Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Il ponte della felicità

218932
Neppi Fanello 29 occorrenze
  • 1950
  • Salani Editore
  • Firenze
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
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TUTTI I DIRITTI SONO RISERVATI Stabilimento Grafico A. Salani, MCML - Printed in Italy.

. - E perchè, allora, vieni sempre a svegliarmi presto e non vuoi che faccia anch'io il dormiglione? - Ma tu, vedi, sei.... - Che cosa sono, nonna? - Un uomo. - E Lori?... - chiese il fanciullo con gli occhi lampeggianti di malizia, pregustando la risposta che stava per venire. - Lori è una bambina. - Alvise sbattè le ciglia, contento e fiero di essere considerato un uomo. Bambina era l'insulto che egli si compiaceva di lanciare alla sua compagna di giuochi e di monellerie, in tutte le occasioni (poche, per dire la verità), nelle quali si azzuffavano. Naturalmente, «bambina» era l'offesa verbale; giacchè, dopo quell'epiteto ingiurioso, afferrava Lori per le sue morbide e lucide trecce biondorame, e gliele tirava senza misericordia. La bimba si voltava inviperita e, quasi per dimostrargli che i capelli non erano una prerogativa del sesso debole, gli affondava le manine nella selva ribelle dei riccioli bruni attorcigliati come serpentelli sulla fronte e sugli orecchi, e glieli scoteva con tutte le sue forze. E queste non dovevano essere tanto deboli, nonostante l'apparenza delicata di Lori, se Alvise desisteva per primo e si rassegnava a fare la pace. - Nonna, quanto dovrò aspettare? - continuò il fanciullo. - Ecco: il,tempo che ci vuole per andare di qui a piazza San Marco. - Va bene, aspetterò. - La nonna si diresse verso la casa per sbrigare le sue faccende, e il nipotino cominciò a camminare avanti e indietro per l'orticello Ben presto, però, fu stanco di quel suo modo di misurare il tempo e si fermò nel quadratino dell'insalata per cercarvi le chioccioline. Era un bel divertimento mettersele sulla palma della mano («chiocciolina, ....cominciò il suo lancio.... chiocciolina, tira fuori le tue cornina»), e vederle allungare il corpo molle e ritirarlo rapidamente al minimo contatto. Ma, neanche a farlo apposta, quel giorno, di chioccioline, neppure l'ombra! Ad, Alvise allora venne in mente un altro passatempo: prendere a sassate i detriti di ogni genere che l'acqua del rio trasportava. Raccolse qua e là dei sassi e comincio il suo lancio con grande, maestria, ridendo degli spruzzi d'acqua che salivano in alto e s'irradiavano in tutti i sensi. Quando gli parve che il tempo di arrivare in piazza San Marco fosse già, passato da un pezzo, smise quel giuoco da monelli, e mettendosi le mani intorno alla bocca, gridò con quanto fiato, aveva in gola: - Lori! Lori! - Nessuno rispose. - Lori! Lori!... - ripetè con una sfumatura d'impazienza nella voce. A questo secondo richiamo; si spalancò una finestra del piano superiore e una testolina bionda si affacciò. - Eccomi, Alvise!... - trillò una voce argentina. - Finalmente!... - esclamò il ragazzo con un gran sospiro di gioia. Pochi istanti dopo, la porta che dava sul giardino si apri e una bimba si slanciò fuori con la leggerezza di un uccellino che spicca il volo dal nido. Intanto Alvise aveva preso una leggera trave che giaceva per terra e l'aveva gettata tra i muriccioli dei due orti, attraverso al rio. Aveva l'abitudine di andare dalla sua piccola amica, su quel passaggio aereo, evitando così il lungo giro della calle. La fanciulla osservava sempre con mal celata angoscia quella traversata, temendo che Alvise cadesse nell'acqua quieta ma profonda. Purtroppo, ciò che da tanto tempo paventava, doveva avverarsi quella mattina. La trave, messa troppo in fretta, e quindi male equilibrata sui due muriccioli, oscillò paurosamente quando Alvise vi salì sopra, e lo fece piombare nel rio. Lo spavento paralizzò Lori, che rimase lì, con gli occhi sbarrati sull'acqua verdastra, alla superficie della quale si erano formati larghi giri concentrici. Ma prima che dalla sua gola contratta uscisse un grido di soccorso, la testa del ragazzo, grondante d'acqua, affiorò sulla cresta del muricciolo e pochi istanti dopo egli sgambettava nelle chiazze di sole che i rami delle acacie disegnavano sull'erba. - Oh, Alvise! riuscì finalmente a balbettare la bambina. Lui rideva, scrollandosi di dosso tutta quell'acqua. Lì per li aveva avuto un po'di paura, sì; ma poi, era riuscito a tornare ai galla con facilità e ad aggrapparsi alle asperità del muricciolo, e quel tuffo gli era parso molto piacevole. Diamine, non per nulla era figlio e nipote di marinari della Serenissima! - Zitta, Lori, altrimenti la nonna se ne accorge e nasconde la trave. Ora torno in casa a cambiarmi, poi giocheremo. - E senza dir altro, dopo aver rimesso per bene il suo ponte, se ne andò rapidamente, lasciando dietro di sè una larga scia d'acqua. La piccola Lori lo seguì con lo sguardo finchè lo vide entrare nella casetta, e rimase lì, ferma, a fissare il punto dove il fanciullo era sparito. - Ehi, dico! -, Lori trasalì a quel brusco richiamo e abbassò gli occhi. A poca distanza, una chiatta carica di doghe galleggiava sulle acque del rio. - Ehi, dico!... - ripetè il vogatore, un omaccione bruno e tarchiato come un saraceno, indicando con il capo la trave che gli ostacolava il passo. Lori provò a rimuoverla, ma non vi riuscì. Allora, con l'accento più dolce che potè trovare, disse al vogatore: - Abbiate la bontà di aspettare un momentino. Questo ponte è di Alvise, e lo toglierà appena si sarà cambiato. Scusate. - Evidentemente la pazienza non era una delle virtù dell'omaccione, che, senza aggiunger parola, si distese quasi supino sulle sue doghe e lasciò che la chiatta andasse alla deriva. Oltrepassata la trave, si rialzò, non senza fatica, poi si rivolse alla fanciulla e le disse, con una voce che pareva venire da cavernose profondità: - Beh, per questa volta è andata così, ma ti avverto che un'altra volta prendo Alvise e il suo ponte e vado a gettarli in mezzo alla laguna! - Afferrò i remi, diede una spinta alla chiatta, volse di nuovo il capo verso Lori e le urlò, tra un lampeggiare di bianco e di nero (bianchi i denti, neri gli occhi grifagni): - Capito? - Sì, sì, Lori aveva capito! E tanto bene, anzi, da temere che quell'orco infuriato tornasse indietro ed eseguisse ipso facto la sua minaccia. Naturalmente, in mancanza di Alvise, il volo nella laguna sarebbe toccato a lei! Rabbrividì dal capo alle piante come se già si trovasse immersa in quel bagno non desiderato; ma la chiatta continuò sicura, sebbene lenta, la sua strada, mentre il lieve sciabordio dell'acqua lungo i fianchi dell'imbarcazione sonava agli orecchi della fanciulla come la musica più soave del mondo! La chiatta era appena svoltata all'imbocco del canale, quando Alvise ricomparve con una bracciata di panni gocciolanti. Per la prima volta da che il fanciullo si serviva di quel passaggio aereo, Lori lo attese senza tremare, tanto la paura dell'omaccione bruno aveva soffocato in lei ogni altra considerazione. - Alvise, - gli gridò - se tu sapessi...! - Che c'è, Lori? - È passata una chiatta. - Alvise non capiva. - Quale chiatta? - Se tu avessi visto che barbaccia e che occhiacci neri! - Il fanciullo si mise a ridere. - Una chiatta con gli occhi e con la barba? - Ma no, non scherzare!... - disse Lori indispettita. - Non c'è proprio niente da ridere. Era un omone, e ha gridato: «Ehi, dico!», poi si è sdraiato sul fondo della barca, è passato sotto alla trave e ha vociato: «Un'altra volta butto nella laguna Alvise e il suo ponte. Capito?», - spiegò la bimba tutto di un fiato. Con la coda dell'occhio Alvise sbirciò il rio. Era di un bel verde lucente, tra i muriccioli rossigni, e il sole, già molto caldo, gli dava un tremolio impercettibile. Ma la bellezza maggiore, almeno agli occhi indagatori del ragazzo, era la sua assoluta tranquillità. Allora, facendosi coraggio, disse a Lori, con aria spavalda: - Non aver paura, via!... Se quell'uomo ritornerà, lo concerò io per le feste! - Ad ogni buon conto, posati sull'erba i suoi panni fradici, si affrettò a togliere là, trave. Non si sa mai!... La balda sicurezza che spirava dalle parole di Alvise aveva dissipato la paura della fanciulla. Poteva infatti non sentirsi tranquilla con un paladino di quel genere?! - Ora andiamo a stendere i tuoi vestiti. - Girarono attorno al gruppetto delle acacie dietro alle quali c'era una radura erbosa, e stesero i panni bagnati agli ardenti raggi del sole di agosto. - Ecco fatto! - disse Lori, soddisfatta. - E ora che si fa? - Giochiamo alla bottega. - Era il divertimento preferito dai due fanciulli: consisteva neI disporre sopra una specie di banco di vendita tanti mucchietti di polveri colorate che Lori prendeva dallo studio del babbo, notissimo pittore; poi fingeva di essere una massaia e veniva a faiie gli acquisti. Quando erano stanchi di «fare alla bottega», si divertivano a mischiare le polveri, rosso, azzurro, giallo, bianco, per vedere quali altre tinte saltavano fuori. Inutile dire che, dopo un'oretta di quei passatempi, mani, vestiti, visi, e perfino i capelli avevano assunto tutte le sfumature dell'iride, con grande disperazione di nonna Bettina e di madonna Lucrezia, madre di Lori. Alvise avrebbe accolto la proposta della fanciulla, con grande entusiasmo, ma si ricordò in tempo che aveva indossato il vestito delle feste, in sostituzione di quello zuppo d'acqua, e che se lo avesse insudiciato la nonna avrebbe avuto doppio motivo di castigarlo. Suggerì dunque un altro giuoco, subito accettato da Lori. E per un bel pezzo, nella quiete dell'orto, sotto l'ombra dei rami fronzuti delle acacie, fu tutto un correre e cicalare dei due fanciulli, all'unisono con il cinguettio degli uccellini che svolazzavano sugli alberi.

. - AVANTI AD OGNI COSTO, di A. Confidati. 62. - IL ROMANZO DI FRULLO, di B. Gerin. 63. • PICCOLO RE, di G. Chelazzi. 64. - IL SIGNOR TITO E IL VECCHIO MARINARO, di M. Giraud. 65. - TONINO L'INVENTORE, di G. Chelazzi. 66. - LO ZIO D'AFFRICA, di A. Lichtenberger. 67. - IL VECCHIO MULINO, di S. Rivière. 68. - IL SENTIERO DI CASA ROSSA, di B. Spinelli. 69. - OTTO SABATI, di E. Enright. 70. - LA COLLANA DEL MAGNIFICO, di I. Neppi Fanello. 71. - LA FUGA DEL «MELAGRANO», di P. Besbre. 72. - LO SBAGLIO DEL QUARTO PIANO, di E. Enright. 73. - OPILIO IL GRANDE, di G. Biasotti. 74. - ATTENTA! I LEONI!, di J. Duché. 75. - LE NUOVE AVVENTURE DI SUSSI E BIRIBISSI, di Collodi (Nipote). 76. - LA CASA MISTERIOSA, di D. Renaud. 77. - LA CASA DEI GAROFANI BIANCHI, di J. Loisel. 78. - IL CASTELLO DELLE AVVENTURE, di A. Brazil. 80. - LA MASCHERA GRIGIA, di A. Bruyère. 82. - RAFF, IL DOMATORE, di G. Chelazzi. 84. - E DIVENNERO CINQUE, di E. Enright. 85. - LA MISTERIOSA SCOMPARSA DEL SIGNOR TITO, di M. Giraud. 86. - SPAZZACAMINO, di C. Invernizio. 87. - IL MISTERO DI ACQUAFORTE, di E. Correa d'Oliveira.

Essa infatti comprenderà prevalentemente i capolavori della letteratura mondiale per la gioventù e romanzi celebri opportunamente adattati per i giovani, ma vi saranno raccolti anche lavori destinati a illustrare le grandi figure e i grandi eventi della storia, e gli aspetti più affascinanti della scienza e della tecnica.

. - IO, LORENZO, di A. Bordiga. 4. - PICCOLE DONNE, di L. Alcott. 5. - LE AVVENTURE DI TOM SAWYER, di M. Twain. 6. - L'AVVENTURA DEL PIANETA TERRA, di G. Scortecci. 7. - BEN HUR, di L. Wallace. 8. - IL ROMANZO DI «LUI», Vol. I, di L. Ugolini. 9. - IL ROMANZO DI «LUI», Vol. II, di L. Ugolini. 10. - IL GRANDE AMMIRAGLIO, di M. Granata. Libri Salani per la gioventù: i grandi amici dei ragazzi. Logo in bianco e nero raffigurante un'aquila e una montagna

. - Agnolo, Agnolo caro, - diceva al compagno seduto accanto a. lui - ce ne andremo presto. Tra poco la vita che abbiamo trascorsa su quest'isola deserta non sarà più che un ricordo. - E poichè il compagno taceva, egli proseguiva: - Che ne sarebbe stato di me, se fossi rimasto solo? Senza di voi, Agnolo, che cosa avrei fatto? - Ragazzo mio, io posso dire altrettanto di te. Ferito così malamente e nell'impossibilità di procurarmi il cibo, sarei certamente morto senza il tuo soccorso. - Ci siamo sorretti a vicenda, - rispose Alvise - guardando teneramente il compagno. E Dio ci ha aiutati, - mormorò il marinaro; poi ricadde nel mutismo nel quale da più di un'ora si era chiuso e che faceva strano contrasto con la verbosità febbrile del compagno. Una ruga profonda gli solcava la fronte ed era chiaro indizio di una preoccupazione che egli cercava invano di occultare. Quell'insolito contegno finì col turbare Alvise. - Che avete, Agnolo? - gli chiese, posandogli la mano sul braccio. Il marinaro era combattuto da opposti pensieri, e quella lotta interna si riflettè chiaramente sul suo viso e nei suoi occhi. - Che avete, Agnolo? - ripetè Alvise con ansia. - Figliuolo, una grande delusione ci attende, - si decise finalmente a dire il marinaro. - Ma bisogna essere forti, e affrontare coraggiosamente il destino. - Spiegatevi, Agnolo. - Già da un pezzo dubitavo che la galea che si avvicina non ci fosse amica, ora il dubbio si è mutato in realtà. - A chi appartiene, dunque? - È una nave corsara turca. - Infatti la galea che a vele spiegate veniva verso l'isolotto era una nave ausiliaria corsara. Quello strano vascello di costruzione quadrata, con la poppa molto alta, in uso tra i Turchi, era da loro chiamato qaramusàl. Differiva, per le sue forme tozze, dalle imbarcazioni più snelle e agili dei Veneti e dei loro alleati. Tali caratteristiche non potevano sfuggire a uno sguardo esercitato come quello del vecchio marinaro. Ancora non si distingueva il gagliardetto che sventolava sul pennone, ma si poteva giurare che vi campeggiava la mezzaluna. Alvise sbattè le ciglia, quasi a trattenere le lacrime. Il pianto infatti gli strozzava la voce, allorchè parlò. - Che fare, Agnolo? - Se fossimo scoperti, verremmo senz'altro fatti prigionieri e imbarcati su qualche galea turca dove si vive di stenti e di miseria. - Fuggire non possiamo, - replicò Alvise guardando desolato il mare che li circondava, impassibile e misterioso come una sfinge. Ho già preparato un piano. Mettiamolo subito in opera e speriamo che Iddio ci aiuti. Raccogli tutte le pietre che puoi trovare. Le addosseremo all'ingresso della caverna, poi le copriremo con la rena e le alghe della spiaggia in modo da far credere che tutto sia naturale. Noi ci chiuderemo lì dentro con quanti viveri abbiamo, chiudendo dall'interno il nostro ingresso e non senza prima aver fatto sparire ogni traccia della nostra permanenza nell'isola. - E la zattera, Agnolo? - Quella, purtroppo, bisogna distruggerla! - Oh, Agnolo! - Non c'è via di scampo, Alvise. Mettiamoci subito all'opera. - Due ore dopo, ogni cosa era sistemata secondo il piano del vecchio marinaro. Anche le orme dei loro passi erano state cancellate sulla rena. All'ingresso della caverna, in alto, era rimasto un vano, e da quello gli occhi di Alvise fissavano l'avvicinarsi della galea.. Agnolo aveva avuto ragione: era una nave corsara turca; si vedeva ora distintamente la mezzaluna che sventolava sul trinchetto. - Che cosa vengono a fare in quest'isolotto deserto? - A rifornirsi di acqua. - Non potevano rifornirsene in qualche porto? - È gente che, vivendo fuori legge, si tiene più che può lontana dal consorzio umano. - Allora non si tratterranno a lungo. - Chi può saperlo? Se fossero reduci da qualche impresa, potrebbero anche fermarsi alcuni giorni, per riposarsi e dividersi il bottino. - Alvise tacque, continuando a guardare la galea che la stanca brezza sospingeva sulla superficie calma del mare. Ormai il legno era a poca distanza e si potevano vedere gli uomini muoversi sul ponte. Il sole era già tramontato quando la galea gettò l'àncora e un'imbarcazione venne calata da bordo. Gli uomini dell'equipaggio, scesi per la scaletta di corda che pendeva lungo la murata, vi si sistemarono comodamente. Alcuni di essi afferrarono i remi e spinta da quelle braccia vigorose l'imbarcazione avanzò rapidamente verso terra. La galea deserta si delineava contro il cielo che si oscurava sempre più. Il vespero brillava già con la sua calma luce di sogno. Otto uomini scesero a terra e la barca venne tirata a secco. Essi parlavano un linguaggio ignoto ad Alvise. I corsari sbarcarono dei barilotti, che posero da un lato; poi accesero un grande falò e vi si sedettero intorno. Da alcune bisacce tolsero cibi vari e abbondanti e cominciarono allegramente a mangiare, intercalando i bocconi con lunghe sorsate di vino di Cipro. - Chissà che cosa dicono! - mormorò Alvise all'orecchio di Agnolo, che gli stava accanto con il braccio appoggiato alla sua spalla. - Te lo dirò poi, - gli assicurò sottovoce il marinaro. Evidentemente Agnolo, che aveva navigato molto nei mari di Levante, comprendeva il turco. Il ragazzo non vedeva l'ora che il bivacco finisse per essere ragguagliato sulle intenzioni e le mire dei corsari. Alla fiamma crepitante del falò continuamente .... accesero un grande falò e vi si sedettero intorno. alimentato, e nel quale finirono miseramente buona parte delle tavole della zattera, il pasto si protrasse a lungo. Finalmente gli uomini si alzarono barcollando e si guardarono intorno con una cert'aria stupita, borbottando qualche cosa tra loro. Con un gesto rapido Agnolo trasse Alvise nell'angolo più remoto della grotta e gli bisbigliò: - Taci, e non fare il più piccolo rumore. - Trattenendo il respiro, stretti uno accanto all'altro, l'uomo e il ragazzo udirono i corsari camminare più volte avanti e indietro, come se fossero incerti, fin che poi svoltarono l'angolo della scogliera dove si aprivano altre grotte. Poco dopo tutto tacque, tranne il respiro gigantesco delle onde. - Chi sono? - osò allora chiedere Alvise. - Sono corsari, diretti nel golfo di Lepanto per unirsi all'armata turca. Hanno detto che i nostri saranno attaccati dopo il cinque di ottobre. - Ma perchè sono qui? - Sono scesi in questa isoletta per rifornirsi di acqua e domattina riprenderanno il mare. - Ma che cosa cercavano con tanta ansia? - Si meravigliavano di non trovare più la grotta dove erano soliti coricarsi. Buon per noi che avevamo mascherato l'ingresso e che il buio della notte ha favorito i nostri piani! - Tutto questo Agnolo lo aveva sussurrato rapidamente, ansando per l'emozione. - Sicchè, la battaglia contro i Turchi non è ancora avvenuta? - No, certo; ma è imminente. Un centinaio di galee, agli ordini di Alì pascià, sono in procinto di assalire l'armata della Lega. - Dopo un lungo silenzio, il ragazzo disse: - Agnolo, facciamo qualche cosa per la nostra patria? - Di tutto cuore; ma non so che cosa possiamo fare in quest'isola! Non possiamo certo assalire i corsari, disarmati come siamo. La lotta sarebbe impari: due contro otto! - Giocheremo d'astuzia, Agnolo. - Hai già un piano combinato? - Sì; ma è necessario che prima di tutto io mi renda conto di molte cose. Voi, che non potete ancora camminare, aspettatemi qui. - Vuoi uscire? Ne va di mezzo la tua vita, Alvise! - Per Iddio e per san Marco. - Come vuoi, caro ragazzo.... Che Dio e san Marco ti proteggano! - Piano piano, Alvise cominciò a demolire la barricata che ostruiva l'ingresso alla caverna, ma per quanto cauti fossero i suoi gesti, un sasso rotolò con un tonfo sordo lungo la scogliera. Il cuore di Alvise cessò per un attimo di battere; ma nulla si mosse, segno evidente che i corsari si erano addormentati. Rinfrancato, il ragazzo continuò il suo lavoro, e poco dopo era sulla spiaggia. Le ceneri del bivacco biancheggiavano sulla rena, ancora tepida. Tutto intorno, pace e silenzio. Alvise si avvicinò alla barca dei corsari e raccogliendo tutte le sue forze tentò di spingerla verso il mare. Dapprima la chiglia, incassata nella rena, resistette, poi si mosse con lentezza e scivolò fin dove le onde si fermavano spumeggiando. Soddisfatto, il ragazzo tornò sui suoi passi e andò cautamente, come un felino, verso l'angolo della scogliera, dove si aprivano le altre grotte. Anche da quella parte, pace e silenzio. Alvise raggiunse di nuovo la caverna, e al compagno, che lo aspettava trepidante, sussurrò: - Fuggiamo. Appoggiatevi a me. - Senza una parola, Agnolo si aggrappò al ragazzo e insieme percorsero il breve tratto di spiaggia. Raggiunsero la barca e non senza fatica vi salirono e s'impossessarono dei remi. Dolcemente, affinchè il tuffo dei remi non fosse udito dai corsari, essi spinsero la barca verso la galea. Raggiuntala, legarono l'imbarcazione perchè non andasse alla deriva, poi si arrampicarono sulla scaletta di corda che pendeva lungo la murata, e furono a bordo. - Bisogna che ci allontaniamo alla svelta, - disse Agnolo. - Se i corsari si accorgessero ora della nostra fuga, ci sarebbero presto addosso e ci farebbero morire tra i più atroci tormenti. - .... si mosse con lentezza e scivolò dove le onde.... Svelto come uno scoiattolo Alvise si arrampicò sui pennoni e sciolse le vele. Ma la notte era calma, fresca, senza un filo d'aria. Le vele rimasero inerti e lo scafo non ebbe il più piccolo rollìo. Agnolo e Alvise si guardarono, sgomenti. - Non ci resta che aspettare pregando, e che san Marco ci assista! - disse Alvise. - Hai ragione. Il Cielo non ci può abbandonare. - E infatti il Cielo vegliava sui miseri. Una leggera brezza cominciò a soffiare, aumentò gradatamente d'intensità, gonfiò le vele, e la galea scivolò rapida sulla superficie increspata. Agnolo e Alvise ringraziarono Dio e tornarono sul ponte. Il marinaro fece rettificare ad Alvise la direzione delle vele, poi si pose al timone. - Tu, - disse al ragazzo - scendi; un po'di riposo ti farà bene. - Alvise s'impadronì di un mantello che giaceva vicino all'albero di trinchetto, vi si avvolse, e sdraiato accanto ad Agnolo disse: - Rimango con voi a farvi compagnia. Chiacchiereremo un pochino. - Ma la testa del giovane aveva appena toccato le dure tavole che gli occhi gli si chiusero in un sonno di piombo. Agnolo, le salde mani strette alla ruota del timone, rimase a vegliare quel letargo innocente. La notte era senza luna, ma un'infinità di stelle brillavano in cielo e la loro luce fu indicibilmente consolante per il cuore del vecchio marinaro.

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Il vecchio marinaro vegliò il sonno di Alvise fin che a oriente si scòrse una luce che variava dal rosa all'argento e che divenne poi uno splendido serto di raggi, come l'aureola di un santo gigantesco. Uno di quei raggi si posò sul viso del giovinetto le cui lunghe ciglia si schiusero. Egli si guardò attorno, stupito. Dove si trovava? Era sogno o realtà ciò che lo circondava? La presenza di Agnolo gli snebbiò la mente. - Così a lungo mi avete fatto dormire? - chiese con rammarico, alzandosi rapidamente. Agnolo sorrise. - Volevo che ti destasse il sole. - Ma voi sarete stanchissimo! - Per dir la verità, non sono stato a divertirmi! - rispose il vecchio scherzando. Ebbene, lasciate ch'io prenda il vostro posto. - Piano, piano! Vai prima in cambusa. La veglia e l'aria mattutina mi hanno messo addosso un grande appetito. - Alvise non si fece ripetere l'invito, e poco dopo era di ritorno portando un po'di cibo che venne consumato allegramente in mezzo a quel fulgido mare. La brezza era adesso più gagliarda e la galea. filava rapida nella direzione voluta da Agnolo. - E ora che ci siamo rifocillati, - disse il vecchio marinaro - andrò a prendermi un po' di riposo. Ti affido il timone, ma se vi fosse qualcosa di nuovo, chiamami subito. Speriamo che prima di sera qualche terra sia in vista. - Alvise prese il timone e cominciò la sua guardia, confortato da quel sole settembrino che splendeva in tutta la sua pompa. A un tratto alla sua destra la limpidezza cristallina dell'orizzonte fu sbarrata. - Agnolo, - chiamò Alvise col cuore in gola - la terra è in vista! - Il vecchio marinaro apparve subito trascinando penosamente la sua gamba non ancora guarita. Stettero abbracciati a osservare la terra che si approssimava con rapidità per il giuoco favorevole del vento. Distinguevano ora ogni canalone, ogni vetta, ogni sporgenza; la luce sfolgorante rendeva visibili non soltanto il colore della roccia e la sua compattezza, ma anche le sue increspature e le sue ombre fonde. Poi apparve la spiaggia recinta dalla scogliera. Alcune persone, che la lontananza rendeva minuscole, si aggiravano qua e là. Ma allorchè Agnolo e Alvise, dopo aver gettato l'àncora, raggiunsero con la barca la spiaggia, la trovarono deserta o muta. Dove erano andate le persone che poco prima vagavano sulla rena e tra gli scogli? Una risata di Agnolo meravigliò Alvise. - Hanno creduto alla venuta dei corsari, - disse il marinaro accennando alla galea turchesca che oscillava mollemente sulle onde. - Cerchiamo di rassicurarli subito. - Il paesello, composto di poche casette di pescatori, con la sua chiesina di pietra grigia sormontata da un piccolo arco al quale era appesa la carapana, si stendeva poco lontano, all'ombra del monte i cui contrafforti erano rivestiti di aceri e di quercie. Le straducce sassose del paesello apparivano deserte. Le casette, senza intonaco, erano asserragliate e sembravano muti sepolcri. Agnolo, sorretto da Alvise, bussò a qualche porta; ma nessuno rispose. Essi, allora, si diressero verso la chiesina e la trovarono aperta. Davanti all'altare, dove un grande Cristo crocifisso tendeva le sue braccia pietose, un sacerdote pregava. Al rumore dei passi che risonavano nel vuoto il sacerdote piegò la testa canuta e allargò le braccia col gesto di una vittima che si offre in olocausto. Agnolo e Alvise gli si avvicinarono, e il ragazzo, piegate le ginocchia, baciò la scarna mano dell'uomo di Dio. Al gesto inatteso, il sacerdote alzò gli occhi che pareva avessero già sfiorato i misteri dell'al di là, e guardò il giovinetto. - Chi siete? - mormorò. - Non siamo corsari, - disse subito Alvise; e Agnolo soggiunse: - Siamo naufraghi della flotta veneta. - Come? C'è dunque già stata, la battaglia contro i Turchi? - No, non ancora, ma ci sarà presto. Noi siamo naufraghi della bufera scatenatasi qualche tempo fa mentre eravamo diretti a Tropea per imbarcare viveri e soldati. - Ah, ricordo! I nostri pescatori hanno saputo che sei navi dell'ammiraglio veneto andarono perdute, e le altre ebbero molti remi e speroni rotti. Ma voi, come siete venuti in possesso della galea turca? - Agnolo raccontò brevemente la loro avventura e concluse: - Vogliamo andare al porto di Messina per raggiungere la nostra flotta. - Aspettate. Io so che le navi della Lega si trovano raccolte nel porto di Gomenizza, proprio di fronte a questa costa calabra. Dai nostri abitanti potrete avere maggiori spiegazioni. Seguitemi. - Quando furono fuori della chiesina, il sacerdote afferrò la corda che teneva legata la campanella e i rintocchi argentini si diffusero come un gioioso richiamo. Non molto tempo dopo, dai viottoli che serpeggiavano su per il monte cominciarono a scendere gli abitanti della borgata: vecchi, donne, bambini. Gli uomini validi erano in mare, parte alla pesca. parte imbarcati come soldati sulle navi della Lega. All'avvicinarsi della nave corsara, il buon prete aveva fatto avviare quella povera gente su per i monti, al sicuro, mentre egli attendeva rassegnato nella chiesina deserta la venuta del nemico. ....baciò la scarna mano dell'uomo di Dio. Tutti fecero grandi feste ai due marinari e ben presto la borgata si animò. Ognuno fece quanto potè, e alcuni vecchi, ancora vegeti, si offrirono di aiutare a condurre la nave fino al porto di Gomenizza. Sulla galea vennero trasportati viveri freschi in abbondanza e alcuni barilotti di acqua sorgiva. Indi il sacerdote benedisse la galea e il gagliardetto di san Marco che Alvise aveva issato sul trinchetto, dopo avere ammainato lo stendardo della mezzaluna. Quest'ultimo venne conservato come trofeo di guerra. Il giorno stava per tramontare quando la galea spiegò di nuovo le vele e si diresse verso il golfo di Corinto. Dalla riva centinaia di occhi seguivano la manovra, mentre tutte le labbra mormoravano un addio e una preghiera. Alvise, ritto sul ponte, guardava il gagliardetto azzurro che garriva nel vento della sera profumato di alghe e di bosco; quel vento, che era passato sulle cime dei monti italici e aveva accarezzato le loro pendici verdeggianti, gli sussurravano misteriosamente che la sua avventura non era ancora finita.

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Finalmente, il 4 di ottobre all'alba, un vento gagliardo cominciò a spingere velocemente la nave verso la mèta, e poco prima del tramonto essi furono in vista delle coste di Cefalonia. - Sarebbe più prudente inalberare bandiera bianca, - disse il più anziano degli uomini di bordo, un vecchio dall'aspetto patriarcale. - Perchè? - chiese Alvise che invece avrebbe voluto fare un ingresso trionfale tra la flotta veneta sventolando il leone di san Marco. - La tua bandiera è troppo piccina, ragazzo mio, - gli rispose il vecchio pescatore - e difficilmente potrebbe salvarci da una buona scarica di mitraglia. Dimentichi che siamo imbarcati sopra una galea turchesca. - E che le flotte alleate si trovano in questi paraggi appunto per regolare certi conti con i Turchi, soggiunse un altro, ridendo. Un drappo bianco sventolava dunque a prua della nave corsara, allorchè una galea della Lega si mosse per incontrarla. Alvise chiese di parlare con il condottiero veneto, e subito un'imbarcazione venne calata dalla nave latina e si fermò a poppa della galea corsara. Alvise e Agnolo vi presero posto e immediatamente i remi si mossero con rapidità, sicchè in pochi minuti la barca fu condotta presso il fianco della capitana veneta. Come battè il cuore di Alvise nel rivedere lo stemma argenteo e porporino del Veniero! E più ancora nel trovarsi alla presenza del grande ammiraglio. Questi fissò sui due superstiti del terribile naufragio le pupille scure e imperiose e chiese loro con la sua maschia voce: - Chi siete e donde venite? - Alvise fece il racconto dell'avventura occorsagli, senza dimenticarsi di informare l'ammiraglio che la flotta turca si trovava alla fonda nel porto di Lepanto. Il Veniero lo ascoltava a capo chino, e di quando in quando con la mano delicata lisciava la sua fluente candida barba. E allorchè Alvise, con trepida voce, chiese notizia del padre, il Veniero si alzò, gli si accostò, e ponendogli ambo le mani sulle spalle gli disse: - È morto gloriosamente al servizio di Dio e acquistando inoltre segnalato merito dalla tua patria. Ma egli vive e vivrà in eterno nelle glorie di san Marco. E tu, che hai dimostrato di essere il suo degno erede, riceverai la nomina di capitano della galea corsara catturata, che da questo momento prenderà il nome di Santa Cattarina. - Poi, volgendosi ad Agnolo: - Tu, vecchio lupo di mare, sarai il suo luogotenente e la sua guida. - Ciò detto, l'ammiraglio si allontanò per andare a conferire con don Giovanni d'Austria che teneva il comando supremo delle flotte alleate. Alvise e il suo compagno tornarono alla loro nave che inalberava di nuovo lo stemma di san Marco. Il giovinetto aveva il cuore infranto, ma non piangeva. E mentre Agnolo conduceva zoppicando alcuni marinari della flotta veneta a visitare la nave corsara per metterla in condizione di prender parte alla lotta, Alvise andò a sedersi sull'alta poppa e rimase lì, muto, con il viso chiuso tra le mani. Il respiro del mare, il frangersi dell'onda sullo scafo della nave, il sussurrio della brezza tra i cordami delle vele sonavano al suo orecchio come un pianto desolato. Era forse suo padre che si lamentava, perduto nel mistero di quella fresca notte d'ottobre? Una mano si posò sul braccio di Alvise e lo fece ....il Veniero.... gli si accostò.... sussultare. Davanti a lui c'era un giovane della sua età, vestito con la raffinata eleganza di un gentiluomo veneto. - Alvise Benedetti, - disse il sopraggiunto - lascia ch'io prenda parte alla tua pena. Sono Lorenzo, nipote di Sebastiano Veniero, e anch'io sono imbarcato sulla capitana. - Gli sedette accanto e gli cinse con un braccio le spalle, fraternamente. - Preghiamo insieme, Alvise.... Dio misericordioso ti darà aiuto e conforto. - Lacrime benefiche rigarono il viso smagrito di Alvise. Lorenzo gli rivolse parole buone, parole di conforto, e il dolore dell'orfano perse un po' della sua angoscia e si fece più dolce e profondo. Agnolo portò ai ragazzi due coperte perchè si difendessero contro i rigori della notte. Essi si avvolsero in quelle, si appoggiarono al parapetto della murata, e tenendosi stretti per mano si persero per un po' di tempo a guardare il cielo stellato sul quale vagava un argenteo quarto di luna. Poi, pian piano, gli occhi si chiusero e la pace scese nei loro cuori. Il colloquio tra l'ammiraglio e don Giovanni d'Austria durò a lungo. Essi decisero di partire il giorno seguente per prevenire la flotta turca, che sapevano al sicuro nel porto di Lepanto. Disgraziatamente nella mattinata il vento era contrario, e dovettero rimanere alle Gomenizze. Alvise e Lorenzo si recarono a fare un giro per il paese, posto sulla riva di un corso d'acqua. Vi era una sola strada, di qua e di là dal fiume, ma il paese non era piccolo, giacché si prolungava per qualche miglio. Le sue case erano fabbricate con terra in luogo di calce e tutte avevano il loro giardino, con molti alberi fruttiferi; palme, aranci, limoni, fichi, ulivi, melograni. I giardini erano circondati da siepi di mortella a foglie larghe. Oltre le case si apriva la campagna ventosa dove pascolavano mandre di buoi e di pecore e volteggiavano stormi di uccelli. Qua e là giacevano, tra i ciuffi d'erba, marmi candidi, colonne infrante, pezzi di statue e altre reliquie dello scomparso mondo pagano. Una fontana di marmo rosa di squisita fattura serviva da abbeveratoio alle mandrie. Alcuni colombi tubavano sul bordo scolpito e aggiungevano grazia alla pace di quel bellissimo paesaggio. Alvise e Lorenzo si fermarono a guardare la chiesa, detta di Nostra Signora, e mentre si trattenevano a osservare certe iscrizioni antiche murate sulla facciata, si radunarono intorno a loro molte persone ansiose di conoscere il ragazzo veneto che aveva saputo impossessarsi di una galea turchesca e condurla a ingrossare le file della flotta cristiana. Tutti volevano parlargli, offrirgli frutti saporiti e fiori, invitarlo a casa per mettere a sua disposizione ogni ben di Dio. Alvise era commosso da tanta cortesia, e nella sua timidezza avrebbe voluto fuggire quella celebrità inattesa; ma Lorenzo, abituato alla vita mondana, lo incoraggiava a rimanere e a mostrarsi compiacente con quella popolazione generosa. Alvise accolse volentieri i suggerimenti dell'amico e alla fine distribuì ai poveri buon numero di aspri, moneta turca d'argento, di origine romana e bizantina, molto diffusa in oriente e nei possedimenti veneti. Quegli aspri facevano parte del tesoro trovato sulla nave corsara e da Sebastiano Veniero lasciato ad Alvise come preda di guerra. Il ragazzo lo aveva diviso con Agnolo e con i pescatori calabri dai quali era stato aiutato ai condurre la galea, alle Gomenizze. Quando sonò l'ora di tornare a bordo, i due giovani vennero accompagnati fino alla riva del mare dalla popolazione del luogo, che li salutò con molte belle parole e con l'augurio di rivedersi a Venezia, dove essi trafficavano molto, soprattutto in frutta secca e agrumi. Sulle onde stanche, sotto il dolce sole di ottobre, le navi della flotta cristiana posavano immobili; ma presto avrebbero spiegato le vele e sarebbero volate incontro al loro meraviglioso destino, nel nome di Dio.

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Il babbo, che ne intuiva la sensibilità artistica, la lasciava entrare a tutte le ore nel suo studio luminoso e le permetteva di toccare polveri, ciotoline e pennelli, sebbene purtroppo, come abbiamo già visto, non sempre quelle cose servissero per tentativi pittorici. Da un pezzo aveva cominciato a insegnarle le prime nozioni di disegno e di composizione dei colori, e già sognava il giorno in cui la sua bimba, ormai famosa, avrebbe perpetuato la gloria dei Sagredo. Madonna Lucrezia, quando il marito e la figlia erano immersi in quelle lezioni, prendeva un lavoretto o un libro, e seduta in silenzio davanti al finestrone che dava sull'orto ascoltava la loro conversazione, felice della perfetta comprensione che regnava tra quelle due creature adorate. Durante l'estate, dalle finestre aperte entrava il delizioso profumo delle rose che fiorivano in un'aiuola in mezzo all'orto e il fresco olezzo delle acacie che circondavano la casetta dei Sagredo. D'inverno, invece, quando la neve copriva ogni cosa con il suo soffice strato di gelo e i rosai e le acacie erano spogli, venivano i passeri a beccare le briciole che Loredana spargeva sul davanzale. Ed erano così carini e numerosi quei passerotti, che correvano con le penne arruffate e si becchettavano scherzosamente per giungere primi, che anche Lori e il suo babbo lasciavano il loro lavoro per godersi il quadro grazioso. La mattina dopo l'incidente del ponte, Loredana stava per entrare nello studio paterno per procurarsi colori e pennelli. Le era venuto in mente che sarebbe stato bello dipingere, insieme con Alvise, il muricciolo dell'orto, e anche (perchè no?...), il muro posteriore della casa, almeno fin dove arrivavano le loro braccia. L'umidità e il vento salmastro che veniva dalla laguna l'avevano un po' sciupacchiata e scurita, e la bimba credeva di renderle la primitiva freschezza con i suoi pennellini. Mentre stava per aprire la porta la mamma la trattenne. - No, Lori, non puoi entrare stamani. - Perchè, mamma? - Il babbo aspetta una visita, anzi una visitona. - Non era un fatto straordinario, quello, in casa Sagredo, ma ogni volta non mancava di suscitare l'interesse e l'entusiasmo di Loredana. - E chi verrà, mammina? - Il nobile Marco Antonio Bragadin. - Il governatore di Famagosta?... - chiese la, bimba che conosceva bene i possessi della Repubblica veneziana. - Lui in persona. - E perchè viene, mamma? - Non lo so, curiosona! - rispose madonna Lucrezia sorridendo al suo tesoro. - Allora, vado da Alvise, eh, mammina? - Sì, piccina mia, vai pure. - Era ormai abitudine che Loredana andasse a giocare nell'orto del suo piccolo amico ogni volta che il babbo riceveva delle visite d'importanza, perchè madonna Lucrezia temeva che il chiasso dei due ragazzi disturbasse gli ospiti. Ecco dunque la fanciulletta aprire la porta e lanciarsi come un folletto verso la casetta di nonna Bettina. Per nulla al mondo si sarebbe arrischiata ad attraversare il rio sul ponte di Alvise: la strada sarebbe stata molto più breve, ma anche più pericolosa. Lo slancio di Loredana dovette arrestarsi davanti al solito ostacolo: la serpe di bronzo che fungeva da battente alla porta di nonna Bettina era troppo alta per la sua statura, e nonostante i suoi sforzi, non riusciva ad afferrarla. Dovette, come al solito, aspettare il passaggio di una persona, gentile che picchiasse per lei. Nonna Bettina accolse con fare materno la bimbetta e Alvise si mostrò addirittura raggiante. - Il babbo aspetta Marco Antonio Bragadin, - disse subito Loredana con una cert'aria d'importanza. - Benissimo. Allora siate buoni, e badate di non far chiasso - rispose la nonna con la sua bella voce pacata. Aveva il massimo rispetto per le leggi e per i grandi del mondo, ma la vanità, sotto qualsiasi aspetto, non l'aveva mai sfiorata. E non aveva mai provato invidia per le ricchezze e per gli onori altrui. Mentre i due fanciulli si. divertivano, spensierati, sotto il tiglio che stendeva la sua ombra fragrante su buona parte dell'orto di nonna Bettina, il governatore di Famagosta visitava lo studio del pittore Sagredo. Il nobile veneziano portava un abito di velluto bruno di una sobria eleganza, ravvivato da un collare di candido pizzo, che incorniciava il viso barbuto, e da una pesante collana d'oro zecchino (insegna della sua autorità), che gli scendeva sul Petto. Marco Antonio Bragadin passava silenzioso davanti ai quadri del Sagredo appesi alle pareti dello studio. Erano ritratti di dogi e di severi magistrati della Repubblica, immagini di santi ed episodi di vita veneziana. Un quadro con l'apparizione della Vergine ad alcuni santi arrestò la sua attenzione. La tavola era grande e rappresentava la Madre di Dio, seduta su nubi soffici e candide, mentre ai suoi piedi si stendeva un paesaggio lagunare di una indicibile freschezza. Di fianco, un angelo divinamente bello, con i riccioli biondi e la veste argentea cinta ai fianchi da un cingolo rosso carminio, reggeva con ambo le mani un cartiglio sul quale era scritto: Ave, gratia piena. Dopo averlo osservato a lungo; il nobile Bragadin disse: - Sagredo, questa tavola l'acquisto per la cappella di San Teodoro a Famagosta. - Una lotta si accese subitanea nel cuore del pittore. Quel quadro gli era immensamente caro perchè nella Vergine. erano effigiate le sembianze di Lucrezia, sua moglie, e nell'angelo quelle di Loredana. Ma poteva rifiutarlo al governatore, tanto più sapendo dove doveva essere collocato? L'ospite intanto si era seduto sull'ampia seggiola Marco Antonio Bragadin passava silenzioso davanti ai quadri.... a braccioli, rivestita di damasco verde, sulla quale soleva mettersi madonna Lucrezia. - Sagredo, - disse infine - perchè non venite a Famagosta con me? - A che scopo, messere? - Per decorare il palazzo della residenza. - Sarebbe un'impresa meravigliosal... - mormorò - il pittore con gli occhi accesi dal desiderio. - La vostra fama varcherebbe così i confini della Repubblica. - Capisco, messere, e vi sono molto grato della proposta. Ma.... - S'interruppe, non osando esprimere più oltre il suo pensiero. Il Bragadin continuò per lui: Dicerto vi dispiacerà lasciare la vostra famiglia. Ma pensate che la separazione durerà un anno al più e che al vostro ritorno porterete con voi non soltanto la gloria, ma anche un bel gruzzolo di ducati mediante il quale provvederete all'agiatezza delle vostre care. La Repubblica compensa largamente i suoi fedeli servitori, lo sapete. - Sagredo rimaneva in silenzio, combattuto da opposti desiderii. Il governatore si alzò. La collana d'oro zecchino gli tintinnò leggermente sul petto mentre si poneva in testa il casco piumato. - Tra due giorni la nave ammiraglia mi condurrà a Famagosta. Vi attendo a bordo. Sta bene, Sagredo? - Il pittore s'inchinò profondamente. - Ci sarò,- messere. - Provvedete intanto a fare imballare il quadro dell' Apparizione. Potrete collocarlo voi stesso nella cappella di San Teodoro, - disse il nobile Bragadin incamminandosi verso l'uscita. Dopo averlo osservato a lungo, il nobile Bragadin.... Quivi giunto, si volse di nuovo al pittore che lo accompagnava rispettosamente e dopo averlo salutato con un cenno cordiale della mano, soggiunse: - Passerà da voi il mio tesoriere per il compenso. Salve, Sagredo. - Già da un pezzo Marco Antonio Bragadin, governatore di uno dei più ricchi possessi veneziani, era uscito dallo studio, e il pittore restava ancora lì ritto, in mezzo alla stanza luminosa, in balia all'onda incalzante dei suoi pensieri. Così lo trovò madonna Lucrezia quando osò timidamente affacciarsi alla porta. - Lorenzo.... - Vieni, cara Lucrezia, vieni. - Sei rimasto contento della visita? - Siedi qui, vicino a me. Devo parlarti, - le disse di rimando il pittore. Lucrezia lo guardò con un lieve sorriso sulle labbra, ma con un segreto timore nel cuore. Che cosa stava per dirle, con quell'aria seria e quella voce grave? - Lucrezia, tra due giorni partirò. - E dove andrai, Lorenzo? - chiese la donna con una voce stranamente incolore. - A Famagosta, al seguito di Marco Antonio Bragadin. - A Famagosta? - ripetè Lucrezia come un'eco lontana. Lorenzo Sagredo chiuse dolcemente nelle sue mani quelle della moglie. - Per quale motivo, Lorenzo?... - gli chiese, dopo un silenzio che a entrambi parve eterno. - Ho assunto l'impegno di decorare la residenza del governatore. Pensa, Lucrezia mia, alla gloria e alla ricchezza che mi acquisterò! - Ma Lucrezia non pensava che all'amaro distacco e alla lunga lontananza. Avrebbe voluto gridare con tutta l'anima: «Non partire! Che importa a me della gloria e della ricchezza? A me basta la mia quieta casetta rallegrata dalla tua presenza e da quella della nostra regina. Non te ne andare!» Ma Lorenzo continuava, sempre più infervorato: - Ho esitato molto prima di accettare, pensando quanto mi sarebbe stato doloroso separarmi da voi; ma ho riflettuto a tempo che tutti dobbiamo lavorare per la gloria di Venezia. E poi, che brillante avvenire preparerò alla nostra Lori! - Vi fu un altro attimo di silenzio. Il pittore continuava ad accarezzare le mani della moglie, che tremavano tra le sue. - Lucrezia, avrò a mia disposizione delle grandi pareti sulle quali raffigurare tutta la storia dei Venetici, dall'impero di Bisanzio al nostro Doge. Vi profonderò i colori più smaglianti della mia tavolozza. Voglio che in un anno tutte le glorie dell'estuario veneto siano celebrate nel palazzo del governatore. - Nella voce di Lorenzo Sagredo vibravano tanto entusiasmo e tanta passione che Lucrezia, piano piano, ricacciò in fondo al cuore, come un masso pesante, l'angoscia che la torturava. Voleva essere la degna compagna di Lorenzo, e non l'ostacolo alla sua ascesa luminosa. Intanto il pittore continuava: - Durante la traversata, che durerà parecchi giorni, avrò modo di elaborare gli episodi da dipingere, e appena giunto a Famagosta mi metterò al lavoro. Non ti ho ancora detto, Lucrezia, che il nobile Bragadin ha acquistato la mia Apparizione, per una cappella dell'isola. Sono lieto, ora, di avergliela ceduta; così, almeno, potrò a tutte le ore del giorno vedervi quasi vive e parlanti. - Una lacrima, una sola, era scesa furtiva dagli occhi di Lucrezia ed era andata a perdersi tra le fitte pieghe della fine sciarpa di velo che le copriva petto. Ma la virtuosa donna si era già ricomposta. - Che il Signore ti benedica e san Marco ti accompagni! - gli mormorò con la sua voce dolcissima. - Così sia! - rispose il marito, baciandole la mano. Loredana accolse la notizia con grande giubilo. Nella sua ingenua spensieratezza non vedeva che il lato brillante della cosa. Il suo babbo era tanto bravo che Marco Antonio Bragadin lo voleva a Famagosta per fargli decorare la propria residenza. Tra qualche mese sarebbe tornato ricco di gloria e di onori. Loredana era ancora troppo piccina per poter approfondire. I due giorni che seguirono il colloquio col governatore furono impiegati in casa Sagredo nei febbrili preparativi della partenza. Lorenzo si occupò di colori, terre, pennelli, barattoli, punte d'argento, e di quant'altro poteva avere attinenza con la sua arte; madonna Lucrezia, aiutata lodevolmente da Loredana, che non pensava più a giocare nell'ombra fresca dell'orto, preparò la biancheria, i vestiti e le cappe, e li chiuse in due grandi bauli di cuoio a borchie d'ottone. La bimba faceva mille domande, e la mamma si sforzava di risponderle con pazienza, soffocando il dolore che la stringeva dalla testa ai piedi, come le spire di un immane •serpente. Perché non poteva, gioire anche lei di quell'avvenimento così importante per il suo caro? Perché? Il terzo giorno, nel pomeriggio inoltrato, Lorenzo Sagredo parti. Lucrezia, Loredana e il piccolo Alvise poterono, per gentile concessione del Bragadin, salire a bordo della nave ammiraglia per porgergli l'ultimo saluto. Il babbo non sapeva staccarsi dalla sua Loredana, così bella e gentile nel vestitino di raso bianco a ricami azzurri, con una ghirlanda di roselline che fermava l'arricciatura vaporosa della gonnella. La gloriosa storia dei Venetici, il palazzo del governatore, la lontana isola di Famagosta, avevano perso tutto il loro incanto: non restava, ora, che l'amara realtà del distacco. Madonna Lucrezia si mostrò la più forte per rendere agli animi la serenità; ma il suo viso, pallido e come rimpicciolito, tradiva l'interna angoscia, nonostante la voluta fermezza delle linee. La nave ammiraglia si metteva in moto, circondata da altre galee che, come grandi uccelli migratori, dovevano scortarla lungo il viaggio. Partiva in mezzo al fasto di cui sapeva circondarsi la Repubblica marinara, solcando le acque della laguna che la luce del tramonto tingeva di fiamme vermiglie. Lucrezia, Loredana e Alvise rimasero silenziosi sulla riva a guardarla, finché le ombre del crepuscolo, ombre azzurre e viola, non la fecero svanire in misteriose lontananze. Loredana continuò a chiacchierare anche durante il ritorno al rio di cà Foscari, eccitata da tutto ciò che aveva visto e vissuto in quelle ultime ore. Ma quando si trovò nella sua casa insolitamente deserta e silenziosa, nello studio del babbo, che le tenebre della notte riempivano di malinconia, si aggirò inquieta, scrutando nel buio sempre crescente con le pupille lucenti di lacrime non versate, e andò a rifugiarsi, smarrita, tra le braccia materne. Dall'umida frescura delle fronde l'assiolo fece sentire il suo nostalgico richiamo.

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Il vento soffiava tuttora contrario, ma a forza di remi le galee riuscirono a varcare il canale di Cefalonia, in vista delle isole Curzolari, tra la costa dell'Albania e la penisola della Moréa. Non lontano si ergeva il promontorio d'Azio, famoso per la battaglia navale che pose fine alla repubblica romana. L'ordine di schieramento era già stato impartito e fu attuata il giorno 7, con la più grande precisione. Già si sapeva che nella notte del 5 ottobre i Turchi, spiegando i trinchetti, avevano abbandonato Lepanto e, attraverso il golfo di Corinto, si apprestavano a incontrare i nemici. L'armata cristiana aveva raccolto le forze maggiori al centro, intorno alle capitane dei tre generali: don Giovanni d'Austria, con la reale nel mezzo; Marc'Antonio Colonna e la capitana di Savoia, a destra; a sinistra il Veniero, con a lato la capitana di Genova. Ultime venivano quelle di Malta e della Lomellina. Sessantuna galee che inalberavano bandiera azzurra circondavano le navi ammiraglie. Alla destra di questo schieramento si raggruppavano cinquantatrè galee, con insegna verde attaccata alla punta dell'antenna, ed erano comandate da Giovanni Andrea Doria; a sinistra, altre cinquantatrè galee, che spiegavano bandiera gialla al calcese, erano agli ordini di Agostino Barbarigo. Precedevano le galeazze veneziane, munite ognuna di quattrocento archibugieri, sessanta cannoni, fuochi artificiali, e governate da Francesco Duodo, Andrea Pesaro, Pietro Pisani, Antonio e Agostino Bragadino, Giacomo Guoro. Alla retroguardia, pronte al soccorso, il marchese di Santa Cruz comandava trenta galee che inalberavano bandiera bianca al calcese. Su quelle navi che si apprestavano alla lotta sotto l'insegna di Cristo erano presenti i più bei nomi d'Italia e di Spagna. Principi illustri avevano abbandonato la reggia, con il cuore infiammato di fede; membri di nobilissime famiglie avevano lasciato senza un rimpianto gli agi dei loro castelli per militare nell'armata cristiana. Alessandro Farnese, principe di Parma, ubbidiva a Ettore Spinola, sulle galee di Genova; Francesco Maria della Rovere, figlio di Guidobaldo duca di Urbino, si era imbarcato sulla capitana di Savoia, agli ordini dell'ammiraglio Legni. Don Giovanni d'Austria, dopo aver disposto lo schieramento in maniera che tra galea e galea rimanesse tanto poco spazio che un'altra nave non potesse passare, diede ordine di alzare sulla reale lo stendardo della Lega, innanzi al quale si ammainarono tutti gli altri stendardi. Indi scese in un'agile fregata e si diede a percorrere l'intera linea della battaglia, incitando i suoi uomini a combattere gagliardamente. Passata in rassegna la flotta, l'ammiraglio supremo, prima di tornare alla sua nave, si fermò presso la capitana del Veniero per salutare il prode e bollente alleato. Ritto sulla poppa, a capo scoperto ma armato di tutto punto, il condottiero veneto rispose cordialmente al saluto. Un'ombra di titubanza si leggeva in quell'istante sul viso di don Giovanni d'Austria. Tremava forse al pensiero della grande responsabilità che prendeva sopra di sè? O qualche dubbio all'ultimo momento era sorto nella sua mente? D'improvviso la sua voce risonò alta, dominando il canto solenne del mare. - Che si combatta? - chiese al Veniero. È necessario, nè si può evitare, - gli rispose il vecchio guerriero. L'ombra scomparve dal viso dell'ammiraglio supremo. Un ultimo saluto, e l'agile fregata raggiunse la nave reale. Il dado era tratto. L'armata turca, intanto, ammainati i trinchetti, a voga arrancata e in formazione di mezzaluna, si spingeva innanzi contro i cristiani per aggirarli. Ma le galeazze veneziane dell'avanguardia, con le loro terribili artiglierie, tempestarono e sgominarono le galee turchesche, sventandone il piano e obbligandole a disserrare le file. Qualche attimo di sosta. Nel silenzio sopraggiunto, il vento, che fino allora aveva soffiato in favore dei Turchi, cessò di agitare le vele, il mare divenne tranquillo come un lago e il cielo sorrise, radiosamente azzurro. In mezzo a tanta serena dolcezza le due potenti armate si affrontarono. Il silenzio dell'atmosfera .... il vecchio.... passava, guidando e incitando. venne infranto dallo strepito delle armi, dagli urli degli assalitori, dal gemito dei morenti. Pareva che un'ebbrezza di morte si fosse impadronita di quelle ciurme assiepate; la terribile furia del fuoco e del ferro distruggeva ogni cosa. Prora contro prora, la galea di don Giovanni d'Austria e la capitana di Alì, generale supremo dell'armata turca, si batterono accanitamente.... Vuoti paurosi si aprivano nelle file degli archibugieri sardi e in quelle dei fanti turchi. La vittoria era incerta, allorchè Sebastiano Veniero, non ancora assalito dai nemici, spinse la sua galea in avanti per accorrere in difesa della reale. Fiero sopra tutti i suoi uomini, i candidi capelli al vento, corruscante l'armatura, il vecchio guerriero, con una balestra in mano, passava, guidando e incitando. I suoi sguardi erano terribili, la sua voce, imperiosa. Ma, quando si curvava sul ferito o sul moribondo, era l'immagine vivente di un padre che calma e conforta. La lotta asprissima sembrava centuplicargli le forze. Una freccia gli attraversò un piede. Per un attimo vacillò, e le braccia del nipote, che gli stava sempre al fianco, furono pronte a sostenerlo. - Non è nulla, Lorenzo, - mormorò, soffocando lo spasimo. - Presto, presto, all'arrembaggio! - soggiunse immediatamente, scorgendo una galea nemica che correva in aiuto di Alì. Ma prima che quella potesse raggiungere la mèta, un'altra nave, vogando disperatamente, le tagliò l'assalì passo e assalì con furia. - È la Santa Cattarina, - mormorò il vecchio condottiero, sorridendo, compiaciuto. - Buon sangue non mente! - La lotta prosegui sanguinosissima. Alla fine i veneziani e i pontifici, facendo impeto sul centro nemico, riuscirono a rompere il grosso della flotta turca e a uccidere Alì pascià. Quando le superstiti galee della mezzaluna seppero la fine del loro capo, con mossa improvvisa si gettarono sulla linea destra alleata, affondarono le navi dei cavalieri di Malta, e attraverso il varco così aperto si diedero alla fuga. La gigantesca battaglia promossa da Pio V, come una nuova crociata, era finita. Dopo quattr'ore di accaniti combattimenti si era conclusa con la vittoria delle armi alleate. Questo trionfo era stato pagato a duro prezzo giacchè, se pari era stata l'ira da una parte e dall'altra, pari ne era stato anche il valore. Si poteva ben dire che Lepanto rappresentava la sfolgorante luce che rompeva le tenebre onde era avvolta l'Europa cristiana. Sulle onde insanguinate rottami di ogni genere andavano alla deriva. Il cielo aveva perduto la sua azzurra trasparenza e una cavalcata di grige nuvole si affacciava a ponente. A poppa della reale un frate pregava per gli eroi che il Mediterraneo aveva trascinati nelle sue profondità misteriose. Quanti erano? Molti. Ogni regione d'Italia poteva vantare l'onore di aver dato la vita di qualche suo figlio; ma l'Europa era stata salvata dalla barbarie maomettana.

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A bordo delle navi, sotto i pennoni scheggiati e le vele a brandelli, ferveva intanto la pietosa opera di soccorso ai feriti. Sul ponte della capitana veneta Sebastiano Veniero, incurante della propria ferita al piede, sosteneva il nipote che era stato straziato da tre colpi di freccia. Il viso di Lorenzo era esangue, ma gli occhi splendevano vividi e sulle labbra smorte errava un sorriso di soddisfazione. Lo zio gli aveva detto che in premio del suo valore lo avrebbe nominato capitano della galea sottile Intrepida. Anche Alvise Benedetti giaceva sul ponte della Santa Cattarina con un braccio rotto da un'archibugiata. B G 7 - 5 Agnolo lo curava e il giovane stringeva i denti per trattenere l'urlo che voleva sfuggirgli nello spasimo. Un messo di Sebastiano Veniero salì a bordo della Santa Cattarina per avvisare che Alvise doveva essere condotto a terra, per le cure necessarie, insieme col nipote dell'ammiraglio. Alvise accolse la notizia con grandissimo piacere. L'idea di trascorrere i lunghi giorni di degenza accanto all'amico,che gli era stato di conforto in un momento di sconfinato dolore, gli riusciva immensamente gradito. Dopo aver provveduto cosi ai due valorosi giovani, Sebastiano Veniero, in compagnia degli altri generali e capitani, si recò sulla nave ammiraglia della Lega. Non appena don Giovanni d'Austria vide il vecchio condottiero venire avanti reggendosi a stento per la ferita recente, gli corse incontro, lo abbracciò e lo baciò chiamandolo col nome di padre e proclamandolo il principale artefice di tanto trionfo. Era quasi notte allorchè Sebastiano Veniero, tornato sulla sua nave, prima di concedersi il meritato riposo, fece chiamare Onfredo Giustinian, capitano della galea Angelo Gabriele, e gli ordinò di mettersi immediatamente in viaggio e, a tappe forzate, portarsi a Venezia per annunziare alla Signoria e al popolo la grande vittoria. Stabiliva poi che venissero assolti tutti i condannati sulle galee, condonando i debiti a coloro che dovevano denaro allo Stato. La galea Angelo Gabriele partiva la sera stessa, spinta da un vento gagliardo. Il lungo percorso venne compiuto in soli dieci giorni, e nella giornata del 17 ottobre essa faceva il suo trionfale ingresso sulla laguna. In segno di suprema allegrezza, Onfredo Giustinian aveva stabilito di fare sparare tutta l'artiglieria e che gli strumenti musicali di bordo sonassero a festa. A poppa, nella scia luminosa che la nave lasciava dietro di sè, bandiere nemiche e spoglie turchesche venivano trascinate trionfalmente. All'annunzio festoso, tutta Venezia corse sulla riva degli Schiavoni per acclamare i soldati che tornavano vittoriosi dalla guerra. La Signoria scese immediatamente alla Basilica d'oro dov'era custodito il corpo di san Marco per intonare le preghiere di ringraziamento. E mentre tutto intorno risonavano liete grida, i mercanti turchi si rifugiavano nei loro fondachi e vi si chiudevano, spaventati e silenziosi. Come doveva sanguinare il loro cuore al pensiero della sconfitta subita dalla loro patria! I fondachi delle altre nazioni, invece, s'illuminarono a festa; le botteghe si chiusero immediatamente, e sulle porte di molte venne scritto col gesso: «Chiuso per la morte dei Turchi.» I portici di Rialto, sotto i quali erano i magazzini dei drappieri, sembravano trasformati d'un colpo, tanti erano i panni d'oro, turchini, e scarlatti che si agitavano dolcemente alla brezza autunnale. In mezzo a quel variopinto splendore sorridevano i preziosi dipinti di Giambellino, di Raffaello, di Giorgione, di Michelangiolo, di Tiziano, del Pordenone.... A piè del ponte venne subito eretto un grande arco di trionfo. Da tutte le finestre sventolavano bandiere e tappeti, mentre le campane delle chiese sonavano a distesa. Sulla riva degli Schiavoni, confuse fra tanto clamore, nonna Bettina, Lucrezia Sagredo e Loredana guardavano, commosse e ansiose. Avrebbero voluto essere in mezzo ai patrizi e ai popolani che si affollavano festanti intorno ai soldati, per chiedere notizie dei loro cari. Dov'erano Zuambattista e Alvise Benedetti? La grande battaglia li aveva lasciati illesi? Dubbio tremendo! Ma per quel giorno dovettero tornarsene a casa senza riuscire a saper nulla. La mattina dopo il Doge ordinò che fossero celebrate esequie solenni nella basilica di San Marco per i morti nella battaglia. Decretò poi il giorno della vittoria sacro a santa Giustina; fece coniare una moneta in onore della santa e stabilì che ogni anno il Doge, con la Signoria, dovesse recarsi in gran pompa al tempio a lei dedicato. Onfredo Giustinian, che a tappe forzate era venuto a portare a Venezia la notizia della luminosa vittoria, venne dal Doge fatto cavaliere di san Marco. La Signoria ordinò che le feste fossero prolungate per tre giorni a conclusione di quel trionfo che riconfermava la Serenissima grande per ricchezza di commercio, per prosperità interna e per operosità infaticabile, e ne faceva la prima potenza marinara d'Europa. Terminata la funzione religiosa, Loredana, dopo aver lasciato la mamma in custodia a nonna Bettina, s'incamminò verso il molo dove era andata ad ancorarsi la galea Angelo Gabriele. Una grande ansia le si leggeva sul viso che la notte insonne aveva impallidito. .... tutta Venezia corse sulla riva degli Schiavoni.... Camminava assorta, in quell'atmosfera mattutina incredibilmente pura. Il paesaggio era quasi invernale. Degli splendidi colori dell'autunno non restava che quello purpureo della vite vergine. Non era ancora il pieno, assoluto squallore dell'inverno, ma lo annunziava, e questo metteva nel paesaggio una sfumatura malinconica. Sul molo ferveva la vita. Un leggero fumo violaceo usciva di sotto la cappa delle grandi vele inerti dei bragozzi chioggiotti. Gruppi allegri di pescatori erano raccolti intorno a quelle cucine improvvisate, dalle quali veniva odore di polenta e di pesce. Al largo, vele bianche e arancione si delineavano sullo sfondo azzurro del cielo, e le sagome degli scafi coprivano l'orizzonte basso. Loredana diresse i suoi passi verso un crocchio di marinari che. stavano chiacchierando animatamente. Uno di questi apparteneva appunto alla galea Angelo Gabriele, e all'ansiosa domanda della fanciulla rispose subito, senza esitare: - La Santa Cattarina è naufragata nel nubifragio del sei agosto. - Pochissimi avevano saputo il ritorno quasi miracoloso di Alvise e che l'intrepido giovane comandava la galea predata ai Turchi. Un pallore di morte si diffuse sui lineamenti della fanciulla, che con voce tremante interrogò: - E l'equipaggio? - È perito. Il mare era così brutto che non ci è stato possibile salvare nessuno. - Loredana si appoggiò a un grosso palo al quale venivano attorcigliate le gomene dei bragozzi chioggiotti. Le pareva che tutto girasse intorno a lei. E quel vortice pauroso la trascinava lontano lontano, in un mondo sconosciuto. Tutto era sconvolto, e tutto, nello stesso tempo, finiva. Quello smarrimento durò poco. Ella si riebbe; ma le restava un groppo alla gola e in bocca un sapore salato di lacrime. Gli occhi dei marinari e dei pescatori erano tutti rivolti verso di lei, pietosamente. - Ma voi chi siete? - le chiese il marinaro dell'Angelo Gabriele con voce rattristata. Perché mai aveva dato la notizia, senza sapere chi fosse la sua interlocutrice? Questo egli non se lo sarebbe mai perdonato. Era così bella e fragile quella giovinetta! - Zuambattista Benedetti era per me quasi un padre, e suo figlio Alvise, un fratello. - Gli sguardi pietosi di quegli uomini rudi seguirono i passi della fanciulla che se ne andava piangendo. Camminava sull'orlo della riva, chiusa a qualsiasi sensazione esteriore. La mattinata era fredda. Nel cielo si erano formate ora delle nuvolette; la laguna sembrava inerte, stesa in una fiacca un po' torbida; ma su tutte le cose il sole metteva il suo fulgido sorriso. con voce tremante.... Loredana si strappò al suo triste raccoglimento sulla porta della casetta di nonna Bettina. Si fermò qualche istante per ricomporsi e non lasciar trapelare alle due care donne la triste verità. Era ancora giovane, ma comprendeva che doveva affrontare virilmente il dolore da sola. In quel momento e in quello stato d'animo si sentì parte di un tutto più grande di lei e meno effimero del presente. Bussò. Le sue labbra erano dischiuse a un povero sorriso. Nonna Bettina aprì, ma le bastò vedere quel viso per intuire ogni cosa. Non parlò. Richiuse piano piano la porta, come se sigillasse l'apertura di un sepolcro dove fosse deposto tutto ciò che di buono e di caro la teneva ancora legata al mondo. Poi appoggiò le mani sulle spalle della fanciulla e disse in un sussurro: - Non ho più che te, Lori. Non mi lascerai, vero? - Mai, nonna Bettina! - rispose Loredana, incapace ormai di fingere; e lacrime benefiche rigarono il suo visino sconvolto.

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La notizia della scomparsa di Zuambattista Benedetti e del figlio Alvise l'aveva gettata in un'apatia dalla quale era riuscita a stento a strapparsi pensando alla mancanza dei mezzi di sostentamento per sè e per le due donne che ormai erano affidate del tutto a lei. Nessuna delle due avrebbe potuto lavorare, giacché Bettina era troppo avanti negli anni, e l'altra era cieca. Cedendo al desiderio di nonna Bettina, Loredana e sua madre avevano lasciato la loro squallida soffitta e avevano trasportato le loro suppellettili nella casetta del campielo di cà Foscari. Colà tutto era più comodo; ma quando Loredana usciva nel breve orticello, il cuore le dava un tuffo doloroso; perché laggiù, oltre il rio, c'era l'altro orticello.... non più suo! Non avrebbe più giocato sotto l'ombra delle acacie, a fianco del babbo e della mamma! Mai più Lorenzo Sagredo sarebbe tornato! Colui che era partito per ricondurglielo giaceva per sempre sotto le onde turchine del Mediterraneo. Sorrideva forse ancora, nelle notti di bonaccia inargentate dalla luna, alla sorellina che con tanto amore lo sostituiva presso la sua cara nonna? Ella si proponeva di non abbandonarla mai, quella vecchia, fin che la poveretta non avesse chiuso i buoni occhi stanchi di lacrime per aprirli soavemente alla vita eterna. Delle tre donne che vivevano nella casetta di Zuambattista Benedetti, Lucrezia Sagredo era, nella sua infelicità, la più lieta, perchè la magica speranza la sosteneva ancora, avendo di comune accordo, nonna Bettina e Loredana, deciso di tacerle la loro sciagura e di lasciarle credere che Alvise sarebbe presto tornato in compagnia di Lorenzo Sagredo. La cieca soleva dire sovente: - Sebastiano Veniero ha liberato diecimila prigionieri delle galee turche; Alvise libererà il mio povero prigioniero dalla dorata dimora di Alì pascià. - E poi, quanti castelli in aria ella costruiva su quel sospirato ritorno che il suo cuore invocava di continuo! Il maestrale seguitava a soffiare impetuoso dal mare aperto, aggrovigliava i lucenti fili della pioggia, e all'imbocco delle calli investiva la giovinetta pensosa che se ne andava a capo chino, stretta nel suo logoro mantello. Ella pensava ora a messer Antonio, e il buio fondaco del vecchio le appariva in quegli istanti come l'antro dorato di un mago buono. Giunta finalmente nella nota viuzza, trovò la porta del fondaco spalancata. Ne varcò rapida la soglia, ma poi si fermò, stupita: il magazzino era vuoto, e le pareti umide mostravano tutte le loro screpolature. Loredana si guardò intorno, quasi a interrogare angosciosamente quel muto squallore. Finalmente si riscosse e uscì. Poco lungi vi era la bottega di un cordaio; vi si diresse. - Scusate, dove è andato messer Antonio? - chiese all'uomo intento al suo lavoro. L'artigiano levò lo sguardo dalla gomena che stava intrecciando e lo fissò per qualche attimo ....levò lo sguardo dalla gomena.... sulla fanciulla. Pareva che non avesse capito la domanda. Loredana la ripetè. Egli fece un gesto con la mano, che sembrava voler dire: «Eh, chi lo sa?», oppure: «Lontano, lontano assai». - E quando ritornerà? - chiese la fanciulla. - Cara la, mia giovane, da un certo luogo non si ritorna mai più. - Parve alla fanciulla che la voce di quell'uomo arrivasse a lei da lontano. Egli soggiunse: - È più di un mese che il povero messer Antonio ci ha lasciati. Morì all'improvviso. I suoi nipoti si precipitarono come le cavallette sul fondaco e lo vuotarono. - Tutto quello ch'egli sapeva lo aveva detto. Si rimise al lavoro. Tutto era silenzio. Non si udiva che il lievissimo fruscio della gomena che veniva intrecciata. Loredana osservò puerilmente che le mani dell'uomo erano scarne, dure, polverose come la canapa che egli stava lavorando; sembravano anche esse di fibra vegetale, risecchita e macerata. «Ora bisogna ch'io vada,» pensava frattanto; ma non riusciva a muoversi. L'uomo, sorpreso, la guardò di nuovo. Che cosa voleva ancora, quella giovane? Non le aveva forse già detto tutto? Credeva forse che egli potesse far ritornare messer Antonio dal misterioso e sconfinato mondo delle ombre? - Grazie e buona salute, - disse infine rapidamente Loredana e uscì. Il crepuscolo grigio e uggioso l'avvolse. Dietro l'esile figura non rimase che un impalpabile velo di nebbia. Sotto la pioggia che non cessava, la fanciulla riprese il cammino del ritorno. Il quadretto ch'ella aveva sotto il braccio le pareva diventato di piombo. Ricordava ora i giorni trascorsi con il babbo sui monti della val Pusteria, verde e assolata. Le cime nevose delle Alpi, i torrenti che percorrevano le strette valli, le strade di pietra spazzate dal vento, le case dei montanari, con le imposte di legno a riparo del lungo gelo invernale, il fumo che usciva a tarda sera dai comignoli, le voci ignote che parlavano un dialetto aspro; tutte queste immagini si succedevano nel suo ricordo e l'immaginazione le rendeva ancora più attraenti. Quei magici ricordi avevano intanto spazzato via tutto il grigiore che c'era nell'aria e alleggerito la tristezza che le pesava sul cuore. Camminava ora, sollevata e gioconda, e non le pareva di stringere sotto il mantello il suo inutile lavoro, bensì il braccio del babbo amatissimo, del babbo che pure non sarebbe ritornato mai più! Nella straducola che costeggiava a tergo il palazzo Pisani Moretta si ergeva una modesta casa con un portico basso e annerito dalle intemperie. Sulla soglia di pietra stava seduto il sonatore girovago detto Màuria, tenendo stretto a sè il suo cane ispido. Una combriccola di monellacci si divertiva a dileggiare il povero vecchio e a stuzzicare il cane, che ringhiava minaccioso. C'era sul viso del vagabondo un'espressione di sconfinata tristezza veramente commovente. Le sue giornate di pena, i malanni che lo affliggevano, la miseria ch'egli trascinava con sè per le strade fangose, per i cascinali, sotto la canicola o sotto il nevischio, si traducevano nelle sue rughe profonde e nel suo sguardo rassegnato. Ma chi può frenare i monelli quando vogliono divertirsi per eludere la noia delle giornate piovose? Il vagabondo rimaneva lì, muto, a guardarli. Non si sarebbe detto che sotto quei miseri panni palpitasse un fuoco interiore. Eppure quel poveretto, che aveva nella sua triste vita sperimentato la bontà e più ancora la cattiveria degli uomini, celava dentro di sè tanta ricchezza di luce, tanta profondità di cielo da far impallidire ogni esteriore miseria, ogni umana bruttura. Egli aveva fede in Dio, e tenendosi vicino a Colui che passò sulla terra soffrendo e beneficando, si era liberato dal desiderio delle cose umane, labili e caduche. Quando Loredana, camminando trasognata, arrivò presso la casetta dal portico, il chiasso vi regnava altissimo, giacchè i monelli gridavano tutti insieme a squarciagola. Improvvisamente il cane lupo, riuscito a liberarsi dalle tremule mani del vagabondo, si avventò feroce verso gl'inconsci carnefici. In quell'istante la confusione fu indescrivibile. Tutti fuggirono, spaventati. Un piccino, accecato dalla paura, sbagliò direzione e cadde nell'acqua del canale. .... precipitò anche lei nell'acqua. Al tonfo sordo Loredana alzò gli occhi proprio in tempo per vedere il corpicino che stava per sparire nell'acqua verdastra. Fu un attimo. Liberatasi dal mantello, si protese sulla riva per afferrare il ragazzo, ma perse l'equilibrio e precipitò anche lei nell'acqua. Un gelo terribile l'avvolse e le paralizzò i movimenti. Tuttavia non andò a fondo, ma riuscì a mantenersi a galla sull'acqua torbida. Il cane lupo, riconoscendo nella pericolante la sua piccola amica, le aveva afferrato con i forti denti un lembo della veste e lo teneva validamente. Intanto la gente era accorsa, e il bimbo e la fanciulla furono tratti in salvo. Da una finestra del suo palazzo, Teodora Pisani Moretta aveva assistito alla rapida e drammatica scena. Con quella pietà che sempre l'aveva distinta, si affrettò a scendere per portare soccorso ai disgraziati. Fu così che la porta dell'aristocratica casa si aprì all'infelice Loredana. Dietro di lei, portando il mantello e l'inutile quadretto, venivano il sonatore girovago e il suo ispido cane.

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- aveva soggiunto, riconoscendo nella fanciulla colei che le sorrideva fugacemente a ogni incontro. E la gioia le brillò nei grandi occhi scuri, che erano la bellezza di quel visino minuto. Rivolta poi alla cameriera le disse, indicando il senatore girovago: - Provvedi affinchè egli sia nutrito e rivestito. - Loredana e Teodora attraversarono l'atrio, dove in nicchie profonde si annidavano alcune statue di divinità pagane, quindi salirono lo scalone che conduceva al piano superiore. Loredana procedeva a stento, inceppata nei suoi panni bagnati, e dietro ai suoi passi restava una scia umida sugli ampi gradini marmorei. Era scossa da un tremito convulso, pallida in viso e con gli occhi infossati. Teodora la condusse nella sua stanza, l'aiutò a spogliarsi e le fece indossare una bella veste da camera; poi volle che si sdraiasse sopra il divano e l'avvolse in una coperta pesante. - Resta così, non ti muovere, - le disse, e uscì dalla stanza, per tornare poco dopo portando una tazza con un decotto ben caldo. - Prendi, cara; ti farà bene. - Loredana si riebbe presto. Non tremava più, e un leggero incarnato aveva sostituito il livido pallore delle sue guance. - Così va bene, - sussurrò Teodora guardandola soddisfatta. - Ti senti meglio, non è vero? - Loredana accennò di sì, incantata dalla soavità di quella voce giovanile. I rumori esterni giungevano attutiti dalle ricche tende delle finestre, e la luce del crepuscolo filtrava iridata dai vetri a rulli multicolori. - Come ti chiami, cara? - Loredana Sagredo. - Sagredo? Sei forse parente del pittore Lorenzo Sagredo? - È mio padre. - Figlia di quel bravo artista! Noi abbiamo in sala due bellissimi quadri di tuo padre. Te li farò vedere. Dimmi ora qualche cosa della tua vita. Ti vedo così.... - Da lungo tempo mio padre è prigioniero dei Turchi. - Ah! - Era partito per decorare la residenza del governatore di Famagosta. - E si è trovato all'assedio? - Sì; ma abbiamo saputo da un pellegrino di ritorno dalla Terra Santa che mio padre è sfuggito al massacro, e dopo essere stato imbarcato come schiavo sulle galee turche, è stato inviato a decorare la residenza di Alì pascià. - E tu, poverina, lo hai atteso tutto questo tempo invano? - Io, e la mamma, che è diventata cieca. Gli occhi di Teodora espressero una pietà profonda. Guardò a lungo la fanciulla sdraiata sul divano; poi, con voce dolcissima: - Vuoi raccontarmi, cara, qualcosa della vostra vita? - Loredana parlò. Tutte le miserie e le lacrime degli anni trascorsi, e anche tutte le sue speranze deluse, non esclusa l'ultima, naufragata insieme con la Santa Cattarina, riapparvero nel suo racconto. La nobile fanciulla l'ascoltava, assorta. Teodora Pisani Moretta aveva l'animo gentile e molto generoso. Dal padre aveva ereditato una bella intelligenza e una squisita sensibilità musicale. Fin da bambina era stata avviata allo studio della musica. A sei anni appena aveva messo le mani sul clavicembalo e doveva sonare sulla quinta, non potendo con le sue piccole dita arrivare all'ottava. Più grandicella, aveva iniziato anche lo studio del violino, di quell'armonioso strumento che nella sua casa aristocratica costituiva la delizia delle elette conversazioni. La musica era divenuta una delle più gradite occupazioni della sua infanzia e della sua adolescenza, e doveva restare il conforto incomparabile di tutta la sua vita. Il padre, che possedeva una vasta cultura, gli era stato maestro impareggiabile, e le ore più belle per il vecchio giureconsulto erano appunto quelle nelle quali la sua cara figliuola si chiudeva con lui nell'ampio e severo studio, le cui pareti erano coperte da scaffali colmi di rari volumi. S'intendevano tanto bene, quelle due anime gemelle! Padre e figlia rifuggivano dalle vane riunioni e dal chiasso volgare, e se non fosse stato per appagare la fiera marchesa Violante, loro rispettiva moglie e madre, non avrebbero mai preso parte ad alcuna festa, paghi com'erano dei loro godimenti interiori e dei loro amatissimi studi. Teodora aveva dovuto accettare la nomina di damigella d'onore della Dogaressa, e in questa sua qualità era obbligata a frequentare le sfolgoranti feste che si davano al Palazzo Ducale. Ma come godeva poi la quiete della sua casa e l'austera bellezza dei suoi studi! Mentre Loredana parlava, era entrata la cameriera portando il quadretto che il vecchio sonatore girovago aveva raccolto in riva al canale. Teodora lo guardò a lungo. - Volevo venderlo a messer Antonio, - le disse Loredana. - Come hai saputo render bene la malinconia dell'autunno! - È il giardinetto della mia vecchia casa. - E come hai potuto ritrarlo? - Confina con l'orto di nonna Bettina. - Era la tua casa quella che s'intravede fra i tronchi? - Sì. Nell'estate e fino al tardo autunno il fianco è tutto coperto di vite vergine. Laggiù c'erano le aiuole dove la mamma coltivava i suoi fiori. - La voce di Loredana era piena di rimpianto. - Bisognerà che tu mi lasci questo quadretto. Voglio farlo vedere ai nostri amici pittori. - E tu mi devi aiutare, Teodora. La mamma e nonna Bettina attendono tutto da me. - Non temere, cara. Con l'assistenza di mio padre potrai fare molto. - Mai vorrà occuparsi di noi? - chiese Loredana, pensando con un certo timore al severo uomo di Stato. ... mentre il pettine passava leggero.... - Tu non conosci il mio babbo e non sai quanto sia buono! - le rispose Teodora, mentre il suo pallido viso brillava di tenerezza. - Ora bisogna che vada a casa. Vedo che il buio si fa sempre più fitto, e la mamma e nonna Bettina staranno in pensiero per me. Ma come farò se i miei panni sono tutti bagnati? - Non ti preoccupare per questo. Sei poco più alta di me, e i miei vestiti dovrebbero starti abbastanza bene. - Ma non vorrei privartene. - Che dici mai! Ne ho tanti! Guarda, qui, - soggiunse, aprendo un armadio a intarsi e con le borchie dorate. - La mamma me ne fa sempre dei nuovi. - La sua voce aveva avuto una impercettibile inflessione ironica. Scelse un vestito di panno morello guarnito di martora, e lo fece indossare a Loredana. Poi condusse la fanciulla davanti allo specchio che occupava quasi una parete intera, e la fece sedere sopra una cassapanca dove stavano allineati parecchi oggetti da toeletta. - Voglio ravviarti i capelli. Come sono belli!... Sembrano oro filato! - le disse mentre il pettine passava leggero nella massa lucente che scendeva sulle spalle di Loredana. - Ecco! Ora smorziamo questo bagliore, - soggiunse, coprendo le morbide trecce con un cappuccio di panno morello come l'abito, e anche questo guarnito di martora. - Aspetta, che accenda la lucerna. Guarda: sembri una visione! - Un rumore di passi e un fruscìo di seriche gonne fece volgere il capo alle due fanciulle. La superba marchesa Violante era entrata. L'alta e snella persona procedeva eretta, e gli occhi, benchè grandi e belli, avevano un'espressione dura e imperiosa. - Che c'è, Teodora? - chiese, senza curarsi di Loredana, la quale, intimidita, se ne stava a capo chino, col viso in fiamme. Non era la prima volta che sua figlia le portava in casa delle pezzenti, e tutta la sua severità non era riuscita a guarirla di quella mania. - Mamma, la poverina era caduta nel canale mentre cercava di salvare un bambino.... È la figliuola del pittore Lorenzo Sagredo, - aggiunse in fretta, nell'intento di rabbonire la signora. Infatti, l'espressione del viso della marchesa Violante si raddolcì alquanto. Si avvicinò a Loredana e la considerò attentamente. Sembrò soddisfatta di quell'esame, perchè sulle sue labbra fiori un lieve sorriso. Teodora, trepidante, lo vide, e capì che la partita era vinta. Prese allora il quadretto, e porgendolo alla madre: - Guarda, mamma: anche lei è pittrice. Questo quadretto lo ha eseguito in questi giorni. Dovresti farlo vedere ai nostri amici. - La marchesa prese il piccolo dipinto e disse: - Ben volentieri. Adesso vi lascio. Questa giovinetta l'affido a te, Teodora. Sii la sua piccola amica.

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Dalle bifore leggiadre entrava il dolce sole invernale a illuminare il sontuoso salone di casa Pisani Moretta. Un tepore delizioso si diffondeva dall'ampio camino, dove sugli alari di ferro battuto ardevano grossi ceppi. Fuori, tutto era candore. La neve, caduta in abbondanza, copriva di un soffice strato i tetti delle case. Dai comignoli incappucciati dalla neve usciva un pennacchietto di fumo azzurrognolo che saliva verso il cielo opalino. I palazzi, che specchiavano le loro marmoree facciate sul Canal Grande, sembravano più belli con il gelido ricamo della neve che si era ammucchiata su ogni sporgenza. Teodora Pisani Moretta, seduta davanti al clavicembalo, le agili mani posate sulla tastiera, teneva il visino rivolto verso Loredana, e i suoi occhi stupendi erano fissi in un punto lontano come se inseguissero un suo sogno fuggente. Loredana, tutta vibrante di estro creativo, studiava l'espressione di quel viso per rendere più vivo ancora il ritratto dell'amica, già quasi finito. Sullo sfondo cupo del salone risaltava leggiadramente l'esile figura avvolta in un pesante abito di broccato color ciclamino. Ma era soprattutto sul viso spirituale e intorno agli occhi bellissimi che s'indugiava Loredana.. Di tanto in tanto ella si riposava, e allora Teodora eseguiva qualche pezzo di musica, ascoltata con passione dall'amica. Nella quiete del salone le note soavi facevano pensare ai mattini di primavera, allo stormire delle foglie degli alberi, ai richiami dei gondolieri sui canali e alle voci festose dei bimbi raccolti sui campieli nella gran luce dei giorni sereni. I gabbiani volavano sull'estuario si posavano mollemente sulle vele agitate dalla brezza, e l'olezzo dei fiori coltivati nei giardini si confondeva con l'odore di salmastro di cui erano imbevute le navi che venivano da terre lontane. L'immaginazione di Loredana correva allora a quelle contrade straniere dovè suo padre viveva, ormai abbandonato da tutti, senza più speranza di ritorno, e dove Alvise e Zuambattista Benedetti dormivano il loro ultimo sonno. Ella si era fatta coraggio per sua madre, che ignorava sempre la grande sciagura, e per nonna Bettina il cui viso diveniva ogni giorno più pallido e affilato. Ma che cosa ne sarebbe stato di lei se nel mesto cammino della vita non si fosse incontrata con Teodora? Eccola lì, davanti al clavicembalo l'amica delle ore tristi, intenta a suscitare, con il tocco delle agili mani immagini fluttuanti nello sconfinato mondo dei sogni! In un momento particolarmente doloroso Teodora l'aveva presa per mano e l'aveva sollevata dal baratro di disperazione nel quale minacciava di perdersi. Era stata l'angiolo mandatole in aiuto dal buon Dio. Le note del clavicembalo sfarfallavano soavemente .... Teodora eseguiva qualche pezzo di musica.... nel tepore del salone patrizio, ma Loredana era lungi di lì con la mente. Si rivedeva, accompagnata da Teodora, varcare la soglia dello studio di Jacopo Robusti, detto il Tintoretto, che doveva diventare la sua guida e il suo maestro lungo il difficile cammino dell'arte. Quanta trepidazione nel suo cuore, in quei primi istanti! Poi la casa del pittore, a San Marcilian, presso il campo di Santa Fosca, era diventata il centro di attrazione per Loredana. E non soltanto per l'affetto che le dimostrava il Tintoretto, arrivato allora alla piena maturità della vita e dell'arte, ma anche per la presenza della figlia di lui, una fanciulla undicenne, bionda e rosea, vivace e birichina, dal cuore d'oro e dall'intelligenza sveglia. Marietta Robusti era la prediletta del grandissimo pittore che, instancabile, andava arricchendo di capolavori immortali la sua città nativa. Fino a qualche mese prima egli aveva fatto indossare alla figliuola abiti maschili, per essere accompagnato da lei nelle sue peregrinazioni attraverso la città, dovunque lo chiamavano incessanti impegni professionali, persino sulle impalcature e sugli assiti, nei palazzi pubblici e nelle chiese. E codesto travestimento, dal quale erano derivati talvolta degli equivoci spassosi, aveva contribuito a sviluppare in Marietta un certo spirito di iniziativa e molta disinvoltura nei modi; fin che il suo precoce orientamento verso l'arte stessa del padre e verso la seduzione del canto e del clavicembalo ne aveva ingentilito il carattere e il contegno. Allora il buon Jacopo, in pieno accordo con la moglie Faustina, aveva lasciato libero corso ai diritti della femminilità sul guardaroba e sulle acconciature della sua cara figliuola. A interrompere la quiete delle due artiste entrarono improvvisamente Mariolina Corner Contarini e Ludovica Vendramin Calergi, amiche di Teodora. - Che cosa state facendo, rinchiuse come due bruchi nel bozzolo, mentre fuori splende il sole e il carnevale invita alla gioia? - chiese con voce squillante Mariolina, una fanciulla quindicenne, biondissima e vivacissima. Ludovica Vendramin Calergi si era fermata davanti al ritratto di Teodora. - Come ti somiglia! - esclamò con la sua voce un po' strascicata. (Al contrario di Mariolina, essa aveva un carattere pacato e riflessivo, forse un tantino indolente.) - Voglio dire al babbo che desidero anch'io un ritratto eseguito da Loredana Sagredo, - prosegui, continuando ad ammirare l'opera d'arte che le stava di fronte. - Anch'io, anch'io! Loredana, domani verrai a casa mia e cominceremo subito le sedute, - squillò Mariolina con il suo facile entusiasmo e sicura di essere contentata dai genitori. In virtù del suo temperamento allegro, pieno di comunicativa, e anche perchè era la maggiore di una turbolenta schiera di maschietti, otteneva invariabilmente tutto quello che voleva. - Ma tu mi rubi sempre le idee! - esclamò la Vendramin Calergi, alquanto risentita. - Via, non t'inquietare, cara Ludovica! Non ho certo l'intenzione di accaparrarmi la nostra brava Loredana per tutta la vita. - Capisco! Ma intanto io debbo venire sempre dopo di te! - Non ti ammalerai per questo, stanne sicura! - Calma, calma, amiche mie! - disse a questo punto Teodora. Doveva intervenire spesso nelle dispute delle due fanciulle così diverse nel fisico e nel morale. - Mi pare che sia già l'ora della regata. Vogliamo uscire sul balcone per assistere allo spettacolo? - soggiunse poi, per allontanare definitivamente le nubi che minacciavano di addensarsi. La proposta venne accolta con entusiasmo e le quattro fanciulle, incappucciate ben bene per preservarsi dai rigori del gelo, aprirono la porta ogivale e uscirono sul balcone da dove lo sguardo spaziava sul Canal Grande. Le regate, promosse e incoraggiate dal Governo affinchè la gioventù si rafforzasse con l'esercizio fisico e potesse fornire buoni vogatori alle sue flotte, erano antiche quanto Venezia. Costretto a vivere sulle acque, il popolo veneto comprese fin da principio che saper remare era per lui una necessità di vita, e vi prese parte con grande entusiasmo. Questa gara atletica, chiamata la regata, posta in onore da Venezia e diffusa poi in tutto il mondo, costituiva uno spettacolo grandioso, molto ammirato anche dagli illustri ospiti di passaggio nella Repubblica di San Marco. Le barche che dovevano parteciparvi erano raccolte e allineate alla Motta di Sant'Antonio; di lì partivano, e dopo aver percorso il bacino di San Marco e tutto il Canal Grande, giungevano a Santa Chiara. A questo punto, giravano intorno a un palo confitto nel mezzo del canale, rifacevano il percorso fino a San Donà, dove trovavano il traguardo; una tribuna galleggiante lussuosamente addobbata. Lì avveniva la premiazione. I premi consistevano sempre in somme di denaro che venivano date ai vincitori, chiuse in borse di cuoio. Il primo arrivato riceveva inoltre una bandiera rossa; il secondo, verde; il terzo, azzurra, e il quarto, gialla. Su quest'ultima era dipinto nel mezzo un bel porcellino: effigie dell'animale vivo offerto a colui che l'aveva meritato. Allorchè le quattro giovinette posero piede sul balcone di casa Pisani Moretta, nei palazzi sul Canal Grande, sulle rive e sulle innumerevoli imbarcazioni addossate ad esse, si era ammassata una folla enorme per assistere allo spettacolo. Già le bissone, le margarote e le balotine, come venivano chiamate le barche della polizia. che aveva il compito di tenere sgombro lo specchio d'acqua necessario alla gara, si cominciavano ad addob bare per rendere più bello lo spettacolo. Poi, riunite in corteo, prima che la gara tradizionale avesse inizio, si avviarono per scortare il Doge e la Signoria verso la tribuna galleggiante dove le Autorità si sarebbero accomodate per assistere allo spettacolo. Il freddo era intenso, ma il sole splendeva luminoso, e sotto la sua carezzai i ghiaccioli si scioglievano in tante minute goccioline che cadendo nelle acque dei canali producevano un sussurro orchestrale. Teodora Pisani Moretta lo ascoltava, rapita, mentre Loredana Sagredo s'inebriava dei colori smaglianti sventagliati sotto il cielo d'opale.

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Ma Loredana era più che altro spinta dal desiderio di procurare il massimo benessere alla mamma e a nonna Bettina. Per questo lavorava con ardore e mai sentiva stanchezza nè desiderio di condurre una vita comoda e spensierata come le altre fanciulle della sua età. Due care donne attendevano tutto da lei, pur così giovane ancora, ed ella si sentiva fiera del compito che il destino le aveva assegnato. L'esistenza offriva anche a lei intime dolcezze. L'amore della mamma e di nonna Bettina, la schietta amicizia di Teodora Pisani Moretta, l'affetto un po' rude, ma sincero del Tintoretto e quello di Marietta, la sua figliuola, le erano di grande conforto. La sua volontà di superarsi veniva ogni giorno più rafforzata da questi affetti, e se qualche volta la stanchezza e lo scoraggiamento la prendevano, pensava al babbo, prigioniero nella fastosa residenza di Alì pascià, ad Alvise, che prima di partire per sempre aveva avuto tanta fiducia in lei da affidarle la nonna, il caro tesoro che egli aveva lasciato per andare a difendere un tesoro più caro ancora: la propria fede. Mariolina Corner Contarini era addirittura entusiasta del ritratto che Loredana stava facendole. Infatti la giovanissima pittrice era riuscita a cogliere il carattere di quel visino felice: gli azzurri occhi vivaci, i biondi capelli, la fronte pura e la bocca atteggiata al sorriso emergevano dalla tela, vivi e parlanti. Pareva quasi che Loredana avesse voluto concentrare in quel lavoro la gioia della giovinezza che il destino non aveva voluto concedere a lei. Se l'indocile modella lo avesse permesso, avrebbe lavorato per ore e ore, senza stancarsi. Ma dopo essere stata per un poco immobile, Mariolina scattava in piedi e trascinava con sè Loredana a qualche festa o ritrovo. - Vieni, andiamo in piazza San Marco a vedere la «Moresca», - le disse, l'ultimo giorno di carnevale. Le tolse di mano tavolozza e pennelli, e la condusse fuori con sè. La governante non osò opporsi a quella furia gioconda e seguì rassegnata le due fanciulle. Davanti all'ingresso nobile del palazzo, quello che dava sul Canal Grande, stazionavano le gondole di casa Corner Contarini. Mariolina fece cenno al gondoliere di accostarne una agli scalini di marmo levigati dall'acqua, e vi salì; seguita da Loredana e dalla governante. Subita la gondola filò, leggera e rapida, e si perse alla svolta del canale. Giunte in piazza San Marco, esse salirono nella sala dei Procuratori, e dalle finestre assisterono allo spettacolo che si svolgeva lì sotto. La Moresca era un ballo guerriero, un simbolico combattimento corpo a corpo, raffigurato con passi ritmici e con colpi regolari di grandi daghe inoffensive e di scimitarre brevi e piatte, chiamate «mele corte». Era una danza di origine ellenica che quel popolo .... la gondola filò, leggera e rapida.... chiamava «danza pirrica». I Mori o Saraceni l'avevano poi imitata e introdotta sulla laguna; donde il nome di «Moresca» datole dai Veneziani. Quando Mariolina e Loredana si affacciarono alla finestra, il ballo era appena iniziato. Al suono di un tamburo le due ali contendenti avevano incominciato ad avanzare l'una verso l'altra, lentissimamente. Poi il loro passo si accelerò sempre di più, i movimenti delle mani, che impugnavano le armi, divennero più rapidi, finchè i combattenti, invasi da furore bellico, cominciarono a girare vertiginosamente, in mezzo allo strepito delle daghe e delle scimitarre cozzanti tra loro. Allorchè quel furore bellico si esaurì, i combattenti si ritirarono e subentrarono le due fazioni dei Castellani e dei Nicolotti: berretto e fusciacca rossi, la prima; berretto e fusciacca neri, la seconda. I Castellani traevano il loro nome dall'antichissimo sestiere di Castello, sede e titolo del vescovo di Venezia. Essi davano all'arsenale le migliori maestranze e avevano il privilegio di vogare il Bucintoro, la barca trionfale del Doge. I Nicolotti prendevano il loro nome dalla parrocchia di San Nicolò e godevano di un altro privilegio: quello di avere il proprio Doge nel Castaldo della loro comunità di pescatori. Codesto Castaldo seguiva con una barchetta il Bucintoro allo Sposalizio del Mare, e poichè vogava egli stesso, aiutato da altri Nicolotti, questi dicevano orgogliosamente ai Castellani: «Ti voghi el Doxe, ma mi vogo col Doxe». Quel giorno le due fazioni si cimentarono in un giuoco atletico chiamato «Le forze d'Ercole»: un esercizio di vigoria e di equilibrio. Poste alcune botti nel centro della piazza, venne steso su quelle un tavolato. Parecchi uomini vi salirono, e collegati tra loro mediante regoli tenuti sulle spalle, formarono la base di un edificio umano. Sopra a questi regoli, e per conseguenza sopra alle spalle di coloro che li reggevano, salirono altri uomini; sopra questi, altri ancora. E così via di seguito, fino a raggiungere il settimo piano. Al vertice di questa piramide vivente sali il «cimierato», cioè un fanciullo che faceva querciola sul capo di un uomo a lui sottostante. Un nutrito applauso partì dalla folla, che si assiepava ai margini della, piazza, e dai nobili che occupavano le finestre delle Procuratie Vecchie e Nuove. Stimolati dall'applauso, i Castellani e i Nicolotti fecero a gara nell'esibire altri esercizi più difficili e arditi. Finiti i giuochi, Mariolina e Loredana tornarono alla gondola, che le attendeva tra centinaia di altre nel bacino di San Marco, e risalirono lentamente il Canal Grande. Il sole al tramonto gettava raggi rossastri sulle facciate dei palazzi adorne di tappeti e di pennoni variopinti. Ogni cosa sembrava incendiata da quella luce di fiamme. Anche la neve rimasta sui cornidoni e sulle sporgenze aveva riflessi rossi. Pareva che innumerevoli fate si fossero divertite a gettare sull'acqua una profusione di rubini, perle e smeraldi. Loredana fu còlta da una certa malinconia. Desiderava tornare a casa, presso le sue care che aveva lasciate da varie ore. - Mariolina, vorresti dire al gondoliere che accosti all'imbocco del rio Foscari? - Gli occhi azzurri della spensierata figlia dei conti Corner Contarini si fissarono stupiti su Loredana. - Vuoi forse tornare a casa? - Sì, Mariolina. - Eppure abbiamo ancora tante cose da ammirare! - Lo so, ma io desidero rivedere la mamma. Eppoi, sono piuttosto stanca, - soggiunse subito, per prevenire altre obiezioni dell'amica. - Quand'è così, - disse Mariolina cedendo a malincuore - devo contentarti. - E salutata Loredana, che ormai era giunta alla mèta, diede ordine al gondoliere di proseguire verso il palazzo Vendramin Calergi, per recarsi da Ludovica. Voleva godersi fino all'ultimo quelle ore di allegria effimera, quelle pazze ore carnevalesche che già avevano l'amaro sapore delle Ceneri.

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Tutte le mattine, quel rumore, simile a una lunga e dolce musica umana, accompagnava il destarsi di Loredana. Ella indugiava qualche minuto tra il tepore delle coltri e, nella luce incerta e nel silenzio dell'ora mattutina, le pareva di rivivere il tempo trascorso dell'infanzia. Quella strana sensazione di giorni lontani, forse mai vissuti, e quel ticchettio di passi, che aveva destato tante creature, cullavano il dormiveglia e l'avvertivano, chissà come, attraverso gli sportelli della finestra, compatti come quelli delle case di campagna, se le strade erano asciutte o bagnate. Si scosse dalla sottile inerzia, che la teneva legata al morbido giaciglio, e si alzò. La cameretta• che ella occupava e che era stata un giorno quella di Alvise era in angolo e aveva due finestre. Loredana apri quella che dava sul rio, a poca distanza dall'acqua. Questa scorreva pigra e torbida, trascinando in un lento viaggio detriti d'ogni genere. Più in là, si scorgeva la calle con il selciato sconnesso e le porte e le finestre delle case ancora chiuse. La fanciulla guardò in alto per vedere che tempo faceva. Il cielo era chiaro, benchè leggermente velato: tempo di primavera, dunque, tempo buono ma instabile. Di là dal rio arrivava il canto degli uccelli, e dalla casa di fronte la nenia di una donna che forse cullava un bambino. Gli alberi e le siepi degli orti cominciavano a fiorire e già da qualche balcone scendevano i grappoli azzurri del glicine. Loredana beveva a grandi sorsi l'aria mattutina, così leggera e pura, e il suo spirito pareva sollevarsi nell'atmosfera cristallina, liberato da ogni peso e da ogni affanno. In quel momento si sentiva più libera della rondine che solcava il cielo come una freccia. L'abbaiare di un cane la riportò alla realtà della vita quotidiana. Finì di vestirsi rapidamente e uscì dalla porta che dava sull'orto. Il cane le fu attorno, festoso. - Già alzato, Màuria? - chiese al vecchio intento a sarchiare le aiuole. - Buono, buono, Lupetto! - gridò al cane che minacciava di farla cadere con la sua travolgente festosità. La bestia, ubbidiente, chinò il capo irsuto e si accucciò ai piedi della giovane; il Màuria salutò la fanciulla, continuando a lavorare con lena. Com'era cambiato il buon vecchio! Chi avrebbe riconosciuto in quell'uomo dallo sguardo calmo e sereno, dal vestito lindo e rassettato, il relitto umano che alcuni mesi prima aveva per tetto il cielo e per dimora la strada? Loredana lo aveva accolto nella modesta casa del rio Foscari ispirandosi alle parole del Salvatore: «Ciò che avrete fatto a uno di questi miei minimi fratelli, lo avrete fatto a me». B G 7 - 6 Il vagabondo, che non avrebbe potuto sopportare l'angosciosa miseria dei giorni passati se la sua anima cristiana non si fosse sentita unita con Dio, aveva accolto la carità della fanciulla come un prezioso dono. Il Signore gli aveva mandato fino allora dolori e tribolazioni; il Signore gli mandava ora pace e serenità. Egli accettava tutto con la sua fede incrollabile che in tutto gli faceva riconoscere la volontà di Dio. Grazia divina concessa a poche anime elette. Loredana guardava il vecchio tutto intento al suo paziente lavoro, e si sentiva piena di gratitudine per quel povero che col suo contegno le aveva insegnato tante cose. Loredana gli aveva offerto, sì, un tetto e il pane quotidiano, ma egli le aveva dato l'esempio del coraggio nelle avversità, dell'incrollabile fede in Dio e della speranza nella Sua misericordia. - Lori. - La fanciulla si volse. Sulla soglia della casetta era comparsa nonna Bettina. Nella chiara luce del mattino il viso della donna, sotto i veli neri che le coprivano i capelli candidi, sembrava più pallida e dimagrita, ma nei suoi occhi, stanchi di versare lacrime, si leggeva la stessa luce di rassegnazione e di pace che rifulgeva in quelli del Màuria. - Siamo tutti mattinieri, oggi! - disse scherzosamente Loredana, mentre abbracciava la cara vecchietta. Entrarono insieme nella camera dove Lucrezia Sagredo dormiva in un lettino accanto a quello di nonna Bettina. Ormai la povera cieca era affidata del tutto alle cure della nonna, perchè Loredana non aveva più un momento libero a cagione dei suoi impegni di lavoro. Ma con il frutto di questo poteva provvedere al benessere delle due donne. Il Màuria disimpegnava le faccende domestiche e coltivava .... era comparsa nonna Bettina. l'orto, che ora all'avvicinarsi della primavera già cominciava a rinverdire. - Esci subito, Lori? - Sì, mamma. Devo andare con il maestro a collocare nella libreria di San Marco le nove figure di filosofi che egli ha finito di eseguire in questi giorni. - Quanto lavora, quell'uomo! - È infaticabile! Pensa che ha già l'incarico di dipingere una Deposizione per la lunetta del cortile nelle Procuratie Nuove. - Ebbene, vai, figliuola, e che Dio ti accompagni. - Loredana s'incamminò verso la casa del Tintoretto. Quando doveva trovarsi con il suo maestro e con la bionda Marietta era sempre molto contenta; ma quella mattina si sentiva anche più serena del solito. Nello studio di San Marcilian una sorpresa l'attendeva. Il Tintoretto stava chiacchierando con un signore dall'aspetto imponente e dai capelli e dalla barba candidi. Marietta, in piedi accanto al padre, guardava con ingenua ammirazione il nuovo venuto. Intimidita, Loredana fece l'atto di ritirarsi; ma Marietta l'aveva scorta e già le correva incontro esclamando: - Vieni a vedere il vincitore di Lepanto. - Sebastiano Veniero volse verso Loredana le imperiose pupille; ma il suo sguardo si raddolcì subito vedendo quella bella e timida fanciulla che si inchinava con profondo rispetto. - È Loredana Sagredo, la mia allieva, - disse il Tintoretto, presentandola. - Sagredo? - mormorò Sebastiano Veniero che corrugò le sopracciglia come se volesse richiamare alla mente qualcuno. - Chi mi ha parlato di lui? - È la figlia del pittore Lorenzo Sagredo, fatto prigioniero dai Turchi a Famagosta, - aggiunse il Tintoretto. - Ah, ora ricordo! - mormorò l'ammiraglio veneto, sorridendo al pensiero di Alvise che aveva lasciato nel porto di Petala in procinto di salpare con la Santa Cattarina per la Turchia onde liberare Lorenzo Sagredo: conduceva con sè un figlio Il Tintoretto stava chiacchierando con un signore.... di Ali pascià, prigioniero di guerra, che rappresentava il prezzo del riscatto. - Vedrai, piccina, che prima dell'estate tuo padre sarà di ritorno. - Possibile? - chiese Loredana scotendo tristemente il capo. - Alvise Benedetti mi aveva promesso di ricondurlo; ma è morto. - Alvise Benedetti vive e manterrà la sua promessa, - disse Sebastiano Veniero dolcemente. Gli occhi di Loredana si fissarono, increduli, sul viso del vecchio ammiraglio, e due lacrime scesero lungo le sue guance. - Non piangere! - le disse commosso il Veniero accarezzandole i bei capelli lucenti. La fanciulla gli prese le mani e, non potendo parlare, gliele baciò devotamente. Marietta invece, incapace di tenere più a lungo la lingua a freno, esclamò, abbracciando l'amica: - Come sono contenta, Loredana!... Se ieri il babbo non avesse avuto l'incarico di fare il ritratto del nostro grande ammiraglio, oggi non lo avresti trovato qui e tu ignoreresti ancora la felicità che ti aspetta. -

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E sotto la vampa del sole di giugno l'ombra della casa si mescolava a quella violacea dei rami frondosi. Loredana andava senza posa dalla casa al verziere, da questo alla casa, e Lupetto la seguiva, instancabile e silenzioso. Capiva, la bestia, tutta l'angoscia della fanciulla? Al rezzo delle acacie sedeva nonna Bettina, e, di tanto in tanto, scambiava qualche frase con il Màuria, intento a rassettare le aiuole. - Lori, siedi qui'accanto a me, ora; devi essere molto stanca, bambina mia! - Loredana obbedì e sedette accanto alla nonna sul rustico sedile di pietra, come soleva fare un tempo con il suo caro babbo. Il silenzio meridiano era soavissimo intorno a loro. A Loredana pareva ancora un sogno il fatto di aver potuto ricomprare la casetta che l'aveva veduta nascere. Le era stato difficile, ma vi era riuscita. Quelli che la occupavano non volevano assolutamente cederla, sordi a qualsiasi preghiera. Ma alfine si erano decisi, per l'intervento del padre di Teodora, il quale, da uomo pratico, aveva raddoppiato a sue spese il prezzo di acquisto. E così la casetta sul rio di cà Foscari, con i suoi dolci ricordi, era tornata a Loredana. Dopo questa prima soddisfazione, la giovinetta aveva rintracciato i nipoti del defunto messer Antonio e, aiutata da loro, era riuscita a ricuperare buona parte dei mobili che aveva venduti nei giorni di miseria. Aveva così ricostruito il vecchio nido degli anni felici; ma vi mancavano ancora i suoi abitanti. Sebastiano Veniero si era interessato di Lucrezia Sagredo e l'aveva fatta condurre presso un grande dottore dell'Università patavina nella speranza di farle ricuperare la vista. Con quanta ansietà Loredana aveva atteso il responso dell'illustre medico! Dopo attento esame, questi aveva dichiarato che la diagnosi era molto difficile. Poteva trattarsi di una lesione al nervo ottico, e, in tal caso, nulla da fare; se si fosse trattato invece di altre cause, per il momento non precisate, sussisteva qualche speranza. - Tenteremo! - concluse il dotto. - Io resterò con lei, - aveva mormorato Loredana. - No, no, bambina. Tua madre ha bisogno di quiete. Durante la cura, che probabilmente durerà qualche settimana, dovrà rimanere sdraiata e al buio, poichè la minima commozione potrebbe riuscirle fatale. Tu tornerai a Venezia e l'aspetterai, sicura che tenteremo tutto il possibile. - Loredana era ritornata da nonna Bettina. In quei giorni aveva lavorato con disperata energia. Voleva che la mamma trovasse tutto pronto al suo ritorno; ma più che altro voleva sottrarsi all'angoscia che la divorava. - Nonna Bettina.... - Lori. - Come starà la mamma? - Speriamo bene, bambina mia! - Credi anche tu che Nostra Signora della Vittoria farà il miracolo? - La devozione in onore della Vergine sotto il nome di Nostra Signora della Vittoria era stata istituita il 7 ottobre da Pio V per ricordare impresa di Lepanto, e il Pontefice aveva aggiunto alle litanie lauretane l'invocazione: Auxilium Christianorum. - E credi che il babbo e Alvise ritorneranno?... aveva soggiunto, prima ancora che la vecchia potesse parlare. Loredana si struggeva tra due incertezze: la salute della mamma e il ritorno del babbo. La primavera, quell'anno, era stata tutt'altro che benigna, e si sapeva che più di una bufera era scoppiata con violenza lungo l'Adriatico, fino ai mari di Levante. Alvise, giovane capitano, aveva saputo tener testa agli elementi scatenati, e la Santa Cattarina aveva resistito alla lunga prova? - Nonnina, nonnina mia, rispondi! - supplicò Loredana stringendosi convulsa al suo braccio. E la donna esperta della vita e del dolore avrebbe voluto dire alla giovinetta: «Chiediamo pure i due miracoli alla Regina delle Vittorie e sia la nostra preghiera fiduciosa e ardente; ma rassegnamoci fin d'ora alla volontà di Dio. Talvolta Egli vuole, col dolore, mettere a prova la nostra fede. Ma Lui solo sa ciò che è bene per la nostra anima. Accettiamo con umiltà tutto quello che la sua mano onnipotente ci offre, e benediciamolo sempre!». Cosi avrebbe voluto dire la nonna; ma in quegli istanti di smarrimento Loredana l'avrebbe compresa? Dolcemente la mano scarna e venata accarezzò le trecce fiammeggianti. - Credo anch'io, Lori, che Nostra Signora della Vittoria compirà il miracolo. - Preghiamola di nuovo, nonnina; diciamole ancora: Maria, Auxilium Christianorum, prega per noi.... - Maria, Auxilium Christianorum, prega per noi! - ripetè, docile, la nonna con voce tremante. Il Màuria aveva smesso di ripulire le aiuole, quasi temesse che il lieve cigolio delle forbici e del Si era seduto sul muricciolo del rio.... rastrello potesse turbare il pio raccoglimento della vecchia e della fanciulla. Si era seduto sul muricciolo del rio, e il suo inseparabile compagno era venuto ad accucciarsi ai suoi piedi. Egli accarezzò la testa irsuta del cane, che mugolò di gioia, poi si tolse il berretto e rimase con la testa canuta esposta al sole di giugno, gli occhi socchiusi rivolti in alto. Anch'egli pregava: pregava per la buona fanciulla che, sola, lo aveva teneramente soccorso, rendendogli dolci gli ultimi anni della sua triste vita.

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Una tremenda bufera li aveva còlti nel mare Egeo e a stento erano riusciti a entrare nel piccolo porto di un'isola dell'Arcipelago. Avevano atteso colà che la stagione si rimettesse al bello, e nel frattempo avevano provveduto a riparare le avarie subite dalla nave. In quell'occasione erano stati loro di grande aiuto gli otto corsari che Alvise era andato a raccogliere nell'isola solitaria. Chi poteva mai supporre che quel gesto di umana carità avrebbe colpito il cuore di quegli uomini rudi? Dapprima sorpresi e sconcertati, essi avevano poi voluto legare la loro sorte a quella del loro generoso liberatore. Alvise si era offerto di sbarcarli in qualche porto turco, ma essi avevano preferito rimanere sulla Santa Cattarina dimostrandosi abili e fedeli marinari. Dopo la riparazione della galea, avevano ripreso il mare, e finalmente eccoli di fronte all'estuario perlaceo. Un'ora sola di vento favorevole e avrebbero attraccato alla riva degli Schiavoni. Lorenzo Sagredo non distoglieva gli occhi dal profilo di Venezia, nitido contro l'azzurra trasparenza del cielo. Pareva quasi ch'egli volesse scoprire l'abbaino dove Alvise gli aveva detto che la sua piccola Loredana si affacciava per contemplare la laguna, di là dalla distesa dei tetti. Nell'angolo opposto della misera stanza gli pareva già di vedere, sulla poltrona verdastra, la cara compagna della sua vita priva per sempre del dono inestimabile della luce. Alvise gli aveva detto tutto, dopo averlo preparato a poco a poco alla triste verità, e fin da quell'istante la tristissima visione dell'abbaino sperduto tra i comignoli veneziani gli era rimasta fitta nel cuore come un pugnale affilato. Oh, se avesse potuto trasformarsi in una procellaria e solcare rapido le onde infide del mare, per giungere leggero e furtivo sul tetto e trarre subito dal dolore e dalla miseria le sue care e far loro dimenticare la tristezza degli anni trascorsi! Nelle prime ore del pomeriggio cominciò a soffiare il ponentino. Le vele si gonfiarono e la galea si mosse sulle acque increspate. Attraccarono allorchè il sole cominciava a, declinare. - Agnolo, - disse Alvise, al quale le tavole del ponte scottavano sotto i piedi - affido a voi la galea. - Vai pure, Alvise, - gli rispose il suo fido compagno. Scese a terra, seguìto da Lorenzo Sagredo. Passarono incuranti in mezzo al crocchio di marinari e di popolani che si erano raccolti li per osservare la strana nave giunta inalberando il leone di san Marco, e s'incamminarono verso la dimora di Loredana. Lorenzo Sagredo adorava la sua città e negli anni della lontananza ne aveva sentito la cocente nostalgia. Eppure ora non rivolgeva intorno neppure uno sguardo, tanta era la bramosia di giungere alla mèta. Non appena vi furono arrivati, i due reduci attraversarono in un baleno il cortiletto e divorarono le scale. La porta dell'abbaino era socchiusa. La misera casa era vuota. In mezzo alla stanza, sulla polvere del pavimento, giaceva uno straccio colorato. Lorenzo Sagredo riconobbe in quello un cappuccio che Loredana portava quando faceva molto freddo. Lo raccolse e lo strinse al suo cuore dolorante. A passi lenti si avvicinò all'abbaino e si affacciò sulla distesa dei tetti. La laguna luceva, laggiù in fondo. Quante volte la sua bimba aveva fissato gli sguardi sullo specchio dell'estuario, nella vana attesa del babbo lontano? E ora che il babbo era tornato, la piccina non c'era! - Date retta a me: andiamo da nonna Bettina. Certamente Lori e sua madre saranno lì, - disse Alvise con voce strozzata. Lorenzo lo seguì. Nelle calli e sulle acque dei canali ferveva la vita d'ogni giorno. Le seriche cappe dei nobili si alternavano al semplici abiti dei popolani, e le gondole snelle dalle quali facevano capolino graziose teste femminili erano seguite da pesanti chiatte cariche di materiali d'ogni genere. Ma Lorenzo e Alvise non vedevano nulla! Non percepivano che il battito doloroso del loro cuore. Quando giunsero davanti alla casetta del rio Foscari, si fermarono impietriti, come abbattuti dalla folgore: porta e finestre erano chiuse. D'un balzo Alvise sollevò il picchiotto di bronzo a foggia di serpe e lo fece ricadere più e più volte. L'onda sonora vibrò nell'aria, si propagò, si disperse in echi lontani; ma nessuno rispose. Con gesto disperato Lorenzo Sagredo si cacciò le mani nei folti capelli che molti fili bianchi inargentavano. Aveva dunque tanto sofferto e tanto sperato invano? Al rumore dei colpi del picchiotto una bimbetta era uscita dalla casa di fronte e si era avvicinata curiosa. Riconobbe subito nel giovane il figlio di Zuambattista Benedetti, e tirandolo per una mano gli disse: - Nonna Bettina è andata a stare in quella casa. insieme con la damigella bionda. - Alvise si curvò sulla bimbetta e le fece ripetere la frase, poichè nel suo smarrimento non aveva compreso bene. - Non può essere, Catina.... - Ma sì, Alvise! L'ho vista io. - Non può essere, non può essere! - ripetè con desolata ostinazione il giovane. .... sollevò il picchiotto di bronzo.... Seduti sul muricciolo.... - Vieni e vedrai. - Con aria d'importanza la bambina precedette i due uomini. Sentendo bussare, il Màuria corse ad aprire, e Catina non gli lasciò neppure il tempo di meravigliarsi della presenza dei due forestieri. Alvise, cerca di nonna Bettina, - disse in fretta, e scappò via. Lorenzo Sagredo e Alvise Benedetti entrarono. Nella tepida sera di giugno la famiglia ricongiunta sedeva sotto le acacie olezzanti. Il richiamo degli uccelli tra le verdi fronde si era spento, ma sui rami più alti era venuto a posarsi un soave cantore la cui voce animava l'umida frescura delle foglie. Seduti sul muricciolo del rio dove si rifletteva lo splendore delle stelle, Loredana e Alvise finivano di raccontarsi le loro avventure. - Non puoi credere, Lori, come fu tremenda la bufera che c'investi mentre eravamo diretti a Tropea! Dopo lo schianto della nave ricordo solo un lungo andare alla deriva, stretto tra le braccia del babbo; poi il mio risveglio nell'isola deserta. - Gli occhi della fanciulla, lucidi di commozione, guardavano il caro amico d'infanzia al quale i pericoli affrontati avevano dato un aspetto virile, ben diverso da quello fanciullesco che aveva prima della• partenza. Alvise continuò: - Dio mi mandò un amico a conforto della mia solitudine in quella terra abbandonata. Lo conoscerai anche tu, il mio caro Agnolo, e sono sicuro che lo amerai come lo amo io. - Certo, Alvise. - E poi, Lori, avevo il tuo leone di san Marco. Mi ha portato sempre fortuna, e nei momenti di maggior pericolo mi ha infuso forza e coraggio. - Poi a bassa voce, con grande dolcezza: - Mi pareva di averti vicina e che tu m'incitassi a proseguire. - Sei stato bravo, Alvise! - Ma tu, Lori, sei stata più brava di me. Chi avrebbe mai pensato di ritrovarti, ammirata da tutti, nella tua vecchia casa? Il babbo ed io eravamo andati a cercarti in quell'orribile stamberga. - E l'avete trovata vuota! - disse Loredana ridendo per vincere la commozione che la dominava. Nonna Bettina mi ha detto quante delicate cure le hai prodigate. Te ne sono veramente grato, Lori! - Non ho fatto che il mio dovere. Non me l'avevi forse affidata, Alvise? Ho mantenuto la mia promessa come tu hai mantenuto la tua. Un brillante avvenire ti attende, ora, Alvise. - Tutta bontà di Sebastiano Veniero che mi ha compensato più del mio merito. - Ma anch'io devo eterna gratitudine al nostro ammiraglio, perchè è stato lui che ci ha consigliato di rivolgerci al medico che ha reso la vista alla mamma! - soggiunse Loredana, mentre il suo sguardo si volgeva ai genitori beatamente seduti, insieme con nonna Bettina, vicino alla casa; poi aveva aggiunto con voce scherzosa: E ora, Alvise, tornerai a gettare l'antica asse sul rio per venire a trovarmi? - Mai più, Lori mia! Con una parte del tesoro dei corsari farò costruire un bel ponte di marmo candido e lo chiamerò il Ponte della Felicità. - Si guardarono a lungo negli occhi, e il loro sguardo era ilare e amorevole. In quegli istanti compresero che la loro antica tenerezza fraterna si era mutata nel sentimento più forte e più profondo che si chiama Amore. Fine

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L'estuario veneto si estende dalle foci del Po a quelle dell'Isonzo, lungo tutta la costa settentrionale dell'Adriatico. È formato da una striscia di terra della larghezza di pochi chilometri, parallela al mare, sulla quale si alternano terreni coltivabili, zone acquitrinose e vaste lagune. Fin dai tempi dell'impero romano, questo paese, invaso qua e là dalle acque del mare, era abitato da una piccola ma laboriosa comunità di pescatori, di marinari, di mercanti e di agricoltori. Ma verso il V secolo dell'Era cristiana, numerosissimi abitanti delle città venete di terraferma cominciarono a cercare rifugio tra le isole e le paludi dell'estuario per sfuggire prima, all'invasione dei Visigoti, guidati da Alarico, e più tardi, alle orde barbariche degli Unni capitanate da Attila. Questi gruppi di profughi vi presero stabile dimora, e così ebbe inizio una vita ben diversa tra la Venezia marittima e la terraferma veneta. I nuovi abitanti presero il nome di Venetici, per essere distinti dagli altri, e si mantennero fedeli all'esarca di Ravenna, rappresentante dell'impero romano. Alla fine del VII secolo, però, i Venetici si elessero un proprio duca, che nel loro linguaggio venne chiamato doxe e, quindi, doge. Le loro leggi e costumi erano indipendenti e schiettamente latini. Nella loro architettura, tuttavia, subivano fortemente l'influenza bizantina, la quale durante il periodo esarcale creò insigni monumenti che sfidano i secoli. Prime sedi dei dogi furono Eraclea e Malamocco. Ma intorno all'anno 810, dopo avere sloggiato le truppe di re Pipino, che avevano invaso quasi tutto il territorio dei Venetici, la capitale fu trasferita nel gruppo delle isole più interne dell'estuario, denominato Rialto. Grandiosi furono i lavori intrapresi allora per consolidare il terreno della nuova sede. Si cominciò a scavare una fitta rete di canali, e con la terra cosi ricavata venne rialzato tutto il piano insulare. Nacquero, in tal modo, il Canal Grande e tutti i rii della città che prese il nome di Venezia e che doveva diventare, per ricchezza di commercio, per prosperità interna, per operosità infaticabile, la prima potenza marinara d'Europa. Centro e vita della Repubblica veneta era l'arsenale, cominciato a costruire sul principio del XII secolo, dal quale usciva la poderosa flotta che al comando di valorosi capitani doveva solcare l'Adriatico, il Mediterraneo e dominare tutti i porti d'Oriente. Madonna Lucrezia e Loredana si recavano qualche volta nell'immenso cantiere per far visita a un vecchio zio, Nane Barozzi, che abitava lì dopo avere speso tutta la sua vita a vantaggio della Repubblica. Fino a tarda età Nane Barozzi aveva viaggiato continuamente per acquistare il legname dei folti boschi che guarnivano il litorale e l'interno della regione e che veniva dagli abilissimi arsenalotti trasformato in carene. Ormai egli si riposava, ai margini della grande attività che continuava a fiorire intorno a lui, insieme con Nina, la sua domestica, anch'essa vecchia e curva. Loredana accoglieva sempre con gioia la proposta di andare dallo zio Nane; soltanto aveva un po'di timore quando attraversava la fastosa e severa porta dell'arsenale fiancheggiata dai marmorei leoni di Atene che le mettevano addosso un brivido molesto. Poi lo zio l'accoglieva nel suo orticello, un vero scampoletto di terra dove venivano coltivate le erbe aromatiche per le gustose zuppe, e dove soprattutto maturava un'uva ambrata e dolcissima, delizia di Loredana. Ed era appunto per quest'uva che la bimba era ancora più lieta di recarsi dallo zio quando si approssimava il tempo della vendemmia. Così, in quella incantevole mattina di settembre, se ne andava insieme alla madre verso l'arsenale. Sarebbe stata matura l'uva? Forse no; ma qualche chicco, via, avrebbe potuto piluccarlo! A questo solo pensiero Loredana si sentiva salire l'acquolina in bocca. Eppoi, avrebbe potuto giocare a piacer suo con le galee in miniatura che lo zio aveva nel tinello e che erano completamente allestite, con tutte le alberature, le vele e le gomene, proprio come le loro gigantesche sorelle. Di ben altro genere erano i pensieri di madonna Lucrezia, seduta al fianco della figlia nella gondola che scivolava, sottile e silenziosa, per i rii soleggiati. Era già trascorso un anno dalla partenza di Lorenzo Sagredo per Famagosta, un anno che a Lucrezia era parso più lungo di un secolo. Ma grazie al Cielo tra non molto il suo caro avrebbe fatto ritorno. Proprio in quei giorni, aveva ricevuto un suo messaggio nel quale il pittore annunziava che gli affreschi nella residenza del governatore procedevano speditamente e che contava di ultimarli entro l'autunno. Allora, prima delle grandi nevicate e dei geli mordenti, la famiglia si sarebbe riunita, e per sempre. Così pensava madonna Lucrezia nella mattina sfolgorante e tepida di settembre. Una fiamma radiosa faceva brillare il cielo perlaceo e le acque dei canali, le facciate di marmo dei palazzi e il verde che si affacciava dai muretti degli orti, invisibili e profumati. C'era, dovunque, un tripudio di luci, di colori, e un incanto di vita da inebriare gli spiriti. La gondola costeggiava già la riva degli Schiavoni, allorchè un tremendo fragore lacerò l'atmosfera. L'imbarcazione sbandò paurosamente e il vogatore per poco non venne gettato nell'acqua dallo spostamento d'aria. Madonna Lucrezia e Loredana si erano aggrappate l'una all'altra e si tenevano strettamente avvinte, sbiancate in viso e tremanti. All'orizzonte, dove il canale di San Marco si perde nella laguna, una enorme colonna di fumo e di fiamme si era alzata a oscurare il cielo e si stendeva rapidamente su tutta la città come una immensa coltre funebre. Al rombo infernale era succeduto un silenzio di morte: poi cominciò a diffondersi il crepitio degli incendi, propagatisi in breve in molti angoli di Venezia. - Torniamo a casa, mamma, torniamo a casa! - riuscì finalmente a balbettare Loredana. - Sì, tesoro. - La gondola girò la prua e ricondusse le viaggiatrici al punto di partenza. Giunte a terra, seppero subito le cause dell'accaduto, giacchè la notizia si era sparsa ....al fianco della figlia nella gondola che scivolava.... fulminea: la riserva di polveri dell'arsenale era saltata in aria provocando grandi disastri. - Zio Nane!... - urlò madonna Lucrezia, coprendosi il viso con le mani e scoppiando in singhiozzi. Il povero vecchio era infatti rimasto sepolto sotto le rovine della sua casetta crollata, e le nipoti non poterono più rivederlo. Si era estinto con lui l'ultimo parente che madonna Lucrezia avesse in Venezia, poichè tutti gli altri erano stabiliti nei municipi di terraferma da dove lei stessa proveniva. Le fiamme arsero per parecchi giorni, simili a immensi falò. Rimasero preda dell'incendio sterminatore ben quattro chiese e numerose case. Nel bacino di San Marco quattro galee andarono perdute. Poi, a poco a poco, i sinistri bagliori si spensero. Il buio e il silenzio regnarono sovrani sulla città devastata. Ma di ben altre sciagure doveva purtroppo essere foriera la grande rovina! E altre lacrime, ben più cocenti, avrebbero sparso madonna Lucrezia e Loredana. Da soli quattro anni si era spento il sultano Solimano, subito dopo aver conquistato Scio, l'ultima colonia genovese del Levante. Gli era succeduto il figlio Selim che agognava di dare tutto l'Oriente in mano ai Turchi. Costoro, dopo la rotta dell'armata cristiana all'isola di Gerbe, nel 1560, si credevano ormai invincibili sui mari. In numerose e sanguinose lotte avevano conquistato Rodi, invaso l'Ungheria, stretto Vienna di assedio e rovinato Malta, il saldo baluardo della cristianità nel Mediterraneo. Ma, fino allora, non avevano osato toccare Cipro, la fulgida gemma della Repubblica di San Marco. Solamente dopo il disastro dell'arsenale, Selim aveva attaccato Cipro, riuscendo a conquistare la piazzaforte di Nicosia e a porre l'assedio a Famagosta. La Repubblica non piegò tuttavia. La sua riserva di polvere era svanita, il suo arsenale quasi distrutto; mai essa fece appello a tutti gli intrepidi cittadini, ricorse a prestiti, e riuscì ad armare, con il lavoro febbrile dei vari cantieri privati, molti legni da guerra. La Repubblica accettava virilmente la lotta. Frattanto, le notizie che giungevano saltuariamente a Venezia, portate dalle navi dei mercanti dell'estremo Oriente, erano sempre più fosche. E se ferivano il cuore di ogni veneziano, erano per madonna Lucrezia e per la piccola Loredana addirittura angosciose. Famagosta avrebbe resistito fino a che le galee di San Marco fossero spuntate all'orizzonte, con tutte le loro vele spiegate, per sbaragliare gli assedianti? A quali e quante privazioni erano sottoposti i difensori dell'isola nella quale si trovava Lorenzo Sagredo? Fra tante alternative di angoscia e di speranza il viso di Lucrezia diveniva sempre più pallido e triste, e invano Loredana cercava, con tutto il suo affetto, di distogliere la madre dai suoi gravi pensieri. Erano finiti, per la bimba, gli svaghi nell'orto, e i giorni sereni nei quali correva con Alvise sotto i rami delle acacie. Le sembravano ormai desolatamente lontani. Se almeno avesse potuto far sorridere la mamma!... Ma tutti i suoi sforzi erano vani; perciò Loredana stava zitta e cheta, con gli occhi pensosi pieni di lacrime. B G 7 - 2 Un giorno alfine una galea mandata dal provveditore di Corfù attraccò al bacino di San Marco: portava la dolorosa notizia della capitolazione di Famagosta e dell'eroica fine dei suoi difensori. Lunga e disperata era stata la difesa di Marco Antonio Bragadin, ma soverchiato dall'enorme superiorità numerica del nemico e sfinito dalla fame era stato costretto ad arrendersi. L'armata turca, penetrando nella città contesa vi si era insediata da padrona e aveva messo a morte, tra i più atroci tormenti, i suoi eroici difensori. Marco Antonio Bragadin era stato scorticato vivo. Lucrezia Sagredo aveva ascoltato con un muto stupore la raccapricciante narrazione. Sembrava impietrita. Poi, con un gesto rapido, tese le mani tremule, quasi volesse afferrare un invisibile sostegno, e cadde a terra di schianto. Per qualche attimo ancora le parve di udire un rombo pauroso, simile a una enorme massa d'acqua che precipita dentro una caverna; poi silenzio assoluto. Il cuore le batteva appena appena. Loredana e nonna Bettina si precipitarono per portarle soccorso, e quando le sollevarono il capo si accòrsero che nella caduta la poveretta era rimasta ferita: un rivolo sottile di sangue le usciva dalla fronte, scorrendo sulle guance pallidissime. Nonna Bettina chiamò Alvise. - Corri in campo San Pantaleone e prega il cerusico di venire subito qui. - Vado, nonna, - disse il ragazzo mentre gettava uno sguardo pietoso a Loredana che, in ginocchio, vicino alla mamma, singhiozzava disperatamente. Lo svenimento di Lucrezia durò a lungo. Quando la povera donna si riebbe, non riconobbe le persone che le stavano intorno. Le sue guance erano infiammate e uno strano balbettio le usciva dalle labbra riarse. La piccola Loredana rimase tutta la notte insieme a nonna Bettina a vegliare quel vaneggiamento inquieto. Dalla finestra, che era stata socchiusa perchè l'ammalata potesse respirare meglio, si udiva il fruscìo delle foglie che il vento finiva di disperdere. In cielo, un tremulo bagliore di stelle. Quella era la prima delle interminabili notti che Loredana avrebbe passate al capezzale della cara mamma.

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Seduta per terra davanti al quadro che la sera prima Alvise aveva tolto dal cavalletto e appoggiato contro il muro, Loredana osservava estatica il corteo, con a capo il Doge, che accompagnava nella cappella di San Teodoro, adiacente al Palazzo Ducale, il corpo di san Marco. Lorenzo Sagredo aveva dipinto la mistica cerimonia qualche anno prima e Loredana, che aveva seguito il lavoro del babbo con grande passione, ne ricordava minutamente i particolari. Eccoli lì, a destra dell'urna, l'uno in cappa morella, l'altro in abito verdone: Rustico da Torcello e Bon da Malamocco, i due mercanti venetici che, con le loro navi provenienti da Rialto, avevano approdato ad Alessandria. Veramente in quei tempi, così le diceva il babbo, era severamente proibito ai Venefici di andare in Egitto, dominato allora dai Saraceni, e di esercitarvi il commercio già cosi fiorente; tuttavia i più arditi mercanti della laguna continuavano a frequentare quei porti vietati e ne traevano pingui guadagni. Era stato appunto in uno di quei viaggi che Rustico e Bon erano riusciti a impadronirsi dei resti mortali del Santo, martirizzato in Alessandria di Egitto ai tempi dell'imperatore Nerone, ivi custoditi da due religiosi greci. Le mani abbandonate in grembo, la testa reclina sulla spalla sinistra, la fanciulla guardava ora l'urna dell'Evangelista ricoperta da una finissima tela di bisso trapunta di porpora e d'oro, e sulle sue labbra smorte errava un tenue sorriso. Le pareva ancora di udire la voce del babbo che le narrava come i due mercanti venetici fossero riusciti a eludere la severa sorveglianza che i doganieri saraceni esercitavano sui carichi delle navi in partenza. Dopo aver portato a bordo la sacra reliquia, Rustico e Bon l'avevano nascosta sotto un grosso mucchio di carne porcina, considerata immonda dai Mussulmani; quando i doganieri saraceni videro quella carne, se ne allontanarono inorriditi, lasciando così passare indisturbato il prezioso carico. E come si rallegrava, la piccola Loredana, allorchè il babbo completava la pia leggenda dicendole che, spiegate le vele e raggiunto il mare aperto, i due mercanti avevano portato il prezioso carico nel luogo più bello della nave e l'avevano posto sopra tappeti e drappi lussuosi! Il viaggio di ritorno era stato lungo e avventuroso, funestato anche da una violenta burrasca; ma alla fine erano arrivati felicemente, con tutte le loro navi salve al porto di Rialto. Tutto questo aveva raccontato Lorenzo Sagredo alla sua piccina mentre ella ammirava, come adesso, il bel quadro ricco di movimento e di colore. E le aveva anche detto che, da allora, san Marco era stato eletto patrono della Confederazione veneta, la quale aveva poi adottato come proprio stemma il leone alato, simbolo dell'Evangelista. Ma, quella mattina stessa, il pregevole dipinto che le ricordava la sua infanzia felice doveva essere venduto, seguendo la sorte di molti altri quadri che Lorenzo Sagredo aveva lasciati nel suo studio. Da oltre due mesi la mamma giaceva delirante nel suo letto di dolore, e le spese sostenute per curarla erano state tante. Gli occhi di Loredana, così grandi nel visino smagrito dalle veglie e dal dolore, fissavano estatici il fastoso corteo che accompagnava il martire alla, sua provvisoria dimora in San Teodoro, in attesa che venisse eretto il maestoso tempio che lo avrebbe custodito per millenni. Ed era così immersa in quella contemplazione e nei carie ricordi della sua infanzia che non udì la porta aprirsi e i passi di Alvise che si avvicinava. - Lori! - Ella volse verso il ragazzo il suo visino dolente. - Sono pronta, Alvise, - gli disse, alzandosi di scatto. - Ora avvolgo il quadro in questo drappo, così nessuno lo vede. - Bravo Alvise.... Intanto vado un momentino dalla mamma. - Fai presto, però. - Torno subito. - Uscì, salì al piano superiore ed entrò in punta di piedi nella camera dove Lucrezia Sagredo giaceva, vegliata da nonna Bettina. Loredana si avvicinò al letto e contemplò per alcuni istanti la madre che dormiva, insolitamente tranquilla. Il viso, molto dimagrito e pallido, era incorniciato dalla massa aurea dei bei capelli biondi. Sulla tempia si scorgeva ancora il segno rosso della ferita fatta nella caduta. - Nonna Bettina, se non vi dispiace, esco un momento con Alvise. - Vai pure, Lori, e stai pur sicura che alla tua mamma ci penso io. - Loredana baciò teneramente la mano di Lucrezia, abbandonata sulle coltri come un bianco fiore, e andò a raggiungere Alvise che nel frattempo aveva ricoperto il quadro con un panno. Afferrarono la cornice, uno da un lato, uno dall'altro, e s'incamminarono verso le fabbriche vecchie di Rialto. In una stretta calle teneva bottega un certo messer Antonio Foscarin, rivenditore di oggetti artistici: un bel vecchio, già molto avanti negli anni, con una fluente barba candida che lo faceva somigliare a un profeta biblico. Egli era conosciuto in tutto l'estuario per la bontà del suo cuore e per la generosità con la quale sovveniva ai bisogni di quanti ricorrevano a lui. Loredana e Alvise lo trovarono seduto nel suo fondaco buio e polveroso, intento a lucidare un'artistica lucerna in ottone di evidente provenienza. araba. - Buon giorno, ragazzi! - egli esclamò con la sua voce un po' tremolante di vegliardo. Si alzò e aiutò Alvise a togliere il quadro dal panno. - Vediamo che cosa mi avete portato di nuovo, - soggiunse poi, avvicinandosi alla porta per poter meglio osservare il dipinto. Era veramente bello, e in tempi normali non gli sarebbe stato difficile venderlo a qualche famiglia patrizia. Ma ora, dopo il disastro dell'arsenale e dopo i prestiti fatti alla Repubblica, nessuno spendeva più denaro in cose non strettamente necessarie. Il quadro era dunque destinato a rimanere nel fondaco insieme con qualche altro ch'egli aveva già comperato da Loredana. Il vecchio mercante sospirò. Le sue risorse, purtroppo, non erano illimitate; ma poteva rimandare quella graziosa bambina che con tanto coraggio assisteva la mamma inferma? Egli avrebbe continuato ad aiutarla; Dio, poi, aiuterebbe anche lui a tirare avanti. - Va bene, piccola Sagredo, lo acquisto molto volentieri il Corteo di San Marco. - Diede a Loredana una bella somma e soggiunse, mentre le accarezzava le trecce lucenti: - Brava piccina; cura bene la tua mamma e il Signore ti benedirà! - Usciti dal fondaco, i due ragazzi fecero un giro piuttosto lungo perchè dovevano andare in fondo alla calle dei Fabbri dove si trovava uno speziale che si diceva vendesse farmachi miracolosi per tutti i mali. E Loredana desiderava che la sua mamma guarisse. Camminavano, contenti di respirare l'aria pura del mattino e il fresco odore salso che veniva dal largo. La vita a Venezia aveva ripreso il suo ritmo tranquillamente laborioso, e solo qua e là si scorgevano ancora le rovine dell'esplosione. Buon numero di manovali, infarinati come pagliacci, lavoravano alla rimozione delle macerie annerite dal fumo degli incendi. Si capiva, data l'alacrità degli operai, che presto quel triste spettacolo non sarebbe stato più che un ricordo e che altri edifici, ben più sontuosi, avrebbero preso il posto di quelli rovinati. Attraversarono piazza San Marco, meravigliosa per marmi, ori e sole, mentre dall'alto della torre dell'orologio i «Mori» battevano le nove. Piegarono a destra, di fianco al grandioso campanile sulla cuspide del quale volteggiavano i gabbiani, e si diressero verso il molo. Lo spettacolo che si offrì ai loro sguardi riempì di gioia Alvise. Il vasto bacino di San Marco brulicava d'imbarcazioni. Navi da guerra e navi mercantili si apprestavano a salpare verso i mari lontani: le une per consolidare e difendere la potenza, marinara della Repubblica, le altre per fare acquisto di stoffe preziose e dei ricercatissimi aromi e spezie dell'Oriente. Chiatte di ogni grandezza e «bissone» variopinte trasportavano sul casserò delle navi acqua, viveri e munizioni. Di quando in quando un'elegante e sottile gondola scivolava leggera fra tutto quel brulicare di navi, portando a bordo qualche ricco mercante o qualche marinaro della Serenissima. Alvise non si. sarebbe mai stancato di osservare quanto avveniva lì intorno, ma Loredana gli tirò la manica della giubba. - Andiamo, Alvise, si fa tardi. - Eccomi, eccomi, Lori, - rispose il ragazzo incamminandosi a malincuore a fianco della fanciulla. Ma passato il ponte sul Canal Grande e giunti in campo San Trovaso, un altro spettacolo, che piacque anche a Loredana, fermò di nuovo i loro passi. Si trattava di un vecchio sonatore girovago intento a far ballare, al suono di un piffero, una scimmietta infagottata in un giubbettino vermiglio. Ed erano così leziose le contorsioni della bestiola che nessuno poteva trattenere il riso. Di fianco al sonatore stava accucciato un cane lupo, ispido e feroce come solo i cani lupo sanno essere. Finito il suo buffonesco saltellare, la scimmietta corse ad arrampicarsi sulle spalle del sonatore, il quale le offrì in premio una nocciolina che il piccolo quadrumane si affrettò a sgranocchiare. Subito dopo il cane lupo, afferrato con i denti il sudicio casco del vecchio e tenendolo a mo' di borsa, fece il giro degli astanti camminando sulle zampe posteriori. Loredana e Alvise, che non avevano mai visto una cosa simile, rimasero lì a guardare, a occhi spalancati, anche quando gli altri spettatori se ne furono andati, la maggior parte senza neppur lasciare una monetina in compenso. ....la scimmietta corse ad arrampicarsi.... Piano piano, attirati dal fascino che esercitavano su di loro l'esotica bestiola e il suo rustico padrone, i due ragazzi si erano avvicinati, incuranti del sordo brontolio del cane che evidentemente aveva assaggiato più di una volta la cattiveria umana e non si fidava più di nessuno. Loredana tolse dalla sua borsetta una bella moneta d'argento e la porse al senatore girovago; poi accarezzò il cane, ormai suo amico. Il vecchio, commosso, fece di nuovo ballare la scimmietta per l'esclusivo godimento dei due ragazzi, i quali avrebbero desiderato che quel balletto non avesse mai fine; quindi se ne andò, dopo essersi rimesso il casco in testa e il piffero sotto il braccio. Alvise e Loredana si accòrsero solo allora che il tempo era volato e che il sole era molto alto nel cielo. Messe, dunque, come si suol dire, le gambe in spalla, si diressero verso. casa con il fermo proposito di non lasciarsi sedurre da altri spettacoli. Vi giunsero tutti ansanti e in orgasmo, pronti a subire una buona ramanzina. Ma il grande cuore di nonna Bettina li aveva già scusati, sicchè i due ragazzi furono ben lieti di sentirsi accolti con la consueta, amorevole condiscendenza. - La mamma è stata tranquilla, e dorme ancora. - Grazie, nonna Bettina. - Quando si desterà, le darai la medicina che hai comprato. E ora addio, Lori. - Uscita la nonna., Loredana si sedette ai piedi del letto di Lucrezia, sopra uno sgabello. Era stanca della lunga camminata e della corsa fatta. Un leggero incarnato le coloriva le guance, e i capelli arruffati le folleggiavano intorno al visino assorto. Pensava ancora alla scimmietta danzatrice e al cane lupo che sembrava tanto feroce e che invece si era dimostrato mite come un agnellino. Quando la mamma fosse guarita, la condurrebbe a vedere lo spettacolo grazioso, e allora si divertirebbero insieme. Fuori, il venticello di marzo agitava mollemente i rami ingemmati delle acacie, e sulle zolle dell'orto e sul muretto del rio cresceva una tenera erbetta smeraldina. Loredana contemplava la pace sognante del suo orticello nel quale l'ombra violacea degli alberi, il verde delle zolle, le rosse pietre corrose del muricciolo si univano in una squisita armonia. Com'era bello il suo orto! Piccolo e quasi umile, ma tutto suo, racchiudeva per lei i sogni dei rosei tramonti e delle notti incantevoli. Anche gli uccellini, tornati lì a costruire il loro nido, sembravano appartenerle, come l'olezzo delle corolle che si mescolava nell'atmosfera con l'odore della salsedine. Si voltò per tornare a sedersi sullo sgabello ai piedi del letto e vide che la mamma era sveglia, con gli occhi bene aperti e il viso tranquillo. Le si avvicinò rapidamente. - Mamma! - le sussurrò, ansiosa. - Mamma cara! - Al suono di quella voce Lucrezia Sagredo ritrovò il gesto amorevole che da tanto tempo aveva dimenticato. Sollevò la mano scarna e accarezzò la testolina della sua bimba. - Mia piccola Lori! - Una gioia immensa invase il cuore di Loredana. Finalmente la sua mamma la riconosceva! Il triste incantesimo che da oltre due mesi l'aveva tenuta lontana dalla sua piccola era dunque cessato. - Oh, mamma! - singhiozzò Loredana affondando il viso nel guanciale, accosto a quello di Lucrezia. La scarna mano della mamma continuava ad accarezzare le trecce lucide di Lori, quasi volesse calmare quel singhiozzo che solo rompeva il tranquillo silenzio della camera. - Lori, sono stata molto malata, vero? - SI, mamma, molto. - E quanto è durata la mia malattia? - Non so.... - rispose la bambina, che non aveva pensato a tener conto del tempo trascorso. - Aspetta, ora ricordo. Mi venne male alla notizia - della caduta di Famagosta. - Sì, mamma. - Lucrezia Sagredo emise un sospiro profondo che pareva un gemito. - Il dubbio atroce che il babbo non potesse più ritornare mi abbattè. - Oh, mamma! - E Loredana continuò a singhiozzare, con il visino affondato nel guanciale. Ma non c'era desolazione in quel pianto. Loredana aveva ritrovato la sua mamma, che grazie a Dio non era più, come nelle trascorse settimane, una povera creatura smarrita in un mondo di dolore, come un misero uccellino al quale un'immane bufera abbia distrutto il nido e non sappia più dove posarsi per nascondere il capino sotto l'ala. La sua mamma era ritornata dal dolente paese delle ombre, e con lei erano ritornati tutti gl'incanti dell'infanzia. I singhiozzi alleggerivano il cuore di Loredana. - Piccina mia, non pianger più. - Com'era dolce la debole voce della mamma!... A poco a poco il pianto convulso andava calmandosi, cullato dalle parole e dalle carezze materne. Il viso di Loredana risplendeva di tutta la gioia del suo cuore. - Senti, Lori: vuoi accendere per un momentino la lucerna? - La lucerna, mamma? E perchè? - chiese la bimba, meravigliata. - È così profonda la notte e io non riesco a vederti! E ne ho tanto desiderio, piccina mia! - Loredana indietreggiò, piena di spavento. Tutta la gioia di poco prima era svanita: la mamma si smarriva di nuovo nel sentiero delle ombre. - Vuoi accendere, Lori? - ripetè Lucrezia dolcemente. - Ma c'è il sole, mamma! - gridò la bimba. disperata. - Il sole? - ripetè Lucrezia come un'eco. Con grande sforzo cercò di sollevare il capo dal guanciale e di guardare intorno. - Ma.... allora, io sono cieca, Lori! - Due grosse lacrime scesero dagli occhi spenti, rigarono le tempie e si persero nella massa aurea dei capelli. - Lori, vieni qui, vicino a me. Non dobbiamo più rattristarci. Io offro a Dio la mia pena perchè faccia ritornare il babbo. - Compiuto il sublime olocausto, una grande pace distese i lineamenti di Lucrezia Sagredo. Le sue palpebre velarono le pupille senza luce e la sua mano si posò lieve sui riccioli della figliuola stretta a lei. Così le trovò nonna Bettina quando tornò dalla sua vicina di casa.

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Gli alberi e le aiuole erano in fiore, e quel verde soleggiato si stendeva mollemente sul rio che lampeggiava, simile a uno smeraldo liquido. Il fresco odore che emanava dalle fronde e dalle zolle pareva esalato dalle acque pigre e dava l'illusione che anche il rio fiorisse, come tutto fiorisce in primavera. Lucrezia Sagredo viveva in una notte profonda; ma nonostante le pupille spente ella vedeva il quadro che la circondava, tanto le era dolce e familiare. Eccola li la sua casetta, annerita dal tempo e dalla salsedine, vigilata e quasi serrata dai tronchi delle acacie; e le aiuole, lo spiazzo erboso, il rio, il tiglio, la casetta di nonna Bettina.... Le rondini dovevano essere ritornate sotto la grondaia del tetto, perchè le sentiva volare nell'azzurra immensità del cielo. E come pigolava sul suo capo e intorno a lei la ben nota tribù dei passeri! La voce e il riso di Loredana e di Alvise intenti a sarchiare le aiuole le giungevano, ora da vicino ora da lontano, come una lieta musica che il vento raccoglie a tratti e a tratti disperde. Era il primo giorno, dopo la sua lunghissima malattia, che Lucrezia Sagredo usciva all'aperto, guidata dalla figlia. Grazie alle cure assidue di Loredana e di nonna Bettina riprendeva rapidamente le forze. A poco a poco si ristabiliva anche l'equilibrio nelle sue facoltà spirituali, molto scosse dalla tremenda scoperta della sua cecità. Certo, erano stati assai duri i primi tempi, allorchè la povera donna non sapeva abituarsi a quelle tenebre perpetue. Ora, da molti impercettibili segni (i rumori più o meno intensi, l'atmosfera più o meno calda), poteva indovinare le ore del giorno e goderle intimamente, quasi come quando le sue pupille erano vive. La sensibilità uditiva e tattile si sarebbe via via raffinata e in un prossimo avvenire la sua infermità sarebbe diventata meno desolante. Ma più di ogni altra cosa la fede ardente e profonda sosteneva l'infelice madre. Nei momenti di maggiore sconforto ella si rivolgeva a Dio: «Gesù, che avete detto: cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto, chiedete e vi sarà dato; Gesù, io cerco, io busso, io chiedo. Esauditemi nella vostra misericordia!». E il coraggio e la rassegnazione le ritornavano. - Mamma, mamma, è sbocciata una rosa! - La voce di Loredana squillava, gioconda. - E dove, Lori? - chiese Lucrezia, sorridendo a quella infantile gaiezza. - Nel cespuglio delle rose rosse. - Infatti un bel boccio appena appena dischiuso lasciava scorgere dei pètali serici di un color rosa pallido dagli orli bianchicci. Lucrezia Sagredo amava molto le belle rose purpuree; e quel cespuglio era il suo prediletto; Loredana lo sapeva bene. Senza dirle nulla la bimba recise il fiore e dopo avergli tolto le spine corse a porgerlo alla mamma. - Senti che profumo! Lucrezia Sagredo prese il bocciolo delicatamente, quasi fosse una gemma preziosa, e l'avvicinò al viso per aspirarne la fragrante freschezza. Quanti ricordi intimi e sereni le suscitava quel piccolo fiore! Sospirò tacitamente per non turbare la sua bimba, poi chiuse il bocciolo tra le pallide dita. - Ve ne sono altri, Lori? - Sì, mamma, molti altri, ma sono ancora chiusi chiusi. - Non li toccare, Lori. Quando saranno tutti fioriti, li porteremo a fra Paolo, in San Pantaleone. - E li metteremo sull'altare della Madonna, come facemmo gli altri anni, non è vero, mamma? - Sì, bambina mia. - Loredana raggiunse di nuovo Alvise, insieme continuarono a togliere sterpi ed erbacce dalle aiuole, chiacchierando e ridendo animatamente. Lucrezia Sagredo restò immobile, consolata dall'olezzo del bocciolo che le sue mani accarezzavano. Nel frattempo in campo San Tomà, dove sorgeva la casa dei Sagredo, un monaco camminava, guardandosi intorno ansiosamente. Egli indossava il saio dei Cistercensi, e dal bordone e dalla bisaccia si capiva facilmente che era uno di quei pellegrini di ritorno dalla Terra Santa, dove si recavano per visitare il sepolcro di Cristo. Partivano sprovvisti di mezzi e percorrevano a piedi, appoggiandosi al loro bordone, un lunghissimo cammino, per strade impervie, sorretti soltanto dall'ardore della loro fede. Si nutrivano con quello che veniva loro offerto nei cascinali e nei tuguri alle cui porte bussavano nel nome di Dio, e ponevano il soverchio nella bisaccia per donarlo a loro volta ai poveri che incontravano. Giunti sulla riva del mare, chiedevano ospitalità ai piccoli velieri in partenza per l'Oriente, e dividevano con le ciurme le fatiche e i pericoli nelle traversate spesso burrascosissime. Ma quale ineffabile gioia potersi inginocchiare sul sepolcro di Cristo! Illuminati da quello splendore divino, essi riprendevano poi la via del ritorno, incuranti della fame, del freddo, della stanchezza, paghi di aver compiuto il pio pellegrinaggio e di portarne nel cuore il luminoso ricordo per tutta la vita. Il monaco pellegrino, giunto a Venezia dalla Terra Santa, con ancora sui calzari la polvere degli innumerevoli sentieri battuti, cercava ansiosamente qualche cosa in campo San Tomà. Il suo viso bruciato dal sole e mezzo nascosto da una lunga barba brizzolata si volgeva a destra .... sbucò un bimbo di circa otto anni.... e a sinistra osservando le casette che si allineavano ai due lati, dritte e silenziose come vigili sentinelle al passaggio di un monarca. Le sue labbra mormoravano: «Un balcone di marmo d'Istria sopra un ampio portale adorno di fregi.» Ma nulla di ciò ch'egli vedeva corrispondeva alle sue ricerche. Da un vicoletto traverso sbucò un bimbo di circa otto anni, il quale si fermò a guardare il pellegrino. E il visetto roseo come una mela matura, ombreggiato da una zazzera nera e ispida, esprimeva una grande meraviglia. Il monaco decise di rivolgersi al nuovo venuto per ottenere qualche informazione; ma appena ebbe fatto un passo in quella direzione, il piccino, impaurito, gli voltò lesto lesto le spalle e scomparve nella penombra misteriosa del vicoletto. Il monaco riprese il suo cammino. Giunto al rio di cà Foscari, davanti alla casetta dei Sagredo, si fermò. - È questa! - mormorò; e afferrando il battente picchiò un gran colpo. L'onda sonora si propagò nel deserto vestibolo e andò a perdersi fra i tronchi delle acacie. Lucrezia si voltò verso la casa, Loredana e Alvise interruppero i loro giuochi e si guardarono, stupiti. Era tanto tempo che il battente non faceva più sentire il suo rombo sonoro!... Per entrare, nonna Bettina possedeva la chiave della porta e Alvise si serviva del suo famoso ponte. Chi poteva mai essere? Il ragazzo si riebbe per il primo. - Vado ad aprire! - esclamò, e corse via. Ritornò poco dopo, seguito dallo sconosciuto. Il Giunto.... davanti alla casetta dei Sagredo.... monaco non entrò nel giardino: rimase fermo sulla soglia, aspettando senza dubbio un invito che non veniva, Ma Loredana era troppo stupita per poter parlare, e Lucrezia Sagredo non vedeva. Passarono così alcuni istanti d'incertezza. Lo sconosciuto si chiedeva perchè mai quella; donna, dall'aspetto pur tanto gentile, lo fissasse con tanta insistenza senza degnarlo di un cenno di saluto. - Lori, chi ha bussato? - Quelle parole furono uno sprazzo di luce per il monaco. - La poveretta è cieca! - esclamò. - Sì, messere, sono cieca. Ma voi, chi siete? - Madonna, io sono frate Eusebio, dell'ordine dei Cistercensi, e vengo da assai lontano. - Da assai lontano? - ripetè, come un'eco, Lucrezia Sagredo. - Sì, madonna, e vi reco una lieta novella. - Presto, Lori, porta una sedia a fra Eusebio. Riposatevi, padre. Mi direte dopo la buona novella di terra lontana. - Una fiamma rosea era salita alle guance di Lucrezia Sagredo e le sue mani pallide si erano congiunte in atto di preghiera. Il bocciolo era caduto e posava sulla terra bruna come un timido raggio di sole nascente. Loredana e Alvise, in piedi ai lati della sedia a braccioli della cieca, guardavano, con un misto di curiosità e di timore, il monaco pellegrino. Costui, deposti da un lato la bisaccia e il bordone, si era seduto con visibile contentezza, giacchè era stanchissimo del lungo camminare. Lucrezia disse dolcemente: - Padre, dove avete lasciato mio marito? - Frate Eusebio la guardò, meravigliato. - Come fate a sapere, madonna, che Lorenzo Sagredo è sfuggito al massacro di Famagosta? - Il cuore me lo diceva e la fede nell'aiuto di Dio me lo assicurava. - Ho veduto il vostro caro in buona salute, nel porto di Alessandretta. - Che cosa faceva? - Aspettava di partire con la galea di Alì pascià. - Prigioniero di costui? - Sì. - Miseri noi! - esclamò la cieca. Non vi angustiate, madonna. Ali pascià conduceva vostro marito nella sua fastosa residenza sul Bosforo, allo scopo di fargliela decorare. - Ma potrà ritornare, un giorno? - Lorenzo Sagredo lo spera, e vuole che condividiate la sua speranza. - Obbedirò, padre. - Rallegratevi intanto ch'egli sia sfuggito alla schiavitù delle galee. - Soffrono molto i galeotti, non è vero? - interrogò timidamente Alvise che tante volte aveva sentito suo padre parlare di quegli infelici. - Assai, ragazzo mio, - rispose il monaco, volgendo verso Alvise il viso scarno. - Chi sono i galeotti? - chiese Loredana pietosamente. - Uomini privati della libertà e obbligati a remare sulle galee. - E non possono fuggire? - Mai più! Essi vengono incatenati al banco e costretti a vivere in un'atmosfera pesante, satura d'umidità. Ho potuto visitare e confortare i compagni che Lorenzo Sagredo aveva lasciati allora allora. Erano spettrali, con le barbe incolte e le orbite incavate. - Come è possibile che creature umane facciano soffrire così dei loro simili? - sospirò la cieca. - Tutto è possibile quando l'odio si scatena e distrugge la carità fraterna, - rispose frate Eusebio. - Ma voi, madonna, come avete perduto la vista? - Lucrezia narrò le vicende che avevano causato la sua cecità, e il monaco l'ascoltava con grande commiserazione. Quando l'inferma tacque, padre Eusebio tolse dalla bisaccia una piccola croce fatta con ramoscelli d'ulivo dell'orto del Getsemani, nella quale era incastonato un frammento di roccia della Passione, e gliela porse. - Prendete questa, e quando l'angoscia sarà in voi troppo profonda, la croce vi ricordi che Gesù ha sofferto molto più di noi. - Si alzò, benedisse la cieca e i fanciulli, afferrò bisaccia e bordone e si diresse verso l'uscita. A lungo Lucrezia Sagredo rimase ad ascoltare i passi del pellegrino che si allontanava; poi dalle sue pupille spente scese un pianto silenzioso che era conforto, speranza, preghiera. Quelle lacrime bagnarono i ramoscelli dell'ulivo che aveva visto l'agonia del Redentore del mondo.

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Era caduta una pioggia rapida e violenta, ma ora il cielo andava liberandosi dall'opacità lattiginosa della nuvolaglia e si apriva a squarci sempre più larghi e azzurri. Dal basso salivano, insieme con l'odore amarognolo della terra bagnata, le note soavi del clavicembalo che Teodora Pisani Moretta, l'esile figlia del potente magistrato della Repubblica di San Marco, sonava con tocco lieve e con grande perizia. La bionda Loredana vedeva dal suo abbaino il profilo austero del palazzo Pisani, con le ampie finestre a sesto acuto luccicanti ai tremuli raggi del sole sopraggiunto. Molte volte aveva incontrato la giovinetta del clavicembalo mentre questa, in compagnia della madre, la superba marchesa Violante, si recava a Santa Maria Gloriosa dei Frari per le sue devozioni. Un moretto vestito di scarlatto le precedeva, portando i libri di preghiera. C'era, nel pallido viso di Teodora Pisani Moretta, una tale luce di gentilezza e di bontà che Loredana si sentiva ogni volta attratta e conquistata, I loro sguardi s'incrociavano, mentre un rapido, furtivo sorriso fioriva sulle labbra giovanili; e Loredana per tutto il giorno provava un senso di calore e di conforto. - Lori, Lori, ma dove sei? - risonò più alta e inquieta la voce della madre. La fanciulla, sussultò, e toltasi rapidamente alla sua contemplazione corse a cingere con le braccia il collo della donna abbandonata sulla sedia a braccioli ricoperta di logoro damasco verde. - Sono qui, mamma, sono qui. - Non ti sentivo più, piccola mia! - mormorò la madre, abbracciando a sua volta la fiorente giovinetta che le era corsa vicino. Madre e figlia si somigliavano moltissimo. Avevano entrambe lineamenti fini, il colorito roseo, i capelli fiammanti, il portamento eretto. Ma gli occhi della fanciulla erano fulgidi come stelle, e quelli della madre, opachi e spenti. Loredana pose con gesto carezzevole la bionda testa sulle ginocchia materne e rimase immobile, chiusa nel cerchio dei suoi mesti pensieri. Quattro anni erano ormai trascorsi da quando il babbo era partito per Famagosta condottovi da Marco Antonio Bragadin, e due anni e mezzo da quando la mamma era rimasta cieca in seguito alla sua malattia. Un velo si stendeva ora su quegli occhi, che un tempo avevano sprigionato tanta luce di amore e di dedizione. Loredana non era più la bimba spensierata che si divertiva in mille modi nella quiete del suo orto bagnato dal rio Canal; era ormai una giovinetta alta e snella, con le trecce avvolte intorno al capo come un lucido casco d'oro che la faceva sembrare una regina, benchè fosse vestita con vecchi panni della mamma, scoloriti e logori. Aveva inoltre una tale riservatezza di modi e una grazia così pudica che conquistava chiunque la vedeva. Quanto erano stati duri gli anni passati! Tutti intessuti di rinunzie silenziose e di eroici sacrifici per la giovinetta buona e coraggiosa. Piano piano, tutte le belle opere d'arte accumulate da Lorenzo Sagredo erano state vendute da Loredana, prima per assistere la madre durante la lunga malattia, poi per sovvenire ai loro quotidiani bisogni. Il bisogno le aveva anche costrette ai cedere la loro graziosa casetta nell'assolato campielo, così piena di tenero verde e di pispiglianti voli di uccelli, per rinchiudersi in quella soffitta nuda e gelida come una caverna. Eppure avevano sopportato tutto, Lucrezia e Loredana, sorrette dall'aiuto di Dio e dalla radiosa speranza che il pellegrino dei luoghi santi aveva fatto loro balenare. Intanto Lorenzo Sagredo non era più schiavo sulle galee turche, ma nella residenza di Alì pascià. Nella sontuosa dimora del potente signore mussulmano, egli poteva almeno dedicarsi al suo amato lavoro che lo avrebbe certamente consolato di tante cose e distratto dai suoi amari pensieri. Lucrezia Sagredo aveva collocato l'autoritratto del marito, uno stupendo disegno a punta d'argento, sotto il quadro della Madonna, quasi a chiedere che la Vergine sublime lo accogliesse sotto il suo manto e lo proteggesse contro ogni pericolo. Tutte le sere le due Sagredo s'inginocchiavano e pregavano a lungo; poi le labbra della sposa e della figlia sfioravano la fronte del caro assente e le mani affilate della cieca indugiavano con muta carezza, sul viso amato, come ad attingerne aiuto e conforto. Ma anche l'autoritratto del Sagredo, ultimo residuo dei beni scomparsi, doveva essere venduto tra qualche giorno. Perchè la madre non se ne accorgesse, Loredana aveva pensato di toglierlo e dalla cornice dorata e sostituirlo con una tavoletta spoglia di ogni immagine. Ma il cuore le si stringeva al pensiero di quell'inganno. Sarebbe riuscita a frenare i singhiozzi quando le bianche mani della mamma avrebbero sfiorato la nuda superficie? E che cosa avrebbe detto l'infelice donna? Dal basso continuavano a salire, ideale richiamo, le note soavi del clavicembalo di Teodora Pisani Moretta. Loredana si cullava in quei suoni armoniosi, quasi dimentica di tutto quello che la vita le aveva fatto soffrire e quasi aspettasse dalla nobile giovinetta speranza e conforto. Era un sentimento di fraternità umana che avrebbe voluto chiedere alla gentile sonatrice, quel sentimento che dovrebbe legare tra loro tutte le creature viventi e aiutarle a superare le prove, spesso amarissime, della vita. La fanciulla aveva sollevato il capo dalle ginocchia materne e i suoi begli occhi scuri guardavano intorno le squallide pareti, che sarebbero sembrate ancora più squallide, prive della virile immagine del padre. A un tratto le balenò un'idea. Se si fosse provata a ritrarre le sembianze paterne? Loredana ripensava al tempo in cui assisteva al lavoro del padre, e alle lezioni di pittura che aveva ricevuto da lui. Come si divertiva a passare le polveri per la composizione dei colori, e a mischiarle poi, in compagnia di Alvise, laggiù, sotto l'ombra delle acacie, per vedere quali altri colori avrebbero combinato! Piano piano si alzò, si avvicinò al cavalletto e lo trascinò sotto l'abbaino; staccò dal muro l'autoritratto del babbo e se lo mise davanti. - Che fai, Lori? - Mamma, voglio eseguire un piccolo disegno. - Ne sarai ancora capace? - chiese la madre con aria di dubbio. - Forse sì, mamma. - Brava Lori! Così, quando il babbo tornerà, vedrà che, la sua bimbetta è stata saggia, - mormorò Lucrezia con grande tenerezza; poi chinò la testa e s'immerse nei suoi profondi pensieri. Il silenzio regnò assoluto nella stamberga. Un Loredana lavorava.... obliquo raggio di sole si insinuava tra l'apertura dell'abbaino, accendeva, i capelli d'oro di Loredana e metteva un'aureola luminosa intorno al capo della fanciulla. Ogni tanto una nuvola nascondeva il sole e tutto si spengeva in un grigio di cenere; poi, d'improvviso, ogni cosa si riaccendeva più di prima.. Loredana lavorava senza posa. Le pareva che una mano invisibile la guidasse nella ricostruzione delle sembianze paterne. Ed ecco che a poco a poco sullo sfondo grigio della tavoletta fiorivano gli occhi imperiosi e pur dolci del babbo, il suo naso diritto, le labbra serrate tra il fluire del pizzo castano e l'ardita, piega dei baffi. A tratti la matita a punta d'argento che scorreva agile e sicura, guidata dalle sue dita, rimaneva sospesa e gli occhi di Loredana si fissavano in un punto lontano, come a ricostruire svaniti contorni; poi riprendeva febbrilmente il lavoro. La madre, nel suo angolo, si era assopita, cullata, dal profondo silenzio di quel pomeriggio di prima estate. Un calabrone di velluto era entrato nella scìa dei raggi solari e svolazzava intorno con un ronzio metallico; ma Loredana non lo vedeva e non lo sentiva. Si svegliò da quella specie d'incanto quando il sole stava per tramontare, in una gloria di luce sanguigna, salutato dalle strida gioconde delle rondini e dal dolce pigolo dei passeri, pronti a ritirarsi nei loro nidi alle prime ombre del crepuscolo. Per più di tre ore la fanciulla aveva lavorato senza interruzione e senza quasi accorgersene; e adesso si sentiva a un tratto stanca, ma di una stanchezza che le faceva bene al cuore. In punta di piedi, perchè la madre non la sentisse, tornò ad appendere il ritratto alla parete, e allora finalmente la grande angoscia che fin dalla mattina teneva chiuso il suo cuore in una morsa di ferro si dileguò, come un pipistrello che s'invola al timido spuntare dell'alba. Ormai non avrebbe più ingannato la cara cieca facendole baciare una nuda tavoletta. Lucrezia Sagredo, la sposa fedele e amorosa, avrebbe pregato sempre davanti all'effige dello sposo lontano, senza che sua figlia si sentisse salire alla fronte il rossore della vergogna e dell'ambascia.

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Loredana si destò a notte inoltrata dal sonno profondo nel quale l'aveva piombata la grande stanchezza. Si guardò intorno, stupita. Un pallido raggio di luna illuminava di una luce irreale la misera stanza; dall'abbaino si scorgeva un lembo di cielo vellutato, tempestato di stelle. Dal lettino accanto al suo giungeva il respiro regolare della mamma dolcemente addormentata. Loredana s'incantò a guardarla. Com'era bella!... In quella penombra di sogno sembrava anche più bella è assai più giovane; quasi una bambina. Loredana in quel momento fu felice di considerare la mamma come una bimba, una sorellina minore bisognosa delle sue cure e delle sue carezze. Non era forse cieca e perciò inabile a muovere da sola i passi nell'incerto cammino del mondo, proprio come una creatura appena nata? Il babbo sarebbe tornato; Loredana ne era certa. Ma quando? E frattanto come affrontare la vita con tutte le sue imperiose necessità? La testa della fanciulla ricadde sul guanciale e un amaro sospiro le sfuggì dal petto. Ormai, tutte le loro risorse erano finite, e quando fossero sfumati i denari ricavati dall'autoritratto del padre, come si sarebbero sfamate? L'avvenire, anche immediato, era pieno di paurose incognite. Ah, fosse stato ancora al mondo lo zio Nane! Si sarebbero rifugiate presso di lui, e lì avrebbero atteso il ritorno del babbo. La mamma si sarebbe seduta al sole in quello scampoletto d'orto, sotto la pergola dell'uva ambrata e dolcissima che Loredana ricordava ancora con struggente nostalgia, e le avrebbe tenuto compagnia l'attività febbrile dell'arsenale, nonché l'instancabile chiacchierio della vecchia Nina. Ma Loredana udiva ancora risonare il rombo pauroso della polveriera dell'arsenale che saltava in aria. Più tremendo ancora del fragore era stato il silenzio di morte subito succeduto, prima che il crepitio degli incendi propagatisi in breve nella. città si fosse diffuso sempre più alto e insistente. Quel rombo e quegli incendi avevano distrutto anche la pace di Lucrezia Sagredo e di sua figlia. Lo zio Nane era morto; il sultano Selim aveva attaccato Cipro e obbligato Famagosta ad arrendersi; il babbo era rimasto prigioniero dei Turchi, e la mamma si era ammalata dal dolore! Quante disgrazie! Il popolo veneziano, tenace e compatto, aveva reagito con l'energia della disperazione alla grave sciagura. Dei passati dolori non v'erano più, intorno, tracce visibili. Ma quello che aveva potuto compiere un popolo forte e risoluto era forse possibile per le due povere donne? Loredana sospirò profondamente ricordando tante amarezze. Eppure doveva cercare di vincere l'avverso destino! Ma come, come, buon Dio? Inquieta, si agitava nel lettuccio e avrebbe voluto che quella pallida luce lunare fosse già tramontata per lasciare il posto ai tepidi raggi del sole. I suoi occhi, quasi ipnotizzati, si fissarono sull'immagine dolcissima della Madonna, appena visibile nell'ombra, e scesero lentamente in basso, fino alla cornice dorata del ritratto del babbo. Allora un'idea le balenò nella mente. Perchè non avrebbe cercato di eseguire qualche quadretto, per venderlo e provvedere così ai loro bisogni?... La felice riuscita del giorno prima le dava il coraggio di tentare la prova. Presa questa risoluzione, cercò di riprender sonno; ma l'interna agitazione glielo impediva. Per tutto il resto della notte, che le parve interminabile, stette ad ascoltare i misteriosi sussurri della notte punteggiata a intervalli regolari dai rintocchi delle ore che scendevano dall'alto della torre di piazza San Marco. Quando le prime luci dell'alba cominciarono a diradare i veli cinerei della notte, ella balzò dal letto e in punta di piedi andò ad affacciarsi all'abbaino. Subito sgranò gli occhi sullo spettacolo inatteso che presentava la laguna sotto i raggi argentei e rosei dell'aurora che proprio allora sorgeva in tutto il suo splendore. Dolcissimi effluvi salivano dalla profondità del giardino di casa Pisani Moretta imbevuto di rugiada, e dai comignoli e dalla cella delle campane incominciavano a saettare nell'aria trasparentissima le rondini gioconde e mattiniere. Vicino vicino, sotto i tegoli del tetto, sporgevano timidamente il capo, pigolando, alcuni passerottini. L'incanto di quell'ora, piena di freschezza e di poesia, agi potentemente sul cuore della fanciulla. Tutte le ansie e le inquietudini notturne scomparvero, e i suoi occhi s'immersero in quell'oceano di luce che avvolgeva terra e cielo. Piano piano si staccò da quello spettacolo grandioso, per tornare poco dopo provvista dell'occorrente per dipingere. Allora, con ansia febbrile, trasfuse sulla tavoletta tutta la gamma dei colori che avvolgevano la laguna lontana, le cuspidi e i comignoli che apparivano oltre il rettangolo angusto dell'abbaino. In ultimo, aggiunse in primo piano un ciuffo d'erba rorida di rugiada, che spuntava tra i tegoli rossigni del tetto. Finito il delicato abbozzo, vi pose la sua firma, come tante volte aveva visto fare dal babbo. Nell'angolo di destra, in basso, tracciò con il pennello intinto di rosso un minuscolo L. Sagredo; poi si alzò, soddisfatta. Il sole era già alto nel cielo e tutta la soffitta, fin negli angoli più remoti, ne era illuminata. Un raggio si era posato sul viso della mamma che giaceva ancora supina, le pupille spente aperte nel vuoto • pauroso. Da molto tempo la povera donna era sveglia, ma taceva, credendo la sua piccina ancora addormentata. Dal calore che il sole diffondeva sulle sue guance aveva compreso che l'ora doveva essere avanzata, ma si sentiva lieta al pensiero che Loredana riposava e non desiderava nulla per sè. - Lori, sei già in piedi? - chiese, piena di meraviglia, al rumore fatto dalla fanciulla alzandosi dallo sgabello. - Sì, mamma, e ora vengo da te. - Loredana avrebbe voluto informare subito la madre del suo tentativo e delle sue speranze; ma tacque temendo di procurarle una inutile ansia. Se il bozzetto non fosse piaciuto, che amara delusione per lei! Inoltre, avrebbe cominciato a impensierirsi per il loro avvenire; e Loredana voleva invece che la mamma rimanesse serena, almeno per quanto glielo consentivano le sue disgraziate condizioni fisiche e il pensiero angoscioso del marito lontano. Quanto le costava, però, di dover tacere, avvezza com'era a confidarsi in tutto con la mamma, la sola depositaria dei suoi sogni e delle sue speranze! Nell'aiutarla a vestirsi, come faceva ogni giorno, si costringeva a parlarle di cose indifferenti, per non lasciarsi vincere dalla grande tentazione di aprirsi con quel cuore così pieno di amore per lei. - Siamo in ritardo, stamani. Chissà come starà in pensiero nonna Bettina! - Strano: ieri sera Alvise non venne! ricordò a un tratto Loredana. La sera prima, tutta assorta nella ricostruzione delle sembianze paterne, non si era accorta della mancata visita dell'amico d'infanzia, solito ad andare da loro tutte le sere; ma adesso si meravigliava di quel fatto straordinario, ed era ansiosa di vedere il piccolo amico fedele. I suoi gesti, ora, erano inquieti, e la madre, con il fine intuito tutto proprio dei ciechi, se ne accòrse subito e volle rassicurare la sua creatura. - Forse Alvise ci attende da nonna Bettina, - le disse. - Ci dirà allora perchè non venne ieri sera. - Loredana continuò per un certo tempo ad affaccendarsi intorno alla mamma; poi afferrò il pa- niere delle provviste, vi pose l'acquerello eseguito nelle prime ore del giorno, e presa per mano la cieca s'incamminò verso l'uscita. Giunte sul pianerottolo delle scale, s'imbatterono nel loro vicino di casa, un vecchietto insopportabilmente bilioso e querulo. Da che Loredana e sua madre erano venute ad abitare in quel tugurio, la fanciulla lo aveva aiutato molto, impietosita da quella miseria che si palesava più nera ancora della sua. Ma il vecchio non dimostrava alcuna gratitudine; anzi, aveva finito col considerare un obbligo le gentilezze della fanciulla. - Si va a spasso, eh! E l'acqua per me?... - chiese con arroganza, non appena vide le sue vicine. - La mia bimba andrà subito a prendervela, - disse rapidamente Lucrezia per prevenire il moto di ribellione che sentiva nascere nella giovinetta. - Vai, Lori. Ti aspetto qui. - B G 7 - 3 Loredana andò a prendere la brocca e scese ad attingere l'acqua nel pozzo; poi si mise a riordinare la stamberga. Intanto Lucrezia ascoltava pazientemente, per l'ennesima volta, l'enumerazione delle ingiustizie e dei guai (veri e immaginari), che affliggevano il Lucrezia e Loredana Sagredo proseguivano.... vecchio. Quando tutto fu in ordine, le due donne poterono finalmente andarsene. Attraverso un connetto buio dal selciato sconnesso, uscirono all'aperto e si. diressero, per campo San Tomà, a rio di cà Foscari, dove abitavano nonna Bettina e Alvise. Le calli e i campieli brulicavano di massaie che andavano in fretta a fare le provviste e di venditori ambulanti. Mori, turchi, dalmati, chioggiotti offrivano le loro svariate merci: tappeti variopinti, preziosi oggetti di rame sbalzato o di filigrana di argento e d'oro, frutti fragranti delle isole della Dalmazia, pesci freschissimi recati dai pescatori di Chioggia. Su tutto quel fervore di vita, su tutta quell'orgia di colori, splendeva un sole radioso, vero manto regale per la dominatrice dell'Adriatico. Lucrezia e Loredana Sagredo proseguivano il loro cammino, senza fermarsi agli invitanti richiami, troppo ansiose di raggiungere il rio di cà Foscari e la quieta casetta dei loro amici.

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- Vieni qua, benedetta, che ti abbracci, - rispose nonna Bettina, attirando sul suo cuore la giovinetta e invitando in pari tempo la madre a sedersi sopra uno sgabello. - Ieri sera Alvise non venne a trovarci, - disse subito Lucrezia Sagredo, ansiosa di calmare Loredana. Un'ombra passò sul viso bianco di nonna Bettina. - Da qualche giorno a questa parte non capisco più mio nipote, - sospirò. - Lo sento incerto e nervoso, e ieri lo vidi appena: stette quasi sempre e fuori. - Sarà forse in pensiero per l'imminente partenza di suo padre. - Temo che nutra anche lui la, passione del mare, come il suo nonno e come suo padre. - Per fortuna egli non ha ancora l'età richiesta, altrimenti sono certa che vorrebbe prendere parte alla lotta contro i Turchi, e voi, nonna Bettina, restereste sola. - Se non fosse che questo! - sospirò di nuovo la vecchia. - Sono ormai abituata a certi distacchi. Giovane sposa, ebbi lunghi periodi di solitudine; poi Dio mi mandò Zuambattista, che mi riempi la casa e la vita con i suoi sorrisi e il suo chiacchierio. - Ma appena fu grande, anche vostro figlio vi lasciò. - Che volete; madonna Lucrezia, la passione del mare è irresistibile, e nessuno lo sa meglio di me, che sono figlia, sposa e madre di naviganti. Ma, ora mi sento vecchia e ringrazio il Cielo di avere al mio fianco Alvise. - E la partenza di vostro figlio per quando è decisa? - La Santa Cattarina dovrebbe salpare dalla riva degli Schiavoni domattina. Essa farà parte della grossa squadra veneziana comandata da Sebastiano Veniero e diretta verso i mari di Levante. - Donna Lucrezia non rispose, ma due grosse lacrime caddero dagli occhi spenti di lei, e nonna Bettina le vide. - Poveretta! - mormorò, accarezzando le bianche mani della giovane donna. - Quanto avete patito! Ma Dio è misericordioso e avrà infine pietà di voi. Abbiate fiducia in Lui. - Se non nutrissi la certezza del suo aiuto, come potrei vivere ancora? - Madonna Lucrezia, Dio vi ha dato per consolazione la vostra Lori! - Avete ragione, nonna Bettina; mia figlia è un angiolo! - Mentre le due donne chiacchieravano, Loredana era uscita nel minuscolo orticello attiguo alla casa, tenendo sempre infilato nel braccio il paniere che conteneva l'acquarello eseguito all'alba. Voleva attendere lì Alvise, per andare poi con lui, come tutte le mattine, a fare la spesa: ella sostituiva in ciò la madre cieca, e lui, la nonna troppo avanti negli anni. In mezzo all'orto i larghi rami del tiglio, fioriti e olezzanti, si stendevano sul murmure soave del rio che scorreva tra i muriccioli di cotto rossigno. Oltre il secondo muricciolo si stendeva l'altro orto, fremente di sottili acacie col tronco avvinto di vite vergine, come la facciata della casa che s'intravedeva laggiù in fondo, tra l'intrico dei rami. Quanti ricordi le tornavano alla mente rivedendo il luogo dove la sua bella infanzia era trascorsa! Non avrebbe mai potuto dimenticare quel lembo sereno di terra. C'era ancora, lì a sinistra, appoggiata al muricciolo, la trave tutta verde di museo che Alvise gettava come un ponte sul rio per poter passare nel suo orticello dove lei lo attendeva trepidante nel timore di vederlo cadere nell'acqua quieta ma profonda! Ricordava quel lontano giorno d'estate in cui era finalmente accaduto il fattaccio!... Anche adesso risentiva il brivido provato allora al tonfo del corpo che cadeva nell'acqua, e le pareva di rivedere l'orco barbuto che era passato con la chiatta carica di doghe e aveva minacciato (che fosca luce in quegli occhi che si erano voltati a guardarla!), di gettarla in mezzo alla laguna. Tutto, per fortuna, era finito bene, ma Loredana non aveva mai potuto vincere la paura che le faceva quel passaggio da un orto all'altro. E anche ora, che erano trascorsi quattro anni e la casa e l'orto non le appartenevano più, vi ripensava con un tremito per tutta la persona. Chiari mattini di primavera, quando i rami cominciavano a rinverdire e le rondini volavano gioconde, chiamandosi l'un l'altra; lunghi pomeriggi estivi, quando ogni cosa intorno taceva come annientata dalla calura, e gli alberi e le zolle emanavano un profumo che stordiva; malinconiche sere autunnali, punteggiate dai richiami dell'assiolo nascosto chissà dove e dal fruscio delle foglie ingiallite che il vento e l'acqua trascinavano via, come sembravano lontani al ricordo nostalgico di Loredana! Oltre i tronchi delle acacie rivedeva la serena figura del padre, che con lo sguardo rivolto in alto mirava il cielo sconfinato sul quale erravano nuvolette vagabonde. E laggiù, intorno all'aiuola fiorita, non era forse la mamma che si aggirava leggera, cogliendo le rose olezzanti, come era solita fare, per portarle a Gesù? Ahimè, no! Era soltanto un raggio di sole che scherzava tra i rami agitati dalla brezza marina che giungeva dal largo e s'insinuava fra le strette calli con un lieve brusio! - Ebbene, Lori, stai forse contando le foglie degli alberi? - La fanciulla era tanto assorta nel ricordo di quei giorni lontani che non aveva udito l'avvicinarsi dell'amico, e sussultò al suo richiamo. Volse verso di lui il chiaro viso incorniciato dagli aurei capelli, e gli sorrise, festosa. - –.... stai forse contando le foglie.... Alvise aveva ora diciassette anni, ma era alto e robusto come un giovane di venti. Ben fatto, bruno di carnagione e di capelli, con le pupille nere e lucenti, possedeva una innata finezza di modi che lo rendeva simpatico a tutti. Aveva ereditato dal padre, Zuambattista Benedetti, capitano della Santa Cattarina, la passione per la vita di mare, passione che preoccupava la vecchia Bettina, la tenera nonna che gli aveva fatto da madre e lo adorava. Anche Lucrezia Sagredo aveva amato maternamente il piccolo orfano, e Loredana era stata per lui una sorellina affettuosa e piena di premurose attenzioni. La vicinanza delle loro casette aveva favorito quell'atmosfera di familiarità che per l'orfano Alvise era stata di grande aiuto e conforto. A sua volta egli aveva dato molta parte di se stesso alle due Sagredo allorchè la disgrazia le aveva colpite. Avrebbe desiderato perfino di ospitarle nella sua casetta; ma Lucrezia non aveva voluto recare tanto disturbo ai suoi buoni vicini, ben sapendo quanto fosse piccolo il loro nido e quanto modesto il loro tenore di vita. - Oh, Alvise, mi hai fatto paura! - Il giovane capi che Loredana era immersa in malinconiche reminiscenze e volle distoglierla subito con alcune frasi scherzose. - Tornando a casa ho veduto il tuo protetto, anzi i tuoi protetti. Tutti e due erano più eleganti del solito! - Dove erano, Alvise? - chiese Loredana, mentre - gli occhi le brillavano di gioia. - Stavano dietro campo San Barnaba, vicino al rio Malpaga. - E che facevano? - Come al solito, stavano deliziando i timpani dei passanti. Si trattava del vecchio senatore girovago e del suo inseparabile compagno, il cane lupo. La scimmietta era morta da tanto tempo, con grande rimpianto del vecchio che si era trovato privo di una vivace compagnia, nonchè di una fonte di guadagno. Loredana, nonostante le sue crescenti ristrettezze, aveva sempre trovato il modo di venire in soccorso del povero senatore; e questi, che con gli altri era ispido e scontroso al pari del suo cane, aveva per la fanciulla delicatezze veramente commoventi. Quante volte, di ritorno dai suoi giri in terraferma, aveva portato a Loredana fasci di fiori còlti lungo le prode dei fossi o sulle rive del Po, Il fiume superbo che bagna tanta parte di terra Italica! E la fanciulla gradiva molto quel dono, anche se, dopo tante ore di cammino sotto il sole e nella polvere, i fiori del buon vecchio avevano perduto la loro freschezza. - Bravo Alvise! Tu parli del Màuria, - (il sonatore girovago veniva chiamato così dal nome del suo paese di origine, «il Passo della Màuria», l'ampio valico erboso che si estende tra il bacino del Tagliamento e quello del Piave ed è vigilato dalle cime austere delle Marmarole e dell'Antelao), - e non mi dici perchè non venisti da noi, ieri sera. - Un'ombra scese sul viso di Alvise. - Ho bisogno del tuo aiuto, Lori, - disse rapidamente, conducendo la fanciulla nell'angolo più remoto dell'orto. La fece sedere sul muricciolo del rio e le si pose accanto.

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. - Tu sai che i Turchi minacciano la vita della Repubblica di San Marco in Oriente, e io non potrei davvero starmene quieto a casa mentre si combatte una battaglia tanto importante per le sorti della nostra patria. - Ma tuo padre non ti lascerà partire. - Egli non sa nulla della mia decisione; m'imbarcherò di nascosto sulla Santa Cattarina. - Come farai? - Domattina all'alba, con la complicità del nocchiero, salirò a bordo e mi nasconderò nella stiva. - Che dirà tuo padre quando si accorgerà dell'inganno? - Di questo non mi preoccupo, Loredana. Se mio padre vorrà punirmi, subirò il castigo, ma prenderò ugualmente parte alla battaglia. - Oh, Alvise! - Senti, Lori, io mi preoccupo piuttosto della nonna Bettina. - Che ne sarà di lei, poveretta? - Non partirei, Lori, se tu non ci fossi. - Che cosa posso fare, io? - Ascoltami, Loredana. Tu devi prenderti cura di nonna Bettina. L'affido a te. Non sei forse la mia sorellina? - La fanciulla scosse il capo, poco persuasa di doversi prestare a quella fuga. Alvise seguiva sul caro viso le perplessità che agitavano Loredana, e ne sentiva una vaga inquietudine. - So di chiederti molto, Lori, ma spero che il tuo sacrificio non sarà vano. - Non è per me, Alvise, che rimango così incerta, credilo! - Lo so, sorellina cara; ma vedrai che prima dell'inverno saremo di ritorno. - Dio lo voglia, Alvise! - Mi aiuterai, dunque? - Un profondo sospiro sfuggi dalle labbra della fanciulla. - Sia fatto come tu vuoi, Alvise! - Grazie, Lori! - esclamò il ragazzo, felice. - E io ti prometto di non tornare solo. Dopo la vittoria sui Turchi andrò alla ricerca di Lorenzo Sagredo. - Alvise, Alvise! - pregò Loredana mentre gli occhi le si empivano di lacrime. Stava seduta sul muricciolo, le spalle un po' curve, le mani intrecciate sulle ginocchia, e il vento, che odorava di salmastro, le scompigliava i riccioli biondi. - Come farai, Alvise? - chiese in un soffio. - Non lo so, Lori, ma Dio e san Marco mi aiuteranno. - Tacquero, e ciascuno segui la scia dei propri sogni: il ragazzo andava con il pensiero alle future imprese eroiche in terra lontana; la fanciulla sognava la quiete della sua antica casetta rallegrata dal sorriso dei suoi cari. Tutto intorno spirava dolcezza. Il sole accendeva bagliori nell'acqua calma del rio e dava luci di smeraldo alle chiazze di museo del muricciolo dove le lucertole strisciavano timide e sospettose. Dal campanile di San Pantaleone giungevano i rintocchi argentini delle campane che chiamavano i fedeli alla Messa, e quel suono pareva impigliarsi tra i rami fioriti del tiglio, prima di affievolirsi e perdersi lontano. - Lori, - sussurrò Alvise, gettando sulla fanciulla uno sguardo che era una preghiera - vuoi dipingermi un leone di san Marco su questo pezzo di stoffa? - Tolse dalla tasca interna del giubbetto un palmo di panno turchino e lo porse a Loredana, soggiungendo: - Sarà la mia bandiera e la inalbererò sulla Santa Cattarina. Mi ricorderà ogni giorno e ogni ora che la mia cara sorella prega per me. - Ogni giorno e ogni ora, sì, Alvise! - rispose Loredana, commossa. - Ma ora andiamo a fare la spesa, altrimenti non avremo tempo di preparare la colazione. - Mentre si alzava dal muricciolo Si ricordò del suo acquarello e disse ad Alvise: - Passiamo prima da messer Antonio. - Hai da offrirgli qualche cosa? - Sì. - Un altro lavoro di tuo padre? - La fanciulla esitò prima di rispondere; poi disse lentamente, quasi a malincuore: - È un piccolo acquarello mio. - Tuo? Fammelo vedere. - Guarda pure, Alvise. - Il giovane ammirò in raccolto silenzio l'abilità e il coraggio della sua compagna d'infanzia, poi le restituì il quadretto, e prendendole affettuosamente la mano, s'incamminò con lei verso la bottega del rivenditore di oggetti artistici. Erano insolitamente silenziosi, poichè ciascuno pensava al prossimo distacco e all'incerto domani. Di tanto in tanto si guardavano negli occhi e si sorridevano quasi a infondersi coraggio a vicenda. Messer Antonio li accolse con benevolenza. Prese l'acquarello di Loredana e uscì all'aperto dove dalla stretta apertura tra le due case, s'insinuava un raggio di sole. Lo colpì la firma del Sagredo, posta secondo il solito, in basso a destra; ma capì subito che l'opera non era del celebre pittore: un difetto di prospettiva e l'ingenuità della fattura lo rivelavano subito. .... e osservò di nuovo il quadretto. Volle tuttavia lasciar credere a Loredana che riteneva autentica quella pittura. - Mi piace, questo paesaggio! È della prima maniera del Sagredo. Se hai altri lavoretti simili di tuo padre portameli, chè qualche cosa cercheremo sempre di ricavarci. - Ma che dite, messer Antonio! Questo quadretto non è di mio padre, - disse subito Loredana, arrossendo. Al vecchio negoziante piacque la sincerità della fanciulla. Le sarebbe stato così facile tacere e lasciar credere che l'opera fosse autentica! Ed egli, nella sua bontà, l'avrebbe scusata, anche se in fondo al cuore gli fosse rimasto un certo dolore per il volontario inganno. - E di chi è, allora? - chiese messer Antonio. simulando meraviglia. - Vedo qui la firma di tuo padre. - Ma no! è la mia firma: Loredana Sagredo. - Tua? - chiese il vecchio con meraviglia sincera, questa volta. - Sì, l'ho dipinto stamani all'alba. - Il negoziante tornò in mezzo alla viuzza, alla luce del sole, e osservò di nuovo il quadretto. «Strano!» pensava. «Chi ha dato a questa bambina tanta abilità nel cogliere i giuochi mutevoli della luce? Chi le ha insegnato la morbidezza dei contorni e la tenue sfumatura delle ombre? Dono di Dio, senza dubbio! Che freschezza di concezione nonostante l'inesperienza! Questo ciuffo d'erba, per esempio, qui in primo piano, fra i tegoli rossigni, è una vera originalità.» Così pensava il vecchio negoziante mentre i minuti scorrevano lenti per la fanciulla che aspettava, all'ombra del portico. Neppure per un istante aveva avuto l'intenzione d'ingannare messer Antonio; la sua coscienza non si piegava all'inganno. Appoggiata al pilastro dell'architrave, Loredana continuava a stringere nella sua la mano di Alvise, quasi volesse aggrapparsi a lui in quegli istanti d'intima angoscia, mentre le pareva di naufragare in un mare tempestoso. Lentamente messer Antonio tornò verso di lei e il suo viso rugoso, incorniciato dalla candida barba, esprimeva una pacata dolcezza. - Piccola Sagredo, continua a lavorare così, - le disse - e tuo padre sarà contento di te. - A Loredana parve che quel raggio di sole sul lastrico della strada s'ingrandisse sempre più, invadesse la stretta calle, il fondaco tenebroso, e tornasse lassù, in alto in alto, fino a ricongiungersi con l'astro fiammeggiante dal quale era disceso. Le sue dita si staccarono finalmente da quelle di Alvise e un profondo sospiro di sollievo le sfuggì - Tieni, piccola.... e quando avrai altri lavori.... dalle labbra. Grazie al Cielo l'avvenire della sua povera cieca era assicurato! Avrebbe lavorato, lavorato molto, cercando di fare sempre meglio, affinchè alla sua mamma non mancasse mai nulla. Ma quanto doveva al vecchio amico che con tanta generosità l'assisteva! Messer Antonio era entrato nel fondaco e aveva invitato i giovani a seguirlo; poi aveva tolto dal cassetto una somma per darla a Loredana. - Tieni, piccola; - le disse - e quando avrai altri lavori, portali al vecchio Antonio. - La fanciulla avrebbe voluto saltargli al collo e abbracciarlo in segno di riconoscenza; ma lì per lì un certo pudore la trattenne. Messer Antonio indovinò il gesto non compiuto e un'ombra di tristezza gli velò lo sguardo. D'impeto, Loredana lo abbracciò e impresse due grossi baci sulle sue guance rugose. Poi, senza aggiungere una parola, si allontanò, seguita da Alvise. Messer Antonio l'accompagnò con lo sguardo finchè scomparve alla svolta della calle, quindi rientrò nel suo fondaco. Due tremule lacrime scesero dalle sue orbite incavate fino alla candida barba, dove luccicarono come rugiada al sole.

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Era composta di quarantotto galee sottili e sei grosse, precedute dalla capitana, pavesata dallo stemma del Veniero a strisce rosse e argento, con il leone di san Marco in oro nell'angolo superiore della prima fascia rossa. Sebastiano Veniero, colui che doveva passare alla storia come l'eroe di Lepanto, aveva allora settantacinque anni. Nonostante la tarda età, era la prima volta che veniva chiamato ad affrontare i rischi della battaglia. D'ingegno vigoroso e pronto e di animo virile, egli aveva giovato alla sua patria nelle cure dello Stato, nelle controversie legali, nel governo delle province e nelle più ardue magistrature. Ma ora il vecchio giurista e acuto magistrato usciva a un tratto a prender posto tra gli eroi più arditi della gloriosa storia di Venezia. Non era tuttavia la prima volta che Sebastiano Veniero navigava verso lontane contrade. Giovanissimo, d'indole violenta, egli si era imbarcato sulle navi mercantili per compiere uno di quei viaggi nei quali i rampolli del patriziato si tempravano ai più duri cimenti. Il dolce vento di luglio faceva garrire il vessillo bicolorato della capitana, e i riflessi argentei e porporini rallegravano gli sguardi di Alvise, ritto sul ponte della Santa Cattarina. Era il primo giorno, dopo venti di navigazione, che egli poteva rimirare le onde mutevoli e brillanti. Imbarcatosi innanzi giorno a Venezia dopo aver salutato Loredana che era venuta a portargli la bandiera azzurra sulla quale aveva dipinto il leone di san Marco, si era rifugiato nell'angolo più remoto della stiva, dalla quale era uscito dopo parecchie ore di navigazione per presentarsi a suo padre. Questi, vedendolo, ebbe un moto di sorpresa; poi, dopo un breve interrogatorio, aveva ingiunto al nostromo di ricondurlo nella stiva e di tenerlo nei ceppi per venti giorni. - Così si puniscono i - aveva soggiunto, congedando bruscamente il figlio. Come gli erano parsi lunghi quei venti giorni trascorsi nell'umida penombra della stiva, legato ai ceppi e tenuto strettamente a pane e acqua! Rumori continui e indistinti gli dicevano che in ogni angolo della nave la vita ferveva, e quando, lassù in alto, si apriva il boccaporto, un'ondata di luce tepida e di aria salmastra giungeva fino a lui, più dolce e inebriante di un vino generoso. Fatta eccezione del nostromo, che veniva due volte al giorno a portargli il pane e a rinnovargli l'acqua nella brocca, egli non aveva visto nessuno, ma non se ne era afflitto. «È giusto,» pensava «ch'io sia punito.» Meditava tutto il giorno su quanto avrebbe fatto, e pensava alle persone care che aveva lasciate. Povera nonna Bettina, come aveva appreso la sua fuga? Per fortuna Loredana era presso di lei a confortarla e assisterla! Piccola cara Lori, sorellina amata! Pareva ad Alvise che la chioma fiammeggiante della fanciulla diradasse le tenebre di quella stiva vischiosa e la riempisse di luce e di profumo. Di tanto in tanto toglieva dal seno la bandiera azzurra col leone di san Marco, e la sventolava lietamente con l'impressione che un lembo di cielo si fosse staccato dalla immensa volta siderale per venire a rallegrare la sua segregazione. Poi, come tutto finisce in questo mondo, anche quella prigionia finì. Venne il nostromo, gli tolse i ceppi e lo accompagnò sul ponte dove Zuambattista Benedetti lo aspettava, circondato dai suoi uomini. Quando il figlio comparve, un poco pallido in viso per la lunga permanenza nella semioscurità e ....legato ai ceppi.... per la commozione che lo dominava, il comandante gli si avvicinò e, abbracciandolo, gli disse: - Alvise, da vero soldato tu hai subito la tua pena, e ora fai parte della nostra comunità. Hai lasciato la tua vecchia nonna, la tua casa, per venire a combattere contro i nemici della nostra fede, e mi auguro che tu possa tenere sempre alto il nome dei Benedetti. Ti nomino fino da questo istante marinaro della Serenissima e ti benedico, figlio mio. - Chi poteva ridire la felicità e l'orgoglio che inondarono il cuore di Alvise? Lì, ritto sul ponte, guardava garrire contro il sole il vessillo argenteo e porporino di Sebastiano Veniero. La Santa Cattarina procedeva lenta e maestosa nella scia della capitana, e tutto intorno le altre galee navigavano a uguale distanza l'una dall'altra: con le bianche vele gonfiate dalla brezza, che veniva da nord-ovest, sembravano immensi gabbiani adagiati mollemente sulle onde leggiadre. La testa scoperta sotto il sole di luglio, i ricciuti capelli neri accarezzati dal vento che era passato sui fioriti giardini delle spiagge italiche, il bel viso illuminato dagli occhi ardenti sotto le folte ciglia, Alvise andava da un capo all'altro della galea, osservava tutto e a tutti dava aiuto. Ma ciò che più di ogni altra cosa entusiasmava il giovane erano le lezioni nautiche di suo padre. Zuambattista Benedetti, che vedeva riflessa nel figlio, e quasi ingigantita, la passione dei suoi anni giovanili, non tralasciava occasione per istruirlo nei sottili, accorgimenti ai quali, in mille circostanze, deve ricorrere un abile comandante. Alvise faceva tesoro di quegli insegnamenti, e si può dire che, di ora in ora, la sua mente si arricchiva di cognizioni utili per gli anni a venire. Il 23 luglio, la squadra veneziana giungeva in vista di Messina. Subito, tra il rombo incessante delle artiglierie, le navi pontificie pavesate a festa mossero loro incontro e si unirono alle navi venete per tornare insieme nel porto. Le galee di san Marco si attraccarono lentamente nella baia, dove le onde erano rade e calme, e i gabbiani che le avevano seguite da un approdo all'altro volteggiavano loro intorno con larghi voli concentrici. Una barca venne ad affiancarsi alla scaletta della nave capitana e il condottiero della squadra pontificia, seguito da Michele Bonelli, nipote del Papa, da monsignor Paolo Odescalchi, nunzio pontificio, e da Onorato Caetani, generale della fanteria romana, salirono per salutare e festeggiare l'ammiraglio di Venezia. Nei giorni che seguirono si fecero grandi feste e conviti a bordo delle due capitane di Roma e di Venezia, poi, calmato l'entusiasmo, incominciò la lunga attesa. Di quella forzata ma ingloriosa ignavia approfittarono le armate turche che presero a scorrazzare col ferro e col fuoco per terra e per mare e giunsero fin quasi a Venezia. Candia ridente venne devastata, Corfù fu danneggiata, Gerico, Zante e Cefalonia caddero nelle Alvise.... osservava tutto e a tutti dava aiuto. mani del Turco rapace. Il castello di Sopotò, valorosamente conquistato un giorno dal Veniero, fu ricuperato dai Turchi dopo un violentissimo assalto. Penetrati nell'Adriatico, saccheggiarono Dulcigno, Antivari, Curzola, Lesina, e misero a fuoco Budua e molti altri castelli. Le notizie di tante sciagure infiammavano d'ira e di dolore Sebastiano Veniero. Egli deplorava quel tempo inutilmente perduto, e avrebbe voluto muoversi, correre con le sue galee veloci dove il pericolo era maggiore, arrischiare qualche impresa disperata, pur di frenare quella tremenda corsa alla conquista. Solamente l'autorità e la prudenza di Marc'Antonio Colonna, ammiraglio delle navi papali, riuscivano a contenere l'impeto del vecchio condottiero veneto. Anche sulla Santa Cattarina, vivevano di riflesso indomito, della capitana. Zuambattista Benedetti e suo figlio Alvise agognavano di misurarsi con gli infedeli; ma anch'essi, come il Veniero, dovevano mordere il freno. Frattanto, però, non perdevano il loro tempo e Alvise acquistava sempre maggiore abilità nel comando della galea. Padre e figlio scendevano spesso a terra e gironzolavano per i dintorni di Messina, tra le viuzze dell'orto e lungo le fiorite rive del mare che s'increspava sotto l'infocato riverbero del sole estivo. L'aria era satura dell'olezzo delle zagare, e dalle argentee chiome degli ulivi scendeva una fresca brezza a mitigare la grande calura. Il cielo e il mare apparivano di un verdazzurro stupendo. Nelle prime ore del giorno l'atmosfera era così cristallina da lasciare scorgere, in lontananza i contorni delle isole Lipari. Alvise, abituato ai delicati riflessi della laguna veneta, si sentiva stordito in tanta festa di colori e di effluvi che preludevano a quelli più violenti e intensi dei mari di Levante. E verso il crepuscolo, quando la cortina bruna della notte cominciava a stendersi su tutta quella esultanza di vita, la nostalgia dei suoi canali perlacci e dei suoi campieli silenziosi gli pungeva il cuore. Allora, nascondendo il capo sotto le coltri della sua cuccetta, si stringeva al cuore l'azzurra bandiera con il leone di san. Marco e attendeva a lungo il sonno.

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Allo stesso scopo, scortato da sette galee sottili, il luogotenente Barbarigo si sarebbe diretto a Patti. La Santa Cattarina doveva seguire la nave ammiraglia, e Alvise godeva di riprendere il mare. Il caldo, in quei giorni, era intenso e non un filo d'aria faceva gonfiare le vele, che pendevano flosce e inerti lungo le alberature. Le chiome argentee degli ulivi digradanti dolcemente sembravano bianche sotto il solleone, e una leggera foschia avvolgeva la terra e il mare. Per tutta la giornata del 6 agosto le navi proseguirono lentamente sulle onde stanche; solo verso il tramonto si alzò una tenue brezza, che cadde, però, al sopraggiungere della notte. Le vele si afflosciarono di nuovo e tutto fu calma e silenzio sotto quel cielo buio tempestato da miriadi di stelle. Verso l'alba Alvise, che era di guardia sul ponte, cominciò a notare uno strano ribollire delle onde. Anche il cielo, che sembrava più basso, si rabbuiava. Torme di delfini saltavano inquieti lungo i fianchi delle navi e le rigide code sbattevano sulle acque di un colore lattiginoso. Sorpreso e turbato, il ragazzo scese dal padre e lo informò delle sue osservazioni. Salirono insieme sul ponte. Tutto intorno il paesaggio era diventato grigio e pieno di ombre. Zuambattista Benedetti diede subito ordine di ammainare le vele. Rapidamente i marinari s'inerpicarono sui pennoni e in un batter d'occhio le alberature rimasero nude contro il cielo aggrondato. Il nostromo s'impadronì del timone e tenne la nave in rotta con la sua mano d'acciaio. A poco a poco, nella luce sempre più fioca, il mare cambiava. Nell'aria cominciò a fremere un'ala di vento, e quel soffio leggero passò sulle galee che sembrava aspettassero, in muto stupore, lo scatenarsi dell'uragano. Ora la luce si era spenta del tutto. Il mare circostante precipitò in una notte fonda. In quel tenebrone brillavano lampi accecanti come mine. Nembi grevi si avvicinavano da ogni parte, silenziosamente. Rade gocce di pioggia, miste a grossi chicchi di grandine, cominciarono a cadere sul ponte con un ritmico rumore di tamburo. I chicchi rimbalzavano e rotolavano come candide perle e le onde li inghiottivano a uno a uno. A narici dilatate, il viso e le braccia rigati di pioggia, i marinari della Santa Cattarina lavoravano senza posa. Zuambattista Benedetti era veramente l'abile nocchiero di quella nave in balla dei fiutti, ma i suoi occhi non abbandonavano il figlio giovinetto. Con mille sottili accorgimenti egli cercava sempre di essergli vicino e di affidargli gli incarichi meno rischiosi. La bufera andava aumentando di violenza. La pioggia e la grandine scendevano sempre più fitte. La bufera andava aumentando di violenza. In quel buio, sciami di. gabbiani, battuti dalle raffiche, scivolavano giù con volo incerto non sapendo dove posarsi, finchè si accasciavano impauriti sulle galee e s'impigliavano tra le alberature e le vele, gridando, rissosi e disperati. I lampi, sempre più frequenti e accecanti, illuminavano quella tempesta di ali che di tanto in tanto si abbattevano sul ponte come un candido e vaporoso ventaglio che si chiude. Il mare gonfio sembrava voler sommergere ogni cosa. Le onde s'impennavano e pareva volessero subissare il cielo. A sinistra e a destra, davanti e di dietro, le sagome delle altre navi sparivano e ricomparivano saltuariamente tra un lampeggiare infernale. Le folgori cadevano da ogni lato con uno schianto che faceva sussultare il cuore di quegli uomini intrepidi. Il vento urlava senza tregua. Le onde gigantesche si abbattevano, una dietro l'altra, sulle navi alla deriva. Le nubi scendevano fino a lambire le acque e pareva seppellissero l'universo sotto una cappa di piombo. - Alvise.... - La voce del padre era giunta fioca e quasi indistinta agli orecchi del ragazzo benchè non fosse che a pochi passi di distanza. - Babbo!... - rispose Alvise, correndogli vicino. Era pallido di stanchezza e inzuppato di pioggia. - Alvise, non ti allontanare da me. - Siamo in pericolo, babbo? - Sì, figlio mio. - Non possiamo far nulla? - Siamo nelle mani di Dio. - .... riuscì a far aggrappare Alvise al rottame.... Istintivamente, Alvise si aggrappò al padre con una stretta muta e disperata. Zuambattista Benedetti cinse con il suo forte braccio le spalle del figlio e lo tenne stretto a sè. La bufera ebbe un attimo di sosta, quasi volesse raccogliere tutte le sue forze prima dell'assalto supremo. Poco lontano dalla Santa Cattarina si formò un risucchio. Subito dopo, una tromba d'acqua si alzò gigantesca, corse minacciosa verso la nave, la investi, la sommerse. Uno scricchiolio tremendo, che per un attimo soffocò ogni altro rumore, si alzò dal mare in tempesta. Quando la tromba passò, perdendosi lontano, la bella galea di Zuambattista Benedetti non era più che un mucchio di rottami informi che fluttuavano sulle onde. In quei tragici istanti il padre non aveva abbandonato la sua creatura. La stretta del suo valido braccio si era fatta più forte e aveva sostenuto Alvise, lo aveva riportato a galla; poi i suoi muscoli cominciarono a stancarsi. Al vivido tremolare di un lampo egli scòrse il rottame di un'alberatura. Verso quel legno, che poteva essere l'unica salvezza di Alvise, il padre nuotò con il braccio che aveva libero. Ma la lotta per impossessarsene fu lunga, estenuante. Quando egli credeva di averlo raggiunto e stava per afferrarlo, un'onda glielo ricacciava lontano. Allora ricominciava, sempre trascinandosi dietro il dolce peso del figlio. L'amore paterno gli centuplicava le forze. Per riprendere coraggio, egli guardava di tanto in tanto gli occhi di Alvise, quei cari occhi che rispondevano fiduciosi al suo sguardo. Fili d'alghe si erano impigliati tra i riccioli bruni del giovane, e il padre delicatamente glieli tolse. Tanti e tanti anni sembravano annullati. Zuambattista. Benedetti stringeva tra le braccia il suo piccino, ritratto vivente della sposa scomparsa. E andavano insieme, così. Finalmente un'onda spinse verso di lui l'alberatura spezzata. Con uno sforzo disperato l'afferrò e la tenne stretta al proprio cuore palpitante. Ma a un tratto • sentì che la sua resistenza era agli estremi. Stringendo i denti, nello spasimo di tutte le membra irrigidite, il capitano riuscì a far aggrappare Alvise al rottame della Santa Cattarina; poi si tolse la cintola dalla casacca, e con quella legò strettamente il giovane all'albero spezzato. - Addio, Alvise, e Dio ti accompagni! - mormorò Zuambattista Benedetti, mentre tracciava un gran segno di croce con la mano stanca. Il vento rubò e disperse le parole paterne. Alvise non le udì. Ma la benedizione rimase sul capo del figlio e l'accompagnò in quella tragica avventura, come un viatico, come una speranza, come una preghiera accolta dall'Altissimo.

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La pioggia diminuì a poco a poco e il sereno riapparve nella volta celeste. Un tenue raggio di sole filtrò dalle nubi, ancora turgide e minacciose, che il vento spingeva lontano. Quel sole accarezzò il viso esangue del giovane che giaceva sulla rena, della spiaggia dove le onde lo avevano sospinto. Alvise aprì gli occhi e si guardò lentamente intorno. Silenzio e solitudine lo circondavano. Il mare appariva appena appena increspato di bianco. Egli contemplò a lungo, con un misto di stupore e di sgomento, lo spettacolo di devastazione e di pace che si offriva alla sua vista. Un oggetto duro gli premeva i fianchi in modo molesto. Volle scansarlo, ma qualche cosa che glielo teneva aderente rese vano il suo gesto. Si curvò, cercò, e riconobbe la cintola del padre passata intorno a un rottame di alberatura e stretta poi alla sua persona. Tutto, allora gli tornò chiaro alla mente: infuriare degli elementi e quel lungo andare alla deriva, stretto tra le braccia paterne. Gli occhi gli si empirono di lacrime brucianti. Dov'era il babbo? Con grandi sforzi potè sollevarsi, guardarsi intorno, fare qualche passo. Oltre la breve spiaggia si stendeva un terreno brullo, coperto di buche nelle quali luccicava l'acqua salmastra. Radi ciuffi di erbe crescevano qua e là. Il mare lambiva con piccole onde la. sabbia umida e si ritraeva con un lieve risucchio. Le alghe gettate sulla spiaggia durante la bufera formavano un tappeto viscido e coprivano in parte pezzi di casse sfasciate e brandelli di vele. Frammenti di conchiglie dai riflessi madreperlacei splendevano a momenti, dove le onde erano più vivaci. Il mare si apriva immenso, senza alcuna imbarcazione nè lontana nè vicina. Un solo albero sorgeva oltre il terreno brullo. E in tanta solitudine quell'albero sembrava un richiamo amico. Alvise vi s'incamminò, ma la sabbia molle e le alghe viscide gli stancavano il passo vacillante. Piegò allora a destra, dove sorgevano delle rocce rivestite di cespugli spinosi, e scoprì una grotta. Vi penetrò per riposare. Il suolo era coperto di sabbia asciutta e tepida, e ciuffi d'erbe di un bel verde crescevano tra gli interstizi della volta rivestita, di licheni. Con lentezza, dolorando in tutte le congiunture, egli si tolse di dosso i panni bagnati per stenderli al sole. La bandiera dipinta da Loredana, ch'egli aveva sempre tenuta con sè, cadde per terra. Alvise la raccolse rapidamente. L'acqua marina l'aveva un po'scolorita, ma, non aveva cancellato il leone di san Marco. Egli si strinse al cuore l'emblema della patria lontana, mentre gli occhi gli si empivano di lacrime brucianti. Vinto dalla stanchezza, il povero ragazzo si distese sulla sabbia tepida, al riparo dal vento che ancora soffiava con. violenza. Quel tepore e quel riposo lo ristorarono come un nutrimento. Giacque così, immoto, a lungo, con il pensiero rivolto al padre. Dove lo aveva trascinato la furia cieca delle onde? Con un movimento inconscio le mani accarezzavano la sabbia e le dita affondavano nel suo tepore. Gli occhi gli bruciavano per la salsedine ma finalmente, stanchi, si chiusero al sonno. Si destò che il sole tramontava in un nimbo porporino. I suoi panni si erano asciugati ed egli potè indossarli, benchè l'acqua del mare li avesse induriti. Erano tutti incrostati di salsedine, ma conservavano ancora il calore del sole. Alvise usci all'aperto e s'incamminò a stento alla ricerca di un po'di cibo. Le gambe lo reggevano male. Girò oltre gli scogli, e la piccola isola sulla quale le onde lo avevano gettato gli si schiuse davanti, deserta e silenziosa. Solamente sull'albero, ricco di lucide foglie, volteggiava una tribù numerosa di pispiglianti pennuti. Incerto sul da farsi, illanguidito dall'inedia, il ragazzo continuò il suo cammino; ma a un tratto si fermò, pieno di spavento. Nell'aria quieta della sera aveva udito un gemito. Il primo moto di Alvise fu di ritornare nella grotta e trincerarvisi, nell'attesa degli eventi; ma la sua bontà, ebbe il sopravvento. La persona che si lamenta,va in quel modo doveva aver bisogno di aiuto, ed egli non poteva sottrarsi a quell'umano dovere. .... aveva udito un gemito. Raccogliendo tutte le sue forze superò il folto cespuglio che gli si parava dinanzi, e vide disteso sulla rena un uomo, inzuppato fino alle ossa. Gli si avvicinò e gli s'inginocchiò a lato. Lo sconosciuto poteva avere una cinquantina d'anni ed era di complessione massiccia, alto e robusto. Una folta barba brizzolata gli copriva, buona parte del viso scarno solcato di rughe. Gli occhi erano chiari, grandi, pieni di mansuetudine. Indossava la divisa di marinaro della Serenissima. - Vedo che siete anche voi un naufrago della squadra veneta, - osservò dolcemente Alvise. - Dell'Intrepida, - rispose brevemente l'uomo, con voce profonda. - E tu, ragazzo? - Della Santa Cattarina. Sono figlio di Zuambattista Benedetti. - Bravo capitano. Siamo stati sfortunati, ragazzo. In tanti anni di navigazione non mi sono mai trovato a una simile bufera. Temo che molte navi siano andate perdute. - E voi credete che mio padre si sarà salvato? chiese Alvise ansiosamente. Il vecchio marinaro non rispose subito. Girò verso il mare il viso, e nel suo chiaro sguardo sereno passò un'ombra. Aveva compreso che Zuambattista Benedetti era ormai sepolto nelle misteriose profondità marine. Non volle però togliere al figlio quella vaga speranza che gli avrebbe reso meno amara l'incertezza dei giorni a venire. - Caro ragazzo, tuo padre sarà stato certamente raccolto da qualche galea di scorta. - Voi mi rendete la vita! - esclamò Alvise, mentre una tenue fiamma gli saliva alle guance smorte. - Ma ora ditemi che cosa posso fare per voi. - Credo di avere una gamba spezzata, giacchè soffro atrocemente a ogni minimo movimento. - Alvise raccolse un fascio di alghe e lo pose sotto il capo del marinaro. Poi, piano piano, con grande delicatezza, denudò l'arto.spezzato. Bisognava provvedere a detergere la ferita dalla rena che la imbrattava. Alvise si guardò intorno e non vide tra i rottami che qualche brandello di vela. Ne raccolse un pezzo, e formandone conca andò al mare ad attingere acqua. Con questa deterse la ferita, indi pose sotto l'arto uno stecco robusto, e con altri frammenti di vela ve lo fissò saldamente. L'uomo non aveva emesso un gemito, ma la contrazione Finalmente l'uomo varcò l'ingresso della grotta.... delle labbra e il livido pallore del viso ne svelavano la sofferenza. - Ora bisognerebbe che cercaste di trascinarvi fino alla grotta. - Piano piano mi ci proverò, - rispose il marinaro, sollevandosi sui gomiti. L'impresa fu lunga e dolorosa. Alvise faceva quanto poteva, ma, stante la sua debolezza, non era di grande aiuto. Finalmente l'uomo varcò l'ingresso della grotta e si gettò esausto B G 7 - 4 sulla rena tepida. Anche Alvise si sedette alcuni istanti per riprender fiato, indi provvide a togliere al ferito i panni zuppi. La fatica e il caldo di quella serena sera di agosto bagnavano di sudore la fronte del ragazzo. Quando il marinaro, libero dai panni bagnati giacque sulla rena asciutta e calda, respirò di sollievo e volse al giovane uno sguardo pieno di gratitudine. - Bisognerebbe ora poter mangiare qualcosa, disse Alvise che, finito il suo compito, tornava a sentire i morsi crudeli della fame. - Se ti senti di andare qui a destra dell'isoletta, dove gli scogli giungono fino al mare, potrai fare un'abbondante raccolta di molluschi. È un cibo sano e nutriente. Domani, poi, esplorando il terreno intorno, troverai forse qualche altra cosa. Da quanto ho potuto capire, l'isola è piccola, ma non priva di vegetazione. - Raccogliendo le sue forze stremate, Alvise uscì di nuovo all'aperto e s'incamminò verso gli scogli. Il sole era ormai scomparsa e le ultime luci del crepuscolo morivano senz'ombra sulle rocce e sulle foglie strette dei cespugli. La voce del mare si udiva appena; era un suono diffuso e sommesso, insistente e monotono, piuttosto lugubre nella crescente oscurità delle cose. Dove cielo e mare pareva si toccassero, le nuvole si erano schierate compatte e brune come montagne di minerale grigiastro, e formavano un semicerchio che chiudeva l'orizzonte. Alvise entrò nell'acqua fino alle ginocchia, e costeggiando le rocce potè infatti raccogliere buon numero di quei frutti di mare chiusi nelle loro conchiglie dai frastagliati contorni. Tornato nella grotta, fece parte dello scarso cibo al suo compagno di sventura, copri costui con la propria casacca per difenderlo dall'umido della notte, poi, sfinito dalla stanchezza, gli si adagiò al fianco e, rivolta la mente a Dio, si addormentò profondamente.

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La brezza che veniva dal largo gonfiava la piccola vela triangolare fissata a un ramo ancora verde. La pesca si annunziava abbondante, e il giovane si sentiva lieto e fiducioso, di una letizia e di una serenità che gli allargavano il cuore. Era già trascorso un mese e mezzo da che la bufera lo aveva gettato su quell'isola deserta. Egli aveva contato il tempo nel lento sgranarsi delle aurore e dei tramonti. Mai, in quei giorni, una piccola alberatura era apparsa a rompere la placidità dell'orizzonte; ma Alvise e il suo compagno non avevano disperato. Essi avevano affidato a Dio, che nutre gli uccelli dell'aria e riveste i fiori dei campi, la loro vita e la loro liberazione. Quando, di tanto in tanto, la brezza cadeva e la zattera si fermava, cullata dalle onde tranquille, Alvise ricordava i giorni recentemente passati e un brivido di sgomento gli correva ancora per la persona. Ripensava alle sue prime ore di naufrago, allorchè andava disperatamente in giro per l'isola in cerca di qualche cosa per sostentare il suo compagno assalito da una febbre altissima. La Provvidenza gli era venuta in aiuto. Nella minuscola rada, in mezzo agli scogli, aveva trovato alcune cassette piene di viveri, relitti del naufragio delle galee venete sospinti in quell'angolo morto dalle onde infuriate. Quasi ai piedi dell'albero egli aveva inoltre scoperto una polla di acqua freschissima, leggermente alcalina, che gli era stata di valido aiuto in quella vita primordiale. Poi, piano piano, la febbre era scomparsa del tutto; la forte fibra dell'infermo aveva vinto il male. Ma Alvise, ricordando le tremende notti insonni trascorse accanto al malato delirante, si sentiva ancora agghiacciare. Alla fine la sua abnegazione e la sua costanza nel curarlo erano state premiate. Il marinaro, guarito, gli era stato d'immenso sollievo. Il poveretto si trascinava fino all'ingresso della grotta, e lì seduto, con la gamba ferita esposta ai benefici raggi del sale, provvedeva a costruire molte cose necessarie, utilizzando le scarse risorse dell'isola e i relitti del naufragio. Aveva costruito anche la zattera con la quale Alvise faceva ogni giorno il giro del loro dominio e ne tornava con il rozzo canestro colmo di pesce guizzante. Con l'aiuto di certe erbe aromatiche che crescevano abbondanti nella parte orientale dell'isola, Agnolo, così si chiamava il marinaro, riusciva a fare un'ottima zuppa di pesce. Sempre a oriente dell'isola, Agnolo aveva suggerito ad Alvise di scavare nella roccia alcune buche che, riempite poi d'acqua di mare, formavano piccoli stagni artificiali dove l'acqua, evaporata dal calore del sole, lasciava uno strato di sale, molto utile per i loro cibi. Gli uccelli, che nidificavano numerosissimi sui rami frondosi degli alberi, fornivano con la loro carne e con le loro uova una variante al cibo quotidiano. Essi venivano catturati mediante alcune rudimentali tagliole nascoste intorno agli alberi e cotti nello spiede davanti a una bella fiamma crepitante. Agnolo aveva raccolto una grande quantità di alghe, seccate dal sole, e con dei pezzi di vele cuciti con fibre animali aveva fatto due materasse asciutte e morbide. Così, nell'incessante lavoro e nel reciproco aiuto, la loro vita scorreva abbastanza serena. Ma, dove era in quel tempo la squadra veneta? La battaglia contro i Turchi aveva avuto luogo?... E quale ne era stato il risultato? Domande che i due naufraghi si rivolgevano spesso. Alvise, inoltre, pensava al padre, a nonna Bettina, a Loredana. Che cosa facevano i suoi cari? Invocavano il suo ritorno o piangevano la sua morte? Mentre la zattera procedeva mollemente cullata dalle onde, Alvise lasciava che la nostalgia cullasse il suo tenero cuore. Qualche volta tornava da Agnolo, con gli occhi rossi nel viso dimagrito e bruciato dal sole e dal vento salmastro; ma bastavano poche parole buone del suo compagno per rincorarlo e infondergli fiducia nell'avvenire. Per fortuna la stagione si era mantenuta buona. Solamente qualche giorno prima il cielo si era rannuvolato e la pioggia era caduta monotona e insistente per ventiquattr'ore. Sembrava, quella pioggia, l'addio accorato dell'estate. Il sole, tornato nel cielo di un pallido azzurro, aveva illuminato il mare improvvisamente scolorito. Solo la vegetazione delle dune e le foglie dell'albero apparivano più verdi e lucide dopo quell'acquazzone. All'alba e al tramonto l'aria cominciava a farsi pungente e già aveva il mesto sapore dell'autunno. Che ne sarebbe stato dei due naufraghi quando il maestrale, e le raffiche della pioggia sempre più fitte, e le brume sempre più dense avessero avvolto l'isola? Quando le verdi foglie dell'albero fossero ingiallite e la pispigliante tribù dei pennuti dispersa in cerca di lidi più clementi? Ma nel chiaro mattino di fine estate era dolce vogare, cullati dalle onde leggiere, sospinti dalla tepida brezza. E nel cuore di Alvise ferveva un grande amore, per le cose e per gli uomini. Egli andava, andava, sulle ali dei suoi giovani anni, e gli pareva di compiere viaggi sognati in giorni lontani, viaggi ammalianti che, pur percorrendo tutte le strade del mondo, lo riconducevano sempre alla sua città benedetta. Eccolo lì, il leone di san Marco che sventola sul pennone di fortuna della zattera, vicino alla piccola vela bucherellata! Gli bastava di alzare gli occhi su quel fragile lembo di patria perchè tutte le cose, mare, cielo, scogli e spiaggia, assumessero uno splendore insolito. Lo avresti creduto tu, piccola Loredana lontana, un simile miracolo, mentre la tua mano dipingeva l'emblema dell'Evangelista sullo sfondo turchino? Immerso nei suoi pensieri, il giovane non si accòrse che stava per doppiare la punta della scogliera e avvicinarsi alla loro piccola rada sabbiosa. Si era dimenticato di lanciare il solito richiamo all'amico intento certamente ad ammannire il frugale pranzo. - Agnolo, Agnolooo! - gridò con tutta la forza dei suoi capaci polmoni. Nessuna voce rispose al suo appello. Sorpreso e inquieto, Alvise afferrò una specie di remo giacente nel fondo della zattera, e con poche bracciate spinse l'imbarcazione ad arenarsi sul lido. I suoi occhi corsero subito alla grotta; ma Agnolo non c'era. Lo scoprì poco dopo, addossato agli scogli. Con grande fatica si era trascinato fin là e stava fissando un punto lontano. Nella luminosità cristallina dell'orizzonte si profilava una galea. La prora era rivolta verso l'isolotto e le vele, tutte spiegate, sembravano di una leggerezza irreale. - Agnolo! Agnolo! - mormorò Alvise, mentre Lo scoprì poco dopo, addossato agli scogli. sentiva il cuore battergli in gola. - Iddio ci assiste: saremo liberati, Alvise! - rispose il marinaro. E le sue chiare pupille si velarono di lacrime. - Quando credete che la galea giungerà qui, Agnolo? - chiese Alvise, afferrato da una grande impazienza. Avrebbe voluto gettarsi in mare e a forza di braccia andare incontro alla nave salvatrice. - Figliuolo mio, potrà esser qui verso sera, purchè il vento non cada. - Tanto tempo impiegherà?... - disse Alvise, deluso. - E se frattanto sopraggiunge la notte, la nave passerà senza vederci. - Non temerlo. Quando il sole tramonterà, accenderemo un bel fuoco per richiamare la sua attenzione. - Vado subito a raccogliere degli sterpi e delle alghe secche. - Piano, piano, Alvise! - mormorò il marinaro, sorridendo all'impazienza del giovane. - Aiutami piuttosto a scendere da questi scogli. Consumeremo prima il nostro pasto, poi penseremo al da farsi. - Il cibo era pronto e saporito; l'appetito non mancava; eppure Alvise non riusciva a inghiottire nulla. La commozione e l'orgasmo gli stringevano la gola e pareva lo soffocassero. Teneva il viso rivolto al mare, verso quella nave che per la sua lontananza sembrava ancora tanto piccina, e che pur conteneva, nel sue scafo leggero, un mondo intero di care speranze. E la muta, ardente preghiera delle mani incrociate sulle ginocchia lo accompagnava sull'immensa distesa lucente.

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