Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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L'idioma gentile

209796
De Amicis, Edmondo 50 occorrenze
  • 1905
  • Fratelli Treves Editori
  • Milano
  • paraletteratura-ragazzi
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L'amiamo perché l'hanno formata, lavorata, arricchita, tramessa a noi come un'eredità sacra milioni e milioni d'esseri del nostro sangue, dei quali, per secoli; ella espresse il pensiero, e le sue sorti furori le sorti d'Italia, la sua vita la nostra storia, il suo regno la nostra grandezza. L'amiamo perché la parola sua ci scaturisce d' in fondo all'anima insieme con ogni nostro sentmento, si confonde con le nostre idee fin dalle loro sorgenti più intime, e non è soltanto forma, suono, colore, ma sostanza del nostro pensiero. L'amiamo perchè è la nostra nutrice intellettuale, il respiro della mente e dell'animo nostro, l'espressione di quanto è più intimamente proprio della nostra indole nazionale, l'immagine più viva e più fedele e quasi la natura medesima della nostra razza. L'amiamo perchè è il vincolo più saldo della nostra unità di popolo, l'eco del nostro passato, la voce del nostro avvenire, verbo non solo, ma essenza dell'anima della patria. E anche l'amiamo perché, è bellissima, ricchissima, potentissima, varia tanto, come disse uno dei più grandi cultori suoi, (la parere, più che un idioma, un aggregato d'idiomi; capace di prendere infinite forme e sembianze, stupendamente pighevole a tutti gli stili, unica nell'attitudine a riportare la nobiltà dello stile latino e del greco, insuperata nell'abbondanza del vocabolario e nella vivezza del colorito comico, maravigliosa " per l'immensa facoltà delle metafore e per la fecodità della sua, natura sempre propria a produrre nuovi modi - onde," è tutta coperta di germogli come una terra fertilissima In perpetua primavera; fresca ancora nella maggior parte dei suoi fiori e delle sue fronde di sette secoli, e armoniosa come nessun'altra al mondo. " Lodata e ammirata dagli stranieri, e anche invidiata..; ma noi più l'amiamo per quella bellezza che soltanto a noi si palesa. Le sue parole hanno per noi un suono che è come un secondo significato nascosto, sfuggente a ogni espressione; la sua armonia ci risveglia infiniti ricordi di sensazioni, di luoghi e di forme umane, di voci e d'accenti conosciuti e cari di viventi e di morti, e pensieri e immagini e versi di maestri immortali, diventati nostro spirito e nostro sangue; ossa è per noi la musica dell'affetto, del dolore, della gioia, dell'amor di patria, piena di forze e di dolcezze misteriose, che non salgono fino alle nostre labbra, ma vibrano e germinano nel più profondo dell'anima nostra, come virtù secrete della nostra natura. Anche per questo, perchè è voce del nostro cuore e lume della nostra coscienza, l'amiamo. Ma che vale amar la propria lingua se non si studia? Non solo; ma chi non la studia, e quindi la sa poco, e male, quasi come una lingua straniera, la può amar veramente? E c'è bisogno di dimostrare che, non soltanto per amore, ma per interesse nostro, per necessità la dobbiamo studiare? Pensa un poco. In qualunque parte d' Italia tu sia nato, nella lingua, non nel dialetto, quando piglierai in mano la penna, dovrai sempre esprimere i tuoi pensieri e i tuoi sentimenti, e mille volte anche di viva voce. Mille volte, scrivendo e parlando, dovrai manifestare italianamente, con la maggior efficacia possibile, desidèri e bisogni tuoi, trattare i tuoi interessi, movere l'affetto e la volontà altrui. raccontare, argomentare, pregare, giustificarti, difenderti; e se la lingua non conoscerai bene, ti sarà sempre una pena e una vergogna il non poter dire come vorrai quello che avrai da dire, il trovarti come a maneggiare uno strumento che ti sfugga dalle mani, il sentire che dei tuoi sentimenti più profondi e più gentili e dei tuoi pensieri e delle tue ragioni migliori una gran parte andrà perduta per gli altri nell'espressione rozza, manchevole, priva d'evidenza e di forza. Quello che hai inteso dire: che molti non riescono a farsi strada nel mondo per mancanza di facoltà comunicativa, non è vero soltanto per coloro che mancano di naturale eloquenza; ma anche per quei moltissimi che, eloquenti nel proprio dialetto, sono invece nel parlar la lingua, non conoscendole, incerti, confusi, diffidenti di sè, inceppati continuamente dal timore e dalla coscienza di parlar male. Quante volte nella vita dipende un grave danno o un grande vantaggio nostro da un nostro pensiero o sentimento espresso in un modo infelice, onde non è inteso o è frainteso, o significato invece in una forma che svela tutto l'animo e va dritta alla mente e al cuore della persona a cui è diretta! Quante cognizioni, quante idee rimangono in molte menti, per sempre, come materia informe e senza valore, perchè manca a chi le possiede il possesso della lingua per comunicarle alle mente altrui? Si dice che l'uomo vale per quello che sa; ma vale anche in galli parte per come sa dire quello che sa. Più che per il passato, ora che son sempre più frequenti per tutti il bisogno e le occasioni di comunicare ad altri le proprie idee, scrivendo per la stampa, parlando in pubblico, partecipando in diversi modi alla trattazione d'interessi comuni, la conoscenza della lingua è necessaria. Non è soltanto un ornamento intellettuale: è arma nella lotta per la vita, è forza e libertà dello spirito, è chiave dei cuori e delle coscienze altrui, è strumento di lavoro e di fortuna. E dobbiamo studiar la lingua anche per dovere di cittadini. Le lingue si trasformano col tempo, come ogni cosa si trasforma: acquistano nuove voci e locuzioni, come gli alberi mettono nuove foglie; ne perdono; di molte che esse conservano, il significato si muta; si mutano le lingue nella sostanza e nella struttura: è effetto d'una legge naturale. Ma con la trasformazione naturale e inevitabile della lingua, non si deve confondere la corruzione, la quale consiste nell'introdurvi, come si fa dai più, parole e frasi barbare e non necessarie, idiotismi oziosi, modi dell'uso spurio, forme che ripugnano all'indole sua. Ora, da questa corruzione è dovere d'ogni cittadino colto preservare la lingua della patria, perchè, come ciascuno fa la parte sua, sia pure lui minima, nella grande opera collettiva, de cui la lingua resulta, così concorre ciascuno a corromperla, sia pure in parte infinitesima, parlando e scrivendo male. Non è dovere soltanto degli scrittori, è di tutti; perchè dove tutti maltrattano e guastan la lingua, finiscono anche gli scrittori con essere travolti dall' universale barbarie. Nel grande commercio nazionale delle lingue è onestà il non mettere in giro monete false. È vergogna per un italiano colto l'esprimere barbaramente pensieri e sentimenti che scrittori insigni di trenta generazioni espressero in forme italiane pure e ammirabili. É irragionevole il vantarsi d'amare il proprio paese quando si concorre a imbastardirne il linguaggio, considerandolo come un campo che a tutti sia lecito di calpestare e lordare. Per la ragione stessa che rispettiamo e custodiamo gelosamente la ricchezza infinita d'opere d'arte, che i nostri padri ci lasciarono, dobbiamo rispettare e custodire il patrimonio della lingua, che essi trasmisero e affidarono noi come dna tradizione gloriosa, e che da noi si ha da tramandare ai nostri figli, intatto e immaculato quanto lo consentano la legge del tempo e la forza delle cose. Per amor di patria, dunque, per sentimento di dignità nazionale e d'onestà cittadina, per nostro interesse e individuale e per vantaggio di tutti, noi dobbiamo studiare la nostra lingua, quanto ci è possibile, in qualunque classe sociale ci abbia posto la fortuna, qualunque sia il nostro ufficio nella società e la natura dei nostri studi professionali, in qualunque parte siam nati o destinati a vivere; dobbiamo studiarla perchè sono una cosa patria e lingua, pensiero e parola, parola e vita. Ebbene, io scrivo con lo scopo unico di farli prendere amore a questo studio, provandoti che non è punto uno studio arido e noioso, come lo credono i più; ma che si può fare con lo stesso diletto col quale si studia la pittura e la musica da chi non vi cerca altro che il diletto. Tu hai già compreso: non scrivo un trattato; non scenderò a disquisizioni grammaticali minute, né salirò a quistioni alte di filologia, ché non sarebbe affar mio, e non gioverebbe al mio scopo: tratterò la materia semplicemente e praticamente, nella forma che mi pare convenga meglio all'età tua. E scrivo non soltanto per te; ma anche per quella molta gente d'ogni età e condizione, che potrebbe studiar la lingua con piacere e con vantaggio, pure senza il sussidio utilissimo della conoscenza del latino, né d'altra preparazione letteraria, e che ci si metterebbe volentieri, se non la trattenesse il pregiudizio comune che v'occorra uno sforzo enorme della volontà e una pazienza infinita come per lo studio d'una scienza astrusa. Per questo, strada facendo, mi staccherò da te qualche volta, per rivolgermi ad altri; ma tu mi potrai venire accanto anche allora, perché non mi scorderò mai che m' ascolti. Faremo insieme un viaggio d'istruzione, e farò il possibile perché riesca pure un viaggio di piacere. Può darsi che in qualche punto tu t'annoi; ma spesso ti soffermerai a pensare, e di tanto in tanto sorriderai, e ti farai buon sangue. Non sono un maestro: sono una guida. Alla dottrina che mi manca supplirò in qualche modo con la dottrina degli altri. Non imparerai gran cosa da me lungo il viaggio; ma moltissimo poi da te stesso, e con l'aiuto altrui, se io riuscirò, come spero, a trasfondere e nell'animo tuo un poco del vivo amore e dell'allegra fede con cui mi metto al lavoro.

Un giorno, dopo avermi letto e commentato il canto dei Serenti, ch'egli considerava come un miracolo di potenza descrittiva: - Vedi - mi disse - in queste cinquanta terzine, oltre le stupende bellezze d'invenzione e d'armonia, in quanti diversi modi son dette mirabilmente cose difficilissime a dirsi, quale maravigliosa proprietà di vocaboli, e quanta ricchezza di lingua! Chi impara questo canto a memoria si mette in capo più materiale di lingua che non ne potrebbe raccogliere da qualche volume di bella prosa. - Io imparai quel canto a memoria. Fu questo il mio primo passo sulla via che tenni poi. Avendo esperimentato che con quel canto m'ero appropriato una quantità di modi, i quali mi venivano facilmente alle labbra o alla penna anche nel discorrere o nello scrivere di cose che non avevano alcuna relazione con la materia del canto medesimo, pensai: - Non sarebbe un buon modo d'imparar la lingua quello di mandar a mente della poesia, che è facile a imparare e a ritenere? - E d'allora in poi andai cercando e studiando poesie e frammenti di poesie, particolarmente ricche di buona lingua; ma, si noti, di lingua più conforme a quella della prosa che non sia il così detto linguaggio poetico; la quale si trova in special modo nella poesia faceta o satirica, famigliare o popolare che si voglia dire. Ricordo che la seconda cosa che imparai fu un capitolo del Berni, e la terza i duecento versi sciolti della Gita a Montecatini del Giusti: uno dei componimenti poetici, ch'io mi conosca nella letteratura italiana, più fitti di modi e di costrutti del linguaggio parlato, e più facili a ritenersi, benchè non rimato, per la fluidità insuperabile dello stile. Con questo criterio scelsi poi tutte le altre poesie. Esperimentai un particolare vantaggio nell'imparar sonetti; le cui locuzioni, entrando nella mente strette e chiuse in una breve forma compiuta, vi rimangono impresse più distintamente, quasi in disparte, e pronte tutte insieme a ogni richiamo del pensiero; e però imparai centinaia di sonetti di tutti i secoli. La facilità, che acquistai con quest'esercizio, di mandar versi a mente, non è credibile da chi non n'abbia fatto la prova; nè sarei creduto se dicessi quanti me ne insaccai nella testa. E non ne perdetti, in molti anni, che un'assai piccola parte, perchè ebbi ed ho ancora la consuetudine di riandare di quando in quando, un poco per volta, e con cert'ordine, la materia acquistata. Spesso, nei ritagli di tempo, nelle passeggiate solitarie, e di notte, quando non viene il sonno, e dovunque aspetti qualcuno, mi ridico mentalmente dei versi. Ma quello che me li stampò nella memoria in forma incancellabile è l'uso, a cui sempre m' attenni e m' attengo, quando m'occorrono lacune e incertezze, di non ripararvi mai ricercando il testo; ma di cercare tranquillamente e pazientemente nel mio capo le parole e le frasi che mancano, o che si sono alterate; nel qual lavoro mi move una curiosità d'indovinatore d'enigmi, che me lo rende oltremodo piacevole. Dopo aver studiato per lungo tempo nient'altro che versi, mi diedi alla prosa, scegliendo nei migliori scrittori quelle pagine diventate celebri per forza d'eloquenza, nelle quali è un ritmo oratorio che rende più. facile l' impararle a mente. E studiai e so a menadito parecchie delle più belle parlate dei personaggi del Decamerone, decine di pagine del Machiavelli, quasi intera l' apologia di Lorenzino dei Medici, lettere del Caro, frammenti di dialoghi di Galileo, discorsi del Carducci, molti dei passi migliori dei Promessi sposi. Il maggior vantaggio di questo studio è che con le parole e le frasi mi restano nella mente la struttura dei periodi, la musica dello stile, l'andamento del pensiero, proprio di ciascuno scrittore. E in che modo vi restano! Non lo può immaginare chi non ha fatto un'egual prova. A rischio di farla ridere alle mie spalle, le dico che tutta quella prosa, quando la ridico a me stesso, o alla muta o di viva voce, non mi par più roba d'altri, ma mia; che mi par veramente che tutti quei pensieri siano usciti in quella data forma dal fondo del mio cervello; ed è così fatta l' illusione, che quando in luogo d'una parola o d'una frase del testo me ne scappa un'altra, sento l'errore subito e scatto, quasi offeso, come un musicista che senta una stonatura in una melodia propria sonata da un altro. Da questo segue che nel parlare e nello scrivere non m' accorgo punto delle locuzioni che adopero, prese dalle pagine che so a memoria; poichè mi son tutte così profondamente fitte nel capo, così intimamente compenetrate coi pensieri abituali, che non le posso più discernere da quell'altro materiale linguistico che abbiamo tutti nella mente fin dall' infanzia, senza saper nè quando nè come vi sia penetrato. La ho persuasa della bontà.del mio metodo? Io ne son persuaso per modo dall'esperienza., che a quanti giovani mi chiedon consiglio, do questo consiglio: - Studiate a mente. Una pagina di prosa o di poesia, bella e ricca di lingua, che vi stampiate nella memoria, che vi appropriate, che vi assimiliate in maniera da parervi che sia pensiero, arte, musica vostra, vi gioverà più di cento letture, più d'un monte di note, più d'un mese impiegato a scartabellar dizionari. Studiate anche una cosa sola ogni mese e vedrete qual vantaggio ne avrete dopo un anno. Cominciate con la poesia, passate poi alla prosa. Oltre all'imparare il materiale della lingua, scoprirete a poco a poco le più segrete virtù musicali degli stili, le finezze più squisite dell'arte dello scrivere, senza sforzo, per il solo effetto della ripetizione. Vi formerete una biblioteca mentale in cui troverete un piacere e un conforto grandissimo in mille congiunture della vita, ogni giorno, ogni momento; un'Antologia che avrete sempre aperta dinanzi agli occhi, dovunque siate, come una visione permanente dello spirito; una raccolta inestimabile di bellezze di lingua, non solitarie e fredde, ma contessute e armonizzate dall'arte dei grandi maestri, animate dal pensiero, scaldate dall'ispirazione: forma e sostanza, splendore e sapienza ad un tempo. Io pensavo da principio che l'amore di questa maniera di studio mi sarebbe scemato con gli anni; ma non scemò: si fece più vivo. Ogni passo di scrittore ch'io so a memoria è per me come un amico e un maestro di lingua che m'accompagna da per tutto, sempre pronto a rallegrarmi e a insegnarmi qualche cosa. Oggi ancora, quando leggo una poesia o uno squarcio di prosa magistrale, dico a me stesso: - Facciamoci un nuovo amico, - e me lo faccio, con una facilità maravigliosa oramai. Ella, per bontà sua, dice che sono uno scrittore. Ebbene, sono diventato uno scrittore in questo modo. E può scrollar le spalle chi vuole: io continuo.

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Ho un così detto Gran libro della lingua, nel quale esperimento tutti i metodi; ma seguo di preferenza quello che tengono inconsciamente i bambini nell'imparare a parlare: un curiosissimo libro, in cui si rispecchia il disordine matto della mia mente, il perpetuo trescone che ballano le idee nel mio capo. Lo vuol vedere? È una miraviglia di scapigliatura intellettuale. Mentre lei lo sfoglierà, io le darò le spiegazioni occorrenti, e può darsi che si diverta. Dicendo questo, tirò giù da uno scaffale un grosso registro, che pareva il Libro maestro di una Casa di commercio, e me lo mise aperto sul tavolo. - Veda - mi disse - le prime pagine. Io vi cominciai a notare parole e frasi prese dagli scrittori, man mano che li andavo leggendo, senz'ordine di tempo nè di materie. Vede che si salta dal Boccaccio al Giusti, da Gino Capponi al Guicciardini, dal Cellini al Leopardi. Noti qui, fra gli estratti di due trecentisti, uno studio sulla terminologia del vestiario femminile, che feci sulla traduzione d'un romanzo francese, fatta da Ferdinando Martini; e più oltre, accanto a una pagina d'aggettivi prediletti da Dante, una serie di locuzioni relative al vino, pescate nel ditirambo del Redi. Questo le può dare un'idea del metodo. E ora veda lei, più innanzi, se ci si raccapezza. Nelle pagine seguenti, in fatti, trovai il più strano disordine che si possa immaginare. Elenchi di proverbi toscani; infilzate di vocaboli e di frasi ingiuriose; una pagina intitolata: - Vari modi di dar dell'asino al prossimo; in un'altra pagina, sotto un grosso titolo:- Alla gogna - registrati tutti i più marchiani francesismi e idiotismi d'uso corrente nei giornali e nella conversazione, e ad alcuni di quelli scritto accanto: - Guàrdati! -; quelli appunto, mi spiegò l'amico, che solevano più spesso scappare anche a lui nello scrivere e nel parlare. Alternati con questi, altri elenchi di frasi e di parole, abbracciati da grandi graffe, lungo le quali era scritto: - Ti fanno paura? - e disse ch'erano modi efficaci ch'egli non usava mai, e che aveva messi in mostra in quella forma per rammentare a sè stesso d'usarli. Poi una serie di dizionarietti speciali: di giochi fanciulleschi, di difetti fisici. di motti scherzosi, di colori, di piante, di strumenti di lavoro, illustrati di figurine schizzate con la penna, per chiarire il significato e facilitare la memoria delle parole. C'eran disegnati un violino e una finestra, con su scritti i nomi di tutte le loro parti, e una figura umana in caricatura, che aveva scritto sopra il capo: pera, sul naso: nappa, sul mento: bietta, su ventre: buzzo, sulle mani: mestole, sulle gambe: seste, sulle scarpe: - ciotole. Lessi una Pagina delle busse, nella quale erano notate tutte le forme di percossa possibili, dal rovescione al biscottino; con tutti i verbi con cui si può designare l'attenzione: accoccare, appiccicare, appioppare, allungare, ammenare, appoggiare, assestare, azzeccare, ammollare, affibbiare, barbare, distendere, consegnare, fiancare, misurare, piantare, rifilare, rivogare, somministrare, tirare: un tesoro di gentilezze. Di tanto in tanto, in grandi caratteri: - Esercizi ginnastici - e sotto, un dialogo strambo, nel quale due persone, collegando a dispetto dei santi le idee più disparate, si palleggiano tutte le locuzioni registrate nelle dieci o venti pagine precedenti; o aneddoti o descrizioni bizzarre, in cui tutte quelle locuzioni sono pigiate a forza, o periodi a chiocciola, dove una stessa idea è espressa parecchie volte di seguito in forma diversa. Alcuni di questi esercizi, intitolati Scrigni poetici, erano sonetti e versi sciolti, nei quali l'amico aveva incastrato una quantità di modi, per ricordarli meglio, in grazia del ritmo. Fra due di, queste poesiole c'era un discorso d'un pedante marcio, tutto tessuto di quei vocaboli e di quelle frasi antiquate, che nessuno usa più parlando, ma che qualcuno s'ostina ancora a scrivere, sfidando eroicamente il ridicolo; altrove il discorso d'un lezioso; più là il soliloquio d'uno sgrammaticante, con le sgrammaticature più frequenti nella conversazione della gente per bene. Mi cadde sott'occhio, fra l'altro, una pagina di Spazzature, dov'era raccolto un buon numero di quelle frasi fatte, calìe letterarie, o fiori secchi di rettorica, che ricorrono di continuo nei discorsi e nei brindisi, e che son diventati odiosi a tutti oramai, anche a quelli che li usano, quando li sentono usare dagli altri. Ma sopra ogni cosa attirò la mia attenzione e Mi parve strana una grande quantità di parole e di frasi segnate a capo e a piè di pagina, sui margini, tra riga e riga, a traverso lo scritto, un po' da per tutto, alcune in istampatello, altre inquadrate in quattro tratti di penna, o scritte con matita rossa, verde o turchina, o sormontate da un Nota bene, o fiancheggiate da un punto esclamativo, o da un crocione, o da una bandierina disegnata: parole e frasi, che l'amico mi disse d'aver appuntate così a caso, dove prima gli veniva, manmano che le intoppava nei libri, e contrassegnate in quella maniera , perchè attirassero il suo sguardo e gli si rinfrescassero nella memoria quando egli sfogliava il librone per cercarvi o per notarvi altre cose. Tutto il librone n'era tempestato, e anche molte di queste note illustrate da piccoli schizzi di figure umane, di mobili, d'utensili, d'oggetti d'ogni genere; e v'eran qua e là delle pagine bianche, preparate per altre note, coi titoli già scritti. Trovai in ultimo un elenco di quei modi dialettali, che si sogliono scansare con gran cura, benchè appartengano pure alla lingua, e siano correttissimi, e nella pagina accanto una raccolta di frasi di complimento antiche e moderne, alla quale faceva riscontro un piccolo dizionario di moccoli smorzati, di quelle esclamazioni vigorose di meraviglia o di dispetto, che la gente ben educata sostituisce ai sacrati autentici, quando è in una compagnia a cui si devono dei riguardi. Arrivato a questo punto, benchè mi destasse un senso, d'ammirazione l'amor della lingua vivissimo che si manifestava in quella strana rigatteria filologica, non potei trattenere una risata. Ma il bottegaio non se n'ebbe per male; tutt'altro. - Bene! - mi disse. - Mi fa piacere di vederla ridere. È il commento che desideravo e aspettavo, perchè giustifica la mia mancanza di metodo, ed è un modo di riconoscere che si può far dello studio della lingua uno spasso amenissimo, come io faccio appunto. Studiando la lingua io scrivo versi, recito la commedia, lavoro di mosaico, faccio ginnastica con la penna, rivedo le bucce agli altri e a me stesso, rido, tesoreggio, disegno, fantastico, e serbo una libertà di spirito che esclude ogni fatica e ogni noia. Non è un metodo; ma un modo che credo convenientissimo a tutte le teste disordinate e svolazzatoie com'è quella che porto sulle spalle. Veda, io non darei questo libraccio per un peso eguale di biglietti da cento. E se lo stampassi, credo che farebbe furore. Certo sarebbe il trattato linguistico più originale che si sia pubblicato mai, e forse non il plù inutile. Dopo la mia morte, chi sa! O lo lascerò alla Biblioteca Vittorio Emanuele, di Roma.

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Che cosa importa, parlando e scrivendo, inciampare ogni momento in una difficoltà, essere arrestati a ogni passo da un dubbio, lasciare a mezzo una frase per cercare un vocabolo, doversi spiegare coi gesti come i bambini e gl' idioti, e qualche volta, urtare, non volendolo, e offendere una persona, non per altro altro che per non saper scegliere, nel farle un'osservazione un rimprovero o nel dirle una verità sgradita, la parola o la frase che esprimerebbe lo stesso pensiero senza ferirla nell' amor proprio? Che cosa importano le parole? Ma infiniti malintesi, risentimenti, diverbi dolorosi nascono di continuo fra gli uomini da una parola usata a sproposito, non per mal animo, ma per pura ignoranza o mancanza di finezza nel sentimento della lingua. Ma mille volte nella vita il primo giudizio che facciamo dell'ingegno, della cultura, del grado d'educazione d'una persona, si fonda (e sia pure a torto sovente, ché questo cresce valore all'argomento) sopra il suo modo di parlare, e anche su poche parole che le abbiamo udito dire, sopra mia sgrammaticatura, sopra un'espressione ridicola, sopra l'ignoranza d'una parola comune. Ma ella stessa, signore, ella che dice che le parole non importano, quando occorre di parlar la prima volta con una persona che le ispira reverenza, e di cui le preme d'acquistarsi la stima e la simpatia, ella stessa, sempre, anche inconscientemente, s'ingegna di parlar meglio del solito, scegliendo i vocaboli con cura e filando i periodi con garbo! O come si può dire: - Che cosa importano le parole?

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Dico di più: che per me non c'è altro libro che diletti altrettanto, per poco che l'immaginazione del lettore si presti a vivificar la lettura. Per me le parole sono creature umane, e le colonne, strade, dove passa una folla maravigliosa. In questa folla incontro conoscenti e sconosciuti; indifferenti che lascio passare, figure curiose con cui mi soffermo, vecchi amici che mi son famigliari fin dai primi anni, persone con le quali ebbl relazione un tempo, e che dimenticai in seguito, e che riconosco con piacere, e altre che cercai un pezzo nel regno dei libri, senza trovarle, e a cui faccio festa, come si fa a un amico inaspettato, che ci venga a cavar da un impiccio. Vedo nelle parole immagini di scienziati, di poeti, di pedanti, di villani, di beceri, di patrizi, d' operai, facce benigne e sinistre, e buffe, e tragiche, e figure di ragazze snelle e gentili, di donnine semplici o affettate, e di vecchie venerablli, sei volte secolari, che parlarono col Boccaccio e con Dante, e serbano la fresca vivacità della giovlnezza. E ciascuna mi desta un pensiero, e alla più parte mi scappa detto qualche cosa, passando. - Ti saluto, simpatia! - Mi rallegro con lei,- finalmente assunta all'onore del Vocabolario. Passa via, svergognata. - O lei, che mille volte m' è entrata e mille volte sfuggita dalla mente, quando si risolverà a rimanervi? - Te non ti ci voglio, chè non t' ho mai potuta patire. - Si fermi lei, e mi dica bene una volta quello che vuol dire, chè non l'ho mai saputo per l' appunto. - Le parole segulte da derivati e diminutivi mi dànno l' immagine di padri o di madri con un codazzo di figliuoli e ikdi nipoti grandi e piccoli; quelle cadute fuor d'uso, di superstiti d'altre età, che si trascinino, Il e non si ritrovino in mezzo alla folla giovanile che passa, o d'ombre di trapassati, ricordate dizionario da una lapide; quelle di significati diversi, di faccendieri che facciano ogni arte; le nuove, d'origine straniera, di viaggiatori arrivati di fresco, con la valigia alla mano. E incontro greci e romani antichi, e italiani d' ogni secolo, e visi e vestiari di tutte le regioni d'Italia. Tutti i mestieri, tutte le scienze, usi e costumi di ogni classe sociale e d'ogni popolo, tutti gli stati dell'animo, tutte le forme e tutti gli strumenti dell'operosità umana, tutti gli aspetti della natura e tutte le epoche della storia mi passano dinnanzi nel Vocabolario. Ed è il mio maggior diletto appunto questo passaggio continuo dall'una all'altra idea disparatissima, questo procedere a salti, a volate subitanee da cose materiali a cose ideali, da un polo all' altro del inondo intellettuale, questa fuga vertiginosa di luoghi, d'oggetti, di genti, d'orizzonti, di secoli, nella quale il mio pensiero balena più fitto, la mia fantasia batte più rapidamente l'ali che nell'impeto d'un'inspirazione creatrice. E quanti ricordi mi destano le parole! Moltissime, sonandomi nella mente, risvegliano e fanno uscire dai recessi della memoria volti, nomi, casi, momenti della vita, che da più o meno tempo vi stavano rimpiattati e ignorati. Una parola antiquata o poetica mi rammenta una persona che spesso la diceva, facendone pompa fra gli amici, i quali ne sorridevano, toccandosi a vicenda col gomito; un'altra mi fa riudir l'accento d'un lontano o d'un morto che la pronunziava in certo modo suo proprio; questa mi richiama alla mente un linguista che le mosse guerra e uno che la difese, e le dispute che vi fecero intorno, e le impertinenze che si scambiarono pel fatto suo; quella mi ricorda un verso celebre o un motto storico o una scena di commedia o un angolo di salotto dove la intesi dire storpiata o a sproposito. E a certi nomi di malattie mi si levan davanti le immagini di amici perduti; rivedo certe tavole di banchettanti a leggere certi vocaboli gastronomici; in certe parole onomatopeiche infantili risento la voce dei miei figliuoli bambini; e molte mi fanno balenare alla mente le sembianze degli scrittori che le predilessero: la fronte grave del Machiavelli, gli occhi ardenti del Foscolo, il viso pallido del Leopardi. Ho detto in che modo mi diverto: mi domanderete in che modo imparo. Vi dico come. M' arresto ogni momento a pensare. Ecco, per esempio, un vocabolo, che soglio usare in un significato che non è propriamente il suo: bisogna che me ne fissi nella mente, una volta per sempre, il significato vero. Eccone un altro del quale abuso: vi segno accanto: liberarsene, e segnerò poi quelli che troverò, che vi si possano sostituire. Segno una parola d' uso comune, che non uso mai, benché sia spesso necessaria: perchè non l' uso? quale altra adopero invece? che differenza passa fra l'una e l'altra? Trovo parole efficacissime e generalmente usate che in nessun modo mi si vogliono appiccicare alla memoria, come se ci fosse nella loro forma e nel loro suono qualche cosa di repugnante all' occhio della mia mente e al mio senso dell' armonia: e faccio un atto vivo della volontà per istamparmele nel cervello. Ad ogni vocabolo segnato come fuor di corso, o d'uso non comune, cerco quello che vi si è sostituito o che s' usa più comunemente in sua vece; mi provo a definire il significato di certe parole. prima di leggere la definizione stampata, e raffronto con questa la mia; m'esercito a certe care esempi di scrittori o dell'uso parlato corrente da aggiungere a quelli che il Vocabolario registra; e via discorrendo. Vedete come e quanto si può studiare sul Vocabolario! E non dico delle nuove parole che imparo, che ignoravo affatto; delle nozioni elementari d'ogni scienza, che acquisto o rettifico e chiarisco nella mia mente; dei proverbi, delle sentenze, dei consigli pratici, utili alla vita, delle infinite immagini, sussidio all'arte dello scrivere, che raccolgo passando. Sin dalla prima lettura segnai con lunghi tratti di penna sui margini tutte le serie di parole che. non giova rileggere, e così procedo ora senza perder tempo. E di questa lettura non mi stanco mai. Sebbene io abbia letto il Vocabolario tante volte che certe pagine, certe colonne mi son rimaste nella memoria come armadi aperti, in cui vedo ogni parola al suo posto, quasi nell'ordine alfabetico col quale v'è collocata, mi dà sempre un nuovo diletto ogni lettura; qualche cosa da imparare trovo sempre, sempre nuovi passaggi e contrasti inaspettati e strani fra vocaboli che si toccano, nuovi richiami di ricordi, nuove sorgenti di comicità, nuovi segreti e virtù e maraviglie del verbo umano. E v' entro con un senso sempre più vivo di reverenza pensando di quale enorme lavoro di generazioni è il prodotto quell'enorme materiale di lingua, che lunga e varia e venturosa vita ogni parola ha vissuta, e per che mirabili vicende passeranno ancora la maggior parte nei secoli, e che tesoro immenso di pensiero fu accumulato e si spargerà ancora per il mondo per mezzo di quelle parole. Il Vocabolario! Ma è il grande Museo, il tempio nazionale, la montagna sacra, sul cui vertice risplende il genio della razza. E si tratta di freddo e vuoto pedante chi lo studia! Ma io istituirei delle cattedre per leggerlo e per commentarlo; ma.... Suona l'ora. Faccio punto. È l'ora della mia lettura quotidiana. Salute.

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Il meglio, a mio parere, è il sesto. Voglio dire un metodo, il quale raccolga quanto v'è di buono in quei cinque. Leggere attentamente i buoni scrittori, segnando sul libro, se si può, per ritrovarle poi facilmente, le voci e le locuzioni che ci riescono nuove e che ci vogliamo appropriare, cercando di fissarcene nella mente, senza l'aiuto della penna, il maggior numero possibile, con quanto occorre del testo a chiarirne bene il significato e a farne sentire tutto il valore; mandar a memoria poesie e squarci di prosa, nei quali al pregio del pensiero o del sentimento e alla bellezza dello stile sia congiunta una particolar ricchezza di lingua; notare il meglio del materiale che si ricava dalle letture, dividendolo e raggruppandolo intorno a certi soggetti, perchè riesca più facile ritenerlo e ritrovarlo; esercitarsi, scrivendo, a maneggiare il materiale raccolto con abbozzi di componimenti, di periodi, anche di semplici frasi, che siano come i bozzetti che buttare giù i pittori per acquistare la padronanza della tavolozza; e leggere ad un tempo, rileggere, studiare il vocabolario. Quest' ultimo studio ti raccomando in particolar modo, perchè è quello che più difficilmente s'inducono a fare i giovinetti. Ma occorre intendersi bene. Una trentina d'anni fa, con uno scritto diretto particolarmente ai giovani, io raccomandai la lettura del vocabolario. Nel corso di questi trent'anni parecchi mi scrissero, e altri mi dissero presso a poco quello che segue: - Abbiamo seguito il suo consiglio, o meglio, ci siamo provati a seguirlo; ma non c'è riuscito di tirare innanzi: la lettura del vocabolario ci addormentava; ci vuole una pazienza di Benedettini per reggerci; abbiamo smesso. Ecco. Rispondo prima di tutto che senza pazienza non si riesce a imparar la lingua in nessuna maniera, e che la pazienza di studiare il vocabolario l'ebbero scrittori di grande ingegno, come il Manzoni che postillò la Crusca per modo da non lasciarne cedere i margini, Teofilo Gautier, che teneva il vocabolario sul tavolino da notte, Gabriele d'Annunzio, che legge persino dei vocabolari tecnici, dalla prima all'ultima parola. Rispondo in secondo luogo che quella è una lettura che non va fatta a modo dell'altre. Se tu ti metti a leggere il vocabolario come un romanzo o una storia, con l' idea di correrlo tutto d' un fiato, per finirlo il più presto possibile, e liberarti dalla fatica, non solo ti farai nella mente una grande confusione, senza cavarne alcun frutto; ma non reggerai a leggerne una decima parte, si capisce, chè t'ammazzerà la noia prima d'arrivarci. È una lettura che si deve fare a poco per volta, a pezzi e bocconi, con l'animo tranquillo, quando ci si ha disposto lo spirito, e non di corsa, ma a rilento, accompagnandola passo per passo, come ti disse Vocabolarista, cori un lavoro di memoria, di ragionamento e d' immaginazione. Bisogna, insomma, mettersi alla lettura e procedervi per modo, che quello studio finisca a poco a poco con non più richiedere uno sforzo di volontà, e diventi una consuetudine, cessi d'essere una fatica, e si muti in un piacere. Dirai: - È presto detto. Hai ragione: è presto detto. Ebbene, farò qualche cosa di più. Ti propongo di fare, una prova insieme. Pigliamo, per esempio, il Novo dizionario italiano del Petrocchi: una lettera qualunque, la lettera P, e leggiamola tutta. M'ingegnerò di farti vedere come si deve leggere il vocabolario, o, per dir meglio, ti farò vedere come io lo leggo, in che maniera mi ci diverto e c'imparo, che è la maniera in cui mi pare che anche tu ti ci possa divertire, imparando; e nel far questo, userò con te la più grande sincerità, come con un compagno di scuola: ti confesserò le mie ignoranze, i miei stupori e i miei dubbi, che ti gioveranno forse, se te ne ricorderai, nelle tue letture avvenire. Sarà una prova un po' lunghetta, benchè io proceda alla lesta, omettendo le parole più comuni, e anche molte che non son tali , e un gran numero di vocaboli tecnici e storici; ma ci occorrerà spesso di ricrearci divagando e scherzando. All'opera, dunque. Apro il secondo volume, alla lettera P. Incominciamo. Ma no. Tu avrai bisogno di respirare. Svaghiamoci prima insieme con qualche personaggio ameno: con un nemico del vocabolario, questa, volta, per non uscir d'argomento.

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Il suo magazzino linguistico era come una tesoreria di monete false, adulterate o calanti. ch'egli dava via a casaccio e in tutta buona fede. Questo derivava principalmente dal fatto strano (ma nella gente incolta non raro), che ogni parola insolita ch'egli leggesse o sentisse si confondeva nella sua mente con un' altra parola usuale di suono affine, o acquistava stabilmente nel suo concetto il primo significato che, per certe analogie misteriose con altri vocaboli, gli pareva dovesse avere. E siccome, avendo immaginazione viva e spirito arguto, aveva bisogno, per esprimersi, d' un gran numero di parole, e se ne appropriava di continuo , così gli fiorivano sulla bocca gli spropositi con una fecondità meravigliosa. Per lui, ad esempio, donna in ghingheri e donna in gangheri, inciprignita o incipriata erano la stessa cosa, e faceva tutt' uno d' immerso e sommerso, evento e avvento, immane e immune, stame e strame, eminente e imminente. Parlava nel modo che può parlare un orecchiante della lingua, che ode a frullo e legge a vànvera, com'egli infatti udiva e leggeva. Usava sgattaiolare per imitar la voce del gatto, sobbillare per fare il solletico, cincischiato per azzimato. Diceva a un amico che s'era fatto rader la barba: - Come sei tutto cincischiato questa mattina! - e quello subito si tastava il viso, credendo che il suo Sfregia lo avesse lavorato d'intaglio. Ricordo sfruconare, che per lui era verbo omnibus. - Questa mattina mi sono sfruconato a colazione mezzo pollo. Mi sfruconai l' abito contro il muro. - Lo colsero sul fatto e lo sfruconarono ben bene. Ho pagato dieci lire questo straccio di cappello: m'hanno sfruconato. - Ad altre parole faceva far cento servizi. Per esempio ad ambiente. Quando il cielo era sereno: - Che bell'ambiente questa sera! - Che cos'hai? Oggi non ti trovo nel tuo ambiente. - Per gli amici era uno spasso. N'aveva ogni giorno una nuova, o parecchie. Fra le più belle, che non riuscimmo mai a fargli smettere, c'era voce stentorea per voce stentata e aureola per arietta. - Tirava un' aureola deliziosa! - Un giorno, ritornando da Cavoretto, ci disse che aveva trovato il paese tutto infestato. - Da qual malanno? - domandammo. - Ma che malanno! - Voleva dire: il paese in festa. Ma il più comico era la sicurezza con cui le diceva, senza un sospetto al mondo dei suoi reati filologici, il colpo ardito con cui piantava lo sproposito, come una bandiera vittoriosa. Le nostre risate non lo sconcertavano minimamente: Alle osservazioni critiche scrollava le spalle. - Oh che pedanti! - diceva. - Digrignare, digrugnare, ammaccare, ammiccare, ruzzolare e razzolare, su per giù è lo stesso. So bene che parlo un po' così, all'insaputa. Ma mi capite sì o no? E tanto basta. - Di certi suoi qui pro quo si capiva l'origine: era l'analogia fonetica fra due parole: da sfracellare cavava sfracelo; gemicare credeva che volesse dire: gemere sommesso. Ma come diamine poteva dire "una scaramuccia di bicchieri sopra una tavola - per dire una quantità di bicchieri in disordine, e si attuffarono per vennero alle mani? E anche per quei nomi delle citazioni storiche proverbiali, che si sogliono dir giusti anche da chi non ha cognizione alcuna del fatto, faceva lo stesso lavoro. - La spada d'Empedocle. - L'anello di Gigi. - L'orecchio di Dionisia. - Una che è una non l'infilava, e aveva una grande smania di citare. Per gli amici che conoscevano il suo ingegno, il suo modo vivo e colorito di raccontare e di descrivere e la vera eloquenza con cui parlava qualche volta dell'arte sua, quella profluvie di svarioni era una singolarità piacevole, non derivante che da unUmperfezione del suo organo uditorio e della sua facoltà mnemonica; ma chi non lo conosceva, la prima volta che l'udiva parlare a quel modo, sospettava che n'avesse un ramo, e lo guardava con diffidenza, Fra le molte scene lepide di cui fu causa la sua maniera di parlare, ricordo quella che seguì in casa d'una colta signora, alla quale lo presentammo. - Signora - le diss'egli, appena presentato - io son fatto alla buona, non so spiaccicare complimenti; ma so che lei preferisce la sincerità alla raffineria. La signora lo guardò, stupita; poi rispose: - È vero. Preferisco mille volte la brusca sincerità alla finzione cortese. - Quanto a questo - ribattè l'artista - le assicuro che l'infingardaggine non è fra i miei difetti. Ciò detto, si staccò dal crocchio, per parlar con altri; ma, voltatosi a un tratto e colto a volo un atto che faceva a noi la signora, come per dirci: - Ma quest'artista non ha il cervello a segno - credendo ch'ella accennasse d'aver male al capo, le disse cortesemente: - È effetto del tempo, signora. Anche a me questo tempo linfatico rende la testa pesante. Fu quello uno dei suoi più "brillanti successi. - E appunto quello strano epiteto affibbiato da lui al tempo, confondendo l' idea della linfa, umore del corpo umano, che somiglia all'acqua, con l'idea dell'acqua piovana, è un esempio che spiega come si formassero nella sua mente certi strafalcioni. E son più frequenti che non si creda i parlatori di questo stampo, questi sbadatoni e fracassoni terribili, che nel campo della lingua rovesciano e rompono ogni cosa, come farebbe un toro imbizzarrito in un magazzino di chincaglierie. Ma di maravigliosi come lui non n' intesi altri. Quanti ameni ricordi ci lasciò, che sono nella nostra mente sorgenti inesauribili di buon umore! Che impareggiabili trovate! Quel tenore del teatro Balbo che gli stralciava gli orecchi con le sue detonazioni! E quel certo suo amico che gli aveva raccomandato che gli telegrafacesse immediatamente l'esito di non so quale concorso! E quel Crispi, il suo adorato Crispi, che sarebbe diventato il perno motrice della politica europea! E quelle guerre intestinali della Francia! Tu mi perdonerai, mio buon anarchico della grammatica e del dizionario, d'aver fatto ridere qualcuno alle tue spalle: tu comprenderai che non l' ho fatto per mal animo. Non posso aver mal animo con te, poichè per te serbo la più viva gratitudine. Vedendoti pigliare quei granchi enormi, imparai a scansare certi granchi minori, che di tanto in tanto pescavo io pure; tu m'infondesti nell'animo, meglio d'ogni professore di lettere, il terrore salutare del farfallone; e un'altra saggia cosa m'insegnasti: a non giudicar mai lì per lì dal modo di parlare, per malandato che questo sia, le facoltà intellettuali d'un mio simile. Ti ringrazio dunque pubblicamente; e non per burla, ma per affetto mi servo ancora delle tue parole per dirti che la tua memoria mi è sempre sommersa nel cuore, e che vi rimarrà finchè la Parca non recida lo strame della mia vita.

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Ma sul genere delle lettere bisogna fissarsi bene perchè occorre spesso di rammentare questa o quella vocale o consonante per canzonare errori d'ortografia o di pronunzia del prossimo, ed è ridicolo, nell' atto stesso che si canzona un errore d'altri, sbagliare o mostrare incertezza riguardo al genere della lettera a cui s'accenna. Nota anche quel P. C., per congratulazioni o condoglianze. Siccome le condoglianze si fanno quasi sempre per morti, non ti pare che quel p. c., usato da molti, sia un po',... villanamente asciutto, salvo che si tratti della morte d' un cane? Chi, per condolersi con me d' una disgrazia qualsiasi, mi scrive un semplice p. c., m'ha l'aria di voler dire per canzonatura o per cavarmela. Ed è veramente canzonatura il fare un atto di gentilezza con un' avarizia così spilorcia d'inchiostro. PACCA, PACCHINA. - Colpo della mano aperta. - Non in' occorre, dirai; ci sono tant'altre parole per dir la stessa cosa! Adagio un po'. Se tu dici a. un bambino, per ischerzo: - Bada che ti do una manata o uno scapaccione -, all'orecchio della mamma può sonar male lo scherzo. Se dirai una manatina o uno scapaccioncino, dirai una parola che non e d'uso corrente. Pacchina è la parola che fa al caso. Inezie! Ma, nel parlare come nello scrivere, si manifesta appunto in queste inezie il senso della convenienza e della finezza. Hai ragione, invece, se mi dici che si può far di meno della parola PACCHÉO, che vien dopo, per dir baggeo, uomo stupido. È da notarsi che di queste parole che suonano scherno o disprezzo, come di quelle che designano percosse, il vocabolario è mirabilmente ricco: se lo leggerai tutto, ci troverai, una miniera di modi d'ingiuriare il prossimo e di termini relativi all'arte di menar le mani; ciò che non è un segno consolante della gentilezza della natura umana. Non c'è forse altra famiglia di modi più numerosa, se non è quella che si riferisce alla " noia di mangiare e bere - E a proposito, ecco la parola PACCHIARE, mangiare, che molti lombardi stupirebbero di trovar nel vocabolario italiano: è il loro paciàa, donde paciada, mangiata, d'uso volgare. E tu, piemontese, troverai, andando innanzi, un gran numero di parole del tuo dialetto, che credi non siano della lingua. Rideresti, per esempio, se sentissi dire in italiano: PACCHIUCO, che è il piemontese paciocc; fango, mota e simili. Ed eccolo qua, seguìto da Pacchiucone, pasticcione, che è il piemontese paccioccon. E c'è poco sotto Pacioccone, più somigliante dell'altro al vocabolo dialettale, ma che in italiano ha significato diverso, cioè di persona grassa, e par che dica la cosa anche col suono. Questo pacioccone anonimo ci conduce nel regno della pace. Il pane è la pace della casa. Che profonda verità! A quante cose fa pensare questo semplice proverbio, in cui balenano tutte le tristezze e le tempeste domestiche che derivano dalla miseria! E nota l'esempio: - Viene avanti con tutta la sua pace. - Non c'è l'immagine viva dell' indole, dell'aspetto, dell'andatura d'una persona? PACIERE. Ebbene? Niente. Sorrido a un ricordo mio, d'un'antica edizione del Conte di Carmagnola del Manzoni, che ebbi tra mano da ragazzo, nella quale all'ultima scena, dove il Conte dice di sperare che la propria morte riconcilierà il duca Visconti con la figliuola, in vece di: è un gran pacier, era stampato: è un gran piacer la morte; ed è quasi mezzo secolo che ogni volta ch'io trovo quella parola mi ricordo d' essermi scervellato un bel pezzo a pensare come fosse potuta sfuggire ad Alessandro Manzoni quella stramberia. PACIFICONE. Ecco una parola comunissima che in venti volumi che ho sulla coscienza sono ben sicuro di non aver usata mai, benchè mi sia occorso chi sa quante volte d'esprimere l' idea ch'essa esprime; ciò ch'io feci senza dubbio con più d'una parola, o con un'altra meno propria. Dunque, memento. - Come? - mi domanderai -; anche alla Padella ci dobbiamo fermare? - Sì, signore, e c'è il suo perchè; sono anzi due. Lo sai che si chiama occhio il foro che è nel manico dell'utensile benemerito, per attaccarlo al chiodo? sai che si chiama padella il piattello di latta, di cristallo o d'altro che si mette sotto il lume o sul candeliere per riparar l'olio o la cera? - Ma son minuzie, - mi rispondi -; o se m'occorrerà due volte o tre nella vita di nominar quelle cose! - E batti! Ma siccome (e già lo dissi) ci sono altre Migliaia di piccole cose, che nella vita avrai da nominar poche volte, se tu trascurerai d'impararne i nomi perchè son cose di poco conto, ti troverai migliaia di volte impacciato. Ti capaciti? E nota il vantaggio che ti dà la lettura del Vocabolario, dove, essendo detti tutti i significati di ciascun vocabolo, tu puoi imparare insieme i nomi di diversi oggetti, ciascun dei quali ti rammenterà l'altro. Vedi, per esempio, più avanti, la parola PALA. Pala, attrezzo comune, pala del remo, pala del timone, pala delle ruote dei molini. - Vedi PALCO. I palchi fronzuti d'una quercia,- i palchi delle corna, i palchi delle pine, un vestito di seta con trine a tre palchi; palco morto , quello che si dice in piemontese sopanta. - Poi PALLINO. Pallino da caccia, pallino delle bocce, della sella, della balaustrata, della chiave maschia; soprannome d' un cane, d'un cavallo, ecc.; bambino grassoccio. Più sotto, dietro PARACADUTE, una filza di cose che parano: PARACAMINO, PARAFOCO, PARAFUMO, PARAMOSCHE, PARAOCCHI, PARATASCHE, PARACENERE, PARACIELO d' un pulpito, d' una carrozza, d' un tetto, ecc. Si piglia la lingua a retate. Rifacciamoci indietro. ECco una bella parola per dire una cosa che ci occorre di dire spessissimo: PADREGGIARE, d' un figliolo o d' una figliola che somiglia al padre, o, come si dice famigliarmente, che tira dal padre. - Per solito le figliole padreggiano, i figlioli madreggiano. - Ecco la parola PAESANO, che noi dell'Italia settentrionale non adoperiamo quasi mai nel senso di contrapposte a forestiero o a militare: - Vino paesano, ufficiale vestito da paesano. - Ecco alle parole PAGA e PAGARE una serqua di modi quasi tutti relegati fuor del nostro vocabolario parlato. - PAGACCIA; un cattivo pagatore. - Essere il PAGA della compagnia - dar le paghe, le busse. - Pagare a sgocciolo, alla strucca, coi gomiti, a chiacchiere, a respiro, sul tamburo, sulla carezza; alla banca dei monchi, il giorno di San Mai, pagar di schiena. - E alla parola: PAGLIA: aver altra paglia in becco - (un altro amore) - mangiarsi la paglia di sotto i piedi (rifinire ogni cosa) - batter la paglia (vagar col discorso) - rompersi il collo in un fil di paglia per ogni fuscello di paglia (per un nonnulla)... Segue una serie di nomi di Cose utili a sapersi. PALIOTTO, l'arnese di stoffa o altro che si mette davanti all'altare; PALLA, il quadretto di tela per coprire il calice, e il globo di vetro che si mette ai lumi; PALMENTO, la grande cassa dove casca la farina che esce dalle macine (donde il modo: mangiare a due palmenti); PEDANA, tappeto per sotto i piedi; PEDAGNÓLO, il fusto dell'albero ancor giovane; PEDALE, il fusto dell'albero da terra all'inforcatura; PELLÉTICA, pelle della carne da mangiare, o pelle floscia o cascante della persona; PELO, di marmi o pietre o vasi, fenditura sottilissima somigliante ad un pelo. Sapevi tu i nomi di tutte queste cose? No? Ebbene, ti dico nell'orecchio che parte gl' ignoravo anch'io, e parte li avevo dimenticati. E PALANDRA, per abito d'uomo a lunga falda? Che cosa dice il Sor, Palandra? Mi par di vederlo.

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- Quanto a me, consentirà che non ho bisogno - di studiar l'italiano. Sono un uomo d'affari! - Mi scusi. È forse il dialetto la lingua ufficiale - degli affari? E in ogni modo, non pare a lei che un uomo d'affari che ha studiato e parla e scrive correttamente e facilmente la lingua, valga, a parità d' ingegno e d'esperienza, qualche - cosa di più d'un altro, il quale la scriva. come un barbaro e la balbetti come un ragazzo? Ma gli uomini d'affari hanno soventissime volte da esporre, da dimostrare, da discutere gl' interessi - propri, con la penna o di viva voce, a quattr'occhi - e in riunioni private o pubbliche, in lingua - italiana. Ma se c' è gente al mondo a cui sia utile, necessaria nell'espressione del proprio pensiero la lucidità, la brevità, l'esattezza del linguaggio, son loro, che hanno molte cose da dire e importanti e non facili, e le hanno da dire alla lesta, a gente che non ha tempo da perdere; cose nelle quali il non farsi bene intendere produce - ben più gravi inconvenienti che nei discorsi ordinari. Ma gli uomini d' affari vivono pure fuor del giro dei propri interessi, fra amici d'altre professioni, con signore, con artisti, con gente di varia cultura, in mezzo ai quali portano il loro amor proprio, non solo d' uomini d' affari, ma d' uomini di mondo, l' ambizione di contar qualche cosa anche fuor delle faccende e dei numeri, il desiderio di farsi ascoltare, di divertire, di piacere, e se non altro la cura di non far ridere parlando rozzamente e lasciandosi scappare strafalcioni. E in fine, signor uomo d'affari, vale per lei, come per tutti, questa ragione: che la lingua nazionale, in certe classi della società, si deve imparare non soltanto per sè, ma per i propri figliuoli; i quali ad impararla, almeno fin che son piccoli, debbono essere aiutati dal padre e dalla madre. Che figura farebbe un padre che dicesse al suo figliuolo: - Caro mio, tu hai dieci anni; in materia di lingua io non son più in grado d' insegnarti nulla perchè.... sono un uomo d'affari!

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Vedi, nel breve tratto percorso, quante parole abbiamo trovate, che ci hanno destato un ricordo storico, portato l'immaginazione in ogni parte del mondo, a cose remotissime di spazio e di tempo, dalle palafitte lacustri dell'età preistorica alle architetture palladiane, dai paleosauri fossili ai bacilli del Pacini! Abbiamo visto passare la paggeria pomposa delle Corti, i principi orientali portati in palanchino, i trionfatori romani in veste palmata, i giovani greci lottanti al Pancrazio, e dame e sonatori di lira e poeti tragici e ninfe cacciatrici di Diana ravvolte nella palla, e i lottatori delle feste panatenée in onor di Pallade, e i Bolognesi antichi plaudenti alla battaglia d'ova e di porci della Pachetta. Ci son balenati dinanzi Attilio Regolo, che con le palpebre arrovesciate, spasimando, guarda il sole, e Carlomagno circondato di Paladini, e i Palleschi e i Piagnoni, partigiani e avversari dei Medici, e i Francesi caduti nel sangue delle Pasque Veronesi, e Paisanetto, la maschera genovese, e Pantalone, la maschera veneziana, e Pantagruele, figlio di Gargantua; e di là da questa maravigliosa processione, una fuga di palazzi famosi, i palmizi ridenti di Liguria e di Sicilia, e il Palatino e il Panteon e le paludi Pontine e l'orizzonte immenso della Pampa. Pensasti mai, leggendo altri libri, a tante cose e così diverse in così breve tratto di lettura? E quante n' ho tralasciate! Ma

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E come sono efficaci le maniere: - LEVAR DI PAN DURO -, per mangiar molto, non lasciar che il pane diventi duro in casa; - MANGIARE IL PAN PENTITO - FINIR DI MANGIAR PANE, per morire, e - PAN DI RICATTO - che si dice quando uno rifà agli altri quello che hanno fatto a lui. E RIMBRONTOLARE IL PANE a uno non è più espressivo di rimproverare e rinfacciare? E com'è ben significato e quasi effigiato l'ipocrita untuoso in BOCCA PARI, poichè FAR LA BOCCA PARI VUOI dire accomodar la bocca per ipocrisia! Un'altra parola, PARI, che non s'usa quasi punto fuor di Toscana, benché serva a dire molte cose che non si possono dire altrimenti che meno bene, o con più parole, ciò che in fondo è il medesimo. Per esempio, come diresti tu in altre parole: camminar pari pari o portar una cosa pari pari, perchè non si spanda l'acqua che v'è dentro? PARARE. È una di quelle tante parole comuni alla lingua e al dialetto, le quali noi non usiamo in certe forme perciò, essendo queste anche dialettali, non le crediamo forme italiane. Di' là verità: oseresti dire che una stanza è buia perchè c'è la casa di faccia che PARA? PARA, senz'altro, sottintendendosi il sole, la luce? E dire: - Escimi davanti che mi PARI? E: un pastrano che PARA il freddo? E a un bambino, offerendogli qualche cosa: PARA bocca? PARA mano? PARA il grembiule? PARA il sacco? - No. Vedi, dunque. Ma di queste parole e locuzioni dialettali e italiane ne abbiamo già trovate parecchie nelle pagine antecedenti, e ne troveremo di più in seguito. - TIRAR LA PAGA, per riscuoterla. - Esdsere una cattiva paga, un cattivo pagatore. PAGHEREI che tu provassi il gusto che c'è a far questi lavori - Non PAPPARE d'una cosa, non intendersene - Non aver PAURA, non temere il confronto. - PELAR gli uccelli, le castagne, PELARSI una mano con un ferro rovente. - Farsi PELARE, per, farsi tagliare i capelli. - PRENDERE di qui, di là, da questa parte, da questa strada, per avviarsi. - PIGLIARSI, per isposarsi. Pare che que' due SI PIGLINO. - Lo so DA PER ME , viene DA PER SÉ. - PILUCCARE uno (plucchè, piemontese) per pigliargli i denari. - È un PIGLIA PIGLIA (ciapa, ciapa). - E PAPPINO , PASTONE , PATAFFIONE, PATATUCCO, PIOTA, QUEI POCHI, per servo d' ospedale, pasto per le galline, uomo grossolano, uomo stupido e bizzarro, pianta di piede grosso , quattrini. Vedi di quanti vani scrupoli e paure ti puoi liberare leggendo il vocabolario. Conosci i modi: PARLARE con le seste, PARLUCCHIARE sul conto altrui, PASSAR PAROLA a qualcuno d'un affare, aver PASSATO con alcuno POCHE PAROLE, entrar in parole, pigliarsi a parole? - Provati a trovare un altro modo che equivalga appunto quest' ultimo, e vedi se PARTICOLARE, nella frase: - Tu sei PARTICOLARE, veh! - da noi non mai, usato, non dice qualche cosa di più di curioso e qualche cosa di meno d'originale o strano, che qualche volta sarebbe troppo. E diciamo mai pascolare in senso attivo, come nell'esempio: - Andò a PASCOLARE le pecore -? PASSATELLA di donna avanzata in età, è uno di quei modi riguardosi, da registrarsi nel Galateo lingua, i quali possono attenuare, in certi fasi il risentimento d'una signora rispettabile. E nota pure, perchè ti può occorrere: - tirare una PASSATELLA, che è mandar la boccia in modo che tocchi quella dell'avversario per rimoverla. CANTARE A PAURA, che bel modo di dir: cantare per ingannar la paura! E PENCOLARE nel senso di esser dubbio tra il sì e il no? Ricordo un ragazzetto fiorentino che mi disse: - Io volevo che mi lasciassero andar solo a vedere il serraglio: là, mamma pencolava, pencolava.... Nota (e noto anch'io, perchè son parole che imparo con te): - PECETTA, per seccatore (bellissimo): Levami questa PECETTA di torno. - PASTRANAIO, Chi alla porta d' un teatro o altro prende e conserva i pastrani. - PATACCONE, un orologio grosso e vecchio. - PATATE (volgarmente) i calli. PECORELLE, la schiuma dei cavalloni. - PEDINARE, il correre per terra degli uccelli....

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Qui apro una parentesi, che già volevo aprire alla parola Paleografia, poi a Paleolitico, a Paleontologia, a Palingenesi, a Palinsesto, a Paralipomeni, e che dovrei poi aprire a Pirronismo o a Prammatica e ad altri vocaboli, se non lo facessi in questo punto. Zitto! Non li domando se di tutti quei vocaboli sai il significato: ti tratto da uomo. Quelle ed altre molte appartengono a una famiglia di parole che si potrebbero chiamare: della scienza sottintesa: parole che si sentore dire sovente nelle conversazioni della gente colta o mezzo colta, e che spessissimo si leggono nei giornali; le quali molti non sanno o sanno soltanto per nebbia che cosa significano e sarebbero impacciatissimi a dirlo; ma, fingono di capirle, perché hanno coscienza che è alquanto vergognoso il non conoscerne il significato. Fra quanti bravi signori, se fossero sinceri, seguirebbe la scena di quei due giurati del Fucini, i quali, di parola in parola, finiscono col dichiararsi a vicenda di non sapere che cosa voglia dir recidiva, che credevano un delitto snaturato! Ebbene, questo è uno dei tanti vantaggi della lettura del Vocabolario: che tutti, scorrendo le sue pagine, possiamo colmare una quantità di piccole lacune della nostra cultura, le quali non confesseremmo neppure a un amico, aggiustare i conti della nostra coscienza letteraria, di nascosto, senza dover arrossire, come con un maestro fidato, che s' interroga a quattr'occhi, e che dà le risposte nell'orecchio, e non risponde soltanto alle nostre domande, ma ci svela pure molte nostre ignoranze inconsapevoli, e vi ripara ad un tempo. Cito fra le tante che ci passeranno sott'occhio una sola parola: preconizzare, che qttasi tutti sanno, ma che moltissimi non intendono nel suo significato vero, poiché cento volte io l'intesi usare nel senso di presagire, dove significa propriamente: proclamare l'elezione d'un vescovo, e quindi, per traslato, proclamare che che sia. Il Giordani preconizzò all'Italia l' ingegno del Leopardi. E si sente dire: - Io preconizzai la pioggia fin da ieri! - E a proposito di pioggia: una PASSATA D'ACQUA, una PASSATINA, per piccola pioggia, e che passa presto, come dice bene la cosa!

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To': c'è anche un modo per dir l'atto di riunire i cinque polpastrelli della mano.FA' PEPINO, se ti riesce, si dice a chi ha le mani aggranchiate dal freddo. E giusto, mostrami la mano: questa pellicola staccata dalla carne vicino all'unghia si chiama PEPITA. Tagliatela, e osserva l'uso del per nei modi seguenti, che per noi sono insoliti: - Si volsero PER ponente - Assalirono il nemico PER fianco - PER bambino, ha molto giudizio. - PER gobbo, dicono in Toscana, è fatto bene - Levò quel ragazzo DI PER le strade - Dare una cosa PER DI. Gli hanno dato questo quadro PER DI Raffaello. - E l'uso del PERCHÈ in quest'altro esempio: - La cagione PERCHÈ io lo cacciai di casa - più svelto che per la quale. PERDOVE. Volle sapere il perchè, il percome e IL PERDOVE. - Vedi com'è graziosa la parola PERSONALINO per figura: - Quella ragazza ha un bel PERSONALINO - com'è espressivo il costrutto: - I facchini la mancia la pesano -; il quale tu usi ogni momento nel dialetto, e non l'useresti in italiano, pensando che sia un errore l'oggetto doppio: corbellerie! PESTARE uno di nerbate, un modo vigoroso. PESUCCHIARE, per pesare abbastanza. Questo bambino non pare; ma PESUCCHIA. PETTATA, salita piuttosto forte: fare una pettata. - PETTEGOLATA, azione da pettegoli; bada: non pettegolezzo. PRENDERE PER IL PETTO uno, fargli violenza. Un piacere lo fo; ma non voglio esser PRESO PER IL PETTO. - PIACCICHICCIO. Con questo PIACCICHICCIO di fango, non si cammina. - PIACCICONE, PIACCICONA, chi fa le cose lentamente. - PIPA, per naso grosso.... altrimenti Nappa, che è la napia del nostro dialetto.... A proposito di Piaccicone, è da notarsi il gran numero di parole comprese nella sola lettera P, le quali definiscono il carattere, l'aspetto, il modo di moversi e d'operare d'una persona; tutte occorrenti spessissimo, in special modo nel linguaggio parlato. Per esempio: - Quel PALLIDONE d'Eugenio. - Se tu dici invece: quella faccia pallida, noti fai capir così bene che Eugenio è pallido sempre, naturalmente. - PANCETTA, chi ha la pancia grossa. Maestro Pancetta; scherzoso, ma non impertinente. - PAPPATACI, chi soffre, mangia e tace. - PEPINO, è un PEPINO, di ragazzo o donna, arguta e frizzante. - PETECCHIA, uomo spilorcio. - PIDOCCHIO riunto, rivestito, rifatto, rilevato, ignorante arricchito e superbo. - PISPOLETTA, PISPOLINO (da pispola, uccello cantatore), donnetta vezzosa, o ragazzo o bambino piacente: E ne tralascio molte altre, che vedremo un' altra volta, per finir con Puzzone, persona che puzza, e anche persona superba. Tirati in là, punzone, che mi mozzi il fiato. Che si crede d'essere quella puzzona? - E poichè si parla di puzzo, nota com'è detto bene di persona senza sentimenti e senza idee: - SENZA PUZZI E SENZA ODORI; che si potrebbe riferire anche a scrittori e a libri corretti, ma vuoti e freddi, che lasciano nel lettore.... il tempo che trovano. E ora, per riprender fiato, un'altra occhiata alla

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Che risponderebbe lei a chi le dicesse: - Non son fatto bene, son di complessione - debole: per questo non faccio ginnastica? - Ma il non aver attitudine allo studio della lingua è una ragione di più per istudiarla. Chi non è dotato di buona memoria, e non ha facilità d'esprimersi, nè un vivo sentimento naturale della lingua, deve e può supplire alla deficienza di queste qualità con lo studio. Un' attitudine particolare ci vuole per diventare scrittore o linguista; - ma per imparar la lingua quanto lo richiedono il dovere, l' interesse e la dignità di qualunque cittadino colto, basta la volontà. Ci si provi un poco. Ella non immagina quanto possa acquistare in materia di lingua anche chi non ci ha disposizione di natura, in un periodo di tempo anche breve, e senza far grande fatica. Mi dirà: - Non ci avendo disposizione, non ci ho amore, e senza questo non si riesce a nulla. - Ma l'amore viene a poco a poco, man mano che dello studio si riconoscono i profitti, come viene all'erborizzatore esordiente, che, dopo aver classificato nella sua mente un certo numero di piante, prosegue con più alacrità, per il piacere d'accrescere il suo patrimonio di cognizioni, e perchè il lavoro gli riesce sempre più facile. Può ella affermare che se stesse chiusa un mese fra quattro pareti senz' altri libri che di lingua, non prenderebbe amore a questo studio quanto uno che ci avesse disposizione? No, non è vero? E ci prenderebbe amore per il solo fatto che sarebbe costretta, per cacciar la noia, a vincere la prima riluttanza, insistendo su quella materia col pensiero, come non ha fatto mai. Provi dunque a insistervi col pensiero una volta, a fare una volta di proposito ciò che farebbe in quel caso per forza, e vedrà che il difficile non sta che nel principiare. E poi: - Non ci ho attitudine! - E come lo sa? La monte umana è piena di sorprese; certe attitudini vi stanno nascoste; scavi un po'; anche nel cervello, chi cerca trova.

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Di corsa, perchè è ancora lunga la strada, e tu la rifarai da te a più bell'agio. PIAGGELLARE, lodare, dar dell'unto, più discreto di piaggiare, e anche nel senso di ninnolare, divertir con ninnoli. - PIANGERE. Di un vestito che non si confà a una persona si dice con traslato felicissimo che le PIANGE addosso, perchè fa le grinze d'un viso piangente, e di scarpe tutte rotte: scarpe che PIANGONO a cent'occhi. Dire che ho cercato tante volte il contrapposto di valligiano, colligiano, senza trovarlo, ed eccolo qua: PIANIGIANO: me lo appiccico sulla fronte. PIANTACAROTE.... Ma questa è una parola comunissima, come l'azione che esprime. Ora, ecco una manciata di modi comuni a vari dialetti, di grande efficacia. - PIANTAR spropositi. - PIANTAR uno a un dato posto (in senso canzonatorio). - L' hanno PIANTATO agli arresti. - PIANTARE una ragazza. - PIANTARE un amico lì su due piedi. (Un poeta usò argutamente, in questo senso, la parola Piantagione). - PIANTAR gli occhi in faccia a uno. - PIANTARE il discorso, e andarsene. - PIANTAR casa. - PÌARE, degli uccelli che cantano in amore, e Pio Pio; e si dice anche PIARE delle castagne e delle patate che metton : - Non lo vedete che queste castagne PÌANO? - PIENO, una delle tante parole che nel vocabolario hanno il sacco: - PIENO zeppo, pinzo, colmo, gremito - bicchiere (PIENO RASO - piatto PIENO a CUPOLA - nel PIENO INVERNO - nel PIENO DELLA NOTTE. - E così PÌGLIARE: PIGLIARE a cambio, a chiodo, a calo, e nel senso d'accendersi: - questo lume non PIGLIA - e in altri significati: - vino che PIGLIA d'aceto - pianta che non PIGLIA - mastice che PIGLIA appena.... Ah che miseria! Pensare che io pure, vecchio al mondo, dico quasi sempre queste cose in altri modi tanto meno spicci e meno propri! - PINZO, PINZARE è proprio del morso degl'insetti. - Nota i modi: - Starà poco a piovere. - Piove a paesi (in qua e in là). - PÍPPOLO, che è una piccola escrescenza delle piante in forma di bacca, si dice pure d' un' escrescenza della carne: ho un amico al quale una gallina portò via un píppolo dal naso con una beccata. PITTIMA, per persona noiosa, è anche del nostro dialetto. A POCHINI A POCHINI se ne spende tanti, molto più espressivo e garbato che a poco a poco. - POPONE fatto, strafatto. - POPONE per gobba. Mi ricorda il sonetto del Fucini, dove al prete gobbo che dice che l'uomo è fatto a somiglianza di Dio, Neri risponde: - Con quel popone non me l'ha a dir lei. - O sciocco, va' a dare il colore ai poponi.

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Da quest'ultimo esempio possiamo prender le mosse a una corsettina allegra, per vedere una quantità di modi proverbiali e di motti e d'esempi lepidi e arguti, che nelle pagine precedenti abbiamo saltato a piè pari. Se leggerai tutto il vocabolario, vedrai che, ce n' è a profusione, che alle immagini e ai pensieri tristi vi predominano di gran lunga gli ameni, che il libro della lingua , insomma, è generalmente un libro gaio, gran motteggiatore e burlone; e nei suoi mnotti non troverai soltanto fiori e vezzi di lingua faceta, ma anche molte sagge sentenze e verità utili e sani consigli. Rifacciamoci un po' indietro, e spigoliamo alla lesta, senza tralasciarvi certi modi un po' volgari, ma efficacissimi, che è bene conoscere, benchè non sia bene adoperarli.. - Fàtti in là, disse la padella al paiolo. - Non si può esprimere più argutamente il concetto d'una persona di cattiva reputazione che ostenta timore d'insudiciarsi nella compagnia d'un'altra della stessa tacca. - Sei come la padella, che tinge e scotta. - C'è da: rivomitar le palle degli occhi, a mangiar certe bazzoffie delle trattorie. - Ti s'ha a portare il panchetto? A chi non fini- sce di chiacchierare per la strada. A Parigi, quando due comari stanno a chiacchiera un pezzo davanti a una bottega, esce il bottegaio con due seggiole, dicendo: - Ces dames seront peut-étre mieux sur des chaises. - Aver della pappa frullata nel cervello, essere un baggeo. Di una cosa nauseante: - Fa venir su la prima pappa. - Soffiar nella pappa, fare la spia. - Da pappardelle (certe lasagne): il condotto delle pappardelle la gola. - Pappa tu che pappo io (comune, credo, a tutti i dialetti), alludendo a due persone che mangiano d' accordo in un affare. - Eh, non mi pappar vivo! A chi risponde arrogante. - Aspetto che passi la mia, diceva quell'ubbriaco che si vedeva girar intorno le case e non riusciva a trovar la sua porta. - Far passare il vino da santa Chiara, degli osti che lo annacquano. - Nella sua testa c'è andato a covare un passerotto, di persona senza senno. - Il SE, il MA, il FORSE, è il patrimonio dei minchioni. - Dottor Pausania, a persona che parla con molte pause e con prosopopea. Di una persona magra: - gli si sentono i paternostri nella schiena: - da paternostri, le pallottoline maggiori della corona del Rosario, alle quali somigliano i nodi della spina dorsale. A chi fa il superbo perchè è arricchito, per ricordargli il tempo quand'era povero: - Ti ricordi quando con una pedata ti rifacevi il letto? ossia, quando dormivi sulla paglia. - Il caldo dei lenzuoli non fa bollir la pentola (anche dialettale), la poltroneria non è guadagno. - Pare una pentola di fagioli (si sottintende "in bollore -) di persona catarrosa. - Dio ti benedica con una pertica verde. - Pillole di gallina (le ova) e sciroppo di cantina aiutano a star sani. - Di persona segreta: - Più chiuso delle pine verdi. - Tu fai piovere! A chi parla con affettazione o canta male. - E ponza e ponza e ponza, venne fuori la Monaca di Monza, fu detto del Rosini, che con quel romanzo credeva d' aver ammazzato I Promessi Sposi; e si dice di chi fa un grande sforzo, che poi non dà degno frutto. - E udendo un suono di quel vento che esce dallo stomaco: - Al tempo dei porci erano sospiri. - Proserpina, di donna scarruffata. Vatti a pettinare, che con codesti ciuffi mi pari una Proserpina (la figlia di Giove e di Cerere, rapita da Pluto). - Non esce mai dal bagno: o che Ci sta in purgo? Dal mettere una cosa in purgo, o in molle, perchè prenda o perda certe qualità. - È meglio puzzar di porco che di povero, dicono i poveri che si vedon malmenati. Vespasiano a Tito, che gli chiedeva come mai avesse messo un'imposta sull'orina, mise una moneta sotto il naso, e domandò: - Puzza questa?

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Tu capisci la mia strizzatina d'occhio questa è una di quelle tali parole che è convenuto che tutti intendano, e di cui non è prudente domandare la spiegazione, in presenza d'altri, a una persona che si rispetta. POLPETTA, tu saprai per prova che cosa significhi in traslato: sgridata. Bello il verbo PORGERE nel senso di suggerire: - Fa' quello che la natura ti porge. - Dice il popolo, in Toscana: - Un animo mi PORGE, il cuore mi PORGEVA di fare una data cosa. POSARE. Nota bene. Noi diciamo troppo spesso deporre, che è ricercato, per posare il cappello sopra una seggiola o il candeliere sul tavolo o altro simile; io intesi anche gridare a un cane: - Deponi quell'osso, come nelle tragedie si dice a un re: - Deponi quel serto. Corbezzoli! - Positivo. Si dice famigliarmente di positivo per sicuramente, senza dubbio. A primavera c'è la guerra DI POSITIVO. - Posteggiare, far la posta, non si dice soltanto d'un animale alla caccia, ma anche d'una persona: L'ho POSTEGGIATO un pezzo all'angolo di via Garibaldi, dove passa ogni giorno; ma non comparve. - Si dice che Può il sole, il vento in un luogo, per dire che ci batte forte, ed è un modo tanto efficace quanto lesto. Eccoci a PRATICA. E qui ammonisco me stesso: - Si ricordi bene, signor E. D., che si dice far LE PRATICHE da avvocato, e non la pratica, come dice lei, e far pratiche, non le pratiche, per far quello che occorre a riuscire in un intento. E tu pure, figliuolo, a proposito di PRECIPIZIO, avverti, discorrendo, di non PRECIPITAR le parole, le sillabe, il racconto, che è un vezzo per cui si dice un PRECIPIZIO di spropositi; e già fanno tutto male gli uomini PRECIPITOSI; e non te la PRENDERE (è un modo anche dialettale) se t'ammonisco con tanta franchezza. Su PRESA tiriamo via, perchè tu capisci che cosa significa negli esempi: un muro che non ha fatto ancora PRESA, una colla, una pasta che non fa PRESA. Ma facciamo alto a PRESTIGIO, che il vocabolario definisce: influenza, forza abbagliante, ma di cui si fa ora un abuso ridicolo, adoperandolo nel significato più ristretto di stima e d'autorità, e anche di serietà solamente, tanto che tutti credono d'aver del prestigio da perdere, e io intesi dire persino d' un cane da guardia, che aveva perduto ogni prestigio in una fattoria, per averci lasciato entrare i ladri di notte. - Grazioso il verbo PROSPERARE in senso transitivo: - Il Signore vi PROSPERI! - PUGNO, ribeccarsi un pugno, mescere fior di pugni. Sentii dire in Toscana: - Quattro pugni bene scolpiti, che è proprio uno scolpire l'idea. - Mi piace PUNTARE nel senso di fissare con insistenza una persona: La smetta, giovanotto, di PUNTAR quella ragazza; e anche riflessivo, per ostinarsi: - Se si PUNTA, non ottieni nulla. - Ed ecco alla parola PUNTO un mazzo di modi da ricordarsi: - Far punto e da capo, stare a punto e virgola, ci sono i punti e le virgole (in uno scritto perfetto), capitare in brutto punto, prendere in buon punto (nel momento buono), se s'affatica punto punto s'ammala, non è ancora in punto (all'ordine). Per primo punto ti dirò.... - PURE DI, in senso ellittico. PUR di campare, fa di tutto: esprime il concetto con assai più forza che per campare, dicendo l'amor della vita anche più forte del sentimento della dignità e della rettitudine. PUZZARE, PUZZACCHIARE. - Passa di qui a naso ritto: par che si PUZZI tutti! - Il pesce PUZZA DAL CAPO. - Azioni che PUZZAN di ladro. Diciamo anche noi Del dialetto che una cosa non pagata, ma presa a credito, puzza d'inchiostro, e d'una cosa che si ritrova o si riceve inaspettatamente, e che ci fa comodo: - Un pastrano a questi freddi? Non puzza. - Nóta che noi usiamo quasi sempre, in vece di PUZZO, puzza, che è del linguaggio letterario. - Un puzzo che assaetta, un puzzo che si schianta, che si scoppia. - Di questo puzzo non ce n'ho mai avuto in casa mia: s' intende di questi peccati, di queste cattive azioni. E per rumore, putiferio: - Per un nulla non importava far tanto puzzo! - E ancora vari nomi di cose, d' uso raro fra noi, ma che è bene aggiungere al nostro vocabolario manchevole: - POSATURA, quella che lascia l'acqua nella boccia, e che noi diciamo fondo, che è proprio del caffè, com'è del vino e dell'aceto fondigliòlo. - PRODA del campo, del tavolino, del letto, del muro, del fosso, che noi diciamo malamente orlo. - PULCESECCA, sinonimo faceto di strizzatura o pizzicotto, o anche il segno che ne rimane. - Mi son fatto una pulcesecca con la fibbia, e in un sonetto del Fucini: e già na pulcesecca 'n tel nodello. - PULCIAIO, un luogo pieno di pulci o sudicio. - Son capitato in un pulciaio di locanda! - PULCINAIO, un luogo pieno di pulcini. - PULISCISCARPE e PULISCIPIEDI, che si mette all'entrata delle case, e che si chiama Raschino se è di ferro. - PULSANTINO, la mollettina degli orologi, che serve, calcandola e girando il gambo, a rimetter l'ore. - PUNZONE, forte colpo dato con le nocche o con la mano puntata. Gli diede un punzone nel petto che lo mandò con le gambe levate. - E questo è l'ultimo vocabolo della processione del P, che se finisce poco bellamente con due scarpe per aria, non è mia colpa.

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Vedi che vasta e succosa e dilettevole lettura e quella del Vocabolario, e immagina quanto avrai imparato quando su tutte le lettere dell'alfabeto avrai fatto il lavoro che abbiamo fatto insieme sopra una sola, ma con più attenzione, e smettendolo e ripigliandolo a intervalli, dopo ciascun dei quali ritornerai all'opera con maggior curiosità e con più vivo ardore e con la mente meglio esercitata a scegliere, a osservare e a imparare. Sei persuaso? E dopo questo, se qualcuno ti dirà che a leggere il Vocabolario si muor di noia e si sciupa il tempo e il cervello, mandalo.... alla lettera P.

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Ora ti debbo dire alcune, cose per preservarti da un senso di scoraggiamento, dal quale e probabile che tu sia preso a quando a quando, nel primo corso dei tuoi studi. T'accadrà qualche volta di passare in rassegna mentalmente il materiale di lingua che crederai d'aver accumulato in vari mesi di letture e di appunti, e troverai nella tua memoria ben poca cosa, ti parrà che una gran parte di quel materiale ti sia sfuggito come un liquido da un vaso forato, e che un'altra parte ti sfugga nell'atto che lo cerchi, e rimarrai scoraggiato da, quel disinganno, e quasi avvilito. Ebbene, sarai in errore. Una gran parte del materiale della lingua si va a riporre da se in certi scompartimenti secreti della memoria,, dove noi lo portiamo senz'esserne consapevoli, e donde non esce se non quando è chiamato fuori da certe idee, con le quali e legato da fili sottilissimi, invisibili, per così dire, al nostro pensiero, e quindi non afferrabili dalla nostra volontà. Ma, nel parlare e nello scrivere, quando vorrai esprimere certi pensieri e nella ricerca viva dell'espressione le tue facoltà intellettuali si ecciteranno, tu vedrai che ti verranno sulle labbra e alla penna una quantità di parole, di frasi e di costrutti, che non sapevi di possedere, e che ti parrà di non aver cercati. È una cosa che segue a tutti quelli che studiano la lingua, e che e per loro una sorpresa gradevole, come di trovare nelle tasche o nei cassetti carte preziose o danari dimenticati. Non ti sgomentare, dunque, se dai ripostigli della tua memoria non esce che pochissima lingua, quando a questa tu gridi: - Fuori! - non per bisogno, ma per vederla soltanto, per metterla in mostra a te stesso. Quando n'avrai bisogno davvero; saranno le tue idee urgenti e imperiose che andranno a picchiare all' uscio delle mille celle in cui le parole stanno nascoste, ciascuna alla cella di quella che le conviene e le appartiene, e te le porteranno di volo sulla carta e alla bocca. E ti porteranno vocaboli e frasi che da lungo tempo non s'eran più fatte vive nella tua mente, e che ti parrà d'imparare in quel punto, e della forma felice in cui ti verranno espressi certi pensieri, rimarrai maravigliato come di roba non tua, che ti fosse suggerita da un altro, o come se scoprissi in te un altro te stesso, che parli e scriva una lingua più ricca, più propria, più efficace di quella che tu possiedi. Sii certo di questo. Molto spesso, ritrovando nel dizionario o nei tuoi appunti certi modi segnati da te un pezzo addietro, esclamerai: - Guarda! Questo m'era scappato di mente. No, non t'era scappato; vi stava rimbucato, e dormiva, aspettando che venisse a risvegliarlo un'altra parola o frase di senso o di suono affine. una voce sfuggevole dell'animo, un'idea sua parente od amica, alla quale egli si sarebbe manifestato ed offerto. Prosegui dunque con animo a leggere, a notare, a raccogliere, poichè tutto il materiale di lingua che ti metti in capo vi si ordina e vi si collega in mille modi, come in una officina oscura, a poco a poco, con un lavorio spontaneo, del quale tu non hai coscienza. E non ne sarà affatto perduta neppur quella parte che non verrà fuori al bisogno, perche di molte voci e locuzioni effettivamente dimenticate, tu sentirai nella tua memoria il vuoto che v'avranno lasciato, e di là le spierai e moverai per rintracciarle e prima o poi le ripiglierai al laccio per sempre. Prosegui nello studio, con viva fede nelle forze latenti e nel lavoro misterioso e maraviglioso della memoria, che ti sarà per sè medesimo un argomento di studio e una fonte di diletto profondo.

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Non c'è altra materia che si presti meglio a uno studio frammentario, fatto nei ritagli di tempo libero, e anche nei momenti di riposo; a uno studio somigliante a quelle occupazioni fra intellettuali meccaniche, a cui si dànno molti per isvago. non chiuderà il mio libro alle prime pagine, vedrà che può studiare la lingua senza togliere un'ora alle sue faccende quotidiane; anzi facendo servire queste a quello scopo, imparando qualche cosa a ogni proposito, raccogliendo le cognizioni quasi senza far deviare il suo pensiero dall'andamento abituale. Ella mi dirà: - Ma ho mille pensieri, mille cure; quando ci avrei tempo, non ci ho testa; per codesto studio ci vuol animo tranquillo. -Ma appunto, ella ci troverà quiete e sollievo, perchè non c'è altro studio che giovi quanto questo a distrarci dalle passioni che ci turbano che occupi e svaghi la mente, come questo fa. con una serie continua di curiosità nascenti l'una dall'altra, contentando ad un tempo l'animo con molte piccole conquiste quotidiano determinate, con infinite piccole compiacenza prOdotte dal continuo ripetersi delle occasion in cui si può spendere quello che s'è guadagnato E non mi dica neppure che è uno studio per giovani, ai quali è stimolo l'idea di ricavarne m vantaggio per l'avvenire, non per gli uomini ma turi, a cui quello stimolo manca. No; bisogna pure che ci si trovi un piacere indipendente da ogni concetto d'utilità futura, polche per tanti uomini, anche non letterati e scrittori, è uno studio amoroso e costante, un conforto nella vecchiaia e nella solitudine, l'ultima forma d'attività della loro mente, come è per altri lo studio della natura. Col quale, infatti, ha questo di comune lo studio della lingua: che è infinita mente vario, e che i suoi confini s' allontanano dinanzi a chi vi procede.

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Sì, se nel culto della letteratura tu dovessi fare allo studio della lingua una troppo gran parte, riporre in essa il meglio dei tuoi sforzi e dei tuoi godimenti intellettuali, ridurti a considerarla, in somma, non come un mezzo, ma come un fine, e diventare uno di quei perdigiorni delle lettere che badano soltanto a baloccarsi con le parole e con le frasi, come se queste non fossero forme e suoni vanissimi quando non servono a dir qualche cosa che piaccia o che giovi, io ti direi che e meglio per te rinunziare a questo studio, e continuare a scrivere e a parlar male per tutta la vita. E sappi che il malanno c'entra dentro lentamente, senza che ce n'avvediamo. La nostra innata pigrizia intellettuale c'induce a poco a poco a tenere in conto d'un nobile esercizio dell'ingegno il facile lavoro di accumular vocaboli e locuzioni, e a credere che sia arte e scienza ciò che con l'arte ha che fare come la preparazione dei colori con la pittura, e con l'alta matematica lo studio della tavola. pitagorica. Non occupandoci più d'altro che di lingua, finiamo con non cercare e non raccoglier più Altro nelle opere dell'ingegno altrui; ci avvezziamo a non veder più bellezza che nella bellezza della parola, a non badar più che alla forma anche nelle pagine più splendide di pensiero e più calde d'affetto, a non più pensare noi medesimi, scrivendo, se non quanto e necessario ad aver qualche cosa da dorare e da infronzolare con gli orpelli e coi nastrini del nostro guardaroba linguistico. Ed ecco lo, studioso della lingua che, naturalmente, a grado a grado, diventa pedante e intollerante, come il bigotto diventa superstizioso e misantropo; che non ha più altro nel cranio che una grammatica e nel petto che un vocabolario, e nelle cui mani la lingua perde lume, calore e vita, per ridursi una materia inerte e fredda, da mettere in mostra a diletto di chi ha gli occhi confitti in una fronte vuota; ecco il linguaio degenerato, uggioso e ridicolo, che sempre e da per tutto dove imperò, isterilì la letteratura, uccise l'arte e prostituì I' idolo che stupidamente adorava. Ma tu non ti lascerai andare per quella china: tu terrai sempre per fermo che ogni studio diretto a parlare e a scriver bene sarà fatica, peggio che sprecata, rivolta a tuo danno, se ti distoglierà dall'esercitar l'ingegno a un più alto fine; tu studierai la lingua per diventarne padrone, non per fartene servo, per servirtene, non per adorarla; tu ne farai forza e bellezza, ma non la sostanza stessa del tuo pensiero, che si dissolverebbe nel vuoto, non l'alimento unico del tuo intelletto, per cui si muterebbe in veleno. No, tu non seguirai la via del professor Pataracchi.

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E siccome il suo purismo arrivava a tal segno, da respingere ogni frase o parola che non avesse il suggello della classicità più genuina, fino a non ammettere in alcun modo nessun vocabolo nuovo, per quanto fosse giustificato dal bisogno o dall'uso comune, si capisce com'egli dovesse odiar mezzo mondo e si facesse prendere in tasca da quasi tutti quelli che gli s'avvicinavano. Dico quasi tutti, non tutti, perché a me e a pochi altri, che sapevamo quanto un'offesa alla lingua lo facesse veramente soffrire, egli destava, insieme con l'ammirazione del suo foto sacro, un sentimento di schietta pietà. Perché dirgli una parola o una frase che gli pareva illecita era come forargli le carni con un punteruolo d'acciaio: avrebbe gridato in mezzo alla strada, se non avesse temuto di far gente. A chi gli rivolgeva una domanda in forma scorretta, non rispondeva, o tardava un pezzo a rispondere, per fargli capire che l'aveva offeso e per lasciargli il tempo di ritrattar l'ingiuria. A certi cattivi scrittori e parlatori, quand'io lo conobbi, aveva levato il saluto da anni. Domanderete perchè non lo levasse a me pure. Ma coi giovani che lo frequentavano con buona disposizione d'alunni, e fingevano di consentir con lui e di voler battere la sua via,. usava qualche indulgenza. Non faceva però complimenti nemmen con loro quando gli toccava d'udire o di leggere in qualche loro scritto una locuzione o un costrutto di lega impura. Diceva fuor dei denti: - Queste son bricconate, mi scusi. - Questo non è uno scrivere da galantuomo. - O dove ha pescato questa porcheria? - Per lui non c'era differenza fra il commettere un atto di lesa maestà del suo dizionario e rubare un orologio o fare una cambiale falsa. Avrebbe voluto che nel Codice penale ci fosse un articolo pere questo genere di reati. E non facevà grazia a nessuno. Nessuno scrittore lo contentava perchè il buon effetto di qualunque pagina più bella e eloquente; se pur lo sentiva ancora, gli era distrutto ipso facto da una sola parola illegittima ch'egli v'inciampasse. Anche quei pochi puristi della sua razza, che rimanevano in Italia, e ch'erano generalmente canzonati per la loro feroce pedanteria, anche quelli li giudicava di manica troppo larga, troppo cedevOli, vilmente propensi a venire a patti con la barbarie invadente. Ed è a notarsi che furioso in particolar modo era contro i suoi concittadini toscani, e contro i fiorentini più che mai, ch'egli accusava d'essere i primi e più infesti corruttori della loro lingua. Già erano imbarbariti i suoi coetanei; ma erano assai peggio i loro figliuoli. Diceva che "veniva su una generazione toscana senza freno nè legge, la quale preparava al suo paese un triste avvenire - perché nel suo concetto un parlatore o scrittore " maculato - non poteva che seminar dei guai in qualunque campo o forma d'azione operasse. Ricordo d'avergli udito dire, all'annunzio di non so che nuovo Ministero: - Ministro dei lavori pubblici quello sgrammaticante Ne vedremo delle belle! - Non avevano altra sorgente anche i suoi odi politici, perché di politica non sì curava, e non riconosceva altra quistione nazionale o sociale che quella della lingua. E sebbene, in fondo, fosse tutt'altro che un cattivo uomo, serbava i suoi odi linguistici oltre il rogo. Udendo ch'era morto un tal letterato, una delle sue bestie nere: - Come uomo - disse, - lo compiango; come scrittore.... una pestilenza di meno. È giusto dire che della purità assoluta che voleva dagli altri, egli dava l'esempio, non solo in quel pochissimo che scriveva, ma anche parlando; ciò che gli doveva costare una cura assidua e faticosissima, perchè, in somma, non viveva mica fuori del mondo presente, e le parole nuove, i francesismi correnti, gl' idiotismi d'uso universale e necessario dovevano penetrare e sonar di continuo anche nel cervello suo come nei polmoni di tutti entrano i microbi dell'aria. Ma di lingua era dotto davvero, e non c'era caso che peccasse. Di certe cose, delle quali, senza peccare, non avrebbe potuto discorrere, non discorreva mai. Certe novità, a cui non si poteva dar altro che un nome nuovo e barbaro, non c'era verso di fargliele nominare. Altre le nominava con un vocabolo antico, o di conio proprio, risolutamente, non dandosi alcun pensiero di non essere capito, o d' esser franteso, o di far ridere gli uditori; il che seguiva sovente Chiamava, per esempio, una dimostrazione popolare: una raunata di popolo; guardie del fuoco, i pompieri; traino, il treno della strada ferrata (partirò col traino diretto, diceva): un banchetto, non di trecento coperti, ma di trecento tovaglioli; negava la medesimezza della così detta casa di Dante in Firenze. E non diceva mai semplicemente il re, poichè era monarchico umilissimo, ma neanche Sua Maestà, che condannava come modo improprio: diceva la maestà del re: la maestà del re arriverà domani. Ma i due più belli esempi della sua audacia di p urista, diventati famosi a Firenze, sono le veci antiche con le quali s'ostinava a designare due imposte, ch'egli chiamava gravezze: l' imposta progressiva e quella della ricchezza mobile, già esistenti ai tempi della Repubblica: la decima scalata e l'arbitrio. E tutte queste parole, e le altre, pronunziava con aria di sfida fra i " neologizzanti - quasi gettandogliele in faccia (scrivo così perchè è morto) e dicendogli con gli occhi: - Beccatevi questo, e fatene vostro pro, pezzi d'ignoranti. Variatissimo e comicissimo era il suo vocabolario di pedante vituperatore di barbari; nell'uso del quale egli graduava il vituperio con rigorosa giustezza. Da modo. non bello, brutta voce, vociaccia, robaccia, veniva su su a mostriciattolo, mostruoso vocabolo, voce appestata, abbominevole voce, parola infame. Così d' un francesismo tollerabile si contentava di dire: sente di francese, e via via: e' pute di francioso (il francioso aggravava) o di gallico (che era più grave di francioso), francesismo vile, fetentissimo, sgangherata voce gallica, scempiata metafora transalpina. E in diversi modi egualmente fieri e lepidi ammoniva i giovani a rifuggire da quei delitti: - Al fuoco questa parolaccia! - Al gasse! - Alla cassetta della spazzatura! - Deh, non lo dire! - Via quest'orrore! - La lasci agli acciabattoni! - E lascio altre sue maniere usuali: - Goffe eleganze romanzieresche, sconce sgrammaticature segretariesche, stomachevoli parole muschiate, sguaiate leziosaggini, turpi granciporri: n'aveva una collezione infinita. Ma non era mai così bello a vedere e a sentire come quando scorreva un libro nuovo e sospetto, con quel viso sanguigno e minaccioso, con quei baffi irti, che s'appuntavano contro lo pagina come penne d' istrice, con quelle unghie adunche, piantate sui margini, come pronte a graffiare. Egli segnalava il francesismo con una contrazione del viso come se vedesse correre fra le righe un insetto schifoso. La manifestazione più tenue del suo sdegno era un pugno sul tavolino. Quando una parola o una frase lo urtava più forte, prorompeva in invettive contro il fantasma dell'autore: - Ah, italiano rinnegato! - Camerlingo degli spropositi! - Sgrammaticato malfattore codardo! - E l'ultima espressione della sua collera era un riso ironico forzato, che gli scopriva i denti canini, accompagnato da uno scotimento di spalle, con cui fingeva un' ilarità smodata. Ma dopo questo sforzo, sbatteva il libro nel muro e andava fuor della grazia di Dio, - A questo punto siamo arrivati! Ma è un'aberrazione, una demenza universale. L'Italia va in isfacelo. Quando non c'è più lingua non c'è più nulla. È finita. Oh bastarda razza di traditori! Povero professor Pataracchi! Conservarmi la sua benevolenza costò a me qualche fatica; ma deve aver faticato più lui a non levarmela. Chi sa quante volte fu in procinto di dirmi come Virgilio all'Argenti: - Via costà con gli altri cani! - Poichè, in somma, gli dovevo parere un ipocrita, io che per tenermi nelle sue buone grazie gli davo ragione a parole, ma seguitavo a scrivere come un Ostrogoto, non potendomi ribellare alla terminologia dei regolamenti, poichè scrivevo di cose militari. - Ma è proprio proprio costretto - mi domandava qualche volta - a servirsi di codesto orribile gergo caporalesco? - Io rispondevo di si, e mi giustificavo umilmente. Ed egli mi diceva: - La compiango! - E forse fu la compassione che mi mantenne la sua amicizia. Il giorno prima di lasciar Firenze per sempre, m'andai ad accomiatare da lui. Fu più affettuoso che non m' aspettassi. Forse lo impietosiva i pensiero ch'io m'andavo a stabilire a Torino, poichè a lui, per rispetto alla lingua, Torino doveva parere un covo brigantesco, dove io non potessi far altro che una miseranda fine. M'accompagnò per un tratto di via del Cocomero. All'angolo di via degli Alfani, prima di lasciarmi, mi disse qualche parola benevola, raccomandandomi la lingua. Forse gli avrei lasciato un buon ricordo di me, se non avessi più aperto bocca; ma all'ultimo momento guastai la frittata. - Se per combinazione - gli dissi - venisse una volta a Torino, abbia la bontà d' avvertirmene. Mi metterò ai suoi ordini. Sarò felice di rivederla e di servirla. - Grazie, - rispose stringendomi la mano. - Buon viaggio, e a rivederla. E mi lasciò. Ma fatti pochi passi, mi richiamò con un cenno, e mi disse: - Senta. Combinazione, per caso o casualità, mi perdoni, è orribile. E se n'andò senza dir altro. Furon 'quelle le ultime, parole ch' io intesi dalla sua bocca purissima. Fulminò ancora i barbari per sette anni, e poi morì sulla breccia, ravvolto; negli avanzi della sua bandiera.

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A lei, signorino, che mi dice: - Ci avrò tempo! - darei volentieri una tiratina d' orecchio. Se c'è studio che un ragazzo non debba rimandare a poi, è questo della lingua. Non t'hai per male paragoni la tua memoria a un foglio di carta, asciugante? Vedi, quando questo è fresco e pulito, come vi s'imprimono nette tutte le parole dello scritto su cui lo premi, e vedi poi, quando è un pezzo che l'usi ed è già nero in gran parte, come le parole vi s'imprimono confuse, o non vi restano, o, se ne perde l'impressione in quella dello scritto che già lo ricopre. La tua bella età è quella in cui la mente vergine e chiara è più atta ad appropriarsi il materiale della lingua, non soltanto per virtù della memoria ancor fresca, ma anche perchè, essendo tu spettatore più che attore della vita, dalle parole non ti distraggono ancora le cose così fortemente come faranno più tardi, quando avrai mille cure, faccende e pensieri. Per questo tu hai inteso dire mille volte che i ragazzi imparano le lingue più facilmente degli uomini. Via via che s'allargherà il campo e crescerà la difficoltà dei tuoi studi, ti mancherà sempre più il tempo di dedicarti alla lingua e dovrai fare uno sforzo sempre maggiore per impararla. E non pensare che sia uno studio puramente letterario, che a te, chiamato a questa o a quella scienza, non possa giovare. È un errore madornale. Nel campo di qualunque scienza il possesso della lingua, la facoltà di esprimersi con chiarezza e con proprietà è parte della scienza stessa. Vedi che differenza c'è nel profitto che fanno fare ai giovani gl'insegnanti che parlano bene e quelli che parlano male. E non credere d'imparar la lingua con quel tanto che te ne gnano: la scuola non ti può che mettere sulla via d'impararla: al modo particolare che ha ciascuno di noi di sentire e di pensare, noi soli possiamo trovar la lingua che lo esprima. E poi, che logica è questa? Dici che a studiar la lingua hai tempo, ossia, che è uno studio che preme; ma d'ogni sproposito o anche piccolo errore di lingua che sfugga a chi che sia, se lo avverti, ne fai un carnevale. Non ti dar la zappa sui piedi, dunque; mettiti all'opera; per qualunque via tu abbia da fare il tuo cammino nel mondo, benedirai le fatiche che avrai dedicate questo studio nei tuoi primi anni.

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Credo che le teste piccole abbian meno bisogno di studiar la lingua che le teste grandi, perchè, avendo poche idee, basta a loro un ristretto materiale di lingua ad esprimerle; perché, pensando meno profondamente e meno sottilmente, non occorre loro grande efficacia e finezza di Iinguaggio per rendere il proprio pensiero. Ma chi ha vero ingegno, se non sa la lingua bene, si trova tanto più impacciato a farsi valere quanto ha più ingegno. Come non lo comprende? Non è verità evidente che deve posseder la lingua meglio degli altri chi ha idee originali e sentimenti vivi e delicati da esprimere, chi sa, intuisce e ricorda molte cose, e in ogni cosa vede particolari che la maggior parte non vedono, chi dalla forza del proprio ingegno e del proprio sentimento è portato più degli altri ad analizzare, ad argomentare, a raccontare, a descrivere, e nel descrivere, a scolpire e a colorire le proprie immagini? E tanto più se il suo ingegno è di quella natura particolare che si chiama spirito, inclinato a coglier delle cose il lato ridicolo, e le relazioni riposte di affinità e di contrasto comico intercedenti fra di esse, e a giocare coi significati diretti e traslati dei vocaboli, tanto più avrà bisogno di maneggiar con destrezza la lingua, che appunto nel campo dello scherzo è ricchissima. Se si paragona la lingua al danaro, si può dire che chi non ha ingegno è rispetto ad essa come un uomo quieto e assestato, senza vanità e senza desidèri, che campa con pochi soldi, e chi ha molto ingegno è un uomo pien di vita e d'ambizione, di raffinatezze aristocratiche e di voglie giovanili, che ha bisogno di spendere e di spandere. Studi dunque la lingua anche lei, che è un gran signore intellettuale, per non ridursi poi a campare come un pitocco.

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C' è degli italiani che, volendo fare un viaggio di piacere e d'istruzione, vanno prima a Parigi che a Roma; ce n'è altri, i quali dicono sorridendo, con l'aria di darsi un vanto, che della più parte dei propri pensieri s'affaccia loro alla mente l'espressione francese o inglese prima che l'italiana; e conobbi anche un tale, che a un esame di geografia, dopo aver detto benissimo i confini della. Persia, mise Firenze a settentrione di Bologna. No? Tu non sei di quel numero? E tanto meglio. Ma non sarai mai abbastanza persuaso di questa verità: che non si studia con amore, che non s'impara bene nessuna lingua straniera, se non s'è prima studiato con amore e imparato bene la propria; poichè, se imparare una lingua straniera non è altro che imparare a tradurre in questa i nostri pensieri da quella che usualmente parliamo, come si può fare una buona traduzione d'un cattivo testo? Come riuscire a dir con esattezza e con garbo in un' altra lingua quelle cose che non sappiamo dire se non confusamente e senza garbo nella nostra? E in che maniera intendere e sentire le qualità degli scrittori stranieri, se queste, in qualunque lingua, non s' intendono e non si sentono se non paragonando le parole, le frasi, le forme a quelle che loro corrispondono nella lingua che ci è famigliare? E ti seguirà anche questo: che mentre non imparerai che male altre lingue, ti si corromperà e confonderà nella mente quel poco che sai della tua, perché, essendo poco e mal fermo, non reggerà il materiale straniero che gli verserai sopra, e ti troverai così ad aver acquistato varie mezze lingue, senza possederne una intera; sarai come chi a un vestito tutto buchi ne sovrapponga un altro pieno di strappi, che rimare mezzo nudo a ogni modo. Dammi retta: fatti prima un buon vestito italiano.

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In materia di lingua s'usa fra noi non toscani, perciò parliamo tutti male, una grande tolleranza reciproca, per effetto della quale nessuno studia di correggersi, e ognuno seguita per tutta la vita a ripetere gli stessi spropositi, senz'arricchire il proprio linguaggio di dieci parole in un anno. Anche quei pochi che hanno studiato la lingua e che, scrivendo, sono corretti e sfoggiano una certa ricchezza di vocaboli e di frasi, quando parlano, parlano poco meno scorrettamente e poveramente degli altri, appunto perchè della lingua non hanno l'uso, perché delle frasi e dei vocaboli, che cercano e trovano nello scrivere, non vien loro alla bocca, non avendoli essi famigliari, che una minima parte. Come si può dunque imparare la buona lingua da un uso attivo? Come imparare centinaia e centinaia di voci e locuzioni che intorno a noi nessuno dice mai? V'è mai occorso di sentir degli stranieri che credono d'aver imparato l' italiano dall'uso in dieci anni di soggiorno in una città dell'Alta Italia? V'avranno fatto scappare. Dall'uso, fra noi, si può imparare a parlar con scioltezza; ma con proprietà, con varietà, con colorito, con grazia! Corbellerie. Perdonatemi: m'è scappata dalla penna.

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Metterà Rinanta cura ad abbigliare la sua graziosa persona e non ne vorrà metter punto a vestire i suoi pensieri? Porrà tanto studio a camminare con grazia e nessun impegno a parlar con garbo? Cercherà con tant'arte di modular dolcemente la sua voce e non le importerà di pronunziare con dolcezza parole spurie e frasi barbare? E le parrà che non abbia a studiar la lingua la donna, che per ragione di natura e per gli uffici a cui è destinata, di madre, di consigliera, d'educatrice, di consolatrice della famiglia, avrà tanti sentimenti amorosi e pensieri gentili da esprimere, tante cose da dire, delle più difficili a dire e a sentire, e che può e sa dire essa sola, e che da lei sola si vogliono udire? E come farà, se non avrà studiato la sua lingua, a compiere con la voce e con la penna questi uffici, per i quali occorre conoscer della lingua tutte le grazie e le sfumature, possedere tutte quelle parole e locuzioni proprie, morbide, agili, sottili, che entrano quasi inavvertite nella coscienza e nel cuore, persuadono e commovono, accarezzano e consolano? Non è uno studio per la donna? Ma direi che è il primo studio che ella ha da fare, poichè la madre è la prima maestra dei suoi figliuoli, e perchè in ogni società colta sono, e non, possono esser che le donne quelle che insegnano ed impongono nella conversazione la dignità del linguaggio, la finezza dello scherzo, l'urbanità della contraddizione. E come si può far questo non conoscendo la lingua? Ah, ella scuote il capo, con un sorrisetto: ho capito. È bella, ed ha vanità femminea, non ambizione letteraria, e pensa che un viso come il suo, basterà, senza il sussidio del vocabolario e della grammatica, ad attirarle da per tutto l'ammirazione e l'ossequio. Ma s'inganna, signorina. Se sapesse che peggior effetto fa una parola brutta sur una bocca bella, e com'è più ridicola la sgrammaticatura detta con un sorriso vanitoso! E se sentisse con che barbara compiacenza le belle amiche commentano e portano in giro il piccolo sproposito dell'amica bella! Andiamo, mi confessi che ha torto, e mi conforti anche lei, almeno per un tratto di strada, della sua cara compagnia.

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Ritorno a te, giovinetto. Hai visto che cosa s' ha da rispondere a chi dice: - Che importano le parole? - A quella risposta debbo fare un'aggiunta, che ti persuaderà anche meglio della necessità di studiare la lingua. In tutti i paesi del mondo sono argomento di ridicolo gli errori di lingua. Non è qui il caso di cercare da quale intima sorgente della ragione e del sentimento questo ridicolo nasca. Si ride degli errori dei bambini, piacevolmente, perchè nei bambini è naturale l'errore; si ride degli errori della gente del popolo, con un senso di compatimento, perchè derivano da un'ignoranza scusabile; si rìde degli spropositi di clii appartiene alle classi colte, facendone le beffe, perchè sono effetto d'un' ignoranza colpevole. E avrai osservato che si ride involontariamente, spesso a nostro malgrado, anche degli errori delle persone che amiamo e rispettiamo. È quasi un istinto irresistibile, come al veder fare certe smorfie a chi mangia e certi traballoni a chi cammina. Ora, com'è naturale in tutti questo sentimento, è anche naturale che tutti, chi più, chi meno, si vergognino e si stizziscano di suscitarlo. Benchè ancora giovinetto, tu avrai visto più volte anche uomini che non hanno alcuna pretensione a letterati, e che tollerano ogni specie di scherzi, risentirsi al veder ridere d'una parola o d'una frase sbagliata che sia loro sfuggita di bocca. Esiste veramente nell'uomo un particolare amor proprio, che si potrebbe definire l'amor proprio della parola, e che è singolarmente delicato e irritabile. Non ti lasciar ingannare da chi lo nega e dice di ridersene. Che cosa importano le parole? Ma l'importanza loro, che tanta gente finge di disconoscere, è dimostrata di continuo e da per tutto da infiniti segni. Domanda a quanti bazzicano caffè e trattorie da molti anni, quante volte hanno inteso a un tavolino accanto, anche fra gente di professioni lontanissime dalla letteratura, discussioni accanite e interminabili sull'italianità o sul significato d'un vocabolo. Vedi nel giornali che pubblicano corrispondenze dei piccoli comuni, quante volte i corrispondenti, polemizzando, si scherniscono e si dànno a vicenda dell'asino per uno svarione di lingua o di sintassi. Interroga qualunque scrittore noto, che non abbia reputazione di strapazzar la gramma tica, e ti dirà quante lettere di sconosciuti riceve, che invocano il suo giudizio sulla legittimità d'una voce o d'una locuzione, sulla quale è corsa una scommessa. Fàtti dire da maestri e da professori quante lettere ricevano da padri e da madri, che rivendicano la correttezza d'una parola o d'una frase segnata come errore in un componimento del loro figliuolo, ragionando, citando esempi e accalorandosi come linguisti offesi nell'orgoglio. E quanti battibecchi seguono negli uffici di tutte le amministrazioni, per piccole quistioni di lingua, fra redattori di minute risentiti d'un appunto linguistico e superiori feriti nel sentimento della propria autorità letteraria! E in quante assemblee un discorso per ogni verso sensato fallisce allo scopo per una frase sgrammaticata che fa ridere! E quanti sono, gli uomini politici, anche illustri, al cui nome è rimasto appiccicato per tutta la vita, come un' insegna derisoria, uno sproposito di lingua, sfuggito loro Una volta più per sbadataggine che per ignoranza! Vedi se importano o no le parole, e per l'effetto che producono negli altri gli errori, e per il risentimento e le amarezze che da quegli effetti vengono a noi, e se sia da darsi retta a chi sconsiglia i giovani dallo studio della lingua, come da un perditempo. E puoi farne la prova tu stesso. A chiunque ti dica che studiar la lingua è tempo perso, se te lo dice in italiano, prova a dir lì per lì ch'egli ha fatto un errore di proprietà o di grammatica, e vedrai che salta su, smentendo subito sè stesso, e ti rimbecca: - Come? Vuoi fare il maestro a me?... Ma studia prima la lingua! E qui, supponendo che tu sia oramai arcipersuaso, chiudo la triplice prefazione, e mi metto in cammino.

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La prima cosa che ti devi proporre, mettendoti a studiare la lingua, è d'imparare a parlarla correttamente e facilmente. A darti fermezza in questo proposito gioverà più che altro la consuetudine, che tu devi prendere, d'osservare la scorrettezza, la rozzezza, lo stento, le infinite miserie e ridicolaggini del modo di parlare dei più, non già nelle classi sociali inferiori, ma in quella medesima a cui tu appartieni. Troverai molti che, parlando italiano, perdono ogni vivacità dello spirito, come se cambiassero natura; che ti fanno sospirar mezzo minuto ogni parola, come avari a cui ogni parola costasse uno scudo, e par che le posino l'una dopo l'altra con gran riguardo come oggetti fragili e preziosi; che per raccontar la cosa più semplice e più futile fanno una lunga e lenta tiritera, che metterebbe alla prova la pazienza d'un santo. Conoscerai altri cime, per parlar corretto, si rifanno ogni momento indietro a rettificar una parola o a correggere una frase, ti presentano due volte un periodo, prima in brutta copia e poi messo a pulito, ti fanno assistere a tutta la faticosa fabbricazione del proprio discorso, pezzo per pezzo e giuntura per giuntura, e quando credi che l'abbian finito, v'aggiungono ancora qualche commento e gli dànno qualche ritocco; dopo di che, affaticati dal lavoro fatto, non hanno più capo ad ascoltare la tua risposta. Sentirai parecchi, che metton fuori ogni tanto una parola o una frase francese, o del dialetto, o del loro gergo professionale, con l'aria di non avvedersene, o di dirla per dar varietà capricciosa o colorito comico al discorso; ma in realtà perché non sanno l'espressione corrispondente italiana; e screziano così il loro italiano per modo, che non si sa ben dire che lingua parlino, e par di sentire di quei sonatori ambulanti che suonano tre strumenti, tutti e tre malamente, in una volta sola. Udirai certi tali, che cercano di, nascondere gli spropositi come i prestigiatori fanno sparire le pallottole, assordandoti con un precipizio di parole; che per distrarre la tua attenzione dalla loro grammatica alzano la voce o dànno in risate fuor di proposito, e si mangiano a mezzo e forme verbali di cui non sono sicuri, e confondono le frasi dubbie con l'accompagnamento d'una specie di rantolo catarrale, somigliante al rugliare che fanno i cani tra l'uno e l'altro latrato. Ma chi può dire tutte le industrie puerili e ridicole a cui si ricorre per salvare il decoro nella disperata lotta con la lingua italiana? Gli uni si riducono a parlare più coi gesti e, con gli ammicchi che con le parole; gli altri vanno avanti a furia d'intercalari e di luoghi comuni, coi quali coprono tutti gli sbrani e tappano tutti i buchi del discorso; questi, per prender tempo a cercare il vocabolo, sciorinano dei ma che non hanno più fine, o piantano dei però enormi, su cui s'appoggiano come sopra un bastone; quelli, per poter raccogliere il periodo che scappa da tutte le parti, fanno lunghe pause, anche nel dire una bazzecola, fingendo un lavorio profondo del pensiero, o una distrazione improvvisa, o una svogliatezza di gente annoiata, che dica tanto per dire, senza badare a quello che dice. Quante arti, quante fatiche e figure ridicole per iscansare il ridicolo di non saper parlare la propria lingua! Ma per compier la mostra bisogna ricordare anche quelli che non parlano; quelli che nelle compagnie dove si parla italiano non vanno, o ci vanno come a un castigo, e ci stanno come sulle spine, senza rifiatare, o parlando il meno possibile, anche con danno proprio, e a costo di parere imbronciati o villani; quelli che, per la stessa ragione, pigliano in uggia i conoscenti, e anche gli amici italianeggianti, e da questi si fanno prendere in uggia alla volta loro, burlandoli come d'una ostentazione di saccenti e d'aristocratici; quelli che vanno più oltre, che non nascondono la propria antipatia, dandole un altro colore, verso tutti quegli italiani d'altre regioni, coi quali, per farsi intendere, dovendo trattar con loro per forza, sono costretti a parlare italiano. E c'è ancora la famiglia numerosissima degli screanzati incorreggibili, che in qualunque compagnia si trovino, pure sapendo di non esser capiti, s'ostinano sfacciatamente a parlare il proprio dialetto, a sventolare la bandiera della propria, ignoranza, sulla quale hanno scritto: - Chi mi capisce, bene; chi non mi capisce, s'accomodi -; somiglianti a quegli ubbriachi allucinati, che tirare via a ragionar coi pilastri. Ma c'è nella gran famiglia dei poveri della parola un personaggio, che tu devi conoscere più intimamente degli altri, perchè rappresenta una tendenza pericolosa e comunissima, dalla quale più che da ogni altra ti hai da guardare. Egli sarà il primo d' una serie di personaggi singolari, che io conobbi, e che ti farò conoscere man mano, per ammaestramento e per ricreazione, nel corso del viaggio che faremo insieme. Ti presento per il primo il signor Coso.

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Le Sue qualità più notevoli erano un profondo disprezzo per l'arte della parola e un grande amore per la pesca con l'amo; il quale amore derivava in parte da quel disprezzo, perchè diceva egli stesso che spessissimo andava a pescare non per altro che per isfuggire alla noia di barattar del fiato col prossimo. Quando lo conobbi non era più giovane; ma anche da giovane dicevano i suoi vecchi amici che era sempre stato restio al parlare come un tirchio allo spendere. Non che fosse propriamente taciturno: alle conversazioni degli amici prendeva parte; ma accennava ogni suo pensiero con poche sillabe, in modo informe, e masticava il resto, con voci inarticolate, e con un atto del capo e un cenno trascurato della mano invitava l'uditore a fare in vece sua il molesto lavoro di compiere l'espressione dell'idea ch'egli aveva abbozzata. Con un come si dice? si liberava dalla seccatura di dir la cosa; lasciava a mezzo ogni periodo con un insomma, tu capisci; e con la parola coso faceva di meno di mille vocaboli. Per questo gli avevan dato il soprannome di Coso. - " Sai, questa mattina ho veduto coso, laggiù.... Dice che per quell' affare...., tu sai.... niente; salvo il caso.... ma neanche nel caso.... Tu m'intendi - -. Era questa la forma tipica del suo discorso. - Tu sai.... coso - diceva d'un amico ammalato, e non si curava neppure di dir che era morto : indicava con un gesto che se n'era andato. Fu lui che annunziò agli amici l'elezione del nuovo Papa, il cardinale Pecci. Eletto - disse. - Chi hanno eletto? - Coso - rispose; e non pronunziò il nome che alla seconda domanda. Era in parte affettazione, come si dice che usasse fra certi nobili francesi del secondo Impero; ma era più che altro una grande pigrizia, venuta a poco a poco a tal segno, che gli dava molestia anche il parlare degli altri. Quando sentiva un amico esprimere, discutendo, il proprio pensiero con un periodo filato e lunghetto, lo guardava con l'aria di deriderli) per quella fatica inutile ch'egli faceva, come avrebbe guardato uno che si stroncasse a sollevare un baule per la curiosità di saper quanto pesa. Quando il racconto di qualcuno si prolungava oltre un minuto, non faceva complimenti: chiudeva gli occhi e fingeva di dormire. Dal tempo che andava a scuola, dove a nessun professore era mai riuscito di cavargli più di quindici righe su qualunque soggetto di componimento, egli era venuto restringendo sempre più il suo linguaggio, nel quale ai vocaboli si sostituivano i gesti, e alla pronunzia scolpita un barbugliamento d'addormentato. Egli aveva un gesto per dire: - Non ti fidar del tale: è un briccone; - un gesto per annunziare che una commedia aveva fatto fiasco, che un certo affare non premeva, che d' un altro affare non si voleva impicciare; e tutte le gradazioni dello stupore, della maraviglia, del dispiacere esprimeva con una sola esclamazione, diversamente intonata: - Oh diavolo! - E s'aveva un bel burlarlo di questa sua stranezza: egli scrollava le spalle e rispondeva: - Chiacchieroni! - Una volta sola, ch'io mi ricordi, egli fece il miracolo di esprimere senza reticenze, benchè in forma laconica, un suo pensiero filosofico, per dar ragione della sua maniera di parlare. Udendo ripetere una sentenza del Michelet: - Nous mangeons immensément trop; - da che derivano alla società, secondo lo scrittore francese, infiniti mali, egli disse che a quella si doveva sostituire un'altra sentenza: - Noi parliamo troppo poichè di quasi tutti i nostri guai la vera cagione era questa. Ma non si può credere fino a che punto arrivasse nel far economia di sillabe: fino a non farsi capire dal fiaccheraio, al quale, invece di: - Alla Stazione di Porta Nuova - diceva: - Alla Nuova -; fino a non pronunziar mai che una delle due parole di cui si componesse il titolo del giornale, ch' egli chiedeva al rivenditore; fino a bandire dal suo vocabolario tutti i superlativi e gli avverbi lunghi; tanto che a sentirgli dire un giorno: irremissibilmente e un'altra volta: mortificatissimo, lo guardammo tutti stupiti. Da ultimo, poi, avendo inteso da un amico toscano un verbo non prima conosciuto: cosare, se n'era impadronito con la gioia d'un materna, tico che scopre una nuova formola algebrica, e con quello s'alleggeriva anche più la fatica ingrata del parlare. Non diceva più al cameriere della trattoria che levasse l'olio dal fiasco; ma: - Cosami quel fiasco -, e così, cosare un plico, per mettervi il suggello, e a un amico, indicandogli un uscio fresco di vernice: - Bada, che ti cosi l'abito. - Se avesse trovato nella lingua altre dieci parole come coso e cosare, non gli sarebbe occorso altro vocabolario, e ne avrebbe avuto d'avanzo. Poichè pensiero e parola nascono nella, mente gemelli, chi si disavvezza dall'esprimere il proprio pensiero, si disavvezza a poco a poco anche dal pensare. Questo era seguito a lui: le facoltà di pensare e di parlare gli s'erano arrugginite ad un tempo. Egli pensava a pensieri indeterminati, monchi e sconnessi come il suo linguaggio, e dall'inerzia del cervello gli era venuta una grande indifferenza per ogni cosa. È questo l'ultimo e peggior danno nel quale incorrono tutti coloro che per pigrizia rifuggono usualmente dalla fatica di tradurre il proprio pensiero in parole. Negli ultimi suoi anni Coso non leggeva nemmeno più i giornali: si contentava di raccoglier le notizie politiche al caffè o per la strada, e quando gliele davano con troppi particolari, tagliava la parola in bocca all'amico, dicendogli: - Insomma, hanno cosato il bilancio - oppure: - alle corte, avremo un ministero Coso -, e aggiungeva un gesto che significava: - Basta, basta; ho capito; oh che fastidio! Coso abbandonò questa valle di lacrime e di parole una diecina d' anni fa, in una città dell'Italia meridionale, dove era andato per ragion d' impiego. E tal morì qual visse, se è vero quanto si riseppe da un suo nipote, che l' assistette negli ultimi giorni: un capo armonico, a dir la verità, che potrebbe aver inventato una fiaba. Io la ripeto com' egli la disse, affermandoci che non ci metteva nulla di suo. Presentendo la propria fine, il buon Coso, che aveva avuto sempre religione, fece chiamare il prete. A un certo punto il nipote, che stava all'uscio, sentì il prete dire con voce grave, in cui la pietà velava il rimprovero: - No, caro signore, io non posso acconsentire a una domanda fatta in codesto modo. Il malato gli aveva espresso il suo desiderio con la sua parola solita: il coso. Pensando ch'egli volesse qualche oggetto, un ricordo caro di famiglia, da rivedere l' ultima volta, il sacerdote aveva guardato intorno per la camera. Poi, da un atto dell' infermo avendo compreso, s'era risentito. Il coso era il Viatico. L'infermo s' espresse meglio, e fu contentato. Ma per poco il suo malaugurato vezzo di cosare non gli costò la salute dell'anima. Certo quelli che si lasciano andare fino a un tal segno son rari. Ma quanti non sono quelli che parlano presso a poco al modo di Coso; che, per infingardaggine intellettuale o per disprezzo dell'arte volgare del discorso, non dànno del proprio pensiero che briciole e sgoccioli, non mettono nella conversazione che la materia bruta del loro concetto, lasciando agli altri la cura di lavorarla, come una faccenda indegna di loro? Il mondo n'è pieno. Ma se l'uomo si può definire. " l'animale parlante - , codesti non sono uomini.... sono così.

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Per dimostrarti che a parlar bene non basta studiar la lingua, ma occorre fare uno studio e un esercizio particolare a quel fine, ti racconto un aneddoto. Circa trent' anni fa, ebbi una sera la fortuna di desinare con una brigata di milanesi, fra i quali c'era uno scienziato illustre, autore d'un libro notissimo di scienza popolare, che è una delle opere più eloquenti e meglio scritte della letteratura scientifica d'Italia. Lo scienziato, ch'era un uomo d'indole vivace e di spirito argutissimo, aveva poche sere avanti rallegrato quella stessa compagnia raccontando in dialetto certi episodi comici d' un suo recente viaggio nella Scozia; e il suo racconto era piaciuto per modo, che anche quella sera, alle frutte, tutti i commensali vollero che lo ripetesse, e mi dissero parecchi, mentre egli si disponeva a parlare: - Sentirà, e riderà come non ha mai riso. - L'illustre uomo incominciò, parlando italiano per riguardo al nuovo uditore, e andò un pezzo innanzi nel racconto; ma l'uditorio, benchè avesse la miglior voglia di ridere, rimase freddo; volevo ridere anch'io, ma non potevo; mi sconcertava il disinganno che leggevo sul viso degli altri; i quali aspettavano tutti qualche cosa che non veniva mai, e parevano stupiti che non venisse, e intenti a cercarne dentro di sè la ragione. E, infatti, il racconto procedeva male; lo sforzo che faceva il parlatore per trovar parole e frasi comiche, che poi non lo appagavano, ratteneva la sua vena; l'espressione del suo viso che, manifestando quello sforzo, discordava dalla comicità del discorso, ne distruggeva quasi al tutto l'effetto; il suo gesto stesso riusciva impacciato come il suo linguaggio; mancava al racconto la spontaneità, il colorito, la vita. A un certo punto egli s'interruppe, facendo un atto brusco d'impazienza, ed esclamò ridendo: - Oh, lasciatemi un po' parlare il mio milanese! - e ripreso in milanese il discorso, tirò via col vento in poppa, con tutt'altro viso e tutt' altro accento, libero, arguto, amenissimo, accompagnato fino alla fine dall'ilarità unanime e sonora degli ascoltatori. Mille casi consimili vedrai tu pure nella vita, perchè migliaia d'italiani colti, e che scrivono bene, si ritrovano, parlando italiano, nello stesso impaccio nel quale si trovò lo scienziato milanese. E la ragione dell'impaccio sta in ciò: che fra il parlare e lo scrivere passa la stessa differenza che fra il correre ed il camminare. Come, se non è esercitata alla corsa, anche una persona ben formata, e che ha nel camminare un portamento sciolto e elegante, corre senza leggerezza e senza grazia e rimane senza fiato dopo un breve tratto, così ogni italiano, che parli per uso il suo dialetto, pur conoscendo la lingua benissimo, se a parlarla non s' è esercitato con particolare studio, se non ha acquistato con quest'esercizio la prontezza intellettuale e l'agilità meccanica necessaria al parlar bene, che è come un comporre all'improvviso, non troverà lì per lì le parole proprie, snaturerà il proprio pensiero, parlerà stentato e slavato, traballando e inciampando a ogni passo. Vedi dunque quanto importa che, prima d'ogni cosa, tu t'eserciti a ben parlare; e dico: prima d'ogni cosa, perchè è un esercizio che puoi cominciare utilmente anche prima di metterti a studiare il materiale della lingua nel modo che vedremo poi. E ora t'accenno cenno i preliminari della ginnastica; dopo i quali passeremo agli attrezzi.

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E tu avvèzzati a pensarci. Dirai: - Non s'ha sempre tempo. - Basterà che ci pensi tutte le volte che ci hai tempo, e non tarderai a ricavarne un profitto maggiore di quello che t'immagini, perchè ti riuscirà di dir meglio che per il passato anche molte di quelle cose che sarai costretto a dire all'improvviso. Si parla male generalmente anche per effetto della consuetudine, che si prende per pigrizia, di lasciar quasi sempre a mezzo l' espressione del proprio pensiero quando si vede che l'ha capito a volo la persona a cui si parla. Questa consuetudine pigra ci rende faticoso e difficile l'esprimer bene tutti quegli altri pensieri, dei quali , perchè sian compresi, dobbiamo dare l'espressione compiuta. Ebbene, e tu abìtuati, parlando, ad esprimere sempre tutto il tuo pensiero anche quando non sia necessario, come faresti se lo dovessi mettere sulla carta. Fa' qualche volta, mentalmente, quest'altro esercizio, dopo che hai fatto o veduto qualche cosa, o sentito una commozione, o ricevuto un'impressione qualsiasi; domanda a te stesso: - Come direi se dovessi raccontare questo fatto, o descrivere questa cosa, od esprimere questa commozione? - e pròvati a farlo, supponendo di parlare a una persona colta, con la quale tu non abbia famigliarità, e di cui ti prema la stima e la simpatia. Studia in special modo di dir bene tutte quelle piccole cose che occorre dire ogni giorno, e anche più volte il giorno; ti riuscirà facile trovarle e fissartele in mente, poichè sono, per così dire, i luoghi comuni della vita quotidiana e del linguaggio di ciascuno; e quando ti sarai avvezzato a dirle facilmente e correttamente, riconoscerai, dal vantaggio acquistato, maggiore della tua aspettazione, che nel dir male quelle piccole cose, benchè non sian molte e sian semplici, consiste principalmente il parlar male di quasi tutti. Bada anche a questo. Una delle nostre miserie, parlando, è l' incertezza che ci arresta nel designare certi oggetti, atti, fatti, sentimenti, per i quali sono usati comunemente due o tre vocaboli di senso affine, ma di cui è proprio uno solo; poichè, nell'atto che c' indugiamo a scegliere, perdiamo il concetto della frase o del .-: periodo, che poi ci riescono alla peggio. Se nel dir la cosa più semplice, come, per esempio, che siamo andati a cercare un tale a casa, che abbiamo salito quattro branche di scale, e dopo aver picchiato all'uscio, sentito abbaiare un cagnolino, e una voce domandar: - chi è? - mentre scorreva il paletto - se dubitiamo un momento fra branche e rami, fra picchiato e battuto, fra uscio e porta, sentito e udito, abbaiare e latrare, domandare e chiedere, paletto e chiavistello, è facile che facciamo un brutto garbuglio d'un periodo che dovrebbe correr liscio come l'olio. Fissati dunque in mente le parole proprie che in tutti quei casi dubbi, frequentissimi, sono da usarsi, in modo che sian sempre le prime a venirti sulle labbra, e avrai fatto con questo un gran passo innanzi sulla via del parlar facile e corretto ad un tempo. Un altro consiglio. Ti accadrà spesso di sentir strapazzare la lingua italiana, e di ridere dentro di te delle parole sbagliate, delle frasi barbare e dei costrutti sgrammaticati del cattivo parlatore. È bene che in questi casi tu t'eserciti alla critica; ma se vuoi che ti giovi, non dev' essere puramente negativa: non basta che tu noti gli errori, bisogna che tu cerchi e fissi nel tuo pensiero le parole, le frasi, i costrutti corretti corrispondenti a quelli erronei, che hai osservati; perché, bada bene, noi burliamo assai spesso gli altri di errori che sfuggono usualmente a noi pure, e la prima cagione del nostro persistere nel parlar male è appunto la consuetudine del criticare senza correggere; per la qual cosa non ricaviamo nessun frutto degli errori altrui, che dovrebbero farci aprir gli occhi sui nostri. Ancora un'avvertenza. Il parlar bene richiede un esercizio vivo e rapido delle facoltà intellettuali. Vedi che l'uomo acceso da una passione, appunto perché ha le facoltà eccitate, parla quasi sempre meglio che ad animo riposato e a mente tranquilla. Conviene perciò, quando hai qualche cosa da dire che ti prema di dir bene, quando hai da fare un racconto, per esempio, o una descrizione o un ragionamento anche breve,che tu ti ci metta di buona voglia e con vivo impegno. Come per fare uno sforzo fisico dài prima quasi una scossa alla volontà e tendi i muscoli e i nervi, così, nell'atto di parlare, tu devi cacciar l'indolenza e dar alla mente un abbrivo risoluto. Ma non ti mettere alla corsa; va' adagio per ora; avvèzzati a parlare pensando, a frenarti. A correre senza inciampare imparerai a poco a poco; devi prima esercitarti a camminar bene. E bada sempre, nel parlare, al viso di chi t'ascolta, che è un critico muto utilissimo, perché d'ogni parola stonata, d'ogni oscurità, d'ogni lungaggine ci vedi il riflesso, sia pure in barlume, in un'espressione di stupore, o canzonatoria, o interrogativa, o annoiata, o impaziente; anche se gli ascoltatori sian gente che, facendo lo stesso discorso, cadrebbe negli stessi errori tuoi, o assai peggio; poiché la facoltà critica è in tutti di gran lunga più acuta e più attiva quando s'esercita sugli altri che quando lavora sul suo. In questo studio del parlare potrai avvantaggiarti molto e presto se in casa tua c' è la buona consuetudine di parlare italiano. Se non c'è, tu devi fare il possibile, rispettosamente, per farcela entrare. Ma.... Quello che dovrei dirti dopo questo ma lo troverai nella lettera seguente; della quale ho ritrovato la minuta sotto un monte di vecchi manoscritti.

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Cara cugina, Ringrazio te, tuo marito e i tuoi figliuoli grandi e piccoli dell'allegra giornata che mi faceste passane in casa vostra, e mantengo la promessa, che ti feci nell' accomiatarmi, di rispondere per iscritto alle tue domande: - Ho fatto bene a metter l'uso della lingua italiana in famiglia? Ti pare che i ragazzi ne facciano profitto? Risponderei di sì, con gran piacere, alla prima domanda, se non avessi un gran dubbio sulla risposta da dare alla seconda. Osservai in casa tua che l'uso dell' italiano in famiglia non giova gran fatto, che, anzi, riesce quasi più dannoso che utile, se non è accompagnato dalla cura continua di parlar bene, se non è vigilato, illuminato, corretto assiduamente dal padre e dalla madre, se non si riduce, in somma, a essere uno studio costante di tutti. Osservai nella tua famiglia, come già in altre, che i ragazzi si sono avvezzati a parlar l' italiano con troppa disinvoltura. Sono belle cose nel parlare la vivacità, la scioltezza, la sicurezza di sè; una solo quando non derivino dal disprezzo della grammatica e dall' inconsapevolezza dello sproposito. Ora, lascia che te lo dica, i tuoi figliuoli parlano con facilità ammirabile un italiano compassionevole, d' un tessuto tutto piemontese, ricamato d'ogni specie d' idiotismi e di modi di conio gallico, e in tutto il tempo che stetti con voi non gl' intesi correggere, nè da te nè da tuo marito, neanche una volta. In casa vostra, per quello che riguarda la lingua, regna la più scapigliata anarchia. Girando per le stanze, feci ai tuoi figliuoli molte domande, e sentii che a quasi tutte le cose dànno il nome dialettale o francese: chiamano tiretto il cassetto, robinetto la chiavetta, comò il cassettone, sopanta il palco morto. A tavola, in quella discussione che fecero fra di loro intorno ai propri insegnanti, e in cui parlarono, a dire il vero, con molto brio e con molta arguzia, intesi dire dall'uno: - mi sono sbagliato, - dall'altro: - niente del tutto, - da questo: - gli ho fatto un bacio, da quello: - Mio professore di aritmetica, - da più d' uno: - Che s'immagini! - e: - Mai più! - per: nemmen per sogno; da tutti, e parecchie volte, vizio per vezzo o consuetudine (pover' a noi, se anche il carezzarsi la barba fosse un vizio!) e chiamare (Dio di misericordia!) per domandare. Parlai di mode con la tua Eleonora, e trovai che ha preso da te tutta quanta la terminologia francese che tu hai presa dalla tua sarta, e discorrendo con Alberto dei suoi prossimi esami raccolsi dalla sua bocca non so quante parole e frasi del nefando linguaggio burocratico che tuo marito porta a casa dall'ufficio. In verità, s'io avessi ceduto alla tentazione, udendo parlare italiano a quel modo, avrei fatto alla tua cara prole una continua distribuzione di biscottini e di pacche. E quello che faceva più forte la tentazione era il vedere che straziavano così ferocemente la lingua con una faccia fresca da innamorare, senz' essere arrestati mai dal minimo dubbio, senza dar mai segno di sentire le proprie stonature, tirando via con una speditezza e con un tono, che uno straniero non pratico della nostra. lingua, a sentirli; li avrebbe presi per toscani pretti sputati, e di quelli che hanno la parola più pronta e sicura. Ah no, cara cugina. Codesta non è una scuola di conversazione italiana; ma una baldoria linguistica, dove si fa del vocabolario e della grammatica quello che in certe baldorie bacchiche si fa delle stoviglie e del Galateo. A una scuola così fatta mi par quasi preferibile l'uso del dialetto, col quale i tuoi figliuoli, se non altro, non contrarrebbero abitudini viziose, che è un danno grandissimo, poichè i barbarismi, gl' idiotismi, le frasi errate che il ragazzo s' avvezza a dire in famiglia, dove si parli italiano a vanvera, gli si attaccano alla lingua per modo che gli riesce poi difficile liberarsene anche da uomo. Dicono che Napoleone primo abbia detto per tutta la vita section per session, rentes voyagères per rentes viagères, point fulminant per point culminant, e altri spropositi, per essersi avvezzato da ragazzo a pronunziare in quel modo quelle parole, che in casa sua si pronunziavano male. In certe famiglie, come tutti usano certi intercalari e hanno un certo modo di gestire, così dicono tutti gli stessi spropositi. Io ho osservato che i figliuoli dei padri mal parlanti quasi tutti parlano male, anche se sono più colti dei padri. Conosco un tale che disse per vent' anni scavezzare per scavizzolare, traccheggiare per inseguire e vita libertina per vita libera: un giorno lo chiarii dei tre errori, ed egli mi confessò che erano un' eredità di famiglia, che in casa sua, dove s' era sostituita la lingua al dialetto, egli aveva sempre inteso usar quelle parole in quel senso: alle correzioni che gli erano state fatte da ragazzo, fuor di casa, non aveva badato; poi nessuno non aveva più osato di correggerlo, per timore che se ne vergognasse, e così era andato innanzi fino ai cinquanta, perdendo prima il pelo che il vizio. Dunque, segui il mio consiglio: o ripigliate il dialetto in casa, o mettetevi d'accordo, tu e tuo marito, per frenare la licenza linguistica dei vostri rampolli, costituite fra voi una commissione di vigilanza e di censura, che non lasci passare nessuno sproposito, che ristabilisca nella vostra famiglia, filologicamente anarchica, l'impero della legge. I ragazzi, sulle prime, s' impazientiranno, tenteranno di ribellarsi; ma finiranno con riconoscere la ragione, e parleranno forse con minor facondia, che non sarà una gran disgrazia, ma cori maggior correttezza, che sarà una gran fortuna; e ve ne saranno grati più tardi. Intanto, ti prego di dar loro qualche avvertimento, in forma canzonatoria, che è la più efficace. Di' a Eleonora che se mi racconterà qualche altra disgrazia arrivata a qualche sua amica di scuola, vorrò sapere una buona volta di dove le disgrazie partono e con che treno arrivano, per potermi regolare. Di' a Enrico che me ne impipo per me ne rido e buggerìo per baccano non sono parole pulite, e che il dire che un gazzo di sette anni è più vecchio d'uno di cinque, è ridicolo: A Luigina, che mi disse tre volte: - Ho fatto una malattia - di' che mi son dimenticato di domandarle se non aveva di meglio da fare quando le è venuta quella brutta idea. Avverti Mario che il dir che un ufficiale ha tre medaglie sullo stomaco, invece di sul petto, è come dire che le medaglie gli sono indigeste; Dirai anche nell'orecchio a tuo marito che il verbo consumare, in italiano, è transitivo, e che quindi la candela consuma è un piemontesismo, ch'egli non deve tramandare ai suoi discendenti. E anche a te un'osservazione nell'orecchio: brutto come tutto è brutto di molto. Spero d'averti persuasa. E scusa la franchezza del critico poichè vien dall'affetto del cugino. Il tuo ***

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E non ci ho a ridire. Ma non ne ridete troppo forte, vi prego, perchè quello che dissi della famiglia piemontese, dove si parla un italiano piemontizzato, si può dire a un di presso di migliaia Ai famiglie d'altre regioni, badando soltanto a sostituire a quelli che citai altri dialettisrni e idiotismi; dei quali ciascuna serie vi farebbe rider pure tutti quanti, fuori che uno. Volete che ne facciamo la prova? Desiderate ch'io vi persuada con gli esempi? E io vi contento, nel miglior modo che m' è possibile, così alla lesta. E comincio da te, piccolo milanese. Ce n' è così anche a Milano di famiglie per bene, nelle quali i ragazzi credon mica di parlar male dicendo porsi giù per "mettersi a letto - e menar su per "condurre in prigione - e su e giù a ogni proposito; e qui dietro per "qui attorno - e andar addietro a fare per "continuare a fare - e aver una cosa addietro per "averla con sè - e si può no, e morir via, e mangiarsi fuori e smaniarsi, e che bello! e che caro! e con più ne vuoi, più te ne metto. Ti basterà questo piccolo saggio, m'immagino. A noi, piccolo veneziano. A te pure, quando che parli italiano, vien fatto di ficcare il che da per tutto, e non sei buono da liberartene, e dici: non so cosa che voglia dire, non so cosa che ci vorrebbe; e ti scappa detto lasciarsi tirar giù per " lasciarsi indurre - e incapricciarsi in una cosa, e non s'indubiti, e l'aspetta un momento: e ti sfugge ben sovente scampare per " scappare - e balcone per " finestra - e altana per " terrazza - e sgabello per " comodino -. E che dire del tuo in fatti che usi cosi spesso nel senso di " in somma - , mettendo nella frase una contraddizione di termini che mi fa spalancare la bocca? - Sarà un capolavoro, come tutti dicono; ma in fatti non mi piace. - Hai ragione di burlarti degli idiotismi altrui; ma in fatti ne dici tu pure. Sono da lei, caro bolognese. Pensava ch'io la potessi dimenticare? Mo' ci pare! Venga qua, s'accomodi bene. Godo di trovarla in buona salute. E il padre suo di lei? E la ragazzola? E quel bazzurlone di suo cugino, come sta? Fa sempre l'ammazzato con la signorina del terzo piano? Ella riconosce certamente che anche ai bolognesi ne scappano di carine, che è frequentissimo fra di loro il si per il ci, e il faressimo e il diressimo e il questa cosa che qui e che lì; e che non è rarissimo il sentir da loro, anche da gente colta, ghignoso per "antipatico - , gnola per " seccatura - , benzolino per " panchetto -, zucca per " fiasco - , chiarle per " ciarle -. E, mi perdoni, intesi anche dire qualche volta " ubbriaco patocco - per ubbriaco " fradicio -. Questa è patocca! Ma ne ride ella pure, e tutti contenti. E tu, bel garzonetto genovese, non ti dar l'aria d'impeccabile, se dunque sciorino anche a te una bella lista di dialettismi comici che raccolsi a casa tua.... e in casa mia. Se dunque per " se no - è uno dei più preziosi, non lo puoi negare. Non me ne capisco per " non me n'intendo - non è men peregrino. Scorrere per " rincorrere o inseguire - è un'altra bella perla. E uomo di sua obbligazione per " uomo che sa il fatto suo - è poco bello? Certo, tu non dirai mai mugugnare, frusciare, frugattare, camallare, dar recatto alla casa, in luogo di " brontolare, infastidire, frugacchiare, portar sulle spalle, mettere in ordine - , come da non pochi concittadini tuoi intesi dire. Ma sii sincero: non t'è mai scappato angoscia per " nausea - e angoscioso per " molesto - e inversare per " rovesciare -? Non ti scappa proprio mai bugatta per " puppattola - , rango per " zoppo -, marsina per " giubba - ? Pensaci un po', figgio cäo.... Cittadino romano, ti saluto, e mi fo lecito di Idirti, rispettosamente, che spesso sento dire dai tuoi concittadini: ce sto, me dài, ve prometto, te parlo, se dice, e io so' contento, e il tale non vo' venire, e troncare gl'infiniti: anda', sta', di', e dire andiedi e stiedi , e li fiori e li cavalli, e le mela e le pera, e subito che per " poichè - e al contrario per " d'altra parte - e apposta per " appunto per questo - e imbottatone e tiratore e spogliatore e lavatore per "imbuto, cassetto, armadio, acquaio - : una quantità d'ore e d'altri idiotismi d'altre desinenze, che si volessi citartene mezzi no me basterebbe du' ora. Lascio stare il magnassimo e il bevessimo per l' indicativo, che a te non c'è caso che sfugga; ma chi sa quante volte tu pure, parlando italiano, esclami: - Guarda sì che bellezza! - o dici che hai rifame o che un Tizio t' ha fatto Una vassallata o che non sai se quanto una certa cosa ti convenga. A ciascuno il suo. Non ti stranire, figliolo. Partenopeo carissimo! Conosco un bravo avvocato napolitano, che tiene due cari figlioli, i quali, parlando italiano con me, chiamano qualche volta, senz'avvertirsene, gradinata la scala, coppola il berretto, cartiera la cartella, borro la brutta copia, spiega la traduzione; che dicono cacciar l'orologio per " tirarlo fuori - , abbiamo rimasto per abbiamo " lasciato - l' ombrello a casa, nostro padre è andato a parlare una causa a Salerno, voglio essere spiegato, esser levata questa difficoltà, essere aperto il portone, e non mi fido per " non mi sento - e vado trovando per " vado cercando - e nel contempo per " nello stesso tempo -. Stesso il padre, dispiaciuto di quel modo di parlare, li avverte sovente che dicon troppi napolitanisini; ma non serve: lo voglion bene, ma non dànno retta a lui più che a me, e tirar via. Non ho detto per canzonare a te, bada bene; ma vedi un po' se dei modi citati non ne scappa qualcuno a te pure. Potrebb'essere. Se te ne scappa, sei prevenito; colpisci l'occasione per correggerti, e stammi buono. O piccolo abruzzese, e tu, non ancor baffuto figliolo della Calabria, non vi fate corrivi se vi dico che sfuggono allo spesso dei provincialismi a voi pure; e il senso lor m'è duro, potrei aggiungere. Come v' ho da intendere quando mi dite scolla, andito, versatoio, coppino, ceroggeno, raschio, quartino, pizzo del tavolino per " cravatta, ponte, acquaio, cucchiaione, candela, sputo, quartiere, canto del tavolino -? e lento per " magro - e sofistico per " discolo - e fanatico per " vanesio -? Quando vi sento di parlare in quella maniera, sospetto che vogliate scherzarmi, e non tanto mi piace. E vada quando vi scappa detto che vi siete imprestato (per "fatto imprestare-) un vocabolario, che avete donato gli esami, fatto maturare un compagno permaloso, liberato un pugno a un insolente, o che in mezzo al vostro - giardino ci vorrebbe piantato un bell'albero, o che vi par mill'anni di giungere il ferio di Natale: si sorride, e null'altro. Ma che si possa scoprire un canuto nella barba d' un uomo, è incredibile, e mettersi un calzone solo non è decente, e sparare gli uccelli alla caccia è feroce, e dire: - Mio fratello ha picchiato, vado ad aprirlo - è orrendo. Vi raccomando a porre attenzione a questi errori; e perdonatemi la franchezza, perchè, se ve n'avreste per male, ne fossi troppo dolente. Son da te, caro siciliano. Molte volte, nel tuo el paese, un ospite gentile mi disse sull'uscio: - Entrasse, signore, s'accomodasse; mi facesse "il piacere.... - Lo dici qualche volta tu pure, non è vero? E accoppii non di rado il condizionale col condizionale: se avrei tempo, v'andrei, o: se avessi tempo, v'andassi; dico giusto? E per voi è fare un complimento anche il regalare un rologio d'oro; e dite spesso buono per " bello - e bello per " buono - e più meglio e più peggio, e insegnarsi la lezione per " impararla - e mi scanto per "mi perito- e accudire per " rivolgersi - e qualche volta la prima del mese, e questa, senz'altro, per "questa città - e anche casa palazzata e per " palazzo -. Chiamate bevanda il caffè e latte, come se non beveste altro nell' isola, e zuppa ogni minestra, e galantuomo ogni signore; e così fosse, che sotto un bel sopratutto e dentro una camicia arricamata non si nascondesse mai una birba! Te n' ho da metter fora dell'altre? No? Queste bastano? E dunque, come dice il tuo Meli,

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E anche a te, bruno Sardignolo, poichè ti vedo ridendo dei sicilianisrni, dirò amorevolmente il fatto tuo, quantunque del tuo bel dialetto latineggiante io sia un po' innamorato: a te che qualche volta, parlando italiano, alzi le scale invece di salirle, e culli il tuo fratellino per dormirlo, e non pigli caffè perchè non ti prova, e chiami cotti i fichi d'India maturi, e occhi cattivi gli occhi e malati; a te che parti al villaggio, e torni da campagna, e vai al braccetto con gli amici, e a chi ti domanda l'ora alle dodici e dieci rispondi e che è assai ora che è sonato mezzogiorno, e a chi ti rivolge domande indiscrete dici, che non entri il naso negli affari tuoi, e se non la smette subito, che finisca da una volta d' importunarti. e per farla corta, non t' ho citato che una dozzina d'esempi; mi dispiace d'esser troppo pochi; ma te ne potrei pienare più pagine. A si biri, piseddu. - Come? A me pure? - Sì, signorino, a lei pure, e spero che me lo permetta, poichè sa che le voglio un gran bene. Per insegnar la, lingua ai tubi fratelli d'Italia, che ti riconoscono maestro dalla nascita, devi guardarti anche tu dai dialettismi, non con altrettanta, ma con maggior cura degli altri; non devi lasciarti sfuggir mai, neppure una volta l'anno (e ti sfuggono non di rado) voi dicevi, voi facevi, voi andavi, e dichino e venghino, e leggano per leggono, temano per temono, è lo stai e il vai imperativi, e il dove tu vai? e il che tu vuoi? e nemmeno sortire per uscire, e bastare per durare, e tornar di casa per " andar a stare - in un luogo dove non s'è mai stati. E sebbene Dante abbia detto " lascia dir le genti - è meglio che tu non dica genti in quel senso per non farmi pensare che tu parli di tutti i popoli della terra; e che suoi per " loro - abbia esempi classici, non toglie che sia più corretto il far concordare l'aggettivo col sostantivo; e m'ammetterai che a dire ignorante per " maleducato - si corre pericolo di calunniare dei sapientoni; e una " minestra diaccia - se vuoi esser giusto, non s' è mai portata in tavola da che mondo è mondo. A rivederci, bocca fortunata, e porta un bacio alla torre di Giotto. E ora che giustizia è fatta, tiriamo innanzi.

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. - Giunto che fui al bivio, stetti un momento in forse se dovessi volgere a destra o a sinistra. IL PEDANTE. - Mi permetta. Io direi: arrivato che fui al bivio, stetti un momento in dubbio se dovessi voltare.... T. - ....Se dovessi voltare a destra o a sinistra. M'arrestai, attendendo che passasse qualcuno, per chiedergli l'indicazione che mi faceva d'uopo.... P. - Mi faceva d'uopo! E se dicesse semplicemente: che >'occorreva? E invece di "attendendo - : aspettando? E domandargli invece di " chiedergli? - T. - Ma, non scorgendo anima nata.... P. - Non vedendo anima viva.... T. - Piegai a deStra e procedetti fino a una chiesetta, cinta di cipressi, della quale mi sovvenne che m'aveva parlato mio padre, quando mi narrò la sua gita al castello.... Trova qualche cosa a ridire? P. - Cinque cosette. Io direi presi invece di " piegai - , andai innanzi invece di " procedetti ,- ircondata invece di " cinta - , mi ricordai invece di " mi sovvenne - , mi raccontò. invece di mi "narrò -. Vuol seguitare? T. - Quivi scorsi due uomini distesi al suolo.... P. - Quanto amore per quello scorgere! E perchè non lì invece di " quivi? - E stesi per terra in luogo di " distesi al suolo? - Il suolo! T. - ....che sembravano assopiti.... P. - ....parevano addormentati, se non le par troppo comune. T. - Sostai.... P. - Si soffermò.... T. - osservandoli, venni in sospetto che facessero sembianza, ma che non dormissero davvero..Non m'ero male apposto.... P. - Com'è detto bene! Sospettai sarebbe troppo andante; " far sembianza - è più nobile di far mostra e di fingere; " non m'ero male apposto -. non è un modo di dozzina come non m'ero ingannato. T. - Mi dileggia ella forse, signore? P. ' - " Tolga il cielo! ,, O come può ella " accogliere - un tal pensiero ? " Proceda -. T. - Di reperite, infatti, quasi per accordo, si destarono entrambi, e l'un d'essi.... P. - Un momento. Mi lasci ammirare quel "di repente - per a un tratto, e quell' " entrambi - per tutti e due, e l' "un d'essi - per uno di loro. Questo si chiama " favellare -! Riprenda. T. - (Capisco).... E l'un d'essi, con accento di cortesia, che mal s' accordava con l' atteggiamento del suo volto, mi disse: - Se passa di qui per recarsi al castello, ha errato; la riporremo noi sul retto cammino.... p. - Mi perdoni. Qui, benchè ammiri ancora, mi parrebbe più naturale il dire: in tono cortese, e non corrispondeva all'espressione del suo viso. Quell' "un d'essi - , poi, le avrà detto andare e non " recarsi - , la rimetteremo, non " la riporremo,,, sulla buona strada, non "sul retto cammino....- T. - (Che insopportabile seccatore!) Ciò dicendo, sorsero ambedue da terra, e mossero alla mia volta.... P. - Approvato, e con plauso. Io avrei detto dicendo questo, s' alzarono tutt'e due, e vennero verso di me -; ma riconosco che avrei parlato con meno squisita eleganza.... T. - Insospettito, indietreggiai. Essi accelerarono il passo. Avevano in animo d' assalirmi, non cadeva dubbio. Si figurerà di leggieri il mio spavento! Volli gridare; ma mi venne meno la voce. Mi volsi in fuga; ma fu indarno: mi sentii afferrare da tergo; mi fu forza arrestarmi.... P. - L'arresto anch'io per un momento, per farle osservare che parla troppo bene. Avrebbe potuto dire in forma più modesta: - Mi feci indietro. Quelli affrettarono il passo. Volevano assalirmi; non c'era dubbio. S' immaginerà facilmente il mio spavento! Volli gridare; ma mi mancò la voce. Mi diedi alla fuga; ma fu inutile; mi sentii afferrare di dietro; mi dovetti fermare.... E allora? T. - Allora gridai: - Aiuto! - Per buona ventura, transitava là presso una brigata di villici, che malfattori non avevano veduti, perchè eran celati dagli alberi.... P. - Respiro! Ma quel " transitava - per passava, e " celati - per nascosti, e " villici - per contadini.... T. - Quelli trassero tosto alle mie grida.... P. - Vuol dire che accorsero subito.... T. - I malandrini dileguarono.... P. - Come nebbia al vento. T. - Fui salvo. Mi palpai. Non rinvenni più il portamonete nella scarsella. Non c'eran che poche lire; non porta il pregio di parlarne. Il peggio fu la paura, che non le saprei ritrarre in parole. P. - Capisco! " Ritrarre in parole - dev'essere una cosa più difficile che l'esprimere semplicemente. Ma ella si compiace troppo del difficile. Perchè non dire alla buona che non si ritrovò più il portamonete in tasca? E perchè dire "non porta il pregio - invece di non mette conto? Insomma, se l'è cavata con la paura. T. - Se non mi toccò maggior danno, debbo saperne grado.... P. - Basta che ne sia grato.... T. - A quei buoni contadini. Ma la sera mi sopravvenne la febbre. P. - Le " sopravvenne -? - Mi prese, andiamo; mi saltò addosso. Questo m' incolse.... mi seguì per aver posto in non cale.... P. - Se dicesse per aver trascurato.... T. - .... l'avvertimento di mio padre: che non è saggio l'aggirarsi in quei pressi senza compagnia. Me ne ricorderò quind'innanzi. P. - Suo padre le avrà detto che non è prudente l'andare in giro soli in quei dintorni. E farà bene a ricordarsene. Ma farà anche bene d'ora in avanti a parlare in un altro modo.... T. - Ma, insomma, non m' è sfuggito un errore! p. - No; ma il suo discorso è stato una stonatura da capo a fondo, un tessuto di parole e di frasi che non s'usano mai da chi parla con naturalezza e con gusto, e che riescono sgradevoli quanto gli "errori, e rendono il suo parlar corretto poco meno ridicolo d'un parlare sgrammaticato. T. - Troppo gentile! La ringrazio. P. - " Non porta il pregio. - Ma non ponga "in non cale - i miei consigli. "Se ne rinverrà;- contento e me ne "saprà grado. - La riverisco e " mi dileguo. - T. - (Impertinente!) Varie altre osservazioni che ti dovrei esporre intorno all'affettazione nel parlare, le farai tu stesso intrattenendoti qualche minuto con una rispettabile e amabile signora, che ho l'onore di presentarti.

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Le avevan messo questo soprannome perché il bel modo letterario a ogni piè sospinto era uno dei fiori più frequenti del suo linguaggio abituale, tutto fiorito di parole e di frasi eleganti. Era vedova e sola, come la Roma di Dante; non più giovane, d'ottimo cuore, stimata da tutti; ma aveva un difetto terribile, per il quale s'eran ridotti pochissimi i frequentatori del suo salottino, un tempo assai numerosi: il difetto di parlare poeticamente. Cosa tanto più strana in quanto la buona signora non la pretendeva punto a letterata, quantunque di letteratura e d' arte discorresse quasi sempre; era anzi in tali discorsi molto guardinga e modesta. Quel linguaggio, che a noi riusciva affettato, per lei era naturalissimo, ed era in fatti in perfetto accordo con tutte le altre manifestazioni del suo essere. La sua voce, il suo accento, il suo modo d'atteggiarsi e di camminare, la sua bizzarra pettinatura, tutta cernecchi e riccioli artefatti, che le tremolavano intorno al capo come bùbboli, e il suo abbigliamento tutto gale e fronzoli di gusto dubbio: ogni cosa rassomigliava al suo vocabolario e alla sua fraseologia prescelta, che pareva fatta di rottami di versi. Parlava in maniera da far credere che ogni parola d'uso comune fosse per lei una parola triviale, che ogni frase famigliare le ripugnasse come una frase indecorosa. Per esempio: allegrezza, gioia, desiderio, ricordo, avvenimento, momento, erano modi sbanditi dal suo dizionario; diceva: letizia, giubilo, vaghezza, rimembranza, evento, istante. All'amico che entrava in casa sua gettava qualche volta addosso una manata di fiori poetici anche prima ch'egli si fosse seduto. - Ah, la riveggo alla fine! Che accadde di lei? Credevo che avesse spiccato il volo verso altri lidi o che fosse di mal ferma salute; vissi in affanno; s'assida, ingrato amico, e si scagioni. - Anche parlando delle cose più comuni usava questo linguaggio di gala. Era famosa fra i suoi conoscenti la frase con cui aveva annunziato a un di loro una piccola disgrazia toccata a una sua cagnetta, ricciuta e infronzolata come lei; la quale faceva un certo mugolo strano, che certi capi ameni dicevano un'affettazione. - Ah, signor mio! - aveva detto. Tale era la moltitudine di piccoli insetti che infestavano la cute di questo sventurato animaletto.... Ma benché affettato il linguaggio, era sempre sincero il sentimento ch' ella esprimeva. Era commossa veramente quando raccontava d'esser stata costretta, con suo gran dolore, ad espellere una vecchia fante, dopo molti anni che l'aveva in casa, per aver risaputo che quella la vilipendeva nel vicinato con le più nefande calunnie. Quale atroce disinganno! Chi avrebbe potuto sospettare che con qiiel sembiante tutto dolcezza ella albergasse nel petto un animo così malvagio! Che schianto era stato per lei lo scoprire una nemica in quella donna, con la quale essa aveva sempre largheggiato di doni e di favori, per lei che aveva tanto bisogno di sentirsi aleggiare intorno la benevolenza e la simpatia! Naturalmente, il maggior piacere che ci attirasse nel suo salotto era quello d'ammiccarsi l'un con l'altro e di sorridere di nascosto alle più belle delle sue frasi: dico le più belle perché il suo discorso era un ordito così fitto di poeticherie, che non si sarebbe potuto rilevarle tutte senza farsi scorgere; del che ci saremmo vergognati. Ma essa non sospettava. Povera signora Piesospinto! Se ci avesse sentiti giù per le scale! Il suo frasario c'era diventato così famigliare che, fra di noi, andando da lei ed uscendo, non parlavamo quasi più altro che alla sua maniera. E, com'è naturale, glie n'erano affibbiate anche parecchie che non. le appartenevano. Ma la più amena di tutte, qualcuno sosteneva che l'avesse detta davvero a una delle sue amiche più strette, ed era un modo comunissimo, che dice un'occorrenza altrettanto comune, nobilitato da lei nella nuova forma: - andare della persona. - Ammirabile era la costanza con cui usava certi modi illustri invece di altri volgari, i quali non le venivano mai alla bocca, come s'ella non li avesse mai nè intesi nè letti, da tanto che le si era connaturata l'affettazione. Non diceva mai sposare, per esempio, ma impalmare; mai, non so una cosa, ma la ignoro; mai mi fa pietà, ma mi move a pietà; mai aversi per male, ma recarsi ad onta. Gli aggettivi, più, che altro, erano il suo forte; non poteva metter fuori un sostantivo senza attaccargliene uno, che era sempre pescato fra i più signorili della lingua. È un pezzo, signora, che non è stata a Napoli? - Da dieci anni non ho più veduto quella nobilissima città. - Ha letto la notizia della morte del tale? - Sì, ho letto la malaugurosa notizia. - Le ha fatto piacere la promozione di suo cugino? - Sì, ne ho avuto un piacere ineffabile. Colta un inverno da grave malore, e condotta in forse della vita, giacque a letto per lo spazio d'oltre due mesi, e chi la trasse a salvamento, prodigandole ogni più amorevole cura, fu un giovine medico amico nostro e suo, che della sua vezzosa favella prendeva diletto grandissimo. Con lui e con un altro frequentatore del salotto, non sì tosto ella fu fuor di pericolo, mi recai a visiitarla. Poi che fummo seduti accanto al letto, la buona signora chiamò la fante, e le disse con fievole voce: - Apprèssati, Carolina; dischiudi lievemente le imposte, che entri un po' di chiarore.... Poi ci ringraziò, espresse la sua gratitudine aI medico, ci raccontò la storia del suo malore. E fu una tal pioggia di fiori poetici da far pensare che durante la malattia glie ne fosse germinato in casa un nuovo giardino. La malattia le era saltata addosso ad un tratto, a guisa d'un colpo di folgore. Stava per uscire di casa, era già sul limitare dell'uscio, quando una subita nube le aveva come offuscato l'intelletto, e s'era impossessata di lei una così grande debolezza, che appena aveva fatto in tempo a invocar soccorso, e le erano mancati i sensi. Il portinaio, la portinaia, la fante, accorsi tosto, vedendo il pallore mortale del suo volto, l'avevano creduta esanime, e s'eran sciolti in pianto; poi l'avevan portata sul suo letticciuolo, ed essa era rimasta tre giorni cosi, quasi inconsapevole, come in istato di sopore, agitato da torbidi sogni. E in questo modo continuò a fiorettare, fin che ci accomiatò cortesemente lei stessa, dicendoci d' uscire a più spirabil aere, ma che tornassimo presto a riportarle il refrigerio della nostra cara amicizia. Scendendo le scale, il medico faceto ci disse che la povera signora era stata veramente gravissima; ma che anche quando si trovava in pericolo aveva sempre parlato nel modo solito, Egli si ricordava le parole testuali. - Ah, signor dottore! - gli aveva detto. - Non mi lusinghi di vane speranze: io sento bene che questa mia spossatezza è foriera di prossima fine, - E soggiunse che, sentendola parlare a quel modo, aveva riconosciuto la grande verità d'una osservazione fatta da Vittor Hugo, a proposito d'un condannato a morte, il cui discorso gli era parso mancante di naturalezza: che tutto si cancella davanti alla morte, eccetto l' affettazione: che la bontà svanisce, che la malvagità scompare, che l' uomo benevolo diventa amaro, che l'uomo duro diventa dolce; ma l'uomo affettato rimane affettato. - E concluse: - Basta, è scampata; fra un mese sarà guarita; e io ne sono felicissimo perchè con tutti i suoi fiori poetici, è una gran buona signora. - Ah, questo è fuor di dubbio - disse il comune amico - di gentili sensi dotata.... - E di non inculto intelletto - aggiunse il medico. - E di non illeggiadro sembiante.... - Finiamola; non sta bene scherzare fin che non s'è rimessa; ricominceremo quando sulla sua guancia " torni a fiorir la rosa -. E si ricominciò, come Dio volle, con diletto ineffabile.

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Noi, parlando italiano, siamo tutti riluttanti ad usare parole e frasi che non appartengano a quello scarso materiale linguistico che si possiede comunemente nella nostra regione, e la nostra riluttanza deriva dal timore di parer Pedanti e ricercati adoperando modi insoliti; i quali appunto ci paiono strani e affettati per la sola ragione che non siamo assuefatti a dirli e a sentirli. Per, ispiegarti chiaramente la cosa ti riferisco una discussione che, mutate poche parole, dovetti sostenere e m'occorse di sentire cento volte. Mi domanda un tale se non c'è in italiano una parola che significhi " stringer molto la persona con cintura o con busto o con altro, in modo che essa paia meglio disposta, ma che non abbia più liberi i movimenti. - - Certo che c'è. Striminzire. Una ragazza striminzita nel busto. Dice anche il Giusti, per analogia, di persone striminzite in una carrozza troppo piccola. - Striminzire! Che parola strana! - Strana perchè? Per il suono? Non è mica più strana d' impazientire e d' indolenzire, che tutti dicono. - Ma questa non l'ho mai intesa. - È d'uso comune in Toscana, è in tutti i dizionari, la usano molti italiani d'ogni provincia. - Eppure, che so io? Parlando, non l'userei. - Per che ragione? - Non so.... Non oserei. - Ma per la stessa ragione si dovrebbe interdire l'uso d'una quantità d'altre parole proprie, necessarie, italianissime. Per esempio, userebbe le parole rimpulizzire, spericolarsi, spiaccicare, stintignare, baluginare, che in certi casi significano una cosa che non si può dire per l'appunto con un altro modo? - Spiaccicare! Baluginare! Stintignare! (dopo aver pensato un po', sorridendo). - No, glielo dico sinceramente, non oserei. Saranno parole italianissime, e anche usatissime in altre parti d'Italia; ma fra noi paiono strane. - E picchia sullo strane! Ma strana le parrà ogni parola che non abbia mai intesa. Quelle parole non paiono punto strane e affettate, paiono naturalissime a tutti coloro che le usano dove sono generalmente usate. La cagione dell'effetto che producono in lei non sta in esse medesime; ma nel fatto che lei non è usato a sentirle. Lei stesso adopera ora come naturali parole e frasi che, anni fa, la prima volta che le intese, le saranno parse cercate col lumicino. Il tipo dell' affettato e dell'inaffettato, in materia di lingua, ha detto un grande maestro, non è altro che l'assuefazione. - Avrà ragione. E non di meno.... che vuol che le dica? Se, parlando in famiglia o fra amici, mi venissero sulla punta della lingua le parole stintignare, striminzire, baluginare, me le terrei in bocca, perché son certo che tutti quanti, udendole da me, rimarrebbero come stupiti, e direbbero fra sè, e fors'anche forte: - Cospetto! Tu peschi nel vocabolario; tu diventi un linguista. Che lusso! - Ma se tutti ragionassero così, la lingua italiana, fra noi, rimarrebbe sempre allo stesso punto; nessuno arricchirebbe mai il suo vocabolario d'una sola parola; dai dieci anni in su si rimpasterebbero sempre lo stesso miserabile frasario elementare. Se tutti avessero sempre ceduto a codesto sentimento, nell'Italia settentrionale, in Piemonte, per esempio, si parlerebbe ancora l'italiano come si parlava quarant'anni fa. - O non si parla ora come si parlava allora? - Ah no, per fortuna. Sono usati ora anche fra noi, parlando italiano, sono anzi diventati comunissimi una quantità di vocaboli e di locuzioni che quand'ero ragazzo erano affatto sconosciuti. - Quarant'anni fa non le sarebbe mai occorso di sentir dire da un piemontese schiacciare un sonno, appisolarsi, fare uno spuntino; fare ainniodo, uomo di garbo, gente per bene, mi frulla per il capo, andare in visibilio, prendere in tasca, faticare parecchio, e via discorrendo. Ora io sento questi modi ogni momento da giovani, da signore, da gente che non pensa neppur per ombra a parlare scelto, e non c'è caso che chi li ascolta si stupisca e sorrida con l'aria di dire: - Che lusso! - Eppure, quando furono intesi qui le prime volte, tutti quei modi debbono esser parsi strani come paiono a lei quelli che ho citati.. - Le ripeto che avrà ragione; ma.... (tra sè, scrollando il capo) Striminzire! Stintignare! Baluginare! Cosi è. E l'ha detto un grande scrittore, che di queste cose s'intendeva : - La locuzione della lingua in cui si scrive, la locuzione propria, unica, necessaria, può far ridere, esclamare, urlare, dov'essa non è conosciuta in fatto; e però sono impicci da cui uno non può uscir solo: l'unico mezzo d'uscirne è d'uscirne tutti insieme. - Il che vuol dire che tutti quanti dobbiamo adoperarci a mettere in commercio, parlando, quella parte di lingua che manca al nostro uso regionale, e che ci è necessaria, anche a costo di far ridere, esclamare e urlare. Incomincia dunque tu a far la tua parte. Ricordo certe famiglie d'impiegati piemontesi e lombardi, stabilite in Firenze capitale, nelle quali i bambini, che in casa parlavano italiano, portavano ogni giorno dalla scuola una parola o una frase nuova, di cui il padre e la madre ridevano: ne ridevano la prima volta, poi ci s'avvezzavano, e poi dicevano quelle parole e quelle frasi essi medesimi, da prima come per celia, dopo senz'avvedersene; e così il bambino arricchiva il dizionario e insegnava a parlare alla famiglia. E così devi far tu nel giro delle persone fra cui vivi, usando francamente le parole insolite, come se ti venissero spontanee, vincendo la "vergogna fuor di luogo - che è la cagione principale della nostra perpetua miseria in materia di lingua. Miseria che conserviamo di conseguenza anche nello scrivere, perchè tutto quel materiale di lingua, che conosciamo ma non usiamo parlando, non ci verrà mai pronto all'occorrenza quando scriviamo, lo dovremo sempre andar a cercare, e non lo cercheremo per pigrizia, o lo useremo male, e sarà sempre per noi come quelle stoviglie di casa che non si tiran fuori dall'armadio che per i pranzi solenni, dove gl'invitati s' accorgono alla prima che non siamo assuefatti ad usarle.

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Impara a pronunziar bene. Non parla bene chi pronunzia male. E noi, quasi tutti, pronunziamo l'italiano scelleratamente. Una bella lingua pronunziata male è come una bella musica sciupata da un cattivo sonatore. Che vale che la nostra sia una lingua ammirabilmente musicale se noi in mille modi ne alteriamo i suoni, come se fosse per noi una lingua straniera? Che serve che tanti grandi poeti, nei quali erano profondi e finissimi il senso e l'arte dell'armonia, abbiano faticato a comporre tanti versi squisitamente armoniosi, quando noi li pronunziamo in maniera che se ci sentisse chi li fece ci tratterebbe di cani e si tapperebbe gli orecchi? Che giova che la lingua italiana abbia tante parole dolci, forti, gravi, agili, graziose, che suonano come note di canto, se le dolci noi inaspriamo pronunziando delle s che sembrano fischi di serpenti, se fiacchiamo le forti scempiando le consonanti doppie, se facciamo ridere con le gravi raddoppiando le consonanti semplici, se aggraviamo le leggiere e deformiamo le graziose strascicando o squarciando o strozzando le vocali, e dando all'u un suono barbaro che trapassa l'orecchio come lo stridore d'un chiavistello arrugginito? E predichiamo agli stranieri l'armonia della nostra lingua! E ci vantiamo d'aver orecchio musicale! C'è da riderne, e da averne vergogna. * - Come ho da fare? - domanderai. - Ho da toscaneggiare? - Così chiamano, per canzonatura, il pronunziar corretto tutti coloro che pronunziano barbaro e se ne trovare contenti, come se non si potesse pronunziar l'italiano correttamente senza rifare il verso ai Toscani; chè non è altro, in fatti, la cattiva imitazione della loro pronunzia che fanno certuni fra noi. No, non c'è bisogno di toscaneggiare per pronunziar bene, che consiste nel dare a ogni lettera il suo vero suono e a ogni parola il suo giusto accento, come sono indicati nelle grammatiche, nei vocabolari e in trattatelli speciali. Tu non hai che da prendere uno di. questi libri, e con la scorta delle regole e delle indicazioni che vi troverai, badare a correggere i difetti della tua pronunzia dialettale, cominciando dai più grossi e più ridicoli, i quali son quasi tutti comuni agl'italiani delle regioni subalpine. Avvèzzati prima d'ogni cosa a pronunziare l'a larga, che noi tendiamo a restringere; poichè c'è chi dice:

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E a dir l'e e l'o larghe o strette nelle parole in cui hanno l'uno o l'altro suono: a non allarga i la bocca come un imbuto per dir vérde, frésco, césto, Róma, dóno, enórme, e le desinenze degli avverbi in ente, che sono uno degli orrori della nostra pronunzia, veramante! E a dare il suono duro o molle all's, e dolce o aspro alla z dove tale dev'essere; non come si suol fare da noi, che pronunziamo ad un modo rosa fiore e rosa participio, zaino e zampa, cosa e sposa, pranzo e pazzo; quando non si dice pranso e passo, Come da molti si dice. Ma abbiamo altri difetti di pronunzia, dei quali i libri non ci possono correggere, come quello di triplicare spesso le consonanti per timore di non far sentire abbastanza le doppie, come usano i nostri burattinai quando fanno parlare i personaggi terribili: ferrro, guerrra, sconquassso, trapassso; di raddoppiare l'r in nero, fiero e simili, per rafforzarne il significato; di non far sentire l'sc nelle parole come scendere e scempio, che pronunziamo sendere e sempio; di pronunziare la doppia n faucale, come nel dialettale laña, luña, nelle parole donna, ginnastica e simili; di raddoppiare la c in molte parole dov'è semplice, come bacio, cacio, mendacio, e di metter la g in molte dove non entra (la povera Amaglia non sa gniente), e di sopprimerla in altre dove dev'esser pronunziata (sua filia li tien compania). Ma perché quell'atto d' impazienza?... Ho capito. Ti pare ch'io, metta alla berlina della cattiva pronunzia la nostra cara provincia, e questo ti dispiace. Ma non temere. Nessuno dei tuoi fratelli italiani ti lancerà la prima buccia di mela, perchè hanno tutti coscienza d'esser grandi peccatori. Oltre che parecchi dei nostri difetti di pronunzia sono comuni a varie regioni d'Italia, ciascuna ne ha altri suoi propri, che stanno a paro coi nostri peggiori. Rassicùrati. Non ti canzonerà il milanese che allarga l'e senza discreziune e converte, in u le o finali, e pronunzia l'u alla francese cont una frequenza lacrimevole; nè il genovese che muta in ou il dittongo au, dice aritemetica per aritmetica, e fa strage delle z; nè il tuo fratelo veneziano che di tutti i cittadini dell'aregno d'Italia è il più indomabile ribelle alla leie della doppia consonante. E il bolognese sostituisce l'e all'a nella finale dell'infinito dei verbi, fa rimar Roma con gomma, toglie la z alle ragaze, fa scomparir le vocali quanto pió gli è possibile; e il romano ti dice che lo interressano le notizie della guera, che le sue crature son ghiotte delle brugne e ch'egli ha un debbole per i fonghi; e il napoletano.... No, non darà la baia al piemondese il napolitano, che muta il t in d dopo l'n, che pronunzia inghiostro e angora, e mobbile e doppo; e neppure l'abruzzese che distende il dittongo uo in maniera da attribuire a ogni buono una bontà infinita, e mette fra due vocali un suono gutturale aspirato: non ti burlerà neppur per idega. E neanche il siciliano sarrà fra i tuoi canzonatori, egli che cangia in ea il dittongo ia e in u tante o e che dà all's davanti alle consonanti il suono dello sh inglese, e ficca cossì spesso l'i fra il c e l'e, anche chiamando la Concietta del suo cuore; e nemmeno il sardo, che nel raddoppiar la consonante dove è semplice, e scempiarla dov' è doppia, non la cede a nessuno. Intesi appunto ieri note due proffessori che discuttevano su quest'argomento. * Dunque, stùdiati di correggere la tua pronunzia. Ma pronunziar le parole corrette non basta. Il nostro parlare manca generalmente d'armonia e di speditezza perchè non facciamo abbastanza troncamenti e elisioni, perchè diciamo una quantità di vocaboli e di sillabe superflue, che allungan le frasi e rompono l'onda armonica e c' impacciano la lingua. Sono, ciascuna per sè, superfluità minime e durezze appena sensibili; ma che quando s'affollano, come segue spesso, in un breve giro di parole, fanno un brutto sentire. Se, per esempio, in un periodo, dove t'occorra di dire: gl'impeti d'amore, l'ha detto senz'arrossire, m'ha fatto girar la testa, quell'ingrato, un alfranno, quella gran virtù, in un mar di guai, non facevan nulla, non m'accorsi in tempo, per la qual ragione, tu non tronchi e non elidi nulla, e dici invece: gli impeti di amore, lo ha detto senza arrossire, mi ha fatto girare la testa, quello ingrato, un altro anno, quella grande virtù, in un mare di guai, non facevano nulla, per la quale ragione, tu senti che il tuo parlare riesce assai meno armonico e sciolto che nell'altra forma. Ed è singolare che, mentre riusciamo duri nel parlare per non far troncamenti e elisioni dove potrebbero farsi, riusciamo spesso egualmente duri in più d' un caso, in cui, in luogo di togliere, aggiungiamo appunto per evitar la durezza, come nel dire: fanciulli ed adolescenti, scrissi ad Edvige o ad Edgardo, selvatici od addomesticati. Bada a tutte queste piccole cose, e se vuoi avere una buona norma, prendi l'edizione del romanzo I promessi sposi, dove è raffrontato il primo testo con quello corretto nel 1840. Il Manzoni, nel troncare e nell'elidere, s'è attenuto rigorosamente alla norma del parlar fiorentino; e si potrà discutere sulla sua idea, che la lingua parlata a Firenze debba esser la lingua di tutti; ma non sul fatto che l'uso fiorentino, per ciò che riguarda l'armonia del discorso, si possa seguir da tutti fedelmente, senza timor di sbagliare. Bada all'armonia nelle due edizioni comparate del romanzo, e ci troverai un insegnamento utilissimo a scansar nel parlare ogni ridondanza e ogni durezza di suoni. * Un'altra cosa. Ciascun dialetto è parlato con certe intonazioni, modulazioni, cadenze, strascicamenti di voce e raggruppamenti di suoni, che noi, quasi tutti, facciamo sentire anche parlando italiano, e che dànno al nostro italiano il colorito musicale, per dir cosi, del dialetto medesimo. Dirai che questa musica dialettale essendo naturale in noi, noi non la sentiamo, e quindi non possiamo liberarcene. No : la sentiamo, chi più chi meno, perché mettiamo in canzonatura chi la esagera. La sentiamo in ogni modo quando udiamo parlare italiano uno della nostra regione con uno d' un' altra, perchè, anche non conoscendolo di persona, lo riconosciamo dei nostri: Ebbene, quando questo t' accade, osserva le modulazioni e le cadenze a cui lo riconosci, e t'avvedrai che sono proprie a te pure. E non pensare che perché tu non le avverti abitualmente o non ti riescono sgradevoli, non siano sentite dagli italiani delle altre regioni, o non riescano sgradevoli neppure a loro. Tanto le sentono che non son pochi quelli che, pure non comprendendo il nostro dialetto; ci rifanno il verso per modo che noi stessi ci riconosciamo nella caricatura; la quale essi non farebbero se la nostra musica dialettale non li facesse ridere. Ora, ogni volta che ti segna un caso simile, sta' bene attento, ché ti può molto giovare. Io mi corressi di certe intonazioni del dialetto udendo un attore toscano che imitava mirabilmente il modo di recitare d'un celebre attore piemontese, perchè sentii la prima volta in quella imitazione nelle intonazioni, come un'eco della mia voce. E credi che non riuscirai a pronunziar bene l'italiano fin che non ti sarai liberato di questa specie di melopea vernacola, perchè è quella che ti fa forza, in certo modo, nella pronunzia viziosa delle parole, che quasi ti costringe, senza che tu te n'avveda, a pronunziare ciascun vocabolo all'uso dialettale, in maniera che suoni in tono con essa. Fa a questo caso il proverbio francese, che dice: è la musica quella che fa la canzone. Un mazzetto di consigli, per finire. Avvèzzati a leggere a voce alta scolpendo bene le parole, Quando vai al teatro, sta' attento alla pronunzia degli attori che pronunzian bene, e paragonala con quella di quegli altri attori, dei quali riconosci il dialetto nativo. Fa' attenzione al modo di pronunziare di tutti quegli italiani, dei quali non ti riesce di capire in che parte d'Italia sian nati. E non dar retta ai pigri che ti dicono: - tempo perso; a nascondere il dialetto nella lingua non si riesce. - Non è vero, e non è tanto difficile riuscirvi. Tutte le regioni d'Italia, anche quelle dove si parla un dialetto più dissimile dalla lingua, dànno oratori forensi e politici, attori drammatici, conferenzieri, professori, conversatori, che pronunziano l'italiano perfettamente, o quasi; nei quali non si sente indizio alcuno dei loro propri dialetti. Fa' il proposito di riuscire a questo tu pure, ridendoti di chi chiama affettazione il pronunziar l'italiano da italiani, e induci a farlo anche le signorine di casa tua; poichè io m'immagino che tu abbia delle sorelle, una almeno. E poichè me l' immagino, e vedo che la signorina scrolla il capo, mi rivolgo a lei pure. Sì, signorina, lei che sentirà molte volte nella sua vita lodar la dolcezza della sua voce, si studi anche lei di pronunziar meglio; ciò che riuscirà facile ai suoi muscoli labiali fini ed elastici; perchè a che serve avere la voce dolce se la sciupa una pronunzia ingrata? Se viaggerà fuori d'Italia vedrà molte volte degli stranieri, che l'avranno riconosciuta italiana, porger l'orecchio per raccoglier dalla sua bocca la musica decantata della sua lingua: vorrà che rimangano disingannati? E faccia anche propaganda di buona pronunzia, perchè la può fare senza suo incomodo. Basterà che torca leggermente la bocca quando sentirà lodare la sua bellessa, o dir che è graziosa come un fiure, o splendida come una stela, o seducende come una dega, o che si darebbe la vita per darle un baccio. E non risparmi neppure quei toscaneggianti che, credendo di pronunziar toscano, non fanno di quella bella pronunzia che una caricatura stucchevole.

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Comincia fin d'oggi ad avvezzarti a parlar bene, e vedrai come sarai presto incoraggiato a proseguire dai vantaggi che ne ricaverai. Primissimo dei quali sarà quello di pensar meglio, perchè dal parlar chiaro, proprio, preciso, scolpito, dalla consuetudine di esprimer tutto il proprio pensiero nel miglior modo che ci è possibile, s' è immancabilmente condotti a "spiegarci con noi stessi e a meglio intenderci noi medesimi - , a formulare con maggior chiarezza e maggior precisione il pensiero anche nell'officina silenziosa della nostra mente. E sarai anche incoraggiato a proseguire dalla sodisfazione che il tuo parlar bene produrrà evidentemente negli altri, poichè è un fatto che chi parla con chiarezza, precisione, facilità e speditezza, facendoci risparmiar tempo e sforzo d'attenzione e imprimendoci nette nella mente quelle cose che ci preme di ricordare, ci procaccia, oltre che un piacere di natura artistica, un vantaggio, di cui gli siamo grati. E ti sarà incoraggiamento e compenso quello ch'io molte volte osservai ed osservo: che è per quasi tutti una sodisfazione d'amor proprio il sentir parlar bene l'italiano da un concittadino della loro stessa regione, perchè vedono in lui una prova che essi pure, volendo, ci riuscirebbero, un argomento vivente contro l'opinione di quegli italiani d'altre regioni, i quali li dicono e li stimano inetti (la cosa è frequente e reciproca) a parlare un italiano italiano. E queste sodisfazioni avrai per tutta là vita, e con queste molte altre, in mille casi, a mille diversi propositi, in mille forme diverse e inaspettate, poichè non puoi immaginare quante Simpatie, quanti atti cortesi, quanti consensi, quante agevolezze non ci derivare da altro nel mondo che dalla scioltezza, dalla grazia, dalla convenienza della parola. Ma per parlare bene bisogna possedere il materiale della lingua, e in che maniera questo s'acquisti vedrai nella seconda parte del libro. Chiuderà la prima un bell'originale, che non è forse inutile che tu conosca.

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Aveva passato parecchi inni a Firenze; ma quello che per ogni altro italiano, come direbbe l'Alfieri, boreale, desideroso d' imparar la lingua, sarebbe stata una buona fortuna, per lui era stata una disgrazia, perchè in riva all'Arno aveva perduto la naturalezza del parlare, e raccattato soltanto le scorie idiomatiche che gli stessi toscani colti ributtano. Aveva fatto là una gran retata d'idiotismi e di vezzi di lingua mercatina, come se la fiorentinità non consistesse in altro, e preso per giunta il malanno di pronunziar più fiorentino dei fiorentini, esagerando istrionicamente tutte le inflessioni di voce loro proprie, e aspirando la e perfin nelle parole dov'essi non l' aspirano. Per questo lo chiamavamo l' amío Enrío, essendo Enrico il suo nome di battesimo. Non diceva più un tu, neanche a pagarglielo. - Vieni te a ber la birra? - Se' stato te, se' stato! - Te mi vorresti canzonare! - Bandiva il dittongo uo da ogni parola: non diceva più che core, omo, bono, spalancando la bocca come per inghiottire un ovo sodo. E gl'icché t'ho da dire e i questecchequí e i l'aresti a avere li spacciava a canestrelli. Figurarsi la faccia che facevano a questa roba i suoi " rozzi - amici pedemontani! Ma quello che rendeva più uggioso il suo toscaneggamento era l' inettitudine dell' imitazione, poiché spesso, anzi ogni momento, fra due parole pronunziate alla fiorentina ne pronunziava una alla piemontese, che sonava come una stecca falsa; ciò che faceva dire con ragione agli amici che in ogni suo periodo dietro Stenterello saltava fuori Gianduia. E sarebbe stato un amico piacevole, perché in fondo era di buona indole, e di spirito arguto; ma riusciva insopportabile per quella sua parlata artifiziosa e bastarda. C'era fra gli altri, nella brigata degli amici, un genovese, che pativa una vera tortura a sentirlo. - Che volete? - ci diceva. Quand'io gli sento dire arimmetica per aritemetica, Enna per Etena, austríao per oustriaco, mi vien la pelle d'oca. - E allora era un doppio spasso, perchè si rideva insieme del critico e del criticato. Un altro, che avesse parlato a quel modo, l'avremmo corretto a furia di canzonature e di risate; ma a questo con lui nessuno s'arrischiava, perchè era un buon giovane, ma ombroso, che, non reggeva la celia, e tirava bene di scherma. I tolleranti se ne spassavano senza che se n'avvedesse, gli altri gonfiavano in silenzio, e così egli non aveva mai un sospetto di far ridere le gente alle proprie spalle, e toscaneggiava a tutto pasto, altero e felisce di tener lo scettro della buona lingua e della bella pronunzia. Ma non riusciva a ingannar nessuno, neppur la prima volta che lo sentivano, e nemmeno persone incolte, o che non fossero mai state in Toscana, tanto è giusto il verso

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Anche costoro, dopo venti parole, sentivano la caricatura, la contraffazione grossolana, e sorridevano, incerti, come domandando a sè stessi s'egli parlasse sul serio o per burla, e aspettando che da un momento all'altro ripigliasse il parlar naturale. Di quando in quando, per effetto di quel suo parlare, gli seguivano dei casi comici. Un giorno, credendo d'aver lasciata la canna (com' egli chiamava alla subalpina la mazza) in un caffè, vi ritornò mezz'ora dopo, e domandò al padrone: - Ha veduto la mi' anna? Quegli, pensando che domandasse se era stata a cercarlo nel caffè la sua signora, benchè gli paresse un po' troppo famigliare quel modo di nominarla, gli rispose di no, perchè signore, in fatti, non ce n'era state. E allora l'amìo, rivolgendosi al cameriere: - Guarda un po' sotto il biliardo. Immaginate la risata. Un'altra volta, a un conoscente che gli andò a chiedere informazioni intorno a un nuovo professore destinato al Ginnasio del proprio figliuolo, disse fra l'altro: - È d'umore un po' vivo; bocia, bocia sempre; ma in fondo è un omo bono. - E quegli, scattando: - La grazia di quella bontà! Da un professore che boccia tutti il mio ragazzo non ce lo mando. Ma queste piccole contrarietà non lo correggevano. Egli, seguitava a ingollar le c e a profondere i te sempre più allegramente; e con maggiore esagerazione e a voce più alta toscaneggiava nei caffè e nei teatri, dove ci occorreva spesso d'osservare intorno a lui quel fatto psichico curiosissimo, che si potrebbe chiamare l'inversione o la traslazione della vergogna: persone sconosciute che, udendolo, chinavano il capo e restavan lì impacciate, e qualche volta arrossivano, come se quel linguaggio falsificato e ridicolo uscisse a loro malgrado dalla loro bocca, nel modo che escon le parole dalla bocca dei farneticanti. Ma quel mal vezzo finì con portargli disgrazia. Fu un caso curioso. Una sera, nella platea d'un teatro, mentre egli toscaneggiava con un suo amico, a voce alta, com'era solito, fu inteso da un signore toscano, che discorreva con altri, li accanto, e che, riconoscendo apocrifa quella toscanità ostentata, sospettò che parlasse a quel modo per rifare il verso a lui. Risentito, gli domandò spiegazione. L' amìo rispose con buon garbo, ma rimangiando due o tre c di quelle che i toscani non mangiano; ciò che ribadì il sospetto nell'altro, che gli tirò un'impertinenza, la quale ebbe per risposta un urtone. Alle corte, si barattarono i biglietti di visita, non ci fu modo di raggiustarla, ne seguì un duello, e l'amìo Enrío ebbe una leggiera sdrucitura al braccio destro. Andai a visitare il ferito con un comune amico; il quale, prima di tirare il campanello, fece un'osservazione consolante. - Tutto il male non vien per nuocere - disse. - Quest'avventura l'avrà guarito dalla toscanite. - E lo credevo io pure. Lo trovammo sulla poltrona, col braccio al collo, d'ottimo umore. E proprio le prime parole che disse, rispondendo al mio : - Com'è andata? - furon queste: - O che vo' tu ch'i' ti dìa? - È incurabile! - esclamò l'amico quando uscimmo. - E glie ne toccherà dell'altre. È il suo destino. Egli ha da morir sul terreno, e di ferro etrusco.

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Chiedo il permesso di rivolgere poche parole a ciascun di loro. Poi ritornerò a te, giovinetto.

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Ella possiede un materiale di lingua che non e la terza parte di quello che le sarebbe necessario per parlar bene, un piccolo corredo di vocaboli e di frasi, che le servono a dire impropriamente e a un di presso una grande quantità di cose, ciascuna delle quali può esser detta con una parola o una frase propria, che dice per l' appunto quella cosa sola. Nel parlare come nello scrivere, a ogni tratto, ella gira intorno al proprio pensiero, non lo esprime che a mezzo, ed è costretta ad aggiungere e a correggere per compiere e chiarire l'espressione che non le riuscì compiuta e chiara alla prima. E, confessi la verità: molte cose ella non le dice per non mettersi in un impaccio. Vuol vedere che io le nomino subito venti, trenta oggetti, operazioni, qualità e particolari d'oggetti, che a tutti occorre di rammentare quasi ogni giorno, e che ella designa sempre con una perifrasi o con una parola sbagliata? Vuol che le dica lì per lì una filza di modi della lingua viva, usatissimi in tutta l' Italia, e che non hanno sinonimi, ma clic lei non ha mai usati e che le riuscirebbero nuovi come modi d' un'altra lingua? Ella conosce il francese? Non molto. Vuole scommettere che se mi racconta in italiano l'aneddoto più semplice, io, che non sono un linguista ne un pedante, ci trovo altrettante improprietà, quante ce ne troverebbe un francese s' ella gli raccontasse l'aneddoto in francese? E mi sostiene che la lingua si sa? Capisco come non si sappia d'ignorare le cose che non si sa che esistano. Ma ella somiglia a chi credesse di saper la botanica perché conosce i legumi che gli portano in tavola e i nomi dei fiori che coltiva sul terrazzino.

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Parlando a te, italiano, intendo dire con " materiale della lingua - tutti quei vocaboli e quelle locuzioni che mancano generalmente all'italiano parlato fuor della Toscana. Gli uni e le altre si possono cercare ad un tempo; ma sarà meglio che tu incominci coi vocaboli, che sono i più necessari, e che per qualche tempo non t'occupi d'altro. Ci sono, prima di tutto, certe consuetudini del pensiero, che tu devi prendere. Delle moltissime parole che non sappiamo molte le abbiamo lette o intese dire; ma non ci sono rimaste nella memoria perchè non abbiamo fermato su esse, neppure un momento, l'attenzione. Bisogna dunque, ogni volta che ci cade sott'occhio o ci viene all'orecchio una parola non compresa nel nostro vocabolario abituale, guardarla in faccia come si guarda una persona sconosciuta che ci si presenti, fare un atto della volontà per ritenerla, metterci sopra, per così dire, il suggello del nostro pensiero. Se, leggendo o ascoltando, avessimo fatto questo, non dico sempre, ma soltanto una volta su cinque, anche senza ricorrer mai alla penna, avremmo tutti nella memoria molte centinaia di vocaboli di più di quelli che possediamo. Poi: ogni volta che discorrendo ci manca una parola per designare una data cosa, prender nota nella nostra memoria di quella mancanza, e ripararvi quanto prima ci è possibile, cercando quella parola. Ogni volta che ci càpita alle mani o ci si presenta in qualunque modo un oggetto usuale od insolito, domandare a noi stessi, non solo se lo sapremmo nominare a chi non lo conoscesse, ma se glielo sapremmo descrivere nominando le sue varie parti, e, non sapendo, cercare il nome delle sue varie parti, per metterci in grado di descriverlo. Ogni volta che troviamo in un libro una parola nuova, della quale non comprendiamo il significato, non cercarla immediatamente nel vocabolario, chè, trovata così subito senza fatica, non ci rimane impressa; ma pensarci un po', cercare d' intenderla da noi stessi, segnarla nella nostra mente con un punto interrogativo; al quale essa rimarrà poi attaccata come a un gancio quando sapremo che cosa significa, perchè non si dimenticano mai le parole nuove sulle quali s'è esercitata la curiosità, e di cui c'è costato qualche sforzo l'apprendere il senso. Ma questo non basta. Tu, che sei sulla via degli studi, devi fare questo studio in forma ordinata e metodica. Proponiti, da principio, d' imparare i nomi di tutte le cose che t'occorre ogni giorno di vedere, toccare, adoperare. Prendi uno di quei Prontuari dove son registrati tutti i nomi degli oggetti d'uso domestico, con la descrizione di ciascun oggetto, la quale comprende i nomi d'ogni sua parte. Comincia dalla roba che porti addosso, per poi passare alle cose che hai sempre tra mano, ai mobili delta tua camera, alla mensa, allo scrittoio, agli arredi e utensili di tutta la casa, alle varie parti della casa stessa. Va' innanzi con ordine, a poco a poco, fissandoti d'imparare ogni giorno un certo numero di nomi. Non ti costerà alcuno sforzo il ritenerli, avendo sempre sott'occhio le cose a cui si riferiscono, e a ritenerli t'aiuterà il dirli spesso a voce alta, con pronunzia netta. Passerai poi dalla casa al cortile, al giardino, a tutti gli annessi e connessi della casa, e poi alle varie parti della città e ai luoghi e ai servizi pubblici, e alle arti e ai mestieri più comuni. E non considerar neppure come uno studio quest'occupazione; fattene uno svago dello spirito. E ogni volta che te ne sentirai un po' svogliato, pensa che ciascuna delle parole che ti si stamperà stabilmente nella memoria ti risparmierà mille volte, nel corso della vita, un'incertezza, un impaccio, una piccola vergogna; che mille volte la cognizione di una data parola ti toglierà, nel parlare e nello scrivere, un intoppo, il quale romperebbe il corso del tuo pensiero e la foga del tuo discorso; che ogni vocabolo che s'impara,- anche se paia superfluo, è come uno di quegli utensili da nulla, dei quali non s'ha bisogno quasi mai, ma che una o due volte in molt'anni son necessari, e se non si ritrovano, non si sa che pesci pigliare. E poi vedrai che anche questo studio, che ora ti par materiale, ti darà sodisfazioni che non t'aspetti. Quando il tuo corredo di vocaboli sarà già considerevole, t'accorgerai che ogni nuova parola ti rimarrà impressa assai più facilmente che per il passato, perché in quel particolare esercizio ti si sarà fortificata e fatta tenace la memoria mirabilmente. Riconoscerai, quando potrai nominare molte cose e particolari di cose di cui prima non sapevi il nome, di quanti giri di parole, di quante definizioni e descrizioni e lungaggini, che prima non potevi scansare, potrai far di meno parlando, e che nuovo sentimento di libertà e di sicurezza avrai nel parlare, non essendo più impensierito di continuo e dal timore d'inciampare nell'impedimento d'una cosa comunissima, che tu debba nominare e non sappia, o nella necessità di fare una svoltata e col discorso per non averla da nominare. E vedrai quante volte, dopo che ti ci sarai avvezzato E per proposito, ti sarà un passatempo piacevole, trovandoti ad aspettare in qualche luogo, come un'officina o una bottega o una sala, rifar nella tua mente la nomenclatura di tutte le cose che avrai dintorno; e come ti divertirai E a osservare gli artifizi curiosi coi quali la gente s'ingegna, nella conversazione italiana, di nascondere la propria ignoranza dei vocaboli più necessari, e di farsi in qualche modo capire; e che piacere sarà per te in molti casi il levar d'impaccio chi parla, anche persone d' età maggiore e e di cultura superiore alla tua, porgendo loro gli spiccioli per le minute spese del discorso. Mettiti dunque a questo studio, non con l'impazienza di chi ha uno scopo immediato; ma tranquillamente, adagio adagio, nei tuoi ritagli di tempo, contentandoti di poco ogni giorno, e rimarrai maravigliato ben presto della quantità di materiale linguistico, che senza fatica, quasi senz'avvedertene, ti troverai accumulato nella memoria.

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Lessi e leggo gli scrittori migliori di tutti i secoli con la matita alla mano, sottolineo ogni parola e ogni locuzione che mi riesca nuova, e mi paia efficace, e usabile anche da uno scrittore del tempo presente, e cerco d'imprimerla nella memoria insieme con la frase o col periodo a cui appartiene, e, più che altro, con l'idea ch'essa esprime o concorre ad esprimere. Non volli mai trascrivere a parte frasi, locuzioni o parole perchè, se si metton sulla carta, non si fa più sforzo della memoria per ritenerle, sapendo che si rileggeranno poi; e anche perchè, quando si hanno di queste raccolte, facilmente si cede alla tentazione d'andarvi a far provvista prima di mettersi a scrivere, onde avviene che nello scritto si scopra la mano del raccoglitore; e per quest'altra ragione, finalmente, che i modi registrati così solitari, quando poi s'è dimenticato il posto che occupavano, la serie d'idee a cui eran legati, il significato e il valore che ricavavano dal contesto, s'adoperano spesso in un senso che non è quello per l'appunto che avevano dove li abbiamo trovati. Dunque, sottolineo soltanto, e questo mi basta a riparare poi alle dimenticanze. Tutti i miei libri son pieni di sottolineature. Quando, dopo un pezzo, ne riapro uno, scorrendolo con l'occhio solamente, vi ritrovo in pochissimo tempo tutto quanto v' è di meglio in materia di lingua, e con la memoria delle voci e delle frasi mi ravvivo quella dei pensieri, la quale corregge alla sua volta, se mi s' è alterato nella mente, il concetto del significato e del valore d'ogni frase e d'ogni voce. Così le mie note linguistiche sono sparse in centinaia di volumi, e questa, a mio giudizio, è la maniera più intellettuale di studiar la lingua. Per me un periodo è còme un viso umano: certi studiosi della lingua ne staccano un occhio, un orecchio, il naso, il mento, e li conservano a parte: io mi stampo nella mente tutto il viso; voglio dire che affido la memoria della parola a quella dell'idea. Aggiungo che quest'uso di sottolineare i libri me ne rende particolarmente piacevole e utile la seconda lettura, perché, ritrovandovi segnate tutte le mie prime impressioni, dalle quali spesso riescon diverse le seconde, mi vien fatto di cercare le ragioni delle diversità, che derivano o da un diverso stato dell'animo, o da nuove cognizioni acquisite, o da gusti mutati, e quest'operazione mentale ha per effetto d'imprimermi più profondamente nella memoria le parole e le frasi. E non è da credere che riesca poi troppo difficile il ritrovare, per chiarirsi d'un dubbio, una data parola o locuzione in quel mare di segni, perchè quest'uso di sottolineare fortifica ed estende straordinariamente la facoltà della memoria locale; tanto che di moltissime di quelle si ricorda fino il punto della pagina dove restano e il tratto particolare della matita con cui si sono segnate. Io ho dinanzi agli occhi della mente centinaia di frasi e di vocaboli sottolineati in centinaia di pagine, in cima, in fondo, nel mezzo, da un lato e dall'altro, chiari e netti per effetto della sottolineatura come se fossero in caratteri rilevati. Il mio dizionario, il mio frasario è la mia biblioteca. I miei fiori di lingua non sono stretti in mazzi, ordinati in tepidari, affollati in aiuole; ma sparsi sur un vastissimo spazio, piantati nella terra dove nacquero, olezzanti all' aria aperta e viva; e le corse che ho da fare col pensiero per rivederli mi fanno bene alla salute dello spirito, mi accrescono le forze e l'agilità della mente. Per mantenermi nel possesso del mio materiale linguistico mi debbo rimettere ogni tanto in conversazione diretta coi grandi maestri da cui lo presi, e questo mi dà occasione e modo di raccogliere dalla loro bocca nuovi tesori. Ecco il modo di studiar la lingua, ch' io consiglierei ai giovani. Non empite dei quaderni di note, chè v'avvezzate a pescar la parola per la parola, la frase per la frase. Non serve avere in mente una locuzione se non è legata a un pensiero, e se il pensiero vi resta, vi resterà quella con esso, senza bisogno di metterla a sedere sulla carta, di dove non accorrerà più pronta al vostro bisogno, e dovrete andarla a prendere e tirar fuori a forza. Trattate la lingua da gran signori, non da pitocchi. Ospitatela nel grande palazzo della vostra memoria; non la soffocate nei ripostigli oscuri degli scartabelli. La lingua è pensiero, è sentimento, è bellezza; cercate nei grandi scrittori queste tre cose; pensate, commovetevi, dilettatevi, e imparerete la lingua; essa vi deve entrare nella mente e nell'animo a raggi d'idee, a ondate d'affetto, a scosse d'ammirazione. E il modo ch'io consiglio è anche il solo che non stanchi mai; chè, anzi, tanto più riesce gradevole e profittevole quanto più, andando innanzi con gli anni, s'impara a pensare, e il leggere con la matita alla mano diventa un abito che non si può più smettere; dovechè la pazienza di raccogliere, trascrivere e rileggere delle note morte, facilmente si perde, tanto più quanto si fa più vivo e acuto il pensiero. Il mio è uno studio, un modo da pensatore e da artista; l'altro è una fatica, come direbbe il Carducci, da spazzaturai di parole. Nello studio della lingua sono aristocratico.

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Darò alla tua domanda cinque risposte, le quali mi furor date (quattro per iscritto e una a voce) da cinque studiosi, che interrogai per conto tuo.

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Ogni parola o locuzione ch'io legga negli scrittori, o senta dire, o trovi nel vocabolario, la quale io mi voglia appropriare, la scrivo nel quaderno, e sotto il titolo, a cui si riferisce. Dopo che cominciai questo lavoro, furori fatte varie pubblicazioni informate allo stesso concetto, ad uso degli studiosi; ma io tirai innanzi egualmente, con la persuasione che nessuna di quelle opere, anche se più ampia e meglio ordinata, m'avrebbe giovato quanto quella che andavo facendo io medesimo; perchè fra il materiale di lingua scelto e raccolto da altri e quello scelto e raccolto da noi, per ciò che riguarda la memoria, corre presso a poco la stessa differenza che tra il ricordare dei versi propri e il ricordare dei versi altrui. In pochi anni, facendo poco ogni giorno, ho raccolto un materiale ricchissimo. Questo metodo presenta due grandi vantaggi. Il primo è che, ricorrendo ogni tanto ciascuna serie di note, per l'affinità che è fra di esse, che l'una tira l'altra come le ciliege, molto facilmente si richiamano alla memoria tutte o in gran parte. Il secondo è che, per la stessa ragione dell' affinità, riesce singolarmente piacevole il rileggerle. Ogni volta ch'io ripasso ciascuna di quelle filze di parole e di modi di dire, che si riferiscono tutti a un soggetto unico, mi si ravviva, con l'ammirazione della ricchezza e della varietà della nostra lingua, la volontà e il piacere di studiarla. Mi par di sentire un linguista maraviglioso che sfoggi tutta la sua dottrina mettendo fuori rapidamente tutto il vocabolario e tutto il frasario che si possono usare a quel dato proposito, o che si diverta a dire in cento modi diversi, con cento gradazioni di significato, con cento sfumature di colore quella data cosa; o una folla di persone che della stessa cosa discorrano tutte insieme, rivoltando l'idea per tutti i versi, accennandone tutti i particolari, studiandosi ciascuna di non servirsi della espressione altrui. È anche un altro diletto dell'immaginazione vivissimo. Quando leggo le pagine del movimento, per esempio, io vedo passare con tutte le andature, scarrierare, arrancare, ballettare, sbalzellare, saltabeccare, giravoltolare,. capitombolare, volicchiare, sguizzare , frullare, sfarfallare, ecc., ecc., movere in tutti i modi possibili mille forme animate e inanimate, una' danza universale, un caos agitato d'immagini, che m'eccita il pensiero come lo spettacolo reale d'un vasto movimento svariatissimo d'esseri viventi e di cose. Quando entro nella partizione dell'Ira, mi par d'entrare in una bolgia dell'inferno, in mezzo a una moltitudine d'energumeni, dove ciascuno grida una delle parole o delle frasi notate, e in queste vedo le immagini delle facce accese e gli atti violenti che accompagnano le voci, di cui l'una risponde all'altra, come in un'assemblea politica fuor della grazia di Dio. E le pagine dell'Amore! Non avete idea della dolcezza che mettono nell'animo tutte quelle parole e frasi d'amore ardente, tenero, voluttuoso, disperato , beato , che paiono di tante coppie d'innamorati invisibili, le quali spandano nell'aria, passando di volo, il grido del loro cuore. E così nel vocabolario dei Suoni, voci, rumori, mi par di passare da una sala di concerti in un'officina, dall'officina sur un campo di battaglia, dal campo di battaglia nell'arca di Noè; e scorrendo le pagine del mangiare e bere ho l'illusione di sedere a una mensa di gastronomi eccitati, che non parlino d'altro che di pappatoria, sfoggiando tutta la loro dottrina terminologica intorno all'oggetto della loro passione; e ripassando la raccolta relativa alla Natura, vedo aurore e tramonti, rapide variazioni di tempo, aspetti diversi della campagna, e passo fiumi, corro mari, salgo montagne, scendo nelle viscere della terra, percorro in poche pagine tutte le latitudini e assisto a cento diversi fenomeni del cielo e della terra. V'ho data un'idea del mio metodo? Il quale offre ancora altri vantaggi. Ogni volta che ho da scrivere, rileggo prima le pagine dov'è raccolto un materiale di lingua relativo al mio soggetto, e non solo mi ravvivo nella memoria, in quel modo, in pochi muti, una quantità di voci e di locuzioni che mi possono giovare; ma quella rapida lettura mi dà una scossa alla fantasia, mi desta nella ente una folla d'immagini, che formano come un preludio sinfonico, che sono per me come una prima ispirazione efficacissima al lavoro lie sto per imprendere. Aggiungete che, raccogliendo e ordinando il materiale della lingua in cesta forma, l'atto di riflessione che s' ha da fare sopra una quantità di parole e di frasi dubbie per determinare la divisione in cui si debbono inscrivere, vi fa penetrar più addentro con la mente nel significato di ciascuna; e che la lettura ripetuta di tante serie di modi di senso ne vi assuefà a meditare sulle sfumature dei significati, vi chiarisce il criterio della scelta, vi affina il senso della lingua. In fine, quello che feci e continuo a fare è un dizionario mio, del quale ho una grande padronanza, nel quale ritrovo con grande facilità ogni parola o frase di cui non abbia o tema di non avere esatta memoria; un dizionario in cui godo a tuffar le mani come in un mucchio di monete o di gemme che io mi sia guadagnate o che abbia trovate io stesso a una a una; un tesoro di lingua accumulato con gran cura, che io amo, che mi compiaccio d'arricchire e d'abbellire, come una casa piena di cose belle e utili, perfezionandone a mano a mano l'ordine e l'assetto, con sentimento di proprietario e d'artista. Ecco come studiai e studio la lingua. Mi ci volle molta pazienza in principio; poi feci il lavoro con piacere; ora lo continuo con amore. E non credo he ci sia metodo migliore: per le teste costrutto come la mia, ben inteso.

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A. Brokhaus. Quarto Migliaio. PROPRIETÀ LETTERARIA. Riservati tutti i diritti. Si riterrà contraffatto qualunque esemplare di quest'opera che non porti la firma dell'autore. Milano. - Tip. Treves.

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