Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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In Toscana e in Sicilia

245725
Giselda Fojanesi Rapisardi 19 occorrenze
  • 1914
  • Cav. Niccolò Giannotta, Editore
  • Catania
  • Verismo
  • UNICT
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"Amore campagnolo è un eccellente studio, pittoresco e psicologico a un tempo: è forse il racconto dove meglio ella ha saputo fondere la descrizione e l'analisi,, . "Se a questo volume di Racconti si volesse contrastare ogni altro merito, ne serberebbe sempre a ogni modo due, notevoli e indiscutibili: la composizione e lo stile. Io poi le fo, egregia signora, gran merito di un'altra cosa: di aver cioè, descritto creature umane, talvolta le più prosaiche e più umili, con interesse e simpatia umana - e non con la superba indifferenza di un obiettivismo scientifico. "E credo che anche i lettori avvezzi a inebriarsi di forti liquori e di filtri voluttuosi, versati in coppe brillanti cesellate per mano di abili e audaci artisti, non sdegneranno un vino schietto e paesano, offerto in una modesta tazza di puro cristallo. "Vorrei per ultimo darle, brava e gentile signora, un consiglio. Ci doni altri bozzetti campestri, altri semplici drammi rusticani. "Questa è la sua nota più caratteristica; la coltivi, e farà cose durevoli. Non la distolga l'umiltà dei soggetti. In Arte non vi sono nè grandi, nè piccoli. Evangelina e Ifigenia, Cosette e Berenice si danno la mano.... "E forse, quando non si rammenterà più neppure il titolo di certi famosi romanzi dalle cento edizioni, si rileggeranno sempre e vivranno di fresca immortale giovinezza la Petite Fadette e la Mare au diable,, . Ora, la egregia signora pubblica questo nuovo volume in cui, seguendo, dopo molti anni, il consiglio del suo illustre critico, ha riunito racconti tutti di soggetto campestre: volume che noi siamo ben lieti di offrire ai lettori intelligenti e bongustai. Catania gennaio 1914. L'EDITORE

E.... a quando le nozze? - domandò la zia Nena. - A carnevale, se Dio vole - rispose la Caròla, mamma dell'Assuntina - la roba è quasi tutta punta, e nessuno ci ha messo le mani, perchè, non faccio per vantarla, ma la mi' citta le ha proprio d'oro le mani. La canape e il lino che han servito per il su' corredo gli ha seminati, roncati e incigliati, poi filati e tessuti da sè, e, non faccio per dire, sembrano filati a macchina, tanto sono uniti; quanto a tessere poi, nessuno gli può insegnare a ordire una tela e a maneggiare la spola. - Sì, è vero quel che dite, e io sono contento d'averla scelta per donna; anche la mi' mamma è stata d'accordo, e sapete se la mi' mamma è stucca!..... esclamò Bista, il futuro marito dell'Assuntina. Questi discorsi si facevano, in una sera d'autunno inoltrato, in campagna, nella provincia d'Arezzo e proprio entro una bella stalla ove erano riunite tutte le comari del vicinato con le figliuole ed i rispettivi vegliarini di alcune di queste. Le donne sedevano sulle panche poste sotto il lume a mano, attaccato alla trave di mezzo, come usava cinquant'anni fa, filando; gli uomini se ne stavano distesi sulla paglia, riposandosi dalle fatiche della giornata, e dicendo barzellette alle ragazze che ridevano sottecche, e qualche volta rispondevano a tono. Le bestie, stupende vaccine della Val di Chiana, bianche e lucide come raso, dalle piccole corna, stavano sdraiate, con le gambe davanti ripiegate in dentro, come in ginocchioni, sulla lettiera fresca e pulita, ruminando beatamente, e spandendo intorno un tepore benefico e un odore sano, punto disgustoso. La zia Nena, benchè fosse stata ai suoi tempi, una bella ragazza e possedesse del ben di Dio, non s'era maritata, e tutti ne facevano le meraviglie: era bella ancora, col suo personale svelto, alta, con le spalle larghe e la vita sottile, il viso sereno in cui splendevano due occhi neri, vivaci e dolci ad un tempo: quando sorrideva, mostrava due file di denti uniti e bianchi come l'avorio aveva la fronte spaziosa circondata da una grande quantità di capelli color di argento, tutti ondulati. Piena di criterio e di buon senso, parlava con facilità e si esprimeva benissimo, quantunque non sapesse nè leggere, nè scrivere. Quella sera la zia Nena era di buon umore, e parlava più del consueto, dando dei buoni consigli all'Assuntina e a Bista; consigli che dovevano mettere in serbo per quando si fossero sposati. - Sì, figlioli - diceva - il matrimonio può essere un paradiso, ma può anche essere un inferno, Dio ne scansi e liberi; tutto sta nel sapersi sopportare - solo Dio senza difetti; pensate a questo e compatitevi... Ad un tratto, l'Assuntina venne fuori a dirle: - Sentite, zi' Nena, come va che non vi siete maritata? pare impossibile: voi bella, buona, che sapete procedere tanto bene e avete tante terre al sole, siete rimasta senza marito, mentre noi che non siam degne di sciogliervi le scarpe, ci maritiamo tutte: nella nostra cura non c'è una citta vecchia. - Ci son io - interruppe la Nena ridendo - e ci sono perchè ho voluto esserci. Dei ronzoni intorno ne ho avuti e molti... e anche delle buone occasioni non me ne son mancate... ma giurai a chi volevo bene di restare ragazza, e da buona cristiana, ho mantenuto il giuramento. Allora, tutte le ragazze, in coro, unite coi giovanetti e con qualche mamma, principiarono a dirle: - Zi' Nena, raccontateci la vostra vita; diteci a chi volevi bene, e perchè non lo sposaste; ditecelo, via, zi' Nena. - Questa è una cosa che ho sempre tenuta segreta perfino alla mi' pora mamma, solo il sor priore, bon'anima, quello che morì anno di là, sapeva tutto. - Ditelo anche a noi, via, zi' Nena, fateci il piacere; vi promettiamo che quella che ci racconterete non uscirà di qui, se lo desiderate. La zia Nena stette un po' sopra pensiero e poi disse: - Sono ormai passati tanti anni, e tutti quelli che avevano parte in questa storia dolorosa sono morti, posso dunque parlare senza che ne nascano chiacchiericci e scandali. Si raccolse un momento, e poi incominciò, parlando adagio e come a stento: - Come vi ho già detto altre volte, io ero figliuola unica e stavo con la mi' mamma, buon'anima, rimasta vedova quando io avevo sett'anni, nella cura più vicina a questa. La mi' mamma era proprio una bella donna, e buona... una Santa. Si stava in una casetta nostra con due campicelli che ci davano il pane e il vino; per il resto la mamma s'ingegnava: andava a opra d'estate, e filava e tesseva per altri d'inverno; insomma, come Dio voleva, si tirava avanti alla meglio senza patir troppo, e senza debiti. Un giorno, avevo allora dodici anni, ci capitò in casa un vecchio amico del mi' pòro babbo, un beli' uomo, vedovo e ancora ben portante, nonostante i suoi quaranta anni sonati. La mamma, quando lo vide, gli fece festa, perchè gli rammentava il su' pòro marito, al quale aveva voluto un ben dell'anima: - O Girolamo, che fate, state bene?- gli disse - e il vostro citto è cresciuto? perchè non l'avete menato con voi? avrei avuto tanto caro di vederlo. - E voltatasi a me: - Nera, vien qua; guarda chi c'è... Girolamo; leva l'olio a un fiasco di vino del bigonzo: bevete, Girolamo, bevete e rinfrescatevi. - Mi pare ancora di sentirla. E Girolamo contraccambiava le garbatezze che gli faceva la mi' mamma, ma non levava mai gli occhi d'addosso a me... Mi guardava in un certo modo, che mi facea quasi paura, e perciò me ne stavo zitta, mogia mogia, come intontita. - O brava Lucia - diceva lui - son proprio contento di vedere che state bene.... e che bella casina che avete, e come la tenete ravversata: è un piacere a vederla. Non è così della mia; o che volete? senza donne.... Anche il mi' Beppino, che sta bene, è fatto grande e lavora, è trasandato nel su' dosso; si puol capire cos'è capace di fare una serva che per di più deve anche far la erba per le bestie... Quella po' di robicciola e la biancheria che la bon'anima della mi' pora moglie teneva tanto bene, se ne va tutta alla malora. - Sapete, Girolamo - disse la mamma - che cosa dovreste fare? dovreste tor donna ancora; non una ragazza troppo giovane, per motivo del vostro citto, ma una donna di pensiero e di proposito... - Sie, e dove si trova? - riprese lui - se la trovassi come mi intendo io, e che mi volesse, farei volentieri quel che mi consigliate di fare, magari!.. - Per trovarla, non ne vorrete tante voi, e per volervi, figuratevi! siete un bell'uomo, sano, ancor giovane.... ricco... figuratevi, dico! Girolamo rispose, così, sulle generali, bevve un altro bicchiere, mi accarezzò il mento e se n'andò, dicendo che sarebbe tornato con Beppino. Tornò difatti, una settimana dopo, col su' citto, un bel ragazzo di quindici anni, grande, e grosso, biondo e ricciolo come un S. Giovanni, e con gli occhi celesti uguali a quelli dell'arcangelo Gabriello, come è dipinto in chiesa. La mi' pòra mamma, che era tanto di cuore, li accolse. a braccia aperte; prima parlarono di cose indifferenti, poi, Girolamo mi disse: - Nena, mena Beppino per i campi e fagli vedere anche le tue vitelle; se ne intende lui, sai? - S'andò fuori, e quando si tornò in casa, si trovò la mamma un po' smorta in viso, e Girolamo, rosso come un rosolaccio, che gestiva, gestiva, e che aveva gli occhiacci neri e cattivi, lustri lustri. Insomma, per farla corta e breve, tornò spesso: tutte le settimane prima, poi, più volte la settimana; e infine, una volta, dopo che Girolamo era andato via, la mi' mamma, seria seria, mi chiamò e mi disse che fra un mese avrebbe sposato Girolamo, e che si sarebbe andate a stare a casa di lui, appigionando la nostra casuccia, e affittando i campicelli. Io rimasi senza fiato, mi sentii strizzare il cuore e serrare la gola, sicchè non risposi. La mi' mamma, che ora è in luogo di verità, mentre io sono in luogo di bugia, ve lo potrebbe ripetere, se fosse qui; capì subito ch'io non ero contenta, ed ebbe paura: tremava come una foglia, nel tempo che cercava di persuadermi.... Buon per lei e... per me, se avesse dato retta alla su' paura.... Dopo un mese eravamo già sistemate in casa di Girolamo, che aveva voluto fare il matrimonio alla sordina, senza far chiacchierare il vicinato, trattandosi di vedovi non più di primo pelo. Il mio patrigno era buonissimo con me, mi ricolmava di carezze e di regalini, mentre era brusco con la moglie e sgarbato col figliolo. Io non mi ci raccapezzavo, ma, nonostante le sue moine e i suoi regali, non lo potevo soffrire, e quando tornava dal mercato e diceva : - Nena, dove sei, vien qua, dammi un bacio, vedrai che t'ho portato - mi sentivo struggere e sarei andata a nascondermi sotto terra. Mi dava confetti, ginocchiate, o qualche grembiale o uno scialletto, abbracciandomi e stringendomi forte forte, in modo che mi faceva paura, e non mi lasciava se non gli ripetevo che gli volevo bene, che glielo avrei voluto sempre, e sarei rimasta sempre in casa con lui. Io, pur di liberarmi dalle sue mani, promettevo tutto quello che voleva, e fuggivo via per i campi con Beppino. Una sera, avevo allora sedici anni e Beppe ne aveva diciannove.... Ma dovete sapere che Beppino ed io ci si voleva un gran bene, e s'andava d'amore e d'accordo in tutto e per tutto: lui si sfogava con me per la durezza e l'avarizia del su' babbo; io cercavo di consolarlo come potevo, ma non gli sapevo nascondere che anche a me, quell'uomo non mi piaceva con quegli occhiacci cattivi.... Quella sera dunque Beppe, che non ne poteva più, mi disse serio serio: - Nena, quando avrò abbeverato le bestie e chiusa la stalla, vieni dietro casa, guarda che nessuno ti veda; ti voglio dire una parola. - Io ci andai, e Io trovai che mi aspettava. Quando mi rivide, mi venne incontro, e pigliandomi per mano, mi disse risoluto: - Senti, Nena, io ti voglio un bene dell'anima, e mi sono avvisto che anche tu me ne vuoi. Sei una bella ragazza, hai sedici anni, e presto presto qualche giovinotto del vicinato si farà avanti e vorrà venire a veglia da te.... questo io non lo potrei sopportare.... la idea che tu prenda marito e che tu esca da questa casa, mi fa diventar matto di dolore e di gelosia.... impegnamoci dunque; ci conosciamo da tanti anni, siamo ormai avvezzi a stare insieme.... ci troveremo contenti di certo.... eh! che ne dici? - Figurati, - risposi io senza mezzi termini, tanto ero sicura di lui - non desidererei niente di meglio, perchè ti voglio bene proprio di cuore, ma il tu' babbo non ne vorrà sapere: voialtri siete ricchi, o io non ho che quella casuccia e quelle quattro zolle di terra, e anche, finchè vive la mi' mamma, che Dio la faccia campare cent'anni, appartengono a lei; tu' padre vorrà darti una ragazza con una bella dote. - A questo 'un ci pensare: a dir di sì ci ho da esser io. Tu promettimi di non sposare un altro, di voler bene sempre a me, che al resto ci penserò io quando sarà tempo. Ancora siamo un pò troppo giovani, ma fra un par d'anni, se si campa, metterò carte in tavola, e, o con le bone o con le cattive, il consenso il babbo me lo darà. - Passò un anno - riprese la zi' Nena, dopo un breve silenzio - in cui Beppino e io si fu contenti come pasque: si facevano insieme le faccende per i campi; lui mi risparmiava tutte le faticacce, m'aiutava a caricarmi in testa le grosse rope d'erba o la paniera, quando portavo da mangiare all'opre; insomma, fra noi due era un vero paradiso. Ma siccome ci dev'esser sempre qualcosa contraria, perchè la contentezza non sia troppo grande, avevo lo struggimento di vedere che Girolamo, mentre diventava sempre più cattivo con la mi' mamma, che era tanto buona, faceva sempre più il tenero con me, e quella tenerezza, a dirvela schietta, mi garbava poco.... A questo punto la Nena si fermò come incerta se dovesse andare avanti, o se saltare qualche fatto, il cui ricordo la turbava; poi scosse le spalle e riprese: - Un giorno, che la mamma era andata in chiesa e che Beppino aveva attaccato il carro per andare a prendere un carico di fieno, Girolamo mi capitò improvvisamente in camera: - Nena - mi disse - sei sola? ci ho piacere, perchè ti voglio dire una cosa - e prendendomi per la vita, mi dette un bacio proprio sulla bocca, io mi svincolai tutta stizzita e gli gridai; - sapete un pò com'è? gli è tempo che la facciate finita con le vostre carezze e con i vostri baci; non sono più una citta, e voi non siete il mi' babbo, avete capito? - Appunto perchè non sono il tu' babbo, te le fo queste carezze. Nena, tu mi piaci, e tu mi piacesti appena ti vidi, ma allora tu eri troppo tenerina; sposai la tu' mamma per tirarti su a briciole di pane, e perchè tu non mi scappassi. Ora ti dichiaro che ti voglio per me, hai capito? e che non ti lascerò sposare nessuno.... - Mi fate schifo - gli urlai io - se vi arrischierete ancora a dirmi di queste cose, dirò tutto alla mamma e me n'andrò di casa, a costo d'andar per serva.... - Ora dici così - riprese lui calmo, sorridendo - ma poi cambierai idea: della tu' mamma non me n'importa un fico; che cosa mi può fare? andarsene? buon viaggio; se mi leva l'incomodo mi fa un piacere. Pensa che son ricco, ricco più di quanto t'immagini, e che ti ricoprirò d'ori, ti farò un bel vestito di seta color petto di colombo; ti comprerò i pendenti e il vezzo di corallo arrotato, e ti farò dare dalla Lucia il bel vezzo di perle di numero, che le regalai quando venne sposa... La Nena s'interruppe per riprender fiato; le ragazze che l'ascoltavano, fremevano; i giovinotti, scettici, sorridevano sotto i baffi; si capiva che non erano poi tanto inorriditi da ciò che la donna narrava. Questa riprese: - Ebbe il coraggio di dirmi ancora: - Ti prenderò una serva e non farai più faccendacce; lavorerai quando ne avrai voglia. Ti lascio per oggi: pensa a quel che t'ho detto: fra qualche giorno mi darai la risposta - Se n'andò fuori di casa, e io mi buttai attraverso il letto piangendo come una vite tagliata. Girolamo ormai aveva buttato giù buffa e le mie paure non erano senza un perchè - Che cosa farò? dov'è un'altra creatura più disgraziata di me? - pensavo, singhiozzando - Alla mamma non posso dir niente, perchè morirebbe di dolore; a Beppe neppure, per non metter su il figlio contro il padre... Ah! citte mie fu un momento terribile; con quel birbone non ci volevo più stare.... Pensa, pensa, mi venne un'idea: quando tornerà all'assalto per aver la risposta, gli dirò che faccio all'amore con Beppe, e che ci siamo promessi di sposarci; starò a vedere se avrà il cuore di rovinare chi ha giurato d'esser la moglie del su' figliolo! Poera giucca! facevo i conti senza l'oste; quell'uomo era un vero demonio, e quando s'era ficcato in testa una cosa non c'era verso di smoverlo. Lo seppi poi, che di questi capricci ne aveva avuti più d' uno, e che la su' prima moglie, poera donna, era morta martire. Intanto io messi le mani avanti e confessai alla mi' mamma che facevo all'amore con Beppe, che tutti e due ci si voleva bene e non ci si sarebbe lasciati per tutto l'oro del mondo. La mi' pòra mamma non mi parve punto meravigliata, anzi si mostrò contenta, dicendomi: - Vedi, Nena, quando acconsentii a sposare Girolamo, lo feci, più che altro, con la speranza che tu e Beppe un giorno vi sareste sposati e che, oltre ad avere un marito ricco e buono, tu saresti stata sempre con me. Spero che anche Girolamo ne sarà contento. Così mi disse la bon'anima, ma io la supplicai di non dir niente al su' marito - tanto, ancora è presto; Beppe è troppo giovane per tôr moglie; glielo diremo a suo tempo. - E venne, pur troppo, il tempo di dirgli tutto.... Una mattina, era di lunedì, me ne rammento come se fosse ora, Girolamo si levò dicendo che aveva un gran mal di capo, e che perciò non poteva andare al mercato: - Ci andrai tu, Lucia - disse alla moglie - con Beppe, in calessino, per riscuotere i quattrini dei buoi - Quella poera donna, che ubbidiva sempre senza fiatare al marito, fece di sì col capo, si vestì e se n'andò, dopo avermi raccomandato di badare al desinare e alla cena. Io 'un n'ebbi ne anche la forza di rispondere; avrei voluto correrle dietro, attaccarmi a lei, e scongiurarla di non lasciarmi sola in casa con quel birbone, ma me ne mancò il coraggio. Appena furono partiti e che si fu perso di vista il calesse, Girolamo, che era rimasto sul palchetto che dava nell'aia, entrò in cucina e venne verso di me. - Cì siamo! pensai tremando - infatti mi si piantò davanti con le braccia incrociate sul petto dicendomi: - Ci hai pensato a quella cosa? che risposta mi dai? - Ci ho pensato, e vi dico che vi onoro e che vi rispetto come un padre. - Noe, noe ; ma che padre! Voglio che tu mi consideri come il tu' marito, capisci? - Voi siete il marito della mi' mamma e..... - Non potevo continuare, perchè la bile, il dispetto e la paura mi mozzavano la parola; e lui ebbe il coraggio di aggiungere: - Marito della tu' mamma non son più... io la sposai per aver te. - O sentite, allora metterò carte in tavola - gli dissi io, guardandolo bene in faccia, risoluta - sappiate che non vi posso patire, e che mi siete stato esoso fin dal primo giorno che v'ho conosciuto; vi rispettavo perchè eri il marito di quella povera donna, e perchè siete il padre di Beppe, col quale faccio all'amore da più d'un anno...., gnor sì, e ci vogliamo un ben dell'anima e abbiam giurato di sposarci... Non l'avesse mai detto! Pronunziate che ebbi queste parole, Girolamo diventò livido, con gli occhi che gli schizzavano veleno, mi si avventò come una bestiaccia feroce, gridando: - Ah: sgualdrinella, mi disprezzi perchè sei innamorata di quel bardassa di Beppe? La vedremo... hai giurato di sposarlo? e io ho giurato che devi esser mia, e ti piglio senza il tuo permesso... Allora m'acchiappò tutta una bracciata, ma io, che avevo il falcino ancora infilato nella cintola del grembiale, lo tirai fuori e glielo messi sotto il mento, dicendo: - se non mi lasciate subito, vi taglio la gola come è vera la Madonna Santissima - e l'avrei fatto, ve lo giuro. - E avreste agito bene - esclamarono tutti ad una voce gli ascoltatori, che pendevano commossi dal labbro della zia Nena. - Ma lui, vedendo che non facevo celia, non intese a sordo, e mi lasciò, dandomi uno spintone e urlando come un lupo affamato queste improperie: - Cialtrona, morta di fame, pretendi di sposare il mi' figliolo tu? tu che ho raccolta in casa mia per carità?... Levatelo dalla testa sai? perchè piuttosto lo strozzerei con le mi' mani. E così dicendo, furibondo, staccò lo schioppo a due canne dal muro, se lo messe ad armacollo e andò giù per i campi; non lo rividi più fino a sera. Figuratevi con che cuore stetti io tutto il giorno!... Avevo perfino paura che avesse preso lo schioppo per ammazzare la mi' mamma e Beppe. Quando questi due tornarono a casa, venne subito anche lui per pigliarsi i quattrini dei buoi venduti; ma con un viso che faceva spavento. Non volle cenare dicendo che gli continuava il mal di capo, e se n'andò in camera sua. Io, a cena, mi sforzavo di mangiare, ma mi faceva fogo, e i bocconi non m'andavano nè in su, nè in giù; pure cercavo di parlare, per non far conoscere il mio turbamento. Ma da quel giorno incominciò una vita d'inferno: lui era sempre più cattivo e ci faceva patire di tutti gli stenti; stava di continuo alle calcagna di me e di Beppe, perchè non ci si trovasse soli, e la sera poi mi rinchiudeva in camera. Beppe, benchè l'avessi fatto sconsigliare dal sor Priore, buon'anima, al quale m'ero confessata, volle parlare un giorno sul serio a su' padre per chiedergli il consenso di sposarmi. Girolamo lo trattò di tutti i vituperî, e perchè lui si piccava a dirgli che in tutti i modi mi volea sposare, gli mise le mani addosso e lo picchiò come un cane, tanto da costringerlo a stare a letto un giorno. Il ragazzo non si rivoltò perchè era bòno e timorato di Dio, ma se la legò al dito e prese la risoluzione d'andar via di casa e di star lontano fino a che non avesse venticinque anni compiti. Allora m'avrebbe potuto sposare senza il consenso del padre, e si sarebbe andati a stare nella nostra casina; la mamma, se avesse voluto, sarebbe venuta a star con noi. Io intanto non avevo svelato il mio orribile segreto a nessuno; il sor Priore me lo aveva messo a scrupolo di coscienza; diceva che non si deve mai aizzare il figliolo contro il padre, e la moglie contro il marito. Gli diedi retta, stetti zitta, ma quanti bocconi amari dovetti ingollare, citte care, anche ora che son vecchia, se ci penso, mi viene la pelle d'oca. - Dovete sapere - riprese la Nena - che intorno a quel tempo scoppiò la guerra nelle Lombardie; dicevano che bisognava mandar via i tedeschi e che dopo si sarebbe stati tutti tanto bene.... lo queste cose non le capivo, ma da Arezzo e dai paesi vicini venivano dei signori che parlavano come tanti avvocati, per arrolare quelli dei nostri giovinotti che se la sentivano d'andar volontari alla guerra per salvare la patria, come dicevan loro. Un giorno, che per caso Girolamo si era un po' allontanato, Beppe mi disse: - Nena, oggi faccio un ultimo tentativo col babbo, o lui mi dà il permesso di sposarti, o io vado alla guerra, perchè così non si può più andare innanzi: lui è cattivo con te, con la Lucia e con me, un giorno più dell'altro; ci tratta male, ci fa lavorare come ciuchi dandoci da mangiare appena, tanto da cavarci la fame quando si e quando no. La tu' mamma regge l'anima co' denti, e tu sei diventata come una candela di cera. Quando non ci sarò più io, se proprio non vuol piegarsi a lasciarci sposare, vi tratterà meglio di certo. Io piansi, lo pregai, lo scongiurai, gli dissi che piuttosto sarei andata via io, che avrei cercato un servizio, ma che per carità, non parlasse d'andare alla guerra, che se gli fosse capitata una disgrazia, sarei morta di dolore e di rimorso. Fu tutto inutile: per quanto dicessi e facessi, non mi riuscì di smoverlo. - Senti, Nena - mi disse con le lagrime agli occhi - giurami su questa medaglia benedetta che teneva al collo la mi' pòra mamma, che se tornassi dalla guerra con un braccio, una gamba, o, che so io, un occhio di meno, tu mi sposerai lo stesso, e che se i' morissi non sposerai nessuno... Allora parto contento; tu patirai, ma non morirai, perchè di dolore non si more. Aveva ragione: è proprio vero, di dolore non si more. - E a questo punto, due lagrimoni scesero sulle belle gote bianche e ancora fresche, della zia Nena; indi continuò : - Io giurai, piangendo come un'anima disperata, tutto quello che volle lui, poi ci si abbracciò stretti stretti, e ci si diede tanti baci... erano i primi e... furon gli ultimi. Quando la sera, Beppe disse a Girolamo che se non gli dava il consenso di sposarmi sarebbe andato alla guerra nelle Lombardie, quello gli rispose: - Va', va' pure; te lo potrei impedire, ma non ci penso neppure... Un mangiapane di meno in casa; va', va' dove vuoi, anche all'inferno, ma quella cialtrona morta di fame, finchè ho gli occhi aperti io, non la sposerai, se credessi di strozzarvi tutt'e due con le mi' mani. Io ero dietro l'uscio e sentii tutto. - Beppe uscì fuori, bianco come un cencio, che tremava come una foglia, ma senza dire una parola: mi strinse forte forte le mani, scappò via... e non l'ho più rivisto! Ci fu un momento di silenzio: eran tutti commossi. Dopo un po' la zia Nena riprese: - quando, il giorno dopo, ebbi la certezza che Beppe era partito per davvero, corsi dal sor Priore a dirgli che non volevo più stare in quella casa maledetta, ma lui mi sgridò dicendomi: - O non hai cuore per la tua povera mamma? Avresti il coraggio di lasciarla sola, nelle mani di quell'omaccio? Via, pensaci un po'. - Sor Priore - risposi io - se Girolamo mi strapazza e mi maltratta, non me ne curo, patirò tutto per amore della mi' mamma, ma se ricomincia a darmi noia, ora che non c'è più Beppe, e pretende ch'io gli dia retta, che cosa devo fare? - Raccomandati alla SS. Vergine, lei t'aiuterà, non dubitare; poi vieni da me nel caso, e vedremo. Girolamo diventò sempre peggio, sempre più sorgnone, burbero e sgarbato, bensì non mi parlò più mai di quel che temevo: era invecchiato, stava male in gambe, e spesso avea dei giramenti di capo che lo facevano andar in terra di botto. Beppe fece scrivere due volte al sor Priore, pregandolo di salutarmi e d'aver compassione di me. Poi non se ne seppe più nulla fino al giorno in cui venne la nota dei morti a Curtatone... l'ho sempre tenuto a mente questo nome! Beppe era stato uno dei primi a cadere! Quel che io patissi non ve lo starò a dire, immaginatelo voi. Girolamo non parlò più: era diventato di pietra. Una notte scese dal letto e cadde tutto un tonfo in terra: era morto d'un accidente, salvando! O fosse il rimorso o altro, si trovò in un cassetto il suo testamento, fatto dopo la morte di Beppe, in cui lasciava tutto il suo alla moglie. Ecco perchè ho del ben di Dio, ma ho mantenuto il mi' giuramento, non ho preso marito, sebbene, come vi dicevo, l'abbia più volte trovato.- Le ragazze erano commosse ; i giovinotti lodavano la zia Nena per la sua fedeltà; e le mamme facevano mille ri- flessioni, e qualcuna pensava: - a chi lascerà tutto il suo quando morirà? - La zia Nena intanto era immersa nei dolorosi ricordi della sua triste gioventù che col suo racconto aveva rievocati; ad un tratto si scosse: era tardi; il lume a mano minacciava di spegnersi, perchè l'olio era un pezzo giù: - Figlioli, è tempo di svegghiare e d'andare a letto: buona notte. Tutti rincasarono quella sera, contro il solito, in silenzio.

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La sera, un po' prima di annottare, passando davanti ad un podere e veduta una contadina nell'aia, che radunava i polli, si fece animo e le disse: - Sposa, avreste per carità un cantuccio nella stalla per farci passar la notte a questa disgraziata? La donna rimase un po' perplessa, ritta in mezzo ai polli, con le cocche del grembiule in mano, dove aveva il mangime. - Il mi' omo non c'è; se volete aspettare che ritorni ...... Poi, data un'occhiata alla poveretta, si sentì commossa ed esclamò: - O sapete un po' com'è? Picchiare e' non mi picchierà di certo. Venite con me! E presa una bracciata di paglia, l'accomodò nel forno. - Mettetela qui, che ci starà meglio che nella stalla e se avete bisogno di qualche cosa chiamatemi. - Vi ringrazio, buona donna. Vedete? Questa non ci voleva proprio, non ci voleva. - O che ci volete fare? Bisogna aver pazienza: ce n'è per tutti, non dubitate. Dopo che ebbe vista la ragazza sdraiata, si allontanò un momento e ritornò con una coppia d'uova. - Le son fresche, fresche; fategliene bere uno almeno, che si sentirà riavere. - Che Dio ve ne rimeriti, mormorò Bista commosso. La mattina, all' alba, egli riprese la sua via: gli pareva mill'anni di arrivare; se non avesse fatto a tempo?.... Ogni momento chiamava l'ammalata, che il più delle volte non rispondeva, per dimandarle come stava, preso da un grande spavento nel sentirsela abbandonata sulle spalle. Gli pareva che quegli stradoni polverosi, fiancheggiati di olmi, non finissero mai, e come invidiava le allegre brigate di svinatori che incontrava! Finalmente, quando Dio volle, arrivarono a casa della Gegia, che era prima di entrare in paese, e a quella povera vecchia della su' mamma le cascarono le braccia e le si mozzò il fiato, nel vedersi riportar la figliola a quel modo. - Madonna santa, o che è successo? - Presto, presto, mettetela a letto; io vo a chiamare il medico; che almeno si sappia che cos'ha. E il povero giovanotto, stanco, sfinito, andò di corsa, affannato, alla spezieria, in cerca di un medico che, per fortuna, trovò subito. Questi, appena vista l'ammalata, disse, senza tanti preamboli, che aveva, nè più nè meno, di un tifo petecchiale della specie più maligna e che si mettessero pure l'animo in pace, giacche difficilmente l'avrebbe potuta scampare. A Bista gli si fece buio nel sentire quelle parole: dunque era stato inutile che lui l'avesse riportata a casa nel suo letto: sarebbe morta nonostante! Ma almeno non avrebbe avuti rimorsi all'anima. Passava tutto il santo giorno e tutta la notte in quella stanzuccia, seduto, con le mani fra i ginocchi e la testa bassa; si scuoteva solo nel sentire i singhiozzi di quella povera vecchia o il rantolo dell'inferma che ormai non conosceva neppur più: alzava il capo, guardava sbigottito, sbarrando gli occhi, senza avere il coraggio di fare una domanda. La malattia, purtroppo, andava per le lunghe e faceva degli alti e dei bassi, dando ogni tanto qualche speranza, per ritoglierla poco dopo. I magri risparmi della vecchia e di Bista sfumarono in un momento e lui vedeva, desolato, avvicinarsi il tempo di dover andare in Maremma. Se non andava, come avrebbe potuto svernare? I suoi compagni principiavano già a partire e se lui tardava ancora sarebbe rimasto senza lavoro. - Bisogna pure che vi risolviate, gli andava dicendo la mamma della Gegia; tanto, a questa disgraziata, non le potete far nulla; è nelle mani di Dio e state certo, se sarà destinato che vi abbiate da sposare, guarirà. Andiamo, fatevi un cuor risoluto, o che volete? mangiare, o poco o assai, s'ha da mangiare, e a noi poveri se non si lavora, non ci vien nulla giù dal cielo col panierino. Bisognò bene che si determinasse a partire, e fu un vere strazio di dover lasciare quella poveretta che probabilmente non avrebbe più ritrovata. - Almeno fatemi aver notizie, se qualche paesano vien laggiù, disse Bista con le lagrime agli occhi e il fardello infilato nella vanga, nel dividersi dalla vecchia dando, un'ultima occhiata a quel misero letto.

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Quando alla massaia Santa ebbero portata via la sua creatura, morta di difterite in ventiquattr'ore, fu una vera tragedia; non c'era verso di consolarla e suo marito, il capoccia Tonio, addoloratissimo lui pure, la guardava triste e imbarazzato senza sapere a che santo votarsi. Poi, tutt'ad un tratto, si buttò la giubba di velluto sbiadito sulle spalle, si mise il cappello in testa, e senza aprir bocca, s'avviò verso il paese. Il padrone, per fortuna, era in casa e Tonio potè vederlo e parlargli subito. Introdotto nello studio elegante da gran signore, il capoccia, sbertucciando il cappello e passandoselo da una mano all'altra, principiò a parlare: - Ero venuto per dirle che alla mia donna le è morta quella creaturina che teneva al petto: e ora si dispera e piange come una vite tagliata. Lei ha ragione, poveraccia, ma io non so come fare a consolarla. Se lei signoria fosse contento, avrei pensato a una cosa..... Il padrone, sdraiato nella poltrona dinanzi alla scrivania, aspettava: - Di' su: a che cosa avresti pensato? - O che vuole, pigliare un figliolo a balia non mi mette conto e poi c'è troppa responsabilità; ma giacche la mi' mo- glie del latte n'ha le bellezze, sarebbe un peccato farglielo perdere, mentre che se avesse un altro allievo forse si darebbe pace. Dunque io avrei pensato di recarmi a Siena, tanto ci devo portare i buoi grassi alla fiera, e col permesso dì lei Signoria, pigliare una bastardina all'ospedale. Che ne dice lei, sor padrone? - Se credi che ciò possa far bene a tua moglie, fallo pure, io sono contentissimo. Tonio non se lo fece dire due volte e la sera dopo, tornato a casa, posò, zitto e cheto, sulle ginocchia della Santa un involtino di cenci dal quale scapparono fuori delle grida acutissime. La donna spalancò gli occhi sul marito, esclamando? - O dove l'avete trovata? - Ce l'ha mandata il Signore per consolarci. Su, allegra; dalle un po' di latte, perchè deve morir di fame, povera creatura. La bambina, che era stata battezzata all'ospedale col nome di Virginia, fu davvero una benedizione per la Santa, che si mise a volerle bene, come a quell'altra che le avevano portato via, e finì poi col confonderle in modo, da credere che questa fosse quella che lei aveva messo al mondo. Aveva una spina in cuore però ed era di vederla venir su gracile e mingherlina, vera stonatura in quella famiglia di contadini grossi e robusti. Le fatiche d'andar per i campi a far I'erba, zappare e cavare i rapi, non erano per lei che si stancava presto, e lo stare ferma al sole le faceva venire subito il mal di capo. Così che fin da piccina, aveva preferito star seduta a far la calza e poi, da grande, tessere e far qualche trina all'uncinetto per mettersela alle camicie, come le aveva vedute a quelle delle padroncine. Per fortuna sua Tonio e la Santa non avevano avuto altri figli e quindi la lasciavano sfantasiare con gran mormorio degli altri di famiglia, che la chiamavano la Signorina mangia a ufo. Le cognate della Santa, cariche di ragazzi, vedevano con invidia tenere tanto delicatamente quella trovatella che non si sapeva chi fosse, nè di dove venisse, e mettevano su i mariti contro il fratello maggiore, il capoccia. - O a chi la volevano dare; a un principe forse? - Eppoi sì, era proprio bellina! Secca come un uscio e con quel colore di brodo di fagiuoli. Tonio faceva orecchi da mercante e spesso, quando andava in paese, diceva alla bimba di mettersi il vestitino d'aleppo rosso delle feste, il grembiule di bucato, il fisciù di lana a fiori incrociato sul petto e, allegro e contento, se la portava dai padroni. Questo era il più gran regalo che potessero fare alla Virginia. Allorchè si trovava in quelle stanze ricche ed eleganti, in mezzo alle signorine, che le facevano tante carezze, le davano di così bei ninnoli, che lei conservava come reliquie, si animava; il visino pallido le si coloriva, gli occhi le scintillavano e, se non fossero stati i vestiti goffi e rozzi, si sarebbe detto che anche lei fosse una signorina, tanto pareva là nella sua cornice. Un giorno, le padroncine le proposero di imparare a leggere e, vedendo ch'ella accettava con entusiasmo, si misero a gara, tutte e due, a darle lezione. Allora sì che fu uno scandalo in casa di Tonio: non ci mancava altro ora che diventasse una dottoressa, una sapona, col libro in mano dalla mattina alla sera.

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L'Assuntina, figlia di altri contadini del vicinato, restava a bocca aperta a sentire i racconti della Virginia ed invidiava l'amica, che andava dai padroni e poteva vedere e toccare tante meraviglie. Alla fine, quando diventò grande, venne anche a lei il desiderio di tutte quelle cose nuove ed attraenti. O che aveva da meno delle altre? Un giorno venne dalla Virginia, e, incontratala nell'aia, le disse tutta contenta: - Sai? Lunedì parto col procaccia; me ne vado a Firenze al servizio: perchè non ci vieni anche tu? La Virginia rimase interdetta. - Non ci aveva mai pensato..... no, no.... lei non era fatta per stare al servizio, era troppo giovine, troppo gracile; e poi i suoi non avrebbero voluto di certo. - Quella era una sciocchezza bella e buona! O che voleva morir lì, in mezzo a quei villani, e sposare un contadino con le bullette nelle scarpe; lei che forse era figlia di qualche signore e che aveva tanto amore per le ricchezze? In fin dei conti non dipendeva da nessuno e la Santa e Tonio l'avevano presa e tenuta perchè ci avevano avuto un bel guadagno con quello che passava loro l'ospedale. Gli occhi grandi e mesti della Virginia si dilatarono per un istante, ma poi, scuotendo la lesta mormorò: - No, no: è impossibile: non avrei coraggio. - Fa' come vuoi; io te lo dico per il tuo bene, e chi sa che un giorno tu non t'abbia a pentire di non avermi dato retta. Questa scena fece molta impressione sulla fanciulla, che principiava a soffrire davvero in quell'ambiente troppo rozzo per il suo istinto fine e delicato; e allorchè il procaccia venne a portare i saluti dell'Assuntina, dicendole che si era collocata benissimo in una famigliona, dove erano in quattro o cinque persone di servizio, che sguazzavano in ogni ben di Dio, si sentì dare un morso al cuore e chinò la testa seria seria.

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Tonio e la Santa intanto principiavano a pensare alla dote e al corredo per la Virginia, perchè ormai, se capitava una buona occasione, era tempo di accasarla. Lei però non ne voleva sentir parlare e al vecchio Cesare Del Bizza, ci volle del buono e del bello per condurre il pateracchio fra la Virginia e Cencio del Sartini. Il Bizza si sbracciava dicendo che la camicia se l'era guadagnata da vero e la voleva fina e coi ricami sul davanti. Prima di tutto aveva sputato un polmone a persuadere la vecchia madre del giovanotto, che, testarda e scrupolosa com'era, abbadava a dire: - Non voglio in casa per nuora la citta di nessuno, alludendo all'esser la Virginia degli Innocenti. Ma quando seppe che il capoccia Tonio e la massaia Santa, oltre ai trenta scudi che le toccavano come trovatella, le avrebbero data una buona dote, il vezzo di corallo, quello di perle, i cerchioni d'oro, senza contare gli anelli e gli oggetti minuti, cambiò d'idea e dette il consenso. Per far dire di sì alla Virginia fu un altro paio di maniche; non ne voleva sentir parlare e, ogni volta che ci facevano cascare il discorso, diceva, con le lagrime agli occhi: - O che vi son venuta a noia in casa? Oppure vi son di peso? - Si vede che son figliuola di nessuno. - E ripensava alle parole della sua amica Assuntina, quanto se n'era andata al servizio a Firenze. Ma tanto dissero e tanto fecero che la piegarono a dir di sì, e il toccamano fu fissato, come si usa in Val di Chiana. In quel giorno Cesare del Bizza, il cozzone, andò glorioso e trionfante da Tonio con Cencio e col babbo di questo. I quattro uomini cominciarono a parlare d'interessi e tira di qua, tira di là, finalmente si toccarono la mano dicendo: - Dunque il parentado è fatto! Fu poi stabilito che il giovanotto sarebbe andato a veglia tutte le sere dei giorni buoni. La prima volta però fu poco soddisfatto, poichè, tornando a casa, disse, che non c'era sugo con una ragazza che non aveva mai vegliato e che non sapeva procedere. Poi, con quell'aria di madonna addolorata e quel parlare in punta di forchetta, lo metteva in suggezione. La Virginia si era già pentita, e come, di aver detto di sì e non poteva darsi pace di dover pigliare quel coso rozzo e sgarbato, che non sapeva dir due parole a modo, e non faceva altro, quando le era accanto, che darle gomitate. Come avrebbe fatto ad andar con lui dai padroni? C'era da morire di vergogna. Di rompere il matrimonio le mancava il coraggio, ora che tutti lo sapevano e il giorno delle nozze era stabilito per la Pasqua d'uovo. Si sarebbe rassegnata: pazienza. Il suo destino era quello. Ma una mattina, mentre stava seduta dinanzi al telaio e tesseva svogliata con la testa chi sa dove, si vide comparire davanti l'Assuntina tutta elegante e piena di fronzoli come una signora. - O Virginia, che non si riconoscono più le vecchie amiche? - Come stai? - Sempre secchina eh? - È egli vero che prendi marito? - Te lo dicevo io! Mi par che tu la faccia grossa - - Son contenti tutti..... - Senti che bella ragione! Son contenti tutti; ma tu sei contenta? Col marito ci hai da star tu, non gli altri. Non far la sciocca. Se non ti piace, piantalo, cara mia: è una pietanza quella, che viene in tavola tutti i giorni e..... tu m'intendi....... - Sarà; ma ormai non posso tornare indietro. Non c'è più tempo. - Finchè non si è detto di sì c'è sempre tempo. Io, vedi, sono stata fortunata. Appena giunta a Firenze entrai a un buon servizio e mi feci subito ben volere. Poco dopo, il cameriere del padrone principiò a farmi la ruota; ma io, furba, gli feci allungare il collo un buon po' perchè avevo paura che mi volesse canzonare, o che vuoi, ero novizia, ma la m'andò bene,e dopo un anno appena, mi sposò. Allora lasciai il servizio e, coi risparmi che s'avevano, si mise su casa e ora dò a dozzina delle camere, sto come una signora, son rispettata da tutti e, non faccio per dire, se mi viene una voglia, grazie a Dio, me la posso cavare. La Virginia era rimasta sbalordita, senza interrompere quel torrente di chiacchiere, ammirando il bel vestito della sua amica e le maniere franche e disinvolte che aveva acquistate. Oh se le avesse dato retta e fosse andata anche lei a Firenze! A quest'ora non sarebbe la ragazza di quel marrano, ma forse forse una signora. Le si stringeva il cuore a pensarci e le si empivano gli occhi di lagrime. - Ti trattieni?- Disse la Virginia all'altra con un fil di voce. - Due giorni soltanto; son venuta per rivedere un po' i miei vecchi; ma non posso lasciar la casa per di molto e lunedi riparto. Dimmi un poco, seguitò, per quando son fissate le nozze? - Per Pasqua d'ovo, rispose la fanciulla chinando il capo. - Ora che ci penso; sai che cosa si potrebbe fare? Te ne potresti venire con me a Firenze per qualche giorno; cosi almeno, prima di romperti il collo, tu godresti un pochino e intanto ti potresti comprare il vestito di seta e l'anello per lo sposalizio sul ponte Vecchio. Lì tu avrai da scegliere - Via, animo, è fatta. La Virginia era diventata rossa rossa e dall'emozione non poteva neppur parlare. Finalmente mormorò: - Chi glielo dice al babbo, e a quell'altro? - Chè! Non mí ci mandano di certo! - Non dubitare: me ne incarico io e vedrai che ci riesco: quando mi sono messa in testa una cosa, caschi il mondo, l'ha a andar di lì. Dunque lascia fare a me e dormi fra due guanciali. Per tutta quella notte la Virginia non fece altro che sognar Firenze: le pareva di esserci di già e di rimanerci con la Santa e Tonio diventati anche loro signori, che non le parlavano più di ritornare in campagna, nè di sposar Cencio. Come era bella la vita! Assuntina stette a tu per tu, senza sgomentarsi dei primi rifiuti, col babbo e con lo sposo, appoggiata debolmente dalla Santa e spiegò tanta maestria di persuasione che, alla fine, l'ebbe vinta, purchè promettesse di non trattener la Virginia più di otto giorni. Promise tutto quello che vollero e, il lunedì dopo, allegre e contente come due pasque, lei e la Virginia montavano sul calesse del procaccia, che doveva portarle a Firenze, mentre il babbo, la mamma e Cencio, questo un po' ammusito, facevano loro un monte di raccomandazioni.

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Le prime volte che uscì di casa, rimaneva così commossa, così maravigliata che a stento poteva parlare. E quando l'Assuntina, che le faceva da Cicerone, chiacchierando e gestendo con tanta enfasi, come se tutto quello che vedevano fosse roba sua, la condusse in piazza del Duomo, la Virginia si fece pallida pallida, fermandosi, ed esclamò: - O questo che cos'è? - Il duomo guà! O come te l'eri immaginato? La ragazza non rispose: si sentiva trasportata in un altro mondo, con la testa confusa come se sognasse. Restava a bocca aperta dinanzi ai ricchi negozi, agli eleganti magazzini, guardava tutto trasecolata e a momenti si vergognava di trovarsi lì fra quella gente col suo goffo e brutto vestituccio di bordatino e si guardava mortificata i piedi calzati di enormi scarpe di vacchetta. Chi sa che non avesse avuto un bel piedino anche lei, se si fosse potuta mettere un paio di quelle scarpette dorate, che vedeva scintillare dietro le vetrine!.... L'Assuntina l'aveva messa a dormire in una bella camera, che per l'appunto le era rimasta sfittata in quei giorni. C'era un lettino col parato bianco, un cassettone con sopra lo specchio, la toilette davanti alla finestra, una bella poltrona ai piedi del letto, e tanti bei quadri, dalle cornici dorate, appesi ai muri. - Qui tu ci starai come una papessa, le aveva detto l'amica, e se la notte tu senti del rumore, non aver paura. Da questa parte ci siamo noi, io e mio marito, e dall'altra c'è la camera d'un giovanotto, un artista, un bravo pittore che qualche volta torna tardi. Vedrai che persona di garbo e che belle cose ci sono là dentro! Chi sa che festacciata mi farà domani, vedendomi. Un gran buon figliuolo; allegro... sfido io, a quell'età e con le occasioni che hanno!... Figurati che qui è una processione di ragazze. Io tiro via e chiudo un occhio; perchè è il suo mestiere. Si chiamano modelle; non ti voglio dir altro.... La Virginia, meravigliata, restava a bocca aperta. Era mai possibile? Il giorno dopo, nell'uscir di camera, essa vide la stanza accanto socchiusa e dentro uno strano miscuglio di oggetti, di colori, di occhi fissi che la guardavano. - Questo qui è il signor Ettore, quel bravo giovanotto, di cui ti ho parlato, diceva l'Assuntina, che giusto era là. - Passi, passi pure, s'affrettò a dire il bel giovane. La Virginia, interdetta, era rimasta sull'uscio. - Le faccio paura? - È l'amica della signora Assuntina, non è vero? Me ne ha parlato tanto. Come le piace Firenze? L'Assunta era andata a preparare la colazione. Mentre discorreva, il giovane si era avvicinato alla Virginia, che credeva di non essere ben desta. - Quelle parole dette con tanto garbo, con una voce così dolce, erano rivolte a lei, proprio a lei, da quel bel signore? - Venga avanti, venga avanti; non abbia timore; non mangio mica le belle ragazze, sa!? - La fanciulla entrò come un automa, attirata ed incantata da quell'ammasso, da quel miscuglio di oggetti, tanto nuovi per lei. Víde tutto in confuso; rimase estatica ed intontita in quel caos di colori, di quadri, di stoffe che l'abbarbagliavano. Poi quello che attirò maggiormente la sua attenzione, turbandola, fu il quadro grande, più largo che lungo, che divideva la stanza quasi per metà e che rappresentava una donna di forme splendide, punto vestita, distesa su di un canapè, in una posa languidissima, che pareva la guardasse. La Virginia volse subito altrove gli occhi, facendosi rossa fino alla radice dei capelli e, vergognosa, stava per scappar via di nuovo. - Perchè fugge? Di che cosa ha avuto paura? Le domandò il giovane sorridendo. - Di nulla, di nulla; ma mi pare che l'Assuntina chiami. - Io non ho sentito e sì che gli orecchi li ho fini. Andiamo, sia buona, non se ne vada, mi faccia un po' di compagnia; eppoi; se vuole, le farò il ritratto. La spingeva, così dicendo, più avanti, verso un canapè. La Virginia confusa non seppe che cosa dire. - Via, si metta un pochino a sedere e mi guardi in viso, non sono po poi il diavolo da fare scappare a quel modo. No, no, purtroppo non era il diavolo! La fanciulla si sentiva sconvolta nel trovarsi lì sola con quell'uomo giovane, magro, dal viso bianco e fine, contornato da una barbetta bruna, dalla fronte ingombra di capelli nerissimi e ricci, che la fissava con certi occhi, certi occhi, che pareva volessero entrarle giù giù fino in fondo al cuore. Di certo era più bello di Cencio. Curiosa! A Cencio non ci aveva più pensato, come se non lo avesse più visto da tanti anni. Che differenza, Dio mio! A colazione il signor Ettore le domandò se si sarebbe trattenuta un pezzetto. Avrebbe dovuto restare addirittura colla sora Assuntina, che le voleva tanto bene. Questo era impossibile; il babbo le aveva dato il permesso soltanto per otto giorni. - Per otto giorni?! Ma non meritava conto di muoversi per così poco: almeno almeno un mesetto. L'Assunta approvava e prometteva di scriver lei. Adagio adagio la Virginia pigliò coraggio: affascinata, rispose alle domande del giovane e lo lasciò fare quando, prendendole una mano, due o tre giorni dopo, il pittore le disse che l'aveva bellina e che gliel'avrebbe disegnata volentieri; anche il ritratto glielo aveva promesso e voleva farglielo; ma bisognava si trattenesse più di una settimana. - Il ritratto ? - Dio ne guardi! Non lo voleva davvero, lei. Se non si arrischiava neppure a guardare il quadro grande della donna sul canapè! Tanto che il sor Ettore capì e l'assicurò, ridendo, che le avrebbe fatto la sola testina, con quei bei capelli biondi e quegli occhi tanto dolci, senza che si dovesse togliere neppure il fazzolettìno dal collo. Era contenta a quel modo?

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Ogni giorno i due giovani si vedevano come se si incontrassero per caso, ora restando sull'uscio delle camere a chiacchierare, dimentichi del tempo; ora nello studio dove Ettore, con un pretesto o con un altro, attirava la Virginia trattenendovela più che poteva. L'Assuntina lasciava correre: quei pittori erano tanto stravaganti; chi sa che a quello lì non gli saltasse il ticchio di sposarsela quella ragazza se gli piaceva, e pareva che gli piacesse da vero. Ora egli non si muoveva quasi più di casa, il giorno; e la sera, se volevano uscire, le accompagnava. La domenica le aveva condotte, prima al caffè, poi al teatro senza vergognarsi di come era vestita la Virginia, benchè l'avessero aggeggiata alla meglio, accomodandole in testa un velo, che la faceva assomigliar tutta ad una madonnina. Ettore, sentendo che la ragazza sapeva leggere e scrivere, le aveva dato dei romanzi, che ella aveva divorati avidamente. In questo modo i giorni le passavano come baleni, tutti pieni di dolcezze nuove, di sensazioni mai provate, benchè presentite, cosicchè pareva trasformata, felice. Si turbava solo al pensiero che ciò non sarebbe durato, che avrebbe dovuto ritornar laggiù, ma il giovane cercava di addormentare, con mille promesse, quelle paure, e lei, fiduciosa, sperava. Per più settimane il procaccia, venuto per ricondurla a casa, era stato rimandato dall'Assuntina, ora con una scusa, ora con un'altra, promettendogli sempre che l'avrebbe ricondotta il prossimo viaggio; assicurasse tutti che la ragazza stava bene, non le mancava nulla e faceva tanti saluti. Così era una settimana guadagnata ed in una settimana nascon tanti funghi! Però la Virginia, da qualche giorno, non era più la stessa: pareva soffrisse, aveva dei momenti di tristezza che non poteva nascondere e, spesso spesso, senza una ragione apparente, le si empivano gli occhi di lagrime. Preferiva ora rimaner sola in casa; parlava poco e con maggior dolcezza, maggior sommissione del consueto. Alla fine, un bel giorno, invece del procaccia, si vide comparir Tonio in casa dell'Assunta, e non ci fu verso, bisognò prepararsi a partire. La Virginia traccheggiava, sperando da un momento all'altro di vedere entrar nella stanza Ettore per dire al babbo qualche cosa che forse avrebbe ritardato o almeno mitigato il momento terribile... Ma Ettore non era in casa e non tornò. Venne l'ora, il procaccia non poteva indugiare, cosicchè bisognò risolversi. La fanciulla tirò in un canto l'Assuntina, imbarazzata anche lei, per dirle qualche cosa; ma le mancò il coraggio e le nascose il viso in seno piangendo. - O dimmi, balbettava l'Assunta commossa, o il sor Ettore?.... La Virginia non disse nulla, perchè lì c'era il babbo che aspettava. Soltanto nel montare in calesse, bianca come una morta, rimase un momento cogli occhi attaccati in fondo alla strada. - Piaccia a Dio che non si sia fatta lusingare, mormorò l'Assuntina sopra pensiero, mentre la vedeva partire, dalla finestra. Le ragazze son tutte tanto grulle!.... E questa poi, che è la citta di nessuno, forse il primo venuto se l'è presa.

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O prima o poi doveva pur ritornare a casa. Tutti brontolavano e Cencio pareva lì lì per mandare ogni cosa all'aria. A Pasqua ci si arrivava presto; non ci mancavano che tre mesi soli ed aveva tante cose da preparare. La Virginia riabbracciò la mamma, salutò gli altri di famiglia, come se li vedesse per la prima volta, col viso impietrito, gli occhi fissi, senza una parola affettuosa. Quando poi rivide Cencio non potè nascondere un movimento di ribrezzo. - Oh! chi non muor si rivede, le disse questi serio serio. L'hai fatta lunga la permanenza, ma pare che l'aria di lassù non ti si confacesse, perchè sei tornata più secca e più gialla di quando partisti. Le zie scuotevano il capo. Le ragazze stanno bene a casa, specialmente quando hanno la testa leggiera e poca voglia di lavorare! Allorchè la Virginia, pregata, mostrò loro il vestito di seta e l'anello per lo sposalizio, fu un gran mormorio: il vestito non le sarebbe durato niente: molta apparenza e poca sostanza; l'anello poi era bruttissimo, semplice semplice, senza neppure una corniola; si vedeva che lei voleva tutto differente dagli altri.... - Insomma, saltò a dire Tonio vedendo che la povera figliuola non ne poteva più, lasciatela in pace: del resto li ha a portar lei ed ha fatto bene a contentarsi. Bisognava non aver occhi per non accorgersi che più tempo passava e più la Virginia andava a male: era ridotta pelle e ossa, sempre triste, sempre pensierosa, senza mai un lampo di vivacità giovanile. Le donne dicevano che era l'amore che la struggeva e che affrettassero il matrimonio. A Cencio però non gli andava giù; la ragazza lo sfuggiva come il peccato e se ne stava lì, zitta zitta, confusa come se avesse avuto il morto davanti, quando lui ci andava a veglia: che razza d'amore era quello. Eran giunte due o tre lettere dell'Assuntina per la sua amica, che I'avevano gettata in una malinconia ancor più profonda. Del matrimonio poi non ne voleva sentir parlare: non diceva di no, ma non se ne occupava: facessero quello che volevano, si rimetteva a loro, per lei era indifferente. Arrivato il giorno, il giovedì dopo Pasqua, il matrimonio si fece zitti e cheti e la ragazza fu ricondotta, secondo l'uso, a casa per aspettare la domenica prossima in cui si dovevano celebrare le nozze. Venuta infatti quella mattina, la Virginia si fece mettere il vestito di seta nera, che era preparato sul letto fino dall'alba, accanto al cappellone di paglia bianca coi lunghi nastri rossi: le affibbiarono intorno al collo sottile il vezzo di perle e l'altro di corallo; le posero agli orecchi i pendenti che le arrivavano fin sulle spalle; nelle dita un numero interminabile di anelli. Essa intanto rimaneva inerte, chiudendo gli occhi come se vestissero un cadavere. Nell'aia principiavano ad arrivare i calessi cogli invitati, che venivano al pranzo e che poi dovevano accompagnare a casa gli sposi. Le vecchie comari avevano tirato fuori dalle casse intarlate i vestiti del loro matrimonio, color petto di colombo, con le larghe maniche increspate; le giovani erano vestite di nero, tutte cariche di vezzi, di collane e di anelli come tante Madonne di Loreto e in testa i grandi cappelloni tondi di paglia bianca, che il vento faceva piegare stranamente avanti e indietro. Gli uomini parevano insaccati, diritti nei larghi vestiti di panno turchino cupo. Dopo avere assistito alla messa si sedettero a tavola. Il pranzo, fatto dal cuoco dei padroni, fu lauto e lunghissimo, come si conveniva a contadini benestanti, ma ci fu poca allegria. Gli scherzi, che si sogliono indirizzare agli sposi, in tale occasione, venivano paralizzati dall'aspetto della Virginia, che pareva più di là che di qua, tanto era sbiancata e smunta, e faceva venire piuttosto alla mente I'idea che Cencio forse sarebbe rimasto vedovo presto. Che cosa diavolo aveva quella citta? Non s'era mai veduta una sposa con quell'aria afflitta, addolorata. Di certo doveva aver dentro qualche gran male che la rodeva. I giovanotti canzonavano Cencio: - O che ne voleva fare di quella moglie, che con un soffio sarebbe cascata per terra? - A questo ci avrebbe pensato da sè; non importava che loro se ne occupassero. Si faceva tardi e bisognò muoversi. La Virginia abbracciò e baciò la mamma senza versare una lagrima, muta, stupidita. Nel primo calesse montarono le due fanciulle più intime della sposa, portando la paniera coi guanciali guarniti di gale ricamate per il letto matrimoniale; poi, via via, presero posto tutti con gran baccano e i legni, in lunga fila, si mossero per la strada diritta e polverosa. Le case dinanzi alle quali passava il corteggio, erano gremite di gente, e la raccolta di rocche piene di lino ed ornate fu abbondante. Arrivati alla casa di Cencio scorsero la vecchia madre sul palchetto, che aspettava col largo grembiule di canape in mano, preparato per la nuora. La Virginia, aiutata dal babbo e dal marito, scese dal calesse e salì le scale sola, la prima, un po' barcollando. Quando le due donne si trovarono faccia a faccia, la vecchia squadrò da capo a piedi quella che doveva essere oramai la padrona in casa sua, dopo di lei e, nel legarle il grembiule attorno alla vita, le sue mani gialle e grinzose ebbero un tremito singolare. Poi la guardò fissa aggrottando le sopracciglia. La giovane divenne prima scarlatta, poi bianca come una morta. La mattina dopo, la sposa, appena giorno, dovè andare al pozzo per attingere l'acqua, ma nel tornare con le brocche piene non le fu possibile risalire e cadde sfinita sui primi scalini. La portarono in casa a braccia e nessuno la vide più uscire coi suoi piedi. Quando le dissero di chiamare il medico si disperò talmente che per calmarla dovettero prometterle di non farlo venire. La suocera sola non parlava e non le domandava mai come si sentisse. Tonio però, un giorno condusse il dottore senza avvertir nessuno. Appena la Virginia, ormai allettata, lo scorse, si turbò in modo, che credevano le venisse una convulsione. Il buon vecchio non si sgomentò e la prese con tanta dolcezza, che dopo poco potè avvicinarsi al letto. Quando egli stava per visitarla, sentì afferrarsi una mano dalle due febbricitanti dell'ammalata e stringergliela, mentre lo guardava con gli occhi pieni di lagrime, dove si leggeva una preghiera così intensa e disperata, che a lui spirò sulle labbra la rivelazione che stava per fare. Del resto egli aveva la certezza che la povera creatura non avrebbe avuto che pochi giorni di vita.

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Le avevano detto e ripetuto tante volte, da che era nata, che aveva portato disgrazia, che avrebbe fatto meglio a morire appena venuta al mondo, insieme con la sua povera mamma, che ormai la Betta si era persuasa d'essere una creatura inutile, anzi nociva, un "mangia pane a ufo,, , come la chiamavano di continuo, un impiccio per tutti. E questa idea erasi così profondamente radicata nella sua povera coscienza umile, talmente assimilata al suo sangue, che niuno sgarbo, niuna parolaccia o imprecazione a suo riguardo le pareva ingiusta e crudele. Così si piegava ai lavori più duri, alle fatiche più gravi: faceva lei quello che gli altri non volevano fare, come per scontare in qualche modo quel suo gran peccato di origine, che sentiva gravarsi inesorabile sull'anima. Ma le forze non sempre le bastavano: figlia di una madre morta precocemente di mal sottile, trascurata, scarsamente nutrita, priva del dolce e letificante affetto materno, ella era venuta su a stento, triste, poco sviluppata e un po' rachitica. Ognora coperta dei cenci, che le altre donne di casa, la madrigna e le sorellastre, gittavan via, vesti ora troppo larghe e lunghe, nelle quali la sua misera ed esile personcina si smarriva; o troppo strette e corte, che mettevano in mostra le sue gambine magre e brune, i suoi braccini angolosi e scarni, e le strizzavano, togliendogli ogni forma, il corpicciolo d'adolescente. Non aveva mai avuto, mai, un vestito nuovo, nè le era neppure venuto in mente, nella sua naturale, innata umiltà, di poterlo avere. Nessuno le aveva fatto mai una carezza, neanche suo padre, il quale aveva ripreso moglie subito, dopo la morte della prima; nessuno le aveva mai dato un bacio, detta una parola affettuosa. Cosicchè, quando vedeva i piccini in collo alle madri, baciati, accarezzati, attaccarsi al loro seno per suggerne il latte e la vita, cercava di rammentarsi, di ritornare indietro nel passato, per sapere se a lei era stato offerto un seno, non quello della madre sua, che ella aveva uccisa nascendo, ma di un'altra donna, la quale avesse avuta la pietà di non lasciarla morire.... e, per quanto facesse, non una sola visione soave, calda d'affetto, era rimasta fra i suoi ricordi infantili. Soltanto si rivedeva fra gli altri ragazzi di casa, fatta segno alle prepotenze e ai dileggi di tutti, messa sempre da parte e obbligata a far da grande anche quando era piccina piccina, dappoichè, mentre gli altri ruzzavano, si baloccavano e facevano il chiasso, essa teneva in collo l'ultimo nato, e guai se questo piangeva, che allora le pioveva addosso una grandinata di rimproveri, di scapaccioni e di schiaffi, accompagnati da urli e parolacce, giacchè doveva esser lei la causa di quel pianto, per non saper tenere bene il piccino, per non aver garbo.... E la poverina lo credeva, ne era mortificata, dolente e cercava con le piccole braccia scarne, che a stento reggevano il troppo grave peso, di cullarlo, di distrarlo, ridendogli con gli occhi pieni di lagrime, cantando con la voce che tremava, scossa ancora dai singhiozzi. Quando il bambino dormiva, allora la Betta doveva sbrigare le faccende più penose in cucina, nella stalla, nei campi: mai un momento di tregua, di riposo, di sollievo per lei. Così era cresciuta, così era giunta ai venti anni, senza accorgersene, rimanendo piccolina, meschinuccia, che appena ne dimostrava quindici o sedici. Nessuno si curava di lei o le abbadava, se non per comandarla o maltrattarla, e lei viveva sola, concentrata, taciturna, sempre pronta bensì ad immolarsi all'altrui volontà, come cosa naturale e giusta. Una mattina ebbe una grande sorpresa: la Gigia, la maggiore delle sue sorellastre, una bella ragazzotta di sedici anni, bionda, florida e precoce, le si accostò con insolita buona maniera; mostrando di volerle parlare di nascosto. - Senti, Betta, vien qua, sta' attenta che la mamma non ci vegga insieme.... - E la Betta, con gli occhi larghi spalancati per la meraviglia, si avvicinò alla Gigia più che potè; quella continuò: - Tu m'hai a fare un gran piacere: or ora ho incontrato Dando del Bizza e m'ha fatto capire che ha da dirmi una cosa di premura... e che stasera, in sul tardi, m'aspetta dietro il pagliaio grande... Ma io ho paura a levarmi e a uscir fora sola, di notte... Tu mi dovresti far compagnia, e intanto farmi la guardia... tu m'ha' inteso? La Betta rimaneva con la bocca aperta, senza dir nulla. - Che mi dici di no? O come vo' tu ch'i faccia? ormai gli ho impromesso... e' m'ha tanto conquisa... Tu ci verrai, n'è vero, Bettina? - aggiunse carezzevole. - E se ci scoprono, Gigia, se il babbo sente? - disse la Betta, fra impensierita e commossa nel sentirsi parlare a quel modo; poi riprese: - Pensa che v'è chi guarda il fieno.... - 'Un aver paura, faremo pian pianino, scalze, e pratiche come siamo, nessuno ci sentirà. Dunque, eh? è fissato: quando dormiranno tutti, ti chiamerò, e tu verrai con me... a proposito, sai che dovresti fare? quando la mamma va a far l'erba per le bestie, tu, con una penna tuffata nell'olio, dovresti ungere i gangheri dell'uscio perchè non stridessero; ma guarda veh! mi raccomando, che nessuno ti vegga. E se ne andò intonando uno stornello e lasciando la Betta tutta sbalordita. Da una parte era spaventata, e più per la Gigia che per sè, di quello che stavano per fare; dell'altra, gioiva all'idea d'essere utile alla sorella, per la quale aveva una muta adorazione, d'aver con lei un segreto e di vedere che l'aveva creduta buona a qualcosa. Per il rimanente della giornata non ebbe pace, non pensava che alle parole della Gigia: le aveva perfino detto Bettina, con una voce dolce dolce... non s'era mai sentita chiamare a quel modo. O che poteva aver da dire Dando del Bizza alla su' Gigia? Che bel giovanotto era Dando! e anche garbato! qualche volta le aveva dato una mano per aiutarla a caricarsi in testa un fascio d'erba troppo pesante. Non se l'era mai dimenticato, e gliene serbava in cuore molta gratitudine. Intanto che andava rimuginando fra questi pensieri, si sentiva uno struggimento dentro, una non so quale ansia, che ora le dava la voglia di piangere e ora di cantare e magari di saltare, se le fosse stato possibile di manifestare francamente le proprie sensazioni. A momenti rimaneva fissa, incantata, sospendendo ciò che aveva da fare, con gli occhi sbarrati e la bocca aperta, come se contemplasse una visione meravigliosa. - Ohè! che t'addormenti in piedi come i ciuchi? - le gridò il suo babbo, in una di tali assenze dello spirito, facendole fare uno scossone. - Se per lavorare hai bisogno del pungolo come i buoi, ci penso io, 'un ti dubitare. Si rimise al lavoro, ma non le fu possibile d'esser calma: guardava con meraviglia la Gigia che, al solito, cantarellava serena e tranquilla e che a cena mangiò la su' brava scodella di minestra di fagiuoli, e un piatto di patate e cipolle condite, come le altre sere, mentre a lei non riuscì d'ingoiare un boccone: aveva la bocca amara, la gola secca e un gran tremito nello stomaco... Più annottava e più la sua agitazione cresceva; gli arpioni arrugginiti degli usci erano già stati unti e non stridevano, non c'era pericolo. Per appunto quella sera il babbo non aveva sonno, non pareva stracco e badava a chiacchierare, a gridare co' ragazzi, a brontolare con la moglie; ma questa che, come suol dirsi, ne aveva pochi spiccioli e meno da spicciolare, un pò stette cheta, contentandosi di scuoter la testa, poi si rivoltò al marito con un tono tutt'altro che sommesso, e gli disse; - Ma che avete stasera, vi duole il corpo? Parete una pentola di bozzima quando bolle... Andate a letto, andate, che domani è una giornatina bona... - A chi tocca la guardia stasera? - domandò Cesare, il capoccia, fingendo di non aver sentito le parole della moglie, come faceva sempre per non litigare con lei. - Tocca a me stanotte il divertimento - borbottò Nanni, il maggiore dei ragazzi, stirandosi. - Badiamo di non far le solite, di non dormire e di non lasciarsi portar via la roba proprio di sotto il muso. A queste parole la Betta sentì salirsi il cuore alla gola e, involontariamente, guardò la Gigia, ma questa le fece un viso talmente duro e arcigno, tenendo gli occhi rivolti altrove, che ella ne ebbe paura. I bambini intanto s'erano tutti addormentati, chi buttato di qua e chi di là: pareva la strage degl'innocenti. - Su, Betta, aiutami a mettere a letto i ragazzi: oh! muoviti, che sei incantata, stasera? - gridò la Nunzia, la massaia, dando un picchio sulle spalle alla figliastra. La Betta dette un balzo come se la avessero destata da un sonno profondo, e senza parlare prese in collo una delle sorelline addormentata e principiò a spogliarla. Anche la Gigia si mosse quella sera, e in pochi minuti i ragazzi furono messi, a due per due, nei loro lettini. Nanni prese il fucile che era attaccato a un chiodo in cucina e uscì fuori fischiando; scese sull'aia, girando dietro casa, dove si stendevano i prati col fieno da falciare. Quando anche la mamma, che era l'ultima a buttarsi giù, e la prima a levarsi, si fu coricata, da un certo tempo, la Gigia, seduta sul suo lettuccio, stette in ascolto, trattenendo il respiro, e quando capì, dal silenzio profondo che regnava nelle tre stanze attigue, separate da sottili tramezzi, che tutti dormivano, scivolò in terra, si rimise le gonnelle, s'incrociò uno sciallino di lana sul petto, e scalza, pianino pianino, si avvicinò alla specie di giaciglio su cui dormiva la Betta. La trovò già preparata: tutte e due, in punta di piedi si diressero verso l'uscio di cucina, che dava sul palchetto in cima alla scala e l'aprirono facilmente, senza fare il menomo rumore, grazie all'olio che era stato messo in tutti i ferri e nei gangheri; quando furono uscite, accostarono il battente aperto, scesero la scala, e attraversarono l'aia. Il cane uggiolò, ma, riconosciutele, si quietò subito e saltò loro addosso scodinzolando, come meravigliato di vederle lì a quell'ora. La notte era bella, limpida, stellata e chiara, benché non ci fosse la luna, e ci si vedeva benissimo fino ad una certa distanza. Per fortuna, i prati del fieno guardati da Nannì erano dalla parte opposta ai pagliai, che trovavansi proprio in faccia alla casa, sul confine dell'aia coi campi. Le due ragazze, trepidanti, si diressero colà sempre accompagnate dal cane che accarezzavano per timore che, vedendo un uomo abbaiasse, benché Dando del Bizza fosse conosciuto venendo spesso a opera nel podere, al tempo dei lavori grossi della campagna. Infatti tutto andò bene quella sera e molte altre dopo, giacchè i due innamorati, preso coraggio, ripeterono spesso le loro scappate con poco gusto della povera Betta, la quale ne soffriva molto e per più ragioni: anzi tutto per la gran paura d'essere scoperti, poi per lo struggimento strano, vago, indefinibile che quei colloqui ai quali assisteva silenziosa col cuore sempre in sussulto, le davano e, finalmente, per la perdita del sonno a cui era costretta. Se, durante il giorno la Gigia si buttava giù e faceva un sonnellino, nessuno le diceva nulla, ma guai se lo avesse fatto lei! Le sarebbero piovuti addosso improperi, rinfaccioni e magari degli schiaffi o qualche pedata. Quindi, nei giorni che succedevano a tali ritrovi era una lotta continua, accanita contro il sonno opprimente, invincibile onde a momenti era assalita, che le dava cascaggini paurose, dalle quali si scuoteva con dolori e giramenti di testa atroci. La Gigia, ormai fatta audace, le diceva di non muoversi, di non accompagnarla, ma all'ultimo momento, non aveva coraggio d'avventurarsi sola, e la stessa Betta preferiva d'esser là anche lei a invigilare, anzichè rimanere a letto, sapendo la sorella esposta al pericolo: tanto e tanto non avrebbe potuto chiudere occhio lo stesso. E quante volte poi, nei dormiveglia delle notti agitate o in quelli brevi dei caldi pomeriggi, la povera creatura, a cui nessuno aveva mai fatto una carezza, rivedeva i due giovani che, con le mani intrecciate e le teste vicine vicine, parlavano sommessamente d'amore; risentiva il suono di qualche parola tenera, di una dolce promessa..... di un bacio, che le faceva riprovare gl'improvvisi fremiti, e i subitanei abbarbagliamenti provati, quando era là poco discosta da loro, a vegliare perchè non fossero scoperti. Andarono avanti così alcuni mesi: la Betta deperiva a vista d'occhio, senza che se ne accorgessero o che ci abbadassero: chi si occupava di vedere se mangiava o no? Anzi, se mangiava poco, o nulla affatto, era un tanto di risparmiato, come diceva la Nunzia; ad ogni modo, non sarebbe morta; aveva la pelle dura, e se non voleva la minestra di fagioli, era segno che aveva già mangiato fuori, che aveva fatto qualche scorpacciata di frutta; per questo aveva quel viso verde..... La povera creatura intanto era ridotta in uno stato da far pietà; si trascinava a fatica, e si sentiva morire ogni volta che la Gigia, la quale nel suo egoismo non si avvedeva di nulla, le faceva segno che stesse pronta per la notte. Le sere erano allungate, e ne dovevano passare delle ore, da quando annottava, prima che potessero scendere sull'aia! Un giorno, in sul tramonto, alla fine di settembre, il tempo si fece minaccioso, dei grossi nuvoloni plumbei ingombravano qua e là il cielo; l'aria era afosa, opprimente; mancava proprio il respiro; si capiva dall'addensarsi sempre più delle nuvole, sparse e dal caldo soffocante, che doveva essere imminente lo scoppio d'un temporale. Pure, la Gigia aveva fissato con Dando per quella sera: era già un po' di tempo che non si vedevano, avevano tante cose da dirsi.... e alle paure della Betta per il tempo minaccioso, la Gigia rispondeva con arroganza, che se ne stesse pure a letto, che non aveva bisogno di lei; tanto, era la guardia del sepolcro, fatta e impastata di sonno, dormigliona come una marmotta. E la disgraziata creatura, più spaventata da queste parole che dalla minaccia del temporale, e dall'idea di perdere delle ore di sonno, tutta umile e sommessa si raccomandò alla sorellastra affinchè la lasciasse andare ad accompagnarla; I'assicurava che sarebbe stata attenta, che non avrebbe dormito... Anche quella sera la guardia al fieno toccava a Nanni, il fratello maggiore. Quando uscì fuori col fucile ad armacollo, lo sentirono esclamare: - Che buio pesto! par d'entrare in un forno. E allorchè, dopo un pezzo, uscirono le due ragazze, spessi baleni interrompevano le tenebre paurose di quella cupa serata, e un brontolio lontano lontano accennava che le scariche elettriche erano incominciate. Dando del Bizza si trovava al suo posto, dietro i pagliai: le tenebre erano così fitte che non ci si vedeva da qui a lì; la Betta si appoggiò, in piedi, per stare più sveglia, a uno dei pagliai da cui era stato tagliato via del fieno, formandovi un incavo come una nicchia. La Gigia le si avvicinò e le disse: - Non aver paura, mi trattengo poco; sta' in ascolto se senti muovere, mi raccomando. Principiava a levarsi il vento; il balenìo si faceva sempre più spesso, e il rombo lontano si avvicinava insensibilmente, ma i due innamorati, stretti l'uno all'altro, non se ne davano pensiero, anzi si divertivano e ridevano ad ogni bagliore che li illuminava, e la Gigia si faceva presto presto il segno della croce. La Betta, spossata e vinta dal languore che quell'aria soffocante metteva in dosso, scivolò pian piano a sedere e con le spalle e la testa appoggiate allo svano del pagliaio si addormentò profondamente. I due giovani pure s'erano riparati alla meglio dietro un altro pagliaio e continuavano il loro sommesso chiacchierìo, senza accorgersi che il vento aumentava e che già incominciavano a cadere grossi goccioloni. Si scossero soltanto e pensarono a separarsi, quando sentirono il rombo del tuono sempre più forte e vicino. Finchè, a uno scoppio terribile, la Gigia, presa dallo spavento, in quell'improvviso imperversare, in mezzo al sinistro lume dei lampi che l'accecava, all'acqua che veniva giù a dirotto, al vento che faceva piegare, scuotere, scricchiolare le piante, si mise la gonnella in capo e scappò via a gambe, chiamando sottovoce la Betta, e non sentendosi rispondere, disse fra sè: - Quella paurosa, a quest'ora è già in casa, ficcata sotto le lenzuola - e non pensò che a mettersi al sicuro. Appena varcato l'uscio aperto sul palchetto, in cima alla scala, un altro scoppio più terribile ancora che fece tremare la casa tutta, le mozzò il fiato e le fece piegare le ginocchia.... Non aveva più la forza di muoversi. Riprese coraggio accorgendosi che il babbo e la mamma si levavano e Nanni saliva la scala, gridando: - È cascato proprio qui, sul pagliaio grosso, l'ho veduto: che Dio ce la mandi buona! La Nunzia si raccomandava forte a Santa Barbara benedetta; Cesare entrò in cucina con la lanterna accesa, per vedere quel che era accaduto; la Gigia intanto, aveva avuto il tempo di rimettersi, e in quella confusione si credette che lei pure si fosse levata per il temporale. Ma, ad un tratto, un gran bagliore illuminò l'aia e si riflettè in tutta la stanza; si avvicinarono alla finestra: il pagliaio su cui era caduto il fulmine, bruciava come un immenso falò.... Le donne continuavano a invocare Santa Barbara benedetta.... e a farsi il segno della croce ad ogni nuovo lampo. I due uomini guardavano l'incendio atterriti, frementi nella impotenza d'impedire il grave disastro.... Il vento, trasportando le fiamme, metteva in pericolo gli altri pagliai vicini; per fortuna questo si calmò a poco a poco, mentre l'acqua, che continuava a venir giù a catinelle, impedì che il fuoco si propagasse, e continuasse l'opera distruggitrice. I piccini non si erano svegliati, ma la Gigia si guardava intorno meravigliata di non veder la Betta; andò al lettuccio di lei e non ve la trovò... guardò di qua di là, in tutti gli angoli: non v'era! E si sentì gelare il sangue nelle vene, quando intese dire alla mamma: - Ma quella stracconaccia della Betta dov'è? se ne sta nascosta sotto le coperte, eh? già, per lei, potrebbe cascar la casa, che non si scrollerebbe.... E il babbo soggiungere: - No, nel su' letto la 'un v'è. - La si sarà cacciata ín qualche cantuccio dalla paura - continuò la Nunzia - ohè, vien fòra, se no, vengo io a pigliarti per un'orecchia, veh! Ma la Betta non compariva. La Gigia, ansiosa, si domandava: - Dove sarà rimasta, Dio mio? Si misero allora a cercarla per tutta la casa, inutilmente. Cesare pareva impensierito e guardava per tutto, serio serio, senza aprir bocca; la Nunzia invece scuoteva il capo e si affannava a ripetere: - I' l'ho sempre detto io che l'è una testa matta... - e vedendo il marito dirigersi verso l'uscio, gli gridò: - Ma in dove volete andare con questo tempo da lupi? 'Un c'è pericolo, la 'un si perde, no: roba che mangia ritorna sempre a casa. - L'uomo fece una spallata senza neppur voltarsi e uscì fuori seguito da Nanni. Anche la pioggia andava ormai alleggerendo, e già si scorgeva qualche lembo di cielo sereno, scintillante di stelle. I due uomini scesero sull'aia con la lanterna. Il padre ogni tanto si fermava chiamando forte: - Bettaaa... - senza che nessuna voce gli rispondesse, solo il cane si fece loro incontro uggiolando, poi si mise a correre, tornò indietro, guardò i due uomini e riprese la corsa; questi istintivamente lo seguirono e furono condotti là ov'era abbruciato il pagliaio di cui non rimaneva che un mucchio di cenere scuriccia e un forte puzzo di zolfo. La bestia uggiolò píù lamentosamente ancora, con la testa levata in aria, mentre con le zampe cercava di scavare in mezzo alla cenere, quantunque si scottasse. Fu abbassata la lanterna, la quale illuminò qualcosa di spaventoso, d'orribile a vedersi: un povero corpo stecchito, tutto nero, carbonizzato, irriconoscibile... I due uomini bensì lo riconobbero subito, e si guardarono in faccia, pallidi, esterrefatti... gli occhi del padre, larghi, dilatati, si empirono di lagrime: erano le prime che si versavano per quella povera creatura, morta come era vissuta, immolata all'egoismo e alla crudeltà degli altri. Cesare depose la lanterna, si chinò, prese i miseri avanzi mutilati della figlia sulle braccia, e si diresse verso casa, seguito da Nanni e dal cane. Salirono silenziosi le scale: la Nunzia, sentendoli tornare, si avvicinò all'uscio gridando: - L'avete trovata? dove s'era nascosta la sguaiata? - Ma indietreggiò terrorizzata, scorgendo il lugubre peso che il marito portava e che aveva veduto sinistramente illuminato dalla lucernetta posta sulla tavola di cucina. L'uomo, sempre muto, terreo, depose sulla stessa tavola il cadavere sformato, Io coprì col proprio cappotto e finalmente, voltandosi alla moglie le disse quasi sotto voce e con profonda amarezza: - Sarete contenta, ora! La Gigia intanto era caduta in ginocchio nascondendosi il viso con le mani e fra i singhiozzi disperati, andava ripetendo: - Per colpa mia, per colpa mia, per me... povera Betta!

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Ma il giovanotto non dava segno di capire, nè, per quanto facessero, i suoi compagni riuscirono a toglierlo di là: vi restò tutta la notte, e all'alba nel tornare al lavoro, lo trovarono intirizzito e che batteva i denti. - Bista, vi siete incappellato una bella febbre a star qui tutta la notte: ci avete guadagnato questo; e se non andate all'ospedale a Grosseto a farvi curar subito, non ve la potrete cavar da dosso tanto facilmente: la Maremma, lo sapete, è traditora. Egli alzò gli occhi secchi e stralunati: - Che me ne importa? La mi' Gegia non c'è più; me ne posso andare anch'io. E, benchè peggiorasse, non ci fu cristi di condurlo allo spedale. In pochi giorni non si riconosceva più: era divenuto giallo giallo, col ventre gonfio, che faceva pietà a vederlo, quando si trascinava al sole per riscaldarsi. Finalmente, allorchè si accorsero che stava malissimo, e capirono che gli s'era manifestata la perniciosa, Io misero per forza sopra un carro per portarlo a Grosseto, ma oramai era troppo tardi e a mezza strada spirò.

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ˮ 87 A veglia . . . . . . . . . . ˮ 103 La citta di nessuno . . . . . . ˮ 135 Predestinata . . . . . . . . . ˮ 171

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Che cos'era avvenuto in quell'anima semplice, mite, affettuosa, che ora ritrovava fredda, piena di reticenze e come spaventata dinanzi a lui? Vi era di mezzo un mistero, qualcosa d'incomprensibile. Aveva tanto lottato prima di prendere quella determinazione! Certo, Maria non era la donna adattata ad essere la compagna della sua vita; non avrebbe saputo appagargli l'anima, non lo avrebbe reso felice come intendeva lui, questo se lo era detto tante volte, dappoichè non poteva esserci fra loro una piena comunione d'idee, una fusione intera di pensieri e di aspirazioni, per la diversa condizione in cui ciascuno di loro era nato e cresciuto.... Ma ella era così buona, così devota a lui, così dolce e retta, che egli l'avrebbe, a poco a poco, potuta tirar su, se non fino a seguirlo nelle alte regioni del suo intelletto d'artista, a comprendere tutti i bisogni del suo spirito irrequieto, a leggergli in cuore, pure ad essere un'amante docile, tenerissima e questo doveva bastargli. Eppoi, vi era di mezzo quella creaturina, la vera causa della sua risoluzione..... no, non voleva.... (gli amici lo burlavano e gli dicevano che erano sentimentalismi alla Tolstoi), non voleva che la sua figlioletta fosse una bastarda, senza nome, senza famiglia, senza diritti civili... sì, sentimentalismi, se volete, ma la sua anima, in cui era tanta alta idealità, e come una specie di misticismo, non aveva saputo abbracciare interamente le nuove idee, le nuove teorie sul libero amore, sull'abolizione della famiglia legale, quantunque, forse per un'eccentricità d'artista, le avesse qualche volta approvate, senza esserne convinto.... Ma all'atto pratico, dinanzi a quell'esserino bello, roseo, incosciente, non aveva saputo resistere e i suoi principî rivoluzionarî erano sfumati col sentimento di tenerezza indicibile provato per la soave ed umile fanciulla che si era abbandonata a lui, inconsapevolmente forse, ma sempre generosamente, che aveva poi tanto sofferto senza un lamento, senza un rimprovero; e dinanzi a quella piccina, sangue del sangue loro, vita della loro vita. Il pensiero di sposare la giovane contadina gli era venuto subito dopo la nascita della figlioletta, ma non aveva voluto pigliare una risoluzione tanta grave, senza ben ponderarla, senza esser sicuro del fatto suo, per non fare tre disgraziati. Si era perciò allontanato dal villaggio in cui era andato per certi studî, e dove era poi rimasto per più di un anno, non volendo lasciare la Maria in quello stato.... Era tornato in città, aveva ripresa la sua vita consueta, aveva riveduto gli amici, parlato con alcuni dei più serî del caso suo, e aveva chiesto loro consiglio. Tutti lo avevano distolto dallo sposare una donna di così umile condizione dicendogli che aveva degli scrupoli esagerati, una sentimentalità morbosa, cercando di persuaderlo che sarebbero stati infelici tutti e due.... Egli aveva tentennato, era stato ancora irresoluto, in lotta con la sua coscenza, ma una mattina, erano ormai passati sei mesi dal suo ritorno in città e non aveva mai avute notizie in quel tempo della Maria e della bimba, si levò sicuro di sé: aveva vinto una difficile battaglia, la sua anima si volgeva lentamente verso nuovi ideali, e le sorrideva un altro avvenire; si propose quindi di compire il dover suo, di sposare la ragazza e di legittimare la piccina. E mentre si avvicinava all'amena borgata toscana, posta sur una collinetta, rannicchiato nella vecchia carrozza che da tanti anni faceva il servizio postale, trascinata da un ronzino che sembrava il cavallo dell'Apocalisse, egli affrettava, ormai lieto della presa risoluzione, il momento di riabbracciare quei due esseri dai quali non si sarebbe mai più separato, che avrebbero formata la sua nuova famiglia, e ai quali voleva dedicarsi tutto... Immaginava la gioia della sua Maria all'annunzio del loro prossimo matrimonio!... Quante lagrime di consolazione non avrebbe versate!... Povera creatura, aveva sofferto tanto per lui... Aveva sopportato con rassegnazione veramente angelica, le impertinenze, le ingiurie dei fratelli e del padre, quando s'erano accorti del suo stato, mentre prima avevano chiuso un occhio e lasciato correre... E anche ora, chissà come la tormentavano... Con lo sposarla, tutto sarebbe riparato: le lagrime si sarebbero convertite in sorrisi, i tormenti in letizia... Dopo le pratiche necessarie, sarebbe stato celebrato il matrimonio, poi egli avrebbe condotto la sposa e la bimba a Firenze, nelle due stanze che abitava lui, da scapolo; intanto avrebbero cercato un quartierino per istallarsi un po' più comodamente... Invece tutto era sfumato dinanzi alla inaspettata resistenza di Maria, irremovibile alle preghiere di lui, alle minacce brutali del padre e dei fratelli. Ormai ella aveva disposto altrimenti della sua vita: aveva commesso un gran peccato, e doveva scontarlo con sacrifici e penitenze, se voleva salvarsi l'anima. Sposando lui, che l'aveva spinta al male, si sarebbe dannata e lei non voleva dannarsi l'anima; ecco ciò che diceva e ripeteva continuamente, senza ragionare. Per allontanare ogni ricordo del suo fallo aveva perfino data la bimba a balia, con la scusa di non aver latte. - Son tutti imbrogli di Don Anacleto, abbadava a dire uno dei fratelli, e di quelle teste fasciate delle monache, laggiù, di S. Chiara. Me n'ero accorto che quel figuro gironzolava da un pezzo intorno casa, come un uccellaccio di malaugurio... - Non parlate a caso, Sandro, e non incolpate nessuno... - Sì sì, se te lo inciampo in queste vicinanze, vedrai che bella giubba di legno gli ammannisco... Scommetto che gliene passa la voglia di convertiti... Sono stato militare io e non ho paura della scomunica... - Oh l Gesù mio, Madonna Santissima, perdonategli - diceva la Maria singhiozzando. Allora, Roberto Catalani volle rimaner solo con lei: era sicuro di persuaderla, e pregò il padre e i fratelli di allontanarsi. E le parlò con dolcezza, ricordandole il gran bene che ella gli aveva voluto, ciò che aveva fatto per lui, dicendole che il suo dovere di donna veramente onesta era appunto quello di cancellare la colpa, se colpa vi era, ma che il solo mezzo vero e santo per raggiunger ciò era di divenire sua moglie, e di far sì che la piccola Ghita avesse, come tutti gli altri bambini felici, i proprî genitori... La supplicò, la scongiurò a mani giunte, con le lagrime agli occhi: Ma dunque, non aveva cuore? Si era ingannato nel credere che gli fosse affezionata, che fosse buona, che volesse bene almeno a quella creaturina che era sangue suo... Lo facesse per lei, per lei... Che cosa era accaduto? Perchè la trovava tanto cambiata? Quando era partito, l'aveva lasciata affettuosa, innamorata, piangente... Come aveva potuto divenire tutt'altra in così poco tempo? - Volontà del Signore, volontà del Signore - ripeteva lei, senza versare una lagrima, senza commoversi a quei ricordi, fredda e dura come una statua. - Dunque è vero, Sandro ha ragione, è stato don Anacleto, sono state le monache, che t'han voltata contro di me. - È il Signore che m'ha toccata con la sua divina grazia, e mi ha fatto ravvedere... - Ma sciagurata, non capisci che condanni la tua figliuolina innocente ad essere una bastarda? Questo sì che è un peccato orribile... - Pregherò tanto, farò tante penitenze, che il Signore mi perdonerà... perchè io faccio tutto a fin di bene. E per quanto dicesse, Roberto Catalani non fu capace di sentire altre parole dalla bocca di lei... Esasperato, avrebbe preso quella creatura ignorante e ingenua, che degli esseri maligni ed astuti avevano pervertita fino a sconvolgerne il senso morale, e l'avrebbe stritolata con le sue mani, tanta era l'ira, I'angoscia, il disgusto che sentiva bollire dentro di sè. - Ma che intendi di fare? - le gridò alla fine - tuo padre e i tuoi fratelli non ti vogliono più in casa e han ragione: che farai? dove te ne andrai? - Iddio è misericordioso, non abbandona le sue creature, e non abbandonerà nè anche me, quantunque sia una peccatrice indegna. Dava queste risposte calma, senza guardarlo in faccia, con accento umile e fermo al tempo istesso, già trasformata, inaridita, staccata dalla vita e dal mondo. Anche nella persona il cambiamento principiava ad essere evidente: il bel colorito roseo, sano, di prima, era scomparso e un pallore unito, senza sfumature, dal tono dell'avorio antico, si stendeva su quel visetto un tempo fresco, aperto, gioviale, che sembrava ora come velato e invecchiato precocemente dalla tiratura che era agli angoli della bocca, dalla mancanza di ogni vivacità, negli occhi, che sfuggivano sempre d'incontrarsi in quelli di chi parlava con lei, e dalla perduta rotondità nel contorno quasi infantile del volto e delle forme giovanili. La voce pure aveva attenuato il suono argentino che Roberto rammentava così bene, e che incominciava a divenir monotono, con dei suoni nasali; il gesto, una volta pronto e vivacissimo, si era fatto sobrio e lento; le mani rimanevano spesso incrociate alla cintura, o nascoste dentro le maniche del vestito, nella posa consueta alle monache, che cercano di sottrarsi più che possono all'osservazione altrui. Roberto Catalani non poteva credere agli occhi suoi: tutto quel profumo agreste di gioventù florida, spensierata, che gli era piaciuto tanto in lei, era scomparso, e ritrovava, dopo pochi mesi soltanto, un essere avvizzito di corpo e di spirito, su cui era passato un soffio distruggitore che ne aveva disseccata la vita nel suo pieno rigoglio. Dinanzi a quella rovina di cui Roberto Catalani scorgeva ora i segni palesi, si sentì prendere da una tristezza profonda, accresciuta da una punta di rimorso: non avrebbe dovuto lasciarla; egli era responsabile di tutto.... Bisognava condur via subito lei e la bambina.... risolver poi.... Oh! come si pentiva del suo egoismo, della sua leggerezza... Ma chi poteva supporre una cosa simile? Ebbene, l'avrebbe condotta via ora, per forza, giacchè non poteva per amore. Finalmente, era la madre della sua bambina ed aveva l'obbligo di seguirlo: era così giovane, così semplice, che tolta di lì si sarebbe rifatta in breve, d'anima e di corpo, ed ei l'avrebbe riavuta come prima, bella, giovane, sana, allegra e fiduciosa. Tutto ciò passò come un lampo dinanzi al pensiero di lui. Sì, non c'era altro mezzo e non, bisognava lasciarsi vincere dalle resistenze di Maria. Glielo disse chiaramente, bruscamente, passando all'improvviso dalle parole buone, dolci, persuasive, alle frasi dure, tronche imperiose. Essa parve spaventarsi un momento, smarrirsi; ma si riebbe presto e gli disse con voce ferma, che non aveva paura di lui, che, grazie al cielo, egli non aveva nessun diritto su lei e non poteva obbligarla a far cosa che ripugnava alla sua coscienza di fare. - Come t'hanno ammaestrata! Si vede che han pensato a tutto, e tu, povera grulla, ti sei prestata ai loro infernali raggiri..... Ma te ne pentirai e più amaramente di quello che tu ti sia pentita d'avermi voluto bene, d'aver ceduto al tuo amore per me, e non sarai più in tempo; non potrai più tornare indietro. Maria, al ricordo del suo fallo, aveva abbassata la testa e chiusi gli occhi, come inorridita, e alla profezia del suo nuovo pentimento, avea fatto un segno energico di negazione, come se avesse sentito dire un'eresia. Roberto Catalani, ormai stanco e disgustato, uscì dalla povera stanza nella quale aveva pur passate tante belle ore, quando la Maria, rimasta sola in casa, dopo che il babbo e i fratelli erano andati a lavorare, lo avvertiva che poteva entrare da lei, e andò fuori, sull'aia, come per respirare e riaversi del suo sbalordimento. Il vecchio e i due giovanotti, seduti sur una panca all'ombra di un pagliaio, capirono dal viso di lui, come fosse andata la cosa: - Fiato sprecato eh? Me l'immaginavo - disse Sandro. - E se si provasse a adoperare un pò di sugo di bosco, chi sa che non fosse il modo di farle capir ragione - aggiunse l'altro fratello. - Mah! io ho fatto di tutto.... e non so più che dire..... Il Catalani, non sentendosi nè la forza, nè la voglia di discutere con loro che disprezzava, si avviò verso il vicino paesello, con l'idea di ritornare la sera per fare un ultimo tentativo. Camminava come un sonnambulo senza vedere, senza sentire.... con una gran confusione in testa, un gran vuoto nell'anima.... A un tratto si scosse e provò il bisogno irresistibile di rivedere la sua bambina. Andò dalla donna che l'allattava e la trovò con la piccina attaccata al petto. Questa, veduto il nuovo arrivato, sospese di poppare: spalancò gli occhietti guardandolo, rise alzando i piedini e battendo le manucce, come se avesse capito chi era.... Roberto Catalani si sentì inondato da una grande tenerezza: la bimba era bella, sana, tenuta bene, ed era sua... tutta sua, dappoichè la mamma l'aveva rigettata, con una crudeltà indegna perfino di una belva. Era possibile che una madre, dopo averla baciata, rinunziasse ad una creaturina simile? Fosse stata malaticcia, stentina, brutta..... ma così rosea, così forte e graziosa, proprio il frutto rigoglioso di due esseri belli e sani che si amano con tutto lo slancio, tutta la vitalità naturale dei migliori anni giovanili! Vi era da andarne orgogliosi, da tenersela come un tesoro benedetto, da coprirla continuamente di baci e di carezze. Allora Roberto Catalani pensò che rivedendo la bambina insieme con lui, la Maria non avrebbe saputo resistere, si sarebbe commossa e data per vinta. Pregò quindi la balia di prendere in collo la piccola Ghita e di seguirlo: ancora una volta il bel fiore della speranza tornava ad aprirsi nel cuore di lui; ancora una volta sorgevano delle illusioni ad illuminargli l'anima. Giunse alla casetta in fondo al villaggio, con la scala ripida di fuori, sull'aia, che incominciava ad annottare. In cucina era stato acceso un lume, se ne vedeva il chiarore fioco riflettarsi in una striscia chiara sul palchetto, dall'uscio aperto. Roberto Catalani entrò in casa e vide il vecchio che si accingeva ad accendere il fuoco, chino sul focolare basso e largo, ove era appeso il paiuolo. - Chiamatemi la Maria, fatemi il piacere - gli disse Roberto Catalani. Quegli si voltò accigliato e borbottò: - La Maria? O dov'è la Maria? chi l'ha più vista? Ha preso il volo - e stendendo il braccio, accennò con la mano che se n'era andata. La donna con la bambina in collo, era rimasta ritta, nel vano dell'uscio illuminato. Il vecchio le dette un'occhiataccia e soggiunse : - Sì, ora che è entrata là dentro, mettetegli il sale sulla coda: chi l'ha vista, l'ha vista; quelle mura agguantano, ma non rendono; era tanto che lo diceva, stasera poi s'è decisa... Per me, non ci metto nè sale nè pepe: guà, chi si contenta gode... Roberto era rimasto sbalordito: questa poi non se l'aspettava... La sua comparsa aveva dunque affrettata la risoluzione della Maria di chiudersi in convento! - E voi l'avete lasciata andare? Perchè non glielo avete impedito? Non siete suo padre? - Io? la ragazza ha l'età della discrezione, ognuno può far di sua pasta gnocchi. Che forse mi veniste a chiedere il permesso, quando metteste insieme quel negozio là? - e accennò la bimba col dito pollice, senza voltarsi a guardarla, sempre curvo sul focolare; poi riprese: - Ora invece pare che abbia mutato idea e si voglia far monaca: buon prò gli faccia; vuol dire che l'abbadessa, se la prende, ha buono stomaco. Il su' fratello maggiore ci s'è arrabbiato, è andato su tutte le furie, il grullo... Come se non fusse una bocca di meno a mangiare... tanto per quel che faceva in casa, da un pezzo in qua..... Roberto Catalani fremeva; capì che non aveva più nulla da fare in quella casa, e se ne andò con un saluto asciutto asciutto. Dopo pochi giorni il giovane pittore riappariva in città, in mezzo ai suoi amici, triste e taciturno. Quelli lo credevano già pentito del passo inconsiderato che stava per fare; nessuno osava perciò di interrogarlo e dirgli qualcosa su tale argomento. Ma il Catalani, natura franca e espansiva, non potè frenarsi a lungo e scoppiò a dire: - Non sapete, eh? non sapete che son tornato con le pive nel sacco? Non m'ha voluto sposare... siete meravigliati, eh? Vi pare impossibile... i preti, cari miei, le monache le han messo per la testa tanti scrupoli, che l'han persuasa a rinunziare a me, e, quello che è peggio, che è mostruoso addirittura, alla sua figliolina..... L'han fatta entrare in convento..... tutto è stato inutile, tutto: preghiere, minacce, ragionamenti, tutto... Non m'ha neppure guardato in viso, capite? Me l'hanno ammazzata... se vedeste... era un fiore... e la mia bambina, la mia povera bambina non avrà mai la madre..... A quest'ultimo grido, il nodo che gli stringeva la gola si sciolse e potè finalmente dar libero sfogo al suo dolore, piangendo a calde lagrime.

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Massaru Turi non voleva passar per stupido: i quaranta tarì gli toccavano e li voleva e se non glieli davano, lui mandava a monte ogni cosa, benchè fossero tanti anni che la Pudda gli andava per la casa e che aiutava a fare il pane e a lavare, la gna' Nunzia con la speranza di diventarle nuora. La gna' Pudda faceva l'indifferente, ora che si maritava con un altro, e diceva che non v'era stata la volontà di Dio: ma donna Micia, quando le andò a misurare il vestito di seta per lo sposalizio, la trovò nel cortile che riempiva i materassi, cogli occhi gonfi, gonfi che appena la vide cercò di asciugarsi col grembiule.... - Gna Pudda, mi pare che questo matrimònio non sia di vostro genio. Scommetto che avete sempre la testa a massaru Turi. - La ragazza non potè rispondere subito; poi, con un sorriso, che parve piuttosto una boccaccia e che mise in mostra i suoi denti grandi e bianchi come semi di zucca, disse: - Che volete donna Miciuzza mia, ogni tanto ci penso e non mi par possibile che la sia finita così; ma che avreste fatto voi. Poteva star dell'altro a quel modo, senza risolver nulla? Il mio fratello Pietro vuol prender moglie e, giacchè il partito è buono, faccio la volontà di Dio. - La Gna Nunzia sputa veleno contro di voi perchè dice che almeno, prima di impegnarvi, dovevate domandare il permesso a loro. - O sentite! la gna Nunzia ho conosciuto che è una birbona e una bugiarda, e da un canto ringrazio Dio e Maria Santissima, che non si sia concluso nulla, perchè sarei stata fresca nelle mani di quella suocera. Quando i miei fratelli mi parlarono del matrimonio di compare Tanu, io, prima di rispondere, andai dalla gna Nunzia, che dava da mangiare al vitello, mentre massaru Turi, tornato in quel momento dalla Zafferana, aveva lasciato l'asino ancora carico nel cortile. Io gli dissi: sentite, i miei fratelli vogliono darmi uno che ha il carretto, la mula, una bella vigna e ogni ben di Dio in casa. Pietro si vuole ammogliare, e fa di tutto perchè mi mariti; ma io, prima di dir si o no, ho voluto avvertirvi; ora voialtri mi dovete dire che cosa ho da fare. La gna Nunzia stette muta, scuotendo la testa e guardando sott'occhio suo figlio, che dopo un pezzetto mi disse d'aspettare qualche giorno, e m'avrebbe dato la risposta. Aspettai, ma non vidi nessuno; anzi, alla messa e per la strada non li vedevo più. Infine ci mandai la gna Mena, la vedova, e sapete la risposta? Che ero padrona di fare quello che mi piaceva e di sposare chi volevo. Che avreste fatto voi donna Miciuzza? Io, la sera, quando tornò mio fratello Alfio col carretto, gli dissi di si per compare Tanu. Ora ogni cosa è fatta, soggiunse la Pudda, stringendosi le due cocche del fazzoletto sotto il mento, e spero che il Signore mi farà la grazia d'esser tutti contenti. Alla gna Nunzia, in fin dei conti, era dispiaciuto di vedersi scappar di sotto una nuora come la Pudda, che per lavorare non c'era l'eguale in paese: svelta, pulita, con le vesti che le rilucevano addosso dalla nettezza, e per casa sua, ora che lei principiava a invecchiare, sarebbe stata una vera provvidenza quella ragazzona. Ma proprio non ci avevano creduto alla storia del matrimonio, supponendo fosse per stringere i panni addosso a loro, saltando sui famosi quaranta tarì; così le mandarono a dire che era padrona di sposare anche il papa, se voleva e aspettavano certi di vederla tornare coi suoi piedi e dire: Son qua. Quando poi si accorsero che la cosa era seria, allora madre e figlio si morsero le mani dalla rabbia e l'uno incolpava l'altra; ma ormai non c'era più rimedio, e non potevano andar loro a dire: Eccoci qua, a pregare le buone grazie di una che non aveva quaranta tarì. Per giunta, il marito che si pigliava la Pudda, era più ricco di Turi, e per isfogar la bile andavano sbracciandosi a dir mille cosaccie sul conto della povera ragazza, e la vecchia peggio di tutti: - se quella sfacciata si arrischiava a venire a salutarla le avrebbe sputato sul viso, le avrebbe! La Pudda aveva altra voglia che di rientrare in quella casa che soltanto a passarci davanti, si sentiva saltar qualche cosa nello stomaco dalla pena. Il giorno prima del matrimonio, lo zio Alfio, il fratello più grande della Pudda, portò sul carretto il corredo della sposa alla casa dello sposo, che ci aveva l'orto accanto, in capo al villaggio; sopra alle casse verdi della biancheria vi erano i quattro materassi gonfi, a righe rosse e bianche, e su questi i guanciali con le fodere candidissime a gale smerlate intorno e legate da nastrini di seta rossa, che tutte le comari si facevano sugli usci e correvano per vederli; la gna Nunzia invece voltava le spalle, ma si dava l'anima al diavolo. La mattina dopo, avanti giorno, le vicine della gna Pudda, coi loro bei vestiti celesti guarniti di galloni bianchi della Madonna del Carmine, coi fianchi sporgenti dal gran numero di sottane che s'erano messe, i lunghi pendenti alle orecchie, le collane di corallo intorno al collo come tante madonne, e le mantelline di panno turchino ripiegate sul braccio, andarono per vestire la sposa, ma la trovarono già pronta che assestava la stanza per Pietro, che ora restava solo in casa. Come! non s'era messa il vestito di seta! O allora perché aveva speso tanto, più di dieci onze di sicuro, per farselo? Che andassero a maritarsi col vestito di merinos color caffè quelle poverette, che non se ne potevano fare altri, va bene; ma lei che ci aveva il suo bel vestito di seta piombino..... o che aspettava per fare la sua comparsa? Si era determinata a quel modo.... il vestito di seta se lo sarebbe messo per la festa di San Giovanni, quello color caffè le pareva più onesto, eppoi, non ci aveva la bella goliera di corallo a tre fili e gli orecchini e lo scialle ricamato? Le comari ridevano, dicendole che, di lì a San Giovanni, il vestito di seta forse le sarebbe stato stretto. La gna Tudda, la gna Lucia, la gna Vincenza e donna Mena, la catenota, andarono ad accompagnare gli sposi in chiesa insieme coi loro mariti e i fratelli della Zita, tutti vestiti di panno turchino e con i cappelli invece dei soliti berretti. Donna Micia non ci volle andare lei, benchè la pregassero tanto: da poco era morto suo figlio, buon'anima, e non voleva andare al matrimonio angustiata e col vestito nero, che sarebbe stato di malaugurio. Finita la cerimonia, dopo il predicozzo del cappellano che fece venir le lagrime agli occhi a tutte quelle buone comari, salirono sui carretti, sui quali erano state legate delle seggiole, come per la festa di S. Alfio, andarono ad accompagnare gli sposi a casa per aver il rinfresco e perchè le parenti o amiche più strette dovevano rifar loro il letto. Si mangiarono i biscotti, si bevve il vino del bosco, e finalmente si rosicchiarono le fave abbrustolite e i ceci cotti sotto la rena (la càlia, come dicono laggiù). La gna Pudda era gialla come un limone e non parlava, mentre gli uomini, messi in allegria dal vino, ne dicevano di tutti i colori, e le donne giravano per la casa, ficcando il naso per tutto, aprendo i cassetti, manifestando, con mille esclamazioni, la meraviglia per quel gran ben di Dio che la Pudda trovava in casa. Massaru Turi intanto sghignazzava seduto sul piolo, dinanzi a casa sua, e diceva a quelli che lo canzonavano d'essersi lasciato scappare quella bella ragazzona, che tanto quel che voleva lui l'aveva avuto, e che per rompersi il collo c'era sempre tempo. Non era la prima volta che Turi diceva questo, tanto che era arrivato anche all'orecchio di compare Tanu prima del matrimonio. Una volta s'incontrarono tutti e due per la stessa via, nel ritornare dal lavoro, coi sacchi pieni d'erba attraverso le spalle e il roncolo infilato nella cintura dei calzoni. Si accompagnarono e cominciarono a parlare delle cattive mattinate, che facevano andare alla malora la semente, e di quella benedetta pioggia che si faceva tanto desiderare, ma, se non spirava un po' di levante, si potevano mettere l'anima in pace, che acqua non ne avrebbero avuta. Quando furono arrivati al bivio e che stavano per salutarsi, compare Tanu disse, colla sua fiaccona e il suo parlar strascicato: - Oh! massaro Turi, so che voi andate dicendo che con la gna Pudda vi siete preso il vostro gusto, e che dovrò contentarmi dei vostri avanzi: questo non vuol dire: io ho fatto le mie, e lei avrà fatto le sue. Ma, vi avverto, se quel che dite non sarà vero, quelle parole ve le ricaccerò in gola, e meglio per voi che non vi fossero escite di bocca. Vi saluto. - E tirò innanzi per la sua strada. Tutti lo sapevano in paese che massaro Turi era cocciuto e ostinato come un vero villano, e che aveva proprio tutti gli istinti del mulo, non escluso quello di tirar calci, anche sapendo che gliene sarebbero venute delle brave bastonate sul groppone. Dopo quell'avvertimento dunque ei seguitò ancora a vantarsi e a voler far capire a mezze parole, a strizzatine d'occhio, che compar Tanu era balordo e sua moglie.... m'avete inteso. Quando poi passava davanti alla casa della gna Pudda, non mancava una volta di sorridere e guardare dentro con una cert'aria provocante. La povera donna, quando lo vedeva, si sentiva mozzare il fiato e si tirava subito indietro. La sua paura era che lo incontrasse una volta o l'altra suo marito. Una sera, infatti, compare Tanu entrò in casa rosso come un tacchino e cogli occhi iniettati di sangue. - Bisogna finirla, bisogna finirla, andava borbottando nel levarsi le bisaccie con le legna. La Pudda si dava intanto da fare intorno al fuoco fingendo di non sentire, ma non le era sfuggito nulla, e stava con l'anima sui denti! Compare Tanu staccò la grossa carabina arrugginita, ch'era attaccata a un chiodo. La Pudda, che lo guardava sott'occhio, si sentì tutta rimescolare e gli disse, sforzandosi di parer calma: - Lasciate stare codesto trombone ora; o che n'avete a fare? Venite piuttosto a mangiarvi le fave che son cotte, e che ci ho già messo l'olio. Il marito seguitava a guardare l'arme, zufolando, poi disse: - Eh! l'uva è quasi matura e non vorrei che oltre alla cattiva annata, mi avessero da rubare quella poca che c'è nella vigna, e quest'anno non si dovesse vendemmiare; da stasera in poi bisognerà cominciare a fare la guardia. E per la povera Pudda da quella sera fu un continuo strazio. A ogni schioppettata che sentiva la notte nelle vigne, balzava impaurita, e tremante; principiava a dir Pater e Ave finchè le diventava la bocca secca e non poteva più spiccicar le labbra. Con la scusa di guardar l'uva, se ne facevano vendette senza saper mai da dove partisse il colpo. Quei buoni campagnuoli, per non esser poi chiamati dal giudice, gran spauracchio, e per non essere obbligati a far testimonianze ed attirarsi gli odi, non sapevano mai niente, loro; si chiudevano gli usci e non avevano nè sentito, nè visto mai nulla; cosicchè ognuno era padronissimo di levarsi un pruno dagli occhi, senza che gliene avvenisse alcuna conseguenza, purché sapesse ben nascondersi dietro a un muro, e non farsi scorgere dai ca-rabinieri. Questa volta bensì la cosa non andò proprio come doveva andare. I guardiani delle vigne accanto a quella di compare Tanu sentirono, a una cert'ora della notte, un colpo di carabina da quella parte, poi una bestemmia, il correre di qualcheduno. Dopo una breve lotta, dei lamenti e di nuovo passi che si allontanavano. Che cosa era accaduto? Nessuno si mosse, perchè nessuno voleva aver impicci con la polizia, anzi, quatto quatto, ognuno se ne ritornò alla propria casa. La mattina dopo la gna Pudda, non vedendo rientrare il marito, andò a cercarlo, e lo trovò nella vigna, sotto il muro, sgozzato come un cane, con la carabina scarica accanto.

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Era il grido pauroso che si sentiva di quando in quando a traverso la campagna, ripetuto da una casa all'altra di contadini, come il segnale di all'erta, a cui seguiva un rapido movimento per le aie: tutte le donne uscivano spaurite, davano un'occhiata in giro per vedere se il pericolo fosse molto vicino, e rimettevano, presto presto, affannate, ciò che era fuori: biancheria tesa, panno da imbiancare, polli, grano, granturco, uva sui cannicci, a seconda delle stagioni. Quindi dopo essersi bene assicurate che nessuno dei citti piccini mancava e che nulla era stato dimenticato di ciò che poteva adescare la furia di rapina della vecchia terribile, il cui apparire metteva lo spavento intorno per un largo tratto di campagna, gli usci si chiudevano ermeticamente. Chi aveva la mala ventura d'incontrarla per le strade deserte e remote, uomini o donne, si faceva il segno della croce, se non gli era possibile d'evitarla col cambiar direzione. Le mamme se ne servivano come spauracchio per fare star buoni i figliuoli e, nel mentre li minacciavano dicendo; "Ecco l'Annaccia,, una vampa saliva loro al viso e si guardavano attorno con un certo batticuore, per tema che la paurosa evocazione facesse il suo effetto e la vecchia infernale comparisse davvero. Magra, lunga, nera, stecchita e ricurva, metteva orrore; nessuno poteva immaginarsi che fosse mai stata giovane: indossava sempre una sottanaccia corta di cotone turchino, sbiadita, dalla quale uscivano due gambe nere, legnose, come due bastoni e due piedacci entro grandi scarpe di vacchetta, ferrate. Alla vita portava una specie di busto, allacciato, come è l'uso delle contadine di Val di Chiana, ma invece delle maniche bianche di grossa tela della camicia, a lei comparivano di lana grigia, ordinaria, fatte a calza, tanto di estate che d'inverno. In capo teneva un fazzoletto bianco, legato sotto il mento sporgente ed aguzzo, e sopra un cappellaccio di paglia dal cocuzzolo alto e dalla tesa stretta, messo all'indietro. Sotto la gonnella aveva due enormi bisacce, che dalla cintura le scendevano giù fino all'orlo del vestito e nelle quali nascondeva tutto ciò che poteva agguantare nelle sue gite devastatrici: le ci entrava perfino un tacchinotto intero. Nella tasca del grembiale poi teneva sempre pronto a tiro di mano, un coltellaccio col cric, dì cui all'occasione sapeva servirsi magistralmente. Tutti conoscevano la sua casa, ma nessuno era mai penetrato in quella tana, in quel covo spaventoso, di cui si raccontavano le cose più straordinarie e tremende, e dinanzi al quale ognuno girava largo per paura di una qualche brutta sorpresa. Ecco intanto qual era la storia di questa donna e come andò che diventasse così terribilmente famosa. Molti molti anni fa, tornato il marito di galera, (giacche l'Annaccia pure aveva avuto un marito, e siccome c'è un proverbio che dice, chi s'assomiglia si piglia, sembra che i due coniugi si fossero presi essendo della stessa risma) questi confidò alla moglie che un suo compagno di catena, condannato a vita per furto e omicidio, prima che ei lasciasse il bagno, lo aveva pregato di portare un'ambasciata ad un suo fratello loro vicino: E l'ambasciata consisteva in questo, che cioè, cercasse nel luogo in cui s'erano veduti l'ultima volta, e v'avrebbe trovato ciò che gli era riuscito di nascondervi. - Dei quattrini, m'immagino, aggiunse il marito dell'Anna. - 'Un sarai tanto lòcco da andarglielo a dire, eh? - esclamò subito la donna, con gli occhi grifagni accesi. - Mah! se 'un lo dico a lui, quelle ricchezze resteranno lì, senza che nessuno se le goda... Vattel'a pesca dove sono ficcate. - A questo lasciaci pensare a me, e tu 'un t'intrigare di nulla - rispose lei risoluta: Il marito che la conosceva, si strinse nelle spalle senza fiatare. - Dunque, tu ha' capito eh? Neppure una parola per ora, con Bussolino - era il fratello del galeotto - parlerai quando la pera sarà matura. - Eh! sta bene. Da qualche giorno l'Anna era diventata più affabile, più garbata; si vestiva e si pettinava con maggior cura del solito, e spesso, accomodandosi il fazzoletto bianco in testa o sulle spalle, prima di uscire si rivolgeva al marito dicendogli con un'espressione infernale: So' per bene? (son bella?). - Egli scrollava il capo senza capire, o qualche volta, fra il serio e lo scherzevole, le brontolava: - Da' retta, o che ti prudono le spalle? se vuo' che te le gratti, son pronto - e mostrava il bastone nodoso che aveva e in mano. Benchè fosse gialla gialla, col viso troppo lungo e secco, pure, da giovane, alta e forte, con certi occhi espressivi e ardenti, non era poi tanto bruttaccia e poteva piacere, specie ai contadini, pei quali il pezzo è la cosa più importante. Quando, un giorno, s'imbattè in Bussolino, lo fermò per la prima, mentre avanti non lo aveva mai guardato in viso, e gli fece i saluti del fratello: - Anzi, se ne volete saper di più, venite a veglia una di queste sere, beverete - un bicchier di vino col mi' omo, e lui vi darà tutte le notizie che vorrete. Bussolino, a dire il vero, benchè appartenesse ad una famigliaccia disonorata, pure era un buon diavolo, e quell'invito cadutogli così, fra capo e collo, gli andò poco a sangue, ma per paura d'offendere quella gente e nimicarsela, dopo due o tre giorni, una sera, si diresse verso la casa dei Tattanella, che così erano chiamati i due coniugi, dopo aver presa la risoluzione con una certa ripugnanza. Fu accolto con una gran festacciata specialmente dalla donna, che si ringalluzzì tutta, e dal piacere le si colorirono perfino le gote, di consueto gialle come lo zafferano. Ella poi tirò giù dall'asse un fiasco di vino scelto, poi posò due bicchieri sulla tavola, dinanzi agli uomini, e si mise a filare, non perdendo mai di vista il marito. Tattanella incominciò a parlare di quella vitaccia infame di galera: - Bisogna, Dio bonino, esser di ferro per resisterci; quelli poi che ci sono a vita, son trattati peggio de' cani... Mi capite?... per levarseli più presto di torno... Ma vostro fratello, poveraccio, per ora sta bene, e vi fa tanti saluti... - stava per dire dell'altro ancora, ma una occhiataccia della moglie lo trattenne in tempo. - Eh! che ne dite, Tattanella, 'un ci sarà caso d'una grazia? - domandò Bussolino. Mah! che volete sapere? Casca un tuono sur un pal'auzzo (palo aguzzo, acuminato) potrebbe darsi anche questo.... Bisognerebbe, o aver protezioni molto in su, o che venisse qualche rivoltolone... allora poi le cose s'accomodano da sè... non v'è bisogno di grazie. L'Anna intanto riempiva con premura il bicchiere di Bussolino ogni volta che l'aveva vuoto e, di sottecche, gli dava delle occhiate stranissime e provocanti. Quello non ci capiva nulla e si sentiva, dopo un poco, un certo struggimento dentro..... Avrebbe voluto essere a mille miglia di là, e nello stesso tempo non sapeva da che parte rifarsi per andarsene. Alla fine s'alzò: - Ora, veh! - disse l'Anna - l'amicizia è fatta e la strada la sapete; venite dunque la sera a veglia, se non avete di meglio. O, a proposito, Bussolino, a tor donna non ci pensate ancora? - Noe, noe, c'è sempre tempo a rompersi il collo. - Avete ragione, Bussolino, avete ragione, replicò Tattanella sghignazzando. - Buona notte. - Buona notte. E da quella sera in poi, Bussolino fu attorniato, circondato, stretto da quei due, che egli avrebbe voluto fuggire come si sfuggirebbe il diavolo, ma che non aveva il coraggio di evitare, per paura di farseli nemici. L'Anna spinse tant'oltre le sue attenzioni, da volergli andare perfino in casa a mettergli al sesto la roba, quel po' di biancheria e i vestiti, nonostante ch'ei protestasse e l'assicurasse, che in tanti anni di solitudine, vi s'era avvezzato a fare da uomo e da donna. In principio, rospo com'era, si seccò d' aver quella donna intorno, che gli frugava di qua e di là, che armeggiava per tutti i cantucci, nelle casse, nei cassetti, ma poi, per quella singolar magia, per quel fascino irresistibile, che esercita sempre una sottana, sia di cotone, sia di seta, sur un uomo, Bussolino ci prese gusto alle visite dell'Anna, di quella virago che tutti incominciavano a temere, e che con lui era così garbata, premurosa, carezzevole..... Gli sembrò di starci meglio in casa sua, dacchè l'Anna ne aveva cura, e le visite di lei gli parevano, a poco a poco, troppo corte e troppo rare, tanto che se passava due o tre giorni senza vederla, I'andava a cercare, e quando c'era, e se ne voleva andare, la tratteneva con mille scuse e poi l'accompagnava fino al cancello dell'aia, col pretesto di farle vedere o un innesto o una bestia e chiederle consigli, perchè lei s'intendeva d'ogni cosa. E non passò molto tempo, che fra i contadini del vicinato si sparse la voce che l'Anna, la Tattanella, se la intendeva con Bussolino e che, pareva perfino impossibile, lui n'era innamorato cotto; di certo, quella birbona, l'aveva dovuto stregare! Cosa rara; ma questa volta le chiacchiere ci avevano azzeccato: Bussolino era rimasto impigliato, come un balordo, nella rete tesagli dall'Anna e ormai, non muoveva più una foglia senza di lei. Quando la triste femmina s'accorse d'essere sicura del fatto suo, un giorno che andò a trovarlo, mentre girava per la stanza, fingendo di rimettere le cose in ordine, principiò a dire: - A proposito, il mi' omo ve li fece i saluti del vostro fratello? - Me li fece sicuro, o che 'un te ne ricordi? - Già, ma gli è che oltre i saluti v'avea a fare anche un'imbasciata..... - Che imbasciata? O perchè 'un me la fece? - Perchè ve l'ho voluta fare io..... Mi parea che voi l'aveste a aver più cara... 'un n'è vero? E intanto gli girava intorno e lo guardava in un certo modo..... - O che c'era bisogno d'aspettar tanto tempo? - Prima volevo esser sicura che mi voleste proprio bene, ecco... perchè io è un gran pezzo che ve ne voglio... - Davvero? Curiosa che 'un me ne fussi mai accorto; ma eh? quando si dice!... O sentiamo l'imbasciata del mi' fratello. Allora l'Anna andò all'uscio, guardò se v'era nessuno di fuori, poi, fattasi vicina a Bussolino, gli disse all'orecchio: - Il vostro fratello dice che voi andiate nel posto dove vi vedeste l'ultima volta, quando poi lui fu arrestato, e che voi stavi a dieci passi in avanti, da cerro grosso e storto, sotto cui era sdraiato e troverete quello che ci potè nascondere..... Che almeno ne godiate voi, che siete il su' sangue, perchè lui, tanto, 'un ha più speranza di venir fuora. Bussolino era rimasto lì, sbalordito, con gli occhi spalancati e la bocca aperta. - Come! 'un saltate dalla contentezza? - Noe, noe, a me queste cose 'un mi vanno giue.... - Andate via, 'un fate il locco..... chissà che ben di Dio c'è... se 'un lo. pigliate voi, ci sarà, o prima o poi, chi lo troverà e se lo piglierà.... bel gusto! - Potrei render tutto.... - Si, o a chi ? Vattel'a pesca di chi è.... Eppoi, tanto, il vostro fratello è in galera e ci sta; i quattrini e le altre cose ormai son prese ed è meglio che se li goda qualcuno.... Piuttosto, voi, avete a dire che ci vorrà una gran prudenza per cercare, questo sì... Che è lontano il posto ? Bussolino, confuso, sopra pensiero, non rispondeva. - Bisognerà andarci di notte; voi prenderete la vanga e il lanternino cieco e io vi farò la guardia.... - Tee?! - Sì, io, perchè no? - Perchè 'un voglio che tu ti comprometta.... Se sarò scoperto io, pazienza, ma 'un vorrei ci andassi di mezzo anche te... No, no, se ci andrò, ci andrò solo.... - Se ci andrò? Ma che siete matto? Dunque quel povero disgraziato del vostro fratello avrebbe fatto e patito tanto per niente? E a me non ci pensate, eh? M'avete detto tante volte che ci pativi d'un potermi fare qualche bel regalo, che m'avresti dato volentieri un vezzo di perle o di corallo o un bel paio di pendenti, o allora? Vuol dire che 'un era vero.... Su, su, coraggio, preparate ogni cosa, e stasera s'ha a far la festa e poi 'un ci si pensa più. Quando ci son io, 'un v'avete a sgomentare... Avete capito? E così dicendo gli si strusciava addosso, lo accarezzava, lo conquideva, facendosi affettuosa, dolce, tenera, tanto che il povero giovanotto, non avvezzo a resisterle e ancora meravigliato e sconvolto per ciò che gli accadeva, si lasciò indurre a promettere che sarebbero andati quella sera stessa. - Ci sarà da camminare un buon poco, per arrivare nel bosco, verso la torre.... - disse Bussolino. - Oh! Verso la torre? Benissimo; lì poi 'un c'è pericolo davverò d'essere scoperti; dopo l'un'ora (un'ora di notte) 'un ci passa mai anima viva; nonostante, io verrò da voi dopo le nove; un'oretta bona ci vorrà per arrivare lassù, un po' di tempo se n'andrà per cercare e scavare, e alle undici saremo ognuno per le nostre case, allegri e contenti come pasque.... Eh? Che ne dite? Sta bene? - Dico, che il mi' fratello avrebbe fatto meglio a tenersela per sè l'imbasciata. - Oh! ora 'un si torna indietro, veh! e 'un se ne parla più. Addio a or ora. La sera, l'Anna non si fece aspettare: aveva gli occhi più sinistri e grifagni del solito, e il viso acceso e lustro, come se avesse bevuto troppo. Bussolino invece era terreo, affranto: traccheggiava, tentava di differire la cosa:... - Che furia c'era? Potevano andare un'altra sera, quando ci fosse la luna....; così, non avrebbero saputo dove mettevano i piedi e sarebbe stato difficile di raccapezzarsi; nel bosco v'erano dei burroni, ed era pericoloso.... Ci volle tutta l'energia della donna, fremente d'impazienza, per spingerlo fuori a forza di invettive e di tenerezze. Fu lei, che prese la vanga, il lanternino e s'inoltrò nel buio della notte. Dovevano percorrere prima, uno stradone lungo e largo, fiancheggiato di olmi e di gelsi. Era verso la fine di ottobre; il cielo annuvolato, senza una stella; sotto i filari degli alberi, le foglie secche cadute avevano formato come due lunghe strisce di tappeto, che crepitavano sotto i piedi. Bussolino ad ogni rumore si fermava tremante, guardandosi d'attorno spaurito. L'Anna camminava presto, diritta, come spinta da una forza potente, irresistibile, e si trascinava dietro l'uomo, sempre restìo. In fondo allo stradone, voltarono a destra e s'inoltrarono nel bosco dei cerri, folto, buio, senza aver incontrato nessuno: - Ora tocca a voi a andare avanti, disse l'Anna, perchè io 'un son tanto pratica e 'un vorrei sbagliare strada e perder tempo. Avete detto vicino alla torre eh? Dunque, da questa parte, mi pare.... - E presolo per un braccio, lo spingeva su facendolo urtare di qua e di là. Egli dava dei trampelloni, nella furia della salita, come se fosse ubriaco; battendo la testa o le mani nei tronchi degli alberi, intrigandosi nei cespugli e nei rami secchi e brulli, che gli sgraffiavano il viso, il collo, gli strappavano i capelli.... Ed era così impaurito, così fuori di sè che più di una volta fu obbligato a soffermarsi per vedere se andava bene, e orientarsi, benchè fosse pratico del bosco come di casa sua. Finalmente, giunti in su un ripiano, si trovarono dinanzi alla torre bruna, antica, lasciata là in abbandono, e chissà a quale scopo eretta, allora nido d'uccelli notturni. - Ci siamo! - esclamò l'Anna con un grido soffocato di sodisfazione - Ci siamo! Avanti, il più è fatto: cercate il cerro grosso e storto.... Ve ne rammentate?... - E col lanternino illuminava in giro, uno dopo l'altro, i tronchi degli alberi. Bussolino poteva appena reggersi in piedi. - È questo? No? Quest'altro? Neppure! Via, guardate, cercate di rammentarvi, per 'un perder tanto tempo - abbadava a dire la donna con foga, esaltandosi e scuotendolo quasi con rabbia, come per vincere in lui quella specie di letargia prodotta dal terrore. Erano arrivati quasi in cima al burrone profondo che circondava il ripiano in mezzo al quale ergevasi paurosa, la torre. - Eccolo - disse ad un tratto Bussolino, con un fil di voce - eccolo, è questo. La donna emise un grido rauco di trionfo. - E ora contate dieci passi in avanti: uno, due, tre.... qui, qui ha da essere il tesoro, qui, 'un pò fallire, su, ecco la vanga, forza, scavate.... - E messo il lanternino in terra, si allontanò un poco per scrutare a traverso le tenebre, per ascoltare se le giungesse all'orecchio nessun rumore. Intanto aveva introdotta la mano destra nella saccoccia del grembiale, e a Bussolino parve di sentire uno scricchiolio secco, tanto che si voltò di botto verso di lei terrorizzato: - Chi c'è, che è stato? - O che volete che sia stato? Niente. Su, principiate a scavare e spicciatevi - diceva la donna sotto voce, concitata.... E Bussolino incominciò, tremando, avendo appena la forza d'introdurre la vanga nel terreno duro, calcandola a fatica col piede, per levare a palate la terra che gittava lì intorno per averla pronta a riempire dopo la fossa. Ogni tanto si fermava per asciugarsi con la manica della camicia, il sudorino freddo che gli rigava giù giù la fronte e le gote, anelante, trafelato, come se non fosse stato quello il suo mestiere, e si voltava a guardar l'Anna che, un passo dietro di lui, tendeva gli orecchi, e teneva gli occhi spalancati, trattenendo quasi il respiro, sulla buca, che man mano ingrandiva, mentre l'uomo andava dicendo, scorato: - Niente! niente! - come se volesse persuaderla a desistere, a dimettere il pensiero di cercare. Ma lei, inesorabile, implacabile, col viso duro e feroce: - Avanti, avanti, scavate, scavate.... Alla fine, la vanga urtò e s'intese un suono di coccio. L'Anna, a quel rumore, cacciò un urlo selvaggio, subito represso, che fece trasalire Bussolino. - Siete arrivato, siete arrivato! c'è una pentola di certo; fate piano per non romperla e sparpagliare quello che c'è dentro: girategli intorno, intorno, adagio, adagio, adagio.... così! E pareva un orribile uccellaccio di rapina, piegata in avanti, con gli occhi grifagni smisuratamente aperti, e il naso adunco come un becco di sparviero, che stesse per piombare sulla preda. Allorchè vide la pentola quasi del tutto scoperta e Bussolino sempre più chinato, che stava per smoverla, allora ritrasse con un movimento rapidissimo la mano che aveva tenuta sempre nella tasca del grembiale e, abbassandosi, in un baleno fu sul disgraziato, che le offriva la nuca scoperta, nella quale ella conficcò con quanta forza aveva, un lungo coltellaccio affilato che entrò profondamente..... La lotta fu breve, ma terribile: il povero assassinato stava per stramazzare a bocca avanti sulla pentola, ma la megera infame, ebbe la forza di tirarlo indietro, e quando lo vide steso a terra, senza movimento, aiutandosi con le mani e coi piedi, trascinò il cadavere fin sull'orlo del burrone e con un ultimo calcio lo fece rotolare giù, in fondo al precipizio, buttandogli dietro la vanga. Poi tornò di corsa alla fossa, illuminata dal lanternino, vi scese con precauzione, ne tolse la pentola, che sentì pesantissima e fuggì via a traverso il bosco, tenendosi la preda fra le braccia, stretta contro il petto. La sparizione di Bussolino fu notata dopo quindici giorni e il corpo sfracellato venne scoperto da alcuni boscaioli che tagliavano legna. I Tattanella caddero in sospetto, furono arrestati, ma le prove mancarono e vennero rimessi in libertà. Il marito bensì, per un altro misfatto, fu di nuovo cacciato in galera, dove morì, e la moglie diventò l'Annaccia, la ladra terribile, che metteva lo spavento intorno per un lungo tratto di campagna, finchè un giorno, non si sa come, sparì anche lei, nè più si vide, con gran sollievo delle buone massaie, le quali dicevano che il Signore s' era mosso a compassione delle loro preghiere e l'aveva fatta portar via sulle corna del diavolo, in anima ed in corpo.

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Dovevano sposarsi a Pasqua, quando lui fosse tornato dalla Maremma (se non ci lasciava le ossa), dove andava ogni anno a svernare. Prima bensì avevano stabilito di andare insieme nel Casentino, per un po' di giorni, a raccattar castagne, poi lei sarebbe tornata indietro a casa e lui, Bista, avrebbe seguitato per la Maremma. Agli ultimi di ottobre infatti partirono con una comitiva di altri paesani. La Gegia ch'era di umore gioiale, per tutta la strada non fece che cantare, ed era un piacere a sentir quella sua voce fresca e sonora:

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Il su' Bista, come diceva lei, se ne era innamorato appunto per quel suo buon umore: "Gente allegra il ciel l'aiuta,, pensava lui e, con la Gegia, le cose sarebbero andate bene; e allora c' era andato a veglia. In paese invece dicevano che si erano proprio annusati: lei era figliola di un ladro, e lui aveva il precetto delle ventiquattro. Per questo erano appena degnati dai compagni di lavoro; ma a loro importava poco, e i castagneti del Casentino risuonavano continuamente delle risate e dei canti della Gegia. Tutto il giorno lavoravano insieme: Bista saliva sulla scala con l'abbacchio, e lei di sotto a raccattar le castagne che cascavano, pigliando con le mani le peglie e con le molle i ricci, che metteva in due panieri differenti e vuotava in ricciaia quando erano pieni. La sera, finito il lavoro, si riunivano tutti nel seccatoio, stanzaccia nera ed affumicata, dove, per far seccare le castagne poste in alto su delle assi, venivano accesi, ritti in terra, dei grossi ceppi di quercia, che illuminavano stranamente quella stamberga. I due amanti se ne stavano seduti in un canto, mangiando il pezzo di polenta o le castagne che loro toccavano, chiacchierando sottovoce e seguendo con gli occhi gli altri che cantavano rispetti sulla chitarra o dicevano indovinelli o ballavano facendo un gran brusìo in quella stanza calda e soffocante, piena di fumo; poi, a poco a poco, vinti dalla stanchezza e dal sonno, si buttavano, chi di qua chi di là, sui pancacci per dormir qualche e ora. Bista distendeva il suo pastrano e tutti e due ci si mettevano sopra e dormivano accanto, separati dagli altri. Per diversi giorni le cose andarono bene; ma una mattina, allo svegliarsi, Bista si accorse che la Gegia, già levata, era seria e si strascicava per forza, senza poter tenere gli occhi aperti e il capo alzato. Forse aveva ancora un po' di sonno. Quando furono all'aria aperta : - O Gegia, le disse, o che è stato? Perchè non canti stamattina? Ella si scosse, cercò di sorridere, ma non le riuscì. - O che volete che sappia? Non mi ci raccapezzo; mi pesa il capo che mi par d'averlo come un cestone. Si mise a raccattar castagne; e Bista, che si spenzolava ogni tanto di sopra, la vedeva riposarsi spesso e stropicciarsi la fronte e gli occhi. Tirò avanti così tutto il giorno, sbadigliando e stirandosi; la sera non volle mangiare e si buttò giù tutta rinvoltata nel pastrano di Bista; la mattina di poi, quando provò a levarsi, traballò e non potè stare in piedi; aveva un febbrone da cavallo. - E ora come si fa? Badava a dire il giovanotto impensierito, toccandole la fronte che scottava. - Non abbiate paura, che non sarà niente; gli diceva lei per tranquillarlo; ma in cuor suo si struggeva. Dopo che aveva avuto il vaiuolo da piccina, era questa la prima volta che non si levava col sole, e Dio sa quel che gliene sarebbe - venuto. Bista dovette andarsene a lavorare e lei provò un grande sgomento nel trovarsi sola in quella stanzona quasi buia, buttata su quel pancaccio duro duro, che le tribbiava le ossa. O che ci sarebbe morta come un cane? Questo pensiero le faceva venir le lagrime agli occhi. Egli veniva di tanto in tanto, di corsa, a domandarle se avesse bisogno di nulla e la trovava col viso sempre più infiammato e colle labbra aride aride: il capo poi pareva proprio che le si spezzasse. Le bagnava la bocca riarsa, le accomodava il pastrano sui piedi e ritornava via al lavoro. Passò quel giorno e il giorno dopo e l'ammalata peggiorava: la febbre era sempre più gagliarda e a momenti le dava anche il delirio: lì intanto non ci era un cane che potesse custodirla. Allora Bista si fece un animo risoluto e deliberò di riportarla al suo paese; almeno sarebbe morta, se il Signore la voleva, nel su' letto, custodita dalla sua mamma, e lui non avrebbe avuto rimorsi all'anima. E nonostante lo sconsigliassero perchè il viaggio era lungo, egli la prese, la rinvoltò ben bene nei vestiti e nel suo cappotto, senza che lei facesse resistenza, più di là che di qua, se la caricò sulle spalle e coraggiosamente riprese la via della Chiana, accompagnato dalle esclamazioni di maraviglia dei suoi compagni.

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Portava una gonnellina di cotone celeste sbiadito, che lasciava vedere i piedi nudi e il principio di una gamba ben tornita, ma abbronzata dal sole; sulle spalle aveva un fazzoletto bianco, messo con un certo garbo; di sotto a questo usciva una specie di busto nettissimo, benchè rattoppato in più punti. Una mattina, col pretesto di dare dei dolci al bimbo, me le avvicinai e le domandai se quello era il suo fratellino. Mi rispose sorridendo e facendosi rossa, che era suo figlio. Ne fui meravigliata, perchè m'aveva proprio l'aspetto di una bambina; guardandola più da vicino bensì, scoprii sulla sua faccia qualche cosa d'appassito, che poteva essere l'effetto di dolori patiti, o di fatiche, o di stenti, cosa più probabile in una donnina di quella condizione sociale. Principiò a parlare, e mi disse che doveva compiere diciott'anni per i morti - triste compleanno - ed erano già due anni che l'avevano maritata; sua madre era morta, e il padre, volendosi riammogliare, aveva avuto gran premura di accasarla, e l'aveva data al primo che gli era capitato, a un forestiero, ossia ad uno che non era del suo paese. Nel farmi questo racconto, diventò seria seria, e gli occhi grandi e superbi le si empirono di lagrime. Seguitò dicendo che suo marito era zappatore; ma che lavorava poco, e spesso non avevano da mangiare neppure un tozzo di pane; allora egli andava su tutte le furie e se la pigliava con lei. Ma che cosa poteva fare, con quel bimbo tanto piccino? Sarebbe andata a cogliere fichi d'india, a raccattar olive, a vendemmiare; ma a chi lasciare il ragazzo? E diceva tutto questo con una specie di disperazione, guardandomi negli occhi, come se aspettasse da me dei consigli. Fui commossa da guell' insieme di ingenuità, di miseria, di bellezza e di dolore. Poi, sviando la mente da questi tristi pensieri, mi domandò perchè io parlassi diversamente dalle altre signore che erano in villeggiatura; volle sapere di che paese fossi e, saputolo, mi domandò se Fiorenza era molto lontana e se era grande quanto Catania. Mi fece poi un mondo di domande sul mio paese, volle sapere se ci si trovasse questa cosa, se quella si facesse nello stesso modo che da loro, quanti giorni ci volessero per andarci e così per un pezzo, meravigliandosi delle più semplici cose. Io rispondevo a tutto con piacere, divertendomi delle sue ingenue esclamazioni di stupore. Quando la lasciai, mi domandò scusa d'avermi parlato con troppa confidenza, e lo fece con tanto garbo che finì di cattivarsi l'animo mio. Tornai a casa, impressionata da quei discorsi; intravidi una sequela di dolori, di pene infinite in quella povera vita di diciott'anni, e tanto più terribili perchè accompagnati dalla miseria e dagli stenti; pene e dolori reali, non creati dall'immaginazione e dalla fantasia. Per diversi giorni seguitai a veder la Sara e ad intrattenermi con lei, cercando sempre di farle coraggio e sostenerla nella battaglia continua della sua triste esistenza. Studiavo intanto con affettuosa curiosità quell'anima ignorante e selvaggia, ma delicata e gentile per istinto, ogni giorno vi scoprivo qualche cosa che mi faceva pensare: era un miscuglio strano di buono e di cattivo, di ingenuità e di furberia, di brutalità e di gentilezza - Qualche volta la trovavo allegra, con la faccia ardente, e gli occhi, direi quasi, scintillanti di felicità. Altre volte invece era pallida, triste, abbattuta, e sulla sua faccia da bambina faceva un doloroso contrasto l'espressione della bocca che dimostrava una precoce maturità. Una mattina che uscii più presto del solito, non scorsi la Sara al suo posto; nell'avvicinarmi vidi venir da quello stesso vico un giovane alto e robusto, che si diresse, senza vedermi, dalla parte opposta a quella donde veniva io: portava un berretto di lana in testa ed una giacchetta buttata sulle larghe spalle. Poco dopo comparì la Sara: vedendomi si confuse e mi salutò con un certo imbarazzo. Le domandai, indicando l'uomo che erasi allontanato, se fosse quello suo marito. - Eccellenza no - mi rispose, con un certo tremito nella voce e abbassando gli occhi. Dopo un breve silenzio riprese a dire, guardando il giovane che ormai era a molta distanza da noi: - Quello là è un bravo picciottu che lavora e guadagna bene. È poco tempo che è tornato da fare il soldato. Prima di partire dal paese, io non era ancor maritata, mi disse: - Sara, quando torno ci sposeremo. E se la buon'anima di mia madre non fosse morta, certamente l'avrei aspettato. Tornando, la prima cosa che pensò fu di cercar di me, e quando gli dissero che era maritata, jettò nu santiuni (disse una bestemmia). Dopo queste parole abbassò nuovamente gli occhi mentre il suo visetto rotondo era divenuto scarlatto. Poi soggiunse: - Meschino, mi conserva un po' di affezione; sa che son bisognosa, e ogni tanto viene a portarmi qualche cosuccia. Disse quest'ultima frase a reticenze e guardandomi come se avesse paura che io interpretassi malamente le sue parole, o cercasse d'indovinare l'effetto che mi avevano fatto. Il bambino principiò a piangere, a strillare in modo, che non ci lasciò più sentire quello che dicevamo. Seguitai la mia passeggiata, triste e commossa. Avevo letto più a fondo in quella povera anima, e vi avevo scoperta la vera causa dei suoi dolori. Pensavo a questo eterno romanzo del cuore, che si ritrova per tutto, in ogni classe sociale, dalla più alta alla infima, nella misera catapecchia e nello splendido palazzo, a questo amore che è sempre lo stesso, per diverse che siano le evenienze e l'ambiente in cui si svolge e respira, ma è lui, sempre lui che conduce gli avvenimenti più grandi come i più piccoli. In quell'istante mi sentii agghiacciare da un doloroso presentimento; mi voltai per rivedere ancora quell'infelice: si teneva il bimbo stretto stretto al seno e lo cullava per farlo acquietare. Senza spiegarmene la ragione, mi sentii gli occhi pieni di lagrime, ed il cuore gonfio di tristezza. Fu quella l'ultima volta che vidi la povera Sara.

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Il giorno dopo, aprendo la finestra della camera a pianterreno, m'accorsi di un insolito viavai, di un parlar concitato di molte donne, che parevano fortemente commosse; alcune avevano la faccia pallida, ma gli occhi asciutti, come accade a quelli che han fatto il callo ai guai. - Che cos'è accaduto? - domandai a quella che conoscevo meglio delle altre. - È sparita la gnà Sara - rispose breve breve una che per solo segno di commozione si cacciava di tanto in tanto le mani fra i capelli. - Un'altra comare, imaginando che non potessi saper la cosa, soggiunse: - Aveva la nervosa; una che ha la nervosa non sa quel che si faccia. Compar Alfio, suo marito, era andato verso la mezzanotte dal suocero per chiamare aiuto. Si sentiva perfinò dalla stalla di compar Menico. Che stridìo! Ma il vecchio era stanco e non si poteva muovere; invece mandò sua moglie, la matrigna della Sara, coll'altra figlia; le due donne l'avevano trovata ancora calda, benchè non desse segno di vita. La nervosa è così, che ci lascia per morti. Alcune altre delle vicine però cominciavano a dire che se non dava segno di vita voleva dire che era morta. Eppoi doveva essere accaduto qualche cosa di grosso fra moglie e marito, perchè sul far del giorno una vicina si era vista comparire dinanzi Alfio, bianco come un panno lavato, tutto stravolto e barcollante, col bambino in collo che strillava, e l'aveva pregata di dare un po' di latte per carità al piccino - ma così turbato! così turbato! Egli aveva raccontato che sua moglie si era sentita molto male; l'aveva vegliata un pezzo eppoi, vedutala calma, si era addormentato; ma allo svegliarsi non l'aveva più trovata nè in letto, nè in casa. - Tutto un mucchio di storie da perderci la testa! - Per altro, quando erano andati a toccar l'inferma nel suo letto, nessuno aveva potuto vederla in faccia e tutti erano andati a tastoni. Il lume non si era potuto accendere, perchè in tutta la casa non si trovava una goccia d'olio, avete capito? e la povera gna Sara, per la gran miseria, se n'era forse andata all'altro mondo al buio, come una anima del purgatorio. Qui si misero a discorrere della carestia dell'olio e delle ulive, che andavano a male per la siccità della stagione. Tutto ad un tratto, una ragazzina si affacciò all'imboccatura del viottolo, agitando le braccia con aria trionfante e gridando: - L'hanno trovata! l'hanno trovata! È nella cisterna della casa accanto! Si vede la gonnella sull'acqua. Tutti erano accorsi a quelle grida e, quando arrivarono nel cortile della casa accanto, il cadavere di Sara era già stato tirato fuori, e stava disteso sul selciato, grondante, vischioso, coi capelli aggrovigliati e, attorcigliati al collo, le vesti incollate sulle membra e lorde di fango, gli occhi spalancati e spaventosi. Il marito era là anche lui - era stato uno di quelli che avevano pescato Sara - più pallido della morta, senz'altra commozione apparente che una convulsione nelle mani, le quali si muovevano continuamente. Allorchè sopraggiunsero i carabinieri, quella convulsione si fece più visibile; sembrava che salisse dalle mani alle braccia; Alfio andavasi tastando per tutto il corpo, macchinalmente, non poteva star fermo un momento; ma evitava di accostarsi alla gente, che circondava il cadavere. Le comari strillavano tutte insieme come gazze, e compar Alfio rispondeva alle interrogazioni dei carabinieri quello che aveva detto alla vicina, sempre allo stesso modo. Solamente di tanto in tanto una contrazione dei muscoli della bocca gl'impediva di rispondere subito, colla stessa franchezza, e allora si interrompeva e tirava il fiato come se si sentisse soffocare. - Poi venne il medico e cominciò ad esaminare il cadavere, e andava osservando sul collo dell'infelice certe lividure sospette. Alfio rispondeva sempre ai carabinieri, che non lo perdevano di vista, con molta disinvoltura, tendendo l'orecchio nello stesso tempo e senza parere, a quel che diceva il medico con una tal tensione di tutte le sue facoltà, che gli dava lo sguardo duro e fosco di una bestia feroce. - Tutt'ad un tratto, ad una frase del dottore, le ginocchia gli si piegarono e cominciò a balbettare: - No!... non volevo... non credevo... Eppoi essa m'ingannava!... tutti lo sanno!..... essa m'ingannava!..... Povera Sara!

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