Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Gambalesta

216211
Luigi Capuana 36 occorrenze
  • 1947
  • Società Editrice Tirrena
  • Livorno
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
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Uscito di casa con la ferma intenzione di non recarsi dal sarto, Cuddu aveva errato un po' per vicoli e vicoletti, fermandosi davanti a una bottega di fabbro ferraio, dove allestivano vomeri facendo schizzare scintille sotto i colpi dei martelli battuti in cadenza; fermandosi, più in là, a osservare lo scavo delle fondamenta di una casa di cui era stata abbattuta la facciata pericolante, da lui, giorni addietro, vista puntellata con grossi legni che pareva la sostenessero a stento. Un manovale, riconosciutolo, gli aveva detto, ammiccando al vestito: - Oggi sembri uno sposino! E Cuddu si era allontanato aggrottando le sopracciglia, senza risponder nulla, quasi temendo che qualcuno potesse soggiungere: - Perché non vai dal tuo principale? Come si fosse trovato in piena campagna per quella viottola che scendeva rapida tra due siepi di roveti, con quelle rocce che apparivano là in fondo minacciose, non avrebbe saputo dirlo nemmeno lui. Era un po' spaurito del gran silenzio attorno, e di quel posto selvaggio dove non aveva incontrato anima viva; eppure scendeva in fretta per la viottola scoscesa, ansioso di vedere dove lo avrebbe condotto. Di tratto in tratto si arrestava ripensando la minaccia di sua madre: - Più tardi verrò a vedere! - e scrollava la testa e faceva spallucciate, quasi rispondesse a qualcuno che gli veniva parlando, invisibile, a lato. Ma riprendeva sùbito a scendere, impaziente di arrivare laggiù, dove la vallata già si mostrava circondata da rocce, lieto che colà nessuno avrebbe potuto rimproverargli: - Perché non sei andato dal tuo principale? La viottola si perdeva tra i cespugli che coprivano il terreno. Qua e là grossi alberi di ulivi si rizzavano solitari sui ciglioni; e il terreno si avvallava sempre più, e le rocce apparivano più minacciose, con buche di dove scappavano palombi selvatici, mulacchie e falchetti che squittivano librandosi su le ali, roteando e tornando a librarsi da sembrar fermi per aria.

Cuddu non si era addormentato sùbito su lo strame accanto a Pino; eppure gli sembrava di sognare di trovarsi colà, mentre fuori scrosciava la pioggia e rumoreggiavano i tuoni, che l'eco della roccia prolungava paurosamente. Si era messo a piangere zitto zitto, pensando alla sua mamma, rannicchiato accosto al muro, soffocando i singhiozzi con la mano per non farsi sentire, consolandosi un po' col ripensare le parole di compare Nunzio: - Ti condurrò io dalla tua mamma domani sera. Non ti farò picchiare, vedrai! E credette di continuare a sognare, la mattina, destato dal rumore che faceva compare Nunzio sbattendo gli stivaloni inzaccherati agli spigoli del masso centrale. Un lume a olio con lucignolo fumoso spandeva scarsa luce rossastra sul viso abbronzato del cacciatore e su la barba grigiastra. Le folte sopracciglia, i capelli arruffati e le labbra contorte dal peso della pipa davano all'aspetto di lui un'espressione così strana che Cuddu, aprendo gli occhi ancora ammammolati e alzando la testa per guardare, pensò per un momento di essere incappato davvero in mano dell' Orco, come appunto sognava nell'istante in cui il rumore lo aveva destato. Il pecoraio, in fondo alla grotta, ginocchioni, strofinava col sale le forme del cacio; e Pino, di mano in mano, porgeva al padre quelle da risalare, e rimetteva in fila le altre ch' egli gli porgeva dopo aver compito l'operazione. L' imposta murata alla buca era già aperta, e cominciavano a penetrare nella grotta i primi lucciconi del giorno. Cuddu si rizzò a sedere. - Bravo! Sei sveglio - gli disse il cacciatore. - Vieni qua; aiutami a dar il sego agli stivaloni. E gli indicò come doveva fare. Intanto aggiornava. Compare Nunzio, infilatisi gli stivali, caricato il fucile a due canne, preparava la carniera e tirava fuori dalla gabbiola di legno il furetto, accarezzandolo e lisciandolo da sembrare che lo allungasse. Pino si era accostato a lisciarlo anche lui. - È il furetto, per scovare i conigli quando

Ormai a Ràbbato lo sapevano tutti: se si voleva un espresso che portasse una lettera e riportasse sùbito la risposta, bisognava mandare Gambalesta. Infatti il ragazzo pareva fatto a posta per correre come il vento, con quelle gambe lunghe, asciutte e quei piedi larghi e solidi che le scarpe non avevano potuto deformare perché sino a otto anni egli non ne aveva calzate mai. Magro, di carnagione lentiginosa, con certi occhi caprini, sgranati, che guardando pareva volessero buttarvi addosso scintille; con capelli rossicci e folti, sempre arruffati non ostante che sua madre lo pettinasse ogni mattina; con labbra tumide, carnose, che sorridendo mostravano due file di denti bianchissimi, sembrava ch'egli avesse in corpo l'argento vivo. Neppure mangiando poteva star fermo; e appena sua madre o qualcuna delle persone che lo spedivano qua e là gli davano una bella fetta di pane, un po' di cacio, una manata di frutta, il ragazzo si metteva a sgambettare, a girare su un piede, a far salti a ogni boccone, quasi do- vesse agevolare con quei movimenti l'azione delle mascelle. E per questo, secondo sua madre, restava sempre magro e sottile; la grazia di Dio non gli poteva fare buon pro. Allora non lo chiamavano Gambalesta, ma col nome di battesimo, Cuddu che pochi sapevano fosse un'abbreviazione dialettale di Menico. Né, dopo, si seppe mai chi gli avesse appiccato il nomignolo con cui a Ràbbato è rimasto famoso fin oggi. Giacché, anche ora che colà hanno la vettura corriera per la posta e l'ufficio telegrafico, in certe occasioni si suole esclamare: - Ci vorrebbe Gambalesta! Sua madre, rimasta vedova dopo due soli anni di matrimonio, faceva la tessitrice. Inchiodata da mattina a sera su la panca del telaio, non aveva potuto badare molto al bambino; ed egli era cresciuto, come un animaletto, nella via davanti la porta di casa, assieme con gli altri bambini poveri come lui e stracciati più di lui. A sei anni, Cuddu era diventato la disperazione della mamma. Appena alzato da letto, ella gli lavava la faccia, lo pettinava tra gli strilli e i guizzi dell'insofferente, e poi - come fare altrimenti? - lasciava che andasse a giocare coi sette figlioli del falegname di faccia (i maschietti minori nudi addirittura e le bambine con appena la camicia), che sembravano sette piccoli selvaggi, sudici, coi capelli ravviati dal pettine forse una volta al mese. E, qualche ora dopo, Cuddu rientrava in casa insudiciato anche lui, perché il chiasso ordinariamente consisteva nel baloccarsi col terriccio della spianata vicina, col fieno, con gli sterpi raccolti là attorno, per fare le fiammate. - Ecco il porcellino! - esclamava la povera donna. Cuddu si arrestava davanti al subbio del telaio, con le mani dietro la schiena, imperterrito, e diceva : - Ho fame! - Prima làvati le mani e la faccia. - Le mani soltanto... - Hai paura dell'acqua? Sembrava davvero che ne avesse paura. tanto egli si dibatteva, sbruffando, mentre la mamma, lasciato di tessere, lo prendeva fra le gambe, gli avvolgeva attorno al collo e sul petto un asciugamano e tornava a lavarlo. Doveva ripetere questa operazione anche la sera, prima di metterlo a letto, perché quel benedetto figliuolo non insudiciasse le lenzuola; e il giorno dopo, daccapo. Lo sgridava, gli lasciava correre qualche scapaccione, ma inutilmente. Cuddu si scoteva di addosso gli scapaccioni con due, tre salti, con una piroletta sur un piede, e infilava l'uscio per accorrere dove i sette figlioli del falegname si cocevano la cuticagna al sole e si abbronzavano la pelle arrostendo fave nel fuoco fatto con pezzetti di legno e trucioli presi dalla bottega del padre. A otto anni, però, Cuddu aveva cominciato a rendere qualche servizietto alla mamma, e ci si divertiva. Aveva appreso facilmente a riempire i rocchetti per la spola, e faceva andare lesto lesto l'arcolaio, movendo col cavo di una mano il rotolino a cui era infilato il cannellino da avvolgervi il filo, e tenendo teso, fra l' indice e il pollice dell'altra, il capo della matassa che doveva servire da trama. E, quasi questo movimento non bastasse, Cuddu lo accompagnava con un continuo agitar dei piedi scalzi, della testa, delle labbra, degli occhi, e con

Appoggiò le spalle allo stipite del portone e rimase là a guardare i tre ragazzi che si giocavano alle piastrelle alcuni bottoni di osso bianchi e neri. Ma egli avea la testa a tutt'altro. - I carrettieri di Ràbbato da che parte arrivano - domandò a compare Cosimo che ricom- pariva con la pipa in bocca e le mani dietro la schiena. - Di qua - quegli rispose, additando la via di. faccia. Di tratto in tratto qualche carro spuntava laggiù, s' inoltrava e passava oltre, con gran soddisfazione di Cuddu. Egli fantasticava come potesse fare per evitare quel ritorno. Avrebbe voluto almeno ritardarlo. Perché? Non lo sapeva neppur lui, ma gli pareva che il ritardarlo sarebbe stato bene. Sentiva dentro di sé una smania di vedere ancora cose nuove, luoghi nuovi. Giacché compare Ignazio partiva per Messina con la Squadra, perché non lo conduceva via con lui? Gli avrebbe portato il fucile, come da Ràbbato a Catania. Più non aveva paura delle fucilate; non si era turato gli orecchi l'altro giorno; il rumore, il fumo, le palle che fischiavano e scalcinavano le facciate delle case e spezzavano le mensole dei balconi e gli spigoli delle cantonate gli erano quasi parsi un divertimento. C'era mancato poco ch'egli non si sentisse il coraggio di aiutare a spingere l'affusto del cannoncino a cui dava fuoco quella giovane popo- lana col fazzoletto legato attorno alla testa e la gonna tirata su fino ai ginocchi. A ogni colpo che faceva partire, ella gridava: - Viva Sant'Agata! - Se la vedeva davanti, con quel viso bruno e quegli occhi neri, e coi capelli che le sfuggivano su pel collo sotto il fazzoletto; pareva un maschio!... Non gli metteva ribrezzo neppure il

Una mattina Cuddu era andato, al solito, da compare Sidoro; e, non avendolo trovato in casa, si era diretto verso la merceria che quegli aveva nella Piazza grande, come la chiamavano a Ràbbato quantunque non fosse poi tale da meritare quel qualificativo. La piazza era affollata di contadini, a gruppi, che parlavano sotto voce e pareva fossero in aspettazione di qualche cosa che doveva apparire dalla cantonata della chiesa di San Rocco. La merceria era chiusa. Molti ragazzi, popolani la più parte, su gli scalini della gradinata della chiesa, si sospingevano, urtandosi, ridendo, fischiando se qualcuno di loro ruzzolava per terra. Di faccia, davanti la farmacia, chiusa anch'essa, parecchie donne del popolo, con mantelline e scialletti, quasi vi attendessero il passaggio di una processione. Cuddu si accostò a un ragazzo. - Che cosa c' è? - Fanno la rivoluzione con la bandiera. - Chi? Perché? - E mettono carcerati i birri. - Ah! - esclamò Cuddu, comprendendo ora le parole di compare Sidoro: Birraccio! Ne hai per poco! - Sùbito la fanno? - soggiunse Cuddu. - Eccoli!... Vengono. Una trentina. Procedevano in due file, serii, silenziosi, lentamente, tra i gruppi dei contadini, che si scoprivano come quando passa il Santissimo, e guardavano sbalorditi quei signori che precedevano la bandiera tricolore, tra i quali c'era anche un prete. Tutti, meno questi, armati di fucili da caccia. Compare Sidoro, con un soffione arrugginito a bandoliera e la cartucciera su la pancia, apriva la sfilata, reggendo con le due mani un cartellone scritto a grossi caratteri. I ragazzi, mescolatisi tra coloro che facevano la rivoluzione, battevano le mani, quasi la rivoluzione fosse stata un divertimento. In mezzo alla piazza, compare Sidoro si era fermato. Quella trentina di persone circondarono il portabandiera, gridarono: Viva l' Italia! E un signore in tuba, preso in mano il cartellone, cominciava a leggerlo ad alta voce:

Per occuparlo la mamma gli faceva riempire, al solito, i rocchetti dell'ordito; ma di tratto in tratto riprendeva a fargli la predica: - Non vedi?Tanti, e minori di te, già si guadagnano il pane. - Compare Nunzio mi ha detto: fa' il cacciatore. - Mestiere da fannullone come lui, che è sempre affamato e stracciato e, sei mesi dell'anno, con la malaria addosso. E chi ti dà il fucile e la polvere e i pallini? Già, se sparano un mortaretto, salti un palmo da terra dalla paura! - Imparerò; ci vuoi poco. Ho visto come si fa: così! E, preso il rotolino che aveva in mano, se lo appoggiò dalla parte della cresta alla spalla e fece atto di sparare... Bum! - Oh! A far le buffonate sei bravo. - Chi mi voleva per mandarmi a portare una lettera? - domandò Cuddu dopo alcuni momenti di silenzio. - Ecco chi ti voleva. Un omaccione si era affacciato su la soglia; e comare Conceta,t additandogli Cuddu che avea ripreso a riempire il rocchetto incominciato, soggiunse: - È tornato il bel cesto! - Vuoi guadagnare due tarì alla settimana, con una sola camminata? - fece l'omaccione entrando. - Magari!... Se la mamma acconsente. - Badiamo, comare! Questo è un segreto che deve rimaner fra noi; si tratta d'interessi. E se tu parli, bel cesto, perdi i due tarì alla settimana, e ti buschi un sacco di legnate. Verrai a casa mia ogni mercoledì mattina, prima dello spuntar del sole; ti darò la lettera e ti metterai sùbito la via tra le gambe. Non potrai sbagliare: sempre lungo lo stradone fino... Te lo dirò domani fin dove; è appunto mercoledì. Ti aspetto. Svegliàtelo di buon'ora, comare. I due tarì debbo darli a lui o consegnarli a voi? E sappiate che, se si comporta bene, questo bel cesto ha trovato la sua fortuna... Scrivetevi qui, sulla fronte, le mie parole. Chi lo manda non vuol comparire. Voi conoscete me e basta; come se lo mandassi io, il ragazzo... Comare Concetta, lasciato di tessere, aveva appoggiato i gomiti su la cassa del pettine, col mento fra le mani, impensierita di tutte quelle precauzioni e di quel mistero. - Non gliene può venire niente di male? Se sbaglia?... È ragazzo... - Non può sbagliare; dovrebbe farlo a posta... E questi intanto sono i due tarì pel viaggio di domani. Vi farà forse comodo averli ora. - I danari fanno comodo sempre e a tutti, compare Sidoro! La poverina guardava, commossa, la moneta di argento nuova nuova che quegli le aveva dato, poi la mostrava a Cuddu, che sgranò gli occhi, agitando le gambe e ripetendo il solito Piripì! lietissimo del suo primo grosso guadagno. La mattina dopo, all'alba, Cuddu picchiava alla porta di compare Sidoro. - Bravo! - egli fece. - Sta' attento a quel che ti dico. Nascondi la lettera in petto, sotto la camicia, e non dire a nessuno né dove vai, né che cosa porti. Prenderai lo stradone, quello che conduce all'Albero bianco, e andrai fino in cima alla collina, dove troverai l'altro stradone; là ti fermerai dietro il casolare senza tetto, se non trovi un vecchio che dovrebbe stare ad attenderti. Verrà; lo riconoscerai, perché è sciancato. Ti dirà: - Sei tu quello delle fave? - E tu risponderai: - Sissignore. Le volete? - Se ti dirà di sì, gli darai questa lettera e prenderai quella che egli ti darà. La nasconderai in petto, e tornerai sùbito addietro. - Va bene - disse Cuddu, dopo aver riposto la lettera sotto lo sparato della camicia e abbottonandosi il panciotto. - Bada però: se colui non ti dice: - Sei tu quello delle fave? - tu devi far finta di niente, quasi fossi là per baloccarti; e se per caso tu vedessi qualcuno che stesse a guardare, un contadino nei fondi accanto, un carrettiere che passasse per lo stradone, non avvicinarti al vecchio, non fargli neppure un cenno con gli occhi. Aspetta ch'egli ti dica... - Sei tu quello delle fave? Ho capito - disse Cuddu con gravità che fece sorridere compare Sidoro. - E la colazione?... Non ti ha dato nulla tua madre?

Parecchi giorni dopo, nell'ospedale di Messina, Cuddu non riusciva ancora a raccapezzarsi. Si sentiva impacciato nei movimenti, come se lo avessero fasciato stretto stretto alla vita; e, appena egli tentava di voltarsi, una trafittura acuta al fianco destro gli strappava degli ahi! ahi! da far accorrere qualcuna delle belle signore che andavano attorno da un letto all'altro... Quanti letti colà! E quante belle signore! Dove si trovava? Perché lo tenevano così fasciato? Le fasce, egli credeva, gli facevano male. E chiamava: - Mamma! Mamma! Fiocamente; non aveva forza di gridare. Chiudeva gli occhi, mezzo assopito; gli pareva di fare un lungo brutto sogno, e avrebbe voluto destarsi, alzarsi e andare in cerca di compare Ignazio, e tornare dalla sua mamma. Sentiva un gran caldo alla testa, quasi avesse lì dentro carboni accesi. E che arsura alla lingua! Gli davano da bere di tanto in tanto, ma non gli sembrava mai sufficiente. Avrebbe voluto aver là uno dei cannelli della fonte di Ràbbato, dove le acquaiole andavano ad attingere l'acqua, e sentirsela scorrere dentro la bocca finché non se ne fosse saziato. Faceva sforzi per destarsi e qualche volta gli pareva di esservi riuscito. Udiva bene quel che dicevano attorno a lui, ma non capiva interamente. Poi venivano dei signori con grembiuli bianchi, che lo scoprivano, e lo tastavano, là, dove gli doleva, gli levavano per un momento quelle fasce strette strette; e allora, dal gran dolore, si sentiva mancare. Poco dopo, si accorgeva che il dolore si era alquanto calmato; ma ecco quei signori eran tornati a fasciarlo stretto stretto: Malannaggia! E, in quei momenti di refrigerio, volgeva la testa a guardare di qua e di là tutti quei letti in fila con tanta gente che si lamentava, che urlava. Talvolta vedeva portar via uno avvolto in un lenzuolo insanguinato; e in quel letto rimasto vuoto prendeva sùbito posto un altro, pallido, con gli occhi infossati, che non si reggeva in piedi. Dalla paura cercava allora di riaddormentarsi, e fantasticava: - Dove sono? Perché tutti questi letti? E perché

interminabile, senza che egli riuscisse a capire dove arrivava. E poi, dai discorsi di quei della Squadra, che parlavano di soldati, di fucilate, di morti, di feriti, egli aveva cominciato a intendere che quelli andavano alla guerra e che gli toccava di andarci anche lui... A fare che cosa? Oh, lui sarebbe rimasto lontano, si sarebbe nascosto, si sarebbe buttato per terra turandosi gli orecchi per non sentire il botto delle schioppettate; Intanto, così tornava a dimenticare sua madre, con viva curiosità di vedere come avrebbero fatto la guerra. Oggi stesso? Domani? Dove? Per la strada o più in là? A Catania? E dov'era Catania che non si scorgeva neppure? La Squadra si era fermata a un'osteria. Avevano dato da mangiare e da bere anche a lui... E la sua mamma che attendeva il pane? Il denaro egli lo aveva in tasca: due tarì d'argento. Doveva scambiare quella moneta e portarle resto. La sua mamma non aveva altro denaro!... Cuddu si sentiva stringere il cuore. Nell'osteria aveva trovato altri ragazzi, figli dell'oste, che lo condussero a vedere la nòria, dove l'asino faceva girare la grande ruota con tutti quei secchi attaccati in fila che attingevano l'acqua e la versavano nella vasca. Cuddu osservava meravigliato. Guardava pure due grossi uccelli che pareva stentassero a trascinare la lunga coda. Uno di essi cominciò a rizzarla a poco a poco, ad aprirla come un ventaglio cosparso di occhi, straluccicante di mille colori e di oro. E tutte le penne fremevano, scosse da un tremito lieve, mentre l'animale si aggirava attorno ad un altro uccello simile ad esso pel colore delle penne, ma senza quella gran coda, che becchettava là nascosto, assieme con le galline e con quattro tacchini. Era la prima volta che Cuddu li vedeva; non sapeva neppure che si chiamavano pavoni. E non si sarebbe saziato di ammirarli, se non avesse avuto timore che quelli della Squadra potessero andar via senza badare a lui. Tornò all'osteria. Il sole era vicino al tramonto. Don Carlo il capitano fumava, seduto davanti a la porta. Gli altri, parte, impancati dentro, bevevano ancora; parte, fuori, sdraiati bocconi, coi gomiti appoggiati sul terreno, col mento tra le mani e la pipa in bocca, zitti; qualcuno, in un canto, già dormiva. Cuddu, accostatosi a colui che gli dava a portare il fucile, gli domandò: - Si resta qui? - Se sei stanco, bùttati a dormire su l'erba - quegli rispose. - Partiremo a mezzanotte. - Al buio? - C'è la luna piena. Sei contento di venire a Catania? Farai il soldato anche tu. Quanti anni hai? - Undici anni. Ma io voglio tornare a Ràbbato; mia madre mi aspetta. Dovevo comprarle il pane. - A quest'ora se lo è già comprato. Stava per dirgli: - Ho io in tasca il denaro - ma si trattenne. Se glielo levavano? E lo tastava per assicurarsi che non lo aveva smarrito.

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Si sentiva ancora il rumore delle acque del fiume, che si vedevano luccicare, di tratto in tratto, tra gli alberi, a sinistra, perché il letto del fiume faceva una gran curva. Passavano carri tirati da bestie che sembravano insonnolite, tanto andavano lente, coi carrettieri sdraiati sul carico, addormentati; poi, neppure lo stridìo delle ruote sul brecciame. Cani abbaiavano dalle case rustiche, dai pagliai; e silenzio di nuovo. Di faccia, illuminato dalla luna, con la gran cappa di neve, Mongibello ; e a Cuddu sembrava più piccolo di quanto lo vedeva dalla spianata davanti a casa sua, perché qui le colline impedivano di scorgerlo intero. Ora avevano lasciato lo stradone; montavano per un sentiero, tra gli olivi. Cuddu scorse di lassù un gran biancore... Era Catania, illuminata dalla luna, coi campanili, con le cupole delle chiese che si rizzavano tra i tetti... E, dietro, una cosa ch'egli non sapeva che cosa fosse, un immenso specchio pareva, steso laggiù, e dove la luna si rifletteva con una lunga striscia luminosa. - Che cosa è? - domandò. Il mare. Non hai mai visto il mare? - No. Il sentiero diveniva di mano in mano più ripido, quasi incassato tra due sponde, con gli olivi che si protendevano dai ciglioni, fitti; con casette basse mezze nascoste tra gli alberi, da dove partivano abbai di cani, mentre la Squadra passava; altri cani rispondevano in lontananza, attorno, paurosamente. Cuddu tornava a pensare a sua madre. A quell'ora ella dormiva. Avrebbe dormito anche lui, se fosse rimasto a casa. E sarebbe stato meglio! Gli sembrava quasi impossibile che si trovasse così lontano, con quella gente, in luoghi sconosciuti, e da dove non avrebbe saputo ritrovare la strada per tornare addietro, se avesse voluto. Ma, a poco a poco, la curiosità di vedere come facevano la guerra lo riprendeva, e insieme la paura di trovarsi in mezzo alle fucilate, di cui, più che altro, paventava il rumore. Se dovevano ammazzarsi, si sarebbero ammazzati loro, quelli della Squadra e i soldati napoletani, dei quali essi parlavano. Egli si sarebbe nascosto dietro un albero, dietro un muro, si sarebbe buttato per terra o sarebbe scappato lontano - sante gambe, aiutatemi! - Per correre ci avrebbe pensato lui! Intanto il cielo si era coperto di nuvole. S'intravedeva dietro di esse la luna che andava lesta lesta, quasi avesse paura anche lei di incappare nelle fucilate. Cuddu era impressionato della cautela con che la Squadra procedeva. Si fermavano, riprendevano a camminare, tornavano a fermarsi, origliando a ogni svoltata di sentiero. Che cosa stava per accadere? Non potevano, secondo lui, far la guerra di notte, al buio. Tutt'a a un tratto si udì un vocione: - Chi va là? - Amici! - rispose don Carlo il capitano. - Chi vive! - Viva Verdi! - Sta bene; fatevi avanti. Cuddu, a quel - chi va là -, si era aggrappato alla giacca di uno della Squadra che gli stava vicino. Il cuore gli batteva forte. E continuò a battergli forte quando si trovò tra un centinaio di persone, tutte armate - un'altra Squadra più numerosa - che festeggiavano con abbracci e strette di mano i nuovi arrivati. - E questo carusu? - domandò uno con barbone e cappellaccio a larghe tese. Sembrava il comandante. - Lo abbiamo raccolto per la strada - rispose don Carlo. - Bravo! - fece colui. - A Palermo i carusi hanno operato miracoli. Albeggiava. Cuddu, vedendosi squadrato da capo ai piedi da quell'omaccione che teneva impugnato per la canna un fucilone grosso il doppio degli altri e con bocca che si allargava slabbrando, avea avuto paura che non lo cacciassero via. Poi aveva ripreso coraggio, e, sedendosi per terra accanto al suo paesano che gli dava a portare lo schioppo, domandò: - È ora di far la guerra? E si stupì che quegli gli rispondesse con una risata. Due giorni dopo, Cuddu si era trovato, come egli diceva, a veder fare la guerra.

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Era arrivato con la Squadra davanti a una gran porta senza portone, come quella di Ràbbato, ma più grande assai; ed era penetrato, confuso con gli altri, in una via larga e lunga di Catania. Ma qui niente tetti sfondati, niente pareti sconquassate, come a Palermo, e niente camicie rosse. Si udiva, lontano, a riprese, un crepitìo di fucilate che somigliava al rumore dei mortaletti sparati a Ràbbato per le feste della Madonna e dei Santi. Gli uomini armati s' inoltravano cautamente, per vie traverse, coi fucili pronti, a piccole brigate; ma nessuno sparava. Egli faceva come gli altri, si appostava alle cantonate, attraversava di corsa una viuzza, poi un'altra, poi un'altra. Tutte le porte chiuse; poca gente alle finestre; rare persone per le vie... Ed ecco una piazzetta con gruppi di gente armata. Il rumore delle fucilate si avvicinava, continuo. E intanto Cuddu non aveva più paura; gli sembrava di assistere a un bello spettacolo. Là c'erano molti ragazzi della sua età, che gridavano, saltellavano, andavano via di corsa, tornavano recando notizie... - I regi! I regi! Le fucilate eran cominciate laggiù in fondo alla via. Le Squadre accorrevano. Accorreva anche lui, mescolandosi ai ragazzi, quasi inebriato di quel rumore e dell'ardimento degli altri, che lo rendeva ardito anche perché egli non capiva il pericolo a cui si esponeva. Le palle fischiavano per l'aria, portavano via pezzi di mensole, rompevano spigoli di cantonate... Poi, al crepitio delle fucilate, si mescolarono colpi forti come tuoni; e mentre un ragazzo gli spiegava che erano cannonate, Cuddu vide spuntare da un vicolo un carrettino spinto innanzi da quattro uomini, con su qualche cosa ch'egli non sapeva che arnese fosse. E c'era anche una giovane popolana con la gonna tirata in su fino al ginocchio, un fazzoletto legato attorno al capo e una corda in mano che fumava da uno dei capi. Il carretto fu apportato rapidamente all' imboccatura della via, la giovane vi accostò la corda fumante: un colpo partì, facendo indietreggiare il carrettino, che venne sùbito tirato da parte dietro la cantonata. Cuddu guardava, stupito, quella bruna che pareva schizzasse fuoco dagli occhi, e gesticolava, urlava... E di nuovo il carrettino era spinto fino all' imboccatura della via, e la ragazza faceva fuoco con la corda fumante. Tutti accorrevano, prendendo le vie traverse, affacciandosi alle cantonate per sparare, tirandosi indietro per ricaricare i fucili... Egli ne vedeva stramazzare per terra qualcuno che si era esposto più arditamente; e i compagni a strascinarlo al riparo, a portarlo via e a reggerlo tutto insanguinato. - Che fai qui? Mettiti là, dentro quel portone! Cuddu si era sentito afferrare per una manica dal suo compaesano della Squadra, che aveva un braccio attaccato al collo con un fazzoletto e la mano fasciata. Nell'atrio, a piè della scala, egli vide un uomo steso lungo per terra, in una pozza di sangue... Era morto. Allora Cuddu cominciò ad aver paura. La fucilata intanto si allontanava, diveniva più fiacca. Il portone era pieno di gente accorsa a vedere il morto. Gli avevano coperto la faccia con un fazzoletto. Cuddu, sbalordito, si sentiva sperduto tra quegli sconosciuti che non badavano a lui. Il suo compaesano era sparito. Che doveva fare? Aspettarlo? Cercarlo? Dove? E uscì su la via. - Ehi! Cuddu! Egli fece un salto di gioia sentendosi chiamare in mezzo alla gran folla che gridava: Viva l' Italia! Viva Garibaldi! Viva Vittorio Emanuele! e batteva le mani. Dai balconi, anche le signore battevano le mani, sventolavano fazzoletti, agitavano bandiere tricolori.

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Una turba di gente rincorreva un uomo senza cappello, con la giacca a brandelli, che scappava e non sapeva dove nascondersi perché tutti i portoni delle case erano chiusi. Parecchi gridavano: - Ferma!... Ferma!... - tentando di trattenere gli inseguitori armati di mazze e di lunghi coltelli. - Non è lui! Ferma! Ferma! - Quattro persone che venivano incontro al disgraziato gli si erano parate davanti e lo avevano arrestato, mettendoselo in mezzo per difenderlo da quegli indemoniati che, sopraggiungendo, continuavano a gridare: - Ammazzalo! Ammazzalo!... È un birro! Ammazzalo! E per alcuni istanti fu una gran confusione, tra urli di: - Viva l'Italia! Viva Garibaldi! Non è lui! Fermi! Ammazzalo! Infatti quel povero diavolo era stato preso in iscambio. Cuddu vide che all'ultimo lo conducevano via, pallido come un cadavere, coi capelli irti su la testa dal gran terrore della morte da cui era scampato quasi per miracolo. Un vecchio intanto, mordendosi le mani, sbraitava: - È lui! È il birro infame che ha fatto morire in carcere mio figlio! E non voleva lasciarsi persuadere che si era ingannato. - Dove vendono il pane? Cuddu aveva fame e sonno, e si sentiva lo stomaco e la testa ugualmente vuoti. Si lasciava trascinare per mano, guardando qua e là, se mai vedesse una bottega di fornaio. Invece colui lo faceva entrare nel portonaccio di uno stallatico mezzo buio, con due finestre in fondo riparate da fitte grate di ferro, quattro pilastri che reggevano grossi travi su le quali poggiavano le minori travi del tetto, e, torno torno, le mangiatoie pei muli e i cavalli dei carrettieri, vuote quel giorno. Un ragazzo in maniche di camicia, scalzo, senza berretto in testa, spazzava il pavimento con una granata di vimini. - Dov' è compare Cosimo? - Eccolo qua! - rispose una voce di fondo allo stallatico. Si fece avanti, dondolandosi lentamente, un omaccione. - Ah, siete voi, compare Ignazio! Che avete? Un braccio rotto? - Una palla dei regi... Cosa di poco... - Anche voi? E se vi ammazzavano? - Mi son trovato nel ballo ed ho ballato. - Questi è figlio vostro? - No, ma ve lo raccomando più che se fosse figlio mio. E, prima di tutto, dategli qualche cosa da mangiare: è digiuno da ieri. Poi fatelo dormire, su, in casa: casca dal sonno. E quando verranno i carrettieri di Ràbbato... Senza interesse, s' intende, compare Cosimo. Pago io. - Ho due tarì - disse Cuddu vivamente. - Sei ricco, e nessuno lo sa!... - Li riporterai a tua madre, poveretta. - Sei ricco, e nessuno lo sa! - replicava compare Cosimo, ridendogli in faccia. Cuddu trasse di tasca la moneta d'argento e la mostrò. - Questa, si fa così! E compare Cosimo, che era di umore allegro, finse di mettersela in bocca e ingoiarla. Cuddu era rimasto male; già gli salivano le lagrime agli occhi. Sarebbe scoppiato in pianto, se quegli, continuando lo scherzo, non avesse soggiunto: - Ne hai un'altra nel naso! E fece atto di cavargliela fuori. - Questo due tarì è tuo; quello che ho ingoiato lo terrò per me. - Non è vero; è sempre il mio! - rispose Cuddu, rimettendosi sùbito la monetina di argento in tasca. - E quando verranno i carrettieri di Ràbbato, dicevo, - riprese compare Ignazio - lo rimanderemo via con qualcuno di loro. Sempre allegro! Siete della pasta antical... Ve lo raccomando. - Mi tengono allegro i guai. Vedete? Da otto giorni non arriva neppure una mosca nello stallatico. E voi, fatevi i fatti vostri, santo cristiano! Non vi è bastata una palla? - Partirò per Messina, con le Squadre, tra qualche giorno - soggiunse compare Ignazio. Cuddu mangiava avidamente, intingendo il pane nelle due uova in tegame che la moglie di compare Cosimo gli avea messo davanti. Ella intanto lo interrogava. - E come ti sei trovato qui? - Sono venuto con la Squadra. - E i tuoi parenti lo sapevano? - Mia madre non sapeva niente. Ho la mamma soltanto. - Piangerà, poveretta! Cuddu non poté inghiottire il boccone che stava per mandar giù. - Gliel'avranno detto ormai con chi sono andato. - Starà in pena per le notizie che corrono. Tornerai a casa coi carrettieri di Ràbbato, dice mio marito. Cuddu non rispose. Era già impressionato del ritorno e dell'accoglienza che lo attendeva. Questa volta sua madre lo avrebbe legato davvero con la corda a una seggiola e non gli avrebbe fatto affacciare neppure la punta del naso fuori dell'uscio. Ma egli, pensava, sarebbe andato prima da compare Sidoro, e si sarebbe fatto accompagnare da lui. - E non avevi paura tra le schioppettate? - Mi rimpiattavo dietro una cantonata. C'erano tanti altri ragazzi. C'era anche una donna, che sparava il cannone. - E dunque vero? - L'ho vista io con questi occhi! Ho visto anche un morto, tutto insanguinato. - Uno? Dicono che ne son morti tanti. Madonna santa! - A Palermo però c'erano case bruciate, tetti sfondati. - Come lo sai? - Li ho visti. Ho visto anche Garibaldi. - Sei stato a Palermo e senza dir niente a tua madre? Hai dunque l'argento vivo nelle gambe, che non puoi star fermo! Penso a quella povera donna. Gliene fai di tutti i colori; vuol dire che non le vuoi bene. - Le voglio bene. I danari che guadagno li do tutti a lei. - Figuriamoci quanti guadagni!... Bevi un po' di vino... Dovresti apprendere un'arte, un mestiere. Per ora non sai far niente. - Farei il postino a Ràbbato, se mi volessero. - Postino ce ne può essere uno solo in un paese, e chi ha il posto se lo tiene caro. Muratore, calzolaio, sarto, falegname... Manca mestieri! O non hai voglia di far nulla? Sei grandicello; dovresti guadagnarti il pane. Cuddu stava ad ascoltare a testa bassa. Gli pareva di sentir la voce di sua madre, quando lo ammoniva proprio con le stesse parole: - Sei grandicello; dovresti guadagnarti il pane. - Ora non lo farai più; non scapperai più di casa, lasciando la tua povera mamma a. piangere sola sola. Ti può accadere qualche disgrazia. Non lo farai più, è vero? - Non lo farò più! - È peccato disobbedire alla mamma; il Signore ti manderà all'inferno. Vieni di là, ti metto a dormire. Non puoi tenere aperti gli occhi. Non ostante la stanchezza, aveva dormito male, destandosi a ogni po' di soprassalto. Avea sognato di attraversare, di notte, luoghi cupi, paurosi: di udire fucilate e di vedere morti stesi per terra, supini, con la bocca aperta e gli occhi spalancati; voleva fuggire, inciampava, si sentiva afferrare e dava un balzo sul letto... Il sogno gli sembrava così vero che stava un istante a origliare se mai le fucilate ricominciassero: e, appena riaddormentatosi, daccapo.

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Se tornava a Ràbbato non avrebbe veduto più niente; sua madre lo avrebbe legato alla seggiola e poi lo avrebbe messo a fare il calzolaio da mastro Antonio o il sarto da don Pietro... No! Trasalito due o tre volte alla vista di altri carri spuntati di fondo alla via, egli aveva tratto due o tre sospironi vedendoli proseguire... No, non voleva tornare a Ràbbato; a Messina voleva andare, con le Squadre, e portare il fucile di compare Ignazio. Appena questi sarebbe venuto a trovarlo, glielo avrebbe detto. E se rispondeva di no? 1 Meglio era non dirgli nulla, e andargli dietro un bel pezzo senza farsi scorgere; poi, quando sarebbe stato a mezza via: - Eccomi qua! - Non lo avrebbe rimandato. Compare Cosimo fumava zitto zitto, con le mani dietro la schiena, andando su e giù dondoloni davanti a lo stallatico, salutando i passanti, fermandosi di tratto in tratto per osservare i colpi di piastrella e giudicare a chi appartenessero i bottoni d'osso quando i ragazzi non erano d'accordo e minacciavano di venire alle mani. Serio, egli indicava con la punta del piede quale fosse la piastrella vincitrice, e passava oltre, ruminando in testa i conti della perdita di quei giorni in cui lo stallatico era rimasto vuoto. - Fate giocare con voi anche questo ragazzo - egli disse ai tre giocatori. - Hai bottoni di osso? Metti la posta. - Non ne ho - rispose Cuddu. - Te ne presto quattro io; me li renderai - fece uno dei ragazzi. Cuddu accettò. Compare Cosimo sorvegliava il giuoco, con la pipa in bocca e le mani dietro la schiena. E, qualche ora dopo, Cuddu aveva già vinto una quarantina di bottoni. Non sapendo che farsene, li rese ai ragazzi. Compare Ignazio non si era fatto vivo. Ora lo stallatico rigurgitava, ingombro di carri con le stanghe all'aria, di bestie che maciullavano rumorosamente biada e paglia nelle mangiatoie, di carrettieri che gridavano leticando pel posto. Erano arrivati quasi tutti insieme, in una fila che non terminava più, dopo che nei paesi attorno era giunta la notizia che Catania era tranquilla e che i soldati borbonici erano stati cacciati via dalle Squadre. - Ah! Sei qui tu, pendaglio di forca? - esclamò un carrettiere di Ràbbato, vedendo Cuddu. - E la povera tua mamma che piange! - Glielo riporterete voi, sul carro - intervenne compare Cosimo. Cuddu si sentì stringere il cuore. E appro- fittando della confusione, mezz'ora appresso, sgattaiolando dallo stallatico, infilava una via, poi un'altra, lesto lesto, deciso di andare con le Squadre a Messina. Camminava come trasognato. Tutti i balconi ornati di bandiere tricolori; le vie piene di gente. Gruppi qua, gruppi là. Si fermava, stava un po' ad ascoltare quel che dicevano, seguiva una brigatella che accompagnava quattro o cinque della Squadra armati di fucili, con cappelli ornati di penne di tacchino o di gallo, e un fazzoletto a punta su le spalle annodato davanti, come lo portavano a Palermo i soldati di Garibaldi da lui veduti nella piazza attorno a la fontana con tanti santi di pietra, quali egli credeva che fossero le molte statue di cui era ornata. E, più andava avanti, più la gente si faceva fitta, accorrendo - egli se ne convinse - a vedere la partenza delle Squadre per Messina. Si fermò a una bottega di fornaio, per comprarsi una pagnotta; più in là comprò un po' di cacio da un salumaio; e, con questa provvista nelle tasche della giacchetta, poco dopo si trovava in una piazza ch'egli riconobbe per quella dove avea visto la donna sparare il cannoncino. Formicolava di gente che guardava in alto, verso il palazzo con parecchie bandiere ai balconi, da cui si affacciavano tanti signori che, di tratto in tratto, quando la banda là sotto riprendeva a suonare, davano il segnale di batter le mani, gridando: Viva l' Italia! Viva Garibaldi! Viva le Squadre! Le Squadre arrivavano; la folla si apriva per lasciarle passare. Arrivavano precedute da turbe di ragazzi; e le battute di mano e le grida riprendevano, assordanti. Cuddu si mescolò coi ragazzi. Gridava, batteva le mani anche lui, inebriato di tutto quel chiasso, contento di esser sfuggito alla sorveglianza di compare Cosimo e di essere arrivato in tempo per partire con le Squadre. Ora gli armati erano centinaia. Non avea visto nessuno di quelli di Ràbbato. Poteva andare avanti un bel pezzo, prima di ricercare compare Ignazio o qualche altro. E infatti fece così, andando sempre in testa alla colonna coi pochi ragazzi rimasti assieme con lui dopo che le Squadre avevano preso lo stradone fuori di città, tra i campi neri di lava, tra i vigneti, con una giornata di paradiso. A una voltata dello stradone, Cuddu si era fermato stupito, lasciando passare le Squadre che andavano alla rinfusa, a gruppi, cantando, fumando, ciarlando... Aveva sotto gli occhi uno spettacolo nuovo per lui: il mare che straluccicava, là, a pochi passi, invadendo la renia della riva, ritirandosi, tornando dolcemente all'assalto... Tutta quell'acqua gli metteva paura! Altro che il fiume! E, laggiù, barche che scorrevano su la superficie, sballottate, e ora pareva affondassero,

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Che cosa era il lenzuolo gonfiato dal vento attaccato a quell'antenna?... Più guardava e più si sentiva invadere da meraviglia e da stupore! Appena, di tratto in tratto, dava un'occhiata a quei della Squadra, che passavano zitti, sotto il sole, a piccole brigate. Parecchi facevano come aveva fatto lui: si sedevano, asciugandosi il sudore, accendendo la pipa o i sigari. Alcuni, avvicinatisi proprio fino al punto dove sbattevano gli sciaquii delle ondate, sparavano a certi uccelli bianchi che volteggiavano sul mare e andavano a posarsi senza sommergersi, come egli aveva visto fare alle papere nella vasca del Canzirro all'Albero bianco. - Cuddu! Figlio di buona donna, che tale è tua madre! Era la voce di compare Ignazio. Scopertolo, accorreva verso di lui, minacciandolo con la mano. - Come? Sei venuto fin qui? E ora? - Vengo a Messina. - Sei pazzo!... E tua madre? Cuddu si strinse nelle spalle. - Mia madre... Glielo dirà il carrettiere che mi ha visto da compare Cosimo. - Ma che! Ti pare che andiamo a spasso? Andiamo a fare alle fucilate. - Vengo a Messina! - piagnucolò Cuddu. - Sei pazzo, ti dico! Torna addietro, sempre per lo stradone. Va' da compare Cosimo! - Voi non vi siete più fatto vedere là... - Hai ragione. - Lasciatemi venire a Messina! Poi... - Questo stupido s'immagina che andiamo a ballare! - esclamò compare Ignazio, rivolgendosi ai compagni che si erano fermati a udire di che cosa si trattava. - Gli daremo il primo fucile che toglieremo a qualche spagnolo napoletano - fece uno. - Sai sparare? Cuddu stava per dire di sì. - No, ho scrupolo di coscienza di condurre un ragazzo al macello - soggiunse compare Ignazio. - Avanti! Avanti! All'ordine di colui che portava un berretto rosso con tre galloni dorati, i militi della Squadra si misero in marcia. Compare Ignazio abbozzò un gesto significante: - Che posso farci? - E si avviò anche lui. Cuddu, rizzatosi da sedere, gli correva accanto: - Datemi il fucile; ve lo porto io. E Cuddu marciò un bel pezzo tra le Squadre, col fucile in ispalla, quasi fosse stato un milite. E quando compare Ignazio glielo tolse, accorgendosi che il ragazzo era stanco, Cuddu si ricordò della pagnotta e del cacio che aveva nelle tasche, e cominciò a mangiare allegramente. Avevano passato la nottata, dopo un altro giorno di marcia, nei campi attorno a Barcellona. Prima dell'alba era suonata la sveglia e l'ordine di partenza. Le Squadre oggi procedevano più in ordine serrate, e nessuno cantava più... Dalle alture delle colline già si scorgeva Milazzo; se lo additavano. E laggiù, ancora lontano, si scorgeva un brulichio di gente... Erano i regi che venivano incontro alle Squadre e ai garibaldini arrivati il giorno avanti. Cuddu avea riveduto con gioia le camicie rosse. Tra queste doveva esserci quel giovane soldato che lo aveva condotto dal Generale, a Palermo, e che gli aveva detto: - Ricordati che hai avuto una carezza da Garibaldi! - Poi si era esaltato sentendo dire che c'era pure Garibaldi. Voleva rivederlo. Chi sa se Garibaldi lo avrebbe riconosciuto? Scendevano per viottole incassate tra muriccioli, tra siepi di fichi d' India, parte di qua, parte di là, con passi affrettati, con l'ansia sui volti di qualcosa di grave che stava per accadere. A un punto scoppiarono le prime fucilate, i primi colpi di cannone... Fu un rapido rovesciarsi, precipitarsi per le viottole scoscese, un invadere i vigneti, uno spiegarsi in catena, uno sbandarsi, pareva, per riunirsi più giù e serrarsi di nuovo in colonna. - Fermati qui! Non ti muovere! - urlò compare Ignazio, afferrando Cuddu per un braccio. - Non senti come fischiano le palle? Cuddu si addossò a un albero, e rimase là impietrito, mentre la fiumana dei garibaldini e delle Squadre precipitava verso la pianura... Erano già lontani, parevano tante formiche tra il fumo delle schioppettate e delle cannonate che glieli nascondeva alla vista, a intervalli. Nella pianura una nuvola nera, lampeggiante, correva, tornava addietro precipitosamente, riprendeva la rincorsa. Strizzando gli occhi, Cuddu poté capire che erano soldati a cavallo... Le camicie rosse fiammeggiavano al sole, sparavano contro i cavalli... Ma il fumo non permetteva a Cuddu di distinguere bene quel che avveniva... Una gran zuffa! Le cannonate non smettevano un minuto. Pareva spazzassero le viottole, dove, sùbito dopo, si riaddensava la gente che sparava, sparava, sparava... e s'inoltrava e guadagnava terreno. Cuddu non poté più star fermo lassù, solo solo, e prese a scendere per una di quelle viottole rimaste deserte. Sentiva il fragore delle cannonate e delle fucilate, ma i muriccioli, le siepi dei fichi d'India gli impedivano la vista. A una svolta, trovò due feriti che si fasciavano uno la gamba e l'altro il braccio. Più in là, tre morti stesi bocconi con le braccia aperte e la faccia tra la polvere insanguinata. Indietreggiò atterrito; poi passò via con un salto, senza voltarsi addietro. E scese di corsa, col cuore che gli batteva forte, incontrando altri morti, altri feriti, chiudendo gli occhi quando dovea passare per forza accanto ai morti, non dando retta a qualcuno dei feriti che gli gridava dietro: - Dove vai? Fèrmati! Dove vai? Improvvisamente udì un grido confuso, un rumore precipitoso di passi, un crepi tìo di schioppettate tra i fichi d' India e gli olivi; e fu travolto dalla turba di soldati che sbucava dalla siepe a sinistra, in disordine, per ripararsi dietro i muriccioli... Urli, bestemmie e un sùbito ripiegarsi, un tornare addietro rabbioso, come se la siepe di fichi d' India si fosse risucchiata tutta quella gente delle Squadre. Le palle fischiavano tra i rami, schiantavano branche di olivi. - Mamma mia! Mamma mia! - gemeva Cuddu. E chiamò: - Compare Ignazio! Quasi quegli potesse esser là e, tra quel gran frastuono, potesse udire la voce di lui piena di pianto. Sentì un forte colpo al fianco, proprio mentre un milite gli gridava: - Sta' fermo! - Gli si rannuvolarono gli occhi e stramazzò!

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Se dal sarto c'erano le seggiole con la spalliera, bisognava però starvi a sedere tutta la santa giornata, come su gli sgabelli di mastro Antonio; e questa idea dava i brividi a Cuddu, quasi mettendosi a fare il calzolaio o il sarto dovessero tagliargli le gambe. Intanto, per contentare momentaneamente la mamma, a don Pietro disse di sì. - Verrai domattina, di buon'ora. - Quando vorrà la mamma. - Per ora farai dei servizietti. S' intende, don Pietro - avea risposto comare Concetta. E la mattina dopo ella aveva fatto indossare a Cuddu il vestituccio rimediato alla meglio da un vecchio vestito del padre, e gli aveva fatto calzare le scarpe buone, che a lui, non abituato molto a portarle, sembravano un impiccio. Poi, segnatolo in fronte per benedirlo, gli disse: - Vuoi che ti accompagni? - So la strada. Aveva risposto cupo, accigliato, da insospettire la mamma. - Non farne una delle tue! Più tardi verrò a vedere se sei andato a bottega. Quasi le parlasse il cuore, povera donna! Prima di mezzogiorno infatti era andata a vedere. - Perché non è venuto? - le domandò don Pietro vedendola fermare su la soglia. - Oh, Dio! Dove sarà andato E guardava attorno per la bottega, mezza incredula. - Sarà andato a giocare - soggiunse don Pietro. - Verrà forse più tardi. Ma ella lo attese inutilmente fino a sera, davanti alla porta, con gli occhi alla via, chiedendone notizia ai vicini, ai passanti, mal frenando le lagrime e gli strilli che le facevano groppo alla gola.

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Era bastato che qualcuno avesse supposto che quel ragazzo, raccolto mezzo morto nella campagna di Milazzo, assieme con altri feriti, fosse stato là a battersi tra le Squadre, perché ognuno, raccontando il caso, vi aggiungesse un po' di frangia. Le signore messinesi, accorse ad assistere i feriti, si eran tutte accese di gran tenerezza per lui, e lo mostravano orgogliosamente, come una maraviglia, a quanti venivano a visitare l'ospedale e a portar regali di ogni sorta. Quando non ebbe più febbre e la ferita cominciava a rimarginarsi, egli vedeva attorno al suo letto quattro o cinque persone che lo guardavano con intensa curiosità, che gli domandavano: - Come stai? Ti senti meglio? - E soggiungevano: - Bravo! Ti sei meritato una medaglia! Bravo! Una medaglia? Cuddu veramente non capiva che cosa potesse significare una medaglia. Di medaglie egli conosceva soltanto quella di rame della Madonna, che era attaccata alla coroncina del rosario di sua madre. E per ciò non rispondeva niente, sorrideva come uno scioccherello. La gente, vedendolo sorridere così, pensava: - Non capisce nemmeno che è stato un eroe! A quell'età si è coraggiosi senza saperlo. Non ci si accorge del pericolo e gli si va incontro audacemente! Ora che gli avevano permesso di mettersi a sedere sul letto, appoggiato a parecchi guanciali, egli rammentava benissimo quel che gli era accaduto: il colpo al fianco, mentre stava per infilare la siepe di fichi d' India, e il dolore acutissimo, e gli occhi che gli si erano intorbidati... Era stata una palla!... Sentiva ora il terrore del pericolo corso e provava brividi per tutta la persona. - Compare Ignazio dov' è? - domandava. Quasi coloro che stavano là, specialmente le signore, potessero conoscerlo a dargliene notizia. - Chi è cotesto compare Ignazio? - rispondeva una signora premurosamente. - Il mio paesano, quello della Squadra. E, per acchetarlo e confortarlo, la signora soggiungeva: - Verrà, lo faremo cercare. Sta' tranquillo. Venne infatti, ma per caso, una mattina. Aveva inteso parlare anche lui di un ragazzo di dodici anni, ferito mortalmente combattendo tra le Squadre; ma non gli era passato per il capo che potesse trattarsi di Cuddu. Lo avea lasciato in cima alla collina ordinandogli di non muoversi di là; poi non aveva saputo più niente. E in certi momenti sentiva rimorso di non averlo costretto a tornare addietro quando lo aveva scorto seduto sul ciglione a poche miglia da Catania. Per le vie di Messina, aggirandosi tra la folla, egli lo aveva cercato con gli occhi, lusingandosi d'incontrarlo, e avea raccomandato agli altri suoi compagni paesani: - Se lo vedete, prendetelo per un orecchio e conducetelo in caserma! - Stava in pensiero anche per uno di quei di Ràbbato che gli era caduto a fianco, ferito a una guancia da una palla, senza che egli avesse potuto soccorrerlo perché in quel momento la mischia era calda e ognuno doveva pensare a sparare, e alla propria pelle; alla guerra è così. Quella mattina gli era stato detto: - Credo che il tuo paesano si trovi all'ospedale, se pure non è morto; là muoiono come le mosche. Ed era andato, e girava per le corsie, guardando a uno a uno i feriti. C'erano corsie senza letti, con strame per terra. Qualcuno dei feriti era morto, e nessuno se n'accorgeva. Egli continuava la ricerca, con un triste presentimento nell'animo. - Se pure non è morto! - aveva detto colui. E rimase, sentendosi chiamare da lontano: - Compare Ignazio! Compare Ignazio! - Tu! Gli vennero le lacrime agli occhi e si precipita ad abbracciare Cuddu, che scoppiava in pianto, balbettando: - Oh, compare Ignazio! - Che cosa è stato? Che cosa è stato? - Non lo affaticate facendolo parlare. Non vedete com' è commosso? - Scusi, signora... - Ve lo dirò io : si è battuto, è stato ferito... È vivo per miracolo. È vostro parente? - Paesano. - Potete esserne orgoglioso. Si è fatto onore; avrà una medaglia. Compare Ignazio non credeva ai suoi orecchi. - Ti sei... battuto?... Possibile? Com' è stato? Che hai fatto? Cuddu, a cui riusciva oscuro il significato di quelle parole: - Ti sei battuto? - spalancava gli occhi in viso a compare Ignazio, sorridendogli col solito sorriso da scioccherello che gli veniva alle labbra ogni volta che egli non capiva quel che gli domandavano. - Com' è stato? - insisteva compare Ignazio. - Non lo fate affaticare parlando; i dottori non vogliono. - Scusi, signora mia... E si voltò a un gran rimescolìo che avveniva in fondo alla sala. - Il Generale! Garibaldi! Il Generale! - correva di bocca in bocca. Tra i dottori, le signore e un séguito di camicie rosse, Garibaldi si fermava davanti a ogni letto, interrogava i feriti, diceva una buona parola, dava una stretta di mano. Parecchi feriti laggiù si erano rizzati a sedere sul letto, gridando: Viva Garibaldi! Cuddu accennò a compare Ignazio di farsi da parte. Aveva cessato di piangere; il viso, pallido per le sofferenze, gli si era improvvisamente acceso di viva fiamma ; gli occhi gli brillavano e sorridevano assieme con le labbra. - Lasciatemi vedere! - Non ti agitare; verrà anche da te! - gli disse la signora. - Io lo conosco; gli ho portato una lettera! - balbettò Cuddu, battendo le mani dalla gioia. La signora, che era tra quelle che più si erano affezionate a Cuddu per l'età, si sentiva già presa da forte commozione. Avrebbe visto Garibaldi da vicino! Gli avrebbe parlato! Lo aveva intravisto soltanto da lontano, dal balcone di casa, il giorno che il Generale era entrato a Messina, dopo la vittoria di Milazzo. E lo diceva al paesano di Cuddu con voce alterata dall'emozione. Un ferito, due letti più in là, aveva preso la mano del Generale e gliela baciava, tenendola stretta fra le sue, e gliela ribaciava, bagnandogliela di lagrime di riconoscenza e di gioia. Garibaldi sorrideva, gli diceva certamente belle parole, perché il ferito riprendeva a baciargli la mano con più forza, e non sapeva risolversi a lasciargliela libera. A piè del letto di Cuddu, il Generale si era fermato quasi dubitando che anche quel ragazzo potesse essere uno dei feriti. Cuddu credette che lo avesse riconosciuto e, togliendosi vivacemente il berretto bianco, articolò con un fil di voce: - Voscenza benedica! - Ferito al fianco, a Milazzo... Ha tredici anni! - si affrettò a spiegare la signora. - È in via di guarigione? - domandò il Generale, - È fuori di pericolo - rispose la signora. - Come ti senti? Sei stato bravo! - soggiunse il Generale, accostandosi al capezzale e accarezzando affettuosamente la testa del ragazzo. - È uno dei picciotti... Anche voi siete delle Squadre? - domandò a compare Ignazio, che si era messo sull'attenti e respirava appena. - Eccellenza, sì!... Questi è mio paesano. - Vi ho portato una lettera a Palermo - disse Cuddu rincuorato. Garibaldi stette un istante pensoso, quasi cercasse di ricordarsi. - Mi mandava mastro Sidoro - riprese Cuddu. - Lo mandò il Comitato. Alla dilucidazione di compare Ignazio il Generale accennò lievemente col capo e sorrise. - Come ti chiami? - Cuddu. - Domenico Costa - corresse compare Ignazio. - Di che paese? - Da Ràbbato, provincia di Catania. - Prendete nota - disse il Generale rivolto a uno del suo séguito. - Come avete detto? - domandò questi a compare Ignazio. - Domenico Costa, da Ràbbato, provincia di Catania. Ma, appena Garibaldi si fu allontanato, compare Ignazio, che non sapeva spiegarsi come Cuddu fosse stato ferito e non poteva affatto credere che si fosse battuto coi soldati borbonici, tornò a domandargli: - Com' è stato? Che hai fatto? - Niente - rispose Cuddu. Intervenne la signora: - Ora zitto! Ricòricati! Lo aiutò maternamente a rimettersi sotto la coperta, togliendo via parecchi guanciali, e: - Lasciatelo tranquillo - raccomandò a compare Ignazio. - Quella poveretta di tua madre!... Le faccio scrivere! Tornerò domani. E compare Ignazio uscì dall'ospedale, gesticolando come chi non arriva a spiegarsi quel che ha veduto e sentito. In verità Cuddu non avea fatto nulla da farsi scambiare per un eroe. E ora, dopo parecchi anni, ora che lo chiamano Mastro Cuddu, o meglio col nomignolo di Gambalesta, perché fa il manovale e anche l'espresso quando a qualcuno occorre di dover spedire una lettera d' importanza e avere sùbito la risposta, se gli domandano dei fatto di Milazzo, egli fa una mossa di compatimento. Non vuole ingannare la gente e farsi prendere per quel che non è stato, quantunque, per un anno, avesse indossato la camicia rossa, con la medaglia attaccata sul petto, e Garibaldi fosse rimasto un sacro ricordo per lui. Spesso, però, pensando alle sue scappate di ragazzo, rimpiange: - Se avessi dato retta alla mia povera mamma, ora non farei questo mestieraccio! Suol dire anche: - A questo mondo ci vuol fortuna! Mi hanno dato la medaglia, chi sa perché? Tanti altri, che forse se la meritavano davvero, non l' hanno avuta. Accade spesso così, pur troppo! Il nomignolo di Gambalesta, questo, sì, me lo merito e ci tengo. Guadagno più pane con le gambe che con le braccia! Si vede che il Signore mi ha fatto a posta per correre qua e là, e per portar sassi e calcina. Sia fatta la volontà di Dio! O forse Domineddio mi ha castigato perché ho disobbidito alla mamma!

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Cuddu cominciava a pentirsi della sua scappata, anche perché sentiva in fondo allo stomaco un certo languore a cui non vedeva in che modo riparare. Scese però ancora più giù, dove sul letto lisciato dalle acque scorreva un ruscello limpidissimo, che si apriva in larghe conche di tratto in tratto. Due ranocchi all'orlo di una di quelle conche attirarono l'attenzione di Cuddu. Si accostò adagino adagino, si mise carponi, si trascinò fino al punto dove i ranocchi stavano immobili con le teste fuori dell'acqua, gli occhi verdi a fior di pelle che guardavano intenti, e stese lentamente la mano per afferrare il più vicino. - Ohè!... Che fai? Cuddu balzò in piedi, atterrito da quella voce che veniva dal lato opposto, quasi fosse uscita dall' interno della roccia. Guardava ansioso, ma non vedeva nessuno. - Che fai? - replicò la voce. E Cuddu spalancò gli occhi scorgendo quella testa di ragazzo affacciata a un'alta buca mezza

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Cuddu attese, impietrito, col cuoricino che gli batteva forte, con l' immaginazione turbata dai ricordi di apparizioni di nani e di personaggi fatati narrategli dalla mamma quando egli stentava ad addormentarsi nelle cattive serate invernali, mentre pioveva a dirotto e il vento, ululando, scoteva la porta e l' imposta della finestra. Visto apparire su la sporgenza a piè della roccia il ragazzo che gli aveva rivolto la parola dall'alto della buca, Cuddu avrebbe voluto scappar via, non potendo ormai più dubitare che colui fosse un nano fatato. Come stava dentro la roccia e come ne usciva senza che sii vedesse di dove fosse sbucato? Saltando speditamente da un masso all'altro di quelli che ingombravano il breve spazio tra la roccia e il ruscello, quel ragazzo gli si era avvicinato squadrandolo da capo a piedi. - Che fai? - tornò a domandargli. - Niente... Volevo prendere un ranocchio. Sono tuoi? Il ragazzo si mise a ridere. - Di nessuno e di tutti - rispose. E, vedendolo timido e impacciato, gli domandò: - Dove vai? Hai sbagliato strada? - No. - O dunque? Cuddu cominciava a rassicurarsi. Quel ragazzo mal vestito, scalzo, in maniche di camicia, era troppo simile a lui da poter crederlo uno dei personaggi delle fiabe udite raccontare dalla mamma. Ma per accertarsene gli domandò: - Che facevi lassù? - C'è la nostra grotta; abitiamo là. Vuoi vederla?... Mio padre è con le pecore in fondo alla vallata; torna la sera... Là è la mandra... Facciamo la ricotta e il cacio... Ti piace la giuncata?... Non sei riuscito a chiapparlo quel ranocchio... Dove vai? Il ragazzo continuava a parlare vedendo che Cuddu lo guardava senza neppur fargli un cenno col capo in risposta alle tante domande. - Dove vai? - replicò. - Sono scappato di casa mia - disse Cuddu quasi piangente. - Perché? - Mia madre vuol farmi sarto per forza. - Che vorresti essere? - Niente. Tu che fai? - Il pecoraio, come mio padre. So già mungere. Vuoi vedere la capra che ha figliato questa notte? - Sì. Il ragazzo si mosse, saltando sveltamente da un masso all'altro, mentre Cuddu girava attorno ad essi, arrampicandosi con fatica dove lo spazio era così stretto da non potervi mettere il piede. Sotto la roccia, un comodo passaggio conduceva alla mandra, che s'internava in una specie di grotta chiusa da un muricciolo a secco, su l'orlo del quale erano posati fasci di rami spinosi per impedire che le pecore saltassero fuori. La capra, in un angolo, allattava due capretti che pareva si reggessero male su le esili gambe. - Fra venti giorni, li ammazzeremo e li venderemo. - Poverini - esclamò Cuddu. - Ammazziamo anche gli agnelli; parecchi. - Di chi sono? - Del padrone. Cuddu si accorse della buca di dove era uscito il ragazzo venendo giù. Vi era murata una porticina. - A quest'ora la tua mamma ti cerca - gli disse il ragazzo. - Tornerai a casa questa sera?

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A ogni quattro o cinque, cangiavano direzione da destra a sinistra, da sinistra a destra, con larghe cavità nei lati, che si scorgevano meglio di mano in mano che si saliva, per via della luce proveniente dall'alto. Cuddu fu meravigliato vedendo che la buca, sembratagli da giù piccolissima, era più larga di un finestrone. La grotta gli parve immensa. Dalle pareti annerite dal fumo pendevano arnesi di ogni sorta. In un angolo, due giacigli di strame con coperte di lana. Per terra, all'angolo incontro, parecchie forme di cacio sparse di sale, una vecchia cassa senza coperchio; nel centro, sur un masso quasi quadrato, un boccale, un fiasco e poche scodelle di terracotta non verniciata. Cuddu osservava attentamente ogni cosa, chiedeva spiegazioni. - Ecco la ricotta di questa mattina - disse il ragazzo. - Ne vuoi? - Senza pane? - Ti darò una fetta di pane. Hai fame, è vero? - Un pochino. Il ragazzo tolse dalla cassa una grossa pagnotta, ne tagliò due belle fette, vi stese sopra col coltello un denso strato di ricotta, e si mise a man giare anche lui. - Ed ora che fai? Tua madre starà in pena. Cuddu non rispose. Pensava appunto alla sua mamma e i bocconi di pane con la ricotta gli andavano giù stentatamente. Si ricordava che un mese addietro la sua mamma aveva comprato da un pecoraio un cavagnino di ricotta fresca; e per farlo star cheto a riempirle i cannellini dell'ordito, poveretta, lo aveva dato a mangiare quasi tutto a lui a colazione e a desinare... E lui intanto ora avea fatto la mala azione di scappare di casa! - Perché mi vuole sarto per forza? - rispose Cuddu tardivamente, sforzandosi di vincere l' intenerimento che lo invadeva. - Fa' il mestiere di tuo padre. - Mio padre è morto da un pezzo; non l' ho conosciuto. Era salnitraio, mi ha detto la mamma. Si udì il rimbombo di un colpo di fucile, seguìto quasi immediatamente da un altro. - Senti l'eco? - disse il ragazzo. - Ha sparato compare Nunzio il cacciatore, e son parsi due colpi. La roccia risponde, come se là dentro ci fosse una persona che fa il verso... Ha ammazzato un coniglio compare Nunzio. Ce n'è tanti tra le fratte. Si udiva l'abbaio di un cane, lontano, e pareva che un cane gli rispondesse dalla parte opposta. - Senti l'eco? Vieni, ci divertiremo. Usciti all'aperto, il ragazzo condusse Cuddu di fronte alla roccia sotto un ulivo. Era la prima volta che Cuddu, udiva l'eco, e ne aveva paura. Il ragazzo chiamava, e quello rispondeva. Cuddu non sapeva persuadersi che dentro la roccia non ci fosse nessuno. - Come avviene? domandò. - Uh!... Dicono che c'è un'anima condannata a rispondere le parole che sente. - Chi l' ha condannata? - Il Signore... È vero? - gridò il ragazzo. - È vero! - rispose l'eco. Cuddu rimase stupito.

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Pino, messosi a rincorrere grilli e farfalle, gli raccontava intanto che andava anche lui, assieme col padre, dietro le pecore al pascolo. Questa volta però era rimasto alla mandra per guardare la capra figliata e darle da mangiare. Poi scesero al ruscello, chiapparono due ranocchi, si divertirono a vederli saltellare, li rituffarono nell'acqua cercarono nidi tra le macchie, tirarono sassate agli sgriccioli che svolazzavano tra i rami di un mandorlo. E Cuddu non avrebbe pensato più alla sua scappata, se Pino non gli avesse detto: - Verso sera pioverà. Ti bagnerai tornando al paese. Infatti le nuvole si addensavano dalla parte di ponente e sembrava sbucassero leste di cima alla roccia. Cuddu disse: - Me ne vado. Esitò; poi riprese ad andar dietro a Pino, che inseguiva a sassate una lucertola e gli additava altre grotte della roccia dove si poteva entrare scendendo di lassù, ma col pericolo di rompersi il collo. Vi andava lo zi' Mèusa che, attaccato ad una fune retta dai due uomini, prendeva palombini selvatici e nidiate di mulacchie e di falchetti da empirne un corbello. E così Cuddu si era indugiato fino a che le prime goccie di pioggia cominciarono a venir giù e s' ingrossarono e s' infittirono da costringere lui e Pino a rifugiarsi nella grotta. Più tardi, a sera avanzata, Cuddu se ne stava accoccolato in un cantuccio, col cuore piccino piccino, mangiando svogliatamente un po' di pane e cacio, mentre il padre di Pino e compare Nunzio il cacciatore, venuto a ricoverarsi colà, fatta una gran fiammata presso la buca, perché il fumo andasse fuori, si asciugavano i vestiti inzuppati di acqua, discorrendo di caccia.

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si ficcano nella tana - egli spiegò a Cuddu, che si era tirato da parte, temendo che l'animale potesse sfuggir di mano al cacciatore. - Non morde - soggiunse Pino. - E ora andiamo! - disse compare Nunzio a Cuddu. - Mettiti a tracolla la carniera da un lato e la gabbiola del furetto dall'altro. Non pesano. Vediamo se mi porti fortuna. Ieri, in tutta la giornata, ho ammazzato soltanto un coniglio e una tortora... Rimbóccati i calzoni. Il cane andava avanti, compare Nunzio dietro, e a pochi passi da lui Cuddu, un po' impacciato dalla carniera e dalla gabbiola del furetto. Compare Nunzio se n'accorse e gli accorciò le cigne di esse. Così Cuddu poté seguirlo svelto tra le macchie, pei sentieroli della vallata che salivano e scendevano mezzi nascosti dalle erbe ancora bagnate dalla pioggia. Lampo, il cane, fiutava, frugava scodinzolando, abbaiando a scatti, quasi sottovoce, e il padrone spiava qua e là, col fucile in mano. Cuddu lo guardava, pronto a turarsi gli orecchi appena glielo avrebbe visto inarcare. Ed ecco Lampo che si agita, che si avventa addosso a una macchia e insiste; ed ecco compare Nunzio che con una mano accenna a Cuddu di fermarsi... Il colpo era partito prima ch'egli potesse turarsi gli orecchi; e il cacciatore, in due salti, aveva già raccolto la preda: un coniglio di pelo rosso, che dava gli ultimi tratti. - Prendi, mettilo nella rete della carniera. Cuddu non osava. Il povero animaletto che si dibatteva, insanguinato, nelle strette dell'agonia, lo aveva talmente impietosito da farlo impallidire e fargli venire le lacrime agli occhi. Sciocco!... Hai paura? Non si move più... Cristo! E compare Nunzio, buttato il coniglio per terra, accorreva verso il punto dove Lampo, col corpo mezzo ficcato nella densa macchia che copriva la costa, abbaiava. Tenendo inarcato il fucile, egli lo incitava con gridi gutturali, sporgendo la testa per guardare da tutti i lati onde il coniglio insidiato poteva sbucare, e Cuddu con l' indice delle mani si comprimeva gli orecchi per non udire il botto. - Ehi!... Lampo!... Addosso! Compare Nunzio era balzato sur un masso, col calcio del fucile accostato alla gota, pronto a sparare. Lampo investiva la macchia saltando ora da una parte, ora dall'altra, abbaiando, ringhiando... Bum! A Cuddu parve di sentirsi la fiammata su la testa e si buttò per terra. - Mamma mia! - Grullo! - gli gridò compare Nunzio. - Qua, Lampo! E Lampo accorreva col coniglio tra i denti, altero della preda, sbalzando sulle quattro zampe, scherzando col padrone col far le viste di non volergliela cedere. - Ah! Sei tu! - esclamò compare Nunzio riconoscendo il coniglio, da esperto cacciatore. - Oggi però non sei riuscito a farmela!... Senti come pesa! Cuddu sorrise mentre compare Nunzio, ficcando il coniglio nella rete della carniera, gli diceva: - Giacché non vuoi fare il sarto, impara questo mestiere. Più in su, la vallata si allargava ancora, e l'inoltrarsi diveniva difficile, tanto le macchie, gli arbusti e le erbe ingombravano il terreno. Di lassù Cuddu vedeva la mandra e le vampe e il fumo della legna sotto la caldaia di rame dove il pecoraio faceva bollire il latte. - Dopo, andremo a mangiare la zuppa col siero. Gireremo da quella parte. Sei stanco? - No! - rispose Cuddu, che però si sentiva un po' indolenzite le spalle dal peso della carniera e della gabbiola del furetto. Lampo si era allontanato: fiutava, frugava e

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Un tronco d'albero, buttato a traverso le due sponde, serviva da ponticello. Compare Nunzio, preso Cuddu per una mano a sorreggerlo, tornò a domandargli: - Sei stanco? E, alla risposta negativa di lui, soggiunse: - Ti diverte la caccia? Bisogna aver gambe di acciaio. - Oh!... Per questo!... - fece Cuddu. E, rasentando le basi della roccia, si trovarono da lì a poco davanti a la mandra. - Hai già ammazzato due conigli? Capperi! - disse a Cuddu il pecoraio, ridendo. Le scodelle del siero col pane in molle erano pronte. Il pecoraio però, che aveva fretta di condurre le pecore al pascolo, preso in mano il bastone, cacciava fuori la mandra belante, mentre dava gli ordini a Pino intorno a quel che doveva fare nella giornata. - Buona caccia, compare Nunzio! - Vi saluto, compare. Se avete comandi pel paese... - Grazie... E tu, panperso, questa sera a casa! Chi sa come piange la tua povera mamma! Lasciategliele dare quattro scoppole, compare Nunzio. Gli faranno bene. Cuddu cessò di mangiare. Pino gli disse: - Non aver paura. Compare Nunzio non ti farà toccare neppure con un dito. È vero, compare? - Purché prometta di non scappar più! - Non scapperò più! - rispose Cuddu in tono lamentoso. - Andiamo ora ad ammazzare due palombi selvatici. Uno lo porteremo alla tua mamma. E uscirono fuori scendendo per l'altro lato della vallata. I piccioni volavano a stormi di cinque, di otto e più, e sembrava che avessero predilezione per un carrubo su cui si fermavano volentieri andando e venendo; uno stormo partiva all'arrivo dell'altro, quasi fossero d' intesa. Compare Nunzio, invece di andare difilato verso il carrubo, girò di fianco, tra gli ulivi, tra i grossi macigni staccatisi chi sa quando dalla roccia e arrestatisi a mezza costa. Tutto quel tratto era anche pieno di àgavi americane col fusto liscio, ritto e fiorito in cima a forma di ombrello, con le grosse foglie grigiastre filettate di bianco, rovesciate e armate di neri spuntoni. E cautamente, in mezzo agli ulivi e alle àgavi, compare Nunzio e Cuddu erano arrivati dietro il carrubo. Lo stormo dei piccioni posato sui rami volava via al loro appressarsi. Un altro stormo che stava per sopraggiungere, forse avvisato del pericolo dai compagni scappati, torceva il volo in direzione opposta. - Bùttati per terra e non ti muovere - disse a Cuddu compare Nunzio, mentre egli si addossava al tronco attendendo l'arrivo di qualche altro stormo. - Sono maliziosi i palombi selvatici! - brontolò

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E si rallegrava che i palombi selvatici non si accostassero al carrubo, quasi compare Nunzio dovesse decidersi per questo a passare un'altra nottata e un'altra giornata colà. I palombi invece, tornando in denso stormo da lontano, vennero poco dopo ad abbattersi sui rami frondosi, e il fucile a due canne tonò, colpendone quattro. Caddero, spandendo molte penne per l'aria, con gran soddisfazione di compare Nunzio che li raccolse. E, pesandoli a uno a uno con la mano destra prima di metterli nella rete della carniera, egli disse a Cuddu: - Questo, il più grosso, sarà per tua madre. Su, marcia! Come se con questa parola compare Nunzio gli avesse stroncato le famose gambe! Così a stento Cuddu lo seguiva per la salita, quantunque quegli lo avesse sbarazzato della carniera e della gabbiola del furetto. Quando apparvero sul colle le prime case di Ràbbato, suonava l'avemmaria. Cuddu faceva sforzi per non mettersi a piangere.

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- La risposta me la porterai a casa questa sera. Se c' è qualcuno da me, mi dirai: - Compare Sidoro, mi manda la mamma per quel che sapete. - So io come debbo poi fare. Via: e non fermarti per strada; è meglio che arrivi tu prima del vecchio. Cuddu era partito zufolando, con cert'aria d'importanza; e lungo lo stradone si ripeteva le parole di compare Sidoro: - Sei tu quello delle fave? - Sissignore. Le volete? - E si tastava in petto, per accertarsi che la lettera fosse là. Tastava anche in una tasca la fetta di pane, e nell'altra le olive nere salate, indeciso se dovesse mangiarle prima di arrivare lassù, in cima alla collina, o dopo aver trovato il vecchio, al ritorno. Vicino all'Albero bianco era stato raggiunto dal Canzirro, che trottava su la mula, diretto alla masseria. - Dove vai?... Sei scappato di casa? Cuddu si trovò imbrogliato nel dar la risposta: - Mi ha mandato la mamma - balbettò. - Da queste parti? Vieni alla masseria piuttosto; ti darò un involto da portare a casa mia, e così avrai una scusa. Dici anche le bugie! Cuddu lo lasciò passare. Il Canzirro, che prendeva la scorciatoia, si voltò indietro gridandogli: - Vieni o non vieni? - Più tardi - rispose Cuddu. E continuò ad andare avanti, affrettando il passo per nascondersi alla vista del Canzirro che gli accennava: - Vieni! - con la mano. Passato l'Albero bianco, ecco compare Nunzio che sbucava da una viottola preceduto dal cane. - Sei tu, pendaglio da forca? Scappato di nuovo? - No, compare Nunzio... Mi ha mandato la mamma. - Dove? - Lassù. - Perché? - ... Per la tela.... Domani taglia la tela... - Guardami bene negli occhi... - Vi giuro!... - Non vuoi metter senno? Tua madre dovrebbe romperti le ossa! Cuddu, stizzito di non esser creduto, - poteva dire dove andava, dopo le raccomandazioni di compare Sidoro? - cavò di tasca la fetta di pane, e la mostrò al cacciatore: - Vedete: mi ha dato anche la colazione. E mostrò pure le olive. - Buon appetito! Io prendo per qua - disse compare Nunzio. Cuddu, poiché si trovava in mano il pane e le olive, pensò bene di mettersi a mangiare, procedendo con salti e sgambetti, finché non ebbe terminato. Lo stradone montava a zig-zag. Temendo di essere in ritardo, Cuddu si arrampicava per le scorciatoie, zufolando, prendendo di tratto in tratto qualche sasso per lanciarlo contro un albero, contro un uccellino posato sul ramo di un mandorlo, contro qualche cespuglio di erbe selvatiche cresciuto solitario nel terreno brullo; e fu meravigliato di trovarsi lassù, di faccia al casolare senza tetto, anche prima di accorgersi che quella raggiunta, salendo per le scorciatoie, era l'ultima svoltata dello stradone. Il vecchio stava là, accoccolato sulla soglia del casolare senza tetto, col bastone fra le gambe e le mani sui ginocchi. Cuddu si accostò quasi timoroso. - Sei tu quello delle fave? - Sissignore... Le volete? Il vecchio girò lo sguardo attorno; e, quando fu sicuro che nessuno poteva vederli, rispose: - Sì, dammele.

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Mentre Cuddu cavava dal petto la lettera, il vecchio ricercava la sua in fondo a una sacca deposta là accanto, e gliela metteva dentro lo sparato della camicia con le proprie mani. - Bada di non perderla! Cuddu fece una mossa orgogliosa con la testa, che significava: - Per chi mi avete preso? Era soddisfatto di aver bene adempito l'incarico ricevuto. Gli sembrava di aver compiuto una gran cosa, un atto importante, con tutto quel misterioso cerimoniale di domanda e risposta, e la lettera nascosta in petto sotto lo sparato della camicia. La lettera consegnatagli dal vecchio era più grossa dell'altra portata da lui, e aveva quattro bolli rossi che, nel camminare, gli pungevano la pelle con le slabbrature della ceralacca. Avrebbe voluto fermarsi, e rivoltare la lettera dalla parte opposta dove non erano suggelli; ma la paura di poter essere veduto da qualcuno gl'impedì di farlo. - Un'altra volta - pensava - la metterò pel giusto verso. - E sgambettava allegro, sbocconcellando il po' di pane rimastogli e le ultime quattro olive. Quando fu presso la masseria del Canzirro, esitò: - Devo andare? - disse a voce alta, quasi chiedesse consiglio a qualcuno. Vedeva, tra gli alberi, il caseggiato della masseria, a mezza costa, e i buoi che pascolavano su per la collina, e le mule legate alla mangiatoia a fianco della grande porta di mezzo, spalancata su la facciata grigiastra tutta inondata di sole. Gli uomini andavano e venivano per la spianata portando fasci di legna dentro; si udiva, a intervalli, la voce del Canzirro che dava ordini. Il bovaro, seduto sotto un albero, sonava lo zufolo di canna. Il sole dardeggiava dall'alto; doveva già essere mezzogiorno. Cuddu stette un po' a guardare, esitante ancora; poi si decise. - Mi regalerà qualche cosa - pensò. E infilò la scorciatoia. - Dove sei stato? - gli domandò il Canzirro, vedendolo spuntare. - Lassù - rispose Cuddu, additando la collina di rimpetto. - Ti sgranchi le gambe? E la tua povera mamma che ti aspetta! - Ma non mi aspetta; sa dove sono andato. - Dove? - Lassù, fino all'altro stradone. - E perché ci sei andato? - Perché... - Basta; te la vedrai con tua madre. - Datemi il fagotto; lo lascerò a casa vostra passando. - Prendi prima un boccone; ti metterai in forze; il fagotto è pesante. Cuddu era allegro per via, quantunque il fagotto pesasse davvero. Zufolava, canticchiava, pensando ai due tarì di argento che si era guadagnato, e a quelli che avrebbe presi la settimana appresso: dieci tarì in un mese! E strizzava l'occhio. Dieci tarì gli sembravano somma enorme. Trovò compare Sidoro che pareva leticasse con quattro persone; discorrevano di affari, di gabelle, di arature, e lui diceva sì, e gli altri no... Cuddu si era fermato su la soglia della merceria, posando a terra il fagotto, aspettando che compare Sidoro si accorgesse della sua presenza, perché in quel momento quegli stava con le spalle rivolte alla porta, e gesticolava e gridava. - Che vuoi? - gli domandò uno di coloro, vedendolo stare in ascolto. - Compare Sidoro, - disse Cuddu - mi manda la mamma, per quel che sapete. - Ah!... Con permesso. E lo fece entrare nel retrobottega, dietro la tendina di mussola rossa. - L'hai trovato il vecchio? - Sì; ecco la lettera.

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E, tornato a casa, raccontò tutto alla mamma. Quel mistero intrigava la poveretta: - Purché non accada niente di male! Cuddu, all'ultimo, fece un bello sgambetto, girò su d'una gamba, e: - Piripì!... Due tarì alla settimana!

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Lo aveva incontrato due volte anche don Giovanni il capo-birro, che tornava chi sa da che posto, col fucile a bandoliera e le pistole ai fianchi, scalmanato, col berretto gallonato su la nuca e la pipa in bocca. - D'onde vieni? - Di lassù. - Che sei andato a fare? - Mi ha mandato la mamma. - Da chi? - Da uno... pel lino da filare. - E non te l'ha dato? - Non me l'ha dato. - E che ci hai lì? - Dove?

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. - Ti manda a rubare, tua madre? - Che dovrei rubare? - Se ti colgo!... Cuddu riferì l'incontro a compare Sidoro. - Avevo paura che mi frugasse - soggiunse. - Birraccio!... Ne hai per poco! - si era lasciato scappar di bocca compare Sidoro, quasi parlasse a colui. - Lo levano da capo-birro? - E tu gli dovrai sputare in viso! - Eh, sì! Mi mette in carcere! Compare Sidoro crollò il capo, sorridendo. Il mercoledì appresso, prima di consegnargli la lettera, egli disse a Cuddu: - Lèvati una scarpa e una calza. Gli mise egli stesso la lettera tra la pianta del piede e la calza. - Se t'incontra quel birraccio e ti fruga in tasca, resterà con un palmo di naso. E quando fu lassù, e l'omo dalla barba nera e dal cappottone di albagio fece atto di cavargli dal petto la lettera, Cuddu gli disse: - L'ho qui - additando il piede. - Perché questa novità? - Per paura che il capo-birro non me la ritrovi, se mai mi frugasse. - Chi l'ha detto?

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Dice che vado a rubare. - Birraccio infame! - brontolò quegli. - Le pagherai tutte insieme! Cuddu non sapeva spiegarsi perché compare Sidoro e quell'uomo ce l'avessero contro costui; e, rimettendo l'altra lettera tra la pianta del piede e la calza e infilandosi la scarpa, cominciava ad aver paura di un nuovo incontro con don Giovanni il capo-birro. - E se mi dicesse: Lèvati la scarpa e la calza? - Non è lo Spirito Santo, da indovinare. Va' là! Comare Concetta era contentissima ogni volta che Cuddu le portava i due tarì guadagnati, tanto più che compare Sidoro avea regalato al ragazzo un paio di scarpe usate di uno dei suoi figli, che con la semplice risolatura eran tornate quasi nuove. Ella stava però in gran pensiero fino a che non lo vedeva ritornare, dopo che Cuddu le aveva raccontato la storiella della lettera riposta tra la pianta del piede e la calza. Tante precauzioni le facevano fantasticare brutte cose e pericoli pel ragazzo e per lei. Perché compare Sidoro non mandava un uomo o uno dei suoi figli, o non andava lui stesso? Si trattava certamente di cose gravi, chi sa di che pasticci, se aveva paura dei birri, che, infine, facevano male soltanto ai ladri e agli assassini, a coloro che avevano a spartire con la giustizia. E le sue apprensioni e i suoi timori si accrebbero la sera che Cuddu le raccontò: - Oggi compare Sidoro non mi ha dato la solita lettera, ma due belle pagnotte e una gran fetta di cacio. Mi ha detto: questa con la crocetta sotto la darai a quell'omo; l'altra, la mangerai tu. E l'ho mangiata. - E che ha detto quell'omo? - Niente. Ha spaccato la pagnotta... La lettera era là dentro, avvoltolata come un cannellino. Sarebbe stata bella che quell'omo l'avesse mangiata! - soggiunse Cuddu ridendo. - Lo sapeva, giacché l'ha spaccata. E questo la impressionò di più. La impensieriva anche il cattivo tempo; pioveva da tre giorni, come in pieno inverno. E compare Sidoro intanto avea voluto che Cuddu fosse andato non ostante la pioggia. Poi, una mattina, aprendo la porta per andar via, Cuddu aveva esclamato allegramente: - O mamma, ha nevicato e nevica! A Ràbbato la neve vien giù raramente, ed è una festa il giorno che si vede lo spettacolo di tutte quelle farfalline bianche tremolanti per l'aria che scendono scendono a stendere un velo bianco per le vie e sui tetti. Doveva aver nevicato tutta la notte perché la neve era un po' alta; e con- tinuava a nevicare a piccole falde, tranquillamente. - Non andrai oggi; è impossibile - disse la mamma. - Bisogna avvertire compare Sidoro. - Prendi la mia mantellina vecchia. Cuddu si ammantò su la testa la mantellina di panno, tirandone le falde accosto al viso, come le donne, e uscì saltellando su la neve soffice che gli si schiacciava sotto i piedi. - Hai paura della neve? - gli disse compare Sidoro. - Io non ho paura; la mamma però non vuole. - Andrai lo stesso; ti darò un ombrello. Ma già la mantellina ti serve meglio. Ecco le due pagnotte. - E se mi incontra?... - Chi? Il capo-birro. Con la neve non va attorno. Invece, proprio a cento passi dall'Albero bianco, il pioppo quella mattina non aveva bianche le foglie soltanto da una parte, e sembrava coperto di bambagia - Cuddu vide venirsi incontro don Giovanni il capo-birro e altri due birri, armati come lui, che conducevano ammanettati due poveri diavoli, un giovane e un vecchio; ed erano

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I tre birri portavano i fucili a bandoliera, ma col calcio in su perché la neve non penetrasse nelle canne. Cuddu si era tirato da parte per lasciarli passare. Don Giovanni, che lo aveva sbirciato, si fermò, aggrottando le sopracciglia. - Dove vai con questo tempaccio? Cuddu ebbe pronta la risposta: - Alla masseria del Canzirro. - Perché? - La massaia.... vuol mandata la legna. - Digli: Don Giovanni Panza vi saluta; aspetta ancora la ricotta fresca. - Va bene. E dentro di sé soggiunse: - Aspetterai un pezzo, birraccio! Il capo-birro l'osservava, diffidente. - E quelle tasche gonfie? Lasciami vedere. Chi ti ha dato queste pagnottelle? - La massaia. - Per chi? - Per me. - Una non ti basta? Quasi, quasi... Eh via! Non piangere; non ho bisogno delle tue pagnotte. E gliele buttò con mala grazia, dopo averle mezze schiacciate tra le mani. C'era mancato pochino che Cuddu non prorompesse in pianto a quel: quasi, quasi!... Se il birraccio ne avesse presa una, quella con la lettera, come pareva volesse fare? Cuddu si era visto ammanettato alla maniera di quei due. Giacché compare Sidoro e l'uomo dalla barba nera, lassù, avevano paura del capo-birro, voleva dire che quelle lettere che andavano e venivano non erano cosa liscia liscia! Ma, pur avendo paura di venir ammanettato e messo in carcere, Cuddu si sentiva orgoglioso di essere adoperato in una faccenda pericolosa; e sorrideva, avviluppato nella mantellina, e pestava i piedi su la neve, non tanto per riscaldarseli, quanto per significare la sua gioia di aver burlato don Giovanni il capo-birro con le risposte che gli aveva date. La neve veniva giù lenta, blanda; ma un po' di vento si era levato, che gliela spingeva in faccia, non ostante la gronda della mantellina, e gli dava noia. - E se non trovo quell'uomo? - pensava. - Debbo attenderlo? O tornare sùbito addietro? Pensava anche che se don Giovanni gli avesse preso una lettera o la pagnottella che ora la conteneva e gli avesse domandato: - Chi ti manda? - lui avrebbe risposto: - Non lo so; un forestiero! E se il capo-birro lo avesse bastonato - avea sentito dire che i birri bastonavano in carcere le persone che non volevano rivelare i furti commessi - lui si sarebbe fatto bastonare, ma non avrebbe mai detto: - Mi manda compare Sidoro. - Gli dovrai sputare in faccia! - E gli sputava in faccia ora, quasi lo avesse davanti. Quell'uomo era là, ritto su la soglia del casolare senza tetto, col cappottone di albagio nero tutto coperto di neve e la pipa corta in bocca. - Spìcciati! - gli gridò. E nel prendere la pagnottella con la lettera soggiunse: - Sono gli ultimi viaggi. Hai freddo? Aperse l'ombrellone che aveva appoggiato al muro, e riparò con esso anche Cuddu. - Mangia quest'altra pagnottella. Ti darò un sorso di vino. La neve comincia a cessare. Infatti, mentre Cuddu mangiava il pane e il cacio che compare Sidoro gli avea dato, il nevischio diminuiva. Il cielo, dalla parte di levante, si era rischiarato, e una striscia di sole dorava le colline lontane, tutte bianche come la pianura attorno, come la vallata sottostante. Due corvi aliavano là vicino, gracidando, posandosi sul parapetto di un ponte, riprendendo a volare. Uno stormo di passerotti saltellava su la neve dello stradone, beccando. - Fanno colazione anch' essi! - disse Cuddu. E, preso il fiaschetto di terracotta verniciata che quell'uomo gli porgeva, cominciò a succhiare dalla stretta imboccatura il vino che veniva giù a stento non essendo egli pratico di bere da un fiasco. Quell'uomo fumava zitto zitto.

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. - Morte a nessuno! - rispose il signore in tuba. Colui che aveva gridato " Morte ai birri „ si era fatto avanti brandendo una pistola. Cuddu, credendo che quegli stesse per sparare, aveva abbassato la testa, turandosi le orecchie per non sentire il botto. - Morte a nessuno! - replicò il signore in tuba. - I birri saranno carcerati e processati per soddisfazione del popolo... Chi volesse torcer loro un capello, sarà fucilato! Colui che brandiva la pistola, si mordeva le mani: - Che rivoluzione è questa, se non si ammazzano i birri? - sbraitava. - Arrestatelo! - ordinò il signore in tuba. Compare Sidoro, afferratolo pel petto, toglieva di mano la pistola a quel furibondo, e cercava di calmarlo. - Vuoi andare in carcere? Rivoluzione senza sangue... Il comitato ha avuto quest'ordine... I birri saranno processati... Guarda! Spuntava dalla via di rimpetto un gruppo di gente armata, coi birri ammanettati, pallidi come cenci lavati, col terrore della morte negli occhi, barcollanti su le gambe, e diretti verso il carcere là vicino. Quel furibondo cominciò a sputarli. Compare Sidoro lo tratteneva a stento. - Viva l' Italia! Viva l' Italia! - gridarono soltanto coloro che facevano la rivoluzione. E il gruppo che conduceva i birri in carcere attraversò la piazza tra un silenzio profondo. Il cartellone venne affisso al muro, allato alla merceria di compare Sidoro, ed egli vi si piantò davanti da sentinella, col soffione in ispalla, tenendo a distanza i ragazzi. La bandiera già sventolava dalla finestra della casa di faccia. La bottega sottostante era stata sùbito trasformata in Corpo di guardia. Cuddu si avvicinava intanto a compare Sidoro. - Ero venuto, per la lettera... - gli disse sottovoce. - Non ce n' è più bisogno. Caso mai ti manderò a chiamare. Parecchi contadini si erano accostati a guardare il cartellone attaccato al muro; uno di essi lo compitava a stento: - Chi ruba, sarà fucilato! Chi ferisce o ammazza, sarà fucilato - ripeteva ad alta voce compare Sidoro. - Ora andrete al molino senza pagare la polizza... E non più colèra!... Tuo padre è morto di colèra; l' ho visto morire io - si era rivolto a uno dei contadini. - Gli buttarono il veleno dietro la porta... i birracci... Mah! Erano comandati, poveri diavoli!... Nuovo re, nuova legge! E riprendeva a passeggiare su e giù davanti al cartellone, come una sentinella, Cuddu, in due salti, era tornato a casa. Un gruppo di donne filavano, al sole, accanto a la sua porta, ragionando della rivoluzione. Una vecchia rammentava i fatti del quarantotto. La sera della festa di San Rocco, era parso il finimondo: fucilate di qua, fucilate di là; volevano ammazzare tutti i galantuomini e fare la repubblica. Ma i galantuomini si erano armati e avevano ammazzato Pietro Sgarro che intendeva di prendersi la roba di tutti e dividerla coi compagni. Lo avevano lasciato morto su la spianata della chiesa della Trinità, nero come il carbone... E ogni notte, chi passava pel sacrato, ne vedeva lo spirito che si dibatteva per terra, bestemmiando, e poi, precipitandosi dal muraglione, spariva... Cuddu si era fermato ad ascoltare; neppure sua madre si era accorta di lui. - Ora non ammazzano nessuno! - egli disse. - Chi ruba è fucilato! Chi ammazza è fucilato!

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Nella stanza a pian terreno, larga e con una finestra da lato, di faccia alla porta era rizzato il telaio. L'arcolaio stava presso la finestra, in guisa che la mamma poteva comodamente sorvegliare il lavoro del bambino, mentre ella, lanciata da destra con rapido gesto la spola, la riprendeva da sinistra tra l'apertura dei fili operata dai licci davanti a la cassa del pettine; e, calcando con le due mani la cassa, vi picchiava su, ritmicamente, con la spola, spesso canticchiando sottovoce. Accadeva però che Cuddu, tutt'a un tratto, buttasse per terra il rotolino col rocchetto riempito a metà e fin spezzasse il capo della matassa, per accorrere fuori alla chiamata di uno dei. figli del falegname che lo volevano compagno a qualche lor giuoco. - Mamma, torno sùbito! E avanti che la povera donna gli avesse potuto gridar dietro: - Dove vai? egli era su la spianata, lontano, ginocchioni o sdraiato bocconi per terra, attorno al fuoco di dove quelli già cavavano mezze arrostite le fave. Aveva contribuito la sua parte anche lui, un pugno, preso di nascosto dal sacco la sera avanti, e quei bambini, coscienziosi, non volevano defraudarlo, anche perché parecchie volte egli portava molte fave per tutti. Poi, fra gli otto e i nove anni, Cuddu era stato invaso, quasi improvvisamente, dalla smania di andare di qua e di là, da un quartiere all'altro del paese, fuori del paese, lungo lo stradone, in cerca di grilli o a raccogliere more delle siepi, solo, perché nessuno aveva gambe spedite come quelle di lui. E la mamma lo sgridava: - Dove sei stato? Che hai fatto? - Niente. - Dove sei stato? - A quattro passi di qui, alle Fornaci... Ai Cappuccini, e fra Felice mi ha dato la polizzina della Madonna e una manciata di noci... All'Albero bianco, dal Canzirro; ho fatto una scorpacciata di fichi d' India più freschi di un gelato... A Grilli, da massaio Renda, a portare il pane al bovaro... Diceva quattro passi, e si trattava di miglia per l'Albero bianco e per. Grilli. La sua mamma, calcolate le ore dell'assenza, stentava a credere che egli dicesse la verità, e insisteva: - Che Grilli! Che Albero bianco! Chi sa dove sei stato! - Te lo giuro, mamma! E poi, domanda alla massaia Renda se non è vero che mi ha mandato a portare il pane al bovaro. - E sei andato e ritornato? - Con queste gambe! Se ne gloriava. Così, prima cominciarono i vicini a mandarlo a questa o a quella fattoria per qualche commissione di urgenza; poi la notizia della sua speditezza corse attorno, perché egli, non sapendo più star fermo in casa e gironzolando per le vie, si offriva se qualcuno accennava di essere in cerca di un ragazzo svelto da spedire in un posto. - Vado io, voscenza! - In quattro salti? - In due! - Bada: voglio la risposta! - Se me la dànno. E sguizzava via, come un lampo, per buscarsi due, tre soldi. Quando ebbe nove anni, non ci fu più verso di trattenerlo in casa. La mamma avrebbe voluto metterlo a imparare un mestiere, presso mastro Antonio il calzolaio o presso don Pietro il sarto, come meglio gli fosse piaciuto. - Mastro Antonio ti prende volentieri; me l'ha detto più volte. Cuddu rispondeva con una spallata. - Don Pietro dice che ha mandato via il ragazzo e che, se tu vuoi... Mestiere pulito questo del sarto. Cuddu rispondeva con un'altra spallata. - Che pensi di fare? Ti trascinerò per un orecchio o da mastro Antonio o da don Pietro. E una mattina lo prese proprio per un orecchio e poi per un braccio, e lo presentò a mastro Antonio, che batteva col martello, sur un sasso liscio posto tra le ginocchia, un paio di suole. - Che? Non vien qui di buona voglia? Gli farò venire la voglia io! - Prendetelo con le buone, mastro Antonio. - Come vuol esser preso; deve dirlo lui. Con le buone o con le cattive?... Non rispondi? - Voglio fare il sarto!... - balbettò Cuddu tra i singhiozzi. - Tu non vuoi far niente, lo capisco. Lasciatemelo qui, comare Concetta. Le scarpe sono pane sicuro. - Voglio fare il sarto! Il sarto! - cominciò a strillare il ragazzo, che guardava con occhi atterriti gli sgabelli su cui doveva star seduto tutta la giornata, se avesse voluto apprendere il mestiere del calzolaio. Quasi quello del sarto fosse stato un mestiere da esercitarsi in piedi! - Tu non vuoi far niente! - gli aveva detto mastro Antonio; e aveva ragione. Egli voleva seguitare ad andare di qua e di là, lontano, portato via da quelle gambe che non potevano star ferme un solo minuto. E invidiava il postino che ogni mattina partiva per Palagonia, con la valigia a tracolla, e tornava verso sera con la valigia così zeppa che egli durava fatica a portarla. Cuddu aveva assistito alla partenza del postino parecchie volte e lo aveva accompagnato per un bel tratto; poi, una sera, andatogli incontro fino a piè della collina, vedendolo stanco e trafelato, gli aveva detto: - Zi' Mauro, volete che vi aiuti? E zi' Mauro gli aveva messo a tracolla la valigia e, per ridere, anche in testa il berretto gallonato e con lo stemma. Cuddu si era avviato così lestamente, quantunque il peso della valigia non fosse lieve, che zi' Mauro, rimasto molto addietro, aveva dovuto gridargli:

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Glielo gridava quasi senza voltarsi, correndo, dalla paura che sua madre non venisse ad afferrarlo per un braccio e non lo legasse alla seggiola come lo aveva minacciato più volte, per costringerlo a riempirle i cannellini dell'ordito. Là, contadini e cavalieri, più di duecento, marciavano contando i passi. - Uno! Due! Uno!

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Una frotta di ragazzi stava a guardare a bocca aperta, intimidita dagli urli di quell'omaccione che non riusciva a far marciare in tempo i contadini né a fare eseguir bene gli ordini: Destr! Sinistr!... Per due! Per quattro! Dopo i primi giorni dell' insolito spettacolo. Cuddu aveva preso il comando della ragazzaglia, e la sgridava anche lui come l' istruttore; i suoi militi però marciavano assai meglio di quegli altri in fondo alla Spianata, quasi facessero il verso a quei militi della guardia nazionale che si movevano impacciati ed erano la disperazione dell' istruttore. Compare Sidoro, grasso e tondo, con la pancia in fuori, sempre in prima fila per dare l'esempio, nei momenti di riposo si accostava ai ragazzi, compiaciuto di vederli esercitare sotto gli ordini di Cuddu. - Bravi! Ora fate per chiasso, ma poi farete sul serio. Cuddu intanto prendeva sul serio la parte di istruttore; e la mattina che uno dei suoi militi avea tentato di ribellarsi, Cuddu, andando per le spicce, gli aveva dato quattro pugni. Si erano azzuffati. Compare Sidoro, accorso, li divise, e condusse Cuddu in disparte. - Ti ho mandato a chiamare; perché non sei venuto? - Mia madre non vuole. - Parlerò io con tua madre. Ti attendo a casa, più tardi. - Per le lettere? Mia madre non vuole. - Non dirle niente. Vieni: Lascia fare a me. Cuddu trovò compare Sidoro con quel cavaliere in tuba, vestito tutto di nero, da lui visto la mattina in cui era stata fatta la rivoluzione e che avea letto ad alta voce il cartellone: Chi ruba sarà fucilato! Chi ammazza sarà fucilato! - Il ragazzo è questo qui. Cuddu guardò in viso quel signore che lo squadrava da capo a piedi e sembrava dubitasse della capacità di lui per l' incombenza che dovevano affidargli. - Vuoi andare a Palermo? - E chi m' insegna la via? - Te la insegno io - disse compare Sidoro. - Non potrai sbagliare. Prenderai lo stradone, e poi diritto, senza arrestarti, finché non sarai arrivato. Domanderai per via: - Si va di qua a Palermo? - Già non puoi sbagliare; sempre diritto! - È lontano? - Vi arriverai in tre o quattro giorni. Incontrerai dei carrettieri e ti farai prendere in carretto: così non farai tutta la strada a piedi. E se ti domanderanno: - Perché vai a Palermo? - risponderai che là c' è un tuo parente - e che vai a trovarlo per stare con lui. - Ma... se vogliono sapere come si chiama? - Dirai un nome qualunque. Te la senti di andare fin là? Cuddu rispose affermativamente, con un cenno del capo. - Devi portare questa lettera. Te la metterò in una scarpa, sotto una suoletta. Se incontrerai dei soldati non aver paura... Già non baderanno a lui - soggiunse compare Sidoro, rivolgendosi a quel signore che stava muto e pareva non fosse persuaso che il ragazzo potesse eseguire la commissione. - Partirai sùbito. Non tornare a casa tua; a tua madre penserò io; so io quel che devo dirle. - E quando sarò arrivato - domandò Cuddu - a chi dovrò consegnare la lettera? - La caverai di sotto la suoletta, e domanderai: - Dove sta il Generale? - Hai capito? Dove sta il Generale? Te lo additeranno... Lo conoscono tutti. E, appena avrai la risposta, la metterai al posto di questa, sotto la suoletta, e rifarai la stessa via. Non puoi sbagliare, sempre per lo stradone, diritto. Incontrerai tanti paesi. Ti comprerai pane, formaggio, arance, quel che vorrai; ti darò il danaro anche per pagare i carrettieri, se rifiutassero di portarti sul carretto per carità; ma ti porteranno; vedrai. Più tardi, compare Sidoro, accompagnato Cuddu fino alla punta dello stradone, gli additava dall'alto della collina di Ràbbato la via che doveva tenere. - Quando tornerai - soggiunse - avrai guadagnato un bel gruzzoletto. Tua madre sarà contenta. E Cuddu aveva camminato, camminato sempre diritto seguendo lo stradone, con un po' di sgomento per la novità dei luoghi, specialmente verso sera, allorché s'era trovato come smarrito in mezzo alla campagna, sul carretto dove un carrettiere gli aveva dato un po' di posto per carità. Nel silenzio della notte, al fioco lume della luna nuova, le ruote del carretto stridevano per la breccia dello stradone, sballottandolo sui sacchi di grano e di sommacco. Il carrettiere canticchiava, e Cuddu lottava col sonno senza riuscire ad addormentarsi. Oggi un carrettiere, domani un altro, da tre giorni e tre notti. Poi lunghe ore a piedi, senza incontrare anima viva, di mano in mano che più si avvicinava a Palermo. Finalmente, un vecchio che guidava un carro tirato da bovi gli aveva detto: - Vado a Palermo anch' io. Tra poveretti bisogna aiutarsi... L' hanno mezzo bruciato il nostro bel Palermo!... Càpiti male. - Chi l' ha bruciato? - I regi. Ma Canibardo è entrato da Porta Sant'Antonino, e gliel'ha suonate bene... Non lo sai? - No. Cuddu non sapeva niente. Andava a Palermo come sarebbe andato in qualunque altro posto, a portare una lettera. E appena vide le prime case, e il vecchio gli disse: - Io resto qui - saltò giù dal carro, ringraziò e infilò l'arco mezzo sconquassato che gli stava davanti. Era arrivato!

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A ogni quattro passi, gente armata che accorreva, gruppi di donne che piangevano, con le masserizie ammonticchiate in un canto della via. Un formicolìo di persone atterrite che gesticolavano, gridavano, si sbandavano... E scoppi di fucilate e di bombe, lontano, come la sera della festa di S. Isidoro a Ràbbato, quando sparavano i fuochi d'artifizio nel piazzale della chiesa. Poi egli si era trovato in una via larga e lunga che gli sembrava non finisse più. Gran desolazione anche colà. Case mezze distrutte, facciate crollanti, tetti sfondati, e un via vai di persone, parecchie delle quali con le camicie rosse, armate fino ai denti. Non osava di accostarsi a nessuno di coloro; non sapeva se doveva andare avanti o fermarsi e domandare: - Dove sta il Generale? Era sbalordito di quel che vedeva. Fattosi un po' di coraggio, proseguì per quella via. Si trovò da lì a poco in una gran piazza con una fontana circondata da tanti santi di pietra, e a lato un vasto edifizio che pareva si reggesse a stento in piedi, con la facciata mezza demolita e le finestre senza imposte. Grate da monastero pendevano dagli stipiti, trattenute da sbarre di ferro contorte e miracolosamente ancora infisse al muro. La piazza brulicava di soldati con camicie rosse, di gente armata che metteva paura, parte sdraiata per terra, parte a sedere sul muricciolo che circondava la fontana coi santi di pietra, ad alcuni dei quali mancava un braccio, o la testa, o il busto. Qua e là, fucili a fascio, carri rovesciati, tavole, arnesi di ogni sorta e macerie affumicate. A Cuddu pareva di fare un brutto sogno, tanto stentava a credere ai propri occhi. Chi lo avrebbe mai immaginato? Se avesse saputo prima, non si sarebbe avventurato fin là. La rivoluzione a Palermo era ben diversa che non a Ràbbato, dove non avevano torto un capello a nessuno, neppure ai birri, mentre qui si vedevano tante persone con la testa fasciata, con un braccio appeso al collo,

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o zoppicanti per qualche ferita a una gamba. Si accostò timidamente a un giovanotto, seduto sur uno scalino, che si allacciava le scarpe sdrucite canticchiando sotto voce. - Sta qui il Generale? Il giovanotto alzò gli occhi e lo guardò sorridendo: - Voi arruolarti? - Sta qui il Generale? - replicò Cuddu. - Garibaldi vuoi dire? - Il Generale ; ho una lettera per lui. - Chi ti manda? - Compare Sidoro. È lettera d' importanza. - D'onde vieni? - Da Ràbbato. - Il diavolo mi porti se l' ho mai inteso nominare questo tuo paese. Ràbbato hai detto? - Sissignore. - Dov' è la lettera? Cuddu si cavò la scarpa, alzò la suoletta e trasse fuori la lettera piegata per lungo. Il giovanotto lesse: - Comitato di Ràbbato. A Sua Eccellenza il Generale Garibaldi, dittatore. Palermo. Si rizzò e disse al ragazzo: - Vieni... Ecco il Generale - soggiunse, fatti pochi passi. Dal portone di faccia, Cuddu, vide venire un bell'uomo con barba e capelli biondi, con camicia rossa e mantello bianco su le spalle, circondato da una dozzina di persone, tutte con camicia rossa, stivaloni e sciabole al fianco.

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- Devo tornare a Ràbbato. Mi hanno mandato per la lettera. - Hai fatto la strada a piedi? - Parte a piedi, parte sui carretti dei carrettieri. - Come gridano al tuo paese? - Viva la Tàlia! - Bravi. La risposta te la darà questo signore. E additò uno che non vestiva da soldato, a cui porse la lettera ricevuta. - Badate voi a questo ragazzo - poi disse al giovanotto che gliel'aveva presentato. - Sì, generale - rispose il giovanotto. Il generale fece a Cuddu una carezza e passò oltre, seguìto dagli altri che gli stavano attorno. - Ricòrdati - gli disse il giovanotto prendendolo per una mano - ricòrdati che hai avuto una carezza da Garibaldi! - Ah, compare Sidoro! Che tradimento mi avete fatto. Comare Concetta era andata a piangergli in casa due, tre volte il giorno in quella settimana, dopo che quegli gli aveva detto: - Ho mandato io il ragazzo. Non state in pena; ritornerà tra poco; queste sono due onze pel suo servizio. Che le importava delle due onze? Si dicevano tante cose a Ràbbato che la poveretta comprendeva a metà e male. A Palermo c'era la guerra. I regi avevano bruciato la città; la gente moriva come le mosche. Per lo stradone sotto Ràbbato passavano torme di soldati napoletani diretti a Catania. Compare Sidoro e quei del Comitato si erano serviti di suo figlio per non cimentarsi loro. Chi sa che n'era del ragazzo? E la sera che compare Sidoro gliel'accompagnò a casa sano e salvo, le parve di vederselo tornato da morte a vita. E, per due giorni, non gli permise di affacciare il naso fuori dell'uscio, dalla paura che compare Sidoro non le facesse qualche altro tradimento. Tutto il vicinato da lei, a interrogare Cuddu; anche galantuomini e preti e frati che volevano sapere quel che egli aveva veduto. - Che hai visto? - Case bruciate, sfondate. E tanti soldati con le camicie rosse. - E Garibaldi com' è? - Bello! Con la camicia rossa anche lui e un ferraiuolo bianco lungo fino ai piedi. - Hai proprio parlato con lui? - Con chi dunque? Mi fece una carezza. E uno mi disse: - Ricòrdati che hai avuto una carezza da Garibaldi. - E morti ne hai visti? - No. Tutto era confuso nella sua mente, e le molte domande lo imbarazzavano. Ripeteva sempre le stesse cose, già un po' invanito della gran curiosità destata e della carezza di Garibaldi. - Mi disse: Vuoi fare il soldato? - E tu che rispondesti? - Niente. Avevo paura che mi prendesse per forza. - Ora potete stare tranquilla. Così compare Sidoro cercava di rassicurare la madre di Cuddu. - Se tu me ne fai un'altra, ti storpio! - ella minacciava il figlio. Cuddu però gliela fece la settimana dopo, e grossa; ma senza sua colpa. Lo aveva mandato a comprare un po' di pane. Nella Piazza grande, Cuddu aveva trovato molta gente radunata attorno a una ventina di giovanotti armati di fucili, con a capo don Carlo il capitano, come lo chiamavano, perché era stato capitano nel quarantotto. - Che fanno? - Partono. Sono la Squadra. - E dove vanno? - A Catania. Si avviavano, infatti, seguìti dalla gente e da una turba di ragazzi. Alcuni di questi recavano in ispalla i fucili dei partenti, e marciavano, ridendo, in testa alla brigata. Cuddu si sentì preso d' invidia; avrebbe voluto portare per un tratto di via un fucile anche lui. Si fece avanti, appena fuori l'abitato, e disse a uno dei giovani: - Vi porto il fucile io? - Tieni. Prese il fucile e s' intruppò con gli altri ragazzi. Ma, quando molti di essi tornarono addietro, egli volle continuare fino al molino, laggiù; e quando fu al mulino, pensò che sarebbe stato un divertimento andare fino al Canneto dove lo stradone biforcava: quattro passi, per le sue gambe spedite. Al Canneto giunse solo, con quella ventina di giovanotti della Squadra che cantavano a squarciagola. - Ti pesa? - gli aveva domandato il padrone del fucile. - No! No! - Tu sei stato a Palermo, hai visto Garibaldi, è vero? - Gli ho portato una lettera. - E ti fece una carezza, è vero? - Mi disse: Vuoi fare il soldato? - Vieni con noi, fino a Catania. Si lasciò tentare. La sua intenzione veramente era di fare un altro po' di strada con la Squadra e poi tornare addietro. Aveva in tasca il denaro per comprare il pane; sua madre l'aspettava. Ma lo stradone si stendeva diritto e polveroso per l' immensa pianura, e quelli della Squadra marciavano cantando allegramente da non far accorgere del cammino che si faceva sotto il sole, per la campagna coperta di messi, di vigneti, di pascoli con mandrie di cavalli tra siepi di fichi d' India spinosi che di tratto in tratto fiancheggiavano lo stradone; e così Cuddu era arrivato assieme con gli altri, trafelato e stanco, fino al Simeto gonfio e limaccioso che gli mise paura perché egli non sapeva come avrebbero potuto passarlo. Quella grossa fune tesa da una ripa all'altra a che serviva? - Ora viene la barca, guarda. Vide staccarsi dall'opposta ripa un grosso arnese nero e piatto con su due uomini che facevano forza e lo spingevano lentamente, senza ch'egli capisse in che modo, verso di loro. La fune molleggiava, la barca scivolava sospesa alla fune con una corta fune che formava solido nodo scorrente. Cuddu sbocconcellava una pagnottella, intanto che guardava, stupìto, l'avvicinarsi della barca; e, quando i giovanotti della Squadra e don Carlo il capitano vi saltarono dentro, ebbe un momento di esitazione, fece alcuni passi in dietro. - Sciocco! Hai paura? Dammi il fucile. Cuddu lo aveva posato per terra, vicino alla siepe di fichi d' India. Corse a prenderlo, e glielo porgeva, esitante di montare ed inoltrarsi sul tavolato della barca, che faceva da ponticello. Quegli lo afferrò per un braccio; e, avanti che il ragazzo si svincolasse, la barca si era già staccata dalla ripa, e il tavolato era stato rimosso. Cuddu, che non aveva mai visto tant'acqua, chiuse gli occhi, si aggrappò a quell'omo e stette così finché non sentì l'urto della barca che si era fermata approdando. Smarrito, guardò il fiume limaccioso che gli sembrava ormai lo dividesse dal mondo, e corse col pensiero alla sua povera mamma, che in quel momento forse lo cercava qua e là e forse piangeva per lui. Ci avea pure pensato lungo la strada, pentito di quel che aveva fatto, ma consolandosi sùbito con l'idea che, da lì a poco, avrebbe potuto tornare addietro confidando in quelle sue agili gambe punto affaticate dalle molte miglia percorse. Ora, col fiume di mezzo, si sentiva sperduto. Lo stradone à stendeva diritto davanti a lui, e si confondeva laggiù in fondo con la pianura,

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