Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Il codice della cortesia italiana

184219
Giuseppe Bortone 36 occorrenze
  • 1947
  • Società Editrice Internazionale
  • Torino
  • verismo
  • UNICT
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È una delle cose a cui bisogna badare e tenere di piú, prima di venire a contatto col nostro prossimo. La buona educazione non riguarda soltanto il campo sociale, ma ne tocca spesso altri: specialmente quelli dell'igiene e della morale. E l'igiene e la morale non vanno rispettate soltanto per ciò che possono pensarne e dirne gli altri, ma per se stesse. Fanno ribrezzo - la parola propria sarebbe « schifo » - quelle persone che hanno abitualmente i capelli arruffati, i denti o gli orecchi o il collo o le mani non eccessivamente puliti, le unghie coll'orlo a lutto, o la forfora sulle spalle, o delle grosse macchie umide sotto le ascelle, o frittelle un po' da per tutto... E questo è ciò che si vede! Ma ci son quelli il cui corpo, nelle parti coperte, sente rarissimamente la carezza - meglio sarebbe dire, in questo caso, il morso! - di una spugna; che, per cambiarsi la biancheria, aspettano che sia divenuta grassa: gente da cui emana un non so che di graveolente che ti costringe a tirarti indietro; che ti costringe, col suo disordine esteriore, a dubitare seriamente pur dell'ordine spirituale. Non si pretende che tutti abbiano, come l'imperatrice Giuseppina, cinquecento camicie e che se la cambino tre volte al giorno...; ma come si può concepire una persona che trascuri le leggi della pulizia? Questa è, in un certo senso, istinto - e ce ne dànno l'esempio molti animali - ed è, d'altra parte, figlia dell'abitudine: in ogni caso, a nessuno dovrebbe esser lecito di venire a contatto con gli altri uomini, trascurandola nella sua persona; onde giustamente si disse che la pulizia è la tessera di persona civile. Però, anche una legge specifica sulla pulizia personale rimarrebbe senza effetti fino a quando ciascuno non fosse convinto che egli ha dei doveri verso la propria salute e verso quella degli altri; fino a quando non fossero persuasi tutti che la pulizia è una cosa eccellente per se medesima, ancor piú che per la migliore o peggiore impressione che si può produrre su coloro che si avvicinano. Ed essa non si riferisce soltanto al fisico - corpo e vestiario - ma è anche una dote squisitamente spirituale; perché rappresenta il senso del decoro, della dignità, del rispetto, oltre che per gli altri, per se stessi. Si osservò giustamente, che il grado di civiltà dei popoli - e, di conseguenza, dei singoli - si può misurare dalla quantità d'acqua e di sapone che consumano. L'una e l'altro, quando ci sia il senso della pulizia, non possono mancare a chicchessia: « Sono povero, diceva Renzo, ma abituato alla pulizia »; e ammiriamo piú volentieri e piú cordialmente una povertà pulita che una dubbia eleganza. In Toscana, abbiamo un eccellente qualificativo per le person pulite: « giovevole ». Se le persone non amanti della pulizia pensassero che, dalla poca pulizia, possono derivare molte malattie e la morte; se pensassero almeno che le altre provano per loro quel senso di disgusto che esse provano per quelle che vedono sudice; se pensassero anche che, per un improvviso malore o per un incidente qualsiasi, potranno rimanere seminude sulla strada o essere svestite in un ospedale, probabilmente avrebbero maggior simpatia per l'acqua, per il sapone e per il bucato...

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Un noto proverbio dice: « A tavola e al tavolo si conosce il signore». Ciò significa che mai, come stando a tavola o al tavolo, si possono inavvertitamente sorpassare i limiti; essendo quelli del mangiare, del bere, del giocare, atti fra i piú complessi e piú delicati. Cominciamo dalla tavola. Pensate: il modo di rispondere a un invito a pranzo, di vestire, di presentarsi, di sedere, di consumare i cibi e le bevande, di conversare, di trattare, di congedarsi, di contenersi e comportarsi in genere richiede una costante e sapiente vigilanza su se stessi, la quale, per chi non ne abbia fatto l'abitudine in casa, rappresenta un grave imbarazzo, se non una vera e propria fatica. L'ora del desinare è la piú importante per una famiglia, come quella che vede raccolti intorno alla medesima tavola i vari membri, dedicati, per lo piú, a forme diverse di attività. Ed è la importante anche nei rapporti sociali; perché ammettere un estraneo a questa dolce e sacra intimità è la piú grande e bella prova che gli si possa dare di stima e di amicizia. Dato ciò, si pensi a quanta e quale cautela occorra nel fare e nell'accettare un invito a pranzo; e si pensi altresí alla disposizione di spirito con cui ciascuno, messo da parte ogni molesto pensiero, debba parteciparvi. E poiché il piú contiene il meno, credo opportuno prospettare il caso d'un pranzo che abbia un certo tono, e con degl'invitati. Ma si capisce che la vita familiare di tutti i giorni ha minori esigenze; perché, in fondo, non si tratta che di rifornire la macchina di combustibile, quando ricorrenze e circostanze eccezionali, o il desiderio di aver con noi e di onorare qualche amico non ci impongano fatiche e spese impreviste. L' ambiente non va preparato lí per lí; ma alcune ore prima: riscaldato, se d'inverno; con le finestre chiuse fin dal mattino, se d'estate: con la luce ben regolata, tanto se sia di giorno che di sera. Nella stagione calda, allontanare con ogni cura le mosche. Arrivano gl'invitati. Essi depongono ogni ingombro personale: le signore tengono soltanto la borsetta; e, prima che in sala, sono accompagnate in un'altra stanza dove possano « ravviarsi ». Se hanno avuto un pensiero gentile per la signora, questa disporrà se si tratta di fiori, che sieno subito sistemati in bei vasetti; non si affretterà a svolgere, qualora si tratti di un pacchetto; a meno che, per ragioni speciali, non ne sia pregata dall'offerente. Tutti i commensali sono nella sala: se c'è un ritardatario, lo si può attendere qualche minuto, non di piú. Se la signora desidera offrire l'aperitivo, lo serve da sé. Se vuol offrire del brodo ristretto, farà portare un vassoio con le tazze - mai piene fino all'orlo - e le offrirà in giro. I commensali prendono tazza e piattino. Sulla tavola. Un panno morbido; su questo una tovaglia candida, ben tesa; in mezzo, un vaso a fondo largo, pieno d'acqua o di sabbia bagnata con dentro dei fiori freschi e vivaci, col gambo piuttosto corto. Volendo, si può anche disseminare qualche fiorellino qua e là, o qualche ramoscello verde. I tovaglioli, tutti della stessa tela della tovaglia, ugualmente piegati e cifrati: candidi anch'essi. Quanti sono i commensali, tanti piatti, a pochi centimetri di distanza dall'orlo della tavola, e badando a che non ve ne sieno di sbocconcellati, macchiati, o appannati. Gli altri piatti - scodelle, se la minestra è brodosa vanno portati volta a volta, ben caldi, dalla cucina, dove possono esser tenuti nel forno a moderato calore, o su una pentola piena di acqua calda, o, per chi l'avesse, nello speciale scaldapiatti fra i radiatori del termosifone. Le posate debbono essere luccicanti: esaminare. specialmente se non sieno macchiate le lame dei coltelli e gli interstizi dei rebbi delle forchette. A destra del piatto, il coltello e il cucchiaio; a sinistra, la forchetta; davanti, i bicchieri: uno per acqua, uno per vino, uno per vino speciale (se c'e), una coppa per lo spumante (se c'è), dopo averli esaminati attraverso per vedere se sono tersissimi. Sieno disposti gradualmente, i piú bassi a destra; ciò perché, dovendo esser riempiti dalla destra, non riescano d'impaccio a chi deve mescere. Se non saranno, durante il pranzo, cambiate le posate - e in questo caso soltanto - usa anche mettere a destra un poggia posate di cristallo o di metallo. I tovaglioli, piegati in tre o quattro - o a triangolo, se sono elegantemente cifrati - debbono essere collocati sul piatto. Gli altri modi, piú o meno ricercati, di piegarli dànno l'idea della trattoria. Le bottiglie di vino e di acqua, le saliere, i portastecchini sieno messi in quantità e in modo da esservene uno per ogni quattro commensali. Anche le bottiglie, come i bicchieri, debbono essere tersissime. Che il sale delle saliere non sia in pezzi o umido, e non manchi lo speciale cucchiaino per prenderlo. Le sedie sono o accostate alla tavola o lasciate un po' aperte verso l'estremità dove siederà la padrona di casa. Altro lavoro indispensabile è quello di preparare i piani della credenza e della controcredenza, per evitare di aprire e chiudere continuamente sportelli e cassetti, o dover andare ogni tanto a parlare nell'orecchio alla signora. Sul piano, perciò, della credenza, un tovagliolo e, su questo, posate di ricambio, posate speciali, acetiere, oliere, qualche bottiglia di vino, il cestino col pane tagliato, e i piatti, se non sono in caldo. Sul piano della controcredenza, pronti i piattini per la frutta e per il dolce, con la relativa posata; pronte le tazze per il caffè, con il cucchiaino, le mollette, le zuccheriere piene, e quant'altro si prevede che potrà occorrere. Il vino rosso speciale va tratto di cantina e messo nella stanza da pranzo almeno due ore prima di servirsene. I vini bianchi vanno serviti freschi. Le bottiglie di vino speciale non vanno messe sulla tavola: nei pranzi d'etichetta né pur quelle di vino comune, dovendo mescere i camerieri. Le stoviglie e gli utensili non disposti nella stanza da pranzo sono tenuti ordinati e pronti in cucina. Il pane va tagliato a fette e collocato in un elegante cestino fra due tovagliolini bianchi: quando i commensali sono a tavola, si provvede a mettere un pezzo a sinistra di ciascuno, badando a rifornirli ogni volta che ne avranno bisogno e prima che l'abbiano finito, per non costringerli a chiederlo. Le frutta, bellamente disposte su foglie verdi o su tovagliolini bianchi in fruttiere, che è bene sieno portate a tavola soltanto al momento di servirle. Quando viene annunziato che « la signora è servita! », tutti, sull'esempio di lei, si alzano per passare nella sala da pranzo. Precede la signora piú ragguardevole, o piú anziana, accompagnata dal padrone di casa: non usa piú offrire il braccio; ma, per quelle famiglie ove si faccia ancora, o quando si tratti di persone molto avanti nell'età, l'uomo offre alla signora il braccio sinistro ed entra per primo nella stanza da pranzo. Gli ufficiali in divisa offrono il braccio destro. Seguono gli altri in ordine, direi quasi, gerarchico: ultima delle signore la padrona di casa. Negli altri casi, passa per prima la padrona di casa accompagnata dall'uomo presente che si vuol onorare: seguono gli altri; ultimo il padrone di casa. Non è lecito scegliere la signora da accompagnare: le indica a ciascuno la padrona di casa, badando a non separare, né ora, né nell'assegnare i posti a tavola, le coppie di fidanzati. I posti a tavola. O si trovano già indicati su un elegante cartoncino bianco, o li distribuisce lí per lí la padrona di casa. I posti d'onore sono: per le signore, la destra e poi la sinistra del padrone di casa; per gli uomini, la destra e poi la sinistra della padrona di casa; per gli altri posti, la loro, per cosí dire, gradazione d'onore è data dalla maggiore o minore vicinanza ai padroni di casa. E, come si vede, un cerimoniale un po' complicato, specialmente quando non si conosce la posizione sociale dei singoli invitati; ma bisogna cercar di cavarsela nella miglior maniera, perché il nostro prossimo è, spesso, piú sensibile a questo che all'eccellenza del pranzo. I criteri generali da seguire sono: prima di tutto, informarsi bene della posizione sociale e gerarchica dei singoli invitati; in secondo luogo, regolarsi secondo la posizione medesima e, a parità di condizioni, secondo l'età. « A parità di condizioni »; perché l'età non costituisce titolo per le precedenze. Se ci sono stranieri, dar loro la precedenza, secondo il rango sociale. Io conosco delle signore abilissime nell'assegnare i posti a tavola: esse, pur rispettando le precedenze, sanno cosí bene disporre i commensali fra loro, da suscitar sùbito vive simpatie, rendendo cosí piacevolissimi i loro ricevimenti. Per prender posto, come per cominciare a mangiare, attendere che l'abbia fatto la padrona di casa. Questa può, eccezionalmente, cedere all'ospite tali sue prerogative. Ordine del servizio. Si comincia dal servire la signora che è alla destra del padrone di casa; indi, quella che è alla sua sinistra; e poi, a mano a mano, le altre per ordine di precedenza. Si passa poi alla padrona di casa, all'uomo che è alla sua destra, all'uomo che è alla sua sinistra, agli altri; il padrone di casa si serve per ultimo. Però, se il pranzo non è ufficiale o non ha rigorose pretese di eleganza, si suole alternare il servizio; in modo che i primi e gli ultimi serviti non sieno sempre gli stessi; ed anche perché, francamente, non è simpatico che pur la spensierata e lieta operazione del mangiare faccia risaltare, a ogni nuova portata, la differenza del rango sociale o del grado gerarchico. A ogni modo, non si fanno complimenti circa la precedenza nel servirsi. Questo indicato è l'uso italiano; ché, in altri Paesi - in Inghilterra, per esempio - si suole servir prima la padrona di casa: usanza, forse, tramandata da altri tempi, quando si credeva doveroso rassicurare i commensali che non sarebbero andati incontro a sorprese poco gradite... Quando si ripassa, si va senz'altro da chi prima ha finito, ricordando che non si servono una seconda volta la minestra, l'insalata e il formaggio. Ecco, intanto, schematicamente indicate le norme principali per ben stare a tavola. Per i padroni di casa. Cureranno che non si vada a tavola piú tardi dell'ora fissata; che ci sia abbondanza di tutto; sí che i commensali possano servirsi senza preoccupazioni; nel distribuire i posti, tenuto conto delle precedenze, faranno in modo che sieno avvicendati uomini e signore, e che capitino accanto persone che abbiano tra loro simpatia: ciò gioverà anche a tener animata la conversazione ; non vengono a discussione fra loro, né rimproverano i figliuoli; non fanno atti d'impazienza con i domestici; non decantano i loro vini o altre cose di famiglia, né celebrano i pregi della loro cucina; non fanno capire che il pranzo è costato fatica o spesa; non si adombrano per qualche piccola disgrazia che lasci lí per lí tracce sulla biancheria ; anzi, la signora interviene prontamente a rassicurare il maldestro; non insistono con i commensali perché si mangi o si beva di piú; tanto meno ricorrendo a quel volgare mezzuccio: « Ho capito: non piace! »; mangiano in modo da non essere i primi o gli ultimi a finire. Salvo che non sieno a regime speciale, debbono almeno assaggiar tutto. Per tutti i commensali. La sedia né troppo lontana, né troppo vicina alla tavola; i gomiti stretti ai fianchi, il busto eretto; nessun dondolio sulla sedia; non si allungano le gambe sotto la tavola; né si puntano i gomiti sopra; non si fissa il tovagliolo nel colletto o fra i bottoni del panciotto; non si spiega completamente, e si tiene sulle ginocchia; non si puliscono col tovagliolo piatti e bicchieri, né si esaminano i bicchieri contro luce; non si divorano con gli occhi le portate a mano a mano che vengono dalla cucina; non si scelgono i pezzi migliori, servendosi, né si osserva il modo di servirsi degli altri; non si fanno complimenti, né si rifiuta di servirsi per primi, quando la padrona di casa ha cosí disposto; non bisogna distrarci, o distrarre, mentre ci serviamo; né si attaccano discorsi con chi serve a tavola; non si trascurano i vicini, specialmente se signore, ma li si serve con garbo e premura; non si mangia troppo in fretta o troppo lentamente; non va la bocca verso la posata, ma la posata verso la bocca; non si riempie il proprio piatto per poi lasciarlo a mezzo; non si soffia sui cibi per farli raffreddare; non si versa il vino nella minestra, né si fanno altre mescolanze poco usate; non si solleva la scodella per portar via il poco rimasto sul fondo; chi voglia farlo deve sollevarla dalla parte che gli è piú vicina verso il centro della tavola; non si apre la bocca masticando, né si parla a bocca piena; non si fa rumore con i denti masticando ; non si fanno i bocconi troppo grossi ; non si tracanna il bicchiere tutto d'un fiato e fino in fondo ; né si beve mentre si ha il boccone in bocca; o senza essersi prima pulito la bocca; che va anche ripulita subito dopo aver bevuto; non si mette il ghiaccio nei bicchieri; né si tengono questi a lungo fra le mani, perché il vino rosso sviluppi il suo aroma; non si taglia il pane col coltello, ma si spezza con le mani ; né si porta alla bocca tutto il pezzo di pane; né si toglie la mollica, e tanto meno la si plasma con le dita; non s'introduce la propria posata nel piatto di portata; non si taglia prima in pezzi tutta la carne o l'altro che s'ha davanti; non si intinge il pane nel sugo o nella salsa rimasti nel piatto; non si riprendono a spolpare le ossa già lasciate ; non si sposta verso destra o verso sinistra il piatto vuoto; non si raccatta una posata caduta e tanto meno la si rimette sulla tavola; non si taglia il pesce col coltello, salvo che non si tratti di pesce affumicato o marinato ; se c'è la spatola, tanto meglio ; diversamente, s'adopera la forchetta e un pezzetto di pane; non si tiene sulle ginocchia, ma sulla tavola, la sinistra, quando è inoperosa; in nessun caso si porta il coltello alla bocca; non si fanno commenti su cose che non piacciano o che non si possano mangiare; non si attira l'attenzione su qualche cosa di estraneo che si possa trovare nei cibi; non si usano gli stecchini che nei casi indispensabili: è sconveniente gingillarsi con lo stecchino o, peggio, alzarsi da tavola con lo stecchino in bocca; non si porgono i patti al servitore; non si parla d'affari o di cose tristi; né si fanno discorsi lunghi con commensali che sieno all'altro capo della tavola; non si fanno tragedie di parole per piccole disgrazie; non si adoperano per il naso fazzoletti poco puliti; né si caccia la testa sotto la tavola o da uno dei lati per soffiarsi; né lo si fa rumorosamente; né si spiega dopo il fazzoletto ; non si starnutisce fragorosamente, o in modo da far « piovere » nei piatti dei vicini; non si tirano nòccioli, bucce o altro ; meno che mai pezzi di pane: e ciò anche nelle riunioni allegre, dove è pur consentita qualche libertà; non si ravviano i capelli col pettine o con le mani, né le signore mettono fuori il loro armamentario da toeletta; non si decantano pranzi fatti altrove; non si chiedono cose che i padroni di casa non hanno fatto mettere a tavola, adattandosi ad imitarli; non si fuma senza che i padroni di casa lo abbiano autorizzato ; in ogni caso, mai prima che si sia finito di mangiare; se si hanno sigari o sigarette di qualità migliore di quelli offerti dai padroni di casa, si evita di servirsene o di offrirli; nessuno si leva da tavola prima che lo abbia fatto la padrona di casa; non si piega il tovagliolo, ma lo si lascia con garbo alla sinistra del posto occupato; non si porta via alcun che dalla tavola, tranne la propria minuta, se c'era, o, al piú al piú, qualche fiore che si aveva davanti. La moda dei brindisi è, fortunatamente, tramontata; ma, se si dovesse farne, cercare di essere semplici e brevi, né dimenticare la padrona di casa, o qualche cara persona di famiglia assente. Non si toccano i bicchieri, ma si sollevano all'altezza del proprio viso, allungando il braccio dalla parte del festeggiato. Se il brindisi fatto da una signora, essa non invita i commensali a bere. La posata. La forchetta si tiene con la destra, quando si tratta di vivande per le quali non è necessario adoperare il coltello; quindi, per maccheroni, risotto, verdure, frittate, sformati, uova - anche sode polpette, ecc. Si tiene con la sinistra quando, con la destra, si debba adoperare il coltello per tagliare. In tal caso, si prende con la forchetta il pezzo tagliato, con la punta del coltello si adatta su per benino del contorno o della gelatina o della salsa, e si porta alla bocca in modo che le rebbie della forchetta sieno rivolte all'ingiú. Quando occorresse interrompere, forchetta e coltello si mettono nel piatto a contatto di punte non sulla tavola o sull'orlo del piatto. Quando si è finito, se la posata vien cambiata, la si lascia nel piatto parallelamente; se si deve tenerla per la portata successiva si mette sul poggiaposate con i rebbi in giú. Si lascia anche nel piatto, quando si è mangiato il pesce o delle uova; perché, in tali casi, dev'essere senz'altro cambiata. Il cucchiaio si adopera per le vivande liquide o semiliquide e per alcune specie di dolci. Si può portare alla bocca o per la punta o per il margine laterale, dalla parte piú vicina al manico. Se una distinzione si vuol fare, è piú comodo adoperarlo dalla parte della punta quando, nel liquido, c'è qualcosa di solido. In questo caso, né si introduce troppo nella bocca, né si attira il contenuto succhiandolo, né si consuma la cucchiaiata a parecchie riprese. La posata non si prende dalla parte piú bassa: la forchetta si adopera col manico nel pugno; il cucchiaio, prendendolo col pollice e coll'indice e appoggiandolo sul medio ripiegato; il coltello si adopera anch'esso col manico nel pugno. Usa anche tenere il coltello e la forchetta fra le prime due dita, come si terrebbe una penna; ma io trovo questo modo poco comodo; tanto piú che non si può far forza col coltello, né si deve allungar l'indice sul dorso della lama. Nei casi in cui si tiene la forchetta con la destra, ci si può aiutare con un pezzetto di pane nella sinistra. Il formaggio si taglia col coltello ed il pezzo si adatta su un pezzo di pane. Delle mani bisogna servirsi il meno possibile: si può adoperarle per i piccoli volatili; ma è bene non darne l'esempio; se mai, farlo con garbo. Neanche le ossa, o le lische, si prendono con le dita; ma si depongono sulla forchetta e poi sull'orlo del piatto. Per mangiare le uova dette al guscio, servite nel portaovo, se non v'è lo speciale strumentino ad anello per romperle, se ne schiaccia la punta col cucchiaino - mai col coltello - vi si mette il sale e col cucchiaino se ne porta alla bocca il contenuto. Non si solleva il guscio per ripulirlo fino in fondo. Si può accompagnare col pane, ma questo non si intinge nell'uovo. Il guscio si mette accanto al portaovo e lo si schiaccia discretamente col coltello. Il bicchiere si prende dalla parte piú bassa. Non si va incontro con esso a chi ci mesce da bere, né si alza per significare « basta ». Si sa che il bicchiere proprio o di altri non si riempie fino all'orlo. Talora, l'alzare il bicchiere è giustificato dalla preoccupazione che la goccia attaccata alla bottiglia scivoli sulla tovaglia e ne macchi il candore: cosa quest'ultima da evitarsi con cura anche se sembri che la padrona di casa non ci badi o non ci tenga. Come si deve aver cura di non versare l'olio, di non incrociare la posata... Pregiudizi senza dubbio; ma è colpa nostra se alcuni ci credono ancora? Quando è servita qualche vivanda che non si sa come si mangi, o vien dato qualche cosa che non si sa come adoperare, è prudente attendere e seguire l'esempio degli altri. Piú d'una volta si è veduto accostare alle labbra la piccola coppa dell'acqua e una fettina di limone, che vien portata su di un tovagliolino col piatto delle frutta, e che serve per lavarsi le dita: tovagliolino e coppa si mettono a sinistra. Si ricorda, a questo proposito, un episodio accaduto alla Corte di Vienna: in un pranzo offerto a una Delegazione bosniaca, quando furono portate in tavola le coppe d'argento con l'acqua tiepida e profumata, il capo della Delegazione si alzò e, dopo aver brindato, bevve il contenuto della coppa, immediatamente imitato dagli altri deputati. Fra l'imbarazzo dei commensali, Francesco Giuseppe rispose al brindisi e bevve anche lui di quell'acqua, mentre l'etichetta obbligava tutti i commensali a fare altrettanto. Le ostriche si staccano con la forchetta dal guscio e si portano con questo alla bocca. Le foglie dell'insalata non si tagliano, ma si portano alla bocca come vengono servite, salvo che, si capisce, non vengano servite intere. I carciofi si possono mangiare con le mani; però, nei pranzi eleganti, non si suol portare in tavola che la parte piú centrale e piú tenera, la quale si mangia con la forchetta. Agli asparagi, presi con la pinza speciale dal piatto comune, si taglia la parte verde e si porta alla bocca con la forchetta, se serviti come contorno: se come portata, si possono prendere dal proprio piatto con le mani. Quanto ai piselli, se si vogliono mangiare all'inglese, ossia dopo averli schiacciati, ciò va fatto col coltello contro la forchetta, non col cucchiaio o col coltello o con la forchetta contro il piatto. Per la frutta, che viene servita in ultimo, si adopera la forchetta e il coltello. È un po' di fatica quando, come spesso accade, il coltellino non è affilato. Non si sbuccia intera ma si taglia prima a quarti: mele, pere. Le pesche si sbucciano dopo averle tagliate in due. Le albicocche non si sbucciano; si bagnano soltanto nella coppa che si ha alla sinistra del proprio piatto, senza tenervele molto, perché si suppone sieno state già lavate. Né pure le prugne si sbucciano: si portano alla bocca intere quelle secche; si tagliano a fettine quelle fresche, senza portare alla bocca il nocciolo. Alle banane si incide la corteccia da cima a fondo, denudandone la polpa, che si mangia a piccoli pezzi, dopo averla tagliata con la forchetta. Ai fichi freschi, tenuti con la sinistra per il picciolo, si porta via una fettina della parte superiore, dov'era il fiore e dove si possono essere fermati gli insetti; poi, si tagliano in quattro spicchi senza separarli presso il picciolo; se ne stacca col coltello la polpa e si porta alla bocca con la forchetta. Agli aranci e ai mandarini, tenuti con la mano sinistra, non con la forchetta, si incide a spicchi la buccia; indi la si leva, se ne separano gli spicchi e si tagliano a metà per trarne i semi: non si sbucciano in tondo, né a spirale. In America, usa tagliarli in due, senza sbucciarli, nel senso orizzontale, ed estrarne con un cucchiaino la polpa e il sugo. Le ciliege si portano alla bocca una per volta - non a ciocche - prendendole dalla coppa, e se ne lascia poi cadere il nocciolo sul cucchiaino o, se questo non c'è, sulla forchettina. Meglio cosí che lasciarli cadere nella mano socchiusa. Le fragole, se sono grosse, e servite col gambo, si prendono a una a una con le mani, si passano nello zucchero, che si è avuto cura di mettere nel nostro piatto, e si portano alla bocca. Se son piccole, si mangiano col cucchiaino. Le frutta col guscio legnoso - noci, nocciole, mandorle - si schiacciano, non con i denti o con le dita, ma con lo speciale strumento, se ne cava il contenuto e si porta alla bocca con le mani. Per il popone, si libera la polpa dalla buccia e la si porta alla bocca con la forchetta, dopo averla tagliata in pezzi con l'aiuto del coltello. L'uva si porta alla bocca chicco per chicco, e, per chi non usa ingoiarli, si fanno ricadere nel cucchiaino vinaccioli e buccia, e si depongono all'angolo del piatto. Il gelato si prende con la spatola dal piatto comune, badando a non farlo scivolare, e si mangia con lo speciale cucchiaino piatto, accompagnandolo, se ci sono, con i biscotti. Il caffè è servito a tavola nei pranzi di famiglia; in sala, nei pranzi eleganti: io trovo preferibile servirlo sempre in sala, sia per «occupare» quel po' di tempo che rimane ancora, sia per dar modo di sparecchiare. Se è servito nella stanza da pranzo, la padrona di casa mesce nelle tazze, portate in giro dal cameriere; se, in sala, è servito in giro dalla padrona di casa, aiutata da qualche figliola o amica; i liquori son serviti dal padrone di casa. Quando si va in sala per il caffè, si attende a fumare qui. Il segnale di ritorno in sala è dato dalla padrona di casa, la quale prende il braccio del suo cavaliere ed esce per prima: seguono gli altri, senza darsi il braccio: ultimo il padrone di casa. Quindi, tener presente che, per il ritorno in sala, si segue l'ordine contrario a quello tenuto per uscirne. Quanto tempo si rimane in una casa dove si è stati invitati? Normalmente non piú di un'ora; ma è prudente e delicato regolarsi secondo il numero delle persone, il tono della conversazione, l'età e le abitudini dei padroni di casa. Usava fare la cosí detta « visita di digestione », fra gli otto e i quindici giorni. A me pare una bella usanza, che meriti d'esser conservata. Per gli uomini, è sufficiente che portino la loro carta di visita. Quando si tratti, invece che di un pranzo piuttosto elegante, di una colazione e, in genere, di un pasto alla buona, è preferibile adoperare la biancheria a grossi quadri in colore. Ora se ne produce della eccellente, per qualità e per disegni: a me piace molto, perché dà un senso di letizia, sopra tutto se anche i boccali e i piatti sono a tinte vivaci. Fuori d'Italia - in Francia specialmente usano anche dei graziosi tovagliolini di velina e dei mensali di carta, che si rinnovano, si capisce, volta per volta, e che son da preferirsi senz'altro alla tela cerata, che ricorda l'osteria. Quest'apparecchiatura, molto sbrigativa e comoda, è usata largamente in campagna - dove non si può andare tanto per il sottile, né si può pretendere troppo - e per le cene fredde, al ritorno dal teatro e dal ballo. In queste, ciascuno dei commensali si serve da sé, e il piatto si cambia soltanto per il dolce. Conchiudendo, dirò che ora non usano piú, come un tempo, le interminabili sfilate di portate: si preferisce la qualità alla quantità, la finezza all'abbondanza. Perciò: che non manchi mai, possibilmente, una tazza di brodo ristretto: si profitti della grande risorsa offerta dagli antipasti e dai tramezzi, tornati trionfalmente, e giustamente, in onore; tanto piú che, per questi, si può anche non lavorare in cucina, trovandosi preparato in scatole tutto quel che si può desiderare; sempre graditi la galantina con la gelatina, i soffiati, gli sformati, i volanti ripieni, i pasticci di carne, gli arrosti di cacciagione, le trote, le varie ed eccellenti qualità di formaggi, la macedonia frutta... piú o meno di queste deliziose cosine, a seconda della stagione, dell'ora, della circostanza; almeno due qualità di vino speciale; e poi, un profumato caffè bollente; e una sigaretta squisita... e sempre, da cima a fondo, la piú gustosa delle vivande - una gioviale cordialità: - di grazia, che si potrebbe offrire e desiderare di piú e di meglio? E si tenga, infine, presente che la prova migliore della buona educazione non sta nell'offrire un pranzo, abbondante e succulento quanto si voglia, ma nel mescolarsi sapientemente con gli altri. La cortesia, ripeto, nel suo vero senso, riguarda appunto quelle regole che, nel gioco della vita, rendono piú facile e piú semplice l'accomunarsi con i propri simili.

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È passato, grazie a Dio, il tempo in cui usava prendere scrupolosamente nota di giorni, di ore, di recapiti; delle visite ricevute e di quelle da restituire. Tuttavia, son sempre troppe le signore che, pur annoiandosi e sapendo di dar noia, insistono ad andar da un salotto all'altro: in generale - sia detto con le dovute riserve! - son quelle piuttosto vanitose, ciarliere, pettegole; e le loro visite sono, per lo piú, di convenienza. Chi, ripeto, voglia essere del suo tempo e sottrarsi a questa forma di volontaria insulsa schiavitù, cominci dal non restituire le visite ricevute; scusandosi, all'occorrenza, con le maggiori cure che richiede la casa, con le aumentate occupazioni. Gli uomini son piú fortunati in questo; perché nessun protocollo vecchio o nuovo ce li presenta oziosamente in giro per i salotti. Le visite, di cui bisogna tener conto son quelle fatte per amicizia; perché veramente prendiamo interesse ad alcune persone o famiglie e agli avvenimenti che le riguardano da vicino. Sono, quasi sempre, relazioni di vecchia data, le quali, anche con loro durata, dimostrano che sono basate sulla stima e sull'affetto reciproco. Per queste visite, non c'è una misura, dato che procurano piacere a chi le fa e a chi le riceve; però è sempre prudente non eccedere; perché, come è noto, anche le musiche piú soavi, se troppo prolungate, finiscono con lo stancare; ed anche perché è preferibile lasciar il desiderio di noi piuttosto che la sazietà. Qua e là si tenta ancora di far sopravvivere il cosí detto giorno della signora: che serviva mirabilmente a liberarla da un quotidiano viavai delle amiche; che limitava a un sol giorno della settimana il brontolare di cuoche e cameriere; che dava agio a tutte le sfaccendate in cerca di novità, a tutte le propagatrici di piccoli, e, per lo piú, fantastici scandali, di riunirsi insieme a una medesima ora di un medesimo giorno, come per un'opera di beneficenza; per vuotare e riempire a vicenda il sacco delle notizie, dei pettegolezzi, delle maldicenze, messe insieme e a stento trattenute per tutta una settimana. Le signore di buon gusto vi hanno già rinunziato; esse hanno vinto le insistenze, facendo annunziare alle visitatrici che « la signora è stata chiamata d'urgenza a non so quale Comitato... ». Me ne duole proprio per il numeroso gruppo delle « amiche abituali »; ma, forse, è tanto meglio per la pace delle famiglie e per la pubblica moralità. Le visite di dovere sono ancora di rito fuori d'Italia: da noi cominciano esse pure a diradarsi. Si fanno tra famiglie di funzionari dello stesso ramo, d'impiegati del medesimo ufficio, di ufficiali dello stesso reggimento, e cosí via: generalmente, per l'arrivo, per l'anno nuovo, per la partenza: sono brevissime, e vanno restituite entro otto giorni. Le signore si scambiano la visita fra loro. Va in visita chi arriva o parte, anche se è di grado piú elevato. Quest'ultima prescrizione non vale per le famiglie amiche, essendo simpatico andar subito a mettersi a disposizione dei nuovi arrivati per loro eventuali bisogni. Le visite di congedo possono essere sostituite dal proprio biglietto, lasciato in portineria o nella cassetta della corrispondenza. Le visite ufficiali si fanno in corpo e, generalmente, la mattina del primo dell'anno. Il visitato riceve in piedi: fra quelli che visitano, il decano, come si suol dire, o il piú elevato in grado prende la parola in nome di tutti. Quelle di ringraziamento si fanno in seguito a un invito a pranzo, al ballo o ad altro. Si va a ringraziare anche per un favore ricevuto, ma soltanto se chi ci ha favorito è del nostro rango. Se di rango superiore, si ringrazia per lettera. Le visite di congratulazione si fanno a famiglie amiche per un avvenimento importante: se si tratta di conoscenti, o l'avvenimento è di poco conto, basta la carta di visita. Ma raccomando ancora che, su questa, non si mettano le solite abbreviazioni, come se si disdegnasse la fatica di scrivere due parole per intero. Le visite in famiglia hanno un loro carattere particolare: in fondo, si tratta di rapporti fra i rami, per mo' di dire, d'un medesimo tronco. Trascurarle significherebbe mancanza di riguardo e assenza di sentimento. Vero è che, talora, qualche dissenso può aver determinato un certo raffreddamento; ma è sempre bello, oltre che doveroso, che i figli sposati visitino i genitori; nipoti i nonni e gli zii; che i fratelli e le sorelle si scambino visite fra loro; i membri della famiglia della moglie con quelli della famiglia del marito. Si può dispensarsene soltanto, quando si sa con certezza che la visita non sarebbe gradita. L'iniziativa va presa dai piú giovani nei riguardi dei piú anziani. Fra parenti ricchi e parenti poveri, l'iniziativa parte dai primi. Una coppia di sposi fa visita ai vecchi amici di famiglia, anche per ringraziarli del regalo da loro ricevuto in occasione delle nozze. Poi, continueranno o sospenderanno queste visite, o ne faranno delle altre, a seconda dell'estensione che intendono dare alla loro futura vita di società. Usava far visita alle persone con cui il marito era, eventualmente, in relazioni d'ufficio; ma l'abitudine si è venuta a mano a mano diradando e, credo, con piena soddisfazione di tutti. Le visite di nuove relazioni vanno fatte con molta circospezione: non è il caso di cedere alle prime simpatie; specialmente, se i rapporti son cominciati in ambienti differenti da quelli nei quali normalmente si vive. È meglio evitare di doversi tirar indietro dopo: il che è sempre poco delicato. La famiglia o la persona piú elevata dimostra il desiderio di stabilire relazioni: l'altra visita per prima. Le visite d'interesse, ossia fatte con qualche scopo determinato, non obbligano alla restituzione. Né una signora è tenuta a contraccambiare la visita ricevuta da uno scapolo, salvo che questo non conviva con persone di famiglia che si conoscono. Un uomo non fa visita a una signorina sola, o a una signora in assenza del marito, salvo che non sia da loro autorizzato. Le visite di beneficenza sono le piú nobili, quando sieno ispirate da vero spirito di carità. Si possono visitare gli ammalati negli ospedali, i vecchi nei ricoveri, i bimbi nelle case di cura. Secondo i casi, si porta qualche fiore, della frutta fresca, delle chicche. Quando si visitino poveri nelle loro case, si può portare anche qualche capo di vestiario. Tutto va offerto con delicatezza e con cuore. Poco opportuna ogni aria di aristocrazia: queste visite debbono ispirare confidenza, fiducia, gioia. Nelle camere di amici ammalati entrano gli uomini; in quelle di amiche ammalate entrano le signore; diversamente, basterà chieder notizie ai familiari, i quali cureranno di informare l'ammalato; anche perché gli ammalati sono particolarmente sensibili all'interesse che si prende alla loro salute. Visite queste che vanno fatte con particolare discrezione, evitando, specialmente, di chiedere particolari intorno alla malattia, di produrre rumori, di appoggiarsi al letto, di parlar forte e di cose che possano riuscire non gradite all'ammalato, o di far parlare troppo lui, o di trattenersi a lungo. Gli ammalati non porgono, come ho detto altrove, la mano e non la stringono se vien loro tesa: tanto meno baciano o si lasciano baciare. Le visite di condoglianza si fanno alle persone amiche in occasione di qualche lutto in famiglia. Inutili i soliti discorsi circa la rassegnazione e il conforto: inopportuna ogni domanda intorno alla malattia e al trapasso: gli uomini si condolgono con gli uomini; le signore, con le signore. Non si attaccano discorsi con altri: la visita dev'esser breve; salvo che le relazioni di amicizia non sieno cosí strette da consigliarci a restare a lungo e a tenerci a disposizione. Dato che il far visite rappresenta un aspetto mondano della vita, va da sé che non vi sono strettamente obbligate le signore che abbiano qualche impiego o esercitino qualche professione, e le madri di famiglia che abbiano una prole numerosa senza altrettanto numeroso personale di servizio. Se la persona cui si va a far visita, pur essendo in casa, fa dire d'esser fuori, passar su alla cosa, ma non tornare che in seguito a insistenti inviti. Quando si va in visita, non si gira qua e là ispezionando quel che c'è nel salotto, né si guardano carte scritte che possano eventualmente trovarsi su un tavolo, né si esamina se c'è polvere sui mobili, e né pur si chiede alla padrona di casa di soddisfare la propria curiosità circa questo o quell'oggetto, salvo che non si sappia, o si capisca, che ciò le fa piacere. Quali le ore piú indicate per le visite? Esse variano da caso a caso, da famiglia a famiglia, da popolo a popolo. In Italia, non usa far visite nelle ore antimeridiane; meno che mai nelle prime. Come regola generale, le visite che possono rientrare fra quelle cosí dette mondane si fanno nei giorni e nelle ore che già si conoscono per indicazioni ricevute: per le altre, lasciarsi guidare da un grande senso di delicatezza verso le persone che s'intende visitare. In ogni caso, evitare le visite, anche necessarie, nelle ore che precedono immediatamente quelle dei pasti. Se si hanno bambini, o la felicità della signora è rappresentata da un cagnolino, bisogna lasciarli a casa. Se si avesse la malaugurata idea di trascinarseli dietro, complimenti a parole non mancherebbero, ma ci sarebbe anche una vera fioritura di tacite ansie, e, forse, di cordiali imprecazioni. E si capisce: tutto quel ninnolame, tutti quei tappeti sono stati messi lí per suscitare l'ammirazione, e magari l'invidia della visitatrice, non per sollecitare la curiosità pericolosa del suo bimbo o qualche volgare bisogno del suo canino. Del resto, le signore ci pensano da sé a non portarsi dietro i bimbi; non foss'altro per evitare il pericolo di essere da loro smentite circa qualche affermazione. È bene, invece, che, ogni tanto, conduca seco la signorina; sia perché essa s'impratichisca degli usi di società, sia perché possa esser presentata, facilitando cosí quel - chi sa? - « fatale » incontro che dovrà condurla all'altare. Le signore lasciano in anticamera l'ombrello da acqua, l'impermeabile, le soprascarpe; portano in sala la pelliccia e la borsetta: gli uomini depongono il cappello, il soprabito, l'ombrello, il bastone. Anche i pacchetti si lasciano. Gli uomini non entrano in sala con le mani inguantate: tengono i guanti in mano, se hanno preferito non lasciarli in anticamera, o se, per distrazione, entrano con le mani inguantate, debbono liberarsene appena seduti. Un inchino, entrando, e si va direttamente a salutare la signora di casa; poi, se c'è, il padrone di casa; indi, si salutano a mano a mano i presenti, senza distinzione di sesso o di età, mentre la signora di casa procede alle eventuali presentazioni. La propria consorte si saluta per ultima, ma prima degli uomini, e senza troppe effusioni. La signora stessa può alzarsi e correre incontro a un'amica: per ricevere gli omaggi di un visitatore, rimane seduta, come, del resto, tutte le signore, quando son salutate da un uomo; salvo che questo non sia tale, per l'età, o per altro, che meriti un particolarissimo riguardo. Ogni volta che entri un nuovo visitatore, gli uomini debbono alzarsi. Se, nella sala, ci sono poltrone e sedie, gli uomini e, in genere, i piú giovani lasciano i posti piú comodi alle signore e alle persone piú anziane. La propria sedia non si offre; salvo che non sia per lasciar ad altri il posto occupato piú vicino alla padrona di casa. Tanto questa, poi, quanto le sue amiche, se son persone di gusto, non si « addobberanno » come per una esposizione o, addirittura, per una gara. Molte signore - e potrei dire la maggior parte! - invitano, o vanno a far visita, esclusivamente per far pompa del recente acquisto: il che determina, quasi sempre, invidie, gelosie e una corsa pazza alle spese, specialmente per alcune che, mancando di buon gusto e del senso della misura, par che vogliano portare in giro la cassaforte di un avo - o di un suocero! - che ebbe, negli affari, piú buon senso che non abbiano ora loro nell'addobbarsi. Tutte, in altri termini, dovrebbero badare a che non fosse troppo forte, e quasi stridente, la linea di separazione; le differenze di fortuna non si debbono far sentire, nelle manifestazioni esteriori, a tal punto da privare le piú modeste del gusto di uscire e di mescolarsi alle riunioni indispensabili alla vita di società. Se la signora offre qualche cosa, una signorina presente può aiutarla a porgere in giro il vassoio o a mescere. Non si porge con la sinistra, salvo che si abbia la destra impegnata per mescere o per altro. Servirsi con discrezione, senza guardarsi intorno, quasi per contare i presenti o per vedere se altri ci osserva; né cacciarsi in tasca o nella borsetta dei contentini per il bimbo lasciato a casa imbronciato. Ma usa « offrire » ancora? In alcune famiglie, si; in altre no. Certo non è bello interrompere d'un tratto una lunga consuetudine; tanto piú che lo sgranocchiare e il bere qualcosa in compagnia giova a rendere piú sorridenti i visi, piú animata la conversazione e, forse, meno maldicenti le lingue. Usava, e usa ancora, offrire il tè. È una bevanda poco adatta al nostro clima e... al nostro palato. Si cominciò ad offrirlo per snobismo; si continua, forse, perché costa poco; certamente, perché si crede un indice di signorilità e di distinzione manipolare questa beva da esotica. Tant'è che anche le donne di servizio - quando la signora è assente - l'offrono alle loro amiche, talora addirittura vestite col meglio della signora medesima e scimmiottandola nella voce e nei gesti! Esprimerò qui il mio vivo rammarico per la poca diffusione in Italia di tante «preziose » nozioni di erboristeria: ci sono innumerevoli e comunissime erbe aromatiche con cui si posson fare delle squisite e salutarissime tisane: basta mettersene al corrente, e vincere la difficoltà della scelta. Meglio ancora: c'è, forse, qualche nostra regione la quale non abbia un suo tipo particolare di vino liquoroso? Ce n'è per tutti i gusti, dalle malvasie ai moscati, dall'ambra al rubino, dai vini santi ai vini... indiavolati: tutta una serie interminabile di squisiti succhi d'uva, in cui par di vedere e sentire imprigionati fasci di raggi del nostro eterno sole. E non mi si parli, per carità, degli astemi: è gente che fa la schizzinosa soltanto di fronte ai tipi di vino ordinario, di vino comune. E mandate alla malora chi vi dice che offrire una coppa di spumante non è signorile: dove si va a cacciare la « signorilità! ». Del resto, chi teme di sembrar «volgare» se ne astenga, e si contenti, col suo calice di acqua fra le mani di star a guardare. A ogni modo checché sia, va offerto con cordialità e con una certa eleganza; e si può servire o in un'unica tavola grande o in tavolinetti separati. L'apparecchiatura richiede gusto, affinché gli ospiti rimangano con un ricordo gradito della visita. Le signore addolorate, perché avevano, come usa dire, i servizi scompagnati, possono ora allietarsi di una moda che si va diffondendo anche in Italia: quella di servire in piatti, bicchieri e tazze d'ogni forma, d'ogni colore, d'ogni capacità; e l'eleganza è in misura proporzionale della varietà; proprio come per le pellicce fatte di ritagli. Moda senza dubbio comoda e che avrà certamente fortuna, perché farà ricomparire sulle tavole recipienti riposti da decenni. Però stieno attente le signore nel fare le parti, e nel mescere; perché alcune visitatrici non si farebbero scrupolo di scendere, talvolta, al livello dei bambini e di guardare con la coda dell'occhio, invidioso, le piú fortunate di loro cui fossero toccati recipienti piú capaci. Largamente introdotto l'uso dei tovagliolini di carta: immagino ad iniziativa delle padrone di casa, le quali hanno preferito rinunziare a una nota di finezza piuttosto che vedere i loro lini striati, talora indelebilmente dal rosso delle labbra. In una prima visita, non usa offrire, anche perché le prime visite non debbono prolungarsi piú di una diecina i minuti. Se mai, vedendone l'opportunità, può offrire una sigaretta. Invece, si dà « da rinfrescarsi », come eccellentemente si dice in Toscana, anche nelle prime visite, quando queste sieno fatte in campagna. Non congedarsi subito dopo; ma né pure aspettare ad aver digerito. Non dimenticar mai che le visite piú gradite son sempre le piú brevi! Per andarsene, non si guarda l'orologio. La signora farà qualche dolce insistenza, ma non bisogna lasciarsi allettare. Né occorre attendere che sopraggiungano altre visite. Di una coppia prende l'iniziativa la signora: fra madre e figlia, la madre. Congedandosi, si saluta per prima la padrona di casa. La signora accompagnerà fino all'uscio di casa, se non ci sono altri: fino all'uscio di sala, se non è sola. Può esser sostituita in questo ufficio dalla figlia. Non accompagna un visitatore fuori della sala: lo può fare soltanto nel caso che téma non trovi la via d'uscita, o l'interruttore, per quanto, anche in questo caso, sia meglio suonare e farlo guidare dal servitore. Tanto la visitata quanto la visitatrice eviteranno di fermarsi a discorrere sull'uscio. Una padrona di casa d'animo fine eviterà abilmente che le visitatrici rimaste si abbandonino a un esercizio, non sempre benevolo, delle loro lingue nei riguardi della visitatrice che si è allontanata. Non facendolo, rischia anche di far prolungare la visita al di là della discrezione, perché qualche signora vorrà andarsene per ultima, sperando cosí di sottrarsi alla sorte comune. Senza dire di una scenetta gustosissima cui si può assistere nel caso, per es., che la visitatrice uscita rientri perché ha dimenticato un guanto: tutti le fanno festa perché ha procurato a tutti la gioia di farsi rivedere... Debbo dirlo? Assistendo a qualcuna di queste riunioni, mi sono persuaso che non sempre la logica vi domina. E mi son persuaso altresí che, molto spesso, l'amicizia fra le donne non è che una gelosia, una inimicizia larvata, che scoppiano alla prima, alla piú piccola occasione; per la qual cosa si regolano benissimo quelle signore che, a queste fiere di vanità, di pettegolezzi e di maldicenze, antepongono una salutarissima passeggiata in campagna. Probabilmente, la maggior parte delle nostre signore rinunzierebbe alle visite se, da noi, l'ora del tè fosse, come nel Giappone, un'ora di raccoglimento. «Il silenzio raccolto è interrotto soltanto dal gorgoglio dell'acqua che bolle. I Giapponesi hanno compreso la grande significazione del silenzio: sanno tutti i misteri ch'esso racchiude e rivela: sanno che nel silenzio l'uomo può scoprire aspetti insoliti della natura, e profondità insospettate della sua anima. La cerimonia del tè è basata sul silenzio e sulle sue rivelazioni improvvise: essa si svolge in una atmosfera di raccoglimento e di pace ». Vale come visita fatta il proprio biglietto ; meglio se lasciato a mano al servitore che se messo nella cassetta della corrispondenza. Da noi non usa piú, in tal caso, ripiegare la carta di visita in un angolo. Però il biglietto si può lasciare se apre la porta una persona di servizio o un bimbo: se, invece, viene alla porta una persona adulta di famiglia, è doveroso entrare. Non è necessario lasciarlo per le mancate visite amichevoli. I coniugi lasciano il biglietto intestato ad ambedue: una signora lascia il biglietto col proprio nome e il cognome del marito. Se la carta di visita si lascia a persone che sieno in albergo, vi si scrive in cima, a sinistra, il nome e il cognome del destinatario.

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In Toscana, quest'abitudine era diffusissima, e si diceva « andare a veglia »; ma si è venuta a mano a mano rarefacendo, quasi non vi fosse piú bisogno di un po' di svago intimo e sano. In questi ritrovi, si conversa, si fa della musica, si gioca, si ascolta la radio, si balla e si sgranocchia e beve qualche cosa. È modo piú alla mano e piú lecito di procurarsi un tantino di spensieratezza, di ricreazione; e i giovani vi dovrebbero prender gusto piú che ai caffè e ai circoli; non fosse altro, per abituarsi a quel domestico ossigeno spirituale che dovranno presto respirare a pieni polmoni. Nessuna formalità per gl'inviti, per la tenuta, per il trattamento: la caratteristica di queste riunioni è il sorriso cordiale e accogliente. Gli uomini meglio se vestiti semplicemente, di scuro - con i calzoni di lanina chiara, se d'estate; - le signorine vestite di chiaro ; le signore col loro miglior vestito da passeggio. Poltrone, o sedie, comode; sgombra la parte centrale della sala; molta luce; temperatura secondo la stagione; qua e là fiori. È consentito alle signore di attendere a qualche lavorino di facile esecuzione e grazioso a vedersi. Usa offrire pasticcini, caffè, liquori, gelati, la bowle, la cioccolata, qualche vino liquoroso. La famiglia invitata deve, alla sua volta, invitare. Questi trattenimenti cominciano, generalmente, verso le nove, e non si protraggono oltre a mezzanotte. Si può anche andare al di là; sopra tutto, se v'è parecchia gioventú, e se scopo principale della riunione è il ballo. Ma, in tal caso, bisogna che il tono del trattenimento sia tutto, per cosí dire, piú sostenuto. Sarebbe grottesco, per esempio, invitare a ballare, per quanto « in famiglia », con i dischi del grammofono! Quindi, ci vuole un piano, e chi sappia ben mettervi le mani: è opportuno che quest'ultimo non sia degli invitati, perché sarebbe venuto a far la parte della vittima. Tanto meglio se si sarà provveduto a un'orchestrina. E la sala dovrà esser ampia, in modo che le coppie si possano muovere senza darsi vicendevolmente fastidio, e senza urtare nelle estremità inferiori della tappezzeria, rappresentata, per lo piú, da madri e da zie. Gl'invitati debbono far ballare la padrona di casa e le sue figlie; i giovanotti di casa debbono far ballare tutte le signorine intervenute. Se la padrona di casa e le sue figlie non ballano alcuni balli moderni - forse, perché questi non sono di loro gusto - è bene non proporli. E non basteranno piú i vassoi in giro, ma ci vorrà, in una stanza accanto, una tavola apparecchiata, su cui sieno disposti in bell'ordine piatti con panini ripieni, tramezzini, fette di galantina, pasticcetti di carne; e posate, e molti bicchieri e bicchierini; con bottiglie di vini e liquori; e abbondanza di tovagliolini, anche se di elegante velina. Ma allora, dicono le prudenti madri di famiglia, è molto meglio andar a ballare al circolo!

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Non si esce senza prima aver provveduto a tutti i bisogni e senza aver fatto un rapido esame per accertarsi che si è in ordine per tutto e con tutto quello che, secondo le esigenze di ciascuno, può occorrere fuori di casa. Se si debbono sbrigare parecchie faccende, e si teme di dimenticarne qualcuna, è bene prenderne nota. Per ogni eventualità, è prudente avvertir sempre i familiari dove, a una certa ora, si è reperibili. Va da sé che il contegno, fuori di casa, deve essere anche piú rigoroso che in casa. Finora siamo stati a contatto con i familiari; quindi, a causa della intimità, ci può anche essere stata una buona dose di sopportazione, di tolleranza. Ora, invece, entriamo in rapporti con la società; per la qual cosa, il cosí detto «comodo proprio », anche se qualcuno usi farlo in casa, deve esser lasciato dalla parte interna dell'uscio. Eccoci lí, proprio sul pianerottolo, di fronte ad altri. Se è una signora, le si cede il passo addossandosi al muro. Le signore che s'incontrano per le scale si salutano, anche se sconosciute; senza che, per questo, o per casi analoghi, si contragga l'obbligo di salutarle fuori. È bello usare i medesimi riguardi agli uomini di età avanzata. Se si attraversano porte, corridoi, luoghi stretti, si cede il passo a chi ci venga incontro. Presso un uscio, si prega di precederci: non si insiste se ci si lascia la precedenza. Si tiene la porta aperta a chi ci segue: questi si affretterà ad entrare, ringraziando. Non si lascia aperto un uscio che era chiuso; né si apre o si tiene o si chiude col piede, col braccio, con la spalla. Se qualcuno ci precede per le scale, non passargli precipitosamente avanti. Se si va di fretta, si chiede il permesso per sorpassare: il piú lento può autorizzare il piú svelto a passargli avanti. Se si fa uso dell'ascensore, alla porta della cabina il medesimo comportamento che alla porta di un locale pubblico. Si saluta entrando. Se c'è una signora, si rimane a capo scoperto; salvo che essa non autorizzi a coprirsi. Si siede soltanto se si può farlo senza disturbare; si cede senz'altro il proprio posto a una donna o a un vecchio. Non si attacca conversazione. Se è prescritto, si rimanda l'ascensore.

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Forma cara ai vecchi, piena nostalgia ottocentesca, ma non piú consona al nuovo costume italiano: tollerabile tuttavia, ma a condizione che gl'inchini non somiglino troppo a quei gesti meccanici dei pupazzi di gomma che fan sempre di sí col capo. I grandi inchini, ora, si possono vedere soltanto nelle ampie sale delle ambasciate e dove si balli il minuetto. Cominciamo, dunque, dal salutare gli amici e i conoscenti; mettendo sempre cordialità nel saluto, ma in grado maggiore o minore, secondo il grado di dimestichezza. Salutare per primi è come « assicurarsi il riconoscimento di una migliore educazione ». Salutare un amico alla voce, a distanza, non è bello; è sconveniente farlo con una signora. Se vi fermate con un amico, è prudente non chiedergli come sta: rischiereste di udire una filastrocca interminabile di guai - per lo piú immaginari - che vi metterebbero di malumore. Meglio sarà chiedergli, come vedremo altrove, quel che di bello v'ha da dire. Se si chiedessero notizie di voi, vi consiglierei quasi di rispondere ciceronianamente, come udii spesso nel contado senese: « Bene, se va ben di lei! ». Va da sé che l'uomo saluta per primo la donna; e scoprendosi, non facendo soltanto l'atto di scoprirsi: il piú giovane saluta il piú anziano, salvo che quello non occupi un posto piú elevato nel rango sociale. Ho detto «va da sé » riferendomi al costume generale e particolarmente a quello italiano; perché, in Inghilterra, e specialmente in America, ora saluta per prima la signora; quasi perché scelga lei, liberamente, chi vuol allietare o onorare col suo saluto. Accade talora di salutare, per errore, una signora che non si conosca: bisogna continuare a salutarla; salvo che essa non dimostri di gradir poco il nostro atto di omaggio. Non si saluta, né si parla con la sigaretta in bocca, o con una mano in tasca: anzi, le mani nelle tasche, specialmente dei calzoni, non si portano mai. Se non si hanno libere le mani, si fa cenno di portare la destra alla bocca o al cappello. Questo, se è floscio, non si prende per la tesa, ma per la parte superiore; né si solleva troppo in aria, o si agita, o si abbassa fino a mezza la persona. Lo si toglie con la mano della parte opposta a quella della persona che si vuol salutare, sempre che essa sia libera. Chi va a capo scoperto, o porta berretti di forma speciale - senza visiera, - s'inchina. I militari fanno il saluto di prescrizione, il quale è sempre il piú elegante, purché fatto con decisione e con marzialità. Una coppia saluta una signora sola. C'è chi saluta isolando, per cosí dire, il destinatario da quelli co' quali si trova: « buona sera, dottore! »: non è ben fatto; ugualmente, si deve salutare e rispondere ai saluti con chi è con noi. Quando s'è cominciato a salutar qualcuno per una speciale relazione stabilita con lui, si continua a salutarlo, anche quando quella relazione è finita. Sia detto questo specialmente per quei genitori - e non son pochi! - che salutano gl'insegnanti dei loro figlioli, e omettono poi la bella abitudine quando i figlioli passano ad altre classi o con altri insegnanti. È bene tener presente che l'« a rivederci! » è un modo amichevole di commiato: quindi, è del superiore verso l'inferiore, della donna verso l'uomo, mai il contrario. Se una signora ferma un amico o un conoscente, questo si scopre, e rimane a capo scoperto fino a quando la signora non lo autorizzerà a coprirsi; non le porgerà per primo la mano: non cercherà di trattenerla a lungo; non proseguirà il cammino con lei, salvo che non ne sia autorizzato. Se si accompagnerà con lei, o smetterà di fumare o le chiederà il permesso di continuare. Non si fermerà a parlare con altri, né le lascerà, come usava, sempre la destra, ma il posto piú comodo e piú sicuro; oggi specialmente che gl'investimenti non sono troppo rari. Nei casi di grande amicizia - o quando la signora ne abbia bisogno - le offre il braccio sinistro: gli ufficiali le offrono il destro quando portano la sciabola. È elegante che un ufficiale di grado piú elevato saluti per primo un suo inferiore quando quest'ultimo è accompagnato con signore. Due uomini mettono in mezzo una signora: di tre o piú uomini, si mettono in mezzo quelli piú ragguardevoli: alla destra di questi, o della signora, le persone, per cosí dire, numero due; alla sinistra quelle numero uno. Una coppia mette in mezzo una signora, o una signorina: il marito sempre alla destra della moglie, lasciando la destra a un altro. Due signorine possono mettere in mezzo un giovanotto, se c'è dimestichezza fra loro. Un giovinetto o una giovinetta vanno alla sinistra dello loro istitutrice: se sono in due, la mettono in mezzo. Si suol dire che è uno spagnolismo questo del posto: a me non pare; perché, in fondo, mira a far godere a tutti la compagnia e la conversazione della persona che si suol collocare in mezzo. Un uomo non ferma sulla via una signora che conosce; salvo casi urgenti, o che non possa incontrarla piú, o altrove. Per salutare una signora in auto, non s'introduce il capo nel finestrino. Alle signore non si dànno denari o lettere sulla via. Se, poi, è segno di dubbia educazione fissare insistentemente signore e signorine che passano, o volgersi indietro a guardarle, è indice di somma volgarità farle bersaglio di complimenti piú o meno sdolcinati e galanti. Lode incondizionata, a questo riguardo, merita l'iniziativa di alcuni Prefetti e di alcuni Questori i quali hanno energicamente affrontato l'increscioso inconveniente, sparpagliando da per tutto agenti della squadra mobile e facendo diffidare quegli stupidi elegantoni sfaccendati, detti «pappagalli della strada » - o esoticamente gagà - che si ostinano a infastidire le passanti. Molto spesso, in verità, anche le donne si volgono indietro per esaminarsi - ammirarsi o deridersi, secondo i casi; - ed è divertente vedere come rimangano male quando, voltatesi nel medesimo istante, si sorprendono a squadrarsi a vicenda. È sommamente ridicolo, per un uomo, fermarsi di fronte allo specchio di qualche mostra per compiacersi del nodo della cravatta o della piega dei calzoni. Per quanto è possibile, si deve evitar di camminare, come si suol dire, con la testa per aria; lo esige, prima di tutto, l'infernale movimento stradale moderno, che è quasi un permanente attentato alla incolumità e alla vita; e, in secondo luogo, l'obbligo di adempiere ai doveri della cortesia. Se si rimane mortificati quando si saluta uno sconosciuto scambiato per un conoscente, o gli si rivolge la parola, quando addirittura non lo si prenda sotto il braccio; e si risponde a un saluto che non era diretto a noi - il che, in fondo, non è gran male - si rimane peggio quando ci accorgiamo d'aver guardato una persona, cui eravamo stati presentati, senza vederla e senza farle un cenno di saluto. Quando le chiederemo scusa, la prossima volta che ci troveremo insieme, apprenderemo che essa aveva notato la nostra distrazione. Non è conveniente fermare sulla via amici professionisti - avvocati, ingegneri, medici, insegnanti - per consultarli intorno a cose riguardanti appunto la loro professione. Al passaggio d'un funerale, è doveroso fermarsi per salutare o cavandosi il cappello, o mettendosi sull'attenti, se si è a capo scoperto. Ugualmente, se passa la bandiera nazionale. Non diversamente, se passa una processione. Chi fosse d'altra confessione religiosa torna indietro, svolta, entra in una bottega; ma non rimane a capo coperto, quando tutti si scoprono ; se non per altro, come omaggio alla opinione altrui. È bello vedere in alcune città - a Siena, per esempio, - salutare le lettighe che passano con un malato. Non bisogna fermarsi in crocchi sulla via per discutere: i passanti son quasi come gli anelli di una catena: se ne tiri uno, vengono via tutti; se uno ne fermi tutti si arrestano. Il che accadrebbe anche se si leggessero giornali o lettere. Guardarsi dal parlare, per la via, a voce alta, o con gesti, o di cose delicate, o facendo nomi; dal bisticciarsi, per le coppie sopra tutto ; dall'indicare col dito; dal fischiare o zufolare; dal ridere sguaiatamente; dall'intavolare conversazioni con persone che sieno in finestra; dal passare davanti a persone ferme, che guardino vetrine o leggano manifesti; dal passare fra due o piú che vadano insieme. In alcuni paesi - e città! - si tenta finanche di passare fra due carabinieri di servizio, perché... porta fortuna! Se s'incontra una persona di nostra conoscenza in compagnia d'un'altra con la quale preferirebbe di non esser veduta, si passa oltre con disinvoltura come se non la si fosse notata. Se si porta l'ombrello, o il bastone guardarsi dal farlo roteare. Soltanto, poi, i venerandi pensionati di provincia fanno compiere all'ombrello l'ufficio del bastone. Su quello non ci si appoggia, passeggiando, né lo si porta, come un famoso personaggio da commedia, sotto il braccio, o in altro modo che possa dar noia a chi è al nostro fianco o ai passanti. Inoltre, per non intralciare il movimento, è doveroso andar sempre dal lato prescritto, che non è da per tutto lo stesso, specialmente nelle città dove le vie son senza marciapiede. Imbattendosi faccia a faccia con uno che non tenga la sua mano, piuttosto che fare per parecchi secondi quel grottesco va e vieni, da destra a sinistra e viceversa, con le braccia piú o meno aperte, proseguire risolutamente per la propria destra. Può darsi che si abbia bisogno di qualche indicazione o informazione: ci si rivolge garbatamente a qualche passante che si vede pratico del luogo o a una guardia - è meglio non disturbare una signora - chiedendo scusa del fastidio e ringraziando: si dà alla stessa maniera; dolenti se non siamo in grado di farlo. Se chi si rivolge a noi è uno straniero, non risparmiare anche qualche passo perché l'indicazione sia completa e precisa. Talora si formano, sulle vie e sulle piazze dei crocchi, degli assembramenti per un incidente o di fronte alla esposizione di una bottega: una signora specialmente non s'imbranca. E non si cerca in tutti i modi di passare ai primi posti, spingendo dietro gli altri, se c'è un qualsiasi pubblico avvenimento. Quando piove e noi siamo forniti d'impermeabile o d'ombrello, si lascia lo spazio piú riparato, presso i muri, ai passanti che ne sono sforniti: se s'incontra una signora amica in tali condizioni, meglio offrirle senz'altro l'ombrello che proporle di accompagnarla. Non si gettano sulla via carte strappate e né pure scatole vuote di cerini o di sigarette: se non ci sono, qua e là, lungo la via, gli speciali cestini metallici, si tiene tutto in tasca, salvo a sbarazzarsene quanto prima, e tanto meglio se in modo che ne possa usufruire la Croce Rossa. Mi si son proposti due quesiti: Possono le signore, per via, portare dei pacchetti? - Non era elegante, specialmente in alcune nostre regioni; ma, oramai, le signore hanno superato questo pregiudizio: a condizione, però, che i pacchetti, per il numero o per il peso, non diano l'idea dello sgombero. È elegante, per una signora, andare a passeggio con un cagnolino al guinzaglio? - Al guinzaglio si, non certo in quelle altre maniere in cui oltre Manica e in America - per quanto non sia altrettanto elegante fermarsi col cagnolino - lo si guardi o non lo si guardi!, a tutti gli spigoli e a tutti i pali...È bene altresí educare il proprio cagnolino - senza, beninteso, picchiarlo sulla via - a non annusare i passanti, né ad abbaiar loro dietro; per quanto le bestie, e i cani specialmente, abbiano un odorato piú fino degli uomini, e, meglio degli uomini, sappiano distinguere gli amici veri dai falsi; ma, allora, bisognerebbe condursi dietro, invece di un cagnolino, un molosso! Si può mangiare sulla via? - In linea generale, no ; ma ci son vie e vie, e cose e cose che si posson mangiare. Non sarebbe, certo, conveniente mangiare per qualcuna delle vie centrali delle nostre città, e all'ora del passeggio; o mangiare dovunque panini imbottiti o fette di cocomeri; ma perché non dovrebbe esser permesso di assaporare, per esempio, qualche marrone candito? Quindi, è questione di discrezione!

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I bisogni della vita moderna da una parte, dall'altra il fatto che matrimonio è reso sempre piú problematico da innumerevoli esigenze hanno obbligato anche la donna, nata e fatta essenzialmente per la casa e per la famiglia, a lavorare fuori di casa. Ciò ha portato una certa complicazione negli uffici, nei laboratori e, in genere, ovunque lavorano promiscuamente uomini e donne. Da qualcuno si vorrebbe che la donna scomparisse dietro l'impiegata o l'operaia. Sarebbe un eccesso che non dico la cavalleria ma la civiltà non potrebbe giustificare. La donna è sempre e dovunque, sopra tutto, « donna »; né le si deve rimproverare il torto di essersi sostituita, in tante forme di attività, all'uomo; perché, non appena le si presenti la possibilità, torna - ed oh quanto volentieri! - in quel regno del quale è regina. Del resto, non c'è Paese civile il quale non abbia provvisto a proteggerla, pur negli uffici e nei laboratori, nelle sue grandi ed auguste funzioni di sposa e di madre. Anzi, non mi sembra qui fuor di luogo ricordare che, in molti Paesi, per la donna impiegata, i limiti d'età per la pensione sono inferiori a quelli dell'uomo; e che, in molti altri, soltanto le nubili possono essere impiegate: quando si sposano, debbono lasciare l'impiego, essendo inconcepibile che una donna possa, nel tempo stesso, essere buona moglie, buona madre e buona impiegata. Certo che essa non può e non deve abusare della sua qualità di donna per mancare alla puntualità, alla esattezza, alla disciplina: dal momento che si sostituisce all'uomo, è necessario si metta nelle medesime condizioni di spirito, bandendo ogni suscettibilità ed ogni pretesa; docile sempre; e pronta ad accogliere serenamente ordini e, talora, anche qualche cortese richiamo. Quindi, deferente con i superiori, i quali, in ufficio, hanno diritto al saluto; fuori dell'ufficio, salutano per primi; garbata e condiscendente con i colleghi; ma riservata, evitando ogni forma di familiarità e imponendo, col suo contegno, rispetto e stima: contegno che deve accentuarsi nel caso si veda « preferita dai superiori». È consigliabile anche una grande semplicità nell'acconciatura e nel vestiario. Trascurata, assolutamente no; ma né pur troppo elegante; perché l'eccessiva eleganza di una impiegata può nuocere alla sua reputazione. Chiunque, poi, è in un ufficio, in un laboratorio, in un'officina, deve tener presente che egli, tutti i giorni, si troverà a contatto con altri che, come lui, attendono a un lavoro. Perciò, i rapporti con i colleghi debbono essere improntati non soltanto a benevola reciproca comprensione e tolleranza, ma anche a cordialità, sí da evitare ogni ragione di equivoco e di dissenso; prestandosi anche, talora, a sostituzioni nel servizio in casi di urgenza. Nei rapporti coi superiori, deferenza ed ossequio; non scendendo mai tanto a basse adulazioni o a forme di servilità, quanto a pettegolezzi, chiacchiericci, insinuazioni. Questi sono, spesso, determinati dall'ambizione, da una specie di mania che alcuni hanno di strusciarsi ai superiori: che è da evitarsi, anche per rispetto alla propria dignità. Nei rapporti con gli inferiori, deve costantemente dominare un senso di equità che ispiri fiducia, e di benevolenza che ispiri simpatia; tenendo presente che le buone maniere e una delicata comprensione fanno ingollare anche le pillole piú amare. L'esperienza insegna che nulla giova tanto a conservare solidamente la concordia fra impiegati di un medesimo ufficio quanto la « misura » nella intimità delle relazioni: intimità che è bene evitare con i superiori, non fosse altro per non esser costretti, qualche volta, a tornare indietro. Il rispetto, infine, per tutto l'altro personale, per l'ufficio e per il pubblico impone una tenuta decorosa, senza mezze maniche, o penne sull'orecchio o occhiali sulla fronte o mani non eccessivamente pulite. E la piú grande cortesia nelle relazioni col pubblico, il quale, spesso, né sempre con ragione, è impaziente. Qualche rara volta accade di trovarsi di fronte a impiegati che parlano, rispondono, si muovono con comodo eccessivo; che pare non vedano o dimentichino che lí c'è qualcuno ad aspettare; che si direbbe quasi prendano gusto ad esasperare l'attesa impaziente del pubblico. E se vi arrischiate a cortesemente protestare, c'è il caso che vi sentiate rispondere: « Faccio già troppo per quel che mi si dà! ». Impiegati siffatti non darebbero certamente l'impressione di un popolo dinamico, che aspiri legittimamente a un maggior benessere col fare ottimo uso del tempo. Il pubblico, dal canto suo, comprendendo che il lavoro, di alcuni uffici specialmente, è noioso o complesso o estenuante, non deve esiger troppo o troppo facilmente impazientirsi o dimostrarsi intollerabile: dopo tutto, negli uffici, ci son macchine per scrivere, per calcolare, per pesare, per timbrare, ma ci sono anche « uomini»; e se, ogni tanto, ci mettessimo mentalmente nei panni di questi, finiremmo col conchiudere che, molto probabilmente, non ce la sapremmo cavare né piú presto, né meglio di loro. Per questo appunto - ossia per evitare atti di fastidio o di scortesia e perdita di tempo - è prescritto di presentarsi col denaro contato, col pacchetto pesato, con la dichiarazione scritta di che cosa precisamente, nei singoli uffici, si desidera dire, chiedere, sapere. Ma quanti, e proprio fra i piú impazienti, si uniformano a queste prescrizioni? E un altro stretto dovere del pubblico, quando si presenta in un ufficio, è quello di rispettare scrupolosamente il turno. Non è certo ben giudicato chi, mostrando o inviando la propria pomposa carta di visita, o ricorrendo ad altri sotterfugi, riesce ad ottenere trionfalmente la precedenza. Alcuni vogliono portare nella vita civile le relazioni d'ufficio: non è bello; sí che un superiore, per esempio, ricevendo in casa sua un subordinato, non rimarrà comodamente seduto e col sigaro in bocca, ma lo riceverà come riceverebbe qualsiasi altro gentiluomo.

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Oggi che il movimento, specie nelle grandi città, è divenuto quanto mai febbrile, quasi vertiginoso, càpita piuttosto frequentemente di assistere a scene poco decorose. Appena una vettura tranviaria o un autobus si arresta, ecco accalcarsi, né sempre dalla parte prescritta, una folla impaziente, che urta, che spinge, che lavora di gomiti per lanciarsi dentro. Non lasciarsi sopraffare è giusto; ed è anche, purtroppo, necessario; ma non sarebbe giusto voler per forza passare avanti a chi ci precede. Ciò non soltanto - e in questo caso come in tutti i casi analoghi - è segno di poco buona educazione, ma non è scevro di pericoli; perché può dar luogo a discussioni e ad alterchi che non si sa mai come e dove possan finire. Naturalmente, anche qui, è bello, se pur non strettamente doveroso, dare la precedenza alle signore e alle persone anziane. Né venire a discussione con gl'impiegati per salire quando, nella vettura, non ci sieno piú posti. In tali vetture, poi, bisogna tener sempre presente che esse sono « di tutti »; quindi, non recriminare sul soverchio affollamento, sul modo in cui qualcuno è vestito: né fare gli schizzinosi se ci càpiti accanto un operaio; né lamentarsi delle frequenti o delle lunghe fermate, dei ritardi, delle manchevolezze, in genere, del servizio: sarebbero proteste non so se piú sciocche o piú inutili. Quando si dovesse accendere una discussione, e si capisce che potrebbe trascendere, meglio signorilmente cedere. Per il posto, oggi usa che chi l'ha se lo tiene. Ed è giusto: sacrifizi, no; specialmente se si è stanchi o se si deve fare un lungo percorso. Ma, quando ciò non fosse, è bello cederlo a una signora, o a una persona che, evidentemente, mal si regga in piedi: dovrebbero farlo sempre i giovinetti, ed anche le giovinette. Se un signore vuol offrire il proprio posto o qualsiasi altra cosa - a una signora accompagnata, non si rivolge a lei direttamente, ma a chi l'accompagna. Chi ha ceduto il proprio posto non pretenda torrenti di ringraziamenti: la signora che se ne avvantaggia ringrazia con un inchino. E quella che attende invano che qualcuno si sacrifichi per lei si dimostrerebbe non eccessivamente signora se cominciasse a borbottare contro la poca gentilezza dei presenti. Oggi le signore sogliono lamentarsi della non eccessiva cavalleria verso di loro da parte di quelli che sono in una carrozza pubblica: ciò che, in gran parte, risponde verità. Però è vero non meno che, in molti casi, le signore stesse, col loro contegno, con la loro poca amabilità, non incoraggiano gli uomini a mostrarsi cavallereschi. Si può pagare il biglietto per signore che sieno con noi; non si deve per signore, anche amiche, incontrate nella vettura per caso. Talora è messa a dura prova la gentilezza - se non, addirittura, la pazienza - dei fattorini. Bisogna che questi evitino col loro garbo di suscitare proteste, calmando e persuadendo anche i piú scalmanati e ricorrendo, nei casi estremi, agli agenti dell'ordine. L' Azienda tranviaria di Milano indice periodicamente una «gara di cortesia » a premi fra i propri dipendenti su tèmi sapientemente scelti. È una iniziativa originale e geniale, che fa onore a quell'Azienda e a quella città; iniziativa che, per il nostro buon nome e nell'interesse del costume nazionale, meriterebbe di essere imitata da tutte le altre aziende e in tutte le altre città d'Italia. Nelle vetture pubbliche la prudenza vieta di fare il nome di persone delle quali eventualmente si parli, di riferire o di chiedere su affari o su altri argomenti d'indole privata o, comunque, delicata.

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In una vettura, l'uomo solo non siede mai a destra, perché il posto di destra dev'esser lasciato libero per qualcuno che si possa, eventualmente, invitare: può sedere a destra una signora. Se si è invitati in una vettura privata da una signora o da persona di riguardo, si va senz'altro a sedere con le spalle al conducente, se in carrozza; sullo strapuntino di sinistra, se in auto, salvo a mettersi accanto a chi ha invitato in seguito ad insistenza. L'ospite in vettura privata, a corsa finita, «si ricorderà » con discrezione dell'autista. Nell'automobile, il posto d'onore è quello in fondo, a destra, ultimo quello davanti a sinistra. Quando una signora si trovi nella propria vettura, conserva il posto d'onore; ma questo non è sempre a destra, sebbene dalla parte opposta a quella dove siede l'autista. In carrozza, i due posti di fondo son sempre riservati alle donne, anche se una è del personale della casa: il signore siede di faccia, dalla parte della mamma, della moglie o della figlia. In una vettura guidata dal proprietario, il posto dell'invitato è quello accanto a lui, per non lasciar solo il proprietario, come se fosse un autista. Quando si attraversino località incantevoli per i panorami che offrono, diventano migliori i posti d'onde si possano godere di piú gli spettacoli naturali. Quando si deve salire, se è aperto lo sportello sinistro, sale prima la persona che deve occupare il posto d'onore; se è aperto lo sportello destro, sale prima quella che deve occupare il posto a sinistra, non senza aver chiesto permesso. Quando una signora scende da una vettura, l'uomo che l'accompagna scende prima per aiutarla, offrendole l'appoggio della propria mano: dalla parte del dorso, se non v'è intimità. Se l'uomo si trova dalla parte opposta a quella d'onde la signora deve scendere, salta giú rapidamente, passa dietro alla vettura e va dall'altro lato. Nelle vetture private aperte - come quelle pubbliche - non si fuma, perché si darebbe noia agli altri con la cenere e le scintille. Nelle chiuse, e quando vi sieno signore, si fuma soltanto se autorizzati da loro; è elegante che gli uomini rimangano a capo scoperto. Nelle vetture aperte, le signore eviteranno di portare cappelli dalle tese larghe, o comunque facili ad esser rapiti dal vento, e lunghi veli svolazzanti. Di due vetture ferme, riprende per prima la marcia quella che trasporta... un carico piú prezioso.

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È bene cominciar dall'informarsi, allo sportello dei biglietti, se vi son posti liberi a sedere; perché, non ostante sia vietato, si vendono spesso biglietti in numero superiore a quello dei posti disponibili. Per recarsi a sedere, è opportuno attendere l'intervallo: si evita di fare dei via vai inutili e fastidiosi per sé e per gli altri, e di mettere il piede in fallo o su altri piedi. Per le signore, e specialmente per le signorine, è prudente non andar sole; perché i maleducati son sempre molti, e il buio è un loro buon alleato. Essendovi costrette, facciano il possibile per capitare accanto ad altre signore. È, forse, pretendere un po' troppo, oggi, dalla cavalleria maschile che si ceda il posto alle signore al principio della visione; è doveroso farlo, se si è verso la fine. Per il resto, regolarsi come in poltrona al teatro.

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Sono i templi dell'arte, della scienza, della cultura: tutte le categorie di visitatori hanno il dovere fondamentale di attenersi alle prescrizioni e di non disturbarsi a vicenda. Inopportuna e inutile ogni recriminazione sull'eventuale biglietto d'ingresso o sul prezzo del medesimo; si depositano alla porta bastoni, ombrelli e, dove sia richiesto, macchine fotografiche. Non si parla a voce alta; non si cammina rumorosamente; non si toccano le cose esposte. Una signora non s'indugia - anche se poco compiacentemente - di fronte a pitture o a sculture troppo « ardite ». L'arte vera è sempre pura; ma non sempre son pure le intenzioni, né sempre son puri i commenti dei visitatori. Trattandosi di esposizioni moderne o di mostre personali, è bene non esprimere a voce alta le proprie impressioni, specialmente se negative; perché... lo vedete quell'uomo, in quell'angolo, che par tutt'occhi e tutt'orecchi verso di voi? È l'autore di tutte, o di alcune delle cose esposte! Se una guida dà alcune spiegazioni, ascoltarla benevolmente, senza osservazioni critiche o sorrisi ironici. Visitando, a Baden-Baden, quelle che lí dicono « Terme romane », in pochi metri di sotterranei e di fronte a qualche frammento di tubo, ho sentito dire delle cose strabilianti; press'a poco come di fronte a qualche affresco di Simone Martini ad Avignone. Non tutti i Paesi sono Italia; quindi, nessuna meraviglia che, altrove, si attribuisca un valore straordinario a cose davanti alle quali, da noi, si passa piú o meno indifferenti. Se si va nelle biblioteche pubbliche, specialmente per consultazioni, esser forniti piú che si può dei dati necessari, per non far perdere troppo tempo agl'impiegati e intralciare cosí il servizio. C'è, frattanto, da augurarsi che tutte le nostre biblioteche abbiano un catalogo per materie. Attendere i volumi chiesti senza impazienze e rispettando il turno. Avuti i libri, tenerli con cura piú che se fossero propri; se si prendono a prestito, non trattenerli piú del necessario, né alterarne in qualsiasi modo le condizioni in cui si sono ricevuti.

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Vi sono dei limiti che, a nessuno, e in nessun caso, è lecito sorpassare. Quindi, non si lanciano coriandoli o altro sul viso, tanto meno con violenza; non s'insiste troppo con una stessa persona; sopra tutto, si tengono, come si suol dire, le mani a posto. E chi ci va come spettatore bisogna già che sia disposto a tollerare lo scherzo; a lasciare a casa ogni forma di suscettibilità, sapendo in precedenza che sarà un po' gaiamente tormentato ; che riporterà a casa il vestito meno sfavillante di come gli è stato consegnato dall'artefice. Specialmente debbono essere in precedenza animati da una buona dose di spirito di tolleranza i fidanzati che accompagnano le fidanzate e, in genere, gli uomini che accompagnano delle signore, perché, esagerando nello spirito cavalleresco, non dieno luogo ad incidenti, i quali, piú che altrove, sarebbero molesti anche per le persone che indirettamente li avrebbero provocati. Il mascherarsi, poi, per un veglione non è cosa molto facile; tant'è che, raramente, vi s'incontra qualche « maschera» veramente di gusto. Or che, spesso, si confondono i veglioni con le serate o i balli in costume, chi ne ha i mezzi si faccia copiare da una stampa antica un bel modello del tempo, scelto con fine discernimento e adattato alla propria persona e alla circostanza; o scelga un grazioso costume esotico; o crei una simpatica fantasia, tenendosi lontano, per quanto è possibile, da ogni eccesso di eccentricità. Chi non può, piuttosto che far sorridere pietosamente o farsi compatire, preferisca andar a invidiare e, secondo i casi, ad ammirare o a criticare gli altri. La maschera sul viso non si deve che tener per poco; al piú al piú, per il primo ballo: tenerla tutta la serata sarebbe scorrettezza. Chi, per qualsiasi ragione, non creda di togliersi la maschera bisogna che, prima della mezzanotte, al piú tardi, si allontani dalla festa o dal locale.

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Le signore, o che vengano in vettura, o che vengano a piedi, possono lasciare il cappello in casa e recarsi a teatro col capo scoperto o con una elegante sciarpina. È bene che lo lascino senz'altro a casa se vanno al cinema o - a teatro - in poltrona o in platea; specialmente, poi, quando son di moda cappelli ad aeroplano o a pagliaio: rischierebbero di suscitar proteste legittime, né sempre tacite. In vero, nulla di piú grottesco dei movimenti che è costretto a fare chi ha la disgrazia di capitar dietro qualche signora col cappello: se sta diritto, non vede che un lembo di schermo o di palcoscenico; se, si piega a destra, l'avversario (il cappello!) lo segue; se si piega a sinistra, la medesima manovra; e guai ad avvertirne l'inopportuna: risponde un colpo d'occhio fulminante, come se fosse possibile cavarsi il cappello senza sciupare l'acconciatura, o rimetterlo senza grandi specchi. Non v'è obbligo di depositare il cappello e il soprabito allo spogliatoio: si deve farlo per il bastone e l'ombrello; salvo che non si abbia a disposizione un palco. Bisogna, però, cavarsi il cappello appena si entra nella sala. Per raggiungere il proprio posto, si passa dalla parte dove si disturba di meno. I « disturbati » si compiaceranno di alzarsi in piedi, specialmente se passa una signora. Quanto ai posti, se si è con signore, si lascia scegliere loro quelli preferiti; tenendo presente che i migliori sono quelli piú al centro e piú presso al corridoio; sopra tutto, quando, nei posti accanto, seggono signore: non si appoggia il capo sulla spalliera della poltrona, né si allungano le gambe sotto la poltrona davanti. Quali sono, poi, i posti d'onore in palco? Quelli davanti, si capisce: alle signore, specialmente se invitate, usa offrire, come il migliore, quello estremo, piú rivolto alla sala che al palcoscenico, salvo che, evidentemente, non si preferisca prender interesse allo spettacolo piuttosto che curiosare sugli spettatori o proporsi all'ammirazione dei medesimi. Fra amici, i posti si scambiano a turno. Da un palco all'altro non si stringe la mano, né si porge il binocolo o altro. Il binocolo non va tenuto sul davanzale; l'uomo lo mette a disposizione delle signore che sono con lui. Sul davanzale del palco non si appoggiano i gomiti, né si sporgono le mani in fuori: le braccia vanno tenute in modo da non turbare la comodità degli altri. Non s'insiste col binocolo verso un'unica direzione; per gli uomini, sarebbe anche una mancanza di riguardo verso le signore che sono con loro. Non si saluta di lontano una signora che si conosce; se mai, si va ad ossequiarla durante il prossimo intervallo. Se è vietato fumare, non si fuma: qualora fosse permesso, è bene non farlo se si è in compagnia di signore; salvo che queste non ne diano l'autorizzazione e il - non elegante - esempio. Durante gli intervalli, usa andare al fumatoio, al caffè, scambiarsi delle visite. Un uomo che ha accompagnato una signora non la lascia sola: se questa è venuta sola, non esce tranne che per andare a salutare un'amica in un palco vicino. Nei palchi non si fa piú di una visita. Un signore invitato può portare dei dolci che offrirà alla signora piú autorevole, o a una giovinetta: esse potranno offrirli agli altri, tenendo per loro quelli che avanzano. Bisogna evitare d'attirar l'attenzione degli spettatori col parlare ad alta voce, col ridere, o col fare gesti: il che devesi evitare pur durante gl'intervalli. Un contegno corretto va tenuto anche da chi si trovi ai posti piú in alto. Tutti debbono alzarsi in piedi quando squillino le note dell'inno nazionale. Si può, e si deve, mostrare d'aver capito lo spettacolo e d'averlo valutato. Rimanere impassibili non è un segno di superiorità, ma di passiva buaggine. Si applaude o si zittisce, ma senza eccessi. Le signore debbono farlo con maggiore riservatezza degli uomini. Io trovo poco dignitosi il fischio e lo schiamazzo: è già molto dimostrare la propria riprovazione col non applaudire. Se si capita accanto a un « invitato per applaudire » lasciarlo fare senza entrare in discussione. Ci si muove dal proprio posto soltanto quando il sipario è abbassato. E non ci si precipita verso l'uscita, specialmente se si è con signore; né ci si accalca allo spogliatoio. Qui, ritirando le proprie cose, si paga la quota prescritta, beninteso anche per le signore che si accompagnano, o si dà una mancia in proporzione degli oggetti depositati e del posto occupato in teatro. Una signora che si è accompagnata a teatro, specie se invitata, si riaccompagna a casa: onere, in verità non sempre gradito ai signori uomini. Se essa dispensa dal farlo, non si insisterà. Se desidera andare in vettura, si cerca questa e si paga la corsa. Se si dispone di vettura propria, salvo casi eccezionali, per i quali bisognerà scusarsi, non si manda a prenderla o a riaccompagnarla, ma si va. Una signora che s'invita da sé potrà essere dispensata dal pagare la sua quota: se lo rifacesse, insisterà per pagare. Va da sé che queste norme subiscono oggi delle profonde modificazioni - nei particolari, non nelle linee generali - perché, essendo le donne un po' da per tutto, si mettono spesso d'accordo, per esempio, con i colleghi d'ufficio; nel qual caso, si fa « alla romana ». In questo caso, specialmente, le signore e le signorine insistano per evitare ai signori uomini la noia e, talora, il supplizio dell'accompagnamento. Credano: per quanto cavallereschi essi sieno, preferirebbero pagar per loro due posti a teatro piuttosto che accompagnarle a casa. E poi, che bisogno c'è? Era doveroso al tempo dei rapimenti briganteschi o romantici, e quando, per la solitudine e per il buio delle vie, si poteva andare incontro a molestie. Ma oggi chi oserebbe dar noia a una donna che vada veramente per i fatti suoi? Senza dire che qualsiasi donna, sol con uno sguardo, può agghiacciare e far fare marcia indietro al piú intraprendente ed insistente dei seccatori. In Italia, all'uscita dal teatro, non usa accompagnare le signore al caffè o al ristorante: altrove, specialmente in Francia, è quasi di prammatica. C'è, in fine, chi, al teatro, si vergogna di farsi vedere « in alto » e preferisce non andarvi. È uno dei tanti indizi della stupidità umana; prima di tutto, perché, al teatro, si va per noi, per un nostro godimento, non per gli altri; il secondo luogo, se c'è della gente che crede di « essere onorata » da una poltrona o da un palco delle file cosí dette nobili, s'accomodi pure; tanto piú se la sua borsa non ne soffre: ma si può anche « onorare » una modesta sedia, o un palco dalla terza fila in su. È forse una colpa, per le persone intelligenti ed oneste, esser povere?

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Però bisogna pur ammettere che la danza, specialmente la modernissima, è una grande occasione e maestra di seduzione; per cui non si raccomanda mai abbastanza di parteciparvi con assoluta onestà d'intenzioni e di propositi e di badare accuratissimamente agli ambienti in cui si va e alle persone con cui ci si troverà a contatto. Quanto ai primi, si sa che ce ne sono di privati e di pubblici, di popolari e di aristocratici; come ci sono inviti firmati da persone direttamente responsabili, e di quelli firmati da comitati e da enti piú o meno anonimi. Chi si assumerebbe la responsabilità per tutti coloro che intervengono a una festa pubblica? Purtroppo, una marsina può coprire tanto il gentiluomo quanto il mascalzone; né sono mascalzoni, sotto un certo punto di vista, soltanto quelli che non hanno a posto il certificato penale. Premessa questa raccomandazione - e dopo aver ricordato che la tenuta sarà quella richiesta dall'invito stesso, o dall'ambiente, dall'ora, dalla circostanza - ecco alcune buone norme da tenersi presenti: Chi non sa o non vuol ballare è meglio non intervenga; le signorine non portano i guanti; mentre gli uomini non li levano mai, durante il ballo: i guanti debbono essere candidi; nei balli pubblici non si invita a ballare una signorina a cui non si sia stati presentati: essa può, garbatamente rifiutarsi; si eviterà di dimenticare un invito fatto o ricevuto sebbene il grazioso libriccino, in cui si soleva prenderne nota, sia abolito; se non si sa ballar bene, è meglio risparmiare una brutta figura a una signora o a una signorina; per invitare a ballare, basta fare un inchino: se la signorina è con persone di famiglia, si chiede a queste il permesso; se è con altri a una tavola, si fa un inchino a tutti; se la signora è col marito, si chiede l'autorizzazione a lui; si eviteranno le coppie fisse; è prudente non fare anche due soli balli consecutivi con la stessa persona; grottesche le coppie fisse di coniugi; e un po' anche quelle di fidanzati; durante il ballo, non è scorretto parlare; ma si deve farlo con assoluta serietà; si devono evitare gli eccessi di allegria, gli atteggiamenti e gli abbandoni molli, le preziosità di movenze: badare piú che è possibile alla disciplina e alla compostezza del corpo, anche perché si è sotto gli sguardi indagatori di tutti; non si batte il tempo della musica, né la si rifà sottovoce; non è corretto invitar a ballare mentre si fuma; è scorrettissimo fumare mentre si balla; non si stringe troppo la compagna di ballo; è un po' prezioso, ma delicato, che i ballerini tengano la mano con la palma in fuori; comunque, la si tiene con le dita chiuse, non aperte a ventaglio; le signorine non s'incipriano durante il ballo, né si ravviano i capelli; la signorina appoggia la propria mano sul braccio non sulla spalla del compagno di ballo; una signora, una signorina possono andare sole al rinfresco; sole o accompagnate, non vi si indugeranno troppo; né abuseranno di liquori o di spumante; e accetteranno, se il rinfresco è a pagamento, che ve le accompagni soltanto un parente o un amico intimo; un ballerino accompagnerà al rinfresco una signora sconosciuta, soltanto nel caso che questa ne lo preghi; le signorine evitino di appartarsi con i ballerini sulle terrazze o nei vani delle finestre; una signora o signorina non permetterà la piú piccola indelicatezza; rifiuterà cortesemente un secondo ballo quando non è piaciuto il contegno del ballerino nel primo; non usa piú accompagnare la signorina al posto dove la si è andata ad invitare; è bello però farlo, inchinandosi anche ai familiari, ma non accompagnandovela al braccio; una signorina può presentare alle sue amiche quelli che hanno già ballato con lei. Come, poi, non è opportuno censurare il modo di danzare del ballerino, cosí non è opportuno perdersi in ammirazione di fronte alla sua arte « danzerina ». Le cosí dette « mattinate danzanti » durano dalle quattro alle otto. Le signorine ballano senza cappello: le madri lo tengono. È bene, nei balli di sera, non essere le ultime a lasciare la sala. Non posso dispensarmi, chiudendo questo argomento, dal raccomandare un po' di prudenza nei discorsi di alcune madri che accompagnano le figlie al ballo: « Che t'ha detto? ». « Gli hai fatto buona impressione ». « Questo sí che sarebbe un bel partito per te! ». « Cerca d'incoraggiarlo a dichiararsi! ». Comprendo la loro ansia e le loro preoccupazioni, specialmente se sono avanti negli anni e le note della serenata tardano a farsi udire; ma se sapessero quale turbamento questi discorsi possono determinare nell'animo delle figliuole!

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E poiché, viaggiando, ci troviamo continuamente a contatto di persone diverse, in ambienti nuovi, non si può prescindere dalle buone regole del viver civile. Le impressioni che riportiamo noi dal modo di trattare degli altri, le riporteranno anche gli altri dal modo nostro; e poiché a tutti piace di esser ben giudicati, bisogna mettersi in condizioni di esserlo. Le valige. Se si vuol viaggiare comodamente, non bisogna portare con sé che l'indispensabile. E questo deve trovar posto, possibilmente, in valige a mano ; le quali dovrebbero aver sempre l'indicazione del nome, cognome e recapito del proprietario. Si può anche eccedere in previdenza; ma, in tal caso, prima d'andare al treno, passare per l'ufficio spedizione bagagli. Le signore, oramai, hanno rinunziato alle ingombranti cappelliere, né piú si vedono in giro lunghe borse per bastoni ed ombrelli. Non è prudente vestir di chiaro ; non si veste di nero ; né è il caso di servirsi, per un viaggio, di vestiti smessi e mal ridotti; tenuta sobria sí, ma dignitosa, secondo la classe: le signore usano ancora indossare degli eleganti spolverini. È bene tener gran conto, prima di mettersi in viaggio, delle condizioni climatiche e sociali della regione o della zona dove si è diretti, per non trovarsi a disagio o esser costretti a fare sacrifizi non lievi per rifornirsi del necessario sul posto.

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Per l'equipaggiamento, limitato all'indispensabile, tener presenti la stagione e il clima dei Paesi da visitare; specialmente se si deve passare da climi mediterranei a climi nordici. Durante questi viaggi, la gentilezza e la puntualità debbono essere rigorose, specialmente se fatti con automezzi turistici. È tutto precisamente fissato: la durata delle soste, le visite ai monumenti, i ricevimenti: lasciarsi attendere, o turbare comunque l'ordine prestabilito non è certo da persone perfettamente educate. Per i posti, durante il viaggio, regolarsi come negli altri casi. Se ci crediamo lesi in qualche nostro diritto, non reclamare strepitosamente, ma rivolgersi garbatamente, se pur energicamente, al direttore della comitiva: ciò, sopra tutto, per quel che si riferisce agli alberghi ai pasti, alle camere. Ed è opportuno ricordare che, per queste comitive, c'è anche, direi quasi, una cortesia collettiva, la quale deve far evitare ogni intemperanza ed ogni eccesso, andandone di mezzo il buon nome italiano. Si capisce che gli abitanti di un dato Paese giudicano i popoli stranieri dal contegno delle persone che lo attraversano ; ond'è che quelle persone si rendono responsabili della fama della loro patria. Senza dire che le intemperanze d'ogni sorta possono avere come conseguenza un improvviso malanno, il quale ci obbligherebbe a rimanere a letto, soli, mentre la comitiva prosegue il suo viaggio. Anche durante questi viaggi, non sono mai eccessive le precauzioni di una garbata riservatezza, specialmente da parte delle signore e delle signorine non accompagnate. Parlando con stranieri, non è corretto ridere o sorridere per errori fatti da chi ci si rivolga nella nostra lingua; come sarebbe di pessimo gusto rilevare le manchevolezze del Paese visitato, facendo risaltare cose migliori della nostra patria, o spalancar tanto di bocca di fronte a ogni cosa nuova veduta, o, viceversa, fingere indifferenza per ogni cosa, come se tutto rientrasse in una già lunga esperienza. Quando si passano i confini, una delle piú grandi noie è rappresentata dalla cosí detta visita doganale. Non c'è da far altro - come, del resto, in tutte le contingenze fastidiose della vita - che buon viso a cattivo gioco. È ridicolo ricorrere a mille sotterfugi per dare l'apparenza di usato a ciò che è nuovo; per smezzare; per nascondere. Dopo tutto, i doganieri alle piccole cose non badano; e se le cose son grosse, vuol dire che chi ha già sborsato il piú si può ora rassegnare a pagare il meno. In una parola, non è bello affannarsi e venire a contesa per volersi sottrarre a ogni costo a uno dei tanti tributi nazionali e, purtroppo, internazionali; mentre, d'altra parte, non debbono i doganieri trattare poco riguardosamente i viaggiatori, o poco delicatamente le cose loro. Inconveniente, quest'ultimo, che, ad onor del vero - e specialmente da qualche tempo in qua - è completamente eliminato alle nostre frontiere, dove i doganieri, pur essendo inesorabili nella visita, sono sommamente riguardosi per i viaggiatori e per il loro bagaglio. Esprimiamo anche qui un augurio e una speranza: che si aboliscano al piú presto le dogane e i passaporti.

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Recarsi a un convegno piú tardi dell'ora stabilita è grave mancanza di riguardo verso quelli che ci attendono. piú grave ancora se ci facciamo attendere da signore; o se arriviamo piú tardi dell'ora fissata per un pranzo a cui siamo stati invitati. È anche pericoloso non essere puntuale negli affari; perché, in questi, il successo dipende, quasi sempre, dall'arrivare « in tempo ». Recarsi al teatro, a un concerto, a una conferenza quando lo spettacolo, il concerto o la conferenza son già cominciati, è mancanza di riguardo verso gli attori, i concertisti, il conferenziere e, in genere, verso tutto il pubblico che vi assiste. Non v'è gente piú sciocca di quella che crede di darsi delle arie, di riuscire elegante, mancando alla puntualità, e suscitando un coro di piú o meno tacite proteste. Chi manca di riguardo agli altri non ha il diritto di pretenderne per sé. Vero è che, talora, ciò può accadere per cause indipendenti dalla nostra volontà; ma, in tali casi, è doveroso chiedere scuse a chi ci ha atteso e, se in locali pubblici, aspettare ad entrare quando si può farlo il meno rumorosamente e col minor fastidio possibile degli altri.

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Quanto alle partecipazioni di morte, chi voglia ancora seguire l'antica usanza comune, e dar modo ad amici e conoscenti di prender parte a un ufficio funebre, bisogna si regoli in maniera che la partecipazione giunga in tempo ai destinatari. La partecipazione può esser fatta collettivamente, per mezzo dei giornali locali, o personalmente: in quest'ultimo caso, bisogna anche tener presenti le associazioni a cui il defunto apparteneva. piú signorile adoperare foglio e busta, listati di nero, che l'usuale doppio foglio ripiegato. La partecipazione personale ha, fra gli altri, questo inconveniente: chi la riceve è, per lo piú, seccato per i doveri di convenienza che essa impone; se non la si riceve, si rimane quasi offesi, perché trascurati o dimenticati. Ai congiunti lontani e agli amici intimi la partecipazione si fa per telegramma. Questo è anche il modo migliore per in inviare le condoglianze. Nella partecipazione, quasi ultimo omaggio della società in cui visse, vanno ricordati i titoli del defunto: non si mettono i titoli dei parenti; e questi debbono essere indicati con precisione, e si debbono seguire secondo il grado di parentela: primi i parenti piú vicini. Si può invitare anche a un ufficio funebre nel trigesimo o nell'anniversario della morte: questo invito è fatto soltanto dal vedovo o dalla vedova, dai figli, dai fratelli e dalle sorelle. In occasione delle esequie, si mette all'interno della porta di strada un registro su cui scrivono il loro nome gli intervenuti. Usa ancora mandare i fiori: quelli degli amici non portano che la semplice carta di visita, senza alcuna indicazione manoscritta, attaccata dal fioraio con uno spillo al nastro o a un fiore. Il fioraio stesso conosce la qualità dei fiori che si addice alla circostanza. Comincia a diffondersi la buona abitudine di una offerta per beneficenza, invece dell'invio di fiori. E la sostituzione meriterebbe di esser incoraggiata, se non ne derivasse un gran danno alla nostra industria floreale, che deve essere, invece, incoraggiata e sviluppata al massimo. Però è bene che la sostituzione sia fatta soltanto in seguito ad indicazione esplicita nell'annunzio di morte e, in ogni caso, dopo aver consultato o avvertito la famiglia. Le usanze per gli accompagnamenti funebri non sono da per tutto le medesime. Generalmente, si segue il feretro fino a un punto determinato, dove il corteo si scioglie: i parenti e gli intimi vanno fino al cimitero. I parenti per cui è prescritto il lutto vestono di nero: gli altri di nero o di scuro ; guanti neri: le donne portano anche, se di lutto, un lungo velo di crespo ricadente dalla parte di dietro del cappello. Seguono immediatamente il feretro gli uomini della famiglia, poi gli altri, ultime le donne: i primi a capo scoperto; gli altri pure; però questi, se c'è molto caldo o freddo, dopo che il corteo si è mosso, possono coprirsi. Va scomparendo l'uso che le donne di famiglia seguano il feretro, accompagnate da amiche: al piú al piú, arrivano fino in chiesa, tornando poi a casa in vettura. Specialmente se la famiglia ha dispensato dalle visite, tiene per otto giorni all'uscio di casa un vassoio per i biglietti, o un registro per le firme. Una settimana dopo la cerimonia funebre, ringrazia con un biglietto, o con un foglio, listato di nero, tutti coloro che vi hanno partecipato o che hanno inviato le condoglianze. A coloro che hanno inviato telegrammi, lettere o fiori si risponde a mano a mano. Si può anche ringraziare collettivamente, per mezzo dei giornali; ma mi par doveroso ringraziare direttamente e personalmente coloro che hanno dimostrato di prender viva parte al nostro dolore. Quanto al lutto - e ai segni esteriori di esso - ci sono stati sempre e dovunque, andando daI tragico al grottesco e all'indecoroso: presso alcuni popoli, le mogli dovevano gettarsi sul rogo ove bruciava il corpo del marito defunto; e anche un segno di lutto il karakiri giapponese; le donne annamite in lutto usano tingersi i denti di nero; e, pur in alcune regioni d'Italia, fino a qualche decennio addietro, gli uomini non si radevano per tutta la durata del lutto, e le donne non si cambiavano la biancheria. La civiltà, anche in questo campo, ha fatto, oramai, passi giganteschi! A me, francamente, i segni esteriori del lutto garbano poco: garbano poco, specialmente per la loro « scadenza fissa »; come se il dolore, il rimpianto, il ricordo scemassero in un certo giorno determinato e, in un altro determinato giorno, dovessero aver fine. Ogni persona di buon senso non può non convenire che « ostentare » la propria tristezza - misurata dai nostri simili dal nero piú o meno opaco e dalla maggiore o minor lunghezza dei veli - è una profanazione, quasi un insulto a ciò che, nel vero lutto, c'è di piú augusto e di piú intimo: la morte, da una parte; lo strazio dell'eterno distacco, il rimpianto, il ricordo, dall'altra. E mi par che si tratti, anche qui, del solito granello d'incenso bruciato alle convenienze vane, alla cosí detta « opinione pubblica », con grave danno della personalità e con avvilimento non meno grave dei sentimenti migliori. Dunque, o ci fu, e c'è il dolore, ed è un immiserirlo e, ripeto, profanarlo dargli una forma, una veste appariscente e una scadenza fissa; o la morte ci ha lasciati indifferenti... e peggio, ed è una stupida ipocrisia: ipocrisia praticata finanche dai coniugi legalmente separati. A ogni modo, per chi tenga alle convenienze sociali, ecco le norme d'uso piú comune: Per le vedove, il lutto dura due anni: uno di nero opaco, nove mesi di nero comune, tre mesi di mezzo lutto; per i genitori, sei mesi di nero opaco e sei di nero comune; per suoceri, fratelli e sorelle, sei mesi di nero opaco e sei di mezzo lutto; per zii, cugini di primo grado, cognati, quaranta giorni di nero. Anche queste non sono che indicazioni; perché, per esempio, in Francia, il lutto è molto piú grave che in Italia; in Inghilterra e in America, si va riducendo alla fascia di crespo al braccio, o a una lista di panno nero al risvolto della giacca. Taluni si fanno scrupolo di sorridere perché sono in lutto: non è punto sconveniente quando si è fatto tutto il possibile per onorare i morti e per continuare a vivere onorevolmente. Non si mandano augúri a chi è in lutto, come questi non li mandano ad altri. Si possono, però, inviare telegrammi o biglietti di congratulazioni, partecipazioni di nascite e di matrimoni. Ma, sia che si mandino congratulazioni, sia che si ringrazi di congratulazioni ricevute, non si adoperano biglietti o carta listati di nero. Quanto alle pubbliche manifestazioni, non è conveniente parteciparvi se esse hanno carattere sollazzevole; ma si può benissimo, per esempio, visitare una esposizione d'arte, andare a una conferenza o a un concerto. Per ben regolarsi in tutti questi casi, tener presente che non, si deve dimostrare di aver « troppo presto » dimenticato i morti e riaperto il proprio animo alla gioia, né si deve diminuire, col proprio lutto, la gioia degli altri. E mi piace ricordare qui, a onore e gloria del nostro popolo, alcune nobili delicatissime usanze: in qualche paese dell'Abruzzo, quando è morto un contadino che abbia lasciato dei figli o la moglie, al tempo della maturazione, si formano delle squadre volontarie di mietitori, e provvedono a raccogliere la messe degli orfani e delle vedove, prima della propria. In alcuni paesi della Campania, siccome il fuoco in casa rappresenta la gioia, e si pensa che, per la morte d'un familiare, non si debba accendere il fuoco, tutti gli amici provvedono a mandare quel che può occorrere per il nutrimento della famiglia, recandosi essi stessi a consumare insieme i pasti. Magnifiche usanze che, purtroppo, vanno scomparendo ; mentre sopravvivono i lunghi ragnateli di crespo, ai quali, come ho detto, non sempre corrispondono i veli del cuore.

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E per giungere a questo, occorre, prima di tutto, aspirare non a un marito o a una moglie, ma al marito e alla moglie: ossia a quella famosa « anima gemella », che sia degna del nostro affetto, della nostra fiducia, della nostra devozione, e che sappia, da parte sua, essere affettuosa, fiduciosa, devota. Certo che le molte esigenze della vita moderna hanno gettato un po' di ridicolo sul « tuo cuore e una capanna », costringendo a calcolare, a tener conto anche del lato economico; ma « anche », non « esclusivamente »; perché, se è vero che moltissimi dissidi familiari sono determinati dalla ristrettezza dei mezzi, è vero altresí che i primi dissidi, quelli fondamentali ed irrimediabili, sono determinati dall'assenza dell'amore. Chi, dunque, vuole evitare ogni delusione, tanto prima quanto dopo il matrimonio, cominci dall'esser guardingo e leale: guardingo, perché possa vedere, con occhio sereno, se, in se stesso e nell'altro, c'è l'amore o la mistificazione, l'illusione dell'amore - confusione tanto frequente e tanto spesso fatale!; - leale, perché, ad evitare future amarezze a sé e all'altro, senta il dovere di presentarsi sotto la sua luce «vera ». È deplorevole che si vantino, talora, ricchezze che non esistono; che si simulino virtú che non si hanno: tanto, la verità verrà presto a galla, con rovina, come ho detto, irreparabile tanto per chi ci ha creduto, quanto per chi ha mentito ; purtroppo, anche per quelli che nasceranno da loro. E quando si è sicuri dei propri sentimenti e dei sentimenti dell'altro, che tenga dietro un sapiente abbandono: sapiente, perchè mi par bello, oltre che suggestivo, che ci sia sempre, nel cuore, un cantuccio recondito in cui l'altro s'industri di veder chiaramente. Imperdonabile leggerezza sarebbe, per i giovani, andare al matrimonio senza che ciascuno avesse, in precedenza, fissato a se stesso un programma di vita coniugale. So bene che il nuovo stato provvederà da sé a consigliare, caso per caso, a suggerire, ad imporre anche; ma è pur bene che una linea generale di condotta ci sia già nei propositi dei coniugi futuri. Punto di partenza, nel programma di vita coniugale, deve essere un grande spirito di tolleranza; senza di questo, non valgono separazioni e divorzi: la catena delle esperienze pietose sarà eterna!

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Quanto agl'inviti a cerimonie nuziali, a ricevimenti in occasione di nozze, a colazioni di nozze, vanno mandati una decina di giorni prima, con la partecipazione, o in busta a parte; vi debbono esser precisati il giorno, l'ora, il luogo della cerimonia, del ricevimento, della colazione. A questi inviti si risponde subito, accettando o scusandosi di non potervi partecipare. Chi accetta deve farsi precedere da un mazzo di fiori: come è conveniente che ciò faccia - o mandi almeno un telegramma, il giorno delle nozze - anche chi non può intervenire. Lo sposo pure si farà precedere in casa della sposa da un fascio di fiori. Egli indossa il vestito di società se la sposa veste di bianco. Si è già raccomandata la massima discrezione nell'invio delle partecipazioni: nel distretto postale, il giorno prima del matrimonio; fuori, un paio di giorni prima: mandarle con parecchi giorni d'anticipo significa attendersi un regalo! I confetti vanno distribuiti personalmente dalla sposa, seguita dallo sposo, e il giorno delle nozze, non nel ricevimento fatto eventualmente prima.

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Qualcuno avrà curato di formare le coppie, badando a mescolare parenti della sposa con parenti dello sposo. Gli sposi vanno alle sedie preparate per loro: lei a sinistra, lui a destra; i parenti e gl'invitati della sposa a sinistra di lei; quelli dello sposo alla sua destra. Dopo la benedizione, lo sposo mette la fede all'anulare sinistro della sposa; questa porge a lui l'altra fede, che egli stesso metterà al proprio anulare sinistro. Gl'israeliti e i tedeschi la portano all'anulare destro. Se si va in sacristia a firmare l'atto nuziale, precede la sposa col suocero: seguono lo sposo con la suocera; la madre dello sposo col padre della sposa ; i testimoni. All'uscita dalla chiesa, precede la sposa con lo sposo: seguono il padre della sposa con la madre dello sposo; il padre dello sposo con la madre della sposa. Nella prima vettura prendono posto gli sposi; nella seconda i genitori dell'uno e dell'altro. Alla colazione di nozze, i posti d'onore spettano agli sposi: la sposa avrà a destra il suocero, e a sinistra il padre. Nel caso che l'uno o l'altro degli sposi sia orfano, fa le veci del genitore defunto il parente piú vicino e piú anziano. Verso la fine del ricevimento o della colazione, gli sposi, profittando di un momento in cui la conversazione è particolarmente animata, si allontanano per cambiar vestito e partire. Non è necessario salutare gl'intervenuti, ed è bene che si allontanino e partano soli. Ma è proprio necessario il viaggio di nozze? È un uso che ha perduto il suo carattere originario; anzi, ha convertito in tormento, per quanto inavvertito, il fastidio che esso si proponeva di scongiurare. Una coppia, dunque, di nobili sposi, per sottrarsi alle noie della vita sociale, per vivere le prime settimane di vita coniugale in una dolce intimità, si ritirava in un castello o in una villa. E, francamente, valeva la pena di affrontare i disagi di un viaggio, anche se non breve, e pure se fatto con mezzi primitivi. Ma ora! La quiete serena della campagna e del mare è, senz'altro, messa da parte: si va di città in città, travasandosi da un treno a un albergo, e da un albergo a un treno: malsana curiosità da parte di viaggiatori e camerieri; nessuna inviolabile intimità; poca cura della persona, e poca vigilanza di sé; sovrapposizione caotica di impressioni; in una parola, inconsiderata volontaria rinunzia a quello che dovrebbe essere il primo canto - e il piú bello! - del poema della vita coniugale. Se si sapesse di quanti matrimoni finiti male la causa prima va ricercata nel viaggio di nozze! E le coppie di buon gusto rimandano questa « distrazione » ad altro tempo!

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Quando non possiamo, o non vogliamo, rivolgerci a qualcuno direttamente e con la parola, lo facciamo per iscritto; e son tante le cose che si scrivono quante sono quelle che si dicono a voce. L'importanza di questa « conversazione scritta » è evidente: verba volant, scripta manent; volano le parole, rimangono gli scritti: ossia scrivendo a qualcuno, noi gli mandiamo quasi un documento dal quale egli potrà giudicare della nostra sincerità, serietà, gentilezza. Generalmente, chi legge una lettera si forma un'opinione di chi l'ha inviata. Ed effettivamente, la fisionomia di una lettera rivela, se non tutto il carattere di una persona, molte delle sue maniere di pensare, di sentire, di trattare, di vivere: d'onde l'importanza di saper bene scrivere una lettera, prima per farsi comprendere, e poi per dare di sé una buona impressione. È quasi impossibile classificare rigorosamente le varietà di lettere, potendosi esse riferire a tutte le manifestazioni dell'attività umana. Tutte, però, quale che sia il loro oggetto, debbono avere alcuni requisiti essenziali: la naturalezza; la chiarezza, la convenienza. Ho gia detto che nulla è piú antipatico e piú ridicolo dell'affettazione; dunque, bisogna evitarla nelle lettere, esponendo il nostro pensiero con naturalezza: naturalezza che si potrebbe chiamar « abbandono » nelle lettere familiari e d'amicizia, e « semplicità » nelle altre. La convenienza - dipendendo, piu che da altro, dal buon senso, dal tatto di chi scrive - si acquista con l'esperienza e con l'educazione dello spirito e delle buone maniere. Nelle lettere familiari e d'amicizia, una introduzione semplice e viva e una chiusa buona e affettuosa: tra l'una e l'altra, le notizie e, in genere, quel che abbiamo da dire, non con un ordine stringato, ma tuttavia senza andate e ritorni. È permesso qualche poscritto, che consente di tornare un momento su ciò che s'è detto, o di colmare una lacuna. Le lettere d'affari possono essere svariatissime, dalla commissione alla raccomandazione: requisiti principali, l'ordine, la chiarezza, la brevità: principalissimo, la gentilezza. Alcune lettere di questa categoria richiedono un tatto speciale: quelle, per esempio, con cui si dànno o si chiedono informazioni. In tal caso, bisogna scrivere secondo che la coscienza suggerisce e in termini prudenti, perché la piú piccola parola inconsiderata può pregiudicare moltissimo una persona o una istituzione. Si mettono fra le lettere dette di convenienza quelle che alcune circostanze speciali della vita obbligano a scrivere: lettere di condoglianze, di congratulazioni, di ringraziamento, di scusa. Le prime son le piú difficili. Esse si propongono di consolare. Tutto vi è delicato: la scelta del momento in cui si scrive, le parole che si usano, i sentimenti che si esprimono. E il complesso di questi diversi elementi dipende dalle relazioni fra mittente e destinatario. Se chi scrive è buon amico di colui cui la lettera è diretta, prende parte veramente al suo dolore: in tal caso, il cuore guiderà certamente la penna e farà dire delle cose delicate e consolanti. Se, invece, col destinatario, non si hanno che relazioni di società, gentili senza essere amichevoli, si andrà meno avanti nella intimità del dolore, si limiterà a dare l'assicurazione della propria simpatia. Il difficile, in parecchi casi, è di restare discreto, evitando di cadere nella freddezza, che è quasi un'offesa, come quando si scrive « condoglianze » su una carta da visita, o di profondersi in effusioni inverosimili. Ora, non si cadrà in questa mancanza di gusto se si è mossi da sentimenti, elevati e generosi; se, in una parola, si ha del cuore. Non vi possono esser regole per questa specie di lettere, il cui merito principale consiste nell'adattarsi al carattere delle persone e delle circostanze. Il dolore colpisce cosí diversamente le anime! Alcune quasi vi si adagiano; e, per queste, il miglior modo di condolersi è parlare della perdita patita. Altre, al contrario, mettono come del pudore a chiudere il loro dolore in fondo al cuore, e non amano sentir ricordare da altri l'oggetto amato e perduto: per queste, sarà opportuno scivolare sui ricordi dolorosi e guardarsi dal tentar di consolare un dolore inconsolabile. Insomma, nulla vale, per l'ispirazione, come la sincerità del sentimento. Per conto mio, quando si tratti di condoglianze e di congratulazioni, alla lettera preferisco il telegramma. Le altre lettere di questo gruppo debbono anch'esse, come quelle di condoglianza, essere scritte al momento opportuno; ossia non appena si può, dopo l'avvenimento che è la causa: nascita, matrimonio, onorificenza, favore ricevuto, offesa fatta. E anche qui la disposizione con cui prendiamo la penna è la guida migliore; il buon gusto farà evitare gli eccessi che, in parecchi casi, sono l'indifferenza o la effusione iperbolica. Che diremo, in ultimo, di quel tal generino di lettere qualificate « anonime »? Inviarne per far delazioni, maldicenze, calunnie, o per destare sospetti, è peggio che appiattarsi dietro a un muro per tirare una fucilata al viandante: è l'atto piú malvagio e piú vile, che mette l'autore al bando dell'umanità. Non bastano, poi, il contenuto e la forma: ci sono anche le forme, dalle quali altresí si giudica della buona educazione, della gentilezza, della finezza di modi di chi scrive. Non si partecipano i saluti di altri che ai propri pari e agli amici; eccezionalmente, agli sconosciuti e ai superiori; a questi si possono presentare soltanto i saluti dei genitori o dei parenti. Né s'incarica un superiore di salutare un inferiore; come il superiore eviterà di affidare all'inferiore i suoi saluti per qualcuno. Non sono convenienti i poscritti nelle lettere di riguardo; in nessun genere di lettere, per far proteste d'amicizia o per congratularsi. Se si affidano lettere ad amici perché cortesemente le recapitino ad altri, si consegnano aperte: gli amici si affretteranno a chiuderle. La carta dev'esser semplice, ma non ordinaria: la bianca è la migliore. Non dev'esser profumata. Non si scrive alle persone di riguardo su carta intestata o su cartoncini. La busta deve essere della medesima qualità e del medesimo colore del foglio. Dev'esser buono l'inchiostro: leggibile la calligrafia. Si lascia sempre un centimetro di margine laterale; né si rimandano alla pagina successiva i saluti. Non si cominciano le lettere col pronome Io né con un gerundio. Sono aboliti i qualificativi sperticati: ricordare che l'illustre è molto piú dell'illustrissimo e si può dare soltanto a pochi. Sul rovescio della busta è prudente scrivere il cognome e il recapito del mittente sia per ricordarlo a chi si scrive sia perché si sappia a chi restituire il messaggio nella eventualità che non si trovi il destinatario. Ecco i recapiti, con la forma diretta e indiretta, da usare con le varie categorie di personaggi: Al Sommo Pontefice: Alla Santità di - Santo Padre - Voi, a Voi, di Voi, Santità, Santo Padre. Ai Cardinali: Eminenza reverendissima - Eminenza - Voi, Eminenza - Di Voi, Eminenza. Agli Arcivescovi e Vescovi: Eccellenza - Voi, Eccellenza - A voi, Eccellenza. Non sappiamo se ai membri della Costituente sarà data la vecchia qualifica di Onorevole. L'Eccellenza ai Ministri, ai Prefetti, ecc. non è ormai che un ricordo e, per alcuni, una nostalgia piú o meno pungente. Quanto alla chiusa, secondo i casi: devozione filiale, devotissimo suddito, devoti ossequi, con devozione, devotissimo, ossequi, con devozione affettuosa, con affetto devoto, obbligatissimo, gratissimo, cordialissimi saluti, ecc. Scrivendo, poi, a persone di riguardo e alle signore, i pronomi e i possessivi vanno scritti con la maiuscola: Lei, La, Sua, ecc. Usa scrivere con la maiuscola anche i pronomi indiretti, incastrati in altre parole: scriverLe, salutarLa. In alcun Paesi, le qualifiche dei mariti sogliono prenderle anche le loro signore. In Italia, no. Nell'Italia meridionale - evidente avanzo di spagnolismo - usa dare comunemente il « don » e il « donna ». Se c'è ancora chi prende gusto a darlo o a sentirselo dare - ma nel meridionale - poco male, per quanto anche la legge sia intervenuta a disciplinare quest'uso. Normalmente, il « don » si dà soltanto agli ecclesiastici, anche davanti al cognome, e ad alcuni nobili. La data in cima al foglio, a destra: da Siena, a' 30 di maggio del 1945, il vocativo in mezzo, o al principio del rigo; se seguíto da punto, lettera maiuscola da capo; se da virgola, si prosegue, anche se da capo, con lettera minuscola. Si tenga presente che i numeri romani, hanno già il valore di ordinali; quindi, si scrive 30, ma con cifre arabe; III con numeri romani. In fondo alla lettera, è ridicolo mettere il caro o il carissimo con i « propri » saluti: secondo i casi, aff.to, aff.mo, dev.to, dev.mo: servitore, mai servo, che vuol dire schiavo. Nelle lettere familiari, meglio il possessivo: in quelle di riguardo, meglio a Lei, dev.mo, ecc. In queste, si suol anche ripetere il recapito in fondo al foglio, a sinistra. Non è corretto firmare con le iniziali o con sigle illeggibili. Scrivendo ad amici, basta il nome e l'iniziale puntata del cognome; o questo solamente. Non è corretto inviare lettere non sufficientemente affrancate. Il francobollo si attacca diritto, in cima a destra; il recapito deve avere tutte le indicazioni precise: sul rovescio della busta, il cognome e il recapito di chi spedisce; e questo sempre, facendo poco affidamento sulla memoria o sulla cura di colui a cui si scrive. Quando si desideri una risposta da persone con le quali non si sia in confidenza, unire il francobollo. Mi par quasi superfluo ricordare che non si scrive direttamente alle piú alte Autorità; ma alle persone loro specialmente addette, o agli uffici.

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I genitori che vogliono risparmiare a se stessi rimorsi e fastidi d'ogni genere, e poco gradite sorprese ai figli provvedono per tempo a dare e a far dare loro una sana educazione. A dare, perché la buona semente si getta nella famiglia; a far dare, perché una educazione completa non si riceve che nella scuola. Per modificare, raddrizzare, correggere, occorre che le occasioni mettano in evidenza l'incertezza delle disposizioni naturali; facciano venire a galla le eventuali manchevolezze d'indole. Il che avviene soltanto nella scuola, in quella prima minuscola società, dove il ragazzo si trova a contatto con tanti coetanei di condizioni sociali ed economiche diverse, di differente intelligenza, volontà e preparazione. Fra il cittadino che fu educato costantemente ed esclusivamente in famiglia, dai genitori e da precettori privati, e quello che fu educato nelle scuole pubbliche, c'è, a me pare, la stessa differenza che tra un fiore di serra, dalle tinte delicate, e un fiore di giardino, che attinse direttamente i suoi colori dal sole ed è abituato a resistere alle intemperie. Deriva da questo la somma importanza che la scuola ha - o dovrebbe avere - in ogni Paese civile; di qui anche la enorme responsabilità degl'insegnanti; essendo essi i veri plasmatori delle future generazioni e, quindi, gli artefici dei destini d'un popolo. La scuola! E chi non ricorda quel tempo beato, quelle aule, in cui si iniziò e si sviluppò tutta la nostra vita intellettuale e morale; in cui si provò l'amarezza delle prime delusioni e la gioia dei primi trionfi; in cui si contrassero le prime amicizie; in cui, in fine, possiamo rintracciare i germi della nostra condotta futura, del tono di tutta la nostra vita? Vorrei, però, aggiungere che la scuola, oggi, non mi par piú quella...; ma, da quando il Poeta latino affibbiò ai vecchi l'appellativo di laudatores temporis acti, non possiamo vantare qualche cosa della nostra piú o meno lontana giovinezza, senza sentircelo canzonatoriamente ripetere su tutti i toni. E pure, per tante, tantissime cose, non è cosi: non lo è certamente per quel che riguarda la scuola, se si deve prestar fede a ciò che dicono tutti gl'insegnanti, e se si deve credere a ciò che i nostri stessi occhi vedono nei pressi di tutti, o quasi, gli edifizi scolastici.

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Vi sono delle circostanze in cui ci presentiamo da noi stessi: in un ufficio, a un superiore, a qualche autorità. Anche se siamo presentati da altri - se, cioè, altri garantisce per noi - la miglior garanzia è sempre quella offerta da noi medesimi. Quindi, bisogna tenere nel massimo conto « il modo di presentarsi ». Chi sa mai quante volte ciascuno di noi ha avuto di ciò prove convincentissime! Si pensi che le persone piú in alto, piú in vista - se ad esse ci presentiamo - sono anche le piú adulate; quindi, sono quasi necessariamente piú sensibili delle altre agli atti o alle parole, non perfettamente cortesi. Siamo d'accordo, ripeto, che la tonaca non fa il frate...: però a chi non piacerebbe suscitar simpatia fin dal suo primo presentarsi? C'è chi si domanda perché sia stato concesso a un altro ciò che è stato negato a lui. La cosa può esser accaduta per mille ragioni; ma una delle piú frequenti è che quell'altro si è presentato meglio. E « presentarsi bene » non significa indossare un vestito nuovo, calzare scarpe fiammanti, avere i guanti di uno o d'altro colore, o la caramella cerchiata di tartaruga, o il cappello duro, o il bastone col pomo d'oro... Tutte queste cose, o alcune, possono concorrere, ma non costituiscono il « presentarsi bene »: elementi essenziali sono anche il modo di farsi annunziare, di salutare, di guardare, di parlare, di sorridere; elementi, per giunta, il cui valore e la cui portata cambiano secondo le persone cui ci presentiamo, secondo i luoghi, l'ora, le occasioni. Un atto, dunque, complesso quanto interessante e al quale bisogna attribuire ben maggiore importanza di quel che comunemente non si faccia. Ha anche la sua importanza l'atto del presentare. In Inghilterra - l'ho già accennato - essa tocca i limiti dell'esagerazione. In fondo, è una garanzia che si dà e che si ha il diritto di pretendere; specialmente quando non si riduce, come in molti casi, a una semplice formalità o convenienza. Se, mentre passeggio con amici, o son con loro al caffè, mi si avvicinano successivamente parecchi, chi per salutarmi, chi per chiedermi qualche cosa, proseguendo poi ciascuno per i fatti suoi, o andando a sedere a un tavolino diverso dal mio, sarebbe inutile che io facessi la presentazione. E sarebbe noioso anche; perché i miei amici contrarrebbero da quel momento alcuni obblighi, come quello del saluto, che talora potrebbero trascurare, né pur ricordando i nomi o le fisionomie delle persone cui li avrei presentati. Farei, invece, la presentazione, se si dovesse restare per qualche tempo insieme. Doverosa, quindi, la presentazione in un salotto: e vien fatta dalla padrona di casa, la quale dice il nome del nuovo arrivato e poi, a uno a uno, guardando in giro, i nomi degli altri. Atto da compiersi non soltanto con grande disinvoltura, ma anche con arte; perché può fornire opportuni elementi per la conversazione; e può render questa piú generale e cordiale. Per evitare imbarazzi, si fa a meno della presentazione quando si sa, o si suppone, che essa possa non riuscire gradita. Qualora ci sieno state delle dimenticanze, la persona meno importante prega qualcuno di presentarla all'altra; ovvero, se la distanza sociale non è grande, si presenta da sé, come molto simpaticamente usa fare nell'esercito. È opportuno che l'uomo si faccia sempre presentare alla donna; specialmente in una sala pubblica da ballo; dove una donna garbatamente si rifiuterà di ballare con uno che non le sia stato presentato. Si immaginano gl'inconvenienti cui si potrebbe andare incontro, o che potrebbero derivare da un ballo con uno « che non si conosca »? Dunque, si presenta la persona meno importante a quella piú importante; l'uomo alla donna; il giovane al vecchio; la signorina alla signora; la persona di famiglia all'estraneo. Se si dà il caso che uno piú giovane sia, socialmente, piú in alto di uno piú anziano, si presenta questo a quello. Non usava dire, dopo il nome del presentato il nome della signora cui si presentava: ma io credo sia piú opportuno farlo. L'uomo presentato alla donna si alza se è seduto: un uomo non stende la mano per primo a una signora, né uno piú giovane a uno piú anziano, né un inferiore a un superiore; da noi, basta un inchino; due uomini si alzano anche per la presentazione fra loro. Il marito presenta « sua moglie » non la « sua signora »: gli altri diranno «la sua signora » non « sua moglie ». E cosi, una signora ha già « avuto il piacere » di conoscere un uomo; mentre l'uomo ha già « avuto l'onore » di conoscere una signora. E si sia molto cauti nell'adoperare la parola « onore »; se ne faccia a meno, quando non vi sieno ragioni cavalleresche, o non si sia realmente « onorati » da una conoscenza. Infine, è bene che l'uomo, rivolgendosi a una signora, non usi le solite espressioni: « Buon giorno», arrivederci», ecc.; ma «i miei omaggi », «la mia devozione, signora ». Una delle cose a cui si deve maggiormente badare nelle presentazioni - come nella conversazione - sono i titoli. Ve ne sono di accademici, cavallereschi, nobiliari: a quali dare la preferenza? Dal momento che il nostro tempo comincia - finalmente - ad esser tale che ciascuno deve essere onorato per quel che personalmente vale, è chiaro che la preferenza andrebbe data senz'altro ai titoli accademici. Io faccio cosí. Ma non si regolano cosí tutti; per cui, buona norma è adattarsi agli ambienti e indulgere talora alle debolezze del nostro prossimo. Si capisce che, in un salotto, « fa piú effetto » un titolo nobiliare; in un congresso, sta meglio un titolo accademico. Chi si presenta da sé si guarderà bene dal ricordare i propri titoli cavallereschi e nobiliari; mentre è opportuno che dica il proprio titolo accademico; o, se è ufficiale, il grado che riveste. A proposito di ufficiali, i sottotenenti, i tenenti-colonnelli, i contrammiragli e i viceammiragli vanno presentati, e chiamati, col grado immediatamente superiore: e, cioè, tenente, colonnello, ammiraglio. Fuori d'Italia, specialmente in Inghilterra, usa chiamare gli ufficiali col grado seguito dal cognome: da noi, col grado solamente. Per gli ufficiali di Marina, « Comandante ». Se l'ufficiale ha un titolo, questo si dice dopo del grado. Rivolgendosi tanto al Segretario quanto al Sottosegretario di Stato, « Signor Ministro »; ai Direttori Generali, « Signor Direttore». A una signora che, per la sua famiglia, abbia un titolo piú alto di quello del marito, si dà il titolo del marito; e se questo non ne ha alcuno, non le si dà alcun titolo. Quando poi, davanti al titolo, si mette il « signore »? In verità, l'indole stessa, il genio della nostra lingua comportano tale uso meno frequentemente che la lingua francese, per es., l'inglese, la tedesca: il monsieur, il mister, l'Herr si adoperano molto piú spesso che, da noi, il « signore »: questo ha un non so che di troppo umile, e quasi di servile. E, però, obbligatorio per gl'inferiori parlando ai loro superiori diretti e a quelli, in genere, con cui abbiano relazioni di semplice conoscenza: Signor Direttore, Signor Capo, Signor Ministro; è bello metterlo davanti agli alti gradi dell'Armata: Signor Ammiraglio, Signor Generale: come davanti al titolo nobiliare, rivolgendosi a signore: Signora Contessa, Signora Marchesa o a titolati anziani: Signor Duca: si tralascia senz'altro, parlando a titolati piú o meno coetanei, specialmente in un salotto.

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Le cause del fenomeno sono parecchie; principalissima, a mio giudizio, quella che quasi tutti hanno annesse delle scuole d'ogni ordine e grado parificate. Né pur accenno qui alle molte questioni inerenti a tal fatto, specialmente a quella - importantissima - riguardante la scelta del personale: dirò soltanto che, se si presume una media di cento alunni per ogni convitto, ne deriva che almeno trecentomila dei nostri giovani sono educati in convitti. Da ciò si rilevi, quanto interessi che sieno un po' piú diffuse, insegnate e praticate le regole della cortesia. Del resto, i dirigenti piú sapienti sanno che il buon nome della loro istituzione dipende, sopra tutto, dal grado di educazione di coloro che vi furono ospitati; né il buon nome soltanto, ma anche la fortuna. Quanto ai convitti, il Ministero esplicitamente fa obbligo che, dal personale di ruolo, vi sieno insegnate le regole della cortesia; ma lo si fa da per tutto? E lo si fa con quella serietà e con quella importanza che l'insegnamento medesimo esige? Io farei, in proposito - e per esperienza! - non poche riserve. Certo, cresce ogni giorno di piú la diffidenza per l'educazione nei convitti; e forse non a torto, perché, nei convitti, c'è sempre qualche cosa che àltera l'abito della spontaneità, della sincerità, della franchezza. - Una signora mia amica, volendo mettere in convitto il suo unico figliolo, m'invitò ad accompagnarla nella visita a uno dei convitti nazionali piú noti e piú belli. La visita era appena cominciata, con la guida del rettore, quando la visitatrice si fermò, dicendo di aver veduto abbastanza. Abbastanza per recedere dal suo proposito: aveva veduto ad alcune porte lo spioncino... La maggior parte dei giovani convittori non s'è, forse, mai chiesto perché sia in convitto; o, pur sapendolo, molto spesso lo dimentica: essi si trovano in convitto, per esservi «istruiti ed educati »; anzi, educati prima, poi istruiti; perché, senza uomini dotti, la società civile si potrebbe reggere ancora; andrebbe, invece, in rovina senza uomini educati, senza gentiluomini. Chi tenga costantemente presente questo fine, e ad esso conformi la propria condotta, non può che trovarsi bene, e finir meglio. Certo che, data l'età e dato il bisogno, nella prima giovinezza, di moto e di libertà, la vita « regolata » del convitto riesce un po' pesante; ma bisogna pur ricordare che nulla, per lo piú, diede la vita ai mortali senza lavoro e senza qualche sacrifizio. E bisogna ricordare altresí, piaccia o non piaccia, che la pianta si piega e si adatta quando è tenera ; non si piega né si adatta piú quando è sviluppata e cresciuta; e che noi siamo, da uomini, quali fummo formati e plasmati da fanciulli. D'onde la necessità assoluta di sottostare a una regola, di ubbidire a una disciplina, di conformarsi, cioè, a tutto quello che esiste al mondo, perché nulla esiste al mondo che non abbia una sua legge e ad essa non ubbidisca. Chi si guardi intorno con occhio sapiente osserva l'ordine e l'armonia da per tutto; e ordine e armonia significano disciplina. Nulla è impossibile, nessuna mèta è irraggiungibile per l'uomo disciplinato; mentre tutto è incerto, tutto in balía del caso per l'uomo che non abbia saputo o voluto disciplinarsi. Ciò premesso, ne consegue che la disciplina non è una norma astratta, fuori della vita; ma quasi una linea di condotta perfettamente e costantemente aderente alla vita; una regola che non è fuori di noi, ma deve essere un nostro proposito fermo; anzi, piú che proposito, un sentimento profondo, che domini ogni nostro atto, si sia o non si sia osservati, ci sia o non ci sia una sanzione. Diversamente, la disciplina sarebbe null'altro che finzione, contraffazione, ipocrisia. Né essa si discute: è un principio che obbliga tutti; e tutti ugualmente; e da chiunque rappresentato: « è cosi, perché è cosí»; « questo si fa o non si fa, perché si deve o non si deve fare! ». La vita interna. È regolata, si può dire, ora per ora, e quasi minuto per minuto. C'è il tempo fissato per il riposo, per lo studio, per la ricreazione, e a nessuno dev'esser lecito protrarlo o accorciarlo secondo il proprio gusto: si pensi a quel che accadrebbe, se ciascuno facesse a suo piacere! Quindi, i vari segnali obbligano tutti, e immediatamente; l'ubbidienza « immediata » ai segnali è il fondamento della disciplina interna ; e non della interna soltanto, ma anche della interiore. È assolutamente errata l'osservazione che questa violenza fatta alla volontà dà poco buoni risultati, perché impone lo studio quando si preferisce la ricreazione, e il riposo quando si preferirebbe lo studio. Si confonde la « violenza » con l'« educazione » della volontà; educazione che, come ho detto, è la base di ogni successo e di ogni benessere della vita. E poi, sarebbe in parte vera, quando si trattasse di volontà consapevole, non di volontà giovanile, quasi ancora istintiva, la quale si capisce che preferirebbe il gioco allo studio, il letto alla scuola. Il convittore deve, dunque, tener presente che, mentre gli altri giovani della sua età sono educati in famiglia - in una società, cioè, molto ristretta - egli viene educato - e, a mio giudizio, per sua fortuna - in una società piú ampia, dove piú presto si sviluppano e si apprendono le nozioni di dovere e di diritto; dove non vi sono le condiscendenze parentali, che talora guastano l'opera educativa; dove, in fine, si sviluppa piú presto il senso della responsabilità - che è il piú grave e il piú importante della vita - essendo affidato al contegno del convittore il prestigio, la dignità, il buon nome non soltanto suo e della sua famiglia, ma anche della istituzione a cui egli appartiene. Pertanto, le norme della cortesia avanti esposte valgono per lui come per tutti; però s'impongono, per cosí dire, al convittore pin strettamente che agli altri. Un giovinetto che vada in giro con le scarpe polverose, con la giacca frittellosa, con dei bottoni pendenti o addirittura mancanti, può anche non esser notato o, al piú al piú, sarà sfavorevolmente giudicato, per quanto sconosciuto; se nelle medesime condizioni si trovasse un convittore, l'identificazione è presto fatta; e il nostro prossimo - disposto, per lo piú, a sentenziare all'ingrosso e poco benevolmente - da un convittore disordinato, giudica male il convitto; e il discredito ricade fatalmente dal convitto su tutti i convittori. Io conosco tanti i quali, pur alla distanza di decenni, si vantano d'essere stati educati in questo o in quel convitto: in convitti si capisce, che godevano e godono eccellente reputazione. Quindi, prima dote di un buon convittore dev'essere l'ordine; e ripeto qui che l'ordine non riguarda soltanto l'esteriore, ma tutte le nostre attività, tutti i nostri aspetti, dai piú effimeri ed apparenti ai piú spirituali e profondi: l'ordine, in una parola, è il primo passo per la educazione della volontà. Osservando come un convittore lascia il suo posto nel dormitorio o nello studio, come lascia la cameretta, come cura la tenuta, come sta a scuola, come partecipa ai giochi, si nota subito se egli è « ordinato ». È opportuno scendere a qualche particolare: Nel dormitorio, si rimane solamente nelle ore destinate al sonno, salvo che non sia altrimenti stabilito. Durante la notte, non si fanno cose che possano, comunque, disturbare il riposo degli altri. Le operazioni dello svestirsi, del vestirsi, della pulizia vanno eseguite con decenza e con sveltezza; beninteso che la sveltezza non deve giustificare la benché minima trascuratezza. La cameretta va tenuta pulita e ordinata, con ogni cosa al suo posto. Non si ricevono compagni nelle ore, o nelle maniere vietate; né vi si fa qualsiasi altra cosa non consentita dal regolamento interno. Non si fuma; né si tengono cose mangerecce che emanino odori sgradevoli, vini o liquori. È anche prudente non prepararsi il caffè con le enormi macchine a spirito, sia per lo sgradevole odore che questo lascia, sia per i pericoli che tali macchine presentano. Alla preghiera del mattino e della sera, si partecipa con la massima serietà; e con serietà non minore si partecipa al rito dell' alzabandiera. È il modo migliore di cominciar la propria giornata questo d'innalzare il pensiero a Dio e alla Patria. E si tenga presente che, presso alcuni popoli - l'americano, per esempio - piú grave castigo che si possa infliggere a un convittore o a uno scolaro è quello di escluderlo dal saluto collettivo alla bandiera! A studio: ci sono, si sa, quelli che studiano di piú e quelli che studiano di meno: quelli che evitano ogni distrazione, e quelli per i quali ogni occasione è buona per distrarsi. I primi hanno diritto a non essere in alcun modo disturbati; mentre il dovere dello studio dovrebbe esser sentito da tutti indistintamente. Studiar poco significa far brutta figura a scuola e in convitto; significa procurar noie - e dolore - alle famiglie, ai superiori e a se stessi; significa, quindi, scarsa sensibilità, scarso amor proprio. E che di buono si può attendere da un giovinetto che non abbia « amor proprio »? I convittori poco diligenti pensano mai alla vergogna, quasi alla tragedia e al lutto, del loro ritorno in famiglia: ritorno che dovrebbe, invece, essere una gioia per tutti? Anche i fratelli, anche le sorelline, che aspettano a braccia aperte chi ritorna vittorioso esprimono, con la loro accoglienza fredda, il proprio risentimento per l'ingratitudine dimostrata verso i genitori, per il dolore loro procurato, per le piccole bugie che si dovran dire, arrossendo, ai parenti e agli amici. E le vacanze? Si aspettano per lunghi dieci mesi; e poi quei giorni che sarebber dovuti essere di spensieratezza e di svago si convertiranno in giorni di preoccupazione, di amarezza, di tormento. C'è, è vero, chi non disturba gli altri durante le ore di studio perché dorme, o legge libri di viaggi e di avventure; ma costoro non sono meno riprovevoli; appunto perché dormono o leggono, invece di studiare; ossia perché non compiono il loro dovere e ingannano i genitori, i superiori e se stessi; se stessi, sopra tutto. Prima, però, di denunziare i disturbatori, è bene avvertirli e riavvertirli amichevolmente. Il posto a studio dev'esser lasciato in ordine, come quello del dormitorio, come la cameretta: al suo posto, e sempre al medesimo posto, ogni libro, ogni quaderno, ogni oggetto da scrittoio. È il solo modo di non perder tempo per cercar questo e per cercar quell'altro, e di ubbidire prontamente ai segnali. Al refettorio: che si vada a tavola con eccellente appetito è, senza dubbio, ottima cosa; ma cosa non altrettanto ottima è lanciarsi come lupi sulla preda, dimenticando ogni regola fondamentale di buona educazione. È, anche qui, mancanza di amor proprio costringere il superiore presente a ricordare le norme del ben stare a tavola. A chi può far piacere questo? Perciò, è indispensabile tener presenti le norme indicate, e attenervisi scrupolosamente. C'e anche da fare qualche raccomandazione in piú: siccome le tavole sono lunghe, e, spesso, accostate alle pareti, non precipitarsi al proprio posto, ma attendere che sieno prima entrati coloro che stanno dalla parte opposta a quella d'onde si entra. Se si legge qualche cosa, non disturbare; evitando sopra tutto, e in ogni, caso, di produrre, con i piatti o con la posata, quel frastuono che è caratteristico delle osterie d'infimo ordine. Poiché i commensali sono numerosi e gli ambienti non sempre vasti, è assolutamente necessario parlare sottovoce e non produrre rumore con le sedie, sia nel sedere a tavola, sia nell'alzarsi. Se si va a tavola con la tenuta di parata, e la minestra è brodosa, è lecito - ma soltanto eccezionalmente e ai piú piccini - di fermare il tovagliolo al colletto o fra i bottoni della giubba. Per qualsiasi reclamo non brontolare contro i servitori, né richiamare l'attenzione dei compagni, o fare con loro sfavorevoli apprezzamenti, ma - a tempo e luogo opportuni - esporre le proprie ragioni ai superiori. A ricreazione: il moto, la gioia piacciono a tutti; per la gioventú, sono l'espressione della vita: chi, in questa bella e cara età, non « esplodesse » dimostrerebbe di essere ammalato nell'organismo e nell'anima. Ma, per carità, che non si somigli a tanti veltri che escan di catena! Est modus in rebus: ci vuole una misura in tutto; anche nel passare dalla noia e dalla fatica dello studio, al sollievo e al giubilo della ricreazione. Se qualcuno vuol continuare a studiare non deve essere molestato o deriso dagli altri. Come egli non può pretendere che si parli sottovoce o che non si suoni il grammofono, cosí gli altri debbono rispettare il suo desiderio. Quante volte si suol ripetere, con tono canzonatorio, la parola sgobbone! Si è illogici e crudeli senza, forse, saperlo; perché, per lo piú, si dà quell'epiteto a compagni di volontà tenace che intendono di riuscire ad ogni costo, o a compagni che non hanno da spendere per « sussidiari » o per ripetizioni. Nei giochi, il convittore deve dimostrarsi di modi particolarmente signorili, evitando ogni atto di volgarità, di violenza, di frode, di sopraffazione: non deve deridere i compagni che hanno perduto; e, se gli si fa qualche scherzo, bisogna che ci sappia stare, che non si dimostri permaloso, quando, beninteso, lo scherzo sia sobrio e non offensivo; quando, in altri termini, sia contenuto entro certi limiti. Chi non desidera che si scherzi con lui non deve scherzare con gli altri. Arrangiarsi: è una brutta parola, venutaci dal francese, e che sa di caserma. Nei convitti, la si ripete piuttosto spesso e, purtroppo, la si pratica anche. Essa vuol dire « provvedere nel modo piú spiccio e piú comodo ai propri casi ». E scomparso un libro dallo scaffalino? Si provvede subito, prendendo lo stesso libro a un altro: si è improvvisamente spezzata una stringa? La si sostituisce con una portata via a un compagno. Per l'alta considerazione in cui ho i convitti, mi limito ad accennare al libro e alla stringsa; ma, talora, l'arrangiarsi va al di là delle piccole cose. Or mi domando come si faccia a non capire che, se l'arrangiarsi è uno scherzo, uno scherzo di pessimo genere, assolutamente da evitarsi; e, se non è uno scherzo, è qualcosa che si avvicina di molto al furto. Francamente, il convittore bene educato non si arrangia; e se si accorge che altri lo fanno sistematicamente a suo danno, deve denunziare il fatto ai superiori. Per i lestofanti ci son altri convitti! E, sia detto una volta per sempre, in questo caso, come in altri di qualche gravità, non si tratta di « far la spia », ma di salvare le proprie cose dll'istinto razziatore di altri; si tratta di salvare il buon nome del convitto: non farlo significherebbe complicità. Al piú al piú, per eccesso di generosità, si può denunziare il fatto, tacendo il nome degli arrangiatori sistematici, lasciando ai superiori la cura di identificarli. A ripetizione: questo delle cosí dette ripetizioni è divenuto, un bisogno quasi generale. E non se ne capisce la ragione; perché, fino a qualche decennio addietro - e quando i programmi erano piú vasti e piú complessi - la scuola bastava a tutti, e si ricorreva alle lezioni private soltanto nel caso di scarsa intelligenza o quando si voleva guadagnare qualche anno. Ci pensino, dunque, i convittori, e facciano del loro meglio per risparmiare questa spesa alle famiglie. A ogni modo, se lo credono necessario o opportuno, prendano pure lezioni; però tengano presente che esse debbono servire a colmare eventuali lacune, a completare il lavoro scolastico; in nessun caso, si deve ricorrere all'insegnante privato per farsi preparare da lui i cómpiti di scuola. Se cosí si facesse, il maggior lavoro e la maggiore spesa, invece di giovare, si convertirebbe in danno, perché si eviterebbe lo sforzo, che è il piú sicuro e piú efficace maestro dell'apprendimento. E si tenga altresí presente che l'insegnante privato è un insegnante come tutti gli altri, a cui si deve il massimo rispetto, e che non si può far venire o non venire secondo che piaccia o non piaccia, secondo che se n'abbia o non se n'abbia bisogno. La corrispondenza: è bene sia ridotta al minimo indispensabile. È doveroso scrivere almeno una volta per settimana alla famiglia. Si dice sempre la verità; si conferma che si sta di buon animo in convitto o, per lo meno, che ci si sta non troppo malvolentieri; non si fanno apprezzamenti poco benevoli sul trattamento o sui superiori, dando, come si suol dire, corpo alle ombre, ossia presentando come andamento generale quel che può essere stato uno sporadico e trascurabile caso particolare; si comunicano le piccole soddisfazioni ed anche le piccole sconfitte; si fa cenno dei timori, delle speranze e, sopra tutto, dei buoni propositi. Le lettere si fanno partire nei modi prescritti: se si ricorre ad altri mezzi, vuol dire che si ha qualcosa da nascondere; qualcosa, cioè, che non risponde a verità o che non è consentita dalle norme disciplinari. La vita esterna. Mi par quasi superfluo ripetere che, quando si è fuori, non si è il signorino Tizio o il signorino Caio, ma si è « un convittore», « uno di questo o quel convitto », per cui, qualsiasi cosa si faccia, di bene o di male, non ridonda tanto a merito o demerito della persona, quanto a merito o demerito della qualità specifica che si riveste, della istituzione di cui si fa parte. A scuola: il convittore dev'esser modello di diligenza, di contegno, di ordine. Se, per nessun alunno, è scusabile che gli manchi un libro, un quaderno, un foglio, la penna, lo è ancor meno per il convittore ; perché il convittore, anche in questo, si deve sorvegliare ed esaminare scrupolosamente prima di avviarsi a scuola. E sono riprovevolissimi quei convittori che « si rifanno » nella scuola del silenzio e della disciplina dovuti mantenere in convitto; com'è colpa gravissima obbligare un insegnante o un Preside a lamentarsi col Rettore della negligenza, del contegno poco corretto, del disordine dei dipendenti. Con i compagni esterni, i rapporti di buon cameratismo, e non oltre: se la classe è mista, uno squisito tratto cavalleresco con l'elemento femminile, ma nessuna smanceria o cascamortaggine. E, quando le lezioni sono finite, poiché l'istitutore è già lí ad attendere, allontanarsi sollecitamente e ordinatamente con lui, senza indugiarsi, con futili pretesti, per i corridoi, e magari a bocca aperta, per veder passare « le ragazze ». È bene non dimenticar mai che altro è « affermare - ed orgogliosamente anche! - di appartenere a un convitto » ed altro è « far la figura del collegiale ». A passeggio. Mai si è cosí sotto gli sguardi di tutti come quando si è a passeggio. Fa piacere all'occhio e allo spirito vedere dei giovinetti eleganti, che incedano marzialmente, composti e disciplinati, senza la piú piccola sguaiataggine nella voce, nel riso, nel gesto; senza dar noia ai passanti; senza volger il capo in giro, come un arcolaio, quasi alla ricerca ansiosa di una persona che interessi. Specialmente per le vie della città, né pur ci dovrebbe essere bisogno della vigilanza dell'istitutore, poiché ogni convittore dovrebbe esser animato da tale un senso di responsabilità da non permettersi cosa alcuna che possa, in qualsiasi modo, compromettere la reputazione dell'Istituto. Al teatro, al cinema, ai trattenimenti pubblici: la solita raccomandazione: presentarsi irreprensibilmente; e sempre tenere un contegno irreprensibile; come se esclusivamente dal contegno proprio dipendessero il buon nome e il prestigio del convitto. Da osservare in piú che, ai convittori in tenuta di parata e « in corpo », non sono consentite alcune piccole libertà permesse ai singoli: come lo scegliersi o il cambiar posto; il portare o il cavarsi i guanti, ecc.: per questo, attenersi scrupolosamente agli ordini ricevuti; anche per risparmiare al superiore presente il poco gradito compito di dover fare dei richiami in pubblico. Alle gare: signorilità nei modi, lealtà nello spirito; e impegnarsi a fondo perché trionfi il gruppo al quale si appartiene. Qui, come altrove, ora come sempre, esser animato da quello che, in gergo militare, si chiama « spirito di corpo ». I superiori: sono quelli che, implicitamente, hanno ricevuto dalle famiglie il delicato incarico di sostituirle nella educazione dei figlioli. Quando s'è detto questo, s'è detto tutto; e il convittore che questo comprende - e sente- sa anche quale debba costantemente essere il suo contegno verso di loro. Tale contegno si compendia in poche parole: rispetto assoluto ; ubbidienza incondizionata ; fiducia illimitata! Il buon convittore dimostra il suo rispetto per i superiori non in presenza loro e nelle forme soltanto. Parla con loro modestamente, stando composto, senza arroganza o presunzione; s'interessa vivamente a ciò che essi dicono o raccomandano; non risponde alzando le spalle ; non ne sparla, né si associa a chi ne sparla; se si vede trattato da loro con familiarità, non ne abusa; ubbidisce ed eseguisce anche quando par errato o eccessivo ciò che gli si chiede; subisce rimproveri e punizioni, anche se sembrano ingiusti; farà valer dopo le sue ragioni, se ne ha. In una parola, s'adopera piú e meglio che può per guadagnarsi la loro stima e la loro benevolenza. Il Rettore: è il Capo del convitto; colui che provvede e sovraintende a tutto ; colui che risponde di tutto, e su cui, di conseguenza, gravano tutte le responsabilità. Egli vuol bene ai convittori come a figlioli proprii, s'interessa piú che può alla loro salute, e meglio che può ai loro studi, alla loro formazione, a gettar le basi del loro avvenire. Comprende i disagi e i piccoli sacrifizi di ciascuno e ricorre a ogni mezzo e a ogni modo per attenuarli, per tener su lo spirito, per incoraggiare. E se, talora, par ch'egli prenda cura di alcuni piú che di altri, ciò dipende dal fatto che quelli hanno saputo, come poc'anzi ho detto, guadagnarsi piú degli altri la sua stima e la sua benevolenza, o perché dimostrano di aver maggior bisogno di sprone e di aiuto. Il che accade dovunque: ed è spiegabilissimo; ed è giusto - e doveroso - che, da un superiore, non si trattino alla stessa maniera quelli che fanno bene e quelli che fanno male. Invece, dunque, di mormorare, come spesso accade, meglio è mettersi in condizioni di farsi apprezzare e benvolere. Qualche volta - per fortuna, raramente! - il Rettore è costretto a mostrarsi un po' « duro ». È costretto, dico; perché ha anche lui una norma a cui sottostare, e piú rigorosa di quelle dei convittori; perché la vita e la dignità dell'istituto sono al di sopra del piccolo e povero interesse individuale e privato. Se nota, per es., una... pecora zoppa, egli, in quanto uomo, può anche compatirla; ma, come capo di un Istituto di educazione, deve energicamente cercar di guarirla ; e se nota un ramo insensibile e morto, deve inesorabilmente tagliarlo. Ciò può anche dispiacergli; anzi, si può esser sicuri che gli dispiace senz'altro; però, ripeto, nell'interesse della collettività, è suo stretto dovere farlo. Il Rettore, dunque, vive della vita di tutti, e singoli, i convittori - è quella la sua famiglia: - egli è accanto a loro, in mezzo a loro, anche quando ne è lontano; il suo spirito, vigilante e paterno, si sente da per tutto, a tutte le ore. Dato ciò, come non aver fiducia in lui, non rispettarlo, non volergli bene? Un convittore mi confessava candidamente d'aver conosciuto parecchi Rettori, ma nessuno piú severo del babbo. Il Vice-Rettore. Poiché il Rettore deve attendere a tutte le esigenze della vita del convitto, è giusto che, in qualcuna di esse, sia sostituito da un Vice-Rettore, il quale cura, specialmente, l'andamento disciplinare. E siccome c'è, anche nei convitti, una via gerarchica, il Vice-Rettore rappresenta, per cosí dire, l'ultimo gradino per il quale si accede al Rettore. È logico che questi sia informato di tutto; ma non sarebbe altrettanto logico che i convittori si presentassero a lui direttamente, facendogli affluire tutte quelle minuscole beghe che, nella vita collegiale, non mancano mai. Il Vice-Rettore esamina e vaglia e, quando lo creda opportuno, mette i subordinati a contatto diretto col suo superiore. Di modo che, dal momento che egli sovraintende immediatamente all'andamento disciplinare, e dal momento che questo è l'aspetto piú importante della vita collegiale, ognun vede quanto sieno laboriosi, ardui e delicati il suo compito e il suo ufficio. E chiunque tenti, in qualsiasi maniera, di sottrarsi alla disciplina tenga presente che gli procura un grande dispiacere, obbligandolo a ricorrere a sanzioni disciplinari. Gl'Istitutori: sono i piú vicini ai convittori: coloro che, per primi e meglio, ne conoscono i desideri, i bisogni, le ansie; coloro a cui piú spesso si ricorre, per chiarimenti ed aiuti; coloro che ne condividono la vita di tutte le ore. Le relazioni fra convittori ed Istitutori dovrebbero esser quali tra fratelli minori e maggiori; senza eccessive pretese o sciocche albagie da una parte; senza « arie », o colpevoli condiscendenze, dall'altra. Gli uni e gli altri dovrebbero essere legati da un sentimento di mutua benevola comprensione, basata sulla stima e sulla cortesia reciproca. Se non deve trascendere l'Istitutore, ancor meno deve trascendere il convittore. E non sono nel giusto quei convittori che giudicano buoni gl'istitutori solamente se e quando si rendono quasi complici delle loro eventuali marachelle, e permettono eccessiva intimità e libertà: familiarità, sí; ma, ripeto, non troppa, per non esser costretti, da un momento all'altro, a tirarsi indietro e far dare un giudizio poco lusinghiero sul modo di assolvere il proprio compito. I compagni. I compagni di convitto si ricordano per tutta la vita. Quando questa ci avrà avvolti nelle sue spire, ogni tanto, nelle piccole soste della varia attività quotidiana, affiora dal cumulo delle memorie qualche figura che visse con noi negli anni piú belli della prima giovinezza. E a chi non piacerebbe di esser ricordato dai compagni avvolto in una luce di cortesia, di amicizia, di fratellanza? Scaturisce da questa considerazione il modo di comportarsi del convittore con i compagni. Essere animato verso tutti da un sincero spirito di solidarietà e di cameratismo, che escluda ogni invidia e ogni gelosia: familiarità con pochissimi. Dimostrare della gratitudine per chi gli usi cortesia o, nel suo interesse, lo abbia trattenuto da qualche passo sbagliato, o lo consigli intorno a suoi eventuali difetti. Non essere avaro nel far piccoli favori, specialmente in cose che riguardano la scuola. Passar sopra a delle piccole offese, ed evitare ogni astio o desiderio di vendetta. Non millantare ricchezze, nobiltà, o altro, sopra tutto con chi non si trovi nelle medesime condizioni. Evitare lo stupido vezzo dei soprannomi. Non rivolgere mai la parola a chicchessia in dialetto, sforzandosi piú ch'è possibile di parlare l'italiano correttamente e con accento puro, specialmente quando questa è una delle ragioni principali per cui è stato messo in convitto. Non fare discorsi volgari, né dello spirito a spese di chicchessia. Non burlare i compagni per il paese d'onde provengono; per eventuali irregolarità nella loro famiglia; per la loro religione; per il loro modo di parlare; per qualche loro difetto fisico; per i natali poco nobili; per la poca intelligenza. In una parola, trattare tutti come si vorrebbe esser trattati da loro. È prudente, in fine, non invitare i compagni a casa propria per le vacanze, senza il permesso dei genitori; e non accettare con facilità e leggerezza inviti del genere. Gl' inferiori. Il convittore bene educato non tratta dall'alto al basso il personale di servizio, né usa con essa modi arroganti o poco cortesi. La cortesia autentica non si smentisce mai; anzi, s'afferma e spicca di piú specialmente nelle relazioni con gl'inferiori; perché, dopo tutto, non c'è merito ad esser cortesi con i superiori, e né pur con gli uguali, che, provocati, ci potrebbero energicamente rintuzzare. Qui, oltre alle raccomandazioni già fatte, mi sembra opportune ricordare al convittore ch'egli si deve guardare dall'indurre i servitori a trasgredire i loro doveri, scendendo con loro a pettegolezzi, o incaricandoli di commissioni che si vogliono sottrarre al controllo. Deve guardarsene, anche perché il servitore compiacente potrebbe esser sorpreso e vedersi applicare quelle multe, o addirittura potrebb'esser licenziato, con non grande soddisfazione di chi ne sarebbe stata la causa. CONCHIUDENDO: Se i giovinetti « sapranno » stare in convitto, ricorderanno sempre con piacere questo periodo della loro vita; e si accorgeranno che, nel convitto appunto, essi ricevettero la buona semente che, fruttificando, avrà fatto di loro degli ottimi cittadini.

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Poche cose su questo argomento che, forse, non è dei noti, pur trovandoci tutti, piú o meno frequentemente, a contatto con membri del clero, e con ecclesiastici in genere; ora specialmente che i parroci hanno, per il matrimonio, le attribuzioni di ufficiali dello Stato Civile, e che la gran maggioranza di convitti privati e di scuole parificate è tenuta da loro. Nessuna leggerezza è consentita nella conversazione con loro; meno che mai il tono ironico o aggressivo nella discussione. Nel fare o nel ricevere visite, una signora deve indossare i suoi vestiti piú... discreti, né deve per prima stendere la mano: può farlo soltanto una persona anziana. In nessun caso una signora stringe la maneoa un vescovo; se egli gliela porge, si china a baciare l'anello. Si fa ogni tanto una brevissima visita al proprio curato; lo si va a ringraziare, se ci ha visitati durante una malattia, o se si è prestato in qualche nostra particolare circostanza. Speciali deferenze nei ricevimenti: si va loro incontro quando entrano; li si accompagna quando escono; si salutano subito dopo la padrona di casa. A un vescovo è riservato il posto d'onore a tavola. La formola La signora è servita vien sostituita dall'altra Sua Eccellenza è servita. Egli entra per primo nella stanza da pranzo a fianco della padrona di casa, ed è servito prima di tutte le signore presenti. Per un membro del clero di grado inferiore, il posto a tavola è quello a destra della padrona di casa; a meno che questa non creda di cedergli il proprio, sedendo lei a destra. È delicato pregare l'ecclesiastico presente di benedire la mensa.

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Alcuni sono timidi per natura, altri per suggestione: comunque, sono moltissimi quelli che si lasciano vincere dalla timidezza e che, per questo appunto, si dimostrano inferiori a se stessi. Quante volte non ci accade di pensare: Avrei dovuto far cosí, non come ho fatto; avrei dovuto parlare in questo modo, non in quello... Colpa della timidezza, per cui perdiamo la padronanza di noi stessi e rinunziamo alla prima dote di chi vive in società: la disinvoltura. Chi è « imbarazzato » lo fa capire e veder súbito: molti, trovandosi di fronte a persone autorevoli o a visi nuovi, hanno la lingua legata, perché non si sentono a loro agio, perché temono di sbagliare. Non c'è di peggio: se si pensa alla timidezza, si sarà timidi; se si teme di sbagliare, si sbaglierà; chi si fa vincere dalla suggestione d'inferiorità, non riuscirà certamente ad imporsi. Talora, ciò dipende da eccessiva sensibilità; e la sensibilità eccessiva è il risultato di un eccessivo ripiegamento su se stessi. Può esser anche un aspetto dell'orgoglio: chi è troppo sensibile «immagina» di essere un centro di osservazione da parte degli altri: « si crede » oggetto di critiche; né può vedere due che parlino fra loro senza « sospettare » che parlino di lui. Bisogna vincere questo stato d'animo... e di nervi: occorre bandire le troppe considerazioni personali, il dubbio di sbagliare, o di non essere a posto, o di non potersi imporre. E, per riuscirvi, si deve sviluppare la fiducia in se stessi; si debbono frequentare gli altri; si deve prender parte alla conversazione senza esitazione, si deve discutere l'opinione altrui, esporre serenamente la propria. Il bimbo ci seduce perché non si preoccupa di quel che dice e di quel che fa; mentre l'artista che non sa dimenticare se stesso sottrae della bellezza alla sua opera. Meno, dunque, si pensa a se stessi, e piú si è disinvolti; piú si esce dai confini ristretti del proprio io, e piú si riesce interessanti.

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Certamente l'avran fatto altri con noi; e questo giovi a far comprendere quale importanza si debba attribuire alla conversazione. Conversando, si tocca ogni sorta d'argomenti, dai morali ai politici, dai religiosi ai mondani. Affrontarli tutti, senza una preliminare, per quanto si voglia modesta, preparazione, è, per lo meno, imprudenza. Né basta la preparazione: è indispensabile esaminar prima se le cose che stiamo per dire, il giudizio che stiamo per pronunziare non offenda qualcuno dei presenti. Non facendolo, si rischia di dover, da un momento all'altro, arrossire e troncare a mezzo un discorso; o, peggio ancora, di doversi vergognare d'averlo fatto. Ci vuol poco a sberleffare una signora anziana che tenti di far scomparire gli anni sotto un cumulo di pomate e belletti e tinture; o a sentenziare che la tale o tal altra malattia è ereditaria; o a dare addosso a un partito politico, a una confessione religiosa; o a deridere una corrente filosofica, letteraria, artistica; o a condannare una classe di commercianti...; siete proprio sicuri che, fra i presenti, non ci sia qualcuno che trovi, nelle vostre parole, un'allusione al caso suo, alle sue condizioni? Sarebbe - lo dice un nostro proverbio popolare - come parlar di corda in casa dell'impiccato! Né si parla di persone assenti per dirne male: o si tace, o se ne dice soltanto quel che si direbbe se esse fossero presenti; evitando cosí la figuraccia o di dover, d'un tratto, interrompere la conversazione o, peggio, di grottescamente convertire... il fiele in miele all'improvviso sopraggiungere della persona di cui si sparlava. Ma allora - si potrebbe osservare - non si deve parlare che della pioggia o del bel tempo, del circo equestre, d'un cane che abbaia di notte, della prossima cometa... Non ho detto questo: ho soltanto raccomandato d'esser sobri, sensati, cauti. - « cauti » sopra tutto!- nel parlare; evitando sia il cicaleccio, sia il mutismo sistematico, giacché anche questo si presterebbe a non lusinghiere interpretazioni; potendo, per esempio, esser creduto un segno d'imbecillità, o di protesta, e, nel miglior dei casi, di noia. Se è un'arte quella del conversare, è un'arte altresí quella dell'ascoltare! Io oserei affermare che saper apprezzare la virtú del silenzio significa avviarsi verso la perfezione. I Greci fecero una divinità del Silenzio; e le donne son troppo intuitive per non comprendere il valore di questa virtú, per non capire quanto ciò che non si dice abbia piú profondità, piú risonanza di quel che non esprimano le parole con i loro contorni limitati e precisi. Quale che sia il nostro sentimento, il silenzio è un gran mezzo di espressione: in ogni caso, è meglio tacere che parlare, come si suol dire, a vanvera. Saper restare muti è anche una delle piú sicure e piú belle prove d'intelligenza. Ma « sapere »; ossia servirsi del silenzio come di una dote superiore: la dote di chi ha ben compreso quanto di vero e quanto di falso, secondo le circostanze, ci sia nei famosi proverbi: Chi tace acconsente - Il silenzio è d'oro. - Un bel tacer non fu mai scritto. - Ex abundantia cordis os loquitur. Purtroppo, se questa virtú fosse apprezzata al suo giusto valore, la maggior parte delle nostre donne - e perché non degli uomini? - se ne starebbero permanentemente in casa, o permanentemente sole! La suddetta raccomandazione fa evitare parecchie altre gravi sconvenienze: 1) Di parlar troppo di sé o delle proprie cose. Vi sono alcuni i quali, nei loro discorsi, fanno affiorare mille volte il pronome di prima persona, e quasi calcandovi su la voce, come se averse la i maiuscola. Ignorano costoro che non c'è di peggio, per riuscire antipatici e insopportabili, che parlar troppo di sé; e che, viceversa, se si vuol riuscire amabili e simpatici, bisogna far di tutto per interessarsi agli altri. Si badi che non dico « fingere », ma « far di tutto » per interessarsi. Parimenti, il nostro prossimo, anche il meno geloso ed invidioso, non sopporta volentieri l'esposizione dei nostri pingui mezzi finanziari, delle cose preziose possedute o or ora acquistate e, in genere, di tutte le nostre « fortune »; tanto piú che, purtroppo, sono ben pochi quelli che potrebbero fare altrettanto. E anche meno è disposto a tollerare l'esposizione delle nostre sventure; essa diffonde nell'aria un senso di tristezza che, per carità e per solidarietà umana, oltre che per dovere, bisogna risparmiare agli altri. Non è certo di buon gusto, e né pur generoso, portarsi dietro, ovunque si vada, il fardello delle proprie disgrazie, preoccupazioni, miserie. È un po' difficile trovare qualcuno che non abbia ansie per la salute, o imbarazzi economici, o altre piccole e grandi pene e miserie personali o di famiglia. Intanto, starebbero freschi i nostri simili se, oltre che per le proprie, dovessero rammaricarsi anche per quelle degli amici e dei conoscenti : allora sí che il mondo sarebbe veramente una valle di lagrime, e dalla vita esulerebbe ogni sorriso! Le prèfiche, dunque, della vita se ne stieno in casa a brontolare, a meditare e piangere sul male dell'esistenza; ad invecchiare e a morire prima del tempo: e vengano a contatto con le altre creature umane soltanto quelle che, con la luce dello sguardo, con la parola calda, col sorriso cordiale, sanno diffondere intorno a loro la fede nella vita, la gioia dell'esistenza. Quindi, parlare per destare invidia, no; meno che mai per suscitare compassione. Le persone che piú volentieri si avvicinano, e con le quali si sta volentieri, sono appunto quelle che non fanno pesare la loro superiorità - in qualsiasi campo e quelle che non tormentano con la enumerazione interminabile di sciagure. Si tenga presente che, a queste ultime, l'esperienza dei secoli attribui il nefasto privilegio di « portar male » e affibbiò l'appellativo di iettatori. 2) Di spettegolare. Le signore specialmente se ne guardino: esse lo fanno spesso e piuttosto volentieri. Tante hanno questo non simpatico difetto; le quali, poi, ignorano che, fra loro medesime, si qualificano per « lingue d'inferno ». Dell'uomo pettegolo è meglio non parlare: lo si è definito, quando si è detto che egli ha rinunziato agli attributi piú nobili e piú fieri del suo sesso: la serietà, la dignità, la virilità. Giacché il pettegolezzo riveste non di rado i caratteri della maldicenza e, talora, della vera e propria calunnia. Si guarisce di questa peste imponendo a se stessi un costante contegno grave e rispettoso nei riguardi degli altri; evitando di « raccogliere le voci che corrono... »; di trasmettere, con piú o meno velata compiacenza, e con maggiore o minore arricchimento di frange, le voci raccolte; di parlare degli altri - specie, ripeto, se assenti - a base di « ma... », di « se... » e di punti sospensivi, pieni di significati misteriosi. La pietà di alcune lingue è peggiore della peggiore maldicenza! In alcuni Paesi d'Europa è stata bandita, contro il pettegolezzo, una vera e propria crociata, con comitati, assemblee, giuramento nelle scuole, circolari. In una di queste, era detto: « Non, si può avere un'idea delle grandi ripercussioni che la nostra iniziativa ha avuto in tutto il Paese. Le migliaia di lettere di plauso e di richiesta di moduli per l'adesione, pervenuteci in questi giorni, stanno a indicare che il pettegolezzo è diventato un vero flagello nazionale. Ed eccellente è stata trovata l'idea di estendere alla scuola la nostra campagna, e spiegare alle nuove generazioni quante tragedie potranno essere evitate se si riuscirà a estirpare la mala pianta! ». Si continuava invocando l'adesione e l'appoggio della stampa; ma, forse, i giornalisti si saranno rifiutati di prestar anche il giuramento... 3) Di far dello spirito non a proposito o di non buona lega. Son convintissimo che uno dei grandi benefizi - e dei meno dispendiosi - che si possano fare al nostro prossimo è quello di strappargli un sorriso o, addirittura, una bella risata: a condizione, beninteso, che quest'ultima non sia sguaiata; cioè, o troppo rumorosa o accompagnata da sussulti del corpo o da dimenamenti sulla sedia. Si dice che il sorriso aggiunge un filo alla trama della vita, e che il riso fa buon sangue: io non concepisco che una umanità sorridente. Ma quanto ci vuole per farla sorridere! Si capisce che qui si parla non del volgare cachinno, ma del sorriso e del riso sano e cordiale, suscitato non da lazzi piú o meno scurrili, né da buffonate e da istrionerie, ma da signorile umorismo. Quanto è difficile questo! Mentre, poi, è facile cadere nel ridicolo; e - si tenga bene in mente! - nulla, nella vita, si deve maggiormente temere del ridicolo. 4) Di fare dei discorsi arrischiati, di usare parole a doppio senso, di strizzare l'occhio... Cose sconvenientissime sempre e dovunque, anche mentre si trinca in una bettola; e da evitarsi in modo assoluto nelle riunioni di gente a modo, specialmente poi in presenza di signore o di ministri del culto. Se qualche imprudente - o maleducato - si arrischiasse a farne, cercare di cambiar discorso; in nessun caso, compiacersene, dimostrando col silenzio e con un atteggiamento anche piú serio del solito la propria riprovazione. 5) Di parlar «troppo» di cose tecniche. Queste non possono interessare tutti i presenti; per lo meno, non possono interessarli a lungo. Né è, certo, segno di generosa comprensione l'insistere presso un tecnico perché si indugi a parlare della sua scienza o industria: comincerebbe con l'essere lusingato; finirebbe col seccarsi. Chi lo crederebbe? ci sono alcuni i quali, prima di recarsi a una riunione, si leggono qualche voce dell'Enciclopedia, e poi girano e rigirano il discorso fino a che non hanno squadernato loro rara - recentissima - dottrina... 6) Di fare il « bene informato». Altra categoria, antipaticissima, questa dei « bene informati ». Gente, per lo piú, che passa da un ritrovo all'altro per raccogliere notizie, modificarle a gusto proprio e rimetterle in circolazione come se circostanze eccezionali le avessero portate a sua conoscenza; o che si vuol dar delle arie, facendo supporre vaste ed alte conoscenze. Malcelata millanteria, stupidità e, nella piú benevola delle ipotesi, mancanza di serietà e di prudenza.

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Se è indispensabile badare a « quel » che si dice, lo è non meno badare al « come » si dice. Debbo confessare che ho incontrato poche persone le quali abbiano dedicato qualche cura all'educazione della voce. Questa, se è preziosa - in ogni senso! - per i cantanti, non è da trascurarsi da tutti gli altri: dalle donne specialmente. Quanti riescono poco simpatici soltanto a sentirli parlare, perché hanno o un tono aspro di voce, o un tono sgradevole, o sempre uguale, senza modulazioni, senza dolcezza. La medesima cosa, detta da uno, ci può far ridere; detta da un altro, ci può commuovere. Né è indice di accortezza trascurare un mezzo cosí cospicuo e cosí efficace, messo dalla natura a disposizione dell'uomo. Ciascuno di noi ha potuto constatare che anche le bestie dànno inflessioni diverse alla loro voce, secondo che carezzino la prole, o abbiano paura, o desiderino qualche cosa, o vogliano atterrire un avversario. Il tono sempre uguale stanca; il tono stridulo o chioccio lacera i timpani e riesce sgradito; come, d'altra parte, riesce stucchevole il tono languido e molle. In una parola, nella voce, si deve sentire, deve vibrare il sentimento che ci anima mentre si parla; sí che essa non si fermi all'orecchio, ma quasi arrivi calda e carezzevole, col sentimento che si vuol esprimere, al cuore di chi ci ascolta. Il tono della voce è il primo segno, e uno dei piú sicuri, di una reale distinzione. E se ci accorgiamo che, in esso, c'è qualcosa di difettoso, bisogna affrettarsi a correggerlo, esercitandosi, osservandosi, ascoltandosi, fino a che non si è raggiunta una perfetta corrispondenza fra i moti interiori e la rappresentazione che di essi facciamo per mezzo della voce. E bisogna anche che il tono di voce sia adattato all'ambiente, alle persone. Non si dice qualche parola, durante uno spettacolo, con lo stesso tono con cui si parla in un salotto; né ci si rivolge a persone anziane - le quali hanno, per lo piú, il timpano un po' calcificato - come a giovani; una signora non parla mai forte. Vi sono, poi, di quelli che sogliono accompagnare, e quasi colorire, ciò che dicono con i gesti: cosa che accade, sopra tutto, nel Meridionale. Non è vietato farlo; ma a condizione che sia fatto con la massima sobrietà: il gesto teatrale, o tribunizio, non è, certo, adatto a una conversazione amichevole. Si deve, invece, evitare di interrompere chi parla, specie se è una signora; di toccare i nostri interlocutori nei momenti di enfasi e quasi perché ci stieno ad ascoltar meglio; di infiorare il nostro discorso di « capisci » e di « capite », come se avessimo di fronte degli idioti; di parlare una lingua che non tutti conoscono, o il dialetto; o anche soltanto di usare parole straniere non necessarie. Meno che mai un uomo si permetterà di invitare in disparte una signora, o di parlarle all'orecchio. Pessima abitudine, non poco diffusa, è quella di avvalorare tutto ciò che si dice - e, spesso, quel che si dice non ha alcun che di straordinario o d'incredibile - con tanto di parola d'onore! o di giuro su questo e su quell'altro: è un darsi da se stessi la patente di bugiardi; perché i bugiardi soltanto, per esser creduti, sentono il bisogno di appellarsi frequentemente all'onore, che è cosa sacra, e al giuramento, che è cosa piú sacra ancora. Infine, conversando, non si deve vagare con lo sguardo di qua e di là quasi sfuggendo quello dell'interlocutore. Se si parla con parecchi, ci si rivolge un po' a tutti, con lo sguardo diritto ; tenendo presente che altro è guardare negli occhi e altro è « fissare insistentemente»; la qual ultima cosa, fra uomo e donna, è in sommo grado sconveniente. Se, dalla conversazione, si passa alla discussione, bisogna evitare il tono vivacemente polemico ; di far dell'ironia a carico dell'avversario o degli argomenti da lui addotti. In casa propria, si interviene a tempo e abilmente perché la discussione non degeneri; se in casa d'altri, guardarsi dal varcare i limiti del rispetto dovuto all'ambiente che ci ospita e alle persone con cui ci troviamo. Se è doverosa la cortesia con l'avversario anche, come si suol dire, sul terreno, deve esser tanto piú doverosa - ed è anche piú facile, mi pare! - in un campo meno pericoloso. Anche le parole possono ferire, come la spada; e, per questo appunto, prima che la foga della discussione ci faccia giungere a riuscire sgarbati, dobbiamo preferire, quando se ne vedano il bisogno o l'opportunità, una dignitosa ritirata. In una parola : Non dire se non ciò che si deve, ecco il tatto ; dirlo come si deve, ecco lo spirito; dirlo quando si deve, ecco il giudizio.

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Qui, a ogni modo, si vuol accennare a quel « ringraziamento tangibile » che si suol dare a chi ci ha reso un servizio. D'altra parte, è giusto che chiunque ha fatto per noi qualche cosa a cui non era tenuto abbia una ricompensa: da chi ci porta un mazzo di fiori a chi ci aiuta a infilare il pastrano; da chi ci serve a tavola, in un ristorante o in una casa d'amici, a chi ci attacca un bottone nell'albergo. Perciò, è tutto detto quando si è raccomandato - a chi può - di non lesinare in fatto di mance; badando solamente che esse non sieno « poco dignitose » per la esiguità o per il modo.

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Ma va, a mano a mano, scomparendo; e senza lasciare rimpianto. Se mai, si pensa con una punta di nostalgia al nostro bel tempo antico, quando mettevamo la letterina augurale, dettataci generalmente dal maestro, sotto il piatto della mamma o del babbo; alla poesiola d'occasione, mandata a memoria, recitata con cugine e cugini, in casa del nonno, che ci ascoltava sorridente e commosso e ci rimunerava con qualche regalino. Ma ora anche i ragazzi pare che abbiano da pensare ad altro! Delle ricorrenze alcune sono di carattere religioso - Natale, Pasqua, onomastico - altre di carattere civile - Capodanno, genetliaco, nozze d'argento e d'oro ; - quindi, si capisce che variano da popolo a popolo, da regione a regione, e quasi da famiglia a famiglia. In realtà, non si comprende perché si debbano far voti di salute, di prosperità, di bene, di gioia, soltanto in alcuni giorni dell'anno. Ma se coloro ai quali li esprimiamo son persone a noi vicine e a cui siamo legati da affetto, espressi o non espressi quei voti, son vivi e fervidi sempre; e lo sanno quelle persone proprio come lo sappiamo noi! Di modo che gli augúri servono, in fondo, a null'altro che a ricordarci a qualcuno, ovvero a far sapere a qualcuno che, in quella speciale circostanza, ci siamo particolarmente ricordati di lui. Perciò, poco male se, avendo tempo e denaro da sprecare, si continua a lanciare augúri in tutte le direzioni. Dal momento che c'è ancora la vana ipocrisia delle visite cosí dette ufficiali, possono benissimo sopravvivere anche gli augúri; tanto piú che, in fondo, essi sono pur sempre « una forza di bene » che si invia. Però, se si è liberi di farli o di non farli, si è in dovere di ringraziare almeno coloro che hanno avuto un pensiero gentile per noi. Può dispensarsene soltanto chi è troppo in alto: e chi, a costo di riuscire scortese, vuole interrompere una tradizione che non gli va a genio. È prudente non fare augúri per il genetliaco a signore e a signorine cui si sa che gli anni cominciano a pesare... Il mezzo piú sbrigativo è, oggi, la cartolina illustrata, ma è un mezzo che suppone familiarità; meglio è adoperare, come ho detto, la carta di visita, con una concisa espressione cordialmente amichevole o devota, secondo la persona cui si scrive e la natura della relazione con lei.

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Alcuni decenni addietro, si fece un simpatico tentativo: quello di usare il voi, invece del lei, rivolgendosi a signore. Il tentativo riuscí e la sostituzione venne di moda. Poi, come tutte le cose di moda, l'uso si venne rarefacendo, fin che fu quasi completamente abbandonato . Qualche anno fa, tutto il campo grammaticale-letterario fu messo a rumore per l'abolizione del lei. - Chi voglia essere informato delle ragioni che militano per l'uso o contro l'uso del tu, del voi e del lei, legga il grazioso dialogo del Baretti fra i tre pronomi personali. Si disse, dunque, che era strano ed illogico rivolgere il discorso a persona presente col pronome di persona assente, oltre che era - l'uso del lei - un inutile esotismo. Ma si contrappose che era un esotismo anche l'uso del voi; ed era altrettanto strano ed illogico rivolgere il discorso a una sola persona col pronome che ne indica di piú. Il tentativo fascista di sostituire il lei col voi ebbe qualche successo nelle relazioni ufficiali, perché ripetutamente e minacciosamente imposto: caduto il fascismo, son tramontate, con tutte le altre, anche le innovazioni nel campo grammaticale. Senza dubbio, molto meglio sarebbe che si adoperasse la sola seconda persona singolare. Forse, da principio, stenterebbe ad assuefarsi l'orecchio - e la lingua - alla grande novità; ma stenterebbe per poco; perché, del resto, siamo già abituati, attraverso i classici, a sentire il « tu » sulle labbra del popolano di Roma, sia ch'egli si rivolgesse all'amico, sia che si rivolgesse a un senatore, a un pontefice o all'imperatore. Nelle relazioni sociali, si può passare dal lei al tu, quando si desidera stabilire rapporti piú cordiali, piú confidenziali e quasi amichevoli: il che è prudente fare soltanto quando la conoscenza è divenuta, direi quasi, piú ampia e piú profonda. E siccome può anche darsi che sia uno solo dei due a voler questo, è bene andar motto cauti; non foss'altro per evitare l'affronto di sentirsi ancora opporre al tu confidenziale il lei, piuttosto compassato e freddo. Non sbaglia chi attende che l'iniziativa sia presa da chi è, o si crede, piú in alto o piú autorevole: per quanto, anche in questo caso, sia meglio che l'inferiore, pur grato del tono confidenziale, continui ad usare il lei. Se una persona con cui si era in rapporti confidenziali sale di qualche gradino e diviene superiore, è opportuno, per quanto sembri strano, passare con lei dalla seconda singolare alla terza: ciò sia come riconoscimento della autorità, sia perché a me pare buona regola di vita non cercar di superare in alcun modo le distanze gerarchiche. Mal fatto sarebbe se una tale iniziativa fosse presa dal superiore; il quale, invece, deve insistere perché continuino le relazioni amichevoli. Mi par qui necessario ricordare ancora l'uso del signore. Non è uno scimmiottare i Francesi metterlo sempre dopo i monosillabi di affermazione e di negazione. Che volete vi dica: quando sento pronunziare un sí o un no secco, provo subito l'impressione di trovarmi di fronte a una persona poco fine: mi par che il sí, signore; sí, signora; sí, signorina conciliino simpatia, e che il no, signore; no, signora; no, signorina, attenuino quel non so che di aspro che quasi sempre contiene la particella negativa.

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Un angolino fra i piú deliziosi della signorile dimora, fornito di tutto il confortevole, caldo di sincera simpatia e di viva cordialità; dove l'ospite si trovava a suo agio, con un dolce riposo per sé, con la convinzione di procurar gioia a chi lo aveva invitato. Poi « le camere degli ospiti » divennero sempre piú rare: l'aumentato costo della vita da una parte; dall'altra, una nervosa intolleranza d'ogni piú piccolo fastidio e una deplorevole ingiustificata diffidenza compendiarono in un motto il pensiero e i propositi delle nuove generazioni al riguardo: « L'ospite è come il pesce: dopo ventiquattr'ore... ». Ma vi son dei Paesi e delle famiglie in cui la gentile e generosa tradizione della ospitalità non è stata intaccata dall'affarismo dei tempi: limitata però per lo piú alla campagna. Il che si spiega: se non vi sono grandi ragioni di sentimento o sociali perché disturbare una famiglia dal momento che si può comodamente trovar posto in un albergo? Giacché l'ospitalità, per quanto cordialmente offerta, rappresenta in ogni caso, un disturbo; e io credo che tutte le signore preferirebbero aver dieci invitati a tavola, piuttosto che uno solo in tutto e per tutto in casa. Perciò, quando ci sia la possibilità di profittare d'un albergo, resistere a ogni sollecitazione, e preferire questo senz'altro alla casa di parenti ed amici. Si sarà già messo abbastanza alla prova il loro sentimento a nostro riguardo, accettando di prendere parte alla vita di famiglia per parecchie ore della giornata. Per chi è ospitato: Accettare soltanto se si è sicurissimi che l'invito è stato fatto con la massima cordialità; non c'è di peggio che accorgersi, anche dal piú lieve indizio, che si è giunti inopportuni, o che si è tollerati. Rifiutare garbatamente se si sa di essere nervosi, se si è malaticci, se si ha bisogno di cure speciali, se si è di gusti difficili. Non condurre seco bimbi o bestie care, salvo che non se ne sia esplicitamente autorizzati, e solo nel caso si sia sicuri che gli uni o le altre non daranno fastidio. Portar seco biancheria sufficiente e della migliore, con qualche vestito elegante per eventuali occasioni. Non dimenticare di mettere nella valigia qualche gradita novità per le persone della famiglia che ci ospita; preferibilmente per la signora e per i bimbi. Preannunziare il giorno dell'arrivo, scegliendo le ore piú comode. Evitare di chieder cose che possano non esserci in casa. Non esser sempre, come si suol dire, tra i piedi, né chiamare continuamente le persone di servizio. Non eccedere nel mangiare e nel bere; né essere avari di ammirazione e di complimenti per ciò che si capisce stare particolarmente a cuore alla famiglia. Lasciar sempre la propria camera quanto piú è possibile in ordine. Non servirsi di tutte le cose nuove messe a disposizione. Avere l'aria soddisfatta e l'umore allegro: sempre pronto a conversare piacevolmente o a tacere; a prender parte ai giochi o a passeggiare o a leggere il giornale all'aria aperta; rifuggendo dai pettegolezzi con altri ospiti, da curiosità e chiacchiere con le persone di servizio ; praticando costantemente le due virtú indispensabili dell'ospite: la condiscendenza e la discrezione. Se « qualcosa » fa comprendere che è tempo di partire, congedarsi abilmente: in ogni caso, un po' prima del termine stabilito. Prima di allontanarsi, non dimenticare le mance: ringraziare con calore della ospitalità; ringraziare ancora per lettera entro otto giorni; e - non subito - ma appena se ne presenterà l'occasione, dimostrare in qualche modo degno la propria gratitudine. Per chi ospita: Invitare soltanto persone sane di corpo e di spirito, giovevoli, la cui compagnia faccia in tutto e per tutto piacere, e le cui condizioni non sieno tali che esse si debbano adattare. Invitare soltanto se si può degnamente ospitare: è mortificante ripetere e sentir ripetere spesso la parola «adattamento ». E opportuno, nell'invito, accennare al periodo: « una settimana », « una diecina di giorni ». Far preparare una delle migliori camere della casa. Andare a ricevere l'ospite alla stazione: soltanto quando non si possa far diversamente, mandare una persona di servizio. Mettere in ordine perfetto la camera; che sia riscaldata, se d'inverno ; che non vi manchi il necessario: asciugamani, sapone, spazzola, spazzolino, candeliere, fiammiferi, bottiglia con acqua e relativo bicchiere, penna e calamaio, carta, qualche cartolina illustrata del posto. Che sieno vuoti e pulitissimi i cassetti dell'armadio: in uno di essi, mettere una camicia per la notte; in un altro, una coperta per il letto. Che vi sieno grucce sufficienti per attaccare i vestiti; e che questi sieno subito fatti stirare, se sono spiegazzati. Mettere a disposizione il bagno, se c'è. Indicare le porte dei singoli ambienti della casa, e gl'interruttori della luce. Prima che l'ospite vada a letto, gli si chiede se desidera che gli sia servita la colazione in camera, e a che ora. Gli si manda l'acqua calda per le pulizie, a meno che, in camera, non ci sia la vaschetta con i rubinetti per l'acqua fredda e calda. Farlo consapevole delle abitudini della casa. Assegnargli il posto d'onore a tavola. Non obbligarlo a mangiare o bere troppo. Lasciargli le ore di libertà. In una parola, disporre ogni cosa in modo che l'ospite capisca che si è pensato a tutto, e che non abbia bisogno di chiedere nulla ; e il trattamento sia tale ch'egli si possa trovare a suo agio, e sia persuaso che la sua presenza non è di fastidio. Lo si accompagna alla stazione, lo si ringrazia della eccellente compagnia fatta, e si esprime l'augurio di poterlo presto rivedere in casa. A queste norme generali vanno aggiunte, tanto per chi è ospitato quanto per chi ospita, quelle particolari di delicatezza, riguardanti i rapporti fra uomini e signore, giovanotti e signorine. In fatto di ospitalità, le leggi e le persone sono sacre: violare comunque le prime, o comunque offendere le altre non è da gentiluomo. E un'ultima raccomandazione va fatta tanto a chi ospita quanto a chi è ospitato: oggi si parla un po' troppo e un po' da tutti - né sempre con competenza e serenità - di politica, di religione, di sociologia, di economia. Ora, questi argomenti vanno toccati con molta discrezione; specialmente se sappiamo o ci accorgiamo che le opinioni non concordano eccessivamente.

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Di modo che, bisogna fare buon viso a cattivo gioco; rinunziare all'audizione, cercando di non far pesare, anzi di non far capire il sacrifizio fatto. Può darsi anche che degli amici vengano da voi proprio per udire la trasmissione di un'opera. Ma voi la conoscete bene, e preferireste udire una conferenza da Roma. Ahimé! dovete rinunziare a soddisfare il vostro desiderio, e « sorbirvi » in silenzio la compagnia degl'indiscreti fino a qualche ora dopo la mezzanotte. E poiché questi inconvenienti si verificano in casa vostra, con vostra non piena soddisfazione, c'è da sperare che non andiate a determinar voi inconvenienti simili in casa d'altri. Se siete invitati, andateci pure; ma già disposti a non esprimere, e tanto meno a far prevalere, i vostri desidèri: disposti, in altri termini, a tacere, a non disturbare, e a far vostri, senza rimpianti, i desidèri della maggioranza o dei padroni di casa. Ricordarsi anche che, ora, dire ai visitatori: «Vogliamo udire qualche cosa alla radio?... » equivale a far comparire improvvisamente un cartello sul muro con la seritta: « Visite brevi ». Altro stretto dovere dei radioamatori è quello di non disturbare la quiete delle famiglie vicine, specialmente in alcune ore del giorno e della notte. Oramai, da per tutto, c'è della gente che lavora, e che ha diritto a un meritato riposo. Il silenzio è indispensabile agli organismi umani non meno degli alimenti! Né ci sono soltanto le leggi civili, ma anche quelle della convenienza, per cui, pur essendo padroni, in casa propria, di fare, come alcuni dicono, il proprio comodo, è segno di gentilezza d'animo tener presente anche il comodo degli altri. Specialmente, poi, se si sa che, nel casamento o nelle abitazioni vicine, c'è un ammalato di nervi, o un ammalato grave, o c'è stato un lutto, ridurre al minimo il volume della voce. Né diversamente dovrebbero regolarsi gli esercizi pubblici, nei quali - specialmente se d'infimo ordine - col pretesto di sollazzare gli avventori, che spesso non esistono, si fa imperterritamente e spietatamente urlare la radio dal mattino a notte inoltrata, con non troppa soddisfazione del vicinato. Sarebbe tempo che leggi severissime venissero a disciplinare l'uso della radio tanto nelle case private quanto nei locali pubblici, perché essa non si trasformi da magnifico mezzo di progresso e di civiltà in feroce strumento di tortura. Buona norma è che nessuno tenga la radio a una tonalità piú alta di quella di una persona che parli. Ottima cosa sarebbe che tutti i Sindaci d'Italia imitassero quello di Napoli, il quale ha emesso un'ordinanza vietando il suono oltre la mezzanotte, e anche di giorno con tonalità alta. Disposizione provvidenziale, specialmente ora che, alla radio, si è aggiunto quello strumento da fiera che si chiama fisarmonica. Del resto, il gravissimo inconveniente potrebbe rientrare fra quelli contemplati dall'art. 659 C. P., che commina l'arresto fino a tre mesi o l'ammenda fino a L. 3000, anche per solo abuso di strumenti sonori: ciò che autorizzerebbe il Magistrato a condannare ogni volta che egli ritenesse sussistere il disturbo della quiete pubblica o privata, come la logica indica nel caso di suono alto o continuo per ore, senza sosta, o fatto nei periodi consuetudinari del sonno notturno o diurno. Nulla concorre tanto a diffondere la stanchezza, la irascibilità, la nevrastenia - come dirò altrove - quanto i rumori: e, purtroppo, popolo italiano è stato definito uno dei piú rumorosi del mondo. Ond'è che questo è uno dei principali aspetti del costume su cui bisogna incidere profondamente!

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Perciò, per quanto sia comodo averla a portata di mano, il suo posto non è nel salotto. Ottima cosa sarebbe che se ne servissero piú spesso coloro che hanno una calligrafia indecifrabile ; però non dimenticando che essa serve, sopra tutto, per cose d'ufficio. La scrittura a macchina è, si capisce, meccanica; quindi, manca di quella nota strettamente personale che ciascuno mette nella propria scrittura. Ecco la ragione per cui chi debba fare un invito, o chieder un favore, o ringraziare, o comunque rivolgersi a signore e a persone di riguardo, non adopera la macchina. E tutti sanno che, anche per gl'inviti numerosi, si preferisce la stampa alla macchina da scrivere.

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Bisogna che cominci dall'evitare ogni piú piccola causa di dissidio: al che gioverebbe una cura a fondo con la famosa acqua miracolosa di S. Vincenzo Ferreri: acqua che si attinge a tutte le fonti e che, tenuta permanentemente in bocca, non consente di rispondere a sproposito e di attaccar brighe per nulla. E che sia sempre gaia: la gaiezza è come una sorella minore della bontà, della tenerezza, dell'amore. Se il marito sta poco in casa, o ci sta malvolentieri, dipende, spesso, dal vedersi sempre davanti un viso accigliato, lugubre, se non addirittura aggressivo; mentre egli, tornando dal lavoro, ha bisogno di dimenticare ogni fastidio, e di essere accolto da un viso sorridente e lieto. E poi, che sia non stupidamente o vilmente remissiva, ma sapientemente condiscendente, dimostrando di capire che la vita di lui ha, per lo piú esigenze diverse dalla vita propria. Ed eviti, pur nelle piú piccole cose, di mentirgli; quando comincia ad essere scossa la fiducia, non si sa mai dove si può andar a finire. E non gli chieda mai l'impossibile, rimproverandogli l'incapacità a soddisfare i suoi desidèri. Sarebbe crudele, oltre che ridicolo, chiedergli, per esempio, una pelliccia di zibellino - che costa almeno un milione di lire - quando egli è appena in grado di fornirgliene una di coniglio. Se mai, per essere piú soddisfatta, parlandone con le amiche, dica che è non di volgare coniglio, ma di lapin... Se il marito è, in qualche cosa, da meno di lei, non profitti di tutte le occasioni per farlo rilevare: sono offese alla dignità maschile che, anche quando si perdonano, non si dimenticano. Né continui, nell' addobbo personale, come quando era signorina: allora, cercava di riuscire interessante un po' a tutti; ma ora non deve interessare che a uno solo, a Lui! Beninteso che non deve esagerare nel senso contrario: nella donna sono apprezzabilissime le doti del risparmio, dell'economia; tanto piú apprezzabili, in quanto, non ostante i tempi piuttosto critici, sembra che di queste virtú si vada perdendo la traccia. Ma l'economia non dev'essere spinta al punto che le signore si credano autorizzate ad usare per casa tutti gli avanzi, tutti gli stracci che non possono piú esser adoperati fuori. Prima di uscire, esse si preparano con cura meticolosa; per casa, basta un cencio pur che sia che le ricopra: in altri termini, si preoccupano di riuscire attraenti e belle per gli estranei, per gl'indifferenti, e non si curano di apparir graziose a colui che ne condivide la vita, che dà loro, per lo piú, i mezzi per acconciarsi, e che è, senza dubbio, sensibile al loro aspetto. Ed esse credono che ciò abbia sempre meno importanza a mano a mano che aumenta il numero degli anni di matrimonio. Errore gravissimo e che ha, spesso, delle conseguenze irreparabili. Proprio a mano a mano che cresce il numero degli anni di matrimonio, cresce l'importanza che la moglie sapiente deve dare alla sua, direi quasi, sana civetteria domestica. E ciò, perché la fiamma dell'amore, per mancanza di alimento, non si riduca a un po' di cenere, talora né pur calda, o non si trasformi addirittura in una prosaica abitudine. E l'alimento è dato precisamente dall'arte della donna di sapersi costantemente rinnovare agli occhi di colui di cui si porta il nome e si condivide la vita: rinnovarsi intellettualmente, senza dubbio; conservare la freschezza dello spirito, lo slancio della giovinezza; ma rinnovarsi altresí in quell'altro campo, certamente piú modesto e meno elevato, ma che ha, esso pure, come ho detto, la sua grande importanza. E i « vestiti smessi »? Darli a tanta povera gente che non sa di che coprirsi; o, se le condizioni economiche non lo permettono, rivenderli; o, meglio ancora, modificarli e adattarli, sí che, inservibili per la vita sociale, abbiano una nota di eleganza per la vita intima della casa. In altre parole, l'eleganza - come la bontà, la gentilezza, la condiscendenza - non deve essere soltanto « merce d'esportazione », ma anche, e specialmente, deve essere una nota di cui si faccia pompa in casa, nella famiglia. Dopo tutto, la « felicità del focolare » è costituita da tante piccole tenui sfumature, e non ne sarebbe certo un valido coefficiente la «sciatteria » di colei che, come ho accennato, non senza ragione, né in un senso soltanto, è detta « la regina della casa ». Una particolare delicatezza deve mettere nelle relazioni con i parenti di lui: la maggior parte delle mogli suole abilmente scasare questi, per sostituirli con i propri. Non è ben fatto; senza dire che ciò suscita malcontento nel marito, pur se, per quieto vivere, celato, e suscita rancori nella parentela. Riguardi particolarissimi per la suocera, per questa povera creatura che, dopo aver custodito gelosamente un figlio, per anni ed anni, come un tesoro prezioso, se lo vede portar via da una che, di fronte al suo geloso cuore materno, è la «prima venuta ». Bisogna comprenderla e compatirla; inducendola, col proprio squisito saper fare, nella convinzione che non soltanto la « sopraggiunta » non ha invaso il posto della madre nel cuore del figlio, ma che la madre, d'ora in poi, invece di un figlio, ne avrà due. E se le tocca vivere con lei, sia remissiva, con un sensino di comprensione e di compatimento per qualche attaccamento a cose e ad usanze oltrepassate: la dolcezza e la tenerezza vinceranno la gelosia materna; e, senza mettere il figlio nella dolorosa alternativa di scegliere fra la madre e la moglie, le faranno ottenere molto piú che l'alterigia e il dispetto. Ma il cómpito nel quale deve far di tutto per non venir meno alle speranze che la famiglia, la patria, la società hanno riposte in lei è l'educazione dei figli. Poiché, in questa, essa, per quanto non sembri, ha una parte prevalente, è necessario si adoperi in ogni modo per evitare falsi indirizzi; perché l'educazione sia completa e sana, guardando al loro avvenire piú che al loro presente; ricordando che, in loro, ogni soddisfazione, ogni vittoria nella vita sarà associata al ricordo della educazione materna. Per questo appunto, non le si raccomanda mai abbastanza di essere, sí, affettuosa, ma di saper anche esser ferma; di non intervenire inopportunamente, ossia, di non render vana la parte severa, e talora inesorabile, che spetta particolarmente all'uomo nella formazione del carattere. Giacché, purtroppo, vi sono delle madri le quali, mentre sono appena condiscendenti col marito, agiscono con i figli come se fossero le loro donne di servizio, facendosi in quattro per risparmiar loro il piú piccolo fastidio. Meno male quando son piccini; ma è grave - e deplorevole - che, anche quando hanno venti anni, vadano a cercar per loro il fazzolettino, e lo sistemino nel taschino della giacca, e mettano i bottoni ai polsini, e facciano il nodo alla cravatta; o, peggio ancora, accomodino la piega di qua, il ricciolino di là, uno spillo a destra, un fiochettino a sinistra..., quando, addirittura, non aiutino a lavarsi collo ed orecchi, a sistemarsi le unghie, a farsi la scriminatura e finanche, a incipriarsi e a truccarsi. Dovrebbero comprendere queste madri che non cosí si formano i figli per la vita, e che, se vogliono risparmiare delusioni ai figli e rimorsi a se stesse, debbono sforzarsi di comprimere ogni eccesso nei loro slanci di tenerezza e di abnegazione. Infine, porti nella vita domestica intelligenza quanto basta: ma molta delicatezza e moltissimo cuore; ricordando che l'esperienza dei secoli ha dimostrato che la sicurezza, la tranquillità, la pace delle famiglie dipendono molto piú dalla moglie che dal marito. Tutto questo costituisce la « signorilità femminile » nella casa: signorilità, aggiungo, che non viene sminuita dal frequentare la cucina - segreto prezioso per le donne!; - e, quando si è signore in casa, lo si è da per tutto!

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Cosima

243741
Grazia Deledda 14 occorrenze
  • 1947
  • Arnoldo Mondadori Editore
  • Milano
  • verismo
  • UNICT
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Ma a consolare l'umiliazione sdegnosa di Cosima arrivarono le prime lettere delle sue ammiratrici, ed anche di qualche giovanissimo ammiratore, cosa che maggiormente la confortò. Uno le mandò, da Roma - da Roma! - una piccola poesia d'amore, musicata, dedicata a lei. Ella aveva già un certo spirito critico per giudicare puerili e sgrammaticati i versi, - non piú dei suoi - ma incoraggiò la propria vanità col credere che la musica fosse migliore; per conto suo non conosceva una nota, e di musica aveva finora sentito quella della chitarra e della fisarmonica e quella dell'organo della cattedrale: ma quello che piú la lusingava e la cullava in una risonanza immaginaria, era il fatto che l'omaggio veniva da un giovane, forse un ragazzo, un ragazzo che se sapeva comporre musica, oltre a poesia, doveva essere di condizione civile, di gente educata; forse era un Antonino ancora

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Non si mise piú alla finestra, per aspettare il passaggio della meteora: non andò piú, con le sorelle, a far visite alle amiche; si chiuse in un cerchio di silenzio, di rassegnazione, di lavoro. E poi la vita quotidiana incalzava, i giorni si facevano scuri e arcigni come per un inverno che doveva durare a lungo. Una notte si sentí, nella casa, uno strano lamento, poi la voce di Andrea che cercava di convincere il fratello Santus a mettersi a letto e calmarsi; ma il disgraziato si dibatteva, gridando che sotto il suo letto c'era un uomo nero che voleva strangolarlo; poi toccava le pareti urlando che erano piene di tarantole e di scolopendre. In un attimo la madre, la serva e le ragazze furono in piedi, circondarono i due fratelli, si avvidero che Santus, pallido, tutto preso da un tremito convulso e con gli occhi grandi, metallici, allucinati, delirava. Ma era un delirio terribile il suo; peggiore del delirio di un moribondo o di un idrofobo: Andrea lo capiva. Un terrore mai prima conosciuto invase Cosima, come se davvero la casa fosse piena di uomini neri e abbominevoli nascosti e pronti ad ogni crudeltà, e le pareti brulicassero di rettili velenosi. La madre credette che Santus fosse invaso dallo spirito maligno, e pensò di mandare a chiamare uno dei preti di casa per esorcizzarlo. Ma Andrea sogghignava; riuscí a far ritornare a letto il fratello, e lo vegliò tutta la notte. Notte di angoscia indimenticabile, durante la quale Cosima conobbe un'altra pagina del libro terribile della vita. Invece del prete venne il dottore, il quale consigliò che Santus e Andrea, il quale si offrí di sorvegliare il fratello, andassero ad abitare in una casupola che la famiglia possedeva in un orto non molto distante dalla casa. Furono riattate e ammobiliate alla meglio, le povere stanzette terrene, che di buono avevano solo alcune finestrine dalle quali si vedevano i monti lontani: e Santus vi si lasciò condurre docilmente: era buono e mite, in fondo, e il primo ad essere mortalmente triste del suo vizio, che il dottore aveva dichiarato essere null'altro che una malattia della quale il paziente non può, anche con tutta la sua volontà, mai guarire, era lui. Un dolore profondo gli si leggeva negli occhi chiari; di tanto in tanto pareva sollevarsi, smetteva, e tentava di lavorare: ma poi ricadeva, come un virgulto stroncato, non ancora morto nelle radici ma irrimediabilmente inutile a se stesso e dannoso agli altri. Nella casa delle fanciulle ci fu una relativa tranquillità: ma l'ombra del dolore la velava; e la madre si fece ancora piú silenziosa, pallida, e qualche volta inquieta, di quell'inquietudine di uno che ha smarrito qualche cosa di prezioso. Cominciò anche a diventare un po' strana: a volte usciva di casa furtiva con qualche oggetto o qualche pacco nascosto sotto lo scialle: andava nella casetta dei figli, a portar loro da mangiare e da vestirsi. Non che ad essi nulla mancasse, anzi, quando l'altro era tranquillo, Andrea tornava a mangiare con la famiglia, ed entrambi frequentavano giornalmente la casa: ma la madre aveva paura che essi mancassero del necessario: pensava a loro come a bambini smarriti nel bosco, e andava a cercarli, e si smarriva anche lei nelle ombre di una selva pericolosa: quella della disperazione. Attiguo alla casetta dei fratelli, c'era, anch'esso di proprietà della famiglia, un frantoio per olive: era un lungo stanzone irregolare, scuro eppure lucido, come scavato in una montagna di schisto: nero, come unto anch'esso, era il forte cavallo paziente che faceva girare la ruota dentro la vasca rotonda dove venivano pestate le olive: la pasta violacea di queste, versata entro sporte rotonde, la spremeva il torchio di ferro; ma il torchio, collocato in una specie di nicchia scavata nella parete, erano gli uomini che lo manovravano, con una stanga: il mugnaio e un suo aiutante. L'olio cadeva nero e grasso entro un grande paiuolo, e le sanse, finita di spremere la pasta, venivano buttate da una larga finestra giú nell'orto, formando un monticello odoroso che a suo tempo veniva acquistato dallo stesso negoziante che in estate comprava le mandorle della famiglia: ed era una discreta rendita, assieme con quella dell'olio, che i proprietari delle olive lasciavano in compenso per la manipolazione. Ma bisognava stare molto attenti, perché il mugnaio, un piccolo uomo religioso con due occhi di vero santo, che serviva da anni e anni la famiglia, e le era sinceramente affezionato, rubava a man salva, tanto ai clienti quanto ai padroni. Il luogo era sempre pieno di gente, anche perché in un angolo, tra la finestra e il torchio, ardeva sempre un grande fuoco con su un paiuolo d'acqua bollente, dove venivano immerse e lavate le sporte: e intorno a questo fuoco si riuniva un gruppo d'individui che, verso sera specialmente, formavano un quadro degno di Rembrandt. Erano tutti disoccupati e poveri, ma di una strana povertà dovuta piú a loro stessi che alla sorte: e venivano lí a riscaldarsi, a confortarsi l'uno col contatto dell'altro. Capo fila era un uomo rossiccio, che era stato ricco e aveva dilapidato la sua sostanza con le donne e il vino: poi un vecchione con la barba di patriarca, anche lui decaduto, che faceva il giardiniere a tempo perso e viveva con la caccia dei gatti, dei quali si nutriva; e altri reietti, che non sdegnavano di unirsi con i bravi contadini e i piccoli proprietari che portavano a macinare le loro olive, e lo stesso padrone del frantoio, Andrea, che capitava ogni tanto per sorvegliare il mugnaio. Santus, poi, non mancava mai, e quando appariva lui tutti si scostavano per fargli posto; camminava anche lui nella fatale scia dei miserabili compagnoni raccolti intorno al fuoco, ma tutti ancora lo rispettavano, perché ancora la sua famiglia lo sostentava ed egli aveva un rifugio e la protezione del fratello; anzi, sapendolo generoso, cercavano la sua amicizia per potergli spillare un po' di quattrini; ma egli, nonostante la torbida incoscienza in cui spesso affondava, capiva il suo stato, conosceva il cuore del prossimo, e amava solo la compagnia dei rinnegati del frantoio perché appunto si sentiva già loro compagno di fatalità. Non si creda che queste riunioni fossero melanconiche. Tutt'altro. Quando il fuoco aveva seccato addosso i poveri vestiti, spesso bagnati dalla pioggia, di questa specie di vagabondi, e, per benignità della

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Bisogna dire due parole di questa serva, che, a ricordarla sembra anch'essa una invenzione fuori della realtà. Si chiamava Nanna; e adesso siede certamente alla destra di Dio, fedele ancora ai suoi padroni, nella schiera dei Patriarchi. Da venti anni era al servizio della casa, e altri venti ne doveva trascorrere. Aveva allora trent'anni; era venuta bambina, da un tugurio di santi poveri, per badare al primo bambino dei padroni, che era morto dopo pochi mesi dalla nascita, ma lasciando il posto nella culla ad un altro. Primitiva era anche questa culla, come scavata nel tronco d'un noce, senza veli né ornamenti, e non rimaneva mai vuota. Nanna era ancora una bella donna, con gli occhi castani di cane buono, un mazzetto di peli all'angolo destro della bocca, i seni lunghi e bassi delle razze schiave. Schiava non era certo, in quella casa, e tutto le veniva affidato, compresi i bambini, che dormivano con lei, e che lei si trascinava appresso quando andava per le commissioni. Se lavorava giorno e notte lo faceva volontariamente: andava a prendere l'acqua alla fontana, a lavare i panni lontano, dove si trovasse qualche rigagnolo, puliva la farina e faceva, con la padrona, il pane di frumento e quello di orzo: andava a battere gli olivi nel podere, a cogliere ghiande per il maiale, nel bosco della montagna; spaccava la legna, dava da mangiare al cavallo; le toccava anche di spazzare il tratto di strada davanti alla casa, poiché il Comune non se ne incaricava; e al tempo della vendemmia pigiava l'uva coi suoi forti piedi nudi rivestiti d'una pelle che sembrava conciata. E lo stipendio glielo serbava il padrone, che lo metteva a frutto: quando ella aveva avuto venti anni ed era bella e quasi bionda, i maligni dicevano che il padrone aveva un debole per lei; ma erano chiacchiere; e il tempo le dissipò. Ecco adesso ella cuoce attenta il latte sul fornello sopra il forno grande: per l'occasione del parto della padrona si è messa le scarpe, senza calze s'intende, pronta a tutti gli ordini: una ruga le solca la fronte e le sue orecchie sono tese come quelle delle lepri. La responsabilità della casa è adesso tutta sua, ed ella profitta della sua padronanza solo per sorbirsi qualche tazzina di caffè in piú, sola sua passione. I ragazzi vengono uno ad uno a prendere il caffè e latte, che ella versa nelle rotonde tazze di creta gialla e rossa: anche i piú grandi, che sono maschi e frequentano già il ginnasio della piccola città. Il maggiore, Santus, è un bel ragazzo col profilo fine e gli occhi grandi, d'un grigio celeste, dalla sclerotica azzurra: ha un'aria pensosa e leale, veste già con qualche ricercatezza, e mentre beve il suo caffè e latte finisce di ripassare la lezione di latino. L'avvenimento della casa non lo sorprende né lo turba: ne conosce il mistero e lo accetta come una cosa naturale. I suoi sensi sono calmi, quasi freddi: la fantasia misurata. Non ama le donne, non pensa che a studiare, approfondire le cose della vita, ma attraverso i libri. No, non ha fantasia, ma forse anche lui è un po' visionario, come la sorella piccola, e viene da un mondo lontano dalla cruda realtà. Ha fretta di andare a scuola, coi libri ben legati con una cinghia, e non si preoccupa se l'altro fratello invece ritarda e forse dorme ancora nella loro camera all'ultimo piano che ha due finestre, una sulla facciata, l'altra sui tetti sottostanti della dispensa e della rimessa e di altri ripostigli. E infatti prima di lui scendono le due sorelle maggiori, Enza e Giovanna, che vanno anch'esse a scuola, piccole di statura, quasi eguali come due gemelle, con gli occhi celesti e i capelli neri stretti stretti

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I loro vestiti sono davvero buffi, con la sottana larga e lunga allacciata alla vita intorno alla camicetta a sprone con le maniche abbondanti: il tutto di un tessuto a striscie colorate: della stessa stoffa è la borsa per i libri: hanno anch'esse le calze bianche e gli scarponcini coi chiodi; e in testa fazzoletti di seta che già però esse annodano con civetteria sulla guancia sinistra, lasciando scoperti i capelli fino a metà testa. La piccola, Cosima, che ancora non ha l'età di andare a scuola, le guarda con ammirazione e invidia, ma anche con un certo timore, poiché esse, specialmente Enza, non solo non giocano volentieri con lei, ma le prodigano pugni, spintoni e bòtte e parolacce: tutta roba imparata dalle compagne di scuola. Piú buono, con lei, è il fratello Andrea. Ecco che, quando le due sorelle sono già anch'esse avviate a scuola, il ragazzo scende, ma disdegna di prendere il caffè e latte; roba di donnicciuole, dice. Lui mangerebbe già una fetta di carne rossa mezzo cruda, e non essendoci questa si contenta di tirar giú il canestro dei servi e rosicchia coi suoi forti denti il pane duro e una crosta di formaggio. Nanna gli va appresso supplichevole, con la tazza colma in mano: poiché questo Andrea è il suo idolo maggiore, il suo affanno e la sua sola preoccupazione. «Mi sembri un pastore» dice, mettendogli davanti la tazza. «Prendi questo; prendi, agnello; il maestro ti sentirà l'odore del formaggio.» «E lui, chi è? Io sono un pastore ricco, ma lui è un povero accattone, un ubriacone pidocchioso.» Cosí parla Andrea del suo professore di latino; e lo dice con convinzione poiché tutta la gente che vive di lavoro intellettuale è per lui piú povera dei mandriani e dei manovali. La sua mentalità è davvero da ricco pastore, che fa una vita rude ma ha bestiame, terre e denaro; e sopra tutto libertà di azione, tanto per il bene come per il male. Anche la sua persona è tozza, squadrata, le vesti trasandate; ma la testa è caratteristica, possente, tutta capelli nerissimi; il profilo è camuso, con le labbra sensuali; gli occhi d'un grigio dorato, corruscanti come quelli del falco. Non ama lo studio, ed è felice solo quando può scappare di casa, a cavallo, come un centauro adolescente. Nessuno gli ha insegnato a cavalcare: eppure egli monta anche senza sella sui puledri indomiti, e i suoi urli per aizzarli gareggiano coi loro nitriti. Nell'accorgersi di Cosima, che se ne stava quieta seduta su una seggiolina bassa, con la scodella in grembo, le sorrise e prima di uscire le si avvicinò dicendole sottovoce, con un accento sommesso di complicità: «Domenica ti porterò, a cavallo, al Monte: ma zitta, eh!» I grandi occhi di lei si aprirono, lucenti di gioia e di speranza: e questa promessa del fratello, piena di lusinghe e di visioni straordinarie, si mischiò alle sue fantasticherie, intorno al mistero della creatura nata quella notte in casa, venuta non si sa di dove, come, né perché.

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Proto, il servo di cui si parla a pag. 35, è Proto Manedda di Fonni. Antonino, a pag. 50, è Antonino Pau. Gioanmario, a pag. 64, è Giovanni Maria Mesina, sposo di Vincenza, sorella di Cosima, morta a ventun anno. Zia Paolina e zia Tonia, pag. 29, son le sorelle del padre della scrittrice, Giovanni Antonio Deledda, detto «Totoni». Cosí i fratelli di Grazia Santus, pag. 16, detto «Santeddu», e Andrea, pag. 17, e, delle sorelle, la già nominata Vincenza (Enza) e Giovanna, pag. 16 (quest'ultima morta di angina in piccola età), e Beppa, pag. 19, e Nicolina (Coletta, pag. 76). La nonna materna, pag. 19, si chiamava Nicolosa Parededdu, andata sposa ad Andrea Cambosu, pag. 42. La nuova sorellina alla quale la piccola fantastica Cosima ha affibbiato il nome di Sebastianino, per omaggio puerile allo zio canonico don Sebastiano Cambosu, pagina 31, fratello della mamma Chischedda (Francesca) Cambosu, si chiamerà appunto, dal nome della nonna materna, Nicolina. Il canonico della casa di faccia, a pag. 13, è il rev. Maccioni con la nipote Giuseppina che a 85 anni si ricorda ancora l'uscita della piccola Cosima: «Abbiamo un bambino nuovo, un Sebastianino». Cambiato è il nome di Fortunio, pag. 106, il figlio del cancelliere, finito poi anche lui cancelliere come il padre: e come il nome è cambiata la natura dell'imperfezione che lo affliggeva: non era zoppo, ma guercio. Le due vecchie implacabili zitelle, pag. 85, rispondevano al nome di zia Tatana e zia Paschedda M., governanti del canonico S. La Continentale, pag. 45, era certa maestra Branca. Pag. 21. La casa paterna della scrittrice, coi grappoli d'uva appesi al soffitto, e la vista dei monti dalle finestre alte, è stata descritta a piú riprese nei libri della D. con gli adattamenti dei singoli casi. Vedi le prime pagine di Il paese del vento, di Sino al confine; sul giardino vedi il racconto intitolato Casa paterna in Nell'azzurro, nel quale racconto trovansi anche notizie sui primi studii di Grazia Cosima. Sulla casa paterna della D. vedi Pietro Pancrazi, La casa di Grazia, in Donne e buoi, pag. 219. Ed. Vallecchi, Firenze, 1934, e llarukichi Shimoi in «Unione Sarda», Cagliari, I° febbraio 1931. Pag. 33. «... un inverno lungo e crudelissimo...» A ricordo dei vecchi, veramente eccezionale. Vedi Comincia a nevicare... in Il dono di Natale (1930) pp. 17-20. Fu l'inverno del 1880. Pag. 42. Sul carattere della madre, vera «mater doloris», sopra le fatiche da lei sostenute nella direzione della casa vedi Pane casalingo in «Corriere della Sera» del 19 gennaio 1936. Aiutar la mamma a fare il pane era, per le ragazze, una insigne fatica. Pag. 46. L'ispettore: «un uomo tarchiato, con una testa di leone nero; tragico e colto come un gesuita. Ne abbiamo incontrati, di personaggi importanti, nella vita; nessuno che facesse tremare le vene come l'ispettore delle nostre scuole d'allora». Dal volume II primo passo: confessioni di scrittori contemporanei, raccolte da L. M. Personé, ed. Nemi, Firenze 1930: pagg. 113-120. Pag. 50. Gabriele d'Annunzio, accompagnato da Cesare Pascarella e da Edoardo Scarfoglio, giunse a Nuoro il 28 maggio 1882. «A Nuoro» scrive Scarfoglio (Libro di Don Chisciotte) «ci giunsero le prime copie del Canto nuovo» [finito di stampare in Roma il 5 dello stesso mese]. Un ricordo del viaggio in Sardegna D'Annunzio rievocherà nel 1909 nella Prefazione alla traduzione italiana di Osteria di Hans Barth, e farà un cenno, oltre che del « nepente d'Oliena», delle Case delle Fate rievocate in Cosima a pagina 20 e delle Tombe dei Giganti, a pagina 94. Pag. 51. Il pallone volante che si incendia ritornerà in Il paese del vento, pag. 37. Pag. 53. Quarto rondò dell'«Intermezzo melico» di Isaotta Guttadauro di G. d'Annunzio: primamente apparso coi tipi della «Tribuna», Roma, Natale 1886. Su D'A. citato con onore dalla D. vedi Tipi e paesaggi sardi, nella «Nuova Antologia» del 16 dicembre 1901. Nel romanzo Colombi e sparvieri (1912) il protagonista adolescente parla, cap. VII, delle sue letture dannunziane: «I romanzi e le novelle di G. d'A. ci rivelavano un mondo incantato e malefico, una plaga dolce e ardente piena di fiori velenosi e di frutti proibiti... In quel tempo rileggevo Terra vergine e sognavo grandi fiumi luminosi, tutto un paesaggio caldo e fantastico, con isole coperte di canne e di giuncheti ombreggiate da boschi di salici e di pioppi, velato di vapori rosei e popolati di donne belle e voluttuose: e queste donne le vedevo coperte anch'esse di veli fluttuanti, coi capelli sciolti e gli occhi in color di viola come il cielo del crepuscolo. Il mondo reale intorno a me era invece nitido e duro; un mondo fatto di rocce e di macchie dai rami contorti... e le donne erano vestite di nero e di giallo, di panno ruvido...». La D. nutri sempre una viva ammirazione per il grande scrittore abruzzese. Da ragazzetta era innamorata del De Amicis. Avrebbe voluto avere (Frammenti di memorie infantili, nel volume Nell'azzurro, raccolto nel 1890) «la penna d'uno dei nostri piú grandi scrittori - del De Amicis, per esempio - per scrivere le memorie della mia infanzia». Ma poco piú tardi, in Fior di Sardegna (pag. 218), con maggiori ambizioni, «oh la penna, la penna di Victor Hugo per un'ora sola, per descrivere queste lotte interne, queste tempeste in un cranio...». Sulle prime simpatie letterarie della giovinetta Grazia vedi Stella d'Oriente in «Avvenire di Sardegna», Cagliari 1889: vi si fanno i nomi di Moore, Byron, Hugo, Dumas, Sue (« gran romanziere glorioso o infame secondo i gusti, ma certo molto atto a commuovere l'anima poetica di un'ardente fanciulla»), Cavallotti. Piú tardi lesse Balzac, Amiel, Scott, Manzoni, Grossi, Guerrazzi, Pellico, Metastasio, Goldoni; poi s'accostò ai contemporanei: Fogazzaro, Verga, Stecchetti, D'Annunzio, Ada Negri, Aurelio Costanzo, poi ad altri stranieri: Carmen Sylva, Elena Vacarescu, Turgheniev, Gogol, Tolstoi, Gorki. Piú tardi ancora si appassionò di Dostoievschi. Pag. 55. Lo stesso stornello (mutos) cantano, sulla fine della prima parte di Cenere (1903), la prostituta cagliaritana Marta Rosa, e la giovine Gavina di Sino al confine (1909), «col solo motivo malinconico e primitivo ch'ella sapesse ripetere». In ques'ultimo romanzo il lettore troverà frequentemente personaggi, ambienti e situazioni simili a quelli di Cosima: il canonico Sulis, il padre, la cameretta di Gavina, e il fratello Luca, manesco come Andrea in Cosima a pag. 115. Pag. 68. Lettera a Epaminonda Provaglio direttore di «Ultima Moda», stampata in Roma dall'editore Edoardo Perino. «Quadrivio», Roma, 23 agosto 1936). «Mio padre è vecchio: colto da paralisi parla a stento e rimane silenzioso e cammina solo aiutato. Mia madre, tutta casa e famiglia, vestita in costume, non esce mai. Dei fratelli, uno studia a Cagliari, l'altro, ormai capo-famiglia, passa i suoi giorni tra gli affari, sempre a cavallo attraverso le nostre grandi tenute, pei monti e per le valli: mia sorella maggiore è fidanzata con un giovine avvocato e se ne andrà fra poco con lui; altre due sorelle, che completano la famiglia, sono piccole, quindici, tredici anni, e si divertono per conto loro senza pensare a me...» (marzo 1892). (Allo stesso) «Oh se tu sapessi come amo il mio babbo, e come egli era buono! Tutti, tutti gli vogliono bene. È vissuto beneficando, lasciando benedizioni dietro di sé, e non a Nuoro soltanto, ma in tutto il circondario. Vi furono anni di carestia, mi ricordo, in cui egli sostentò del suo intere famiglie, e una volta fece venire dal continente un bastimento di polenta per un miserabile villaggio, perduto nei monti piú desolati, che moriva di fame, senza aiuto, negli orrori dell'inverno...), (luglio 1892). (Allo stesso) «Avrai ricevuto il doloroso annunzio della morte del babbo mio... Benché preveduta, e da tanto tempo, questa disgrazia ha scosso profondamente le basi della felicità mia e di tutti i miei. Io ho sofferto tanto, tanto, che mi pare non si possa soffrire di piú. Ma ora sono calma e ritorno, a poco a poco, alle mie antiche abitudini ed ai miei antichi pensieri. Nella tristezza del lutto mi pare che il mio babbo amato mi sia sempre vicino, più di prima, e che il suo spirito aleggi sempre intorno a me, preservandomi da ogni sventura, e guidandomi nella buona via... Come vedi, però, le mie novelle sono molto tristi, e la mia esistenza è più che mai oscura e monotona. Tu non puoi immaginarti, con che rigidezza qui si osservi il lutto. Le nostre finestre son chiuse ed io non mi posso neppure avvicinare ai vetri. Per due o tre mesi noi donne dobbiamo stare ermeticamente chiuse in casa e poi ci sarà concesso di uscire sí, ma per ricambiare solo le visite o per andare in chiesa. Niente passeggio, a meno che non sia in campagna, nessuno svago, e un contegno sempre rigorosamente triste... E cosí per tre o quattro o magari cinque anni. Per buona fortuna io sono quasi avvezza a questa tetra esistenza, e spero di cambiarla fra due anni al piú tardi; altrimenti questo lutto artificiale unito al lutto intimo, mi ucciderebbe...» (novembre 1892). A Onorato Roux: lettera del marzo 1907, pubblicata in Infanzia e giovinezza di illustri italiani contemporanei, Ed. Bemporad Firenze, 1908, vol. I, parte 2ª. «Mio padre era un uomo intelligentissimo: poeta estemporaneo, dialettale. Di una bontà incredibile, egli conservava, forse, la sua natura di poeta anche nel trattare gli affari, perché aveva fiducia di tutti, aveva pietà di tutti, si lasciava raggirare da tutti. La nostra casa era come una specie di piccolo albergo gratuito. Da venti paesi del circondario di Nuoro venivano ospiti che se ne stavano due, tre e persino otto giorni in casa nostra: Erano tipi caratteristici: popolani, borghesi, preti, nobili, servi, dei quali io conservo vivissimo il ricordo...». Pag. 83. «Roma era la sua mèta...» Quante volte, nei romanzi anche dopo che la D. si fu incontinentata, ritorna come motivo di racconto questo fascino di,Roma: Cenere, Nostalgie ecc. Scriveva a Epaminonda Provaglio nel febbraio 1895: «Il mio più bel sogno è sempre di poter venire a Roma per conoscere un po' di questo mondo che tutti vogliono farmi credere brutto, mentre a me invece pare bellissimo. Ma chi sa quando ciò sarà, chi sa quando? Non ho nessuno che possa accompagnarmi; e poi c'è un'altra cosa: io vorrei viaggiare con lusso e fare un po' di figura...». Pag. 100. Rosa di macchia: in realtà, Fior di Sardegna. (La prefazione, dell'A. al Fiore, comincia con queste parole: «Fermarsi in un sito sconosciuto e montuoso dell'isola di Sardegna, cogliere fra i lentischi e le rocce una timida rosa montana nata all'ombra degli elci e fra i profumi delle folte borraccine - esaminarla foglia per foglia... ecco lo scopo del presente racconto». Il, romanzo, ed. da Perino nel 1891, è dedicato «Alla contessa Elda di Montedoro i in segno d'affettuosa gratitudine». Tale era lo pseudonimo di Epaminonda Provaglio, direttore - come s'è detto - di «Ultima Moda», col quale la giovine scrittrice ebbe dall'isola frequente carteggio ignorando per un po' di tempo sesso e carattere del suo corrispondente. «Hai ragione su quanto mi scrivi circa il mio modesto romanzo», scriveva la D. alla immaginaria Elda; «mi correggerò sempre piú sui difetti che ti son gratissima di avermi indicato, ma permettimi che io non accetti l'inverosimilità dei capitoli in cui Lara e Massimo si trovano insieme per quasi una notte intera senza che per ciò accadesse qualche guaio... È vero: la virtù di Lara è un po' troppo invulnerabile, un po' troppo fenomenale [a pag. 103 di Cosima, conviene sul carattere libresco di quegli amori e immaginario di quei convegni notturni], ma dimmi, se Lara non fosse stata cosí si sarebbe poi meritata il nome di Fiore che ho messo per titolo alla sua storia? E che mi dirai se ti assicuro che la tela di quel convegno io la ho rubata dalla lettera di un giovine scritta ad una fanciulla pallida e triste come Lara, il giorno dopo una notte passata insieme, cosí in un angolo di cortile, sotto un mantello, e senza alcun danno?... Oh, Elda, Elda! Tu l'hai detto: io conosco profondamente il cuore umano e, benché sia molto giovine, forse non ho piú nulla a imparare su ciò: i personaggi del mio racconto non sono esistiti, ma le passioni che ho descritto sono quasi generali in tutti, ed io non ho dovuto che semplicemente studiare intorno a me, dentro di me, nel libro della vita...». Lettera del 16 gennaio 1892 pubbl. in «Quadrivio», 23 agosto 1936. La Deledda rifiutò sempre di ristampare quel suo romanzo giovanile e s'imbronciava a sentirselo ricordare. Fu spesso ristam- pato alla macchia. Pag. 102. «Anche a costo di strapparle un po' dell'ideale che si sarà formato di me, immaginandomi forse bella e ardente, come la maggior parte delle fanciulle sarde, l'avverto che sono un tantino brutta e niente affatto interessante: e che di grazia, ahimé!, per una strana ironia, non posseggo che il nome. Per fortuna non mi affliggo tanto di queste mie disgrazie e mi conforto ricordandomi di aver letto che tutte le grandi scrittrici, dalla sua prediletta Sand alla mia favorita Miss Muloch, furono brutte». Lett. a Stanis Manca, 28 luglio 1891. «Le farò la mia silhouette in due o tre righe. Ho vent'anni e sono bruna e un tantino anche... brutta, non tanto però come sembro nell'orribile ritratto posto in prima pagina di Fior di Sardegna... Sono una modestissima signorina di provincia, che ha molta volontà e coraggio in arte, ma che nella sua vita intima, solitaria e silenziosa, è la piú timida e mite ragazza del mondo». Lett. a E. Provaglio, 15 maggio 1892 («Quadrivio», num. cit). Molte volte, col favore della terza persona romanzata, la D. tornerà a delineare il proprio ritratto fisico e morale intorno a quel tempo giovanile. Tra i piú riusciti quello del primo capitolo de Il paese del vento: «Piccola, scura, diffidente e sognante come una beduina [Io son di saracino sangue ardente..., cominciava una poesia intitolata Noi pubblicata in «Sardegna artistica» nel febbraio del 1893] che pur dal limite della sua tenda intravvede ai confini del deserto, i miraggi d'oro di un mondo fantastico, raccoglievo negli occhi il riflesso della vastità ardente...». Ivi a pag. 12, ritroveremo nel cortile un mufloncino che ci riconduce a quello dello straordinario racconto di Proto, pag. 35 di Cosima. Altra bella storia di muflone malinconico e fedele nella prima parte del romanzo Il vecchio e i fanciulli (1928). Nel racconto intitolato Il mio padrino in Il dono di Natale la D. ricorda il dono che il padrino per appunto le fece di un piccolo muflone. A proposito del racconto di Proto in Cosima, vedi l'interessante articolo Il lupo mannaro come motivo letterario di P. E. Pavolini in «Lares», Roma, marzo 1937. Pag. 103. Sullo scandalo che fecero a Nuoro i primi scritti stampati della D. vedi la cit. Casa Paterna in Nell'azzurro e Primi passi in «Corriere della Sera» del 21 giugno 193o; articolo, quest'ultimo, che si legge ristampato nel citato vol. di L. M. Personé, Il primo passo. Pag. 110. Sulla lettera-stroncatura vedi il cit. L. M. Personé. La lettera fu scritta alla D. da uno studioso e poeta solitario, Giovanni Antonio Murru; il quale piú tardi senti il bisogno di indirizzarle invece un sonetto di elogio che comincia: «Tu, de l'ingegno figlia benedetta - Non sogni lo svanir de le vïole, - Ma forte e ardente come la vendetta - Hai l'impeto de l'odio e le parole...». Pag. 119. Il frantoio delle olive e la pittoresca adunata di gente del popolo riapparirà in Cenere, Cap. III. Le osservazioni fatte sul linguaggio e le superstizioni di cui piú avanti, a pag. 123, la D. raccolse in un articolo apparso in « Rivista delle tradizioni italiane » diretta da Angelo De Gubernatis, intitolato Tradizioni popolari nuoresi. Pag. 123. Rami caduti: in realtà Anime oneste (1896) con prefazione di Ruggero Bonghi, datata da Torre del Greco il 28 agosto 1895. La Deledda fu incoraggiata a scrivere questo romanzo dalla direttrice della casa editrice milanese L. F. Cogliati («La Casa Cogliati vuole che io scriva un romanzo all'inglese, un romanzo famigliare d'anime buone e gentili »; e romanzo famigliare è specificato nel sottotitolo del libro. In un primo tempo il titolo doveva essere Gli onesti. Lettera a Epaminonda Provaglio del novembre 1894). La prefazione fu sollecitata dalla stessa editrice che era in grande amicizia col Bonghi e gli passò le bozze del romanzo. Ma il vero «lancio» della romanziera nel mondo letterario fu fatto circa un anno dopo, da una recensione di Luigi Capuana sopra l'opera successiva: La via del male. Al quale Capuana la D. scriverà da Nuoro, in data 30 marzo 1897: «Spero che l'opera mia, giacché non conto di fermarmi, debba sempre piú riuscirle gradita. Sono ancora molto giovane, molto piú giovane di quanto molti, giudicandone dalla mia produzione, mi credano: ebbi solamente il torto di cominciar troppo presto a pubblicare. Ma ero sola, come ancora lo sono, e non avevo maestri né guide. Se un vigile consiglio mi avesse guidata quel Fior di Sardegna, da Lei ricordato, e tanti e tant'altri lavori miei non avrebbero veduto la luce. Ma sento, ora che sono pienamente consapevole, che molto tempo ancora mi resta per compiere l'opera cominciata con La via del male. La guida che nei primi passi mi è mancata ora la sento in me stessa, ed è una intima voce che mi addita qualche cosa di alto e di puro e di fortemente luminoso ». La recensione del Capuana si legge raccolta ne Gli «ismi» contemporanei (Verismo, Simbolismo, Idealismo, Cosmopolitismo), Ed. Giannotta, Catania 1898, pagine 153-161. Il Capuana vi dava lode alla D. di non essersi lasciata traviare dagli «ismi» che stavano allora corrompendo gl'ingegni più virili. «La signorina Deledda fa benissimo di non uscire dalla sua Sardegna e di continuare a lavorare in questa preziosa miniera, dove ha già trovato un forte elemento di originalità». Nella riedizione di La via del male, del 1906, la D. fece tesoro delle critiche del Capuana, rinnovando alcune situazioni che questi aveva trovate troppo artificiali, certe risoluzioni da lui giudicate troppo melodrammatiche, precisando certi press'a poco di scrittura che il critico siciliano le aveva addebitato. Pag. 125. «...un alto, grasso, biondo giornalista...» È Stanis Manca, cronista e critico della «Tribuna». Egli fu dei primi a scrivere nei giornali sulla giovine scrittrice corregionale e si recò a Nuoro per conoscerla di persona nelle vacanze del 1891. La D. mantenne col Manca un'attiva corrispondenza, tra le piú preziose per una miglior conoscenza del suo animo, della sua formazione letteraria, dell'ambiente paesano e delle ragioni personali che indussero la D., per un certo tempo, a tralasciar di trattare argomenti sardi. Tali lettere, in possesso di Antonio Manca, fratello di Stanis, vedranno un giorno certamente la luce. Da una lettera dell'8 giugno 1891 stralciamo: «Ho letto attentamente il suo articolo sulla Vita Sarda e l'ho intensamente compresa ed ho provato qualcosa come il rimorso. Infatti dacché scrivo ho lasciato in coda e sempre la Sardegna coi suoi costumi, le sue passioni e i suoi paesaggi che nessuno studia e ammira piú di me. Però io lo feci appositamente... I primi bozzetti che scrissi erano sardi, puramente sardi i personaggi, i caratteri ritratti dal vivo, come piú e meglio potei nella mia debole fantasia di sedici anni. Credevo di far onore e piacere ai miei compatrioti e mi aspettavo da loro chissà che; si figuri dunque il mio dolore - il primo dolore - che provai allorché, comparsi alla luce quei racconti, per poco non venni lapidata dai miei conterranei. Si pretese di conoscere i tipi e si volle che i miei personaggi fossero vivi, benché taluni morti decisamente nei bozzetti; e questi eroi offesi, esasperati, non potendo sfidarmi a duello mi coprivano di maldicenza, di ingiurie, di ridicolo, arrivando persino a dire che altri scriveva nell'ombra ed io non facevo che firmare, tanto che il mio povero io, piccola e fragile creatura che non aveva mai fatto male ad alcuno, provò tale dispiacere, tale disillusione, da caderne quasi ammalata. Diventai pallida, febbricitante; e mentre i miei occhi pareva s'ingrandissero (è un fenomeno reale, riflettendo l'ombra dei miei sogni spezzati) la mia anima di bambina si faceva grande anch'essa, grande di sdegno e di dispiacere. Un'altra al mio posto avrebbe spezzato la penna maledicendola; avrebbe, a furia di calzette e di ricami, obliato il suo ideale di ragazza fantastica e annoiata; io invece temperai la mia penna... ma giurai di non tradurre piú sulla carta i fatti che potevano accadere d'intorno, non solo, ma nulla che potesse riferirsi a persone e avventure sarde. Mantenni la parola sino a questi ultimi tempi: i miei romanzi, le mie novelle piú notate accadono tutte fuori di Sardegna, con personaggi tutt'altro che sardi; e se, spinta dall'irresistibile amore del patrio loco, mi decisi qualche volta a mettere su la Sardegna, lo feci in modo che i paesaggi riuscissero veri, ma gli eroi tali da non destare la suscettibilità di nessuno... Il suo articolo, la sua graziosissima lettera e i suoi consigli han finito per convincermi; anzi mi hanno recato un po' di rimorso, perché prima d'ora avrei dovuto obliare il mio rancore e narrare la storia degli ermi casolari, le leggende dei nostri boschi e delle nostre vallate, descrivere i monti che vedo dalla mia finestra [altre volte ritorna, nella confidenziale corrispondenza con Stanis Manca, l'accenno a questa finestra della sua camera, avanti alla quale la giovinetta Grazia passava a tavolino le sue ore sognanti. Vedi anche a pag. 83, l'accenno al «paesaggio sonnolento dei monti alla finestra». Sulla «vista» da quella finestra vedi i versi della D.: All'Orthobene in Paesaggi sardi: «Tu sei la visïone - Consueta dei giorni solitari - Dolcissima muraglia - Che i sogni miei rattieni e li respingi - Col vento della notte»] e dove passai tanti giorni e tante notti sí azzurre e care alla mia memoria, invece di scorrazzare nel continente e magari in Russia o Scozia, attraverso palazzi e persone che non conosco e che purtroppo temo di non dover mai conoscere... [Chi avesse allora vaticinato alla D. le accoglienze trionfali di Stoccolma!]. Conchiuderò dicendole che oramai ho deciso di lasciare il di là per dedicarmi tutta al di qui, secondo le mie povere forze me lo permetteranno e se il buon Dio dell'arte proseguirà a darmi vita e speranza». E il 2 novembre 1893, allo stesso Manca confermava: « Ho bisogno di essere forte e calma per compiere il dovere che mi sono prefissa: quello, non vano, di fare del bene alla Sardegna, alla mia, alla nostra diletta Sardegna». Pag. 130. «Spesso vado in una campagna suggestiva: una pianura melanconica, deserta, senza alberi. La nostra vigna è l'ultima; due pini alti fremono continuamente sotto il cielo d'un azzurro triste di viola mammola; al di là cominciano le tancas melanconiche, animate solo da qualche greggia, e sembrano sconfinate. Da sotto il pino ove è inciso il nome di Sebastiano Satta che deve aver sentito la triste poesia di questo luogo, io guardo la vastità desolata e desidero andare, andare attraverso questa infinita eppur dolce tristezza della natura sarda. Chissà? se diventerò ricca, mi farò una casa qui sotto l'incessante murmure dei pini...». Lettera a Luigi Falchi, ottobre 1890: riprodotta in Confidenze dello stesso, Sassari, 1925. Ai tempi del soggiorno in quella vigna deve risalire la ispirazione e composizione del nuovo romanzo La via del male, uno dei maggiori successi, anche di traduzione in lingue straniere, della D.; il quale comincia per appunto con un idillio al tempo della vendemmia. In un primo tempo detto romanzo doveva intitolarsi L'indomabile (titolo che aveva il colore del tempo: ricorda L'invincibile di Gabriele d'Annunzio, che fu la prima redazione - dal cap. I al XVI - del Trionfo della morte apparsa nella «Tribuna illustrata» del 1890; al quale tenne dietro L'Inarrivabile di Diego Angeli, Ed. Bontempelli, Roma, 1893). Nel' frattempo uscí un romanzo con quel titolo, di una scrittrice veneta in corrispondenza con la D., Umbertina di Chamery. La D. se ne crucciò; ma a torto, ché il nuovo titolo era assai piú significativo e calzante. Uscí alla fine del 1896 a Torino, coi tipi dello Speirani, con una dedica ad Alfredo Niceforo e a Paolo Orano. Pag. 130. «Un colono del Continente...» Un antico ex-coatto rimasto volontariamente nel suo luogo di esilio. Un personaggio con funzione quasi di protagonista, che molto gli somiglia, sarà Efix (Elisio) il servo tutto devoto alle figlie del padrone da lui ucciso in Canne al vento. Il vero nome era Arcangelo e proveniva dalla Calabria. Pag. 165. La prima persona che vide. «Viso fresco, capelli castani ondulati, occhi pieni di gioia furbesca ma schietta.» Vedi tale incontro voltato in romanzesco in Il paese del vento. Nella realtà, Palmiro Madesani, «continentale» in età allora di 35 anni. Le sarà presentato qualche giorno dopo l'arrivo a Cagliari, alla fine d'ottobre del 1899, in teatro, dal prof. Luigi Falchi. Si fidanzarono ai primi del novembre successivo e sposarono ai primi di gennaio del 1900. Fidanzamento e matrimonio sono narrati in modo assai vicino al vero in Il paese del vento. Si stabilirono a Roma nel marzo dello stesso anno. Di quel tempo è un breve «poema» in otto componimenti in versi dei quali fu pubblicato solo il penultimo nella «Piccola rivista», Cagliari, 12 marzo 1900, col titolo A Palmiro (dalla Luna di miele di prossima pubblicazione). [Comprende: I fidanzati e La partenza dopo le nozze; L'aurora; Le ricordanze; Ancora le ricordanze; Il presente; La pineta e Verso l'ignoto, sciolti]. Sul fidanzamento vedi anche la lettera-prefazione alla traduzione tedesca di Tentazioni di E. Muller Roder, Ed. Bibliot. Univ. Lipsia, 1903. Sui versi, in genere, della D. vedi Stanis Ruinas in «Giornale di Genova» del 20 febbraio 1925 e in Scrittori di Sardegna, Ed. Campitelli 1928, e Adolfo Faggi in Il paesaggio in Sardegna in «Marzocco» del 22 gennaio 1928; e particolarmente la recente pubblicazione di Antonio Scano: G. D., la piccola poetessa: estratto dalla «Cultura moderna», N. I del 1937, Vallardi, Milano. Ma delle sue poesie d'amore la D. non voleva sentirne parlare. Pag. 166. Donna Maria Manca, direttrice di «Donna sarda», rivista cagliaritana della quale la D. era collaboratrice, con versi e prose, da parecchi anni. L'ospitale grazioso palazzo sorge tuttora in via S. Lucifero. Pag. 167. Lettera alla scrittrice Bisi Albini. «Lettura», agosto 1911. «Sofia, sono stata quaranta giorni a Cagliari, la luminosa nostra capitale, una graziosa città moresca il cui mare ardente, dai tramonti meravigliosi, fa sentire la vicina Africa. Mi hanno fatto festose accoglienze e mi sono riposata e divertita assai...» (dicembre 1899).

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Adesso il signor Antonio è nella stanza al pianterreno, seduto allo scrittoio, e sbriga la sua corrispondenza, adoperando certi grandi fogli a quadretti che, scritta con la sua nitida e sobria calligrafia la lettera, egli piega in modo da formare una busta e questa ferma e sigilla con certe piccole ostie colorate che sono una delle altre attrazioni di Cosima. La corrispondenza riguarda quasi tutti affari abbastanza ingenti; una delle lettere è indirizzata a uno spedizioniere della costa, che si occupa di caricare su un battello mercantile partite di carbone vegetale e di cenere spedite dal signor Antonio; un'altra è per la Casa di Livorno che compra la merce; un'altra per un proprietario che vuol vendere un bosco, appunto per il taglio da ridurre a carbone e cenere; un'altra ad un capomacchia dell'Appennino pistoiese, che deve arrivare con un nucleo di operai sul posto, specializzati per la lavorazione delle carbonaie. Ma c'è anche una lettera di amicizia, per il signor Francesco, possidente, di un paese distante cinque ore di viaggio a cavallo dalla piccola città. Da tanti anni il signor Antonio e il signor Francesco sono amici, anzi compari, poiché il secondo ha tenuto a battesimo la piccola Cosima; adesso l'amico gli scrive per annunziargli la nascita dell'ultima bambina, e lo invita per la nuova festa battesimale. Poi cominciarono ad arrivare le visite. Dapprima fu don Sebastiano, il fratello della puerpera. In quel tempo i preti sceglievano la loro carriera per non saper che altro fare; ma lo zio Sebastiano, sebbene di famiglia povera, aveva scelta la sua per vocazione sincera. Era un uomo intelligente e anche colto, che sapeva di lettere e di latino, tanto che una volta, essendo stato a Roma, con un sacerdote polacco che non conosceva l'italiano si erano perfettamente intesi nella lingua di Cicerone. Al contrario dell'altro prete di famiglia, don Ignazio, fratello del signor Antonio, egli amava la povertà, era di umore allegro, e l'unica sua debolezza era di mandar giú, fin dalla mattina, bicchierini di acquavite e di vino buono. Fu Cosima a riceverlo, poiché il padre finiva le sue lettere: egli sedette a gambe aperte, nella stanza da pranzo, tirando su la sottana sui pantaloni neri sui quali pendevano due larghe tasche colme di carte, di libri e di altre cose; mise il cappello sulla sedia accanto e il suo viso roseo e sodo, col caso corto, s'illuminò di gioia quando la serva gli portò un calice di vino bianco. Anche la bambina piccola gli si era avvicinata con confidenza, e tirava una di quelle tasche misteriose che attiravano a lui i fanciulli come comandava Gesú: anzi, la manina di lei s'introdusse nella spaccatura di quella specie di bisaccia, e ne trasse un piccolo dolce schiacciato nel suo involucro di carta velina. Cosima volle sgridarla; le diede un colpettino sulla mano, ma avrebbe voluto frugare anche lei, e piú a fondo, nelle tasche dello zio. Egli lasciava fare, ridendo; poi prese entrambe le bambine fra le sue gambe e le strinse piuttosto forte, mentre traeva dolci, frutta secche e giuggiole dalla profondità delle saccocce. Ne trasse anche due numeri della Unità cattolica, il giornale listato a nero per il lutto del perduto potere temporale del pontefice, e li porse al signor Antonio, entrato in quel momento. Era il solo giornale che essi leggevano, passandoselo uno con l'altro; e anche quella mattina discussero l'articolo di fondo di don Margotti, e poi la critica acerba che si faceva alla moglie di un ministro del Governo usurpatore; poiché la signora era intervenuta ad una festa da ballo con un vestito che si diceva costasse la favolosa somma di venti mila lire. Poi andarono tutti, comprese le bambine che si attaccavano alla sottana dello zio come a quella di una donna, a vedere la puerpera.

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Intorno a quel tempo morì la nonnina.

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Aveva studiato a Cagliari, quando ancora si viaggiava da una città all'altra a cavallo, e aveva portato i suoi libri e le sue provviste entro le bisacce come un pastore o un contadino che va a seminare il grano in luoghi lontani. Aveva studiato ciò che in quel tempo si chiamava Rettorica, e preso il diploma di procuratore. A dire il vero non esercitava questa nobile professione, ma molti ricorrevano a lui per consigli e consultazioni legali, profondamente persuasi della sua saggezza e sopra tutto della sua rettitudine. Il commercio lo aveva quasi arricchito. Ma, come un umanista primitivo, egli coltivava anche gli studi poetici: le sue poesie erano dialettali, tuttavia in una forma che si avvicinava alla lingua italiana. Bravo anche come poeta estemporaneo, raccoglieva a volte intorno a. sé altri campioni famosi in quelle gare, e competeva coi piú bravi e inspirati. E aveva iniziative geniali, anche come proprietario e come agricoltore. Tentò piantagioni di agrumi, di sommaco, di barbabietole: l'aridità della terra rocciosa, bruciata da lunghe siccità, frustrò i suoi tentativi. Impiantò anche una piccola tipografia e stampò a sue spese un giornaletto, e le poesie sue e dei suoi amici: fallimento completo anche questo. Nelle ore di riposo, alla bella stagione, sedeva all'ombra della casa, davanti alla porta, leggendo i giornali. Tutti quelli che passavano lo salutavano o si fermavano addirittura a conversare con lui. E se passava una donna bisognosa, egli traeva in silenzio dal taschino una moneta e gliela porgeva accennandolo, col dito sulla bocca, di non fiatare. Cosí, tutti si allontanavano consolati.

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Ma anche lui apparteneva ad una famiglia mista, che non era borghese ma neppure esclusivamente paesana, che anzi vantava essere di pura e antica razza locale: abitavano in una casa buia, in fondo a un cortile chiuso, quasi murato come una prigione; e tutti della famiglia, il padre alto e già quasi vecchio, i fratelli, le sorelle, delle quali una bellissima e con rari occhi celesti, erano di una rigidità quasi tragica. Scarso il patrimonio, tanto che quando si trattò di mandare il ragazzo a studiare a Cagliari, si dovette fare sacrifici. Ma Gioanmario, lo studente, dava buone promesse. Durante quelle ultime vacanze, mentre si preparava a partire, le sue visite diventarono piú frequenti. Tutte le sere cercava di Andrea, pur sapendo che l'amico non era in casa, e coglieva tutte le scuse per attardarsi con le ragazze. I suoi discorsi le interessavano: per lo piú egli riportava le notizie

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Durante l'infanzia aveva avuto le malattie comuni a tutti i bambini, ma adesso era, sebbene gracile e magra, sana e relativamente agile e forte. Piccola di statura, con la testa piuttosto grossa, mani e piedi minuscoli, con tutte le caratteristiche fisiche sedentarie delle donne della sua razza, forse d'origine libica, con lo stesso profilo un po' camuso, i denti selvaggi e il labbro superiore molto allungato; aveva però una carnagione bianca e vellutata, bellissimi capelli neri lievemente ondulati e gli occhi grandi, a mandorla, di un nero dorato e a volte verdognolo, con la grande pupilla appunto delle donne di razza camitica, che un poeta latino chiamò «doppia pupilla», di un fascino passionale irresistibile. Per la morte di Enza fu ripreso il lutto, chiuse ancora le finestre, ripresa una vita veramente claustrale. Ma un lievito di vita, un germogliare di passioni e una fioritura freschissima d'intelligenza simile a quella dei prati cosparsi di fiori selvatici a volte piú belli di quelli dei giardini, univa le tre sorelle in una specie di danza silenziosa piena di grazia e di poesia. Le due piccole, Pina e Coletta, leggevano già anch'esse avidamente tutto quello che loro capitava in mano, e, quando erano sole con Cosima, si abbandonavano insieme a commenti e discussioni che uscivano dal loro ambiente e dalle ristrettezze della loro vita quotidiana. E Cosima, come costretta da una forza sotterranea, scriveva versi e novelle. Da sua parte Andrea aveva molti difetti, ma era anche generoso e gioviale. Forse troppo: e la sua generosità era alimentata da un po' di amor proprio, di vanità, di boria; ma spesso era schietta e istintiva: aveva, poi, impeti di vero entusiasmo per cose che agli altri sembravano degne di poco aiuto, se non proprio di esser contrariate; e allora gli sembrava di fare atto di giustizia mettendosi dalla parte del debole. Cosí, quando si venne a sapere che la sua sorellina Cosima, quella ragazzina di quattordici anni che ne dimostrava meno e sembrava selvaggia e timida come una piccola cerbiatta, era invece una specie di ribelle a tutte le abitudini, le tradizioni, gli usi della famiglia e anzi della razza, poiché s'era messa a scrivere versi e novelle, e tutti cominciarono a guardarla con una certa stupita diffidenza, se non pure a sbeffeggiarla e prevedere per lei un quasi losco avvenire, Andrea prese a proteggerla e tentò, in modo invero molto intelligente ed efficace, ad aiutarla. Egli aveva fatto solo il ginnasio, e sebbene avesse appena ventidue anni si occupava adesso dell'amministrazione dei beni lasciati dal padre, traendone, è vero, molto profitto per sé e per i suoi divertimenti; ma leggeva, anche, e in certo modo era al corrente degli avvenimenti letterarî. L'eco di questi era sempre portata alla piccola città da Antonino, lo studente di lettere, fratello del piú intimo amico di Andrea. Questo fratello si chiamava Salvatore, e aveva anche lui preferito allo studio la vita beata del piccolo proprietario sempre a cavallo per i suoi campi ad aizzare il lavoro dei servi e a divertirsi poi con le belle e ardenti ragazze del paese: e si beffava, pur ammirandolo in segreto, di Antonino, che aveva le mani bianche e affusolate di donna e gli occhi pieni di sogni; e non era buono neppure a montare sulla giumenta sulla quale balzavano d'un salto le servette di casa per andare a prender l'acqua alla fontana: come nei suoi eterni studi, nelle Università piú celebri del Continente, spendendo tutti i risparmi della famiglia, non riusciva o non voleva riuscire a prendere la laurea. Ad ogni modo questo bellissimo, questo elegante e quasi principesco studente (e in quei tempi e in quel luogo la parola studente significava ancora un essere superiore: un uomo al quale potevano essere assegnati i piú alti e potenti destini della terra), portava davvero, nella cerchia famigliare, primitiva, isolata, quasi condannata a un esilio dal mondo grande, un soffio di quella grandezza tanto piú luminosa quanto piú lontana. Egli parlava di re, di regine, di alti personaggi politici, di artisti e di letterati, come fossero tutti suoi intimi amici. Sulla figura di Gabriele d'Annunzio, allora in tutto il suo piú radioso splendore, circonfusa inoltre dall'aureola di notizie leggendarie, egli si appoggiava sopra tutto, come il credente si appoggia alla colonna del tempio per riceverne forza e maestà Cancellate, ma leggibili, nel manoscritto seguivano le parole: «Questo tempio, questo San Graal col tabernacolo d'oro piú sfolgorante del sole era la poesia di Gabriele d'Annunzio».. Le cose raccontate dal buono, dall'epico Antonino, infiammavano di folli sogni il cuore del rude, ma anche lui à suo modo epico Andrea. Egli cominciò a fantasticare sulla piccola Cosima. Bisognava pertanto aiutarla. La mandò a prendere lezioni d'italiano, poiché a dire il vero ella scriveva piú in dialetto che in lingua, da un professore di ginnasio. Queste lezioni accrebbero il senso di ostilità istintiva che la piccola scrittrice provava per ogni genere di studi libreschi, a meno che non fossero romanzi o poesie. Piú efficaci furono le lezioni pratiche che il fratello volonteroso le procurò facendole conoscere tipi di vecchi pastori che raccontavano storie piú mirabili di quelle scritte sui libri, e portandola in giro, nei villaggi piú caratteristici della contrada, alle feste campestri, agli ovili sparsi nei pascoli solitari e nascosti come nidi nelle conche boscose della montagna. Una di queste gite fu meravigliosa, anche perché fatta in buona compagnia. Oltre al fratello di Antonino, c'erano altri amici di Andrea, quasi tutti studenti mancati, che ai tormentosi fasti del vocabolario preferivano quelli della fisarmonica e la Odissea Nel senso popolaresco di avventura. se la creavano da sé prendendosi a pugni per qualche bella giovane paesana e poi 'riconciliandosi in banchetti ove le ossa degli agnelli arrostiti alla viva fiamma si ammucchiavano ai loro piedi come sotto le mense degli eroi e conti di Re Carlo. Uno di questi banchetti fu apprestato quel giorno, nell'ovile delle tancas paterne di Andrea e di Cosima. Ai pastori porcari, che avevano finito la loro stagione, erano seguiti quelli di pecore e di capre. Le pecore brucavano l'asfodelo secco, i cui lunghi steli dorati scrocchiavano fra i denti delle bestie come grissini, e le capre nere, dalle teste diaboliche, si profilavano sulla madreperla delle cime rocciose. Quel giorno Cosima imparò piú cose che in dieci lezioni del professore di belle lettere. Imparò a distinguere la foglia dentellata della quercia da quella lanceolata del leccio, e il fiore aromatico del tasso barbasso da quello del vilucchio. E da un castello di macigni sopra i quali volteggiavano i falchi che parevano attirati dal sole come le farfalle notturne dalle lampade, vide una grande spada luccicante messa ai piedi di una scogliera come in segno che l'isola era stata tagliata dal continente e tale doveva restare per l'eternità. Era il mare, che Cosima vedeva per la prima volta. Certo, fu una giornata indimenticabile, come quella della cresima, quando un fanciullo che crede fermamente in Dio si sente più vicino a lui, lavato del tutto dal peccato originale. Tutto pareva straordinario a Cosima, persino il grido rapace delle ghiandaie e i cardi spinosi fra le pietre arse: ma invece di esaltarsi si sentiva piccola e umile accanto alle rocce che scintillavano come rivestite di scaglie, e ai lecci millenari che sembravano piú antichi delle stesse rocce. L'ombra era fitta, e se qualche nuvoletta solcava il cielo sembrava si afferrasse alle cime piú alte, in certi piccoli squarci del bosco, come i fanciulli che guardano in fondo a un pozzo. Ma il banchetto fu servito in una radura, per terra s'intende, tutta circondata da un colonnato di tronchi come un salone regale: per Cosima Andrea preparò con una sella e una bisaccia una comoda poltrona; e i migliori bocconi furono per lei: per lei il rognone dell'agnello, tenero e dolce come una sorba matura; per lei il cocuzzolo del formaggello arrostito allo spiedo, per lei il piú bel grappolo d'uva primaticcia portata appositamente dal fratello premuroso.

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Quando nelle sere d'inverno, accanto al braciere e alla luce di due lampadine ad olio (qualche volta ne accendeva anche tre), o nei mattini di primavera, nell'orticello fiorito di rose e ronzante di mosconi, e poi d'estate nella camera su in alto col paesaggio sonnolento dei monti alla finestra, poteva aver fra le mani una rivista illustrata, ne studiava a lungo le figure, specialmente le riproduzioni fotografiche di strade, monumenti, palazzi di grandi città. Roma era la sua mèta lo sentiva. Non sapeva ancora come sarebbe riuscita ad andarci: non c'era nessuna speranza, nessuna probabilità: non l'illusione di un matrimonio che l'avrebbe condotta laggiú: eppure sentiva che ci sarebbe arrivata. Ma non era ambizione mondana, la sua, non pensava a Roma per i suoi splendori: era una specie di città santa, Gerusalemme dell'arte, il luogo dove si è piú vicini a Dio, e alla gloria. Come giungessero fino a lei i giornali illustrati non si sa: forse era Santus, o lo stesso Andrea a procurarli: il fatto è che allora, nella capitale, dopo l'aristocratico editore Sommaruga, era venuto su, da operaio di tipografia, un editore popolare che fra molte pubblicazioni di cattivo gusto ne aveva buone, quasi fini, e sapeva divulgarle anche nei paesi piú lontani della penisola. Arrivavano anche nella casa di Cosima; erano giornali per ragazzi, riviste agili e bene figurate, giornali di varietà e di moda. Sicuro, l'Ultima Moda, coi suoi figurini di donna dall'alta pettinatura imbottita, la vita sottile e il paniere prominente, l'ombrellino grande a merletti come quello del Santissimo Sacramento, e i ventagli di piume simili a quelli del Sultano, era la gioia, il tormento, la corruzione delle ragazze. Nelle ultime pagine c'era sempre una novella scritta bene, spesso con una grande firma: non solo, ma il direttore del giornale era un uomo di gusto, un poeta, un letterato a quei tempi notissimo, della schiera scampata al naufragio del Sommaruga e rifugiatasi in parte nella barcaccia dell'editore Perino. E dunque alla nostra Cosima salta nella testa chiusa ma ardita di mandare una novella al giornale di mode, con una letterina piena di graziose esibizioni, come, per esempio, la sommaria pittura della sua vita, del suo ambiente, delle sue aspirazioni, e sopra tutto con forti e prodi promesse per il suo avvenire letterario. E forse, piú che la composizione letteraria, dove del resto si raccontava di una fanciulla quasi simile a lei, fu questa prima epistola ad aprirle il cuore del buon poeta che presiedeva al mondo femminile artificiosetto del giornale di mode, e con il cuore di lui le porte della fama. Fama che come una bella medaglia aveva il suo rovescio segnato da una croce dolorosa; poiché se il direttore dell'Ultima Moda, nel pubblicare la novella presentò al mondo dell'arte, con nobile slancio, la piccola scrittrice, e subito la invitò a mandare altri lavori, in paese la notizia che il nome di lei era apparso stampato sotto due colonne di prosa ingenuamente dialettale e che, per maggiore scandalo, parlavano di avventure arrischiate, destò una esecrazione unanime e implacabile. Ed ecco le zie, le due vecchie zitelle, che non sapevano leggere e bruciavano i fogli con le figure di peccatori e di donne maledette, precipitarsi nella casa malaugurata, spargendovi il terrore delle loro critiche e delle peggiori profezie. Ne fu scosso persino Andrea: i suoi sogni sull'avvenire di Cosima si velarono di vaghe paure: ad ogni modo consigliò la sorella di non scrivere più storie d'amore, tanto piú che alla sua età, con la sua poca esperienza in materia, oltre a farla passare per una ragazza precoce e già corrotta, non potevano essere del tutto verosimili.

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Grande era il caldo, a giorni, ma un caldo secco, che alla notte si placava in un senso di straordinaria dolcezza. Arrivavano allora, dalla valle e dai campi mietuti, odori di stoppia, di cespugli aromatici; e le voci delle donne accoccolate nella strada a godere il fresco risonavano con bassi accordi musicali. Lunghi erano i vesperi, rossi, glauchi, violetti sopra la montagna, e se la luna spuntava sopra le roccie il suo chiarore si fondeva con quello dell'ultimo giorno in un crepuscolo quasi orientale. E poi era la stagione in cui Antonino tornava per le vacanze. Cosima aspettava questo ritorno come gli altri aspettano la primavera o il fare del giorno. Quell'anno, poi, alla sua attesa si mischiava una vaga paura: paura che Antonino avesse saputo la grande novità, che anche lei era diventata una scrittrice, una candidata alla gloria, e che sorridesse di lei, con quel suo ironico sorriso di famiglia, velato però, in lui, da una finissima melanconia, come quella dei grandi, dei veramente grandi e forti, per i piccoli e deboli. In fondo non le importava gran che, ferma nella sua ambiziosa sicurezza di non aver bisogno di forze diverse dalle sue per andar diritta nella strada che Dio stesso le aveva tracciata: e da Antonino non sperava niente, non solo, ma non voleva niente, neppure che egli sospettasse del suo amore per lui. Amore. La parola era finalmente sbocciata, nel cuore e sopra tutto nella coscienza di lei, da quel giorno sulle rocce: come sboccia la rosa rossa e fragrante che basta a illuminare un giardino desolato. Eppure il corpo di Antonino non esisteva per lei; e neppure il lontano desiderio, neppure per istinto, di un solo bacio di lui, le vibrava nel sangue. Di lui non conosceva che la linea, una linea quasi azzurra, poiché egli vestiva quasi sempre di colore turchino chiaro, quasi soffusa del chiarore della lontananza in cui egli le appariva, anche se in realtà la sua figura spuntava in fondo alla strada solitaria. Egli doveva attraversare per forza quella strada, per scendere dalla sua casa al centro del paese: ella lo sapeva, e lo aspettava alla finestra, ma appena la figura di lui appariva ella si nascondeva. Ma questa volta ella lo vede sotto una luce diversa, su uno sfondo che ha del fantastico. Era andata, con la sorella Pina, a trovare le loro amiche, cugine di Antonino. La serva le ha accompagnate, consegnandole alla signora Lucia, con la promessa che sarebbe andata a riprenderle verso sera. È poco, eppure è una festa per Cosima, che può respirare l'aria del cortile e della vigna di Antonino. Come si è detto, le case delle quattro famiglie si aprono tutte su questo grande cortile arioso, lastricato bene, con panchine di granito poggiate al muro, accanto alle porte. Quella della signora Lucia è a un solo pianterreno, ma le stanze sono comode, e c'è anche il salotto, col tavolino rotondo in mezzo, e il sofà con la spalliera ricoperta da una trina all'uncinetto. Le ragazze vi si raccolgono e cominciano a pigolare: anche l'amica di Cosima e quella di Pina, della stessa età, sono piccoline, brune, intelligenti e lingue lunghe. Finito di parlar male delle comuni conoscenze, cominciano a punzecchiarsi scambievolmente, con istintive malignità e derisioni. Le due ragazze M. vestono bene, perché il padre è impiegato al Tribunale ed ha una sorella a Sassari, dove spesso le ragazze passano qualche settimana e apprendono le eleganze cittadine. Oggetto della loro beffa sono quindi i goffi vestitini delle altre due, fatti dalla sarta paesana. Giallo, con guarnizioni rosse, quello di Cosima, che parrebbe ridicolo e pure dà risalto al suo viso pallido e ai folti capelli neri. «Sembri una ciliegia che comincia a maturare» le dice l'amica Lenedda, e Cosima arrossisce e tace, ma la sorella Pina, squadrando il vestito verde e nero dell'altra, ribatte: «E tu sembri una vipera.» L'altra ride; dice: Non mi ricordavo che ti hanno tagliato il filo della lingua.» Infatti era vero: da piccola Pina balbutiva poiché lo scilinguagnolo sotto la sua lingua era eccessivamente corto: e le fu tagliato; cosa che tutti, per il resto della vita, le rinfacciarono. «A te non occorreva tagliartelo, il filo della lingua: anzi bisognerebbe ricucirlo.» Risero, le ragazze, perché in fondo erano allegre e si divertivano delle loro stesse malizie: fu portato il caffè, e si riprese a parlar male delle altre cugine, le sorelle di Antonino, che spiavano dalle finestre di faccia, ma non si degnavano di venire a salutare le piccole borghesi. Poiché esse vestivano in costume, sí, ma in modo sfarzoso, ed erano piú ricche delle altre, in modo che la loro madre diceva convinta: «Per le mie figlie occorrono uomini in alto, fieri e potenti.» Invece la maggiore, molti anni piú tardi, sposò un possidente paesano, e la minore un ricco commerciante. Quel giorno, esse non si unirono alla compagnia delle nostre ragazze neppure quando, verso il tramonto, le quattro amiche uscirono nella vigna attigua alla casa. Bellissimo era il luogo in pendio sopra la valle, in faccia ai monti arrossati dal sole calante: un muricciuolo lo separava dal sentiero che andava a perdersi verso i pendii di un'altra valle, a nord, e su questo muricciuolo, di contro uno sfondo di cielo abbagliante come una lamina d'oro, sedeva, con un giornale in mano l'agile Antonino. Quando dal fondo del vialetto della vigna Cosima lo vide, si piegò in avanti come dovesse cadere, chiudendo gli occhi quasi con angoscia. Ella non sapeva che era tornato, come del resto non lo sapevano neppure le cugine di lui, che lo guardarono con curiosità insolente e gli corsero incontro senza salutarlo battendogli i pugni sulle ginocchia. Egli le respinse, preoccupato solo per la piega dei suoi pantaloni, e non avrebbe neppure smesso di leggere senza la presenza delle altre due ragazze. Stentò un po' a ricordarsi chi erano, ma quando ebbe riconosciuto bene Cosima balzò in piedi e la salutò, con quel suo sorriso dolce, stanco e beffardo che gli sollevava il labbro sopra i denti luminosi. Tutto era luminoso, in lui, in quel momento, e la luce d'oro del tramonto pareva scaturisse dai suoi occhi, dal suo viso bruno, dai capelli raggianti. Per tutta la sua vita Cosima lo ricordò cosí: e basta ancora che pensi a lui per sentire una gioia misteriosa, fatta di luce e di angoscia, come si prova soltanto al primo rivelarsi della vita cosciente, anche se l'immagine della vita sorrida come in quell'attimo sorrideva Antonino. Eppure, in fondo al suo pensiero rimaneva il ricordo delle sue prime esperienze d'arte, e aspettava con orgoglio che il giovane accennasse alla sua novella, pronta a difendersi se gliela derideva. Ma pareva ch'egli non sapesse nulla: o almeno non accennò nulla. Domandò solo di Santus, e disse che sarebbe andato a trovarlo. Cosima arrossí; egli se ne accorse e non insisté. Poi le due ragazze minori essendosi allontanate, rimasero accanto al muricciuolo le due maggiori, e Lenedda cominciò a stuzzicare Antonino, permettendosi di pigliarlo in giro, per il modo con cui vestiva, e perché i capelli gli lucevano troppo. «Ti sei messo l'olio di lentischio, come le donne di Oliena. A chi vuoi piacere, in questo paese di selvaggi? Qui, dame non ce ne sono.» Cosima abbassava gli occhi. La speranza ch'egli volesse rispondere alla cugina, sull'argomento scottante, le faceva battere il cuore: ma egli non badava a Lenedda piú che alle pietre del muro sul quale si appoggiava: però si passava la mano bianca, con le unghie che riflettevano l'oro del tramonto, sui capelli divisi da un lato da una sottile scriminatura candida, e se li tormentava come per dimostrare che non erano lucidi per artifizio. «E poi, perché non hai il corpetto? L'hai perduto? La tua camicia sembra la camicetta di una donna.» Cosima taceva, mortificata e offesa per lui, e provò una gioia cattiva quando egli allungò il giornale e lo sbatté piú volte sulla testa della cuginetta insolente: ma non fu tutto: allorché Lenedda, con un piccolo salto felino tentò di tirargli i capelli, egli l'afferrò per un braccio, la fece girare intorno a sé come una trottola, la spinse costringendola a scendere di precipizio nel vialetto in declino. Ella strillava come una ghiandaia, e lui non rideva, tutt'altro, anzi stringeva un po' crudelmente i denti e continuava ad agitare il giornale, come avesse un gran caldo. Cosima stava lí quasi tramortita, e avrebbe voluto non assistere a quella scena. Poiché il suo idolo si scomponeva alquanto; eppure se egli avesse fatto su di lei lo scempio toccato alla cugina, ne sarebbe stata paurosamente felice. Egli però le mostrava, pur con la sua indifferenza, il massimo rispetto; non solo, ma ella aveva l'impressione che la lezione data a Lenedda fosse in suo omaggio, per non essere diminuito agli occhi di lei. Ad ogni modo ella respirò quando egli, dopo averla salutata con un lieve cenno del capo se ne andò senza far piú caso degli strilli della cugina.

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La casa era semplice, ma comoda: due camere per piano, grandi, un po' basse, coi pianciti e i soffitti di legno; imbiancate con la calce; l'ingresso diviso in mezzo da una parete: a destra la scala, la prima rampata di scalini di granito, il resto di ardesia; a sinistra alcuni gradini che scendevano nella cantina. Il portoncino solido, fermato con un grosso gancio di ferro, aveva un battente che picchiava come un martello, e un catenaccio e una serratura con la chiave grande come quella di un castello. La stanza a sinistra dell'ingresso era adibita a molti usi, con un letto alto e duro, uno scrittoio, un armadio ampio, di noce, sedie quasi rustiche, impagliate, verniciate allegramente di azzurro: quella a destra era la sala da pranzo, con un tavolo di castagno, sedie come le altre, un camino col pavimento battuto. Null'altro. Un uscio solido pur esso e fermato da ganci e catenacci, metteva nella cucina. E la cucina era, come in tutte le case ancora patriarcali, l'ambiente piú abitato, piú tiepido di vita e d'intimità. C'era il camino, ma anche un focolare centrale, segnato da quattro liste di pietra: e sopra, ad altezza d'uomo, attaccato con quattro corde di pelo, alle grosse travi del soffitto di canne annerite dal fumo, un graticcio di un metro quadrato circa, sul quale stavano quasi sempre, esposte al fumo che le induriva, piccole forme di cacio pecorino, delle quali l'odore si spandeva tutto intorno. E attaccata a sua volta a uno spigolo del graticcio, pendeva una lucerna primitiva, di ferro nero, a quattro becchi; una specie di padellina quadrata, nel cui olio allo scoperto nuotava il lucignolo che si affacciava a uno dei becchi. Del resto tutto era semplice e antico nella cucina abbastanza grande, alta, bene illuminata da una finestra che dava sull'orto e da uno sportello mobile dell'uscio sul cortile. Nell'angolo vicino alla finestra sorgeva il forno monumentale, col tubo in muratura e tre fornelli sull'orlo: in un braciere accanto a questi si conservava, giorno e notte accesa e coperta di cenere, un po' di brace, e sotto l'acquaio di pietra, presso la finestra, non mancava mai, in una piccola conca di sughero, un po' di carbone; ma per lo piú le vivande si cucinavano con la fiamma del camino o del focolare, su grossi treppiedi di ferro che potevano servire da sedili. Tutto era grande e solido, nelle masserizie della cucina; le padelle di rame accuratamente stagnate, le sedie basse intorno al camino, le panche, la scansia per le stoviglie, il mortaio di marmo per pestare il sale, la tavola e la mensola sulla quale, oltre alle pentole, stava un recipiente di legno sempre pieno di formaggio grattato, e un canestro di asfodelo col pane d'orzo e il companatico per i servi. Gli oggetti piú caratteristici erano sulla scansia; ecco una fila di lumi di ottone, e accanto l'oliera per riempirli, col lungo becco e simile a un arnese di alchimista: e il piccolo orcio di terra con l'olio buono, e un armamento di caffettiere, e le antiche tazze rosse e gialle, e i piatti di stagno che parevano anch'essi venuti da qualche scavo delle età preistoriche: e infine il tagliere pastorale, cioè un vassoio di legno, con l'incavo, in un angolo, per il sale. Altri oggetti paesani davano all'ambiente un colore inconfondibile: ecco una sella attaccata alla parete accanto alla porta, e accanto un lungo sacco di tessuto grezzo di lana, che serviva da mantello e da coperta al servo: e la bisaccia anch'essa di lana, e nell'angolo del camino una stuoia di giunchi, arrotolata, sulla quale alla notte dormiva, quando era in paese, lo stesso servo, pastore o contadino che fosse. Sull'acquaio non mancava mai un paiolino di rame pieno d'acqua attinta al pozzo del cortile, e su una panca l'anfora di creta con l'acqua potabile, faticosamente portata dalla fontana distante dall'abitato. L'acqua era allora un problema, e se ne misurava, d'estate, ogni stilla; a meno che non sopraggiungesse un buon acquazzone a riempire la tinozza collocata sotto il tubo di scolo dei tetti: eppure la pulizia piú diligente, praticata a secco, rendeva piacevole tutta la casa. Dalla finestra, munita d'inferriata, come tutte le altre del piano terreno, si vedeva il verde dell'orto; e fra questo verde il grigio e l'azzurro dei monti. La porta invece, come si è detto, dava sul cortile triangolare, piuttosto lungo e occupato quasi a metà da una rustica tettoia dalla quale, per un usciolino, si andava nell'orto. In fondo c'era il pozzo, e, sotto il muro alto di cinta, una catasta di legna da ardere, rifugio di numerosi gatti e delle galline che vi nascondevano il nido delle uova. Un'asse appoggiata su due ceppi, accanto al muro laterale della casa, ancora grezzo e sul quale, al primo piano, si apriva una sola finestra (le finestre erano tutte senza persiane), serviva da sedile. E un grande portone fermato anch'esso da ganci e stanghe, tinto di un color marrone scuro, dava sulla strada. Di giorno era quasi sempre socchiuso, e, piú che il portoncino della facciata, serviva per il passaggio degli abitanti e degli amici di casa. A questo portone, una mattina di maggio, si affaccia una bambina bruna, seria, con gli occhi castanei, limpidi e grandi, le mani e i piedi minuscoli, vestita di un grembiale grigiastro con le tasche, con le calze di grosso cotone grezzo e le scarpe rustiche a lacci, piú paesana che borghese, e aspetta, dondolandosi, che passi qualcuno o qualcuno si affacci a una finestra di fronte, per comunicare una notizia importante. Ma la strada, stretta e sterrata, in quell'ora fresca del mattino è ancora deserta come un sentiero di campagna, e nella vecchia casa di contro, anch'essa con l'alto muro di un cortile a fianco e un portone rossastro, non si vede nessuno. Questa casa è abitata da un canonico, un lungo e nero asceta taciturno, e da una sua giovane nipote intelligente, che avrebbe voluto farsi suora, ma dopo qualche mese di noviziato è stata rimandata a casa per la sua cagionevole salute. Gente per bene, semplice e austera. Il canonico si lamenta che nessuno, per la strada, lo saluti: è lui, invece, che cammina sempre ad occhi bassi e assorto nelle sue speculazioni religiose: la nipote, visto che Dio non l'ha voluta per sposa, si compiace della corte discreta di un bel giovane ebanista, decisa però a non sposarlo perché non è un proprietario o un funzionario come converrebbe a lei. La bambina sul portone, sa queste cose, e considera i suoi vicini di casa come personaggi straordinarî. Tutto, del resto, è straordinario per lei: pare venuta da un mondo diverso da quello dove vive, e la sua fantasia è piena di ricordi confusi di quel mondo di sogno, mentre la realtà di questo non le dispiace, se la guarda a modo suo, cioè anch'esso coi colori della fantasia. Odori di campagna vengono dal fondo della strada; il silenzio è profondo, e solo il rintocco delle ore e dei quarti suonati dall'orologio della cattedrale, lo interrompono. Passano le rondini a volo, sul cielo azzurro denso, un po' basso come nei paesaggi di pittori spagnuoli, ma anche le rondini sono silenziose. Finalmente una finestra si apre nella casa di fronte, e un viso bruno, coi grandi occhi velati dei miopi, si sporge a guardare qua e là negli sfondi della strada. È la signorina Peppina, la nipote del canonico. La bambina si solleva tutta, afferrandosi allo spigolo del portone per allungarsi meglio, e grida la notizia per lei importantissima: «Abbiamo un bambino nuovo: un Sebastianino.» Risultò poi che era una femmina: ma la bambina desiderava un fratellino; e se lo era inventato, col nome e tutto.

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Ma ancora ci sono, per lei, momenti nei quali il cielo torna a spalancarsi, e un tepore primaverile le scalda il sangue. Ella scrive: piegata sul suo scartafaccio, quando le sorelle tengono a bada la madre, e Andrea è fuori in campagna, e Santus dorme uno dei suoi soliti terribili sonni, ella si slancia nel mondo delle sue fantasie, e scrive, scrive, per un bisogno fisico, come altre adolescenti corrono rovo per i viali dei giardini, o vanno a un luogo loro proibito; se possono, a un convegno d'amore. Anche lei, nelle sue scritture, combina convegni di amore: è una storia, la sua, dove la protagonista è lei, il mondo è il suo, il sangue dei personaggi, le loro ingenuità, le loro innocenti follie sono le sue. Il titolo del libro non può essere che quello che è: Rosa di macchia. E un giorno, quando è finito, ella lo sente palpitare vivo fra le sue mani fredde, come un uccello che le sguscia fremente fra le dita e vola a batter le ali contro i vetri chiusi della finestra. Ella non esita a cercare il modo di liberarlo, lasciarlo andar via per gli spazi infiniti. Scrive all'editore della rivista di mode, e l'uomo, che ha l'intelligenza istintiva e il cuore grande del lavoratore sbocciato dal popolo, capisce con chi ha da fare. Risponde che gli mandi il manoscritto. Cosima si stacca con dolore ed orgoglio dalla famiglia dei suoi personaggi, e la manda per il vasto mondo. Il plico del manoscritto è accuratamente involto in tela e carta, con una rete di spaghi che deve resistere al lungo viaggio di terra e di mare; ed è anche raccomandato: tutte spese che Cosima non può sopportare col suo scarno bilancio personale composto dai pochi centesimi che la madre le dà ogni domenica. Ma poiché è necessario; andare avanti a tutti i costi, ecco che la scrittrice, la poetessa, la creatura delle nuvole, scende in cantina e ruba un litro d'olio: è facile, questa ladroneria, perché lei e le sorelle, quando la madre e la serva sono occupate in cucina, e qualche donna viene a comprare olio o vino, non sdegnano di servirla. Arriva dunque la donna di servizio della famiglia del cancelliere del Tribunale, che abita da pochi giorni la casa della zia Paola, in fondo alla strada, e compra un fiasco d'olio; Cosima riceve la somma, in piccole monete di argento da mezza lira l'una: a lungo, andata via la donna, ella tiene quei semi bianchi entro il pugno, fino a scaldarli; ha scrupolo, ha paura, anche un po' di vergogna; ma poi pensa che un familiare non esita a intascare metà del fitto del bosco e del provento delle mandorle, per sprecarlo col gioco e con le donne, e divide anche lei le monete: metà alla casa, metà alla gloria. E vero che poi rivelò il peccato al confessore, dicendo di aver rubato, senza però riferirne il motivo: e per penitenza digiunò il venerdí e il sabato.

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