Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Donna Paola

244847
Matilde Serao 15 occorrenze
  • 1897
  • Enrico Voghera editore
  • Roma
  • Verismo
  • UNICT
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Piccola collezione «Margherita» MATILDE SERAO DONNA PAOLA Disegni di A. TERZI incisioni del prof. ORLANDO

JACK LA BOLINA (A. V. Verdi) MEMORIE LUOGOTENENTE DI VASCELLO Prezzo L. 3,50 ROMA ENRICO VOGHERA tipografo-editore

FALDELLA, A. FOGAZZARO, G. GIACOSA, O. GUERRINI, L. CAPUANA, ecc. OGNI VOLUME L. I.

. - Con disegni di A. Terzi. OGNI VOLUME L. I.

Incisioni in legno di A. Foli, E. Zaniboni, prof. E. Ballerini ed Orlando, ecc. OGNI VOLUME L. I.

Certo era un tramonto più rosso d'autunno; io correva nelle vie infangate, affrettandomi a una casa dove qualcuno che mi amava moriva. Correvo col capo chino sotto la pioggia mormorando le parole di consolazione e di perdono prima di giungere. D'un tratto, alzando gli occhi sotto la luce rossastra di un fanale a gas, vidi camminarmi accanto una figura femminile. Era una donna di mezza statura, col volto pallido e allungato, sciupato dall'età, dalle sofferenze; ma in quel volto consumato ardevano gli occhi neri, bruciavano di sangue le labbra. Era vestita tutta di nero, il nero dei suoi occhi; portava al collo, come spillo, un ramoscello di corallo rosso come le labbra. Camminava accanto a me, guardando la terra; un sol momento mi alzò gli occhi in viso, ma li riabbassò subito. Io fui colpita da questa apparizione e distesi la mano quasi per toccarla, ma ella si allontanò rapidamente. La seguii quasi per istinto senza saper perchè, presa da necessità di andare dove andava lei, di fare quello che lei faceva. La seguii con gli occhi fissi nella sua figura bruna, raggiungendola ogni tanto per vedere quello sguardo nero e ardente, quelle labbra febbricitanti, quell'abito nero come l'occhio, quel ramo di corallo rosso come le labbra. Ella se ne andò per le strade con il suo passo ritmico, fermandosi innanzi alle mostre delle botteghe, salutando qualche creatura ignota, fermandosi a discorrere con qualche essere volgare. Io feci, dietro a lei, tutto quello che essa fece. EIla prese la via del teatro, salì le scale, entrò in un palco e si pose immediatamente a dardeggiare la folla col suo sguardo nero. Si pose subito a ridere con le sue labbra di sangue; io in un palco dirimpetto a lei, imitandola, guardai sfacciatamente la folla e risi, risi sempre. D'un tratto ella scomparve, io m'abbandonai in una atonia come se mi mancassero gli spiriti, poi mi risvegliai nell'amarezza saliente dei rimorsi. L'amico che m'aspettava, a cui dovevo portare le parole di consolazione e di perdono, era morto, solo, mentre io rideva al teatro.

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Tutto il mio essere sobbalzò a lei. Mentre si dirigeva lentamente alla città, io la seguii passo per passo come una bestia ubbidiente. Vedevo con paura che ella andava al luogo del convegno con quell'uomo, ma istintivamente non potevo manifestare questa paura. Vidi con spavento che quell'uomo era là, che mi aspettava, che sorrideva di orgoglio. Egli non vedeva il fantasma che gli si accostava, vedeva tue che mi

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accostavo a lui per seguire il fantasma. - Grazie - disse l'uomo trionfante. II fantasma sorrise dolcemente, ed io, che volevo urlare di dolore, sorrisi di dolcezza. - Tu mi ami? - chiese l'uomo. - Ti amo - mormorò il fantasma. Io, cui sulle labbra si affollavano gli insulti, dissi a voce alta: - Ti amo. - Mi amerai sempre? - Sempre - rispose il fantasma. Io, che agonizzavo, risposi: - Sempre. - Lo giuri sulla Madonna? - Lo giuro sulla Madonna - susurrò l'ombra. Io, che avevo il terrore del sacrilegio, bestemmiai: - Lo giuro sulla Madonna.

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Pensate al disgusto, al ribrezzo, alla stanchezza di due anni, ai giuramenti bugiardi fatti e ricevuti, ai trasporti fittizii, ai baci inutili e fiacchi, agli entusiasmi posticci, a questa commedia piena di fango. Era per lei tutto. Per fare quello che ella faceva, per dire quello ch'ella diceva, per seguirla, per imitarla. Era l'incantesimo di questa fata, di questa strega, di questa maliarda. Era il fascino, il filtro; avvinghiata ad essa che rappresentava la bugia e il tradimento, io sono stata la bugia e il tradimento. Nel tempo, accadde altro. Un altro uomo mi amava veramente, con la lealtà spirituale delle anime elette; io lo amava con l'umiltà profonda del cuore che cerca riabilitarsi. Le nostre anime vibravano all'unisono nell'armonia potente dell'amore; si fondevano meravigliosamente nell'armonia dell'amore; era un affetto solo, completo, tutto divino e tutto umano. Ma la celestiale fusione durò poco. In un'ora suprema, mentre egli mi parlava soavemente, vidi comparire tra noi la donna dall'abito nero, che portava al collo un ramoscello di corallo rosso. Questa volta i soavi occhi lampeggiavano malignamente, le sue labbra di garofano sogghignavano. Egli mi parlava d'amore ed ella ghignava, ghignava. - Non ti credo - rispose a quell'uomo che diceva la verità. Così l'amore nostro divenne uno spasimo. Dietro il volto di lui, onesto e buono, io vedeva l'ovale sciupato della donna che ghignava; egli diceva un sì franco, sincero, e l'eco del fantasma era un no duro; egli mi accarezzava col suo sguardo innamorato, ed ella lampeggiava ferocemente gli occhi. - Non ti credo, non ti credo - ripetevo a quell'uomo, io diventata malvagia e scettica. Poi egli non credette più a me, mi vedeva sempre distratta, assorbita, scossa da subitanee paure, o perduta in esaurimenti mortali. - Tu non mi ami, tu sei lontana di qui; la tua anima è assente; oh ritorna, ritorna! - egli mi supplicava. Eppure ci amavamo: la maga pallida dalle labbra di carminio, che ci scherniva, si metteva fra noi e ne faceva gelare il sangue, e rendeva deboli i nostri baci e fioche le voci. Io soffriva infinitamente più di lui, io che vedevo la maga sedersi accanto a noi, io che sentivo lo spavento di questo spettro salirmi al cervello e farmi delirare. Io che giunsi fino ad essere gelosa di quel fantasma, a cui mi sembrava che egli dirigesse le sue parole di amore; io, che in uno scoppio di gelosia furiosa, gridai: - Tu m'inganni, tu ne ami un'altra, tu ami una donna pallida, sfinita, cogli occhi neri, le labbra sanguigne, la veste nera, il ramo di corallo rosso. Tu m'inganni, tu mi tradisci, tu ami un'altra! Egli mi guardò trasognato. - Tu sei quella - disse semplicemente. Mi condusse allo specchio; vidi nel cristallo una faccia smorta, consunta dall'età, dalla sofferenza, due occhi neri, ardenti, due labbra brucianti, una veste nera, un ramo di corallo rosso. Vidi la sua figura, che era la mia figura; urlai come una bestia: - Non sono pazza, non è la mia testa che devono curare, ma è la più fiera nemica che è entrata in me; il fantasma si è messo nell'anima mia, L'altra non vuole andarsene, vuol vivere in me, così siamo due; bisogna esorcizzarmi; chiamate un prete, e dica sul mio capo le parole sacre della preghiera che libera le anime!

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FULVIO s'inchinò, prese dalla mano di Paola il gelano che ella, sorridendo dolcissimamente, gli porgeva, e le disse, guardandola negli occhi: - Vi amo - Non dovete amarmi -mormorò lei senza scomporsi, seguitando a sorridere. - E perchè? - Perchè ho marito - ribattè ella, ma placidamente. E gli occhi di Fulvio, di un tetro azzurro, lampeggiarono di passione. Ella restava innanzi a lui, senza mostrare alcun turbamento, sorridendo ancora, tutta rossa, con le belle braccia bianche e prosciolte sotto il merletto nero delle maniche. Sul merletto nero e sulle bianche braccia scintillavano i braccialetti gemmati: erano ricaduti sui polsi, ella si occupò a risollevarli verso il gomito, con molta cura, giocherellando con le catenine d'oro, coi cerchiolini sottilissimi. Irritato, Fulvio batteva col cucchiaino sul piattello del gelato: - Andatevene - mormorò a un tratto, soffocando di collera - siete una donna odiosa, io vi detesto. Paola crollò lievemente il capo, come si fa per un malato incurabile, e si allontanò da Fulvio. La brigata si aggrappava attorno al pianoforte, dove un maestro giovane, pallido, con un grosso ciuffo di capelli neri sulla fronte, accompagnava il canto di una fanciulla gracile, biancovestita, con un filo di voce simpatica, che cantava una romanza di Bizet. La romanza era di carattere orientale, una nenia bizzarra, a volte piena di strilli allegri, a volte piena di lunghi singulti: e due o tre signore s' illanguidivano, lasciavano liquefare il gelato nel piattello, prese dal delicato lamento della fanciulla orientale: il marito di Paola si dondolava in una poltrona, fumando, tranquillo, dando con occhio distratto la svelta figura di sua moglie, tutta vestita di nero, tutta scintillante di perline nere. La freschissima brezza marina entrava dalle quattro finestre di quel lungo salone: appoggiato alla finestra, Fulvio guardava il mare, come assorbito. Ora Paola offriva le sigarette ai giovanotti e alle signore che osavano fumare. E la mano che porgeva il porta-sigarette era così bianca, così pura di linee, che Fulvio sentì distruggersi di tenerezza. - Perdonatemi - fece lui levandole in faccia gli occhi supplichevoli. - Amico, non ho nulla da perdonarvi - disse Paola, soavemente. - Sono un brutale: voi siete buona. - No, no - e fece per ritirarsi. - Non restate mai un momento accanto a me - mormorò lui con voce di pianto. - Non posso, amico: questi signori hanno bisogno di fumare. Ecco il mio marito senza sigarette. S'involò, leggiadra, offrì le sigarette a suo marito, sorridendogli. Il marito la guardava quietamente, con un'aria soddisfatta di uomo dalla felicità imperturbabile e sceglieva la sigaretta, a lungo scherzando con le dita della moglie. Pareva che si dicessero tante cose, marito e moglie, tante cose d'amore: ed erano così giovani, così belli, così ben accoppiati, che i loro amici li consideravano con compiacenza, come si guardano due fidanzati. Tutto solo apoggiato alla finestra, Fulvio fissava la scena e impallidiva: fece due o tre passi avanti. Ma, ecco, ella veniva di nuovo a lui, snella, leggiera. - La sigaretta è spenta, volete del fuoco? - Non temete voi - fece lui, a denti stretti, ma col più amabile fra i sorrisi - non temete voi che io uccida vostro marito? - La spagnoletta è spenta... guardate... - Vedrete che lo uccido, signora. Senza più dirgli nulla, fattasi un po' seria nella faccia, Paola si allontanò da lui, a rilento, come se l'avesse colpita una parola dolorosa. Ora tutti complimentavano la signorina Sofia che aveva cantato così bene les adieux de l'hôtesse arabe: e la gracile fanciulla, tutta maIinconca, sorrideva modestamente. - Vi piace Bizet? - chiese Sofia a Fulvio, che si era accostato al resto della brigata. - Bizet? - fece lui come trasognato. - Sì: vi domandavo se vi piace. - Assai - mormorò lui distratto. La fanciulla gracile e mesta lo guardò e ripetette, come fra sè, le prime parole della romanza francese: - Puisque rien ne t'arrele... Ma egli non udì, concentrato nei suoi pensieri. - adieu bel ètranger - finì Sofia pianissimamente. Attorno al pianoforte, ora si rideva. Il maestro giovanetto, pallido, col grosso ciuffo di capelli neri sulla fronte, arrivato da poco da Londra, raccontava a quei suoi amici napoletani l'ostinazione delle misses e delle mistresses inglesi a voler imparare le patetiche romanze italiane; ne rifaceva le smorfie e le contorsioni, vivacemente, col brio del napoletano che si vendica della lunga stagione di nebbia sopportata a malincuore. Tutti ridevano, specialmente il marito di Paola: Paola, ritta in piedi, si sventolava col grande ventaglio di raso nero, dove un pittore fantastico aveva dipinto un paesaggio lunare. E Fulvio, non potendo parlare, guardava Paola: la guardava con tanta intensità, con una fissità così ardente, che a lei le palpebre batterono, due o tre volte, quasi per fastidio. Ma lui non si scosse, avvinto, ipnotizzato, bevendo dagli occhi di lei, che non lo guardavano, il fascino invincibile: ed ella, naturalmcute, come se la luce soverchia Ia infastidisse, levò l'ampio ventaglio di raso nero e si nascose il volto. Ora Fulvio non vedeva che il busto scintillante di perline nere e la mano sottile levata, premente le stecche nere del ventaglio: una vela di raso nero gli celava la faccia di Paola: tutti ridevano per le caricature del maestro di musica: Fulvio aveva gli occhi pieni di lacrime, Sofia lo guardava, con un lievissimo, malinconico sorriso. Ma un delicato suono di mandolino entrò dalle finestre che davano sul mare: le risa tacquero, tutti tesero gli orecchi. Il suono si avvicinava: e la brigata, come attratta, si affollò alla porta che dava sul terrazzo. Nero era il mare, nella notte nera: altissime, tremolavano le stelle sul cielo nero. Attraverso l'oscurità del mare una barchetta passava, portando a prora una fiaccola sanguigna che si rifletteva nell'acqua e vi metteva una vampa; sulla barchetta qualcuno suonava il mandolino, ma non si distingueva chi fosse; qualche cosa biancheggiava, come il vestito d'una donna. E la facella sanguigna rifletteva la sua luce nel mare, e il mandolino invisibile si lamentava, e l'ombra bianca era immobile, e la barchetta filava un silenzio aveva colto la lieta brigata. - È una romanza in azione - disse il maestro di musica rompendo il silenzio. - Duetto d'amore - strillò un giovanotto. - Non li disturbiamo - disse soavemente Paola. - Ehi, della barca! - urlò il marito di Paola, come per contraddire sua moglie - buonasera, buonasera, divertitevi! Tutta la brigata ripetette: - Buonasera, buonasera, divertitevi! Subito, immergendosi nell'acqua marina, la fiaccola sanguigna si spense, il mandolino tacque, la barchetta vogò nella tenebra e nel silenzio, - Troppa superbia, o innamorati! - strillò il marito di Paola. - Beati loro - disse Fulvio. - Perchè li invidii? - chiese il maestro di musica. - Napoli ha le sue spiaggie piene di barchette e le sue case piene di vestiti bianchi. - Nè vi è scarsezza di mandolini - aggiunse il marito di Paola. - Che m'importa della barchetta e della musica e del vestito bianco! quelli si amano: io li invidio. - Oh il sentimentale, il sentimentale! - esclamarono due o tre, - L'amore è una bellissima cosa - disse Fulvio, con una convinzione profonda. - Che scoperta, perdio! - gridò il marito di Paola. - Bisogna ammogliarsi - disse il maestro di musica.- Fulvio, guarda la signora Paola e suo marito: bisogna ammogliarsi. -Bisogna ammogliarsi- ripetette soavemente Paola. - Bisogna morire - mormorò Fulvio. Ma gli amici e le amiche rientravano nel salone: si combinava, per la sera seguente, una gita per mare, con due barchette, con musica. Non era meglio aspettare che venisse la luna? Ma no, le gite con la luna sono volgari, non si ha paura di nulla, ci si vede troppo chiaro: è meglio andare nella notte, come la barchetta degli amanti. Questo dicevano le signore; i signori proponevano di portare la cena. Sulla soglia della porta, verso il terrazzo, Paola disse a Fulvio, da lontano: - Siete anche voi della gita? - No, no, sentite... - disse lui con voce soffocata. Ma ella non uscì sul terrazzo. Qualche signora parlava di andar via; ma per trattenere gli invitati ancora un poco, Sofia si mise a cantare il waltzer dell'Ombra nella Dinorah. La gente, in piedi, ascoltava; ma la breve voce simpatica della fanciulla non arrivava a eseguire quei trilli complicati, quelle risposte dell'eco. Sibbene ella cantava quel waltzer come se e piangesse, e invero quella musica, che è il pianto di una illusione, pareva un singulto di dolcissima follia. - Datemi il mio ventaglio - disse Paola dolcemente a Fulvio, che se ne stava solo solo sul terrazzo. - No, se non mi sentite - disse lui, tenendosi il ventaglio stretto alle labbra. - Datemi il mio ventaglio - ripetette ella con fermezza e con dolcezza. - Sentitemi, sentitemi, ve ne scongiuro, è una cosa gravissima... Paola non gli diede più retta, rientrò nel salone; ora il cameriere portava attorno dei biccieri pienni di malaga dove un pezzo di ghiaccio galleggiava, ed ella girava premurosa, sorridente,serena. Quando ebbe compiuto il suo giro, naturalmente si rammentò dell'altro suo ospite che stava solo, nell'ombra, sul terrazzo, fra la nerezza del cielo e quella del mare. - Datemi il ventaglio, amico. Sentitemi... - disse lui, ancora. E la voce era così piena di dolore, che ella si arrestò. Nella sala, adesso, con la nova allegria del vino, cantavano un coro napoletano. Ella ascoltava le parole oli Fulvio. - Sentite. Io debbo parlarvi. Debbo dirvi delle cose gravissime. Non m'interrompete, Paola, ve ne prego. Ascoltate: ho da dirvi, da dirvi tante cose. Ma le dico presto, non dubitate. Ora non posso dirle. Vi è gente di là, gente felice; io sono infelicissimo, Paola, se voi non ascoltate quello che ho a dirvi. Siate paziente, ve ne prego. Io soffro assai. Voi non soffrite, lo so; ma siate assai compassionevole. Ho da parlarvi, dunque. Dobbiamo esser soli. Sentite, Io non lascio questo terrazzo. Chiudete la porta, crederanno che io sia andato via. Ve ne prego, chiudetela. Vostro marito andrà a letto... e io voglio parlarvi. Aspetterò qui fuori, quanto vorrete. Quando egli dorme venite. - Non verrò - disse lei, soavemente. - Sentite, Paola, io sono come in punto di morte. Di là cantano e ridono; qui vi è un agonizzante. - Io non verrò, - ripetette lei, senza turbarsi. - Sentite ancora. Ve ne scongiuro, in nome della vostra coscienza di donna onesta, per la vostra virtù di fanciulla e di sposa, per la vostra dolcezza e per la vostra pietà, non mi negate quest'ultimo favore... - Non verrò. - Se non venite, io mi ammazzo, Paola. Ello lo guardò un minuto secondo. - Io mi ammazzo, Paola, se non venite. Siete una cristiana. Non lascerete morire un uomo così. - Verrò - disse lei.

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La notte era alta, oramai, sul golfo napoletano, e lontanissimo, scintillavano le tremolanti stelle; sulla deserta strada di Posillipo, che sovrastava alla terrazza della villa, una fila di lumi correva sino a Napoli; alta la solitudine, alto il silenzio. Le imposte del balcone che davano sul terrazzo si schiusero pianissimamente e un'ombra bianca, lieve lieve, scivolò sino a Fulvio che aspettava da tre ore. - Grazie - disse lui, cercando di vedere il volto di Paola, all'oscuro. - Noi siamo in fiero pericolo di morte - rispose lei con molta dolcezza. - Lo so - e chinò il capo. Egli non parlava. Invece, nel momento che aveva strappato a Paola la fatale promessa, la sua passione era in uno stato di esaltamento. Nella prima ora di aspettativa egli non aveva fatto altro che ripetere a sè stesso, affannosamente, turbinosamente, quello che voleva dire a Paola; e certe parole, certe frasi, mormorate sottovoce a sè stesso, lo avevano affogato di emozione. Ella non veniva ancora. Sentiva che andavano e venivano, per casa, i servi, riordinando le stanze, chiudendo le finestre; sentiva le voci tranquille di Paola e di suo marito, che discorrevano; ma non poteva udire le parole. Poi tutto fu chiuso, si spensero i lumi, un grande silenzio regnò. Egli cominciò a tremare d'impazienza, non osando muoversi, raggricchiato al suo posto, coi nervi che vibravano, ripetendo confusamente, a brani, quello che voleva dire a Paola, come un bimbo disperato cerca invano di raccapezzarsi nella lezione imparata a mente. Paola non veniva. Egli aveva contatto cento volte i lampioni a gas sulla via di Posillipo; erano trentatre, gli altri si perdevano in una fila di luce. Per ingannare il tempo pensò di contare le stelle; ma ci si perdette. Quante ore erano passate? Quella notte era dunque eterna? E una disperazione rassegnata lo colse, lo abbatté; forse Paola non sarebbe mai venuta. A lui non restava che buttarsi di sotto, nel mare; giammai si sarebbe fatto cogliere dal giorno, dal sole, su quella terrazza. E tale idea, tale soluzione lo quietò. Un accasciamento profondo lo vinse e non seppe più nulla del tempo e del luogo. Tanto che lo schiudersi del balcone e l'ombra di Paola lo fecero appena trasalire. Ora, non trovava più nulla da dirle. Tutto era finito, egli poteva buttarsi di sotto, nel mare nero. - Che avete a dirmi, amico? - Che vi amo. - Me lo avete già detto. Null'altro? - e fece atto per andarsene, - Vi amo, vi amo, vi amo, - Amico, mio marito è di là che dorme. Se una zanzara gli fa udire la sua canzoncina, se un mobile scricchiola, se la vostra voce o la mia si levano un poco, egli si sveglia. Egli verrà qui e noi moriremo. - Questo cerco - mormorò con voce cupa. - Morirei per voi, se vi amassi. Ma non vi amo, - E perchè vi esponete alla morte? - Per pietà. - Non sentite altro, per me? - Amicizia e pietà. - Voi altre donne siete infami. - Povero Fulvio! - fece ella con molta dolcezza. - Vi proibisco di compatirmi. Dovete amarmi, capite? Questo sono venuto a dirvi. - Non posso amarvi. - Dovete. Ho il diritto di essere amato. Ah! voi credete che sia nulla la esistenza di un uomo? Credete che sia nulla passare accanto a un uomo e togliergli tutto? Credete che sia nulla farlo agghiacciare di freddo e farlo avvampare, dandogli una febbre che mai non si placa? Credete che una donna si possa impunemente guardare con dolcezza, sorridere con dolcezza, parlare con dolcezza, come voi guardate, sorridete, parlate? O maledetta dolcezza, maledetta dolcezza! Malgrado che le fosse molto vicino e quasi intuisse l'espressione del volto di Paola, egli non vide le lagrime che le salivano agli occhi. - Perchè, infine, io ero una creatura felice. Io godevo

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Se non potete amarlo dovete almeno rispettarlo, dovete essergli fedeli e obbedienti, conservargli il vostro corpo e la vostra anima, anche a costo di morire di dolore. E queste parole non solo le dice la madre, ma ce ne dà l'esempio quotidiano. Questo dovere di onestà, questa tradizione di fedeltà, questa eredità di virtù, ci si trasmette nel sangue di madre in figlia. Non vi è nulla di sublime, vedete; è un dovere, si compie. - E si muore, Paola. - Non si muore. La passione, cieca, insulta il marito, il buon marito che dorme di là, calmo, fidente, senza un sospetto. Questa è la grande ingiustizia. Perchè, infine, l'uomo che si sposa, anche quando fa un matrimonio di interesse o di ambizione, fa un sacrificio grave. Egli ci affida il suo nome e il suo cuore; egli ci dà la sua fede e la sua libertà; egli si lega a un vincolo indissolubile; egli si mette a lavorare per noi e per i nostri figli, umilmente e gloriosamente. Noi siamo la sua consolazione e la sua gloria; noi rappresentiamo per lui le più dolci e più sicure soddisfazioni; la sua giornata passa nel desiderio di ritrovarci, di vederci; le sue ore più care sono nella casa, nelle nostre braccia. O che tesoro di piccoli e grandi sacrifici l'amore di un marito! Voi li ignorate. La passione ignora tutto; non conosce neppure sè stessa. - I mariti tradiscono le mogli - mormorò lui, come trasognato. - Le tradiscono, ma le amano. Nulla vale a vincere quel legame profondo, intinto, fatto di parole e fatto di lacrime, fatto di baci e fatto di sospiri; nulla vale a spezzare questo vincolo penetrato nel cuore e nei sensi. Ma, ecco la passione; vuol vincere il sacro legame, vuole spezzare il sacro vincolo. Chi siete voi? Un giovanotto, un uomo, un essere qualunque, della infinita umanità; lontano da me, estraneo a me. Passare per la mia strada; io, forse, passo per la vostra. E subito mi amate. Che avete fatto per me? Nulla. Che potete fare? Nulla. Cioè molto. Ho un nome, volete togliermelo; ho un onore, voi volete che lo butti via, come un cencio; ho la stinta degli amici, debbo disdegnarla; ho la fede del mio sposo, debbo tradirla; ho la pace della mia coscienza, debbo perderla per sempre. Perchè? Perchè voi mi amate? Anche colui che dorme di là, così tranquillo, mi ama. - Non è vero. - Che ne sapete voi? Noi sole donne conosciamo chi ci ama. Parlate di diritti, voi? O povero uomo che dormi, va, adora una donna sino a sposarla; dà a costei la miglior parte della tua vita, riponi in costei tutta la tua speranza; siile fratello, padre, marito, ansante, antico, consigliare, infermiere; soffri per lei, nel corpo e nell'anima! Ecco che un estraneo, un bell' egoista avvampante di capriccio, un uomo che non ha fatto nulla, che offre alla tua donna una vita di disonore, ecco che costui, per forza di violenza, vuol toglierti tutto! Parlate d'ingiustizia voi? Che fate qua? Parchè mi degno di ascoltarvi, di difendermi, di darvi delle spiegazioni? Non so chi siate, non vi conosco. Levatevi dalla mia strada. Andatevene. Voi non mi amate, Paola, ecco tutto. - Questa è la verità, non vi amo. Ma una fuggevolissima luce, venuta dalla stanza, del marito li colpì entrambi. Un lampo brevissimo; poi l'ombra, di nuovo. Fulvio e Paola si guardarono, s' intesero. E quietamente, dolcemente, come se fosse sul punto di morire, ella disse: - Madonna benedetta, vi raccomando I'anima mia. Sottovoce, orò. Fulvio taceva, aspettando. Ma nessun rumore si fece udire, nessuna luce comparve, nessuno venne. Era stato un inganno. Restarono così, per del tempo. Egli non osava interrompere quel silenzio, non osava dire l'ultima parola. Tutto gli sembrava crollato, intorno, nella notte nera; e non poteva camminare fra le rovine. Pure, levando gli occhi, sentì che gli occhi di lei lo interrogavano desiderosi della fine. - Che debbo fare? - egli domandò, glacialmente. - Andarvene - fece lei, con dolcezza imperturbabile. - Andar dove? - Dove volete; non qui, insomma. - Assai lontano? - Assai lontano. - Posso ritornare? - No. - Fra qualche anno? - No, mai. - Che farete, voi, qui? - Passeranno gli anni; poi, morirò. - Non vi vedrò mai più, Paola? - Mai più. - È la morte, questa, per me. Ella apri le braccia, come se nulla avesse ad aggiungere. - Addio, dunque. - Addio. Non si diedero la mano. Egli voltò le spalle, rientrò nel salone oscuro, camminando come un sonnambulo. Ella tendeva l'orecchio, come a sentirne il passo attraverso la casa; e restava immobile, bianca. Poi lo vide , dalla terrazza, camminare solo, sulla via di Posillipo, perdersi solo nella notte, nell'ombra, coma un morto. Allora solo Paola si volse. Una voce alle sue spalle le aveva detto: - Paola, tu ami Fulvio. Ella rispose al marito: - Sì. E le due disperazioni si guardarono in faccia.

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Francesco II aveva dato la costituzione e quindi l'amnistia; gli emigrati napoletani, a cui l'esilio era duplice dolore, ritornavano, dopo dodici anni, in patria, vinti da una irresistibile nostalgia. Il quindici di agosto, giorno dell'Assunzione, era tornato in Napoli un emigrato di Terra di Lavoro, partito studente, nel '48; e da paesi assai lontani portava seco la moglie giovane, straniera, una figliuolina di quattro anni. Ora, a Napoli, egli prevedeva rivolgimenti, tumulti o sangue; e pensò, a mettere in sicuro Ia moglie o la bambina. Così le condusse in Terra di Lavoro, a Ventaroli, nella casa paterna, le raccomandò ai suoi parenti e ripartì per Napoli. Nè troverete Ventaroli sulla carta geografica. Ventaroli è anche meno di un villaggio, è un piccoletto borgo sulla Collina, più vicino a Sparanise che a Gaeta. Vi sono duecento cinquantasei anime, tre case di signori, una chiesa tutta bianca e un cimitero tutto verde: vi erano allora un gobbo idiota, una vecchia pazza e un eremita in una cappelluccia, nella campagna: il nome del paese era inciso grossolanamente sopra una pietra: i protettori sono i SS. Filippo e Giacomo, la cui festa ricorre il primo di maggio; la protettrice è la Madonna della Libera, che sta nella cappelluccia dell'eremita. A ventaroli ci si alza alle sei del mattino, si mangia a mezzogiorno, si dorme, si passeggia, si cena alle sette e si ridorme alle otto; alla sera vi è la messa; alla sera il vespro e il rosario. Verso I'imbrunire e un gran grugnito di maialetti che ritornano dal pascolo; e un mormorio di voci umane, strilli di donna e pianti di fanciulletti. II parroco, don Ottaviano, uomo bruno e segaligno, era propriamente cugino dell'emigrato e capo della prima famiglia del paese.

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A Ventaroli arrivarono notizie vaghe, paurose: si avanzavano i Garibaldini, si avanzavano i Piemontesi, ma le truppe borboniche tenevano tutta la campagna. Il parroco, che era anche consigliere comunale, cominciò a intimidirsi: la moglie dell'emigrato, sua cognata, le dama straniera, Cariclea, dovette dargli coraggio, ogni sera nelle conversazioni dopo cena; ma ogni mattina ricominciavano i terrori di don Ottaviano. Nè aveva torto: verso i venti di settembre s'intese nella valle un gran rumore di trombe, di cavalli, di soldati, e un distaccamento di Svizzeri venne ad accamparsi in Ventaroli. Nel cortile dell' unico palazzo, quello di don Ottaviano, accamparono duecento fra soldati e ufficiali. Furono ospiti terribili. Gli ufficiali svizzeri erano buoni e cortesi, assuefatti oramai alla dolcezza della vita napoletana, avendo lasciato a Napoli casa, famiglia, figliuoli, amici: addolorati di quella guerra che sentivano inutile, addolorati per quella causa che sentivano perduta: ma i soldati non tolleravano più freno di disciplina, erano diventati ribelli a ogni ordine, si abbandonavano alla ubbriachezza, al gioco. Dopo tre giorni avean consumato tutto il vino, tutto l'olio, tutta la farina di don Ottaviano: e chiedevano ancora, insoIentemente, bastonando i contadini, sgozzando le galline. La vecchie zie, le donne antiche di casa, stavano chiuse nello stanzone di famiglia; tacevano, non osavano neppure filare, pregando mentalmente. Le serve erano in cucina, intorno a certi caldaioni dove cuocevano i maccheroni che non bastavano mai. Tutta la notte era un cantare, un urlare, un litigare: don Ottaviano, chiuso nella stanzetta, leggeva ad alta voce i salmi penitenziali, per quietarsi o per stordirsi, ma non potava dormire, il poveretto. Ma la più forte, sebbene la più minacciata, era la signora Cariclea, la moglie dell'emigrato. Lo sapevano bene, i soldati, che era la moglie di un cospiratore, di un nemico, di uno che aveva tolta Napoli a Francesco II; e ogni volta che ella compariva sulla terrazza o attraversava il cortile, vi era un mormorio crescente di ostilità. Ella passava, quieta, serena, come se niente fosse, e pareva non udisse che la chiamavano moglie di brigande, moglie di assassino. Se ne Iagnava, ella, con qualche ufficiale, specialmente con un maggiore, alto, biondo, robusto, un colosso. - Signora mia - le diceva costui in inglese - io non so che farvi. Badate alla vostra vita, io non posso garantirvela. Non garantisco neppure Ia mia. Ella non teneva per sè, temeva per la sua creaturina. La bimba aveva un cappellino rotondo, chiamato allora alla Garibaldi, con un pom-pon tricolore: e la bimba voleva portarlo sempre, quel pericoloso cappellino. Quando i soldati la vedevano passare, tutta fiera di quel pomo di seta tricolore, era come una rivolta: -Tagliamo loro la testa, a questa razza di briganti, tagliamo la testa di questa creatura, così imparerà a portare il pomo tricolore! La madre tirava un poco a sè la bambina e fingeva di sorridere, e quando era sola, in camera sua, soltanto allora, abbracciava la bimba, con una stretta frenetica. Don Ottaviano urlava: - Ci farete ammazzar tutti, con quel vostro pomo tricolore! Ma la bimba non voleva lasciarlo, gridava, gridava, glielo aveva dato il suo papà, quel cappellino col pomo tricolore. Infine, i viveri cominciando a mancare, i soldati diventarono più rabbiosi e chiesero quattrini: il maggiore portò la imbasciata a don Ottaviano. Costui un giorno dette ai soldati trenta ducati messi da parte per le feste di Natale ma di notte, aiutato dalla cognata donna Cariclea, dalla zia Rachele e dalla serva Ottavia, seppellì, in un angolo dell'orto, il tesoro della Madonna, collane di oro, anelli, orecchini, ex-voto di argento, pissidi, calici, candelabri, altri arredi sacri. L'altare famigliare, che era nel grande salone di famiglia, dedicato alla Vergine, restò spoglio di ogni ornamento. Il seppellimento fu fatto misteriosamente: - Benedetto, benedetto! - diceva don Ottaviano, baciando piamente ogni arnese sacro, prima di sotterrarlo. E singhiozzava, il povero prete. Poi dette ai soldati altri venti ducati, che erano una dote da estrarsi, il primo di novembre, per far maritare una zitella del paese: ma non bastarono. Donna Cariclea dette loro venti marenghi che il marito le aveva lasciati; ma non bastarono. Zia Rachele dette a questi svizzeri furiosi quindici ducati di economie fatte, in molti anni, a grano a grano; ma non bastarono. Ottavia, la serva, aveva diciotto carlini: li dette. In breve, nel palazzo non ci fu più un soldo, nè un pizzico di farina, nè una goccia di vino. Gli ufficiali svizzeri si vergognavano: specialmente il maggiore, che era una persona assai gentile, chinava il capo, offeso nel suo orgoglio di militare. Ora i soldati volevano il tesoro della Madonna: lo volevano giocare a carte. - La Madonna non ha tesoro - diceva don Ottaviano: - ditelo voi, donna Cariclea, - La Madonna non ha tesoro - ripeteva la coraggiosa signora. Il maggiore andava e veniva, parlamentando fra i soldati e la famiglia. - Se non ci danno il tesoro, ammazziamo la bimba - mandavano a dire i soldati. - Raccomandiamoci alla Vergine, cognata mia - mormorava il prete. Così, prevedendo imminente la morte, tutta la famiglia si raccolse nello stanzone, innanzi all'altare denudato, e si mise a pregare. Don Ottaviano aveva vestito i paramenti sacri e stava inginocchiato sui gradini dell'altare. Era una settimana, dieci giorni di accampamento: nessuna notizia, nessun soccorso. Ora l'umore degli Svizzeri era cambiato. Chiedevano un banchetto: volevano che nel cortile s' imbandisse una grande mensa , volevano i gnocchi, se no , mettevano fuoco alla casa. Il parroco giurava di non aver nulla, nulla da dare, neppure un tozzo di pane: il maggiore con le lagrime agli occhi lo scongiurava, che cercasse, che mandasse, per pietà della vita di tutte quelle donne, vecchie e giovani. Furono spediti corrieri a, Carinoia, a Casale, a Cascano, per trovar farina. Ma intanto i soldati andarono nella legnaia, ne cavarono fuori tutte le fascine e le disposero attorno alle mura del palazzo. I corrieri che erano andati per farina tardarono assai: forse erano stati arrestati, forse erano morti. Un mormorio crescente saliva dal grande cortile. Nel salone le donne dicevano le litanie, salmodiando. L'ora passava, lenta. - Se fra dieci minuti non arriva il corriere con la farina, i soldati danno fuoco - venne a dire il maggiore. - Non potete fare più nulla per poi? - chiese donna Cariclea. - Più nulla, signora. - Portar via questa piccolina? Io non mi dolgo di morire; vorrei salvare la bimba. - Mi ucciderebbero con lei, signora. - Che Dio ci assista, dunque - mormorò donna. Cariclea. E Dio li assistette. Un corriere da Cascano ritornò. Portava farina: poca, insufficiente, ma ne portava. Così le serve lasciaron di pregare e scesero in cucina, a fare i gnocchi, per i soldati. Ma i soldati non vollero togliere le fascine: e la morte parve solo ritardata di qualche ora; si capiva che dopo il banchetto i soldati sarebbero diventati più feroci; non avrebbero conosciuto più ragione. Essi, nel cortile, tumultuavano; le povere serve, in cucina, manipolavano la pasta, instupidite; su, nello stanzone, il parroco aveva confessato e dato l'assoluzione a tutti i suoi parenti. La piccolina di donna Cariclea spalancava gli occhi, spaventata; ma non piangeva. A un tratto, il pesante martello del portone risuonò, tre volte, sonoramente. Un silenzio profondo. Ma nessuno aprì. Tre altri colpi: e il battito del piede ferrato di un cavallo risuonò innanzi al portone. - Chi va là? - chiese la sentinella, senz'aprire. - Viva Francesco II! - gridò una voce affannosa. - Viva, viva! - urlarono i soldati. Era una staffetta: un soldato pallido e grondante sudore. Chiese del colonnello, del maggiore, di un capo; non aveva che due parole da dirgli. Il maggiore alto e biondo, il colosso affettuoso e fiero, occorse; la staffetta si rizzò, gli parlò all'orecchio. Il maggiore restò imperterrito, assente col capo; la staffetta ripartì, precipitosamente. Il maggiore salì sul terrazzino interno che dava sul cortile, fece suonare la tromba, due volte: - Soldati - disse con voce tonante - abbiamo innanzi a noi Garibaldi, alle spalle arriva Vittorio Emanuele. Facciamo il nostro dovere. Viva Francesco II! - Viva! - disse qualche voce. E lentamente si misero in tenuta di partire. Andavano fiacchi, lenti, molli, attaccandosi la giberna, visitando i fucili; e il maggior loro dolore, per quei mercenari brutali, era di non poter banchettare, di non poter mangiare i gnocchi che le povere serve facevano in cucina. Gli ufficiali andavano, venivano, gridavano; ma inutilmente. - Consolatevi, signora - disse il maggiore a donna Cariclea, entrando nel salone ora vengono i Garibaldini. Ella non osò consolarsi. Stringeva la piccolina sul petto e non parlava. II parroco non levava la testa. - Addio, signori, non ci vedremo più - disse il maggiore. - Noi andiamo alla morte. E non tremava la sua voce. Uscì, si pose alla testa dei soldati, marziale, bellissimo a cavallo, camminando serenamente alla battaglia; dietro di lui i soldati svizzeri andavano, come pecore, stretti stretti, taciturni, torvi. Nessuno osò levare la voce, nel palazzo deserto, devastato; per un'ora tutti tacquero, innanzi all'altare, subendo ancora I'incubo di quell'assedio. - Ora vengono i Garibaldini - disse, a un tratto la bambina. E vennero. Portavano la camicia rossa, ma erano coperti di polvere, con le scarpe rotte, stanchi, sfiniti; volevano bere, volevano mangiare, non ne potevano più. - Che daremo loro? - diceva don Ottaviano, disperandosi. I Garibaldini non credevano che non ci fosse nulla. Erano una quarantina, estenuati; avevano trovato la devastazione dappertutto. Dappertutto i Borbonici avevano mangiato tutto, bevuto tutto, non vi era più nulla; come potevano dunque battersi? Un ufficiale, buonissimo, parlamentava con donna Cariclea e col parroco; era inutile, non vi era nulla, nulla. Ma un clamore venne dal cortile; i Garibaldini avevano scoperto la cucina e il caldaione dei gnocchi. - Ah, Borbonici, canaglia! Avevate da mangiare e ce lo negavate! Borbonici della malora, che vi porti via il diavolo! Ma fra quelle voci irritate, furiose, una vocina sorse: - Viva Garibaldi! La piccolina, in mezzo ai Garibaldini, agitava il suo cappelluccio col pomo di seta tricolore. Mentre la baciavano, levandola su in trionfo, ella strillava sempre. La madre piangeva.

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Ma don Ottaviano, le vecchie zie, le giovani spose, le serve erano stanche di quella tremenda giornata; e malgrado il terrore dell'indomani, malgrado la suprema incertezza, che era anche un supremo pericolo, andarono a dormire. Donna Cariclea si ritirò nella sua stanzuccia, che era proprio sopra l'arco del portone. Aveva appena appena congiunte le mani della piccolina per la preghiera della sera, quando, nel silenzio profondo del villaggio, si udì un galoppo di cavallo; veniva verso la casa. E subito dopo un fievole colpo di martello risuonò. Donna Cariclea trasalì. Che doveva fare? Si affacciò senza far rumore alla finestra: nell'ombra si vedeva un cavallo e un cavaliere, ma non si distingueva altro. Erano immobili, aspettavano. Ma passò qualche minuto; il cavaliere non picchiò di nuovo, aspettando, pazientemente. - Chi sarà mai? - pensava donna Cariclea, tutta trepidante. E richiuse la finestra, senza far rumore. Ma quel cavaliere, Ià, innanzi al portone, nella notte, le dava tormento. Riaprì, domandò sottovoce: - Chi è? - Sono io - disse una nota voce. - Voi, maggiore? - Aprite, signora, per carità! Ella prese un lume, attraversò due o tre stanze, scese per le scale, andò a tirare i grossi catenacci. Silenziosamente, il maggiore era disceso da cavallo e se lo trasse dietro, nel cortile; lo legò a un anello di ferro. La signora andava innanzi e il maggiore dietro; quando furono nella stanzetta, il maggiore le fece cenno di chiudere la porta a chiave. La bimba, già in letto, guardava tutto questo con un par d'occhioni spaventati. - Signora - disse il maggiore - io sono nelle vostre mani. Ella lo guardò, sgomenta. L'ufficiale svizzero era in uniforme, tutto gallonato, tutto scintillante di oro: ma teneva il capo abbassato sul petto. - Che avete fatto? - chiese ella, duramente. - Sono scappato, signora. Fuggo da tre ore; due ore siamo stati nascosti in una macchia, il mio cavallo e io. - Non avete preso parte alla battaglia? - No, signora, vi dico che sono scappato. - E perchè? - chiese ella a quel colosso. - Perchè avevo paura - disse lui, semplicemente. - Oh! - fece soltanto lei, celandosi il volto per ribrezzo. - Avete ragione - disse lui, umilmente.- Ma la paura non si vince: sono fuggito. - Non vi vergognate, non vi vergognate? - chiese ella, tremando di emozione. Egli non rispose. Si vergognava, forse. Stava buttato sulla sedia, grande corpo accasciato dalla viltà. - E i vostri soldati? - Chissà! - disse il maggiore, levando le spalle. - Chi ha vinto, dunque? - Non lo so. Avranno vinto gli Italiani. - E siete fuggito? - Già. Vi ripeto, avevo paura. Che m'importa della battaglia? Voi dovete salvarmi, signora. - Io? - Sì. Dovete farmi fuggire. Voglio ritornare a Napoli, in sicurezza. Ho famiglia io: ho figli io: che me ne importa di Francesco II? Salvatemi, signora, ve ne scongiuro. - E perchè dovrei farlo? - Perchè siete donna, perchè siete buona, perchè anche voi avete una figlia... e capite... - Siete un nemico, voi, - V'ingannate, sono un disertore. - Ebbene? - Significa che io temo egualmente i Borbonici, come i Garibaldini. Se mi trovano i vostri, sono un nemico e mi fucilano; se mi trovano i Borbonici, sono un disertore e mi fucilano. Ecco perchè vi chieggo di salvarmi. - Se rientrate a Napoli vi fucileranno. - Garibaldi è buono - disse umilmente il maggiore svizzero. - È una vergogna - ripetette lei duramente. - Lo so; ma che posso farci? Salvatemi voi. - Stamane avreste lasciato - morire la mia bambina. - Che potevo fare? - Eppure il re contava su voialtri! Che uomini siete. dunque? - O signora mia, per carità, non ne parliamo; se avete viscere di madre, trovatemi un mezzo per fuggire. - Io non ne ho. - Lasciatemi stare qua, in questa stanza. - Se vi ci trovano, siamo perduti tutti. - È vero - disse lui, dolorosamente. La bambina aveva ascoltato tutto il discorso, guardando ora sua madre, ora il maggiore. Adesso, ambedue tacevano Egli era immerso nel più profondo avvilimento; ella era combattuta da tanti sentimenti diversi. - Ho anch'io un bimbo di questa età - mormorò il maggiore. - Non Io vedrò più, forse. -Aspettatemi qui - disse donna Cariclea; decidendosi. E uscì. Il maggiore si era inginocchiato vicino al letto e aveva baciata la piccolina. Donna Cariclea tardava. Alla fine, muta, lieve come un'ombra, ritornò. Portava un involto di panni: - Smorzerò il lume - disse, con voce breve, superando ogni ritrosia di donna - toglietevi I'uniforme e mettete questi abiti. Così fece. Dopo pochi momenti ella riaccese il lume; il maggiore era vestito da contadino e l'uniforme giaceva per terra. Egli se ne stava tutto umile, tutto contrito. - Bisogna nascondere quest'uniforme e questa spada - disse lui, - trovandosi, sareste perduta. - È vero - disse lei. - Spezzate dunque la spada. Senza esitare, egli tentò di spezzare la spada sul ginocchio. Ma la buona lama resisteva Alla fine, con la tensione dei suoi muscoli robusti, la spezzò. - Scucite i galloni dall' uniforme - ordinò donna Cariclea. Parzialmente, il maggiore strappò i galloni del suo uniforme. Ella raccolse tutto. - Andiamo a buttarli via. Egli la segui per le scale; essa lo guidava con un fioco cerino. Scesero nel cortile macchinalmente, ella buttò i frammenti della spada nel profondo pozzo, che era in mezzo al cortile. Il maggiore sospirò di sollievo. Poi passarono vicino alla conserva dell'olio; ella vi buttò l'uniforme disadorno di galloni. Alla fine, passando presso un mucchio di letame, ella vi buttò i galloni, rivoltandoli con una pala, per farli andare sotto. - Dio mio, ti ringrazio! - esclamò il maggiore. - E il cavallo? che facciamo del cavallo? Se lo trovano siamo perduti. - È vero - mormorò lui. - Bisogna farlo scomparire. Ora lo ammazzo. - Con che? - Non ho armi, è vero. Andarono presso il cavallo. La buona bestia nitrì; il maggiore fremette di paura. Poi, sciolse le redini dall'anello, trasse il cavallo fuori del portone e rinchiuse il portone. Stettero a sentire, il maggiore e donna Cariclea. Per un pezzo il cavallo scalpitò sulla soglia, battè col capo contro il legno della porta; ma poi ne sentirono il galoppo furioso e pazzo per la campagna. - Domani la campagna sarà piena di cavalli fuggenti - mormorò il disertore. - Andiamo su - fece lei. Risalirono. La bimba era sempre sveglia. Donna Cariclea si chinò e baciò sulla guancia la sua figliuola. In atteggiamento confuso il maggiore aspettava. - Sentite - disse donna Cariclea. - Io ho fatto svegliare Peppino, il boaro. È una creatura bestiale, ostinata e fedele. Farà tutto quello che gli ho detto. Ha messo una scala alla finestra del grande salone. Dà sull'orto. Voi scenderete per quella scala; siete forte, mi pare? - Fortissimo. - Bene; andrete a traverso i campi, ma senza affrettarvi, dovrete avere il passo dei contadini che vanno al mercato. Parlate poco con Peppino, i contadini non parlano. Avete i baffi di un signore e di un militare; ecco le forbici, tagliateveli. Egli eseguì senz'esitare. - Bene. Andrete a passare il Volturno, molto al disotto di Capua; là troverete una scafa, passerete il fiume e vi recherete a Napoli. Peppino vi lascerà, tornerà indietro, non dirà mai una parola con nessuno. Noi, probabilmente, non c'incontreremo più. Tanto meglio. Ma se ci dovessimo mai incontrare, badate bene, non mi ringraziate, non mi tendete la mano, non mi salutate, non mostrate di conoscermi. Se lo faceste, vi darei del disertore sulla faccia. Addio, dunque, signore. - Addio, signora. E fece per accostarsi al letto, donde la bimba lo guardava, e voleva baciarla. - No - fece la madre opponendosi. Egli uscì. Donna Cariclea lo sentì scambiare una parola con Peppino che l'aspettava pazientemente, seduto nell'ombra dello stanzone; udì lo scricchiolio della scala sotto quel corpo pesante; udì i due passi quasi allontanarsi. Allora si accostò al letto della sua piccolina, si curvò su lei: - Pensa che questo sia un sogno, Caterina; dimentica, dimentica tutto, piccolina mia.

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Nel sogno

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Matilde Serao 5 occorrenze

Se non a tutti è concesso arrivare a queste altitudini operose di sogno, tutti possiamo, però, mettere in noi e attorno a noi, la poesia di un sogno. Nello stretto giro di una piccola casa, nel piccolo limite di un'esistenza tranquilla e sconosciuta, nel breve ambiente di un amore, di una devozione nascosta, di una missione celata dell'anima, l'uomo, la donna possono creare un sogno che li aiuti a vivere, che li aiuti a soffrire, che insegni loro a godere, che li conduca serenamente all'estremo loro giorno. Facciamo un sogno della nostra vita, quale che essa sia, luminosa o tetra, deserta o popolosa: facciamo un sogno vivido e invincibile della nostra esistenza e le sue vicende aspre ci sembreranno facili e gradite e i suoi dolori sopportabili e purificanti. Sogniamo di esser buoni, sino alla morte: sogniamo di amare, sino alla morte. Sogniamo, sino alla morte, non di esser felici noi, ma di render felici quelli che amiamo! FINE

La funzione del vivere, pensando, sentendo, agendo, ci sembra un continuo problema da risolvere e l'aver compiuto altre ventiquattr'ore del nostro viaggio, ogni sera, ci dà quasi un senso di sollievo, mentre l'aprir gli occhi alla luce, ogni mattina, ci dà un senso di smarrimento, come se ci misurassimo impotenti a trascorrere la nuova giornata. Ogni passo che noi facciamo, ci sembra arrischiato: ogni fermata ci sembra mortale. Ogni nostro movimento è da noi troppo discusso, troppo vagliato e noi andiamo egualmente dalla inerzia al pentimento, dall'azione al pentimento. Quanto migliaja di generazioni d'uomini trovarono facile e piano, a traverso il tempo, lo spazio, a traverso tutte le più varie condizioni, appare a noi irto di ostacoli, talvolta insormontabili: le più semplici azioni che esseri fatti di sangue e di nervi come noi, compirono spensieratamente, sempre, per secoli e secoli, sembrano a noi talmente difficili da lasciarci scoraggiati. La scelta di una carriera, l'abbandono del cuore a un amore, un grande viaggio, una novella intrapresa, un matrimonio, un subitaneo cangiamento di cose, d'idee, di consuetudini, c'immergono nelle più amare dubbiezze, ci tolgono ogni equilibrio, spesso ci riducono alla ignavia morale, facendoci rinunziare a risolvere i problemi più incalzanti dell'esistenza. Chi è più spensierato, oramai? Mentre tutte le invenzioni della scienza, tutte le leggi della politica, tutte le manifestazioni dell'arte sono dirette ad appianare le difficoltà dell'esistenza, ogni giorno di più quest'esistenza pare un orribile nodo gordiano che è impossibile di sciogliere e che ninno è tanto audace da tagliare. Noi non vediamo innanzi a noi che erte montagne da ascendere, mentre deboli sono i nostri polmoni e fiacche sono le nostre gambe: non vediamo che deserte pianure da valicare, sotto il sole cocente, pianure senz'acqua e senza oasi, mentre già le nostre fauci son disseccate: noi non vediamo che un mare in tempesta da traversare, mentre già pende in brandelli la vela della nostra nave senza timone. Ma che ci è accaduto, dunque? Com'è che abbiamo dimenticato la scienza della vita? Come va che l'arte del vivere non ci è più nota? Chi ci ha tolto questa scienza e quest'arte? Chi diminuì e sperperò le nostre forze? Chi ha spezzato in noi la molla della nostra energia? Quale mano ha strappato a noi il velo che ci nascondeva la verità e ci ha resi timidi, trepidanti, quasi vili? Chi, chi ha ingrandito, innanzi a noi, la possanza della vita e ha ammiserito la nostra possanza? È la fredda ragione che tanto fece. È la voce della ragione quella che vi parla, troppo spesso e forse unicamente all'orecchio e che vi dice, gelidamente, quanto voi siate impari all'avversario, nella lunga milizia che è l'esistenza. La fredda ragione v' invita a guardare in voi stessi, a misurarvi, a pesarvi, a calcolarvi; e voi sentite tutta la penuria del vostro vigore, le inevitabili eredità di debolezza che sono nella specie, le miserie del sangue e delle fibre, le limitazioni implacabili che mette la natura e che mette Iddio, le cadute fatali della volontà innanzi agli istinti che non si domano, le strettoie dove l'uomo si agita e che la ragione, la fredda ragione, vi descrive, come la catena del galeotto che si porta sino alla morte. Parla al vostro orecchio la fredda ragione e vi mostra lo spettacolo della vita senza velo, senza aureola, nella sua nuda verità; e voi vedete che siano le vane promesse della gioventù, i fallaci giuramenti della passione, le lusinghe ingannatrici dei trionfi umani, le brevi ed egoistiche gioje dell'età virile, i tornanti amari ricordi della maturità e le tristissime decadenze della vecchiaja. Ah essa parla, parla tanto, parla troppo, la ragione, e vi mostra, sì, la via della virtù, ma ve ne dichiara anche tutte le spine pungenti, tutte le asprezze dolorose, tutte le privazioni inenarrabili e, questa via lunga, ve la fa vedere senza poesia, senz'attrazione, senza fascino, attossicante alla bocca e al cuore come l'assenzio, senza altre consolazioni, senza estremi compensi. Sì, è vero, la ragione vi assegna, rigorosamente, quello che è il vostro dovere: ma questo dovere ve lo infligge in tutta la sua austerità, in tutta la sua crudeltà, in tutta la sua amarezza; ma quello che v' impone di fare, la ragione, cioè il vostro dovere, essa ve lo mostra così brutto, così disadorno, così disgustoso, che l'uomo si copre il volto con le mani, per non vedere: e la mortale fiacchezza lo colpisce e lo atterra. Tutto il congegno sociale, così bizzarro, così stravagante, così imperfetto, ma che non si potrebbe mutare, forse, che in peggio, la ragione ve lo smonta, innanzi, nelle sue ruote, e voi ne osservate tutti i traviamenti fatali, tutte le ingiustizie necessarie, tutte le infamie inevitabili e voi provate l'orrore mortale dell'uomo dinnanzi ad una macchina mostruosa che lo deve schiacciare. Questo fa, la ragione. È il suo còmpito. Essa deve dirvi la verità; e non importa che questa verità sia il vostro dolore e la vostra morte.

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Oberon, marito di Titania, marito tenero e dispettoso, malcontento che Titania si sia rifiutata a un suo lieve capriccio, decide di infliggerle una singolare punizione. Egli distilla sugli occhi di Titania dormiente un succo possente, un magico filtro: per esso, risvegliandosi, Titania amerà follemente il primo essere, che incontreranno i suoi occhi, quale che sia questo essere, bello o brutto, elegante o triviale, intelligente o stupido: per questo filtro mirabile, la prima persona che apparirà a Titania la bionda, le sembrerà dotata di una bellezza sovrumana e ogni suo atto, il più volgare, ogni sua parola, la più semplice, saranno per Titania una musica soave, un gesto incantevole. Titania la bionda si risveglia, come trasognata: e innanzi ai suoi occhi appare Bottom, un calzolajo, un grosso bestione, che si é smarrito nella foresta, dove, coi compagni, artieri ateniesi, veniva a concertare una commedia, visto che questa povera gente, oltre a tirar lo spago, a menar la pialla e a batterre il ferro sull' incudine, si industriava anche a recitare, per guadagnar qualche soldo, sopra un teatrino di tavole. Bottom, fra costoro, è il più goffo: brutto, stupido, con certe grosse orecchie asinine, egli resta anche più imbecillito di fronte a Titania la bionda, la esile e lieve regina delle fate, innamorata di lui. La malìa di Oberon agisce e la creatura che danza la notte sui prati, fra il coro delle sue ninfe, la creatura che beve la rugiada nel calice di un fiore, abbraccia il grosso bestione, rivolgendogli le più appassionate parole e gli carezza le orecchie asinine amorosamente. Bottom è stato trasformato dal filtro miracoloso: tutto quello che gli manca, il filtro glielo dà: la sua goffaggine, il suo cretinismo, la sua bruttezza, colorite dagli occhi di Titania in cui il filtro agisce, prendono la parvenza della grazia, della bellezza, della seduzione; e tutta la foresta con i suoi fiori, i suoi profumi, le sue musiche arcane, s' inchina a colui che divenne il signore della sua regina: e le ninfe e i folletti e Titania istessa, trasvolante nel bosco come un'ombra leggiera, s'inchinano a colui che l' incanto fece bello come un dio! Volle il divino Guglielmo Shakespeare, nel suo Sogno d'una notte d'estate, in questo magico succo che riveste dei colori più maliosi una persona plebea e deforme, adombrare un simbolo amoroso ed umano? Chi sa! Egli volle tutto, io credo: e tutto espresse, tutto raffigurò, tutto personificò e, ancora per centinaia di anni, migliaia di lettori e migliaia di spettatori troveranno in lui cose nuove, cose grandi, cose profonde, cose impensate e meravigliose. Abbia o non abbia simboleggiato il sublime accecamento della donna innanzi all'oggetto amato, noi coi nostri occhi mortali vediamo in Titania il cuore umano, in Bottom la vita e nel magico filtro che tutto trasforma, il potere sconfinato dell' immaginazione. La vita è grossolana, è mediocre, è laida; ma basta che gli occhi di chi la guarda, sieno stati bagnati da quel misterioso elisire che è la fantasia, perchè la vita muti tutto il suo aspetto, perché essa possa parer diversa da quello che è, un'altra cosa, un'altra figura, un'altra immagine, qualche cosa che attrae, che conquide, che avvince. La vita è rude, è gretta, è crudele; ma se colui che la subisce, ha in sè il segreto filtro che Oberon distillò a Titania dormiente, tutto sarà singolarmente mutato in bene e Bottom, ancora una volta, farà delirare la creatura gentile. Questa possente forza di trasformazione agisce in noi così mirabilmente che, si può dire, la vita intorno sia quella che noi facciamo con la nostra fantasia e non già quella che è nella sua essenza così grama, così bassa. La fantasia, in noi, diventa un artista creatore, dotato d'un tal sublime potere di creare, che da un vile fango trae la statua, la persona, il monumento, la città, il mondo. Plasmatrice inarrivabile, la fantasia, in noi e fuor di noi, non muta solo il volto delle persone che amiamo, non cambia per noi solo l'aspetto esteriore degli uomini e delle cose, ma ne trasforma lo spirito e l'anima, ma trasforma il corso degli avvenimenti e vince il Destino! Quale uomo potrebbe continuare a vivere, se la sua immaginazione non rifacesse intorno a sè la vita? Quale donna consentirebbe a vivere, se la sua immaginazione non le nascondesse le laidezze ond'è cosparsa la esistenza e non le infondesse il coraggio di esistere? Sublime potere della fantasia! Per essa, il povero lavoratore che passerà i suoi anni fra la fatica e gli stenti, lasciando di travagliare solo per morire, si creerà del suo lavoro e delle sue privazioni un dovere colorito di tutte le lusinghe di un nobile sacrificio: per essa, il povero impiegato che trascina la sua vita fra aride e mal compensate umili funzioni, vedrà il suo lungo cammino trasformato dal sogno in pace famigliare, coi figli benedicenti alla bontà segreta e costante del padre: per essa, la povera donna malmaritata, sofferente sotto un giogo che la ragione le mostrerebbe assurdo, ma che la fantasia le trasforma in un poetico dovere di onestà e di fedeltà, potrà compiere il suo triste viaggio senza errare, col cuore solitario, ma racconsolato: per essa l'uomo che sentì mancare in sè e attorno a sè le forze e le occasioni che lo dovevano condurre a una meta agognata, sentirà meno velenose, meno pesanti le delusioni di chi sbagliò la sua strada: per essa la fanciulla che amò invano, che non fu mai amata, che vede tolta a sè la miglior parte della vita muliebre, cioè l'amore, cerca altri moti più altruistici e più caritatevoli, di espandere l'ardore non corrisposto del suo cuore: per essa, pel prodigioso potere della fantasia, tutte le esistenze misere, senza conforti materiali, senza conforti morali, - e sono innumerevoli, ahimè, queste esistenze, - sopportano quietamente la loro desolazione e quasi ne traggono origine di serenità e di felicita. Sui nostri chiusi occhi, nel sonno, Oberon gitta la sua arcana malia; e l'anima nostra, trasportata dall'azione bizzarra del filtro, non si cura della congerie di tristezze disseminate lungo il corso degli anni, e trova in sè la energia della lotta e della vittoria. Senza fantasia, chi potrebbe amare la vita dove è l' immondo contatto degli sciocchi e dei perversi, dove s'agitano le passioni più odiose e più nauseanti, dove la mancanza di fede, il tradimento, l'abbandono colpiscono le anime più degne, dove sono tutte le caducità e tutti gli errori? Chi, senza fantasia, potrebbe subire l'insulto dei potenti, l'indifferenza della folla, la ingratitudine degli amici? Chi, senza fantasia, potrebbe veder morire in sè ogni speranza e fuori di sè ogni desiderio? Chi, senza fantasia, potrebbe patire, sacrificarsi, vivere di abnegazione e di abnegazione morire?

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Temperamenti caldi e, talvolta, delicatissimi: caratteri pieni di passione irrompente e, spesso, impacciati e taciturni: anime piene di poesia e, per lo più, inabili a esprimere quello che è la loro ricchezza spirituale: fibre spesso molto gracili, ma che appariscono sostenute da una fiamma interiore: parvenze di uomini, di donne, spesso molto semplici, spesso molto austere, spesso inascoltate in ogni loro grido di gioja e di dolore: cuori dove prende origine, dall'amore, dalla malinconia, dalla tristezza, dalle lagrime che non sgorgano, il sogno, il sogno che trasporta, che trascina, che travolge: costoro, tutti costoro, per gli occhi che leggono oltre le chiuse fronti, portano il suggello di un dono speciale, prezioso, che fu loro concesso dal Signore. Non è necessario, perché questa nobilissima facoltà del sogno si esplichi, che la mente sia dotata di grande intelligenza: non è necessario che il cuore sia saturo di sentimenti eroici: non è necessario che il carattere possieda qualità vigorose e combattive: no, perchè si possa vivere sognando e sognando morire, non si deve essere nè un grand'uomo, nè una grande donna, nè un artista trionfale, nè uno scienziato mondiale. No! La madre che, nella casa solitaria, ogni sera culla il suo bambino e quando egli si addormenta si curva, lo benedice e resta immota, a guardarlo, mentre l'ora passa ed egli non se ne accorge, è trasportata da un sogno di amore e di orgoglio nel quale suo figlio le appare già grande, florido, bello, dolce, sereno, amato, stimato, ammirato: il villano che si ferma, un minuto, guardando il campo che egli ha seminato con la buona semente, è trasportato dal sogno del futuro pane che la Terra gli darà, fecondata dal suo lavoro: l'operaio che ribadì i chiodi sulle tavole robuste della nave che andrà via, lontano, sui mari, sente nella ingenua anima il sogno di questa forza che egli crea, umilmente e oscuramente, e nel giorno del suo varo, convulsamente, l'operaio piange, di gioja, di tenerezza, vedendola, come nel suo sogno, partire! E cento e mille altri, nelle case borghesi, nei tuguri, nei palazzi, sui monti e sulle pianure, nelle popolose città, nei centri solinghi di provincia, nei piccoli borghi perduti nella campagna, sognano ad occhi aperti un sogno piccolo o grande, un sogno di gloria o di benessere, un sogno di odio o di amore, un sogno di bontà, un sogno di rassegnazione, un sogno di pietà. L'uomo che passa accanto a voi nella via, e che trascorre, quasi senza vedervi, porta in sè un sogno che vi è ignoto: la pallida donna che solleva la portiera pesante di una chiesa e s' inginocchia innanzi alla immagine di Maria, porta in sè un sogno di dolore, forse, e forse di pentimento: il gentiluomo che s'inchina, cortese, squisito, innanzi a una donna e pare ga- tante e spensierato, sogna, forse, un sogno di gelosia e di furore: la dama che si covre di brillanti e appare fulgida nella festa dove trionfa il piacere, nasconde forse nell'anima un sogno di pace, di solitudine, di silenzio, inaccessibile: il banchiere gajo e vittorioso che vi stringe la mano sorridendo e sparisce, sogna, forse, il distacco da questo vecchio povero mondo europeo dove niuno fa più fortuna, dove tutti impoveriscono: la fanciulla che tace e pensa, quando intorno a lei si narrano i fasti dalle grandi nozze, sogna, forse e senza forse, l'altare che la vedrà inginocchiata nella candida veste, mentre ella quasi si curva sulla visione, per scorgere il viso del misterioso sposo che non le è apparso ancora: la donna che legge, nelle pagine di un romanzo, nelle cronache di un giornale, l'urto terribile o truce della passione amorosa, abbandona il libro, il foglio sulle ginocchia e sogna quello che non le fu, che non le sarà mai concesso, vivere e perire per un amore. Oh potenza evocatrice del sogno, in chi sa sognare! Basta aprire un cassetto già chiuso da anni e guardare l'indirizzo di una lettera, per rivedere, sì, per rivedere come se fossero vivi, i cari occhi materni che mai seppero guardarvi senza dolcezza: basta contemplare un fascio di fiori campestri, per sognare il grande silenzio delle vaste distese solinghe, sotto il cielo stellato, nelle notti di estate: basta odorare un noto profumo per vedersi apparire innanzi un volto sfiorito dal dolore che già, da molti anni, sparve dal mondo e le cui treccie nere odoravano di quel profumo: basta udire il fischio di un treno che passa, per creare il sogno di una fuga: fuga interminabile, chi sa dove, chi sa quando, in un paese che non si è mai visto, che esiste, forse, solo nel sogno: basta il verso nostalgico e disperato di un poeta per creare un sogno di dolore e di disperazione. Potenza creatrice del sogno! Forme, linee, espressioni mai scorte, che non si scorgeranno mai: voci, parole, musiche che le nostre orecchie di carne non udranno mai: emozioni, voluttà, ebbrezze che le nostre fibre terrene non saprebbero sopportare: alte felicità e alte sciagure più grandi di ogni avvenimento estremo: improvvise ricchezze, improvvisi trionfi, improvvise glorie che non ci saranno mai date: tutta un'altra vita e mille vite, insieme ardenti, vibranti, tumultuanti, conducenti all'apogeo di ogni sensazione e di ogni sentimento. O fortunati coloro in cui il sogno tanto opera! Il sogno distende fra il sognatore e la vita come un velarlo, come una nuvola e il fortunato essere si avanza in questa specie di custodia immateriale, in quest'atmosfera spirituale isolante; e fra i veli del suo sogno, fra la bianca nuvola che Io avvolge, nella solitudine che lo assorbe, il fortunato può abbandonarsi alla sua profonda e cara visione, può come Issione struggersi di amore, di dolore, di folle ardore, senza che nulla di quanto esiste, nella verità, lo strappi al suo sentimentale delirio! Assai, assai più invidiabili coloro in cui, quale leva magnetica, il sogno diventa operoso. Può, spesso, la società positiva non saper risparmiare a questi sognatori il suo disprezzo; ma nella intimità del suo spirito, la società positiva invidia loro questa forza capace di sollevare le montagne, ma la vita e la morte di questi sognatori operosi finisce per istrappare un lungo grido di rimpianto e di ammirazione persino in coloro che li derisero. Che importa poi ai sognatori operosi la derisione, sogghigno, la beffarda incredulità? Coloro cui fu data questa suprema risorsa dell'intelligenza e del sentimento, coloro che portano in sè questo divino segreto, sono coverti di uno scudo fatato, scintillante, simile a quello su cui si spezzò la lancia di Telramondo senza giungere al petto di Lohengrin. Ogni anno, centinaja di deboli donne, soggette a tutte le fralezze del sesso, entrano negli ordini religiosi militanti e partono per le scuole, per gli ospedali, pei campi di battaglia, per le missioni nei paesi più inospiti e più selvaggi : e prese dal loro sogno di fede e di carità, esse combattono, decimate dalle malattie, dalle fatiche, dai climi perversi, dagli uomini perversi, e dove dieci sono cadute, venti, cento ne arrivano, e questa catena di nobilissime sognatrici giammai s'infrange, continuamente si prolunga. Ogni anno centinaja di giovani, di uomini maturi, di vecchi, entrano nei gabinetti della scienza e si curvano a interrogare tutti i misteri della natura e della vita, e impallidiscono sopra il microscopio, e perdono i loro occhi, la loro salute, semplicemente per portare un piccolo contributo alla verità; e spesso intiere esistenze si consumano, così, ignorate; e, spesso, i loro sforzi nulla raggiungono; e spesso la lotta è così inane, così acre, così tormentosa che essa li uccide, in pieno sogno di passione scientifica. Ma dove tanti perirono, altri, altri portanti nella mente questa visione fulgida, vengono ancora, lottatori accaniti, lottatori indomati, sino a che, un giorno glorioso, il sogno di tutti loro sia compiuto da un solo e la umanità possa dire di aver vinto, ancora una volta, il morbo e la morte. Ogni anno, ogni anno, in cento anime si svolge il sogno di viaggi in regioni non ancora percorse da piede d'uomo civilizzato: il grande sogno nordico, fra le nevi eterne del polo, fra le immortali bianchezze dove i giorni senza sole succedono alle albe livide e muojono ne le candide notti spettrali; e il sogno dell'Africa, sotto quella Croce del Sud che tanti occhi ansiosi interrogarono nelle notti di marcia, e che parve loro la mistica stella che condusse i Re nella peregrinazione verso Soria, questi due sogni immensi e profondi, affascinanti e travolgenti, tolgono alle ricchezze, agli agi, alla patria, alle famiglie cuori ed anime di sognatori sublimi. Invano essi languiscono di sonno, di fame, di malattia, fra i ghiacci che fanno scricchiolare la nave prigioniera: invano dieci, dodici muojono colà nel settentrionale estremo vedovo sito di silenzio e di gelo. Altri vi saranno che andranno, vinti dal sogno, a immolarsi, a cadere. Invano, la terra d'Africa si copre dei più nobili cadaveri di soldati, di marinai, di scienziati, di scrittori, di principi, di avventurosi: invano, ogni giorno, è la notizia di una nuova tragedia. Altri ancora, dalla Francia, dalla Germania, dall' Inghilterra, dalla stessa degenerata ed abbrutita Italia vi vanno, vi andranno ancora, poichè questo sublime sogno pare riceva un alimento prodigioso e misterioso dal sacrifizio, dal sangue, dalla morte. Infuria dappertutto la collera delle classi meno felici, meno fortunate contro coloro che tengono nelle mani tutti i poteri della Terra; ma dovunque sono donne di cuore, dovunque sono anime gentili muliebri, piccole e grandi associazioni di carità si formano, e ogni miseria morale, ogni infelicità fisica trova la mano che soccorre e che carezza, il sorriso che consola e che assolve, il ricovero che custodisce il sonno e l'innocenza, la protezione che sorveglia e che redime. Immensi dolori agitano il mondo: ma il sogno di carità che affratella le donne di ogni paese e di ogni condizione, ha tale soffio ardente e vivificante che esse sole, esse, le donne, le oscure e grandi anime sognanti, portano nel cuore il segreto che risolve il dolore umano! E il letto di morte dove posa la sua testa stanca, l'uomo che visse e andò verso la tomba per un sogno di fede, di bontà, di gloria, di grandezza, è pieno di pace finale per l'agonizzante. La monaca che muore uccisa dal tifo, il missionario che finisce, ferito dalla zagaglia barbara, lo scienziato che é avvelenato dai farmachi che maneggia,l'inventore che è stritolato dalla sua macchina, il viaggiatore che cade di freddo sulla tolda della nave confitta nella banchina di ghiaccio, l'esploratore che è ucciso dalle febbri o dalla lancia di un selvaggio, la dama che muore di una malattia presa nelle sue opere di carità, muojono in pieno sogno senza destarsi dalla loro nobile visione e dànno la loro vita senza rammarico, rassegnatamente, serenamente, sentendo di aver vissuto per qualche cosa di grande, sentendo di aver vissuto per qualche cosa di nobile. Oh, tu sei morto, Antonio Cecchi, dilettissimo amico, sulla terra di Africa dove vedesti cadere tanti altri, sognanti come te una gloria di civiltà e di redenzione: noi ti abbiamo perduto e non ci resta che abbracciare le tue ceneri fredde, quando arriveranno alla nostra marina, d'onde, anima tenera e gagliarda, tante volte ti salutammo partente. Tu sei morto, amico impareggiabile, impareggiabile cittadino, come Giuseppe Chiarini, come il nostro Licata, come Gustavo Bianchi, come Eugenio Ruspoli, come Vittorio Bòttego, morti, morti tutti, sognatori tutti, ma sognatori grandi, ma sognatori ammirabili, ma sognatori sublimi, morti sulla terra che vi ha sedotti, morti sul campo delle vostre visioni, morti in pieno sogno di eroismo. E voi siete perite, o dame del Bazar di Carità! Belle, ricche, nobili signore: gentili, leggiadre, briose signorine: monache delle case ospitaliere, il fuoco ha distrutto le vostre vite care alla fortuna, care alle vostre famiglie, care alla religione; siete morte mentre compivate un sogno di carità largo, vastissimo, tale da diffondere il bene nel cerchio più ampio e più oscuro delle tristezze umane. Più di cento donne sono morte a Parigi, facendo il bene, morte alcune senza voler fuggire, eroiche sino all'ultimo minuto della loro vita, trascinate dall'eroismo più sublime, dalla sognante passione della carità. Una di esse, mentre già le fiamme la investivano, ha abbracciato una monaca e le ha detto: Sorella mia, ora andiamo insieme in Paradiso. È vero. Deve esser vero. Dio ha fatto il Paradiso per chi muore, sognando così.

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Emana dalle pagine di questo romanzo dimenticato una di quelle acute e irrimediabili tristezze a cui neppure la indulgente e assolvente filosofia dell'autore osa trovare, infine, consolazione: onde colui che legge, piega il capo sull'ultimo foglio e sente salire, dal fondo della sua anima, tutto quanto v'è di segretamente doloroso. Questo romanzo narra, principalmente, la storia di un padre che ha due figliuoli, un maschio e una femmina, che egli ama molto, ma a cui, per un suo assoluto criterio matematico, egli impartisce una educazione, diretta solo a sviluppare le loro qualità positive, mentre tutte le facoltà fantastiche e poetiche sono, da questo padre, distrutte nello spirito dei suoi figliuoli. Egli è il nemico dell' immaginazione: la ritiene come una facoltà sconveniente e quasi simile alla follia. Dice, questo Tommaso Gradgrind, tali parole, nella prima pagina dei Tempi difficili: - «Ciò che io voglio, sono dei fatti. Insegnate dei fatti ai giovanetti e alle giovanette, non altro che dei fatti. I fatti sono la sola cosa di cui vi sia bisogno quaggiù. Non piantate altra cosa e sradicate tutto il resto. Non è che coi fatti che si forma lo spirito di un animale che ragiona: il resto non gli servirà mai a nulla.» E, così, i suoi due figliuoli riescono, per un certo tempo, due perfetti animali ragionanti: l' aridità più profonda e più larga regna in quelle due nature, poichè tutte le piante e i fiori e le frutta ne furono sradicati e inceneriti. Tommaso Gradgrind è orgoglioso dell'opera sua. Sua figlia Luisa e suo figlio Tom, a guardarli nell'apparenza, sono due macchine bene oliate che girano e gireranno così, fino all'ora della morte. Ma ad un tratto, l' ingranaggio si ferma; e innanzi agli occhi del padre, prima stupefatto e poi straziato, si leva la figura desolata e convulsa di sua figlia, che ha accettato di sposare un uomo ricco e tronfio, non amato da lei e che s' innamora di un altro: si eleva la figura del suo figliuolo diventato un ipocrita e un vizioso, il quale semina intorno a sè la vergogna e la sventura. E queste due creature delle sue viscere, agitantisi fra il dolore, il disonore e la morte, gridano la maledizione su colui che tolse ai loro cuori tutti i sentimenti di bontà, di tenerezza, di pietà, di poesia, di entusiasmo con cui si lotta, vincendo e perdendo, nella vita. Essi imprecano contro una educazione che disseccò in essi tutte le fluide sorgenti sentimentali e che li lasciò in balìa di ogni tranello e di ogni seduzione, senza guida morale, senza sostegno della coscienza. Quando Tommaso Gradgrind s'accorge d'aver compiuto un'opera iniqua e scellerata, uccidendo nei suoi figli la forza che li avrebbe aiutati a vivere, è troppo tardi: invano il padre che fu così duro con sè stesso, coi suoi e con quanti lo circondano, s' intenerisce, si pente, perde la testa: il male è irreparabile. I suoi due figliuoli non troveranno mai più il sentiero che conduce alla quiete e all'affetto: Luisa sarà votata a un'eterna vedovanza, senz'amore, senza figli, senza dolcezze: Tom partirà per viaggi lontani, a redimersi dei suoi gravi falli e morirà lungi dalla casa paterna, in un ospedale straniero. E intanto, intorno a questa intima e duplice tragedia, altra gente, molto più umile, molto più semplice, procede nella esistenza, soffrendo, è vero, versando tutte le sue lacrime, ma ritrovando, sempre, il sorriso della serenità, il riflesso di una speranza intima, la energia silenziosa per camminare fra i triboli, con gli occhi fissi in un orizzonte dell'anima, che nulla velerà giammai. E non siamo noi, di buona voglia e contro voglia, un poco Tommaso Gradgrind, tutti quanti? Purtroppo, nulla c' inspira più diffidenza che la immaginazione. Se un nostro amico mostra della esaltazione, giusta o ingiusta che sia, per qualunque cosa, noi lo guardiamo con occhio sospettoso e nell'affetto che gli portiamo, non manca un certo sgomento e una certa pietà. Se una nostra amica ha delle qualità di entusiasmo, se ella si trasporta facilmente e arde di zelo, magari per cosa impari al suo ardore, noi cerchiamo ricondurla, ahimè, alla verità quotidiana, le tarpiamo le ali con qualche discorsetto freddo e ripetiamo anche noi, purtroppo, la regola del due e due fanno quattro secondo la quale, pare, tutti dovremmo vivere. Il figlio nostro che più c' inspira tenerezza e più ci dà preoccupazioni, è quello che mostra troppa fantasia nei suoi primi componimenti scolastici, nelle sue prime lettere: noi ci affanniamo del suo avvenire, quasi egli portasse in sè un pericolo permanente e minaccioso. La figliuola che più ci tormenta col suo carattere, è quella che ha delle idee poetiche per la testa e i suoi genitori cercano di far presto a maritarla, per affidare in altre mani la cura di questo singolar morbo che è l' immaginazione. Le frasi che più si sentono ripetere in questo tempo, quali sono? Chi dice: - Siamo serii. - Chi dice: - Siamo pratici. - Chi dice: - Ragioniamo. - Anzi, tutti dicono, anche i pazzi: - Ragioniamo. - Giammai la ragione, la ragione pura, semplice e fredda, trovò tanti adoratori, tanti devoti, tanti ammiratori. Uno dei più grandi elogi che Si possa fare, ora, a un uomo, è di dichiararlo, ahimè, pieno di senso comune; e il maggiore elogio che si faccia, ora, a una donna, è di proclamare il suo buon senso. Noi non tentiamo combattere direttamente, come il fatale protaganista del romanzo inglese, la immaginazione: noi non oseremmo mai distruggere completamente in un amico, in un figlio, in un'anima che ci sia cara, le facoltà candide, spontanee, vibranti della fantasia, onde tanta poesia si riversa sull'esistenza; ma noi tremiamo per essi, noi vorremmo che un miracolo, non fatto da noi, impietrasse il loro cuore troppo tenero, spegnesse i colori della loro fantasia e li lasciasse nella vita gelidi, forti, ferrei, senza gioje e senza dolori. Oh quanto la temiamo, noi, la vita, per noi e per quelli che amiamo!

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Una notte d'estate

249482
Anton Giulio Barrili 16 occorrenze
  • 1897
  • Enrico Voghera editore
  • Roma
  • Verismo
  • UNICT
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Non credo di commettere nessuna indiscrezione, a raccontarvela, poichè l'amico è come un altro me stesso. Del resto, il signor Ascanio Denèa, da me opportunamente e insidiosamente tastato, mi ha detto - Raccontatela pure: tanto non vi sarà creduta da nessuno; ed io penso che la metteranno volentieri sul conto delle mille invenzioni di voialtri novellatori, che vi beccate da mattina a sera, ma più da sera a mattina, il cervello, per trovare le più matte novità, da trappolare il prossimo vostro. Se poi ci fosse qualcheduno che la prendesse per buona moneta, quegli c'imparerà senza fatica, che nella vita bisogna badare a due cose; foggiarsi un ideale, e fabbricarsi una casa. - Che voi non avete fabbricata; - osservai. - Per sentimento di gratitudine, mio caro; - replicò il signor Ascanio Denèa. - Ma, tutto veduto e considerato, è sempre meglio fabbricarla. Infine, prendiamo esempio dagli animali, a cui l'istinto è maestro. Vedete le chiocciole, le conchiglie, i bachi della seta; quelli han sempre badato a collocarsi stabilmente. Aggiungete che fabbricando si fa un piacere a molti; al governo, che ci ha subito da applicare un paio di tasse; al comune, che non vuol restare da meno, e ve ne appioppia altre due; a molte generazioni d'insetti, che allargano in casa vostra la sfera delle loro faccende; al diavolo, che ci ha luogo per nuove tentazioni, magari soffiandovi in testa da prender moglie. Una diavoleria, questa, - soggiunse il signor Ascanio, ridendo, - che non è poi la peggiore di tutte. E tutte son cose umane, finalmente; e l'uomo deve passare in questa vita operando, facendo anche, per non istare in ozio, un certo numero di insigni scioccherie. - Così parlò il degno amico. E così avviene che io, per non istare in ozio, vi racconti Ia storia intima del signor Ascanio Denèa.

fece un gesto di saluto ch'ella certamente vide, perchè si fece anche più rossa del solito; osò perfino scoccarle un certo che di più vivo ed intenso col sommo delle dita, spiccate allora allora dal labbro; e via di corsa, preso il cappello a volo in anticamera, era in quattro salti sulla strada. Là, sotto gli occhi di Arduina, che per veder meglio si era anche spenzolata un po' fuori dal davanzale, abbordò il senatore Bendinello, che in quel mezzo riusciva a liberarsi dal suo postulante. - Signor senatore, se vostra Eccellenza permette... - Anzi! - rispose urbanamente Bendinello Sauli. - Con chi ho l'onore di parlare?... - Perdoni;- riprese Geronimo Balbi, un po' confuso, ma risoluto di andar fino in fondo; - è dei giovani il far riverenza ai maggiori. Io posso anche essere un ignoto; ma a nessuno è ignoto il valore di Bendinello Sauli. - Non era un rispondere a tono; ma neanche poteva dispiacere. Quel giovanotto, forse, era uno di quei discorritori che amano prondere il giro largo. Nè il senatore Bendinello aveva ragione di inalberarsi con quello sconosciuto, che si mostrava tanto rispettoso, e che agli abiti come all'aria pareva di buona famiglia, mentre agli atti e alle parole indicava la buona educazione. A buon conto non doveva essere un postulante d'impieghi, nè un cercator d'elemosina. Così, senza chiedergli una seconda volta il suo riverito nome, si lasciò accompagnare da lui. Cammin facendo, nel risalire per Canneto il Lungo fino all'archivolto dei Baliani il giovanotto poté metter fuori Ie prime parole. - Vostra Eccellenza si meraviglierà... si stupirà, lo capisco, della mia grande audacia... della mia temerità. Ma se sapesse... se mi vedesse nel cuore... come sono turbato! e come, se Lei non mi aiuta, io possa dirmi un uomo morto!... - Morto! - ripetè il senatore Bendinello, inarcando le ciglia. - Non me ne avete l'aria, bel giovane. Bianco, vermiglio, fresco come una rosa... - Ah, - interuppe Geronimo, - non dispiacerle è il mio più vivo desiderio. - Che cosa? che cosa? Non dispiacermi, avete detto? Caro mio, intenderci il vostro discorso, se fossi una bella ragazza. - Ma vostra Wccellenza è... scusi, sa?... vostra Eccellenza ne è il padre. - Ci siamo! - esclamò senatore Bendinello. - E voi sareste... un pretendente? - Mio buon signore, l'ho osato. Le ho pur detto dianzi che se lei non m'aiuta, io sono un uomo morto. - E dàlli col morto! - replicò il senatore, che incominciava a seccarsi. - Giovinotto mio, se proprio avete da morire, ed io son destinato a ricevere le vostre disposizioni testamentarie, favorite dirmi una volta il vostro riveritissimo nome. - Quella era la buona, e il giovanotto non poteva più lavorare di scherma. - Ah! - sospirò egli. - Non vi pigliate giuoco di me. O piuttosto, si, deridetemi ma ascoltatemi, padre mio! sono Geronimo Bulbi. - La folgore era scoppiata, lì, proprio lì, sotto l'archivolto dei Baliani, donde si incominciava a vedere il palazzo ducale, o, per dire più veramente, la torre si Marino Boccanegra, che gli sorgeva alta e robusta da un lato. Se la folgore fosse scoppiata un po' prima, la bella Arduina, dal suo davanzale, dove stava a guardare con gli occhi tesi e col cuore in soprassalto, avrebbe veduto il suo terribil genitore rizzar la testa e dare un passo indietro, come se avesse posto il piede sopra una serpe, sopra una botta, sopra un basilisco, o sopra un altro animale ugualmente spiacevole. - Geronimo Balbi! - ripetè Vendinello, guardando in cagnesco il suo interlocutore. - Dovevo immaginarmelo. - Padre mio! - Padre mio! padre mio! che cosa vogliono dire queste tenerezze? Non son già vostro padre. - Ma vorrei potervi chiamar sempre così! - Ma voi, giovinotto, non ne avete licenza; nè da me, nè da altri. - Ve ne faccio umilmente preghiera. Non mi ricusate; non mi adontate di questo ardimento, Me lo ha dato la disperazione. - E la pazzia, niente? Non la vedete, mio bel signorino, la vostra pazzia? Ragioniamo, se è possibile; - soggiunse Bendinello, sempre seccato, ma anche un po' turbato alla vista di tutta quella commozione, che faceva tremare dal capo alle piante il suo giovane interlocutore. - Son domande, queste, da farle voi? e ad un uomo come me? Perchè non si fa avanti vostro padre? Che cosa si crede? di scendere da Carlomagno? O aspetta, - e qui la voce del senatore Bendinello prendeva un'intonazione acutamente sarcastica, - o aspetta che sia finita la fabbrica di Carignano? -

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Geronimo Balbi conosceva questo frizzo del suo arguto genitore, e non provò nessun gusto a sentirselo ripetere dall'uomo contro cui era stato scagliato. - Credete, signor Bendinello, son ciarle di scioperati, fors'anche di malevoli seminatori di zizzanie tra i buoni; - si provò egli a rispondere. - Qualche volta si sente una cosa, e se ne riferisce un'altra. - Oh, so bene che questa è autentica; - ribattè Bendinello. - C'è il suo stile, che si conosce, tra mille. Non per dir male ad un figlio del padre suo, ma per rendere omaggio alla verità, l'autore dei vostri giorni è pieno zeppo di attivi sali. Per questo lo ammirano tutti, in Consiglio. - Mio buon signor Bendinello! - mormorò Geronimo con voce lagrimosa.- - Lasciatemi sperare... - Vi ho detto l'animo mio; non ho nulla da aggiungere. - Ah, io mi ucciderò! - No, caro, no!... Queste cose si dicono, ma poi non si fanno. Del resto, sentite; io non voglio essere messo qui con le spalle al muro. E da chi, poi? da un ragazzo. Perchè voi siete un ragazzo, al mio paragone; e non dovete neanche dolervene. Vorrei esser io nei vostri panni, con quella faccia lì, e domanderei, giurabacco, se il mondo è da vendere. Vi riverisco. - Con queste parole il senatore Bendinello Sauli prese commiato da Geronimo scappandogli di mano alla svelta, come se avesse i venti anni che s'era augurati. Quell'altro rimase male, guardandolo, e non osando inseguirlo. Ma infine,le ultime parole del senatore non erano state troppo sdegnose; quel vecchio stizzoso non lo aveva bastonato; e Geronimo Balbi potè anche ricordare che un risolino non al tutto sarcastico aveva infiorata la chiusa del dialogo. Quella mattina aveva avuto un coraggio da leone. Volle seguitare ad averne, e con suo padre, che ancora non era uscito di casa. Il magnifico Gian Luca non appariva di buon umore quel giorno; tanto peggio, o tanto meglio; che oramai il povero Geronimo ne aveva pochi degli spiccioli, e meno da spicciolare. - Signor padre, - gli disse, entrando in argomento ex abrupto, - ho fatta or ora la conoscenza del magnifico vostro collega... Bendinello Sauli. - Gian Luca inarcò le ciglia, e stette per quattro minuti secondi a guardare in faccia il figliuolo, non sapendo che cosa pensare di quella alzata d'ingegno. - Sì, - proseguì Geronimo, buttando giù buffa, - ed è veramente una cara persona. L'ho accompagnato fino a palazzo. - Ah! mi congratulo! - rispose finalmente il vecchio. - E di che cosa gli avete parlato, per farvi una così buona opinione di lui? - Oh, di tante cose, di tante. Ed anche della sua bellissima figliuola, dicendogli netto che morirò, se non la sposo. - Ah, scellerato! a me... Che sì, ch'io...- Ma il povero Geronimo, che aveva spesa in quella confessione la sua ultim'oncia di coraggio, non istette ad aspettare che il magnifico suo genitore compisse la frase, nè l'atto ch'ella pareva minacciare. Scappò, per dir la cosa come fu veramente; scappò e il magnifico Gian Luca rimase solo a masticar la sua rabbia. Sbuffava ancora come un toro ferito, quando gli vennero a ricordare che doveva andare a palazzo. Brontolò, si aggiustò le lattighe intorno al collo, si accomodò i riccioli della parrucca alle tempie, prese il suo bastone dal pomo dorato, e si avviò brontolando per le scale. Brontolando risalì la strada di San Lorenzo fino al palazzo Ducale, ed entrò, dove lo chiamava il dovere. Ah, era ben duro quella mattina il dovere! Si sarebbe dunque trovato a faccia a faccia con quell'Aristofane ligustico di Bendinello Sauli? Ma sì, per tutti i diavoli! e avrebbe dovuto sorbirselo, con quel suo eterno sarcasmo male appiattato negli angoli della bocca, che paravano i due corni di un arco saraceno, pronti a scoccar la saetta. Il Consiglio non era ancora in numero; vecchio costume di tutte le adunanze umane, passate, presenti e future. I primi arrivati passeggiavano, discorrendo del più e del meno, per l'ampio salone. Gian Luca entrò, salutando; e gli parve, mentre tutti gli rendevano il saluto, gli parve che Bendinello Sauli lo guardasse con una certa aria insolita, tra l'invito e la sfida. Sfida? Ah sì, aspetta a me, disse Giam Luca in cuor suo. E come avviene quando un nemico non si può più evitare, gli mosse incontro con aria severa, e lo trasse in disparte presso il vano di un finestrone, per dirgli: - Non vi meravigliate, collega; debbo farvi delle scuse. - A me?- rispose Bendinello Sauli. - Non vedo la ragione... - C'è, c'è, e voi lo sapete benissimo; - ripigliò Gian Luca Balbi. - Mi rincresce, caro collega, che quell'imprudente di mio figlio vi abbia fatto stamane un discorso di cui potrete credervi offeso. - Offeso! Offeso! - ripetè Bendinello. - Questa è una delle vostre solite esagerazioni. - Solite! esagerazioni!... - Ma sì, oratorie. Non è il vostro costume? Si casca dal lato donde si pende; come le torri, come i campanili, che poi, se Dio vuole, non cascano affatto. Dite piuttosto che quel caro ragazzo mi ha tenuto un discorso che non toccava a lui di fare, non essendo egli il capo di casa. - Già! - disse Gian Luc a, colto alla sprovveduta da quella giratina del discorso di Bendinello. - Ed io, capo di casa... - Voi, caro collega, - ripigliò Bendinello, compiendogli a suo modo la frase, - aspetterete che sia finita la fabbrica di Carignano. - Gian Luca riconobbe il fatto suo, e si morse le labbra. - Ma sì... ma sì... - rispose allora, sforzandosi di apparire faceto. - E quando la finiranno, i vostri, quella fabbrica benedetta? - Caro, è finita: per chi chi ha occhi, gambe. e divozione, è finita da un pezzo. Per i buoni cristiani ci si dice messa ogni giorno festivo. E questo è l'essenziale, mi pare. - Il ghiaccio era rotto. Gian Luca non pensò neanche a replicargli che la famosa basilica, quantunque uffiziata, era ancora nuda di ornamenti, sprovvista d'organo, vuota di statue. - Allora, - diss'egli in quella vece, parlando lento, e guardando il collega nel bianco degli occhi, - sarebbe il caso che io, come capo di casa vi facessi una certa domanda, non è vero? Ma non c'e' anche da temere che voi vogliate piuttosto attaccare una pietra al collo della vostra figliuola, per affogarla nella Darsena? - La botta era resa, e il magnifico Bendinello ne fu colto in pieno. - Che discorsi son questi? - esclamò. - I discorsi che qualche volta si fanno; - soggiunse il magnifico Gian Luca. - E un po' leggermente, non vi pare? - Caro! se avete intenzione di offendermi col vostro «leggermente»... - Come voi, carissimo, come le mie «solite esagerazioni». - Oh giurabacco!

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- gridò il magnifico Gian Giacomo Imperiale, accorrendo a sua volta. - Niente, niente; si discorreva qui coll'amico Gian Luca; - disse il magnifico Bendinello Sauli. - Già, già, coll'amico Bendinello; - ribadì il magnifico Gian Luca. - Si parlava di finire la fabbrica di Carignano; - rispose Bendinello, che ruotava ancor gli occhi. - E di dare un po' più di fondo alla Darsena; - ribadì il magnifico Gian Luca, che aveva sempre la schiuma alla bocca. - Due cose a cui sarà stile e decoroso il provvedere; - notò il serenissimo doge Pietro Durazzo. - Ma alla prima penseranno i nostri buoni amici Sauli, e il Senato non ha da metter bocca. - Si farà; - postillò Bendinello Sauli. - E per l'altra, - riprese il Serenissimo, - se l'amico Bulbi ha una proposta da fare... - Sarà fatta; - conchiuse Gian Luca Balbi. Quel giorno, con grande maraviglia del Consiglietto, i due colleghi rivali non si diedero torto l'un l'altro, non si bezzicarono per nessuna ragione o pretesto. Quando accadeva che sopra una questione Bendinello dicesse la sua opinione, Gian Luca non fiatava; e così stava zitto Bendinello quando avesse opinionato Giaa Luca: i dispareri, se c'erano, andavano a finire nel «calice» dei suffragi, restando anonimi, come le fave. E quel giorno il magnifico Bendinello Sauli, come fu ritornato a casa, ebbe un colloquio breve ma sugoso con sua figlia Arduina. - Vergogna! - le disse. - Questo si guadagna, stando tutto il santo giorno alla finestra. Ma oramai sarà finito, questo scandalo. Sì, dico giurabacco, sarà finito. Andrete in convento... - Signor padre!... - balbettò la fanciulla. - Sì, cara, in convento, tra le monache di Sant'Agostino... - Oh, signor padre! - gridò ella, buttandosi ginocchioni. - Che? parlo turco? -

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voi, a pregare, a supplicare, come un postulante d'impieghi in San Giorgio, o alla gabella dei Salumi! Oh dignità dei Balbi! - Signor padre!... Non mi par poi... - balbettò Geronimo, non sapendo che pesci pigliare, e non pensando nemmeno ai tre che stavano disposti l'uno sull'altro in tre fasce nell'arme parlante della sua casa. - Che cosa non vi pare? che cosa? Dico che mi avete disonorato, con le vostre preghiere, con le vostre supplicazioni. Ma ci metteremo buon ordine, perbaccolina! ci metteremo buon ordine. Andrete a viaggiare - Signor padre! avete detto?... - Che, parlo arabo? A viaggiare, ripeto. Cosi vi passeranno i grilli. Per guarire di quest'incomodo non c'è rimedio migliore; - soggiunse il magninco Gian Luca, abbassando un po' il tono. - Cosi è accaduto una volta anche a me. Li ho avuti ancor io, i vostri grilli pel capo. E il mio signor padre me ne guarì, dandomi moglie. Lassù, mi disse quel degno gentiluomo, lassù nel castello der vostri maggiori, lontano dalla vista degli importuni, farete il nido, magari la buca pei i vostri grilli. Così voi, signorino; lassù, nel castello della famiglia. Sian grilli, o merli, abbiatene mezza dozzina come è toccato a me, poveraccio; e vi passeranno, ve lo prometto, vi passeranno, come son passati a me, che ci son diventato vecchio, col senno di più, e la giovinezza di meno. - Oh, io non farò senno mai più! - gridò fra i ,singhiozzi il povero Geronimo, che ancora non aveva capito. - Eh, v'intendo, v'intendo! - rispose il magnifico Gian Luca. - L'ho veduta pur io, quella vostra Arduina. - L'avete veduta, padre mio? L'avete veduta, e non vi siete commosso a pietà? - Per lei? No davvero, non c'era ragione. - Ma per me... ma per me... - Voi non meritereste altro che d'essere mandato a viaggiare, da solo. - Da solo? E non mi ci mandate, da solo? - esclamò Geronimo, che incominciava a capire. - Dunque... dunque, poichè l'avete veduta... - Poichè l'ho veduta, gran sciocco che siete, ho acconsentito di parlare a quel vecchio matto di Bendinello, mio buon collega ed amico. Andate, e preparatevi ad una felicità che non avreste meritata. Mi sa mill'anni di vedervi metter giudizio. - Geronimo Balbi baciò la mano al padre, con una devozione che mai la maggiore. Il povero giovinotto era fuori di sè dalla gioia. E più doveva essere, quando, venuto qui nella sua camera e affaciatosi alla finestra, vide Arduina al suo davanzale. Per quella volta, non si contentò egli di mandarle un bacio colle dita d'una mano; glie ne mandò con tutt'e due, a diecine. La bella Arduina non poteva fare altrettanto, da quella savia e costumata ragazza che era. Si pose in quella vece una mano sulI cuore, e sorrise.

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E qui Ascanio Denèa alzò gli occhi involontariamente a guardare il ritratto della marchesa Arduina. La bella signora pareva essersi animata al ricordo, e sorrideva amabilmente dal quadro: effetto d'un raggio di sole, che affacciatosi allora allora dal «balzo d'Oriente» coglieva di sbieco la finestra di un piccolo abbaino, donde si era riverberato sullo studio del signor Ascanio Denèa. Com'era volato il tempo! Il signor Ascanio guardò l'orologio. Mancavano appena cinque minuti alle sei. Guardò le sue lampade, che mandavano una luce gialla, antipatica, e si affrettò a spengerle con due opportune soffiate; ma perchè i lucignoli, insieme con due scappate di fumo attraverso i tubi, mandavano un odore sgradevole (niente è perfetto a questo mondo, neanche il petrolio americano), andò frettoloso a spalancar la finestra. Entrò allora, in una ondata larga, la fresca e buona aria del mattino, tanto cara ai polmoni. Il signor Ascanio si sentì subito un altr'uomo nell'aspetto e nel senso della natura rinnovata. Come tutto rideva, davanti a lui, in quel punto! E così, involontariamente, come dianzi aveva guardato il ritratto della marchesa Arduina, guardò il palazzo reggente in prospettiva, dove la bella signora era vissuta fanciulla. Erano sette finestre in fila, alte, spaziose colle loro balaustrate di marmo, sporgenti su robuste mensole dal filo della bianca facciata. Quale fra tante era la finestra donde Arduina Sauli era apparsa a Geronimo Balbi? Non certo dalle ultime; altrimenti gli occhi non avrebbero avuto buon gioco. Bisognava pensar dunque alle più vicine. E se per avventura fosse stata la più vicina di tutte? Appunto quella, unica fra tante, mostrava il davanzale ornato di vasi, debitamente assicurati al posto da una sottil verga di ferro, che andava per due capi ad innestarsi nel muro. I vasi non erano rotondi, nè di terra cotta, bensì dì maiolica, quadrilunghi, con bei fregi in rilievo, e inverniciati di verde, con molte piante par entro, quali diritte sul cespo, quali ricadenti sugli orli. Una di quelle piante attirò particolarmente l'attenzione di Ascanio. Era una specie di giaggiòlo, come dimostravano le foglie a forma di spada, e certi gambi lunghi che ne uscivano fuori, portando ad ogni nodo un fiore a campana, di color tenerissimo tra il bianco e il salmonato, con certe lacinie che si aprivano graziose dal sommo del perigonio, come labbra di donna al sorriso, lasciando intravvedere delle macchioline rosse nelle gole socchiuse di color paglierino. Il nostro signor Ascanio, fra tante cose inutili che aveva studiate, conosceva un po' di botanica. E pensandoci su, muovendo dalla classe all'ordine, dall'ordine al genere, dal genere alla specie, dalla specie alla varietà, non durò fatica a dare un nome a quel fiore. - Gladiolus Inarimensis; - pensò. - Spaddaciòla d'Ischia, senza dubbio. Ma che bellezza di varietà! - Sì, certo, ed una varietà che non si sarebbe trovata da nessun giardiniere, a pagarla tant'oro. Figuratevi che dietro il suo fogliame ensiforme era apparso un bel viso di una fanciulla, tanto bello per regolarità e finezza di lineamenti, come per soavità di espressione, da rimanerci incantati senz'altro. La marchesa Arduina, ritornata alla felicità dei suoi diciott'anni? Il signor Ascanio lo pensò, e per qualche minuto secondo Io credette ancora; tanto il caso di quella notte trascorsa

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Quando deve accamparsi, il buon generale studia il terreno intornò a sè, per saper bene dove si trovi, per non esser colto alla sprovveduta, nè di qua, nè di là. Dovunque si vada ad abitare, bisogna conoscere gli approcci, sapere che vicini si hanno, e che vicine, per Bacco. Vedete, infatti; c'era lì una bellissima creatura ch'egli non sapeva decorare del suo riverito nome e cognome, che egli non aveva mai vista prima d'allora. Sicuro, egli che aveva la sua Genova sulla punta delle dita, egli che a teatri, a feste, a passeggiate aveva imparato a conoscere tutte le bellezze, giovani, mature e stagionate della Superba, egli non conosceva quella sua stupenda vicina. Fiore modesto e casalingo, naturalmente; e se ne stava nel suo vaso, come il Gladiolus Inarimensis, contento di risplendere nell'aura quieta del suo davanzale al secondo piano, dove non giungevano gli occhi del viandante a indovinarlo, o, se pure ci fossero giunti per caso, avrebbero fatto prendere un torcicollo al loro legittimo padrone, quando egli fosse consigliato di volgersi lassù troppo spesso. Ah, spadacciòla d'Ischia! spadacciòla d'Ischia! Come voleva metterla lui alla moda, facendone venire di tutte le varietà, da tutti i giardini d'Italia! A buon conto, sarebbe andato quel giorno medesimo dal cavalier Bucco, suo grande amico e gran giardiniere nell'orto botanico della Università genovese. - Signor Giovanni, gli avrebbe detto, signor Giovanni, mio riverito, spadacciòla d'Ischia vuol essere. Me ne dia una pianta, se l'ha; me la trovi ad ogni costo, se non l'ha. Una spadacciòla d'Ischia, o la morte. Così era lui, lo sapete, impetuoso, impaziente, matto come quattro cavalli. Ah, la bella vicina non avrebbe indugiato molto a vedere un Gladiolus Inarimensis sul davanzale del vicino. Doveva egli collocarlo quel medesimo giorno? O nella notte, perchè facesse più colpo la mattina seguente? Per intanto, la bella vicina aveva veduto il vicino matto. Si era fatta rossa, vedendosi osservata da quegli occhi fissi, che avevano tutta l'aria di volersela sorbire, e si era ritirata a fronte china; ma dopo essere rimasta ancora qualche minuto secondo, per non parere una sciocca, vergognosa o scontrosa. Ed egli aveva approfittato di quella sosta, per salutarla rispettosamente; ed ella aveva risposto all'atto cerimonioso con un cenno cortese del capo. Addio, luce! Per un poco di tempo non avrebbe più avuta la sorte di vederla. Così pensando, il signor Ascanio si ritrasse a sua volta, per ripigliare la sua conversazione con Tribolino. Capiva già che lo spiritello impertinente si sarebbe preso spasso di lui. Facesse a sua posta; perchè, celiando e ridendo, gli parlasse di lei. Ma il folletto non era più là, sulla catasta di Grevii e dei Gronovii; nè gli era dato di scovarlo altrove, per quanto guardasse a destra e a sinistra, e in alto e in basso. Neanche gli venne sott'occhio la cassa minuscola, col minuscolo martello; due notabili arnesi, che egli ben ricordava dove li avesse veduti ancora, quando Tribolino era venuto d'un salto a collocarsi sulla sua scrivania. - Tribolino! - gridò. - Tribolino! - Nessuna risposta; nè di parole nè di risate. Non scricchiolavano neanche i mobili, che, si capisce, si fanno vivi solamente di notte. - Genius Ioci! - ripigliò, dopo una breve pausa. - Agathôs daimon... kakòs daimon, che il diavolo ti porti! Ma che modo di trattare è il tuo? - Sempre così, i folletti; quando non ne avete bisogno, vengono a rompervi le scatole; quando li cercate, sono spariti, e non c'è verso di farli tornare. Un colpettino secco si udì, ma sull'uscio dello studio. Il signor Ascanio tralasciò subito di taroccare.

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- esclamò il servitore, che incominciava anche lui a non internder più niente. - Non si cambia di casa? - Ma che? C'è tempo, se mai. Del resto, ho cambiato già... d'opinione; e non occorre che cambi ancora di casa. Ti capacita? - Eh, quando a Lei piace così... - disse l'altro, stringendosi nelle spalle. - Ma quei di laggiù? - Chi, di laggiù? - I manovali. Ho da dir loro che vadano? - Sì, donde sono venuti, magari all'inferno. E vai, tu, ora; - soggiunse; - e preparami il mio caffè nero. - Il servitore si ritirò, chiudendo l'uscio. Capiva poco; ma almeno quanto bastava, per rimandare lo sgomberatore e i suoi manovali con Dio. - Che idee! - brontolò il signor Ascanio, rimettendosi a misurare il pavimento coi passi concitati. - Dodici sgomberi, in verità, sono troppi, nella vita del perfetto inquilino. Non cambio più; non voglio cambiar più. E così? E così, come aveva detto, per una volta tanto stette saldo nei suoi propositi. Non cambiò più di casa; c'è ancora, in quel suo vecchio quartiere, dai vasti saloni, dagli alti soffitti, dai cornicioni di stucco; c'è ancora, quantunque dieci anni siano trascorsi da quella notte d'estate, e dalla sua conversazione con messer Tribolino. In quella casa scricchiolano ancora i mobili? Sì, e vanno anche a male più presto che non dovrebbero esser costume dei mobili ben fatti. figuratevi, con una nidiata di folletti, il più piccolo dei quali, e speriamo non l'ultimo, somiglia tanto a sua madre, vero impasto di latte e di rose, con un fior diffuso di pesche non brancicate. Ma come brancica lui! come tira i mustacchi del genitore! Il quale non dimentichiamo di dirlo, ancora non ha incominciato a scrivere la sua Storia di Roma, anzi, diciamo tutto, non si ricorda più d'averci in altri tempi pensato. È certamente un danno, per tutte le cose nuove che poteva dirci il signor Ascanio Denéa. Ma che ci possiamo far noi? Qualche lume mancherà ai posteri; i quali faranno come potranno, andando magari a letto al buio. Qualche idea storta sulle origini italiche rimarrà in piedi tuttavia; e rimanga, e tenga compagnia alle altre, che furono, son e saranno, intorno a ben altri argomenti. L'essenziale é che ci sian dei felici nel presente, come ce ne furono nel passato. A buon conto, lassù dal suo quadro, la marchesa Arduina seguita a sorridere, e tiene il suo mazzolino di giunchiglie, come un buon talismano, più stretto che mai tra le dita. Piccola Collezione «Margherita»

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Amava la famiglia, o, per dire più esatto, quel tanto che gli era avanzato che ne cambiava spesso e volentieridella sua gente; ma non amava punto la casa; per modo Cambiava, cambiava, e poi ci meditava su; paragonava la sua Genova ad un bosco, e sè ad una pecora smarrita in quel bosco; passando per certe strade, e di là per cert'altre, diceva tra sè: eccoli, i miei roveti; qui ho lasciato un bioccolo di lana, qui a dirittura un pezzo di pelle. E rideva; un po' verde, alle volte, ma rideva. II ridere, comunque sia, fa buon sangue. - Che cos'è, poi? - diceva egli, quando lo riprendevano della sua irrequietezza. - In dieci anni ho cambiato casa appena undici volte; come a dire una volta ogni undici mesi. E non è stato mai per ismania di cambiare; fate che io trovi l'ubi consistam, e vedrete se non ci metto le barbe. - L'aveva trovato, finalmente; ed era quello che gli faceva compir la dozzina degli sgomberi. - Ma qui mi fermo; - diceva; - com'è vero Dio, mi fermo. L'ho cercato con tutta la cura possibile e immaginabile. Posizione centrale; casa vecchia, signorile, asciutta; belle camere, alte, spaziose; finestre grandi, che bevono tutta la luce della strada; scalone monumentale, o quasi; un antico palazzo, insomma, con tutta la dignità e la magnificenza che i nostri arcibisnonni sapevano mettere nelle cose.... e nelle case loro. Così mi piace, e ci sto. - Intanto, ricominciava per lui la serie degl'impicci colla turba dei manifattori, che Iddio li benedica, e il diavolo se li porti. Ad ogni cambiamento di casa, si sa, occorre l'adattamento delle tappezzerie, dei tappeti, delle tendine, delle cortine, delle portiee, delle cortine, delle portiere, delle bussole; qui c'è da allungare, là da accorciare, più in là da rammendare, o da rimettere a nuovo. Anche i mobili volevano le loro aggiustature. Non son di ferro, i mobili; se anche fossero, non durerebbero sani a questo giuoco, si acciaccherebbero la parte loro. I mobili del signor Ascanio, sballottati, abbambinati, sbatacchiati così spesso qua e là, si sfregavano ai muri, si sbreccavano per le scale, si scollavano, si sconnettevano, crocchiavano per ogni giuntura. Gli scaffali (il signor Ascanio, tra gli altri difetti suoi, ci aveva una libreria di cinquemila cinquecentocinque volumi; troppi, senza dubbio, per un privato ignorante), gli scaffali, dico, non si adattavano sempre, nè per altezza, nè per larghezza, alle nuove pareti; e allora bisognava acconciare, Ievando, aggiungendo, rattoppando alla meglio. Qui, poi, il signor Ascanio non aveva ragione di dolrsi troppo; lo sgombero non aveva ragione di dolersi troppo; lo sgombero era l'occasione solenne che gli si offriva; per dare una buona spolverata a' suoi libri, per riordinarli, per classificarli, per avvedersi di possedere questo o quell'autore non più ricordato, presente, o ricercato invano nel pluteo dove gli pareva di averlo messo l'ultima volta; tanto che della stessa opera gli accadeva di provvedersi da capo, e di qualcuna aveva comprato i due, i tre, i quattro, magari i cinque esemplari. Quando un libro si nasconde, parrà una stravaganza, non lo ritrovate più, per frugar che facciate. Tappato lassù, o laggiù, mascherato tra due compari, il briccone se la ride di voi; o se la ride il folletto impertinente, che s'appiatta nelle scansìe, e vi mette fuori di posto ogni cosa. Bontà del cielo e degnazione dei manifattori, il nuovo quartiere diventava abitabile, coi mobili a posto e i libri nei loro scaffali. Libero da ogni seccatura, sentendosi finalmente padrone in casa sua, il signor Ascanio si stropicciò le mani, esclamando: - Ora, poi, è la volta che faccio la storia. - II discorso è oscuro, nella sua brevità, e richiede un commento. Dovete sapere che il signor Ascanio Denèa, tra gli altri difetti suoi, ci aveva il baco di rifare la storia di Roma, con un nuovo concetto, con un nuovo indirizzo, con un nuovo sistema. L'aveva già tutta nella testa; salvo il primo libro, sulla formazione del suolo e sulla apparizione dei primi abitatori della penisola, unificata poi dal genio di Roma. Una cosa da nulla, come vedete: ma perchè da quel primo libro bisognava attaccare, ne seguiva che egli non attaccasse mai, restandogli sempre in testa quello che avrebbe dovuto mettere in carta. E diciamo pure che tutta quella roba gli restasse un po' confusa, là dentro. Ma era

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in ordine la casa; non doveva tardar troppo a riordinarsi la testa. Passeggiava, il signor Ascanio, passeggiava per i suoi stanzoni, colla superba felicità di chi è venuto finalmente a capo d'una impresa grande e difficile. Dopo aver ben passeggiato, si adagiava nel suo seggiolone a bracciuoli, davanti alla sua scrivania monumentale, il cui piano, foderato di panno rosso, era per la dodicesima volta libero dai soliti fasci di carte e dalle solite cataste di libri. - Ah! - diceva egli, dando una rifiatata. - Hic manebimus optime. - Sarà vero? A questa domanda si volse macchinalmente, come scattando; si volse a destra, a manca, ed indietro, tanto gli era parso spiccato il suono della frase dubitativa. Non c'era nessuno, e il signor Ascanio sorrise. Non era la prima volta che gli accadeva un fatto simile; ond'egli pensò giustamente di avere egli stesso anche quella volta formato la sua domanda col pensiero, forse aggiungendovi la cooperazione del labbro; e ciò per effetto di quel caro «duale» che, morto colle lingue antiche, rivive nella nostra coscienza; benedetta coscienza, dove siam sempre in due; uno che sta sul grave, e l'altro che gira al faceto; uno che si loda, e l'altro che lo canzona. Sorrise, dico; ma quello dei due che stava sul grave, non voleva essere canzonato. Perciò rispose a sè stesso: - L'ho pensato altre volte, e mi son ricreduto. È lecito ingannarsi, e rimettersi in careggiata. Sapientis est mulare consilium. E così? -

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I saloni troppo vasti son freschi d'estate, quando l'uso vuole che si vada in campagna, a leticar coi mosconi e con le vespe; ma son gelati d'inverno, perchè i caloriferi non ci giocano, e i camini dan sempre fumo, aggruppati come sono quasi sempre in un solo sfiatatoio. I nobili discendenti od eredi di quei grandi personaggi che han fabbricati quei grandi palazzi, se ne son fatti poi fuori, per andare in alto, sulle vie più soleggiate, in certe scatoline eleganti, più adatte alla piccolezza moderna; e laggiù, nei grandi saloni, hanno lasciati perfino gli antenati appesi, insieme colle grandi specchiere, dove si contemplavano due secoli fa tante nobili dame, nella pompa dei loro guardifanti e delle loro faldiglie, nella gloria dei loro turbanti di cipria e dei loro pennacchi gemmati. I nuovi ricchi, che ban comperati quei maestosi edilizi, non hanno altra sollecitudine fuor quella di appigionarli a spicchi; felici qualche volta di ritrovate gli Ascanii Denèa che si godano il piano nobile, e due o tre più modeste famiglie che si alloghino nelle stamberghe dell'ultimo piano. Di sotto, contrariamente all'uso di Babele, regna la confusione delle lingue. Nelle cantine e negli sgabuzzini del pianterreno, hanno aperto fondaco drappieri e pannainoli, merciai, bambagiai, lanaiuoli ed affini; tutta gente che magari vorrebbe avere a due passi il magazzino di deposito, e ghermisce perciò gli ammezzati, usurpa il primo piano, se già non è stato sbocconcellato in istinti di causidici o di notai, in banchi di granaiuoli, di armatori e di assicuratori marittimi. La scala è quieta di notte, e deserta, fin troppo deserta; per modo che a voi, inquilino dei piani superiori, tocchi di far la guardia senza averne voglia alle cose altrui, contro le insidie dei ladri e i loro tentativi di scassinamento; affollata, in quella vece, e rumorosa di giorno, per un continuo via vai di gente che sale e che scende, e vi urta e vi pesta i piedi senza farvi un cenno di scusa. Nè basta ancora. Mentre la fronte è bella, perchè dà sulla strada, dove si pigiano i viandanti affaccendati e dove saltellano con un rumore infernale i carretti a mano, i fianchi del vostro palazzo dànno in vicoli stretti e poco puliti, dove miagolano d'amore tutti i gatti del vicinato. Peggio alle reni, con quella piazzetta, dove si vende la trippa, e si tiene lo stoccafisso in molle; donde salgono a voi, sebbene non diretti a voi, improperii enormi di facchini e di marinai, voci rauche e stridule di donne avvinazzate; colmo dell'abominio. E dentro, poi! Va bene che ci siano i salotti: ma non sono tutti salotti, nel vostro pian nobile; ci sono anche troppi camerini e stambugi, anditi, pianerottoli e corridoi, alti e bassi raccordati da scalettine e tamburi; nè importa poi molto che il difetto sia mascherato da graziette faticose di modinature e di archetti, di lesene e festoncini, di fiori e frutti e canestri di stucco. Tutta roba «stucchevole» diceva Ascanio Denèa. Lui, sicuramente; e non erano ancora i tre mesi,dacchè si era ridotto in quel nuovo quartiere. Aveva egli dunque l'assillo degli sgomberi? - Perché non me ne sono avveduto prima? - diceva egli, contorcendosi nel suo seggiolone a bracciuoli. - Mi son lasciato invescare da questi cinque stanzoni, con tante quadrature, cornicioni, cornici e specchiere, e forse più da una mezza dozzina d'antenati, che mi parve bello adottare. O antenati non miei, capisco che voi ci stiate bene... - Benissimo. - E avete ragione, perché voi ci siete sempre stati, e ci avete preso il verso. Io, per vostra norma, non ce l'ho preso ancora; e mi ci secco, perfino di voi altri. Ma già! di voi per il primo, signor marchese illustrissimo, che mi state là ritto impalato, con la mano sull'anca. E voi credereste per caso d'essere un Van Dyck? Fate conto di non esser nemmeno un Carlone. - Insolente! - Perchè? Farei torto ai vostri discendenti, pensando che voi foste «d'autore» e che essi non si fossero dato pensiero di vendervi a nessun Rotschild, a nessun Vanderbilt. E voi, bella dama, che mostrate con tanta compiacenza, non so bene se quel mazzolino di giunchiglie, o le dita affusolatte che lo tengono stretto, credereste per avventura di essere del Vanloo, o del Fragonard? Non siete, ve lo assicuro io, non siete neanche dell'ultimo scolaro del David. - Sciocco! - Scusate, marchesa, scusate; non ricordavo più di parlare ad una signora. Ma non posso tacervi che questa casa mi annoia. Andava per voi, forse; non va affatto per me: - Chi vi ha detto di venirci, signor Ascanio mio bello? - Bello!... Sì e no. Bello o brutto, son quale la natura mi ha fatto. Quanto al venirci, è stato il sensale; una bestia da non darsi l'eguale. Vorreste dire, marchesa, che ancor io non canzono? Guardatevene; è cosa risaputa oramai. Ma me ne andrò, come è vero Dio, me ne andrò. Anche questa noia di sentir parlare ad ogni tratto d'intorno a me, di vedermi rompere i monologhi e sdoppiare i pensieri, non è un effetto malvagio di questa casa? Mettiamo che ci fossi avvezzo di prima. Erano casi rari, che si presentavano a punti di luna; manifestazioni capricciose, impensate, sporadiche. Ora é tutt'altro; si va di male in peggio; siamo all'epidemia, all'endemia, o ad altra consimile diavoleria che ci porti. - L'idea di andarsene, buttata là in un impeto di stizza, gli crebbe, gli crebbe, diventando una vera fissazione. La notte dormiva male, per cento rumori diversi che gli rompevano il sonno. Le finestre troppo alte, avevano certe intelaiature che non sigillavano, e il vento, passando dalle commessure, zufolava di camera in camera. Poi stridevano le tappezzerie, staccandosi dalla parete per ragion dell'arsura; scricchiolavano i mobili, ballavano le serrature. Durante il giorno, era un altro guaio, coll'odor di vernice, che tramandavano i pavimenti; colpa sua, che aveva avuto troppa fretta di occupare il quartiere; ma queste colpe nessuno le vuole riconoscere. Aggiungete che aveva la scrivania mal collocata, e la luce contro la mano; onde quel primo libro della Storia di Roma non ci era verso di cominciarlo. E così, per quanto sopportasse, o per quanto la vergogna gli consigliasse di mandar giù, mettine oggi una e un'altra domani, al sesto mese non ci resse più: andò dal sensale. - Ebbene signor mio riverito, come va? - Va... che non va niente affatto. Sono scontento della casa. - Eh, non si confonda. Càpita a tempo; ci ho il fatto suo; una palazzina sulle strade alte; due piani, con una fetta di giardino, per far quattro passi quando non si ha voglia di uscire; un gioiello, una perla. - E chi la possiede ci rinunzia? - Necessità del commercio; l'inquilino parte in settimana per l'America. Occasione stupenda, non se la lasci sfuggire. Se vuole, ci sono anche i mobili da acquistare, ancor nuovi. - I mobili no, ci ho i miei e me li tengo cari. Ma vediamo la casa. - Non lo voleva confessare a sè stesso; ma ci andava con l'uzzolo in corpo, tanto che non poteva capir nella pelle. Che gioia, quando ebbe veduta la casa, tutta ridente al sole di giugno, con quello scampoletto di giardino; dove sarebbe sceso la mattina in pantofole, a sorbire il caffè! La palazzina aveva tre piani; il terreno ed il primo, per lui; il secondo, sotto il tetto, aveva uscio e scala a parte, ed era abitato da una famiglia rispettabilissima, senza ragazzi, per colmo di fortuna al vicinato. Nei due piani liberi c'erano quattordici stanze; il fatto suo, veramente, poichè gliene bastavano cinque tra studio e libreria, due per camera da letto e spogliatoio, una per salotto, una per sala da pranzo, e ne avanzavano cinque, anticamera, cucina, dispensa, e camere per due persone di servizio. Passeggiando ed almanaccando tra sè, andando e tornando, disponeva mentalmente ogni cosa. Quella era già la sua camera da letto; quell'altro era lo studio, e colla luce alla mano, per la Storia di Roma. - Tutto bene; mi va; - conchiuse - E dica, ci sarà modo di affittare la casa vecchia, per i sei mesi che ci ho ancora di pigione? Non li vorrei mica perdere. - Come? - esclamò il sensale - Un signore come Lei, bada a queste inezie? - Inezie, sì e no. Ed un signore come me ci ha il modo di andare in rovina. Sa Lei che in undici locazioni ho già perduto almeno dodici trimestri? - Son quattrini, capisco; ma anche questa volta bisognerà striderci; - notò il sensale, con un suo risolino malizioso. - Pensi che trova il quartiere ideale, donde non si muoverà più, glielo prometto io; e questa fortuna non sarà mai pagata abbastanza. Del resto, sebbene tutti omino di andare in alto, al sole e all'aria buona, ci sono ancor quelli che per ragion d'affari devono preferire il centro. Se si contenta di perdere due mesi, tre alla più trista, mi faccio forte di trovarle un surrugante - Sì, bene, lo trovi. E qui faccia vendere i mobili. - Oh, non dubiti; questo è l'affare d'un giorno. Il nostro inquilino ha fretta, per azzeccare il piroscafo, e venderà ad ogni patto. -

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Quando fu ritornato a casa, il signor Ascanio guardò con aria di compassione i suoi stanzoni, i suoi cornicioni, i suoi stucchi. I mobili scricchiolarono, come facevanospesso e volentieri. - Sì, bravi, - diss'egli - lagnatevi di andare a star meglio. - Ma noi non ci lagniamo; ridiamo. - E allora continuate. Ma sarà il caso di rider davvero, lassù, nel corso Paganini. - Impaziente com'era, spinse a tutta forza i negoziati. E come ebbe conchiuso col nuovo padron di casa, andò dal solito sgomberatore, perchè gli mandasse la mattina seguente carri e manovali. Era fatto così, il signor Ascanio Denèa; ne aveva pochi degli spiccioli, e meno da spicciolare. Il che va inteso al figurato, e non altrimenti. Pronto e risoluto nelle cose sue, non sapeva dormirci su; per quella notte, ad esempio, non potè chiuder occhio. Vedeva la sua casa nuova, luminosa e gaia, coi suoi mobili a posto; gli sapeva mille anni d' infilar le pantofole, per scendere in quello scampoletto di giardino, per sorbire il suo caffè nero sotto il fogliame spanto d'una bella robinia. E poi, sempre colla immaginazione, rientrava nel suo studio. Già, era a pian terreno, lo studio; tutte le stanze buone di quel pian terreno erano occupate dai suoi libri; e si capisce che bastassero appena ad alloggiare tutti i suoi vecchi amici, come egli usava chiamarli. E là, seduto davanti alla grande scrivania, coi polsi sopra un quinterno di carta da protocollo, scriveva a lettere di scatola le famose parole: «Storia di Roma, libro primo, capitolo primo». Punto e a capo, naturalmente; ma qui ti voglio. Innanzi di cominciare, bisognava risolvere un dubbio. Si doveva premettere il sommario ai capitoli? Ma sì, perbacco; è buona usanza, ed antica. L'occhio ci casca sopra, e trova subito il fatto suo; cosa tanto necessaria in opera piena di cose, non tirata a fil di rettorica da un narratore parolaio. Così, lasciato il posto pel sommario, il signor Ascanio rifaceva per la millesinia volta quel primo libro, che doveva rimutare la faccia della storia, sgombrare una selva di errori antichi e moderni, metter luce, sopra tutto, gran luce. Ah, la luce! E quando, a proposito di luce, sarebbe giunto il mattino? Per chi non riesce a prender sonno, le ore del letto son lunghe, antipatiche, eterne. Il signor Ascanio ad ogni tanto riaccendeva il lume, per guardar l'orologio. Ma sì, appena il tocco; e l'aurora dalle rosee dita non faceva capolino che alle quattro, Vennero le due, dopo un terzo od un quarto rifacimento di quel primo libro benedetto, e lo storico futuro della romulea città volle provare a chiuder gli occhi. Ma non gli valse; il sonno ricusava di accostarsi; e quei poveri occhi, mezz'ora dopo, erano più aperti che mai. - Ho i nervi in combustione; - diss'egli. - Ma infine, se non dormo, è segno evidente che non ho sonno. Chi non ha sonno non dorma. Di tutti gli sforzi, quello di riposare è il più ridicolo, il più indegno del savio. Se mi alzassi? Potrei fare qualche cosa, ammazzare il tempo utilmente. Nello studio ho già le tre casse per metterci i libri della scansìa monumentale. - La scansìa monumentale era quella dove il signor Ascanio teneva le opere più voluminose e più rare; il Grevio e il Gronovio, il Montfaucon, il Dizionario di Trevoux, l'Arte di verificare le date, le Antichità del Medio Evo e gli Scrittori delle cose Italiane del Muratori, nella grande edizione palatina; i ferri del mestiere, insomma, che ad ogni tanto bisogna avere tra le mani, e a cercarli nelle biblioteche si perde il tempo e la voglia. I suoi libri, con tanto desiderio acquistati, con tanto amore guardati e riguardati, li metteva sempre a posto lui, governandoli con cura più che paterna, materna. Che se non gli accadeva sempre di ricordarsi d'uno o d'altro autore da lui posseduto, tanto che riusciva ad acquistarne i due, i tre, i quattro esemplari, il guaio gli era derivato molto naturalmente dallo aver libri a migliaia. Anche Io scoiattolo dimentica le noci che con tanta diligenza ha sotterrate qua e là; ma non è da credere che ciò gli avvenga per difetto d'amore alle noci. Del resto, cambiando casa, e ad ogni sgomberò ripassando i suoi libri, faceva sempre più intima conoscenza con essi, se ne formava nella testa una specie di catalogo. Oh il catalogo!... quello sarebbe stato un lavoro utile, e proprio la man di Dio; ma certamente era anche più momentoso della Storia di Roma. Frattanto, era sempre lui a goleruare i suoi coloriti, a incassarli e a scassarli; unica fatica, e non piccola, che serbava per sè negli sgomberi. Alle altre faccende pensavano il servitore e la cuoca, oramai fatti a quel servizio, rassegnati a quella assidua vicenda di mettere e levar la roba da posto, che era la manìa del padrone: unica manìa, e perdonabile, perchè in tutto l'altro il signor Ascanio era una pasta di zucchero. Non comandava mai, si contentava di tutto, a tavola e fuori di tavola, perfino di una camicia male stirata; la gran disperazione dei signori uomini nel dolce santuario della famiglia, dove, per un goletto non insaldato a dovere, vanno i sagrati alle stelle. - Lavoriamo; sarà tanto di fatto per questa mattina; disse il signor Ascanio a sè stesso, entrando nel suo studio, dove accese due lampade per vederci meglio - Ce ne à, dopo tutto; a incassare il grosso dell'esercito, mi basterà appena l'intiera giornata. - Accostato lo scafo alla scansìa monumentale, attaccò subito il pluteo più alto, che in pochi minuti fu sgombro. Scendeva a bracciate, i volumi, nell'apogèo temporaneo dei cassoni di legno; e il signor Acallio li vagheggiava, nell'atto di calarli là dentro, li palpava, li accarezzava amorosamente, i bel volumi legati di marocchino lionato e marezzato, colle grandi costole luccicanti per cinque o sei ordini di fregi dorati, dove tra fogliami e svolazzi simmetrici si spampanava un bel fiore, o si rizzava un bel melagrano il bel melagrano così caro all'arte libraria del Settecento, del secolo che più di tutti ha mostrato di amare il libro e di saperlo render gradevole agli occhi. Oggi si stampa di più, e naturalmente peggio; si lega alla carlona; in mezza pelle che si crepa sotto le dita, in tela che si stinge alla prima luce; colle coperte che si rompono agli spigoli, coi capitelli che si sfasciano ad aperta di libro, colle catenelle che non tengono; veste ben degna del corpo, che è tutto di carta bugiarda, cioè mezza colla e mezza segatura di legno. Oh, i libri di questa seconda metà dell'Ottocento non vorranno arrivar molto lontano. E bene sia; come delle vostre facce, amatissimi contemporanei, che non andate più dal pittore, per farvi fare un ritratto di durata, ma dal fotografo, per non lasciar traccia di voi alla terza generazione. Il signor Ascanio lavorava a gran forca, contento del fatto suo, sorridendo di tanto in tanto allo scricchiolìo dei suoi scaffali. Ma ecco, mentre

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egli stava prendendo dal terzo palchetto una bracciata di Grevio o di Gronovio, e già si disponeva a muovere un piede dal quinto al quarto scalino, gli venne veduto con la coda dell'occhio, in un angolo della camera, qualche cosa che si muoveva. Il gatto, forse? Non ne aveva mai voluti, e la sua cuoca non avrebbe ardito introdurne in casa contro la volontà del padrone. Un sorcio? Non ne aveva veduti mai; e per sorcio, via, quel coso mobile che intravedeva lì per lì, sarebbe stato troppo grosso. Il signor Ascanio ebbe la presenza d'animo di non lasciar cadere i suoi cinque tomi in folio; scese con saldo passo i gradini dello scalèo; depose il greve pondo sulla scrivanìa, Grevio o Gronovio che fosse; poi si volse a guardare laggiù, donde aveva veduto muovere qualche cosa. Che diavolo era? Nè gatto, nè sorcio, veramente, nè altro animale di specie conosciuta. Fu grande lo stupore del signor Ascanio, ravvisando al lume delle due lampade un piccolo, anzi un minuscolo uomo, che alzando ed abbassando un minuscolo martello, tempestava di colpettini secchi il coperchio di una minuscola cassa. Il piccolo personaggio, più piccolo del più piccolo tra i nani, era vestito alla leggera, d'una tunichetta succinta, che gli scendeva appena al ginocchio. Dai lembi di questa spuntavano due gambettine eleganti, ben nutrite nella loro sottigliezza, come le zampe d'una cavalletta, rimpolpata da due settimane di pastura all'erba tenera; due gambettine che andavano a finire in due borzacchini di cuoio rosso, dalle punte affilate e volte all'insù come due piccoli uncini. Una mantellina corta, a foggia di clamide, gli si rigirava intorno al petto, ricadendo con un capo dalla spalla sinistra; ed anche quella era rossa, come era rosso il cappello, di bassa testiera e di larga falda, simile a quello dei Romani antichi e dei cardinali in viaggio. Rimase male, il signor Ascanio Denèa, vedendo quella strana apparizione; e stette parecchi minuti secondi, che gli parvero secoli, come impietrito, a guardare. Che in quella casa ci fossero le paure, Io aveva pensato più d'una volta, sentendo tutti quegli scricchiolii, colpettini secchi, fischi sottili, frulli misteriosi ed altri inesplicabili rumori notturni, di cui si accusano ordinariamente a giorno chiaro i tarli, i sorci, i ragni canterini, gli orologi della morte, l'umidità, l'arsura, i riscontri d'aria, le folate di vento tra le fessure degli usci. Ma se lo aveva pensato, aveva anche riso delle sue supposizioni. E ora? Ora, bisognava arrendersi alla evidenza; c'erano le paure. Ma non per lui, vivaddio! Già, le paure non son più paure, e non devono farne alcuna, quando si è veduto in faccia e misurato il pericolo. Un nano, poh! anzi incito di un nano. - Che novità è questa? - brontolò il signor Ascanio, tanto per cominciare. - E tu, per tutti i settemila, chi sei? -

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. - Dacchè t'ho dato a balìa, non ho mai più avuto il piacere di vederti. - Senti! - ribattè l'omettino. - E son pure di casa, come la granata. - Se sei di casa, come mi capiti oggi per la prima volta tra' piedi? Dove stai rintanato? - Vuoi dire dove abito? Di solito fra i tuoi libri, ora in quella scansìa, ora in quell'altra. Voglio tutti i miei comodi; amo variare, secondo le stagioni e gli umori. Mi scaldo nell'inverno col tuo Dante; mi fo vento in estate col tuo Ariosto; in primavera vo dal Petrarca; in autunno dal Tasso. Poi, faccio i miei giri; la mattina a colazione da Virgilio; sul mezzogiorno al rezzo con Teocrito; più tardi a ber fresco dal Chiabrera. Per il pranzo, non si sgarra, ho la bene imbandita mensa di Omero; dopo di che si fa una passeggiatina con Eschilo e Platone. Qualche sera vo a cena da Orazio, qualche altra da Marco Tullio. La notte, finalmente... - La notte è fatta per dormire. - Quando si ha sonno. Ma quando non si ha? Qui ti voglio. Allora, sai che cosa faccio? Attacco uno dei tuoi moderni; coi quali, del resto, in altre circostanze, dopo un gran bagno d'antico... - Ti secchi, ho capito; - interruppe una seconda volta e conchiuse Ascanio Denèa - Non puoi gradirli, essendo così antico tu stesso. - Di' pure antichissimo; - replicò l'omettino rosso, spiccando un salto e venendo a cadergli a piombo sulla catasta dei Grevii e dei Gronovii.. - Ero il buon Demone dei Greci, il Lare dei Romani, il genio familiare, il protettor della casa. Che bella religione, dove ebbi io il primo posto! Poi n'è venuta un'altra, della quale non voglio dir male, Dio guardi! Il principale, che mi aveva lasciato stare in pace cogli Eloim delle sue dodici tribù, non mi avrebbe, quanto a lui, torto un capello, ricordando benissimo di aver ricevuto in cielo, ai suoi conviti solenni, un personaggio assai meno innocente di me. Ma qui, sulla terra, si voleva far piazza pulita: certi vescovi mi scomunicarono, e son diventato il folletto. Io non ti voglio negare che i mali trattamenti m'abbiano guastato un pò il sangue. M'ero fatto insolente; mi ficcavo dove non avrei dovuto; mettevo le pulci negli orecchi ai romiti della Tebaide, che mi chiamavano lo sciacallo; entravo nei conventi d'Occidente, e molestavo in cento guise i poveri frati, che mi davano dell'incubo dal succubo, del demone meridiano a tutto pasto. A proposito di pasti, guastavo anche quelli, facendo andare a male i guazzetti, le salse, gl'intingoli; onde un frate converso, che faceva da cuoco, e ci divenne poi santo, mi battezzò Tribolino. È, dopo tutto, il nome che mi piace di più. Me tu, che fai la storia di Roma, chiamami pure Genius loci. - Non l'ho scritta ancora; - rispose il signor Ascanio, sorridendo; - e ti chiamerò Tribolino. - L'altro fece un gesto che voleva dire: s'accomodi. - Ma già! - proseguiva intanto il signor Ascanio; - non triboli me da un bel pezzo? Ed anche poc'anzi, colle tue martellate!... Che diamine serravi in quella cassa minuscola? - Le mie carabattole. Per forza, san Marco! Tu hai l'argento vivo addosso non sai star fermo un anno in un luogo. In dieci anni, undici sgomberi; e dopo sei mesi eccoci già al dodicesimo. Ora ti lagni di una cosa, ora di un'altra; questo non ti va, quello non ti contenta; un quartiere ha due camere più del bisogno; a un altro ne mancano tre; quello ha la scala troppo povera, quell'altro troppo ricca. Sei come quel tale che andava dal calzolaio per un paio di scarpe, e le voleva lì per lì, della propria misura; e nessuna si adattava ai suoi calli. - Se mi hai accompagnato in tutte le case, saprai bene perchè le ho lasciate. - E ti lasci dire che hai avuto torto a girarne tante? L'uomo saggio, quando vuole una casa che gli torni per ogni verso, se la fabbrica. E ci aggiunge un ritaglio di giardino, o di parco, per aver l'illusione di possedere un castello. - Già, per caricarsi d'imposte e sovrimposte, di governi e cantoni; nè senza l'altro guaio, di far casa a muove famiglie d'insetti. - E sia, non fabbrichiamo. Qui, dopo tutto, stavi bene. - Oh sì, con tanti rumori e tante noie di tua particolare invenzione! - Scherzi innocenti! - Non tutti, caro, non tutti. A letto, per esempio, quando mi fai cercare un mezz'ora buona la stecca per tagliar le carte al mio libro, e proprio nel punto più interessante dell'opera! ....... Frugo di qua e di là, nelle pieghe del copertone, nella rimboccatura del lenzuolo, da un fianco, dall'altro, ma inutilmente. Mi alzo sulla vita, e puffete, la stecca è per terra; ed io ci ho da buscarmi una infreddatura, per andarla a raccattare. Si sveglia tutto ad un tratto un moscone, e viene a ronzarmi dattorno; cala una zanzara, e mi annunzia un salasso; alzo la mano, e paffete, dò uno schiaffo al candeliere, che mi ruzzola sul tappeto e si spegne. Bisogna riaccendere la candela; ma prima di tutto bisogna ritrovarla. Allungo il braccio verso il comodino, e zuffete, mi va a terra anche la scatola dei cerini. Scherzi innocenti, li chiami? - Dei immortali! Se ne dànno dei peggiori. - E non ci mancherebbe più altro. Ma tutti, signor Tribolino degnissimo, dovrebbero aver misura, e sopra tutto ragione. - Nè l'una cosa nè l'altra, dove si tratta di ridere, di trastullarsi un pochino. - E non ti vergogni? Sei vecchio. - Non più di te; ed invecchio con te; tanto che, se mi guardi bene, sono in ristretto la tua medesima immagine. Anche tu, figliuol mio, ci hai già otto o dieci capelli bianchi. - Non me ne parlare; è una infamia. L'uomo dovrebbe morir giovane a cent'anni. Io, per intanto, non ne ho che trentuno. E tu, dunque, tirerai il calzino con me? - Chi lo sa? Posso temerlo. Mi hai già dato dal canto tuo tante noie, che sei capace di procurarmi anche questa. Ma senti, prendiamo le cose pel verso loro, e il bricco dal manico; se no, ci si scottan le dita. Sai che sarebbe tempo di metter giudizio? - Bravo? ed è per questo che sei comparso? - Capirai; m'è scappata la pazienza. Che si canzona? Dodici case! e questa, poi, così bella! Ci avevo già fatto il mio nido, credendo di poterci invecchiare. - L'altra è molto più bella di questa. - L'ho vista, l'ho vista; - rispose Tribolino, facendo una smorfia. - Ci sa di fallito. Non ci sono state persone felici; sopra tutto non ci sono state persone intelligenti. Non avevano altra divozione che quella dei quattrini. Lui tutto il santo giorno alla rendita dello Stato, alle azioni delle ferrovie, alla divisa estera; lei dalla modista, dalla sarta, ai passeggi, ai tè delle cinque ore, ai teatri; in casa quasi mai, nè l'uno nè l'altra. Casa non amata, casa inamabile! - Oh, questo poi, vuol essere un pensiero profondo, e non è altro che un paradosso. Casa inamabile! Quant'altre ce ne saranno state, e ce ne saranno ancora! Questa, per esempio, con quella dama lassù, che fa la bella, stringendo il bocchino, e rimpicciolendosi la mano intorno al suo mazzolino di fiori! Figurarsi quante svenevolezze, quante leziosaggini, quante smorfie e quanti capricci anche lei! - No, caro; l'apparenza inganna. Se tu sapessi che cara donna, quella marchesa Arduina! Ignoravi che si chiamasse Arduina? Lo so io per te. Io, più amante della casa, appena venuto qua, ho preso lingua - Da chi?..... se pure è lecito saperlo? - Tribolino ammiccò, rise maliziosamente e rispose: - C'è lassù, nascosto ai tuoi occhi dallo sporto di quel cornicione, un buon vecchio ragno che la sa molto lunga. Non credere che sia tanto vecchio, da essere stato testimone dei fatti. Capirai, si tratta di storie tramandate di generazione in generazione. In quei lunghi ozî forzati, tra ragnatela e ragnatela, si ripassano volentieri le cose ascoltate una volta, e la memoria è tanto più tenace quanto è più scarsa la materia dei ricordi. La storia della marchesa Arduina è semplice e graziosa; se ti piace conoscerla... - Son qui tutt'orecchi; - disse Ascanio Denèa. - Andiamo, via, non ti fare più bestia del vero; - osservò lo spiritello Arguto. Il signor Ascanio chinò la testa, in segno d'animo grato; si lasciò andare col torso contro la spalliera del suo seggiolone; e stette a sentire la storia della marchesa Arduina. - È semplice e graziosa; - ripigliò Tribolino, sedendosi a sua volta sulla costola d'un Grevio e accavallando le gambe per modo che uno de' suoi borzacchini rossi poggiasse sopra un Gronovio, e l'altro tendesse minaccioso e beffardo la sua punta sottile contro il naso dell'ascoltatore. - È anche breve; il che giova non poco alle storie. E questo sia detto per il caso che tu avessi presa quella postura troppo comoda, col deliberato proposito di schiacciare un sonnellino. - Oh, non c'è pericolo; - disse il signor Ascanio. - Così avessi potuto dormire! - Ingrato! Ma lasciamo questo discorso inutile, e veniamo alla bella signora, che fu prima di tutto un fior di ragazza, e innanzi di venire ad abitare in questa casa, abita va in quell'altra che fa angolo con questa tua sala. Non ignori che siamo sopra un cavalcavia, e che questa è l'ultima stanza del pian nobile, d'un antico palazzo dei Balbi. Il palazzo che segue, presentandosi ad angolo retto con questo cavalcavia, apparteneva duecento cinquant'anni fa alla famiglia dei Sauli. Vecchia gente, i Sauli, venuta intorno al Trecento da Lucca, ov'era già antica e di molta riputazione; qui, poi, diede molti anziani al Comune, senatori alla Repubblica, e, salvo errori ed ommissioni, tre dogi. - Il signor Ascanio non istette alle mosse. - E m'avevi promesso una storia breve! - esclamò. - Venivo subito al fatto; - rispose Tribolino. - Il preambolo era necessario, per orientarci. - Allora diciamo che il tuo racconto è come il pesce cappone; tutta testa, e si passa subito alla coda. - Ah, tu la intendi così? Ebbene, non ti darò che la coda; - replicò lo spiritello stizzito. - Arduina, figlia del senatore Bendinello Sauli, abitava colà; Geronimo Balbi abitava qui; si videro dalla finestra; ne nacque quel che può nascere, standosi a guardare da due davanzali,cioè niente, li per li. Ma le due famiglie erano di pari grado; gl'interessi dei rispettivi babbi si accordavano benissimo, come si erano accordati i cuori dei giovani; Geronimo sposò Arduina; furono felici; non si cambiò casa per la nuova coppia, perché questa, grazie a Dio era vasta, e bastò ad una nidiata di piccoli folletti, rosei, paffuti e belli come tanti amorini. Cresciuti in età, e tramutati via via; - notò il signor Ascanio seccato; - invecchiati, ingialliti, incartapecoriti, e poi morti. - Oh, Dio buono! è la legge. Ti vuoi guastare il sangue a meditarne un'altra, Che non ti sarà sanzionata da quel di lassù? Resta sempre, - disse il signor Ascanio, a sfogo del suo malumore, - che tu m'hai raccontato una storia sciocca. Un uomo vede una donna; l'ama; n'è riamato; si sposano. Semplice, sì, molto semplice; ma graziosa, poi!... - Non l'hai voluta così, come un piatto senza contorno? Del resto, caro mio, le storie d'amore non hanno che tre stampi. O gli amanti si sposano e sono felici; o non si sposano, e sono infelici; o non si sono trovati in condizioni di libertà da potersi sposare, e la cosa va come può andare, zoppicando e inciampando, fino al suo termine naturale. Da queste tre categorie di racconti non si esce. - Capisco; ma c'è la salsa. - Che non hai voluta assaggiare, ti ripeto. E ti pareva già troppo ingombro un piccolo cenno topografico, per entrare in materia. Ma se ti avessi detto quante difficoltà dovettero superare, per quante prove passare i semplici e casti amori di Arduina e Geronimo, non ti sarebbe parso poi tanto sciocco il racconto. Già, incominciamo dall'osservare che prima di affacciarsi a quella benedetta finestra, in un bel mattino di giugno, il signor Geronimo, figliuolo unico del magnifico senatore GianLuca Balbi, pensava a prender moglie, com'io a farmi frate. Gli stava ancor troppo nell'anima una passione stracca per la bella marchesa di Pietrasanta, come a te, caro amico... - Lascia stare; -interruppe il signor Ascanio. - La mia storia non c'entra. - Neanche per via di paragone? - ripigliò Tribolino. - Coi paragoni par sempre di farsi capir meglio. Aggiungi che il signor Geronimo nostro voleva scrivere un libro, un romanzo, secondo la moda d'allora, sul taglio del Caloandro fedele, come tu la tua Storia di Roma. E non lo scriveva mai; sempre per quelle benedette dissipazioni, che pure gli avevano data l'idea. Passeggiate, visite, conversazioni, teatri, festini, son tutti lacci e impedimenti al buon volere. «Non mancate, vi aspetto; ci sarà il tale e il tal altro. La sempre vostra..... Cunegonda». Così, o poco diversamente,

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Ma il nostro signor Geronimo se ne trasse fuori, solo a stare nel vano di quella finestra, a guardare in quell'altra, donde gli apparve la figliuola di Bendinello Sauli. Tu la vedi ora dipinta in quel quadro, bellezza matura, fra i trenta e i quaranta. Bisognerebbe, dicono di padre in figlio i miei ragni, bisognerebbe averla veduta a diciotto, che bottoncino di rosa! Povera marchesa di Pietrasanta! era un archiléo, al paragone di quel fiorellino rugiadoso. Il signor Geronimo aveva ricevuto lo strale in pieno petto; non prese tempo a stancarsi di quell'altra, nè a vederla stanca a sua volta; colse il primo pretesto di gelosia, e domandò, anzi, diciamo meglio, prese i suoi passaporti. E se, liberato di quella catena, non fece il suo ridosso al Caloandro fedele, diciamo pure che non si può ottener tutto dalle forze di un uomo, - Graziosa, la storia! oh, tanto graziosa! - esclamò il signor Ascanio, con quel suo piglio sarcastico. - È tutta qui? - No, ci sarebbero da accennare alcune peripezie, che le darebbero vita. Vuoi starle a sentire? - Perebé no? - disse Ascanio Denèa. - Tanto, non ho sonno. - Ma bada, non m'interrompere, come fai così spesso e così volentieri. Parlano ora per il mio labbro le cose. - Ascanio s'inchinò, in atto di assenso; poi si raccolse nel suo seggiolone, mostrando di voler ascoltare a lungo. E Tribolino, con la sua gambettina sinistra comodamente accavalciata sulla destra, così cominciò a raccontare.

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S'arriva così fino a prender moglie, a far relazioni nuove e diverse, e si tira via, chi da un lato chi da un altro, Tizio non ricordandosi più di Caio, e Caio dimenticando che Tizio abbellisca della sua presenza la scena del mondo. Così passa l'eta degli amori e degli svaghi, ognuno facendo i fatti suoi. Segue l'età delle piccole e delle grandi ambizioni; e si arriva, chi prima e chi dopo, ai più elevati uffizi della repubblica. Ecco il momento da ravvicinare la gente, che si era allontanata e perduta di vista. Ma ravvicinare non è congiungere; si può esser vicini di scanno, e tra un gomito e l'altro può durare l'abisso, senza che a nessuno dei due possessori di quei gomiti venga fantasia di rimediarci con un arco di ponte. Qualche volta, sì, viene uno starnuto, a cui può rispondere un «Dio v'aiuti». Ma questi sono i ravvicinamenti delle anime deboli. Tra le anime forti, quando una parte starnuta, l'altra sta dura o si contenta di mormorare un «crepa!» che rimane educatamente fra i denti. E poi, l'uno è magro, mentre l'altro è grasso: questo è un gran parlatore, e quello non ha mai saputo cucir due frasi per farne un periodo. Oppure, uno rimpinza volentieri il discorso di citazioni latine; che noioso! l'altro non sa dire venti parole, senza ficcarne dentro una mezza dozzina di francesi; che sciocco! Ahi misera creta umana! Così l'uno per l'altro, Bendinello Sauli e Gian Luca Balbi, senatori ambedue, ambedue nel consiglio ristretto del Doge. Quei due vecchi matti, sia pace all'anime loro, senza avere una ragion vera di odiarsi, non avevano mai trovato il modo di andare una volta d'accordo. Sempre a tu per tu, in ogni adunanza non facevano altro che bisticciarsi; quello che Bendinello proponeva era strenuamente combattuto da Gian Luca, con un corredo di argomenti storici, politici, economici, perfino filosofici, da disgradarne Cicerone; quello che Gian Luca stimava il miglior partito, era dichiarato da Bendinello il peggiore, con una foga di discorso, che faceva pensare a Demostene. La inconciliabilità dei loro giudizi, come dei loro caratteri, era passata in proverbio. Basta dir questo, che un giorno, essendo il Consiglietto quasi in fin di seduta, e ancora dovendosi sbrigare una pratica di mediocre importanza, il serenissimo Doge propose di rimandarla; «eccetto che» soggiungeva egli ridendo, «eccetto che i nostri magnifici Bendinello e Gian Luca si adattino a lasciar arbitra dei lor riveriti pareri la sorte; altrimenti, per quest'oggi, non si va a cena nè a letto». Risero i senatori, e, caso strano, i due magnifici così tirati in ballo non furono dei meno corrivi Ma non per questo si persuasero di smettere. Solo per non parere, si adattarono a stringere in brevi discorsi le loro opinioni; e in quel poco stillarono tutta l'acrimonia che avevano in corpo. Nè altri parlò, dei loro colleghi, per non dar appiglio a repliche dell'uno o dell'altro, tutti rimettendosi volentieri alla trionfale eloquenza dei voti. Con questi umori dei padri, figuriamoci come potessero andare gli amori dei figli. Quando se ne toccò da un discreto amico al signor Bendinello, il vecchio senatore s'inalberò, come una serpe a cui fosse pestata la coda. - In casa di quel letichino mia figlia? Le attacco piuttosto una pietra al collo, e l'affogo in Darsena. - Ci son sempre nel inondo i pietosi che riferiscono caritatevolmente le male parole. Quelle del magnifico Bendinello andarono subito agli orecchi del magnifico Gian Luca. - II Sauli non è savio; - diss'egli, in apparenza pacato, ma spremendo veleno. - Non ricorda egli di essere fra i Conservatori del mare, che han per uffizio di tenere in buono stato le acque del porto, cioè nelle debite condizioni di profondità,e di nettezza? - Ma già, - gli si rispondeva, - son parole buttate là in un momento di stizza. Il partito è buono per tutt'e due; credete che Bendinello non lo senta? - Senta quel che gli pare; - ribatteva Gian Luca, - Ci vogliono poi troppe cose, perchè un partito sia buono. Quanto a me, prima d'imparentarmi con un Sauli, vorrò veder finita la fabbrica di Carignano. - Figurarsi! quella benedetta fabbrica era stata incominciata nel 1522, quando si pose la prima pietra della basilica; e potè dirsi finita soltanto nel 1718, quando fu terminato il ponte, che vi conduce dalla opposta collina di Sarzano. E si era, quando parlava Gian Luca Balbi, all'anno 1619. Il nostro senatore degnissimo voleva dunque campare un bel pezzo. Ma non voleva aspettare tanto quel buon figliuolo di Geronimo. Nelle ore che non gli rubava quella stracca servitù di casa Pietrasanta, egli era sempre qui, nella sua stanza, in adorazione davanti a quella benedetta finestra. La bella Arduina vi faceva di tanto in tanto le sue apparizioni, per arrossire, chinar gli occhi e finger di guardare in istrada. Ed egli si sentiva un grande rimescolo in cuore, contemplando quel bottonicino di rosa e paragonandolo mentalmente con quella rosa spampanata, intorno a cui s'era indugiato già troppo. Certi amori hanno ufficio di scaltrire la giovinezza, facendole aspettare e riconoscere il vero. Ma quando il vero è comparso all'orizzonte, addio scuola; vedete la differenza, anche prima di meditarci sopra; la sentite ad un certo che di tenerezza nuova, che penetra la passione e la trasforma, purificandola. Ma la tenerezza non esclude l'ardore del sangue; e l'ardore del sangue vi dà l'impazienza; e l'impazienza vi fa ben presto uscire dai gangheri. Geronimo Balbi era proprio arrivato a quel punto. L'amico ch'egli aveva pregato di tastare il terreno era riuscito a guastare; ed egli oramai non vedeva più altro modo di uscirne, che facendo da se. Ma come? da che parte incominciare? Un giorno che l'innamorato era lì, al suo belvedere (possiamo bene chiamarlo così, e nessun belvedere meritò mai meglio di questo il suo nome), Arduina abbassò gli occhi, come soleva; e avvenne, per naturale consenso, che li abbassasse ancor egli. Ma egli, da questo cavalcavia vedeva meglio di lei in istrada; e volgendo lo sguardo laggiù, gli venne anche veduto il senatore Bendinello che usciva dal suo palazzo, ed era stato fermato proprio sulla soglia del portone da un Tizio, probabilmente un seccatore, venuto là ad appostarlo. Un'idea luminosa attraversò la mente di Geronimo Balbi. L'occasione passava, coi suoi tre capelli sulla vetta del cranio. Perchè siano poi tre, non so dire; al nostro giovinotto ne bastava uno. Rialzò gli occhi verso Arduina;

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