attraverso quest'acqua, nonostante la maledizione». Lei rispose piangendo: «Poiché ti amo, la prova voglio dare: ma sparirò, e chissà se ci potremo ancora incontrare...» Fece un passo nell'acqua, stringendo i denti bianchi, e un altro passo, e un terzo: e non scomparve. E si guardava, e si toccava, come chi si pensava morto e si ritrova vivo. Narco le aprì le braccia, e nel salato dei baci e delle lacrime felici le raccontò la storia che si sa: come la masca Nedarella fosse stata distrutta e sconfitta con tutti i suoi trucchi. Così, aggiunta ai due una figura gioiosa, la compagnia cavalcò e cavalcò, valicò Alpi, scese alla pianura, giunse alla valle del Santerno, e a Castel del Rio. Qui, mentre Narco e la donna, che si chiamava Rilena, vivevano di abbracciato amore e altro non pensavano, Blabante cominciò il suo savio potere. Fino dai primi giorni si seppe, in quella terra, da che parte il vento porta semi e da che parte strozza la vela: e dove metter crusca, e dove caglio. Quanto al poi, che viene sempre, nacquero tre bambini bellissimi e quieti: il loro fiato sapeva di fiori. Quello di uno sapeva di timo. Quello di un'altra sapeva di rose. Quello del terzo, chissà se femmina o maschio, sapeva di calicanto che, e chi dice il contrario si sbaglia, è il profumo migliore. fine

Qualche giorno prima della partenza, uno da un capo e l'altro dall'altro del lungo salone del castello, Blabante chiese a Narco di esser fatto cavaliere. Così rispose il conte: «Se lo vuoi, lo sarai, buon Blabante. Ma gridami il perché di questo nuovo desiderio, giacché io ti conosco da sempre e mai mi accorsi di questa voglia di cavalierato...» «Mio signore» annunciò Blabante «certi semi stanno per anni nella terra, e nessun occhio o piede che passi lì vede o li sente. Poi, al giusto raggio di sole, mettono fuori il germoglio. In verità, da tempo io pensavo: come è corto il mio spadino! Com'è misero il mio mantello!... I cavalieri hanno spada lunga e cappa grande... e così mi è nato il desiderio». «Blabante, Blabante...» disse Narco con tristezza. «Anche la bugia del rispetto è penosa! Non ti importò mai, in verità, né di spade né di mantelli: ma credo che tu voglia esser cavaliere per poter portare l'elmo, e salvarti così durante il viaggio dal mio fiato mortale...» Blabante mise il ginocchio a terra e disse: «Perdono!» «Molto più che perdonato sei, Blabante: io ti ringrazio»

Il conte fu scontroso e solitario, e non volle ricevere nessuno né a poca né a molta distanza. Negli angoli del giardino in cui cupo passeggiava, o nel chiuso delle sue stanze, metteva di frequente le mani a conca davanti al volto e lamentosamente vi alitava, cercando di raccogliere poi col naso quel che si sentiva. Ma per quanto, come pronto al veleno, spalancasse le narici e chiudesse gli occhi, altro non fiutava che un'aria calda e corporale: non più saporita, in bene o in male, di quella che nel resto del cielo respirava.

Ma Blabante, con la faccia nella sciarpa, osservava le foglie dell'albero dalla forma d'uomo, e vedeva che si muovevano leggermente, che tremavano appena, come se un venticello solitario e particolare si fosse fermato a giocare solo con quelle. Dopo un'ora, sfinito e pallido, Narco si gettò sull'erba, e pianse. «Sfoga la tua rabbia, mio signore, e sciogli nell'acqua degli occhi la tua stanchezza» disse Blabante. «Ma ricorda, manca un tentativo, e spesso ciò che non riesce al due, riesce al tre». Narco non rispondeva, bagnando l'erba di lacrime. Poi, stanco anche della disperazione, si addormentò. Per l'orrenda qualità del suo respiro, file di formiche migravano, e bruchi sprofondavano solerti. Quando si risvegliò, disse Blabante: «È l'ora, mio signore. Rifocillati con pane e formaggio, ma per bevanda accontentati di acqua di sorgente. È fresca, e non ti porterà i danni del vino...» Narco sorrise con la faccia bianca: «E se anche ne volessi, amico mio, credo che vino non ne potrei avere: giacché vedo le nostre ampolle, prima piene, ora del tutto vuote. Spero soltanto che tu abbia brindato alla mia impresa, e che mi giovi un brindisi così abbondante...» Lo scudierò abbassò il capo, e Narco tornò alla sua fatica. L'albero, fermo, aspettava. Aspettava ma, in tutta verità, non proprio fermo. Quel tremito di foglie era diventato una specie di oscillazione, di molle scompigliamento di foglie e rami. Il braccio sinistro segnava, non so come, una linea meno netta e verticale... E forse, io non giurerei, dalle due nodosità del tronco-testa correvano giù piccole gocce di rugiada... Il fatto è, come molti hanno indovinato, che Blabante non aveva brindato né tanto né poco col vino delle ampolle: ma da tutte e cinque lo aveva sparso attorno alla pianta, fino all'ultima goccia, tingendo l'erba un poco di rosso. E dall'erba alla terra, dalla terra alle radici, il vino era entrato nell'albero, e quel tremare e ammollarsi proveniva da lui. Se questo vuol dire che l'albero era uomo, io non so e non dico: quel che si vedeva l'ho detto, e quello che dopo accadde si stia a vedere. Spingeva dunque Narco con la destra, il pugno sinistro dietro serrato, i piedi piantati in terra come durlindane. Il braccio di legno era fermo e solido, ma Narco sentiva che la forza di ora non era quella di prima: era più risentita e voluta, meno totale. E allora spingeva, spingeva, soffiando fuori il suo misero fiato come fa la balena quando sgorga dal mare. E all'improvviso, con un sussulto trepido di tutte le foglie, con un brivido soporoso del gran corpo incortecciato, l'albero di Kronof cominciò a cedere. Piano piano, continuamente, e mano a mano sempre di più: finché il braccio di legno si appoggiò vinto al macigno e vi rimase, con la mano aperta ad aspettare, sembrava, una pioggia dal cielo. Sfinito e felice Narco rotolava nell'erba della valle, strappava manciate e le lanciava in aria, ridendo e gridando: «Altro vino berrai, Blabante! Altro vino berremo!» Andarono via, e lasciarono l'albero nella sua nuova forma, che è quella di oggi. E io lo dico, ma non lo giurerei, che sulla faccia del tronco c'era una nuova piega di corteccia, un fisso e quieto sorriso. Chi poi, per dubbio, andrà a Kronof a constatare, vedrà da sé quel che accadde: la mano aperta, sul masso, mise presto foglie verdi, una bellezza di foglie. Come se fossero quelle, da dentro venute, il dono che aspettava.

Quanto a Blabante, dopo la fuga era rimasto nel bosco, indeciso su cosa fare e temere. Poi, per essere di soccorso, per sapere, aveva seguito le orme dei briganti un po' perdendole e un po' ritrovandole: e ora si aggirava con le narici e le orecchie tese non troppo lontano dalla caverna. Così quando il conte chiamò: «Blabanteeee...» e per tutte quelle vocali gli uscì fuori l'aria necessaria, sia per senso diretto che per la vista degli stormi in fuga, fu facile a Blabante ritrovare il suo signore. E non dico che i due si abbracciarono, ma si strinsero forte la mano e rimessa uno la testa nel ferro, l'altro nella lana, ripresero la strada dei paesi germani.

Mentre stavano a beverare i cavalli in un fiumicello di dieci passi, ecco vedersi dall'altra parte una figura di donna con i capelli lunghi quasi quanto la veste, la quale arrivava fino ai piedi. Era di una bellezza pallida e forse triste, e con lo sguardo vagava oltre le cime dei pioppi, nel cielo volato di nuvole splendenti. I cavalli (cui di femmine importa solo se hanno coda e criniera) continuarono a prendere sorsate di fiume, ma Narco attraverso la fessura, e Blabante sopra la sciarpa, la videro e a tutti e due sembrò così bella da non poter parlare. Poi, col nascosto fiato ansante, Narco bisbigliò: «Io penso, Blabante, che di qui a là ci sia abbastanza acqua che corre per non importunare quella che vediamo, se mi levo l'elmo... Il fatto è che mi piacerebbe vederla meglio, e liberamente, e che forse anche lei vedesse la mia faccia...» Così dicendo lasciò le briglie del cavallo e fece un passo avanti. Allora la donna lo vide, e fu sorpresa, e prontamente sorrise. Per meglio vedere quel sorriso, e far vedere il proprio, già abbondante sotto l'armatura, Narco levò l'elmo, e intanto avanzò di un altro passo verso il fiume. Fu un attimo. Lei lo guardò, e dal sorriso passò a un bianco spavento, e cominciò a fare cenni con le mani e a gridare: «Fermo! Fermo!» Pensando che la donna temesse una malvagia intenzione, Narco ampliò il suo sorriso, e fece un terzo passo verso di lei: e qui la donna scomparve dalla vista e dall'aria come una nuvola si scioglie nel cielo d'estate. Il conte quasi cadde nell'onda per lo stupore. «È possibile, amico mio» disse lamentosamente arrancando all'indietro sull'erba della sponda «è possibile che l'acqua del fiume abbia creato quella figura d'incanto? E non è apparsa però a me e a te nello stesso modo e tempo, come alle visioni non usa fare?» Trattenendo i cavalli, che a quelle micidiali domande di Narco tiravano a scappare, con le briglie di pelle, e se stesso con le briglie del rispetto e della volontà, Blabante rispose: «È possibile, mio signore... Quella scomparsa non è da donna vera: e non è cosa troppo rara che creature incantate, abitanti vicino alle acque, si divertano a spaventare i pellegrini, e ad ingannarli». «Inganno forse sì, amico mio, ma non spavento», disse Narco rimettendo l'elmo, poiché già vedeva piegarsi i fiori intorno. «Questa, semmai, mi ha convinto d' amore !» E ripartirono con nuovi pensieri: avvolti per Blabante nella sciarpa, per Narco nel metallo dell'elmo. Ma mentre allo scudiero, per le mosse dell'aria e le viste diverse, quei pensieri passarono assai presto, nella chiusa scatola dell'elmo quelli di Narco rimasero a lungo, come una specie di dipinto luminoso, di silenziosa canzone.

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I cavalli con sopra i cavalieri brucavano in riva a un torrente di sette passi, quando apparve di là, come laggiù in Padana, quella donna bellissima e serena coi suoi capelli lunghi e la faccia pallidamente ridente. Blabante, che l'aveva dimenticata, la ricordò. Narco, che mai se l'era tolta dalla mente, la guardò muto sopra il forte fruscìo dell'acqua. «E adesso, Blabante» disse poi il conte «se questa è quella stessa visione, stiamole ben attenti... Ma guarda come è viva e vera! Non più di sette passi di valicabile torrente ci dividono da lei... E guarda come ci sorride! Anzi, non te la prendere, come sorrida a me che sono alla tua destra di due passi...» «È vero, mio signore» rispose Blabante. «Tenendo conto che, due passi alla tua sinistra, io mostro tuttavia una faccia cristiana, mentre tu una boccia di ferro. Quanto a lei, non sembra proprio uno scherzo dell'acqua... Ma se è una di quelle ninfe birbone, vediamo quello che accade...» In quel momento la donna, sul fresco dell'acqua corrente, gridò: «Salve a voi, e soprattutto a te, che pure col volto coperto so e sento che mi guardi! Questa, cavaliere, non è la prima volta che ci incontriamo: quanto amerei che, pur non attraversando il torrente, tu levassi come allora l'elmo, per poter più a lungo vedere il tuo volto, così poco guardato, così tanto desiderato!» Narco gridò: «Mia donna! Io l'elmo non lo posso levare per un motivo vero e grave come l'amore già nato e cresciuto per te! Ma sento che anche tu hai un segreto: perché parli del mio e del tuo desiderio, e intanto dici che non dobbiamo attraversare il ruscello?» «Oh, devi sapere, mio bel cavaliere...» cominciò a dire la donna. Ma in quel momento il cavallo di Narco, chiamato dalla sete, fece senza comando un passo verso l'acqua del torrente: e subito la donna scomparve come la prima volta. Narco cominciò a picchiarsi coi pugni sulla testa ferrata: ma poiché così non sentiva dolore, se non sui pugni, levò l'elmo e si tempestò, incurante del fuggi fuggi dei pesci e degli insetti. Dietro di lui, Blabante cercò di consolarlo: «Mio signore, hai notato che, come l'altra, anche questa scomparsa è avvenuta a causa del tuo avvicinarsi? Chissà se il segreto della bella dama non abbia relazione con questo? Ciò forse non ti consola, ma potrebbe servire se, come è avvenuto due volte, una terza volta la incontrerai...» Narco interruppe di bombardarsi il cranio e dichiarò: «E che altro segreto vuoi che fosse, Blabante, se non il terrore per il mio fiato maledetto? Che altro fu l'una e l'altra volta a dissolverla come un sogno, se non la pestifera aria che dal corpo mi muove? Questo ha disgregato quel corpo felice, che disgregandosi disgregò la mia felicità!» «Io sono lontano dal togliere al tuo fiato il suo nero potere, mio signore» disse Blabante. «Ma come spieghi che, se così fosse, non si disgregano attorno a te le

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decise Narco degli Alidosi, e rimesso l'elmo puntò con uno strattone il cavallo al passo montano, mentre i pesci del torrente tornavano dai rifugi subacquei a sbirciare il cielo con i loro occhi tondi.

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Disperato per lo svanimento che sappiamo Narco faceva propositi di fermarsi a fare il monaco in uno dei conventi che incontravano. Ma Blabante lo spingeva a continuare il viaggio con queste ragioni: «Quando, lo conceda Iddio, mago Antolfo ti avrà liberato del tuo malanno, farai quello che vorrai... Ma se ti fai monaco adesso, non potrai tenere l'elmo, e se non lo terrai, non pensi che i tuoi confratelli, già pieni di penitenza, avrebbero troppo peso da portare? E poi, signore, se l'opera migliore di un monaco è far salire al cielo il suo spirito e la sua preghiera, non credi che Chi sta lassù avrebbe qualche difficoltà ad accogliere quello, ed esaudire questa?» Così, parla e cavalca, arrivarono alla Turingia e cercarono e trovarono il luogo di mago Antolfo. Andò avanti Blabante e spiegò al mago il come e il perché, saputi i quali Antolfo accettò di vedere Narco su un colle ventoso detto della Tramontana. Disse che lui sarebbe stato a nord, e che Narco si avvicinasse dalla parte del sud. Il mattino dopo Narco salì il colle, e davanti a lui, su un antico ciocco di legno, sedeva Antolfo. Disse il mago: «Narco degli Alidosi, ho ascoltato il tuo caso. Io credo di poterti aiutare: ma come è uso dovrai superare tre prove, nessuna delle quali sarà leggera. Poi mi darai di che campare per un mese e un giorno. Quando avrai fatto e avrai dato, ti darò la risposta». «Così sia, mago» disse il conte. «La prima prova ti sembrerà da poco. C'è, in una valle vicina, un prato pianeggiante: al centro, come un eremita, un grande olmo dalle foglie cilestrine. Dovrai girare cento volte attorno a quell'albero, a una distanza di quindici passi: e questa è la prima prova». «Se la prova è quel che sento, sarò presto qui per la seconda, mago sapiente!» disse Narco. «Dunque, che dio ti aiuti». Come Narco volle, andarono il giorno stesso a cercare il gran prato e l'olmo dalle foglie cilestrine. Trovato l'uno, l'altro fu trovato. Smontati dalla sella, il conte misurò quindici passi dal tronco in quattro punti a croce, e segnò con spada, pugnale, coltello e stocco il percorso. Poi disse a Blabante: «Buon amico, aiutami in questa facile prova: poiché un giro sarà uguale all'altro, potrebbe capitare che io perda il conto di quelli fatti, e di quelli da fare. Contali tu per me, ed eviterò la confusione». Blabante chinò il capo, e Narco partì. I primi giri li fece a passo spedito, tanto che il mantello gli svolazzava all'indietro come una bandiera d'attacco. I cavalli, a seconda del vento che tirava, facevano brevi galoppate, nitrivano, pascolavano l'erba del prato silenzioso. Fermo al punto d'avvio, con la faccia coperta a metà, con gli occhi come ronde sul castello di lana, Blabante contava. Mano a mano, il passo di Narco diventava meno impetuoso, e le sue braccia oscillavano con minor forza nella marcia rotonda.

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«Un bacio» ridisse paziente mago Antolfo «e per di più un bacio d'amore, di quelli che da bocca a bocca si danno, e non sulla guancia, per affettuosi saluti, o in fronte, per casta benedizione. Ma poiché ti vedo come stordito e quasi offeso, ti dico che, benché in questi baci sia cosa difficile stabilire ciò che è dato o preso, pure non occorre che l'amore del bacio sia anche tuo: basterà che vi sia l'amore di lei». «La... masca Nedarella?» fece Narco, quasi per prendere tempo. «Non l'ho mai sentita nominare...» «Non, si nomina, non si racconta, ma è la masca più potente e invidiosa di tutta Turingia, e non soltanto: di tutta Europa. Suo è il bacio che dovrai ottenere, e ti auguro buona sorte, perché a costei piace un solo uomo su cento. Dio ti aiuti». «Partiamo» disse Narco, e con Blabante cavalcò per due giorni verso il luogo della masca Nedarella. Costei era ancora più potente e invidiosa di quello che Antolfo aveva detto, e mandava le sue stregonerìe, come bave, non solo sull'Europa ma sul mondo intero. Niente le spiaceva più della bellezza delle altre donne, e niente le piaceva più degli uomini che le piacevano: ma solo uno su cento, e due su mille, e tre su diecimila. «Mio signore» disse Blabante nei pressi del castello di lei «il tuo aspetto è per molti versi degno di regine, ma considera la schizzinoseria di questa masca, e considera anche, un poco, il lieve danno che dalle labbra ti esce... Se già è difficile piacerle, senza un po' di attenzione potrà risultare impossibile...» «Qual è il tuo consiglio, Blabante?» «Innanzitutto che, come posso, ti tolga di dosso la polvere, ti stiri il mantello, ti lavi la faccia e le mani, ti pettini i capelli: e poi, come so, ti prepari un infuso di timo, mirto e verbena, cotto e stracotto e filtrato, per farne sciacqui in bocca. Che almeno per qualche minuto il tuo fiato sia come un testimone pauroso, e non sappia di quel che sa...» Narco fu spolverato, lavato, pettinato. Sciacquò sette volte la bocca con l'infuso stracotto e filtrato, poi alitò a Blabante e domandò: «Come va?» «Dio ci aiuti, mio signore» rispose Blabante, e si avvolse più stretta la sciarpa al volto. Così preparati entrarono nel castello della masca Nedarella che, tale com'era, già sapeva del loro arrivo e del perché: mutata in capra e in rondine, aveva seguito da lontano il viaggio dei due, e visto il traffico della preparazione. Ora, tornata nella sua figura, così rideva nel pensiero: «Vieni, vieni, Narco degli Alidosi! Sei bello, sei conte, ma sei di quelli che non mi piacciono! E poi... so che hai il fiato un po' pesante... Ma vieni: ti farò cantare, ti farò ballare, e poi ti ucciderò con la mia risata!» Si presentarono a lei. Narco dichiarò: «Masca Nedarella, io vengo a vedere la tua bellezza! Se ne parla dalla punta dell'Oriente al fondo dell'Occidente. Si dice che le sirene, al tuo confronto, sono rospi e rape; si racconta che la luna, quando nasce, è rossa per la vergogna di mostrare la sua faccia dove si mostra la tua...» «Che belle moine, cavaliere!» disse la masca. «Avvicinati un poco, che io ti veda... Non ho ancora baciato nessuno, quest'anno, e perché non potresti essere tu?» Narco fece un passo avanti. «Ma quello che si dice di te, Masca Nedarella, in confronto a ciò che io vedo, è una bugia! Tu sei così bella, che se la stessa bellezza si trovasse un giorno vuota di idee, non avrebbe che da guardarti, per ricordarsele tutte!» «Che deliziosi complimenti!» diceva la masca. «Avvicinati ancora un poco, e fatti guardare... Quest'anno non mi è ancora piaciuto nessuno: perché non potresti essere tu quello dei cento, uno dei due dei mille, uno dei tre su diecimila?» Narco avanzò di un passo, e recitò: «Perciò, o grandemente e unicamente bella, io ti chiedo un bacio: la bellezza di un bacio d'amore! Corto o lungo, come a te piaccia: le mie labbra lo possano ricordare come il cieco guarito ricorda la sua prima luce!» «Ma sì... Ma sì, Narco degli Alidosi... Vieni più vicino...» lei miagolava. «E metti qui la faccia galante, che forse ho un bacino da dare, come quello che chiedi...» Narco, con forte batticuore, avanzò. Ma quando le fu a un passo, vide la faccia della masca storcersi in una smorfia di brutto sollazzo. «O grullo principotto! O scalzacani vanitoso, cosa pensavi, con questa faccia lavata e pettinata: di piacermi davvero? E con questo qualcosa tra il mirto e la morte che sento uscirti alla distanza? No, bolso! No, testone! Tu sei dei novantanove che non mi piacciono! Sei dei novecentonovantotto che mi disgustano! Sei dei novemilanovecentonovantasette che mi fanno schifo!» Come avesse preso una frustata sugli occhi, Narco fece un salto indietro.

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Cavalcarono e cavalcarono: in tre giorni arrivarono a Kronof. Laggiù c'era, e c'è ancora, una valle fresca circondata da faggi. Al centro della valle, vicino ad un macigno squadrato a tavolata, c'è l'albero di Kronof. È a forma d'uomo seduto, col tronco in figura di gambe, potentemente affondate nella terra. Il braccio sinistro, gonfio di nodi muscolosi, è teso verso l'alto e finisce in una enorme mano fogliuta. Anche la testa, tozza e appena piegata sulla spalla, è coperta di rami sottili e ricchi di foglie. Il braccio destro è spoglio: un ramo robusto appoggiato a metà sul macigno e per metà piegato verso l'alto, a finire in una mano di tre dita, aperta a conca. Da cento e mille anni l'albero di Kronof era là a sfidare i forti del mondo. Erano venuti, tanti secoli prima, il fortissimo Achille, il prode Alessandro, ed Ercole, e Attila tremendo. Era venuto Sansone, era venuto Enea, poi Spartaco, e anche Lancillotto. Era venuto Orlando, e il formidabile Progus: ma nessuno di quegli uomini era riuscito a piegare di un millimetro il braccio di legno. Ora, le loro firme meste restavano incise sulla corteccia: non dell'albero vincitore, che non poteva essere toccato se non con una mano per sfida, ma sulle cortecce dei faggi intorno, che su quei nomi illustri e delusi avevan poi rifatto pieghe e labbra di legno... Qualcuno delle valli vicine diceva che l'albero di Kronof non era solo albero, ma anche uomo. Qualcuno diceva che i due nodi di legno sporgenti dalla testa si aprivano e mostravano occhi umani... Qualcuno diceva che, a stare in ascolto, in primavera, arrivava da laggiù una specie di voce fioca e sepolta, una canzone grezza e oscura... Dicevano, dicevano, ma quando si trattava di giurare, non avevano il coraggio. Tutti dicevano: «Si è veduto... Si è sentito...» Ma nessuno diceva: «Io ho veduto e sentito». Ora Narco e Blabante si trovavano davanti a quella mirabilia, a ragionare sul possibile e l'impossibile. «Ha la figura di un uomo...» diceva Blabante. «Albero o uomo, amico mio, è il suo braccio poderoso che io devo piegare: e da come lo vedo dritto e massiccio, mi viene da disperare...» «Tuttavia, mio signore, conviene che tu provi. Ciò che si dice impossibile appartiene al mondo: e al mondo tutto è possibile. Io, che non posso toccare quell'albero, starò qui tuttavia, e ti saprò incoraggiare». Narco si avvicinò al macigno e impugnò con la destra la mano di legno dell'albero di Kronof. Sentì una forza così solida e ferma che di nuovo la disperazione gli urtò il cuore. Però, puntando i piedi nell'erba e curvando la schiena e il corpo, cominciò a spingere. Il braccio di legno non si spostò di un capello. Narco spingeva, spingeva. Sudore e tremore aveva nel corpo: ma il braccio dell'albero sembrava dipinto nel

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«Lasciare il tuo potere: perché a rare persone, e tu sei di quelle, il potere appesta anima e corpo e fa esalare fiele. Ma se abbandoni il potere, l'aria ti tornerà naturale». «Dovrò cessare di essere Narco, conte di Castel del Rio?» «Il nome, amico mio, nessuno lo può togliere all'uomo, eccetto Dio. Ma il potere e il comando, quello si può levare: e a sé meglio che ad altri si può fare». «Ma chi reggerà il paese, nelle grandi e nelle piccole cose?» «Lo regga una persona che vale, che distingua il bene dal male: ma non tu sarai, o terrai il fiato che hai». «Sarà Blabante il nuovo signore!» disse Narco. «Molte prove di ingegno e generosità egli mi ha date. Lui meglio di altri governerà la terra!» Blabante si inchinò: «Se tu lo vuoi, signore: ma ti chiedo da ora di non farmi neppure cavaliere. Fammi invece mastro legnaio e mastro campanaro, perché come legnaio piallerò e taglierò con esatta misura, e come campanaro suonerò la musica del giusto e del lieto, della festa e del buon riposo». «Così sia, mastro Blabante! Davanti a mago Antolfo, sotto l'occhio di Dio, qui metto il mio potere nelle tue mani di amico!» In quell'istante preciso, il fiato di Narco perse ogni puzzo, ogni fetore: e al contrasto l'aria del luogo, e di tutta la Turingia, sembrò invasa dalla torma dei buoni profumi. Il giorno dopo Narco e Blabante, che portava la sciarpa alla vita come segno del nuovo potere, ripresero la strada delle montagne meridionali, delle foreste, verso l'Italia lontana. E ripercorsero i luoghi, rividero le contrade, le case, le persone: tutto più lieto e leggero, più ridente, più amico. Giunti ad un fiume nella contea di Coira, si fermarono a riposare le bestie e contemplare nel gran sole le montagne imperlate di neve. Ed ecco dall'altra parte, come due volte era accaduto, si vede quella donna stupenda dai lunghi capelli e il volto chiaro. Narco balzò da cavallo e guardandola a faccia ora scoperta, gridò: «Beato me che ti incontro ancora! Mia signora, cos'era il sole, senza di te? E te lo grido: scomparsa è la disgrazia che mi opprimeva! Sono salvo dal fiato che ti ha due volte dissolta! Attraversiamo dunque il fiume e diventiamo amanti, perché l'amore lo chiede!» La donna rispose: «O tu, che ho amato pur non vedendo di te che un elmo sigillato, di che fiato vai parlando? Perché credi che io scomparissi? Era, ed è, e sempre ahinoi sarà, per colpa di una maledizione di strega! La masca Nedarella, invidiosa di quella che tutti chiamano la mia rara bellezza,

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Terpione, mettendosi a sedere, rispose: «Permetti che insista, mio signore! Nutriti con verdura e latte colato un mese intero, e intanto sciacqua il palato ogni giorno otto volte con acqua in cui bollì menta selvatica; poi, con l'aiuto di una speciale museruola che ti farò, dormi con la bocca aperta verso oriente: vedremo...» Non furono prescrizioni facili: e non tanto quelle sul cibo, giacché a Narco l'appetito era scemato di molto; e nemmeno gli sciacqui frequenti (sebbene ogni volta quel movimento di ganasce senza ingoio scatenasse la ribellione delle parti interne); torvo era, invece, quel dormire a bocca spalancata, perché le mascelle soffrivano la croce, e perché, all'alba, bocca e gola erano secche come la grotta di un eremita palestino, e perché, tirati da qualche mortale richiamo come i navigatori dalle sirene, insetti ronzanti ci finivano e restavano, stecchiti. Dopo il mese di dieta (qualche insetto a parte, perfettamente mantenuta) e di quelle altre sofferenze, Terpione tornò a visitare il suo signore, non senza avere stipato nelle narici, fuori di vista, ciuffi di canapa fina imbevuti d'anice. Però, quando il conte gli alitò nel naso a occhi spalancati, il medico cominciò a piangere dirottamente. «Perché piangi, Terpione?» domandò Narco. «Perché, signore, mi duole che la cura non solo non abbia fatto miracoli, ma nemmeno opera buona... Eppure è rimedio provato e riprovato, valido dagli anni antichi, giurato dai più sapienti...» «E si vede che il mio malanno è più grave!» sospirò Narco. «Ma perché cadi ora in ginocchio, Terpione?» «Mio signore, per chiedere a Dio pietà, e buona ispirazione!» A quel punto Blabante, che aveva a giusta distanza seguito la visita, mandò la voce a dire: «Buon conte, costui non è l'ultimo scannacani del contado: se ha fallito, occorre una sapienza più grande della sua, e non ne so di vicine. Ma è certo che in Turingia, oltre le alpi e le foreste, vive un mago, un gran guaritore di nome Antolfo, celebre per le più difficili guarigioni». «Anch'io ne ho sentito i miracoli!» entrò a dire Terpione. «Vanno da lui i più inguaribili, e ne tornano salvati!» Così fu deciso il viaggio: Narco e il fido Blabante sarebbero partiti per la Turingia. La cosa si seppe, e il contado ebbe un respiro di sollievo: il fiato del conte era ormai a tal punto di pestilenza che al suo cavallo occorreva, oltre al paraocchi, il paranarici, e la gente si scostava al suo passare più degli Egiziani al passaggio del divino faraone.

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