Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Passa l'amore. Novelle

241052
Luigi Capuana 50 occorrenze
  • 1908
  • Fratelli Treves editori
  • Milano
  • verismo
  • UNICT
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A NINO MARTOGLIO.

Don Pietro Sbano si era affacciato alla finestra della sua villetta, com'egli aveva la vanità di chiamare quella casa rustica a due piani, con stalla, magazzino, cucina e cameretta pel garzone a pian terreno, e quattro stanzette, a cui si saliva dalla scala esterna con ballatoio, soprastante alla porta della stalla. Il sole stava per tramontare dietro un ammasso di neri nuvoloni che ingombrava l'orizzonte, e tutta la campagna attorno luccicava per la pioggia venuta giù, con pochi intervalli, violentissima, durante la giornata. Le rane della vasca del giardinetto di aranci e limoni cominciavano a gracidare; indizio -pensava don Pietro -che il cattivo tempo non era finito. Di là del giardinetto, il grano sul punto di spigare si era allettato, abbattuto dall'impeto della pioggia, e gli ulivi gocciolavano ancora a ogni scossa del vento levatosi tutt'a un tratto, appena era cessato di piovere. Veramente quella pioggia non si poteva dire opportuna. -Ma il Signore sa bene quel che fa. E se l'ha mandata per nostro castigo, - rifletteva don Pietro, -vuol dire che ce lo meritiamo. Sia fatta la sua santa volontà! Per la campagna attorno non si vedeva anima viva. Egli spiava da un capo all'altro la viottola che serpeggiava laggiù nella pianura e poi saliva a zig-zag su per la collina dov'era situata la villetta. Da Ràbbato avrebbe dovuto arrivare da qualche ora il garzone con la mula e le provviste. Don Pietro era venuto in campagna per una sola giornata; e certi guasti nella conduttura dell'acqua che alimentava la vasca lo avevano inattesamente trattenuto colà quattro giorni. Intanto non si scorgeva nessuno lungo la viottola che luccicava agli ultimi raggi del sole come un gran nastro di argento tra il verde dei seminati. Forse era accaduto qualche guasto nel Passo del Fico pel gran diluvio della giornata. Don Pietro ne era impensierito. Con quell'ammasso di neri nuvoloni che fasciavano l'orizzonte, ora che il sole era sparito, le ombre della sera già si addensavano attorno, quando egli scorse un punto nero proprio là dove la viottola cominciava a salire a zig-zag su per la collina. Quel punto nero, sbucato dal gruppo di ulivi che nascondeva la casa rustica del piccolo fondo dello Storto, come lo chiamavano -ed era storto di nome e di fatto, soleva dire la gente -si avanzava affrettatamente per la salita, spariva, riappariva dietro gli alberi e le siepi di roveti che la fiancheggiavano; evidentemente, persona che veniva da lui. L'occhio acuto, addestrato a veder bene anche da lontano, gli fece distinguere finalmente che si trattava di una donna, la moglie o la figlia dello Storto; probabilmente per chiedere in prestito qualche pagnotta, com'era accaduto altre volte. Capitava bene! E quando potè accertarsi che appunto la figlia dello Storto saliva l'ultima rampa della viottola, don Pietro, ritiratosi dalla finestra, si affacciò al ballatoio della scala, per dirle subito che non che una pagnotta, egli non avrebbe potuto darle neppure una fetta di pane. Il garzone con le provviste non era ancora arrivato dal paese. La giovane si era fermata sotto il carrubo, quasi esitasse di farsi avanti. Don Pietro le diè la voce; -Ehi! Comaretta! Che cosa volete? E vedendo che non si moveva e che si soffiava il naso e si asciugava gli occhi col grembiule, egli si affrettò a scendere la scala e ad andare incontro alla piangente. -Che cosa è stato, Comaretta?... Qualche disgrazia?... Vostro padre?... Vostra madre?... -Ah, voscenza!... Ah, signor don Pietro!... - si mise a singhiozzare più forte la ragazza. -Parlate... Spiegatevi! Coraggio! Venite su. Qui sotto vi piove addosso a ogni scossa di vento. Venite. Présala per una falda della mantellina di panno scuro che le copriva la testa e le spalle, e poi per un braccio, la condusse su, la fece sedere; e, acceso il lume, chiuse la finestra e la porta, e le si sedette di faccia. -Voscenza è come un padre.... -Sì, non dubitate, come un padre, anche come un nonno, per l'età, - la interruppe sorridendo. -Mi ricoveri, questa notte.... nella stalla, non me n'importa. Mio padre mi ha cacciata via come una cagna! -Perchè? -Perchè.... -Dite pure, figliuola mia! -Perchè vuole che io vada a servizio.... -Che male c'è? Andare a servizio non è vergogna. Bisogna guadagnarsi il pane, lavorando, come si può. -Ah! Voscenza non sa.... È stata la mia matrigna!... Glielo ha suggerito essa, essa che mi odia più del fumo agli occhi. Che le ho fatto?... L'ho rispettata sempre da madre, non da matrigna.... A servire, sì andrò, ma non da chi vogliono loro. -Da chi? -Dal cavaliere Ferro. -Ah! -fece don Pietro. -E mi hanno bastonato. Guardi. Ho le carni piene di lividure. Mia matrigna mi teneva afferrata pei capelli e mio padre con un legno, giù, peggio che a una bestia.... Guardi! E tirava in su le maniche della camicia per mostrare le lividure delle povere braccia flagellate. -Ma io: No! No! Mi sarei fatta ammazzare!... No! No! -Forse avete ragione. La casa del cavaliere veramente non è posto per voi. Non per dir male di quel signore, Dio me ne guardi, ma per la verità. Ha pochi scrupoli; se ne dicono tante! Vostro padre avrebbe dovuto capirlo. -Si fa menar pel naso da quella donnaccia. -Non la chiamate così. E quasi madre vostra ora. -Voscenza mi perdoni. Parlo per rabbia di cuore. -E che intendete di fare intanto? -Non lo so. Ma a casa mia non torno più, mai più! Ho segnato con la mano dritta un gran crocione sulla porta.... Mai più finchè ci sarà quella! Mio padre mi ha preso per le spalle e mi ha buttato fuori, sbattendomi l'uscio dietro; "Vattene! Vattene! E il tuo demonio non ti tenti di ritornarmi dinanzi!„ Oh, non dubitino! Sono risoluta a tutto! E se il mio tristo destino vorrà.... -Il destino ce lo facciamo noi, con le nostre stesse mani, figliuola mia! -Fosse campata mia madre! È morta di dolore, dai maltrattamenti. E piangeva per me negli ultimi mesi: "Figlia disgraziata! Figlia disgraziata!„ -È inutile ora che torniate a piangere voi. Lasciate che parli io con vostro padre. Lo chiamano Storto, va bene; ma non sarà poi tanto storto, via! Un padre è sempre padre. La ragazza scoteva il capo, continuando a piangere silenziosa. -Ecco il garzone! Meno male! -esclamò don Pietro, sentendo il rumore dei passi della mula. Il garzone, entrando con le bisacce piene di provvisioni a una spalla, si fermò stupito di vedere colà, la figlia dello Storto. -Oh! La gnà Trisuzza! Teresina. E, rivolto al padrone, soggiunse ridendo: -Voscenza, se non venivo, ah! ah!... non avrebbe avuto paura dei tuoni questa notte.... Sente? Tra poco avremo di nuovo la pioggia.... Il Passo del Fico, Madonna santissima! bisogna confessarsi prima di attraversarlo. Se non pensano a farvi il ponte, un giorno o l'altro accadrà qualche disgrazia. Intanto, parlando, vuotava le bisacce. Pane, carne, formaggio, pasta, un barilotto col vino; don Pietro posava alla rinfusa sul rustico tavolino di abete gli oggetti che il garzone gli porgeva. -La gnà Trisuzza l'accompagno io fino a casa, prima che la pioggia riprenda, - egli concluse, strizzando maliziosamente un occhio. Vedendo però le lagrime che le inondavano improvvisamente la faccia appena ella scoppiava in singhiozzi, il garzone piegò le bisacce, e, mortificato, le disse quasi sotto voce: -Scusate!

Il fuoco covava sotto la cenere, e il canonico Rametta s'incaricava, a fin di bene, di tenerlo vivo. Buona pasta d'uomo, un po' corto di cervello, pieno di scrupoli religiosi, si era lasciato abbindolare dal marchese di Camutello, che un giorno lo aveva mandato a chiamare per parlargli di una cappellania di famiglia, il cui cappellano era in punto di morte. - Ho pensato a voi, signor canonico! - Grazie, grazie!... Non posso accettare, - rispose umllmente il canonico. - Perchè, signor canonico? - Non saprei come soddisfare gli obblighi, signor marchese. Non si può dire più d'una messa al giorno, ed io ho già appena qualche settimana vuota nell'anno. - Ah, io non vi farei ressa! Non vorrei vedere il vostro celebravit.... Non l'ho mai chiesto al cappellano che il signore ora sta per portarsi in Paradiso. - E la mia coscienza, signor marchese? - C'è il Papa, infine! Una sanatoria non costa troppo.... - Niente! Grazie, signor marchese. Grazie! E il marchese, mutando sùbito discorso, gli avea parlato della povera cugina baronessa e delle ragazze che vivevano da monache, di quei tre nipoti, uno più matto dell'altro, di schietta razza dei Zingàli e del barone, che già finiva di ridurli tutti in miseria. - Io, signor canonico, voi lo sapete bene, ci sono stato tirato pei capelli. Ero tranquillo, nel mio possesso; e lui è venuto a dirmi: Ti voglio cacciar via di lì!... Le parole non bastano, caro signor canonico!... Allora - che volete? Uomini siamo! - io gli ho risposto per le rime - Cantorìa una volta era dei marchesi di Camutello.... Vediamo un po'. - Così mi son messo a intorbidargli le acque pure io.... Che volete? Uomini siamo!... Soltanto i santi porgono l'altra guancia quando han ricevuto uno schiaffo.... Me ne dispiace per la cugina baronessa e per quelle due buone creature delle sue figlie.... Che pensano di fare? Chiudersi in un convento? E quei tre matti?... Marco, è vero che vuol trovare il moto perpetuo?... - Pensa a un mulino di sua invenzione. - Un mulino?... Un Fontane Asciutte mugnaio! Mi piange l'animo.... Ma che fare con quella testa di mulo di mio cugino il barone?... Io, credetemi, mi stimo saldo, ben saldo nel mio diritto.... Se così non fosse, non spenderei tanti quattrini per litigare.... Eppure, se mi si proponesse un accomodamento alla buona.... Capite.... Non posso essere il primo io.... Mi pregiudicherei. Sono stato attaccato e mi difendo.- Ma è inutile ragionare.... Mi dispiace intanto per la cappellania. Non prevedevo il vostro rifiuto. Via! riflettete un po'.... - Grazie, signor marchese; è impossibile! Il canonico Rametta, riferito alla baronessa quel colloquio, le aveva involontariamente introdotto nell'animo il lievito della ribellione contro il dispotismo del marito. Per la baronessa il suo confessore era un santo; se non operava miracoli da vivo, ella credeva fermamente che li avrebbe operati appena morto. Una sera, infatti, parlando di lui con le figlie, aveva esclamato: - Vedrete; se lo salasseranno otto giorni dopo morto, egli darà sangue come persona viva. E nell'attesa di questo infallibile segno di santità, che però la baronessa si augurava di vedere quanto più tardi possibile, ella abbandonava ciecamente al canonico la direzione della sua coscienza e di quella delle due figlie, e lo aiutava in qualche opera buona, con elemosine che erano proprio atti di eroismo da parte di lei; giacchè le strettezze diventavano ogni giorno maggiori in famiglia; le spese della lite assorbivano ogni risorsa; e i figli, chi per un conto, chi per un altro, si rivolgevano alla baronessa per ottenere il po' di danaro che loro occorreva. - Mi smungono da tutte le parti! - ella si lamentava col confessore. Il canonico Rametta, quantunque fosse pallido e magro anche un po' per le penitenze e le macerazioni a cui si sottometteva, dei santi aveva specialmente la testardaggine che li fa perseverare in quel che loro sembra una buona e giusta cosa. Convintosi che le intenzioni del marchese di Camutello erano ottime e che i fatti gli davano ragione (nessuno poteva attestarlo meglio di lui, confessore della baronessa, la quale spesso spesso, non avendo peccati suoi da confessare, gli versava nell'orecchio quelli del marito, e al povero barone, non si poteva addebitare altro torto all'infuori di pensare giorno e notte alla lite; convintosi dunque che le parole del marchese: "Se mi proponessero un accomodamento alla buona, fossero sincere, e che questo accomodamento poteva evitare alla famiglia del barone e a lui l'estrema rovina, il canonico Rametta, dopo averne accennato qualcosa velatamente, visto che alla baronessa e ai suoi figli mancava il coraggio di opporsi alla volontà del barone, avea creduto opportuno mutar tono, e parlare non più in nome proprio, ma in nome di quel Dio di cui durante la confessione egli era, secondo la sua espressione, indegno, sì, ma vero ministro. - Tocca a voi, signora baronessa; ve l'ordina Dio per mio mezzo! La baronessa, che a quattr'occhi con lui, da penitente a confessore, si era espressa talvolta un po' arditamente, udite queste tremende parole, diventò piccina piccina sul seggiolone di noce dov'era seduta accanto al canonico. La voce le si arrestò in gola, le lacrime le sgorgarono dagli occhi e potè a stento balbettare: - A me? Tocca a me? Ma vostra paternità sa benissimo.... - So che questo è il vostro dovere di moglie e di madre di famiglia; so che voi non dovete accapparrarvi l'inferno per tutta t'eternità, disobbedendo al comando di Dio, che v'ha fatto baronessa e madre forse unicamente per salvare dall'estremo disastro questa famiglia. Altro non devo sapere. Pensateci bene, e pregate Dio e la Madonna, perchè vi diano forza e coraggio! E finita la confessione, egli prese a ragionare dello stesso argomento in presenza delle signorine. Mariangela approvò sùbito. La sua faccia squallida, dove gli occhi parevano assonnati in una specie di nausea del mondo e delle sue vanità, si animò tutt'a un tratto, si colorò, e le pupille le lampeggiarono, quando disse con profonda amarezza: - Non vuole che io più entri nella sua camera neppure per rifargli il letto! Rosaria, la sorella minore, bruna, dal viso duro, dalle labbra carnose, stata un pezzo ad ascoltare, si era alzata con uno scatto da sedere: - Dove vai? - le domandò la baronessa. - Vo' a chiamare i fratelli; debbono essere d'accordo anche loro.

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Saputo che quella mattina l'usciere era venuto a rilasciare al barone la citazione del tribunale, tutti i figli si erano radunati in camera della baronessa, quasi a rifugiarsi sotto le ali di lei e ripararsi dalla tempesta che stava lì lì per scoppiare. Il barone comparve su la soglia, pallido, con gli occhi stralunati, agitando convulsamente il foglio della citazione, senza riuscire a parlare. Lo sdegno e l'ira lo soffocavano. Mariangela fece un passo verso di lui, ma un suo gesto l'arrestò. - Vipere! Ingrati!... - cominciò a balbettare. È questa, questa la ricompensa?... Potrei..,. stracciarvi la vostra carta in faccia, sbattervela sul muso; farvi vedere chi.... chi è da interdire qua.... Vipere!... Ingrati!... - Barone!... per carità!... - supplicava la baronessa. - Voi, signora, avete ragione.... per la vostra dote. Ma ho già dato ipoteche, ho vincolato rendite.... non l'ho sciupata, no, la vostra dote. Darò sùbito altre guarentigie, se occorrono.... Ho abusato della vostra bontà, è vero; ho sperperato il fruttato dotale.... per la lite; e voi, signora baronessa, da eccellente madre di famiglia, non volete che quel fruttato serva ancora alla rovina delle vostre buone figliuole.... Vipere dei vostri bravi figliuoli.... Ingrati!... Questa, questa è dunque la ricompensa? Nessuno ha il coraggio di quardarmi in viso!... Nessuno osa di rispondermi una parola! Infatti, tutti stavano là, zitti, a capo chino, come tanti rei davanti al lor giudice. Soltanto la baronessa, a mani giunte, con gli occhi rivolti al cielo, pareva implorasse aiuto da lassù. Il barone rizzò minacciosamente la persona: - Potrei prendervi a uno a uno per le spalle.... e farvi ruzzolare le scale fin da questo momento. Il palazzo è mio; ed io, almeno per ora, sono qui padrone assoluto.... Ma vi gastigherò diversamente; voglio risparmiarvi l'empio tentativo di farmi interdire.... Esco io dal mio palazzo!... Fuggo via io da questo covo di vipere e di ingrati! Lotterò.... povero, solo; morrò di crepacuore e di fame forse; non importa!... Intanto vi abbandono tutti alla maledizione di Dio!.... Giacchè io credo in Dio più di voi, signora baronessa che vi confessate due volte al mese e date questo bell'esempio ai figli vostri! Figli?... Figlie?... Io non ho più nessuno!... Nè moglie!... Nessuno!... Esco di qui coi soli vestiti che ho indosso.... Non voglio altro!... E il giorno che mi porteranno la notizia: - Il vostro palazzo è crollato; Dio Io ha scosso dalle fondamenta e vi ha seppellito tutti - quel giorno farò cantare un Te Deum!... Non metterò il lutto!... - Barone, per carità! - tornò a supplicare la baronessa. - Voscenza scusi; non si ragiona in tal modo!... Feliciano aveva pronunciato queste parole con tono dimesso ma così ironico, che il barone fece atto di slanciarglisi contro per schiaffeggiarlo come un ragazzo. Mariangela dètte uno strillo, la baronessa si mise a gridare, quasi la minacciata fosse lei; Rosaria si piantò davanti al fratello per fargli scudo col corpo, alzando la bruna testa dai lineamenti duri, aggrottando le sopracciglia, stringendo le labbra carnose. E fu il segnale della gran rivolta! Parlavano, strillavano, urlavano assieme, aggirandosi per la stanza, senza sapere quel che volessero, nè quel che facessero, mentre il barone in mezzo a loro continuava a ripetere frasi scomposte, con le braccia in alto, sventolando il foglio della citazione come segnale di minaccia e di gastigo; e la baronessa in piedi su la predella del seggiolone di noce, piangente, sperduta, urlava: - Barone! Figli miei!... Figli miei! Tutta la pazzia dei Zingàli parve si fosse scatenata improvvisamente, rompendo la lunga compressione, sconvolgendo quei cervelli squarciando quelle gole con orride grida, agitando quei corpi in una terribile convulsione di atteggiamenti, di mosse, di gesti furibondi, che avrebbero fatto scappare le persone fermatesi nella via ad ascoltare maravigliate, se fossero salite su, spinte dalla curiosità o dal desiderio di dar soccorso, giacchè si capiva che lassù accadeva qualcosa d'insolito e di triste. Poco dopo, le grida cessarono, la gente si disperse; e gli scarsi rimasti videro uscire il barone don Pietro-Paolo, vestito di nero, con l'abito abbottonato e un gran mazzo di carte sotto braccio. Nessuno osò domandargli che cosa era stato. Si scoprirono rispettosamente, e il barone rispose al saluto con la consueta sua affabilità.

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- diceva la baronessa a Rosaria, che spesso borbottava contro il fratello. Una schietta Zingàli anche lei, muta, impenetrabiie, con quegli occhi che mettevano sgomento quando restavano fissati nel vuoto, quasi attratti da paurose visioni che gli altri non potevano vedere. Da che il barone aveva abbandonato la casa, ella aveva voluto occupare la stanza di lui. - Non hai dunque paura di dormir sola colà? - le disse la madre. - No. Durante la giornata, la madre la voleva in camera, anche pel rosario e per le altre preghiere in comune, quando il canonico Rametta veniva a confessare, al solito, la signora baronessa, e a discorrer di cose sante e di pettegolezzi. Il canonico avea creduto che l'assenza del barone avrebbe vivificato un po' l'aspetto triste e opprimente di quella casa e il santo prete vedeva ora quasi con rimorso che la tristezza si era piuttosto aumentata. Quell'uomo che stava rinchiuso nella sua stanza, sepolto tra le vecchie scritture, di nient'altro occupato all'infuori di esse, avea lasciato un gran vuoto nel vasto palazzo, di cui il povero canonico non si sapeva rendere ragione. - Nessuna notizia? - domandava timidamente alla baronessa. - Nessuna! - Nessuna! - ripeteva Mariangela, alzando al cielo le pupille stanche e trasognate. - Il Signore gli aprirà gli occhi, gli rammollirà il cuore! Preghiamo per lui! - replicava il canonico. Rosaria aggrottava le sopracciglia, si mordeva le labbra carnose, e non si capiva se per isdegno o per rimpianto dell'assente. Spesso, durante la conversazione, si alzava tutt'a un tratto da sedere e andava a rinchiudersi nella sua nuova stanza. Una mattina Mariangela l'avea sorpresa bocconi a traverso il letto, soffocata da singhiozzi. Le mani brancicavano convulsamente le coperte, e nell'agitarsi scomposto della testa le nere e lunghe treccie le si erano disciolte ed arruffate. - Oh, Dio!... Che hai? Rosaria!... Al grido della sorella, ella si era rizzata rapidamente, buttando indietro con le mani i capelli che le ricadevano su la faccia e su le spalle; e spalancando gli occhi, avea portato l'indice alla bocca, imponendo silenzio. - Non dir nulla alla mamma!... Non è niente!... Manda a chiamare il canonico Rametta.... Ho bisogno di lui.... Voglio confessarmi.... Non dir nulla alla mamma! Bada; non dirle nulla! Mariangela, sbalordita, spaventata, aveva atteso il canonico in cima alla scala, e lo aveva fatto entrare in punta di piedi, perchè la baronessa non si accorgesse della venuta di lui. - Lasciaci; va di là, - Rosaria aveva ordinato alla sorella. - Cattive notizie? - domandò allora il canonico. Rosaria, chiuso l'uscio e messo il paletto interno, si fermò in faccia al sacerdote, che la guardava, aspettando ansioso la risposta. - Sono dannata! - ella esclamò portando le mani attorno alla bocca, a fin di reprimere il suono della voce e renderlo nello stesso tempo più vibrante. - Dannata? Figliuola mia! Dannata? Ella lo spinse su la seggiola a bracciuoli presso il tavolino e gli cadde davanti in ginocchio. - Dannata?... Non è possibile!... Che hai fatto da dover disperare del perdono di Dio? Oh, figliuola mia!... China con la testa rovesciata in giù, coprendosi la faccia con le mani, Rosaria ripeteva straziante: - Dannata!... Dannata! Il confessore le accarezzava i capelli, tentava di confortarla. - Parla, figliuola mia! Ora sei davanti al cospetto di Dio.... Dimentica la miserablle persona del suo indegnissimo servo.... Parla! Mai il canonico Rametta, da che era stato autorizzato ad amministrare il Sacramento della penitenza, mai si era trovato davanti a una scena simile; e tremante, smarrito, non sapeva in che maniera indurre quella figliuola a calmarsi. Terribili, incredibili cose aveva poi udito. - Tu, figliuola mia?... Tu hai invocato il diavolo?... Perchè? Come? E Rosaria, a testa china, con la faccia tra le mani che a stento lasciavano passar libera la parola, aveva rivelato il segreto che da due anni le gravava sul cuore, e che aveva formato la sua felicità e la sua disperazione nello stesso tempo; quel terribile segreto che più volte le era parso avessero indovinato o volessero indagare la madre, la sorella, i fratelli, e che ella aveva per ciò più rabbiosamente calcato in fondo al petto!... Ma ora.... ora non ne poteva più! E così dentro quella buia sepoltura della loro casa era penetrato un raggio di sole. Ella aveva amato, forse riamata!... Perchè, perchè il Signore l'aveva fatta nascere una Zingàli? Per questo, colui non aveva mai osato farlo sapere direttamente.... E forse anche per lo stato della loro famiglia! - Come lo hai dunque saputo, figliuola mia? - Un accenno, due parole dettemi da una povera donna.... - Quali, figliuola mia? E udendo l'ingenuo racconto, l'esperto confessore capiva a poco a poco quale pertinace lavorìo della giovanile immaginazione aveva potuto intessere la fallace lusinga di quell'amore nel silenzio, nella penombra, nella solitudine di quei malinconici stanzoni, dove i suoni della vita che ferveva fuori giungevano ammortiti, affievoliti o non arrivavano affatto. E per ciò ella si era ribellata al destino; per ciò avea protestato contro la tirannia di Gesù Cristo che la condannava a essere una Zingàli, cioè un'ombra, un fantasma, un nome e nient'altro. - Sì, sì padre!... Ho maledetto Gesù!... Ho maledetto la Madonna! - E hai mentito nella confessione? E ti sei cibata sacrilegamente delle carni immacolate del Redentore? - Sì, sì padre!... Un giorno, rovistando uno scaffale di vecchi libri, dietro i volumi in foglio legati in pergamena, aveva trovato un libro involtato in un foglio di carta e sigillato. Ingiallito, squadernato, senza frontispizio, con strane figure quasi a ogni pagina, quel volumetto aveva tentato la sua curiosità. Sigillato con cinque larghi sigilli, nascosto colà, dietro agli altri libri, era dunque qualcosa di vietato? E se lo era portato in camera, e lo aveva nascosto tra le materassa del suo lettino, sotto il capezzale.... E la notte, fingendo di dir le preghiere, si era messa a leggere.... - Diceva: Modo di far apparire nella propria camera la persona amata. Si doveva recitare per tre notti consecutive una lunga preghiera latina.... Adonai, omnipotens sempiterne Deus.... La so tutta a memoria! - Il demonio, figliuola mia!... Il demonio!... - Che m'importava? Abbandonata da Dio, mi rivolgeva al diavolo, che almeno mi prometteva quella felicità.... Ah sono stata ingannata anche da lui!... Mi sentivo morire dal terrore, e leggevo, leggevo quella preghiera di cui capivo soltanto poche parole, con la fronte bagnata di sudore diaccio, col cuore che quasi non mi batteva più, con la voce che mi moriva in gola, ginocchioni presso la finestra aperta di quella stanzaccia dove mi recavo a notte avanzata, brancolando nel buio, portando i fiammiferi e la candela benedetta della Candelora, perchè, occorreva una candela benedetta.... E poi ho continuato per mesi e mesi, qui, in questa camera, invocando, persistente, colui che non appariva, che non è apparso mai! Mai!... - Domine, ignosce illae! - balbettava il canonico, alzando pietosamente gli occhi. E soggiungeva: - Dio misericordioso.... Tu, povera figliuola, non sapevi quel che facevi. - Lo sapevo, padre; lo facevo a posta!... - Ma era un'aberrazione, un suggerimento del demonio.... Ora che ti accusi del peccato, ora che, pentita, domandi perdono.... - Sono dannata!... Sono dannata! - tornava a singhiozzare Rosaria desolatamente. - Ah, figliuola! Questo, questo peccato ancora più grande: disperare della misericordia di Dio!... Sei già perdonata! In nome di Colui che me n'ha dato potestà, ego te absolvo!... E ora che intendi di fare, figliuola mia? - Voglio andar via, lontano, Suora di Carità!... Partire sùbito.... sùbito!

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La moglie, sgombrata dalla catinella la seggiola, la offriva a don Pietro brontolando: - Voscenza ci benedica! Si accomodi. - Eh! Questo tempaccio! - fece don Pietro tanto per cominciare. - Già! Quasi ne avessimo poca, Dio ci manda altra fame! - Zitto, compare Nittu - e ci corse poco non dicesse: compare lo Storto. - Dio sa quel che fa. - E lo sappiamo anche noi! Ma lui, lassù in Paradiso, non ha fame nè sete. I seminati, ha visto? si sono allettati e fanno piangere soltanto a guardarli. - Si rileveranno, non dubitate, con quest'occhio di sole.... Bisogna aver fiducia nella Provvidenza. Don Pietro non trovava il verso d'introdurre il discorso della figlia cacciata via. - Ha fatto una bella passeggiata mattutina, voscenza? - Non per divertimento, compare Nittu. - Se hanno da ragionare tra loro uomini.... - No, comare; anzi è bene che voi siate presente. Dunque, signori miei, come l'accomodiamo questa faccenda della vostra figliuola? - Quale faccenda, signor don Pietro? - L'avete scacciata di casa, in un passeggero momento di sdegno. - Io? Noi? - Mi ha detto così. Meglio allora. A servizio la poveretta è pronta ad andare, per guadagnarsi il pane, se ora è di aggravio qui. Ma dal cavaliere Ferro.... È un ricco signore, solo; vostra figlia non dovrebbe faticar molto in quella casa.... ma, ma.... non fosse per altro, per l'occhio della gente.... -Non mangia vive le persone il cavalier Ferro. - Se se le mangiasse vive, comare mia, non sarebbe gran male; gli farebbero indigestione. Non se le mangia; voi però sapete bene che cosa ne fa, per disgrazia sua e degli altri; e vostra figliastra.... - Chi la forza? - lo interruppe, accigliandosi, lo Storto. - Vada dove le piace, purchè non mi torni tra'piedi. Vuol fare di testa sua? Faccia. Intanto che cosa c'entra voscenza? Sono mai venuto a dar consigli in casa sua? Io mi rompo la schiena da mattina a sera a zappare queste quattro zolle che non fruttano più. Non chiedo niente a nessuno. Ho un boccone di pane nero? E me Io mangio; se no, stringo la cigna dei calzoni e fo star zitto lo stomaco che grida. L'occhio della gente!... Si facciano i fatti loro, la gente, come io mi faccio i miei. Voscenza si prende sempre certe gatte a pelare! È venuta lassù a scomodarla? E voscenza, scusi, avrebbe dovuto risponderle: - Devi vedertela tu con tuo padre e tua matrigna. - Che cosa è venuta a infinocchiarle? Dal cavalier Ferro, no? Il cavaliere mi avrebbe dato la mezzadria di Salto Martino, per aiutarmi e aiutar tutti.... E la signorina rifiuta. Capriccio! Superbia! Quasi fosse una principessa che non deve abbassarsi.... - Ma, compare Nittu! Questo non mi sembra ragionamento degno di voi. - Io non so di lettere; discorro con la mia testa di contadino. Mi toglie una gran fortuna mia figlia, non facendomi ottenere la mezzadria di Salto Martino. Il cavaliere dice: - A questo patto. Ho bisogno di una serva da fidarci sopra. Vostra figlia mi converrebbe. È forte, di buona salute. Io pago bene le serve. - Una fortuna che ci piove dal cielo; non dovremmo far altro che chinarci per raccattarla.... - E al disonore non pensate? - Si son maritate tutte e bene le serve del cavaliere. - Ah, comare! Voi dunque non guardate altro che a l'interesse? - Guardo che alla povera gente accade sempre così; in un modo o in un altro; è destino; sempre così. Meglio in quel modo, se mai! Ma son tutte sciocchezze che si spacciano dai maligni. Il cavaliere fa il comodo suo. Vuole giovani per casa; e, per quel che lei pensa, ci sono le signore sue pari. Non le conosciamo forse? Di quelle là non si sparla. E se una poveretta inciampa.... Ma non lo sa lei che inciampa chi vuole? E non lo sa lei che se io non avessi avuto cent'occhi e cento orecchie, a quest'ora il pasticcio sarebbe avvenuto, con quel morto di fame di Tinu Mèndola che le veniva a cantare le canzoni, con l'organetto, tutte le notti?... E perchè io ho fatto finire la commedia, e lo zi'Nittu qui gli disse: - Tinu, se non smetti, bada, una di queste notti ti faccio fare una fiammata e non ti pagherò neppure un soldo! - per questo ora essa ci fa il dispetto di non voler andare a servizio del cavaliere. - Comare mia, Tinu, suppongo, agiva pel buon fine. - Si sposavano la Fame con l'Appetito! - E voi, comare? Ricordatevi. Il vostro primo marito non era.... un barone. - - Appunto: l'esperienza ammaestra. Che intende dire voscenza? Che sono stata nella disgrazia pure io? Non me ne vergogno. Quando abbiamo gli occhi chiusi s'inciampa: è destino. Non è una buona ragione per non dire agli altri: - Aprite gli occhi! Qui c'è da inciampare. - - Ma anzi, eomare, in questo caso voi prendereste la ragazza per mano e la condurreste proprio dov'è l'inciampo. Vediamo.... - Insomma, che cosa pretende voscenza? - disse bruscamente compare Nittu. - Mia figlia non è più sotto tutela; ha ventidue anni compiuti. Vada a buscarsi il pane dove vuole. Io ne ho appena tanto che basti per me. Mi dispiace che voscenza si sia dovuto incomodare a venire fino a qui. Sa eome mi ha chiamato mia figlia? Padraccio scellerato!.... Sa come ha chiamato mia moglie? Se lo faccia ripetere da lei stessa.... Non ne parliamo più. Ha altri comandi da darmi voscenza? Mi chiamano lo Storto.... e ci ho piacere. Non mi raddrizza nessuno. Storto son nato e storto voglio morire!

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Tutti lo ricordavano gracile, malaticcio, quasi involtato nella bambagia, con certi vestitini stinti, rattoppati alla meglio dalle inesperte mani della sua mamma, che andava attorno a impagliare seggiole, ad acconciare pentole, catinelle e piatti rotti, pei quali portava al braccio la sporta col trapano, la tanaglia, il fil di ferro e la calce occorrenti. E mentre egli si avviava a scuola, sua madre si metteva in giro a gridare per le vie e le viuzze del paesetto: "Donne, l'acconciapèntole„!... E lo ricordavano, sempre con una fascia di lana grigia attorno al collo, nella botteguccia di falegname dove, qualche anno dopo di aver finito le scuole elementari, si era messo ad esercitare il mestiere del padre, morto quando egli era bambino di due anni. Quattro tavole di abete, due seghe, tre pialle, un'ascia, un martello e, in fondo alla bottega, ritti alle pareti, tra le tavole, pochi pezzi di legname grosso; nient'altro. E, più che lui, lavorava il garzone che cantava da mattina a sera stordendo il vicinato, rizzando su rozze gambe certi miseri tavolini per la povera gente che non poteva neppure darsi il lusso di farli tingere imbastendo certi trespoli di legno e segando e piallando certe tavole da letto che, spesso, rimanevano esposti davanti a la bottega, in quella via fuori mano, per mesi e mesi, senza trovar compratori. E lo ricordavano, ancora con la fascia di lana attorno al collo, gracile, malaticcio, in un'altra botteguccia con rustici scaffali e poche merci: cotone ritorto, colla forte, aghi, bambagia, nastri di cotone e di seta, spago, fil di ferro, granate, qualche risma di carta La Briglia, bastoncini di liquirizia, filze di tric-trac, terra rossa, minio, amido, un po' di tutto. Dietro il panconcino, egli serviva silenziosamente i clienti, donnicciuole la più parte, e ragazzi che andavano a spendervi generosamente un saldino per la liquirizia e pei tric-trac.... Era rimasto un mistero l'ingrandirsi di quella botteguccia, l'accumularsi di altre e altre merci negli scaffali, tinti a olio in celeste e filettati di rosso, con cassetti pel riso, per lo zucchero, pel caffè, e per tante altre cose che nessuno avrebbe mai sognato potessero esser vendute da lui, al suo solito, silenziosamente, forse per non perder tempo con le chiacchiere, o per non sprecare il fiato a discutere i prezzi. Questo? - Tanto. Quest'altro? - Tanto. - E se l' avventore tentava di persuaderlo che il prezzo era salato, egli si metteva a sedere, a capo chino, o a servire un altro sopravvenuto.... - Dunque? - Tanto! - E riponeva nello scaffale la merce o l' oggetto; e non faceva un gesto, non diceva un motto per trattenere l' indispettito che andava via. Nessuno poi sapeva spiegarsi come mai quel mezzo tisico che per tant'anni aveva continuato a portare attorno al collo, anche di estate, quella fascia di lana, ora, con l'ingrandire della bottega, si fosse fortificato, avesse preso un po' di colore in viso, messo un po' di carne attorno alle ossa, e si fosse ripulito discretamente nei vestiti. Così tutti ricordavano il passato di lui, quasi per vendicarsi del presente che sembrava incredibile. Nessuno rifletteva che quel ragazzo, rimasto orfano anche della madre quando, con tanta gioia di essa, aveva mutato in piccola merceria la botteguccia di falegname, era vissuto e viveva con poco, accumulando tenacemente gli scarsi guadagni e ingegnandosi di farli fruttare quanto più potevano con caute speculazioni che non fallivano mai. Lo vedevano andare dal paesetto a Noto, o a Siracusa, secondo l'occasione, tornare dopo pochi giorni con due o tre carri carichi zeppi di roba di ogni genere. Non chiedeva un soldo a nessuno pagava la merce in contanti.... Chi gli dava i quattrini? Le fantasie riscaldate avevano finalmente trovata la spiegazione. A quel mezzo tisico era capitata la fortuna di rinvenire un tesoro sepolto chi sa da chi nella vecchia botteguccia di falegname un pentolino pieno di monete di oro fiammanti, antiche, ch'era andato a scambiare o a vendere (non lo sapevano con precisione), zitto, zitto, a Siracusa, chi diceva a un antiquario, chi a un lord inglese; e taluno aggiungeva che si era fatto corbellare perchè le monete valevano più di cinquanta mila lire, e lui n'aveva avuto appena qualche migliaio. Nessuno aveva visto una sola di quelle monete; ma i suoi compaesani ne ragionavano come se le avessero avute tra le mani e le avessero rassegnate e contate. Egli aveva saputo della leggenda che andava attorno, e ne avea sorriso, pensando al tesoretto di cinquecento lire rivelatogli dalla sua povera mamma poche ore prima di morire. - Le ho accumulate soldo a soldo, per te; fanne buon uso, figlio mio! Aveva indicato il luogo col gesto tremante, incerto: una buca in alto nella parete a sininistra. Ma a lui, stordito dal dolore, era parso che sua madre vaneggiasse; e soltanto due settimane dopo che la povera vecchia non era più là, gli era venuta l'idea di ricercare in quella buca. Avea dovuto mettere la seggiola su un tavolino per arrivare a ficcarvi la mano e, dapprima, aveva tirato fuori soltanto un batufolo di stoppa. Deluso, stava per smontare, quando badò a quel sasso che si era mosso in un punto della buca, mentre egli tastava con le dita il suolo e le pareti. Tòltolo via, ricercando più in fondo.... Sua madre aveva detto la verità! Cinquecento lire - una ricchezza, gli parve - in monete di argento avvolte in un fazzoletto di cotone con fiorami rossi su fondo giallo, annodato e riannodato per le cocche. Aveva pianto tutta la nottata, commosso di quell'inatteso regalo che certamente rappresentava l'umile guadagno di tante seggiole dovute impagliare, di tante pentole e catini e piatti dovuti acconciare e, inoltre, una lunga sequela di privazioni e di sacrifici della povera donna, unicamente in vista dell'avvenire di lui! Oh! Erano state proprio benedette quelle cinquecento lire. Si erano rapidamente moltiplicate; e il fazzoletto di cotone, a fiorami rossi su fondo giallo, ora stava chiuso, quasi talismano, in una cassetta col vetro, sotto l'immagine della Madonna delle Grazie posta in cima allo scaffale di centro. Se egli avesse raccontato l'accaduto, nessuno gli avrebbe prestato fede nessuno gli avrebbe invidiato quella realtà come gli invidiavano il fantastico pentolino colmo di antiche monete d'oro. Gli invidiavano fin la salute, quasi egli rubasse qualcosa agli altri menando bene i suoi affari. Ma egli si rideva di tutti; il fazzoletto della sua buona fortuna era là. Ed aprendo, la mattina, la bottega e chiudendola la sera, recitava una preghiera prima ad esso, cioè a sua madre, e poi alla Madonna delle Grazie che doveva perdonargli quella preferenza perchè era stata madre anche lei.

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Era stato costretto a cercare un'altra casa e, invece di affittarla, l'avea comprata, con poco, giacchè - borbottavano gli invidiosi - gli piovevano addosso tutte le fortune! E non si era contentato di ripulirne la facciata, ma l'aveva rialzata di un piano, con terrazzini invece di finestre e, sul tetto, una vasta terrazza. - Ora che ha preso il male del calcinaccio, vedete che capitombolo! - Quattrini cascati dall'aria, il diavolo li porta via! Egli li lasciava dire, e zitto zitto allargava la cerchia delle sue speculazioni, incettando anticipatamente la raccolta delle mandorle del territorio; e lassù, su la terrazza, una dozzina di donne rompevano i gusci, mettevano da parte i nocciuoli che sùbito partivano, a sacchi, a carrettate, per Catania, per Messina, e tornavano da lui trasmutati in bei gruzzoletti di monete d'oro o in carte da cento, da cinquecento e anche da mille lire, a dispetto di coloro che avevano prognosticato: - Chi troppo abbraccia nulla stringe! Appunto, a proposito di una piccola partita di mandorle, egli aveva riveduto, dopo tanti anni, un contadino vecchio amico di suo padre, e andato a domiciliarsi in un paesetto vicino. Si era fermato davanti a la bottega, compitando la scritta della tabella GIOVANNI LIARDO MERCI ED ALTRO ed era entrato, contento di conoscere il figlio della buon'anima dell'amico, e di vederlo in auge. Il negozio delle mandorle era stato concluso in un momento. E prima di andarsene, il vecchio gli aveva domandato: - Hai preso moglie? - Ho ben altro per la testa! - aveva risposto Giovanni. - Per chi lavori dunque? - soggiunse il vecchio. - Per chi ti affanni? Dovresti avere in casa e qui una persona interessata al pari di te, invece di una serva o di una giovane di bottega che.... che.... Non intendo dir male di nessuno; ma tu non puoi avere cent'occhi, e.... l'occasione fa l'uomo ladro. Quasi gli avesse messo una pulce in un orecchio! - Per chi lavori? Per chi ti affanni?... Tu non puoi avere cent'occhi? E pensava anche all'altra persona interessata, ma con istintiva diffidenza. La sua fanciullezza era stata tristissima; triste, fino a pochi anni addietro, la sua giovinezza. Egli si sentiva pesar addosso tuttavia quella tristezza e non come ricordo ormai lontano, ma come qualcosa che gli si era compenetrato col sangue, con la carne, con le ossa, e che non solamente gli impediva di gustare il godimento delle mutate condizioni, ma lo rendeva timido, imbarazzato, umile troppo davanti a certe persone. Così, non ostante il solito cartellone - Oggi non si fa credito, domani sì - egli non era mai stato capace di dir di no al cavalier Mazza che, rovinatosi col gioco della zecchinetta, voleva intanto continuare a sfoggiare, quasi i creditori non gli avessero già portato via i fondi e non stessero per portargli via anche la casa, il palazzo com'egli la chiamava. Stecchito, coi baffi e i pochi capelli dietro il cranio malamente ritinti, vestito di stoffa chiara pure d'inverno, per ringiovanirsi anche così, il cavalier Mazza entrava nel negozio con aria di protettore: - Vediamo!... vediamo!... Dovresti avervi.... ecco, là, sì.... quel.... no, quell'altro!... Bravo! Qui, si sa, prezzo fisso, pri fi, come dicono a Parigi.... Dunque, vediamo che cosa spendo.... Bravo!... Manderai tutto, bene involtato, a palazzo.... Ci rivedremo. Ma sai che un negozio come questo potrebbe figurare anche in una grande città? Bravo! Coraggio! Avanti! Egli non aveva mai osato di rispondergli: - Pel pagamento, vediamoci, ora. Sarebbe meglio. Gli sembrava che, con quell'aria da protettore, il cavalier Mazza intendesse di rammentargli: - Bada: ti conosco da bambino. Tua madre ha impagliato le mie seggiole, ha messo i punti alle mie pentole fesse, alle mie catinelle rotte. Se oggi hai qualche soldo, non significa niente. Vent'anni fa, andando a scuola, tremavi di freddo con quegli stracci che portavi in dosso, e non avevi sempre un po' di companatico per la fetta di pane della colazione.... Dunque.... dunque un onore per te, se vengo da te anche a credito. Forse il cavalier Mazza non pensava niente di tutto ciò; lo pensava però lui, ed era precisamente come se quegli gliel'avesse spifferato sul viso. E quantunque il consiglio del vecchio contadino suonasse continuamente dentro l'orecchio, e quantunque la sera, prima di addormentarsi, passasse in rassegna tutte le ragazze da marito che conosceva di vista e anche quelle che non conosceva, non sapeva decidersi a fare un passo, per quel sentimento di timidezza, d'imbarazzo, di eccessiva umiltà che era l'impronta, forse indelebile, lasciatagli nel carattere dal passato. Un altro, al suo posto, avrebbe messo superbia. Invece di mastro Giovanni Liardo, si sarebbe fatto chiamare don Giovanni Liardo anche per far dispetto a quei cavalieri morti di farne, che parlando di lui dicevano sempre: Il figlio dell'Acconciapèntole, quasi non avesse nome e cognome. Egli, all'opposto, si reputava onorato di quel che a coloro sembrava titolo dispregiativo. Se sua madre fosse stata ancora viva, in casa e nel negozio, non si sarebbe affatto vergognata di aver acconciato pentole e impagliato seggiole. Ed ora ch'egli era arrivato a quel punto, soltanto per opera di lei, per virtù, n'era profondamente convinto, di quel fazzoletto di cotone a fiorami rossi su fondo giallo che stava in cima allo scaffale, chiuso nella casetta col vetro sotto l'immagine della Madonna delle Grazie, ora gli sarebbe parso di disprezzarla, di rinnegarla aggiungendo quel don al nome che gli era stato dato al fonte battesimale, come di tanto in tanto gli consigliava qualcuno; ma.... consiglio non chiesto, inganno manifesto!

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E un mese dopo, la bella giovane bruna, con neri e folti capelli ricciuti, occhi nerissimi, scintillanti nel viso fresco e colorito, e un sorriso di soddisfazione su le labbra un po' tumide e così rosse che sembravano sanguinanti con le mani piene di anelli, vestita meglio di una signora, perchè Liardo aveva voluto far le cose senza risparmio, troneggiava seduta dietro il pancone, rispondendo ai saluti degli avventori, aiutava il marito nel prendere qualcosa indicatale col gesto, attenta ai prezzi, al peso, alla qualità delle merci e già svelta nel servire coloro che venivano a chiedere cosettine di facile spaccio giornaliero. Presto si potè notare l'effetto della presenza della donna nel disordine in cui veniva tenuto il negozio, specialmente da che troppi oggetti disparati eran sopravvenuti a ingombrarlo. Quel continuo di lei riordinare però impacciava Giovanni, che nell'abituale confusione si raccapezzava meglio. - Lascia stare, Marina; finirò col non saper ritrovare più nulla! - L'occhio vuol la sua parte. Buttata così, qua e là, nei cassetti, negli scaldali, per terra, la merce non figura. E Marina continuava a sbattere gli oggetti, a spolverarli, a collocarli bene in mostra. In poche settimane il negozio sembrava un altro; ma Giovanni, ai complimenti che taluni avventori facevano a sua moglie e a lui, provava un senso di strana tristezza pel cangiamento avvenuto, una lieve oppressione di animo per via di quella nuova volontà che dominava le cose e lui, con dolce prepotenza, sì, ma con prepotenza, e contro la quale la sua timidezza non gli permetteva di opporsi. Non si erano sposati per amore. C'era stato anche un po' di calcolo da parte di lui che un po' da parte del sarto Parlato e della figliuola. Ma dopo sei mesi d'intimità, egli avea fin dimenticato per quale ragione aveva preferito Marina ad altre ragazze, se non belle quanto lei, certamente con dote meglio di lei. Allora gli era venuta l'idea di estendere le sue operazioni anche a stoffe per donne, mussole lanette, fazzoletti, scialli, e a stoffe di cotone e di lana, nazionali, per uomo. Il sarto poteva cooperar molto alla vendita. Ma ora non ci pensava più. Pur troppo anche il suocero veniva spesso a mescolarsi delle cose del negozio a dar consigli, a suggerire novità, quasi non bastassero quelle che sua figlia ideava e metteva in opera ogni giorno. - Che cosa guardi? - Guardo l'immagine della Madonna, con quella misera cornicetta.... - Mi ha protetto finora così, e continuerà a proteggerci, non dubitarne. - E la cassetta sotto il quadro? - Ah! quella.... Niente. Non bisogna toccar nulla lassù. La Madonna sta in alto e non dà fastidio a nessuno. Aveva risposto un po' brusco, non tanto per la Madonna quanto per la cassetta col fazzoletto miracoloso. Era convinto che tutta la sua fortuna provenisse dalla presenza di esso colà; era convintissimo che il fazzoletto avrebbe perduto la sua virtù se egli si fosse lasciato scappar di bocca in quale circostanza lo aveva avuto, e quel che vi avea trovato avvolto. Coi numeri sognati non accadeva così? Se uno li confidava a un amico, a un parente, addio! rimanevano in fondo all'urna del lotto. Il Signore dà la fortuna a uno, e non vuol darla a un altro. A lui non avea fatto sognare, tre, quattro numeri; gli aveva però concesso qualcosa di meglio. E tutte le mattine, entrando nel negozio, gli occhi si rivolgevano sùbito lassù per accertarsi se ll fazzoletto fosse ancora al posto. Quell'ansietà che egli sentiva ogni volta che metteva la chiave nella serratura e nello spalancar la porta, quasi dovesse accadergli la disgrazia di non più ritrovarlo nella cassetta col vetro; e il respiro di soddisfazione ogni volta, nello scorgerlo lassù, gli confermavano il convincimento ch'egli aveva ragione di aver legato assolutamente ad esso tutta la sua buona fortuna. Quell'ansia e quel respiro di soddisfazione erano, secondo lui, continuo, vivo ammonimento del cuore. Marina però, piccata dal tono reciso della risposta, aveva insistito: - Ma quel cencio giallo con fiori rossi, lì dentro? - Niente; per non far scorgere il vuoto della cassetta. - Come ti stizzisci! Perché? - Perché con la tua smania di voler tutto mutare.... Io ho le mie abitudini. Quella Madonna e quella cassetta sono lassù da anni, e non voglio che si tocchino. Hai capito? Ella si era buttata su la seggiola nell'angolo, con le sopracciglia corrugate, impressionata di quel voglio che usciva la prima volta dalle labbra di suo marito, quantunque pronunziato blandamente. E stette imbroncita fino a sera; tornando a casa, per via non disse una parola; né disse parola durante la cena. Egli era mortificato di vederla così. La superstizione che, rivelando la storia del fazzoletto, questo avrebbe perduto la sua benefica virtù, gli impediva di dirle: Sciocca! Che cosa sospetti? È il fazzoletto di mia madre! La risoluzione di star zitto, a ogni costo, non gli fece chiuder occhio durante la nottata. Non dormiva neppur lei. La sentiva voltare e rivoltare al suo fianco, sospirando, quasi fosse intervenuto un gran dissidio tra loro. Ed egli se ne stava immobile nel suo cantuccio, per paura di provocare una domanda alla quale forse non avrebbe saputo resistere. A un sussulto di sua moglie - l'orologio della chiesa vicina suonava malinconicamente i cento rintocchi alternati della mezzanotte - egli non stette più alle mosse: - Che cosa hai? Ti senti male? Sentendola singhiozzare, rinnovò premurosamente la domanda. Marina continuava a singhiozzare e a sussultare, voltata dalla parte del carrello. Sembrava che volesse frenare, soffocare i singhiozzi, per non farsi scorgere, e non riuscisse. - Ma che cosa hai? Rispondi.... - Che te n'importa? - ella balbettò. - Come, che me n'importa? - Ti sei forse degnato di darmi quella piccola soddisfazione? - Quale? - Quella di vedere che cosa c'è nella cassetta col vetro.... - Niente.... Un fazzoletto di cotone.... Un vecchio straccio - egli si corresse subito al brivido che gli avea fatto correre per la schiena la involontaria mezza rivelazione. - E ti è tanto caro.... quello straccio? - Straccio!... Ho detto così per significare che è un fazzoletto di pochi soldi.... Figurati! - E allora.... perchè non vuoi che si tocchi? Di chi era quel fazzoletto? - Di nessuno. Ne avevo parecchi in negozio, allora, i primi che vendevo meno del costo, per attirare avventori. L'ultimo rimastomi, quello là.... Ci voleva qualcosa per non far scorgere il vuoto della cassetta.... Lo avevo a portata di mano, e lo calai là dentro; e c'è rimasto.... Sarà, intignato a quest'ora.... - Vedi? Le parole ti escono a stento di bocca.... Non dici la verità.... Quel fazzoletto ti sta troppo a cuore. Chi te l'ha regalato?... Un'amante? - Oh? - Qualcuno che ti preme tuttavia, se non vuoi e calcò la voce sul vuoi - che nessuno lo tocchi. - Un'amante? Io? - Non fingere di ridere! - Ma rido davvero.... Via, non ne parliamo più. - Anzi! Anzi! Se t'immagini che ora io possa venire tranquillamente al negozio a reggere il moccolo al fazzoletto posto in adorazione sotto la Madonna, t'inganni! t'inganni! O via il fazzoletto.... o via io! - Marina!... Te ne prego: non ne parliamo più! - Ti costa molto dunque il dirmi: quel maledettissimo fazzoletto.... ma stracciamolo, bruciamolo perchè non ne rimanga neppure l'ombra. L'hai dunque proprio appiccicato al cuore? Stava per risponderle: - Sì, sì. Più che te, più che tutti, più che ogni cosa! - ma ebbe forza di ringoiarsi le parole. L'ostinazione di Marina era effetto, certamente, di un suggerimento del diavolo che voleva rovinarlo e farlo dannare. Il diavolo sapeva benissimo (che cosa non sa il diavolo?) che la fortuna di lui stava strettamente legata a quel fazzoletto posto sotto la protezione della Madonna, e tentava di servirsi di Marina, come di Eva con Adamo nel Paradiso terrestre, per indurlo a tradire il segreto. Questa volta però il diavolo l'aveva sbagliata! Stette rannicchiato nel suo canto fino a che non vide i primi chiarori dell'alba a traverso la imposta socchiusa; e senza dire una parola si vestì, andò in cucina ad accendere il fuoco per scaldare caffè, ne portò una tazza alla moglie, posandogliela, zitto, sul comodino; e ripetendo internamente: - Questa volta, il diavolo l'ha sbagliata! - prese le chiavi del negozio e uscì di casa. Mai come quella mattina aveva sentito così viva l'ansietà, di rivedere il fazzoletto lassù, nella cassetta; mai, come quella mattina aveva emesso un così profondo respiro di soddisfazione nel ritrovarlo al suo posto!

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- È rimasta a casa. - Malata? - Di nervi, pare! - Lo dici in un modo!... Avete leticato? Perchè? - Per niente. - Siete due bambini.... Perchè? Il suocero insisteva, ma Giovanni, in risposta, alzava le spalle, seccato. Non era una bella vita quella che, da una settimana, sua moglie lo costringeva a passare. Doveva star inchiodato dietro il pancone dalla mattina alla sera senza poter allontanarsi dal negozio un solo minuto, neppure per combinar la compera di qualche partita di mandorle. Non si fidava dei mediatori; voleva veder tutto coi suoi occhi; vedere, e toccare con mano era stato sempre il suo sistema, e se n'era trovato sempre bene.... Ed ora.... - Perchè? Perchè? Andate a domandarglielo con la vostra bocca! Quando certe donne si mettono in testa qualcosa.... - Mia figlia non è di coteste! - Già mi date torto anticipatamente. - Spetta all'uomo usar prudenza.... Insomma, parla: di che cosa si tratta? Giovanni glielo spiegò in due parole. - Quel fazzoletto è là, da anni, da che misi su lo scaffale. Che impaccio le dà?... E fa la gelosa! - E tu prendilo e buttalo via! Giovanni gli diè tale occhiataccia che il suocero strizzò gli occhi per guardarlo meglio in viso. - Marina - poi disse - ha ragione di sospettare e di essere gelosa.... Perchè ti ostini a voler tenerlo lassù? Fosse reliquia benedetta! - Capriccio, bizzarria, stupidaggine, tutto quel che volete. Ma lassù non ci deve metter le mani nessuno! Nessuno! S'irritava, quasi si sentisse insidiato, quasi scorgesse attorno a lui le fila di una congiura per abbattere la sua prosperità, raggiunta con tanto lavoro, tanti stenti, tanti sacrifizi, con tanta onestà sopratutto. Non aveva fatto male a nessuno, eppure sapeva di aver molti invidiosi, molti nemici che avrebbero gongolato di gioia se i suoi affari, finalmente, fossero andati male. Lo invidiavano perchè, grazie alla Madonna e al fazzoletto di sua madre, non aveva mai sbagliato la minima speculazione. Di lui dicevano: Se mettesse acqua nel lume, invece di petrolio, l'acqua arderebbe ugualmente. - Ed era quasi vero! Ma non aggiungevano mai ch'egli non barava nel peso e nella misura, come loro! Non aggiungevano ch'egli non ingannava la clientela per la qualità delle merci, come loro! Di quel che dicevano gli altri, anche per screditarlo, egli non si era mai curato nè si curava. Il vedere però che ora l'insidia, il pericolo gli veniva da sua moglie e dal suocero che dava ragione alla figlia, gli faceva perder la calma. Ah! Se quel fazzoletto fosse stato un fazzoletto qualunque.... Ma era quello di sua madre, quello della buona fortuna stracciarlo, buttarlo via, bruciarlo, disperderne le ceneri per dare una stupida soddisfazione a sua moglie, sarebbe stata tale infamia!... Gli sarebbe parso di dissotterrare la sua povera morta e profanarne le ossa.... E più sua moglie e suo suocero si incaponivano a vedere in quel fazzoletto un ricordo di amore - aveva egli mai avuto tempo di pensare all'amore? - più egli diventava duro, intrattabile su questo punto. Così, soltanto così poteva spuntarla! E infatti si lusingò di averla spuntata. Due giorni dopo, Marina riapparve nel negozio accompagnata dal padre. Entrò, salutò, si tolse lo scialle e cominciò, come se nulla fosse stato, a servire gli avventori che attendevano. Giovanni non era svelto nei movimenti; pareva che riflettesse su ogni cosa, quasi avesse sempre paura di sbagliare. Marina, invece, sbrigava gli avventori in un batter d'occhio; prendeva la moneta, rendeva il resto con un sorriso, con una buona parola, con un motto scherzoso; e gli avventori andavano via contenti, senza accorgersi che quella buona parola, quel sorriso, quel motto eran costati grammi o centimetri di meno secondo la merce. Giovanni se n'era accorto una volta, e l'aveva, ammonita: - No, non sta bene. Ci vuol coscienza nel vendere.... - Il po' di meno che do io va pel più che dài tu. A loro non fa niente; ma tanti più e tanti meno, messi insieme, per noi fanno una somma. E quella volta Giovanni aveva avuto rimorso di aver riso alle parole della moglie, che gli aveva picchiato carezzevolmente su la spalla, ripetendo le parole: - fanno una somma - quasi per avvertirlo di pesarle bene. Marina intanto evitava fin di guardare lassù, in cima allo scaffale di fondo; in casa ciarlava, rideva al suo solito; o mai più, mai più una lontana allusione a quel che era accaduto tra loro settimane addietro. Nei primi giorni, Giovanni l'aveva osservata con un po' di diffidenza, messo in guardia dall'improvviso rabbonimento di lei. Poi aveva pensato che suo suocero doveva aver fatto una bella paternale alla figlia; e si era messo il cuore in pace. Quella mattina erano venuti insieme al negozio; e Giovanni, nell'aprire la porta, aveva sentito più forte l'ansietà di accertarsi che il fazzoletto fosse al suo posto, e più forte la soddisfazione di ritrovarlo colà! Cosa strana! Gli era però rimasto nel cuore un senso di pena, sottile sottile, un che di irrequieto e di smanioso che stava per fargli mandare a monte la compra di una grossa partita di mandorle amare. Il mediatore aveva insistito: - Non ve la lasciate scappar di mano, mastro Giovanni! Così era andato a veder la merce nel magazzino della vecchia signora Campanazzo, non a torto soprannominata Ciaula perchè ciarlava peggio di una cornacchia e quando cominciava non finiva più. Giovanni, due o tre volte, aveva fatto cenno di licenziarsi; l'affare era già concluso e la caparra consegnata per mano di mediatore; ma quella vera ciaula aveva voluto intrattenerlo con le confidenze dei guai di casa sua: un fratello dissipatore; la cognata con le braccia cionche; due nepoti uno più scavezzacollo dell'altro! Senza di lei, la casa sarebbe già sossopra da un pezzo. Faceva quel che poteva. Avrebbe dovuto infilarsi i calzoni.... ma!... - Due ore e mezzo! - esclamò Giovanni guardando l'orologio e affrettando il passo per arrivar più presto al negozio. - Due ore e mezzo, sì; ma avrete il guadagno di almeno tre cento lire, a dir poco! Giovanni crollò la testa alle parole del mediatore. Ogni volta che concludeva un affare, egli sentiva in fondo al cuore un battito di lieto presentimento che lo assicurava della buona riuscita. Quel giorno invece tornava al negozio ancora sotto la impressione di quel sottile senso di pena, di quella irrequietezza, e nessun battito lieto gli si era mosso in fondo al cuore. Il negozio rigurgitava di avventori. Pareva che si fossero dati la posta per trovarsi colà nell'assenza di lui. - Credevo che non tornassi più! - gli disse Marina. Egli non rispose e si diè a servire gli avventori che mostravano di aver più fretta degli altri. Badate! La Madonna sta per cascar giù. Alle parole e al gesto di quella ragazzina, Giovanni si voltò così rapidamente che urtò Marina, intenta a cavar lo zucchero da un cassetto. E appena vide.... diè un urlo, a cui seguì l'urlo di Marina sentitasi afferrare, di dietro, pel collo da due mani convulse che tentavano di soffocarla. Le donne e i ragazzi che erano presenti si misero a gridare, e un giovane operaio scavalcò il pancone, per strappar la moglie dalle granfie del marito! Pallido, con gli occhi sbarrati, con la fronte imperlata da fredde gocce di sudore, le labbra e la lingua così aride da non poter pronunziare una parola, Giovanni si era rovesciato sur una seggiola, coprendosi il capo con le mani, quasi avesse paura che la vôlta del negozio stesse per crollargli addosso. Poi scattò, coi pugni tesi verso Marina piangente, ritta in un angolo, tra due donne che la confortavano, trattenuto appena dal giovane operaio che cercava di calmarlo. - II fazzoletto! Il fazzoletto! - balbettava. - Dove lo hai buttato il fazzoletto? - Mastro Giovanili! Eh, via! Non mi sembrate più voi !... Per un fazzoletto.... Eh via! - Scellerata!... Tu non sai che danno hai fatto!... Dove lo hai buttato? - egli continuava a balbettare, coi pugni tesi e gli occhi sbarrati. - E diteglielo dove lo avete nascosto! Non lo fate irritare di più! - soggiunse rivolto a Marina, il giovane che non capiva come mai per un fazzoletto potesse esser nata tanta lite. - Il fazzoletto?... L'ho stracciato! rispose Marina, con mossa di sfida, asciugandosi il viso, e cessando di piangere.

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Pentita di quel che aveva fatto, essa lo mandava a pregare il marito perchè le perdonasse; non le reggeva l'animo di andar a buttarsegli ai piedi, temendo d'irritarlo di più. - Infine, quel che è stato è stato! Non si rimedia la colpa. La colpa è un po' tua; devi convenirne. Se tu avessi soltanto accennato!... Peggio di una femminuccia! Capisco; era il fazzoletto di tua madre. Ma credere che la tua fortuna stesse legata a quel quadrato di cotone stampato, via!... Capisco. Il cuore di un figlio.... Tua madre, che è in paradiso, sa però com'è accaduto. Ti proteggerà lo stesso, vedrai! - Ah! vedrete, vedranno che rovina! - rispondeva Giovanni. Non trovava modo di consolarsi. Poteva intanto tener chiuso negozio? E la mattina che andò a riaprirlo accompagnato dal suocero, alla vista del quadretto della Madonna rimasto penzolante lassù in cima allo scaffale, ebbe una gran stretta al cuore e scoppiò in singhiozzi. Neppure a farlo apposta! Chi si presentava, primo avventore, quella mattina? Il cavalier Mazza, più agghindato e più ritinto del solito. Aveva saputo anche lui la storia del fazzoletto; non si era parlato di altro in quei due giorni in paese. - È dunque vero? Caro mio, quasi quasi ti do ragione. Sono un po' superstizioso pure io, come tutti i giocatori a carte. Eh, sì, caro Parlato! Voi fate il bello spirito.... Ma certe cose non si spiegano; c'è l'influsso; buono o cattivo, ma c'è! Altro se c'è!... Caffè e zucchero, l'unico vizio che mi rimane!... Caffè mezzo chilo; zucchero un chilo, mi bastano per un mese. Mando a prenderli io.... Faremo tutto un conto.... Poi, sai com'è? Come uno la prende. Se ci si mette in testa.... Bisogna reagire contro il cattivo influsso, fortemente. Intorno a questo, caro Parlato, sono d'accordo con voi. Reagire. Sicuro.... Dei due pacchetti, fanne uno solo, legalo: - Bravo! Così! - In casa devo tener lo zucchero sotto chiave; la mia vecchia serva golosa per tutto quel che è dolce.... Hai dunque inteso? Reagire! Reagire! Ci rivedremo presto! - E questo è il primo guadagno! - esclamò tristamente Giovanni. Era inutile confortarlo con bello parole; si sentiva troncate le braccia e, più che le braccia, la volontà. Aveva perdonato la moglle, che gli stava attorno umile, dimessa, e non osava più di toccar niente, di spostar niente nel negozio, quasi il contatto delle sue mani potesse arrecare peggior danno alle merci; ma tutti e due sembravano sotto l'oppressione di un incubo, dell'attesa di qualcosa di fatale contro cui non c'era coraggio nè potere umano che bastassero. Al primo lunedì di ogni mese, Marina - di nascosto del marito - per espiazione, digiunava, faceva celebrar messe in suffragio dell'anima della morta ed elargiva elemosine. Si scorgeva però benissimo che la morta non voleva placarsi. Nel primo mese, la trita (cioè le mandorle sgusciate) aveva fatto un gran crollo nel mercato di Catania. Rimaneva invenduta nel magazzino del sensale, si seccava, perdeva peso e qualità.... Marina, alla notizia, si era messa a piangere, quasi fosse stata lei la cagione del ribasso. - Non è niente, - le diceva il marito. - In commercio così; si guadagna qua, si perde là: c'è sempre compenso. Ma dal tono della voce si capiva che egli era poco convinto di quel che diceva. Non aveva più fiducia in se stesso; non sentiva più dietro di sè la mano affettuosa, che lo spingeva avanti, che lo tratteneva in tempo allorchè stava per intraprendere un buono o un cattivo affare. - Non è niente! Non è niente! E pareva che dicesse o intendesse di dire: - Il peggio verrà dopo! Intanto non voleva dare, agli invidiosi, a coloro che sarebbero stati felici se avessero potuto vederlo, com'egli diceva, a chieder l'elemosina, povero in canna, non voleva dare la soddisfazione di farsi vedere accorato, scoraggiato. E siccome l'allegria non gli veniva dal cuore, le parole che avrebbero voluto essere allegre, prendevano, senza ch'egli se ne accorgesse, un accento di strana tristezza. Marina alzava gli occhi ogni volta e lo fissava. - L'hai ancora con me? - Non l'ho con nessuno, nè con te, nè con me! Se mai.... - Con chi dunque? - Con la mia stella! - Son io la tua cattiva stella! Non lo disse più vedendo che, ogni volta ch'egli parlava della sua cattiva stella, gli occhi di Marina si riempivano di lacrime. A poco a poco gli entrava anzi nel cuore una gentile tenerezza per lei, quasi egli cominciasse ora ad amarla davvero; tutta la tristezza voleva tenersela chiusa dentro di sè. Si sforzava di convincersi che, infine, l'idea che, sparito il fazzoletto di sua madre, fosse sparita anche la sua fortuna, infine quell'idea poteva essere benissimo una superstizione da femminucce, come diceva suo suocero. Gli affari, sì, non prosperavano come prima, ma li trascurava lui, li lasciava correre lui; non lottava più contro la concorrenza di quei due altri merciai venuti su l'anno avanti e che facevano ogni sforzo per rubargli gli avventori. Reagire! Reagire! Il cavalier Mazza, che non pagava, che ricompariva di tanto in tanto, col suo famoso: Ci rivedremo! - e non si faceva vedere mai - il cavalier Mazza, aveva ragione. Reagire! Ma di lì a poco lo scoraggiamento io riafferrava. I capitali che teneva in cassa non osava più di toccarli; li serbava per ogni possibile caso di disgrazia. La merce presa a credito, a scadenze lunghe, perchè i negozianti avevano fiducia in lui, non fruttava però come una volta. Si era anche lasciato lusingare da merci di qualità, scadenti, di minor prezzo, e ch'egli voleva vendere come al solito, quasi coloro che comperavano non dovessero accorgersi della differenza. E così gli avventori andavano diradando, specie i galantuomini, i civili; i quali trovavano più comodo prendere a credito dagli altri due merciai, che non pagando in contanti da colui ch'era rimasto per loro il figlio della Acconciapèntole. Egli non aveva quindi buona opinione dei galantuomini, un po', forse, anche per risentimento di quell'appellativo, un po' perchè con loro non poteva servirsi d'una citazione presso il giudice conciliatore o il pretore; con loro bisognava usar quei riguardi che con la gente bassa - ed era un'ingiustizia! - non occorre vano. Bastava la minaccia d'una citazione. E aveva intrapreso a vendere a credenza, scrivendo sul libro di cassa esiti e introiti; più esiti che introiti; ma non voleva dire.... Gli avventori riaffluirono. - Siete contento, mastro Giovanni? - gli dicevano. - La maestra vi darà presto un bel figlio! Egli sorrideva e si voltava a guardare sua moglie che non ostante la gravidanza avanzata, voleva assistere nel negozio quantunque non potesse affaticarsi molto, e dovesse passar la giornata seduta presso la porta, perchè dietro il pancone sentiva mancarsi l'aria. Aveva il ventre enorme, e tutti i lineamenti tumefatti, e sedeva là, orgogliosa della propria maternità, che marito e moglie interpretavano come grazia e perdono della Morta, e lieto augurio per l'avvenire. Dopo mezzogiorno, essi facevano un po' di colazione nel retro bottega; in quell'ora gli avventori erano rari. Quel giorno si erano appena seduti, ed egli aveva cominciato a sgusciare un uovo sodo, quando due ragazzi del vicinato lo chiamarono: - Mastro Giovanni! Mastro Giovanni! Erano venuti di corsa per avvertirlo: - Non avete chiuso la porta di casa! Trasalì, afferrò il cappello e scappò via, dicendo alla moglie: - Torno sùbito. E dietro il furto, l'aborto di Marina! Del furto delle sette mila lire non si era saputo più niente, quasi si fossero evaporate dalla cassetta del cassettone. Un ragazzino aveva visto uscire dalla porta un uomo alto barbuto, col cappello su gli occhi, vestito di nero; ma non aveva saputo dire altro. I sospetti eran caduti su un tale che poi li aveva giustificati, spendendo e spandendo, e facendo correr la voce di una vincita al lotto. Alto, barbuto, vestito di nero.... Ma le prove? Sette mila llre! Tutta la sua ricchezza accumulata con tanti stenti in trent'anni! Giovanni si sentiva ammattire; e intanto doveva fingere per la povera Marina che alla notizia del furto, si era sentita staccar qualcosa dentro dalla schiena, e stava da sei giorni tra la vita e la morte. Si sentiva ammattire pensando alle prossime scadenze, ai crediti che difficilmente potevano essere incassati per sodisfarli.... E poi volevano convincerlo che la storia del fazzoletto di sua madre era superstizione da femminucce! Come non credere che la sua buona fortuna consisteva proprio là, in quel fazzoletto, se dopo.... se da allora in poi i suoi affari erano andati sempre più, sempre più a rotta di collo? Non si indignava contro la disgraziata che si lamentava, si lamentava, col busto appoggiato su una pila di guanciali, pallida, con gli occhi infossati, con le labbra livide, e che ardeva di sete, smaniando. Povera creatura! Era stata tentata dal demonio, come Eva. E avea scontato e scontava la sua debolezza di un momento!... - Superstizione da femminucce! Superstizione da femminucce! E in certi giorni la disperazione del fallimento intravisto lo spingeva a bestemmiare: - Madre mia! Come siete stata crudele, Madre mia!

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Era tornato alla villetta a capo chino, con le mani dietro la schiena, col cuore pieno di compassione per quei due a cui l'ignoranza, e la miseria impedivano di comprendere il male che facevano; ruminando progetti per collocare la ragazza in qualche onesta famiglia; e anche di maritarla con Tinu Mèndola, che forse le voleva bene ancora, quantunque, a quel che pareva, dopo le minacce dello Storto, non fosse più andato a cantarle le canzoni, di notte, con l'organetto portato tornando dal servizio militare. Lo conosceva; non era cattivo giovane. Lavorava a giornata, qua e là, quando trovava da lavorare. Era vero: si sarebbero sposati la Fame con l'Appetito. E appena sarebbero sopravvenuti i figliuoli.... Ah, Signore! - La povera gente, quasi per compensarsi, si sfoga a metter al mondo più figliuoli dei ricchi e a popolarlo di miserabili che poi finiscono male, e non sempre per cattiveria! Ah, Signore! Con un po'di cuore e un po'di buona volontà, i ricchi potrebbero riparare molti guai! Ma anche essi hanno i loro! - Egli, che poi non era tanto ricco, s'ingegnava alla meglio di aiutare il prossimo.... Non era tanto facile, lo sapeva per prova. Ora doveva prepararsi a combattere con un nemico nuovo, col cavaliere Ferro, che se la sarebbe presa contro di lui, vedendo attraversati i suoi tristi disegni su la ragazza. La trovò affacciata alla finestra - don Pietro aveva chiuso la porta a chiave andando via - con le braccia sul davanzale, con la persona sporta in fuori, a discorrere col garzone, che strigliava la mula legata per la cavezza a un anello di ferro infisso al muro. Rideva e rideva anche il garzone, che le ripeteva di tratto in tratto: - Dico bene, gnà Trisuzza? Tacquero tutt'e due appena si accorsero dell'arrivo del padrone. E lui che si era immaginato di doverla ritrovare tuttavia con le lagrime agli occhi! Beata giovinezza! Dimentica e si consola subito. - È giovata la predica allo Storto? O gli è entrata da un orecchio e gli uscita dall'altro? - domandò il garzone. - Prepara la mula per me e l'asina per lei, - rispose don Pietro, accennando con gli occhi la ragazza. E salì su. Trisuzza gli venne incontro nell'anticamera. Don Pietro scosse la testa per significare che aveva fatto un buco nell'acqua. - Non vi perdete d'animo - soggiunse. - Ci sono tante vie aperte nel mondo. Tutto sta nell'indovinare a infilar la più corta. E un'ora dopo erano in cammino per Ràbbato: lui avanti, su la mina; lei dietro, seduta di fianco sul basto dell'asina. Il garzone, a piedi, con una verghetta stimolava l'asina, che avrebbe voluto andare col suo solito passo di lumaca, scotendo le orecchie cascanti. Donna Ortensia, la vecchia domestica di don Pietro, spalancò tanto d'occhi vedendoli arrivare e poi salire su insieme; e credette di aver capito male allorché il padrone le disse: - La metterete a dormire nell'altro lettino in camera vostra, per pochi giorni. Le troveremo un servizio. Poi vi dirò.... Poi vi dirò.... Donna Ortensia - portava il donna perchè figlia di un sarto a cui il don non aveva impedito di andar a morire all'ospedale - più che domestica, era da vent'anni la padrona di quella casa; e per ciò, con tutto il rispetto, con tutta la venerazione per quel sant'uomo del padrone - lo chiamava così parlandone con gli altri - si permetteva di sgridarlo ogni volta che gli vedeva commettere qualcuno di quegli spropositi di eccessiva carità ehe spesso lo mettevano in gravi imbarazzi. Il bello era che poi, imitando il padrone, eommetteva anche lei gli stessi spropositi di buon cuore e senza dirgliene niente, interpretandone, a modo di lei, le intenzioni. E quando i nodi venivano al pettine, e il grano del magazzino era volato via, e il vino della dispensa pure, e l'olio della cantina pure, e i quattrini egualmente, lo sgridato era sempre quel sant'uomo, che un giorno o l'altro sarebbe stato costretto a chiedere l'elemosina lui invece di farla. - Arriveremo a questo, vedrete, voscenza! - Via, zitta! Il Signore provvederà. E infatti aceadeva, proprio allora, che qualcuno si ricordasse di dover pagargli un vecchio debito, ehe un gabellotto venisse a saldargli un anno di gabella arretrata. Don Pietro, tutto contento, mostrava il denaro a donna Ortensia, glielo contava e ricontava sotto gli occhi per farle intendere che non bisognava mai dubitare della divina Provvidenza! Ma nei giorni in eui la divina Provvidenza non si rieordava di provvedere in tempo, e donna Ortensia capiva che il padrone aveva dovuto fare un imbroglio per procurarsi un po'di denaro - imbroglio per lei significava prestito - la buona donna, con la voce piena di pianto, gli andava gridando dietro per le stanze: - Peggio che chiedere l'elemosina! L'avevo predetto e ci siamo arrivati! Il Signore avrebbe dovuto rendermi bugiarda! - soggiungeva, quasi la sua previsione fosse stata una jettatura. Per questo, vedendola spalancar gli occhi alla vista della figlia dello Storto, don Pietro le aveva ripetuto all'ultimo, con intonazione da rabbonirla: - Poi vi dirò.... Poi vi dirò.... Trisuzza, impacciata, con la mantellina in testa, aspettava che donna Ortensia le accennasse di mettersi in libertà e le ordinasse qualcosa da fare. Ma la vecchia sembrava essersi appena accorta di lei e di non gradirne molto la presenza in casa. Aveva tratto in disparte don Pietro, verso la vetrata del balcone e parlava a voce bassa, più coi gesti che con le parole: - È venuta una delle monache cappuccinelle.... Donna Ortensia, senza cattiva intenzione, si atteggiava com'essa, con le braccia in croce sul petto, la testa inchinata da lato e gli occhi bassi: - Per la consorella ammalata. Ne imitava anche la voce, pronunziando le parole a labbra strette. - Niente! Che cosa potevo darle? A stento una bottiglia di vino; gli ultimi sgoccioli del caratello. Don Pietro approvava. - Era venuto anche il sagrestano di San Cosimo, per le torce del triduo.... Una settimana avanti! Perchè? E l'ho rimandato a mani vuote. Ho fatto male? Don Pietro approvava, quantunque, infine.... - Ho fatto male? - No.... Volevo soltanto avvertirvi che quella ragazza.... - Prima fanno i pasticci o poi vengono da voscenza per.... - Ma no, ma no! Nessun pasticcio, poverina.... Vi dirò dopo. Volevo soltanto avvertirvi di adoprarla in qualche faccenda, perché non si annoi stando in ozio. - Questo soltanto mancava a voscenza, questo di mettervi a fare l'impiega-serve! - Tutti i mestieri, se c'è un po'di bene da fare! Don Pietro Sbano sorrise; e, rivolto a Trisuzza, disse: - Ora vo fuori per voi. M'è venuta una buona idea....

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Fino a che si era trattato di non spendere nulla, la signora Li 'Nguanti non solamente non avea fiatato, ma aveva preso parte attiva all'agitazione elettorale in favore di suo marito. Lo avrebbe visto volentieri assessore e anche sindaco; perchè no? Quei cosi del Municipio valevano forse meglio di lui? Suo marito, il cavaliere, come ella Io chiamava parlando con certe persone, era galantuomo provato e aveva le mani nette. Non si poteva dire altrettanto di tutti quei signori. E poi, essere assessoressa o sindachessa non le sarebbe dispiaciuto, per far arrabbiare quella malcreata della moglie del sindaco che una volta si era permessa di dire del signor Li 'Nguanti: Cavaliere di che? Ah! Chi lo aveva fatto cavaliere? Ma c'era nato, e non erano occorsi decreti reali per dirsi tale!... Sicuro, del sindaco, marito della screanzata, non si poteva dire Carrettiere per caso; era figlio di carrettiere e si vedeva. E.... e.... Quando entrava in quest'argomento, la signora Li 'Nguanti non la finiva più. Per ciò nell'ultima lotta elettorale ella era andata di qua e di là di giorno e anche di notte, convinta che le donne in certe occasioni valgono meglio degli uomini. Ora però che si trattava di buttar via quattrini a palate, la questione diventava un'altra. - Siete ammattito? - ella gridava al cavaliere. - Non sapete che farvene, se li spendete così? - Zitta! - rispondeva il cavaliere dignitosamente. - Zitta un corno! Lo vedo io quel che si sciupa in questa casa da che vi è saltata in testa la maledettissima idea del Fascio. - Zitta! - Perchè vi suonano le trombe? Bella cosa! Ma quando si tratta di sganasciare, pane, vino, salami, formaggio, tutto deve uscire di qui!... Il notaio Pitarra e gli altri non si scomodano. - Viva il cavaliere! - E il Fascio.... Dio non voglia!.. farà andare questa casa a catafascio! Già, non è il Fascio l'abitazione vostra? Mattina e sera là. Credete che ve ne saranno grati? Alle elezioni vi aspetto! Il cavaliere la lasciava dire. - Benedette donne! Vogliono metter becco in tutto e non capiscono nulla! - E queste trombe che rompono i timpani alla gente, non potreste farle tacere? Il padre di Vincenzino non ne può più; vi manda tanti accidenti quante volte suonano.... Ci volevano appunto le trombe per irritarlo peggio! E vedrete che il matrimonio di vostra figlia, a cagione anche delle trombe, andrà per aria! - Il padre di Vincenzino è un asino. Ora gli dànno noia le trombe! Si turi le orecchiaccie, si turi! Scuso, pretesti. C'erano forse le trombe quando ha votato contro di me? E anche il signor Vincenzino.... - Si è astenuto! Il cavaliere, appena si toccava questo tasto, tagliava corto. Quel matrimonio della figliuola rimasto in asso un po' per questioni d'interessi ma più per dispetti elettorali, gli era una spina al cuore. Ormai non se ne poteva ragionare, finchè le cose duravano così; ed era inutile pensarci. La ragazza, che aveva più intelligenza della mamma, non ne parlava mai, povera figliuola! Ma l'anno prossimo.... dopo le elezioni!... E perciò il cavaliere si era dato anima e corpo al Fascio, al suo Fascio, che infatti non veniva chiamato dei Reduci, ma il Fascio del cavaliere. Egli aveva instituito anche la scuola serale domenicale, pei soci che non sapevano leggere e scrivere. Metà dei reduci erano già iscritti nella lista e, secondo lui, facevano fare cattivi sogni ai signori del Municipio. Ah?... Le trombe davano noia? Ma sarebbero state le trombe del giudizio universale, in luglio, il giorno delle elezioni! E con l'immaginazione egli si vedeva alla testa del suo piccolo esercito, che correva a votare a suon di trombe, come a un assalto.... E sbaraglio! Intanto, marce domenicali, e scampagnate e vino e pane e capretti al forno, e noci e fichi secchi, per tenere allegro e ben compatto il Fascio, con gran disperazione di donna Beatrice che se la prendeva anche con Cipolla, quando veniva a dirle: - Dice il signor cavaliere che il pane lo comprerà da Severino. Il vino, di quello della botte piccola lo battezzerò io, padrona mia! E siccome scendeva in cantina lui, non lo battezzava affatto. - Andate a farvi benedire tutti! - esclamò donna Beatrice, quantunque, ora che le elezioni erano vicine, sbraitasse meno. Voleva star a vedere! Uno spettacolo, quel giorno! Le trombe del Fascio dei Reduci parevano davvero le trombe del giudizio finale, andando attorno per le vie del paese sin dalle prime ore del mattino: tatà taratatà! E così tutta la giornata, e la sera, dopo la vittoria del cavaliere, fino a tarda notte, come se il paesetto fosse stato preso di assalto. - Viva il cavaliere! Viva il cavaliere! - E tatà taratatà!

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Pensate a vostra figlia piuttosto. Don Mimmo volle fare l'assessore davvero. Poteva servire due padroni? E dovette per forza trascurare il Fascio. Cipolla n'era dispiacente più di tutti. Non più marce, non più scampagnate e il cavaliere spesso spesso ora lo mandava in campagna a lavorare come prima. I Reduci borbottavano: Come? Ancora focatico? Ancora dazio di consumo? Il cavaliere aveva promesso che entrando in Consiglio avrebbe detto, avrebbe fatto! E che cosa diceva? Niente. E che cosa faceva? Peggio degli altri. Ora si era messo a perseguitare la povera gente con la scusa che avevano usurpato qualche palmo delle strade comunali di campagna! Perchè non cominciava dai galantuomini? E c'era il Bracco che soffiava nel fuoco. Il Bracco si era iscritto nel Fascio da pochi mesi, appena tornato dal reggimento, e parlava come un libro stampato col lei, col mica, col ciao, e bestemmiava alla toscana, alla piemontese, alla romana, da far rizzare i capelli. Raccontava, a quattr'occhi, ora in questo, ora in quel crocchio, che a Palermo stavano per fare il comunismo e dividersi le terre e i quattrini dei signori tanto per uno, com'era giustizia. - Domineddio ci ha fatti tutti eguali; perchè i ricchi debbono mangiare come porci e noi morire di fame? Giustizia? Non ce n'è; dobbiamo farcela con le nostre mani. Fascio dei Reduci, Circolo degli Agricoltori, Circolo degli Operai avevano fraternizzato dopo che il cavaliere era entrato a far parte della Giunta Comunale. E il Bracco, che aveva poco da lavorare col suo mestiere di sellaio, passava le giornate nei locali del Fascio e dei Circoli, a fumare, a sputacchiare, a far prediche ascoltate meglio di un predicatore, perchè col predicatore non si discorre e con lui si poteva chiedere schiarimenti, fare obbiezioni, e gridargli bravo, quando esclamava, col rinforzo di una bestemmia della sue: - Faremo il comunismo anche noi! Fascio? Circoli? - ripeteva ironico. - Ma li hanno messi su per comodo loro, per avere i voti. Che cosa siamo? Pecore? Schiavi? I consiglieri dovremmo esser noi, non loro. Ora, avete inteso? aggravano il dazio di consumo. Dicono: "Ci vogliono quattrini!...,, Ma che cosa ne fanno? Si bevono il sangue di noi poveretti!... Faremo il comunismo! Dapprima lo avevano ascoltato con diffidenza, quasi con terrore ma ora aveva fatto scuola, e Cipolla si era legato con lui, e soffiava, sottomano, anche lui nel fuoco del malumore che covava, covava, e già mandava fuori un po' di fumo. Il cavaliere se n'accorse la sera che, dopo tanto tempo, volle fare una delle sue solite conferenze nel locale del Fascio. Correvano attorno voci paurose, minacciose. I contadini facevano capannelli nella Piazza Grande, e quando il sindaco passava tra i crocchi, non si cavavano più il berretto per salutarlo, non si voltavano nemmeno; e le trombe non erano più là pronte agli ordini del Cipolla per fare il saluto reale al cavaliere, che passava davanti al Fascio, senza fermarsi, andando al Municipio anche lui. Cipolla soltanto gli faceva il saluto militare, per abitudine; Cipolla che pensava notte e giorno al pezzo di terreno che gli sarebbe toccato in sorte, quando avrebbero fatto il comunismo o la repubblica, che per lui volevano dire la stessa cosa. Il cavaliere dunque quella sera si trovò davanti a una trentina di persone, scarso uditorio, e non tutte del Fascio, ma del Circolo degli Agricoltori e dei Circolo degli Operai, venuti colà più per curiosità che per altro. Voleva appunto parlare di quelle voci paurose e minacciose, ma ebbe la sorpresa di sentirsi interrompere dal Bracco: - Non vogliamo più dazii! E tutti e trenta gli uditori erano scoppiati a parlare assieme, facendo una gran confusione, senza nessun rispetto dell'oratore che avea dovuto abbassarsi a discutere con loro. - Non più dazii? È presto detto! Ma.... - Non vogliamo più dazii! Il cavaliere, indignato, avea risposto: - Il Municipio saprà fare il suo dovere! Ed era andato via. Neppur Cipolla lo aveva accompagnato fino a casa.

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Ma, appena varcato il portone, la scala mal tenuta cominciava a dare un'idea dello stato di abbandono dell'edifizio caduto in mano di parecchi creditori del duca. Non avendo potuto mettersi d'accordo per spartirselo, essi vi tenevano un amministratore unicamente per esigere i fitti dei piani, senza mai farvi le più necessarie riparazioni. A una parete esterna del bugigattolo del portone stava affissato, da anni, il cartello con la scritta: Da vendere, in grosse lettere perchè desse nell'occhio anche dei passanti. Il portiere però, che sonnecchiava colà tutta la giornata, aggobbito sur una seggiolaccia, non aveva mai visto entrare qualcuno che mostrasse curiosità di visitare il palazzo con l'intenzione di comprarlo. E così esso prendeva sempre più l'aspetto di un edificio pieno di malinconia, dove potevano rifugiarsi soltanto persone disgraziate che volevano nascondere in quegli stanzoni, sformati da tramezzi e da accoltellati, la loro modesta esistenza. Il primo piano, diviso in tre appartamenti, era occupato da un sarto scarso di clienti, e dalle famiglie di un barbiere e di un cappellaio che avevano le botteghe ai due lati del portone. Il Salone egiziano dell'uno non giustificava affatto il pomposo titolo della tabella e la dozzina di cappelli a cencio, lavati, smacchiati e messi ad asciugare al sole nelle forme, indicava a che cosa si riduceva il mestiere dell'altro. Al piano nobile, la pensione Garacci, senza tabella, senza nessun altro segno che la indicasse, teneva spalancata notte e giorno la porta dell'anticamera, per comodo dei pensionati, la maggior parte impiegati, professori, pretori, giudici di tribunale e anche Commessi viaggiatori. I tre usci, uno di faccia e due ai lati, avrebbero dovuto restare sempre chiusi in ossequio della scritta incollata accanto al cordoncino del campanello e che raccomandava quella precauzione ai pensionanti sbadati. Dovevano essercene parecchi di questi sbadati, perchè ogni volta che io andavo a trovare il mio vecchio professore di filosofia teoretica nel buco, com'egli filosoficamente lo chiamava, dove la signora Garacci lo aveva relegato, in fondo a un corridoio buio, stretto ingombro di bauli e di arnesi smessi, trovavo l'uscio socchiuso, e spesso potevo inoltrarmi fino in fondo senza incontrare la sudicia donna di servizio che avrebbe dovuto fare la pulizia della camera.

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Ed io esitavo ad inoltrarmi nel gran disordine di quel pauroso buco, tutto ingombro di libri, di riviste, di opuscoli, di giornali accatastati alla rinfusa sul tavolino, su le seggiole, per terra, e talvolta anche sul letto, quando il professore avea dovuto consultare uno di quei volumi o di quei fascicoli così difficili a ritrovare nell'incredibile confusione in cui eran tenuti. Gli avevo detto una volta: - Se vuole, li riordino io. Già, dovrebbe farsi dare un armadio, uno scaffale dalla padrona di casa. - Dove metterli qui? - rispose. - Ci si raggira a stento. Cercare un'altra camera altrove? No, no! Ho orrore degli sgomberi. E poi non sarei filosofo se non prendessi il mondo come è. Le altre pensioni, caro mio, sono peggio. Qui si sta male, si mangia malissimo, ma almeno si vive tra gente per bene. Da questa parte un pretore; dall'altra un impiegato contabile della dogana, che la notte russa come un orso e non mi fa dormire; durante la giornata però non mi disturba nessuno. Il pretore si alza alle otto, si lava rumorosamente, canta da tenore o da baritono, non so, facendo la sua toeletta; alle nove e mezzo va via, e ritorna a casa soltanto la sera. L'impiegato doganale rientra dopo mezzanotte. È vero che prima di andare a letto si soffia regolarmente dieci, venti volte di sèguito iI naso, con variazioni da trombone: è vero che appena entrato in letto comincia a russare.... ma, ormai, mi sono abituato. E quelle soffiate di naso così regolari, così numerose mi divertono anzi, le attendo, le conto e ne prendo nota su questo taccuino, per farne la statistica. In tre mesi, mille e ottocentosessantanove!... Non è occupazione da filosofo? Caro mio, i filosofi devono occuparsi di tutto. Nessun particolare umano, fisico o morale, è da disdegnarsi.... Infatti quelle metodiche soffiate di naso mi hanno spinto a studiare la psicologia di certe abitudini. Ne ho già scritto due capitoli. Quest'ingombro di libri però dà alla donna il pretesto di una pulizia molto sommaria. - Rifà il letto, muta l'acqua nella catinella, spazza.... Mi basta. Ha ordine di non rimuovere niente per non guastarmi il disordine.... che per me non è tale. Sì, la camera è nuda, senza tende, senza un quadro alle pareti, senza un ninnolo. È quel che ci vuole per un filosofo, caro mio. Le cose esterne distraggono l'attenzione, impediscono di meditare. Per ciò io mi circondo, studiando, di una gran nuvola di fumo di pipa che mi toglie fin la vista delle pareti e mi dà l'idea dello spazio infinito. E son vissuto quasi sempre così, sin dalla infanzia, in buchi come questo, spesso più tristi di questo, senza aria, senza luce.... E sono arrivato a sessantasei anni, forte, sano, rassegnato alla mia sorte, con pochi bisogni e nessun capriccio; spiritualizzato più che voi, mio caro, non arrivate a immaginare, un po' per necessità, un po' per deliberata elezione. La filosofia, riguardo a certi bisogni civili, è un magnifico sopprimente; elimina della nostra vita la donna, la gran nemica. Voi non potete capirlo. Avete studiato filosofia, come avreste studiato teologia, o medicina, o letteratura, unicamente per prendere una laurea qualsiasi, fare un bel concorso e ottenere una cattedra. Non vi biasimo, non dico che abbiate avuto torto operando così. La scelta fa onore alla vostra intelligenza; siete uno dei miei migliori discepoli, anzi l'unico; non vi adulo. Ma, se la filosofia vi è entrata un po' nella mente, non vi ha ancora invasato tutto. Voi potete fare tant'altre cose che con la filosofia hanno poco o niente da vedere. Io, no; non posso far altro che arzigogolare, come dicono i burloni, e frullare l'astratto. Potrei affermare che il mondo non esiste per me, tanto sono scarsi i miei bisogni che mi fanno accorgere della sua realtà. Neppure il mondo s' accorge di me? Che me n'importa!... E così, dunque, la vostra carica a fondo contro la filosofia positiva, a che stato si trova? Filosofia.... positiva! Quasi la filosofia potesse essere altra cosa!... Quasi non fosse la cosa più positiva del mondo! Quasi.... Io andavo a trovarlo appunto per godermi le sue improvvisazioni, che spesso valevano più delle sue lezioni all'Università davanti a tre, quattro, cinque studenti, non sempre gli stessi, che lo mettevano di malumore più per mancato rispetto alla scienza che per offeso amor proprio di professore.

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. - E la signorina non ha voluto essere aiutata neppure nel mettere a posto ogni cosa.... Caro mio, per parecchi giorni non mi sono raccapezzato con tutto quest'ordine, con tutta questa pulizia. Mi sembrava che non avrei più potuto concentrarmi, riflettere.... Il fumo della pipa si disperdeva in alto, non riusciva ad avvolgermi più e a darmi l'illusione dello spazio infinito.... E ancora.... ancora, se dovessi dirvi.... Ma il mondo bisogna prenderlo com'è; mi abituerò anche a questa luce, a quest'ordine; mi sono abituato a tante altre cose! Io sono animale molto accomodativo, finisco con adattarmi alle circostanze più repugnanti. E qui si tratta di circostanze piacevoli, gradevoli.... C'è un grave inconveniente in tutto questo.... Laggiù, nel mio buco non vedevo nessuno, eccetto la donna, per mezz'ora, quando veniva a rifare la camera. Qui, invece, la vicinanza con le stanze dove abitano la padrona e la figlia, mi procura un'assidua sorveglianza benevolissima ma che talvolta mi dà fastidio. Mentre sto ad accapigliarmi con una pagina del Kant, ecco la signora Garacci che viene a mutare lei stessa gli asciugamani, e che mi mette a parte delle sue preoccupazioni di vedova per sbarcare il lunario, per l'avvenire della unica figlia rimastale in casa - due altre le ha già collocate e bene. E, più tardi, ecco la signorina per ispezionare il servizio della donna. È inutile che io mi dichiari soddisfattissimo; la signorina trova sempre, qualcosa che la donna ha trascurato di fare.... E rassetta le seggiole, le poltrone; e spolvera, e mi mette a parte anche lei delle sue pene per via della mamma che non è mai contenta di niente, che la contraria nei suoi disegni, che l'avversa, che non si sa che cosa pretenda da lei.... E il Kant resta aperto sul tavolino, e la pipa si spegne, perchè mi sono accorto che l'odore o il puzzo, dice lei, del tabacco le dà fastidio.... - Piccoli inconvenienti, - risposi. - Ora qui sta benone. Mi accade, parecchie volte, di trovare in camera del professore madre e figlia Garacci, istallate sul divano, in confidenziale conversazione: o la madre sola, con qualcosa in mano che le avea dato pretesto di disturbare il professore, o la figlia sola che rassettava le carte sul tavolino e ripuliva il tappeto verdognolo tutto schizzato di macchie di cera dal professore che viveva tra le nuvole, beato lui! - Badiamo professore! - gli dicevo scherzando. Egli alzava le spalle, socchiudendo gli occhi con una mossa negativa della testa. - Badiamo, professore! La gran nemica è penetrata dentro la fortezza!...

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Seppi, dopo, che la signora Garacci aveva ripetuto due volte il giochetto e le era riuscito a maraviglia. Seppi che i pensionanti chiamavano quella camera: la camera dei condannati a morte. Chi vi era entrato scapolo, di rado non ne era uscito marito, finchè la vedova Garacci aveva figlie da collocare; il pericolo era quasi inevitabile per le persone di una certa età. E c'era cascato, ultimo, il povero professore! La pensione era sossopra. Capannelli di estranei attorno al portiere che raccontava il fatto ai curiosi, con comenti provocatori di risate. Passai oltre; e per le scale, nei pianerottoli, gruppi di pensionanti (li conoscevo di vista) che discutevano calorosamente e ridevano anch'essi.... E l'uscio della camera numero nove aperto, e la camera piena di gente di questura, di carabinieri, e tra essi, seduto in angolo, abbattuto un po', il professore. Di faccia, spettinata, in un abbigliamento molto mattinale, con uno scialletto grigio su le spalle, la vedova Garacci e dietro a lei, col viso tra le mani, piangente, la signorina. Quando mi affacciai a l'uscio, dietro le spalle dei due carabinieri, il funzionario di pubblica sicurezza, terminava di scrivere, e presentava il foglio al professore perché ne prendesse visione e lo firmasse. Il professore firmò senza leggere. E allora il funzionario, si alzò da sedere, piegò in quattro il foglio e se lo mise in tasca, dicendo: - Sono contento che tutto sia accomodato senza chiasso e senza scandalo. Quando si ha da fare con persone per bene! Si accostò alla signorina, la prese per una mano, fe' cenno alla madre di precederli, e, dietro a loro, andarono via tutti. - Che cosa le è accaduto, professore! Oh, Dio! Mi guardò, scrollò il capo, con un triste sorriso su le labbra. - Niente, caro mio! Non c'è altro di mutato nel mondo all'infuori di questo: la vedova Garacci si è costituita.... mia suocera! - Suocera? - Che volete? Le ho sedotto la figlia.... minorenne; ho abusato dell'ospitalità.... ho perpetrato non so che altro, da fare accorrere la questura, i carabinieri, tanta gente quanta non ne ho mai vista in camera mia.... Quando si ha da fare con persone per bene - ha detto così il delegato o questore che sia - lo avete udito. E appunto, perchè sono disgraziatamente persona per bene, ho dovuto affermare che la signorina era stata indotta a venire in camera mia in ore indebite, dove è stata sorpresa dalla madre; dove siamo stati sorpresi, caro mio, dalla questura fatta accorrere in gran fretta. Sono stato capace di tutto questo; mi son lasciato cogliere in flagrante.... Voi non l'avreste mai supposto, mai sospettato, caro mio!... E così, e così, eccomi futuro genero della vedova Garacci!... Imparento bene a quel che paro, con un alto funzionario di non so che ramo amministrativo, con un colonnello di linea, che, a quel che pare, hanno avuto la stessa mia debolezza, anni fa, uno appresso all'altro con due altre figlie della vedova.... - Ma lei è caduto in un tranello! Bisogna protestare.... Lei.... - Che! Che! Non voglio impicci, non voglio noie. Ormai! Nella filosofia, nel sistema, entra anche la fatalità, diciamo meglio l'accidente, il caso.... Non possiamo eliminarlo. E questa volta il caso è una signorina non brutta, nè gobba, nè sciocca, per fortuna. Disgraziata! Poteva sceglier meglio e lasciarmi in pace. Ma ha, preso a volermi bene perchè, ella afferma, sono tanto buono, tanto buono! Una signorina neppure ventenne che vuol bene a un vecchio! Si dà anche questo, specialmente oggi. Oh! Mi par di fare un gran tradimento alla filosofia; ma essa è indulgente perchè comprende tutto. - Sicchè lei soffrirà in pace questa specie di ricatto! - Ormai! Ormai! Non aggiunse altro; e accese la pipa.

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A lui la polizia non dava noia perchè lo sapeva innocuo, quantunque fosse andato ad arruolarsi nel battaglione dei Corsi e avesse combattuto contro gli svizzeri nell'assalto di Catania. Soltanto una volta quel capo birro di don Giovanni lo aveva afferrato pel mento e tra minaccioso e irrisorio, gli aveva detto: - Questi peli, compare Croce, questi peli!... - Se avessi due grani mi farei radere, - aveva egli risposto tranquillamente, soggiungendo in cuor suo: - Ti raderò io, birraccio, quando faremo l'altra rivoluzione; voglio succhiarmi il tuo sangue! Pensava giorno e notte a quest' altra rivoluzione, ma non ne parlava mai con nessuno. E la rivoluzione, per lui, consisteva tutta nell'abolizione del macinato e del colèra. Che il colèra fosse buttato dai birri, per ordine di Ferdinando II, egli lo credeva più del Vangelo; e gli pareva una grande scelleratezza avvelenare tanti cristiani battezzati per diradare la popolazione e così impedire le rivolte! Perchè Sua Maestà non aboliva il macinato? Invece ora aveva scatenato addosso alla povera gente quei mastini dei Pesatori, affinché non sfuggisse al dazio neppure un pugno di grano! Si doveva dunque crepar di farne? O aspettare di essere mietuti dal colèra? Per ciò in un momento di entusiasmo, nel quarantotto, s'era lasciato trascinare ad arruolarsi il giorno della partenza di una decina di giovanotti con a capo Don Pietro il capitano, venuto a posta per far reclute. Vistili scendere dal poggio, cantando a squarciagola, gridando: - Viva Pio IX! Viva la Costituzione! - si era avvicinato al viottolo per curiosità; interrompendo il solco nel terreno che arava dall'alba per conto del padrone, e seguito dal pecoro addestrato ad andargli dietro come un cagnolino. - Vieni anche tu, - gli gridò il capitano, - se poi non vuoi morire di colèra! E lo zi' Croce, che allora aveva trent'anni, non se lo fece dire due volte. - Aspettate; torno sùbito, - rispose. E corse alla casetta lassù, dove sua moglie preparava una buona minestra di fave sul focolare posticcio, davanti a la porta. - Ti raccomando il pecoro! - Perché? - Vado soldato. La poveretta si mise a strillare e a piangere, e gli corse dietro per la china, insieme col pecoro che le ruzzava tra le gambe e le impediva i passi. E lo segui fino a Catania, strappandosi i capelli, credendolo ammattito tutt'a un tratto, scongiurando il capitano di non portarle via il marito per condurlo al macello. E noi, al macello non andiamo pure noi? Ma degli altri non le importava; e bisognò proprio farle violenza, davanti a la caserma, e strapparla d'addosso allo zi' Croce, che ormai, data la sua parola, non voleva recedere. - Ti raccomando il pecoro! Non aveva aggiunto altro, quando era ricomparso al portone della caserma, infagottato nei pantaloni militari e nel cappotto, col cinturino di cuoio, con la daga al fianco e il chepì troppo largo che gli scendeva su gli occhi. La vita di soldato, nel battaglione detto dei Corsi, non gli era parsa cattiva. Per lui, abituato ai lavori campestri, quelle poche ore d'esercizi riuscivano un divertimento, non una fatica e il rancio aveva miglior gusto delle fave e dell'erbe selvatiche, lessate e condite con un po' di sale e d'olio, che egli mangiava a casa sua. Non bazzicando per le taverne, come quasi tutti i compagni, non fumando, non correndo dietro a le donnacce, e facendo il suo dovere di sentinella quando gli toccava, la paga settimanale egli poteva metterla intera da parte. Durante le lunghe ore d'ozio, si sdraiava al sole nel cortile della caserma e fantasticava della moglie, poverina, a cui i pochi tarì, che egli le mandava di tanto in tanto, dovevano arrivare come un refrigerio alle anime sante del purgatorio; e fantasticava del pecoro, che doveva correre di qua e di là per la campagna, chiamandolo invano coi belati, povero pecoro! E ogni volta che ricorreva dal caporale perchè gli scrivesse una lettera per la moglie, il caporale lo canzonava: - Debbo mettere: Ti raccomando il pecoro? - Eccellenza, sì. Gli dava dell'Eccellenza, com'egli usava con le persone da più di lui, quantunque il capitano lo avesse sgridato: - Stupido, l'Eccellenza è abolito! Si dice: Sì, caporale. Sarebbe stato felice senza quella forca d'Ingo, il leprino, suo compaesano, che gli stava sempre attorno: - Prestatemi quattro grani, zi' Croce; prestatemi un carlino, un tarì! Diceva: prestatemi, ma non rendeva mai. - E della vostra paga che ne fate? - rispondeva lo zi' Croce. - Non mi basta neppure per la pipa! Intanto voi ci avete la tacca. Che valeva che lo zi' Croce ci avesse la tacca, dove segnava di mano in mano i tarì, poichè non sapeva scrivere, se il leprino si fumava e si beveva la paga sua e quella di lui? Ma per non sentirlo bestemmiare peggio d'un turco, spesso egli veniva a patti: - Vi do cinque grani; non ho altro. - Gli altri cinque me li darete domani, per fare il carlino. Quasi glieli dovesse! Ed era inutile nasconderli in seno, avvolti in uno straccio di pezzuola. Se lo zi' Croce teneva un po' duro, giurando anche che non aveva, neppure un grano, quel leprinaccio lo frugava tutto, bestemmiando Dio, la Madonna, i Santi del Paradiso: - Tanto, se gli svizzeri ci ammazzano, se li prenderanno loro, zi' Pecoro! Soleva chiamarlo così. In caserma già si parlava degli svizzeri del Borbone che stavano per sbarcare a Messina. Le cose si mettevano male. Ordini e contr'ordini, marce di notte su per la Montagna, allarmi. Lo zi' Croce si raccomandava a Dio e a Santa Agrippina, patrona del suo paese; e ripuliva il fucile e contava le cartucce che gli avevano consegnato. - Ora si balla, zi' Pecoro! Messina è presa! - gli disse Ingo una mattina. - E per strappargli più facilmente qualche tarì, aggiunse: - Nella mischia, tenetevi sempre accanto a me, caso mai! E si ballò davvero, da lì a qualche giorno, prima tra i boschi dell'Etna, poi al Tondo del Gioieni, con quei diavoli scatenati degli svizzeri che bruciavano le case come niente fosse, rompendo contro i muri certe bottiglie piene di un liquido che prendeva subito fuoco. Il povero zi' Croce aveva sparato una diecina di colpi, appostato a una cantonata delle prime case di Catania, lassù. E tra una fucilata e l' altra, si era raccomandata l'anima, atterrito degli svizzeri che non avevano paura di morire perchè - gli avevano detto così - erano sicuri di rinascere subito al loro paese, e non credevano ne in Dio nè nella Madonna. - Zi' Pecoro, fuoco! - gli urlava il leprino, che tirava come un demonio. - Sant'Agrippina! E lo zi' Pecoro sparava senza saper dove, tra il fumo, abbassando la testa a ogni fischio di palla. Ed ecco, dai fianchi, cannonate, fucilate! E uno sbandarsi improvviso: gente che scappa quasi impazzita, urli, bestemmie, uomini che cadono come mosche, e il leprino, sanguinante, che grida: - Zi' Croce, fratello mio, non mi abbandonate! Essere scampati vivi da quell'inferno gli era parso un miracolo. - Zi' Croce, fratello mio, non mi abbandonate! Il leprino aveva una palla nella coscia; e lo zi' Croce ora lo reggeva col braccio, ora lo prendeva su le spalle; così si erano trovati alla riva del Fiume Grande, tra una gran calca di fuggiaschi, con un immane ingombro di carri, di carrozze, di animali, e uomini, donne, vecchi, fanciulli, d'ogni condizione, tutti col terrore del massacro in viso, tutti con gli occhi rivolti verso Catania che bruciava e fumava sinistramente nella notte serena, lontano, quasi l'Etna, squarciati i suoi fianchi, riversasse sulla città fiumi di lava.

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Infatti don Pietro, il capitano, se ne stava chiuso in casa sua, prigioniero volontario, e passeggiava su e giù per la terrazza a testa bassa, con le braccia dietro la schiena, raso, senza un pelo su la faccia, perchè la polizia gli aveva imposto così. Lo zi' Croce però, in campagna, s'era lasciato crescere la barba; i birri dovevano venire fin là e condurre con loro il barbiere, se avevano paura dei peli di lui! Intanto, le poche volte che egli si era avventurato in città, l'aveva passata liscia. La rivoluzione era finita da un pezzo, non se ne fiatava nemmeno; ma la testa dello zi' Croce lavorava, lavorava, componendo certe poesie, con versi o troppo lunghi o troppo corti, e immagini così oscure che non ne avrebbe cavato il senso egli stesso sempre un'aquila forte che sfidava il leone; sempre draghi e serpenti, seguìti da fulmini e da tempeste, finchè non arrivava, all'ultimo, Santa Agrippina, con in pugno la croce e il braccio levato in alto per disperdere i saraceni, come nel gran quadro dipinto su la volta della bella chiesa della santa: Santa Irpina ccu la cruci 'n manu La negghia si squagghiau e pirìu lu saracinu! La nebbia si sciolse, e il saraceno perì! Quel saraceno, si capiva, significava il Borbone. E canticchiava le sue canzoni, con voce stonata, facendo tornare i versi sbagliati con la scorta della melodia, mangiandosi mezze le sillabe, intanto che scatenava il terreno sodo a colpi di zappa, o reggeva con una mano l'aratro e coll'altra il pugnolo per aizzare i buoi lenti, nella lieta solitudine della campagna. - Zi' Croce, che cosa cantate? - gli domandavano i vicini. - Canzoni di sdegno. E per lui erano tali davvero. Gli anni passavano senza novità, ma egli sperava sempre. Le domeniche, tornando al Paese per la santa messa, andava a sedersi sul muricciuolo del viale fuori Porta, di faccia alla terrazza dove don Pietro passeggiava su e giù con la testa bassa e le mani dietro la schiena, ma ora con tanto di barba perchè la polizia non badava più ai peli. Ed egli guardava quel volontario prigioniero, aspettando che gli facesse un cenno di saluto, nient'altro cenno che lo Croce interpretava a modo suo, perchè don Pietro, il capitano, rappresentava agli occhi di lui la rivoluzione in persona. - Quello lì, sì, quello solo era un uomo! E dopo di essere stato un paio d'ore a guardarlo andare su e giù, con la testa bassa e le mani dietro la schiena, egli tornava in campagna consolato, col cuore riboccante di speranza, quasi che con quel cenno di saluto don Pietro gli avesse assicurato: - La rivoluzione? Domani. Dal colèra del cinquantacinque egli era scampato per caso. I birri erano venuti, nella notte, a spargergli la maledetta polvere bianca davanti a la porta di casa. Ma dal letto, egli aveva udito i loro passi cautelosi e aveva udito borbottare non so che parole. Chi poteva andare attorno a quell'ora, all'infuori dei birri che avevano il contraveleno? E aveva svegliato sua moglie: - Rosa, Rosa, hai sentito! Buttano il colèra! - Ah, Vergine santissima! - Zitta! Sapevano che dovevo andare, all'alba, in campagna. E il giorno dopo raccontava il caso ai vicini, che ascoltavano spaventati. Aveva visto i birri dal buco della serratura, dove era incollato un vetro per impedire l'accesso all'aria infetta e poter spiare; e aveva visto la polverina bianca bianca, che gl'infami spargevano con un soffietto, imbavagliati fino agli occhi per non prendere essi il veleno. E raccontando credeva proprio di aver visto i birri imbavagliati e la polvere bianca bianca e il soffietto. Pruff! Pruff! Due sbruffettini! E se, per disgrazia, egli avesse posto il piede fuori la soglia prima del levarsi del sole, a quell'ora già sarebbe stato laggiù, nel carnaio dei Cappuccini! Gli veniva la pelle d'oca. Ma dunque non ci pensavano più alla rivozione? E una sera, molto tardi, andò a picchiare alla porta di don Pietro. - Capitate a proposito! Don Pietro lo condusse in uno stanzino, in fondo in fondo. Ci si vedeva appena con quel lumicino. - Questa lettera, in Catania, al tal dei tali. Mi fido soltanto di voi. Lo troverete nella farmacia Borello. Direte queste precise parole: "Mi manda vostro compare„. Avete capito? - Mi manda vostro compare. Non chiese spiegazioni; andò, portò la risposta: ripartì, ritornò. E una sera finalmente don Pietro gli confidò: - Quelli del Comitato Segreto sono di là. Lo zi' Croce si prese tra il police e l'indice le labbra e le tenne strette un momento; voleva dire: Silenzio di tomba! E riprese a cantare le sue strambe canzoni. - Zi' Croce, che cosa cantate? - Canzoni di amore! E bisognava vederlo la mattina che il Comitato affisso il gran proclama della rivoluzione, accanto al quale lo zi' Croce si appostò col fucile in ispalla, come quando aveva fatto da sentinella davanti la caserma del battaglione dei Corsi, nel quarantotto, a Catania. - Chi ruba, fucilato! - egli ripeteva ai contadini che stavano a guardare diffidenti e balordi. - È scritto qui, se non sapete leggere. E stiè in sentinella fino a tardi, serio serio, impettito, quasi la rivoluzione l'avesse fatta lui. E non pensava più ai birri che gli avevano buttato la polverina bianca bianca davanti a la porta di casa; anzi la mattina che don Pietro e gli altri del Comitato condussero in piazza quei poveri birri, smorti e tremanti, per dire al popolo: - Chi gli torce un capello, va fucilato; - lo zi' Croce si sentì intenerire, ed esclamò: - Poveretti! Erano comandati. Che cosa potevano fare? E partì di nuovo per arruolarsi con Garibaldi, e di nuovo disse alla moglie: - Ti raccomando il pecoro! Questa volta sua moglie non strillò, lo lasciò andare, rimpiangendo il bel fazzoletto di seta rosso che Croce si era annodato al collo, col pizzo dietro, da vero garibaldino. Brontolò soltanto: - Ora siete vecchio; che andate a fare? Infatti, dagli stenti e dal lavoro, egli pareva più vecchio che non fosse, bruciato dal sole, tutto rughe e coi capelli brizzolati. Era capitato a Messina il giorno dell'entrata di Garibaldi, dopo la battaglia di Milazzo e si era inginocchiato, a capo scoperto, come davanti al Santissimo Sacramento, mentre il Generale passava a cavallo col gran mantello bianco su la camicia rossa, bello e biondo, tutto Gesù Cristo. E non aveva potuto frenare le lagrime di commozione che gli velavano gli occhi. Ma anche lì, in caserma, c'era con lui quel maledetto leprino dell'Ingo che non lo lasciava tranquillo: - Prestatemi due palanche, zi' Pecoro! Tornava a chiamarlo così, insistente, importuno, insaziabile; oggi due, domani quattro palanche, quasi egli fosse stato il cassiere di lui, che poi andava a ubbriacarsi per le taverne dei vicoli e avrebbe voluto trascinarlo con sè. E diè oggi due, domani quattro palanche, finchè un giorno non gli vide commettere un sacrilegio che lo fece inorridite. Il leprino lo avea fermato davanti a una bettola: - Datemi due soldi; mi son giocato il rancio e l'ho perduto; due soldi perchè mi compri un panino. Non ci veggo dalla fame. - Due soldi di pane, sì; ma niente vino. - E un soldo di formaggio! - No! - Allora il mio companatico sarà questo! E lo scomunicato, che aveva già spaccato in due la pagnottella uscita allora allora dal forno, strappava, bestemmiando il Gesù bambino di cera appeso al muro sul banco, e schiacciatolo tra le due fette, si metteva ad addentare la pagnotta fumante da cui colava la cera sciolta. Da quel giorno, lo zi' Croce non aveva più dato un soldo al leprino.

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Questa volta lo zi' Croce era tornato a casa senza aver veduto neppure da lontano il fumo delle fucilate. Aveva preso le febbri tra i pantani del Faro, e Garibaldi era partito lasciandolo all'ospedale, quasi moribondo. Nuovo re, nuova legge. Per lui però il vero re non era Vittorio Emanuele, ma Garibaldi, anzi San Garibaldi come egli lo chiamava, scoprendosi il capo quando gli capitava di nominarlo. E andava a lavorare in camicia rossa, con la gamella a tracolla per la minestra di fave o di cicoria e per ciò gli altri contadini lo chiamavano zi' Gamella. Egli ci teneva a questo nomignolo. Loro erano rimasti a casa, quando egli, vecchio e acciaccato, era accorso al richiamo di San Garibaldi. E n'era stato compensato: aveva visto con quei suoi occhi, da vicino, il Generale col gran mantello bianco su la camicia rossa; poteva morire contento. Voleva pure un po' di bene a Vittorio Emanuele; tanto, che invece della barba intera, ora portava baffi e pizzo come lui, solo fra i contadini tutti sbarbati. Ma tra Vittorio, - egli lo chiamava famigliarmente così, - tra Vittorio e Garibaldi, oh, ci correva! E il giorno di san Giuseppe lo zi' Gamella, - se lo diceva da sè con un senso di orgoglio - non voleva mancare a far da sentinella al ritratto del Generale, appeso sotto al baldacchino e con le torce accese torno torno, mentre la banda musicale suonava l'inno. - Viva San Garibaldi l E qualcuno, irridendolo, gli rispondeva: - Viva lo zi' Gamella! Anche sua moglie gli diceva: - Non dite così; è peccato! Andate a confessarvi piuttosto, ora che s'avvicina la Santa Pasqua. Andò a confessarsi parecchi anni dopo, già malandato, curvo, coi reumi alle gambe, che gli rodevano le ossa. - Non posso assolvervi, - gli disse brusco brusco il confessore. - Perchè? - Avete spogliato il Santo Padre! - Se non lo conosco neppur di vista! E aveva dovuto andarsene senza assoluzione, perchè non aveva voluto rinnegare Garibaldi e Vittorio Emanuele. - Aveva spogliato il Santo Padre, lui, lui che non lo conosceva neppur di vista! - Non sapeva capacitarsene, stupito e nello stesso tempo spaventato di quell'accusa. - Senza assoluzione e senza il santo precetto? Doveva morire come un ebreo dunque, lui che era stato sempre un buon cristiano? Ma una sera, entrato nella chiesa della Mercede nell'ora della benedizione, vide in un angolo il canonico Bellinello che spacciava in fretta e furia i galantuomini accorsi a confessarsi da lui. Inginocchiato a pochi passi di distanza, lo sentiva brontolare: Avanti! Avanti! e poi gli vedeva alzare lo mano e fare il segno dell'assoluzione. - Come? - pensava lo zi' Gamella dando un' occhiata in giro, — quello lì è un marcio usuraio, ed è stato assolto! Quell'altro se la dice con la nipote che tiene in casa e dà scandalo a tutti; ed ecco assolto anche lui.... Ed io, che non conosco il Santo Padre, neppur di vista, io non posso essere assolto, col pretesto che l'ho spogliato! Ma di che l'ho spogliatoi E buttato a piè del canonico, cominciò da capo la sua confessione. - Avanti! Avanti! Quel prete non gli dava tempo di raccapezzarsi. All'ultimo, lo zi' Gamella, esitante, raccontò il caso occorsogli: - Avanti! — brontolò il canonico, tirando su una presa di tabacco. - Il poter temporale, figlio mio? Quistione di pagnotta. Avanti! Questione di pagnotta! Ego te absolvo in nomine.... E gli trinciò sul capo l'assoluzione.

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Lo chiamavano don Pietro il Gobbo, ma il gobbo veramente era stato suo padre che, pur avendo duo gobbe, una davanti e l'altra di dietro, aveva trovato una coraggiosissima donna la quale si era rassegnata a sposarlo e gli aveva regalato due figli diritti come fusi. Il nomigliolo però era rimasto appiccicato alla famiglia e probabilmente i d'Accurso saranno chiamati i Gobbi fino all'ultima generazione. Don Pietro d'Accurso, diceva la gente, non era gobbo ma meritava di esser tale. La gobba, aggiungevano, l'aveva nel cuore. In vita sua non aveva mai dato a un poveretto una buccia di fava, nè una stilla d'acqua, mai, mai! Se un poveretto andava a chiedergli l'elemosina e per intenerirlo gli diceva: - Da due giorni non metto niente dentro lo stomaco! - egli aveva la sfacciataggine di rispondergli: - Beato te, che puoi vivere due giorni senza mangiare! Io, vedi, ho fatto colazione due ore fa e già mi sento lo stomaco vuoto. A sentir lui, non c' era peggiore miseria di quella di esser ricchi. Quanti pensieri! Quanti grattacapi! E come invidiava quegli straccioni che non avevano un soldo in tasca, nè un palmo di terreno al sole, nè un tetto sotto cui ricoverarsi! Per loro non c'erano Esattori, nè Agenti delle Tasse, nè Ricevitori del Registro, nè focatico, nè dazio di consumo, nè ruoli di vetture! Essi potevano ridere allegramente in faccia al governo e alla morte, mentre lui, disgraziato! non rifiatava da mattina a sera, sempre in giro di qua e di là, per pagare, pagare, pagare; e, appena aveva finito, dovea ricominciare daccapo! Il Signore gli aveva caricato su le spalle questa pesantissima croce, e gli toccava di portarla, peggio di Gesù Cristo quando lo conducevano al Calvario. Il suo Calvario era il Puddàro, con gli uliveti che coprivano le colline, con le vigne da un lato, i vasti terreni seminativi dall'altro, fino a piè della Montagna, e il gran casamento nel centro, metà villa, metà masseria, con frantoio, per estrar l'olio, palmento, cantina, stalle pei buoi, rimesse per la paglia e pel fieno, e tanti e tanti altri impicci! Ah! Che non ci voleva pel raccolto delle ulive? Una ventina di bacchiatori, una cinquantina di raccoglitrici, e, più, dieci o dodici mangiapane che lavoravano, sì, giorno e notte nel frantoio, sporchi, unti di olio, ingialliti per la perdita del sonno, ma che però divoravano come lupi anche quando non avevano fame. Dove la mettevano quella robaccia indigesta che egli doveva far cucinare dalla massaia? Un mese e mezzo d'inferno! I coppi, è vero, si riempivano d'olio, ma gli toccava ogni volta scendere giù in cantina col pericolo di rompersi la noce del collo con quegli scalini sdruciti, e sorvegliare gli uomini perchè non sbagliassero nel versare l'olio di prima qualità in un coppo, e l'olio di sanza in un altro. Se non apriva tanto d'occhi lui, chi sa che pasticci gli avrebbero fatti! E così, alla fine, quei mangiapane si beccavano fazzolettate di pezzi da cinque lire, si ripulivano, si rivestivano a nuovo; e lui, poveretto, che aveva dormito appena due, tre ore ogni notte, per un mese e mezzo di fila, si sentiva tutto rotto, con la nausea dell'odor dell'olio nelle narici e nella gola.... E non era finita! Quel benedettissimo olio poteva restar in cantina, nei coppi? Bisognava venderlo. Ma prima!... Travasarlo due, tre volte, cavar la morga di fondo ai coppi, e poi attendere che il prezzo salisse, salisse!... Sicuro, attendere, mentre i poveretti, che ne avevano tre, quattro cafisi soltanto, se ne sbarazzavano sùbito e non ci pensavano più! E che discussioni, che còllere, nei giorni di vendita, con quei ladri dei misuratori che recavano la misura falsa e tenevano la spugna attorno al collo del cafiso, per farla impregnare di olio nel riempirlo col boccale! E che arrabbiature coi compratori più ladri di loro, che cercavano di appioppargli falsi pezzi di cinque lire nuovi fiammanti che lo avrebbero rovinato, se lui non avesse avuto la santa pazienza di osservarli bene, voltandoli e rivoltandoli e facendoli ballare sul marmo a uno a uno per sentirne il suono! Se li era proprio guadagnati sudando, arrabbiandosi, perdendoci la voce.... E da lì a due giorni dov'erano tutte quelle pile di pezzi da cinque lire? In mano dell'Esattore, dell'Agente delle Tasse, del Ricevitore del Registro! - Tu non hai queste seccature! - egli diceva a Cannizzu, povero diavolo che lo serviva come un cane, magro e allampanato tra tutto quel ben di Dio del suo padrone. - E voscenza dia ogni cosa a me! Così non avrà più seccature! - gli rispondeva ridendo Cannizzu. - Ti farei un bel regalo! Mi malediresti giorno e notte! Sta' zitto! Pensiamo alla semente piuttosto! Laggiù, al Puddàru, venti, trenta aratri, preparavano il terreno; e in paese, nel magazzino del grano, il crivellatore ripassava il farro, la timimia, la francese, l'orzo fra un nugolo di polvere che faceva tossire don Pietro, quasi stesse per sputar fuori i polmoni. Ma era quella la sua croce! Aver l'occhio a tutto, guardarsi di tutti, per non farsi spogliar vivo, ora che non c'era più moralità in questo mondo, e dei galantuomini si era già perso lo stampo. Era forse sicuro che tutto quel grano da sementa andasse tra i solchi aperti? Non poteva avere cento occhi, non poteva essere come Domineddio, presente in ogni luogo! Faceva quel che poteva; e si logorava la vita; ci perdeva la salute e l'appetito. - Beato te, Cannizzu! Pane e cipolla eh? Fai bocconi grossi! Io, intanto, so non ho un buon brodo di manzo, un po' di fritto, un po' di pesce, una bistecca o un pezzo di rosbiffe, un po' di cacio svizzero, e dolce e frutta e caffè...! Mi reggo in piedi così!... Ah se avessi il tuo stomaco di struzzo, che digerisce fino il ferro! E tu puoi bere anche quella specie di aceto, e leccartene i baffi. Io, invece.... miseria!... senza due dita di marsala, di moscato, di calabrese! I nostri vini mi riescono indigesti.... Mi tornano a gola.... Ci vuole pure un po' di Chianti, un po' di Bordò.... Miseria! Ma bisogna fare la volontà di Dio! Cannizzu qualche volta rispondeva: - La farei anch'io cotesta volontà di Dio! Don Pietro gli dava su la voce: - Bestia! Bestia! Pane e cipolla! Ringrazia Gesù Cristo che non ti ha dato altro! Guarda mio fratello. Non ha niente, e fa il signore. È guardia campestre; e va a cavallo da mattina a sera. Che cosa deve guardare? I caprai che conducono a pascolo le capre per le strade di campagne comunali! Non ha voluto fare mai nulla, si è giocato e mangiato e bevuto tutto il suo.... ed è felice! Ma siccome è più bestia di te, mi odia perchè non ho fatto come lui. Che colpa ci ho io? È stata la mia disgrazia. Ho fatto come la formica; tutto mi è andato bene, tutto mi va bene; se mettessi acqua nei lumi, credo che arderebbe come petrolio. Che colpa ci ho io?... E devo sfacchinare il giorno e pensare la notte; pensare a questo, a quello, a cento cose!... La testa mi va per aria.... E vorrei dormire il sonno pieno che dormi tu, sul tuo pagliericcio duro! Che vale che il mio letto abbia tre materasse di lana scelta, e morbide e ben sprimacciate? La testa mi va per aria! Mi rivolto di qua e di là.... Sì, sì!... Guai se dormissi come te, russando la grossa! Chi penserebbe alla mietitura, alla trebbia? Chi alla vendemmia? Rifiato forse? Tu ridi, bestione, quasi io dica delle sciocchezze.... Ed io ti dico che cambierei volontieri il tuo stato col mio! - Cambiamolo, Eccellenza! - Mi malediresti l'anima cento volte al giorno! - Ma, infine, da qui a cento anni, voscenza non si porterà tutto nell'altro mondo. Per chi lavora? - Lo so io? È la mia croce, non lo capisci? Ne godo forse di tutta questa ricchezza?... Perchè, tu lo sai bene, ce n'è grazia di Dio, ce n'è! Il magazzino del grano è pieno come un ovo; la cantina non ha una botte vuota; la dispensa ha quaranta coppi ricolmi fino all'orlo.... E poi, e poi!... Se ti dicessi quel che mi deve il barone Pitulla? Con belle ipoteche.... Eh! Eh!... Ma che vale? Lui se la spassa a Napoli, a Roma, a Torino, a Parigi con le donne.... Ed io sono stato a Roma, una volta sola, col pellegrinaggio, per vedere il Papa!... E se non tornavo sùbito, addio mietitura! Posso prendermi uno svago io?... Niente, niente! La mia croce è questa. Sia fatta la volontà di Dio! E don Pietro d'Accurso, detto il Gobbo, era invecchiato, mangiando bene, bevendo benissimo, grasso, roseo, tondo col suo eterno lamento su le labbra, predicando sempre che non c'è peggiore miseria di quella di esser ricchi; non facendo mai carità a nessuno, neppure a suo fratello che aveva otto figli e non sapeva come sfamarli col suo misero soldo di guardia campestre; dando da campare però a tante persone, pagando puntualmente tutti fino all'ultimo centesimo, mai però un centesimo di più, come neppure uno di meno. Egoista, sì, ma sincero nei suoi lamenti e nel suo aforismo prediletto: Non c'è peggiore miseria della ricchezza! E questo si vide benissimo nell'ultima sua malattia. Quando si accorse che l'ora sua era arrivata, mandò a chiamare il fratello: - Senti, Nanni; ti càpita una gran disgrazia: stai per diventare ricco, ricco assai. Il Signore abbia pietà di te. Pensa al funerale. Sarai costretto a spendere qualche migliaio di lire. Che vuoi farci? I quattrini sono là, in quel cassetto. I poveretti vanno all'altro mondo senza torce, nè preti, nè concerto; io sono ricco e debbo pensare a queste miserie anche in punto di morte!... Senti, Nanni: una bella cassa di noce scura, foderata di raso.... Ti costerà parecchio.... Ma che vuoi farci? Tu, se fossi morto guardia campestre, avresti dovuto contentarti della cassa del comune.... Te la saresti cavata, senza darti nessun pensiero, senza un soldo di spesa. Basta; io me ne vado. Mi dispiace di averti procurato questa disgrazia, questo gran guaio di lasciarti ricco.... Fa' la volontà di Dio, come l'ho fatta io!... Io vò a rendere i conti lassù!... Chi sa come andrà? Speriamo bene. Pensa a quel che ti ho detto di provvedere: cassa, funerale, concerto.... E.... spìcciati, spicciati.... Màndami qui il confessore!

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A Pietro Vetère, pigro ed egoista, non era passata neppure una volta pel capo la domanda: - Ma questa povera creatura, giovane e bella, non si annoia mai a star sola sola? Per dire la verità, la signora Dea non si annoiava, specialmente da tre mesi in qua. Infatti, appena andato via il marito, ecco il telegrafo che batte: tic-tac-tic-tac. - Libero?... - Libero. Erano segni convenzionali. E la striscia si svolgeva dalla ruota, accendendole in viso fiamme di piacere e facendole fiorire su le labbra un soavissimo sorriso. - Non dimenticare l'isolatore. - Siamo già isolati. E la lettera? - Impostata poco fa. Ho ricevuto la tua. Grazie e baci. - Che pena non poterci vedere, anzi, neppure conoscerci di persona! - Ci conosceremo presto. Ho chiesto un congedo di quindici giorni. - Verrai? Oh!... Facciamo male. Perchè non restare ignoti l'uno a l'altro? - Come? Ti sei già pentita? - No.... Ma.... a che scopo conoscerci? - Pel solo piacere di conoscerci. - Ho sempre terrore di qualche equivoco. - Per le lettere? - No. Penso al caso che mio marito.... - Lo capirei sùbito. Sta' tranquilla. - Attendi, un momento. Quella povera donna venuta a reclamare una lettera di suo figlio, ch'ella affermava dovesse essere arrivata dall'America, non intendeva ragione. L'altro, impaziente, picchiava tic-tac-tic-tac. Erano le ore in cui il telegrafo stava ordinariamente inoperoso. Ma non si poteva tener fermo l'isolatore troppo a lungo. - Tic-tac-tic-tac! Significava: Addio, a domani! E immediatamente altro rabbioso tic-tac! - Martello da un pezzo! Ho qui, da mezz'ora, un dispaccio da trasmettere. Non avete orecchio costì? Non faccio un rapporto per cortesia. - Eccomi. Durante la trascrizione, l'altro: tic-tac! Ella si affrettava a mettere l'isolatore. - Ho inteso, - diceva. - Che cosa pretende quel somaro?... - Zitto!... Più tardi. Da tre mesi la immaginazione della signora Dea lavorava, lavorava attorno quel sogno a occhi aperti, di cui ella, povera giovane, non capiva il pericolo. Quel corteggiatore era lontano una ventina di miglia; probabilmente non si sarebbero mai conosciuti di persona, ella pensava; e le conversazioni, riprese e interrotte durante la giornata, formavano l'unico svago della sua vita d'isolamento e di lavoro. Il marito.... Dio mio, si erano sposati per intromissione dei rispettivi parenti, senza sentimentalità, anzi senza amore. Il posto di Pietro Vètere, non rappresentava una gran fortuna, ma gia era qualcosa, un inizio, egli diceva, che gli faceva intravedere rapidi avanzamenti col trasloco in un ufficio del capo-provincia e, chi sa? aiutato dall'onorevole, in qualcuno della capitale. Giacchè Pietro Vetère, pigro nell'azione, diventava gran fantasticatore allorchè parlava dell'avvenire, e prendeva spesso per realtà i facili voli della sua mente burocratica, alimentati anche dalla ostinata fiducia nella quaterna ch'egli giocava al lotto, ogni settimana, da tre anni; unica cosa veramente ideale che illuminasse la sua vita postale e telegrafica. Marito e moglie si volevano quel tanto di bene che la comunanza comportava. E bisogna aggiungere che neppure sua moglie aveva altro ideale all' infuori della relativa, molto relativa, agiatezza che l'impiego poteva dare. Su questo punto si erano incontrati bene, e i loro giorni e i mesi e gli anni sarebbero trascorsi uniformi, grigi, senza scosse, poichè neppure la maternita era venuta a turbarli, se un giorno.... Ella ricordava benissimo quell'insidioso tic-tac con cui il lontano collega credeva di rivolgersi al collega per imbastire un po' di conversazione telegrafica, a dispetto del regolamento. Aveva dovuto rivelarsi perchè il collega faceva certe confidenze al creduto collega, alle quali ella non poteva dare risposta, per pudore. E da quella volta in poi, da una frase di scherzo all'altra, quegli era passato a parlarle sul serio, cautamente dapprima, e poi liberamente. - Siete bruna o bionda? - Che v'importa? - Se sapeste! il giorno fantastico per figurarmi come siete, e la notte vi sogno.... bionda, insistentemente. - Avete indovinato! - Ah!... Mi fa gran piacere. E voi? - Io? Niente. - Siete cattiva! Poi, quasi senza ch'essi se n'accorgessero, il voi si era cangiato in tu. E le frasi di amore si erano allineate su le strisce che la signora Dea strappava appena lette mentre si svolgevano dalla ruota. Alle strisce erano venute dietro le lettere. - Chi è questo Paolo Boni, fermo-in-posta?... - le aveva domandato una volta il marito, che per caso si era messo ad aiutarla nella distribuzione. - Che vuoi che ne sappia? Forse qualcuno che dovrà arrivare. E aveva dovuto voltarsi in là per non farsi scorgere; era diventata prima rossa rossa, poi pallida in viso. Così ella aveva provato le dolcezze dell'amore, che il breve fidanzamento e il matrimonio non le avevano dato. Quell'ignoto, lontano, che poteva parlarle quasi le venisse accanto invisibile per opera di magìa, si era impossessato del suo cuore forse, più che per altro, perchè lontano e invisibile quando le ripeteva le sue sempre più avvampanti frasi di amore. La onestà di lei non se ne sentiva offesa. Soltanto ora la minaccia di quel congedo e di quella visita la turbava profondamente. Tanto più che suo marito da qualche giorno in qua, non si moveva dall'ufficio e prendeva insolitamente parte ai lavori di distribuzione, di contabilità, di spedizione e recezione dei telegrammi; e lei si era figurata, tremante, che sospettasse e la sorvegliasse. Per miracolo ella aveva potuto sottrarre rapidamente dal mucchio della corrispondenza riversata sul tavolino una lettera al finto Paolo Boni, che l'aveva fatto sudar freddo. Ed ecco, tic-tac-tic-tac. Era la terza volta, in poche ore. E Pietro Vètere aveva risposto seccamente. - Che cosa avviene? Non avete altro da fare? - Scusate. Datemi l'ora; il mio orologio si fermato. Ella, mezza tramortita, avea dovuto andar di là a bere un sorso di acqua. Non le era bastato l'animo di domandare al marito: - Perchè più non vai a fare le famose partite a briscola? - La domanda poteva sembrargli insidiosa, e dargli maggior sospetto, se già davvero sospettava. Pietro Vètere, borbottando ancora, aveva aperto una lettera della Direzione provinciale. - Che? Sono impazziti?... Una multa. - Perché? - Per infrazioni al regolamento.... Sono impazziti? A me e al collega.... a quell'imbecille di poco fa. Conversazioni.... isolatore.... Risponderò per le rime! Intanto. E corse al tasto: tic-tac-tic-tac. - Una multa a voi e a me. Ne capite niente? - Dev'esserci uno sbaglio. - In che modo?... Protesterò.... - Caro collega, la colpa e un po' mia.... Vi spiegherò. La multa dovrei pagarla io.... e un altro.... La Direzione ha preso un equivoco. Abbiate pazienza. Pagherò io anche per conto vostro. Non accadrà più. Coi superiori si fa peggio tentando di scusarsi.... - Ma la multa?... - Qualche spia di collega.... Quella carogna.... - Chi? - M'intendo io. - E tu, - egli disse rivolto alla moglie, - tu non ti sei mai accorta di niente? - Hai inteso: l'isolatore.... Ormai.... giacchè pagherà lui.... - Non voglio elemosine da nessuno! - Che hai in questi giorni? Non ti si può dire una parola.... Hai dunque perduto troppo.... col farmacista? - Io? Io non perdo mai, per tua norma.... Ma con lui non giocherò più, mai più, mai più!... Bara!... Gli ho stracciato le carte in faccia. Nino Pace mi guardava le carte e gli faceva dei segni.... Me ne sono accorto.... Mai più, mai più, mai più!... Si erano interposti parecchi amici. Nino Pace aveva giurato che non era vero ch'egli facesse dei segni strizzando un occhio, arricciando il naso, stringendo le labbra.... per indicare gli assi, i tre, i re.... al farmacista.... Ma il terrore, ma le torture provate dalla signora Dea in quei giorni erano stati tali, che ella, tornata a restar sola nell'ufficio, non aveva avuto il coraggio di rispondere al tic-tac di colui neppure per dire: - Basta, smettiamo. Le venivano le lacrime agli occhi, a quell'invito persistente. Qualcosa ella sentiva morirsi nel cuore, un sogno, meno di un sogno, un po' di luce, un po' di profumo che dileguavano via dalla sua vita, dolorosamente, silenziosamente. E più tardi, ricordando, rassegnata, trasalendo a ogni tic-tac, le sembrava di esser vissuta soltanto in quei tre mesi e mezzo. Di così poco certe anime sono condannate a contentarsi!

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Da anni ed anni, ogni giorno, a ora fissa, verso le cinque pomeridiane, il notaio deponeva la penna, chiudeva nell' armadio atti, registri, minute, staccava dal chiodo infisso al muro la tuba, prendeva dall'angolo dell'anticamera, dove l'avea riposta entrando, la sua mazza di sorbo; e, scesi cautamente gli scalini sbocconcellati del suo Studio notarile, si fermava su la soglia della porta, col pomo della mazza sotto il mento, zufolando sommessamente in attesa dell'amico dottor Balocco. Poco dopo, puntualissimo, il dottore appariva dalla via della Spera, lungo lungo, magro magro, camminando come un palo che stenti a reggersi ritto, dando una spallata a destra ed una a sinistra, quasi non potesse altrimenti mettere in moto le gambe sottili. Allora il notaio si staccava dalla soglia avviandosi; il dottore gli veniva incontro; e messisi l'uno a fianco dell'altro, senza salutarsi, senza scambiare una sola parola - il notaio continuando a zufolare sommessamente la sua aria favorita, il dottore dondolandosi su le gambe sottili - partivano per la loro passeggiata fuori le mura, quasi fossero state due persone che andavano assieme per caso, senza badarsi, sovrappensiero, ognuna pei fatti suoi. Usciti fuori Porta Vecchia, infilavano il gran viale alberato a passi gravi e lenti, come si addiceva a persone serie e che non avevano fretta, il notaio non smettendo un istante il suo monotono zufolìo, il dottore svagandosi a buttar di lato, con la punta della sua canna d'India, i sassolini e gli sterpi che gli capitavano tra i piedi; e così percorrevano tutto lo stradone, girando torno torno il paese, fino ai forni di mattoni fumiganti iaggiù, sotto la spianata, che pareva una terrazza fatta a posta per godervi comodamente la vista dell'immenso e incantevole paesaggio. Ma nè il notaio nè il dottore si curavano mai di dargli un'occhiata; anzi gli voltavano le spalle, sedendosi sul muricciolo, l'uno continuando il sommesso monotono zufolìo — fìchiti-fon! fìchi-ti-fon - l'altro armeggiando coi sassolini e gli sterpi, o tracciando linee e ghirigori sul suolo polveroso, fino al momento che scattavano, tutti e due, quasi spinti da una molla. E tornavano addietro, a passi gravi e lenti, rifacendo la strada allo stesso modo, ripassando sotto gli alberi del gran viale, rientrando per la Porta Vecchia; e, arrivati al posto dove si erano incontrati un'ora avanti, si staccavano l'uno dall'altro, senza scambiarsi una parola, senza farsi un cenno di saluto; il notaio, per andar a chiudere le finestre e la porta del suo Studio e licenziare lo scrivano che l'attendeva; il dottore, per risalire la via della Spera e mettersi a sedere nella farmacia dello Storto, come chiamavano il farmacista, perchè aveva una gamba un po' storta e zoppicava. Nei giorni di pioggia, assai rari, il notaio ed il dottor Ballocco sembravano due anime in pena, coi nasi all'aria sotto gli ombrelli, davanti a la porta dello Studio notarile. Il notaio scendeva giù, quasi non si fosse accorto che pioveva, e stava ad aspettare il dottor Ballocco, che non tardava a spuntare dalla cantonata, con l'ombrello aperto, col solito passo, quasi non si fosse accorto della pioggia nemmeno lui. E tutti e due si fermavano accosto al muro, spiando il cielo, lanciando occhiatacce alle nuvole, scotendo la testa contro il cattivo tempo, che avrebbe potuto attendere almeno un'altra ora prima di rovesciarsi giù e guastare la loro passeggiata! Non dicevano una parola; s'intendevano con gli sguardi, con cenni del capo: - Spiove! - Non spiove! - Spiove I - E occhiatacce al cielo, e spallucciate d' indignazione contro la pioggia che non smetteva e minacciava di inzupparli. - Spiove! - Non spiove! - Spiove! - Poi, tutt'ad un tratto, il notaio chiudeva l'ombrello e si ficcava dentro la porta dello Studio notarile; e il dottor Ballocco si spiccava dal muro e andava via, balenando, quasi la pioggia gli avesse rammollite le gambe. Nè una parola, nè un saluto, come nelle passeggiate. Da qualche tempo in qua però le loro passeggiate non erano più assolutamente silenziose. Arrivato a un punto dello stradone, una sera, il notaio si era fermato per guardare in alto verso il ciglione a destra; e, dopo una muta contemplazione di qualche minuto (il dottore si era fermato pure lui, messo in curiosità dall'insolito caso) aveva esclamato con un sospiro: - Ecco quel che mi ci vorrebbe! - Che cosa? - aveva domandato il dottore. - Quella rovina là, quelle quattro mura crollanti, quello spazio! - Per che fare? - Per fabbricarmi una casa. Nella mia già stiamo come tante sardelle nel barile! - Sfido io! Con una moglie come quella! Ed il dottore, pronunciate queste parole con tutta la più acre sua ironia di scapolo impenitente, aveva ripreso la passeggiata, senza curarsi di vedere se l'amico lo seguiva. Alludeva alla straordinaria prolificità della signora Barreca, che tre volte di séguito avea fatto al marito il bel regalo di due figliuole alla volta, dopo altre due regalàtegli prima; e quando ella usciva di casa, pareva la chioccia coi pulclni, con quelle otto ragazze a canne d'organo, da Lisa, la maggiore, spilungona di quindici anni, a Rosina che avea tre anni ed era alta quanto una forma di cacio. Il dottore non sapeva perdonare al suo amico la corbelleria di aver preso moglie passata la quarantina. All'annunzio del primo parto gemello, si era messo a ridere compassionevolmente, crollando la testa. All'annunzio del secondo, era balzato, guardando in faccia il povero notaio che si grattava la nuca imbarazzatissimo. Al terzo, prima era scoppiato a ridere sgangheratamente, poi, con un grande sdegno negli occhi, lo aveva sgridato: - Ma che diavolo! Sei ammattito? Quasi il povero notaio ci avesse colpa lui. Certamente era stata una corbelleria prender moglie a quarantadue anni e prenderla così giovane, che avrebbe potuto essergli piuttosto figlia. Ma la ragazza aveva una buona dote; ma egli era rimasto solo al mondo e gli affari gli andavano a gonfie vele. Aveva calcolato che due, tre figli non sarebbero stati troppi, e si era lasciato lusingare dalla dolce prospettiva di avere una famigliuola e morire circondato da persone che gli avrebbero dovuto voler bene. Invece!... Troppa grazia, Sant'Antonio! come diceva quello. Otto ragazze, e non un solo maschio per far vivere il nome dei Barreca, che si sarebbe estinto con lui, ultimo rampollo di una lunga progenie di avvocati, di canonici e di notai. Egli perciò portava rancore alla moglie; e a ogni nuova gravidanza di lei diventava cupo, intrattabile, sfogando anche in casa il suo malumore con quel sommesso zufolìo - fìchiti-fon! fìchiti-fon! - che voleva significare: Vediamo se anche questa volta!... - Ormai non sperava più che colei smettesse il vizio, come egli soleva dire, di far due figliuole a ogni parto. Per fortuna gli affari prosperavano tuttavia: e un lontano parente della moglie era morto, lasciandole in eredità una bella sostanza. Ma in quella casa, portatagli in dote da donna Rita, tutto quel popolo di ragazze non si poteva più raggirare. Le stanze sembravano camere da ospedale con due, tre letti ognuna, secondo lo spazio. Per ricevere qualche cliente che veniva a trovarlo di buon'ora, il notaio avea dovuto rannicchiare un tavolino e due seggiole in un bugigattolo che serviva da salotto e da anticamera. La casa dei Barreca, comoda ed ampia, era toccata al fratello maggiore, morto lasciando un figlio, che gli era andato dietro l'anno dopo nell'altro mondo. La vedova, che aveva ereditato, si era sùbilo rimaritata; e la casa era passata, con gran cordoglio del notaio, in mano di un avvocato suo avversario nelle elezioni municipali, il quale forse aveva sposato la vedova soltanto per fargli un dispetto. Così ora si trovavano, in quella ristretta casa dotale, moglie, figliuole e lui, pigiati come tante sardelle nel barile, secondo la sua espressione. Si sentivano mancar l'aria. Le finestre di quattro stanze davano in un cortile ingombro di macerie, appartenente a un vicino che non voleva farlo mai ripulire. Un solo terrazzino su la via; e la signora Barreca aveva pensato d'ingombrarlo talmente di vasi di basilico, prezzemolo e menta, utili erbette per la cucina, che le ragazze vi si potevano affacciare una per volta; e poi era quasi proprietà assoluta delle bambine minori, che non avevano posto migliore per farvi i loro giuochi infantili un po' all'aria aperta. È vero che il notaio stava pochissimo in casa, ma in quelle poche ore del pranzo e della cena, vedendosi sempre davanti e dattorno le otto figliuole che crescevano a vista d'occhio, e che fra qualche anno avrebbero voluto un po' più di luce e d'aria per non morire di anemia, sentiva una sorda irritazione contro sè stesso e contro tutti; e per un nonnulla montava in bestia, urlava, dava scapaccioni alle figliuole, trattava male fino i clienti se non si capacitavano, di primo acchito, delle ragioni e dei consigli da lui dati per menare a buon porto un negozio. Ormai l'idea di trovare un'altra casa da affittare o da comprare era divenuta, a poco a poco, una fissazione per lui. Ma non era come dirlo! Chi aveva una bella casa, in quel paesetto, se la teneva per sè; v'era nato e voleva morirvi; e in quanto ad affittare, si trattava di catapecchie per contadini soltanto. Fabbricarsela! Non c'era altro verso. Fabbricarsela di sana pianta, spaziosa e pulita.... Un convento!... Non ci voleva meno di un convento per tutti loro! Fabbricarsela, o pure avere la virtù miracolosa di San Francesco di Paola che, tira, tira, lui da un capo ed il falegname dall'altro, aveva allungato fino alla giusta misura una trave troppo corta pel tetto della chiesa in costruzione. Ah! Allora il notaio si sarebbe appoggiato con le spalle a uno dei muri della casa, e, ponza, ponza, l'avrebbe allargata quanto occorreva, in modo da potervi stare comodamente anche con una dozzina di figliuole! E così fantasticando, una volta gli era accaduto di appoggiare le spalle al muro e puntare i piedi al suolo e far forza, quasi San Francesco di Paola avesse dovuto comunicargli la sua virtù miracolosa. Avea tastato qua e là, questa e quella persona, e incaricato un certo faccendiere; avea promesso mance a parecchi se gli trovavano una casa da comprare o da affittare. Niente! Alla fine uno gli aveva suggerito: - Perchè non comprate i casalini del palazzo Collotta? - Il barone non li vuol vendere. - Chi ve l'ha detto? - Il suo procuratore. - È un mascalzone; lo dice per farvi dispiacere. - Dispiacere a me? Che cosa gli ho fatto? - Non so. - Ma bisogna buttar giù tutto e cominciare dalle fondamenta! - I quattrini li avete; metteteli fuori. Entràtagli questa pulce nell'orecchio, aveva scritto direttamente al barone in Palermo ed attendeva la risposta. E per ciò quella volta si era insolitamente fermato a guardare i casalini sul ciglione, a destra della passeggiata; e ripeteva l'atto ogni sera, interrompendo lo zufolìo, ripetendo, con gran dispetto del dottore: - Ecco quel che mi ci vorrebbe! Il dottore alzava le spalle, non si fermava neppure, e con la punta della sua mazza colpiva sassi e sterpoli, mandandoli da questa o da quella parte dello stradone, rabbiosamente. - Commetteresti una seconda corbelleria, più grossa di quella di prender moglie! - profetizzò una sera all'amico. - Che cosa devo fare dunque? - rispose il notaio stizzito. - Crepare là dove stai. Tanto, siamo vecchi. Non te ne accorgi?

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Un mese dopo, una mattina, di buon'ora, ecco uscire di casa dal notaio la chioccia coi pulcini, e lui dietro; andavano a vedere il posto della casa nuova, come già la chiamavano. Uno sfacelo. Muri crollati o crollanti; scale rimaste per aria, pavimenti sfondati; e, tra le macerie, erbacce parassite e ortiche alte così che parevano alberelli. Donna Rita non sapeva dove mettere i piedi, atterrita di vedere le bambine sguinzagliate sotto gli archi, su i mucchi di pietre e calcinaccio, col pericolo di rompersi il collo. Il notaio gongolava, zufolando allegramente il suo eterno fìchiti-fon! fìchiti-fon! che ora significava: Finalmente ci son riuscito! Egli non badava alle bambine, non si curava degli strilli delle due minori che avevano abbrancato le ortiche e si sentivano frizzare le mani quasi avessero toccato carboni roventi. Eretto sur un grosso pezzo d'intaglio rimasto ritto come un cippo funerario in mezzo alle macerie, trinciava con la sua mazza di sorbo fantastiche linee, elevava piani, divideva stanze. Qui l'anticamera, là il salotto, qua la camera matrimoniale, là la sala da pranzo; e ad oriente, dalla parte dello stradone, la fila delle stanze da dormire per le ragazze, una per ognuna; e sotto, a pianterreno, l'orto o giardinetto, fiori e frutta.... miscuit utile dulci. Dalla gioia, parlava latino a Lisa che gli stava a lato e insisteva per avere una cameretta con l'alcova. - Perchè con l'alcova? - Mi piacerebbe così! - Vedremo! Vedremo! Ma che aria, eh? E che sole! - E che vento, non lo dite? - lo interruppe sua moglie. - Vento? Quando tira, tira da per tutto. Non dire sciocchezze! La signora Barreca contraddiceva raramente suo marito. Era donnina calma, rassegnata, che sopportava come gastigo de' suoi peccati i tre parti di gemelle e tutta quella figliolanza femminile. Bionda, smorta, vestita sempre di scuro, badava alle faccende di casa, che non erano poche, alle bambine che dovevano andare a scuola e facevano i còmpiti su la tavola da pranzo senza tappeto, per paura dei calamai frequentemente rovesciati; e sorvegliava Lisa, la spilungona (il nomignolo glielo aveva appiccato il notaio, per compiacenza della statura di lei, e le sorelle glielo ripetevano spesso sapendo che ella ci si arrabbiava). La sorvegliava all'insaputa del marito, per evitare scene e guai; le aveva trovato in un cassetto una letterina amorosa di uno studente in vacanza, e poi aveva intercettata la risposta in mano della serva, che era stata mandata sùbito via. - Che cosa ha fatto, da mandarla via? - voleva sapere il notaio. - Questa è faccenda che mi riguarda! - avea risposto donna Rita. - Vi ho forse domandato perchè avete preso un nuovo scrivano? Ed il notaio la guardò maravigliato di quella risposta che gli era parsa straordinaria arditezza. Egli l'aveva abituata a non aver volontà, a non interrogare, a non ragionare di niente. In casa era un despota silenzioso - fìchiti-fon! fichiti- fon! - e bastava; meno le non rare volte che montava in furia, spesso per un nonnulla, e buttava tutto per aria, piatti, bottiglie, bicchieri, facendo tremare gli usci e le imposte dagli urli, minacciando di legnare mamma e figlie! Qualche vicino accorreva. Le ragazze si erano già rinchiuse nelle loro camerette; donna Rita piangeva zitta zitta in un canto: e il notaio, con gli occhi rossi e la faccia congestionata, se la prenddra con le seggiole, con la tavola da pranzo, con gli usci, dando un pugno qua, un calcio là, fino a che la presenza di quell'estraneo non lo faceva rientrare in sè. - Andiamo! Che cosa è questo, signor notaio! - Non sono padrone in casa mia? Non posso fare quel che mi piace? Comando io, sì o no? Voglio essere obbedito! - Ha ragione! Sta bene.... Ma si calmi! Brontolava ancora un poco, poi si calcava sul capo la tuba, prendeva la mazza di sorbo, e andava via zufolando. Dal giorno però che aveva firmato il contratto di compra dei casalini del barone Collotta, non si poteva più dire: del palazzo, perché non c'era in piedi neppur la facciata - il notaio parve cambiato di punto in bianco; moglie e figlie quasi non lo riconoscevano più, udendolo chiacchierare a tavola, specialmente dopo cena, della futura meraviglia della casa nuova. Voleva fare le cose in grande; far crepare di rabbia certa gente. I quattrini erano là pronti, in bei biglietti da cento e da mille, messi da parte a posta, accumulati l'uno su l'altro. Non doveva cavarsi il cappello a nessuno. E tirava fuori da una cassetta della scrivania la pianta della casa, e la stendeva su la tovaglia, lieto che le bambine piccine gli montassero su le ginocchie per guardare, e si leticassero le camere quasi fossero già allestite di tutto punto, ed esse dovessero andare a dormirvi tra un quarto d'ora. Invece, appena da una settimana i manovali lavoravano a sgombrare il terreno dalle macerie, a buttar giù i muri crollanti, ad ammucchiare le pietre ancora servibili per la prossima costruzione. Il notaio passava lunghe ore colà, tra nugoli di polvere, stimolando gli operai, sollecitando i ragazzi che coi corbelli di vimini portavano lo sterriccio sui carretti, segnando nel taccuino i viaggi dei carrettieri per non farsi rubare da quella canaglia. Lo scrivano veniva di tratto in tratto a chiamarlo per un testamento, per un contratto di matrimonio, per un brevetto; e il notaio si staccava a malincuore da quelle macerie, da quello sterriccio, da quello spazio che di mano in mano sgombrato, pareva ingrandirglisi davanti agli occhi. Ma intascando i diritti notarili, sorrideva pensando che anche essi avrebbero aiutato a murare qualche sasso di più!. E, all'ora solita, era sempre sulla soglia dello studio notarile, col pomo della mazza di sorbo appoggiato sotto il mento, zufolando sommessamente in attesa del dottor Ballocco; e avviandosi assieme con lui per la passeggiata, ora affrettava un po' il passo fino al punto dello stradone, a cavaliere del quale doveva sorgere fra nn paio di mesi la facciata della sua casa. Non si fermava più, ma si voltava a guardare, e interrompeva lo zufolìo per dire al dottore: - Sei finestre e un balcone in mezzo. O pure: - La cucina, dalla parte di là. O pure: - Nell'orto ho già piantato le viti! Brevi parole, accenni che continuavano un suo ragionamento interiore, quasi l'amico avesse potuto vederlo pensare, e per ciò capire che cosa egli volesse dirgli. Il dottore crollava il capo, faceva una spallucciata. Per lui il mal della pietra era la peggiore delle malattie; si sa quando si comincia, ma non si sa quando si finisce. Gli architetti sono furbi; vi dicono: - Spenderete mille; nè un soldo di più, nè un soldo di meno! - Avrete speso venti mila e sarete appena a metà dell'opra!... Vah! Se il notaio non gli aveva voluto dar retta, peggio per lui. - Tutto questo il dottore lo pensava, ma non lo diceva; o lo diceva a modo suo, con la punta della mazza, spingendo di qua e di là i sassolini, i pezzetti di carta, gli sterpi, qualunque cosa gli capitava tra i piedi; stizzito che ora quella passeggiata, prima così bellamente silenziosa, avesse mutato carattere con queste interruzioni. E respirava, appena il notaio non poteva più avere il pretesto di voltarsi perchè il ciglione, nella curva, non lasciava scorgere il posto dove una volta sorgeva il palazzo del barone Collotta. Infatti, il notaio poco dopo riprendeva il suo zufolìo, e i due strani amici continuavano la singolare passeggiata. Le persone che ll incontravano sorridevano, fermandosi per vederli passare, udire il fìchiti-fon! fìchiti-fon! del notaio già divenuto leggendario in paese, e osservare il dottore che pareva incaricato di tener netto lo stradone dai sassolini e dagli sterpi. Parecchi già avevano notato che il notaio ora si lasciava scappar di bocca qualche parola; e la cosa sembrava sorprendente a dirittura! Mentre i muratori scavavano le fondamenta, il notaio faceva zappare e preparar l'orto da uno dei suoi contadini. Due piante di peschi, tre di nespoli del Giappone; le viti, già legate al palo, indicavano dove fra un anno si sarebbe visto il pergolato. Poi, lungo il muro a secco che calava a piombo su lo stradone, in attesa della balaustrata di legno, una bella fila di vasi da fiori, conici, panciuti, di tutte le dimensioni, parte già pieni di terra, parte vuoti; sarebbero stati lo spasso delle figliuole. Ai peschi, ai nespoli e all'uva avrebbe badato lui. Con la fantasia, li vedeva carichi di frutta dorate dal sole: pesche grosse così, con la gota rossa e la bella peluria fresca; nespole succose, acidule, che gli facevano venir l'acquolina in bocca al solo pensarci; e uva bianca e nera pendente in grossi grappoli, da cògliere lì per lì all'ora del pranzo con le sue proprie mani! E il fresco da godersi l'estate, in maniche di camicia, in pantoffole, come un papa, con le bambine attorno! Quasi le figliuole dovessero rimanere bambine e Lisa non fosse già una donnina. E perciò gli pareva che i muratori andassero a rilento, e le fondamenta stentassero a uscire a fior di terra. E sorrise quando vide salir su a poco a poco, la facciata, coi pilastri delle porte che parevano germogliassero, e vide porre i davanzali delle finestre e poi gli intagli e poi il cornicione, in cima. Seduto sotto un vecchio ombrellone di seta rossa per non arrostirsi al sole, il notaio zufolava, mentre i muratori cantavano accompagnandosi a colpi di cazzuola. Pensava a certe persone che dovevano diventare più verdi dell'aglio e masticar tossico, passando per lo stradone, ora che di laggiù la casa poteva sembrare compiuta con il tetto e con le imposte alle finestre. Fìchiti-fon! fichiti-fon! Pareva un altro, sempre di buon umore, quantunque vedesse di giorno in giorno diminuire i biglietti di Banca. non ostante che ogni settimana ve ne aggiungesse parecchi! Andavano via come l'acqua! Ma non voleva dir niente, se la casa nuova sorrideva, fresca come una rosa, al sole, col bel portoncino dalla parte di Via Lunga, di faccia alla chiesetta di San Cosimo; bella comodità anche questa, per andarvi a udir messa le domeniche senza attendere troppo. Era di buon umore, e non sapeva persuadersi perché mai ora Lisa stesse sempre imbroncita, e fosse divenuta un po' aspra nelle risposte alla madre. - Che cosa ha Lisa? -domandava alla moglie. - Niente. - Ha i nervi, mi pare. - Ragazze! Donna Rita non avrebbe mai detto quel che era accaduto una mattina, quando ella avea sorpreso la figliuola mentre parlava dalla finestra col suo studentello. L' aveva afferrata per le spalle, tirandola dentro; e allo studentello che scappava avea fatto intendere che lo avrebbe fatto prendere a calci dal notaio; e alla serva del proprietario del cortile, che si era affacciata alla finestra e rideva, aveva detto che ci avrebbe avuto poco gusto a praticare quel bel mestiere all' insaputa dei suoi padroni: doveva essere stata lei a dar agio di penetrare nel cortile allo sbarbatello screanzato! E siccome la serva aveva risposto malamente, n'era nato un putiferio. Lisa stava in bronclo; la mamma la trattava con modi assai bruschi. E il notaio, alla spiegazione della moglie - Ragazze! - pensava che i nervi Lisa non li avrebbe più avuti lassù, nella casa nuova, con tutta quell'aria, con tutta quella luce! E per svagarla, la mattina dopo condusse colà la chioccia coi pulcini. E le mura umide e il tetto risonarono degli allegri strilli delle ragazze che si rincorrevano per le stanze senza usci e coi pavimenti di gesso. Ma donna Rita diè un pizzicotto alla figliuola, facendola ritirare dal terrazzino, perchè laggiù nello stradone passeggiava lo sbarbatello malcreato, col sigaro in bocca, con le mani nelle tasche dei calzoni e il naso per aria, verso il terrazzino, impertinente slacciato!

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Sì, sì, nella casa nuova si stava larghi e comodi, ma quell'inverno il povero notaio, che cominciava a sentire gli acciacchi della vecchiaia, aveva passato terribili nottate e bruttissime giornate col vento di levante che urlava e fischiava e pareva volesse schiantar la casa dalle fondamenta. Due, tre inverni di quella sorta, ed essa sarebbe stata sconquassata peggio di prima. I due peschi stroncati; i nespoli sfrondati; il pergolato buttato giù a catafascio; i vasi dei fiori, la più parte ruzzolati per terra come se durante la nottata ci fosse stato qualcuno che avea giocato alle bocce con essi; parecchi ridotti in frantumi. Miracolo che le imposte avessero resistito e che soltanto pochi tegoli fossero stati portati via, come foglietti di carta, e buttati sul selciato di Via Lunga! Quella mattina il povero notaio, imbacuccato nel vecchio ferraiuolo, col berretto da casa calcato fin su gli orecchi, per poco non pianse vedendo tanta distruzione. Le figlie e donna Rita gli andavano dietro, rizzando i vasi, sollevando i sostegni del pergolato, raccontandosi le paure della nottata, perché esse, nate e cresciute in quell'altra casetta incastrata fra case più alte che la proteggevano da ogni lato, non avevano nessuna idea delle ventate di levante. Colà avevano dormito come tra la bambagia; qui, invece, la notte avanti, avevano avuto tanta paura che erano saltate giù dai letti; e il notaio e donna Rita, che recitavano paternostri e avemmarie, se le erano viste comparire in camera, mezzo vestite, a piedi scalzi, atterrite, piagnucolanti. C'era voluta tutta la severa autorità del notaio per indurle a tornare nelle loro camerette. Ora ridevano tra loro, rammentando certi gesti certe parole di questa e di quella, durante il terrore del vento; facevano un chiacchiericcio allegro che indispettiva il notaio; parevano divertirsi in mezzo a tutta quella rovina che dava loro tanto da fare là dove il babbo non voleva che mettessero le mani e quasi quasi neppure i piedi, perché la cura dell'orto doveva essere tutta sua. Ma ecco: il danno che egli temeva venisse fatto dalla sbadatagine delle ragazze, il vento glielo aveva fatto, e centuplicato, in poche ore! E stava a guardare, divagando, dando incoraggiamenti; soltanto si maravigliava che Lisa se ne stesse zitta in un canto, e che donna Rita brontolasse sotto voce rivolgendosi a lei. - Ma che cosa hai, - le domandò, - con quella figliuola? - Niente La solita risposta. Non poteva dirgli: Guardate là, quello sbarbatello che fa l'asino con lei! Lo studentino, seduto sul muricciolo dello stradone laggiù, fumava, dondolando le gambe, guardando in alto, fingendo di cavar di tasca il fazzoletto per soffiarsi il naso, e agitandolo un po' in segno di saluto, lo smorfioso! Ed erano passati due anni, due anni cattivi. I fondi avevano fruttato poco, ora perchè le piogge non erano venute a tempo, ora perchè i seminati erano stati invasi dalla ruggine, e gli ulivi malmenati dalla nebbia sul punto della fioritura. Anche gli affari cominciavano a scarseggiare; le tasse si mangiavano tutto. Chi aveva quattrini se li teneva in tasca! E poi c' era la concorrenza del nuovo notaio, giovinastro che si dava l'aria di pezzo grosso, perchè avea messo su uno Studio con bei mobili, e faceva aspettare i clienti in anticamera, quasi fosse stato un ministro. E i babbei abboccavano; accorrevano da lui che li spennacchiava senza farli stridere, buttando loro negli occhi la polvere delle belle maniere, dei salamelecchi, quasi il codice e la procedura consistessero nei salamelecchi e nelle belle maniere! Ah che tempi! Veniva in uso la moda anche pei notai! Si doveva giungere a questo con l'Italia una e pagnotte cento! Basta! Egli era vecchio ormai! E senza quel nugolo di figlie, avrebbe chiuso lo Studio notarile e chi avrebbe voluto l'opera sua, avrebbe dovuto venire a pregarlo in casa, col cappello in mano, come per ottenere una grazia! Passava lunghe ore nell'orto, a covare con gli occhi le nespole del Giappone che pendevano a grappoli dai rami, a covare l'uva del pergolato che ingrossava al sole.... cento, dugento, trecento grappoli.... non riusciva a contarli esattamente; li avrebbe colti con le sue mani fra qualche mese: intanto bisognava difenderli con la solfatura dall'oidium, e anche dal barbaro gusto delle ragazze a cui piaceva l'agresto! Soltanto a Lisa egli permetteva di accompagnarlo laggiù certe mattine, a Lisa che era savia, seria, e che gli ispirava una particolar tenerezza scorgendola, inesplicatamente, avversata dalla mamma in ogni cosa. Visto che donna Rita non gli dava nessuna plausibile spiegazione di quel suo strano contegno, egli si era rivolto alla figlia, un po' acre anche lei nelle risposte e nei modi: - Ma insomma, che cosa avete tutte e due? - Niente. Se la faceva sedere accanto, sul muricciolo; ragionava con lei delle piante, delle faccende di casa; e di mano in mano che passavano per lo stradone persone di sua conoscenza, si metteva a sparlar di loro ricordando il passato: - Quello lì è un gran ladro! Quell'altro un usuraio! Questo qui un'ipocrita, che va a messa tutti giorni, ed ha spogliato i pupilli di suo fratello! E una mattina che scorse laggiù lo studentino col sigaro in bocca e il naso per aria, disse: - È della razza! Poveri e superbi! Suo padre era usciere di pretura, ma si è messo a fare lo strascina-faccende davanti al conciliatore, dopo che è stato cacciato via dall'ufficio! Sua madre.... lasciamola stare.... Suo fratello maggiore è andato a far la guardia di finanza! Costui vuol diventare.... che cosa? Non lo sa neppur lui! Finge di studiare!... Invece del sigaro, còmprati due soldi di pane, morto di fame!... Lisa si faceva di mille colori, udendolo parlare così. - Che cosa ve ne importa? - esclamò stizzita. - Ognuno deve badare ai fatti propri. E lei infatti badava, zitta zitta, sorniona, ai fatti propri, con la testina sconvolta e il cuore in fiamme per lo studentello; e resisteva alla guerra sorda della mamma che la minacciava di accusarla al notaio, com'ella chiamava abitualmente suo marito. - Accusatemi! - Ti spaccherà la testa! Ti farà uscir dal cervello il sangue pazzo! - Lasciate che me la spacchi! - Te la spaccherò io prima di lui! - Spaccàtemela! Intanto il cattivo esempio di Lisa noceva alle altre sorelle che venivano immediatamante dietro a lei. Con quelle finestre su lo stradone, era un via vai di ragazzacci. Donna Rita non poteva aver occhi per tutte. E quelle testoline sventate si aiutavano a vicenda. Un'amica avea avvertita donna Rita dello scandalo che dava tanto da ciarlare in paese; e la poveretta ci perdeva la salute dalla gran bile che inghiottiva. Un giorno o l'altro, se la cosa arrivava agli orecchi del notaio, sarebbe stato il finimondo in casa loro; quando il notaio imbestialiva.... Dio ne Scampi! Tanto più ora che gli affari andavano male e le spese aumentavano di giorno in giorno. Solamente a pensare ai vestiti e alle scarpe per tutte, c'era da sentirsi prendere dalle vertigini! Donna Rita malediceva la casa nuova e chi l'aveva consigliata a suo marito. Nell'altra, le ragazze stavano un po' ristrette, sì, ma come in un convento. Qui, con tutte quelle finestre!... Se lei badava alla parte di via Lunga, le ragazze facevano il telegrafo dal lato opposto. E poi con quella nuova diavoleria del saper leggere e scrivere! Prima almeno non c'era da temere che le vecchie povere venissero a picchiare all'uscio per l'elemosina e per portare i biglietti amorosi! Viveva per ciò in continua ansietà; e ogni volta che il notaio tornava a casa più abbuiato del solito, ella tremava di veder scoppiare l'uragano paventato. Scoppiò una sera, quando meno donna Rita se l'aspettava. Quel giorno il notaio era stato più allegro dell'ordinario. Aveva condotto giù nell'orto le figlie con panieri e canestri per cogliere l'uva. Montato su la scaletta, con una mano afferrava delicatamente il grappolo e tagliava il gambo con l'altra, armato di una forbice arrotata a posta per non fare strappi alla vite. Prima l'uva bianca, poi la nera; e le ragazze erano salite in casa, in processione, coi panieri e coi canestri su la testa come tante vendemmiatrici. Poi il notaio, che non aveva mai loro permesso di assaggiarne un chicco, ne aveva distribuito un grappolo a ognuna, dando su la voce alle scontente che volevano i grappoli più belli e più grossi. I più grossi voleva mandarli in regalo al dottor Ballocco; glielo avrebbe annunziato durante la passeggiata. E fu allora, bel ringraziamento! che il dottore gli disse a bruciapalo: - Tu rimbambisci con l'uva, e intanto c'è chi vuol coglierti l'altra uva, assai più saporita! - Quale? Che cosa intendi? - Le ragazze! Non avete occhi dunque, tu e tua moglie? - Bada a quel che dici! - Dico la verità! E siccome il notaio, sbalordito dall'incredibile rivelazione, si era rimesso inavvertitamente a zufolare, il dottore, per dovere di amico, si capisce, continuò: - Ecco il bel profitto della casa nuova! E raccontò quel che sapeva. Non avevano occhi dunque, lui e sua moglie? - Anche Lisa? - balbettò il notaio. - Sì, sì, peggio delle sorelle; col figlio dell'usciere Caniglia! Nominò pure gli altri; una filza! Il povero notaio non zufolava più; il sangue gli era salito al capo. Arrivò a casa con gli occhi iniettati di bile, con la schiuma alle labbra; e sbatacchiato l'uscio dietro a sé, cominciò a distribuire schiaffi e pugni come un pazzo furioso. - Ah! te lo do io il figlio di Caniglia! Te lo do io Bacarella! Te lo do io Rumasuglia! Civette! Screanzate! Ah! Ah! Inseguiva per le stanze le figlie che tentavano di salvarsi, urlando e piangendo. E quando non poteva colpir loro, buttava per aria seggiole, tavolini, dava calci agli usci delle camere dove le ragazze erano corse a rinchiudersi mettendo i paletti. Trovàtosi faccia a faccia con sua moglie, che piangeva e strillava con le mani fra i capelli, le si piantò dinanzi agitando in alto i pugni convulsi: - E voi, signora donna Rita, non sapevate niente, non vi accorgevate di niente! - Ho fatto tanto! - esclamò la disgraziata per scusarsi. E fu peggio. Il notaio le mise brutalmente le mani al collo, e forse l'avrebbe mezza strozzata, se donna Rita, fatto un falso movimento per scansarsi, non fosse cascata per terra. - Donna Rita! Il notaio, che infine non era una bestiaccia senza cuore, diè un grido e l'aiutò a rialzarsi. E accertatosi che sua moglie non si era fatta male, un po' meno irritato, cominciò a rimproverarla: - Perché non me n'hai detto mai niente? Perché! - Per non farvi prender collera, Gesùmmaria! - Brava!... Brava davvero!... Bravissima!... Le faceva profondi inchini, torceva la bocca, gestiva con ironica approvazione, tornava a farle sarcastiche riverenze, girandole attorno con vivacità giovanile. Poi, tutt'a un tratto, si lanciava a chiudere gli scuri della finestra, sbatacchiandoli, spingendo rabbiosamente i lucchetti. - Così!... Così!... Tutte le finestre! Saranno anzi inchiodate con chiodoni da ottanta! E picchiava agli uscì delle camere delle ragazze. - Aprite; se no, sfondo l'uscio a calci! Aprite! Mezza giornata d'inferno; col gran guaio che qui non c'erano vicini da poter accorrere per calmare il notaio e condurlo via. Tutte le finestre chiuse; le ragazze tremanti attorno alla tavola da pranzo, coi lumi accesi quasi fosse notte, ognuna col suo lavoro in mano, zitte, zitte, a testa bassa, sotto il roteare furibondo degli occhi del notaio che, a intervalli, si rivolgeva a questa o a quella, a Lisa sopratutte: - Te lo do io il flglio di Caniglia! A quel morto di fame fa gola la casa, la dote! Sì! Sì! Uno, due, tre giorni, va bene, poteva durare. Con le finestre ermeticamente chiuse la casa sembrava disabitata, e la famiglia colpita da lutto. Il dottor Ballocco, che se n'era accorto durante la solita passeggiata e nel passar da Via Lunga andando attorno per le sue visite, disse al notaio, scherzando: - Fate gli esercizi spirituali in casa? Il notalo grugnì. Il dottore, indovinato quel che doveva essere accaduto, soggiunse: - Non andare in eccessi! Infine.... le ragazze.... Sentendosi quasi dar torto da colui che primo gli aveva aperto gli occhi, il notaio perdè la pazienza e rispose: - Tu bada ad ammazzare i tuoi clienti! Risposta che fece ridere il dottore, quantunque avesse davvero su la coscienza parecchi e parecchi dei suoi clienti in tant'anni di pratica.

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E perciò dava ragione a sua moglie che timidamente gli diceva: Bisogna pensarci! Ma in che modo? Conducendole alla fiera, forse? O mettendole all'asta? Bisognava raccomandarsi a Dio, al Patriarca San Giuseppe e a San Francesco di Paola! Se non provvedevano loro che sono santi misericordiosi!... E aspettando, intanto mutava tattica. Spalancava le finestre, tentava di prender le figlie con le buone: - Ci penseremo io e vostra madre! Vogliamo il bene vostro; non vogliamo infelicitarvi! Qui vivete da regine. Che cosa vi manca? Una casa che è un palazzo! Un orto! E aria e luce! La casa era il suo orgoglio. Magnificava anche l'orto con le ragazze, dimenticando che se stendevano un dito alle pesche, alle nespole e all'uva, le sgridava quasi avessero commesso un sacrilegio. E si figurava di esser riuscito nell'intento, perchè vedeva e Lisa e Rosa e Clementina e Paolina assorte nel cucire, nel ricamare, nel far di calza quando il babbo stava in casa; perchè non levavano gli occhi dal libriccino delle preghiere, le domeniche in chiesa, ora che egli le accompagnava come un cane da guardia, e i mosconi che ronzavano là attorno, alla vista di lui, prendevano il largo; eccettuato quell' impertinente del Caniglia! Egli, al contrario, andava a piantarsi vicino a una colonna, imperterrito, col petto dell'abito infiorato, dando occhiate di fuoco a Lisa, sfldando lo sdegno del notaio, che non sapeva chi lo trattenesse dal rompergli su la testa la mazza di sorbo, e si rodeva il fegato per non fare uno scandalo. Frenarsi gli costava uno sforzo immenso; tanto che una volta, invece di dir le devozioni durante la messa, dimenticò di essere in chiesa, e si mise così sbadatamente a zufolare, - fìchiti-fon! fìchiti-fon! - che donna Rita dovette tirarlo per la falda dell'abito e rammentargli che si trovava nella casa di Dio. E cascò dalle nuvole il giorno che il canonico Tasca, confessore di Lisa, dopo avergli offerto una presa di ottimo rapè, con molte circonlocuzioni, per dovere del suo santo ministero, venne a dirgli nello studio notarile: - Fate la volontà di Dio! Date la vostra benedizione! Il notaio lo guardò in viso, stralunato, senza poter profferire una parola. - Si sa, matrimoni e vescovati, dal ciel son destinati! - conchiuse il canonico. E offerse una seconda presa di rapè. - Sentite, signor canonico, - gli disse, scattando, il notaio. - Ringraziate prima Dio e poi l'abito sacro che portate addosso. Qualunque altro.... - Non ne parliamo più; voi siete il padre. Io ho fatto il mio dovere di confessore. Benedicite! E scusate! - replicò secco secco il canonico, levandosi da sedere per andar via. Il notaio corse a casa. - Dov'è Lisa? Ansava, balbettava. - Dio mlo! Che è accaduto? - esclamò donna Rita! - Niente. Dov'è Lisa? Chiamatela. E quando dava del voi, voleva dire tempesta! Appunto Lisa usciva di camera sua, tranquilla, a testa alta, plù spilungona dell'ordinario, tanto si teneva ritta sul busto e su le gambe, fermatasi, dopo aver fatto pochi passi, alla vista del padre che la fulminava con lo sguardo. - Ah, tu mi mandi il confessore! Lisa accennò di sì con la testa. Il notaio allibì. - Ed hai la faccia tosta di volere la mia benedizione? Lisa fece una mossa con la testa per slgnificare: Se volete darmela! - Ti maledico! - urlò il notaio. Donna Rita gli turò la bocca. - No, no!... È peccato mortale! - La maledico!... - replicò il notaio, scansando la mano della moglie. - Dalla testa ai pledi!... E si avanzò coi pugni stretti, levati in alto, contro la figlia che rimase là, impassibile, pallida come un cencio, mordendosi le labbra. Donna Rita la prese per le spalle e la spinse in camera gridandole: - Pazza! Pazza! Farai morire di crepacuore tuo padre! Infatti, fu proprio miracolo che il notaio non morisse di un accidente la mattina che donna Rita - quasi il cuore glielo presagisse - alzàtasi per tempo, andò difilata nella cameretta di Lisa. Visto il letto intatto e non trovata lei colà, cominciò a correre per la casa, dandosi pugni su la testa, chiamando sottovoce: Lisa! Lisa! svegliando le altre figlie, perchè l'aiutassero a cercare dappertutto, prima che il notaio potesse capire di che si trattava. Fortunatamente il notaio dormiva, russando; e il dottor Ballocco, mandato a chiamare in fretta e in furia con la serva, potè arrivare in tempo per dargli lui la trista nuova. Donna Rita si raccomandava. - Lasciate fare a me! - la rassicurò il dottore. - Sarà un terribile colpo! - Lasciate fare a me! Ed entrò nella camera del notaio, che aperse gli occhi allo scricchiolare dell'uscio, meravigliato di veder là, a quell'ora, il suo amico che soleva venire da lui soltanto per qualche visita da medico. - Chi sta male? - Nessuno. Non ti spaventare.... Cose che accadono!... - si lasciò scappar di bocca il dottore. - Quali cose? E il notaio, tossendo, si rizzò a sedere sul letto. - Quali cose! Quali cose!... Niente.... Lisa.... scappata.... ecco!... Col figlio di Caniglia!... Giacchè vuoi saperlo! Ecco! Meglio che tu lo apprenda sùbito. Eh? Eh? Non fare il ragazzo! Il povero notaio si era rovesciato, smorto, smorto, sui cuscini. Il colpo era stato così forte e così inatteso che lo aveva istupidito. - Benissimo! - egli diceva (la voce però gli tremava). - Una di meno! Si starà più larghi!... Con la scala di legno? Dalla parte dell'orto? Benissimo!... lo le avrei aperto il portone a due battenti, se avessi saputo.... Si starà più larghi!... E la sua camera rimarrà chiusa per sempre.... Quella figlia è morta! Nessuno qui deve nominarmela! È morta; per me e per tutte, capite? Ora si chiama Caniglia, non più Barreca! Già l'avevo maledetta!... E torno a maledirla!... Vi dispiace? (S'era rivoltato contro la moglie, a un gesto di orrore di lei). È morta e sepolta.... Che cosa si credono? Che mi lascierò intenerire? Che darò la dote? Ha fatto male i suoi conti il signor Caniglia!... Chi vuole andarsene, se ne vada! Tu, donna Rosa, col tuo Bacarella! Tu, donna Clementina, col tuo Rumasuglia!... Mie figlie sono soltanto quelle che mi rispettano e mi vogliono bene. Chi vuole andarsene, se ne vada; l'uscio è là. Chiamatemi un prete; voglio far ribenedire la casa! Questa è casa maledetta!... Donna Rita e le figlie piangevano zitte zitte, col fazzoletto agli occhi, come se davvero fosse morto qualcuno in quella casa nuova che aveva sconvolto le teste delle ragazze, prima così timide e così savie!... Donna Rita se la prendeva con la casa anche lei; anche lei stimava necessario farla ribenedire da cima a fondo! In pochi mesi, il notaio sembrava invecchiato di dieci anni; donna Rita, peggio. Ora egli passava lunghe ore nell'orto, badando alle zucchine che vi aveva piantate in un angolo e che venivano a maraviglia; al pergolato che metteva tralci nuovi e pampini da coprire l'incannucciata e non lasciar passare un raggio di sole; alle nespole del Giappone che ingrossavano penzolanti a gruppi dai rami. E donna Rita badava a recitar rosari e a raccomandarsi alla Madonna e a tutti i santi del Paradiso, perché guardassero loro le sue figliuole, mentre invece avrebbe dovuto guardarle lei, e avvedersi che Rosa e Clementina avevano già ripreso a civettare più accanitamente di prima. Pareva volessero protestare in quel modo contro la vita da monache a cui erano condannate. Dopo la fuga di Lisa, casa e chiesa, chiesa e casa; messa tutte le mattine; mai una passeggiata, mai visite ad amiche. E'le ragazze si sfogavano telegrafando disperatamente dalle finestre, scendendo giù nell'orto prima dell'alba per trovarvi qualche biglietto lanciato su dallo stradone con un sasso avvolto in un pezzo di giornale, e lanciando allo stesso modo le risposte dalla finestra, con maravigliosa destrezza. Rumasuglia insisteva con Clementina: - Facciamo come tua sorella e Caniglia! Non c'è altro verso! - Se mi vuoi bene, non parlami più di questa cosa! - ella rispondeva. - Facciamo come tua sorella e Caniglia! - ripigliava l'innamorato. E visto che non c'era proprio altro verso!... Fu dopo quasi diciotto mesi dalla fuga di Lisa. Stavano per andare a cena. Donna Rita condiva l'insalata in cucina; il notaio già seduto a tavola, in maniche di camicia pel gran caldo, affettava anticipatamente un bel cocomero grondante ancora dell'Acqua del pozzo dov'era stato immerso mezza giornata per rinfrescarlo. Ed egli era sul punto di assaggiarne una fettina, quando rizzò le orecchie al parlottìo sommesso che si udiva in cucina, all'andare e venire frettoloso delle ragazze da una stanza all'altra.... Paolina, la minore di tutte, s' era affacciata all'uscio della sala da pranzo, aveva guardato il babbo ed era scappata via. Egli chiamò, per sapere che diamine era accaduto; nessuno rispose, nessuno accorse. Tornò a chiamare più forte: - Clementina! Clementina! Il primo nome che gli era venuto alle labbra. Gli risposero strilli e singhiozzi dalla cucina. Allora il pover'uomo, con la fettina di cocomero in mano corse colà. - Che cosa è stato? Che cosa è stato? Le ragazze erano scappate via. Donna Rita lo prese pei polsi: - Notaio mio! Notaio mio! - balbettava guardandolo negli occhi atterrita. Il notaio si lasciò cascar di mano la fetta di cocomero; aveva capito! - Chi? - domandò. - Clementina!... Scellerata!... Scellerata! - Non è niente!... Zitta! Non è niente!... Morrà di fame, come l'altra!... Non è niente!... Ma darò querela.... Ratto di minorenne! C'è la giustizia! Ratto di minorenne, ti dico! - replicò calcando la voce, al gesto di negazione fatto da donna Rita: - Ha compiuto ieri i ventun anni! Il notaio non seppe che rispondere, avvilito: - Andiamo a tavola! - disse tutt'a un tratto. Donna Rita credette che dal gran dolore egli fosse impazzito. - È destino! Andiamo a tavola! E uscì di cucina, e andò a picchiare agli usci delle camere delle figlie: - A tavola! A tavola! E tutte dovettero sedersi a tavola, come se niente fosse accaduto; e dovettero mangiare l'insalata e il pesce fritto. Mentre egli faceva, al suo solito, le parti, la forchetta però gli tremava in mano e tintinniva su l' orlo del piatto. Silenzio funebre. Sottecchi, di tanto in tanto, alla sfuggita, le figlie guardavano il padre che stentava a inghiottire. E siccome l'altra volta non aveva più pensato a far ribenedire la casa, il notaio rifletteva: - Qui c'è qualche spirito diabolico! Non può essere diversamente!

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L'avevano ridotta a campanile della chiesa accanto; ma ora è vietato suonare le campane, per paura che non crolli.... Bella! è vero?... Di rimpetto, il palazzo del barone Saccaro, tutto in pietra intagliata.... Guardi, ecco il barone.... Un milionario. Non sa nemmeno lui quel che possiede in contanti.... Ha una stanza piena di pezzi da dodici tarì; li ammucchia con la pala.... dicono; io non li ho visti. Brava persona, però, caritatevole, quantunque un po' matto.... Avevo dato appena un'occhiata al barone e al suo palazzo tutto in pietra intagliata. Mentre l'albergatore parlava, osservavo la strana manovra del farmacista là incontro, che, aperta la farmacia e uscito su la piccola spianata davanti a la porta, si era piantato ritto su le esili gambe, con le mani dietro la schiena, nel breve spazio dove arrivava, a traverso le case vicine, una striscia di sole. Rimasto immobile un pezzetto, cambiava lentamente di posizione girando come sur un pernio. Lo avevo visto di faccia, poi di tre quarti, poi di profilo, poi con le spalle voltate all'albergo, poi di profllo dal lato opposto, poi di tre quarti e finalmente di nuovo di faccia. L'albergatore intanto continuava a parlarmi del barone: - Mezzo matto, se si vuole, a casa sua; ma fuori non fa male a nessuno. Come dovrebbe spendere i quattrini? E si cava parecchi capricci. Ha tanti vestiti quanti i giorni dell'anno. - Trecento sessantacinque?... Mi paiono un po' troppi! - risposi, senza perdere d'occhio il farmacista che seguitava a cambiare di posizione, girando su se stesso, lentamente, quasi mosso da un ordegno di orologeria. - Forse qualcuno di più! - soggiunse l'albergatore. - Ne indossa uno al giorno. Li ho visti, li ho contati io stesso l'hanno scorso. Vedesse! Quattro stanze con attaccapanni fino al tetto, con cartellini numerati, e il nome di ogni mese. Un servitore è addetto unicamente a batterli e spazzolarli. Trecento sessantacinque calzoni, trecento sessantacinque corpetti, trecento sessantacinque giacchette; vestiti da casa, soltanto da casa. Per andare a passeggio poi.... - Ma che diamine fa - lo interruppi - quel farmacista che si gira e rigira al sole?... - Ah!... Fa annerire la tintura che s'è data ai capelli e alla barba. Non se n'è accorto? Poco fa, quando ha aperto la farmacia, era grigio; ora ha barba e capelli più neri del carbone. Infatti mi pareva ringiovanito sotto i miei occhi. - Stia a sentire; riderà. E chiamò: - Ehi! Don Carmelo! Va benissimo; l'operazione è finita; potete scansarvi dal sole; se no, vi buscherete un mal di capo! Perfetto! Nero lustro! Il farmacista gli rivolse un'occhiataccia facendo una spallucciata, ed entrò in farmacia lisciandosi la barba e i capelli con tutte e due le mani, soddisfatto, incurante delle risate dell'albergatore. - Oggi, gran pulizia! - esclamò il mio cicerone. E col gomito e con la testa m'incitava a guardare il barone Saccaro riapparso sul terrazzino centrale del palazzo. Il vecchietto, in nitido costume a righe bianche e azzurre, aveva in mano una granata; e, osservato attentamente per terra, si era messo a spazzare il piano del terrazzino, spingendo su la via due o tre pezzettini di carta e poca polvere. Poi, sporgendosi dalla ringhiera di ferro, seguiva con lo sguardo i pezzettini di carta che giravano, giravano, tremolanti come farfalline bianche dal volo incerto. Attratti forse dal vuoto o spinti da lieve alito d'aria, essi erano andati a cascare dentro il sottostante portone! - Vedrà che scende giù a raccattarli! - disse l'albergatore al gesto di stizza del barone. - È matto anche per la pulizia. Infatti, di lì a poco, il barone, sceso a raccogliere i pezzettini di carti, fattane una pallottolina la buttava lontano, in mezzo alla via. - Ci sono parecchi matti in questo paese! - esclamai ridendo. - Gran signore! Galantuomo! - si entusiasmava l'albergatore. - Se un amico va a chiedergli mille llre, non lo guarda in viso, glie le dà subito.... purchè ci vada con le scarpe pulite. Già il portinaio ha ordine di non far salire nessuno prima di avergli spazzolato i calzoni e nettato le scarpe.... Matto, cioè strano, ma galantuomo, gran signore! E appena si accorse che il barone, riaffacciatosi al terrazzino, guardava verso l'albergo, si cavò il berretto e gli fece una profonda riverenza. - Brava persona! - concluse. - Peccato che il figlio.... Basta; Dio lo aiuti! - E un cattivo soggetto? - Un prepotente, signore mio!... L'opposto di suo padre! Quel vecchietto, bianco di capelli, sbarbato, magro, con tanta aria di bontà nell' aspetto, e tanta dignità nei modi, che aveva spazzato poco prima il terrazzino e che un'ora dopo vedevo vestito di nero con elegante ricercatezza, in tuba e guanti, pronto per la passeggiata, era sùbito diventato un interessante soggetto di studio per me. L'albergatore mi aveva raccontato altri particolari intorno alle strade abitudini di lui. Non avendo niente da fare in tutta la giornata, volli divertirmi a osservarlo da vicino, andandogli dietro. Usciva di casa a ora fissa, alle dieci. Lo attesi sul marciapiedi davanti a l'albergo. Prima di varcare la soglia del portone di casa, egli si era fermato per guardare l'orologio. Io guardai il mio; mancavano due minuti alle dieci. Si mise a passeggiare su e giù per l'androne, cavando di tratto in tratto l'orologio di tasca; poi si fermò su la soglia con l'orologio in mano, e, alle dieci precise, scattò fuori, lesto, diritto su la persona, andando quasi a sbalzi. Da più di quarant'anni, tirasse vento, piovesse, nevicasse, faceva ogni mattina, dalle dieci alle dodici quella passeggiata pel sentiero fuori mano che serpeggia su la roccia flno alla cima di essa, dov'è piantata una chiesetta. Quando si accorse di me che lo seguivo a breve distanza, parve contrariato. Era abituato ad arrampicarsi solo su per quel sentiero da capre, e perciò si voltava e rivoltava a ogni dieci o venti passi, quasi volesse dirmi: - Mi faccia il piacere di tornarsene addietro! È un importuno! - E non si voltò più dopo che mi vide fermare a mezza strada, e mettermi a sedere su un rialzo. Ammiravo il paesaggio. La cittaduzza, incastrata fra quella cerchia di rocce acuminate, era inondata di sole. I tetti delle case, coperti di borracina verde, rossiccia, giallognola, sembravano tinti a posta perchè risaltassero tra il colore uniforme delle masse calcaree attorno, qua dure, là schistose. Le straducole erte, a scalinate, contorte, col selciato di lava nera, di lassù pareva formicolassero tra le case ammucchiate contro la roccia e quasi confuse con essa. E dietro le roccie e lontano, colline verdeggianti, boschetti di ulivi, vigne, campi di seminati cosparsi di papaveri, campi listati di lino in fiore, e altre colline e altri campi, come in un scenario, velati di azzurro, sfumanti in fondo, sul bianco delle montagne ancora coperte di neve. - Strano paese e strana gente! - esclamai, pensando al farmacista, che aveva fatto annerire al sole la tinta dei capelli e della barba, e al barone Saccaro co' suoi trecento sessantacinque vestiti di casa e le altre sue manie. Lo vedevo ritto in cima alla roccia davanti a la chiesetta, profilato sul cielo azzurro, con la tuba che stralucciava. Aspettava per discendere che io me ne fossi andato? Avrebbe ritardato insolitamente la sua rientrata in casa alle dodici precise? Da lì a poco mi passò davanti, serio, con le sopracciglia aggrottate, senza guardarmi, e questa volta, senza neppure voltarsi per vedere se lo seguivo. Più in là, osservato l'orologio, affrettava il passo; alle dodici meno un minuto era davanti al suo portone, con l'orologio in mano aspettando che passasse quel minuto fatale; varcava la soglia quasi con un salto. Vent'anni addietro, mi aveva raccontato l'albergatore, era morta la baronessa, santa donna a cui il barone voleva un gran bene. Il cadavere giaceva ancora caldo sul letto e il barone piangeva. Ma verso le nove e mezzo, frenate le lagrime, egli cominciava la sua toeletta ordinaria, alle dieci precise usciva dal portone di casa, asciugandosi di tratto in tratto gli occhi, e montava solo solo pel ripido sentiero della roccia, come se niente di nuovo fosse accaduto. Al ritorno, entrato nella camera mortuaria, col cappello in mano e la faccia inondata di lacrime, diceva alla morta: - Baronessa, ho pregato per voi lassù! Ho pregato per voi! - E fece lo stesso la mattina dopo, appena il cadavere fu portato via, prima delle nove secondo gli ordini da lui dati, perchè la sua solita passeggiata non soffrisse un minuto di ritardo. - Come era fatto quel cervello? Ruminai questo problema per quindici giorni, senza riuscire a risolverlo. Oggi che ci ripenso, dopo tanti anni, non so risolverlo ancora. Ogni mattina vedevo affacciare il barone al terrazzino con un vestito da casa diverso da quello del giorno precedente. Lo vedevo uscire e rientrare a ora fissa, con esattezza meravigliosa. - Era felice quell'uomo? No, non era felice; me lo disse egli stesso una sera. La sua passeggiata delle ore pomeridiane superava per la stranezza quella della mattina. Andava fuori di città, in un convento abbandonato e in rovina, e passeggiava per ore intere da un capo all'altro del corridoio centrale, sempre solo, in abito nero, guanti, tuba e canna d'India con pomo d'oro cesellato. I topi, ormai abituati alla sua innocua presenza, gli ballavano sotto gli occhi; le rondini, che avevano coperti di nidi la vôlta, gli svolazzavano attorno stridendogli agli orecchi, quasi si divertissero a dargli un po' di noia. Il vento sbatteva paurosamente gli usci delle celle deserte, parte senza tetto, parte senza solai; scoteva i vetri polverosi e coperti di ragnateli, della finestra di fondo e l'imposta tarlata del terrazzino al capo opposto del corridoio; l'ombra della sera invadeva il luogo, accrescendo la tristezza di quella desolata solitudine; e il barone andava su e giù picchiando con la punta della canna d'India i mattoni sdrusciti del pavimento, contando i giri di passeggiata che dovevano essere, non ricordo bene, se dugento venti o dugento cinquanta, non uno di più non uno di meno, in due ore. Non sapeva neppur lui da quanti anni facesse quella passeggiata, tutti i giorni, tirasse vento, piovesse, nevicasse. Una volta Io aveva sorpreso colà una forte scossa di terremoto. Erano crollati dei muri nelle celle accanto, erano cascati calcinacci dalla vôlta del corridoio dove egli passeggiava. Un altro sarebbe scappato via di corsa; ma egli era arrivato a non so quale centesimo giro; glie ne mancavano ancora parecchi per formare il numero sacramentale. Arrestatosi un momento, un po' sbalordito e impaurito, aveva sùbito ripreso ad andare in su e in giù, affrettando il passo per compensare il po' di tempo perduto. Una sera, dunque, non mi ero limitato a seguirlo fino alla porta del convento in rovina, da me visitato nei giorni precedenti. A costo di riuscire indiscreto, avevo montato le scale sdrucite e mi ero trovato faccia a faccia col barone nel lungo e vasto corridoio. - Scusi - dissi, salutandolo. - È forestiero? Giurato, credo - egli mi domandò dopo di avermi reso gentilmente il saluto. - In questo paese vediamo meno di rado faccie nuove dacchè vi è il Circolo delle Assise. - Disturbo, forse, - balbettai un po' imbarazzato. - Niente affatto. Questo convento è mio, - riprese, - nessuno ha il diritto di entrarvi, quantunque esso non abbia uscio alla porta.... Perché dovrei mettercelo? La gente ha paura di venire tra queste rovine. Io.... Oh, per me è un'altra cosa! Sono uomo di abitudini, e non ho mai voluto mutare il posto della mia passeggiata pomeridiana di ogni giorno.... Devono averglielo detto. Mi credono un po' matto. Eh! eh! Faccio il comodo mio, faccio quel che mi pare e piace, senza curarmi di quel che pensano e dicono gli altri. Lei, probabilmente, è venuto qui per accertarsi coi propri occhi.... Vede? Passeggio. Il luogo ha una grande e speciale attrattiva; non saprei però spiegargliela.... Abitudine. Ho dovuto comprarlo. Volevano farne una specie di caserma pel caso di arrivo di soldati in certe circostanze. Non avrei più potuto farvi la mia passeggiata.... Per ciò questo mucchio di macerie mi costa seimila lire; male spese, dirà lei. Ma una sera io l'ho trovato invaso dalla truppa arrivata la notte avanti. La sentinella non voleva farmi entrare. Dovetti parlamentare col tenente che aveva il comando, dare spiegazioni, pregare, insistere. Il corridoio era ingombro di paglia, di soldati sdraiati per terra, di soldati che ripulivano armi; il fumo dei fornelli del rancio toglieva il respiro. E passeggiai quella sera e le due sere seguenti, sotto gli occhi dei soldati che mi guardavano stupiti e motteggiavano, e ridevano. Ma la settimana dopo il convento era mio. - Se avessi saputo.... - dissi. - Non importa. Soltanto mi permetta di continuare. E m'invitò con la mano ad imitarlo. Aveva non so quanti altri giri da compire; li compì seguitando a parlare. Mi accorsi che li contava, aprendo e chiudendo i diti di una mano. - Ah, lei è felice! - lo interruppi. - Può cavarsi qualunque capriccio. - Felice? La mia vita è un continuo tormento, caro signore. L'idea che qualche incidente possa disturbare anche per un istante la regolarità, l'ordine che mi sono imposti, non mi dà pace un momento. Sto sempre come in attesa.... Ecco, sono le sette meno tre minuti; se dovessi rimanere qui fino alle sette e un minuto.... lei non può immaginar quel che soffrirei; così se arrivassi a casa mia dopo le otto. È ridicolo, è assurdo; ma che farci?... Ho trecento sessantacinque vestiti da casa, numerati, per ogni giorno dell'anno. Ho provato due o tre volte a indossarne uno diverso da quello destinato per quel giorno; ero come tra le fiamme; ho dovuto svestirmi. Io invidio, creda, gli sporcaccioni; ma se scopro un granellino di polvere sopra un mobile.... Rida pure; invece dovrebbe compiangermi. Darei tutte le mie ricchezze per fare l'opposto di quel che fo.... - Chi la costringe? - Io, io stesso! Qualche cosa che è nel mio sangue, ne' miei nervi, nel mio cervello.... Il mio destino! Sono solo; ho un figlio che fortunatamente.... o disgraziatamente - si corresse - non mi somiglia affatto. Chi lo sa? Forse è bene che io sia come sono; sarei, forse, più infelice di quanto sono adesso. Mio figlio.... S'interruppe, guardò l'orologio e si avviò: - Buona sera, signore! Rimane? - No; se mi permette l'accompagno. - Grazie; io vado di fretta. Buona sera! Doveva essere davvero un grande infelice colui, se due giorni dopo, quando gli riportarono morto, ucciso da uno de' suoi campieri in campagna, l'unico fìglio, invece di indossare un abito di lutto, dovette indossare un abito di filo bianco, candidissimo, perchè il calendario dei suoi vestiti gl'imponeva così!

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Doveva visitar anche tre o quattro malati poveri per assisterli e sovvenirli di medicine, di un po'di carne pel brodo, giacchè, a Ràbbato i poveri avevano orrore dell'ospedale, per la convinzione che colà i medici e i due assistenti, marito e moglie, li lasciassero perire di fame per sbarazzarsene più presto. Così donna Ortensia rimase libera di aprir lei l'altra porta che avrebbe dovuto aprire il Signore. Tinu Mèndola quella mattina era passato più volte per la via, portando a spalla parecchi grossi rotoli di cuoiame nella bottega del calzolaio là vicino. S'ingegnava di guadagnare qualche mezza liretta in un modo o in un altro, se non trovava di andar a lavorare in campagna. Donna Ortensia era scesa giù e l'aveva atteso su la soglia della porta. - Sentite, compare Tinu: dovrei parlarvi a quattr'occhi. Tinu ignorava che la Trisuzza fosse in casa di don Pietro. - Ora stesso, se volete, donna Ortensia, ai vostri comandi. - Entrate, compare Tinu. E donna Ortensia chiudeva la porta. - Scusate, se mi mescolo dei fatti vostri. So che siete un buon giovane, lavoratore, da ridarsene; altrimenti, siatene certo, non ci metterei le mani. - Grazie, donna, Ortensia. Tinu Mèndola la guardava negli occhi, intrigato dall'aria misteriosa con cui donna Ortensia parlava. - Voi non sapete che lo Stortaccio ha scacciato via di casa sua figlia.... - Perchè non vuole andare a servizio dal cavaliere Ferro? Ah! Lo aveva minacciato e l'ha fatto! Donna Ortensia raccontò rapidamente quel che era accaduto. - Il meglio è che vi sposiate subito, se le volete bene davvero. - E chi mi dà i quattrini per le spese? Anche per rompersi il collo, come suol dirsi, occorrono quattrini. Io, donna Ortensia, tanto piacere! Si era detto con la Trisuzza: - Appena sarò entrato come garzone del Nuzzaru, a capo d'anno, tra sette mesi. - Alle spese c'è chi provvede.... - E al resto? - Un po'anche al resto, non dubitate. - E dov'è quella poveretta? Ditemelo, donna Ortensia! - In luogo di salvezza.... Qui, giacchè volete saperlo. - Lasciatemela vedere, ve ne scongiuro! - Qui non ve la tocca nessuno..... Il sant'uomo vorrebbe collocarla a servizio da qualche buona famiglia; ma io ho pensato: Il meglio è uscirne una volta per sempre; le cose lunghe diventano serpi. Un colpo di tosse di cima alla scala li fece voltare a guardare in su. La Trisuzza, vedendosi scoperta, scese rapidamente i pochi gradini, e, non sapendo come comportarsi, abbracciava donna Ortensia, che voleva fare la severa, la burbera, rimproverandola: - Chi vi ha chiamato?... Andatevene, compare Tinu; di quest'affare riparleremo un'altra volta; venite quando è in casa il padrone. - Non mi dici neppure una parola, Trisuzza? - Come se col pianto si riparasse a qualche cosa! - fece donna Ortensia, svincolandosi e andando ad affacciarsi alla porta per accertarsi se passava gente per la via. In quell'istante la Trisuzza sussurrò qualcosa a Tinu, che rispose affermativamente con gli occhi. - Via, lesto - disse donna Ortensia. - E riflettete bene intorno a quel che vi ho detto. Ripassate domani alla stess'ora, e salite su a dirittura. In chiesa, terminate le funzioni, l'addobbatore proseguiva l'opera sua sotto la direzione dl don Pietro. Il sacrestano chiudeva le porte, O tutti e tre parlavano a voce alta, quasi non si trovassero nella casa di Dio. È vero che dal tabernacolo dell'altare erano stati tolti il Sacramento e la pisside con le ostie consacrate. Il cattivo esempio intanto lo dava il sacrestano, abituato a stare in chiesa come in casa sua; l'addobbatore aveva la scusa di essere un po' sordo e di figurarsi, come tutti i sordi, che fossero tali anche gli altri. Don Pietro, seduto in un posto dello stallo dei canonici, doveva gridare per forza, se voleva essere udito dall'addobbatore che Io consultava frequentemente, sapendo che bisognava contentarlo, perchè infine era colui cha pagava. Lavorando, ragionavano anche del più e del meno, per passare il tempo. E fu così, a proposito di certa carne di vaccaccia vecchia che il Municipio permetteva al macellaio di vendere come carne di vitella, fu così che l'addobbatore disse a don Pietro: - Si sa che voscenza non ne ha mangiato. A voscenza piace la carne tenera.... la vitellina di latte.... macellata in casa. E il sacrestano, ridendo, accennava di sì con la testa. Dapprima don Pietro non aveva capito la maligna allusione; ma l'addobbatore soggiunse: - E c'è chi è rimasto a bocca asciutta! E per ciò va sbraitando qua e là che.... che.... Ma i buoni bocconi sono di chi sa pigliarseli; è vero, signor don Pietro? - Certe cose, non si dicono neppure per ischerzo! - egli rispose. - Vi parrebbe bello se qualcuno si permettesse d'insinuare che vostra figlia.... - In primis, io non ho figlia.... E poi il cavalier Ferro diceva soltanto: - A questo mondo così: uno toglie di bocca all'altro la preda! E don Pietro Sbano me l'ha fatta! - Dio gli perdoni! Dio gli perdoni! - E che male c'è? Che cosa ne abbiamo di questa vitaccia, se non.... - Zitto! Rispettate il luogo dove siete! Se l'aspettava. Non gli dispiaceva per lui, ma per quella disgraziata, che a quest'ora andava per le bocche di tutti gli sfaccendati di Ràbbato. Avrebbe dovuto dunque gettarla in mezzo a una via o consegnarla con le sue stesse mani al cavaliere? Ma che doveva importargli dei pettegolezzi, delle calunnie della gente? Male non fare, paura non avere. Intanto la ragazza era in salvo. Povero don Pietro! Se in quel punto avesse avuto la visione di quel che accadeva in casa sua! Se avesse visto che la Trisuzza, mentre donna Ortensia badava in cucina, afferrava lesta lesta la mantellina di panno, se la buttava in testa e scendeva a due a due gli scalini! Tinu Mendola, appoggiato alla cantonata, l'attendeva da un quarto d'ora; e appena ella uscì dalla porta le fe'cenno di seguirlo da quel lato del vicolo.

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Le sere di estate, appena l'omo tornava dalla campagna, marito e moglie si sedevano davanti a l'uscio, col bambino su le ginocchia, orgogliosi di lui, così delicato a così bello, assai più che se fosse stato davvero figlio loro. - È un angelo, zi' Cola! Il vecchio zi' Cola, dall'uscio di rimpetto, crollava il capo, accigliato e musone. - Non è vero forse? - insisteva la donna. E allora lo zi' Cola rispondeva sentenziosamente: - Tutti i figli di male femmine sono fortunati! - Perchè di mala femmina questo qui? Che ne sapete? - Altrimenti non sarebbe voluto bene così! Se volevate fare una santa carità, dovevate prendere uno dei bambini di comare Stella, che non sa come sfamarli. Ai muli deve pensare il re. - Ma che muli! Sono creature di Dio, disgraziate, abbandonate. - Ai muli deve pensare il re! Lo zi' Cola appoggiava il mento su le mani sovrapposte al suo bastone di ciliegio e socchiudeva gli occhi, aggrottando le sopraciglia. Pensava all'antica: per lui i trovatelli erano muli; e a loro doveva provvedere soltanto il re, che voleva dire: il governo. Ma Rosa, in risposta, baciava forte il bambino, dicendo: - Questo è barone, principe, re di casa mia! E suo marito, grave, con le mani su le ginocchia, guardava lei e il bambino, e non diceva niente. Le vicine, invidiose e maligne, vedendo quel trovatello vestito come un signorino, lo chiamavano, per dispetto: il mulo di Rosa. E Rosa, se le udiva, lasciando d'impastare il pane, si affacciava su l'uscio con le braccia nude intrise di pasta, e cominciava a sbraitare: - Femminacce senza educazione e senza cuore! Muli saranno i figliacci vostri, se non avete carità per una povera creatura che non vi fa nessun male! - Con chi parli, pettegola? - Parlo con tutte! Romperò il muso a qualcuna! E quando il ragazzo, già cresciuto, nel fare il chiasso con gli altri suoi pari, si bisticciava e si azzuffava con essi, e tutti gli gridavano: - Mulo! Mulo! - ed egli si metteva a piangere perchè lo chiamavano come la sua mamma non voleva, Rosa diventava una furia, e correva addosso ai ragazzacci dando spintoni e scapaccioni. - Se non ne storpio uno, non sarò più Rosa Zoccu! Suo marito, arrivando dalla campagna la trovava in lagrime per questo. - Lasciali dire! - la confortava. - Gli tolgono forse il pane di bocca? Il pane lo avrà meglio assai dei figli loro. È tutta invidia! Lasciale dire. Ora lo manderemo a scuola.

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Per Rosa e suo marito, il giorno della loro andata a Caltagirone a prendere il bambino, il giorno in cui lo avevano menato a scuola, e l'altro che gli avevano udito recitare di sul palco, tra figli di signori ed altri compagni di scuola, la parte di angelo nella Festa dei Pastori, erano date indimenticabili, di cui essi ragionavano spesso, ringraziando Dio e la Madonna. - Vedi? Da quell'anno tutto ci è andato bene. Col bambino è entrata in casa nostra la buona fortuna. Domani comprerò un altro bue; avremo due aratri. Prenderò un'altra mezzadria. - E la bella tela? E la chioccia coi pulcini? E il maiale da vendere a Natale? Tutto per lui! Non sembra un bambino, tanto è assennato! - Il maestro mi ha detto: Avrà il primo premio. Ora dovete fare uno sforzo maggiore, mandarlo a Caltagirone per le altre scuole. - Solo? - Come gli altri. Andrò io con lui. Che farà altrimenti? Si troverà sperduto. - Ha tredici anni; farà come gli altri, - conchiuse il marito. - Ho un compare a Caltagirone; lo affideremo a lui. Sognavano la felicità futura, la prossima premiazione. Rosa voleva fare un bel pranzo quel giorno, e invitare anche qualche vicina, e mandare pane, vino e carne alla povera comare Stella che periva di fame con tanti figliuoli; non dovevano esser felici loro soli. Ma fu appunto quel giorno che il postino venne a dirle: - C'è una lettera raccomandata per vostro marlto. Venite all'ufficio con qualcuno che possa far la firma per lui che non sa scrivere. - Una lettera?... Di chi? - Che volete che ne sappia? Il caso era così insolito, che la povera donna pensò subito a qualcosa di cattivo. E si buttò lo scialle indosso e corse all'ufficio postale mezza stralunata. - Una lettera? Di chi? Non abbiamo parenti, nè prossimi, nè lontani! E quando l'ufficiale postale gliela consegnò, ella la voltava e rivoltava; quei cinque sigilli di ceralacca rossa le sembravano una stregoneria. - L'apra, la legga lei - disse all'ufficiale postale. Le tremavano mano e voce nel porgergliela. Se lo divorava con gli occhi, ansiosa, con un groppo alla gola senza sapere perchè, mentre colui scorreva le quattro pagine fitte del foglio, scotendo la testa quasi leggesse cose strane. - È del padre, - disse finalmente l'ufficiale postale, supponendo ch'ella dovesse sùbito capire. - Quale padre? - Del padre del vostro trovatello. Dice che viene a riprenderlo. Sposa la madre, lo riconosce.... È Giudice di Tribunale.... Vi compenserà di tutte le spese.... Arriverà tra otto giorni!... Rosa gli spalancava gli occhi in viso, pallida come un cencio lavato, incredula, aspettando che colui le dicesse; Vi ho fatto un brutto scherzo. Ma quegli insisteva, ripetendo: — Vi compenserà di tutte le spese. Ella era istupidita; aveva una gran confu- sione nella mente, .e il cuore le batteva violen- tissimo nel petto, quasi stesse ì ì per scop- piarle. Possibile? Riprendere il bambino? Fra otto giorni?... E la legge? E la giustizia? No, non era possibile! — Ha letto bene, voscenza? -- balbettò. — Fatevela leggere da un altro! E andò via barcollando, con la fatale lettera in tasca. Ma .lungo la strada cominciò a capire. La cosa però le sembrava così enorme, che non voleva crederla. Come? Si poteva dunque buttar via la propria creatura, e poi, quando altri l'aveva allevata, cresciuta, educata, quando altri le voleva più bene dei parenti sciagurati che se n'erano sbarazzati appena mèssala al mondo, questi potevano presentarsi e dire: - Dateci quel bambino; è nostro! - la legge lo permetteva? Ah, voleva vederla! Voleva vederla! Non c'era Dio in cielo, nè Madonna, nè santi, se questa mostruosità poteva accadere! Ah, voleva vederla, se i carabinieri sarebbero venuti a strapparli di tra le braccia la creatura ora sua! Le lagrime le inondavano il viso, ed ella non pensava ad asciugarselo; non si accorgeva di trascinare lo scialle cascatole dalle spalle; gesticolava, mostrava i pugni a colui che doveva arrivare fra otto giorni.... - Che vi è accaduto, comare Rosa? - Niente! Niente! Andava quasi di corsa, e davanti a casa sua, visto Nino che faceva il chiasso con gli altri ragazzi, lo prese per un braccio e lo trascinò dentro e chiuse la porta con tanto di stanga. - Perchè, mamma? - Niente! Niente! Lo baciava, tenendolo stretto stretto tra le braccia, su le ginocchia, quasi dietro l'uscio ci fosse già colui che doveva venire a riprenderglielo. E lo tenne così fino a sera; e quando suo marito picchiò all'uscio, chiamando: Rosa! Rosa! - ella impose al ragazzo: - Non ti muovere di lì! E scese la scala, rivolgendosi indietro più volte, per timore che il ragazzo non la seguisse. - Vogliono levarci il figlio! - disse al marito, scoppiando in pianto dirotto. - Chi? - Suo padre! Ha scritto una lettera! Dapprima il pover'uomo credette che sua moglie fosse impazzita. E alzò le spalle, dicendole: - Sciocca! E tu ti figuri che è facile? Guardava anche lui, diffidente e irritato, la lettera che sua moglie avea cavata di tasca. E stava a sentire a bocca aperta, come un ebete, quel che Rosa gli riferiva, interrotta da singhiozzi, strappandosi di tratto in tratto i capelli: - Verrà fra otto giorni.... È Giudice di Tribunale.... Sposa la madre! - Zitta! Zitta, pel ragazzo! Dammi quella lettera; vò a consultare mastro Simone il fabbro-ferraio, che ne sa più di un avvocato.

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Don Franco, dalla rabbia, era diventato più magro e più giallo dell'ordinario, e non sapeva discorrere d'altro con le persone a cui portava le citazioni e gli atti uscerili, quasi che tutti dovessero interessarsi di quella sua disgrazia, di quel suo castigo di Dio, com'egli diceva, esaltandosi: - Vedrete! Qualche giorno farò un gran sproposito! Vedrete! Ma il gran sproposito non lo faceva mai, perchè Zitu portava sempre la daga al fianco, ed era protetto dal Sindaco. Si sfogava però contro la figliuola e anche contro la moglie, che gli pareva tenesse il sacco a quella pazza, a quella sciagurata. - Che cosa volete che io faccia? - gli rispondeva donna Sara, piagnucolando. - Dovreste spaccarle la testa, quando s'affaccia alla finestra! - Le finestre le tengo sempre chiuse; non sentite che tanfo? Manca l'aria; non si respira qui dentro. - Le finestre devono anzi restare aperte, spalancate notte e giorno, e costei non deve affacciarsi! Urlava perchè Benigna, la figlia, lo sentisse dall'altra stanza dov'era andata a chiudersi a fine di evitare la solita scenata, prima che suo padre si avviasse per la Pretura. - Ah, Signore, Signore! Com'è svampato questo fuoco in casa mia? Come mai? Donna Sara si picchiava con le mani la testa spettinata, buttandosi sur una seggiola, e portando una cocca del grembiale agli occhi per asciugarsi le lacrime. Don Franco però stava sempre sul chi vive; e al minimo momento di largo, scappava dalla Pretura e piombava in casa all'improvviso, per sorprendere la figliuola e Zitu, se mai per caso.... E nei giorni che gli toccava di assistere alle udienze pareva una mosca senza capo; specialmente se Zitu stava là a disposizione della giustizia assieme con due carabinieri, e lui doveva rivolgergli la parola e partecipargli un ordine del pretore per qualche testimone che mancava. Zitu gli sorrideva con aria ossequiosa, rispondendo: - Va bene, caro don Franco! E appena egli usciva dalla sala, Don Franco perdeva la testa peggio di prima. Gli pareva che Zitu dovesse approfittare della bella occasione di saperlo incatenato là, dall'ufficio di usciere, per dare liberamente una capatina laggiù e fare lo smorfioso con la ragazza che forse lo aspettava alla finestra. Per ciò egli regalava qualche soldo al figlio del falegname che aveva la bottega di faccia a casa sua: - Sta' a vedere se passa Zitu! C'è due soldi per te; vieni a dirmelo sùbito in Pretura. Siccome i soldi glieli dava soltanto quando il ragazzo gli andava a dire: - È passato! - così costui, dopo parecchie volte, per guadagnarsi la mancia, gli riferiva: - È passato! - anche quando non era vero, - E lei, lei era alla finestra? - Era alla flnestra. - E gli ha fatto dei segnali? - Gli ha fatto dei segnali, col fazzoletto bianco! Don Franco si strizzava le mani, si mordeva le labbra, smaniava. Ma doveva star là, a chiamare i testimoni, fino alla fine dell'udienza; e poi accompagnare a casa il pretore, che si divertiva a interrogarlo, avendo indovinato di che cosa si trattava, perchè, sapeva la cosa. - Che avete, Don Franco? - Ho il castigo di Dio, signor pretore! - Infine, se la ragazza lo vuole.... - Piuttosto l'ammazzo con le mie mani, signor pretore! - Ma prima con Zitu eravate stretti amici mi pare. - È stato un tradimento, signor pretore! Quel che don Franco chiamava tradimento era avvenuto la sera della processione del giovedi santo, mentre sparavano i mortaretti, appena la statua del Cristo alla Colonna era uscita dalla porta della chiesa, tra il salmodiare dei canonici e le grida dei devoti: Viva il Santissimo Cristo alla Colonna! Tra la folla, qualcuno aveva osato di dare un pizzicotto a una donna, che s'era rivoltata e aveva fatto nascere una zuffa. Pugni, schiaffi, bastoni per aria, fuggi fuggi, donne svenute, bambini travolti, accorrere di guardie e carabinieri, tumulto! E Zitu aveva raccolto Benigna, bianca come un cencio lavato, inerte, svenuta anche lei per lo spavento; e avea dovuto prenderla in collo e portarla fino a casa, nel vicolo vicino; e aiutare donna Sara che strillava e piangeva, e non riesciva a sganciare il busto della figliuola stesa quant'era lunga sul letto, come una morta. - Un po' d'aceto, donna Sara! Non è niente, Si era dato un gran da fare. Da un pezzo, egli avea posto gli occhi addosso alla ragazza, e voleva approfittare di quell'occasione per diventare amico di famiglia. E aveva spruzzato d' acqua fresca il viso della svenuta, e le avea prodigate frizioni di aceto alle narici e alla fronte, e frizioni alle mani per rimettere il sangue in circolazione, consolando la mamma che non sapeva fare altro che piangere e disperarsi: - Non è niente, donna Sara! Don Franco era sopravvenuto quando Benigna aveva potuto mettersi a sedere sul letto, ancora pallida e sbalordita, e Zitu le stava attorno premuroso, insistente: - Un dito di vino; vi farà bene. E le reggeva la testa e le accostava il bicchiere alle labbra. Don Franco ansimava per la corsa e per la fretta con cui aveva montato gli scalini a quattro a quattro, appena gli avevano detto: - Accorrete; vostra figlia è ferita! E non poteva parlare, e tastava la figliuola, per indovinare dove fosse ferita. Poi balbettò: - Dove?... Dove? Zitu, capito l'equivoco, rise, e versò un bicchiere di vino anche a lui, dicendo: - Si sa: tempo di guerra, bugie terra terra. - Ah!,.. Se non c'era lui! Donna Sara si profondeva in elogi e ringraziamenti, ricominciando a singhiozzare per gratitudine, per tenerezza. - Come vi sentite ora? — domandava Zitu alla ragazza. Benigna gli sorrideva, facendo una mossettina con la testa, significante: - Sto meglio! - Un altro sorso di vino? - No, grazie! - Allora lo bevo io alla vostra salute! - È stato un miracolo del Santissimo Cristo alla Colonna! — concluse donna Sara. E Zitu approvò, e don Franco pure. - La moglle di Titta il Sordo ha la testa spaccata - egli soggiunse in conferma dell'esclamazione della moglie. E uscì di casa assieme con Zitu, che lo invitò a bere un bicchiere di vino nell'osteria di Patacca, perchè passando davanti la porta lo zi' Patacca li aveva salutati. Volevano raggiungere la processione. Intanto nella Piazza dei Vespri Zitu replicò l'invito davanti all'osteria di Scatà. - Un dito solo, vi farà bene; qui il vino è assai migliore di quell'altro, sentirete. A don Franco parve male rifiutare. - Eh? Che ne dite? - Sì, sì; questo non è battezzato. - Un altro bicchiere! Quando arrivarono nel piano di Santa Maria, la processione era già lontana. All'angolo c'era la rivendita della Guadagna, con la frasca di alloro su la porta e il lanternino acceso. - Qui si trova quello di Vittoria, schietto, schietto. - No, grazie, compare Santi. Ma compare Santi, prèsolo per un braccio, lo spinse dentro. - L'ultimo bicchiere, caro don Franco! Quell'ultimo bicchiere gli sciolse la parlantina, lo mise in allegria. Don Franco volle raccontare all'ostessa il fatto della processione, il miracolo del Santissimo Cristo alla Colonna! S'imbrogliava, si riprendeva, tornava a imbrogliarsi, e a ogni po' batteva su una spalla di Zitu: - Bravo figliuolo! - guardandolo con gli occhi rimpicciniti, ammamolati: - Bravo figliuolo! Donna Sara e Benigna, quando lo videro rientrare barcollante, col cappello su la nuca, esclamarono sbalordite: - Oh Dio!... Che cosa avete fatto? - Bravo figliuolo quello Zitu! Fior di galantuomo! Viva il Santissimo Cristo alla Colonna! E si lasciò cascare su la seggiola vicina, ridendo in modo strano.

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Le Verginelle, vestite a festa, si erano radunate in casa di donna Sara. Ce n'era voluto per indurre Benigna ad andare anche lei; infatti quella mattina ella s'aggirava attorno per la casa, con gli occhi rossi dal pianto, squallida per la nottata passata senza dormire, a discorrere con Zitu dalla finestra di cucina. Zitu le aveva fatto fare un giuramento: Laggiù, alla Làmia, mentre le Verginelle stavano a cantare il rosario nella grotta grande, ella doveva andare a raggiungerlo nella grotticina in fondo al Santuario; voleva parlarle a quattr'occhi. Nessuno se ne sarebbe accorto; ci si vedeva così poco in quelle grotte affumicate! Egli era amico dell'Eremita che custodiva il Santuario; sarebbe andato là la sera avanti: - Giura che verrai!... - Giuro, se posso senza dare sospetto! - Se vorrai, potrai! Giura un'altra volta! E la poverina aveva giurato. Per questo aveva gli occhi rossi, per questo tremava. Per la via c'era folla; tutte le comari alle finestre o su gli usci. E quando il sagrestano venne a dar l'avviso che il prete era già partito avanti perchè andava a cavallo, la processione delle Verginelle s'istradò recitando il rosario, e fu presto in piena campagna. La giornata era splendida; la campagna bionda di seminati; i contadini che andavano al lavoro si fermavano, si tiravano da parte nei punti dove la strada era larga, per lasciar passare le Verginelle che, finito il rosario, procedevano a gruppi, ridendo, ciarlando, cantando anche delle canzoni di amore. Una delle ragazze presa a braccetto Benigna, le confidava le sue pene. Era innamorata anche lei, e i parenti la osteggiavano: - I parenti fanno sempre così! Ma io, se essi tengono ancora duro.... E con la mano accennava che avrebbe preso la fuga col suo innamorato. - No, queste cose non si fanno! - esclamò Benigna, - Mia zia ha fatto così, - rispose la ragazza. - Ed ora sono tutti in pace in famiglla. La strada era diventata viottolo scosceso; già si vedevano le roccie rossastre e la vallata; il Santuario si trovava là, in fondo. E come più si avvicinava, Benigna si sentiva piegare le gambe sotto, tremava tutta. No, non avrebbe saputo sfuggire alle compagne e alla sorveglianza della mamma; non sarebbe riuscita a trovare la grotticina indicata quantunque avesse giurato. Oh Dio! Perchè aveva giurato?

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Il prete era a pie' della gradinata scavata nel vivo masso, col sagrestano e l'Eremita. La cavalcatura del prete, legata a un albero, mangiava tranquillamente l'erba fresca. Che pace, che tranquillità nella valle! Le tàccole e i falchetti volavano, gracidavano, squittivano su per la roccia; tra i pioppi che fiancheggiavano il ruscello, un usignuolo gorgheggiava. Le grotte echeggiavano sordamente di canti, di risate. Le Verginelle si disposero in fila, intonarono il rosario e cominciarono a salire la scala strettissima, chinandosi per entrare nel Santuario da quella porta o piuttosto buca. Nella seconda grotta, vastissima e nera, le quattro candele accese sull'altare pareva addensassero l'oscurità attorno. Il prete indossava i paramenti sacri aiutato dal sagrestano. L'Eremita andava disponendo le Verginelle a sei a sei, in tante file davanti a l'altare, scartando questa o quella, indicando il posto a donna Sara, prendendo per mano Benigna e collocandola in coda a tutte. Benigna si sentì morire quando l'Eremita, sfiorandole il viso con la lunga e ispida barba, le susurrò in orecchio: - E là; vi darò io il segnale. E le s'inginocchiò a lato, rispondendo ad alta voce al rosario, intanto che il prete diceva l'introibo. Poco dopo infatti egli la prese per mano, la sollevò, la spinse indietro. Benigna vide, in fondo in fondo, un po' di luce e un fantasma che le veniva innanzi. Sudava freddo, non respirava; e tra le voci del rosario, udiva soltanto quella dell'Eremita che rispondeva più forte di tutte! - Santa Maria, madre di Dio! Dopo la messa, su Io spianato, mentre le Verginelle, fatta la refezione, ballavano al suono del cembalo che una di loro aveva portato, donna Sara si era accostata alla figlia. Benigna pareva stralunata, aveva le lagrime agli occhi, e non badava al prete che, raccontando il miracolo della scacciata dei diavoli operata colà dalla Santa, additava le buche della roccia d'onde i diavoli erano scappati alla vista della croce. - Che cosa hai? - Niente. - Il miracolo è fatto! - disse l'Eremita, sorridendo e lisciandosi la barba.

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E don Franco, che dovette piegare la testa e cascò malato dal dispiacere, oltre al Santissimo Cristo alla Colonna, tenne broncio anche a Santa Agrippina che lo aveva costretto in quel bel modo a imparentarsi con un birro!

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- Che gli costerebbe dire a Domeneddio - lo ha tutti i giorni, come suol dirsi, tra piedi: - Signore, rivelatemi tre numeri, tre soli, di quelli che usciranno sabato prossimo al lotto, perchè io vada a indicarli in sogno a mia moglie? Non vedete come stenta con tutti quei debiti e con le liti che le ho lasciato su le braccia? - Uh! non si rammenta neppure nè di me, nè delle tre orfanelle che già spighiscono in casa gialle e magre, e non trovano un cane che le voglia. Forse che lui in paradiso ha più bisogno di mangiare, di vestirsi, di pensare ai debiti, alle liti, alla moglie, alle figliuole? Pensò in fine di vita, alle sante messe, al rosario: - Mita mia, figliuole mie, pregate per me, io pregherò per voi lassù! E da tre anni ch'era lassù, non le era venuto in sogno nemmeno una volta, tanto da mostrare che si ricordasse di loro. Perciò donna Mita, la sera, recitando il rosario con le figliuole, da un pezzo non diceva più un'avemmaria per l'anima del marito. Invece diceva paternostri e avemmaria per l'avvocato, pel procuratore legale e pei giudici, affinchè il Signore schiarisse loro la mente, e difendessero bene i diritti delle orfane e facessero giustizia nelle tre liti che non finivano mai con quell'animaccia storta di don Basilio Cuti. Ora toccava a lei agire da uomo: sollecitare gli avvocati, dare schiarimenti al Tribunale, alla Corte, buttarsi ai piedi di questo e di quello per una buona raccomandazione, e sventare gli intrighi dell' avversario che ne inventava sempre uno più infernale dell'altro e non dava requie, e voleva ridurle all'elemosina, quasi non fossero state parenti e non si chiamassero Cuti anche loro! In poco tempo era invecchiata di dieci anni col pensiero fisso di quelle liti. Già aveva tutto il codice a memoria meglio degli avvocati e del procuratore legale, quantunque sapesse appena leggere e scarabocchiare la propria firma. Ah, il Signore chi sa dove aveva il capo nel momento che stava impastando lei e suo marito! Avrebbe dovuto dare i calzoni a lei e la gonna a lui, e allora le cose di famiglia sarebbero andate altrimenti! Ma non si perdeva d' animo. E quando qualcuno le diceva: - Fate una transazione; sarà meglio! - lei agitava violentemente le mani e la testa, socchiudendo gli occhi, strizzando le labbra, per significare: - No No! - Non voleva lasciar spogliare le tre povere orfane. Finchè lei aveva fiato, avrebbe dato filo da torcere a quel brigante di don Basilio. E l'avrebbe spuntata, n'era sicura, sicurissima! E il giorno in cui avrebbe vinto le liti, avrebbe fatto dire una solenne messa cantata ai patriarca San Giuseppe, con cento torce nuove all'altare e gran scampanìo e mortaretti e banda musicale, dall'alba alla sera, per far crepare di rabbia don Basilio e tutti coloro che le volevano male. E poi, nozze, sùbito sbùito; perchè le figliuole allora avrebbero una grossa dote, duemila e più onze ognuna, e i mariti piomberebbero da tutte le parti. Quando c'è il miele le mosche accorrono a torme. E così lei farebbe la gran vendetta! La gran vendetta era quella di maritare le figliuole fuori del paese, a Caltagirone, a Vizzini, a Militello, in capo al mondo, ma non in quel suo paesaccio di tangheri, che ora non le degnavano d'uno sguardo perchè, se non vincevano le liti, sarebbero rimaste con la sola camicia indosso. - E le virtù domestiche non contavano niente dunque? Parlandone con gli altri, donna Mita non rifiniva di esaltare le virtù domestiche di quelle tre ragazze, di quelle angiole, come aggiungeva sempre; ma in famiglia era un'altra cosa. Le sgridava tutta la santa giornata, ogni volta che gli affari non la sballottavano di qua e di là, dall'avvocato, dal notaio, dal sindaco, dall'agente delle tasse, o a Caltagirone, in Tribunale, o a Catania, in Corte di appello o dagli avvocati o viva e se ne stava con le mani in mano, secondo lei, nè avrebbe fatto fare un passo alle liti senza il pungiglione di lei. Quelle tre grulle frattanto pensavano forse un momento ai casi loro? Attendevano la manna del cielo, come gli ebrei. E se la manna non veniva? E se le liti, Dio ne scampi, si perdevano? Meno male Rosa, la mezzana, che si era fatta monaca di casa! S'era data a Dio, e del mondo non voleva saperne. Le monache del Monastero Vecchio le davano da cucire, da ricamare, e l'abbadessa le diceva spesso: Se accadrà, una disgrazia, ti prenderò con me! Ma, quelle altre due? Rita, la maggiore, per esempio, o non s'era messa in testa di sposare un massaio? Una Cuti, figlia di quel don Paolo Cuti, che, se era stato uno sciocco e si era fatto mettere in mezzo da quell'arpia di don Basilio, era stato però un galantuomo, agrimensore e anche consigliere comunale! Sì, sì; il massaio era ricco: fondi, muli, carrette, e ogni ben di Dio. Che cosa importa? E quando avrebbero vinto le liti, le due mila e più onze della dote avrebbe dovuto godersele quel villanaccio? Giacchè costui non la sposava pei begli occhi di lei, ma in vista della dote futura. E colei osava di dire: Intanto muoio di fame! Non moriva di fame anche lei, ch'era stata avvezzata a vivere da signora in casa sua? Non si rassegnava anche lei a portare addosso quegli stracci stinti, lei che aveva avuto vesti di lana e di seta, e le dita piene di anelli, e le mani sempre pulite, giacchè in casa stia ci erano due serve, e un servitore? - E perchè poi un Massaio? Non esistevano altri uomini al mondo? - Debbo andar a cercarli io? - rispondeva Rita, con le labbra spumanti tossico. - Se tu sapessi fare! - Ora farò la civetta, starò alla finestra tutto il giorno, a uccellare! E donna Mita, travolta dallo sdegno contro il massaio che insidiava la futura dote della figliuola, si lasciava scappare di bocca: - Le civette, prima o poi, se lo beccano sempre un tocco di marito. Rosa era bruttina, aveva già trentadue anni; donna Mita, in cuor suo, la compativa. Ma quell'altra sciocchina di Quarinta, chè non voleva dar retta al figlio del notaio Carcò? Povero ragazzo, stava per ore e ore alla finestra di cucina, suonando il flauto; e lei non c'era caso che si affacciasse o che gli dèsse un'occhiata se si trovava al balcone; come se quel Gran Dio, morir sì giovane! che il fiauto piangeva dieci volte il giorno non fosse stato diretto a lei! Quello là, almeno, era figlio di notaio. E la grulla non voleva saperne! Chi mai si figurava che dovesse sposarla? Un barone? Un principe?... Vittorio Emanuele? E per tenere in fresco quel povero giovane, che doveva essere proprio cotto di Quarinta se non si era scoraggiato dopo tanto tempo, donna Mita correva lei al balcone appena sentiva ie prime note dell'eterno Gran Dio, morir sì giovane! e sorrideva al ragazzo e gli diceva: - Suoni come un serafino, figliuolo mio! Quarinta, certe volte, ha le lacrime agli occhi! Il ragazzo arrossiva, ringraziava e tornava a soffiare nel flauto, allungando le labbra, gonfiando le gote, col capo chinato da una parte, contento di sapere che la figlia di donna Mita si commovesse tanto al suono del flauto di lui, a quel pezzo della Traviatu. E non cambiava pezzo mai. Era un sacrificio per donna Mita far quasi all'amore per conto della figliuola; ma il destino voleva così, e bisognava adattarsi alle circostanze. Ella si adattava a fare ben altro, quando venivano al pettine certi nodi per tirare innanzi le liti. Una volta le posate d'argento, un'altra gli orecchini e gli anelli, poi gl'istrumenti da agrimensore del marito, poi la lana delle materassa, sostituita con crine vegetale o con paglia; tutto era andato via di casa, in mano degli usurai. Chi sa se la bella argenteria vecchia ella l'avrebbe riveduta mai più? E gli orecchini e gli anelli, chi sa se sarebbero tornati a splendere agli orecchi e alle dita di lei e delle figlluole? Ora le toccava qualche volta andare da un'amica, da un conoscente, e raccontare tutti i suoi guai per intenerire quei cuori, senza far le viste di chiedere in elemosina vestiti smessi, legna o carbone, un fiasco di aceto o una bottiglia d'olio, da rendere, s'intendeva, appena vinte le liti; per le quali mandava accidenti all'animaccia storta di don Basillo che la costringeva ad essere importuna. E quando le litl gliene lasciavano il tempo, faceva visite, assisteva malati e partorienti, correndo dal medico, dalla levatrice, dando mano alla serva in cucina, rassettando, ripulendo, facendo insomma in casa altrui quel che era inutile facesse in casa propria, dove non c'era più quasi nulla da ripulire e rassettare; manovrando finamente perchè all'ora del pranzo la invitassero a restare, o perchè dopo pranzo potesse portar via qualche cosa per le figliuole, che mangiavano soltanto qualche uovo delle galline di casa e un po' di verdura condita con due goccie d'olio. Appena la serva dava mano ad apparecchiare la tavola, e si udiva l'acciottoìo dei piatti e il rimescolìo delle posate nella sala da pranzo, donna Mita si alzava da sedere, fingeva di cercare attorno, su per le seggiole, o sul letto - dove l'aveva mai riposto? - il suo scialle nero ritinto e con la frangia a sbrèndoli. - Come? Andate via? Fate penitenza con noi. - No, no! Sarà troppo incomodo. E poi le figlie m'aspettano per mettere giù la minestra nel brodo. - Manderemo ad avvisarle. Faceva un gesto di rassegnazione; non aggiungeva una sola sillaba, per timore che non la prendessero in parola. - Allora darò una mano in cucina. E la serva la vedeva apparire davanti ai fornelli, quasi la padrona fosse stata lei. - Da' qua! Hai messo il sale? E assaggiava il brodo. - Da' qua! E tagliava una fettina di carne, per vedere se l'arrosto era a punto. E a tavola si vantava della bontà del brodo e dell'arrosto. Aveva dovuto mettere il sale lei, e lei far cuocere bene l'arrosto. - Non ne fanno una diritta queste serve! E dopo pranzato, scappava. - Vado dal sindaco. Debbo andare dall'avvocato! Oppure: - Parto per Caltagirone, per Catania. Paceva questi viaggi come se niente fosse stato. Andava ad appostarsi fuori le mura, lungo lo stradone, con un fagottino sotto braccio, e al primo carrettiere che passava di là, domandava: - Dove vai? - A Caltagirone. - Portami; ti dò mezza lira, una lira. Viaggiava così, al sole, al vento e alla pioggia, come merce, sbalordendo il carrettiere col racconto delle peripezie delle liti. - Potrei avere carrozze e cavalli, e intanto debbo andare in carretta! A Caltagirone, a Catania, gli avvocati e i procuratori avevano quasi terrore di lei; non se la potevano levare d'addosso. - Dunque, a che stato siamo? E le citazioni? E le comparse? Voleva sapere tutto, discuteva tutto; dava suggerimenti, consigli, citava articoli del codice, con una parlantina che dava il capogiro, gesticolando, alzandosi dalla seggiola, rimettendosi a sedere, scompigliando le carte ch'ella riconosceva a occhio: - La prima sentenza? È questa. Questa la citazione di appello. E le tirava fuori dal voluminoso incartamento, senza sbagliare mai, mettendole sotto il naso del procuratore o dell'avvocato perchè riscontrassero un particolare, un punto interessante da non perdere di vista. E così, col sole, con la pioggia e col vento, viaggiando come merce su questa o quella carretta, tornava a casa, intronando gli orecchi alle figlie di tutti i discorsi fatti col procuratore e con l'avvocato, ricominciando da capo con le vicine, dal terrazzino che dava su la via maestra, perchè andassero a riferire ogni cosa a quell' animaccia storta che teneva là le spie. Le liti, a sentir lei, erano belle e vinte; ella aveva le sentenze in tasca. E se qualcuno le rispondeva: - Don Basilio dice che, all'ultimo, c'è la Cassazione, - Donna Mita diventava smorta smorta dalla collera: - Perchè ha quattrini, lo stortaccio? Ma io litigo senza dolori di capo, e lui deve metter fuori più pezzi di dodici tarì, che non abbia capelli in testa. Intendeva di dire che lei aveva ottenuto il gratuito patrocinio e che non le importava niente di andare fino in Cassazione. Quel gratuito patrocinio era stato un affaraccio. Il sindaco la menava per le lunghe; non voleva farle la fede di povertà. Povero Sindaco! Don Basilio lo spauriva con la minaccia di abbandonarlo nelle prossime elezioni municipali; donna Mita lo minacciava di ricorrere al Sotto-prefetto, al Prefetto, al Ministro, a Vittorio Emanuele in persona. E temporeggiava: domani, domani l'altro. Ora mancava il segretario, ora la Giunta non s'era potuta riunire. E i giorni, le settimana, i mesi passavano, tra le imprecazioni di donna Mita che andava a sbraitare al Municipio, e i brontolii di don Basilio che andava a fargli ressa di tener duro, a casa, ad ora tarda, per non essere veduto. Ma un giorno, donna Mita s'era buttata su la prima carretta che andava a Caltagirone per ricorrere dal Sotto-prefetto. Per via le era capitata addosso una pioggia torrenziale che l'aveva inzuppata fino alle ossa. Il Sotto-prefetto, spaventato dalla vista di quella figura di strega che spandeva acqua dalle vesti e allagava il tappeto della stanza, e che strillava e imprecava contro il Sindaco, rispose che avrebbe scritto a quel funzionario una lettera un po' aspra. Donna Mita avrebbe voluto portarla lei, e già aveva cavato fuori il fazzoletto da involtarla per mettersela in seno, e già si sganciava il corpetto sotto gli occhi del regio funzionario che la guardava stupito. Ed era ripartita con la pioggia, senza curarsi di prendere un malanno. Infatti fu ad un pelo di andarsene all'altro mondo; ma, mezza morta, a chi veniva a farle visita, ripeteva: - Dite a don Basilio che devo prima seppellire lui e vederlo all'inferno. E cercava con lo sguardo le figliuole. Non vedeva Rita. - Dov'è Rita? - È malata anche lei. Le risposero così finchè stette a letto. Ma quando si levò e volle vedere la figlia, non fu possibile nasconderle che Rita era in casa del massaio, e che mancava solo il consenso della madre perché quei due si mettessero in grazia di Dio. Donna Mita allibì. Il suo consenso? Mai e poi mai! Già potevano farne a meno. Se quella disgraziata aveva disonorato la famiglia, lei, moglie di don Paolo Cuti, figlia del dottore Rinaldi, lei non si sarebbe prestata, mai, a legittimare quel disonore! E s'ingolfò nelle liti, nel codice, nelle procedure, ora che le cause erano già messe a ruolo, come dicono i curiali, e bisognava scaldare i ferri e non lasciar dormire gli avvocati, e spalancare tanto d' occhi per sorvegliare le mosse di quel ladro di don Basilio, che il Signore castigava, quasi per darle ragione: Debbo seppellire prima lui! Ma no, non voleva rallegrarsi perchè lo sapeva in pericolo di vita. No, lei non desiderava la morte di nessuno. - Se il Signore lo leva da questo mondo, sia fatta la sua volontà! Lo perdoni ed anche se lo porti in Paradiso; io non voglio entrarvi per niente. Le pareva che se si fosse rallegrata della disgrazia del suo avversario, Domineddio avrebbe dovuto punirla. Non desiderare agli altri il male che non vuol fatto a te stesso. Non si è cristiani battezzati per niente. Se il Signore però voleva levarlo via da questo mondo, poteva lei forse dirgli: Signore, lasciatelo stare qui? Doveva lei dar consigli a chi sa benissimo quel che fa e che è il padrone della vita e della morte? Questi buoni sentimenti intanto non le impedirono di sentirsi un po' seccata e di mordersi leggermente le labbra il giorno che si vide davanti, in Tribunale e poi in Corte di appello, don Basilio grasso e roseo, quasi non fosse stato malato, che portava sottobraccio un fascio di carte, accompagnato da tre avvocati, tanto doveva essere convinto anche lui che uno solo non sarebbe bastato a dare apparenza di ragione alle sue storte pretese! - E la sentenza? - ella domandò all'avvocato, dopo la discussione. - Fra otto, dieci giorni. Potete andarvene. Vi spedirò un telegramma. Il telegramma invece arrivò quella stessa sera dal paese: "Quarinta sta molto male, con una polmonite! Venite subito„. - Ah queste benedette figlie - esclamò donna Mita, torcendosi le mani, quasi la povera Quarinta si fosse ammalata a posta per farle un dispetto in quel punto. Fu un gran colpo! Le parve che la casa si fosse vuotata, che con Quarinta le fosse venuta meno l'aria, la luce, tutto! E non poteva guardare nè sentire Rosa che la esortava a rassegnarsi alla volontà di Dio! In quei primi giorni di dolore si sentiva diventata turca, com'ella diceva: Non c' erano più, per lei nè Madonna, nè santi. Aveva pregato, aveva fatto dire tre messe, aveva promesso una collana d'oro alla Madonna degli Ammalati, un paio di orecchini a Santa Agrippina!... Niente! La Madonna era rimasta sorda; Sant'Agrippina più sorda ancora! Rosa si turava gli orecchi udendola parlare a quel modo e scappava per chiudersi nella sua cameretta. Ma c'era da occuparsi degli affari: notificare a quello scellerato di don Basillo la sentenza, spogliarlo, come si meritava, di tutto il mal tolto; donna Mita così si rabboniva, riprendeva la sua attività. E parlando con Rosa si dichiarava più rassegnata alla volontà di Dio; doveva pero rassegnarvisi anche lei. Rosa non la intendeva a quel modo, e glielo fece capire col silenzio. Povera donna Mita! Che le importava ora di aver vinto le liti e d'essersi messa in possesso del palazzo Cuti, delle terre, dei giardini di aranci? Per chi avea lavorato, stentato? Per la Scellerata, disonore della famiglia, e pel villano di suo marito, poichè quella stupida di Rosa si ostinava a rimanere monaca di casa e non pensava più al mondo? - Non voleva saperne delle persone di questa terra! Si era sposata con Gesù! - Dove? Quando? Chi era stato il sindaco che l'aveva sposati, chi era stato il parroco che li aveva benedetti? Se il Signore si era preso Quarinta - la migliore, la più buona delle figlie! voleva dire che destinava tutto per lei, Rosa: palazzo, terre, giardini! Era dunque d'accordo con la scellerata, e col villano, per riempire la pancia a loro con tutte le sostanze dei Cuti? Era dunque d'accordo? Rosa, che aveva preso il nome di suor Veronica, non rispondeva niente; e usciva di casa per la messa o pel vespro, e andava a raccomandarla al Signore, o a raccontare tutto al confessore e a pregarlo di parlare lui con la madre perchè la lasciasse tranquilla. Donna Mita lo interruppe prima che finisse di spiegarle il motivo della sua visita: - Di che vi mescolate, signor canonico? Vorreste forse papparvi voi le duemila onze? Già, finchè campo, l'usufrutto è mio; e non sono disposta a morir presto. E poi bisogna levar via la mia dote e quel che mi spefta per successione, articolo 753.... E disporrò della roba mia come mi pare e piace; la darò ai poveri, al diavolo anche, ma non alla Scellerata! Urlava, gesticolava come un'ossessa, sciatta e mal vestita, quasi se non avesse vinto le liti. Il povero canonico era andato via balbettando scuse. Scena peggiore accadde la mattina che il notaio Crisanti, notaio di famiglia, venne a farle l'imbasciata che Rita e suo marito volevano venire a baciarle la mano e chiederle perdono del mal fatto: - Ormai, cara donna Mita! - Oramai un corno! — Anche perchè voi avete bisogno di un braccio pratico delle cose di campagna! No, non aveva bisogno di nessuno! Dopo aver fatto dieci anni la litigante, ora si metteva a fare la massaia meglio dell'assassino che le aveva rubato la figlia! Non gli dava altro nome a massaio Cudduzzu. Infatti, ella andava in campagna a sorvegliare i contadini, nel tempo delle messi, con un cappellaccio di paglia, tra i seminati, dietro i mietitori; durante la trebbia, per l'aia notte e giorno come un campaio, perchè quei ladri dei contadini non le rubassero il grano; in novembre, sotto gli ullvi, tra le donne che raccoglievano le ulive bacchiate, risparmiando una coglitrice, facendo per due; o nel frantoio, quando cavavano l'olio. Oggi qua, domani là, a cavallo della mula morella, piombando addosso ai contadini quando meno se l'aspettavano, facendo miglia e miglia sotto la sferza del sole, per valli e pianure, come una tregghia che va scavizzolando tirata dai buoi; e per ciò i contadini le avevano appiccicato il nomignolo di donna Stràula, che significava la stessa cosa e le stava a cappello. Ma una sera, tornando dal giardino di aranci, dove aveva intascato cinquecento lire dagli aranciai messinesi venuti a incassare la produzione, aveva trovato in casa Rita e Cudduzzu che le si buttarono ai piedi. Si sentì vinta, tutt'a un tratto. Era la volontà di Dio! Brontolò, però, ripetè cento volte che la padrona assoluta era lei, e citò solennemente l'articolo 753 del codice civlle. Una settimana dopo, massaio Cudduzzu cavalcava allato di lei, per accompagnarla in campagna come un garzone, rispondendo sempre dimessamente; Eccellenza, sì; Eccellenza, no! Era il meno che potesse fare; dopo di essersi imparentato per violenza, per tranello, con la nobilissima famiglia Cuti. Donna Mita lo trattava d'alto in basso, per fargli intendere che non era diventato con questo un galantuomo, e che c'era una bella distanza fra lei e lui, quantunque suo genero. Gli teneva broncio specialmente perchè, dopo tre anni, non era riuscito ad avere un flgliuolo. Non sarebbe stato un Cuti - ahimè, pur troppo no - ma un po' del sangue dei Cuti, insomma lo avrebbe avuto nelle vene, giacchè il Signore aveva voluto così! - Che fate dunque, se non fate un figliuolo? - gli diceva spesso. E massaio Cudduzzu una volta le rispose: - Ah, voscenza, se sapesse con che buona volontà!... Donna Mita gli aveva rotto la frase fra le labbra: - Non dite porcherie, villano che siete! E siccome un giorno, lagnandosi con suor Veronica di quel figliuolo di Cudduzzu che non veniva al mondo, e tornando ad assalirla perchè si decidesse finalmente a prender marito lei, che era ancora in tempo, suor Veronica le aveva detto: - Gesù Cristo vuole così; sia fatta la sua santa volontà! - Donna Mita perdette la pazienza: - Gesù Cristo! Gesù Cristo! Qualche volta nemmeno lui sa quel che fa!... M'è scappata! FINE

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- Niente; badate a mangiare voscenza. Andava, veniva, si aggirava attorno alla tavola con tanto di muso, brontolando per un nonnulla, spostando una seggiola, un piatto, un bicchiere. - Ma che cosa avete? - Niente; badate a mangiare voscenza. - È in cucina? - È in cucina. Donna Ortensia voleva dargli all'ultimo la trista notizia; se no quel sant'uomo, dal gran dispiacere, sarebbe rimasto digiuno. - Ho parlato col cappellano di Santa Chiara. Dice che probabilmente l'abbadessa la prenderebbe lei, che appunto ha bisogno di una serva. Imparerà a fare i dolci. - E anche gli amari! - brontolò donna Ortensia. - Sì, i dolci li fanno le educande e le serve delle monache nei monasteri.... E così ci toglieremmo ogni responsabilità. - Quale responsabilità? Perché è venuta a fìccarcisi in casa? Chi sa che non siano tutti d'accordo, padre, matrigna e figlia, per abusare della nostra bontà, della nostra carità? voscenza, nel fare il bene, non guardate in viso a nessuno. Onesti, furfanti.... son tutt'una cosa per voscenza. E poi, a un tratto, che cosa si scopre? Come quella donna che veniva qui col bambino al petto e mostrava il seno senza latte, un cencio di pelle cascante.... voscenza le davate la mesata per la balia perchè il bambino non perisse.... Ed era una commedia; si seppe per caso. E voscenza la scusavate: - Poveretta! Poveretta! - E si era preso sei mesi di baliatico per quel bambino che non era neppur suo! - La miseria suggerisce tante astuzie! Che cosa fa in cucina? Mangia sola? - tornò a domandare don Pietro, dopo bevuto il bicchiere di vino annacquato con cui era solito di chiudere i pasti. - Chiamatela, - soggiunse vedendo che donna Ortensia non dava nessuna risposta, impacciatissima. - voscenza non dovete inquietarvi.... voscenza dovete far conto che non sia accaduto niente! Infine, era forse figlia vostra? Parente? Don Pietro si rizzò da sedere, e sùbito si abbattè su la seggiola strizzandosi le mani, quantunque non avesse ancora ben capito. Avea creduto che si trattasse del passato, del pasticcio che la moglie dello Storto si era figurato di aver impedito, mentre non aveva impedito nulla perchè arrivata troppo tardi; per stornare il male si arriva sempre troppo tardi! E perciò egli domandava dolorosamente: - Ve l'ha confessato lei? Che cosa vi ha confessato? - È scappata via.... credo.... con Tinu Mèndola!... Me l'ha fatta quasi sotto gli occhi. - Oh, Dio! Oh, Dio!... Dovevate correrle dietro, afferrarla per un braccio.... - Le sono corsa addietro, appena accortami.... domandando a questo e a quello: - Avete visto passare?... - Nessuno l'aveva vista. Soltanto da una vicina era stato osservato poco prima Tinu Mèndola appostato alla cantonata del vicolo qui allato, ma essa non ci avea fatto caso. - Oh, Dio! Oh, Dio! - si lamentava don Pietro. - Che può importarvene a voscenza? Le ragazze con la testa guasta non badano al male che fanno. Vi era stata data forse in consegna a voscenza? Dovevate custodirla a ogni costo? L'avevate accolta per carità.; eravate andato attorno, a sfrontarvi di casa in casa, per trovarle da guadagnarsi onestamente il pane.... E vi ha ringraziato così! Donna Ortensia parlava tanto più vivamente quanto più sentiva il rimorso di avere in qualche modo contribuito a quella fuga. Ma aveva agito a fine di far meglio e di togliere un sopraccapo al sant'uomo, che sempre ne andava cercando dei nuovi, quasi gli sembrassero pochi quelli che già lo tenevano occupato da mattina a sera. - Bisogna riparare! - esclamò don Pietro. - Ripareranno loro, se vogliono. Vi pare niente a voscenza la partaccia che vi hanno fatto? - Il buon pastore va attorno per ricondurre all'ovile la pecorella smarrita, perché non se la mangi il lupo. - A quest'ora! - disse quasi ringhiando donna Ortensia. Non poteva perdonare alla Trisuzza e a Tinu Mèndola quella partaccia fatta più a lei che non al padrone. Lei aveva fantasticato che uno di quei giorni avrebbe potuto presentarsi al sant'uomo e dirgli: - La faccenda l'ho aggiustata io! - E l'aveva aggiustata proprio bene! Don Pietro, appena uscito di casa, si era trovato faccia a faccia con Tinu Mèndola. - Sciocco! Che cosa hai inteso di fare? Bella prodezza! - Quale prodezza, voscenza? - Me lo domandi? - Se voscenza non si spiega.... - Dove l'hai condotta? In casa tua? Tinu faceva lo gnorri, con le mani in tasca e un malizioso sorrisino su le labbra. - voscenza vuol scherzare, ma io non ne ho voglia. - La Trisuzza dello Storto non è scappata con te? - La Trisuzza? Chi l'ha detto? Quell'infamaccio dello Storto? - Figlio mio, - fece don Pietro, - ti parlo per tuo bene. Voglio aiutarti, voglio aiutare tutti e due a mettervi in grazia di Dio.... Non dovevi farglielo, no, quest'affronto a don Pietro Sbano! Non se lo meritava. Venire a prendergliela fino in casa, e poi negare: - La Trisuzza? Chi l'ha detto? - L'hanno detto le persone che vi hanno veduti.... Tu attendevi alla cantonata del vicolo.... - voscenza mi benedica!... Ha tempo da perdere voscenza! E Tinu Mèndola si allontanò, lasciando don Pietro incerto se doveva credergli o non credergli, poichè gli pareva impossibile che si potesse fingere fino a quel punto. E se fingeva, che intenzioni aveva dunque quel ragazzaccio? Il brigadiere dei carabinieri, occupato a farsi la barba, col viso insaponato, in maniche di camicia, chiedeva scusa a don Pietro di riceverlo in quello stato. - Per non farlo attendere, signor Sbano. Don Pietro espose il fatto. Bisognava rintracciare la ragazza. Probabilmente essa era capitata in cattive mani probabilmente no.... E don Pietro riferì il dialogo avuto poco prima con Tinu Mèndola. - La ragazza è minorenne? I parenti dànno querela? - Non è minorenne; questa è la disgrazia, brigadiere! - E allora? Lei capisce, noi non possiamo mescolarci dei fatti altrui quando essi non offendono la legge. - Chiamato da lei, brigadiere, con una forte lavata di capo, Tinu Mèndola non fingerebbe più. Li faremmo sposare e sarebbe finita. - La ragazza.... si trovava in casa di lei? - Da pochi giorni, come le ho detto. - E un po' sua.... lontana parente.... scusi? - Prossimo e nient'altro. - Lasci andare; non se ne occupi!... A meno che lei non abbia interesse di riaverla in casa.... È una bella ragazza, la conosco. - Per la mia età, brigadiere, non c'è più nè belle nè brutte ragazze. E non ci sono state mai neppure prima. - Se vuole, per farle piacere, chiamerò Tinu Mèndola, cercherò.... tenterò.... - Bravo! Bravo! Io la ringrazio, brigadiere. E uscendo dalla caserma, don Pietro pensava: - Non si può fare una buon'azione, sinceramente, senza che la gente non ci vegga sotto un secondo fine!

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Gli si era piantato davanti, mentre don Pietro, a capo chino, ruminando la risposta di Tinu Mèndola, si avviava verso il convento dei padri Cappuccini per consultare padre Francesco da Montemaggiore, che aveva sempre qualche prudente consiglio da dare. - Ebbene, - gli disse il cavaliere, appena don Pietro alzò gli occhi, vedendo quasi un'ombra che gli sbarrava la via, - ebbene, meglio così: nè voi, nè io. Tra due litiganti il terzo gode. Volete scommettere che Tinu Mèndola ora la lascia in mezzo a una strada? - Non vorrà dannarsi l'anima!... - I contadini sono bruti; non hanno anima. Non ne siete ancora persuaso? - Siamo tutti creati a immagine e similitudine di Dio, contadini, signori, re, imperatori, papi!... - Se fosse vero, non gli faremmo molto onore! Voi, per esempio, oprate all'incontrario di Domineddio, di cui vi credete creato ad immagine. Vi occupate troppo dei fatti altrui, mentre Domineddio non se n'impiccia e ci lascia agire a modo nostro. Ha pensato forse a impedire che la figlia dello Storto scappasse con Tinu Mèndola? Sarebbe bella che il Signore dovesse badare a certe porcheriole! Le guardiamo appena noi che siamo uomini e ci rivoltiamo subito in là.... Ah! Non ci sentite da quest'orecchio; vi fate il segno della croce quasi fossi il diavolo in persona? Intanto nè io e neppur voi, se ci avevate messo l'intenzione; nè io nè voi!... Glielo gridava dietro ridendo, mentre don Pietro si allontanava frettolosamente per non udire altre bestemmie. E proprio all'imboccatura dello stradone che conduceva al convento dei padri cappuccini, ecco lo Storto e la sua strega che accorrevano alla notizia arrivata fin laggiù, in campagna, della fuga della Trisuzzu. Don Pietro non potè evitarli. Al gesto di rimprovero dello Storto che agitava la mano destra quasi minacciando, egli rispose aprendo dolorosamente le braccia per significare: - Chi se l'aspettava? Chi poteva immaginarlo? - Bel servizio le ha reso voscenza a quella pazza! Dicono che è stato per consiglio di voscenza. - E potete crederlo, compare Nittu? - Tutto dobbiamo credere noi, poveri contadini, quando si tratta di noi e delle cose nostre. Alla figlia di un galantuomo glielo avrebbe consigliato: - Scappa! Si vedrà poi? - A mia figlia sì. Tinu Mèndola però ha fatto male i suoi conti. Glielo può mandare a dire voscenza. E preghi il suo Santo protettore, se egli n'ha uno, che non me lo faccia capitare giusto tra i piedi! - Infine, compare Nittu, si tratta di una ragazzata! Gli innamorati non ragionano; gliela faremo intender noi la ragione, non dubitate. Son cose che si possono accomodare facilmente. - Doveva accomodarle prima voscenza. Che si figura Tinu Mèndola? Che ora dovrò mettermelo in casa, dargli da mangiare e più metà del fondo per dote? Vuoi prendermi pel collo, e farmi dire sì per forza? L'ha sbagliata, per quanto è vero Dio! - Tanto, o prima o dopo, oggi o tra cento anni - ve l'auguro! - la roba sarà di vostra figlia, non potrete portarvela nell'altro mondo. Là vi andiamo nudi e crudi, come ne siamo venuti. - Avanti la nostra morte quei quattro sassi chi sa in quali mani saranno passati! - Comare.... non ricordo come vi chiamate.... - Sabella, voscenza.... - Comare Isabella, nessuno può mai prevedere l'anno, il mese e il giorno in cui la morte verrà, a prenderci.... Venderete, vi mangerete ogni cosa, e la morte non verrà: al contrario. E perciò voi dovreste metter pace e non guerra tra padre e figlia! È sangue di lui, carne di lui, ossa di lui, infine.... - Abranunzio!... voscenza! - esclamò lo Storto. - Per le spese, per quattro arnesi di casa.... via, penserei io, compare Nittu. Datemi retta non fate stupidaggini! Vi attendo da me domattina. Sarete più calmo; ragioneremo con più agio.... E voi pure, comare.... - Se però da qui a domani.... - borbottò lo Storto stralunando gli occhi. - Basta che non mi capiti tra piedi. - C'è rimedio a tutto in questo mondo: soltanto alla morte non c'è rimedio! - diceva don Pietro sorridendo. - E.... lo sa voscenza, lo sa dov'è nascosta quella scellerata?.. - Lo so, lo so! È in un buon luogo.... Don Pietro si era lasciata scappar di bocca questa bugia prima di riflettere che era tale. - Se non lo so oggi, lo saprò domani, - Pensava avvicinandosi al convento. - Gli ho detto così a fin di bene.... Padre Francesco mi assolverà, caso mai avessi commesso un peccato.

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La madre protestava ad alta voce in faccia a don Pietro andato a chiederle notizie. Suo figlio era innocente. Volevano metterlo in mezzo, farlo servire da coperta, povero ragazzo! - Chi ha rotto, paghi.... Non lo dico per voscenza.... Mio figlio non c'entra nè punto nè poco. - Perché non si fa trovare dunque? - Perché non deve cimentarsi, non deve perdere la libertà, con lo Storto che va sbraitando di voler succhiarsene il sangue. - Parole di collera! Appena quei due saranno marito e moglie, lo Storto gli vorrà, bene più che a un figlio. - C'è forse soltanto Tinu in questo paese? Giacché lo Storto ha fretta di togliersi la figlia d'addosso, la metta all'incanto in piazza, col banditore.... Mio figlio, per grazia di Dio, potrà imparentarsi meglio; gliela troverò io la moglie, quando sarà, tempo e non di quelle che scappano.... - Intorno alla ragazza non c'è da ridire, - interruppe don Pietro. - Tanto meglio. Chi se la è portata via.... Mio figlio non dee servire da coperta; se lo levi dalla testa.... voscenza o chi venuto a ingannarla.... Coi Mèndola niente soverchierie. Se più non ho il marito - che il Signore lo volle sùbito in Paradiso, dopo due anni di matrimonio - ho fratello e cognati e nepoti che non si lasciano posare una mosca sul naso.... Che cosa si immagina lo Storto? E Tinu è dei Mèndola schietti, e non ha paura di nessuno. Provi a torcergli un capello! Provi lo Storto! Si era radunata gente, sentendola parlare ad alta voce. Tutte le vicine, chi sugli usci, chi alle finestre, come a uno spettacolo. Sapeva che la gnà Carmina Mèndola aveva la lingua lunga e non portava rispetto a nessuno. - Giacchè è così, comare, non vi guastate il sangue. Scusate. Il Signore vi aiuti! - Che glien'importa a don Pietro della figlia dello Storto? - egli sentì dire mentre si allontanava. - Che vi figurate? Perchè vecchio e va a messa tutte le mattine? Certe persone.... Sempre a questo modo, quando si accingeva a fare un'opera buona! Egli se ne stupiva. Voleva dire dunque che nessuno soleva fare il bene pel bene, ma per tornaconto, e che la gente giudicava tutti a una stregua per esperienza? Si sentiva montare la nausea alla bocca, ogni volta che si trovava in tale circostanza. Gli passava per la testa la tentazione di badare a sè, ai suoi affari e di non più mischiarsi negli affari altrui.... Ma la vista di un poveretto, la notizia di una disgrazia, la morte di padre di un famiglia che lasciava nella miseria la moglie e gli orfani non ancora in caso di guadagnarsi il pane; ma i contadini riarsi dalle febbri, gialli, con lo stomaco gonfio per la malaria e che non potevano comprare neppure una cartina di chinino!... Come resistere? E ogni suo cattivo proponimento andava sùbito per aria. Intanto fin gli speziali se la prendevano con lui perchè aveva la casa, dicevano, piena di medicinali e li vendeva - che infamità! - a metà prezzo.... Medicinali falsificati, che facevano più male che bene o non facevano nè bene nè male.... Ed erano dei più puri, dei più efficaci! Ed egli li regalava, per carità, ai veramente poveri, per non danneggiare nessuno! Donna Ortensia lo vedeva tornare a casa, stanco, scoraggiato. E, per soprappiù, da una settimana Io Storto e sua moglie venivano a piantarglisi là, tre, quattro volte nella giornata, col pretesto della figlia che non si sapeva dove stesse nascosta, quasi fosse obbligo di quel sant'uomo l'andare attorno per scovarla. - Intanto pensiamo al po' di stracci più urgenti! - diceva la gnà Isabella, insinuante, dimessa. - Con voscenza non sento rossore: Trisuzza possiede appena due sole vecchie camicie! E non ci vorranno almeno due paia di lenzuola di tela di cotone, e le foderette per quattro guanciali? E una coperta bianca per l'estate, e una di lana per l'inverno?... Così tutto si troverebbe bell'e pronto. Dimenticavo le tavole del letto e i trespoli di ferro.... Come provvedere? Dobbiamo venderci l'anima? Nessuno vuol comprarla. - Non vi disperate!... Donna Ortensia! - chiamava don Pietro. - Come volete voscenza! Il padrone siete voscenza! - rispondeva a denti stretti donna Ortensia, per non mostrare davanti agli altri che intendeva di far lei da padrona. Ma, rimanendo da sola a sola col sant'uomo ella immediatamente si sfogava: - Vi fate spogliare così da quella gentaccia? Una coperta bianca? Una coperta di lana? Cercate, frugate in tutti gli armadi, in tutti i cassettoni. Tra poco non avremo lenzuola per voscenza, nè per me.... E c'è bisogno che vengano qui proprio all'ora di colazione e di pranzo? E voscenza intanto: - Donna Ortensia, fategli prendere un boccone! Donna ortensia, date da bere a compare Nittu!... - Finirà presto, appena concluso il matrimonio, - rispondeva don Pietro con l'aria di un ragazzo sgridato. La gnà Isabella però scopriva sempre qualcos'altro da provvedere, oltre le coperte, le lenzuola, le foderette, le tavole del letto, i trespoli di ferro.... e non meno necessario di tutto questo. Gli orecchini di Trisuzza erano, da quasi un anno, impegnati al Monte di Pietà per sei lire! E l'anello per gli sponsali in chiesa chi glielo dava? Almeno un anellino da poche lire, anche di seconda mano! Per fortuna c'era una sua vicina in gravi bisogni, che voleva disfarsi, per dieci lire, di un anello che ne valeva venti e anche più.... - Che ne dice voscenza? - Zitta!... Senza che donna Ortensia lo sappia.... - O che ha soggezione di essa voscenza? - No: ma trattandosi di.... carità, una mano non deve sapere quel che fa l'altra, dice Gesù Cristo. Dieci per l'anello, e sei per spegnare gli orecchini.... Lo Storto faceva lo stralunato. Non si occupava di quelle miserie. Si strizzava le dita, si mordeva le mani, smaniava pensando a sua figlia. - Chi più bada a mangiare? Chi più bada a dormire? Con la mente fissata: - Che cosa fa? Dove l'ha condotta quell'assassino? - E il cervello mi va via! - Donna Ortensia, fate prendere un boccone a compare Nittu! E lo Storto e la moglie si insediavano in cucina; e la gnà Isabella, per far le viste di non mangiare a ufo, accendeva il fuoco, affrittellava lei le uova come piacevano a quell'afflitto di cristiano che le faceva tanta pena. - Non v'incomodate, donna Ortensia; ripulisco io tegami e piatti. - Intanto quasi due grosse pagnotte di pan di casa erano sparite in un fiat; e la bottiglia col vino - Un'altra lacrima, donna Ortensia diceva lacrima lo Stortaccio! - avea dovuto venir riempita una seconda volta. E della Trisuzza e di Tinu Mèndola nessuna nòva! Nessuna nòva veridica, perchè notizie di ogni genere, immaginarie, e talune inventate a posta per burlarsi di don Pietro che andava, come il Buon Pastore, in cerca della pecorella smarrita, ne correvano parecchie; e qualcuna, forse, sparsa ad arte dai parenti del Mèndola, per disperdere le tracce. Don Pietro tornava a casa più stanco e più scoraggiato di prima. E rifletteva: - Donna Ortensia ha ragione! Che deve importarmene, infine?

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Ne aveva parecchi anche questa volta, ma il pensiero tornava con strana insistenza, a dispetto di tutto, a occuparsi e preoccuparsi della Trisuzza e della sua sorte. La rivedeva come quella sera sotto il carrubo si soffiava il naso, si asciugava gli occhi, e non si decideva ad inoltrarsi verso la villetta. Allora egli non l'aveva osservata bene; l'osservava ora, rivedendola con la immaginazione. Sembrava impossibile che quella là fosse figlia dello Storto! Così diritta, così ben proporzionata, con quel nasetto un po' all'in su e quegli occhi neri come la brace! Pettinata male, coi capelli appena ravviati; vestita malissimo, con un vestituccio di cotonina stinta.... eppure, eppure! E con certe scarpacce!... Eppure! Eppure! Ripulita, vestita bene, avrebbe potuto dar dei punti alle meglio signore. Vesti un ciocco, pare un fiocco! E qui si trattava di ben altro che d'un ciocco! Sentiva anche gran rancore verso quel poco di buono di Tinu Mèndola. - C'era voluta una gran sfacciataggine per andare a rubargliela fino a casa! - Diceva proprio: rubargliela quasi la ragazza fosse stata sua, sua proprietà: e si stizziva con donna Ortensia, che gli rispondeva: - Dovreste ringraziarlo, voscenza; vi ha tolto un pensiero dal capo. Perchè ora non vanno a cercarsela i parentacci di lei, lo Storto e la matrigna? Invece trovano comodo venir qui a far le finte di piangere e di lamentarsi per scroccare colazioni e altro.... e altro!... Non me ne sono accorta forse? Ma io non devo parlare! Io non devo avvertire il mio padrone che quella gentaccia lo sfrutta! Volete scommettere voscenza che il giorno in cui Tinu Mèndola si deciderà a dirgli: - Ecco qua! Tenetevela: non so più che cosa farmene! - volete scommettere, voscenza, che lo Storto e quell'altra - non voglio neppur nominarla - gli risponderanno allo stesso modo: - Tientela tu; non sappiamo che cosa farcene? - Sì, sì; sono capaci di questo e peggio, - confermava don Pietro. - E così dunque quella disgraziata dovrà perdersi? Siamo tutti in obbligo di coscienza di toglierla dal peccato. Io più di tutti! - Ve l'ha detto padre Francesco?... Perchè non ci pensa lui, a toglierla dal peccato, con la sua tonaca? Don Pietro faceva un gesto d'impazienza, prendeva la tuba e il bastone, e andava via in cerca di notizie. Erano già passati quindici giorni! Gli sembravano un'eternità. Quella notte aveva fatto un sogno. Trisuzza era tornata in casa sua fresca e rosea meglio di quando era scappata. Egli le domandava - Dove sei stata? Perchè sei andata via? - E lei sorrideva e non rispondeva niente. - Hai fame? Non ti hanno dato da mangiare? - E la faceva sedere a tavola con lui e gli sembrava che, mangiando, Trisuzza lo guardasse, lo guardasse in un certo modo! Poi si nettava la bocca col tovagliolo, se lo stendeva davanti la faccia, come un portalino, tenendolo per le punte con le braccia alzate..., e spariva!... Don Pietro si era svegliato con una puntura acuta al cuore, con un forte sgomento, quasi quella strana sparizione non fosse stata sogno ma realtà. E, avviandosi verso la casa di un povero malato a cui egli doveva somministrare una medicina, si sentiva ancora tremare il cuore, e aveva sussultato per un impeto di sdegno, ingannato dalla rassomiglianza di una persona che gli veniva incontro e che gli era parsa Tinu Mèndola! Il malato era morto nella nottata. I vicini avevano condotta via la vecchia moglie istupidita dalla disgrazia; e il cadavere giaceva ancora sul letto con le gambe rattrappite, con la bocca spalancata dall'angoscia dell'ultimo respiro. - Hanno pensato alle cose della Chiesa? Alla confessione? All'estrema unzione? Come? L'hanno lasciato morire peggio di un cane, senza neppur chiamare un sacerdote all'ultimo momento? La donna, che stava seduta su lo scalino della porta di quel tugurio a guardia del morto, rispondeva con gesti che significavano: - Che ne so io? Don Pietro entrò, si tolse il cappello, s'inginocchiò davanti a la sponda del misero giaciglio e recitò un De profundis. Cavò di tasca un fazzoletto, lo piegò, lo passò sotto il mento del morto, fece uno sforzo per metter a posto le mascelle, chiudergli la bocca, e legò le due punte su la testa del cadavere. La rigidità era inoltrata. Egli dovette fare un altro sforzo per fargli distendere le ginocchia. - Hanno provvisto per chi deve vestirlo? - domandò a quella donna. Colei rispose col gesto negativo: - Non so! - Torno subito, - egli disse. Ma appena uscito dal misero tugurio aveva dimenticato il triste Spettacolo per ripensare alla Trisuzza, a Tinu Mèndola e a un tale che il giorno avanti gli aveva detto, seherzando: - Che mi darà voscenza, se le faccio scoprire il nido dei due colombi? Ebbe rimorso di aver dimenticato il povero morto. E, invece di andar in cerca di quel tale, tornò addietro per avvertire un ciabattino, che, pur di guadagnare qualche soldo di più, faceva anche il mestiere di vestire i morti. Il ciabattino, sentito che si trattava d'un povero, domandò: - E chi mi paga? - Dovresti farlo per carità di prossimo.... ma non importa; pago io. Il ciabattino buttò in un angolo la scarpa che stava rabberciando, si tolse il grembiule e infilò la giacca. - Andiamo. Tinu Mèndola potrà attendere, - disse. - È qui? È venuto lui stesso a portarvi quelle scarpe? Don Pietro, a quel nome, si era fermato. - Eh! Lui se ne sta nascosto, con la sua bella, per paura dello Storto che ha giurato di ammazzarlo. - Dove? - Nella grotta del Sasso sonante; ma, la notte, tutti e due vanno a dormire nella masseria dei Marrana, là vicino. Me l'ha detto il ragazzo che ha portato le scarpe. Si vede che non lo avevano avvisato di star zitto. - Siete proprio certo che si trovino colà? - Il ragazzo ha detto così. Io gli domandai: - Di chi sono queste scarpe? Ci vuole una lira. - Rispose: - Compare Tinu me n'ha dato mezza: dice che basta. - E io: - Quale compare Tinu? - E lui: - Compare Tinu Metidola. - Allora, incuriosito, tornai a domandargli: - E dove si trova? Perchè non le ha portate lui stesso? Mezza lira è poco. Va a dirglielo e torna. - E il ragazzo: - Le vuole sùbito. Mi disse: Se non può acconciarle mastro Mario, portale da un altro. - E allora? - fece don Pietro. - Allora.... il ragazzo soggiunse che aveva avuto altri cinque soldi, caso mai. Doveva riportargli le scarpe prima di sera. - E allora vi rivelò.... - Che Tinu Mèndola.... Ripeto le stesse parole: Durante il giorno, nella grotta del Sasso sonante; la notte, nella masseria dei Marrana. Compare Tinu sarchia le fave a giornata; ma, se vien gente alla masseria, scappa a nascondersi nella grotta. - Pazzie da giovane senza cervello! - concluse il ciabattino. Don Pietro era gongolante. E davanti al cadavere, mentre mastro Mario cercava attorno per la stanza - ci si vedeva appena - i quattro stracci da indossare al morto, don Pietro recitava parecchi De profundis di ringraziamento al povero vecchio, che certamente aveva voluto compensarlo con quell'inattesa notizia della carità, usatagli durante la malattia e di quella che gli usava ora dopo morto. E quando mastro Mario cominciò a vestire il cadavere, don Pietro volle aiutarlo, anche per fare atto di umiltà. Avea mandato a comprare due candele di cera; gliele fece accendere a piè del letto, e disse a mastro Mario: - Pensate anche al resto voi.... Questo pel vostro incomodo. I manovali che dovranno portare il cataletto al cimitero li manderete da me. Grazie, mastro Mario. Lasciò anche qualche cosa per la vecchia vedova, - che non poteva piangere, e scoteva continuamente la testa, coi grigi cernecchi davanti agli occhi - e la raccomandò alla vicina che l'aveva ospitata. A casa trovò il garzone venuto a prendere gli ordini per i lavori da far eseguire agli uomini in campagna. - Domattina riportami la mula, di buon'ora. Lo Storto e sua moglie lo attendevano da un pezzo nell'anticamera. - Ha buone notizie voscenza? - Forse, forse!... Non posso dir altro. Intanto prendete un boccone, compare Nittu. Donna Ortensia si era affacciata su l'uscio, con le mani sotto il grembiule, accigliata; don Pietro la trasse in disparte nell'altra stanza, e quasi per scusarsi le disse sotto voce: - Sarà per l'ultima volta! E durante la nottata sognò di andare alla grotta del Sasso sonante. La mula lo faceva sperare; prendeva di qua, prendeva di là pei campi.... Non arriva mai; anche la strada sembrava allungarglisi davanti.... Infatti quando egli si svegliò non era ancora arrivato alla grotta.

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Mulinava il predicozzo da fare a quei due per indurli a mettersi presto in grazia di Dio col santo sacramento del matrimonio. La Trisuzza, egli n'era convinto, non avea bisogno di predicozzo. E forse neppur Tinu che, infine, era bravo ragazzo e doveva voler bene davvero alla Trisuzza se avea scelto il violento mezzo della fuga per strappare il consenso allo Storto. Probabilmente ora Tinu voleva strappare al padre di Trisuzza anche un po' di dote. C'era da combattere con due teste una più dura dell'altra. Senza quella strega della matrigna, però tira di qua, tira di là, si sarebbe arrivato presto a una conclusione, non ostante la sordida avarizia del vecchio. Ma, via, non bisognava perdersi d'animo davanti alle difficoltà! Don Pietro Sbano ne aveva superate ben altre! Se lo diceva da sè. A un punto dello stradone occorreva di prendere la viottola a sinistra. La mula non voleva saperne; avrebbe preferito di continuare per la strada piana e diritta. Dopo un po' di resistenza, cedette, ma facendo a don Pietro il dispetto di mettersi a l'ambio e di sobbalzarlo su la sella fino a che la viottola, salendo un po' ripida, non la persuase di rallentare il passo. Già si vedeva su la collina di faccia, tra gli ulivi, la masseria dei Marrana. Prendendo la scorciatoia, a una cinquantina di passi, don Pietro scorse lassù un contadino che, guardatosi rapidamente attorno, gli faceva pressanti cenni con la mano di tornare indietro; e replicò la manovra due volte. Don Pietro non gli diè retta; fermando, però, la mula nella spianata davanti a la masseria, stupì di trovare colà parecchie persone sconosciute, tre delle quali facevano colazione con ulive nere salate, cacio pepato e due boccali di terra cotta stagnata colmi di vino, sedute attorno al lastrone, sostenuto da quattro rustici pilastri, che serviva da tavola da mangiare per gli uomini le sere d'estate, Massaio Marrana, pallido in viso, si era avvicinato a don Pietro, salutandolo e prendendo la mula per le redini. - La mula, con permesso, l'attacco io alla mangiatoia - disse uno dei tre che si era alzato da sedere. E tolse di mano al massaio le redini della briglia. Don Pietro, sceso da cavallo, interrogò il Marrana con un rapido movimento di occhi. - Amici, - rispose questi. - Amici di passaggio! - Cacciatori, si vede, - disse don Pietro. Infatti quegli amici erano armati con bei fucili nuovi. Anche i tre che facevano colazione li tenevano tra le gambe. Non vedendo là Tinu Mèndola, don Pietro pensò che aveva dovuto andare a nascondersi nella grotta all'arrivo di quegli amici. - Faccio quattro passi, fino alla grotta del Sasso sonante - disse don Pietro al massaio. Questi non ebbe tempo di rispondergli. Colui che aveva preso le redini della mula, tiratolo per un braccio da parte, cominciò a interrogarlo sotto voce. Avute le spiegazioni richieste, egli accennò a due compagni, strizzando un occhio: - Su, accompagnate questo signore fino alla grotta e non vi movete di là prima che io non venga assieme col nostro massaio. - Grazie, - disse don Pietro. Perchè incomodarvi? Lungo la strada nessuno fiatò. Don Pietro cominciava a insospettirsi di tutto quelle cortesie Quei due, coi fucili a tracolla, gli si erano messi ai fianchi come carabinieri che conducano un ladro ammanettato. Egli avea tentato di attaccar discorso. - La selvaggina, da queste parti, scarsa. Qualche coniglio.... qualche piccione selvatico, qualche tortora, qualche palombaccio.... Quei due avevano risposto con un'alzata di spalle. Giunti davanti a la bocca della grotta, don Pietro spiegò: - È questo il Sasso sonante. E battè con le nocche delle dita su un blocco di calcare intagliato piantato ritto là a fianco. Il sasso vibrò con suono limpido, prolungato, ondulando. I due accolsero la spiegazione con un'altra alzata di spalle. Allora don Pietro entrò nella grotta, socchiudendo gli occhi per vederci meglio. Non scorgendo nessuno, chiamò; - Tinu!... Trisuzza! Si era inoltrato fino in fondo, quando da una buca a fior di terra vide affacciare una testa che la penombra non permetteva di riconoscere, ma ch'egli indovinò subito per quella di Tinu Mèndola. - Zitto, voscenza, per carità! Quelli sono briganti! - gli sussurrò Tinu. - Non ci faccia scoprire! Don Pietro si era sentito gelare il sangue. Ormai! Era capitato nella trappola, come un topo attirato dall'odore del cacio. - Signore, aiutatemi voi! - esclamò internamente. E tornò addietro di nuovo chiamando: Tinu!... Trisuzza! per ingannare quei due rimasti fuori in sentinella. - Sono scappati anche da qui! - tentò di spiegare. - Quando gli innamorati perdono la testa!... Dove saranno andati a nascondersi? Quei due risposero con una terza alzata di spalle. E siccome don Pietro già stava per uscir fuori della grotta, uno di essi lo fermò, stendendo il braccio a traverso. - Ah! - fece don Pietro. - Dobbiamo attendere il vostro compagno assieme col massaio.... Posso sedermi su quel sasso? Chiese il permesso così timidamente, così umilmente, che i due sorrisero e accennarono di sì con la testa. E attendendoli, e squadrandoli da capo a piedi, don Pietro rifletteva: - Mi sequestreranno?... La mula.... Povera mula!... Purchè non si accorgano di Tinu e di Trisuzza! Anche questa doveva capitarmi! Sia fatta la volonta di Dio!... Vorranno danaro.... Si figurano che ne ho pieni i cassetti!... Dove mi condurranno? Dirò: Ecco le chiavi; andate; tutto quel che trovate prendetevelo e poi lasciatemi libero. Che cosa ne fate di me? Ah, Madonna santa, che disgrazia se portavano via anche la Trisuzza! Sogliono fare così.... Eccoli! - disse a voce alta, scorgendo il massaio che arrivava accompagnato da altri due briganti, uno dei quali vestito assai meglio dei compagni, con berretto peloso in testa e stivaloni fino ai ginocchi; doveva essere il capo. Don Pietro si rizzò da sedere. Tutto il sangue gli era affluito al cuore, che gli batteva rapidamente. - Stia comodo, signor don Pietro, - gli disse l'uomo dal berretto peloso. - voscenza non mi riconosce più, ma io riconosco bene le persone che mi hanno soccorso nelle strettezze e in tristi momenti, voscenza devo scusare i miei compagni.... Guardatelo bene, - continuò rivolto ad essi. - Questo qui è il più gran galantuomo del mondo. Dobbiamo rispettarlo come un padre. Don Pietro, sbalordito, non sapeva che cosa rispondere. - voscenza non mi riconosce, - riprese colui. - E se le dicessi anche il mio nome non mi riconoscerebbe egualmente. Ma si rammenterà, credo, di un uomo che anni fa, una notte, venne a picchiare alla porta della sua casina di campagna. Gli aperse voscenza, mezzo vestito.... E quell'uomo gli si buttò ai piedi, pregando: - Pei suoi morti, mi nasconda!... Ho i Compagni di Arme alle calcagna! Allora, oltre i carabinieri, c'erano le Compagnie di arme; ricorda? a cavallo; bisognava aver le ali ai piedi per non farsi prendere. E voscenza mi disse: - Figlio mio, nascondetevi qui! - e aperse la botola del granaio. Poi, quando i Compagni d' Arme che erano sopraggiunti andarono via, voscenza mi fece uscire dal nascondiglio. Ero mezzo svenuto, anche dalla fame.... E voscenza mi servì a tavola come un signore, senza domandarmi chi ero.... Non mangiavo da due giorni! Ah, che ristoro quel suo vino! Non l'ho dimenticato più! Mi riconosce ora? - Sì, Sì - rispose don Pietro, che intanto non era pienamente rassicurato. - Ma allora non avevate la barba, mi pare - Che vuole? E meglio non aver l'impiccio di doversi radere, con la vitaccia randagia che siamo costretti a fare. Oggi qua, domani là, cacciati come bestie salvatiche. Così comanda il destino! Ogni uomo ha la sua stella. Io, se il padrigno mi avesse consegnato la roba mia e, reso, con le buone, i conti della tutela. - Mio padrigno si credeva di aver da fare con uno sciocco. Ah! È proprio vero che certa gente sembra venuta al mondo per la rovina del prossimo.... Basta! Ed eccoci qua.... Ai comandi di voscenza! Non dovrebbe far altro che aprir bocca. Deve intanto scusare i miei compagni, se l'hanno accompagnato fino a qui. L'uomo che non sa come è come il cieco che non vede. Io riposavo in camera del massaro, brav'uomo anch'esso.... Ma appena ho saputo.... Signor don Pietro, noi, forse, non ci rivedremo più! Io e i miei compagni siamo sempre a un filo tra la vita e la morte.... Destinaccio porco?... A questo mondo però, in certi momenti, anche la cosa più vile può giovare. Io son niente in faccia a voscenza; ma, caso mai, voscenza non dovrebbe far altro che aprir bocca, glielo ripeto.... Torniamo alla masseria; qui il sole scotta. Don Pietro fu contento di vederli allontanare assieme con lui dalla grotta del Sasso sonante. - Fuma voscenza? - disse l'uomo dal berretto peloso, offrendo dei sigari. - Grazie; non ho mai fumato in vita mia. - Era venuto semplicemente per fare una passeggiata a cavallo? - Già, per curiosità di visitare la grotta.... Avevo sentito dire tante cose. Non c'è nulla di straordinario. Affumicata, nient'altro.... - Vogliono che ci sia un incantesimo, un tesoro, custodito da un mercante vestito tutto di rosso, che si fa vedere qualche volta, di notte, a lume di luna. - Sciocchezze! - Giacchè si dice, qualche fondamento ci deve essere. Se io avessi il libro del Rutilio.... - Sciocchezze! - voscenza ne sa più di noi. Già, il vero incantesimo è avere i quattrini in cassa. Si ficca la mano e si prende una manciata di monete d'argento e d'oro.... chi li ha. - Questa botta è per me! - pensò don Pietro.

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Non sapeva decidersi a dire: Vado via. Trovandosi a due passi dalla Trisuzza, non voleva tornarsene a casa, lasciandola là quasi tra le mani dei briganti. Era vero colui gli si era offerto: - "Non deve far altro che aprir bocca...." - Ma poteva fidarsi? Era stato forzato di sedersi a tavola in camera del massaio, di faccia al capo che divorava come un affamato e chiacchierava. - Non ci accade molto spesso di prendere un boccone in santa pace. Abbiamo camminato due giorni, notte e giorno, senza fermarci un minuto. Da queste parti non veniamo mai; non c'è boschi, non c'è montagne.... Vita da bestie.... Destino, signor don Pietro! E così, quando càpita qualcuno deve compensarci. Uno paga per tutti.... Che è stato? Scattava da sedere per affacciarsi alla finestra, sentendo bestemmiare uno dei suoi, giù, davanti a le porte della massaia. - Permetta, torno subito. Don Pietro rimase inchiodato su la seggiola, tendendo l'orecchio; e si sentì venir meno udendo tra i singhiozzi la voce della Trisuzza che diceva: - È mio marito! Si accostò alla finestra senza osare di affacciarsi. Uno dei briganti raccontava: - In fondo alla grotta; quel signore li aveva chiamati e poi aveva finto di non aver trovato nessuno; ma io sono furbo. E li ho scoperti, nella seconda grotta.... Vi si entra per una buca. La porto via con me questa ragazza. Non piangere, bella figliuola! Ti parerò di orecchini e di anelli come una Madonna dell'altare. - Siete maritati? - domandava il capo. - Eccellenza.... - Lascia stare l'eccellenza.... - Eccellenza, - replicava Tinu con voce piena di paura, - dobbiamo sposarci tra poco. - Poichè non siete ancora marito e moglie.... Su, non piangete! Nessuno vuol mangiarvi. Nessuno vi torcerà un capello.... Dunque, don Pietro vi conosce? Meglio. E chiamò forte: - Signor don Pietro! Alla vista della Trisuzza accoccolata per terra, col viso in lacrime e i capelli discinti, egli si sentì invadere da gran coraggio, e scese giù in fretta quasi per difendere una persona che gli apparteneva strettamente. - Signori miei!... Signori miei!... - balbettò. - A cavallo, su, a cavallo! - gridò in quel punto uno dei compagni sbucato dalla siepe vicina, e che doveva essere stato in vedetta. I cinque corsero alla stalla dove i cavalli erano pronti insellati, e li trassero fuori. Uno tirava per la briglia anche la mula di don Pietro. Colui che aveva scoperti la Trisuzza e Tinu nella grotta, afferrò per una mano la giovane. - È persona di casa mia, - disse don Pietro; - lasciatela stare! E Scosse quell'uomo pel braccio, senza neppure riflettere a quel che faceva. - Via! Non è tempo da ragazzate! - disse il capo. - Mezza parola di don Pietro è comando.... Non dubiti voscenza!... E anche per la mula.... Tra due o tre giorni l'avrà consegnata fino a casa; pel momento.... Necessità non abita come suol dirsi. Ci si è spedato un cavallo.... E tu ringrazia don Pietro.... E anche voi, bella figliuola!... E tutti zitti! Nessuno ci ha visti!... voscenza mi permetta di baciarle la mano. E prima di saltar a cavallo, il capo baciò riverentemente la mano a don Pietro che, commosso, gli diceva: - Il Signore vi aiuti! Il Signore vi aiuti! Don Pietro, il massaio, Tinu e gli altri contadini stettero a vederli allontanare, senza dire una parola, stupiti di essersela cavata quasi con niente. Don Pietro guardava con invidia la mula che ora trottava allegra dietro i cavalli.... come invanita di trovarsi in compagnia di quei focosi animali. E quando i briganti sparvero tra le querce della vallata, don Pietro e gli altri trassero un respirone. - È la seconda volta che mi càpita in vita mia! - esclamò il massaio Marrana. - Che possiamo farci? Si presentano, armati fino ai denti.... Hanno voluto da mangiare, da bere.... È carità anche questa, povera gente! E poi i carabinieri ci accusano di essere manutengoli!... Chi vorrebbe averci che fare? Ma con queste persone non si scherza; qualcuno veramente disgraziato.... La mula, vedrà, gliela manderanno flno a casa. Sono uomini di parola. Quando il capo seppe da me che c'era voscenza.... Don Pietro non stava a sentirlo; guardava Trisuzza che piangeva silenziosamente col viso tra le mani, accoccolata per terra, compreso da un sentimento di profonda pietà, misto a qualcosa ch'egli non sapeva distinguere bene che cosa fosse; ed era anche sdegno contro Tinu Mèndola ritto, là, accanto alla porta, a testa bassa, accigliato, in attesa della lavata di capo che sapeva di meritare. Infatti don Pietro si rivolse a lui: - E hai avuto coraggio di negarmelo? Perchè? Che intenzioni ti passano per la testa? Vedi in che stato l'hai fatta ridurre? Non si riconosce più. - Ma.... voscenza non ha altro a cui pensare? - rispose Tinu senza alzare la testa. - Me la vedrò io con lei e con suo padre. - Belle parole ti scappano di bocca! Lo senti, tu che ti sei lasciata lusingare? Lo senti? Intanto io ti conduco via, da tuo padre che mezzo istupidito dal dolore.... - Ma.... voscenza non ha altro a cui pensare?... - replicò Tinu con la stizza nella voce. - Gliela ricondurrò io da suo padre. Bisogna intendersi con lo Storto. Dice che vuole ammazzarmi.... Se c'è chi si lascia ammazzare! Pelle per pelle! - Minacci anche? - voscenza lo compatisca, - entrò in mezzo massaio Marrana. - I giovinastri del giorno d'oggi parlano a casaccio; non sanno quel che dicono. Ormai il fatto è fatto; bisogna rimediare.... E poichè ci mette le mani il signor don Pietro, lascia fare a lui che ha cervello più di te e buon cuore più di tutti. La Trisuzza era in casa di voscenza e in casa di voscenza ritornerà. È inutile che tu smanii e storca gli occhi. Solamente voscenza deve adattarsi al basto delle nostre bestie; non abbiamo sella noi. - Te ne vai? - disse Tinu vedendo che la Trisuzza si rizzava in piedi, aiutata da massaio Marrana. - Te ne vai? Bada! Non mi vedrai più! Ella continuava a singhiozzare col viso tra le mani, e scoteva desolatamente il capo, atterrita della minaccia. - Bada! Non mi vedrai!

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Ed ora che poteva riflettere tranquillamente a cavallo del mulo, dietro all'altro mulo con massaio Marrana e la Trisuzza, seduta su la groppa, che di tratto in tratto si asciugava le ultime lagrime, don Pietro per poco non credeva d'aver fatto un brutto sogno. La mancanza della mula bastava, pur troppo, per convincerlo che la strana triste realtà avrebbe potuto finire assai peggio. Donna Ortensia era stata come una mosca senza capo durante la giornata. Aveva già sospettato che il padrone fosse andato alla ricerca dei fuggitivi, poichè dal giorno in cui la Trisuzza era scappata con Tinu Mèndola, quel benedetto sant'uomo non si era occupato di altro. Se la Trisuzza fosse stata sua figlia che cosa avrebbe egli potuto fare di più? E il non essere stata messa a parte del segreto di quella gita a cavallo, così solo, non aveva soltanto offeso il suo amor proprio di vecchia serva fedele le era parso anche un tacito rimprovero dell'involontario aiuto di lei alla fuga dei due innamorati, quantunque stimasse quasi impossibile che don Pietro ne sapesse qualcosa o fosse entrato in sospetto. Per questo, vedendolo spuntare dal vicoletto a cavallo del mulo e seguito dal massaio e dalla Trisuzza, donna Ortensia scese a incontrarlo al portoncino, e lo accolse con un ironico: - Lo avevo detto io!... E la mula? Don Pietro le accennò di star zitta per quel momento; e rivolto alla Trisuzza che esitava a farsi avanti, le disse: - Vieni su; non c'è nessuno. Tuo padre non sa niente ancora. E così la Trisuzza si trovò di nuovo in casa di don Pietro, a desinare in cucina con donna Ortensia che le teneva broncio ; a dormire in quel lettino dove avea progettato la fuga con Tinu; ma ora simile a una carcerata che non può affacciarsi alla finestra neppur a osservare chi va e chi viene per la via. Non doveva farsi vedere nemmeno dal padre e dalla matrigna fino a che tutto non fosse ben combinato per la dote e pel matrimonio. Origliando dietro l'uscio ella assisteva alle discussioni tra don Pietro e il padre e la matrigna. - Niente! Neppur un guscio di fava! - Fate male i vostri calcoli, compare Nittu. Avreste due braccia, e solide, che vi aiuterebbero a coltivare il fondo, senz'altra spesa che un boccone di pane. - Per ora ho le mie braccia. Il mio fondicello non è un fondo. - Ma, insomma, ormai! Avreste cuore di lasciar vostra figlia così, in mezzo a una via? Non dovreste spossessarvi, s'intende, ma fare un assegno provvisorio, giacchè poi, quando disporrà Dio che è padrone della vita e della morte.... - Niente! Niente! Neppure un guscio di noce! Comare Isabella non metteva bocca in questi discorsi, lasciava parlare il marito. E si scusava, a un gesto di don Pietro, che la esortava a interporre una buona parola: - Il padrone è lui. Io posseggo appena la camicia che porto indosso. Quel po' di roba, che tutta carità, di voscenza.... camicie, lenzuola, coltri.... è là, pronta.... chi gliela tocca? E ne avrei più bisogno di essa. - È dunque sparita dal mondo? Non se ne potrà saper nòva? voscenza mi prende con le buone: lasciate fare a me!... Ed io obbedisco, ma.... sangue di!... ! voscenza scusi!... Se lui dei Mèndola io sono degli Scarrubba e mi chiamo lo Storto per giunta! Se non fosse stato il rispetto di voscenza, a quest'ora!... - Via! Non v'arrabbiate. Tornatevene in campagna. Vi manderò a chiamare.... presto, spero. Compare Nittu e la moglie si erano acchetati anche quella mattina, diluviando in cucina quasi non avessero visto - come diceva donna Ortensia - grazia di Dio da una settimana. - E questa storia è finita, almeno per ora. Quando finirà quest'altra di tenersi in casa la ragazza? - Finirà quando Dio vorrà! Donna Ortensia, alla risposta un po' brusca, rimase alcuni istanti a guardare in viso il padrone.

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La casa di don Pietro era nello stesso stato in cui gliel'avevano lasciata i nonni quasi tre quarti di secolo addietro, assegnandola nel testamento proprio a lui ancora in fasce per paura forse che il padre di esso, giuocatore indurito, non la avesse venduta o caricata di ipoteche prima che il bambino, cresciuto e giunto in età da prender moglie, non vi fosse venuto ad abitare con la sposa, come i nonni volevano. Così era rimasta deserta parecchi anni, senza che quello stravagante di don Ilario Sbano, padre di don Pietro, avesse mai pensato a farvi la più piccola riparazione. Di tanto in tanto, mandava il servitore a far prendere un po' d'aria alle stanze; e questi, intendendo alla lettera l'ordine del padrone, non dava un colpo di granata ai pavimenti di mattoni di Valenza, non levava una tela di ragno dagli angoli delle volte, nè un po' di polvere dai mobili. Alla morte dei suoi genitori, don Pietro aveva preferito di andare ad abitare nella casa dei nonni, dov'era nato. Aveva fatto fare un po' di pulizia, la più grossa in tutte le stanze, contentandosi di avere ripulite meglio le poche che dovevano servire a lui, e non erano le più spaziose e le più belle. Gli bastavano e n'aveva d'avanzo. E la polvere era tornata a stendere un denso strato sui vecchi mobili delle altre stanze, e i ragni si erano divertiti a tessere padiglioni di tele che nessuno, da anni e anni, aveva pensato di toglier via. Come mai, ora, all'improvviso, don Pietro era stato invaso dalla smania di ripulir tutto, di riordinare, di sgombrare quelle stanze, ridotte a specie di ripostigli d'oggetti di ogni sorta, da dover stentare ad attraversarle da un punto all'altro? Si scusava con donna Ortensia: - Almeno sconta il pane che si mangia. Parlava della Trisuzza, la quale era incaricata di spazzare, di spolverare, di togliere i ragnateli; e cominciava la mattina e finiva la sera, in maniche di camicia, sbracciata, con un fazzoletto di cotone a colori, legato attorno alla testa, e la gonna tirata in su, nei fianchi, che lasciava vedere i polpacci robusti energicamente modellati dalle grossolane calze turchine. Don Pietro, col pretesto di sorvegliarla nel lavoro, in quei giorni usciva raramente di casa. E se donna Ortensia, per non stare inoperosa, si presentava a dare una mano d'aiuto alla Trisuzza, egli la rimandava via brontolando: - Son fatiche da giovane; Trisuzza non si stanca facilmente. Egli stesso, in certi momenti, si maravigliava del fastidio prodottogli da quei tentativi d'intervento di donna Ortensia. Non ragionava di cose segrete con la Trisuzza; evitava anzi di parlarle o di farle parlare di Tinu Mèndola e del loro avvenire - nè sarebbero poi stati ragionamenti da non poter farsi alla presenza di donna Ortensia - ma il rimanere là, in quelle stanze, loro due soli, lei occupata a togliere con una canna i ragnateli, e lui, in mezzo all'uscio intento a vederle compire accuratamente l'operazione, produceva a don Pietro acute sensazioni di piacere e di soddisfacimento non mai provate fino allora. Sensazioni di piacere in cui la fresca giovinezza della Trisuzza, esposta con l'incuranza contadinesca che la rendeva più piccante, assumeva inconsapevolmente pel sant'uomo anche un occulto significato di possesso turbato e riconquistato, e perciò più caro; sensazione di soddisfacimento che gli faceva attraversare per la mente, come rapidi fantasmi, le figure di Tinu Mèndola e del cavalier Ferro ai quali egli era riuscito a contendere Trisuzza. Riguardo al cavalier Ferro, la cosa era spiegabiie: don Pietro gli aveva impedito di fare con quella ragazza quel che aveva fatto con tante altre, quantunque poi con quest'altre il vecchio peccatore si fosse sdebitato dotandole e trovando per esse anche un marito. Riguardo a Tinu però, don Pietro cercava di rendersi conto del senso di soddisfazione per avergliela tolta di mano fino a che non si fosse indotto a sposarla; e non andava oltre per rendersi conto come mai ora non sentiva più tanta fretta di arrivare a questo risultato, ma attendeva, come Noè, che il corvo fosse tornato nell'arca. Il corvo era Tinu Mèndola. Non si era fatto vivo. Manteneva la parola detta alla Trisuzza: "Te ne vai? Bada! Non mi vedrai più!" La Trisuzza si fermava per riposare un po', per ravviarsi i capelli impolverati che le cascavano su gli occhi, e si rivolgeva sorridendo a don Pietro: - voscenza inghiotte tanta polvere. Vada di là. Crede forse che non so fare niente senza direzione? - No, no.... mi piace veder lavorare. E.... Non si sta meglio qui che nella grotta del Sasso sonante? Era la prima volta, dopo cinque giorni, che egli le accennava, così dalla lontana, la fuga con Tinu Mèndola. - Quando si vuol bene a uno.... si sta bene dappertutto. Trisuzza si era fatta rossa e avea riso. Ebbene? Non era naturale che colei rispondesse a quel modo? Ebbene?... Don Pietro intanto era turbato.... di sentirsi turbato, quasi si fosse attesa un'altra risposta. Quale? Non lo sapeva, non voleva cercar di saperlo; ma un'altra. Il turbamento era sparito quasi sùbito, anche perchè nessuno dei due aveva insistito su quel punto. Donna Ortensia, ogni sera, a cena e a letto, si insinuava nel cuore di Trisuzza per farsi rivelare com'era andata la faccenda della mula che avrebbe dovuto essere ricondotta alla stalla e non arrivava ancora. Chi se l'era presa? A chi l'aveva regalata quel sant'uomo? Don Pietro si era raccomandato vivamente perchè donna Ortensia non fosso informata dell'incontro coi briganti e della sorte della mula. - Quella buona donna è la tromba della Comunità; mi farebbe avere impicci con la giustizia e più coi briganti! - si raccomandava don Pietro. Il quale cominciava, dopo una settimana, a mettersi il cuore in pace intorno alla povera mula, quando una mattina, all'alba, gli veniva recata una lettera con uno scatolino dentro la busta; si voleva la risposta. - E giù c'è anche la mula - annunziò donna Ortensia, quasi con le lagrime agli occhi. - Appena mi ha visto, si è messa a mandar fuori una specie di raglio di contentezza, povera bestia! È infangata fino alla pancia. Chi sa d'onde viene? Lo dicono nella lettera d'onde viene? La lettera diceva ben altro; poche parole, ma buone. "Grazie a voscenza. Ai suoi comandi. E questo piccolo regalo è della ragazza per quando sposerà. Le baciamo tutti la mano." Donna Ortensia si era accorta che il padrone aveva nascosto sotto le coperte lo scatolino chiuso dentro la busta della lettera. Ella, portandolo, lo aveva palpato ripalpato, osservato per diritto e per traverso, contro luce, per indovinare di che cosa si trattava: ed era lontana dal figurarsi che il sant'uomo potesse ancora avere altri segreti da nasconderle. Quando lo vide saltar giù dal letto per scrivere la risposta, col pretesto di ravviare le lenzuola, smosse le coperte, e fu mortificatissima di non trovar niente. Sfogò il malumore contro la Trisuzza che già si attaccava il fazzoletto di cotone, a colori, attorno al capo, e si rialzava la gonna dai fianchi per andare di là a spazzare, spolverare, levar via ragnateli, che non se ne finiva più! Come se tutto quel lavoro fosse la tela di Sant'Agata, tessuta il giorno e disfatta la notte. In che modo non se ne finiva più? - C'è il padrone che sta a guardare; non me ne sto con le mani in mano! E la Trisuzza se ne lagnò con don Pietro: - Donna Ortensia dice: "In che modo non se ne finisce più!" - Oh!... Lasciala cantare! Glielo disse con aria misteriosa, accennandole di accostarsi vicino all'uscio su la cui soglia si era fermato, come soleva fare ogni volta per seguir meglio con gli occhi tutti i movimenti della Trisuzza, da un punto all'altro della stanza. E mentre ella, incuriosita, tralasciava di spolverare, don Pietro, mutato improvvisamente pensiero, socchiudeva l'uscio e le andava incontro in punta di piedi, quasi avesse paura di essere sorpreso da qualcuno. - Guarda! Guarda! Aveva cavato di tasca lo scatolino ricevuto poco prima e, apertolo, mostrava il bel paio di orecchini che luccicava tra la bambagia rosea, con perle e rosette. - Guardai! Ti piacciono? Sono tuoi.... - voscenza scherza. - Non scherzo: sono tuoi. Me li hanno mandati per te. - Chi? - Quegli.... amici. - Oh Dio! Chi sa a chi li hanno rubati? - Può darsi; ma può anche darsi che li abbiano comprati. Hanno danari più di me e di te. Ti piacciono? - Sono troppo belli per una contadina come me. - Proviamoli.... Ti staranno bene.... Lasciami fare. - Quando sarò lavata e pettinata.... Don Pietro, con le mani che gli tremavano, le aveva già tolto di capo il fazzoletto, e preso e aperto uno degli orecchini tentava d'introdurre il gambo nel forellino del lobo dell'orecchio che egli teneva fermo delicatamente con due dita. La crescente commozione prodòttagli a ogni lieve movimento della Trisuzza dall'involontario contatto con la calda e fine pelle del collo e delle guancie di essa, gli impediva di imbroccare il forellino. La Trisuzza, paziente, sorrideva, senza nessun sospetto per quel fremere delle mani, per quel respiro accelerato che le soffiava lievi tepide ondate di fiato su la nuca, per quegli occhi luccicanti, accesi di desiderio osservati levando la testa verso don Pietro che si spazientiva di non riuscire. - voscenza permetta, - disse Trisuzza. E fece sùbito da sè, rizzando la testa, rossa in viso dalla vanità che le gonfiava il cuore per l'inatteso ricco ornamento. Il povero sant'uomo si sentì preso da vertigine alla vista di quel collo, di quelle braccia, di quel seno ansante, e chiudendo gli occhi, quasi non vedendo lui nessun altri avrebbe visto, neppure la Trisuzza, si chinò rapidamente e la baciò sotto la gola. - Zitta! come a una figlia! Come a una figlia! - balbettò. La Trisuzza aveva su le labbra un sorriso di stupore, niente più.

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Don Pietro era rimasto talmente rimescolato di quella sua audacia, di quel suo atto inqualificabile (lo giudicava così) che la sera aveva dovuto mettersi a letto senza cena. Credeva di avere la febbre. - Come siamo fragili! - pensava. - Perdiamo la testa in un baleno! Non voleva, riconoscere che quel baleno era cominciato da un pezzo; e che, da una settimana, restando in casa col pretesto di sorvegliare le operazioni della Trisuzza, quel baleno aveva continuato a guizzargli nel cuore sempre più fortemente, sempre più fortemente, fino a spingerlo a stampare il maledettissimo bacio su la gola della Trisuzza che, per fortuna, non se n'era sdegnata, e forse non ne aveva capito il significato. - Come siamo fragili! Come siamo fragili! La tentazione ci afferra quando meno ce l'attendiamo! Gesù! Gesù! E nascondeva la testa sotto le coperte, intanto che donna Ortensia si aggirava per la camera tormentandolo con insistenti domande: - Ma che vi sentite voscenza? Mando a chiamare il medico? Con tutta quella polvere! Con quei riscontri d'aria! All'eta che abbiamo parlo anche per me - certi spropositi bisogna evitarli! Pur troppo, a quell'età, -pensava don Pietro, - bisognava evitare ben altri spropositi! Pur troppo, quando non si commettono sciocchezze in gioventù, si corre pericolo di commetterle, e peggio, nella vecchiaia! A poco a poco gli si schiariva la mente; gli appariva netto, preciso lo stato del suo cuore, gl'incuteva terrore. Dunque, proprio verso la fine della sua vita, egli stava per dimenticare ogni dovere di onest'uomo, e insidiare l'onore di una ragazza che si era affidata alla carità di lui? E aveva avuto l'ipocrisia di fingere di voler sottrarla alle insidie del cavalier Ferro! Aveva avuto la spudoratezza di andare a toglierla di mano a colui che, presto o tardi, sarebbe suo marito, col bel pretesto di sollecitarli a mettersi in grazia di Dio! Tutta quella carità.... oh, Madonna santa!... tutta quella carità era dunque vilissima menzogna.... per coprire brutte intenzioni?... Ma no! Ma no! Aberrazione d'un istante! Fragilità umana! Domani sarebbe andato a buttarsi a' piedi di padre Francesco per confessarsi e farsi dare la penitenza.... Com'era accaduto, Signore? Com'era accaduto? Povero sant'uomo! Cercando di scorgere come era accaduto, riandava il breve passato: rivedeva la Trisuzza in maniche di camicia, col collo e le braccia ignude, col fazzoletto legato attorno alla testa per ripararsi dalla polvere, col petto ansante dalla fatica, e indugiava, inconsapevolmente, e riassaporava, inconsapevolmente, il fascino di quella rude giovinezza, che cantiechiava spazzando, spolverando, e che non parlava più di Tinu Mèndola e pareva di compiacersi di restare in casa di don Pietro a disobbligarsi, poveretta, del bene che le aveva fatto e di quello che egli mostrava intenzione di farle! Per questo non si era indignata del bacio; per questo non aveva sospettato!... Ah, quel cattivo soggetto di Tinu Mèndola! La vera colpa era tutta sua! Se avesse sposato sùbito, se ora non volesse afferrar pel collo lo Storto e strappargli la dote per la figliuola! E anche lo Stortaccio! - Neppure una buccia di fava! - Pensava forse di portarsi via la roba all'inferno dove andrà, certamente, pei suoi peccatacci? - Il sant'uomo se la prendeva con gli altri per scusarsi davanti alla propria coscienza, per giustificarsi. E all'alba, quando donna Ortensia picchiò all'uscio per portargli il caffè, era già tranquillo e non si maravigliava della gran tenerezza che gl'inondava il cuore per la poveretta che si era levata da letto anche lei e restava fuori dell'uscio, accorsa premurosamente ad informarsi come stava il signor don Pietro. - Non è niente! Mi sento bene.... Prendete un po' di caffè pure voialtre. Donna Ortensia era accigliata, con tanto di muso; le si leggeva in viso che aveva qualcosa da dire, e che la presenza della Trisuzza le impediva di parlare. La condusse via, con la scusa del caffè, e poco dopo tornò sola. - Non per mescolarmi dei fatti di voscenza, - cominciò, - ma è vero che.... quegli orecchini glieli ha regalati lei? - Glieli ho presentati io, ma il regalo viene da altri. - Non per mescolarmi dei fatti di voscenza.... Voscenza è padrone di fare e disfare in casa sua, con la sua roba. Se però voscenza crede che io non sia più buona a servirla, me lo dica; io le lascio ii posto. Questo è il ben servito!... Dopo tant'anni!... - Siete impazzita? - Le ragazze del giorno d'oggi hanno più malizia delle volpi. Non le è riuscita con Tinu Mèndola, che si è cavato il capriccio e non vuol più saperne, e chi sa che cosa si messa in testa! Vogliono approfittare della bontà di "voscenza, lei e i suoi parentacci che l'hanno indettata.... Quando mai, voscenza? Ha fatto la vita di un santo.... Nessuno può saperlo meglio di me. Ora intanto.... - Siete impazzita, vi domando? Era abituato alle prediche di donna Ortensia, le sopportava pazientemente, sapendo che colei parlava per affezione non per interesse. Spessissimo egli aveva dato retta alle osservazioni, ai suggerimenti di lei che lo mettevano in guardia contro gli eccessi del suo buon cuore e le astuzie di coloro che chiedevano soccorso. E se n'era trovato benissimo. Ma questa volta gli sembrava che donna Ortensia andasse troppo oltre, sospettando cattivi propositi in quella poveretta e disgraziata. Se mai.... Ma neppur lui, no Fragilità, aberrazione di un momento! E per ciò aveva ripetuto quel: - Siete impazzita? - con tal tono di voce, che donna Ortensia si era sentita chiudere la bocca, quasi don Pietro gliel'avesse tappata con una mano. Egli era rimasto a letto un'altr'ora, stizzito contro la vecchia che cominciava ad abusare della tolleranza di lui. Date un dito a certe persone e si prendono tutta la mano! Stizzito un po' anche contro se stesso perchè non stava su le mosse, sentendo di là il rumore che la Trisuzza faceva dando gli ultimi colpi di spolveratura nelle stanze ormai ripulite, ravviate e che quasi non sembravano più quelle di prima. Era deciso di lasciarla fare sola, e di uscir di casa senza neppure rivederla. Aveva in testa il disegno di quel che doveva fare nella giornata, per finirla una buona volta e togliersi quella tentazione dagli occhi, giacchè era una tentazione continua, ne conveniva. Quando però fu sul punto di andar via, si lasciò guidare dalle gambe che lo portarono di suo malgrado. La Trisuzza era nell'ultima stanza in fondo e appena lo scorse gli venne incontro. Don Pietro guardava attorno, approvando con la testa: - Brava! Brava davvero! - Oggi donna Ortensia sarà contenta: ho finito. - E lasciala cantare! E per aggiungere maggior significato alle parole, spinse una mano a farle una carezza a una guancia, e poi l'altra mano per accarezzarle l'altra guancia: - Brava! Brava davvero! - E le mani, indugiando, gli tremavano. La Trisuzza lo guardava negli occhi e tentava di scansarsi, ripetendo, tanto per dire qualcosa: - Donna Ortensia sarà contenta!

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È il padre della carità voscenza; ha fatto tanto bene a tanti! Purtroppo, tanto bene a tanti! Ma quante ingratitudini, quante noie, quanti gravi dispiaceri appunto per quella sua smania di far del bene alla gente, richiesto e non richiesto! E, soltanto per tranquillarla, aveva risposto: -Vedremo, vedremo domani. Supino sul pagliericcio, con le braccia dietro il capo, don Pietro fantasticava la scena di domani con lo Storto e con la donnaccia di sua moglie. I tuoni intanto brontolavano, la pioggia rumoreggiava fitta su le tegole, su gli alberi attorno a la casa, e i canali scrosciavano su l'acciottolato davanti a la porta della stalla. Don Pietro stava ad ascoltare quasi volesse distrarsi dai ricordi che lo assalivano, ridestati dalle parole della ragazza: "Ha fatto tanto bene a tanti!„ Giusto poche settimane addietro, era uscito da un lungo impiccio che gli era costato molta perdita di tempo e parecchi quattrini. E perchè? Per impedire lo sfacelo di una famiglia ch'egli conosceva appena, venuta da un paese vicino ad abitare di faccia a casa sua: il marito, usciere di Pretura, geloso come un turco della bella moglie; e questa, benedetta donna! capricciosa, testarda, piccosa e con una lingua! Tre bambini: due maschi o una fermninetta gobba, poverina, che babbo e mamma non potevano soffrire, quasi la gobba se la fosse fatta lei per dispetto di essi! E da mattina a sera, che inferno in quella casa! Dell'usciere e di sua moglie, a lui, don Pietro, non gliene sarebbe importato niente. Ma c'erano i tre bambini, specie la gobbetta! Che colpa avevano quelle innocenti creaturine? E cosi, al suo solito, si era messo in mezzo.... per raddrizzare le gambe ai cani! Come non capiva ormai che, se Demineddio aveva create storte certe gambe, voleva dire che dovevano essere conformate a quel modo e non altrimenti? Le occasioni però non le andava cercando sempre lui, di sua testa. Ed eccolo ora con la figlia dello Storto su le braccia. Non sarebbe un'infamia lasciarla andare in perdizione, come voleva quella strega della madrigria?... Figuriamoci il caro cavalier Ferro, quando avrebbe saputo...! Giacche la madrigna e lui erano già d'intesa. Un mercato! E non il primo pel cavaliere, che aveva su la coscienza tant'altri peccatacci dello stesso genere. Che doveva fare lui, povero don Pietro? Fingere di non aver capito? Indurre la ragazza a obbedire alla volontà dei parenti? Complicità! No, davvero! Ora, se non si fosse guastata la conduttura dell'acqua, se non fosse venuto giù il diluvio di ieri, egli non sarebbe rimasto in campagna; la ragazza non si troverebbe coricata nel lettino di lui, nè lui su quel pagliericcio. Si vedeva chiaramente che il Signore aveva voluto così per salvare un'anima con l'intervento del suo umile servo don Pietro Sbano. -Pietro, ti raccomando questa disgraziata! -Signore Gesù Cristo, eccomi qua, e farò il possibile! - Dialogava, borbottando le parole, quasi ragionasse con Gesù Cristo la presente. - Nuove noie? Nuovi dispiaceri? Che era per ciò? Tutto in isconto dei miei peccati! - concludeva ogni volta. Quali peccati, povero don Pietro? I pochi, pochissimi, di gioventù, li aveva scontati da un pezzo. Da trent'anni in qua viveva solo, con la vecchia serva e un garzone, attendendo agli affari di campagna e alle cose della religione, dopo che i padri missionari lo avevano richiamato su la diritta via. Il suo non era suo, con tanta gente che moriva di fame a questo mondo! Ah, tutti avrebbero dovuto avere almeno un tozzo di pane e una minestra di fave, o di lenticchie, o di cicerca. Invece! E per questo chi aveva troppo o a sufficienza doveva dare il resto ai poveri. Egli pensava anche pel Signore, per la Madonna, pei Santi, sovvenendo le chiese, promovendo le belle funzioni sacre. Ma pure per questo, noie e dispiaceri coi preti, con le monache, coi frati, come, per esempio, a proposito delle Cappuccinelle di Santa Veronica Giuliani. E la gente che lo burlava: - Di cle cosa v'andate impacciando? Lasciate vivere ognuno nella sua pace! - Appunto, per l'egoismo di lasciar vivere ognuno nella sua pace e non aver grattacapi di sorta alcuna, appunto per ciò accadevano tante bruttissime cose! Una nottata intera fantasticando così, supino, con le braccia dietro la testa, mentre la pioggia veniva giù tra il brontolìo dei tuoni, fino a che dagli scuri della finestra, lasciati a fessura, non penetrarono i primi chiarori dell'alba. Fuori si sentiva la voce di Vanni, il garzone, che parlava forte. - Buon giorno! - Avete dormito bene? Si dorme male soli; per questo non avete chiuso occhio. Sì, me l'ha detto il padrone. Dice che penserà lui.... - Si udiva un'altra voce, quella di Trisuzza certamente, ma non si intendevano le parole. Don Pietro si rizzò, si stirò, si fece il segno della santa croce, recitò a fior di labbro una breve preghiera e poi spalancò la finestra. Il cielo era sereno. Il sole già dorava le cime dei colli. - Una gran frescura, un odor di terra bagnata, di erbe lavate, di fermento di vegetazione saliva dai terreni attorno e penetrava con ogni boccata di aria in fondo ai polmoni. - Prima d'ogni altra cosa, andiamo dallo Storto! Se lo disse quasi come un ordine; e poco dopo scese lentamente la scala. Non era più giovane; se n'accorgeva da alcuni doloretti vaganti per le ossa. Le gambe, certi giorni, non andavano spedite come pochi anni addietro; camminavano leste però per arrivare alla morte. La morte! Era il suo pensiero fisso. E spesso egli si rimproverava: - Tu ne hai paura, e vuoi abituarti ad essa pensandoci continuamente. Ne avevano paura anche i santi, dice P. Francesco da Montemaggiore. Perciò non è mai troppo il bene che si fa.... se si riesce a farne. A me riesce di rado: chi sa perchè? Ma tutto sta nelle intenzioni, mi conforta P. Francesco quando vado a confessarmi. Il bene è come uno Io intende. Quel che sembra bene a me, a un altro non sembra tale... Va!... C'è Gesù Cristo che aggiusta poi tutto!... Andiamo dallo Storto.

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La gna Carmina stava su l'uscio a filare. - Vostro figlio? Non si è più fatto vedere. Dov'è? - Che ne so io? A buscarsi il pane. - Entriamo in casa un momento. Devo parlarvi. Lo fece entrare di mala voglia. Don Pietro si sedette, ed essa rimase in piedi davanti a lui, con la rocca al fianco e il fuso in mano. - Devono continuare ancora nel peccato? - cominciò don Pietro. - Non dovreste permetterlo. - Io non m'impiccio degli affari di mio figlio. - Ha ingannato quella ragazza. È giusto che ripari. - Vuole saperlo voscenza? Mio figlio non prende i rifiuti degli altri. - Come i rifiuti? Che intendete di dire? - Non l'ha in casa voscenza? Se la tenga. Tutta questa carità.... pelosa.... Perchè siamo poveretti? Poveretti ma onorati. E suo padre, perché dunque non se l'è ripresa, suo padre? Don Pietro sentiva salirsi le fiamme al viso. Chinò la testa, impacciato. - Suo padre, - soggiunse dopo breve pausa, - ha già preparato un po'di roba. Farà quel che può. Per la dote, ci sono io di mezzo. L'ho già quasi persuaso. Su, uno sforzo di buona volontà da parte vostra.... - Non voglio impacciarmene. Non voglio che un giorno mio figlio dica - Arda nell'inferno l'anima di mia madre che mi consigliò male! - Se la veda lui, con la sua coscienza. Tutti sparlano: - Giacchè don Pietro Sbano se la tiene in casa.... - Il mondo è pieno di male lingue! - Bisogna dar soddisfazione anche alle male lingue. Quella donna secca impresciuttita, per tagliar corto il ragionamento che non le andava ai versi, avea ripreso a filare. - Ditemi almeno dov'è Tinu, - concluse don Pietro. La gna Carmina rispose soltanto con una mossa negativa delle labbra. Al portone di casa stava, come in sentinella, lo Storto. Evidentemente donna Ortensia non aveva voluto farlo entrare nell'assenza del padrone, per evitare una scenata con la Trisuzza. Poteva finir male. Lo Storto infatti era rimasto un pezzo a bestemmiare dietro l'uscio, dando alla figlia i peggiori qualificativi possibili; poi si era rassegnato ad attendere giù che don Pietro rientrasse in casa. - Non se ne fa niente dunque? - Chi ve l'ha detto? Anzi.... - Voscenza non mi ha più mandato a chiamare. Intanto un uccellino mi ha sussurrato in un orecchio: - Vostra figlia è in casa di don Pietro da più di otto giorni.... - È vero? - È vero. Vi dispiace? - A me? Mi dispiace soltanto che voscenza mi tenga legate le mani. Lo cercherò, andrò a raggiungerlo anche in Paradiso. E se mi mandano in galera, sarà per poco. - Dovreste aver rimorso di aver spinta vostra figlia al malo passo. - L'aveva nel sangue il malo passo! Me la faccia vedere: voglio sputarle in viso; non si merita altro! - Arrivate ora dalla campagna? Siete stanco. Quando avrete preso un boccone sarete più calmo. Ragioneremo dopo. Donna Ortensia, due uova al tegame per compare Nittu! - Si ricomincia! - brontolò donna Ortensia. Don Pietro già si accorgeva di essersi messo sbadatamente per una via senza uscita. Avrebbe dovuto esserne contristato; invece - e non osava di confessarlo apertamente a se stesso - ogni ostacolo gli sembrava giusta scusa per trattenere ancora in casa sua la Trisuzza. Era andata a scovarla in un angolo, in fondo alle stanze ripulite, rannicchiata sur una seggiola, col grembiule agli occhi, singhiozzante. - Non aver paura, sono qua io. - Voglio andarmene. Vo' a trovare Tinu, a buttarmegli a' piedi, a pregarlo come nostro Signore Gesù Cristo.... A sentirle pronunziare tra le lagrime e i singhiozzi il nome di Tinu, don Pietro aveva avuto una forte trafittura al cuore. - Attendiamo! Ancora qualche giorno. Parlava con un fil di voce. Perchè voleva attendere? Che cosa voleva attendere? Non si indignava tanto contro di Tinu che avea tardato e tardava ancora, quanto contro la possibilità, che Tinu venisse e conducesse via la Trisuzza al Municipio e in chiesa com'era suo dovere! - Attendiamo! Egli era sbalordito di quell'impeto di feroce gelosia che lo sconvolgeva in quel momento; era, più che sbalordito, spaventato di sentirsi in balìa di una passione che sembrava gli fosse scoppiata tutt'a un tratto nel cuore, ma che - lo capiva ora - gli era covata in seno come quel fuoco sotto le ceneri che un alito d'aria fa improvvisamente svampare. No! No! Non doveva essere così. Alla sua età! E in quelle circostanze! Ma come soffriva ripetendosi internamente: - No! No! - davanti quella creatura.... che.... infìne.... non aveva altro che lui che s'interessasse alla sua sorte. Era stata scacciata di casa da suo padre per non aver voluto acconsentire al vile mercato combinato tra lui, la strega di sua moglie e quello svergognato del cavalier Ferro. Era incappata nell'altro svergognato di Tinu Mèndola, lusingata dalle canzoni con l'organetto, dai giuramenti di amore, ingannata dalla passione, debole e inesperta com'era. Se finalmente anche lui le diceva: - Non posso far altro più di quel che ho fatto - dove andava a dar di capo la poveretta? E stese una mano per accarezzarle paternamente i capelli ma la ritrasse subito quasi avesse toccato fuoco vivo.

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Il Buon Pastore aveva ricondotto ormai la pecorella smarrita nell'ovile e la sorvegliava e la vegliava, per impedirle, a modo suo, di tornare a smarrirsi. E a donna Ortensia, che nei primi giorni brontolava scandalizzata che un sant'uomo come lui si fosse lasciato invischiare da una contadinaccia e non si curasse di vivere in peccato mortale, don Pietro rispondeva: - Aggiusterò tutto in punto di morte, al saldo dei conti. Il Signore ha voluto così. Se non ci fosse stata la sua volontà, avrebbe disposto le cose diversamente. Ha voluto castigarmi, umiliarmi anche davanti al cavalier Ferro. Sia fatta la sua volontà!

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Don Calogero, lo scrivano, veniva a svegliare il portinaio, accendeva, salendo, il lume a petrolio per le scale ed entrava nello studio dove il suo principale già iavorava da qualche ora. Nell'anticamera, mezza dozzina di seggiole e un lumino, con tubo affumicato e riflessore di latta, alla parete. Nello studio, due scaffali zeppi di scritture e di memorie legali, tre seggiole compagne a quelle dell'anticamera e una a bracciuoli; un tavolino di abete, tinto a uso mogano, ingombro di carte, con accanto al calamaio un fazzoletto di cotone azzurro e la tabacchiera di cartone verniciato, mezza aperta per poter prendere più facilmente il rapè di cui don Emanuele si riempiva di tratto in tratto il naso, spargendo metà d'ogni presa su lo sparato della camicia da notte e su le carte che aveva davanti. Il lume a olio, a tre becchi, illuminava appena il tavolino e le due persone che vi erano sedute attorno, cioè: don Emanuele col berretto di astrakan calcato fin su gli occhi, il fazzoletto di seta nera attorcigliato al colio a guisa di cravatta (le punte del colletto della camicia si affacciavano una dalla parte di sopra, l'altra dalla parte di sotto) e un vecchio scialletto di lana buttato su le spalle; a destra, don Calogero che copiava o scriveva sotto dettatura, senza mai alzare gli occhi e mostrare di accorgersi delle persone che dall'alba alle nove entravano nello studio, ragionavano, discutevano, urlavano, secondo il carattere di ognuna, fino a che il principale non tagliava corto le parole in bocca ai clienti noiosi, dicendo bruscamente: - Va bene; ne riparleremo un'altra volta; oggi ho da fare. Buon giorno!.... E riprendeva a dettare allo scrivano: "Dunque.... In fatto e in diritto.... „ Quella mattina, vedendo entrare in punta di piedi don Pietro-Paolo Zingàli, barone di Fontane Asciutte e Cantorìa (da un anno e mezzo, tutte le mattine egli era il primo cliente che si presentava nello studio), don Emanuele non si era dato, al solito, neppur la pena d'interrompere un momento la lettura della memoria legale che egli andava annotando, e continuò un buon pezzo, quasi su la seggiola di rimpetto a lui non si fosse seduto nessuno. All'ultimo, dopo aver affondato l'indice e il pollice della mano destra nella tabacchiera e aver tirato su una enorme presa di rapè, dopo di aver dato col fazzoletto due colpetti di ripulitura al naso, uno da dritta, l'altro da sinistra, don Emanuele alzò su la fronte gli occhiali a capestro e brontolò: - Buon giorno, barone!... Novità? Il barone, accostata premurosamente la seggiola al tavolino, posate le braccia su le scritture e riunite le mani quasi in atto di preghiera, con sorriso umile, insinuante, e con tono di voce più insinuante e più umile ancora, balbettò: - Ecco: ho pensato.... - No, non voglio sapere quel che voi avete pensato o non pensato; domando soltanto se avete qualche carta, qualche documento nuovo.... Ne scavate uno al giorno!... - Ho scritto certe postille, per rischiarare meglio il punto importantissimo.... E il barone, cavato premurosamente dalla tasca interna del soprabito mezzo foglio di carta, coperto di scritturina rotonda, fitta fitta, con richiami ai margini, lo presentava al suo procuratore. - Leggerò, con comodo.... Capisco di che si tratta.... Nient'altro? - .... Sei tarì, lo sapete! - rispose il barone abbassando gli occhi. Don Emanuele tirò il cassetto del tavolino e presa una manciata di monete di rame, carlini, pezzi di sei grani e di due grani, contava: - uno, due, tre.... Sei tarì vi bastano? - Per due settimane. Prendetene nota. - Campate di vento! - esclamò don Emanuele, crollando compassionevolmente la testa. E mentre il barone ritirava con mano tremula i quattrini, prendendo una dopo l'altra le pilette dei tarì e mettendole in tasca, egli faceva quattro rapidi sgorbi sur un quadernetto dove si allineavano filze di cifre significanti altri e altri tari somministrati al barone durante la lite, e tutte le spese anticipate per lui, da riprendere assieme con gli onorari a lite vinta e finita. Questo, insomma, voleva dire che il procuratore legale era sicurissimo del buon esito di essa; ma voleva anche dire che quel povero vecchio gli ispirava profonda pietà, ridotto quasi a mendicare dalla cattiveria della moglie e dei figli. Moglie o figli si erano ribellati contro il barone appunto per quella lite, che durava da dieci anni, e nessuno poteva prevedere quando sarebbe terminata. Il marchese di Camutello, cugino del barone e suo avversario, prima gli aveva messo l'inferno in famiglia per mezzo del confessore della baronessa, facendole dipingere a nerissimi colori l'avvenire della casa poi aveva proposto, con lo stesso mezzo, una transazione. - Un'infamia! - diceva il barone. - Piuttosto farsi tagliare le mani, che sottoscrivere quell'attentato ai sacrosanti diritti della baronia di Fontane Asciutte e Cantorìa. Finchè campo io!... Ma dopo sei mesi di terribile lotta, un giorno, per le silenziose stanze del palazzo Zingàli erano risuonati urli di voci maschili, strilli di voci di donne che si udivano fin dalla via e facevano fermare la gente.

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Come egli era rimasto zitto e quasi tremante davanti a l'assoluta autorità del padre, così ora la baronessa, le figlie e i tre maschi tacevano e tremavano davanti a lui. Purchè non pretendessero di mescolarsi negli affari, egli però lasciava che tutti facessero il comodo loro e la famiglia viveva in una specie di anarchia; la mamma e le due ragazze segregate in fondo al palazzo, assorte in pratiche devote; i tre fratelli nel salone, ciascuno occupato delle proprie faccende: Ercole, badando a ripulire fucili, a rammendare reti; Marco a tornire, a saldare, a picchiare su l'incudinetta, tutto intento alle sue strane invenzioni meccaniche; Feliciano, immerso negli studi legali, muto e chiuso, ruminando non si sapeva quali progetti che gli luccicavano di tanto in tanto nelle pupille nere sotto le folti sopracciglia. Il barone, quando non era via per affari, cioè per la lite di rivendicazione di Cento-Salme, da lui iniziata sùbito appena messi insieme i documenti, passava le intere giornate, e spesso spesso meta delle nottate, a decifrare le vecchie scritture latine in cui si imprometteva di ritrovare diritti per altre rivendicazioni. Voleva far ritornare i baroni di Fontane Asciutte e Cantorìa, se non all'antica opulenza, per lo meno a una ricchezza e a un fasto che avrebbero rimesso in onore il nome dei Zingàli. Questa illusione egli era arrivato a trasfonderla, dopo qualche anno, nella baronessa Fidenzia, nelle figlie, e in Feliciano che lo avrebbe aiutato volentieri nelle ricerche delle vecchie scritture, se il barone non avesse avuto la pretensione di far tutto da sè. Da principio la lite era andata a vele gonfie; il marchese di Camutello, che non s'attendeva quell'attacco, sbalordito e sconcertato, era andato avanti a furia di cavilli, di intrighi e di alte protezioni; poi, tutt'a un colpo, si era messo a litigare per davvero, opponendo documenti a documenti, procedure a procedure, perizie a perizie, sfoggiando insomma tutte le armi più affilate, tutti gli stratagemmi più astuti per stancare l'avversario, che non poteva buttar via i quattrini a manciate, come era cosa facile per lui, amministratore meticoloso, un po' avaro, e uomo abile e rotto al gran maneggio degli affari. Il giorno che il Tribunale civile di Catania gli aveva dato torto, incontrato il cugino che usciva raggiante di contentezza dalla sala di udienza, dopo averlo salutato sorridendo gli disse: - A rivederci davanti a la Gran Corte! Ride bene chi ride l'ultimo! E là, nella Gran Corte, la lite era rimasta arrenata otto anni! Pareva che gli avvocati delle due parti contendenti, preso gusto a quella battaglia di atti, di procedure, di rinvii, si divertissero a prolungarla. Il barone dimagriva e ingialliva dalla bile. Passava lunghe nottate riassumendo documenti, scrivendo brevi memorie da sottoporre al giudizio degli avvocati; e impediva alla figlia Mariangela, la primogenita e sua prediletta, anche di entrare nella stanza di lui per rassettarla e rifare il letto. - No, mi arrufferesti ogni cosa; faccio tutto da me! E avea voluto fin una fiasca di latta per l'olio del lume, che egli metteva fuori dell'uscio quando era vuota e dovevano riempirgliela. Mariangela, che badava alle faccende di casa sotto gli ordini della madre, ogni volta che trovava accanto all'uscio della camera del padre la fiasca vuota, si presentava con essa in mano alla baronessa. - In tre sole nottate, una fiasca! - Olio e tempo sciupato! - esclamava dolorosamente la baronessa. - Dio lo faccia ravvedere! La Madonna lo illumini! Ma nessuna di esse e nessuno dei tre maschi avrebbe osato ripetere in faccia al padre: "Olio e tempo sciupato!„ Poi, una sera, durante la cena, la baronessa Fidenzia aveva chiesto, insolitamente, al barone notizie della lite per Cento-Salme. Il barone l'aveva guardata in viso, meravigliato del tono un po' ironico della voce di lei, e aveva risposto seccamente: - Tutto va bene! La baronessa avea replicato: - Dobbiamo ridurci all'elemosina? Non parlo pei maschi, che potranno pensar loro a cavarsi d'impaccio; parlo per queste due sante creature, sacrificate qui.... - Penso per tutti! Ho pensato sempre per tutti! Consumo la Mia vita per tutti!... Non mi diverto a caccia io!... Non mi spasso col tornio io!... Non sto a leggucchiare libricciattoli io!... Lavoro giorno e notte, per tutti! E, per ora, il padrone qui sono io e comando io.... Voglio che si sappia e si tenga a mente! Il barone aveva pronunciato queste parole con voce repressa, alzandosi lentamente da sedere mentre parlava; e voltate le spalle alla tavola, era uscito dalla sala da pranzo accigliato, un po' pallido, ma convinto che quella dispiacevole scena non si sarebbe più ripetuta.

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