Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Sempronio e Sempronella

214686
Ambrosini, Luigi 50 occorrenze
  • 1922
  • G. B. Paravia e C.
  • Torino - Milano - Padova - Firenze - Roma - Napoli - Palermo
  • Paraletteratura - Ragazzi
  • UNICT
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- Vorrei andare a scuola e non posso. - Perchè non puoi? - Mio padre non vuole. - E perchè tuo padre non vuole? - Dice che la scuola è lontana e perderei troppo tempo fra andare e tornare. - È vero, - disse il Ministro, - la scuola è molto lontana. Se ne fabbricassimo una più vicina, che direbbe tuo padre? - Non mi ci manderebbe, perchè dice che imparare a leggere e a scrivere è un perdere il tempo. E io non posso disubbidire a mio padre. - Tu sei un figliolo ubbidiente, - esclamò il Ministro. - Ma lascia fare a me: troverò il modo di renderti contento. Lo salutò e se ne andò.

Prestò i suoi servizi a un droghiere e rincasò con una boccetta d'olio e un pacchetto di sale. Al quarto piaceva molto leggere e scrivere, ma quel giorno non potè fare ciò che gli piaceva. Uscì, andò pel bosco e fruga fruga raggranellò un fascio di stecchi. Il più piccino avrebbe voluto uscire a far qualche cosa anche lui, ma rimase a casa col padre a fargli assistenza. Mentre gli faceva assistenza gli leggeva un vecchio libro e la lettura distrasse il padre dai tristi pensieri.

Comare Assunta staccò la padella dal chiodo e la diede a Trottolina. - Grazie - disse Trottolina e via di corsa a casa. La sera le frittelle erano pronte. Trottolina si metteva in bocca la prima, quando udì cantare chicchirichì, e si ricordò del gallo. Sebbene il gallo fosse stato un prepotente, Trottolina volle mantenere la promessa. Prese due frittelle e le buttò per la finestra. Ma, mentre il gallo allungava il becco, ecco sopraggiungere il gatto, il quale credeva che le due frittelle fossero per lui, e in un lampo gatto e gallo s'azzuffarono. Proprio sul più bello arrivò il cane: e già abboccava le frittelle, quando gli saltò addosso il lupo, e cane e lupo s'addentarono. Allora venne fuori la mamma con un grosso bastone in mano, e giù botte a destra e a sinistra. Il gallo stramazzò con la testa rotta: il gatto ci perse i baffi; il cane ci lasciò la coda; il lupo se ne andò tutto spelacchiato. Queste furono le frittelle che toccarono a quei prepotenti. E Trottolina richiuse la finestra e mangiò le frittelle, e da ultimo, come il suo solito, non potè tenersi dal leccarsi le dita.

A metà maggio, i peri, i meli, i mandorli, i peschi innalzavano sui tronchi i mazzi del loro verdeggiante fogliame. Le ciliege rosseggiavano a coppie, a mazzi e parevano dondolarsi a cavalluccio dei rami. Gli albicocchi a spalliera rivestivano tutto un muro e mostravano i bei frutti gialli, che facevano venire l'acquolina in bocca. - Nel recinto di questo frutteto - disse il signor Cominetti - la natura osserva il suo calendario, come fa nei giardini e nei campi. Di mese in mese ella inscrive i suoi messaggi sugli alberi e sui frutti, anzi ogni settimana ella opera i suoi mutamenti, che indicano il passaggio delle stagioni. Voi dovreste venire spesso a trovarmi, per seguire da presso i progressi delle mie piante, e gustare le più squisite qualità di susine, di pesche, di pere, di mele, di nespole. Intanto prendete là quel panierino ed empitelo di fragole. I nostri piccoli amici scesero alcuni gradini, e, percorso un vialetto fiancheggiato da una folta siepe d'uva spina e di ribes, si trovarono in una specie di vasto campo tutto lavorato a solchi, e sotto un denso fogliame videro le piccole, odorosissime fragole. Il signor Cominetti raccomandò ai ragazzi di raccogliere solo le più mature e di passare guardinghi da un solco all'altro, per non danneggiare le pianticene. Sempronio e Sempronella deposero alcune foglie sul fondo del cestello, poi raccolsero i frutti, posandoli con cura, e ogni tanto abboccandone qualcuno. Erano così dolcigne e così profumate quelle fragole! Quando il cestello fu ripieno, i due ragazzi si levarono, così contenti del bel dono, che non trovarono parole per ringraziare l'amico del loro ottimo maestro. A tavola le fragolette furono condite con zucchero e vino bianco, e furono la delizia dei tre commensali.

. - Veniamo a vedere il mulino. Compare Festo rabbonisce il cane e porge la mano ai ragazzi. Egli è ben contento di condurli a vedere il suo piccolo mulino. - Questa è la ruota che gira sempre finchè c'è acqua e fa muovere la mola. Sotto la mola si butta il grano a stritolare e si uscire dalla gramola. L'interno del mulino di compare Festo è piccolo e curioso. S'ode il rumore continuo delle ruote che girano, il chiocchiolìo dell'acqua che cade. La luce viene da una finestrella e dalla porta. ln un canto, sulla bocca di un sacco, c'è un gatto accovacciato, come se avesse freddo, poichè nella valle del mulino fa molto freddo. Tutto il giorno compare Festo è là che sorveglia le ruote, ed empie e vuota i sacchi. Quando non ha nulla da fare, prende un libro e legge. Per questo egli ha un cervello pieno di storie.

elargito al piccolo comune una somma affinchè la la fontana fosse costruita a beneficio di tutti. Ecco come un buon cittadino era stato utile al suo paesello. L'acqua gorgogliando dalla cannella pareva cantare una canzone di riconoscenza al modesto benefattore, di cui in paese si sarebbe sempre conservata la cara memoria. E allora Sempronio fece un proponimento: promise a se stesso, in silenzio, di farsi onore nella vita, di lavorare, di studiare, per potere un giorno essere utile al proprio paese. Egli non sapeva ancora che cosa sarebbe stato di lui in avvenire. Che mestiere avrebbe fatto? Dove sarebbe andato a trascorrere la sua gioventù? Forse in una grande città? Forse in un paese lontano? Egli non poteva saperlo. Ma la coscienza gli diceva che, dovunque egli fosse andato, qualunque mestiere avesse scelto, sarebbe stato un giovane probo, un buon cittadino. La scuola gli aveva insegnato la via dell'operosità e del dovere; gli aveva fatto intravvedere la patria grande e lontana, l'Italia dolce e cara, per la quale tutti i figli debbono lavorare e produrre. Sempronella, nel suo cuore di donnina, non aveva altri proponimenti. La vita sarebbe stata diversa per lei, eppure anch'ella avrebbe potuto seguire il fratello in qualche grande città, avrebbe forse fatto l'operaia in una grande fabbrica, anch'ella sarebbe stata utile al proprio paese. Che se la sorte le avesse riserbato una vita più ritirata e più tranquilla lassù fra i suoi monti, ella si sarebbe accomodata anche a questa. In ogni stato, in ogni luogo si può essere utili al proprio simile. Basta essere operosi, basta essere buoni. In questi pensieri essi a un tratto levando gli occhi scorsero in lontananza due figure che s'avvicinavano con gesti di saluto. Erano babbo e mamma che avevano scorto i propri figliuoli. Sempronio e Sempronella si misero il correre loro incontro, e si gettarono nelle loro braccia. Essi erano felici di quella felicità che ci fa battere il cuore forte forte e c'inumidisce gli occhi con le lacrime più dolci.

Ognuno va a fare una visita ai poveri morti. Il camposanto è adorno di crisantemi; intorno alle croci si vedono mazzi, fiori sciolti, corone. Si sono spogliati i giardini per ornare la dimora dei morti; il camposanto sembra un giardino fiorito. Là, sotto terra, riposano i babbi e le mamme degli orfanelli. Dormono i vecchi nonni con le barbe bianche. Dormono le nonnine che si stancarono di filare. C'è anche qualche bambino... Quassù, chi prega, chi piange. Quando viene la sera, ognuno accende un lanternino o una candelina sulla fossa dei propri cari. Il camposanto risplende di lumini come di stelle.

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Quando i fanciulli vanno alla scuola, hanno i libri sotto il braccio, o la cartella a tracolla, (come il postino porta la busta), o la hanno sulle spalle, (come il soldato porta lo zaino). I fanciulli vanno alla scuola e porgono al maestro i còmpiti fatti. Se i còmpiti potessero parlare racconterebbero al maestro come sono stati fatti. Essi direbbero al maestro ciò che gli scolaretti non gli dicono. Ecco un còmpito pieno di errori. Esso fu scritto in una bella stanzetta calda, alla luce di una magnifica lampada, da un fanciullo che ha tutte le comodità della vita. Ma il fanciullo quel giorno era svogliato, ed ecco perché il suo còmpito è pieno di errori. Eccone un altro, di bella scrittura e con pochissimi errori. Esso fu scritto su un tavolino che traballava sulle quattro gambe, in una cameretta fredda, alla luce di una lampada a olio. È il lavoro di uno scolaretto povero, ma pieno di buona volontà, attento e intelligente, ed ecco perchè il compito è in bella scrittura e con pochissimi errori. Eccone un altro, su un foglio gualcito, e con macchie d'inchiostro. È forse il lavoro d'uno scolaretto negligente e sbadato? No, il povero bambino non ci ha colpa. Egli è figlio di povera gente; a casa sua stanno tutti in una stanza, e una sorellina piccola ha gualcito il foglio e con la penna lo ha macchiato d'inchiostro. E lo scolaretto non aveva più fogli per ricopiare il còmpito. Finalmente, ecco un lavoro perfetto, che merita dieci. È il più bel còmpito di tutta la classe. Il suo autore si vanta di averlo fatto. Ma se il foglio potesse parlare racconterebbe la sua storia vera. Non fu fatto dal bambino, ma dalla mamma sua che glie lo dettò. Lo scolaretto si fa bello delle penne dei pavone. Se i compiti potessero parlare, essi racconterebbero al maestro ciò che gli scolaretti non gli dicono.

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A CAVALLO 1.

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PIERINA E LA RICOTTINA Pierina va al mercato a vendere una ricottina. Pensa: - Vendo la ricotta e ricavo tre soldi. Con tre soldi compro due uova. Le uova le metto sotto la chioccia e nascono due galletti. Li vendo e compro una pecorina che farà due agnellini Li venderò e comprerò una vitellina che mi darà due manzi. Venderò i manzi e comprerò una casini col terrazzino. Io starò sul terrazzino e la gente mi farà la riverenza: - Buon giorno, signora Pietrina! - Così dicendo la sciocchina fa una riverenza e la ricotta schizza in mezzo alla strada Queste sono cose che succedono a chi, non avendo che tre soldini di ricotta, fa i castelli in aria.

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il figliolo maggiore rispose: - Lascia fare a noi. Disse una parolina nell'orecchio a ognuno dei fratelli e uscì. Egli amava molto giocare alla trottola, ma quella mattina non giocò alla trottola. Andò da un ortolano a lavorare, e la sera tornò con un cestino d'erbe e dí patate. Al secondo piaceva andare a spasso e far castelli in aria, ma quella mattina non andò a spasso, nè fece castelli in aria. Offrì i suoi servizi a un mugnaio ed ebbe da lui una bella scartocciata di farina.

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Eppure, la voglia d'imparare era in lui così forte, che la sera, quando i suoi erano a letto, rimaneva alzato a studiare. Ma la lucerna si spegneva presto e non c'era più olio nella credenza, perchè la casa era povera. Il ragazzo apriva le imposte e leggeva al chiaro di luna, quando'c'era la luna. La luna tramontava, il ragazzo provava a leggere al barlume delle stelle, quando c'erano le stelle. Ma le stelle sono troppo piccoline e lontane, per far lume ai ragazzi che hanno voglia di leggere. Voi sareste andati a letto, ma egli s'addolorava di non poter leggere. Una sera d'estate, questo ragazzo era alla finestra e sospirava: - Avessi un lumicino! Chi mi porta un lumicino? - Allora gli volò sul davanzale un insetto, che aveva sotto le ali un lanternino acceso, a cristalli verdi. - Ecco il lumino - disse la nuova venuta andando a posarsi sulla pagina del libro. - Sei molto gentile - le rispose il ragazzo. E si mise a leggere. Ogni tanto interrompeva la lettura per domandare: - Non ti bruci mica? - Non mi brucio. Leggi pure. E il fanciullo tornava a leggere. La luce era poca, eppure bastava, perchè la volontà era grande. Il lanternino non si spegneva. - Quanto durerà? - domandava il fanciullo. - Durerà tutta l'estate. - Potresti tornare domani sera? - Posso tornare, - rispose la luccioletta. - Per un fanciullo come te farò questo miracolo. Di fatto tornò tutte le sere, per tutta l'estate. E il ragazzo leggi, leggi, studia, studia, si fece valente. Alla fine d'estate la lucciola lo avvertì che non sarebbe più tornata. - Ti ringrazio di quanto hai fatto per me. Oramai non ho più bisogno: le cose vanno meglio in casa. Ora c'è un poco d'olio per la lucerna. Ma io come ti posso ricompensare? - Quando mi rivedrai a primavera - disse la lucciola - non mi tormentare. E di' ai tuoi compagni che non mi diano la caccia, che non mi uccidano ma ipiù le mie compagne. - Non dubitare. - Addio. - E grazie, luccioletta! La luccioletta benefica se ne andò Da allora in poi soltanto i bambini cattivi dàanno la caccia alle lucciole col cappello, e le tormentano e le uccidono. I bambini gentili le lasciano volare liberamente.

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I passerotti, sorpresi nell'ora che sogliono svolazzare in qua e in là in cerca di cibo, invano scendevano dai letti a terra, da terra risalivano sui davanzali, pipilando pietosamente. I più forti saltellavano sulla neve. i più audaci picchiavano col becco ai vetri delle finestre, i più deboli rimanevano in cima alla gronda, fermi, imbozzoliti. cori le piume arruffate dal vento. Quando Sempronio corse per avvertire la sorella che la neve fioccava, ella era già in cortile e stava aprendo il cancelletto del serraglio domestico per recare il becchime ai polli e il mangime ai conigli. Appena Sempronella fu entrata, un nugolo di uccelletti si levò da terra, là dove rasente alla parete, sotto la bassa grondaia, la neve non s'era posata. C'erano passeri, cardellini, fringuelli, strillozzi, e fin qualche lodoletta delle praterie vicine, tutti affamati. Sempronella così sollecita per i suoi animali domestici, era altrettanto pietosa verso i liberi e selvaggi abitatori della campagna, e però, appena buttata la mondiglia ai polli, e foglie e torsi di cavoli e un pugno di fineno ai conigli, tornò a casa e andò difilata a un ripostiglio, dove conservava appeso un mazzetto di spighe di panìco. Le sgranò e uscì tosto a spargere i chicchi agli uccellini digiuni. Da quel giorno, per quanto durò la neve, tutte le volte che Sempronella si recava a dar da mangiare ai suoi animalucci, era sempre avvolta da un nuvolo di uccelletti che aspettavano la loro parte di cibo.

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Un giorno la mamma le disse: - Trottolina, va a prendere in prestito la padella da comare Assunta. Voglio cuocere quattro frittelle. - Sì, mamma, corro subito! Ma sull'aia Trottolina s'imbattè nel gallo, che la fermò: - Chicchirichì, Trottolina, dove vai? - Vado per i fatti miei. - Se non mi dici dove vai, non ti lascio passare. - Oh! - disse Trottolina:-- vado da comare Assunta a prendere la padella, perchè la mamma vuol cuocere quattro frittelle. - Ne darai due anche a me? Se no, ti becco. - Vieni stasera sull'aia, e le avrai, - rispose Trottolina, compiacente. Più oltre il gallo: - Miau, miau, Trottolina, dove vai? - Vado da comare Assunta a prendere la padella perchè la mamma vuol cuocere quattro frittelle. Le frittelle piacciono anche a me. Me ne darai due? Se no, ti graffio. - Vieni stasera, e le avrai. più in là, Trottolina trovò il cane. - Bau, bau, Trottolina, dove vai? - Vado a prendere la padella per cuocere quattro frittelle. - Ne darai anche a me? Se no ti mordo. - Vieni stasera sull'aia, e le avrai. Più in là il lupo: - U, u, dove vai, Trottolina? Trottolina ebbe tanta paura e disse: - A prendere la padella per le frittelle. - Bene! - disse il lupo. - Promettimene due, se no ti mangio! - Vieni sull'aia stasera, e le avrai. Trottolina arrivata a casa di comare Assunta, dice: - La mamma mi manda a prendere la vostra padella per cuocere quattro frittelle.

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prima ti voglio invitare a pranzo e poi mangerai me. - Che mi offri da mangiare? - Un buon piatto di riso. - Bene, ma dopo la minestra mangerò te per pietanza. - La volpe non disse nè sì nè no. Menò il lupo a casa di un contadino. La massaia era uscita e in cucina sugli alari bolliva una caldaia di riso. - Tira giù la caldaia - disse allora il lupo alla volpe. - Tocca a te, che sei più robusto - ripicchiò la furbacchiola. Il lupo, inorgoglito della lode rispose: - Hai ragione. Si fece avanti e con le fauci sganciò la caldaia dal rampino. Ma la caldaia scottava, e il riso gli si rovesciò sulle gambe. Per il che il lupo fuggì via urlando. La volpe, furba, appena il riso si fu raffreddato sul pavimento, lo mangiò. NEL POZZO Un'altra volta, il lupo s'imbattè nella volpe ed era ancora così arrabbiato per l'affare del riso, che, senza darle tempo, le si slanciò addosso per sbranarla. - Lap, lap... La volpe fece uno scarto e disse: - Abbi pazienza, prima di mangiarmi ascoltami. - Che c'è? - Voglio indicarti un posto dove, ora che fa caldo, potrai trovare un'acqua fresca che farebbe risuscitare un morto. - Dove? - Vieni con me. La volpe menò il lupo in un orto, dove era un pozzo con due secchie pendenti dalla carrucola. - È lì dentro - fece la volpe. - Entraci prima tu - quasi le comandò il lupo, che temeva si ripetesse il brutto scherzo della caldaia. - Questa volta non ti befferai di me. - Ubbidisco - disse la volpe. Entrò nella secchia vuota, si calò giù, e bevve quanto volle. Poi dal fondo chiamo il lupo: Vieni giù anche tu! Mettiti nell'altra secchia. - Adesso sì - disse il lupo. Ed entrò nell'altra secchia e calò giù, ma calando lui ch'era più pesante fece venire su la volpe ch'era nell'altra secchia. Quando la volpe fu sull'orlo del pozzo, d'un balzo saltò fuori e lasciò il lupo laggiù. - Lap, lap! Anche questa volta te l'ho fatta. E se ne andò pei fatti suoi. Il lupo scornato, sentendosi affogare, cominciò a mandare urla dal fondo del pozzo. Accorsero alcuni contadini, i quali, tirata su la secchia, e scoperto il lupo che s'era seduto dentro, gli furono addosso coi bastoni e lo accopparono. Il lupo era più forte, ma la volpe fu astuta...

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Non hanno mai avuto un maestro, non sono mai andati a scuola. Lassù, sui loro monti, la scuola non c'è ancora. Senipronio e Sempronella sono così ignoranti, che non sanno quale è la destra e quale è la sinistra. Incontrano un vecchietta che va per legna e le domandano: - Per che parte si va sullo stradone? - Infilate il viottolo a sinistra e arriverete alla carrozzabile che mena al villaggio. - Tante grazie!

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Li ha distesi sulle siepi. che fino a ieri tremavano di freddo. L'aria è tiepida, il cielo è d'uno smagliante azzurro. Stamane per tempo il pollaio, coi canti argentini, ha annunziato le uova di Pasqua. Le campane si sono messe a cantare con voci di gioia. Bel giorno questo è per tutti: l'operaio se ne va a spasso con la moglie e coi figlioli, il padrone non apre il negozio nè l'artigiano la bottega; lo studente lascia dormire i libri negli scaffali: tutto il paese è fuori per le strade. Quest'oggi non è giorno di lavoro, ma di riposo e di festa.

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NEL BOSCO Maestro Saverio si mise in capo la berretta rossa, impugnò il bastone e disse a Sempronio e a Sempronella: - Questa mattina voglio condurvi nel bosco verde a vedere le migliaia di foglie danzare sui rami. Andarono e trovarono tutto più bello del solito. Era un incanto. Il musco baciava loro i piedi, le erbe abbracciavano le ginocchia e i fiori accarezzavano le mani. Gli arbusti e le siepi sfioravano gentilmente le guance, le altre piante salutavano con le braccia immerse nell'azzurro del cielo. Gli uccellini curiosavano e cantavano il meglio che sapevano, saltellavano e svolazzavano vispi sui rami; i fiorellini di bosco gareggiavano in bellezza, un soave profumo giungeva al cuore. La natura era in festa e i due fanciulli si sentivano pieni di gioia. Sedettero, e quasi pensavano di prendere dimora fra quella moltitudine di piante e di creature liete. Essi pensavano all'erica e al musco che vivono contenti coi loro numerosi amici e vicini, in pace e buona armonia, sotto la rugiada e le ombre protettrici dei grandi alberi. Pensavano ai fiori per quali è sempre una festa quando il sole li tocca, e li scuote il venticello. Il maestro, disteso anch'egli sull'erba, con la lunga barba bianca, li guardava contento. Si sentiva cantare il cucù.

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Il cucù, grosso come una tortorella, si rimpiatta tra i rami e fa cu cu, cu cu, come giocasse a nasconderello. Gli sciocchi dicono che chi sente gridare il cuculo e può far sonare in tasca qualche moneta, avrà danaro per tutto l'anno. Un altro annunziatore della primavera è la primula, che in certi paesi si chiama il fiore chiave, il fiore che apre la porta agli altri fiori; o anche si chiama: chiavetta del cielo, perchè nel cielo apre le porte alla primavera.

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GIOTTINO PITTORE A Sempronio piace molto il disegno. La voglia di disegnare gli venne un giorno che il maestro raccontò la storia di Giotto. Giotto era un pastorello, che passava la giornata custodendo le pecore del babbo. Il babbo le tosava, il babbo le mungeva, il babbo aveva da fare le ricottine e il formaggio, che andava a vendere in città. Il babbo era occupato tutto il giorno. Ma Giotto piccino non aveva nulla da fare mentre le pecore pascolavano e, per non annoiarsi, si cercava un bel pietrone di tufo, aguzzava un sasso, e con la punta del sasso disegnava le pecorine: faceva i ritrattini agli agnellini. Gli agnellini erano carini, come sono gli agnellini di tutto il mondo, ma i ritratti che ne faceva il piccolo Giotto erano belli come non se ne era mai veduti. Un giorno che il pastorello disegnava, passò per quelle parti un pittore. Vide Giottino che con un sasso faceva niracoli. Le pecore che disegnava parevano vive. Il pittore capì che Giottino era un ragazzo di grande ingegno: andò dal suo babbo, ed ebbe da lui il permesso di condurre il fanciullo a studio in città. A Giotto rincrebbe molto di lasciare il babbo e le sue pecorine. Ma fu felice di andare alla scuola di un grande pittore. Il babbo veniva a trovarlo spesso, e Giottino gli faceva vedere i suoi lavori, sempre più belli. In città vedeva molta gente e faceva i ritratti agli uomini. La notte sognava gli angeli e il giorno faceva i ritratti agli angeli. Sognava le Madonne con Gesù in braccio, e faceva le Madonne belle come il sole. Tutti lo chiamavano, tutti volevano che facesse dei quadri: e i quadri di Giotto riempivailo i palazzi e le chiese. I più grandi artisti andavano a vederli. I più ricchi mercanti volevano comperarli. Giotto diventò il più celebre pittore del tempo. Le sue pecorine di carne chi sa dove andarono a finire. Suo padre, poveretto, diventò vecchio, e morì. Anche Giotto, quando ebbe molto lavorato morì. Ma il suo nome non morì mai. E alcune delle sue pitture si conservano ancora e sono fra le più belle del mondo.

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SEMPRONIO DISEGNA Anche a Sempronio venne la voglia di disegnare. Quando non aveva nulla da fare, prendeva un foglio di carta e una matita, e si metteva a copiare ora una cosa ora un'altra. Un giorno disegnava un albero: schizzava il tronco, i rami, le foglie. Un giorno disegnava un fiore, una rosa o un bel papavero. Se egli avesse avuto una scatola di colori avrebbe anche dipinto; ma pensando a Giotto, che cominciò a disegnare sul tufo, Sempronio si accontentava di avere carta e matita. Egli era pieno di buona volontà. Non faceva i miracoli di Giotto, ma ognuno fa quello che può. Ed egli era contento, perchè il disegnare gli serviva a molte cose: a non stare mai in ozio e ad osservare gli oggetti meglio che non faceva prima quando non disegnava, e meglio che non facciano di solito gli altri bambini, i quali guardano tutto, ma vedono poco. Tutti i bambini sanno che il cane e il gatto hanno due orecchi. Ma solo Sempronio sapeva come sono gli orecchi dei gatti, e quante forme hanno gli orecchi dei cani. Egli lo sapeva perchè osservava. E osservando gli oggetti per disegnarli, il disegno era per lui una istruzione.

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IL RITRATTO RIUSCITO MALE Un giorno Sernpronio fece il proprio ritratto, si mise davanti a uno specchio e comincio a disegnare. Prima la testa, i capelli, gli occhietti, il nasetto, la bocca, il mento, i padiglioni degli orecchi; poi il collo, il petto, le braccia, le mani, e più giù le altre parti della persona. Cercò di fare del suo meglio, e appena ebbe finito corse da Sempronella, le mostrò il disegno e le domandò: - Di chi è questo ritratto? Sempronella guardò curiosa, e capì che era il ritratto di un fanciullo; ma non s'accorse che assomigliava a Sempronio, e non seppe dire altro che: - Mi pare il ritratto di un ragazzo qualunque. Sempronio si sentì mortificato. Ebbe un moto di impazienza, stette lì lì per dire alla sorella una brutta parola; ma tenne a freno la lingua, stracciò il disegno e andò a chiudersi in camera, come un povero Giottino riuscito male. Sedè al tavolino, si prese la testa fra le mani, e cominciò a pensare che era molto difficile fare il proprio ritratto. A un punto gli venne un'idea. - Il mio ritratto voglio farlo con le parole. Proviamo se riesco meglio. E giù a scrivere

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Ma se mi stizzisco con mia sorella, la mia voce non piace a nessuno. Insomma non credo di essere un brutto ragazzo. Vado a scuola e mi piace molo studiare. Quando ho un po' di tempo libero, mi diverto a disegnare. Ma non sono Giotto, e una volta che provai a fare il mio ritratto, mia sorella disse che era il ritratto di un ragazzo qualunque». Appena ha finito di scrivere, Sempronio corre dalla sorella, le porge il foglio e le dice: - Leggi e dimmi chi è... Sempronella legge ed esclama: - Ecco un ritratto che t'assomiglia. Pròvati a fare il mio!

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Prendono a destra e vanno a finire sull'orlo d'uno stagno. Le rane gracidano: qua... qua...: brech... brech. Le rane gracidano e i due fanciulli si soffermano ad ascoltare. Le rane giocano «alla scuola» nello stagno. Hanno grembiulini bianchi e calzoncini verdi. Stanno composte della persona, e cantano in coro: qua... qua... brech... brech... La maestra siede su un ceppo di salice, che sporge dall'acqua e serve di cattedra. Ella fa cenno agli scolari di cessare il canto e comincia la lezione. I piccini silenziosi, attenti, fissano sulla maestra gli occhietti lucidi come capocchie di spillo. Ad un tratto, una ranocchietta sbuca dal verde, con una campanella bianca e rossa in mano e allegramente dà il segnale che l'ora della lezione è finita. È la bidella delle rane! Le rane si mettono a saltare, proprio come gli scolari in ricreazione. Esse hanno bisogno di sgranchirsi le gambe. Quale si sdraia sull'erbetta. quale si tuffa a capofitto nell'acqua, altre si rincorrono e giocano a nasconderello. - Che proprio anche le rane vadano a scuola? - domanda Sempronio, che non crede a quanto ha veduto. - Se invece di andare a zonzo, ci si andasse anche noi? - dice Sempronella. I due fanciulli tornano indietro, ritrovano il sentiero, e cammina, cammina, giungono al villaggio. Si fermano davanti a un uscio che reca la scritta: SCUOLA.

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IL VOSTRO RITRATTO Ognuno di voi provi a fare il proprio ritratto. Chi vuol disegnarlo a penna o a lapis, avanti, ci si provi! Ma credo che ognuno di voi farà uno sgorbio. Riuscirete meglio se farete, come Sempronio, un ritrattino a parole. Non importa avere gli occhi azzurri o bruni, avere i capelli biondi o castani; importa essere più o meno buoni, più o meno bravi. Fate dunque il ritrattino dei vostri difetti e delle vostre virtù.

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E studia che studia, lavora che lavora, prova e riprova, a vent'anni era maestro nell'arte dell'intaglio. Venne la guerra, dovè andare soldato. Lasciò a mezzo i suoi lavori, chiuse la bottega. Lo mandarono in caserma. In caserma lo vestirono con panni grigio-verdi, gli misero un elmetto in testa, gli diedero un fucile in mano, e dopo qualche mese lo mandarono in trincea. Pinotto si disse: «Farò il mio dovere»; ma facendo suo dovere pensava alla bottega e ai ferri del mestiere. Un giorno cade una bomba sulla trincea. Pinotto fu ferito alla testa. Urlava pel gran male; lo portarono all'ospedale. Ma egli non vedeva più niente; era cieco, era cieco, per sempre! Allora pianse, pianse tanto! Non piangeva pei suoi occhi, piangeva per la sua arte. Quindici anni aveva studiato, quindici anni aveva lavorato, per essere un maestro nell'arte dell'intaglio! Ora tutto era finito, non poteva più vedere, non poteva più lavorare! Lo mandarono a casa. Quando fu a casa si fece coraggio. Si fece condurre nella bottega, riprese i ferri in mano, li riconobbe a uno a uno: prese un pezzo di legno, cominciò un rozzo disegno, intagliava e tastava: qualche cosa venne fuori. Il suo cuore si aprì alla speranza. Il giorno dopo volle riprovare. A poco a poco si rifaceva la mano, ricominciava a lavorare; il lavoro gli veniva, ma non ancora come una volta! Ma Pinotto si disse: «Ci vorrà tempo e pazienza; ci ho messo quindici anni quando avevo gli occhi buoni». E ogni giorno tornava da capo, ricominciava a studiare la sua arte. E faceva sempre meglio, lavori sempre più fini. Pareva ci vedesse con gli occhi di una volta. E studia che studia, lavora che lavora, e prova e riprova, dopo un anno di pene s'accorse con gioia che nell'arte dell'intaglio era tornato maestro, quasi come una volta!

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Dice Sempronio: - Andiamo a trovare compare Festo, e così si vede il mulino! - Andiamo, io non ho mai visitato un mulino, - salta su Sempronella - e chi sa che il mulinaro non mi dia un po' di crusca per le mie galline. Sempronio afferra un bastoncello, Sempronella si butta sulle spalle un fazzoletto, e sono in cammino. La strada si svolge tortuosa fra boschi di castagni. A un punto, i due viatori incontrano una donna con una gerla sulle spalle. - O quella donna, dite, si va per qui al mulino? - Andate sempre avanti, fino a che non troviate un sentiero a destra; seguitelo e sarete al mulino. - Grazie, buona donna. Ecco il sentiero che volge a destra. Semipronio e sempronella si guardano e sorridono arrossendo. Perchè? Si rammentano di quando, prima di andare a scuola, non conoscevano nè la destra, nè la sinistra, e questo lontano ricordo li empie ancora di vergogna. - Che bel sentiero! - esclama Sempronio. Di fatto, il sentiero che corre all'ingiù verso il fondo della valle, è circondato di alti castagni, di noci, di virgulti, di noccioli, di salici e di altre piante acquatili, che empiono la scena dei colori dell'autunno. Che cos'è questo rumore? - domanda Sempronella, soffermandosi ad ascoltare. - È l'acqua del ruscello che precipita - risponde Sempronío, dopo avere osservato una striscia d'argento che riga i prati e scompare giù in fondo tra le piante. - Il mulino non deve essere molto lontano. - Eccolo là! - esclama poi il fanciullo, accennando una casupola chiusa e silenziosa, con una gran ruota nera che gira a uno dei suoi fianchi. È il mulino davvero. Viene fuori un cane e abbaia. Poi s'affaccia il mulinaro tutto impolverato dí bianco. - Compare Festo, buon giorno! Il maestro vi

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IL CACCIATORE A una parete del mulino è appeso un fucile. Compare Festo, come quasi tutti gli uomini dei campi, è un gran cacciatore. - Venendo giù, l'avete incontrata la lepre? - domanda egli ai ragazzi. - Noi, no. - È passata qui davanti poco prima che voi arrivaste. - E perchè non avete tirato? - domanda Sempronio, che avrebbe un gran desiderio di vedere tirare «un colpo». Compare Festo risponde: - Non ho fatto a tempo a staccare il fucile dal chiodo. - Correva lesta, la lepre? - domanda curiosetta Sempronella. - Veniva giù trotterellando; appena mi ha veduto si è messa a galoppare con quelle gambette lunghe di dietro, che pareva una saetta. - Ci sono molte lepri da queste parti? - Ormai, con tante bocche di fucile che vanno in giro, ce n'è rimaste poche. Ma ad averci un buon cane e ad andarsene in giro di prima mattina, qualcuna se ne scova. Ciò detto, compare Festo solleva un sacco ammezzato di grano e lo rovescia nella tramoggia. I chicchi precipitano scrosciando.

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Tutto vestito a festa, con una cravatta azzurra sotto il mento, un largo cappello calcato sulla fronte, egli era più allegro del solito. - Bravi, bravi! M'avete fatto un regalone. La domenica, sapete, non si lavora; un giorno di riposo su sette ci vuole. Fa bene al corpo, fa bene all'anima. Io chiudo il mulino, e dò la via all'acqua: quella non si ferma mai, non ha domenica, quella! Io, invece, ho bisogno di un po' di svago, e sapete quale? - Quale, quale? - domandarono i ragazzi. - La pesca ai gamberi!

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Il venticello, scherzando tra le foglie dei salici che ombreggiano la gora, pare che zufoli a bassa voce una canzone ironica sul capo dei nostri tre pescatori. I gamberi rimangono tappati in casa. No: ecco, un usciolinos'apre, e un primo gambero esce lento e guardingo, camminando all'indietro. L'esca di compare Festo gli pende quasi sul capo: l'incauto allarga le pinze, afferra il boccone, e in quella che lo stringe per portarselo via, il virgulto si solleva con uno strappone e il gambero anch'esso uscito dall'acqua va a ruzzolare lì presso nel prato. I ragazzi gli sono sopra e lo vedono sgambettare. - A posto, a posto! - ingiunge compare Festo. Ed ecco di nuovo le tre schiene chine sulla gora e le braccia tese. Ora i gamberi escono fuori a due a due, a tre a tre, come fosse l'ora della passeggiata. Vanno a spasso, vedono il boccone, abbrancano e... zumpete nel prato! In un'ora se ne è empita una bella rete.

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LA CASA DEL MAESTRO SAVERIO Sempronio e Sempronella si presentano rispettosamente a maestro Saverio. Sempronio gli dice: - Signor maestro, io non so neanche stampare un O con un bicchiere. Le sarei riconoscente se m'insegnasse a scrivere! E Sempronella: - Io non so contare più là del due. M' insegna l' aritmetica, perchè io possa almeno contare le uova che mi fanno le galline? - V'insegnerò tutto quello che volete - risponde maestro Saverio, carezzando i due contadinelli. - Entrate, entrate! E accoglie in casa i piccoli analfabeti. Come è felice il buon maestro di avere due nuovi scolari! Egli è come il pastore che vede aggiungersi due agnellini al gregge. Ora maestro Saverio conduce i ragazzi a visitare la casa. È una bella casa bianca, ariosa, pulita come uno specchio: e vede il sole sorgere e tramontare. Di sotto è il porticato, la stalla con due mucche e l'asinello, l'orto e il pollaio. Per una scaletta si sale alla loggia, dove è la dispensa delle frutta. Di lassù si mira la campagna, i lunghi filari di viti appoggiati agli alberi, che in ottobre cominciano a perdere le foglie. Si vede la terra bruna, lavorata di fresco. Un'altra scaletta conduce all'abbaino, che dà sul tetto. - Guai a voi se salite sui tetti! - dice maestro Saverio. - Sui tetti lasciateci andare i gatti, e, quando occorra, i muratori. - Ecco il pollaio - aggiunge poi maestro Saverio, facendo girare Sui cardini un cancello. È un pollaietto con dieci galline impennacchiate e un gallo maestoso. - Piro, piro... - fa Sempronella, rovesciando a terra le molliche che le sono rimaste in fondo alle tasche. Tutto il pollaio svolazza a' suoi piedi, e chi non può beccare la mollica becca la cresta al compagno vicino. C'è anche la conigliera, con due paia di conigli dalle orecchie lunghe e dagli occhi rossi come lanternini accesi. - Chi accudisce a questi animali? - domanda Sempronella. - Io stesso. Finita la lezione, vengo a dare il becchime ai polli, ripulisco il covo ai conigli, cambio l'acqua. Se vuoi, d'ora innanzi, sarai tu la custode del pollaio. A Sempronella par di essere una regina.

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IL PONTE DEI BUGIARDI Tornando a casa, compare Festo narrò ai fanciulli una storiella. Una volta due viandanti facevano la strada insieme; uno veniva di paese lontanissimo e diceva cose mirabolanti della sua terra: l'altro era del luogo. Mentre procedevano conversando, una lepre attraversò la via. Il paesano, ch'era cacciatore, mise un grido, e non si poteva dar pace di non avere il fucile. - Oh! - esclamò il compagno - vi meravigliate tanto per aver visto una lepre così piccola? Da noi sono grosse come i daini! L'altro, a sentire quella bomba, si tenne a pena dal ridere, e, per dare al compagno una lezione, ribattè: - Da noi c'è ben altre meraviglie! - Quali, per esempio? - All'entrata del prossimo paesello, c'è un bellissimo ponte, costruito da un re antico, che dicono fosse un mago. Chi lo passa con qualche bugia sulla coscienza e non la confessa prima, si leva un vento improvviso che lo solleva e lo sbatte in fondo al torrente. Il forestiero guardò stupito il paesano, poi diventò pensoso, e, fatto ancora alquanto di via, si volse domandando: Quanto siamo lontani da quel ponte che dicevate ora? - Non molto, amico, - rispose indifferentemente l'interrogato. - Ho fatto così per dire, sapete? ma le nostre lepri non sono proprio come ì daini: sono come le pecore. E l'altro zitto. Andarono ancora un poco, e il millantatore tornò a domandare: - Quanto ci corre di qui a quel ponte? - Ci corre un miglio. - Ho fatto per dire, sapete. ma le nostre lepri saranno grosse quanto un cagnolo. E il paesano muto come un pesce. Ma ecco apparire in fondo alla strada il terribile ponte. Il forestiero rallentò il passo. - Ci siamo, amico; vedetelo là. - Ho fatto così per dire, sapete, - riprese l'altro fermandosi - ma... - Ma - interruppe vivamente il paesano - le lepri sono grosse da voi come da noi; solo i bugiardi sono molto più grossi. Andate pure adesso, e passate sicuramente il ponte. E lo piantò lì, prendendo per una via traversa.

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LA COTTURA DEI GAMBERI Tornano a casa i ragazzi con il frutto della bella pesca. Maestro Saverio li attende un po' impazientito, poichè le prime ombre della sera sono calate. - Credevo vi foste sperduti. - Oh, no! - risponde Sempronella. - Abbiamo pescato in compagnia di compare Festo. - Oh i bei gamberi! - esclama il maestro, che ne è ghiotto. - Bisogna cuocerli subito. - Li coceremo. Ho la mia ricetta. E la brava bambina si mette subito a sfaccendare in cucina. Ella vuole ammannire un buon piatto pel suo caro maestro. Che cosa non farebbe per lui! Ella è chinata sul paiolo e guarda. I gamberi mutano colore, mettono su una veste rossa. È segno che sono cotti. Entra Sempronio e dice: - Ho preparato la tavola. Sono pronti cotesti gamberi? - Pronti! - esclama la cuoca, sollevando il paiolo. Di lì a poco i gamberi fumano sotto la lampada accesa.

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Certe sere ella appare rotonda. come un disco: altre volte somiglia a una falce. Quando la luna è piena par di vederci disegnata la faccia di un uomo, col naso, gli occhi e la bocca. La genie dice che quella è la faccia di Caino. Una sera la luna fece uno scherzo a Sempronella. Il maestro le aveva detto: Va' in cucina a prendere un bicchiere d'acqua. Sempronella ubbidì, ma eccola tornare senza bicchiere e smorta di paura. Che li è accaduto? Signor maestro, in cucina c'è un fantasma vestito di bianco. Il maestro prese il lume e ridendo disse: Vieni, vieni, andiamo a prendere il fantasma. Il maestro andò in cucina verso il luogo indicato dalla fanciulla e non trovò altro che un panno bianco, disteso sulla spalliera d'una seggiola, sul quale batteva in pieno la luce della luna. Il panno s'era agitalo quando Sempronella aveva aperto l'uscio e così la fanciulla aveva veduto un fantasma!

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Debbo penetrare col calore nel terreno e aiutare il seme a germinare, debbo far crescere gli steli delle messi, i tronchi delle piante; debbo accarezzare le gemme perchè diano le foglie e i fiori, debbo curare i fiori perchè maturino i frutti. Guai se io non sciogliessi le nevi sui monti, non spazzassi i geli, non rompessi le nebbie, non guidassi le nuvole lungo gli azzurri sentieri del cielo! La vegetazione perirebbe, gli animali non troverebbero nutrimento. Passato il meriggio, io comincio a discendere. La luce d'ora in ora si fa più debole, e, lento lento, calo all'orizzonte, nel punto opposto a quello da cui mi sono levato la mattina. Si direbbe ch'io scompaio per non più apparire. La mattina dopo sono di nuovo il primo a levarmi.

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I contadini a fuggire, tirandosi dietro le mucche, e l'acqua a inseguirli, a entrare nelle case abbandonate, a invadere le cantine e le stalle. In una casa c'era un povero vecchio paralitico, che non poteva più scendere di letto. Rimase con lui un uomo della famiglia, finchè vennero i soldati con una zattera e li salvarono tutti e due. L'inondazione durò tre giorni e i campi tutto all'intorno si mutarono in laghi pantanosi. Poi, per buona sorte, la pioggia cessò, il fiume andò scemando rapidamente e rientrò nell'alveo. Ogni anno, in primavera e in autunno, s'odono brutte notizie di inondazioni, e a volte muoiono intere famiglie: rovinano case, e vasti campi ubertosi rimangono sepolti sotto un lenzuolo di fango.

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LA BARCHETTA Piegano e ripiegano il foglio, ed ecco, i due fanciulli hanno fabbricato una leggera, candida barchetta. ll fiume corre veloce sotto i loro sguadi, e sulle onde che si inseguono essi gittano la minuscola imbarcazione; essi varano con grida di gioia il vascelletto di carta, destinato a una rapida corsa e a un certo naufragio. La carta non regge alla foga impetuosa del fiume, l'acqua la bagna e la inzuppa: ben presto i bordi immollati cedono, la navicella perde a poco a poco la sua forma slanciata, fino a che un'onda più alta delle altre la copre di un suo fiotto, la sommerge miseramente. La barchetta è perduta! Non aveva nè remi nè vela: non aveva nè passeggero, nè capitano, nè pilota: era una qualunque barchetta di carta, di quelle che fanno i fanciulli sulle sponde dei fiumi e sulle rive del mare. Essa ha durato quanto dura un piccolo gioco. La carta con cui l'avevano fabbricata era scritta; una mano di fanciullo aveva vergato sulle linee tante parole, l'una dietro l'altra: e le parole formavano un componimento di scuola. In fondo, il lapis azzurro del maestro ci aveva stampato un bel nove, perchè il componimento era bello, con una sola dimenticanza di punteggiatura. E l'acqua ha stemperato e disciolto tutta la bella scrittura, il componimento è affondato insieme con la carta della barchetta, insieme con quel bel nove azzurro che s'era meritato. Nessuno versa lacrime su questo naufragio. Anzi i fanciulli ridono del proprio gioco e dello scherzo del fiume. Ma ci sono barche fabbricate col legno e bastimenti rivestiti d'acciaio, che un bel giorno prendono il mare e vanno coi remi e con le vele e col vapore, e giungono sulle onde in tempesta, e lottano, lottano disperatamente con la furia dei venti e dei marosi, e al fine devono cedere alla burrasca. Gli alberi cadono schiantati, i remi vanno in frantumi, le macchine si guastano, il pilota abbandona il timone, il capitano non sa più che ordini dare, i marinai si vedono perduti, tutti piangono, gridano, implorano: la imbarcazione è perduta, galleggia in balia delle onde, corre alla deriva, sbatte contro gli scogli, va in frantumi, ed è la morte per tutti! La violenza dell'acqua è tremenda. Al paro della carta, ad essa cedono il legno ed il ferro. E come affonda il piccolo componimentino di scuola, affondano a decine e decine i corpi e le vite degli uomini, e le sostanze e i tesori.

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RUSTICO Alla volontà del babbo Rustico aveva fatto un viso di festa: egli non desiderava di imparare a leggere nei libri. La sua vita era in mezzo ai campi, fra i giochi e le corse, e gli piaceva molto più andarsene a caccia di nidi, o prendere a sassate le lucertole che si trastullano al sole sui muriccioli o che vanno a spasso sulle siepi di more, che non rinchiudersi tra le pareti di una scuola a prendere una penna in mano. Rustico era soddisfatto e contento di avere in sorte un babbo simile. E quando incontrava un compagno di ritorno dalla scuola, con la cartella dei libri sotto il braccio, un po' lo compiangeva, un po' lo beffava, ma finiva sempre con l'esclamazione: - Che bravo babbo ho io!...

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Essi avevano dai sei ai nove anni, e crescevano senza istruzione, perchè il loro babbo non aveva mai voluto che andassero a scuola. - Io non ci ho mai messo piede, e non voglio che ci andiate voialtri: camperete anche senza sapere nè leggere nè scrivere.

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Se suo padre gli avesse detto: «Domani andreai a scuola», egli non avrebbe fatto opposizione, ci sarebbe andatodi buona voglia. Ma il padre aveva detto anche a lui: «Io non voglio che tu perda tempo a scuola; preferisco mi dia una mano nei miei lavori». E Domestico ubbidiva. Ma quando incontrava un compagno di ritorno dalle lezioni, con la cartella dei libri sotto il braccio, non lo compiangeva, nè lo beffava. Diceva solamente: - Se mio padre mi ci mandasse, studierei volentieri anch'io.

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Chi gli insegnò a leggere le vocali, chi gli insegnò a leggere le consonanti, e chi gli insegnò a leggere i numeri. Così un po' per giorno a forza di buon volere, si dirozzava. Ma egli avrebbe voluto fare ben altro!

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IL MINISTRO DEL RE Capitò un giorno a passare da quelle parti un Ministro del Re. Vide Desiderio ch'era molto triste, e gli domandò: - Che hai? Il fanciullo rispose:

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E stava per firmare, quando il Ministro ripensò al caso del piccolo Desiderio, al quale suo padre non avrebbe permesso di andare a scuola, perchè s'era impuntato su quella idea storta che le scuole non servissero a niente. - Un momento, Maestà. Bisogna aggiungere un ordine a questa legge: «Che tutti i genitori siano obbligati a mandare propri figlioli alla scuola». Ce n'è qualcuno che non vuol saperne. - Possibile?! - esclamò il Re. - È proprio cosi, Maestà. Allora il Re aggiunse di suo pugno quell'ordine e la legge fu bandita. Da allora molto tempo è passato in quel lutese lontano. Molte scuole furono costruite nelle città e nei villaggi. Molti maestri e molte maeste hanno consumato la loro vita nell'insegnare. Molti bei libri sono stati scritti e stampati per fanciulli. E non c'è più babbo che non voglia mandare i suoi figli a scuola. E quanto a costoro, se essi assomigliano a Desiderio o a Domestico, vanno a scuola come andrebbero a festa: se assomigliano a Rustico, fanno qualche smorfia e qualche lacrimuccia le prime volte, ma sono lacrime che asciugano presto!

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Allora si mise a volare pei dintorni, chiamando gli uccelli e dicendo: - Compagni, correte correte: distruggiamo tutti quei semi di canapa, altrimenti, vi dico io che ce ne verrà un gran male. Gli uccelli intorno si misere a ridere e gli diedero del pazzo. Dopo pochi giorni il germoglio della canapa spuntò e le pianticelle crebbero. In maggio il campo era tutto una selva fittissima di asticciuole alte e sottili: il canapaio era fatto. Il pigliamosche aveva fabbricato il nido nel bel mezzo, legandolo a quattro steli, e trillava allegramente una canzoncina arruffata. Allora il merlo si mise di nuovo a correre pei dintorni, chiamando gli uccelli e dicendo: - Venite, correte, cerchiamo di sbarbare queste pianticelle o ce ne verrà un gran male. E gli uccelli, anche questa volta, a schernirlo! La canapa giunse a maturazione. Ai primi di settembre il contadino la tagliò, ne fece delle mannelle, le portò al macero e le affondò nell'acqua. La canapa fermentò, infrollì, si cosse. Quando ne fu tratta, il tiglio, staccato dal canapule, appariva nudo e bianco, come un osso spolpato. Le mannelle furono sciorinate, ritte come piccole tende di soldati. Il merlo, seduto sulla frasca, cantava: - Poveri noi! Ma gli altri uccelli non c'era caso gli prestassero orecchio. Ecco, una bella notte, al lume di luna, robusti giovinotti posero le mannelle sul frantoio e a colpi di matterello infransero i canapuli. Le gramolatrici le maciullarono, il canapino le pettinò, e le filatrici ne fecero il capecchio alla conocchia e filarono dell'accia. La tessitrice fece la tela: il canapino ne torse il filo. E il merlo, seduto sulla frasca, cantava: - Ci siamo! Ci siamo! Di fatto, altre donne presero parte di quel filo e ne fecero una bella rete. l cacciatori la distesero dinanzi ai capannelli, e dappertutto erano reti, e reti, e reti. E il merlo, seduto su una frasca, cantava: - È finita! Gli uccelli che passavano, gli facevano grandi risate di scherno; e andavano a posarsi tra le fronde di un bel boschetto che pareva offrisse loro un nido sicuro. Ma era un paretaio e i poveretti finivano tra le maglie sottilissime della rete! Allora si ricordarono - ahi troppo tardi! - di quel mattino di marzo, in cui il merlo li aveva chiamati per distruggere i semi di canapa. Quanto al merlo, poveretto, benchè stesse più attento degli altri, anch'egli fu acchiappato un giorno. Non fu cotto allo spiedo, ma chiuso in una gabbia: e lì dentro passò il tempo a zufolare e cantare. Ma se l'avessero ascoltato!

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Immaginate la loro letizia il giorno in cui maestro Saverio li condusse a visitare quello di un signore amico suo, che abitava poco fuori del villaggio. - Il signor Cominetti - narrava il maestro cammin facendo - accudisce lui stesso alle sue piante, e una gran parte della sua giornata trascorre in mezzo ad esse. Egli s'interessa alla loro vita, le osserva crescere

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Rifaceva la cameretta, e scendeva quei pochi scalini di legno tarlato che dalla camera da letto, mettevano nella sottostante cucina: e lì cominciava a sfaccendare. Mandava a razzolare nel viottolo le due o tre gallinelle che possedeva, brontolava un po' con quel pigrone del gatto che osava chiederle la colazione con insistente miagolìo, preparava la sua solita tazzina di caffè, fatto di orzo, cicoria e malva, e vi inzuppava un boccone di pan nero, che le fermava lo stomaco fino all'ora della colazione. In quella cucina dai muri velati di nero, a cagione del fuoco che, secondo le abitudini primitive delle nostre più povere case di campagna, ardeva in mezzo al pavimento, era in un canto un telaio, certo più antico dell'antica sua proprietaria. Due grosse travi tenevano fissa al muro l'intelaiatura, sulla quale erano tesi i fili che si svolgevano dal roccchettone man mano che la tela s'ordiva e s'arrotolava intorno al cilindro. La Tuna, sorbito il caffè, sedeva al telaio: sedeva, per modo di dire, poichè, appena messa in corsa la spola, le mani e le braccia non avevano più requie, e i piedi e le gambe facevano una ginnastica ininterrotta: di modo che la vecchierella s'appoggiava appena sul duro sedile. E allora, per ore e ore, non si udiva più che il tic tac, secco e regolare, del telaio, che non cessava se non ai primi richiami argentini delle campane di mezzogiorno. La spola andava e tornava, quasi come una lucertolina chiusa fra le pareti di un corridoio, costretta a fuggire da destra a sinistra, da una mano all'altra. Tic tac, tic tac, mentre fuori la neve cadeva a larghe falde in silenzio, coprendo il paesello di una miriade di fiocchi bianchi come fiori di cotone; tic tac, mentre fuori la primavera copriva di un abito verde i castagni ed i noci: tic tac, mentre l'estate ardeva nel gran cielo azzurro come un campo di lino; tic tac, tic tac, mentre fuori le piogge d'autunno insistenti maceravano le foglie cadute dagli alberi: tic tac, tic tac, fino a che, le ombre della sera non immergevano la stanza nella più profonda oscurità. A settant'anni la Tuma aveva la resistenza di una ragazzotta di venti. Quando veniva una promessa sposa per farsi tessere la tela del corredo, la Tuna parlava dei suoi tempi molto lontani, quando ogni sposa filava e tesseva da sè la tela occorrente al proprio corredo. O come sono mutati i tempi! Adesso si fa tutto a macchina! Il telaio era posto sotto una finestrella a grata, che dava sul vicoletto tortuoso, e tutti quelli che passavano di là si soffermavano a scambiare quattro parole con la Tuna, che non cessava il suo lavoro. Sempronio e Sempronella si affacciavano anch'essi sovente alla grata, e guardavano entro e conversavano. Asciutta di carni, e un po' giallognola in volto per la vita passata in gran parte all'aria chiusa e nella semioscurità della sua casupola, la Tuna pareva una di quelle vecchie fate delle fiabe che operano prodigi con la rocca e con l'ago: e alle quali i fanciulli che hanno molta fantasia credono, quasi esistessero veramente, mentre non tutti credono che ci siano ancora al mondo delle vecchierelle di settant'anni, che, senza essere maghe, vivono con due o tre galline o con un gatto grigio in una povera capanna, alzandosi all'alba per lavorare e coricandosi la sera per riposare qualche ora e poter riprendere la mattina l'usato lavoro, che fanno ormai non più per sè, ma per gli altri, intessendo la tela alle spose giovani che cominciano ora la vita, e che preparano le fasce per le creaturine che verranno.

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La scuola è deserta, silenziosa, piena di malinconia; la polvere cade a poco a poco sui banchi vuoti. Il maestro sale ancora una volta sulla cattedra, dalla quale soleva vedere tutti i suoi piccoli e le piccole con i visini rivolti verso di lui, con gli occhietti vivaci, con le fronti incorniciate da capelli biondi o bruni o castani, illuminate dalla gioia dell'ascollare e dell'imparare. Il maestro era come il sole per quelle tenere menti. Esse si aprivano ad una ad una, come i fiori al raggio del mattino, al tocco della luce. Ed ora il maestro rimane solo. I saluti che gli porgono gli scolaretti lo commuovono come se i piccini fossero tanti suoi figliuoli, e andassero lontano lontano. Il maestro è molto innanzi negli anni! Potrebbe anche darsi che al tornare dell'autunno i suoi scolari non lo trovassero più. - Addio, cari, e siate buoni, e ricordatevi di me. Li saluta a uno a uno, li accarezza, li bacia: dinanzi ai migliori nasconde in un abbraccio lungo la commozione che lo vince. - Addio! addio!

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LA STRADA NUOVA Ormai chi vorrà scendere o salire non dovrà più portare a spalla il gerlo carico di roba. Ormai i carri arriveranno su, fino al lontano paese, e d'estate le carozze recheranno a frotte i villeggianti, che prima andavano su rari rari in groppa ai somarelli. Quando i nostro due fanciulli lasciarono, or sono due anni, il paese, della strada nuova non c'era che il tracciato. Alcuni picchetti indicavano la via che avrebbero seguita i manovali nel lavoro di sterramento, prima, poi quello di rinforzo coi muri a secco, là dove il terreno era più friabile, o nei punti dove doveva costrursi un ponticello attraverso il torrente che corre tra i fianchi di un'amena valletta. Gli ingegneri, i geometri, i canneggiatori avevano preso le loro misure, avevano disposto l'ordine dei lavori di livellamento, avevano indicate le cave dalle quali si sarebbe estratta La pietra. In luogo dell'antica stradetta mulattiera, quella che tutti battevano con stento e fatica, correva ora la strada carrozzabile larga e pianeggiante: correva tra le rive verdi smaglianti e le fresche cascatelle, tra il suono argentino delle campane dei villaggi sparsi tutto intorno, all'ombra dei meravigliosi castagni e dei faggi fronzuti. Pareva la strada di un parco, tanto il piano era liscio e pulito. Ci si camminava ch'era un piacere. La strada pareva costruita appositamente affinchè il passeggero potesse ammirare a una a una le bellezze del paese all'intorno. In realtà era stata costruita per ragioni di utilità pubblica. Di fatto essa doveva congiungere l'uno all'altro due paesi che prima d'allora vivevano separali e quasi divisi dalla mancanza di comunicazioni facili e pronte. Lassù dove era la capanna di Sempronio e Sempronella non era mai arrivata una carrozza, nè una bicicletta, nè un'automobile. La diligenza, che faceva il servizio postale fino al paese dove era la scuola, non poteva proseguire in mancanza di strada. Ed ecco che il paese di Sempronio e Sempronella era stato sempre come tagliato fuori dalla civiltà. Lassù non s'era mai aperta una scuola, lassù non c'era l'ufficio postale, lassù il dottore andava difficilmente. Adesso le cose prenderebbero un ben altro avviamento. Tra un anno o due si sarebbe costrutto un piccolo edifizio scolastico, si sarebbe aperto il piccolo ufficio delle poste e forse anche dei telegrafi, poichè la nuova strada avrebbe reso più frequenti le comunicazioni, i carri avrebbero potuto recare lassù i materiali da costruzione con spesa minore, il piccolo commercio locale si sarebbe ravvivato, la gente avrebbe potuto guadagnare più facilmente qualche soldo, e la prosperità del paese sarebbe a poco a poco cresciuta con vantaggio di tutti. Quello era dunque un piccolo angolo d'Italia che si rinnovava. E chi avesse veduto i nostri due fanciulli camminare a passi lesti e con aria allegra lungo la via, avrebbe pensato: «Ecco che non solo il paese si rinnova, ma anche gli abitanti. Come gli ingegneri hanno aperto una strada nuova, così il maestro, diffondendo l'istruzione, ha redento due piccole anime dall'ignoranza, ha tracciato anch'egli nelle loro menti una nuova strada che li guida verso l'istruzione e la luce». Di fatto una nuova vita cominciava allora per Sempronio e Sempronella. Essi erano usciti per sempre dalle ombre dell'ignoranza, e alla loro tenera età la mente era più ricca di cognizioni che non fossero quelle dei loro genitori; essi sapevano leggere e scrivere, essi avrebbero potuto imparare da soli sui libri tante cose, che babbo Terenzio e mamma Venusta non avevano mai sapute. E voi, miei piccoli lettori, pensate che quello che accadde allora nel luogo di cui vi parlo, accade oggi in tutta Italia: nuove strade si aprono da paese a paese, nuove scuole si inalzano nei borghi più appartati dalla società. La nuova Italia, quella di cui voi fate parte, migliora di anno in anno, si fa più istruita, più educata, più ricca. L'Italia è in progresso, e voi quando sarete uomini la vedrete fatta più grande e più potente che ora non sia.

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SCUOLA E FAMIGLIA Sempronio e Sempronella pregano maestro Saverio di scrivere subito una letterina ai loro genitori, a mamma Venusta e a babbo Terenzio, per avvisarli che essi non torneranno in montagna se non quando avranno imparato ben bene a leggere e a scrivere. Cari genitori, siamo scesi al villaggio e siamo entrati la prima volta in una scuola. Il maestro ci ha accolti come fossimo suoi figlioli. Ci ha detto che in un anno impareremo a leggere e a scrivere. Sono insieme con noi tanti fanciulli e fanciulle. Chi ha i capelli biondi, chi li ha bruni, chi ha le scarpe di contadino e chi calza gli stivaletti da signore. Ma questo non importa niente: l'importante è avere voglia di imparare, e di farsi onore. Il vostro Sempronio e la vostra Sempronella in capo a nove mesi di studio vi scriveranno una bella letterina di loro mano. Ve lo promettono. Questa è scritta dal maestro Saverio, il quale vi saluta e vi prega di venire giù al villaggio appena potrete. I vostri affezionatissimi figli SEMPRONIO E SEMPRONELLA.

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Ed essi, prima d'entrare in paese, sostarono qualche istante a una fontana che chiocchiolava lungo la via. La fontana non c'era quando essi lasciarono il paese. Essa era stata costruita insieme con la strada, e qualche donna era lì con i secchi ad attingere la fresca acqua corrente. Una lapide infissa dietro la fonte indicava il nome di colui che l'aveva donata al paese. Era uno del luogo che tornato dall'America con una discreta fortuna, aveva

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