Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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C'era una volta...

218753
Luigi Capuana 50 occorrenze
  • 1910
  • R. Bemporad e figli
  • Firenze
  • paraletteratura-ragazzi
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Da quel giorno in poi, tutte le volte che il Re andò a caccia, non potè più tirare un sol colpo. La selvaggina era sparita, come per incanto, dai forteti e dai boschi. Non si trovava un coniglio o una lepre, neppure a pagarla a peso d' oro. Gli accadde anche peggio. Non potendo più fare il solito esercizio della caccia, il Re cominciò a ingrassare, a ingrassare, e in poco tempo diventò così grasso e grosso, da pesare due quintali con quel suo gran pancione che pareva una botte. Quando avea fatto due passi per le stanze del palazzo reale, era come se avesse fatto cento miglia. Soffiava peggio di un mantice, sudava da allagare il pavimento; e doveva subito subito riposarsi e mangiare anche qualche cosa di sostanza, per rimettersi in forze. Desolato, consultava i migliori dottori: — Vorrei dimagrare. — I dottori scrivevano ricette sopra ricette. Non passava giorno, che lo speziale non mandasse a palazzo bicchieroni d' intrugli amari come il fiele, che dovevano guarire Sua Maestà. Ma Sua Maestà, più intrugli prendeva e più grasso diventava. Nel palazzo reale avevano già allargato tutti gli usci delle stanze, perchè il Re potesse passare; e una volta gli architetti dissero che se non si fossero puntellati ben bene i solai, Sua Maestà col gran peso gli avrebbe sfondati. Il povero Re si disperava: — O che non c' era rimedio per lui? — E chiamava altri dottori; ma inutilmente. Più intrugli prendeva e più grasso diventava. Un giorno si presentò una vecchia e disse al Re: — Maestà, voi avete addosso una brutta malìa. Io potrei romperla; ma voi, in compenso, dovreste sposare la mia figliuola, che si chiama Cecina, perchè è piccina come un cece. — Sposerò la tua Cecina! — Il Re avrebbe anche fatto chi sa che cosa, pur di levarsi di dosso tutto quel grasso e quel pancione. — Conducila qui. — La vecchia cacciò una mano nella tasca del grembiule, e ne tirò fuori la Cecina, che era alta appena una spanna, ma bellina e ben proporzionata. Come vide quel pancione, la Cecina scoppiò in una risata; e mentre quella la teneva sulla palma della mano per mostrarla al Re, lei spiccò un salto e si mise ad arrampicarglisi su pel pancione, correndo di qua e di là, come se il pancione del Re fosse stato per lei una collina.

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Lo sapeva soltanto lui, quello che pativa, con la Cecina dentro che comandava a bacchetta e voleva essere ubbidita! Finalmente un giorno ricomparve la vecchia: — Ah, vecchia scellerata! Cavami fuori la tua Cecina, o guai a te! — Maestà, son venuta a posta coi miei dottori. — E i suoi dottori erano due uccellacci più grossi di un tacchino, con un becco lungo un braccio e forte come l' acciaio. — Maestà, — disse la vecchia — dovete stendervi a pancia all'aria in mezzo a una pianura. - Il Re, che era ingrassato da non poter più fare neppure un passo, comandò: — Ruzzolatemi. — E il popolo cominciò a ruzzolarlo come una botte, per le scale e per le vie; e, dalla fatica, sudavano. Arrivati nella pianura, e messo il Re a pancia all' aria, uno degli uccellacci gli diè una beccata sul pancione, e, che ne schizzò fuori? Uno zampillo di vino schietto, tutto il vino che Sua Maestà avea bevuto in, tanti anni. La gente riempiva botti, botticini, caratelli, tini, barili, fiaschi, boccali; non c' erano vasi che bastassero. Pareva di essere alla vendemmia. Tutti cioncavano e si ubriacavano. E il pancione del Re si sgonfiò un poco. Allora l' altro uccellaccio gli diè la sua beccata, ed ecco rigurgitar fuori tutto il ben di Dio mangiato dal Re in tanti anni; maccheroni, salsicciotti, polli arrosto, bistecche, pasticcini, frutta, insomma ogni cosa. La gente non sapeva più dove riporli. Tutti mangiarono a crepapancia, come fosse di carnovale. E il pancione del Re sgonfiò un altro poco. Allora il Re disse: — Cecina bella, vien fuori; ti faccio Regina! - La Cecina affacciò la testa da uno dei buchi, e ridendo rispose: Eccomi qua. - E il Re tornò com' era prima. Si sposarono; ma il Re, con quella cosina alta una spanna, che era una moglie per chiasso, si credette libero di tornare a divertirsi colla caccia, e stava fuori intere settimane. La Cecina piangeva: — Ah, poverina me! Son Regina senza Re! — Il Re per questo lamentìo, non la poteva soffrire. Andò da una strega e le disse: — Che cosa debbo fare per levarmi di torno la Cecina? — Maestà, — Spellarla, lessarla, O arrosto mangiarla. — Mangiarla gli repugnava; pure, tornato a casa disse alla Cecina: — Domani ti condurrò a caccia, e ti divertirai. - Voleva condurla in mezzo ai boschi, dove non potesse vederlo nessuno. Ma la Cecina rispose: — Spellarla, lessarla, O arrosto mangiarla. — Grazie, Maestà! — Ah, poverina me! Son Regina senza Re! - Il Re rimase stupito: — Come lo sapeva? — Tornò dalla strega e le raccontò la cosa. — Maestà, quando la Cecina sarà addormentata, tagliatele una ciocca di capelli e portatemela qui. - Però, quella sera, la Cecina non avea voglia di andare a letto. — Cecina, vieni a dormire. — Più tardi, Maestà; per ora non ho sonno. — Il Re aspettò, aspettò, e si addormentò lui il primo. La mattina, svegliatosi, vide che la Cecina era già levata. — Cecina, non hai dormito? — Chi si guarda si salva. Grazie, Maestà. — Ah, poverina me! Son Regina senza Re! — Il Re rimase stupito: — Come lo sapeva? — Tornò dalla strega e le raccontò la cosa. — Maestà, invitate re Corvo; appena la vedrà, ne farà un sol boccone. — Venne re Corvo: — Cra! Cra! Cra! Cra! - E come vide la Cecina, alta una spanna, cra! cra! ne fece un boccone. — Mille grazie, re Corvo. Ora potete andar via. — Cra! Cra! Cra! Ma prima di andar via, debbo mangiarti gli occhi. — E con due beccate gli cavò gli occhi. Il povero Re piangeva sangue — La Cecina morta, e lui senz'occhi! Ah, Cecina mia! —

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Il Re si trascinò fino al palazzo reale, dove questa abitava, e cominciò a gridare pietosamente, dietro al portone: — Ah, Reginotta! rendetemi gli occhi. - La Reginotta, dalla finestra, rispondeva: — Sposare una gobbina! No, mai! — Perdonatemi, Reginotta; e rendetemi gli occhi! - La Reginotta dalla finestra rispondeva: — Spellarla, lessarla, O arrosto mangiarla. - Allora il Re capì che la Reginotta di Spagna e la Cecina erano una sola persona; e si mise a gridare più forte: — Ah, Reginotta! Ah, Cecina mia! rendetemi gli occhi. — La Reginotta scese giù e gli disse: — Ecco gli occhi. — Il Re la guardò sbalordito. La Reginotta non era più gobba e somigliava precisamente alla Cecina, benchè fosse di giusta statura. Così fu perdonato, e da lì a poco lo sposò. Lei, per ricordo, volle sempre essere chiamata Cecina. Vissero lieti e contenti E a noi si allegano i denti.

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. — Il Re corse a nascondersi dietro un muricciolo, e vide arrivar la strega a cavallo del manico di una granata. — Con chi hai tu parlato? — Col vento dell'aria. — Veggo qui delle pedate. — Son forse le vostre. — Ah! son le mie? — La strega afferrava una mazza di ferro e: — Di dove vieni? Vengo dal mulino. — Basta, per carità! Non lo farò più! — Ah! son le mie! — E di dove vieni? Vengo dal mulino. - Il Re, angustiato, si persuase che era inutile il seguitare a star lì; bisognava procurarsi la fatatura. E tornò addietro. Ma sbagliò strada. Quando s'accòrse d'essersi smarrito in un gran bosco e non trovava più la via, pensò di montare in cima .a un albero per passarvi la notte; altrimenti, le bestie feroci n' avrebbero fatto un boccone. Ed ecco, a mezzanotte, un rumore assordante per- tutto il bosco. Era un Orco che tornava a casa coi suoi cento mastini, che gli latravano dietro. — Oh, che buon odore di carne cristiana! L' Orco si fermò a piè dell'albero, e cominciò ad annusar l' aria: — Oh, che buon odore! — Il Re aveva i brividi mentre i mastini frugavano latrando, fra le macchie, e raspando il suolo

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Furono fatte feste reali per otto giorni, e a noialtri non dettero neppure un corno.

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- E, senza pietà nè misericordia, la fece mettere a morte. L' altra, nello stesso tempo, avea cavato il turacciolo alla boccetta e, affacciatasi a una finestra, n' avea versata tutta l' acqua. Sotto la finestra passavano dei ragazzi che trascinavano un gatto morto. L' acqua cadde su questo, e il gatto risuscitò. — Ah, scellerata! — urlò il Principe. — Hai tolto la sorte ai nostri figliuoli! - E in quel momento di furore, la strangolò colle sue mani. Il babbo tornò dalla figliuola minore, e raccontò, piangendo, quelle disgrazie. — Babbo mio, mangiate e bevete, e prima di sera andate via. Se Re Sole vi trovasse, rimarreste incenerito. Appena avrò buone notizie, vi manderò a chiamare. — La sera tornò Re Sole, e lei gli domandò: — Maestà, che cosa avete visto nel vostro viaggio? — Ho visto tagliar la testa a una Regina e strangolare una Principessa. Se lo meritavano. — Ah, Maestà, eran le mie sorelle! Ma voi potete risuscitarle; non mi negate questa grazia! — Vedremo! — rispose Re Sole. Il giorno dopo, appena fu giunto nel luogo dov' era seppellita la Regina, picchiò sulla fossa e disse: — Tu che stai sotto terra Mi manda la tua sorella; Se dal buio volessi uscire, Del mal fatto ti dèi pentire. — Rispondo a mia sorella: Sto bene sotto terra. Dio gli dia male e malanno! Vo' la nuova avanti l' anno! — Resta lì, donnaccia infame! — E il Re Sole continuò il suo viaggio. Arrivato dov' era stata sepolta la Principessa, picchiò sulla fossa e disse: — Tu che stai sotto terra, Mi manda la tua sorella; Se vuoi tornare da morte a vita, Del mal fatto sii pentita! — Rispondo a mia sorella: Sto bene sotto terra. Male occulto o mal palese, Vo' la nuova avanti un mese! — Resta lì, donnaccia infame! —

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. — Il Re a questa notizia rimase un po' turbato; ma poi pensò: — Se questa malìa è la sua buona sorte, costei dev' essere destinata a sposare un regnante. — C' era una volta.... 10 — E tutto allegro disse al ciaba: — Proviamo. — Il ciaba chiamò la figliuola, senza dirle del Re; e come questi se la vide dinanzi, restò più abbagliato di prima. — Buon giorno, bella ragazza. — Buon giorno, signore. — Lei non sapeva nulla della malia. Suo padre, che sarebbe stato felice di vederla Regina, le domandò: — Non ti senti nulla? — Nulla. Che cosa dovrei sentirmi? - Il povero Re, gli parve di morire a quella risposta. E stava per andarsene zitto zitto; quando il servitore, eh' era rimasto in un canto, credette opportuno di dire sottovoce alla ragazza: — Badate, è Sua Maestà! — Ahi! ahi! ahi! — La ragazza si sentiva un'atroce puntura al dito mignolo, e scoteva la mano: — Ahi! ahi! ahi! — Figuriamoci il viso del Re, come capì che quella ragazza, la più bella ragazza del mondo, era destinata a quel tanghero del suo servitore! Prese in disparte il ciaba e gli disse: — Lascia fare a, me; la tua figliuola sarà Regina. — Tornato al palazzo reale, chiamò il servitore: — Prima che tu sposi la figliuola del ciaba, devi rendermi un servigio: mi fido soltanto di te. Portami questa lettera al Re di Spagna, e attendi la risposta; ma nessuno dee sapere dove tu vada e perchè. — Maestà, sarà fatto. - Prese la lettera e partì. A metà di strada incontrò quella vecchina: — Dove vai, figliuolo mio? — Dove mi portare le gambe. — Ah, poverino! tu non sai quel che ti aspetta. Quella lettera è un tradimento! Se tu la presenti al Re, sarai subito ammazzato. Portagli questa, invece: farà un altro effetto. — Allora lui prese la lettera della vecchina, e quella del Re la buttò via. Ringraziò e proseguì il viaggio. Era già passato un anno, e non si era saputo più nuova di lui. Il Re tornò dal ciaba, e disse alla ragazza: — Quell'uomo dev' esser morto: è già passato un anno e non si sa nuova di lui. Il meglio che possiamo fare è lo sposarci noialtri. — Maestà, come voi volete. - Il Re fece i preparativi delle nozze, e quando fu quel giorno, andò insieme coi ministri a rilevare la sposa con la carrozza di gala.

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- La padrona pareva una buona donna, e si misero a ragionare in cucina, mentre la pentola bolliva. — Chi siete? dove andate? — La Reginotta cominciò a raccontarle la sua storia. — Zitta, zitta, chiacchierona! Zitta, zitta! — Era la pentola che brontolava; ma la sentiva lei sola. Non le diè retta e continuò un altro pochino, fino al punto della sua partenza dal palazzo reale. — Zitta, zitta, chiacchierona! Zitta, zitta! - Era la pentola che brontolava; ma la sentiva lei sola. Rimase colpita; e si fermò. — E dopo? domandò la donna. — Eccomi qui. — Quando giunse il marito, quella donna gli riferì minutamente ogni cosa. C'era una volta.... 11 — Sai che ho pensato, marito mio? Noi abbiamo una figliuola che è un sole: conduciamola dal Re. Gli diremo che è la sua figliuola, resa così bella da una fata. La Reginotta la chiuderemo nel granaio e ve la lasceremo morire. — Ma il Re come potrà crederlo? — Ci ho tutti i segnali. - Così fecero. Nel mezzo della notte, afferrarono la povera Reginotta, la chiusero in un granaio, e il giorno dopo condussero la loro figliuola al palazzo reale. Il Re e la Regina, sentita quella storia della fata, rimanevano ancora incerti. Allora la ragazza, indettata, disse: — Maestà, non vi ricordate di quando venivate nella mia camera colla cesta, e poi vi mettevate a dire piangendo: « Figliuola sventurata, sei nata Regina e non puoi godere della tua sorte »? — Il Re e la Regina rimasero. Quelle parole non potea saperle nessun altro, che la loro figliuola! Abbracciarono la ragazza, e bandirono feste reali. Ai due che l' avean condotta regalarono un monte di monete d'oro. Intanto la povera Reginotta, dopo essersi per tre giorni stemperata in lagrime, cominciò a sentirsi anche fame. Chiamò più volte, domandando per carità almeno un tozzo di pan duro! Non accorreva anima viva. Allora rammentossi della cipolletta: — Poteva ingannare un po' lo stomaco! — E la cavò di tasca. — Comanda! comanda! — Da mangiare! — Ed ecco pietanze fumanti, tovagliuolo, posata, coltello, bottiglia e bicchiere. Terminato di mangiare, ogni cosa sparì. Cavò di tasca il coltellino. — Comanda! comanda! — Spacca quell' uscio per legna. - E, in un attimo, uscio fu ridotto un mucchio di legna. Cava di tasca il sonaglino e si mette a suonarlo. Ed ecco una mandria di capre, che non potevan contarsi. — Comanda! comanda! — Pascolate per questi campi, finchè ci sia un filo d' erba. — E in un minuto i seminati, le vigne, gli alberi di quella fattoria eran distrutti. La Reginotta partì e arrivò in una città, dove c' era un Re che avea l' unico suo figliuolo gravemente ammalato. Tutti i medici del mondo, i più dotti, i più valenti, non n'avean saputo conoscere la malattia. Dicevano ch'era matto; ma egli ragionava benissimo. Aveva soltanto dei capricci, e dimagrava, dimagrava a segno che era ridotto una lanterna. Un giorno il Reuccio trovossi affacciato a una finestra del palazzo reale, e vide passar la Reginotta. — Oh! com' è brutta! La voglio qui! La voglio qui! Il Re, i ministri, i dottori tentarono di levargli di mente quella stramba idea; ma lui strepitava, piangeva, batteva i piedi. — Oh! com' è brutta! La voglio qui! La voglio qui! — Il Re la fece chiamare: — Ragazza, vorresti entrare a servizio? — Maestà, volentieri. — Dovresti servire il Reuccio. - E si mise a servire il Reuccio. — Bruttona, fai questo! Bruttona, fai quello. - Il Reuccio non la comandava altrimenti: volea perfino che rigovernasse i piatti. Una volta al Reuccio gli venne la voglia dei baccelli; ed era d' autunno! Dove andare a pescarli? — Baccelli! baccelli! — Non diceva altro, e rifiutava di mangiare. Il Re avrebbe pagato quei baccelli a peso d' oro. La Reginotta rammentossi della cipolletta e la cavò di tasca. — Comanda! comanda! — Un bel piatto di baccelli! - Ed ecco un bel piatto di baccelli. Il Reuccio se li mangiò con gran gusto, e dopo disse: — Mi sento meglio! - Un' altra volta gli venne la voglia d'un pasticcino di lumache. Ma non era la stagione. — Pasticcino di lumache! pasticcino di lumache! — Non diceva altro, e rifiutava di mangiare. Il Re avrebbe pagato quelle lumache a peso d' oro. La Reginotta corse di bel nuovo alla cipolletta. — Comanda! comanda! — Un pasticcino di lumache! - Il Reuccio se lo mangiò con gran gusto, e dopo disse: — Mi sento assai meglio. — Infatti, s' era rimesso un po' in carne. Un' altra volta finalmente gli venne la voglia delle polpettine di rondine. Non era la stagione. Dove andare a pescarle? — Polpettine di rondine! polpettine di rondine! — Il Re quelle rondini le avrebbe pagate a peso d'oro. La Reginotta, al solito, cavò di tasca la cipolletta. — Comanda! comanda! — Polpettine di rondine! — Il Reuccio se le mangiò con gran gusto e dopo disse: — Sto benissimo. - Era diventato fresco come una rosa: non si rammentava neppure d' essere stato malato. E, un giorno vista la Reginotta: — Oh, come è brutta! — esclamò. — Ma chi è costei? Cacciatela via! - La Reginotta andò via piangendo: — La sua stella voleva così! - E incontrò la vecchia, quella del grano. - Che cosa è stato, figliuola? - In poche parole le raccontò l' accaduto. — Sta' allegra, figliuola mia! Ti aiuterò io. Vieni con me. — E la condusse davanti a una grotta. — Ascolta: Lì dentro c' è la fontana della bellezza. Chi può tuffarvisi a un tratto, diventa bella quanto il sole. Ed ora, bada bene: questa grotta ha quattro stanze. Nella prima c'è un drago: buttagli in gola la cipolletta, e ti lascerà passare.

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Gli butta in gola la cipolletta, e quello si ritira, si attorciglia chetamente, e si mette a dormire. Lei passa oltre. Ed ecco il gigante tutto coperto d' acciaio, che si slancia incontro bran- dendo la mazza, cacciando terribili urli. Gli mostra la lama del coltellino, e il gigante va a rannicchiarsi in un canto. La Reginotta passa oltre nella terza stanza. Ed ecco il leone, colle fauci spalancate, colla coda rizzata che faceva tremar l'aria. Lei scuote il sonaglino e sbuca un branco di capre. Il leone si slancia su di esse, le sbrana e se le divora. E lei passa oltre. Vede la fontana, e vi si fuffa dentro con tutte le vesti. Si sentì diventar un' altra: lei stessa non si riconosceva. Da che il mondo è mondo, non s' era mai vista una bellezza pari a quella. Tornò nella città, dov' era il Reuccio, e prese a pigione una casa dirimpetto al palazzo reale. Il Reuccio rimase sbalordito: — Oh, che bellezza! Oh, che bellezza! Se fosse sangue reale, la prenderei per moglie. - Il Re, che voleva bene al figliuolo quanto alla pupilla degli occhi suoi, mandò subito un ministro a domandarle se mai fosse di sangue reale. — Sono. Ma se il Reuccio mi vuole, dovrà farmi tre regali. — Che regali dovrebbe fare? — La cresta del gallo d' oro, La pelle del Re Moro, Il pesce senza fiele. Gli do tempo tre anni. Se no, non mi può avere. - Il Reuccio partì alla ricerca del gallo d'oro, che si trovava in certi boschi pieni di animali feroci. E c' era un gran pericolo: chi lo sentiva cantare, moriva. Dopo mille fatiche e mille stenti, una mattina il Reuccio scoperse il gallo d'oro appollaiato su d'un albero. Tirargli e ammazzarlo fu tutt' una. E tornò trionfante. — Va bene, — disse la Reginotta. — Mettetelo lì. Aspetto la pelle del Re Moro. - Il Re Moro era terribile. Con lui, fin allora non ce n' avea potuto nessun guerriero. Il Reuccio mandò a sfidarlo: ne voleva la pelle. — Venga a prendersela. — Si combatterono colle spade, e il Re Moro lo aveva conciato così bene, che il Reuccio grondava sangue da tutte le parti. Ma in un punto questi ebbe l' agio d' assestargli un colpo al cuore.

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Fra tante migliaia di pesci va a pescare per l' appunto quello lì! Eppure bisognava pescarlo. Prese canna, lenza ed amo, e so n' andò in riva al mare. Stette mesi e mesi: tempo perduto! E a compire i tre anni restavano intanto soli otto giorni! L' ultimo giorno, tirò fuori un pesciolino di meschina apparenza. La fortuna lo aveva aiutato: era il pesce senza fiele. — Va bene; — disse la Reginotta — mettetelo lì. Ora si mandi dal Re mio padre. Senza il suo consenso, non voglio sposarmi. - Spedirono un ambasciatore, ma l'ambasciatore tornò presto: — Quello dice che siamo matti. La sua figliuola l' ha lì, chi volesse vederla. — Dunque tu ci hai corbellati! — E la misero in prigione. Le rimaneva in tasca il sonaglino. Disperata, si diè a sonarlo furiosamente. Accorse la capretta. — Ah, capretta, capretta! Guarda a che sono arrivata! Non ho che te, per aiutarmi. — Prendi quest' erba, masticala bene e trattienila in bocca; — E intanto che masticava, la Reginotta ritornava bruttissima e contraffatta della persona come una volta. — Per ritornar bella, ti basterà sputarla fuori. Ora zitta, e vienmi dietro. - Uscirono di prigione senza che le guardie e i carcerieri se n'accorgessero, e la Reginotta in quattro salti andò a presentarsi ai suoi genitori. Come la videro, il Re e la Regina capiron subito l'inganno. E sentito il tradimento di quel marito e di quella moglie, li mandarono ad arrestare e, insieme con la loro figliuola, li fecero buttare in prigione. La Reginotta sputò fuori l'erba e ridiventò bellissima. Da che il mondo è mondo non si era mai vista una bellezza pari a quella! Fu mandato a chiamare il Reuccio, si sposarono, e vissero fino a vecchi felici e contenti.

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— Andarono a vedere in istrada; ma il Nano non c' era più. Si era rizzato di terra, si era ripulito il vestitino, ed era andato via, lesto lesto, come se nulla fosse stato. — Buon viaggio! — disse il Re tutto contento. Ma la Reginotta, da quel giorno in poi, diventò di malumore; non diceva una parola, non rideva più, andava perdendo il colorito. — Che cosa ti senti, figliuola mia? — Maestà, non mi sento nulla; ma.... chi dà la sua parola la dovrebbe mantenere. — Come? Lei dunque voleva quel Nano gobbo e sbilenco? — Non intendevo dir questo; ma.... chi dà la sua parola la dovrebbe mantenere. - Anche la Regina non viveva tranquilla: — Quel Nano era potente: aveva vinto l' Uomo selvaggio; doveva tramare qualche brutta vendetta! — Il Re rispondeva con una spallucciata: — Se quello sgorbio gli veniva un'altra volta dinanzi! — Ma la Reginotta ripeteva: — Chi dà la sua parola, la dovrebbe mantenere! — Intanto essendosi sparsa la notizia che la Reginotta era stata liberata dalle mani dell'Uomo selvaggio, il Reuccio del Portogallo mandò a domandarla per moglie. La Reginotta non disse nè di sì, nè di no; ma il Re e la Regina non vedevano l' ora di celebrare le nozze. Il Reuccio di Portogallo si mise in viaggio, e per via incontrò un uomo, che conduceva un gran carro con su un cavallo di bronzo, che pareva proprio vivo. — O quell'uomo, dove lo portate cotesto cavallo di bronzo? — Lo porto a vendere. — Il Reuccio lo comprò e ne fece un regalo a suo suocero. Il giorno delle nozze era vicino. La gente accorreva in folla nel giardino del Re, dove il cavallo di bronzo era stato collocato su un magnifico piedistallo. Restarono tutti meravigliati: — Par proprio vivo! Par di sentirlo nitrire! - Scese a vederlo anche il Re con la corte; e tutti: — Par proprio vivo! Par di sentirlo nitrire! - Solo la Reginotta non diceva nulla. Il Reuccio, stupito, le domandò: — Reginotta, non vi piace?

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Ma in mezzo a quel silenzio scoppia a un tratto una risatina, una risatina di canzonatura! — Ah! ah! ah! Il Re guardò, e vide il Nano che si contorceva dalle risa con quella sua gobbetta e quelle sue gambine sbilenche. Capì subito che quel cavallo fatato era opera del nano. — Ah, Nano, nanuccio; — gli disse pentito — se tu mi rendi la mia figliuola, essa sarà tua sposa, con, mezzo regno per dote. - Il Nano continuava a contorcersi dalle risa: — Ah! ah! ah! - È a vedergli fare a quel modo, tutta quella gente ch' era lì, cominciarono a ridere anch' essi, e poi perfino la Regina: — Ah! ah! ah! - Si tenevano i fianchi, non ne potevano più. Soltanto quel povero Re rimase così afflitto e scornato, che faceva pietà. — Ah! Nano, nanino bello; se tu mi rendi la mia figliuola, essa sarà tua sposa con mezzo regno per dote. - — Maestà, se dite per davvero, — rispose il Nano — prima dovete riprendervi quel che mi deste l' altra volta. — Che cosa ti diedi? — Un bel calcio nella schiena. - Il Re esitava: avea vergogna di ricevere un calcio in quel posto, davanti il popolo e la corte. Ma l'amore della figliuola gli fece dire di sì. Si rivoltò colle spalle al Nano e stette ad aspettare la pedata: però il Nano volle mostrarsi più generoso di lui; e invece di menargli il calcio, disse: Cavallo, mio cavallo, Non metter piede in fallo; Torna sul piedistallo, Cavallo, mio cavallo. In un batter d'occhio, cavallo e Reginotta furono lì. Allora il Nano disse al Re: — Maestà, datemi un pugno sulla gobba! non abbiate paura. - Il Re gli diede un pugno sulla gobba e questa sparì. — Maestà, datemi una tiratina alle gambe! non abbiate paura! - Il Re gli diè una tirata alle gambine, e queste, di bòtto, gli si raddrizzarono. — Maestà, afferratemi bene, la Regina per le braccia e voi pei piedi, e tiratemi forte. - Il Re e la Regina lo afferrarono l'uno pei piedi, l' altra per le braccia, e tira, tira, tira, il Nano, da nano che era, diventò un bel giovine di alta statura. Il Reuccio del Portogallo si persuase ch'era di troppo e disse: — Datemi almeno quel cavallo: farò la strada più presto. — Montò sul cavallo di bronzo, e dette le parole fatate, in un colpo sparì. La Reginotta e il Nano (lo chiamarono sempre così) furono moglie e marito. E noi restiamo a leccarci le dita.

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Tizzoncino tornò a casa piangendo e rammaricandosi. — Che cosa è stato, figliuola mia? — Il Reuccio mi ha tirato un calcio e mi ha rovesciato ogni cosa. — Sia fatta la volontà di Dio: il Reuccio è padrone. — Le vicine non capivano nella pelle dall' allegrezza. — Il Reuccio gli aveva menato un calcio: le stava bene a Spera di sole! - Il Reuccio pochi anni dopo pensò di prender moglie e mandò a domandare la figliuola del Re di Spagna. Ma l' ambasciatore arrivò troppo tardi: la figliuola dei Re di Spagna s' era maritata il giorno avanti. Il Reuccio volea impiccato l' ambasciatore. Ma questi gli provò che avea spesa nel viaggio mezza giornata di meno degli altri. Allora il Reuccio lo mandò a domandare la figliuola del Re di Francia. Ma l' ambasciatore arrivò troppo tardi: la figliuola del Re di Francia s' era maritata il giorno avanti. Il Reuccio volea ad ogni costo impiccato quel traditore che non arrivava mai in tempo: ma quello gli provò che avea spesa nel viaggio una giornata di meno degli altri. Allora il Reuccio lo mandava dal Gran Turco per la sua figliuola. Ma l' ambasciatore arrivò troppo tardi: la figliuola del Gran Turco s' era maritata il giorno avanti. Il Reuccio non sapea darsi pace; piangeva. Il Re, la Regina, tutti i ministri gli stavano attorno: — Mancavano principesse? C' era la figliuola del Re d'Inghilterra: si mandasse per lei. - Il povero ambasciatore partì come una saetta, camminando giorno e notte finchè non arrivò in Inghilterra. Era una fatalità! Anche la figlia del Re d'Inghilterra s' era maritata il giorno avanti. Figuriamoci il Reuccio! Un giorno, per distrarsl, se n' andò a caccia. Smarritosi in un bosco, lontano dai compagni, errò tutta la giornata senza poter trovare la via. Finalmente, verso sera, scoprì un casolare in mezzo agli alberi. Dall'uscio aperto, vide lì dentro un vecchione, con una gran barba bianca, che, acceso un bel fuoco, si preparava la cena. — Brav'uomo, sapreste indicarmi la via per uscire dal bosco? — Ah, finalmente sei arrivato? — A quella voce grossa grossa, il Reuccio sentì accapponarsi la pelle. — Brav' uomo, non vi conosco; io sono il Reuccio. — Reuccio o non Reuccio, prendi quella scure e spaccami un po' di legna. — Il Reuccio, per timore di peggio, gli spaccava le legna. — Reuccio o non Reuccio, vai per l' acqua alla fontana. — Il Reuccio, per timore di peggio, prendeva l'orcio sulle spalle e andava alla fontana. — Reuccio o non Reuccio, servimi a tavola. E il Reuccio, per timore di peggio, lo servì a tavola. All' ultimo il vecchio gli diè quel che era avanzato. — Buttati lì; è il tuo posto. — Il povero Reuccio si accovacciò su quel po' di strame in un canto, ma non potè dormire. Quel vecchio era il mago, padrone del bosco. Quando andava via, stendeva attorno alla casa una rete incantata, e il Reuccio rimaneva in tal modo suo prigioniero e suo schiavo. Intanto il Re e la Regina lo piangevano per morto e portavano il lutto. Ma un giorno, non si sa come, arrivò la notizia che il Reuccio era schiavo del mago. Il Re spedì subito i suoi corrieri: — Tutte le ricchezze del regno, se gli rilasciava il figliuolo! — Sono più ricco di lui! — A questa risposta del mago, la costernazione del Re fu grande. Spedì daccapo i corrieri: — Che voleva? Parlasse: il Re avrebbe dato anche il sangue delle sue vene. — Una pagnotta e una stiacciata, impastate, infornate di mano della Regina, e il Reuccio sarà libero. — Oh, questo era nulla! — La Regina stacciò la farina, la impastò, fece la pagnotta e la stiacciata, scaldò il forno di sua mano e le infornò. Ma non era pratica; pagnotta e stiacciata furono abbruciacchiate. Quando il mago le vide, arricciò il naso: — Buone pei cani! — — E le buttò al suo mastino. La Regina stacciò di nuovo la farina, la impastò e ne fece un' altra pagnotta e un' altra stiacciata. Poi scaldò il forno di sua mano e le infornò. Ma non era pratica. La pagnotta e la stiacciata riusciron mal cotte. Quando il mago le vide, arricciò il naso: — Buone pei cani! — — E le buttò al mastino, La Regina provò, riprovò; ma il suo pane riusciva sempre o troppo o poco cotto; e intanto il povero Reuccio restava schiavo del mago. Il Re adunò Consiglio di Ministri. — Sacra Maestà, — disse uno dei Ministri - proviamo se il mago è indovino. La Regina staccerà la farina, la impasterà, farà la pagnotta e la stiacciata; per scaldare il forno ed infornare chiameremo Tizzoncino! — Bene! Benissimo! — E così fecero. Ma il mago arricciò il naso: — Pagnottaccia, stiacciataccia Via, lavatevi la faccia! - E le buttò al cane. Avea subito capito che ci avea messo le mani Tizzoncino. — Allora, — disse il ministro, non c'è che un rimedio. Quale? — domandò il Re. — Sposare il Reuccio con Tizzoncino. Così il mago avrà il pane stacciato, impastato, infornato dalle mani della Regina, e il Reuccio sarà liberato. — È proprio la volontà di Dio! — disse il Re. — Spera di sole, spera di sole, sarai regina se Dio vuole. - E fece il decreto reale, che dichiarava il Reuccio e Tizzoncino marito e moglie. Il mago ebbe la pagnotta e la stiacciata, stacciate, impastate e infornate dalle mani della Regina, e il Reuccio fu messo in libertà. Veniamo intanto a lui, che di Tizzoncino non vuol saperne affatto: — Quel mucchio di filiggine sua moglie? Quella bruttona di fornaia regina? — Ma c'è un decreto reale.... — Sì? Il Re lo ha fatto, e il Re può disfarlo! - Tizzoncino, diventata Reginotta, era andata ad abitare nel palazzo reale. Ma nos s'era voluta lavare, nè pettinare, nè mutarsi il vestito, nè mettersi un paio di scarpe: — Quando verrà il Reuccio, allora mi ripulirò. - Era possibile? E aspettava, chiusa nella sua camera, che il. Reuccio andasse a trovarla. Ma non c' era verso di persuaderlo. — Quella fornaia mi fa schifo! Meglio morto, che sposar lei! — Tizzoncino, quando le riferivano queste parole, si metteva a ridere: — Verrà, non dubitate; verrà. — Verrò? Guarda come verrò! - Il Reuccio, perduto il lume degli occhi e colla sciabola in pugno, correva verso la camera di Tizzoncino: volea tagliarle la testa. L'uscio era chiuso. Il Reuccio guardò dal buco della serratura e la sciabola gli cadde di mano. Lì dentro c'era una bellezza non mai vista, una vera Spera di sole!

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In cucina gli tirarono il collo e lo messero a lessare. Appena la pentola diè il primo bollore: — Chicchirichì! — Il galletto era scappato fuori, come se non gli avesser mai tirato il collo e non lo avessero mai pelato e abbrustolito. Il cuoco corse dalla Regina: — Maestà, il galletto è risuscitato! - La cosa era troppo strana, e il galletto diventò prezioso. Tutti lo guardavano con rispetto; qualcuno anche con un po' di paura. Ed esso se n' abusava. A tavola beccava peggio di prima, nei piatti del Re e della Regina; razzolava, come se nulla fosse, nei piatti dei ministri che non osavano dirgli sciò per rispetto del Re; s' appollaiava dovunque, insudiciava perfino il soglio reale e lo riempiva di pollìna. E poi, notte e giorno: Chicchirichì! chicchirichì! Rintronava gli orecchi. E il popolo imprecava a denti stretti: — Accidempoli al galletto e a chi lo fa allevare! — Un giorno Sua Maestà dovea scrivere a un altro Re. Prese carta, penna e calamaio, fece la lettera, e la lasciò sul tavolino ad asciugare. Va il galletto e gliela insudicia, proprio dov' era la firma. — Sporco galletto! Per questa volta passi. Un'altra volta te la farò vedere io! - Il Re scrisse di bel nuovo la lettera, e la lasciò sul tavolino ad asciugare. Va il galletto, e gliela insudicia proprio dov' era la firma. Il Re perdè il lume degli occhi: — Sporco galletto! ora ti concio io! Chiamatemi il cuoco. - Il cuoco si presentò. — Mi si faccia arrosto pel pranzo. - In cucina gli tirarono il collo e lo infilzarono nello spiedo. Quando fu ora del pranzo, il cuoco lo servì in tavola. Sua Maestà cominciò a dividerlo, a chi un'ala, a chi una coscia, a chi un po' di petto, a chi il codione: serbò per sè il collo e la testa colla cresta e coi bargigli. Avea terminato appena di mangiare, che dal fondo del suo stomaco sente scoppiare: — Chicchirichì! — Fu una costernazione generale. Chiamarono tosto i medici di corte. — Bisognerebbe spaccar la pancia del Re; ma chi ci si mette? — E il galletto, di tanto in tanto, dal fondo dello stomaco di Sua Maestà, dava la voce: — Chicchirichì! — Chiamatemi la vecchia, — disse il Re. Appunto essa veniva a domandar elemosina al palazzo reale, e la condussero su. — Strega del diavolo! che malìa hai tu fatta a quell' uovo? Ho mangiato la testa del galletto, ed esso mi canta dentro lo stomaco. Se non me ne liberi, tienti per morta! — Maestà, datemi un giorno di tempo. - E tornò subito a casa: — Ah, gallettina mia! sono stata chiamata dal Re. Ho mangiato la testa del galletto, ed esso mi canta dentro lo stomaco. Se non lo libero, sarò morta! — Vecchina mia, questo è nulla. Domani prenderai un po' di becchime, tornerai dal Re e farai: billi! billi! Sentendo la tua voce, il galletto verrà fuori. — E così fu. La cosa era troppo strana. Il galletto diventò famoso, e tornò a fare peggio di prima. Una mattina, avanti alba: — Chicchirichì! Maestà, vo' una gallina. — E diamogli una gallina! - Il giorno appresso, avanti l' alba: — Chicchirichì! Maestà, vo' un' altra gallina. — E diamogli un' altra gallina! - Insomma, ne volle due dozzine. Un'altra mattina, avanti l' alba: — Chicchirichì! Maestà, vo' gli sproni d' oro. — E sproni d'oro siano! — Il galletto, eh' era diventato un bel gallo, con quegli sproni d'oro si pavoneggiava attorno, beccando questo e quello. Un' altra volta, avanti l'alba: — Chicchirichì! Maestà, vo' la cresta doppia d' oro. — E cresta doppia d' oro sia! - Il Re cominciava a stufarsi; ma il gallo, con quegli sproni d' oro e quella cresta doppia d'oro, si pavoneggiava attorno, beccando questo e quello. Finalmente un' altra mattina, avanti l' alba: — Chicchirichì! Maestà, vo' mezzo regno; ho corona al par di voi! - Al Re scappò la pazienza: — Levatemelo di torno, questo gallaccio impertinente! — Ma come fare? Ammazzarlo era inutile; risuscitava sempre. Portarlo lontano non concludeva nulla: sarebbe tornato. Prenderlo colle buone era peggio; rispondeva canzonando: chicchirichì! Il Re, disperato, mandò a chiamare la vecchia: — Se non mi liberi del gallo, ti fo mozzare la testa! — Maestà, datemi un giorno di tempo. - E tornò subito a casa: — Ah, gallinetta mia! Son stata chiamata dal Re: — Se non mi liberi del gallo, ti fo mozzare la testa. — Che debbo rispondere? — Rispondi: Maestà, voi non avete figliuoli; adottatelo per figliuolo, si cheterà. - Il Re, messo colle spalle al muro, risolvette di adottarlo. Ma giovò poco. Con tutte quelle galline, il palazzo reale era diventato un pollaio. Il Re, la Regina, i ministri, le dame di corte, i servitori, tutti si sentivan pieni di pollìna dalla testa ai piedi, e non potevano reggere. E poi, schiamazzate di qua, chicchiriate di là; aveano il capo come un' cestone. Il popolo imprecava a denti stretti: — Accidempoli al gallo, alle galline e a chi li fa allevare! — Senti, strega, — disse il Re. — Se fra un giorno non mi spazzi gallo e galline, pagherai colla tua testa. — Maestà, qui ci vuole Fata Morgana; mandatela a chiamare. — Il Re mandò a chiamare La Fata Morgana. La Fata rispose: — Chi vuole vada, chi non vuole mandi. — E il Re dovette andarci egli stesso in persona. — Maestà, finchè quel gallo non sarà diventato un uomo al pari di voi, non avrete mai pace. — Ma che cosa ci vuole, perchè diventi un uomo al pari di me? — Ci vuol tre sorta di becchime. Fate tre solchi colle vostre mani, e spargete queste tre semente. Mietete, trebbiate, senza mescolare il grano, e poi dite: Billi, billi! Chi gli piace se ne pigli! E spargerete per terra questo grano qui. Quando non ne rimarrà più un chicco: Billi, billi! Chi gli piace se ne pigli! E spargerete per terra quest'altro grano. Quando non ne rimarrà più un chicco: Billi, billi! Chi gli piace se ne pigli! E spargerete per terra l'ultimo grano. Il Re s' ingegnò di far tutto a puntino. Quando fu il momento: Bili, billi! Chi gli piace se ne pigli! E una metà delle galline morì. Billi billi! Chi gli piace se ne pigli! E il resto delle galline morì. Billi, billi! Chi gli piace se ne pigli! Il gallo si mise a beccare lui solo, e appena beccato l' ultimo grano, si ritirò, s' allungò, chicchirichì! si scosse le penne d' addosso e diventò un giovane alto e bello. Di gallo gli eran rimasti soltanto la cresta e gli sproni. Ma non importava. Il Re disse al popolo: — Non ho figliuoli, e questo qui sarà il Reuccio. Rispettatelo per tale. — Viva il Reuccio! Viva il Reuccio! - Ma, sottovoce, dicevano: — Staremo a vedere. Chi gallo nasce dee chicchiriare. — Il Reuccio, dopo parecchi mesi, diventò malinconico. Voleva star solo, non parlava con nessuno. — Che cosa avete, figliuolo mio? — Maestà, nulla. - Non lo voleva dire, provava rossore, ma sentiva una gran voglia di far chicchirichì! Chiamarono i medici di corte; chiamarono anche quelli di fuori del regno, i più valenti. Non ci capivano niente. — Forse il Reuccio voleva moglie? Non voleva moglie. — Ma dunque che cosa voleva? Qualunque cosa avesse voluto, gli sarebbe stata concessa. — Vorrei.... fare chicchirichì! - Bisognò permetterglielo: e si sfogò tutta la giornata.

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E il popolo: — Staremo a vedere! Chi di gallina nasce convien che razzoli. - Dopo parecchi mesi il Reuccio tornò ad essere malinconico. Voleva star solo, non parlava con nessuno. — Che cosa avete, figliuolo mio? — Maestà, nulla. — Non lo voleva dire, provava rossore, ma sentiva una gran voglia d'uscir fuori a razzolare. Tornarono a chiamare i dottori, ma non ci capivano niente. — Forse il Reuccio voleva moglie? — Non voleva moglie. — Ma dunque che cosa voleva? Qualunque cosa avesse chiesta, gli sarebbe stata concessa. — Vorrei.... uscir fuori a razzolare! — E bisognò permetterglielo. Allora gli strapparon gli sproni, e quella voglia non la ebbe più. Venne il tempo di dargli moglie: — Vi piacerebbe, figliuolo mio, la Reginotta di Spagna? — Maestà, dovendo sposare,.... vorrei sposare una pollastra! — Si era dunque sempre daccapo? - Il Re quel giorno avea le paturne. Tira fuori la sciabola e gli taglia la testa. Ma, invece di sangue d'uomo, gli uscì fuori sangue di pollo. Si presentò allora la vecchina: — Maestà, ecco, è finita. - Gli riappiccicò il capo collo sputo, e il Reuccio tornò vivo. Ora ch' era un uomo davvero stette tranquillo, e di lì a poco si sposò colla Reginotta di Spagna. Poi diventarono Re e Regina, e fecero un po' di bene. E la fiaba finisce.

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La Regina volea comprar delle gioie e lo mandò a chiamare. Quello andò, e in uno scatolino a parte ci avea l' anello. Dopo che la Regina ebbe comprato parecchie cose, domandò alla figliuola: — O tu, non vuoi nulla ? — Non c' è niente di bello, — rispose la Reginotta. — Ci ho qui un anello raro; le piacerà. — E il finto gioielliere mostrò anello incantato. — Oh, che bellezza! Oh, che bellezza! Quanto lo fate? — Reginotta, non ha prezzo, ma prenderò quel che vorrete. — Gli diedero una gran somma e quello andò via. La Reginotta s' era messo in dito l' anello e lo ammirava ogni momento: — Oli, che bellezza! Oh, che bellezza! - Ma dopo ventiquattr' ore (era di sera): — Ahi! Ahi! Ahi! — Accorsero il Re, la Regina, le dame di corte, coi lumi in mano. — Scostatevi! Scostatevi! Son diventata di stoppa. — Infatti la povera Reginotta avea le carni tutte di stoppa. Il Re e la Regina erano proprio inconsolabili. Radunarono il Consiglio. della Corona. — Che cosa poteva farsi? — Maestà, fate un bando: Chi guarisce la Reginotta sarà genero del Re. — E i banditori partirono per tutto il regno, con tamburi e trombette. — Chi guarisce la Reginotta sarà genero del Re! - In una città c' era un giovinotto, figlio d'un ciabattino. Un giorno, vedendo che in casa sua si moriva di fame, disse a suo padre: — Babbo, datemi la santa benedizione: vo' andare a cercar fortuna pel mondo. — Il cielo ti benedica, figliuolo mio! - E il giovinotto si mise in viaggio. Uscito pei campi, in una viottola incontrò una frotta di ragazzi, che, urlando, tiravan sassate a un rospo per ammazzarlo. — Che male vi ha fatto? È anch' esso creatura di Dio: lasciatelo stare. — Vedendo che quei ragazzacci non smettevano, saltò in mezzo ad essi, diè uno scapaccione a questo, un pugno a quello, e li sbandò: il rospo ebbe agio di ficcarsi in un buco. Cammina, cammina, il giovinotto incontrò i banditori che, a suon di tamburi e di trombette, andavan gridando: — Chi guarisce la Reginotta, sarà genero del Re. — Che male ha la Reginotta? — E diventata di stoppa. - Salutò e continuò per la sua strada, finchè non gli annottò in una pianura. Guardava attorno per vedere di trovar un posto dove riposarsi: si volta, e scorge al suo fianco una bella signora. Trasalì. — Non aver paura: sono una fata, e son venuta per ringraziarti. — Ringraziarmi di che? — Tu m'hai salvato la vita. Il mio destino è questo: di giorno son rospo, di notte son fata. Ai tuoi comandi! — Buona fata, c' è la Reginotta ch' è diventata di stoppa, e chi la guarisce sarà genero del Re. Insegnatemi il rimedio: mi basterà. — Prendi in mano questa spada e vai avanti, vai avanti. Arriverai in un bosco tutto pieno di serpenti e di animali feroci. Non lasciarti impaurire: vai sempre avanti, fino al palazzo del mago. Quando sarai giunto lì, picchia tre volte al portone.... - Insomma, gli disse minutamente come dovea fare: — Se avrai bisogno di me, vieni a trovarmi. — Il giovinotto la ringraziò, e si mise in cammino. Cammina, cammina, si trovò dentro il bosco, fra

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. - Cammina, cammina, arriva in una campagna dove c'era un palazzo simile a quello del mago. Picchiò al portone. — Chi sei? Chi cerchi? — Cerco Cornino d'oro. — Capisco: ti manda mio fratello. Che cosa vuole da me? — Vuole un pezzettino di panno rosso; gli si è bucato il mantello. — Che seccatura! Prendi qua. - E gli buttò dalla finestra un pezzettino di panno rosso, tagliato a foggia di lingua. Andò avanti, e arrivò a piè d'una montagna, dove a mezza costa, c' era un palazzo simile a quello del mago. Picchiò al portone. — Chi sei? Chi cerchi? — Cerco Manina d'oro. — Capisco, ti manda mio fratello. Che cosa vuole da me? — Vuole due grani di lenti per la minestra. — Che seccatura! Prendi qua. - E gli buttò dalla finestra due grani di lenti, involtati in un pezzettino di carta. Andò avanti, e arrivò in una valle, dove c' era un altro palazzo simile a quello del mago. Picchiò al portone. — Chi sei? Chi cerchi? — Cerco Piedino d'oro. — Capisco, ti manda mio fratello. Che cosa vuole da me? — Vuole due lumachine per mangiarsele a cena. — Che seccatura. Prendi qua. — E gli buttò dalla finestra le lumachine richieste. Il giovanotto tornò dal mago: — Ho portato ogni cosa. — Il mago gli disse come doveva fare, e il giovanotto stava per andarsene: — Mi lasci qui incatenato? — Lo meriteresti, ma ti sciolgo. Se mi hai ingannato, guai a te! — Il giovane si presentò al palazzo reale e si fece condurre dalla Reginotta. Le aperse la bocca, vi mise dentro quel pezzettino di panno rosso, e la Reginotta ebbe la lingua. Ma le prime parole che disse furon contro di lui: — Miserabile ciabattino! Via di qua! Via di qua! — Il povero giovane rimase confuso: — Questa è opera del mago! — Senza curarsene, prese i due semi di lenti, con un po' di saliva glieli applicò sulle pupille spente, e la Reginotta ebbe la vista. Ma appena lo guardò, si coprì gli occhi colle mani: — Dio, com'è brutto! Com'è brutto! - Il povero giovane rimase: — Questa è opera del mago! — Ma, senza curarsene, prese i gusci delle lumachine che aveva già vuotati, e con un po' di saliva glieli applicò bellamente dov' era il posto degli orecchi; la Reginotta ebbe gli orecchi. Il giovane si rivolse al Re e disse: — Maestà, son vostro genero. - Come intese quella voce, la Reginotta cominciò a urlare: — Mi ha detto: strega! Mi ha detto: strega! — Il povero giovane, a questa nuova uscita, sbalordì: — È opera del mago! - E tornò dalla fata. — Fata, dove sei? — Ai tuoi comandi. — Le narrò la sua disgrazia. La Fata sorrise e gli domandò: — Le hai tu tolto di dito 1' altro anello del mago? — Mi pare di no. — Vai a vedere; sarà questo. - Come la Reginotta ebbe tolto di dito quell' altro anello, tornò gentile e tranquilla. Allora il Re le disse: — Questi è il tuo sposo. — La Reginotta e il giovanotto si abbracciarono alla presenza di tutti, e pochi giorni dopo furono celebrate le nozze. E furono marito e moglie: E a lui il frutto e noi le foglie.

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. - La grotta si spalancò, e si vide il gran palazzo della Fata gobba; ma bisognava dirle Fata Regina; se no, se avea a male. — Ben venuta, figliuola mia! T' aspettavo da un pezzo. Questo giovine è figlio d'un regnante. Una maga gli aveva fatto l' incantesimo, e per romperlo ci voleva la ragazza dal dente d' oro. Ora dovrete sposarvi. — La Reginotta, con quella pelle squamosa, era un orrore. La Fata gobba cominciò a strusciarla da capo a piedi, e in poco d' ora la mondò, in guisa, che non pareva più lei. Era così bella, che abbagliava. La Regina, come intese che Serpentina stava per tornare, montò sulle furie: — Se vien lei, partirò io! È la nostra. cattiva sorte! — Ma, saputo che quella recava l'unguento da far sparire le gobbe, le andò incontro col Re e con tutta la corte. Fecero grandi feste, e vissero tutti felici e contenti. E noi citrulli ci nettiamo i denti.

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A quella scena lei e le altre vicine presenti C'era una volta.... 16 ridevano: il cenciaiuolo in questo mentre svoltava la cantonata e spariva. Corri, cerca, chiama.... L' avete più visto? Figuriamoci che pianto, quella povera mamma, quando apprese la sua disgrazia! Corse subito dal Re: — Giustizia, Maestà! Mi han rapito il bambino! — Bimbo mio, tu sarai Re! — le rispose il Re facendole il verso, per canzonarla. E la mandò via, tutto contento che quel malaugurio per la sua discendenza fosse sparito. Gli occhi della povera donna parevano un fiume. Andava attorno tutta la giornata, fermando la gente: — Buona gente, incontraste per caso il cenciaiuolo che mi ha rubato il mio bambino? — Le persone che non ne sapevano nulla, la prendevano per matta e le ridevano in viso. Quel giorno della disgrazia, la vicina le aveva dato il soldo bucato messole in mano dal cenciaiuolo; ma la povera donna, dalla gran rabbia che aveva, lo buttò via. La mattina dopo, apre un cassetto.... il soldo bucato era lì! — Soldaccio maledetto! Non ti voglio neppur vedere! — E lo buttò nuovamente via dalla finestra. Ma la mattina dopo, torna ad aprire quel cassetto e che vede? Il soldo bucato. Richiuse il cassetto con stizza. — Fossero almeno dieci lire!... Mi comprerei uno straccio di veste! — Non avea finito di dirlo, che sentì lì dentro un suonò di soldi rimescolati. Stupita, riapre. Pareva che il soldo avesse figliato. Oltre a quello, c'erano lì tanti soldi, da fare giusto dieci lire. Da allora in poi, quando avea bisogno di denaro, le bastava che dicesse: — Soldino mio, vo' cento lire, vo' mille lire! - Le cento lire, le mille lire erano subito lì. La buona donna non si teneva questa fortuna per sè sola; faceva spesso la carità a tutte le persone bisognose al par di lei, ed era già diventata una benedizione del cielo. Ma quel bene lei lo faceva sempre col pensiero al figliolino perduto: — Che le importava di tanta fortuna, senza il suo figliolino? —- E sperava sempre che, un giorno o l'altro, il cielo l'avrebbe consolata. In quel tempo il Re ebbe il capriccio di comprarsi un magnifico cavallo. Conchiuso il negozio, andò per prendere il denaro dello scrigno ove solea tenerlo riposto, e si accòrse che mancava una bella somma. Appostò lì due guardie per acchiappare il ladro; e, passati alquanti giorni, tornò a guardare: mancava un' altra bella somma! Si mise in agguato lui stesso; cominciava a sospettare dei suoi ministri. Una mattina, ecco una voce nell'aria lontana, lontana: — Soldino mio, vo' mille lire! — E, subito, un rimescolio nello scrigno, come se qualcuno vi prendesse quattrini a manate. Apre in fretta in fretta.... Le mille lire mancavano, ma lì dentro non c' era nessuno! — Come andava questa faccenda? — Il Re ci perdeva la testa. Però, benchè fosse un po' avaro, gli dispiaceva di più il dover morir senza figliuoli. Se la prendeva colla Regina, come se la colpa fosse stata di lei, e la maltrattava: — Non era buona a fargli un figliuolo, neppure di terra cotta! — La Regina, indispettita, gli fece colle sue mani un bel puttino di terra cotta. — Ecco, se era buona! — Tutti accorrevano al palazzo reale per vedere quel puttino di terra cotta, che era una meraviglia, e vi andò anche quella povera donna. — Oh Dio! È tutto il mio bambino!... Ma non era così che ti volevo Re, figliolino mio! - E si mise a piangere. Il Re, a quelle parole, montò in furore. Diè un calcio al puttino di terra cotta e lo ridusse in mille pezzi. Alla povera donna parve di vedersi squarciare sotto gli occhi il figliolino perduto. Ma che poteva dire a Sua Maestà? Dovette ingozzare anche quell' amarezza, e tornarsene a casa zitta zitta. Intanto nello scrigno del Re i quattrini continuavano a mancare; e sempre quella voce nell' aria lontana lontana: — Soldino mio, vo' cento lire, vo' mille lire! - E quanti diceva la voce, tanti il Re ne sentiva prendere dalla mano del ladro invisibile. Il Re mise le sue spie per scoprire di chi fosse quella voce: e un giorno le spie gli condussero dinanzi ammanettata la donna dal bambino rubato: Era lei che aveva detto: — Soldino mio, vo' cento lire! — Il Re non volle neppure ascoltare la povera donna, che voleva raccontargli come stesse la cosa, e la fece gettare in un fondo di carcere. Ma da quel giorno egli non ebbe più pace. Voleva andare a letto? E gli strappavano le coperte: — Maestà, non si dorme! —

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Si sedeva a tavola per mangiare? E gli portavano via il piatto: — Maestà, non si mangia! — Chi era? Non si vedeva nessuno. Se durava un altro po', il Re moriva d' inedia. Perciò mandò a consultare un vecchio mago. Il mago (che poi era quel cenciaiuolo che avea rapito il bambino per proteggerlo) rispose soltanto: — Bimbo mio, tu sarai Re! — Visto che il destino era quello, e non volendo morire d' inedia, il Re cominciò dallo scarcerare la povera donna, e tornò a mandare dal mago: — Come rintracciare il bimbo? Lo avea rapito un cenciaiuolo e non se ne sapeva più notizia. Il mago rispose: — Raccatti i cocci di quel puttino di terra cotta e li saldi insieme collo sputo. — Il Re, sebbene di mala voglia, raccattò i cocci del puttino e li saldò collo sputo. — Ed ora? — Ora — rispose il mago — prepari una bella festa e faccia così e così. - Il Re fece dei grandi preparativi, poi, secondo le istruzioni del mago, mandò a chiamare la mamma del bimbo a palazzo reale e la fece sedere a lato della Regina. Il puttino di terra cotta bello é saldato si vedeva collocato nel mezzo del salone e, attorno attorno, ministri, principi, cavalieri in gran gala che aspettavano. Quando fu l' ora, s'intese nella via: — Cenci, donnine, cenci! — A questo grido il pattino di terra cotta scoppiò, e ne uscì fuori un bel giovinotto fra un gran rovesciarsi di monete, che ruzzolavano da tutte le parti. Il Re, contento anche perchè riacquistava tutti i suoi quattrini, voleva abbracciarlo come un figliuolo; ma quello corse prima dalla sua mamma e non sapeva staccarsela dal petto: — Bimbo mio, tu sarai Re! Ed era già Reuccio, poichè il Re lo adottava! — Qui entrò una guardia e disse: — Maestà, c'è di là un cenciaiuolo; rivuole il suo soldo bucato. — II Re non ne sapeva nulla; ma la povera donna rispose subito: — Eccolo qui. — — Sentita la storia di quel soldo, il Re pensò ch' era meglio tenerselo per sè. Andò di là, bucò un altro soldo e diede questo in cambio di quello al cenciaiuolo. Ma gliene incolse male. La prima volta che disse: — Soldino mio, vo' mille lire! — Invece di mille lire furono mille nerbate, che lo conciarono per le feste, tanto che ne morì.

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Quella sera si fecero gli sponsali, e il Reuccio e Tizzoncino vissero a lungo, felici e contenti.... E a noi ci s'allegano i denti.

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A quella vista il Re ammattì: — Oh che bellezza! Dovrà esser mia! dovrà esser mia! — E, senza metter tempo in mezzo, picchia all' uscio a più riprese. Il contadino cessò di sonare; di botto la reggia ridivenne pagliaio, ma di aprire non se ne parlò neppure: e il Re, che bruciava dall' impazienza, dovette tornarsene a palazzo. Prima che albeggiasse, spedì un corriere a spron battuto: — Lo voleva il Re, subito subito. - Il contadino andò a presentarsi: — Sua Maestà che cosa comandava? — Comando e voglio la tua figliuola per sposa. Lei diventerà Regina e tu ministro di palazzo reale. — Maestà, c' è una condizione: Chi vuole la mia figliuola Dee star sette anni alla pioggia e al sole; E se sette anni alla pioggia e al sole non sta, Fosse chi fosse, non l'otterrà. — Il Re avrebbe voluto darglieli lui la pioggia e sole! Ma c' era di mezza la ragazza. Si strinse nelle spalle e rispose: — Starò sette anni alla pioggia e al sole. - Lasciò il governo ai ministri, per tutto il tempo che sarebbe stato assente, e andò ad abitare col contadino, scottandosi la pelle al solleone e restando sotto la pioggia anche quando veniva giù a catinelle.

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Dopo poco tempo, povero Re, non si riconosceva più; parea fatto di terra cotta, colla pelle bruciata a quel modo. Ma avea un compenso. Di tanto in tanto, la notte, il contadino cavava di tasca lo zufolo, e prima di sonare, gli diceva: — Maestà, rammentatevi bene: Chi tocca stronca, Chi parla falla! — E, tì, tìriti, tì, di botto il pagliaio diventava una reggia; e tì, tìriti, tì, compariva la ragazza più bella della luna e del sole. Il Re se la divorava cogli occhi, mentre quella ballava. Dovea fare proprio un grande sforzo per non slanciarsi ad abbracciarla e non dirle: Sarai Regina! La passione lo conteneva. Eran passati sei anni, sei mesi e sei giorni. Il Re, dalla contentezza, si fregava le mani. Fra poco quella ragazza più bella della luna e del sole sarebbe stata sua sposa! E lui se ne tornerebbe al palazzo reale, Re come prima e più beato di prima! Ma la sua disgrazia volle che una notte il contadino cavasse di tasca lo zufolo, e si mettesse a sonare senza ripetergli: — Maestà, rammentatevi; chi tocca stronca, chi parla falla. — Quando, tì, tìriti, tì.... apparve la ragazza più bella della luna e del sole, e si messe a ballare, il Re non seppe più frenarsi, le corse incontro e l'abbracciò, gridando: — Sarai Regina! sarai Regina! — Fu un lampo. E, invece della ragazza, che cosa si trovò fra le braccia? Un ceppo bitorzoluto! — Maestà, ve l'avevo pur detto io: Chi tocca stronca, Chi parla falla! — Il Re pareva di sasso: — Bisognava ricominciare? — Bisognava ricominciare! — E ricominciò. Si abbrustoliva al sole: — Sole, bel sole, Patisco per amore! - Si lasciava conciare dalla pioggia. — Pioggia, pioggia bella, Patisco per la donzella! — E quando il contadino cavava di tasca lo zufolo e, tì, tìriti, tì, la ragazza ricompariva e si metteva a ballare, lui se la divorava cogli occhi, da un cantuccio, zitto e cheto come l'olio. Non se la sentiva di ricominciare. Eran passati novamente sei anni, sei mesi e sei giorni, e il Re, dalla contentezza, già si fregava le mani. Ma la sua disgrazia volle che una notte il contadino cavasse di tasca lo zufolo, e ti, tìriti, tì, comparisse la ragazza e si mettesse a ballare come non avea ballato mai, con una grazia, con una sveltezza! Il povero Re non potè più frenarsi e le corse incontro e l'abbracciò: — Sarai Regina! Sarai Regina! — E che cosa si trovò fra le braccia? Un ceppo bitorzoluto. — Ah, Maestà, Maestà! Chi tocca stronca, Chi parla falla! Il Re pareva di sasso: — Bisognava ricominciare? — Bisognava ricominciare! - E ricominciò: — Sole, bel sole, Patisco per amore; Pioggia, pioggia bella, Patisco per la donzella! — Questa volta però stette bene in guardia, e ai sette anni fissati ebbe finalmente la ragazza, più bella della luna e del sole. Non gli parea neppur vero! Intanto che cosa era accaduto? Era accaduto che i suoi ministri e il popolo ritenendolo per matto, si erano dimenticati di lui e avevan dato, da parecchi anni, la corona reale a un suo parente. Il Re, infatti, si presenta al palazzo reale, colla sposa sotto braccio e i soldati di sentinella: — Non si passa! Non si passa! — Sono il Re! Chiamate i miei ministri! - Che ministri? I vecchi eran morti e quelli del nuovo Re lo lasciavano cantare. Si rivolge al popolo: — Come? non riconoscete il vostro Re? - Il popolo gli ride in faccia e non gli dà retta. Disperato, ritorna al campicello, dal contadino. Dov' era il pagliaio, vede, con sorpresa, un palazzo che pareva una reggia. Monta le scale, e invece del contadino, gli viene incontro un bel vecchio con tanto di barba bianca: era il gran mago Sabino. — Non ti scoraggiare! — gli disse questi. E lo prese per mano, e lo condusse in una magnifica stanza, dove c' era un catino pieno di acqua. Il Gran Mago afferra quel catino e glielo riversa sulla testa, e il Re, da un po'invecchiato che già era, rinverdisce, a un tratto, di vent'anni. Allora il vecchio: — Affàcciati a quella finestra, suona questo zufolo e vedrai. — Il Re si affaccia, si mette a sonare, tì, tìriti, tì, ed ecco un esercito armato di tutto punto, fitto come la nebbia, su poi colli e per la pianura. Intimata la guerra, mentre i soldati combattevano, lui, in cima a un poggio, sonava tì, tìriti, tì, senza cessare finchè la battaglia non fu vinta. Tornò a palazzo reale vittorioso e trionfante, perdonò a tutti, e all' occasione dei suoi sponsali diè un mese di feste per tutto il regno. E presto ebbe un erede; E noi scalzi d'un piede.

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abitava su, nelle stanze reali; pranzava a tavola col Re, colla Regina con tutta la corte, e prima di toccar le pietanze, metteva da parte i meglio bocconi; poi ne riempiva il grembiule e scendeva giù, nel canile. — Mamma cagna, mangiate; la mia vera mamma siete voi! - La notte dormiva lì, con mamma cagna. Non c' era mai stato verso d' indurla a dormire nel suo letto. La Regina, sentendole ripetere ogni giorno: — Mamma cagna, mangiate; la mia vera mamma siete voi! — cominciò a odiarla terribilmente, come se non fosse stata sua figliuola. E una volta disse al Re: — Maestà, no, costei non è la nostra figliuola. Ce la scambiarono quand' era in culla. Che ne facciamo di questo mostro? Io direi di farla ammazzare. - Il Re non ebbe animo di commettere questa crudeltà: — Mostro o non mostro, è una creatura di Dio. — Talchè la Regina giurò di disfarsene in segreto. E che pensò? Pensò di dar ad intendere al Re che era nuovamente gravida e, quando fu l'ora, gli fece presentare una bambina nata di fresco, che lei avea fatto comprare a peso d'oro in un altro paese. Il Re fu molto contento; e alla bambina mise nome Gigliolina, perchè era bianca come un giglio. Allora la Regina gli disse: — Ora che abbiamo quest' altra figliuola, che ne facciamo di quel mostro? Io direi di farla ammazzare. — Per amore di quest' altra figliuola, il Re, benchè a malincuore, acconsentì. Ma come andarono per prendere Testa-di-rospo e farla ammazzare, sulla C'era una volta.... soglia del canile trovarono mamma cagna, che abbaiava e ringhiava mostrando i denti. E Testa-di-rospo non voleva uscir fuori. — Perchè non vieni fuori? Perchè mi farete ammazzare. — E chi ti ha detto questo? — Me l'ha detto mamma cagna. - La Regina, maliziosa, volea indurla colle buone: — Non è vero, sciocchina. Vieni su, vieni a vedere che bella sorellina ti è nata. Sorellina non me n' è nata, A peso d' oro fu comprata. Mamma cagna, mamma cagna, Siete voi la vera mamma. — Che significa? — domandò il Re. — O che gli date retta? Testa-di-rospo parla da bestia. — Ma il Re disse: — Chi tocca Testa-di-rospo l'ha da fare con me. Mostro o non mostro, è una creatura di Dio. Lei è la vera Reginotta, perchè nata la prima. - La Regina, arrabbiata per lo smacco, che pensò? Pensò di ricorrere ad una strega: — Fammi due vestiti compagni, tutti oro e diamanti; ma uno dev' essere incantato: deve bruciare addosso a chi se lo mette. — Fra un anno li avrete. - In questo mentre la Regina fingeva di voler bene egualmente alle due figliuole; anzi, se comprava un balocco, un ninnolo per la Gigliolina, ne comprava uno più bello per Testa-di-rospo. La Gigliolina, vedendo il regalo più bello, si metteva a strillare: — Quello lì lo voglio io! — E Testa-di-rospo glielo dava. Passato l'anno, la Regina tornò alla strega. — Maestà, i vestiti son pronti; ma baciate di non scambiarli. Per non sbagliare, in questo incantato ci ho messo un diamante di più. — Ho capito. — Chiamò le due figliuole e disse: — Ecco due bei vestiti; provateveli subito, per vedere se vanno bene. Questo è il tuo, Testa-di- rospo. - Ma la Gigliolina, contati i diamanti e visto che in quello di Testa-di-rospo ce n' era uno di più, comincia a strillare: — Quello lì lo voglio io! — La Regina non permise. che lo toccasse. Intanto la Gigliolina continuava a strillare, e pestare coi piedi: — Quello filo vogliò io! quello lì lo voglio io!— Accorse il Re e disse: — Non ti persuadi che quello è un po' più grande? Provalo, e vedrai. - E stava per infilarglielo. — No, Maestà, — disse Testa-di-rospo. Vestito bello, fatto da poco, Vestito nuovo fatto di fuoco, Mamma cagna, mamma cagna, Siete voi la vera mamma. — Che significa? — domandò il Re. - O che gli date retta? Testa-di-rospo parla da bestia. — Ma il Re disse: — Chi fa danno a Testa-di-rospo, fa il proprio danno. Lei è la vera Reginotta, perchè nata la prima. - La Regina, arrabbiata per quest' altro smacco, non sapeva più che inventare. E la sua rabbia si accrebbe quando vide arrivare a corte il Reuccio del Portogallo, che andava cercando una principessa reale per moglie. La Regina disse al Re: - Almeno facciamogli vedere tutte e due le figliuole; così sceglierà. — Il Re, per contentarla, rispose: — Sia pure. — Il Reuccio voleva visitare le principesse negli appartamenti ov' esse abitavano; e la Regina lo condusse prima nel magnifico appartamento della Gigliolina. La Gigliolina, vestita cogli abiti più sfarzosi, sfolgorava come una stella. Il Reuccio disse: — È mai possibile che l' altra principessa sia bella quanto questa? Andiamo a vederla. Ma dove andiamo?

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. — Chiedetene il permesso a mamma cagna: è lei la padrona. - La Regina andò a trovare mamma cagna: — Mamma cagna, vorrei visitare il vostro palazzo. Bau! Bau! — Che cosa dice? — Dice di sì. — Mamma cagna, una notte vorrei dormire con Testa-di-rospo. — Bau! Bau! — Che cosa dice? — Dice di sì. — La Regina, per entrare nel canile, dovette quasi piegarsi in due. — Ed è questo il tuo gran palazzo? — Questo: non ve lo dicevo? - La Regina, indispettita, uscì fuori brontolando contro il Reuccio, che le aveva dato ad intendere tante sciocchezze; e appena fuori, cominciò a sentire per tutto il corpo un brulichìo e un brucìo insoffribile. Era, da capo a piedi, ripiena di pulci; e, siccome montava a corsa le scale e scoteva le vesti, ne seminava per terra cataste che annerivano il pavimento. Così per le stanze del palazzo; ma più scoteva e più gliene brulicavano addosso e se la rodevano viva viva. In un momento, Re, ministri, dame di corte, gente di palazzo, tutti si videro assaliti da quelle bestioline affamate, che davano morsi da portar via la pelle; e tutti urlavano: — Accidempoli alla Regina, che volle entrare nel canile! - Il Re corse subito da Testa-di-rospo: — Figliuola mia, dàcci aiuto! — Mamma cagna, dategli aiuto! - Mamma cagna si mise a girellare per le stanze: — Bau, bau! Bau, bau! — E sentendola abbaiare, tutte le pulci saltavano addosso a lei. La Regina non si stimò gastigata abbastanza, e insistette: — Testa-di-rospo, questa notte vengo a dormire con te. — Maestà, in un giaciglio! — Per una volta, potrò provare. - Si acconciò alla meglio, e finse di dormire. — In quel canile ci doveva essere un mistero; voleva scoprirlo. — Verso mezzanotte, sentì un romore come di un crollo di muro. Aprì gli occhi, e rimase abbagliata.

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. - Ma il muro si richiuse a un tratto, e lei vi battè la faccia e si ammaccò il naso. Senza aspettare che facesse giorno, tornò su in camera. Sentiva nelle carni un brucìo, un gonfiore!... Stende una mano, e si scorge che, da capo a piedi, era piena di zecche. Si sveglia il Re: è pieno di zecche anche lui. Si svegliano i ministri, le dame di corte, insomma tutte le persone del palazzo reale; son tutti, da capo a piedi, pieni di zecche; e, dal prurito e dal dolore, non possono reggere: — Accidempoli alla Regina, che volle dormire nel canile! — Il Re corse di nuovo da Testa-di-rospo: — Figliuola mia, dàcci aiuto! Mamma cagna, dategli aiuto. — Mamma cagna, Bau, bau! No, no! Non ne vuol sapere. — Figliuola mia, dàcci aiuto! - Che aiuto poteva dargli? Mamma cagna rispondeva sempre: — Bau, bau! No, no! Intanto tornava il Reuccio per sposare Testa- di-rospo. Ma, con quel malanno delle zecche addosso, chi poteva aver capo a feste di nozze? Tutti erano occupati a tagliar le zecche, colle forbici, perchè strappare non si potevano; facevano più male. E più ne tagliavano e più ne rimaneva da tagliare: — Accidempoli alla Regina, che volle dormire nel canile! — Allora il Re montò in furore. Afferrò la Regina pel collo, e disse: — Trista femmina, che cosa hai tu fatto da attirarci addosso tanti guai? — La Regina non ne poteva più, e confessò ogni cosa: che avea detto come le fate non potrebbero farne una pari; che avea comprato quella bambina a peso di oro; che avea fatto fare il vestito incantato per bruciare viva Testa-di-rospo. — Ora son proprio pentita, e domando perdono alla fata! — Disse appena così, che alla Reginotta cadde giù quella schifosa testa di rospo, e la Gigliolina si trovò vestita come una figliuola di contadini, qual' era. La Reginotta splendeva come il sole, sicchè, per guardarla, bisognava mettersi una mano agli occhi. Le zecche erano sparite, e non se ne vedeva neppure il segno. Il Reuccio di Portogallo e la Reginotta si sposarono; e se ne stettero e se la godettero e a noialtri nulla dettero.

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Inoltre, a tutti gli usci venivano appostate guardie con una granata in mano, invece di sciabola, che dovevano gridare all' armi appena visto un topo. Sulle prime, con quella caccia ai topi per diventare baroni, fu uno spasso per tutto il regno. Il Re, ogni volta che gli portavano al palazzo un centinaio di topi uccisi, traeva un respiro dal profondo del petto. — Voi siete barone! — Che mi vale, Maestà, l'esser barone, se non ho da mangiare? — disse una volta un contadino, che, invece di cento, ne aveva portati un mezzo migliaio. — E giusto, — rispose il Re. E gli fece un bel regalo. Saputasi la cosa, tutti quelli che accorrevano al palazzo reale, ripetevano la stessa storia: — Che mi vale, Maestà, l'esser barone, se non ho da mangiare? Ma il Re, ch' era un po' tirchio, si seccò presto a dover far tanti regali; e all'ultimo rispose: — Il decreto dice soltanto: sarete baroni. - E il popolo ne fu scontento; molto più che, con tutti quei gatti per la casa, i quali miagolavano da mattina a sera, si viveva una vitaccia d'inferno. Ma Sua Maestà ordinava così; era forza ubbidirgli! C' era una volta.... 19 Da lì a qualche anno, non si trovava un topo in tutto il regno, neppure a pagarlo un milione. Il Re già cominciava a rassicurarsi; e siccome la Reginotta era cresciuta, egli pensava di darle marito. Parecchi Principi l' avevano chiesta. Ma la Reginotta, quasi lo facesse a posta, a ogni domanda di matrimonio, rispondeva: — Maestà, chiedo un altr' anno di tempo. - Intanto era accaduto questo: in un paesetto del regno, nascosto fra le montagne, una povera donna aveva partorito un bambino mostruoso, col viso d' uomo e il resto del corpo di vero topolino, con le sue zampine e con la sua codina. Al vederlo, la mamma e la levatrice rimasero trasecolate: e la levatrice che provava ribrezzo a toccare quel mostricino, aveva consigliato di soffocarlo. La mamma non n' ebbe il cuore, e pregò: — Non ne fiatate con anima viva, comare! - Infatti nessuno ne seppe nulla; e il bambino crebbe vegeto e vispo da quel topolino ch' egli era. Camminava su due gambe, come un uomo; solamente la mamma lo vestiva in maniera, che del suo corpo non si potesse vedere altro che il volto. Alle zampine anteriori gli metteva sempre i guanti. Gli aveva posto nome Beppe, e così lo chiamavano tutti; ma quando non c' era nessuno, ella, per tenerezza, lo chiamava Topolino. — Topolino, fa' questo; Topolino, fa' quest' altre! — E Topolino non le dava mai il menomo dispiacere, e faceva questo e faceva quello. — Dio t' aiuterà, Topolino! — E un giorno Topolino disse: — Mamma, voglio fare il soldato. — La poveretta, che gli voleva bene, piangendo rispose: — Ed io, come rimango sola sola? Ora son vecchia, e non posso più lavorare. — Vi lascerò la mia coda. Quando avrete bisogno di qualcosa, direte: Codina, codina, Servi la tua mammina! Ed essa vi servirà, come se fossi io stesso in persona. Se non v' ubbidirà, vorrà dire che in quel momento io corro un gran pericolo. Allora, lasciatevi guidare da essa e venite a trovarmi. — Così fece, e partì. Quella coda era fatata. Al Re era stata mossa guerra da un altro Re, offeso dal rifiuto della Reginotta. Uscito, con tutto l' esercito, a combattere, in ogni battaglia ne toccava. Mutava generali, chiamava nuova gente sotto le armi, veniva alle mani, faceva prodezze straordinarie, ma rimaneva vinto sempre; e una volta potè salvarsi, scappando sul suo cavallo a rotta di collo. Si presentò Topolino, eh' era alla guerra anche lui: — Maestà, se mi date il comando in capo, vi faccio uscire vittorioso. — E tu chi sei? — Mi chiamo Niente-con-Nulla; ma non vuol dire. Mettetemi alla prova. — Niente-con-Nulla sia comandante! - I generali dell' esercito credettero che sua Maestà fosse ammattito: — Affidare il comando in capo a quel cosino, ch' era davvero Niente-con-Nulla! - Non rinvenivano dallo stupore. Ma quando fu l' ora della battaglia, Topolino impartì gli ordini, fece sonare le trombe, e in un batter d' occhio l' esercito nemico fu spazzato via. — Viva Niente-con-Nulla! Viva Niente-con- Nulla. — Non si sentiva acclamare altro. Nessuno più gridava: Viva il Re! tanto che Sua Maestà cominciò a esserne seccato, e pensava di levarsi di torno Niente-con-Nulla, che ci mancava poco non contasse più di lui. — Come fare per levarselo di torno? Occorreva un pretesto. — Il pretesto lo trovò una mattina, che la Reginotta venne a dirgli: — Maestà, volete ch'io sposi ? Datemi Niente- con-Nulla per marito. — Il Re montò sulle furie. Ma, per far la cosa zitto e queto, deliberò di sbarazzarsi di Niente- con-Nulla per mezzo del veleno. Invitatolo a pranzo, verso la fine, gli fece porre davanti un piatto d'oro con su una torta di ricotta avvelenata. — Questo piatto è per voi solo, per farvi onore. Niente-con-Nulla, mangiate. — Ma Niente-con-Nulla, levatosi da tavola e fatto un inchino a Sua Maestà, rispose: — Topolino non vuoi ricotta; Vuol sposare la Reginotta! — E andò via. Il Re e i Ministri rimasero strabiliati: — Giacchè Topolino è lui, — disse un Ministro — facciamolo arrestare, rinchiudiamolo in una stanza con tutti i gatti del Palazzo reale, e così sarà divorato vivo vivo. Lo fecero arrestare, lo spogliarono, lo rinchiusero in uno stanzone insieme con un centinaio di

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Si era anche messo a fare il racconta-fiabe; ma i bambini, che già sanno a mente le nostre storie, ora vorrebbero delle fiabe nuove, e non gli prestano attenzione. Bella Fata Fantasia, aiutatelo voi! — Fiabe nuove non ce n' è più; se n' è perduto il seme. — Bella Fata Fantasia, aiutatemi voi! - Sentendosi pregare colle lagrime agli occhi, fata Fantasia s' intenerì: — Vado e vengo. — Rientrò nella grotta, e dopo un pezzetto, ricomparve col grembiale ricolmo: — Tieni; con questa roba forse ti riescirà. - E gli diede una stiacciata, un'arancia d' oro, un ranocchino, una serpicina, un uovo nero, tre anelli, insomma tante cose strane. — Che debbo farne? — Portali teco e vedrai. - Ringraziò, tutto contento, accompagnò quegli altri alle case loro, e la prima città che incontrò, si messe a gridare per la via: — Fiabe, bambini, fiabe! Chi vuol sentire le fiabe? — I bambini accorsero da tutte le parti e gli fecero ressa attorno. Lui prese la stiacciata in mano e cominciò: — C' era una volta.... — Non sapeva neppure una parola di quel che dovea raccontare; ma, aperta la bocca, la fiaba gli usciva filata, come se l'avesse saputa a mente da gran tempo. E fu la fiaba di Spera di sole. La fiaba Piacque ai bambini: — Un' altra! un'altra! — E quello, preso a caso uno dei regali della fata, che portava seco in una borsa, cominciò: — C'era una volta.... — Non sapeva neppure una parola di quel che dovea raccontare; ma appena aperta la bocca, la fiaba gli usciva filata, come se l'avesse saputa a mente da gran tempo. E raccontò la fiaba di Ranocchino, porgi il ditino. La fiaba piacque ai bambini: — Un' altra! un' altra! — E così di seguito; ne raccontò più di una dozzina, e lui ci si divertiva più dei bambini. Poi andò in un'altra città: — Fiabe, bambini, fiabe! Chi vuoi sentire le fiabe? — E ricominciò da capo. I bambini contentissimi. Ma, infine, erano sempre quelle: Spera di sole, Ranocchino, Cecina, Il cavallo di bronzo, Serpentina, Testa-di-rospo.... Sicchè, all'ultimo, i bambini si seccarono e, appena cominciava: « C' era una volta.... » lo interrompevano: — La sappiamo, la sappiamo a mente! — Che cosa farne di quelle fiabe, ora che i bambini non volevano più sentirle, perchè le sapevano tutti a mente? — Pensò di regalarle al mago Tre-Pi, per metterle nei cassetti, colle altre fiabe imbalsamate. E andò a trovarlo. Al cancello e' era il solito mastino: — Chi cerchi da queste parti? — Cerco il mago Tre-Pi. — È fuori: aspetta. — Sul tardi, ecco il mago Tre-Pi, nero come il pepe, col suo barbone nero e quei suoi occhi neri che schizzavano fuoco: — Sei tornato di nuovo? che vuoi da me? — Nulla, buon mago; vengo anzi a farvi un regalo. Queste son fiabe nuove e nei vostri cassetti non ce le avete. Ora che tutti i bambini le sanno a mente, ho pensato di regalarvele per metterle insieme colle altre imbalsamate. — Ah, sciocco! sciocco! — rispose il mago. Non vedi che cosa hai in mano? Il racconta, fiabe guardò: aveva in mano un pugno di mosche! E tornò addietro scornato, e di fiabe non ne volle più sapere. Perciò si conchiude: - Fiabe nuove non ce n'è più; se n'è perduto il seme! — Come e perchè, cari bambini, lo saprete facilmente quando sarete più grandi.

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Ma nella stanza appresso, i diamanti, sempre a mucchi, eran più grossi e più belli. Il Re si vuotava le tasche, e tornava a riempirsele di questi. Così fino all'ultima stanza, dove, in un angolo, si vedevano ammonticchiate le arance d' oro del giardino reale. C' era lì una bisaccia, e il Re la colmò. Or che sapeva il motto, vi sarebbe ritornato più volte. Uscito fuor della Grotta, colla bisaccia in collo, trovò il contadino che lo attendeva. — Maestà, la Reginotta ora è mia. — Il Re si fece scuro. Dovea dare la Reginotta a quello zoticone? — Domanda qualunque grazia e ti verrà concessa. Ma per la Reginotta néttati la bocca. — Maestà, e la vostra parola? — Le parole se le porta il vento. — Quando sarete al palazzo ve ne accorgerete. - Arrivato al palazzo, il Re mette giù la bisaccia e fa di vuotarla. Ma invece di arance d' oro, trova arance marce. Si mette le mani nelle tasche, i diamanti son diventati tanti gusci di lumache! — Ah! quel pezzo di contadinaccio gliel' avea fatta!... - Ma il cardellino la pagava. E tornò a martoriarlo. — Dove sono le mie arance d' oro? — Se non mi farete più nulla, Maestà, ve lo dirò. — Non ti farò più nulla. — Son lì dove le avete viste; ma per riaverle bisogna conoscere un altro motto, e lo sanno due soli: il mercante e quel contadino che mi ha preso. — Il Re lo mandò a chiamare: — Facciamo un altro patto. Dimmi il motto per riprender le arance e la Reginotta sarà tua. — Parola di Re? — Parola di Re! — Maestà, il motto è questo: Ti sto addosso; Dammi l' osso. — Va bene. — Il Re andava e ritornava più volte colla bisaccia colma, e riportava a palazzo tutte le arance d' oro. Allora si presentò il contadino: — Maestà, la Reginotta ora è mia. — Il Re si fece scuro. Dovea dare la Reginotta a quello zoticone? — Quello è il tesoro reale: prendi quello che ti piace. Quanto alla Reginotta, néttati la bocca. — Non se ne parli più. — E andò via. Da che il cardellino era in gabbia, le arance d' oro restavano attaccate all'albero da un anno all' altro. Un giorno la Reginotta disse al Re: — Maestà, quel cardellino vorrei tenerlo nella mia camera. — Figliuola mia, prendilo pure; ma bada che non ti scappi. - Il cardellino nella camera della Reginotta non cantava più. — Cardellino, perchè non canti più? — Ho il mio padrone che piange. — E perchè piange? — Perchè non ha quel che vorrebbo. — Che cosa vorrebbe — Vorrebbe la Reginotta. Dice: Ho lavorato tanto, E le fatiche mie son sparse al vento. — Chi è il tuo padrone? Quello zotico? — Quello zotico, Reginotta, è più Re di Sua Maestà. — Se fosse vero, lo sposerei. Va' a dirglielo, e torna subito. — Lo giurate? — Lo giuro. — E gli aperse la gabbia. Ma il cardellino non tornò. Una volta il Re domandò alla Reginotta: — O il cardellino non canta più? È un bel pezzo che non lo sento. — Maestà, è sulla muta. - Il Re s' acchetò. Un'altra volta, dopo parecchi mesi, tornò a domandare: — O il cardellino non canta più? È un bel pezzo che non lo sento. — Maestà, è un po'malato. - E il Re s' acchetò. Intanto la povera Reginotta viveva in ambascia: — Cardellino traditore, te e il tuo padrone! - E come s'avvicinava la stagione delle arance, pel timore del babbo, il cuore le diventava piccino piccino, Intanto venne un' ambasciatore del Re di Francia che la chiedeva per moglie. Il padre ne fu lieto oltremodo, e rispose subito di sì. Ma la Reginotta: — Maestà, non voglio; vo' rimanere ragazza. — Quello montò sulle furie: — Come? Diceva di no, ora che avea impegnato la sua parola e non potea più ritirarla? — Maestà, le parole se le porta il vento. —

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. — Il peggio fu quando il Re di Francia mandò a dire che fra otto giorni arrivava. Come rimediare con quella figliolaccia caparbia? Dallo sdegno, le legò le mani e i piedi e la calò in un pozzo: — Di' di sì, o ti faccio affogare! - E la Reginotta zitta. Il Re la calò fino a metà. — Di' di sì, o ti faccio affogare! — E la Reginotta zitta. Il re la calava più giù, dentro l'acqua; le restava fuori soltanto la testa: — Di' di sì, o ti faccio affogare! - E la Reginotta zitta. Dovea affogarla davvero? E la tirò su; ma la rinchiuse in una stanza, a pane ed acqua. La Reginotta piangeva: — Cardellino traditore, te e il tuo padrone! Per mantener la parola ora patisco tanti guai! - Il Re di Francia arrivò con un gran séguito, e prese alloggio nel palazzo reale. — E la Reginotta? Non vuol farsi vedere? — Maestà, è un po'indisposta. - Il Re non sapeva che rispondere, imbarazzato. — Portatele questo regalo. - Era uno scatolino tutto d'oro e di brillanti. Ma la Reginotta lo posò lì, senza neppur curarsi d' aprirlo. E piangeva. — Cardellino traditore, te e il tuo padrone! — Non siamo traditori, nè io, nè il mio padrone. - Sentendosi rispondere dallo scatolino, la Reginotta lo aperse. — Ah, cardellino mio! Quante lagrime ho sparse! — La tua sorte volea così. Ora il destino è compito. — Sua Maestà, conosciuto chi era quel contadino, le diè in dote 1' albero che produceva le arance d' oro, e il giorno appresso la Reginotta sposò il Re di Francia. E noi restiamo a grattarci la pancia.

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Domani a mezzogiorno, aspettami sotto le finestre del palazzo reale: sarà la tua fortuna. - Quando i figliuoli lo videro tornare senza il fratellino, si misero a strillare. — Zitti! ecco del pane e del formaggio. — Ma Ranocchino do v' è? — È morto! - Disse così per non esser seccato. E il giorno appresso, prima dell' ora fissata, andava ad appostarsi sotto le finestre del palazzo reale. Aspetta, aspetta, la vecchia non compariva. La figlia del Re era a una finestra, che si pettinava. Lo riconobbe e gli domandò, per canzonatura: — O quell'uomo, e Ranocchino ve l' han comprato? — Ma prima che quello rispondesse, ecco la vecchia con una coda di gente dietro. La gente fece crocchio e la vecchia, nel mezzo, diceva: — Ranocchino, porgi il ditino! — E Ranocchino stendeva la zampina e porgeva il ditino alla vecchia. Gli altri avevano un bel dirgli: — Ranocchino, porgi il ditino; — non se ne C'era una volta.... 4 dava per inteso. Una meraviglia non mai vista. E tutti pagavano un soldo. La Reginotta fece chiamar la vecchia sotto la finestra; voleva veder anche lei. — Ranocchino, porgi il ditino! - Rimase ammaliata. E corse subito dal Re. — Babbo, se mi vuoi bene, devi comprarmi quel Ranocchino. — Che vorresti tu farne? — Allevarlo nelle mie stanze: mi divertirò. - Il Re acconsentì. — Buona donna, quanto volete di quel Ranocchino? — Maestà, lo vendo a peso d' oro. È quel che vale. — Voi canzonate, vecchia mia. — Dico davvero. Domani varrà il doppio. Ranocchino, porgi il ditino! — E Ranocchino stendeva la zampina e porgeva il ditino alla vecchia. Gli altri aveano un bel dirgli: — Ranocchino, porgi il ditino; — non se ne dava per inteso. — Vedi? — disse il Re alla Reginotta. — Occorre anche la vecchia. - La Reginotta non s' era provata. — Ranocchino, porgi il ditino! Ranocchino spiccò un salto, le fece una bella riverenza e le porse il ditino. Allora bisognò comprarlo: se no, la Reginotta non si chetava. Posero Ranocchino in un piatto della bilancia e un pezzettino d' oro nell' altro, ma la bilancia non lo levava. Possibile che quel Ranocchino pesasse tanto? Colmarono d' oro il piatto ma la bilancia non lo levava. La Reginotta e la Regina si tolsero gli orecchini, gli anelli, i braccialetti e li buttarono lì. Nulla! Il Re si tolse la cintura, ch' era d' oro massiccio, e la buttò lì. Nulla! — Anche la corona! Vorrei ora vedere!... - Allora la bilancia levò esatta; non mancava un pelo. La vecchia si rovesciò quel mucchio di oro nel grembiule e andò via. Quel povero diavolo attendeva all' uscita. — Tieni! - E gli riempì le tasche. — Però bada! Spendi tutto a tuo piacere; ma la corona reale, se tu la vendi o la perdi, guai a te! — La Reginotta si spassava, tutto il giorno, con Ranocchino. - Ranocchino, porgi il ditino! Era una bellezza. Lo teneva sempre in mano, lo portava seco dovunque. A tavola, Ranocchino dovea mangiare nel piatto di lei. — Una cosa sconcia! — diceva la Regina. Ma quella era figlia unica, e le perdonavano tutti i capricci. Arrivò il tempo che la Reginotta dovea andare a marito. L' avea chiesta il Reuccio del Portogallo, e il Re e la Regina n' eran contentissimi. Lei disse di no: Voleva sposare Ranocchino! Poteva darsi? Intanto non e' era verso di persuaderla. — O Ranocchino, o nessuno! — Te lo do io Ranocchino! — E il Re, afferratolo per una gambetta, stava per sbatacchiarlo sul pavimento; ma entrò un' aquila dalla finestra che glielo strappò di mano e sparì. La Reginotta piangeva giorno e notte. Povera figliuola, faceva pena! E tutta la corte stava in lutto. Intanto in casa di Ranocchino pareva tutti i giorni carnovale. Spendi e spandi; mezzo vicinato banchettava lì e i danari andavano via a fiumi. Finalmente non ci fu più il becco d' un quattrino. — Babbo, vendiamo la corona reale. — La corona reale non si tocca! — Si dee crepar di fame? Vendiamola! — La corona reale non si tocca. — Quel povero diavolo tornò nella grotta in cerca della vecchia, e si mise a piangere. — Che cosa è stato? — Mammina mia, i quattrini son finiti e quei figliuoli vorrebbero vendere la corona reale; ma io non l'ho permesso. — Fruga in quel canto. C' è del pane e del formaggio; mangerete per questa sera. Domani, a mezzogiorno, aspettami sotto le finestre del palazzo reale: sarà la tua fortuna. Tornò a casa, e trovò una tragedia! Cinque figliuoli erano stesi morti per terra in un lago di sangue; uno respirava appena: — Ah, babbo mio! È venuta un' aquila forte e picchiò alla finestra. — Ragazzi, fatemi vedere la corona reale. — Il babbo la tiene sotto. chiave. E dove l' ha riposta? — In questa cassa. Allora a colpi di becco, cominciò a scassinarla; e siccome noi ci si opponeva, ci ha tutti ammazzati. - Detto questo, spirò. Quel povero diavolo si senti rizzare i capelli. I figliuoli morti e la corona sparita! Il giorno dopo, quando vide la vecchia, le raccontò ogni cosa. — Lascia fare a me! — rispose quella. La Reginotta stava malissimo. I medici non sapevano più quali rimedii adoprare.

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. — Mi lascerei anche fare a pezzi, — rispose il Re. — Prendete un coltello di diamante, il più bel bue della mandria, una corda lunga un miglio, e venite con me. — Il Re prese il coltello di diamante, il più bel bue della mandria, una corda lunga un miglio, e partì insieme colla vecchia. Nessuno dovea seguirli. Camminarono due giorni, e al terzo, verso il tramonto, giunsero in una pianura. Lì c' era la torre incantata, senza porta e senza finestre, alta un miglio. — Ranocchino è qui, — disse la vecchia. - Quegli uccellacci che aliano attorno alla cima, sono i suoi carcerieri. Bisogna montare lassù. —O come? — Maestà, ammazzate il bue e vedrete. — Il Re ammazzò il bue. — Maestà, scorticatelo e lasciate molta carne attaccata al cuoio. — Il Re lo scorticò e lasciò molta carne attorno al cuoio. — Ora rivolteremo questo cuoio, — disse la vecchia. — Io vi ci cucirò dentro. Scenderanno gli uccellacci e vi porteranno lassù. La notte, spaccherete il cuoio col coltello di diamante; e la mattina quando l' aquila e gli uccellacci saranno andati via per la caccia, attaccherete la corda alla cima, prenderete Ranocchino e la corona reale, metterete il coltello fra i denti è vi lascerete andar giù. — Il Re esitava. — E se la corda si spezzasse? — Tenendo il coltello fra i denti non si spezzerà. — Il Re, per amor della figliuola, si lasciò cucire dentro il cuoio. E, subito, ecco gli uccellacci di preda che lo afferrano cogli artigli e se lo portano lassù. La notte, spaccò il cuoio col coltello di diamante e andò a nascondersi in fondo a uno stanzino. Quando fu giorno, aspettò che l'aquila e gli uccellacci di preda andassero a caccia, attaccò la corda alla cima della torre, prese Ranocchino e la corona reale, e si lasciò andar giù. E il coltello? L' avea dimenticato. Allora la corda cominciò a nicchiare: - Ahi, ahi! Mi spezzo! Dammi da bere. —

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- Il Re, visto che ci voleva pochino a toccar terra: — E spèzzati! — rispose. Infatti si spezzò; ma lui, per sua fortuna, se la, cavò con qualche ammaccatura. Per le vene ferite delle braccia la vecchia cercò un' erba, e gliele medicò con essa, e gli sanarono a un tratto. Appena visto Ranocchino, la Reginotta cominciò a riaversi. Rannocchino, porgi il ditino! — E Ranocchino porgeva il ditino, e a lei soltanto. Il Re, per finirla, voleva far subito le nozze. Ma la vecchia gli disse: - Bisogna aspettare ancora un mese. Intanto fate preparare una caldaia d' olio bollente. — A che farne? — Lo saprete poi. — Quando fu il giorno, l'olio bolliva nella caldaia. Venne la vecchia e dietro a lei quel povero diavolo con un carro, su cui eran distesi i cadaveri dei sei figliuoli. — Reginotta, — disse la vecchia — volete sposare Ranocchino? Bisogna prenderlo per un piede e tuffarlo tre volte in quell' olio. — La Reginotta esitava. — Tuffami, tuffami! — le disse Ranocchino. Allora lei lo tuffò. Uno, due? Ma la terza volta le scappa di mano e casca in fondo alla caldaia. La Reginotta si svenne. Il Re voleva far ammazzare la vecchia; ma questa, afferrati in fretta in fretta quei morticini e buttatili nell' olio bollente, cominciò a rimestare col suo bastone, e intanto cantava: — Oh, il bel ranno! Oh, il bel ranno! Presto fuori salteranno. Infatti ecco il figlio maggiore che salta fuori vivo, il primo. — Oh, il bel ranno! Oh, il bel ranno! Presto fuori salteranno. E rimestava. Ed ecco saltar fuori il secondo. Così tutti e sei i fratellini. — Oh, il bel ranno! Oh, il bel ranno! Presto fuori salteranno. E rimestava. Ma Ranocchino venne soltanto a galla e non saltò. La Reginotta, appena lo scorse, tentò d' afferrarlo; la vecchia la trattenne. — Voleva scottarsi? Doveva fare come al solito. — Ranocchino, porgi il ditino! - Ranocchino porse il ditino alla Reginotta..., e chi uscì fuori? Un bel giovane che pareva un Sole. La Reginotta lo riconobbe pel bimbo che quel povero diavolo volea vendere, e gli domandò scusa d' avergli sbatacchiato le impòste sul viso. Ranocchino, si capisce, le aveva già perdonato. Si fecer le nozze con magnifiche feste, e Ranocchino, a suo tempo, ebbe la corona reale.

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Lei disse: — Andiamo a presentarci al Re mio padre. Son tredici anni che non mi vede: - Al portone del palazzo reale non volevano lasciarla passare. — Sono la Reginotta! Son la figliuola del Re! — Non ci credeva nessuno, nemmeno il Re. Pure ordinò di fargliela venire dinanzi: — Chi sa, poteva anche darsi! — Il re la guardò da capo a piedi: gli pareva e non gli pareva. Lei gli raccontò la sua storia; ma non disse nulla delle orecchie, per vergogna. Infatti nascondeva il suo difetto, tenendo basse le trecce. Ma un ministro se n'accòrse: — E le orecchie, figliuola mia% dove le perdeste le orecchie? — Il Re, indignato, la condannava a rigovernare i piatti e le stoviglie della cucina reale. Il principe Pesciolino (lo chiamarono subito così) fu dannato a spazzar le stalle: — Imparassero in tal modo a farsi beffa del Re! — Un giorno Sua Maestà volea mangiare del pesce. Ma in tutto il mercato c' era due pesci soltanto, e nessuno sapeva che razza di pesci si fossero, neppure i pesciaioli. Ed eran lì dal giorno avanti, e cominciavano a passare. Ma il Re volea del pesce ad ogni costo, e il cuoco li comprò: — Maestà, non c'è che questi: nessuno sa che pesci siano, neppure i pesciaioli. Trovansi in mercato da due giorni e cominciano a passare. — Sta bene, — disse il Re — portali in cucina. — In cucina il cuoco fa per sventrarli, e che gli trova nelle budella? Due orecchie di creatura umana, ancor stillanti sangue! Chiamarono subito Senza-orecchie, come le avean messo il nomignolo: — Senza-orecchie, Senza-orecchie, ecco roba per te! — La Reginotta accorse: eran davvero le sue orecchie. Tremante dalla contentezza se le adattò al capo e le si appiccicarono; il sangue avea servito di colla. Colle orecchie, il Re suo padre raffigurolla ad un tratto: — È lei! È la mia figliuola!

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E il Re Pesciolino e la Regina Senza-orecchie regnarono a lungo dopo di lui. Stretta la foglia, e larga la via, Dite la vostra, ché ho detta la mia.

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— Se una femmina quando avrà compiti i sette anni, dovrete condurla in cima a quella montagna e abbandonarla lassù: non ne saprete più nuova. — Consulterò la Regina. — Vuol dire che non ne farete nulla. - Stretto fra uscio e il muro, il Re accettò. Il forestiero cavò di tasca una boccettina, che gli spariva fra le dita e disse: Ecco il rimedio. Questa notte, appena la Regina sarà addormentata, Vostra Maestà glielo versi tutto intero in un orecchio. Basterà. — Infatti, dopo nove mesi, la regina partorì e fece una bella bambina. A questa notizia il Re diede in uno scoppio di pianto: — Povera figliolina, che mala sorte! Che mala sorte! - La Regina lo seppe: — Maestà, perchè avete pianto e: Povera figliolina, che mala sorte? — Non ne fate caso. — La Reginotta cresceva più bella del sole; il Re e la Regina n' erano matti. Quando entrò nei sette anni, il-povero padre non sapeva darsi pace, pensando che presto doveva condurla in cima a quella montagna, abbandonarla lassù e non averne più nuove! Ma il patto era questo: bisognava osservarlo. Il giorno che la Reginotta compì i sette anni, il Re disse alla Regina:

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. — Cammina, cammina, giunsero a piè della montagna e cominciarono a salire. La Reginotta non potea arrampicarsi, e il Re se la tolse in collo. — Babbo, che andiamo a fare lassù? Torniamo indietro. — Il Re non rispondeva, e si bevea le lagrime che gli rigavano la faccia. — Babbo, che andiamo a fare lassù? Torniamo indietro. — Il Re non rispondeva, e si bevea le lagrime che gli rigavano la faccia. — Babbo, che siam venuti a fare quassù? Torniamo indietro. — Siediti qui; aspetta un momento. — E l'abbandonò alla sua sorte. Vedendolo tornar solo, la Regina cominciò a urlare: — E la figliuola? E la figliuola? Calò giù un' aquila, l' afferrò cogli artigli e la portò via. — Ah! figliuola mia! Non è vero! - Le sbucò addosso un animale feroce e andò a divorarsela nel bosco. — Ah, figliolina mia! Non, è vero! — Faceva il chiasso in riva al fiume e la corrente la travolse. — Non è vero! Non è vero! — C'era una volta.... 6 Allora il Re le raccontò per filo e per segno ogni cosa. E la Regina partì, come una pazza per ritrovar la figliuola. Salita in cima alla montagna, cercò, chiamò tre giorni e tre notti, ma non scoperse neppure un segnale; e tornò, desolata, al palazzo. Eran passati sette anni. Della bimba non s'era più saputo nuova. Un giorno la Regina si affaccia al terrazzino e vede giù nella via quella vecchiarella tanto ricercata: — Buona donna, buona donna, montate su. — Maestà, oggi ho fretta; verrò domani. - La Regina rimase male. E il giorno dopo stette tutta la mattinata ad aspettarla al terrazzino. Come la vide passare: — Buona donna, buona donna, montate su. — Maestà, oggi ho fretta; verrò domani. - Il giorno dopo, la Regina, per far meglio, andò ad aspettarla innanzi il portone. — Maestà, oggi ho fretta; verrò domani. - Ma la Regina la prese per una mano e non la lasciò affidar via; e per le scale le domandò perdono di quella volta che non le avea fatto l' elemosina. — Buona donna, buona donna, fatemi ritrovar la mia figliuola! — Maestà, che ne so io? Sono una povera femminuccia. — Buona donna, buona donna, fatemi ritrovar la mia figliuola! — Maestà, male nuove. La Reginotta è alle mani d'un Lupo Mannaro, quello stesso che diè il rimedio e fece il patto col Re. Fra un mese le domanderà: mi vuoi per marito l Se lei risponde di no, quello ne farà due bocconi. Bisogna avvertirla. — E il Lupo Mannaro dov' abita? — Maestà, sotto terra. Si scende tre giorni e tre notti, senza mangiare, nè bere, nè riposare, e al terzo giorno s' arriva. Prendete un coltellino, un gomitolo di refe e un pugno di grano, e venite con me. — La Regina prese tutto quello che la vecchiarella avea ordinato, e partì insieme con lei. Giunsero ad una buca, che ci si passava appena. La vecchierella attaccò un capo del refe a una pianticina e disse: — Chi semina raccolga, Chi ti attacca, quei ti sciolga. - Ed entrarono. Scendi, scendi, scendi, la Regina già si sentiva le ginocchia tutte rotte. — Vecchiarella, riposiamo un tantino! — Maestà, è impossibile. — Scendi, scendi, scendi, la Regina non si reggeva più dalla fame. Vecchiarella, prendiamo un boccone, sento svenire! — Maestà, non è possibile. — Scendi, scendi, scendi, la Regina affogava di sete. — Vecchiarella, per carità, un gocciolo di acqua! — Maestà, non è possibile. — E sbucarono in una pianura. Il gomitolo del refe terminò. La vecchiarella attaccò quell' altro capo ad una pianticina, e disse: — Chi semina raccolga, Chi t' attacca quei ti sciolga. — Cominciarono ad inoltrarsi. Ad ogni passo, la Regina dovea lasciar cadere in terra un chicco di grano e la vecchiarella diceva: — Grano, grano di Dio, Com' io ti semino, vo' mieterti io. — Il grano nasceva e cresceva subito, colle spighe mature che penzolavano. — Maestà, ora piantate in terra il coltellino e sputate tre volte; siamo arrivati. - La Regina piantò il coltellino e sputò tre volte; e la vecchiarella disse: — Coltellino, coltellino di Dio, Com' io ti pianto, vo' strapparti io. — Lasciamo costoro e torniamo alla Reginotta. Vistasi sola sola in cima alla montagna, s' era messa a piangere e a strillare; poi, povera bimba, s' era addormentata. Si svegliò in un gran palazzo; ma per quelle stanze e quei stanzoni non vedeva anima viva. Gira, rigira, era già stanca. — Reginotta, sedete, sedete! - Le sedie parlavano. Si sedette, e dopo un pezzettino, cominciò a sentirsi appetito. Comparve una tavola apparecchiata, colle pietanze fumanti. — Reginotta, mangiate, mangiate! - La tavola parlava. Mangiò, bevve, e poco dopo le vennero le cascaggini. — Reginotta, dormite, dormite! - Il letto Parlava. Era uno stupore. Così tutti i giorni. Non le mancava nulla, ma s' annoiava a star lì senza vedere un viso di cristiano. Spesso piangeva, pensando al babbo e alla mamma; ed una volta si mise a chiamarli ad alta voce, tra i singhiozzi: — Babbo mio! Mamma mia! Con che cuore mi lasciate qui, mammina mia! — Ma una vociona le gridò: — Sta' zitta! Sta' zitta! — Rannicchiossi in un canto, e non ebbe animo di più fiatare. Passato un anno, un bel giorno si sentì domandare: — Vuoi vedermi? - E non era quella vociona. Rispose: — Volentieri. — Ed ecco gli usci si spalancano da loro stessi, e di fondo alla fila delle stanze viene avanti un cosino alto un cubito, vestito d'una stoffa a trama d'oro, con un berrettino rosso e su una bella piuma più alta di lui. — Buon giorno. — Buon giorno. Oh, bimbo mio, come sei bello! - E lo prese in braccio e cominciò a baciarlo, a carezzarlo, a farlo saltare in aria come una bambola. — Mi vuoi per marito? mi vuoi? — La Reginotta rideva: — Ti voglio, ti voglio. - E un altro salto per aria, prendendolo fra le mani. — Come ti chiami? — Gomitetto. — Che fai qui? — Sono il padrone.

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Lasciami tornare a casa mia! - No, no! Dobbiamo sposarci. — Per ora bada a crescere! - Gomitetto se l' ebbe a male ed andò via. E per un anno non si fece vivo. La Reginotta s' annoiava a star lì senza vedere un viso di cristiano. Ogni giorno chiamava: — Gomitetto! Gomitetto! - Ma Gomitetto non rispondeva. Un bel giorno le domandò di nuovo: — Vuoi vedermi? — Volentieri. — In un anno dovea esser cresciuto un pochino: ma gli usci si spalancarono, e le venne innanzi sempre lo stesso cosino alto un gomito, vestito di stoffa a trama d' oro, col berrettino rosso sormontato da quella bella piuma più alta di lui. — Buon giorno. — Buon giorno. - La Reginotta, nel vederlo lo stesso, rimase sorpresa. Lo prese in collo e cominciò a baciarlo, a carezzarlo, a farlo saltare in aria come una bambola. — Mi vuoi per marito? Mi vuoi? - La Reginotta rideva: — Ti voglio! ti voglio! Ma per ora bada a crescere. — E qui un capitombolo per aria, prendendolo fra le mani. Gomitetto se l' ebbe a male e andò via. Ogni anno così; ed eran passati sette anni. Intanto la Reginotta s' era fatta una ragazza, che ci volevan quattro paia d' occhi per guardarla. Una notte non potendo prender sonno, pensava al babbo e alla mamma: — Chi sa se più si ricordano di me? Forse mi credono morta! - E piangeva sui guanciali; quand' ecco sente buttar dei sassolini ali' impòsta della finestra. Chi poteva essere, a quell' ora? Si fece coraggio, saltò giù dal letto, aperse adagino adagino impòsta, e domandò: — Chi siete? che cosa volete? Son io, figliuola mia; siam venute per te! — Dall' allegrezza stava per saltar dalla finestra. - Ascolta, figliuola, — disse la Regina sotto voce. — Quel gomitetto è il Lupo Mannaro. Ti s' è mostrato a quel modo per non farti paura. Ma ora che sei grande, fra qualche giorno t' apparirà col suo vero aspetto. Figliuola mia, non atterrirti. E se ti domanda: Mi vuoi per marito? rispondi di sì; altrimenti sarai morta; ne farà due bocconi. La prossima notte a quest'ora ci rivedremo. — La mattina, la Reginotta udì la solita voce: — Vuoi vedermi? — Volentieri. —- Si spalancarono gli usci, ma, invece di Gomitetto, venne avanti il Lupo Mannaro alto, grosso peloso, con certi occhiacci e certe zanne, che Dio ne scampi ogni creatura! La Reginotta si sentì mancare.

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Ogni giorno, all'alba, la gallina si metteva a schiamazzare; aveva fatto l' uovo. La vecchia lo vendeva un soldo, e si comprava un soldo di pane. La crosta la sminuzzava a quella, la midolla se la mangiava lei : poi andava attorno per l' elemosina. Ma venne una mal'annata. Un giorno la vecchina tornò a casa senza nulla. — Ah, gallettina mia! Oggi resteremo a gozzo vuoto. — Pazienza ci vuole: Mangeremo domani. - Il giorno appresso, sul far dell' alba, la gallina si mise a schiamazzare. Invece d'un uovo, ne avea fatti due, uno bianco e l' altro nero. La vecchia andò fuori per venderli. Quello bianco lo vendè subito; quello nero, nessuno voleva credere che fosse uovo di gallina. La vecchina comprò il solito soldo di pane, e tornò a casa:

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Quando arrivava la stagione delle arance, il Re vi metteva a guardia una sentinella, notte e giorno; e tutte le mattine scendeva lui stesso a osservare coi suoi occhi se mai mancasse una foglia. Una mattina va in giardino, e trova la sentinella addormentata. Guarda l' albero.... Le arance d' oro non c' eran più! — Sentinella sciagurata, pagherai colla tua testa. Maestà, non ci ho colpa. È venuto un cardellino, si è posato sopra un ramo e si è messo a cantare. Canta, canta, canta, mi si aggravavano gli occhi. Lo scacciai da quel ramo, ma andò a posarsi sopra un altro. Canta, canta, canta, non mi reggevo dal sonno. Lo scacciai anche di lì, e appena cessava di cantare, il mio sonno svaniva. Ma si posò in cima all' albero, e canta, canta, canta..., ho dormito finora! - Il Re non gli fece nulla. Alla nuova stagione, incaricò della guardia il Reuccio in persona. Una mattina va in giardino e trova il Reuccio addormentato. Guarda albero...; le arance d' oro non c' eran più! Figuriamoci la sua collera! — Come? Ti sei addormentato anche tu? — Maestà non ci ho colpa. È venuto un cardellino, si è posato sopra un ramo e si è messo a cantare. Canta, canta, canta, mi s'aggravavano gli occhi. Gli dissi: cardellino traditore, col Reuccio non ti giova! — Ed esso a canzonarmi; il Reuccio dorme! il Reuccio dorme! — Cardellino traditore, col Reuccio non ti giova! — Ed esso a canzonarmi: il Reuccio fa la nanna! il Reuccio fa la nanna! — E canta, canta, canta..., ho dormito finora! Il Re volle provarsi lui stesso; e arrivata la stagione si mise a far la guardia. Quando le furon mature, ecco il cardellino che si posa sopra

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Quand' erano lì, sfogavansi a piangere. — Figliuola sventurata! Sei nata Regina, e non puoi godere della tua sorte! - Diventata grande, a sedici anni, lei disse al padre: — Maestà, perchè tenermi rinchiusa qui ? Lasciatemi andar pel mondo. Il cuore mi presagisce che troverò la mia fortuna. — Il Re non voleva acconsentire: — Dove sarebbe andata, così sola e inesperta? Era impossibile! — Lasciatemi andare, o m' ammazzo! — A questa minaccia disperata, il Re non seppe resistere: — Figliuola mia, parti pure! - Le diè quattrini a sufficienza, e una notte, mentre tutti nel palazzo reale dormivano, la Reginotta si messe in via. Cammina, cammina, arrivò in una campagna. Il sole, al meriggio, scottava; e lei riparossi sotto un albero. Di lì a poco ecco un lamentìo: — Ahi! ahi! ahi! — Lei, dalla paura, si voltò di qua e di là, ma non vide nessuno. — Ahi! ahi! ahi! —- Allora, fattasi coraggio, avvicinossi a quel punto d' onde il lamento partiva, e tra l' erba scoperse una lucertolina, che agitava il moncherino della coda e nicchiava a quel modo. — Che cosa è stato, lucertolina — Mi hanno rotto la coda e non ritrovo il pezzettino. O, se tu me lo trovassi, ti farei un gran regalo. — La Reginotta, impietosità si diè a frugare: e fruga e rifruga in mezzo a quell' erbe, finalmente eccolo lì! — Grazie, ragazza mia. Pel tuo regalo, scava qui sotto. — Scavato un tantino, la Reginotta tirò fuori una cipolla poco più grossa d' una nocciuola. — Che cosa debbo farne? — Tienla cara. Un giorno, forse, ti servirà. - La Reginotta se la mise in tasca. Strada facendo, incontrò una povera vecchia con un sacco di grano sulle spalle. A. un tratto si rompe il sacco, e tutto il grano va per le terre. La vecchia cominciò a pelarsi dalla stizza. — Non è nulla, — disse la Reginotta. — Ve lo raccatterò io. — Ah, i chicchi son contati! Se ne mancasse uno solo, mio marito mi ammazzerebbe! - E la Reginotta, con una santa pazienza, glielo raccattò tutto, chicco per chicco, senza che ne mancasse uno solo. — Grazie, buona figliuola; non posso darti altro che questo. — E le dette un coltellino da due soldi, di quelli col manico di ferro. — Che cosa volete me ne faccia? — Tienlo caro: Un giorno, forse, ti servirà. - La Reginotta se lo mise in tasca. Cammina, cammina, arrivò all' orlo d' un fosso profondo. Sentiva un belato tremolante. Guardò e vide laggiù una capretta: — Capretta, che cosa è stato? — Son cascata nel fosso e mi son rotta una gamba. —

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Chi avea da parlare col Re, doveva andare a trovarlo in mezzo ai boschi e ai forteti. I ministri ripicchiavano: — Maestà, il popolo desidera una Regina. — Talchè finalmente il Re si decise, e mandò a chiedere la figlia del Re di Spagna. Ma, andato per sposarla, si accòrse che era un po' gobbina. — Sposare una gobbina? No, mai! — Ma è bella, è virtuosa! — gli dicevano i ministri. gobbina e basta: no, mai! - E tornò alla caccia, ai boschi e ai forteti. Quella Reginotta gobbina aveva per comare una fata. La fata, vedendola piangere pel rifiuto del Re, le disse: — Sta' tranquilla: ti sposerà e dovrà venire a pregarti. Lascia fare a me. - Infatti un giorno il Re, andando a caccia, incontrò una donnicciuola magra, allampanata, che un soffio l'avrebbe portata via. — Maestà, buona caccia! - Il Re, a quel viso di mal augurio, stizzito, fece una mossaccia, e non rispose nulla. E per quel giorno non ammazzò neppure uno sgricciolo. Un'altra mattina, ecco di nuovo quella donnicciuola magra, allampanata, che un soffio l' avrebbe portata via: — Maestà, buona caccia! — Senti, strega, — le disse il Re — se ti trovo un'altra volta per la strada, te la farò vedere io! —

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Sua moglie era morta da un pezzo, e lui si stillava il cervello per riuscire a maritarle. Le ragazze non avevano dote, e senza dote un marito è un po' difficile a trovarsi. C' era una volta.... 9 Un giorno questo povero padre pensò d' andarsene in una pianura e chiamare la Sorte: — Sorte, o Sorte! - Gli apparve una vecchia, colla conocchia e col fuso: — Perchè mi hai tu chiamata? — Ti ho chiamata per le mie figliuole. — Menale qui ad una ad una; si sceglieranno la sorte colle loro mani. — Il buon uomo, tornato a casa tutto contento, disse alle figliuole: — La vostra fortuna è trovata! - E raccontò ogni cosa. Allora la maggiore si fece avanti, ringalluzzita: — La prima scelta tocca a me. Sceglierò il meglio! - Il giorno dopo, padre e figliuola si avviarono per quella pianura: — Sorte, o Sorte! - Comparve la vecchia colla conocchia e col fuso: - Perchè mi hai tu chiamata? — Ecco la mia figliuola maggiore. - La vecchia cavò di tasca tre anelli, uno d' oro, uno d' argento, uno di ferro e li mise sulla palma della mano: — Scegli, e Dio t' aiuti! Questo qui. - Naturalmente prese anello d' oro. — Maestà, vi saluto! — La vecchia le fece un inchino e sparì. Tornati a casa, la sorella maggiore, pavoneggiandosi disse alle altre due: — Diventerò Regina! E voi mi reggerete lo strascico del manto reale! - Il giorno dopo andò col padre l'altra figliuola. Comparve la vecchia colla conocchia e col fuso, e cavò di tasca due anelli, uno d'argento ed uno di ferro: — Scegli, e Dio t' aiuti! — Questo qui. — E, s'intende, prese quello d' argento. — Principessa vi saluto! - La vecchia le fece un inchino e sparì. Tornata a casa, quella disse alla maggiore: — Se tu sarai Regina, io sarò Principessa! - E tutt'e due si diedero a canzonare la sorella minore: — Che volete? Chi tardi arriva male alloggia. Dovea venire al mondo la prima. - Lei zitta. Il giorno dopo andò col padre la figliuola minore. Comparve la vecchia colla conocchia e col fuso e cavò di tasca, come la prima volta, tre anelli, uno d' oro, uno d' argento e uno di ferro: Scegli, e Dio t' aiuti! — Questo qui. — Con grande rabbia di suo padre, avea preso quello di ferro. La vecchia non le disse nulla, e sparì. Per la strada il sarto continuò a brontolare: — Perchè non quello d' oro? — Il Signore m' ispirò così. - Le due sorelle, curiose, vennero ad incontrarla per le scale. — Facci vedere! facci vedere! - Come videro l' anello di ferro, si contorcevano dalle risa e la canzonavano. Saputo poi che lo avea scelto fra uno d' oro e uno d' argento, per grulla la presero e per grulla la lasciarono. E lei, zitta. Intanto si sparse la voce che le tre belle figliuole del sarto aveano gli anelli della buona Sorte. Il Re del Portogallo dovea prender moglie e venne a vederle. Rimase ammaliato dalla maggiore: — Siate Regina del Portogallo! - La sposò con grandi feste e la menò via. Poco dopo venne un Principe. Rimase ammaliato dalla seconda. — Siate Principessa! - La sposò con grandi feste e la menò via. Restava l' ultima. Non la chiedeva nessuno. Un giorno finalmente, si presentò un pecoraio: — Volete darmi questa figliuola? - Il sarto, che ne aveva una Regina ed una Principessa, era montato in superbia e rispose: — Il pecoraio, scusate, noi per ora ce l' abbiamo. - Stava per passare un altr' anno. La minore restava sempre in casa, e il padre non faceva altro che brontolare giorno e notte: — Le stava bene, stupidona! Sarebbe rimasta in un canto, con quel suo anello di ferro. - E all' anno appunto, tornò a presentarsi il pecoraio: — Volete darmi quella figliuola? — Prendila, — rispose il sarto. — Non si merita altro! — Si sposarono, senza feste e senza nulla, e la menò via. Allora il sarto disse: — Voglio andar a visitare la mia figliuola Regina. — La trovò che piangeva. — Che cos' hai, figliuola mia? — Sono disgraziata! Il Re vorrebbe un figliuolo, ed io non posso farne. I figliuoli li dà Dio. — Ma l' anello della buona fortuna non giova a nulla? — Non giova a nulla. Il Re mi ha detto: Se fra un anno non avrò un figliuolo, guai a te! Son certa, babbo mio, che mi farà tagliar la testa. - Quel povero padre, come potea rimediare? E partì per fare una visita alla figliuola Principessa. La trovò che piangeva. — Che cos' hai, figliuola mia? — Sono disgraziata! Tutti i figliuoli che faccio mi muoiono dopo due giorni. — E l' anello della buona fortuna non giova a nulla — Non giova a nulla. Il Principe mi ha detto: Se questo che hai nel seno morrà anche lui, guai a te! Son certa, babbo mio, che mi farà scacciar di casa! — Quel povero padre che potea farci? E partì. Per via gli nacque il pensiero d' andar a vedere l' altra figliuola, quella del pecoraio. Ma avea vergogna di presentarsi. Si travestì da mercante, prese con sè quattro ninnoli da vendere e, cammina, cammina, arrivò finalmente in quelle contrade lontane. Vide un magnifico palazzo stralucente, e domandò a chi appartenesse. — È il palazzo del Re Sole. - Mentre stava lì a guardare, stupito, sentì chiamarsi da una finestra: — Mercante, se portate bella roba, montate su. La Regina vuol comprare. - Montò su, e chi era mai la Regina? La sua figliuola minore, la moglie del pecoraio. Quello rimase di sasso; non potea neppure aprir le cassette degli oggetti da vendere. — Vi sentite male, poverino? — gli disse la Regina. — Figliuola mia, sono tuo padre! e ti chiedo perdono! — Lei, che l'aveva riconosciuto, non permise che le si gettasse ai piedi, e lo ricevè tra le braccia: — Siate il ben venuto ! Ho dimenticato ogni cosa. Mangiate e bevete, ma prima di sera andate via. Se Re Sole vi trovasse, rimarreste incenerito. - Dopo che quello ebbe mangiato e bevuto, la figliuola gli disse: — Questi doni son per voi. Questa nocciuola è per la sorella maggiore: questa boccettina di acqua per l' altra. La nocciuola, dee inghiottir- sela col guscio; l' acqua, dee berne una stilla al giorno, non più. E che badino, babbo! —

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Un giorno si trovò a passare proprio il Re, e sentito: Bimbo mio, tu, sarai Re, la prese in mala parte, perchè non aveva avuto ancora figliuoli e ne era accorato assai. — Comarina, — le disse — non vi arrischiate più a dire così, o guai a voi! - La povera donna, dalla paura, non disse più nulla. Però quel figliolino, ora che la sua mamma stava zitta, ogni mattina, appena rifasciato, lavato e pettinato, si metteva a piangere e strillare. Lei gli ripeteva: — Bimbo mio, tu sarai barone!... Tu sarai ducal... Tu sarai principe!... Ma il bimbo non si chetava. Talchè una volta, per prova, tornò a dirgli sottovoce: — Bimbo mio, tu sarai Re! — Il bimbo accennò di sì colla testina, come se avesse capito, e non strillò più. Allora la povera donna si persuase che quel figliolino doveva avere una gran fortuna; e temendo la collera del Re, già pensava di mutar paese. Intanto, poichè il figliuolo era spoppato, quando le capitava di fare qualche servizio, pregava una vicina: — Comare, tenetemi d' occhio il bimbo; vado e torno in due minuti. — Un giorno le accadde di tardare. La vicina era seccata di tenere in braccio quel cattivello che piangeva perchè voleva la mamma. In quel punto comparve un cenciaiolo: — Cenci, donnine, cenci! — Lo volete questo cencio qui?

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Campavan la vita infornando il pane della gente, e Tizzoncino, come la chiamavano, era attorno da mattina a sera: - Ehi, scaldate l' acqua! Ehi, impastate! — Poi, coll' asse sotto il braccio e la ciambellina sul capo, andava di qua e di là a prender le pagnotte e le stiacciate da infornare; poi, colla cesta sulle spalle, di nuovo di qua e di là per consegnar le

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Nelle ore di riposo cavava di tasca uno zufolo e, tì, tìriti tì, si divertiva a fare una sonatina, sempre la stessa; poi riprendeva il lavoro. Intanto quel campicello sassoso gli fruttava più di un podere. Se i vicini raccoglievano venti, e lui raccoglieva cento, per lo meno. I vicini si rodevano. Una volta quel campicello non lo avrebbero accettato neanche in regalo: da che lo avea lui, non sapevan che cosa fare per strapparglielo di mano. — Compare, volete disfarvi di questi quattro sassi? C' è chi li pagherebbe tre volte più della stima. — Questi sassi son per me; Non li cederei neppure al Re. — Compare, volete disfarvi di questi quattro sassi? C' è chi li pagherebbe dieci volte più della stima. — Questi sassi son per me; Non li cederei neppure al Re. — Una volta, per caso, passò di lì anche il Re, accompagnato dai ministri. Vedendo quel campicollo, che pareva un giardino, coi seminati verdi e vegeti, mentre quelli dei campi attorno somigliavano a setole di spazzola, gialli, stenti, si fermò, colpito dalla meraviglia, e disse ai ministri: — È proprio una bellezza! Lo comprerei volentieri. — Maestà, non si vende. Il padrone di esso è un uomo strano. Risponde a tutti: Questi sassi son per me: Non li cederei neppure al Re. — Oh! voglio vederla. — E fece chiamare il contadino. — È vero che questo campicello tu non lo cederesti neppure al Re? — Sua Maestà ha tanti poderi! Che se ne farebbe dei miei sassi? — Ma se lui li volesse? — Se lui li volesse? Questi sassi son per me; Non li cederei neppure al Re. — Il Re fece finta di non aversela avuta a male e la notte dopo mandò cento guardie a scalpicciare, zitte zitte, quel seminato, da non lasciar ritto neanche un filo d'erba. La mattina, il contadino esce fuor del pagliaio, e che vede? Uno spettacolo! E tutti i vicini che stavano a guardare, con gusto, quantunque si mostrassero addolorati. — Ah, compare, compare! Se voi aveste venduto quei quattro sassi, ora questa disgrazia non vi sarebbe accaduta. — Ma quegli zitto, dinoccolato, come se non dicessero a lui. Quando i vicini furono andati pei fatti loro, cavò di tasca lo zufolo, e ti, tìriti, tì, il seminato cominciava a rizzarsi; tì, tìriti, tì, il seminato si rizzava come se nulla fosse stato. Il Re, sicuro del fatto suo, lo aveva mandato a chiamare: — C'è qualcuno che ti vuol male. So che la notte scorsa ti han mezzo distrutto il seminato. Vendi a me quei quattro sassi. La gente, quando saprà che son miei, li guarderà da lontano. — Maestà, non è vero nulla. Il mio seminato è più bello di prima. - Il Re si morse il labbro: — Dunque i suoi ordini non erano stati eseguiti! E se la prese coi ministri. Ma appena questi gli riferirono che le povere guardie, dal gran scalpicciare di quella nottata, non si poteano neppur muovere, il Re rimase! — Quest' altra notte, ad ora tarda, si mandi lì tutto l' armamento. — La mattina, il contadino esce fuor dal pagliaio, e che vede? Uno spettacolo: il terreno brucato raso! I vicini: — Ah, compare, compare! Se voi aveste venduto quei quattro sassi, questa nuova disgrazia non vi sarebbe accaduta. — E quegli zitto, dinoccolato, come se non dicessero a lui. Quando i vicini furono andati via, pei fatti loro, cavava di tasca lo zufolo, e tì, tìriti, tì, il seminato ripullulava; e ti, tìriti, tì, il seminato era bell' e cresciuto, come se nulla fosse stato. Il Re, questa .volta, era sicuro di aver buono in mano. Volea vederlo, quell' uomo! Chi sa che grugno! E appena l' ebbe alla sua presenza: — C'è qualcuno che ti vuol male. So che la notte scorsa ti hanno, a dirittura, distrutto ogni C' era una volta.... 17 cosa. Vendi a me quei quattro sassi. La gente, quando saprà che son miei, li guarderà da lontano. — Maestà, non è vero nulla. Il mio seminato è più bello di prima. - Il Re si morse il labbro: — Dunque i suoi ordini non erano stati eseguiti! — E se la prese coi ministri. Ma quando questi gli riferirono che tutto l'armento, dal gran mangime di quella nottata, avean le pance che gli scoppiavano e che metà eran già morti di ripienezza, il Re rimase! — Qui c' è un mistero! bisogna scoprirlo. Vi do tempo tre giorni. — Col Re non si scherzava. I ministri cominciarono dal grattarsi il capo, e, pensa e ripensa, uno di essi propose di andare, la notte, ad appostarsi dietro il pagliaio di quel maledetto contadino e star lì fino all' alba. Chi sal Qualcosa avrebbero visto. — Benone! — Andarono; e siccome nel pagliaio c'eran parecchie fessure, si misero a spiare attraverso a queste. Il Re non avea potuto chiuder occhio pensando all'accaduto: e la mattina, di buon' ora, fece chiamare i ministri. — Maestà, oh! che abbiamo visto! Che abbiamo visto! — Che cosa avete mai visto? — Quel contadino ha uno zufolo, e appena si mette a sonarlo, ti, tiriti, ti, il suo pagliaio, di botto, diventa una reggia. — E poi? — E poi vien fuori una ragazza più bella della luna e del sole, e lui, tì, tìriti, tì, la fa ballare con quella sonata; e dopo le dice: Bella figliuola, se il Re ti vuole, Dee star sette anni alla pioggia e al sole. E se sette anni alla pioggia e al sole non sta, Bella figliuola, il Re non ti avrà. — E poi? — E poi smette di sonare, e quella reggia, di botto, ridiventa pagliaio. — Glieli darò io la pioggia e il sole! — disse il Re, toccato sul vivo. — Ma prima vediamo codesto miracolo di bellezza! — E andò la notte dopo, accompagnato dai ministri. Ed ecco che il contadino cava di tasca il suo zufolo, e tì, tìriti, tì, di botto il pagliaio diventa una reggia; e tì, tìriti, tì, compare la ragazza e si mette a ballare.

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. — I bimbi si misero a strillare; non volevano esser venduti, no! Solo l'ultimo, quello di due anni, non strillava. — E tu, Ranocchino? -- gli domandò il babbo, che gli avea messo quel nomignolo perchè era piccino quanto un ranocchio. — Io son contento, — rispose. E la mattina quel povero diavolo se lo prese in collo, e cominciò a girare per la città. — Chi mi compra Ranocchino! Chi mi compra Ranocchino! - Ma nessuno lo voleva, un cosino a quella maniera! S' affacciò alla finestra la figlia del Re. — Che cosa vendete, quell' uomo? — Vendo questo bimbo, chi lo vuol comprare. - La Reginotta lo guardò, fece una smorfia e gli sbatacchiò le imposte sul viso. — Bella grazia! — disse quel povero diavolo. E riprese ad urlare: — Chi mi compra Ranocchino! Chi mi compra Ranocchino! — Ma nessuno lo voleva, un cosino a quella maniera! Quel povero diavolo non avea coraggio di tornare a casa, dove gli altri figliuoli lo aspettavano come tant' anime del purgatorio, morti di fame. Ranocchino intanto gli s'era addormentato addosso Allora lui pensò ch'era meglio ammazzarlo, piuttosto che vederlo patire: gli avrebbe ammazzati tutti, quei figliuoli, ad uno ad uno; e cominciava da questo! Era già sera: e, uscito fuor di città, si ridusse in una grotta, dove non poteva esser veduto da nessuno. Adagiò per terra il bimbo che dormiva tranquillamente, e prima d' ammazzarlo si mise a piangerlo: — Ah, coricino mio! E debbo ammazzarti con queste mani, debbo ammazzarti! Ah, Ranocchino mio! E non ti vedrò più per la casa, non ti vedrò! Ah, coricino mio! E chi fu la strega che te lo cantò in culla, chi fu? Ah, Ranocchino mio! E debbo ammazzarti con queste mani, debbo ammazzarti! — Spezzava il cuore perfino ai sassi. — Che cosa è stato, che piangi così? - Il povero diavolo si voltò e vide una vecchia seduta a traverso la bocca della grotta, con un bastoncello in mano. — Che cosa è stato! Ho sette figliuoli piccini e moriamo tutti di fame. Per non vederli più patire, ho deliberato d' ammazzarli; e comincio da questo.

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Un giorno gli venne l'idea di andare attorno, a raccontare fiabe ai bambini. Gli pareva un mestiere facile, da divertircisi anche lui. Perciò si

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Il Re, angustiato, disse a un servitore: — Prendila e portala giù; mettila fra i cagnolini figliati dalla cagna. Però se morisse, sarebbe meglio per lei! - Non morì. La cagna, tre, quattro volte il giorno tralasciava di dar latte ai cagnolini, e porgeva le poppe a Testa-di-rospo. La leccava, la ripuliva, la scalducciava tenendosela accosto, e non permetteva che alcuno stendesse la mano a toccarla. Quando il Re e la Regina scendevano giù per vedere, la cagna ringhiava, mostrava i denti; e, un giorno che la Regina fece atto di voler riprendere la figliuola, le saltò addosso e le morse mani e gambe. Testa-di-rospo nel canile prosperava. Quando crebbe, non volle più lasciarlo. Durante la giornata

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mise in viaggio, e la prima città che incontrò, cominciò a gridare per le vie: — Fiabe, bambini, fiabe! Chi vuoi sentir le fiabe? — I bambini accorsero da tutte le parti, e gli fecero ressa attorno. Lui cominciò: — C' era una volta un Re e una Regina, che non avevano figliuoli, e facevano voti e pellegrinaggi.... — To'! questa la sappiamo a mente, — dissero i bambini, — è la fiaba della Bella, addormentata nel bosco. Un' altra! un' altra! — Ve ne dirò un'altra. — E cominciò: — C'era una volta una bambina, che aveva la mamma matta e la' nonna più matta di lei. La nonna le fece un cappuccetto rosso.... — To'! questa la sappiamo a mente: è la fiaba di Cappuccetto rosso. — Un' altra! un' altra! - Quel povero diavolo, un po' seccato, cominciò da capo: — C'era una volta un signore che aveva una figliuola. Gli era morta la moglie e ne aveva presa un'altra, vedova con due figlie.... — To'! è la fiaba di Cenerentola. Sappiamo a mente anche questa. — E visto che era buono a raccontare soltanto fiabe vecchie, i bambini gli voltarono le spalle e lo piantarono come un grullo. Parti e andò in un'altra città. E, appena arrivato, si messe a gridare per le vie: — Fiabe, bambini, fiabe! Chi vuol sentire le fiabe? — I bambini accorsero da tutte le parti e gli fecero ressa attorno. Ma non cominciava una fiaba, che quelli non urlassero tosto: — La sappiamo! la sappiamo! - E visto che era buono a raccontare soltanto fiabe vecchie, gli voltarono le spalle e lo piantarono come un grullo. Quando ebbe provato più volte e sempre con lo stesso cattivo successo, quel povero diavolo si perdette d'animo, e non sapeva più dove dare di capo. Angustiato, si mise a camminare senza sapere dove lo portassero i piedi, e si trovò in mezzo a un bosco. Sopravvenuta la notte, si stese sull' erba, sotto un albero, per dormire; ma non potè chiuder occhio: aveva una gran paura. Gli pareva che le piante, colto stormire delle fronde, parlassero sotto voce fra loro; gli pareva che le bestie e gli uccelli notturni, con quei loro strani gridi e canti, tramassero qualche cosa contro di lui. Il cuore gli batteva forte nel petto, e non vedeva l'ora che fosse giorno. Alla mezzanotte in punto, che vede? Vede una C' era una volta.... 20 gran luce pel bosco, e. da Ogni pianta sbucava gente che rideva, che cantava, che ballava; e intanto da tutte le parti venivano rizzate prestamente tante bellissime tende e tavole piene di cose non mai viste, che luccicavano più dell' oro. S'accòrse di essere capitato in mezzo alla fiera delle fate; si fece coraggio e si levò. Avea pensato: — Le fate debbono vendere anchè delle belle fiabe, nuove di zecca: vo' veder di comprarle. — E accostatosi a una che vendeva roba sotto una ricca tenda là vicino, le disse: — Ci avete fiabe nuove? — Fiabe nuove non ce n'è più; se n'è perduto il seme. — Poco persuaso di questa risposta, andò da un' altra fata che teneva in mostra sulla tavola e nei barattoli tante bellissime cose, che la prima non aveva: — Ci avete fiabe nuove? — Fiabe nuove non ce n' è più; se n' è perduto il seme. — E due! Girò attorno un altro pezzo, osservando qua e là; e come vide una tenda, che gli parve la più ricca di tutte, si accostò alla fata venditrice e le domandò timidamente: — Ci avete fiabe nuove? — Fiabe nuove non ce n' è più; se n' è perduto il seme. — E tre! Vedendolo rimasto male, quella fata gli disse: — Sapete, quell' uomo, che dovreste voi fare? Dovreste andare dal mago Tre-Pi che n' ha pieni i magazzini. — E dove si trova cotesto mago Tre-Pi? — Lontan lontano, fra' suoi boschi di aranci. — Prima dell'alba la fiera finì. Le fate, le tende, ogni cosa disparve; e quel povero diavolo si trovò solo in mezzo al bosco, e non sapeva se fosse stato sveglio o pure avesse sognato. Cammina, cammina, incontrò un viandante: — Compare, sapreste dirmi dove sono i boschi di aranci del mago Tre-Pi? — Andate avanti, sempre avanti. — Cammina, cammina, incontrò una vecchia: — Comare, sapreste dirmi dove sono i boschi di aranci del mago Tre-Pi? — Andate avanti, sempre avanti. - Non si arrivava mai! Finalmente, ecco i boschi di aranci. Ma c'erano i muri attorno, e si doveva entrare da un piccolo cancello, guardato da un mastino. — Chi cerchi da questa parte? — gli domandò il mastino. — Cerco il mago Tre-Pi. — È fuori: aspetta. —

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