Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Una famiglia di topi

205201
Contessa Lara 47 occorrenze
  • 1903
  • R. Bemporad &Figlio
  • Firenze
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
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Si può dire che que' due ragazzi fossero a dirittura cresciuti insieme. E se fin qui non s' è ancor nominato Vittorio Delpiano, gli è che il fanciullo era stato quasi un anno presso il nonno paterno, ricco signore un po' bislacco, che lo adorava a segno da minacciar di continuo la signora Delpiano di diseredare il nipote, s' ella non glielo lasciava vicino il maggior tempo possibile. La vedova, che il nonno non vedeva di buon occhio perchè, a parer suo, aveva portata sventura al figliuolo ch' era morto dopo appena due anni di matrimonio, doveva, pensando all' avvenire di Vittorio, rassegnarsi a star tutto quel tempo priva del suo bambino; e lei si consolava passando molte ore in casa Sernici, dove i ragazzi, per il gran bene che le volevano, erano giunti perfino a chiamarla zia; e carezzava, carezzava Nello, come s' egli fosse la creatura di lei. Quando finalmente Vittorio tornava, si faceva festa, una vera festa del cuore; tutti, ridevano, s' abbracciavano, godevano come poche volte si gode nella vita. Quell' anno, quando il piccolo Delpiano lasciò il nonno, sapeva di già, dalle lettere di Nello, della famiglia de' topi; e Dio sa quanto ne aveva fantasticato presso quel vecchio originale, che si professava nemico giurato di qualunque bestiola, e si vantava che in casa sua, di bestie, entravano soltanto le mosche, perchè venivano dalle finestre, senza invito. Quando poi Vittorio vide i sorci indiani, rimase a bocca aperta dall' ammirazione. - Ma è proprio vero, che conoscono il loro nome? - domandava egli a Nello con un sorriso incredulo e curioso. - Guarda! - rispondeva l' altro, cominciando a chiamar i topini, che accorrevano ubbidienti, a uno a uno, come tanti cagnoli. - Pare impossibile! - esclamava Vittorio, rapito.

Il libro era pieno di figure, inframezzate a' racconti. C' era, fra le altre, la storia d'un bastimento francese, narrata da un vecchio marinaro, che aveva passato tutta la vita a bordo, dall' età di dieci anni fin quasi a' sessanta; e quella era una storia piena di peripezie inaspettate, d' avventure curiose, che il vecchio

La scuderia, rifornita di cavalli e di carrozze, s' animava di nitriti allegri; in cucina, un cuoco francese e i guatteri pigliavano e davano ordini; nell' appartamento de' signori, i tappezzieri mettevano tutto a nuovo, drappeggiando alle finestre e alle porte le belle tende listate d' oro e tessute in Turchia, adattando su le pareti alti specchi di Venezia, vasi cinesi dal pancione celeste tutto draghi e cicogne, armi damascate, gingilli d' ogni sorta, preziosi e di buon gusto. La contessa vigilava in persona il lavoro di ciascuno, e dava comandi e consigli con buona grazia a dipendenti e inferiori. Appunto per codesta sua buona grazia, che non sempre le signore posseggono, ella era adorata e servita più volentieri da tutti. Il conte, quando aveva un momento di tempo, correva a casa a godersi il gradito spettacolo della gioia tornata nella sua buona famiglia, e cercava la moglie per domandarle, sorridendo, s' ella fosse contenta. - Ringrazio Dio perchè tu hai meno pensieri tristi, e a' nostri figliuoli si prepara un miglior avvenire - rispondeva la dolce signora. - Ma quanto a me, lo sai, sono stata contenta nella buona come nella cattiva fortuna. A me basta l' amor tuo e dei ragazzi, e questo non mi è mai mancato, davvero! - Nè ti mancherà mai, mia cara! - le assicurava il marito, tutto commosso dalla bontà di quel cuore, dove non poteva entrar ombra d' egoismo. Dopo avere stretta la mano alla sua fida compagna, il conte andava a trovare i figliuoli. Rita e Nello, che crescevano sempre più diligenti e più bravi, studiavano con maggior zelo dacchè la rinnovata prosperità allietava i loro genitori. Ormai la Rita cominciava a sonar così bene il piano, che il maestro di musica le portava de' pezzi difficili e di molto effetto; e Nello; assai avanti nelle lezioni di disegno, adoperava di già gli sfumini per certe teste copiate dal gesso. Nè pure i topi eran dimenticati dal padrone di casa, sebbene il banchiere avesse i minuti contati. Quelle bestioline, che lo divertivan tutte, avendo ciascuna di loro qualche pregio suo proprio, egli le amava anche perchè da due anni che facevano parte della famiglia, avevano partecipato con lui e con i suoi alle vicende della casa. - Bravo il mio Grosso, che non si stanca di vivere fra i libri! - diceva egli accarezzando Dodò, rannicchiato tra volumi e scartafacci. - I libri, che sono i migliori amici degli uomini, sono i migliori amici anche dei topi, non è vero, Dodò? - Il sorcio letterato fiutava la mano che gli lisciava il dorso; e sentito ch' era quella del suo signore, vi strofinava il musino freddo in segno di saluto. Moschino, alla voce del conte, accorreva, secondo il suo solito, arrampican- dosi su su, per esser preso su la spalla a baciare e pigliar baci. Ragù e la Caciotta facevan capolino dalla loro antica paniera, dove dormivano di preferenza, e s'allungavano sbadigliando a bocca spalancata, tutti contenti, poveri vecchi, se il padrone passava accosto anche a loro. Quanto a Bellino, non si moveva; di modo che la contessa ripeteva a' suoi ragazzi, i quali ridevano come matti, che quello lì aveva l' intelligenza d' un topo impagliato. Chi si faceva proprio carino era Mimmì, sempre più tenero con la Lilia; della quale tutti in casa eran contenti, perch' ella si portava da personcina ammodo, e non era più scappata come faceva prima. Osservando le buoni abitudini e la compita educazione degli altri topi, Mimmì, a poco a poco, aveva acquistato egli pure i loro modi garbati. Un giorno, soltanto, ne fece una assai curiosa, che ricordò ai signori Sernici la sua origine plebea. La Letizia, nel chiuder l' uscio della dispensa, non s' era avvista d' aver serrato là dentro il sorcio bigio, entrato dietro a lei per rivedere il posto dove un tempo s' abboccava di nascosto con la sua bianca Lilia. Questo accadeva verso l' ora di colazione; e da quell' ora fino al momento del pranzo, Mimmì, che sentiva freddo, perchè s'era di gennaio, e ormai avea preso gusto a star su' tappeti e su le pelli, pensò bene di mettersi a rodere una forma di gorgonzola, ch' è un cacio de' più morbidi, e lì, in quell'incavo, rincantucciarsi. Non appena, però, udì metter la chiave nella serratura, uscì fuori; e rasentando il muro, scivolò lesto lesto, e tornò in mezzo agli altri. - Dove t' eri messo, Mimmetto saltò su a domandargli la Rita, che si chinò a prenderlo in mano. Ma subito che se lo avvicinò alle labbra per dargli un bacio, lo scostò da sè con un' esclamazione di disgusto. - Puah! Puzzi che appesti, Mimmì! - diss' ella, nauseata dall' odore del formaggio. La contessa, vedendo il sorcio col pelo insudiciato di giallastro e di verdognolo, capì di che si trattava: Mimmì ne aveva fatta una delle sue. Si mise a ridere, e cogliendo anche quell'occasione per am- maestrare i suoi figlioletti, disse con bontà: - Vedete, eh, quanto ci vuole per arrivare a perdere affatto i vizi contratti nei primi anni della vita? - poi soggiunse: - Adesso si lavi almeno a tre saponate, questo sudicione di Mimmì! - Mimmì, benchè mettesse le unghie fuori e mandasse de' piccoli gridi in segno di protesta, dovette sopportar, suo malgrado, le tre insaponature; dopo, lo risciacquarono nell' acqua limpida e profumata con qualche goccia d' essenza di violette: e finalmente, ben rasciugato e tutto incipriato, potè tornare in famiglia. - Non far mai più di queste goffaggini, sai! - gli disse affettuosamente Ragù - perchè io conosco la nostra signora: nulla le dispiace quanto la mancanza di pulizia. Se Nello, ch' è suo figlio, si sporca le dita d' inchiostro, la contessa non gli dà il bacio della buona notte, e lo benedice di lontano, senza nè meno guardarlo. Oh, no, no! Non lo faccio più, lo giuro! - rispose Mimmì, estremamente mortificato. E mantenne il giuramento, perchè quella fu l' ultima azione da topo maleducato ch' egli commettesse. Quando il bell' appartamento dei Sernici fu tutto in ordine, il conte manifestò alla sua signora l'intenzione di preparare un grandioso ricevimento, per festeggiare, quanto meglio era possibile, il ritorno della loro fortuna. - Inviteremo chi vorrai, quando e come vorrai - gli dichiarò, col suo solito garbo gentile, la contessa - ma prima di far ricreazioni per i grandi, ti chiedo il favore di lasciarmi combinare una serata allegra per i piccoli. - Rita e Nello, a queste parole, guardarono la mamma e il babbo; poi si guardarono tra loro, e divennero di brace in viso, tanto fu vivo e inaspettato il piacere che provarono. Il banchiere approvò subito, felice di contentar la sua cara famiglia; e chiese: - Che genere di divertimento sceglieremo? - La contessa si fece un po' pregare: voleva tener segreta l' idea che le frullava per il capo; voleva che il mistero, ond'ella la circondava, eccitasse maggiormente la curiosità de'ragazzi. Ma supplicata di svelare quali fossero i suoi progetti, alla fine si spiegò: - Daremo un ballo di bambini, un ballo in costume, la sera di Natale. - I fanciulli gettarono insieme un grido di gioia; e cominciarono a saltellare intorno alla madre, tirandole le mani, e baciandola dalla gran contentezza. - Buoni! zitti! fermi! - ordinava la contessa, anch' ella ridendo. - Se non ismettete il chiasso, vi metto in gastigo, e non si parla più di balli! - No, mammina, per carità, te ne preghiamo! - esclamarono i ragazzi, chetàti come per incanto da quella minaccia terribile. E soggiungevano in tòno sommesso: - Vedi, mammina, che siamo buoni.... buoni.... buoni! Raccontaci dunque tutto, mamma bella! - La madre li baciò tutt' e due fra' ricci della fronte; poi prese a dire: - Si farà una festa molto graziosa, ma non affollata. Inviteremo una ventina di bimbi allegri e bene educati, e le loro mamme li accompagneranno qui, vestiti nelle fogge più varie.... - O me, mammina, come mi vestirai? - chiese la Rita curiosa. - O me, o me? - ripeteva Nello, più invogliato della sorella di veder sùbito, almeno con l' immaginazione, il suo costume. La contessa rimase qualche istante sopra pensiero, cercando in cuor suo quel che meglio convenisse al tipo de' suoi figliuoli. - Dunque, mammina, dunque?... - ripresero insieme i ragazzi, che non istavan più alle mosse. - Ecco qua: - fece la loro mamma - tu, Rita, sarai una signora giapponese; e tu, Nello, un cavalleggero di Piemonte Reale del secolo passato. - Tutt' e due batterono le mani, felici: ma volevano maggiori spiegazioni e molti particolari ancora, non avendo nè l' uno, nè l' altra un' idea esatta de' due travestimenti, a' quali la contessa avea data la preferenza. - Vedrete i vestiti quando ve li misurerete - si contentò lei di rispondere; e i ragazzi, discreti e ubbidienti com'erano. capirono di non dovere insistere oltre sicchè continuarono tra loro, dopo le lezioni, a far sogni, commenti e progetti per la sera del ballo. La mattina dipoi, la contessa uscì in carrozza, accompagnata dalla Letizia, a far le compre necessarie; e quando le ebbe fatte, chiamò una brava sarta a lavorare in casa sotto la propria sorveglianza; e, con l' aiuto anche della svelta cameriera, i costumi furono presto al punto da poter esser provati. La stoffa della veste della Rita era di raso d' un celeste pallido, su cui spiccavano de' draghi a bocca ed ali aperte, de' fiori di crisantemo e delle farfalle ricamate in seta a colori e in oro. Le maniche, larghe e sciolte, cadevan giù fino a mezzo il corpo; una cintura altissima di molle seta scarlatta stringeva la vita, annodandosi dietro in un fiocco enorme. - Perchè, nel Giappone, si portano i vestiti così sciolti? - chiese la Rita a sua madre. Perchè le donne di là giù, che mangiano, bevono il thè, ricamano, scrivono, e dipingono in ginocchio, han più bisogno di noi d' aver libere e pieghevoli le membra. - A' piedi, un paio di zoccoletti di legno piccoli piccoli, a punta quadra, e in testa quattro spilloni di filigrana d'argento, che rialzavano i capelli in un groppo, completavano quel costume. La Rita si guardava ogni momento la coda della veste, stretta come quella d'una lucertolina, e sorrideva di compiacenza. - Sto bene, così? Sono bellina? - domandò la Rita. Ma lo domandò una volta sola; perchè la contessa le rivolse uno sguardo così pieno di rimproveri, che la fanciulla arrossì fino alla radice de' capelli. - Una bambina sta sempre bene e appare graziosa quando non sa che cosa sia la vanità - rispose la madre. In somma, il costume della Rita era riuscito veramente bene. Si sarebbe detto che la fanciulla fosse una figurina giapponese,

La mamma di Rita e di Nello, ch' era una bella signora ancor giovane, e si chiamava la contessa Sernici, stava per lo più, mentre i suoi bimbi cicalavano, seduta a un elegante tavolinetto da lavoro, tutto ingombro di sete e di fili d' oro e d'argento, per eseguire a ricamo i più bei disegni a rabeschi, per guarnire a volte dei mobili, a volte dei vestiti o suoi o di Rita. La contessa amava di farsi raccontar dai fanciulli le loro letture, prima di tutto per veder se avevano esattamente capito le cose lette, e poi per giudicar sempre meglio i loro caratteri e i loro cuori dal modo in cui esprimevano l'impressione provata. - Ho piacere - disse la signora a Nello - che tu non abbia paura dei pericoli, e anzi, desideri affrontarli per mare e per terra. Un uomo che mostra d'aver coraggio non solo si fa rispettare da tutti, ma anche prova, quasi sempre, d'aver animo buono e carattere fermo. Il bambino gongolava dalla gioia; anche la sua cara mamma, dunque, approvava quella carriera di marinaro, che a lui sorrideva tanto. Meglio così. Oramai non rimaneva da persuadere altri che il babbo; ma il babbo, quando la mamma, ch' era tutta tenerezza e giudizio per la famiglia, mostrava di desiderare una cosa, non era solito a dirle di no. Dunque?... Dunque Nello si vedeva già con l' immaginazione di fronte al mare immenso nelle notti di burrasca, a uomini selvaggi dal corpo nudo e tatuato di figure mostruose e deformi. A un tratto s'udì giù nella via un organetto intonar le prime battute d'una vecchia mazurka. Rita e Nello non si mossero: ne passare tanti di questi organetti stonati, per le vie! Ma a un tratto udiron gridare: - Svelto, Ragù, venite a far l' esercizio militare! Da bravo; su il fucile! Qui, Caciotta, tirate su tre numeri sicuri per questo signore; svelta! Ah, oggi non ne avete voglia, eh, buona a nulla? Vieni allora tu, Pipetta; prendi il biglietto. Da brava; svelta!... Bene! - I bambini non resistettero alla curiosità, e deposto sopra una sedia il grosso libro illustrato, corsero al balcone. Un individuo mal vestito, con un cappellaccio di paglia a larghe tese tutt'unte, con un organetto appeso al collo per una cinghia, aveva davanti a sè una gabbia di topi indiani, quasi tutti bianchi; che dallo sportellino aperto uscivan sur una tavoletta, a mano a mano ch' eran chiamati per nome dal padrone, e venivano a far ciascuno un piccolo esercizio. - Pupa, su! Su, Nerino! - seguitava a gridar l' uomo; e i poveri animalucci accorrevano, ubbidienti, a tirar fuori da una scatola un cartellino ve de o color di rosa con la sorte stampata,. o un temo da giocarsi al lotto. Qualcuno stava ritto su le zampe di dietro, reggendosi a una stanghetta di legno rozzamente tagliata a mo' di fucile; qualche altro tirava su un secchietto d' acqua appeso a uno spago; e tutti, dopo aver lavorato, si fermavano, mezzo acquattati, a guardar il padrone, come se avessero chiesto scusa di non saper fare meglio il loro dovere. - Oh, mamma! - disse Rita - ci son qui sotto dei topini.... dei topini tanto carini! Se tu ci permettessi di farli venir su, che piacere di vederli da vicino! - Sì, mamma, sì mammina, sì! - pregò anche Nello, con voce carezzevole. La contessa s' affacciò: al balcone in mezzo ai suoi ragazzi; guardò un istante lo spettacolo; poi rispose: - Ebbene, dite a Letizia che scenda un momento a chiamar quell'uomo. - I due fanciulli si precipitarono come due saette fuori del salotto, e, sempre a corsa, diedero alla cameriera l' ordine ricevuto; poi si misero, ridenti e saltellanti, nella sala d'ingresso ad aspettare l' arrivo dei topi. La mamma li aveva raggiunti. Qualche istante dopo, guidato da Letizia, spuntò dalle scale l' individuo col cappellaccio a larghe tese, con l' organetto al collo e la gabbia dei piccoli saltimbanchi in mano. - Entrate, entrate pure, - disse la signora con accento benevolo. Di nuovo ebbe principio la rappresentazione. Con la solita voce strascicata e nasale, l' individuo gridava, alle bestiole attente e spaurite: - Svelto, Ragù; venite a far l'esercizio militare! Da bravo; su il fucile! - Ma Ragù, un topo con la testa nera, che pareva un cappuccio di raso, stava rincantucciato in un angolo della gabbia, appuntando il musino irrequieto e gli occhietti sbigottiti verso il suo padrone. - Svelto, Ragù, - vociò più acremente l' uomo. - Sai cosa t' aspetta, eh, se disubbidisci! - Così dicendo, toccò la bestiola con una bacchetta dalla punta aguzza come uno spillo. S'udì un grido del topino, cui era stato inflitto il castigo, e l' animaluccio si rizzò su le zampine di dietro come per protestare. Poverino! - esclamarono quasi in coro la contessa e i suoi bimbi; e Rita pregò: - Non gli fate male, per carità! - È ostinato sempre, - disse l'uomo per iscusarsi; oggi poi non c' è il modo di farlo lavorare.... Chi non lavora, non mangia - soggiunse con un riso stupido e crudele, dando un' altra puntura al povero Ragù. In quel mentre una topolina di pelame bianco, ma ingiallito dal sudicio, corse a mettersi dinanzi al maltrattato, come per difenderlo o per dividere la punizione con lui. - A te, Caciotta! - le comandò l'uomo - prendi un foglietto con la fortuna per ciascuno di questi signori: svelta! - Caciotta si trascinò vicino alla scatoletta e ne trasse fuori co' denti dei qua- dratini di carta che porse a uno a uno al padrone; poi corse di nuovo a impostarsi dinanzi al suo compagno. - Si vogliono bene, eh? - chiese Nello al girovago dall' organetto, additandogli Caciotta e il topino dal cappuccio nero. - Son marito e moglie, - spiegò costui. Dopo parecchi esercizi di Pipetta e d' altri sorci, che portavan tutti de' nomi bizzarri e volgari, ricominciò il martirio di Ragù. - Ah, vuoi mangiare a ufo, dunque? - diceva l' uomo punzecchiandogli i fianchi e la pancia con la bacchetta - ma te la faccio veder io, bestiaccia! - La contessa, i bimbi, la Letizia, erano tutti dolorosamente sorpresi da quella scena, che certo non s' aspettavano. Nello ebbe un' ispirazione. Allungandosi in punta dei piedi per parlare al- l' orecchio di sua madre, la supplicò di comprare quel topolino così disgraziato. - Mamma, ti prego! Sai come sarò buono! Sai come studierò la geografia! Via, mamma, ti prego! - La Rita udì; e subito anche lei cominciò a strofinarsi alla gonnella materna, a fissar i suoi dolci occhi tutti pieni di lacrime negli occhi indulgenti della contessa. E mentre il piccolo Ragù strillava di dolore, la signora interruppe le sevizie di quel cattivo arnese, dicendogli: - Volete vendere quella bestiola? - Chi, Ragù? - rispose l' uomo maravigliato della domanda. Ma capì a volo che con un po' d' astuzia poteva fare un buon affare. - Vede, signora, - cominciò - queste povere bestie sono il mio pane. Oggi Ragù è malato, dico la verità; ma quando è sano è il più bravo di tutti. Io poi gli voglio bene; lo castigo.... Si sa...; ma gli voglio bene. -

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Moschino, lo abbiamo detto, era uno spiritello curioso, sempre in giro, sempre pronto a cambiar di luogo, con la smania dell'ignoto, con un desiderio di veder cose nuove, che avrebbero fatto di lui un cavalier di ventura, s' egli, per sua disgrazia, fosse stato un uomo, e se fosse vissuto ne' tempi quando girar per il mondo era un' impresa assai meno facile che non al giorno d' oggi. Ben presto, dopo aver percorso su e giù, per largo e per lungo, i due salotti destinati ai ragazzi Sernici e a' loro topi; dopo avere esplorato tutto il resto del vasto appartamento, dove ogni tanto lo ritrovavano rimpiattato in un cantuccio lontano, Moschino fu invasato dall'idea di conoscere il mondo, il mondo immenso che stava di là da que' confini. Ragù e la Caciotta, credendo di sempre più affezionare i propri figliuoli a quella fortunata pace signorile e casalinga, che ormai avrebbero avuta tutti fino alla morte, raccontavano ai piccini tante cose bizzarre, che avean messo una vera febbre di novità in corpo a Moschino. Mentre alla descrizione di strade campagnuole, di città non mai viste, sotto gelidi chiarori di luna e solleoni di fuoco, Ninì e Lilia tremavano come le foglie, Dodò si leccava nervosamente una zampa, e Bellino spalancava un momento gli occhietti rossi, Moschino badava a fantasticare: faceva nè più nè meno di Nello, al racconto delle peripezie marittime del vecchio Marjant.... Si stava bene, sicuro! in quella casa ospitale, non ostante tutti i guai che v' erano capitati: i bimbi facevano da babbo e da mamma a' loro sorcetti; avevan carezze, baci, premure per tutti. Ma in fin de' conti, che male ci sarebbe stato a levarsi per qualche tempo da quella continua sorveglianza, e a imparare a conoscere un tantino il mondo?... se non altro per apprezzar meglio ciò che veniva fatto di godersi in casa?... Il mondo! Questa parola, che per Moschino non aveva un significato preciso, questa parola che gli rappresentava qualcosa d'immenso, di straordinario e d'oscuro, suscitava nel topo giovine una grande paura, mista ad un gran desiderio. Egli si domandava perplesso: - O che cosa può mai contenere il mondo, il mondo enorme? È così grande anche il salotto dove stiamo sempre! È così immensa tutta la nostra casa, ch'io non so, proprio non so, come abbia ad essere il mondo! Di pericoli, dice la mamma mia, ce n'è a bizzeffe; e lei lo sa, povera mamma, che ne ha cansati tanti, quasi per miracolo. Nel mondo, i gatti se la passeggiano da padroni; e i gatti non risparmiano nessun topo, sia uscito di cantina o originario delle Indie.... E gli uomini? Gli uomini, aveva detto la contessa, se ne trovan de' buoni; ma se ne trovan di quelli!... Non importa! Il mondo va affrontato; lo affrontano tutti coloro che hanno il coraggio di stare fra' loro simili. - Moschino non capiva, ma indovinava le lotte ch' era obbligato a sostenere il conte Sernici, e quanto avrebbe dovuto soffrire per arrivare al punto d' accomodare tutte le sue faccende, dando alla famiglia il benessere materiale e morale di prima. E la smania di conoscer lui pure qualche lato della vita, per poi, divenuto vecchio, avere, conte i suoi genitori, molte avventure da raccontare, lo indusse a spiare il momento, in cui la porta delle scale fosse rimasta aperta, per isvignarsela di casa, senza dir nulla a nessuno. Con la confusione che regnava allora nella famiglia Sernici, l'occasione non poteva mancare. Una volta fuori, Moschino, intelligente com' egli sapeva d' essere, anche perchè glielo dicevano tutti; furbo poi, che non c' era il compagno, avrebbe trovato modo di cavarsela veramente bene. Non intendeva, Dio liberi! abbandonare per sempre li luogo della sua nascita, nè i suoi cari parenti; ma un po' di svago voleva pure goderselo. Con tutti questi progetti d' indipendenza, che gli frullavano per il cervellino, passò parecchie notti riposando meno del solito; e un po' in vidiava, un po' compativa tutti gli altri della sua famigliola, che se la dormivano in una quiete perfetta. Erano creature con idee ristrette, pensava Moschino; e lui era proprio un topo superiore. Una bella mattina che la Letizia, rimasta come unica persona di servizio in casa Sernici, aveva lasciata dischiusa la porta delle scale, perchè era scesa un istante a comprar qualcosa per la colazione dei padroni in una bottega lì accosto, Moschino, che, secondo il suo solito, correva qua e là per le stanze, prese la grande determinazione di quel suo viaggio, diremo così, all' estero; e guardato bene che non lo vedesse anima viva, infilò rapidamente l'uscio. Il contatto del marmo delle scale con le zampine avvezze a passeggiare sempre sui tappeti, gli fece subito una sgradita impressione, e un leggiero brivido gli corse per tutto il corpo. - Diamine! - pensò - non si cammina sempre su' tappeti, a quanto pare! - Ma non per questo tornò indietro, ormai era fuori, e qualcosa dovea pur arrivare a conoscere. Del resto, c' è un vecchio proverbio che dice: «Il peggio passo è quel dell' uscio.» Magàri fosse stato fin lì tutto il male per il povero Moschino! Ma non precorriamo gli avvenimenti, ch' è meglio raccontare per filo e per segno.

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Una carrozza a due cavalli che passava ratta come un baleno, e alcuni carri pesanti, carichi di pietre, che facevan tremare tutto il palazzo, gli suggerirono l' idea di rinunziare al viaggio verso la strada; di modo che voltò risolutamente dalla parte dell' orto. Il tempo, vero tempo d' autunno, era piuttosto fresco. A momenti, de' nuvoloni neri si accavallavano oscurando il cielo; a momenti il sole li traforava, scintillando come una spera tutta d' oro. Moschino entrò in un viale fiancheggiato di crisantemi, che cominciavano a fiorire. Su que' pètali gialli, bianchi, carnicini, violacei, svolazzavano due farfallette, ma così esili e piccole, da dimostrare ch' erano le ultime della stagione. Su i rami d' un largo albero di magnolia cantavano alcuni passeri. - Com' è allegra tutta questa gente! - disse tra sè il topino - vuol dir che nel mondo, anche senza che nessuno ci prepari nè da mangiare, nè da dormire, nè.... - Un fruscìo che udì in mezzo alle piante, interruppe il corso de' suoi pensieri. Si fermò, rizzandosi su le zampine di dietro, per vedere di che si trattava, e allungò il muretto, fiutando. Nulla. Tutto era tornato nel silenzio, quando qualcosa, che si mosse proprio accosto a lui,

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gli fece dar un balzo a dietro: era una lucertolina color di smeraldo, che corse via come se avesse visto il diavolo. - Chi sa che signore sarà, così ben vestito! - disse Meschino - del resto, se fugge, vuol dir che non ha intenzione di farmi del male; e poi è tanto più piccolo di me.... - Così tirò innanzi a passeggiare, finché, stanco, non avvezzo com' era a far lunghi percorsi, si sdraiò su l' erba, sotto un cespuglio, e s' addormentò. Dirvi il sogno che fece il sorcetto errante, sarebbe troppo lungo. Vi basti sapere, che, fosse effetto del sonno o d' un certo rimorso della coscienza, Moschino credè vedere la Caciotta andar attorno per i salotti in cerca di lui, inquieta: credè udire la voce di Rita e di Nello chiamarlo per tutte le stanze, e la contessa sgridar forte la Letizia, perchè aveva preso il viziaccio di lasciar ogni tanto la porta delle scale mezzo aperta, e il conte esclamare, più accigliato e accasciato de' giorni innanzi: - S' è perduto anche Moschino, dunque? Qui non c' è più cura a nulla, più testa a nulla! Se si va avanti di questo passo, tornerò a casa una volta la settimana! - La signora contessa aveva risposto da prima un po' seccamente; poi, pensando a quanta pena avesse in cuore il marito, s' era commossa fino alle lacrime; e allora Rita e Nello, vedendo la mamma così angustiata, avevan pianto tutti e due come due piccoli disperati. Moschino, turbato dal brutto sogno, che doveva sicuramente essere una visione, si svegliò sobbalzando. Appena desto, si guardò intorno smarrito; non si ricordava più come si trovasse in quel luogo, nè quando ci fosse potuto venire. Si passò ripetutamente i pugnini rosei su gli occhi, per riordinare le idee confuse, e riprese cognizione dei fatti. Si trovava in quel giardino (Dio sa quanto lontano da casa!) perchè aveva voluto venirci lui; e aveva fatto quel sogno, forse per sua mortificazione.... Intanto cominciavano a farglisi sentire degli stiramenti nello stomaco; i sintomi della fame, ch' egli, fortunatamente, non aveva fin allora provati mai. Sbadigliò più volte; e, non volendo svenirsi, addentò qualche filo d' erba che cresceva lì vicino. Oibò! com' era scipita! Non somigliava davvero a quella bella cicorietta aromatica, che la Letizia aveva ordine dai padroni di comprar tutte le mattine ai topini, perchè si rinfrescassero. Nè c' eran le solite bistecche di carne cruda, nè le patate cotte nel burro, nè il pane inzuppato nell' olio, nè il torlo d' uovo sodo, nè la frutta: tutte le ghiottonerie, di cui CA era uso a veder pieni due o tre piattini dinanzi a sè e a' suoi di famiglia. Pazienza! Aveva voluto far di sua testa; e i capricci costano cari. Ma quello che più gli rincrebbe fu il patire la sete. Oh il buon latte sempre pronto in casa sua dentro la tazzetta di cristallo! E, pazienza il latte! ma quel non aver una goccia d' acqua era una privazione che stava lì lì per diventare una sofferenza insopportabile. Mangiò qualche altro filo d' erba, sperando di calmare anche la sete. Ma nulla. Le fauci gli ardevano ogni momento di più; lo stomaco gli si gonfiava, senza che la fame cessasse. In questo mentre il cielo si fece nero come il carbone, e in lontananza s' udì il brontolìo del tuono, foriero d' un temporale. Moschino guardò in alto. Non aveva mai visto il cielo aperto, nè così paurosamente buio. Quando il tempo era bello, azzurro, tiepido, i bimbi Sernici spalancavano il balcone, e sul balcone, tra' vasi favoriti della contessa, i topini avevano il permesso di pigliar aria. Era un luogo chiuso, sicuro, quieto, dal quale, dopo due passi, uno poteva rientrare in casa. Ma lì, in quel luogo sconosciuto, così grande, dalla vegetazione che lo intricava come un labirinto, dove sarebbe andato Moschino per ripararsi dalla burrasca? Ormai cominciavano a cadere i primi goccioloni, sempre più fìtti e insistenti; il vento, a sbuffi, d'una violenza insolita, soffiava tra le piante rovesciandone le foglie con sibili acuti, che parevano uscir dalle bocche di mille serpenti; il tuono cupo profondo, seguiva a mano a mano più da vicino i lampi che illuminavano di fuoco ogni cosa. Eran passati pochi minuti, quando le scariche dell' elettricità si succedettero quasi senza interruzione, seguìte da un frastuono formidabile, e l' acqua cadde giù a torrenti. Moschino, fradicio mézzo, grondante da capo a' piedi, impaurito di trovarsi esposto a tutta quell' ira di Dio, si mise a correre verso una direzione ch' egli stesso ignorava, poichè tra il sonno, la fame e la paura, non capiva più nulla. Corri, corri, vide aperta davanti a sè la porta assai larga d'uno stanzone enorme, e vi entrò affannato. Era la scuderia di casa Sernici, dalla quale, ne' brutti frangenti in cui si trovava adesso la famiglia, i cavalli erano stati tolti, e venduti. Restava in un angolo, della paglia, del fieno e due cassoni di biada. Sotto uno di quei cassoni Moschino si diresse subito, rimpiattandosi alla svelta.

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Di fuori, l' uragano continuava a imperversare; la forza del vento schiantava i rami degli alberi; contro le vetrate della scuderia l' acqua batteva come una grandinata. A un tratto, Moschino sentì accanto a sè qualcosa che lo solleticava leggermente. Si volse. Era un topo comune, d' un bigio cupo, secco allampanato e col muso aguzzo, che annusandolo l' aveva toccato co' baffi ispidi. Si guardarono tutti

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Ma lì, in quel tristo luogo dov' era capitato per caso, gettatovi dal temporale, stimò una fortuna di poter barattare due parole con qualcuno della sua razza, e s' affrettò a rispondere: - Io sono Moschino dei conti Sernici, originario delle Indie. Mi trovo qui, a dirti la pura verità, perchè son fuggito di casa mia, volendo conoscere il mondo. Ma.... ho veduto che fa cattivo tempo nel mondo, e.... - Non fìnì la frase per superbia, non volendo confessare che già s'era pentito della sua scappata. L' altro, però, gli lesse nel pensiero e dichiarò: - Nel mondo, noi poveri topi si sta male assai. Si va errando per tutti i luoghi più brutti, più sudici, più pericolosi. Gli uomini, se c' incontrano, ci schiacciano con un piede, peggio che se fossimo vipere; si soffre la fame, o per desinare si rosicchia un pezzo di legno tarlato; ci addormentiamo vivi, ma senza sapere se ci sveglieremo più.... - Perchè? - fece Moschino con la pelle accapponata. Il topo comune si guardò attorno sospettosamente; poi disse piano, col terrore negli occhi, queste due parole: - I gatti! - Ce n' è di molti? - chiese, piano egli pure, Moschino. L' altro fece un segno alzando il muso, che voleva significare: - Senza fine. - E.... anche qui? - Tre. Uno soriano, poi, un vero demonio incarnato, è il terrore di tutti.... S' è divorata quasi intera la mia povera famiglia, mio padre; mia madre, la mia topa, i miei bambini; mi rimangono un fratello e un cugino soltanto. - Mentre i due nuovi amici stavano così discorrendo, qualcosa accennò tra la paglia; quattro elastiche zampe di raso spiccarono un salto agile in giù, senza rumore, e due occhi scintillarono nella mezza oscurità mandando fiamme gialle.... Il gatto! si salvi chi può! - sussurrò con voce soffocata il sorcio comune, correndo via in una direzione qualunque. Moschino, alla sua volta, corse come le gambe lo reggevano, ma in direzione opposta. Non era passato un minuto, che delle grida strazianti gli feriron l' orecchio. Era il povero topino bigio, che caduto fra gli artigli del gatto si dibatteva disperatamente.

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Avrebbe voluto cedere alla compassione, e fermarsi; ma a che pro? Che avrebbe potuto far lui, contro quel mostro? Gli sarebbe toccata la stessa sorte, e allora, addio Moschino! E l' idea del pericolo corso gli faceva quasi venire le lagrime agli occhi. Finalmente, Dio solo sa come, egli si trovò di nuovo in giardino, sotto le piante, per quei lunghi viali che ora gli parevano eterni. Ogni cosa era bagnata dalla pioggia torrenziale; l' erbe erano abbattute, i fiori laceri e pésti. Atterrito, ansimante, Moschino girò attorno gli occhietti neri; la notte era ormai scesa: una notte oscura, umida, piena di paure. Quanto tempo poteva egli essere stato lontano da casa? Non abituato a que' calcoli, lo ignorava affatto. Ormai aveva corso tanto, che non udiva più que' gridi disperati, ma li aveva sempre nel cuore, nel cuore che gli tremava. Stremato di forze, s'abbandonò ancora sotto una pianta, i cui rami penzolavano mezzo tronchi, con le foglie arse, quasi che quella pioggia fosse stata di fuoco. Dove andare, Dio mio, a quell' ora? Che fare, lì, solo? A chi chiedere misericordia? Gli era penetrato nelle ossa un gran freddo; e dovunque si voltasse, trovava erbe e zolle fradice. Per un momento pensò alla morte. Forse era sonata l' ora estrema per lui; e sarebbe finito sotto quell' arboscello frantumato, senza il soccorso pietoso d' alcuno, finito con la paura, il freddo, la fame, la solitudine!... Oh, dolce e fìda quella casa ospitale dov' era nato e cresciuto, dove aveva avuto tante cure, tante carezze! Così pensando, rivedeva la sua paniera imbottita, i suoi piattini colmi di ghiottonerie sane, e soprattutto gli pareva d' esser cullato fra le manine della Rita, baciato tanto da Nello, leccato da' suoi genitori e da' suoi fratelli!... Maledetto l' istante che gli era venuto in testa di conoscere il mondo, l' immenso mondo nel quale càpitano tante avventure, l'una più orrenda dell' altra! Maledetto il primo passo, che aveva fatto fuori di casa sua! E d' improvviso si ricordò con acuto rimorso degli insegnamenti di suo fratello Dodò, della storia del topo, e gli tornò alla memoria quel verso:

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Sentiva di non aver più nulla da sperare, e le sue sofferenze, a mano a mano che il tempo passava, diventavano così acute, da fargli quasi invidiare la sorte del povero topino della rimessa. Doveva esser notte tarda. Gli parve di addormentarsi e di tornar a sognare. Intese distintamente la Rita chiamare con voce di pianto: - Moschino! Moschino! Dove sei, Moschino mio? - Ma la suppose una cara, un' ultima illusione della sua fantasia. Come credere, ormai, alla salvezza Se nessun gatto lo divorava, lo avrebbero ucciso le ore notturne co' loro terrori, e la fame e la sete e il rimorso....

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A un tratto, nel buio, brillò un lume che errava qua e là per il giardino. Su la ghiaia sonavano i passi di due o tre persone; su le foglie bagnate quel lume gittava a quando a quando de' riflessi mobili e vivi. Una voce, la voce cara e dolce che il topino fuggiasco conosceva, gridava davvero sempre più da presso: - Moschino! Moschino mio!... - Era la Rita. Un singhiozzo le rispondeva. Era Nello. La Letizia, anch' essa turbata, consigliava ai ragazzi di non disperarsi. - Bisogna farsi coraggio, che diamine! - ripeteva la cameriera a' suoi padroncini, sempre più sconfortati, a mano a mano che le loro ricerche riuscivano senza frutto. Moschino si scosse dal suo torpore sonnolento, quasi mortale; fece uno sforzo supremo e cominciò a muoversi. Non e' era dubbio: egli non sognava, no; erano i bimbi che, vicini a lui, lo chiamavano. Allora Moschino si mise a correre verso di loro; le gambe gli si rinvigorirono come per incanto; uno spirito nuovo gli riscaldò a un tratto le vene; il cuore pareva che gli volesse scoppiare dalla commozione. E quando su l' oscurità del terreno bagnato il topino bianco correndo apparve dinanzi agli occhi de' ragazzi, questi mandarono un grido di gioia, che fu udito dalla contessa Servici, la quale vigilava, da una finestra, quelle ricerche, ch' ella temeva inutili. - L' avete trovato? - chiese la signora tutt' allegra. - Sì, mamma, sì! - gridarono i bimbi; e raccogliendo in mano Moschino, se lo passavano l' uno all' altra per ba- ciarlo e ribaciarlo. Il topolino sembrava impazzito dalla gioia. Con le zampine faceva forza per alzarsi quanto più poteva su le mani dei suoi padroncini, e stringeva loro il mento con le manucce, rendendo furiosamente, quasi per supplicare che non l' abbandonassero, tutt' i baci che riceveva. - Moschino! Moschino mio bello! - esclamava la Rita. - Moschino! Moschino d' oro! - ripeteva Nello. - Bestia scellerata! - diceva la Letizia, con ragione - quanto ci hai fatto penare! Dio ti guardi, se torni a scappar via! - Ah, no, mille volte no! Se la Letizia avesse capita la lingua dei topi, Moschino le avrebbe giurato, come giurò poi a Ragù e alla Caciotta, di non far più di simili follie. Si sa quel che si lascia, lasciando la casa propria; ma chi sa poi quel che si trova, nel mondo, nel vasto mondaccio!

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Alcuni giorni dopo quell' eroica avventura, Moschino, fosse la paura avuta o l'umido preso o il troppo zucchero mangiato per riconfortarsi lo stomaco, cominciò a sentirsi un prurito per tutta la pelle; sicché ogni momento doveva grattarsi fin quasi a farsi uscire il sangue. Su le prime nessuno gli badò più che tanto; ma una mattina che la Rita lo prese in mano e gli sollevò il pelo, lo vide tutto così scorticato, che faceva pietà. Gli eran venute delle bollacce, che stentavano a risecchirsi; e Moschino, per mitigare lo spasimo, vi cacciava dentro le unghie, e faceva peggio. Rita corse piangendo dalla mamma, e le fece vedere il topino. La mamma la consolò, e le promise di chiamare un veterinario. Il veterinario disse che bisognava radere il pelo, lavar bene Moschino con acqua di crusca e ungerlo tutte le sere, prima d' andare a letto, con unguento di zolfo canforato. Povero Moschino! La contessa se lo prese su le ginocchia, gli mise un asciugamano sotto, e, con un paio di forbicine da ricamo, cominciò a levar via quel bel pelino leggiero, che parea proprio una seta. Moschino gridò per un poco; ma alla fine si rassegnò, s' accovacciò con la testolina inclinata da una parte, e lasciò che gli facessero quel che volevano. Povero Moschino! Com' era brutto così, con la pelle rossiccia che gli si vedeva, spelacchiato, le orecchie basse, ingrullito dalla mortificazione! Appena la contessa ebbe finito di tosarlo, il topino, senza nè anche voltarsi in dietro, scivolò

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giù per la veste, e via di corsa a traverso le stanze, andò a nascondersi in un cantuccio della cucina, perchè nessuno potesse notare la sua vergogna. Un topino come lui, il più bello di tutt' i topini, ridotto in quello stato! Che cosa avrebbero detto i suoi fratelli, vedendolo? Quel sapientone di Dodò che gli avrebbe ricordati i suoi ammonimenti; quell' acqua cheta di Ninì, che l' avrebbe guardato di sotto in su, facendo le viste di non badare a lui; quello zuccone di Bellino.... tutti, tutti in un modo o nell' altro gli avrebbero data la baia! Ah! Moschino non ci poteva pensare. E il peggio era che il pelo non gli sarebbe cresciuto prima d' un par di mesi!... Rimase lì fino a sera, quando la Letizia lo sorprese e lo portò a tavola. - Oh povero Moschino! - disse il conte; e gli carezzò la pelle ardente come quella di un uccellino. Moschino s' arrischiò d' andare co' suoi, sperando che non s' avvedessero del mutamento; ma sì! Gli furono tutti intorno a fiutarlo, a mordicchiarlo; così che Moschino, dopo essersi liberato con due buone zampate da' suoi persecutori, si lasciò sdrucciolare giù dalla tavola sul grembo della Rita. - Sì, sì, sta' lì, Moschino mio, povero Moschino, - disse la buona bimba - ti darò io da mangiare, senza che nessuno ti veda. - E così fece. Adagiò Moschino sul tovagliolo, nell' ombra; e ogni tanto gli porgeva un biscotto, una fetta di pera, un po' di latte nel piattino, un po' d' erba: tutta roba fresca, che faceva bene al topino malato di calore. Per tutto il tempo ch' ei restò senza il pelo, Moschino non volle mai nè mangiare nè dormire co' suoi fratelli. Bisognò preparargli un lettuccio a parte, in una paniera ch' era servita a' bambini per la merenda; e a tavola o la Rita o Nello se lo tenevano su le ginocchia e gli porgevano il cibo. Così gli era risparmiata qualunque umiliazione. A poco a poco Moschino guarì: le bolle gli si disseccarono, la pelle gli diventò liscia come il raso, e gli ricrebbe il pelo. Egli potè allora tornare a frequentar la società de' topi; ma guardava sempre i suoi fratelli con un certo sospetto, non tollerando che gli si mettessero a torno per canzonarlo. E quel citrullo di Bellino, che, ci si provò, n' ebbe a uscire malconcio. Una sera, Moschino se ne stava a dormicchiare su la spalla della Rita, la quale, seduta vicino al lume, ricamava la cifra d' una dozzina di fazzoletti per la festa del babbo, che cadeva di lì a qualche giorno. A un tratto, si sentì tirare per il lembo della veste, si chinò e raccolse Bellino. - Come mai, Bellino, a quest' ora? Che vuoi? Hai sete, forse? - E presa la scodellina col latte, ch' era su la tavola, gli diede da bere. In quel mentre Moschino aprì un occhio, e, vedendo bere Bellino, se ne sentì venir voglia anche lui. Scese dalla spalla della padroncina e, percorrendo tutta la lunghezza del braccio, arrivò su la tavola. Bellino beveva da una parte, egli si mise dall' altra. Ma quello strullo di Bellino, che non avea più potuto vedere il fratello daccosto, dopo che l' avevano raso, e che s' aspettava chi sa quale spettacolo, non seppe tenersi dall' andargli vicino e dall' annusarlo curiosamente, specie tra que' solchettini dove il pelo non era ancora spuntato. Moschino, imbizzarrito, lo cacciò via con una zampata, ma Bellino che aveva la testa dura come un macigno, tornò daccapo: e non si contentò di fiutare, ma cominciò anche a mordere, sebbene per chiasso, il fratello. La disgrazia volle che un di que' morsi andasse proprio a cadere sopra una bolla ancora aperta: Moschino diè un grido, s' avventò come una furia su Bellino, se lo cacciò sotto, e a morsi e a zampate l' avrebbe finito, se la Rita non gliel' avesse levato di mano. Bellino, ancora tutto tremante, andò di corsa a cacciarsi nel letto, per paura di peggio; quanto a Moschino, dopo aver cercato a torno per un altro po', risalì su le ginocchia e su la spalla di Rita, s' addormentò, e sognò che il conte, per punirlo d' aver Maltrattato il fratello, lo metteva a pane e acqua. Ma il giorno seguente, in casa Sernici, si dovè pensare a altro; che alle monellerie di Moschino! La contessa s' era svegliata con un febbrone da, cavalli; e fin dal mattino tutti erano in moto. Il conte era corso a chiamare il medico; la Letizia faceva bollire del brodo ristretto; i bambini se ne stavano a lato del letto, caso mai la mamma avesse avuto bisogno di qualcosa. Ai topini non guardò più nessuno. - O che novità è questa! - pensò Dodò quando, venuta l' ora della colazione, vide la tavola sparecchiata. E, balzellon balzelloni, attraversò i salotti, attraversò lo studio della contessa, ed entrò nella camera. Gli scuri della finestra erano chiusi, e la camera rimaneva nella mezz' ombra. Dodò spiccò un salto su la poltrona a' piedi del letto; balzò con un altro salto sul letto, e guardò. In quel momento la contessa, eretta sul gomito, stava bevendo una tazza di brodo che le reggevano i suoi figliuoli. Nello fu il primo a scorgere Dodò, che, zitto a sedere su le zampine di dietro, guardava la padrona, facendo un atto col muso come per dire: - O che si sente? - Mamma! mamma! guarda Dodò che è venuto a farti una visita - esclamò piano il bambino. La contessa voltò la testa, vide Dodò e sorrise languidamente. - Vieni, Dodò, vieni, - diss' ella, facendo cenno al topo; che s' avvicinò, si lasciò carezzare e diede a dietro pianino, per lasciar riposare la padrona. Ma di lì a poco, ecco un altro topo sul letto: è Moschino. Corre, s' arrampica sul guanciale dove la contessa posava la testa, pone le manine sul mento della malata, e comincia a baciarla e ribaciarla su la bocca ardente di febbre. - Grazie, grazie, Moschino bello, - diceva la signora che, quantunque si sentisse molto male, godeva assai di vedersi far tanti attucci da quelle care bestiole. A uno a uno vennero tutti, Ragù e la Caciotta, che ormai si trascinavano a stento, poveri vecchi!, la Lilia, la Ninì e persino quel bietolone di Bellino, che, appena arrivato sul letto, si cacciò sotto il piumino, e s' addormentò. Ma gli altri topini si misero tutti intorno a Dodò; il quale, per farli star buoni, promise di raccontare qualche bella storia di topi. - Sì, sì.... - mormorarono tutti. - Allora state a sentire - disse Dodò. - Questa che vi racconto l' ho letta in un libro scritto tanti e tanti anni a dietro: è anzi la prima storia di topi che si conosca; e l' ha raccontata un grande poeta, il più grande poeta della razza degli uomini, un greco che si chiamava Omero.

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Il topo istruito si ripulì la bocca, si soffiò il nasetto, tossì due o tre volte, e cominciò a parlare nel modo seguente:

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- esclamò la Ninì, quando Dodò, a questo punto; si fermò per pigliar fiato. E gli altri topi che fecero? - saltò su a domandare Moschino. - Ve lo dirò domani, se state quieti: ora bisogna tornare a casa - rispose Dodò - perchè la padrona ha ordinato alla Letizia che le rifaccia il letto. - In fatti la contessa, che si sentiva un poco meglio, s' alzava, sorretta dalla Letizia e dal conte: i topini scesero giù dal letto, e andarono a mangiar la minestra che la Letizia avea preparata nel loro piatto. Il giorno seguente, i topi s' affollarono un' altra volta intorno a Dodò, e lo pregarono di seguitare La guerra dei topi e delle rane. E il buon topo, come que' cantambanchi che raccontano l'avventure d'Orlando e di Rinaldo in mezzo alle piazze, riprese a dire:

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A questo punto Dodò tacque, perchè era l' ora del pranzo. Quel giorno la contessa stava meglio assai, e volle che i topini mangiassero sul letto con lei. Tutti si portarono molto bene, e non insudiciarono nulla, perchè Dodò aveva minacciato di non seguitare il racconto, se i topini mancavano alle regole della buona creanza. Dopo il pranzo, furon di nuovo in torno a Dodò, che riprese la narrazione dal punto dove l' aveva lasciata.

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Oggi bisogna dare a Dodò ciascuno un po' della sua parte di dolce, per dimostrargli quanto noi gli siamo grati della bella storia che ci ha raccontata. - Ma sarà poi vera? - saltò su a dire Moschino. - Anche se non è vera la storia, - rispose Dodò - sarà sempre vero che le creature piccole, come noi, non devono mai cercare di farsi male tra loro; ma star uniti e d' accordo: se no, i malanni d' ogni sorta e per tutti, non mancano. -

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- badava a dir Vittorio, indicando Moschino. - Mi piace più di tutti con quel bel disegnino nero sul dorso! - Questo è un gran birichino; - dichiarava la Rita, sorridendo - ma la mamma dice che si fa perdonar tutto, a furia di grazia e di furberia. - La Lilia poco si faceva vedere: andava frugacchiando un po' da per tutto in casa, secondo il suo solito. Quanto a Bellino, così giuochino com' era, ebbe soltanto un successo di leggiadria, per il candore di neve della sua veste e per gli occhietti che parevano di rubino. Quella che a dirittura sedusse il piccolo Delpiano fu la Ninì. Appena egli la vide, fu preso da una tenerezza particolare per una topina così naturalmente malinconica. O ch' è malata? - domandò con premura. - No, no; - assicurarono i ragazzi Sernici, carezzando la Ninì - sta benissimo; ma non ruzza mai e non bacia mai nessuno. È stata sempre come la vedi, da quando è nata. Vittorio badava a pigliarla in mano, a tenersela accosto alla bocca, a sussurrarle tante parole tenere. E finì col dire: - Ne avete troppi de' topini, voi altri, e non potete attendere a tutti, s' intende.... - La signora Delpiano, che leggeva nel cuore del figliuolo; fece un segno d' intelligenza alla contessa, poi disse: - Che si scommette che Vittorio vi chiede una di queste bestioline, la Ninì, per esempio?... Non è vero che si chiama Ninì la sorcina malinconica? - I ragazzi Sernici si guardarono arrossendo; e più rosso di loro, a dirittura di bragia, si fece il loro piccolo amico. Rita cominciò: - Come si fa.... - E Nello continuò il pensiero di lei: - A star senza la Ninì? - Allora Vittorio, incoraggiato dal sorriso di sua madre e della contessa, trovò le parole giuste. - Se mi date la Ninì, è lo stesso che se la teneste voi altri. Ve la porto sempre qui; sapete che sta bene, che io la tengo come la tenete voi, anzi.... meglio. - Meglio? - gridarono all'unisono la Rita e Nello, meravigliati, quasi offesi. L' altro si spiegò: - Meglio, sì, perché io penso soltanto a lei. - Non te la possiamo dare - dichiarò recisamente la Rita. Nello baciava la topina, e guardava l' amico senza far parola. A un tratto, Vittorio, da bimbo com' era, si mise a singhiozzare e corse a nascondere il viso sul seno della propria mamma. I ragazzi Sernici, che aveano buon cuore, si commossero molto per la pena dell' amico loro; e Rita, la prima, gli andò vicino con belle maniere, a supplicarlo di non disperarsi così; non c' era ragione di piangere;... Nello e lei gli volevano tanto bene.... O via, non la finiva, dunque? Dopo un po' d' esitanza, la bambina andò a dire qualcosa all' orecchio della madre. La contessa protestò. - Non voglio messe piane, lo sai: quando siamo in conversazione, non si parla sottovoce. In tanto - soggiunse ho capito, e son più che contenta. Date pure uno de' vostri topini a Vittorio; e lui gli sarà affezionato quanto voi due.- La Rita sorrise, forse con un' ombra di rincrescimento; non già per mancanza di affetto verso il compagno di suo fratello, ma perchè il dividere dagli altri uno de' membri della famiglia topesca le faceva male al cuore. Nello fu meno inquieto; ciò non ostante disse a Vittorio: - Devi portarcela qui tutte le volte che vieni, bada bene! L' altro, gongolante di gioia, prometteva tutto quel che volevano; saltava. rideva, copriva di baci la bestiola; non fu tranquillo se non quando la contessa Sernici gli ebbe affidata la topina accomodata sopra un lettuccio di bambagia, un vecchio panierino di scuola. E intanto la contessa raccomandava alla signora Delpiano: - Mi raccomando, veh! Bisogna che le voglia bene anche tu. È tanto carina quella piccola sentimentale! Fu così che la Ninì lasciò la dolce casa che l' avea vista nascere. Sulle prime, quando Vittorio, giunto a casa sua, cavò la sorcetta dal panierino, essa non capì di che cosa poteva trattarsi. Girava la testa a torno, annusando; e si meravigliava di tutta quella novità. Guardinga, co' fianchi che le palpitavano forte, col musetto dai baffi mobili e irrequieti sempre volto in su, percorse: più volte in lungo e in largo la stanza dove l' avevano messa, ch' era quella da letto di Vittorio. Sentiva un odor nuovo, sconosciuto, nelle persone e nei mobili. O come si trovava lì sola? Che cosa aveva fatto perchè i suoi cari padroncini l' avessero mandata via a quel modo? Quando avrebbe riveduto i genitori, i fratelli, la sorella e principalmente la sua cara Rita? Gli occhietti neri e malinconici le si velarono di lacrime; ed era rimasta lì immobile sotto un sofà, quando rientrò Vittorio e si mise a cercarla, chiamandola per nome. Ninì non si mosse. Non avea voglia d' ubbidire a chi non conosceva. Cerca, cerca, finalmente il ragazzo la trovò, e la riprese. Le aveva portato un biscotto e un piattino di crema. - Tieni, mangia, Ninì! - ripeteva egli desideroso di vederla subito assuefarsi a lui e diventargli ubbidiente. Ma Ninì non degnò d' uno sguardo il biscotto e nemmeno d' una leccatina la crema, che pure mandava un grato odore di vainiglia. - Vuoi bere, Ninì bella? - chiese il bimbo; e andò in fretta a prenderle un bicchierino d' acqua fresca. Neanche bere, volle! Allora Vittorio se la mise su la spalla, e le pigliò la testolina fra le dita, grattandole dolcemente il collo, come aveva visto che facevano i Sernici; ma la Ninì volle scendere, e quando fu di nuovo per terra, corse a rimpiattarsi, come prima, sotto il sofà, poi sotto un armadio, di dove ci volle del bello e del buono per farla uscire. - Lasciala stare, - consigliava la signora Delpiano al figliuolo. - Se tu le fai paura, non s' addomesticherà mai con te: è meglio lasciarla tranquilla. In tanto, mettile lì vicino da mangiare e da bere perchè non soffra; e a poco a poco lei stessa vedrai che cercherà, di avvicinarsi a te. -

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Ma Vittorio da quell' orecchio non ci sentiva; e continuò a dar la caccia alla Ninì, finchè sua madre non lo chiamò ..a pranzo. Era un ragazzo di buon cuore e, per solito, anche abbastanza ragionevole; ma l' esser egli figlio unico d'una madre vedova, la quale non vedeva che per gli occhi di lui, lo aveva fatto crescere un po' capriccioso e sempre risoluto a non essere contrariato in ciò che gli piaceva di fare. Quel giorno, per esempio, si prese più d' una sgridata, una sgridata leggiera del resto, dalla mamma; perchè avrebbe voluto alzarsi ogni momento da tavola, per andar a vedere che cosa faceva la Ninì. La topina, quando si trovò sola, ricominciò i giri e le ricerche per la camera. Oh, se avesse potuto trovare un buchino donde scappare, e tornarsene a casa sua! In tanto le veniva in mente il racconto spaventevole che Moschino le aveva fatto - delle proprie peripezie nel mondo. Per andare a casa Sernici chi sa di dove bisognava passare! Dal mondo, certo.... E, a questa idea, la Ninì era còlta da uno sgomento indicibile. Perchè, perchè, Dio di misericordia, l' avevano data via appunto lei, così triste sempre? Ah, quella tristezza che l' aveva oppressa fin dalla nascita, senza ch' ella ne sapesse la ragione, doveva essere il presentimento del- l' avvenire, che le si preparava così desolato, solitario, pieno di angoscia! Le bestie son come gli uomini: hanno il loro destino; e guai se il destino è nemico! Su tali dolorose considerazioni la sorprese Vittorio, che avea terminato di desinare, e tornava a tormentarla, per troppa simpatia, s' intende. La topina si lasciò acchiappare, ma non ci fu verso di farle toccar cibo. Annusava ciò che le veniva offerto, poi si tirava in dietro. Per la notte, la signora Delpiano preparò a Ninì una cassettina, dove le fece una morbida materassa; ma la sorcetta, quando tutti furono andati a letto, saltò via: e il giorno dipoi era di nuovo laggiù sotto l' armadio, dove non si poteva pigliarla che a gran fatica. - Se questa bestiola continua a inselvatichirsi e a non mangiare, bisogna assolutamente riportarla ai Sernici - disse la madre di Vittorio al bambino. Ma questi ricominciò a far greppo, e tornaron le lacrime. Non era certo per ostinazione che la povera Ninì non volea mandar giù nè anche un bocconcino. Proprio non le andava; le pareva d' aver un nodo stretto alla gola, come se l' avessero tirata a forza con una corda; e stava lì ferma dinanzi a que' piattelli, dove ogni poco Vittorio ammucchiava frutti, chicche, ogni sorta di ghiottonerie, sperando d' invogliar di qualcosa quella bella topina, così afflitta e così scontrosa. Per altro, nè carezze, nè cibi valsero a nulla: la Ninì rimase indifferente e, ch' è peggio, digiuna. Quello che più coceva a Vittorio, gli era che, non ostante i suoi pensieri per la topina e il piacere che provava vicino a lei, doveva pur andare alle lezioni. Quella di disegno gli era sopra tutte penosa, perch' era sua maestra una vecchia signorina russa, stravagante come dieci cavalli matti, la quale non tollerava nemmeno che il fanciullo alzasse gli occhi durante quell' ora che lei gli stava davanti. Qualche giorno dopo che la Ninì era stata portata in casa Delpiano, capitò, secondo il solito, la lezione di disegno; e, con vivo rincrescimento, Vittorio si separò per un' ora intera dalla sua topina. La Ninì s' era persuasa alla fine, per la gran fame, a sgretolare qualche briciolo di savoiardo, incoraggiata dalle carezze più tenere del nuovo padroncino; ma pensava sempre a tutto ciò che aveva lasciato, e il suo musetto s'era fatto ancor più sottile e malinconico; aveva gli occhi come allargati, a forza di guardar davanti a sè, dove potesse trovare la porta di casa. Ah, se Rita e Nello fossero venuti a visitar Vittorio, ella si sarebbe cacciata in tasca a Nello o dentro lo scollo della Rita, o meglio ancora sotto la grossa treccia bionda che pendeva dalla nuca della ragazza; e lì nascosta, aggrappata, felice, non li avrebbe più lasciati mai, mai! Almanaccando tutto ciò nel suo povero cervellino di topina afflitta, la Ninì badava, come sempre, a rovistare la stanza; spariva sotto il letto, entrava ne' cassetti socchiusi, esplorava ogni più angusto ripostiglio. A un tratto, il cuore le fece un balzo di gioia. Un balcone, dove si saliva per tre gradini, era spalancato. La Ninì corse su. Chi sa che di lì non fosse potuta ritornare presso la sua cara famiglia! C' erano sul balcone alcuni vasi di fiori, rose, camelie, garofani e delle piante rampicanti che ricadevano in fitti rami, per modo da formare de' ricami di verzura lungo la ringhiera di ferro. Impetuosamente, nella smania della libertà, la topina si spinse avanti tra le foglie.... Un grido sottile e acuto risonò per l' aria; e un piccolo corpo bianco, simile a un fiocco di neve, cadde sul lastrico della via, e vi restò immobile.

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La Ninì faceva pietà anche a quelli che avevano il cuore duro più del macigno. In quel momento una testa ricciuta di bimbo s' affacciò al balcone di dove la bestiolina era precipitata: era Vittorio. Gli bastò un' occhiata, e capì tutto. Diè un grido; e, come un pazzo, corse a chiamar sua madre: poi giù per le scale, come le gambe lo reggevano. Facendosi strada tra la gente lì raccolta, raccattò, tremando, la sua topina, e la riportò in casa. Un filo di sangue colava di tra' dentini ambrati della povera creaturina, e le arrossava il pelo fino alla pancia. I baffi lunghi e setosi le pendevano sul nasetto pallido e anch' esso stillante sangue dalle narici contratte; gli occhi erano vitrei, e d' una tristezza nuova: la tristezza della morte. Vittorio, livido in viso, non ostante che sua madre tentasse ogni via di consolarlo, guardava fisso, senza dir parola, la povera Ninì, che gli s' irrigidiva in mano. Di scatto, si buttò sur una poltrona, con la testa nascosta, e scoppiò in un pianto convulso, che parea lacerargli il petto. La notte ebbe un febbrone e dovette starsene in letto due giorni.

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A quando, a quando, da poco più di un mese, la Lilia scompariva, nè si facea più vedere per ore e ore: e ciò accadeva anche se Rita e Nello chiamavano i topini a colazione o a desinare; anche se li chia- mavano per metterli a dormire, la sera. - O dove può cacciarsi quella spensierata della Lilia? Cosa può fare che le stia a cuore più del pranzo e del sonno? - si domandavano i ragazzi. E la Rita soggiungeva: - La povera Ninì non le faceva mai di queste birichinate! La Lilia, invece, è una sorcetta disamorata verso di noi! - Il ricordo della Ninì era sempre accompagnato di sospiri e rimpianti. Vittorio era un' ottima creatura: non aveva ombra di colpa in quella disgrazia; ma in tanto i fanciulli Sernici si eran giurato di non dar più via alcuno de' loro cari animalini: e da quando era morta la Ninì, si sarebbe detto che, se fosse stato possibile, essi avevan raddoppiato l'affetto alla famiglia de' topi. La Lilia, dunque, li teneva in pensiero non poco con le sue continue assenze; temevano da un istante all' altro di vederla sbucare da qualche luogo chi sa come ammalata: poteva leccar del verderame sur un pezzo di metallo; inghiottire uno spillo caduto; ferirsi le zampine con un frantume di vetro; mangiare uno zolfanello; far altri sbagli, naturali in un topo, e.... morire, Dio guardi! anche lei. Quando con la famiglia dei padroni, anche la famiglia dei sorci era tutta riunita a tavola, la Caciotta si guardava intorno dubbiosa, inquieta, e diceva piano qualcosa all' orecchio di Ragù. Moschino e Bellino non s' avvedev ano di nulla: l'uno badava a scegliere, da quel ghiottone che era, tutto quanto trovava di meglio a portata de' suoi dentini; l' altro, nella sua beata stupidaggine, non capiva come si desina di mala voglia, se manca uno della famiglia. Un giorno che la Caciotta e la Rita si mostravano, ciascuna per conto suo, più afflitte del solito, Dodò prese una risoluzione seria e coraggiosa, veramente degna di lui. - Appena mi lasciano solo - disse fra sè - mi metto io a caccia di quella vagabonda di mia sorella; e le faccio tale una ramanzina, da levarle per sempre il ruzzo di dar dispiaceri a chi le vuol bene. - Detto fatto, mentre tutti lo credevano quietamente, profondamente addormentato negli scaffali della libreria, Dodò scese bel bello sul tappeto, e cominciò a perlustrare da per tutto. Sollevandosi su le zampine guardava fra le pieghe d'ogni tappezzeria, sotto il sedile delle poltrone e il piede dei torcieri, dietro la scansia della musica, dietro i paraventi giapponesi.... Nulla! Nella sala da pranzo erano certi antichi armadi normanni di legno scolpito, dove i Sernici tenevano i servizi di porcellana. Dodò entrò in quegli armadi, per gli sportelli rimasti socchiusi, e con ogni cautela, senza romper niente, frugacchiò tra le pile dei piatti e una pila di vassoi, tra le fruttiere e l' insalatiera; la Lilia non c' era. Pensò allora alla guardaroba, e vi corse. - Che vuoi, professore? - domandò sorridendo la Letizia, che stava in quella stanza a stirare delle camicie. Dodò finse di non vederla neanche, e continuò con ogni diligenza l' ispezione. Siccome la Letizia era anche occupata a mettere a sesto la biancheria, così stipi e cassetti erano spalancati. Il topo serio penetrò per tutto, fiutò, osservò; la Lilia non c' era. A Dodò venne allora in mente la cucina. Quella capricciosa di sua sorella era anche capace d'essersi ficcata là! E, determinato di volerne vedere a ogni costo la fine, Dodò visitò minutamente anche la cucina. Nulla, nulla.... nè pure tra il carbone e la brace! La Lilia era introvabile. A un tratto tese l'orecchio, e si rizzò su le zampe in atto di chi ascolta attentamente: gli era parso d'udire un bisbiglio vago, ma singolare, poco lontano. Eran parole tronche e sommesse nella lingua dei top ; oh, non s' ingannava! Attigua alla cucina era la dispensa: un luogo fresco e asciutto, quasi buio, dove i conti Sernici erano soliti di tenere provviste di formaggio, salumi, olio, vino, civaie e persino frutta. L' uscio della dispensa s' apriva due volte al giorno: prima di colazione e prima di pranzo; cioè quando la Letizia, la quale, essendo una perla di onestà, godeva la piena fiducia dei padroni, v' entrava a prendere quello che potesse abbisognarle. Ma poichè non c' erano in casa nè gatti, nè cani che rubassero la roba, e i topini se ne stavan continuamente, nutriti e pasciuti come principi, ne' salotti e negli studi, accadeva che non sempre la Letizia si ricordasse di serrare la dispensa. Quel giorno, di fatti, c' era, fra la porticina e il muro, un vano comodo e largo. Dodò vi si avvicinò in punta dei piedi guardingo, curioso. Poi entrò. Dentro, dietro una fila di bottiglie, la voce della Lilia mormorava dolcemente; e le rispondeva una voce di topo affatto sconosciuta a Dodò. A lui il cuore batteva: non sapeva che pensare. O con chi mai ragionava così, di nascosto a tutti, parenti e amici, la sorella? Non visto nè udito, egli s' appostò di qua dalla fila delle bottiglie, e quasi trattenendo il respiro, si pose in ascolto. La Lilia seguitava un discorso avviato da un pezzo. - Ma sì, si sono accorti tutti d' un cambiamento in me. Io che ero tanto ghiotta, sto senza pranzo, per venire a trovarti, e ripeterti che ti voglio bene.... - Mi vuoi bene? Proprio sul serio mi vuoi bene? - domandava l' altra voce. - E potresti dubitarne, - rispondeva la Lilia - quando per te faccio tanti sacrifizi? La mia buona mamma sta in pena, la mia dolce Rita mi cerca.... O come hai coraggio di non credere che ti voglio bene? - Il topo sconosciuto sospirò; sospirò, come un' eco leggiera, la Lilia. Lui riprese: - Ma come farò, se ti debbo veder più di rado, come tu mi proponi, per acquietare i tuoi di casa? Io soffro quando non ti vedo. Sei così bella, mia Lilia! e sei tanto buona.... - La topina si lasciava cullare dalla dolcezza di queste parole, che le scendevano al cuore come un balsamo; poi sospirava ancora, dicendo: - Oh, Dio mio! Dio mio, che disgrazia che tu non sia un topo indiano, povero Rosicalegno! - Il topo ignoto tornava a sospirare e filosofava: - Sì nasce come si nasce; si è quel che si è! - Ma io ti giuro che non ti dimenticherò mai, che mai sposerò un altro! Tu mi credi, non è vero? - E Rosicalegno le baciava piano piano, la manuccia, pieno d'amore e di rispetto, e diceva: - Chi sa? Se ti presenteranno un bel topo come te, d' una grande famiglia, che possa offrirti quanto c' è di meglio al mondo, un letto morbido, noci, crema, e liquori a discrezione, io sarò presto dimenticato.

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- si mise a singhiozzare la Lilia. - S' io non avessi la famiglia, alla quale non voglio dare dispiaceri anche maggiori, verrei con te, fuggirei dove tu volessi, anche a costo di patir la fame.... - A questo punto Dodò, che aveva udito abbastanza, fece capolino tra una bottiglia e l' altra, e tossì forte. La Lilia e il suo innamorato misero un piccolo grido di paura, balzando come due molle. Il loro primo istinto sarebbe stato di scappare come saette, se Dodò non avesse ordinato: - Fermi! - S' arrestarono tutti e due, come cambiati in statue di sale. Al topo sconosciuto s' era fatta pallida la punta del naso; la Lilia tremava per paura che suo fratello non assalisse quell' altro con tanti morsi, da lasciarlo lì mezzo sfranto. Dodò, invece, non diede in escandescenza; ma dopo essersi passate le mani su la fronte, come per raccoglier le proprie idee, cominciò a dire: - Questo che ho veduto è brutto; e ch' è brutto lo prova il fatto che voi vi nascondete. Quando uno si nasconde, vuol dire che si vergogna. - Dodò mio, se tu sapessi.... - l'interruppe la Lilia. - Zitta, pettegola! - gridò il topo savio; e seguitò: - Mi meraviglio come una sorcetta avvezza a ogni bella maniera, educata all' affetto della famiglia, si permetta di parlar con un topo estraneo alla sua casa e, quel ch' è peggio, di razza diversa. - Di' pure, di' pure inferiore! - mormorò Rosicalegno, con accento umile e rassegnato. Dodò era buono. Questa modestia lo commosse profondamente, e lo dispose subito in favore del poveraccio, che gli stava davanti. Era un topo comune; ma bello, grosso, di forme eleganti, col mantello d'un bigio chiaro come la pelle di cincilla, col ventre e le braccia d'un bianco d'ermellino. Gli occhi vivi e neri avevano un'espressione d' intelligenza e di dolcezza, che attirava la simpatia a primo tratto. Dodò gli disse con benevolenza: - Non esistono razze inferiori, perchè davanti a Dio, che ci ha creati tutti, non ci sono, per nascita, nè inferiori, nè superiori. Sono le nostre azioni quelle che c'innalzano o ci abbassano. E tu diventeresti dicerto un topo inferiore se continuassi a tenere in pena i miei, per istartene qui a chiacchierare con mia sorella.... - Amico - rispose Rosicalegno, incoraggiato da quelle parole generose e giuste; - se la Lilia e io s' è fatto questo sbaglio, gli è che non possiamo vederci apertamente; ma tu non puoi figurarti quanto ci vogliamo bene.... - - Non puoi figurarti quanto ci vogliamo bene! - fece eco la Lilia. - Zitta, sfacciata! - l' interruppe di nuovo Dodò; che riprese, voltandosi dalla parte di Rosicalegno: - Orsù, dammi retta. Siccome io sono d' un carattere leale e risoluto, e non mi garbano i mezzi termini, ti espongo francamente una mia idea. Così la faccenda non può continuare. Anche s' io non la scoprivo, si sarebbe giunti, prima o poi, a conoscer la verità; la Lilia sarebbe stata rinchiusa in gabbia, per levarle il ruzzo, e tu.... - Io sarei stato ucciso, come sarò ucciso di sicuro - rispose con tristezza il povero sorcio. Dodò, se il caso non fosse stato tanto grave, trattandosi del poco giudizio di sua sorella, avrebbe sorriso. Si vedeva proprio che Rosicalegno non conosceva affatto la famiglia Sernici, tutta compassione per gli uomini e per le bestie. In quella casa non s' uccideva nè pure una mosca. Tutt' al più avrebbero potuto mettere in dispensa qualche trappola, non per far male al sorcio, ma per pigliarlo ammodino, se sciupava le forme del parmigiano, e portarlo in cantina, dove poteva sbizzarrirsi con altri suoi compagni. Più d' una volta la Letizia aveva avuto quest' ordine dai padroni. - Non sarai ucciso, non aver paura! dichiarò Dodò con tutta certezza. Basta che tu mi ubbidisca e faccia il topino perbene. - Che debbo fare? - domandò, sempre turbato, Rosicalegno, - Ecco qua: in vece di stare ne' nascondigli e ficcarti in tutti i buchi più oscuri, se gli è vero che tu ami la mia sorella, devi mostrarti ai signori, e venir proprio in mezzo a noi. - Ah mai! mai! - esclamò tutt' impaurito l' estraneo. - E perchè? - Perchè la mia razza è disprezzata, perchè son brutto, perchè son povero, perchè non ho avuto nè educazione, nè istruzione, io! - Nel dire queste parole, gli venivano i lucciconi; e guardava la Lilia come un povero spazzacamino potrebbe guardare la figliuola di un re. La Lilia, per dissimulare la commozione interna che la straziava, s'era messa a lisciarsi la testa, tanto per avere la scusa di strofinarsi gli occhietti. - Non è il caso di far tanti discorsi - ripigliò calmo Dodò. - Io conosco la nostra famiglia; e ti assicuro che invece d'essere scacciato e maltrattato perchè non sei indiano come noi, se ti mostri agevole e grazioso, avrai cure e carezze. - Coraggio, Rosichino mio, coraggio! - susurrava la Lilia all' orecchio dell' amico, a cui aveva messo quel nomignolo per affezione. - Coraggio, coraggio! - ripetè Dodò, che questa volta non isgridò la sorella. - Si fa presto a dire: coraggio! - ripicchiava l' altro; - ma quando si è topi non si è leoni. Io, per amore della Lilia, mi butterei nel petrolio ardente; ma sento che le gambe non mi reggono, se debbo veder de' signori. Non ci sono avvezzo, io; sono un selvaggio. - Prova; - gli ordinò Dodò - perchè se, dopo tutta la tolleranza che ho avuta e i buoni consigli che t' ho dati, ti ritrovo ancora nei cantucci con mia sorella, la Lilia la mordo a sangue; e quanto a te.... quanto a te, so io come ti concio. - Coraggio, Rosichino mio, coraggio! - badava ancora a susurrare la Lilia. - Verrò - promise finalmente Rosicalegno, che non sapeva resistere alle moine di quella topa. - Verrò; e sarà quel che sarà! - Sarà il tuo matrimonio e la tua fortuna, credimi! - disse Dodò, sicuro del fatto suo. Poi, avvicinatosi al topino bigio, gli diede un bacio fraterno sul muso; e tirando la propria sorella per una zampa, le ordinò: - Marcia al tuo posto, tu! E senza voltarti indietro. -

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Del resto, vedo che questo topo nè pure vi serve; e farete presto a sostituirlo con un altro. - L'uomo insistè: - Creda, signora, che quando è sano, è il più bravo. - I bambini, vedendo ormai le trattative avviate, non avevano nè lasciavano più pace. - Che cosa ne volete, infine? - chiedeva Nello, impazientito. - Se vi muore - osservò Rita - vi pentirete di non avercelo venduto. - Quest' ultimo argomento dovette persuadere il girovago, perchè disse: - La signora mi darà venticinque lire. Creda, glielo regalo. Venticinque lire un topoi - esclamò la Letizia congiungendo le mani e pensando, certo, che in cantina ce n' erano a bizzeffe. - Vi do quaranta lire di Ragù e della sua femmina. - Sì, sì, mamma; Caciotta! Caciotta! - gridarono i ragazzi saltellando dalla gran gioia. E riflettevano ad alta voce: - Così si terranno compagnia! Così saranno felici insieme tutt' e due! - Ma l'uomo sollevò nuove difficoltà. A sentir lui, non ostante che avesse tanti altri topi intelligenti e ben disposti a far i saltimbanchi, la contessa lo rovinava. Non avrebbe più saputo come fare a guadagnarsi la giornata. Ma invaghito dallo scintillìo di due marenghi d' oro, che la signora aveva tirato fuori dal portamonete, dopo qualche altra chiacchiera levò Ragù e Ca- ciotta dalla gabbia, e li consegnò a' suoi novi padroncini. Chi sa di quei cuori di bimbi e di quei cuori di topi quali battevano più forte in quel momento!... Ragù e Caciotta non pensarono certo ai loro compagni di sventura, che ripigliavano la via delle fatiche e degli strapazzi; tanto dovettero esser dolcemente stupiti di trovarsi fra le manucce morbide e gentili di Rita e di Nello. - Mamma, vedi, vedi, come son buoni! Non mordono affatto. Oh, carini! - La contessa sorrideva, tutta contenta di veder così felici i suoi figli. - Oggi - disse loro baciandoli fra' ca- pelli - avete fatta un' opera di misericordia: avete consolati due afflitti, perchè davvero questi due poveri sorcetti erano i più disgraziati di quella gabbia. - E concluse con la sua gran pietà di cuore: - Chi è buono con le bestie, è buono anche con gli uomini. -

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- I bimbi s' eran chinati a prendere in mano la topina, e la guardavano premurosi da tutte le parti. Dodò capiva bene la lingua dei padroni, ma non poteva parlarla; quand'an- che, però, l' avesse parlata, non avrebbe certo fatto la spia; tanto più che Rosicalegno prometteva di presentarsi a fare il dover suo. - Verrà? Non verrà? - pensava la Lilia con un' angoscia che nemmeno lei avrebbe saputo descrivere. La giornata passò quietamente per tutti; i topini dormirono e mangiarono come al solito; soltanto Dodò parlò a lungo con la Caciotta e con Ragù del progetto ch' egli aveva in testa riguardo a sua sorella, se le cose si mettevano come sperava lui. La sera stessa, i signori Sernici, co' loro ragazzi e i topi, erano a cena; la Lilia sgretolava qualcosa di mala voglia: Moschino s' era scottata una manuccia, posandola su l' orlo d' un vassoio caldo; ma divorava lo stesso, come un affamato, un pezzo di carne grassa: la Caciotta e Ragù mangiavano senza troppa delicatezza, ma anche senz' avidità, da sorci che, pur avendo conosciuto il sapore del pan secco, non si buttavano, come pazzi, su le cose buone. Dodò pigliava i suoi bocconi, serio e grazioso, dal piatto stesso del conte e della contessa, ammirato e lodato, non soltanto dalla Rita e da Nello, ma da tutte le persone che capitavano in casa. Bellino s' impinzava senza preferenza di sorta, e senza che nessuno scegliesse per lui quel che meglio gli conveniva: tanto, a lui bastava di empirsi la pancia. Aveva inteso più d' una volta la contessa dire a' suoi figliuoli: - Carini miei, si deve mangiar per vivere e non vivere per mangiare. - Ma egli non capiva nulla, nè di cibi, nè di sentenze; perciò badava a buttar giù quanto più poteva, senza darsi altro pensiero. A un tratto un rodìo sommesso in un canto fece voltare il conte: - Perbacco! - disse - m' è parso di sentire il rumore d'un topino, laggiù.... - Tutti si voltarono insieme con lui verso la parte indicata, ch' era l' angolo d' un gran divano. - È vero! - esclamò Nello; poi soggiunse: - Ma se i topi son tutti qui! - E si mise a contarli: - Uno, due, tre, quattro, cinque, sei; ci son tutti! - Il rodìo continuava. - Letizia, prendete la candela, - ordinò il conte, dacchè la lumiera di mezzo al soffitto mandava in quell'angolo una luce troppo fioca. La cameriera ubbidì; e allora si vide chiaramente un topino bigio con la pancia bianca, con gli occhi scintillanti che parevano uscirgli dal capo, e fra le zampine tremanti una crosta di pane caduta di su la tavola.... - Un topo! - gridò la Letizia. - Un topino! Un topicciòlo! - gridarono i fanciulli, stendendo la mano per acchiapparlo. Ma Rosicalegno (era lui!) fuggì sotto il divano. - Poverino! - si mise a dire quel cuor d' oro di Rita. - I nostri han tante belle e buone cose, e lui non ha altro che le briciole del loro pane.... poverino! - Se si dovesse dar petto di pollo e crema a tutti i topi di cantina!... - esclamò la Letizia, non potendosi trattenere dal ridere. - Io darei da mangiare a tutte le bestie del mondo, potendo! - rispose Nello, per insegnarle a parlare come si deve. - Magari, si potessero raccogliere in casa tutti gli uomini e tutti gli animali che soffrono! - sospirò quell' angelo della contessa Sernici. Il grosso Dodò, che aveva inteso e visto tutto, pensava intanto: - Quando uno è bestia, è bestia. - Oh, guardino! guardino! - gridò la Letizia, additando verso il posto di prima. Per terra, ma un po' più vicino, il sorcetto bigio fiutava in aria col naso mobile in torno al quale s' apriva la raggiera dei baffi. Un istante si rizzò su le zampine, come se avesse tese le piccole braccia a farsi pigliar su. - Mimmì, Mimmì, Mimmì! - chiamava la Rita con una voce da uccellino, per non ispaventare la bestiola; e chetamente gli andò accosto. Il topo tremava visibilmente; ma non si moveva, come incantato. La Rita allungò la mano, e lo prese. Rosicalegno, per un suo istinto selvaggio, si voleva divincolare; ma la fanciulla si mise a baciarlo su la testina e a grattarlo sul collo. - Mamma! mammà! - diceva in tanto - ho sentito raccontare che i topi comuni puzzano: questo no davvero; sa un odor tiepido di pelo pulito.... - Com' è carino! - ripeteva Nello, che lo voleva lui in mano. - Letizia, portate una gabbia da uccelli vuota - ordinò il conte. - Giacchè questo messere, a quel che sembra, vuol far parte della nostra famiglia, bisogna educarlo come gli altri. - I bimbi battevano le mani. La Caciotta e Ragù ridevano sotto i baffi biancastri; la Lilia era tutta lieta dell' avvenimento; Moschino guardava con grande curiosità il nuovo arrivato; Bellino s' era rifugiato dietro una fruttiera, impaurito; Dodò seguitava a masticare, ripetendo in cuor suo: - Questa è opera mia. Si fanno opere buone, quando si è saggi e istruiti. - Appena la gabbia fu portata, e la manina della Rita s' introdusse pian piano dallo sportellino, il topo straniero spiccò un salto, e si rincantucciò accosto alla parete di fil di ferro. - Ora diamogli subito qualcosa che ili piaccia - propose la contessa. - Voi, bimbi, li conoscete i gusti dei topini. -

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Nello affettò una pera, e pigliando il centro pieno di semi, lo porse al nuovo venuto; che si mise subito a mangiarlo con bel garbo e buon appetito. - Bravo Minimì! Bravo Mimmì; carino!... - gli dicevano i ragazzi, dandogli quel nome che Rita gli aveva messo. E mentre egli divorava quel cibo nuovo girandolo e rigirandolo tra le manine, tutti i topini venivano intorno alla gabbia a osservarlo e a fiutarlo, spalancando gli occhietti vivaci. - Ben venuto! - dicevano nella loro lingua Ragù. e la Caciotta. - Ben trovati! - rispose il forestiero. - Sei parente dei topi di scuderia? chiese Moschino, che si ricordava del povero sorcio ucciso dal gatto davanti a' suoi occhi. - No: vengo dai tetti, io. - O perchè sei tutto bigio, mentre io sono tutto bianco? - domandò quell' asino di Bellino, con la bocca aperta come davanti a un fenomeno. - Son bigio perchè Dio mi ha fatto bigio, - rispose l' altro, con tono di rincrescimento. - Vedi che ti ho dato un buon consiglio? Ormai sei accettato - sentenziava Dodò. - Grazie, bello mio, come t' amo! - mormorava la Lilia con tenerezza infinita. Son venuto per te, mia cara Liliuccia! - rispondeva lui. - Prendi un pezzettino di zucchero, adesso! - diceva la Rita al suo nuovo amico. - Bravo Mimmì! Mimmì è bravo! - gridavan tutti, divertendosi a vedere quel povero zotico addomesticarsi così presto e volentieri. Il nome di Mimmì rimase dunque al topino bigio. Di fatti, quello di Rosicalegno non gli s' addiceva più, ora che egli rosicava de' biscotti con la vainiglia, come facevano gli altri della sua nuova casa.

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Stava bene in quell' abito di panno turchino con le rivolte rosse e i galloni d' argento, in quei pantaloni a coscia di pelle bianca serrati negli stivali neri ad alto gambale. Ciò che lo divertì più di tutto, fu la parrucca bianca con la coda stretta da un fiocco, e su la parrucca il cappello a tre punte, che gli dava un' aria birichina ed elegante, da chiamare i baci. In tanto la contessa aveva fatti preparare senza saputa de' figliuoli, dei piccoli biglietti d'invito su cartoncino roseo a caratteri d' oro, con a capo un curioso disegno a colori. Il disegno rappresentava un topino nero in atto di porger la mano a una topina bianca, la quale portava fra le orecchie un ramoscello di fior d'arancio, e sul biglietto si leggeva: « Margherita e Lionello dei conti Sernici hanno l' onore d' invitare la Signoria Vostra Illustrissima al matrimonio della

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Questi bigliettini furono spediti a dodici o quindici famiglie d' amici, e diretti ai bambini, che alla lor volta si misero in allegria, quando seppero della festa che gli aspettava. Quasi tutti, o poco o molto, conoscevano i topini di Casa Sernici; e il nome della Lilia, la sorcetta tutta bianca, non era nuovo per nessuno di loro. Ma chi può figurarsi quanto fantasticassero ne' giorni che precedettero la riunione famosa? - O che sarà questo matrimonio? - badavano a domandare a' loro genitori e parenti, rapiti all' idea d' assistere a una festa così completa di bimbi e di bestioline. I genitori e i parenti non sapevan che rispondere; ma, certo, se la contessa Sernici aveva preso a far qualcosa, doveva riuscir bene; perchè v' eran poche signore piene di cuore e d' intelligenza come lei. Finalmente si arrivò alla felice serata del Natale. I saloni de' Sernici eran tutti splendidamente illuminati; gruppi di piante fiorite li decoravano profumandoli. Soltanto l' ultima sala, quella attigua allo studio della contessa, rimaneva ermeticamente chiusa; e per quanto Rita e Nello avessero fatto, non aveano potuto penetrarvi. Tra le nove e le nove e mezzo quasi tutti gl' invitati si trovarono riuniti. Erano piccole marchese di Pompadour, coi capelli incipriati, graziose nelle vesti cilestrine e color di rosa; Turchi barbuti da' pantaloni larghi, dal turbante bianco, con in bocca una pipa più lunga di loro; contadine della Brettagna con le berrette puntute e alate, il fazzoletto di pizzo incrociato sul seno e la crocetta d' oro appesa al collo per un vellutino; c' era un soldato romano del tempo degl imperatori; un Greco con la gonna a pieghe e la cintura carica d' armi di cartapesta; un trovatore del Medio Evo col liuto a tracolla; una zingara col vestito rosso e una miriade di medagline su la fronte e sul petto; poi pescatori e canottieri con le reti e co' remi. Vittorio Dalpiano era un bel mago, con un abito sciolto di stoffa nera, bizzarramente disegnata di mezze lune d' argento, di soli d' oro e di segni cabalistici. In testa portava una specie di mitria a cono di tela dorata, e gli avevano appiccicata al mento una barba bianca, che gli scendeva lunga sul petto. Al vederlo, i suoi compagni ridevano a più non posso, tanto era buffo. Quando i bambini ci furon tutti, un' orchestra nascosta dietro una spalliera di camelie cominciò a sonare della musica a ballo. - Oh, che allegri valzer! Che armoniose mazurke! E sopra tutto, che quadriglie imbrogliate! Quante risate e quanto buon umore in quella società di creaturine felici! Il bello fu quando Vittorio e parecchi altri bambini andarono a domandare ai padroncini di casa quando si celebrava l' annunziato matrimonio della Lilia con Mimmì Rosicalegno. Rita e Nello ridevano. O che significava quella domanda? Che ne sapevano loro del matrimonio? - Ma sì, ma sì che si sposano, e voi altri ci fate la burletta! - disse una bambina in costume da ciociara. I piccoli Sernici protestarono che quella era la prima volta che ne sentivano parlare. Allora parecchi di que' fanciulli tirarono fuori il biglietto d' invito, e lo mostrarono alla Rita e a Nello. - Guardate! Guardate! - dicevano in coro. La Rita e Nello capirono. Era un'improvvisata della loro cara mamma, per rendere ancor più gioconda quella serata.... E corsero dalla contessa, buttandosele al collo. - La Lilia è sposa, eh? La Lilia è sposa! - Sì, e la piccola festa è completa! Vedrete se vi ho saputi contentare quanti siete, bimbi adorati e buoni topini. - Dopo queste parole, la signora fece un cenno a un servo, e la porta dell' ultima sala, la sala del mistero, spalancò i suoi battenti. Tutti si precipitarono là dentro. C' era una grande tavola in forma di ferro di cavallo, imbandita riccamente di servizi di porcellana fiorata e di argento, con una fila di piccoli vasi pieni di rose fresche, inframmezzati a' candelabri accesi, che splendevano come gruppi di stelle. Nel vano del ferro di cavallo sorgeva una tavola rotonda anch' essa, ben apparecchiata, ma con piatti minuscoli, da bambole, e delle coppe basse di cristallo rabescate d' oro. Là su la tovaglia stavano Ragù e la Caciotta, invecchiati ma allegri; Dodò, contento dell' opera sua; Moschino, più spiritello che mai; Bellino che girava gli occhietti meravigliati da torno, intendendo o poco o nulla, e finalmente la Lilia, con al collo un nastrino di raso bianco dov' era attaccato un mazzolino di fior d' arancio artificiale, e Mimmì adornato d' un nastrino scarlatto, in segno di gioia. Tutti i bambini s' affollarono intorno alla tavola dei topi, gridando: - Viva gli sposi! - un grido che mise una paura birbona in corpo a Bellino. Chi carezzava la Lilia; chi ammirava la grossezza di Dodò, chi il musivo furbacchiolo di Moschino. Anche Mimmì, che nel suo genere era un bel topo, fu giudicato assai grazioso con quella collana rossa, che spiccava sul suo pelo nero. E nè pure alla Caciotta, a Ragù e a Bellino mancarono gli elogi e i baci. Vittorio pensava alla sua povera Ninì. Oh se ci fosse stata anche lei a quella bella festa! Poco dopo cominciò la cena. Prima degli altri furon serviti i sorcetti. Non ci mancava altro, che gli sposi non avessero avuta la precedenza! Nelle piccole coppe fu loro versato del vino di Marsala; su' vassoi, adattati a loro per la grandezza, ebbero del pesce in salsa maionese, de' petti di pollo arrosto, torli d'uova sode, grumoli di lattuga, formaggio fresco, crema co' savoiardi e noci. Per un rinfresco di nozze topesche non c' era male, mi pare! A' bambini, poi, fu offerta una cena da far invidia ai grandi quando si trovano alla tavola del Re. Il giorno che la contessa l' aveva ordinata, era stata un' ora d' orologio in colloquio col cuoco, scervellandosi a trovar tutto quello che ci può esser di più squisito e in pari tempo di più sano, per lo stomaco delicato e per l' ingenua ghiottoneria dei ragazzi. Bisognava però convenire che la cena non sarebbe potuta esser migliore. I bimbi mangiarono a quattro ganasce, bevvero, risero, cicalarono. Che dirò della famiglia dei topi? Moschino e Bellino, quello per avidità, questo per ignoranza, s' eran già buttati su le noci. Ma Dodò li ammonì, nella loro lingua, che le noci si mangiano all' ultimo. E tutti l'ubbidirono, e si portarono da gente educata. Mimmì, lui, faceva quel che vedeva fare a Dodò, tanto per non isbagliare ; e guardava teneramente la sua sposa, tutta bianca, davvero, come un giglio. - Come ti voglio bene, cara Lilia! le ripeteva piano. - Oh, anch' io a te! - gli rispondeva la sposa - ma voglio anche tanto bene al nostro buon Dodò, che ti ha così ben consigliato. Vedi come siamo felici per opera sua! - Sicuro, sicuro.... - sentenziava la vecchia Caciotta - chi dà un buon consiglio fa il più grande dei regali! - C' era nella sala un gran rumore di forchette e di coltelli, di bicchieri cozzanti fra i brindisi, di risa, di piccoli gridi. Ma in tanto gli occhi di que' bimbi correvano spesso a un alto paravento, che mascherava tutt' un angolo della sala. O che cosa ci poteva esser là dietro? Rita e Nello si stringevano nelle spalle; nè anche questo sapevano. Doveva essere un' altra sorpresa gentile e gradita. Così fu. Quando il banchetto infantile ebbe termine, il paravento venne tolto; e apparve agli occhi incantati dei fanciulli un magnifico albero di Natale che portava, tra le sue fronde, una miriade di candeline verdi, azzurre, rosse, gialle, lilla, tra un intricamento di fili d' oro, d' argento e di rame, che ne rendeva più vivo lo splendore. E tra i lumi e i fili metallici pendevano (frutta e fioritura meravigliose!) un subisso di regali; premi d' una lotteria in cui vincevan tutti, perché ciascun regalo recava il numero d' una piccola cartella, toccata in sorte a uno de' fanciulli. Oltre a ciò, le bimbe ebbero tutte indistintamente un braccialetto d' argento, e i bimbi un medaglioncino da orologio con la leggenda: Sii buono con gli umili una a leggenda che rivelava l' affetto e la pietà di casa Sernici per tutti i bisognosi; e anche per le povere bestie.

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A Rita e a Nello la mamma aveva data una graziosa canestra con un coperchio ricamato in lana a rosoni rossi per farne un nido ai loro nuovi piccoli amici; e questi, dapprima guardinghi, incerti, annusando con più incredulità che diffidenza quel letto elegante, s'eran poi quietamente accoccolati fra i pezzi di tela fina che i padroncini mettevan loro lì dentro a mo' di materasse. E lì dentro schiacciavano dei sonni di ore e ore, mentre Rita e Nello erano occupati nelle loro lezioni. Appena in libertà, i bimbi correvano a vedere che cosa facessero i due topini. Caciotta stava benone; soltanto dopo aver col girovago mangiato sempre un po' di pane nero e raffermo, bagnato nell' acqua, il trattamento dei prigionieri, le pareva curioso, poverina, d'aver adesso a sua disposizione i cibi più squisiti. Ne' primi tempi ella nè pure capiva il valore dei piattini che i padroni le preparavano con ogni cura e premura, togliendo dal proprio piatto quel che c' era di meglio. Il latte, per Caciotta, fu a dirittura una rivelazione. Che differenza con quel brutto pentolo di creta sbocconcellato, mezzo pieno d' acqua sporca, ch' era stato, fin allora, tutto quel ch' ella aveva per dissetarsi, quando stanca di star in piedi, di tirar il secchio, di cercar i biglietti della fortuna, provava il bisogno di bagnarsi la bocca! Quando vide il latte dentro un piattino di cristallo dorato, che Rita le porgeva tutta sorridente, non seppe se faceva bene o male a gustarlo. Ma perchè ormai tutto

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quello che la circondava le era nuovo e le tornava gradito, si fece animo e, per curiosità, allungò la linguetta e cominciò a leccare. Bono, bonissimo, il latte! Le scendeva come un balsamo fresco e odoroso giù giù dal musino dentro lo stomaco! Bevve lungamente, deliziosamente, e non si sarebbe più staccata dall' orlo del piattino, se non avesse pensato di far sentire il latte anche a Ragù, che, poverino, ridotto a mal partito com' era, ne aveva anche più bisogno di lei. Ragù si mosse lentamente dal suo giaciglio, e venne al piattino, dove appoggiò le manucce rosate, assaporando con voluttà la candida bevanda. - Come sono contenti, mamma! come gli piace il latte ! - esclamavano Rita e Nello, battendo le mani dall' ammirazione. Così fu per la carne, che a' topini piaceva più tosto grassa: del pesce, di cui lasciavano giudiziosamente le lische; de' legumi, fra' quali preferivano le patate cotte col burro. Ma il torlo d' uovo e i dolci erano la loro festa. Non gli date molti dolci, - raccomandava la contessa Sernici ai suoi figliuoli - i dolci in quantità son dannosi anche ai bambini; riscaldano, mettono sete; possono, a volte, far venire la febbre e anche far morire. - La Rita e Nello, sapendo per esperienza propria come i bimbi più obbedienti siano i più felici, davano ascolto a tutto quel che diceva la mamma; così che a Caciotta, e soprattutto a Ragù, finchè non fu guarito completamente, dettero soltanto dei pezzetti di fruite can- dite, ogni tanto, per far loro un regalo. - Chi vuol esser sano, dev' esser pulito - ripeteva la contessa ai suoi ragazzi, ch' ella soleva lavare e strofinare da capo a piedi ogni mattina. E anche ai topi convenne abituarsi come i loro padroncini. Fu Caciotta la prima che incominciò i bagni; tanto più che nella gabbia del girogavo le si era ridotto il pelo di tutti i colori fuor che bianco, e più ruvido d' una spazzola di saggina. I ragazzi, aiutati da Letizia, prepararono una catinella d' acqua tiepida, dove la topina fu immersa fino al collo. Caciotta, tutta tremante dalla grande impressione che le produceva questa novità, aveva messo fuori l' unghie, appuntate come quelle d' un gattino; non già per far male a Rita, che la lavava, ma per il natural timore d' annegarsi che hanno siffatti animalucci. Rita la prese per la schiena e la tenne ben ferma, con delicatezza, s' intende; poi la insaponò tutta, e con uno spazzolino passò e ripassò ne' punti in cui il pelo era più macchiato; alla fine mise Caciotta in un' altra catinella d' acqua chiara, egualmente tiepida, dove aveva versata qualche goccia d' acqua di Colonia. Dopo questa seconda lavatura, la Letizia rasciugò la topina con un panno di tela, anch' esso leggermente caldo; e Nello volle incipriarla con la polvere di riso della mamma, che sapeva di violette. Caciotta, la quale cominciava a sentire il piacere d' esser pulita, si lasciava fare, stando ormai quieta. Quell'acqua le aveva dato al pelo una lucidezza che non si era mai sognata; quella cipria dall'odor soave di violette le metteva addosso un benessere fin allora sconosciuto. Che cari bimbi que' suoi padroncini! Che gentile signora quella contessa, la quale avvezzava i figliuoli così pieni di pietà per tutti gli esseri piccoli e disgraziati! Dio, certo, ama anche i poveri topi, creati da Lui, come tutta l' immensa famiglia dell' universo! Così doveva ragionar Caciotta, mentre, dopo il suo primo bagno, s' abbandonava a chi sa quanti pensieri, e finiva di pettinarsi e di ripulirsi da sè, passandosi rapidamente le manucce su e giù per il nasino roseo e per il collo, leccandosi e morsicchiandosi il ventre, il dorso e la coda. Ragù, quand' ella ritornò nella paniera imbottita, dov' egli l' aspettava, quasi non la riconosceva più. Nella loro lingua topesca si mise allora a farle un monte di complimenti, dicendo: - Caciotta mia, sei più bianca della luna, adesso! Il tuo pelo è più morbido della seta floscia; più odoroso della vallata delle Rose! Lascia ch' io ti baci gli occhi, che splendono più dei rubini! lascia ch' io ti ripeta che il mio amore per te è un mazzo di fiori che non avvizzisce mai! -

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I tuoi occhietti spiccano in mezzo a quel cappuccino bruno come due brillanti neri. Anche tu, appena guarito, sarai tutto lavato e profumato come me. Ormai abbiamo trovato dei padroncini che ci colmano di buone grazie, e che s' ingegnano di farci dimenticare tutte le pene sofferte nella nostra vita da zingari. - Ragù, rassicurato su l' avvenire, dichiarò, volgendo qua e là la testina con gli occhi lucenti che piacevano tanto a Caciotta: - Adesso, se avremo dei figli, non ci metterà più paura l'idea che i nostri piccini facciano una vita di stenti, di pun- zecchiature e di fame!... - Caciotta accostava allo sposo il musetto col naso mobile, tutto roseo in mezzo alla raggiera dei lunghi baffi (tra' topi, curiosa! hanno i baffi anche le femmine), e già sognava le gioie d'una famigliuola di topolini, che Rita e Nello avrebbero saputo educare con ogni cura e ogni gentilezza. A poco a poco Ragù s' era pienamente ristabilito in salute. I fianchi, prima scarni, che gli facevano due incavi, s'eran venuti arrotondando; il pelo, che prima qua e là gli mancava, gli era ricresciuto raffittendosi per modo, che Rita appena gli ci poteva passare il pettine, e doveva contentarsi di spazzolarlo come un piccolo manicotto. Siccome la contessa Sernici non intendeva che i suoi ragazzi trascurassero gli studi, così essi s' occupavano di Ragù e di Caciotta nelle ore di ricreazione. Gli era allora che si faceva la pulizia; gli era allora che insegnavano ai topi a seguirli come cagnolini da una stanza al- l' altra, a prendere il cibo dalla bocca, come due piccioni, e altri simili garbi. Con gli antichi esercizi non li affliggevano più: non si parlava, certo, di scegliere il biglietto verde o color di rosa della sorte. Soltanto Nello aveva detto: - Sarà bene, però, che Ragù non si dimentichi a dirittura del fucile. Chi è stato soldato, non è vero, mamma? dev'esserne contento. - Contento e superbo; - rispondeva la contessa. - Ma il povero Ragù ha presa una malattia sotto le armi, e ora, Nello mio, bisogna che tu lo consideri come un veterano inutile al servizio. - Poi soggiungeva sorridendo : - Piuttosto, se Ragù e Caciotta avranno dei figli, faremo militare un di que' piccolini. -

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Un giorno la contessa Sernici e i suoi bambini erano a colazione; e c'erano anche i due topi, perchè la piccola Rita s' era messa in testa d' insegnare alle sue bestioline le regole della buona creanza. La Letizia portò in tavola delle uova affogate, in un bel vassoio d' argento; e subito la Caciotta e Ragù, che la fame a quell' ora la vedevan per aria, vi corsero sopra, senza punto aspettare d' esser serviti. Ma il vassoio era caldo, e i topini si dovetter tirare addietro con le zampine scottate. - Poverini! - esclamò la bambina, vedendo che le sue bestioline badavano a leccarsi in fretta e in furia le zampe, per lenirne il frizzore. - Via, via, il male non è poi tanto grande! - disse la signora. - Così impareranno un' altra volta a non servirsi da sè; che non istà bene. - Infatti la Caciotta e Ragù se ne stavano acquattati, girando gli occhietti brillanti ora su l' uno ora su l' altro de' loro padroni; e quando un ovo intero fu posto nel loro piattino, vi s' accostarono piano, con garbo; appoggiarono le zampine su l' orlo, come due persone a modo, l' uno da una parte, l' altra dall' altra, e cominciarono a mangiare adagino adagino, senza mostrarsi troppo avidi, appunto come vedevano fare a Rita e a Nello. - Che avete fatto oggi a scuola, ragazzi? - domandava intanto la contessa a' suoi figliuoli. - Un po' di tutto, mamma, - rispose la Rita. - La maestra ci ha spiegato la divisione; poi ci ha fatto ripetere la lezione di ieri su le regioni d' Italia; poi ci ha dato il tema del componimento per domani. - E tu, Nello? - Io ho fatto l' asino - disse Nello, ch' era un po' burlone. - Come sarebbe a dire? - L' asino, sicuro, l' asino; o che c' è di male? - L'asino - cominciò egli con voce alta e monotona, imitando i ragazzi che imparano la lezione come i pappagalli - è un animale domestico, il più paziente di tutti, che serve all'uomo..., un animale domestico..., il più paziente di tutti.... - Ohe, ohe, che cos' è questa storia? - saltò su a dire la contessa, aggrottando le ciglia. - Scherzo, mammina, - disse Nello avvolgendo un braccio intorno al collo della sua mamma, per rabbonirla. - Gli è che oggi avevamo davvero la lezione di nomenclatura; e appunto su l'asino. - Sai bene che non si scherza con le cose di scuola. La scuola dev' esser sacra come la chiesa. - Non lo farò più, mamma, - promise Nello un po' mortificato, abbassando gli occhi sul piatto. In quel momento la Letizia, che doveva portar il caffè e latte co' panini imburrati per la fine di tavola, entrò tutta turbata nella sala da pranzo, e domandò alla padrona: - Perdoni, signora contessa: li ha presi lei i tovaglioli per il caffè e latte? - Io, no, - rispose la signora. E soggiunse: - O che si sono smarriti? - Mah!... io non ci capisco nulla. Gli avevo messi nel cassetto di sotto della credenza, e non mi riesce più di trovarli. - O come va questa faccenda? Basta, porta il caffè e latte: i tovaglioli si cercheranno; intanto, prendine degli altri in guardaroba. - La donna portò il caffè e latte; ma scappò in fretta a cercare i tovaglioli che mancavano. Dove potevano essere andati? Lei avrebbe giurato che di lì non gli aveva mossi; e pure non c'erano! E non era entrato nessuno, nessuno! Proprio, era il diavolo che ci metteva la coda! E frugava, e rimescolava, e buttava tutto per aria: tempo perso! Quando la contessa Sernici e i suoi figliuoli si furon levati di tavola, la contessa andò a cercare la Letizia, e le chiese: - Be', gli hai poi ritrovati questi tovaglioli? - Signora mia, non me ne parli: io, proprio, mi ci sbattezzerei! - La signora conosceva la Letizia per incapace di commettere una cattiva azione; ma d' altra parte non voleva nè anco ch' ella fosse così sbadata da non sapere dove avesse messa la roba che le era stata data in consegna; così che fissò la donna severamente, e le disse: - Guarda bene di ritrovare que' tovaglioli, perchè mi dispiacerebbe assai d'aver affidata sinora la casa a una mosca senza capo.... Tu sai se te ne voglio, del bene; ma intendo che al mio servizio ci sia della gente che sappia dove ha la testa. - All'udire quelle parole della sua buona padrona, la Letizia non potè più tenersi, e diede in un dirotto pianto. La contessa stette a guardarla un momento; e vedendola così afflitta e smarrita, non ebbe cuore di rattristarla di più. - Via.... - disse - che c' è da piangere? Una volta si può sbagliar tutti. Animo, su: cerchiamo insieme. Ma sei poi certa di aver riposti que' tovaglioli nella credenza? - Sì signora;... - rispose la donna ancor singhiozzando. In quel momento s' udì Nella gridare dall' altra stanza: - Mamma! mamma! vieni a vedere! - La signora, non sapendo di che si trattasse, accorse subito; e trovò Rita e Nello che accoccolati davanti a un cantuccio della sala, tutto nascosto da una tenda pesante di velluto paonazzo, si tenevano i fianchi dal ridere. - Che c' è? - domandò la signora. - Guarda, guarda, mammina! - La contessa si curvò, e vide la Caciotta tutta affaccendata a tirar dentro con le zampine e co' denti qualcosa di bianco che strascicava per terra.... Guardò bene: era un de' famosi tovaglioli.... Alzò la tenda: c' eran lì dietro, tutti! - Ah, brutta ladra! - esclamò la contessa fra stizzita e ridente. - E io che me l' ero presa con quella poverina!... Letizia! Letizia! - Comandi! - gridò Letizia arrivando lei pure.

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- esclamò la donna, e buttatasi in ginocchio, s' affrettò a trarli fuori prima che la Caciotta avesse tempo di rosicchiarli e sciuparli. - O perchè ha fatto questo - domandò la signora. - Pareva tanto buona, la Caciotta! - In quel frattempo la Letizia aveva preso la topina in mano, e l' andava palpando da tutte le parti. - Ora capisco! - gridò alla fine. - Sa che c' è, signora contessa? La famiglia cresce. - Come? la Caciotta?... Già, la Caciotta fra qualche giorno sarà mamma d' una mezza dozzina di musini bianchi e neri, bellini tanto, che parranno, sa bene, gli ambasciatori scioani che vennero a Roma.... E per questo rubava: voleva preparare le fasce a' suoi piccini.... - A tale notizia la Rita e Nello si misero a saltare e a strillare battendo le mani; parevano ammattiti dalla contentezza. La madre badava a dire: - Fermi! fermi! State boni! Chetatevi! - Ma sì: era come dire al muro. Alla fine, vedendo che con le buone non c'era verso di farli smettere, la contessa disse alla Letizia: - Letizia, va' a dire al cuoco che oggi il dolce dev' esser fatto per me e per il conte soltanto: i bambini non hanno voglia d' assaggiarne. - Bastò questo, perchè improvvisamente si ristabilisse la calma. Mogi, mogi, con la coda fra le gambe, come cani frustati, Nello e la Rita s' avviarono nella sala da studio a fare i cómpiti per la scuola. La Letizia, sapendo che la padrona non disdiceva mai gli ordini, andò a far l' imbasciata al cuoco, e la signora s' avviò verso il suo salotto da lavoro.

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Era Ragù che avendo inteso tutta quell'ira di Dio, andava, ora che non c' era più alcuno, a domandare notizie e a recare conforti alla moglie. Da quel giorno, la Caciotta fu trattata nella famiglia Sernici con ogni sorta di premure. I bocconi più ghiotti eran per lei; per lei i baci e le carezze de' bambini; la stessa signora le aveva dato un bel pezzo di bambagia, perchè la topina potesse preparare a' suoi piccoli un nido più soffice; e la Letizia, che le aveva tenuto un po' il broncio per via de' tovaglioli, alla fine s' era riconciliata, e di nascosto le dava qualche buona cucchiaiata di brodo col semolino, per tenerla in forze. Quanto a Ragù, non si può dire come paresse lieto e commosso all'idea d' aver de' figliuoli. Stava sempre accosto alla sua sposa; la mordicchiava piano sul collo per farle piacere, e si buttava sempre, dormendo, in un canto della canestra per lasciarle libero tutto lo spazio. - Dio mio, - mormorava ogni tanto la Caciotta con le lagrime agli occhi - Dio mio, come mi sento bene! - E nel suo umile cuore di topa non sapeva trovar parole per ringraziare la Provvidenza che non abbandona nè anche gli esseri più piccini e più disgraziati. Non passarono due settimane che la Caciotta diede alla luce cinque creaturine, tutte rosee e spelate, grosse come mosconi, che strillavano in coro senza chetarsi. Figurarsi la gioia di Rita e di Nello, quando, tornati dalla scuola, si videro venir incontro la Letizia, che, tenendo una mano chiusa su l' altra, diceva: - Indovinino che c'è qui dentro! - Le furon tutt' e due addosso, le aprirono le mani per forza, ed esclamarono subito: - Oh carini! oh come sono piccini! oh poverini! - Ci volle del bello e del buono prima che la contessa potesse persuaderli a lasciare in pace quelle bestioline che, in quel momento, non avevan bisogno d' altro che della loro mamma. In fatti, la Caciotta, che gli andava cercando tutta smaniosa, s' arrampicò su la Letizia, se ne prese delicatamente uno in bocca, e ridiscendendo andò a portarlo a quel modo nella canestra. Tornò poco dopo, e ne prese un altro; e così a mano a mano, reggendoli sempre co' denti, finchè non gli ebbe ripresi tutti. Allora si distese su loro, e cominciò ad allattarli. I bambini della Caciotta eran tre maschietti e due femminucce, e crescevano belli e sani, ch' era un amore a vederli. A poco a poco si eran coperti d'un pelo morbido e lucido come il raso, e avevano aperto gli occhi. Due eran tutti bianchi, come la mamma; tre altri avevano il cappuccino nero, come il babbo. Il padrino e la madrina erano stati Nello e Rita, e avevan chiamati Dodò, Moschino e Bellino i maschi, Lilia e Ninì le femmine.

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Ogni poco, quando eran liberi, i loro padroncini li andavano a riguardare, pieni di tenerezza per que' corpiciattoli che di coperti di raso si facevan come coperti di felpa. - Non ho mai voluto alla mia bambola di Parigi la metà del bene che voglio a queste creaturine! - dichiarava la Rita, che pure, quand' era più bimba aveva adorata la stupenda puppattola regalatale un giorno di Natale dal babbo; una puppattola che pigiata un po' sullo stomaco proferiva distintamente: papà e mammà con una vocetta nasale da pappagallo. Nello, per non essere da meno della sorella, dichiarò che, quanto a lui, da che Ragù e la Caciotta erano entrati in casa, aveva quasi lasciato in un canto quel cavallo meccanico che la mamma gli aveva finalmente concesso l' anno avanti, per la sua festa. E sì che correva così bene per le viottole del giardino, e si poteva guidare come un cavallo vero! - Gli è, bimbi miei, - spiegò la contessa - che al vostro cuore e alla vostra intelligenza, poichè il Signore nella sua bontà vi ha concesso l' uno e l' altra, i poveri cuori e le oscure intelligenze di queste bestiole corrispondono meglio di qualunque bel giocattolo inanimato. Di fatti, guardate come i vostri topini cominciano già a conoscervi e a volervi bene! - Era vero: i cinque piccolini, vispi come tanti demonietti, che ora si rincorrevano fra loro tirandosi per un orecchio o per una zampina, ora si ruzzolavano facendo capriole sopra i tappeti, non appena udivan la voce di Rita e di Nello, venivano di corsa verso l' uno o l' altro, annusando loro le dita. Moschino, ch' era il più ardito di tutti e anche il più allegro, fu il primo a salire sur una mano di Nello, e dalla mano a dar la scalata al braccio, per andare poi a posarsi su la spalla dove, dalla gran consolazione, batteva i dentini color d' ambra. Poco tempo dopo, tutti i fratelli di Moschino avevan seguìto l' esempio suo; e Rita e Nello non potevano accostare una mano alla tavoletta bassa dov' era collocata la canestra che faceva da nido, senza che subito quell' agile orda topesca non gli assalisse da tutte le parti. Ma la canestra fu abbandonata dai sorci giovani quando smisero di pigliar latte. La buona contessa, che voleva tutti felici intorno a sè, uomini e animali, soleva ripetere che le bestie o si tengono bene, o non si tengono. Quell' obbligarle poi a stare in una gabbia o in una paniera le avrebbe fatto l' effetto d' aver imprigionato crudelmente dei poveri esseri, che per loro natura abbisognano d' aria e di libertà. Stabilì, dunque, che que' topini potessero girare per la casa a loro agio, purchè, se avessero fatto qualche guaio, fossero puniti con una tiratina d' orecchi: erano anch' essi bambini, nella loro specie, e i bambini, si sa, vanno educati: altrimenti farebbero un monte di male a sè medesimi e agli altri. Cosicchè i figliuoli di Ragù e della Caciotta, contenti come pasque, presero a scorazzare per tutto; ma segnatamente per due stanze che a loro dovevano sembrar delle piazze immense: il salotto da lavoro della contessa e lo studio de' ragazzi, ch' erano attigui, e nè anche divisi da un uscio, ma solo da una tenda orientale. Fu allora, che il diverso carattere dei cinque sorcetti ebbe modo di svilupparsi e manifestarsi. Dodò, uno de' maschi dal cappuccio nero e tutto il resto del corpo affatto bianco, scelse subito per suo domicilio una scansìa nella grande biblioteca della contessa Sernici. - È un topo di biblioteca! - osservò ridendo la signora; e spiegò a' suoi ragazzi che si sogliono chiamare topi di biblioteca quegli uomini studiosi i quali passano la vita fra i libri. Soggiunse poi, rivolta all' animaluccio: - Bada bene, Dodò, di non farmi dei guasti! Se hai voglia di rosicchiare, ti metto qui de' giornali vecchi; ma rispetta i libri, sai, bada bene! Dodò ascoltava, attento, battendo i dentini dalla gioia d'esser lasciato in quel luogo. Ci eran le file di libri assai belli e ben rilegati in marrocchino, in bulgaro,

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Ma non era certo il valore morale di quei volumi che potesse importare a Dodò. A lui piaceva innanzi tutto la mezz' ombra di quella libreria, che gli dava modo di dormire in pace; poi lì stava tra un profumo vago di pelli e in mezzo al molle contatto de' velluti, che gli andava a genio di molto. Era un topo d' un carattere quieto; tendeva a ingrassare come un padre priore; lasciava scherzare chi voleva: quanto a lui, gli bastava d' esser molto carezzato, di dormire come un ghiro e di mangiare. Questi erano gl' ideali della sua vita. - Fortuna ch' è nato negli agi, quando la nostra infelice esistenza s' è cangiata in un paradiso! - diceva a volte la Caciotta a suo marito, vedendo Dodò placidamente accoccolato dentro la libreria o mangiare a tavola con un appetito formidabile. Della loro origine in casa del girovago e dei viaggi zingareschi compiuti con lui, la vecchia topa doveva, a volte, intrattenere i propri figliuoli; perchè Nello e Rita li trovavano certi giorni tutti riuniti su qualche sofà, in atto di conversare, e avevano come un fremito ne' musetti, e gli occhi ancor più lustri del solito. Dodò, da filosofo, dopo che i suoi genitori avean richiamate tante dolorose memorie, finiva col ripetere: - Si vede che il buon Dio pensa per tutti. - E con questa saggia sentenza, spiccava un saltino, e su, tornava a rincantucciarsi fra' suoi libri per dormirvi qualche ora prima di ricominciare a mangiare. La Lilia, una topina che, se avesse preso marito, sarebbe diventata un' ottima madre di famiglia, girava qua e là spesso e volentieri in traccia di tutto quel che poteva portare nella sua paniera nativa; nè più nè meno delle formiche, che s' ingegnano tanto per accumulare le loro provviste. E non soltanto s' impadroniva delle briciole di biscotto inglese rimaste a caso

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descriveva con la rozza semplicità degli uomini usi a non far complimenti nè con la vita nè con la morte. A una certa pagina si vedeva il bastimento mezzo inclinato, tra un vapor denso che lo avvolgeva tutto: una gran macchia nera sopra, che voleva dire i nuvoloni; sotto era bianco, non c' era nulla; e voleva dire la spuma de' cavalloni, che si levavano alti come montagne e si spalancavano come abissi. In un' altra pagina il cielo e il mare eran sereni; ma la nave, vicino a una spiaggia bizzarra, dove s' aggruppavano e si confondevano strani alberi e case più strane ancora, appariva circondata di piccoli canotti, pieni di selvaggi, che le s' affollavano ai fianchi tra paurosi, curiosi e feroci. In un' altra pagina ancora si vedeva un vasto porto della Grecia, il Pireo, dove la nave era ancorata, co' pennoni inghirlandati di fiori: le bandiere sventolavano allegre al maestrale, tra fitte file di lanterne di carta colorata che pendevan da tutti i cordami; e sul ponte ballavano ufficiali e signore, gli uni nelle divise scintillanti d' oro, le altre nelle vesti ricche di trine e di nastri. La storia di questi quarant'anni di vita marinaresca era una delle più interessanti del libro per Rita e per Nello. - Vedi, Rita, - diceva il fanciullo alla sorella - il vecchio Marjant è partito come mozzo su la Stella di Francia proprio alla mia età. - E soggiungeva: - Quanto sarei contento se il babbo permettesse anche a me di fare il marinaro! La sorellina, invasa dallo stesso entusiasmo e vaga delle medesime avventure, esclamava: - Anch' io, oh, anch' io! - Ma tu non sei un uomo - le faceva osservar Nello, alzando fieramente la testa, come per attestare la superiorità del suo sesso. Rita, che in questo era costretta a dar ragione all' altro, rimbeccava subito: - Ma nemmeno tu sei un uomo! tutta contenta di dare una mortificazione al fanciullo, minore di lei di due anni. Poi, vedendo ch' egli si faceva rosso in viso, e che quasi gli venivano i lucciconi, lo consolava col dirgli: - Quando sarai grande, pregherò io il babbo che ti faccia far il marinaro, vedrai; ma tu mi devi portar tante belle cose di lontano; voglio uccelli tutti rossi e celesti, pappagalli che sanno recitare il paternostro, come quello che ci ha raccontato la Letizia; voglio una scimmia che serva a tavola, come quella del capitano della Stella di Francia; poi conchiglie color di rosa, grandi come un vassoio, poi.... - Non dubitare, - l' assicurava il fratellino, tornato tranquillo, e già, tutto sorridente all' idea di girare un giorno o l'altro tanta parte del mondo, di veder tanta gente nuova, tanti alberi e tanti

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- A poco a poco, a furia di tirate d' orecchie, la Lilia capì e si corresse. Ma era sempre d' un naturale un po' irrequieto; e quando non poteva far altro, ammucchiava pezzetti di pane, sapendo che per questo non era punita. Bellino poi, diceva la Rita con frase caratteristica, era il servo sciocco della compagnia. Non intendeva nulla, non si curava di nulla: zuccone come ce n' è pochi, stava delle ore e delle giornate intere sur una poltrona che la padroncina gli aveva data vicino al proprio scrittoio, gli occhi chiusi affatto o imbambolati dal sonno. Si destava appena quando la Rita, che l' aveva preso sotto la sua protezione, lo portava a tavola. Lì mangiucchiava qualcosa, massime il dolce, poi risaliva su la spalla di Rita e tornava a dormire. - È proprio un grullo il tuo Bellino, bimba mia, - ripeteva sorridendo la contessa Sernici alla figlia. - Ma è tanto buono, mamma! - rispondeva la Rita, scusando la sua bestiola, mentre baciava Bellino, quasi avesse voluto compensarlo dell' altrui indifferenza. Il topo bianco rispondeva languidamente, cogli occhietti sempre socchiusi, baciando tre o quattro volte le labbra fresche della sua signorina; poi ricadeva nel torpore abituale. Da quel torpore non era capace di smuoverlo altro che Moschino, quello spiritello di Moschino, tutto anima, con l' argento vivo addosso, un vero pepino. Non ostante che Ragù e la Caciotta volessero lo stesso bene a tutti i loro figliuoli, un bene più fraterno che altro, da che i piccini eran cresciuti non avevan potuto impedire che Dodò e Moschino, ogni sera che Dio mandava in terra, costringessero Bellino a rifare il letto comune; vale a dire ad accomodare nel miglior modo, per istar tutti più

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E se, per caso, Bellino non andava prima degli altri nella paniera a voltarvi e rivoltarvi carta e tela, lacerandone pazientemente i pezzi che gli parean troppo grandi, Dodò e Moschino lo mordicchiavano per chiasso, e gli davan la baia. - Rifà almeno il letto, buono a niente che sei! - gridava Moschino dopo aver addentato quel fratello tutto mortificazione e paura - Dodò farà il bibliotecario; io me la sbirberò alla meglio; a Lilia daranno marito per riprodurre là razza; di Ninì, quell' uggiosa, non so che ne sarà; e tu rifà almeno il letto, sbuccione che non sei altro! - Il buon Bellino, ancor tutto tremante per i morsi e le canzonature, badava a lacerare della carta, e a tirare ora qua ora là della tela, rassegnato, ormai, a ubbidire a quell'aristocratico di Dodò, e a quel prepotente di Moschino. Rita e Nello, a volte, udivano tutto il diavoleto che succedeva nella canestra dove i piccoli gridi di Bellino erano acuti; e, accorrendo a separare i contendenti e a metter la pace, capivano benissimo di che si trattava, pur non intendendo la lingua topesca. - Picchiano ancora quel povero servo sciocco! - esclamava la contessa commiserando il protetto di Rita, ma divertita e interessata dal diverso carattere di ciascun individuo di quella bizzarra famiglia di topi. Ninì, fra tutti, era davvero la più seria e malinconica. Fin da piccolina non ischerzava mai di suo, ma si faceva trascinar qualche volta dall' allegria de' suoi fratelli. Il cappuccio nero più grande di quello degli altri, le dava un aspetto di lutto, che colpiva chi la mirava, perch' ella era la più carina di tutti. Aveva il nasino d'un roseo pallido, ben uniti i dentini corti; ma gli occhi, sopra ogni cosa, eran la sua bellezza: certi occhi lunghi, obliqui come quelli d'una donnina

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Era affettuosa quanto mai, ma non dava baci a nessuno, nè pure a Rita, che la trattava ancor più amorosamente degli altri, per via di quel caratterino afflitto che la faceva parere una monachina. Moschino, lui, era l'idolo di tutti. Perfino il conte Sernici, un grave banchiere, così occupato de' suoi affari da aver appena tempo di mangiare e di dormire, non tornava a casa una volta che non chiedesse in famiglia: - O Moschino che fa? Dov'è? Portatemelo. - Non sempre Moschino si faceva trovare. Era sotto un mobile, sopra un altro, dietro un cuscino, in posti sempre nuovi e inaspettati. Questo capriccioso d'un topo ora voleva star al caldo e s'andava a cacciar in un angolo, riparato da qualche drapperia che gli faceva come una specie di tenda; ora preferiva accoccolarsi al fresco sotto qualche vaso di fiori dove allungava la pancia; e così godeva il profumo che veniva dal mazzo e la frescura che l' acqua del vaso gli procurava. Un giorno, dopo aver inutilmente cercato Moschino per tutta la casa, il conte tése l' orecchio a de' suoni scordati che venivano da un salone lontano. - Chi tocca così il pianoforte? - domandò maravigliato di quella musica singolare. Nello corse nel salone. Su la tastiera del piano, rimasto aperto dopo che la Rita vi aveva studiato, Moschino passeggiava lentamente, con aria d' importanza, tutto soddisfatto della propria abilità a far uscir que' vari suoni dai tasti, soltanto appoggiandovi le zampette.

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E soggiunse, volgendosi a Rita, che era felice di veder il suo grave babbo occuparsi dei sorcetti con tanta bontà: - Come gli dici tu, Rita, quando lo fai star in piedi? - - La bambina ripetè, ridendo:

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Quando il topino ebbe pensato un po', parve buttarsi al partito di trattar il conte come trattava la Rita, e subito si mise furiosamente a baciarlo, a baciarlo, senza lasciargli tempo di dire una parola. Con uno zampillo gli sollevava un baffo, con l' altro s' attaccava al labbro per meglio fargli sentire la sua linguina.... - Così - pensava - non avrà, cuore di dirmi nulla. - È un amore Moschino! - dichiarò il conte ridendo. - Quante marachelle non sono assolte, quando il perdono è chiesto con tanta buona grazia e con tanto spirito! - E disse alla contessa, che assentiva a quelle parole: - Questo topo, mia cara, è il più fìno diplomatico ch' io abbia conosciuto. -

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A quattro mesi Dodò pareva già un vecchio topo di tre anni, tanto era serio e ordinato in tutte le sue faccende. In uno scaffale della libreria s' era fatta una cuccia di giornali vecchi, dove andava a sonnecchiare dopo la colazione fino all' ora del pranzo. Fin da' primi giorni aveva dimostrato più intelligenza degli altri topi, e a poco a poco, sapendo che il suo linguaggio non poteva essere inteso da' bambini, se n'era fatto uno di gesti, per manifestare ogni suo desiderio o bisogno. Quando Dodò aveva fame, scendeva bel bello dalla biblioteca, andava fiutando dove si trovava qualcuno di casa, gli s' arrampicava addosso, e gli mordicchiava una mano, ma senza far male, alzando la testa e accennando come per dire: - Guarda, che mi sento cascar lo stomaco! - Quando aveva sete, cominciava a leccar le labbra a qualcuno de' suoi padroni, per far sentire la lingua arida; o, se vedeva un bicchiere o una tazza, si levava su le zampine e tendeva le braccia con tanta insistenza, che bisognava per forza voltarsi da quella parte, e dargli quel che desiderava. Ma non per questo dimostrava minore affetto o minore riconoscenza ai suoi padroni, specie al conte, che aveva preso a volergli bene, perchè lo vedeva così giudizioso, un vero sennino d' oro. - Dodò - diceva il conte alle volte - Dodò non è un topo, è un amico. In fatti, tutte le mattine, dopo aver preso il caffè con gli altri, Dodò, a furia di cenni, si faceva metter per terra, e correva nello studio del conte. Lì s' arrampicava su la spalliera di una poltrona, e annusando l' aria, guardando attorno, preso dall'inquietudine aspettava che il padrone entrasse a carezzarlo e a dargli il buon giorno. Allora scivolava, grave e soddisfatto, e se n' andava tranquillamente a schiacciare un pisolino nella biblioteca della contessa. Spesso il conte non entrava in casa fino alla sera; e allora Dodò non si moveva per nessuna ragione al mondo. Ma se per caso il conte tornava, Dodò era il primo a sentirne la voce, e giù di corsa da quella parte; gli andava incontro, s'arrampicava su la sedia più vicina, e di lì, spiccando un salto, pan! si trovava su le spalle del signore; con le zampine gli tirava la barba per farsi baciare, e gli faceva ogni sorta di feste, meglio d' un cane. Il conte si commoveva fino alle lagrime per l'affetto di quel topino, e ne lo ricompensava con qualche chicca o con qualche biscotto, che aveva sempre in tasca per lui Un' altra buona qualità di Dodò era l' amore dell' ordine e della pulizia. La sera, quando tutta la famiglia Sernici si trovava a pranzo, anche ai topi era permesso di venir su la tavola, a patto che non imbrattassero la tovaglia, trascinando i cibi fuori del vassoio. Dodò aveva imparato; e non c' era caso che si facesse dar sulla voce: appoggiava le sue brave zampine su l'orlo del piatto, e mangiava piano, gustando bene ogni cosa, proprio col fare d' una persona a modo: a segno che persino Ragù e la Caciotta guardavano il loro figliuolo con grande ammirazione, come s' ei fosse il figliuolo d' un principe. Ma gli altri topini, particolarmente quello zuccone di Bellino, qualche volta per ingordigia trascuravano le regole della buona educazione; e, non ostante i rabbuffi e le tirate d' orecchi, si buttavano come affamati su gli spaghetti al sugo o su la carne in umido; ne pigliavano quanto più potevano, e correndo via per la tavola come saette, insudiciavano ogni cosa. Allora il conte ordinava che i colpevoli fossero mandati in cucina: restava Dodò, il quale pazientemente raccattava gli avanzi dispersi di quella strage, li rimetteva a uno a uno nel piattello destinato ai sorci e poi, quando aveva finito, sedeva sul di dietro e abbadava a ripulirsi, a strofinarsi, a ravviarsi, a leccarsi, che non la finiva più.

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- E siccome il conte, dopo pranzo, si spassava a fare un solitario con le carte da giuoco, Dodò, che aveva sonno, ne pensò un' altra. Quando le carte erano tutte disposte in tre o quattro file, e il conte calcolava la riuscita del giuoco, Dodò si accostava pian piano, prendeva una carta tra' denti e l' andava a riporre nel piatto. Le carte restavano scompigliate; e il padrone che non poteva stizzirsi e non aveva pazienza di ricominciare, rideva ammirando l' intelligenza del suo topino, e presolo sul braccio, lo contentava portandolo a dormire. La Caciotta e Ragù si tenevano assai di quel loro figliuolo; e mentre punivano gli altri con un morso o con un graffio, per cagione di qualche discolerìa, non s' arrischiavano di far altro che carezze a Dodò; il quale viveva circondato dall' amore e dalla considerazione di tutti. Egli portava rispetto al babbo e alla mamma; voleva bene, ma stando su le sue, a' fratellini e alle sorelline, e aveva un debole per quello sventato di Moschino, ch' era riuscito, con le sue buone grazie, a vincer persino la serietà del fratello fìlosofo. Soltanto a Moschino era permesso d' andar qualche volta a trovare Dodò nella biblioteca; Moschino gli si metteva a torno a grattargli il collo e la testa co' denti: Dodò, con gli occhi socchiusi, sorniosamente,

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A me non la dài a intendere, zì, zì. Il primo dovere di un topo onesto è quello di non rubare e il tuo fiato sa d' olio.... Zì, zì, chi ti ha dato l' olio, Moschino? - Se n' è bell' e accorto: che naso! - pensava Moschino; e soggiungeva a voce alta: - Oh, Dodò, un poco d' olio trovato in cucina per terra! L' avrà versato il cuoco, per caso. - Tu se' bugiardo più d' un gallo, Moschino. Zì, zì, se l' olio fosse stato per terra, tu ti saresti unte le mani, e le tue mani in vece sanno di zucchero.... - Ah corpo d' un foglio di cartastraccia! sta' a vedere che scopre anche questa - pensava Moschino; e tanto per cambiar discorso, domandava al fratello: - Ma non ti secchi, tu, a star sempre rinchiuso qua dentro? - Zì, zì, lo studio e la meditazione son più dolci dell' olio e dello zucchero, sentenziava Dodò. - Questione di gusti, - mormorava Moschino, ridendo in cuor suo della dabbenaggine del fratello. E ripigliava: - E cosa impari, di bello, ne' libri? - Imparo, zì, zì, la storia de' topi che son vissuti prima di noi: una storia piena di buoni insegnamenti, che m' impedisce di fare troppi spropositi. - Oh bravo! - esclamava Moschino, che sapeva di stuzzicare così l' amor proprio del fratello - perchè, tu, che sei tanto istruito, non me la racconti? - Volentieri, se stai buono. Speriamo che almeno ti serva a qualcosa. Ma bada, è tutta in versi, centocinquantamila versi! - Signore Iddio benedetto!... E i versi che cosa sono? - È un po' difficile a dirsi; ma ti porto un esempio. A te che piace di più: quando la signora contessa parla come al solito, o quando parla accompagnata da' suoni del pianoforte? - Oh quando parla co' suoni, è più dolce! - Bravo: fa' conto che tutt' i giorni parli in prosa, e quelle volte parli in versi. I versi sono delle parole come la prosa, ma combinate più armoniosamente. - Ho inteso, via! come la farina e i cialdoni: la farina è in prosa, i cialdoni sono in versi. - Tu non sei così ignorante come sembri, - disse placidamente Dodò. - Grazie, troppo buono! - rispose Moschino. - O dunque, cotesta storia? - Ti racconterò qualcosa che ho letto oggi per l' appunto. Ma sta' bene attento, veh! - Non dubitare. - Zì, zì, cominciamo.

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- conchiudeva Dodò aprendo a mezzo gli occhi, e guardando il fratello. - Dico che non è molto allegra, la storia - rispondeva Moschino, divenuto a un tratto pensoso. Poi soggiunse: - Eppure, vedi, il mondo ha da esser qualcosa di bello, se c' è de' topi che rischiano di incappare nell' unghie del gatto per la smania di girare. - E tu gira! - diceva Dodò filosoficamente. - Oh, io no! Non voglio mica morire di mala morte, io.... Brrr.... quando ci penso, mi s' accappona la pelle. - E tu non girare, - diceva Dodò con la solita calma. - Oh, sai che c' è? - prorompeva Moschino, il quale non amava que' discorsi - sarà, quel che Dio vuole; intanto andiamo a desinare, che sento la voce del padrone. Dodò rizzava le orecchie, e balzava in piedi; Moschino andava avanti, e tutti e due scivolavano dalla libreria e correvano balzellon balzelloni nella stanza da pranzo. Ma una sera, i due topi trovaron la stanza al buio, e aspettarono un pezzo prima che il conte venisse a tavola. Nel salotto della contessa s' udiron de' passi, delle voci concitate, poi de' singhiozzi, e i bambini che gridavano: - Papà, mio! povero papà mio! - Che sarà? - pensava Dodò, mentre Moschino, un po' spaurito, gli si serrava accosto, e anche gli altri topini gli eran da torno per avere spiegazioni. In quella s' aprì l' uscio e fu visto il conte uscire a braccetto della contessa, tenendo la mano sul capo de' suoi bambini. - Siamo poveri, - disse il bravo signore, rattenendo a stento le lagrime - ma almeno avremo sempre la pace e l' affetto che aiutano a sopportare qualunque sventura. - Oh sì, papà! - disse Rita aggrappandosi con le due mani al braccio del padre, mentre Nello gli abbracciava le gambe. - E poi - soggiunse questi - io divento grande, lavoro, e riguadagno tutto quello che abbiamo perduto. - Ecco un ragazzo che ha più coraggio di me - disse il conte, pigliando il figliuolo in braccio, e baciandolo. - Ma - soggiunse - che dirai tu, quando i tuoi compagni di scuola ti domanderanno perchè non hai più la tua carrozza, e i tuoi be' vestitini eleganti e.... - La voce del conte tremava: - Dirò - rispose il fanciullo a testa alta e con accento vibrato - come hai detto tu: che siamo diventati poveri perchè abbiamo voluto salvare prima di tutto l' onore: e l'onore non si compra a quattrini. - Bravo ragazzo! - conchiuse il padre rasciugando ancora una lagrima, e dando un bacio alla moglie - ora andiamo a desinare. - A punto la Letizia stava apparecchiando. In quel frattempo, i topini domandavano tutti a Dodò: - Ebbene, hai capito niente tu? - Sì, ho capito che il padrone ha perduto tutto quello che aveva. - Oh povero signore! e come l' avrà perduto? - chiese la Caciotta. - Non lo so, mamma, - rispose gravemente Dodò. - Sicchè, ora i topi dovranno sgomberare? - domandò Moschino grattandosi un orecchio. - Speriamo di no, Dio mio! - esclamò il povero Ragù, che aveva una paura estrema di capitare un' altra volta nelle mani dell' antico padrone. Intanto bisogna esser buoni - conchiuse Dodò - e mangiar quel che si trova, senza cercare le leccornìe, che non si possono più avere. Tutti si misero a tavola. Il conte mangiava di mala voglia; la moglie e i figliuoli lo guardavano e stavano zitti: nessuno pensava ai topini. Ma i topini, che avevano udite le raccomandazioni di Dodò, non osavano domandar nulla, per paura di contristare il padrone. Eppure avevano fame: da sei ore non mangiavano. Allora Dodò prese una risoluzione. Aspettò che fosse diviso il formaggio portato in tavola dalla Letizia su due pampini in un tovagliolo, e impadronitosi pian pianino d' una di quelle foglie, la portò di trotto nel piatto destinato a' suoi; e tutti i topi si misero subito ad addentarla di gusto. Il conte vide tutto, e fu preso da una gran tenerezza. - Oh Dodò! - esclamò - tu pure vuoi dirmi che sopporterai la miseria senza lagnarti. Povera bestia! povera bestia! - E preso in mano il topino, lo coprì di baci. Dodò lasciava fare, e quando il conte l' ebbe posato di nuovo su la tavola, ei gli prese un dito con le manine, e cominciò a leccarlo furiosamente, alzando la testa e guardando il padrone, come per attestargli la devozione sua e di tutta la piccola famiglia de' topi. Da quella sera, Dodò non ebbe più altro pensiero che quello di confortare il padrone; il quale passava la maggior parte della giornata in casa a lavorare nel suo studio o in quello della contessa, facendo conti, ricevendo creditori, scrivendo lettere, gettando su la carta progetti di nuove speculazioni. Delle volte, mentre si torturava il cervello a trovar qualche accomodamento, d' un tratto sentiva un balzo su le ginocchia: era Dodò, che dal piano inferiore della scrivania saliva a fargli una visita, a carezzarlo e a baciarlo. Allora il povero signore si distraeva per un po' da' suoi pensieracci, e tutto commosso delle premure del suo topino, gli diceva tante cose affettuose, come a un altro figliuolo. Dodò doveva aver imparato a conoscere i creditori del conte da' modi sgarbati con cui entravano in casa; e bisogna dire che, non ostante la sua grande pazienza, proprio non li poteva vedere. Quando ce n' era qualcuno in salotto, ei v'andava di corsa, gli girava in torno e s' industriava di salire alla chetichella sul divano, per potere appiccicargli un morso da lasciargli il segno. Il conte sorrideva tristamente, se lo pigliava in braccio e lo metteva sur un' altra sedia, dicendogli: - Via, Dodò, sta' fermo, sta' buono, povera bestia! - Ma Dodò non si chetava, e testardo come un mulo, tornava all'assalto, senza mai darsi pace fin che quell' altro non fosse andato via. Allora il padrone se lo pigliava su le ginocchia, e carezzandogli il dorso, gli diceva: - Povero Dodò! hai paura che ci portino via la roba di casa, eh, povera bestia? Ma non la porteranno via, no, Dodò: non aver paura, povero vecchio! - E il topino che intendeva, si strug- geva in cuor suo di non potere rispondere, e badava solo a leccare, a leccare le mani del conte. Ah, se gli fosse riuscito d' acchiappare il dito a uno di quei brutti uomini, che venivano a tormentare il padrone! Una volta, alla fine, se ne potè cavare la voglia. Sonnecchiava, dopo colazione, nella solita libreria, dietro una bella fila di libri rilegati, quando gli parve d' udir delle voci. Tende gli orecchi; la Letizia diceva: - S' accomodi! passi! vado ad avvisare il padrone. - Bene, bene! - rispondeva una voce burbera. Dodò fiutò l' aria: quell' odore non gli era nuovo. Appoggiò le mani a un libro, sporse il musetto: - Ah pezzo di brigante! l' aveva riconosciuto. - Era uno che un' altra volta, essendo venuto in casa, visto Moschino sur una sedia, gli aveva gridato: - Va' via, brutta bestiaccia! - e aveva afferrato il bastone. Ma sì! Moschino con le sue gambe da grillo, in tre salti era scappato sotto un armadio, di dove non lo avrebbe snidato neppure il diavolo. Stava giusto pensando a codesto, quando gli parve di sentire uno stropiccìo su' libri, dall' altra parte; si mette in ascolto, annusa l' aria: - è lui, è lui che vuol rubare - pensava Dodò - i libri a' padroni. Ora ti concio io! - Pian pianino, ritirando le unghie, senza pur toccare il legno con le zampe, Dodò striscia da quella parte dove il rumore si facea più distinto, e arriva in tempo per vedere una manaccia pelosa che pendeva sopra un volume. Fece un balzo di quelli come non ne aveva fatti più da molti mesi, e i suoi quattro dentini, lunghi e

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- si mise a gridare colui - ma che ci tengono qui dentro? che cos' è quella bestia? - Il conte entrava appunto in quel momento. - Che ha? che le accade? - gridò subito al visitatore. - Ma guardi un po' che m' ha fatto quella bestiaccia! Un cane, proprio un canaccio di strada! O che pare un morso di un topo questo ? Guardi come fila il sangue.... - Mi dispiace, mi dispiace davvero.... riprese il conte. - Ah Dodò, Dodò! ti punirò io, io ti punirò - soggiunse facendo un atto di minaccia verso la libreria. L' altro seguitava a raccontare: - Stavo aspettandola.... guardavo intanto la libreria.... faccio per pigliare un libro.... e mi sento lacerare il dito a questo modo.... Ma guardi, ma guardi! Bisogna che vada a farmi medicare alla farmacia. E, dica un po', non c' è pericolo che quella bestiaccia sia arrabbiata?... perchè ho sempre sentito dire che a' topi viene la rabbia istantanea come a' gatti.... - No, non abbia paura - dichiarò il conte che non sapeva come fare, non ostante i suoi guai, per tenersi dal ridere. Frattanto Dodò, seduto pacificamente nella libreria, si ripuliva i baffi e la testa; e ascoltando quei lamenti che non finivano mai, diceva fra sè - Strilla, strilla pure quanto ti piace; per questa volta hai avuto quel che ti meritavi, pezzo di birba che non sei altro! E con che furia veniva a portarsi via i libri de' padroni!... Tu credevi che Dodò non se n' avvedesse e ti lasciasse fare, eh, canaglia?... Capisco che adesso mi toccherà una tirata d' orecchi, perchè il padrone non vuole ch' io morda nessuno; ma me la piglio di cuore; com' è vero che sono un topo, me la piglio di cuore!... - Infatti, il conte, dopo aver chiamata la moglie e averle narrato l' accaduto, mise la mano nella scansìa per impadronirsi del topo e punirlo. Ma la contessa fu più lesta; Dodò corse da lei, che lo prese ridendo e se lo mise nel petto, scappando subito via per risparmiargli la tirata d' orecchi. Il conte, che non doveva avere una gran voglia di dar quel gastigo, si contentò di gridare: - Ah Dodò, se lo fai un' altra volta!... - Magari - pensava Dodò, ora che si sentiva al sicuro; e quando la contessa se lo trasse dal petto, egli le diè tanti baci, tanti baci, per dirle che proprio era contento d' aver morso quel soggettaccio, che tormentava gli uomini e trattava male le povere bestie.

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