Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Il romanzo della bambola

245687
Contessa Lara 34 occorrenze
  • 1896
  • Ulrico Hoepli editore libraio
  • Milano
  • Verismo
  • UNICT
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Una gioconda animazione regnava in tutte le vie di Milano: i magazzini fiammeggiavan di lumi; una gran folla si pigiava su' marciapiedi e, benché il freddo fosse intenso, più d'una testolina di fanciullo s'affacciava dalle finestre a guardare quello spettacolo. La gente, frettolosa ma allegra, entrava nelle botteghe e ne usciva carica d'involti. I pizzicagnoli avevano messo in mostra delle forme di cacio d'ogni paese e d'ogni colore: il Gruviera gialliccio e butterato come la faccia d'un vaioloso, il Gorgonzola verdognolo, l'Olanda in palle rossiccie; offrivan salami, lingue affumicate, mortadelle di Bologna, zamponi di Modena, olive di Spagna, ogni grazia di Dio. Su le botteghe de' fruttaioli si vedevano accatastate le mele vermiglie, le uve color dell'ambra, i finocchi con le lunghe barbe verdeggianti, gli ananassi che mandavano una fragranza soave, e poi ogni sorta di frutta secca: susine, noci, nocciuole, mandorle, fichi, in tanti canestri di vimini posti in fila come per una parata. Le vetrine degli orefici scintillavano di braccialetti, d'anelli, di collane, di diademi d'oro, di perle, di brillanti d'ogni altra pietra preziosa; ma là non c'era folla, perchè non tutti, a questo mondo, hanno quattrini da buttar via in oggetti di lusso. I più popolati erano i magazzini de' venditori di giocattoli, perchè non c'è babbo o mamma, per quanto poveri, che a ceppo non vogliano regalare qualche balocco a' bambini, specie se sono stati buoni e ubbidienti. Quella sera, il signor Giovanni de' Rivani si lasciava anch'egli attirare qua e là dalle vetrine più belle, gironzando, solo, per Milano: e ogni momento guardava l'orologio, tutto contento che gli ci mancassero poche ore alla partenza. Il giorno di Natale, a Dio piacendo, egli si sarebbe ritrovato a Roma, in famiglia, dopo più d'un mese di lontananza. Che felicità nel suo cuore! Che feste nella sua casa! Quando gli affari da cui dipende il benessere de' propri cari l'esigono, bisogna sacrificarsi senza esitazione e senza lamenti; così aveva fatto il signor de' Rivani, per concludere una combinazione assai vantaggiosa alla sua impresa industriale. Si trattava d'un altro bel mezzo milione che gli sarebbe entrato in cassa. Ma, intanto, il tempo passato senza la moglie e la figliuola gli era parso eterno. Alle lettere che la mamma scriveva al babbo, la Marietta aggiungeva sempre qualche parolina, assicurandolo che anch'ella pensava a lui; e gli mandava dei baci e lo pregava di benedirla. A quel bravo signore, come alla maggior parte dei buoni babbi, quelle righe scritte un po' stentatamente a grossi caratteri, perfino sgorbiati, sembravano una gran bella cosa; e, commosso, nel posarvi sopra le labbra, si illudeva da vero di baciare la sua bambina, che benediceva dal profondo dell'anima. La Marietta era il suo immenso amore. Figlia unica di genitori ricchi, ella era giunta a sette anni in mezzo a ogni ben di Dio. Le bastava esprimere un desiderio perché tutti, dal padre allo sguattero di cucina, s'affrettassero a contentarla. Era lei che ordinava il dolce al cuoco; lei che indicava al cocchiere l'ora d'attaccare e il luogo dove far la passeggiata insieme alla governante; lei ancòra che teneva di buono o di cattivo umore tutti quanti di casa, a seconda delle sue risa o delle sue lacrime. La signora de' Rivani, che non meno del marito adorava la bambina, ma che meglio di lui ne capiva i difetti, perché l'aveva quasi sempre con sé, spesso si lagnava, facendo le più assennate riflessioni. - Pensa, Giovanni mio - ripeteva, scrollando la testa - che i genitori non vivono sempre, e che se avvezziamo la Marietta a soddisfare ogni fantasia che le passa per il capo, ne facciamo per adesso una capricciosa e per l'avvenire una disgraziata. Il signor de' Rivani non dava importanza a quei saggi discorsi! Secondo lui, siccome la Marietta non era cattiva, ma, appunto, soltanto capricciosina, il giudizio le sarebbe venuto con gli anni. E tranquillo, dopo questo curioso ragionamento, raccomandava alla moglie di non contradire in nulla la bambina; ignorando che della sua creatura già si diceva un gran male nelle case degli amici dove i fanciulli venivano educati ammodo. Precisamente in quella antivigilia di Natale il signor Giovanni aveva ricevuto lettere da casa; e due piccole righe della sua figliuola dov'ella lo pregava a non dimenticare di portarle «una bella cosa» da Milano. Dimenticarsene? Era possibile? - Il tenero babbo aveva piene zeppe le valigie di belle cose per le sue care che lo aspettavano a Roma; e alla Marietta, in particolare, portava un assortimento di quanto la novità offriva di più grazioso: tra le altre galanterie, un pettine di tartaruga bionda e oro, rotondo, per tener dietro le tempie que' capelloni ricciuti d'un castagno a riflessi rossastri, ch'erano, a dir il vero, la più grande bellezza della bimba; poi un ventaglio di velo color di rosa tutto lustrini d'acciaio, che abbagliava; poi un ombrellino di raso bianco, col manico d'avorio; poi una scatola da lavoro; poi... non lo sapeva neanche lui, il babbo, tutto quello che aveva comprato. Senza avvedersene, si trovò a un tratto in un agglomeramento di persone ferme a guardar una magnifica mostra di giocattoli, in uno de' principali negozi della Galleria. Ce n'eran di tutti i generi e per tutti i gusti. Tra la folla lì pigiata qualcuno sollevava su le braccia i ragazzi, perché potessero veder lo scimmiotto, grande al vero, col pelo naturale, far gravemente la calza, e ogni tanto fermarsi, guardare in viso gli spettatori e, improvvisamente, con un buffo garbo, mostrare i denti e metter fuori la lingua. Tutti scoppiavano a ridere. Piaceva anche il cane barbone che sonava l'organetto, voltando la testa ora a destra ora a manca, mentre accompagnava il valzer con un abbaiamento che voleva essere un canto. Non meno originale sembrava il vecchietto con una veste da

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La Giulia cominciò a fantasticare su' casi suoi: perchè non aveva mai potuto avere un'ora di bene? Un po' vanitosa era stata, non c'è che dire: si ricordava ancora della superbia con cui guardava le sue compagne della vetrina, a Milano; si rimproverava d'aver troppo amati i bei vestiti, la società elegante, le passeggiate in carrozza con la Marietta, senza neppur darsi un pensiero di tante e tante piccole bambole, di segatura come lei, che pativano nelle stamberghe della povera gente. Forse il Signore aveva voluto punire codesto suo vizio. E confrontando la propria vita alla vita di tutti gli altri esseri, s'accorgeva che ciascuno era punito per l'appunto là dove peccava. O il povero Orlando non era condannato a giacer lì, in balia de' topi e delle tarme, lui che si vantava d'aver tenuto testa a tanti cavalieri cristiani e pagani? Riflettendo a questa e ad altre simili cose, la bambola cominciò a sentirsi gli occhi pesanti, e i pensieri confusi; due o tre volte sbarrò gli occhi nel buio che le fluttuava d'attorno; alla fine, lei pure s'addormentò. Da quel giorno l'amicizia fra il burattino e la bambola divenne sempre più stretta: si raccontavano tutto quello che avevano visto; si compativano e si confortavano a vicenda. Orlando aveva sempre pronta la facezia che rasserenava il visino ferito della povera Giulia; la quale, per compensarlo, gli faceva capire di volergli bene. La notte, quando i topi tentavano d'arrampicarsi fino alla Giulia, dovevan passare sul corpo del paladino di Francia: e lui faceva tale un fragore con tutte le ferrarecce che aveva addosso, che i topi, impauriti, fuggivano. Alla Giulia, ch'era una personcina pulita, rincresceva soltanto che non ci fosse nessuno per lavarle la faccia e per ravviarle i capelli; ma Orlando le faceva coraggio dicendole che neppure le donne dell'epoca della cavalleria si lavavano mai, perchè non ne avevano il tempo, occupate com'erano a girar sempre per non incappar nelle mani di qualche mago o di qualche pagano. Quella volta, la Giulia, che tanto spesso gli aveva sentito nominare i cavalieri e la cavalleria, ma non se n'era mai fatta un'idea giusta, non potè tenersi di non domandare ad Orlando: - Ma insomma, con chi l'aveva codesta gente? - Con tutti! Con tutti i malvagi, gli sleali e i traditori - tonò Orlando. E riprese a declamare:

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Ma almeno noi altri poveri burattini che, sui teatri, facciamo la parte di quegli eroi, serviamo a ispirare alla gente I'amore delle azioni grandi e gloriose e il rispetto della virtù e della bellezza. La Giulia ascoltava, pensosa. È proprio vero che Dio non abbandona mai chi soffre. Quando la Marietta s'era scordata di lei per il puledro, ecco che ad amarla con tutto il cuore e tutta l'anima era venuta Camilla, creatura piena di gentilezza e di tenerezza. Finito con la morte l'amore di Camilla, quando la Rachele l'aveva tenuta male, dandola per denaro qua e là a bimbe sconosciute, e Attilio l'avea sfregiata, ecco Orlando a tenerle compagnia e consolarla, mentre ella meno se l'aspettava. Non era che un misero burattino fuori d'uso, Orlando; i suoi trionfi teatrali restavano soltanto un ricordo lontano e confuso; ma, per la Giulia, il sentire ch'ella non si trovava completamente sola al mondo, era pure una gran dolce cosa; e il cuore, povero cuore nascosto nella segatura, le si rasserenò a poco a poco come per incanto. Che le importava adesso lo squallore del luogo dove l'avevano imprigionata, e la poca luce che lo schiarava di sbieco, e il ribrezzo che le mettevano tutte le cose in torno per la muffa, la polvere, il vecchiume, la sudiceria? L'affetto del suo compagno di pena valeva certo più di molti bei mobili. Meglio quel lurido asilo fuori del consorzio umano insieme al buon Orlando, anzichè la splendida, allegra casa de' Rivani, col disamore della Marietta e il suo triste tradimento! Meglio finir cosi all'oscuro, sepolta sotto la polvere ma compresa e amata da un amico, anzichè passar nella vita, al gran sole d'oro, coperta di stoffe di seta a ricami, ma in mezzo all'indifferenza, tra la folla ma senza un essere pietoso e devoto.

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Ma non era scritto nel libro del destino che la Giulia dovesse finir così: perchè anche le bambole, come noi e come le bestie, hanno, a quanto pare, dagli avvenimenti fatali, un libro del destino dove è segnato "per filo e per segno tutto quel che ha loro da succedere. Un giorno, morto, da quel che si potè capire, il rigattiere, Attilio, sempre in lite con la sorella, la quale intendeva appropriarsi tutta la roba di casa, sgomberò la soffitta, sfasciando per arderli, i mobili troppo usati, e buttando via gli stracci inutili, da anni e anni lì ammucchiati dal padre. Tra gli stracci andarono anche la bambola e il burattino, finiti di rovinare ma molto addomesticati tra loro durante quel tempo del loro esilio dal mondo; e sul carretto dello spazzaturaio, quando la Giulia, da una mano ignota, fu buttata tra le braccia di cartone, che figuravano coperte di ferro, del burattino Orlando, un senso, non mai provato fino allora, la colse. Lui avrebbe voluto poter serrare quelle angolose, rigide braccia, accogliendovi l'amata; ma la materia, come sempre, rimase inerte; e soltanto l'anima del famoso paladino, susurrò: - Cara! Cara! Finalmente ti stringo al mio seno e ti posso dire quanto e come ti amo! La povera Giulia tacque, trovandosi lì più per la forza brutale del destino che per volontà propria. Non di meno, sentì qualcosa di simpatico in quell'avvicinamento, e rispose nella loro lingua ignota a noi: - Grazie, Orlando, grazie. Vicino a te, mi sembra d'essere più sicura, più protetta! Orlando, allora, prese a dire enfaticamente, nel solito linguaggio rimato a ottave, ch'era il suo:

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- pensò di nuovo la Giulia, ma con diverso sentimento da quando avea pensato la stessa cosa, a Milano, mentre il signor de' Rivani la portava via accuratamente involta nel foglio velino, dentro una scatola piena di bambagia, come in un morbido letto. Ora, in vece, ella si trovava sul duro cartone di Orlando, in un viaggio scomodo e democratico, verso l'ignoto. Chi mai, nel vasto mondo, pieno di tante tribolazioni d'ogni specie, avrebbe più avuto cura di lei? Orlando era buono di cuore e d'idee generose, ma si trovava, poveraccio, nell'impossibilità d'aiutarla in alcun modo, per quanto desiderio ne avesse, tranne che con qualche affettuosa e devota parola pronunziata piano, senza movere le labbra. Tutto visto e considerato, bisognava aver pazienza e coraggio; anche perchè a vincere la sorte non è capace neppure chi ha cento mezzi di combattere. - Poi poi, più della morte, la morte definitiva, non potrà venirmi - riflettè la bambola - e a quel punto, si sa, bisogna che si riducan tutti, uomini e cose. Dunque? Dunque avanti! Avanti, magari per curiosità di vedere quel che vien dopo! Uscendo dall'osteria, lo spazzaturaio consegnò la Giulia e Orlando alla donna, ch'era una contadina; e questa, ridacchiando, li depose alla sua volta, nel proprio barroccino: quasi vuoto, perchè gli erbaggi e le frutta erano già stati venduti al mercato. Ricominciò il cammino, ricominciarono le scosse: anche maggiori, percorrendo ormai il piccolo veicolo una strada campagnuola, tutta sassosa, fuori d'una porta; e ad ogni urtone la Giulia si premeva sempre più involontariamente al suo povero buon compagno: povero e buono come lei. Egli, sempre pronto a recitare un'ottava, tanto per incoraggiar l'amica con la poesia, come si fa animo con la musica ai soldati che marciano al fuoco, declamava:

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Ma l'ottava s'arrestava a mezzo: Orlando non avea più voglia di proseguire; la Giulia appena appena avea voglia d'ascoltarlo: erano tutti e due in un singolare stato nervoso, pieno d'incertezze e di preoccupazioni per l'avvenire. Quando furono un po' lontano dalla porta, e che la strada si mise in mezzo a due siepi fiorite, tutte odore di mandorle per il biancospino, la contadina principiò a cantar una specie di stornello nell'ampia solitudine:

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Adesso, certo, erano presso a cambiar vita l'uno e l'altra; e peggio di quel ch'era loro accaduto non poteva accadere. Dio vede, Dio provvede, dice un vecchio proverbio che non mente. La donna cantava sempre; il carretto andava innanzi scotendosi; la Giulia e Orlando riflettevano. Ormai, erano all'aria veramente aperta, che correva lungo due campi ricchi d'ogni gradazione di verde per le biade immature e gli alberi da frutte già in fiore. Un effluvio d'erbe fresche e di petali appena aperti passava a sbuffi col vento tiepido. Ogni poco, farfalle, mosconi e altri insetti alati volavano, mettendo attorno un fruscio, un ronzio pieno d'animazione e di vita; le piante stormivano dolcemente nel respiro primaverile; gli uccellini gorgheggiavano, rispondendosi da un colle a un altro. C'era nell'insieme armonioso della terra e del cielo un benessere indefinito e infinito che veniva da tutte le cose e in tutte le cose penetrava. Alla fine, la donna dal barroccino si mise su per un'erta ripida che serpeggiava sur un monte, e quando fu a mezzo di quel cammino si soffermò per chiamare, con quanto fiato aveva in gola, facendosi imbuto delle mani: - Nanninaaa! Luciettaaa! - Ah, mammaaa! - risposero all'unisono due voci limpide e squillanti di fanciulle. Sùbito dei passi di piedi scalzi alla corsa risonarono sul terreno. Le bambine, che verso quell'ora aspettavano la madre, le venivano premurosamente in contro. Affannate, ansanti, in un istante la raggiunsero. Erano due di quelle ragazzette campagnuole che, a prima vista sembrano somigliarsi tutte: rosse, d'un rosso bruno le gote, con la bocca largoccia, fatta pe' grossi pezzi di pane, i capelli cresciuti vicino alle sopracciglia, come se la natura volesse riparar loro la fronte da' raggi del sole che scotta, con la vita tozza negli abiti mal tagliati. - Avete acceso il fuoco? - fu la prima domanda che la madre rivolse alle bimbe sorridenti. - Sicuro! Bollono anche i broccoli per la minestra - rispose Nannina, la maggiore delle fanciulle, in tono serio, da massaia. Intanto lo sguardo della sorella piccola si era posato, frugando dovunque come ogni sguardo infantile, sul barroccino dov'erano, uno sopra l'altra, la Giulia e Orlando. O che c'è, lì, mamma? Che ci avete portato? - chiese la bambina, senza affatto raccapezzarsi di che cosa si trattasse. La contadina scoppiò in una risata rumorosa e bonaria. - È cresciuta la famiglia - diss'ella, alludendo a' nuovi personaggi ch'ella avea seco, la bambola e il burattino: i quali furon subito osservati da tutte le parti dalle due ragazzette, curiose, piene di maraviglia. Non ostante i vestiti poveri e il viso graffiato, la Giulia conservava sempre, se non altro negli occhi lucenti e ne' biondi capelli, un non so che di tanto leggiadro da farla parere qualcosa di signorile; e a malgrado dell'umidità sofferta nella soffitta, Orlando s'imponeva ancòra con quel suo fiero aspetto. - Uh! Par proprio un omo! - esclamò Lucietta, giungendo le mani. - È un omo - asserì sua madre. Nannina rideva, sollevando, guardinga, la visiera del famoso paladino cristiano. - È un militare, non lo vedi? - ripigliò la massaia. - Ha la sciabola. Allora le figliuole si persuasero della posizione sociale d'Orlando; e piano, tanto più ch'egli era grande, esaminarono, non senza un certo timor selvaggio, come è fatto un militare. Orlando si lasciava fare. In fin dei conti, per quanto fossero mani volgari, erano pur sempre femminili e innocenti: due cose ch'egli amava e rispettava. Nannina, particolarmente, lo guardò con simpatia; mentre la sorella minore, tra perplessa e felice, si pigliava la Giulia, rigirandosela da tutte le parti e lanciando attorno occhiate di cupidigia gelosa. - È una bambola? - domandò dopo un pezzo Lucietta; quasi che fino allora fosse stata incerta riguardo al piccolo essere da lei tenuto in braccio. - O non Io vedi, sciocca? - le rispose Nannina. - Non vedi che somiglia a quella della figliuola del marchese? Era vero. C'era stato, due anni innanzi, un marchese a villeggiare in una palazzetta accosto a' campi, dove que' contadini stavano in affitto; e il marchese aveva una fanciulletta che portava sempre in braccio una bambola, simile alla Giulia. La Giulia, allora, si figurò quella pupattola accarezzata e ben vestita, e sognò ancora. Ma non pensate che i suoi fossero sogni d'invidia. Ormai ella conosceva il bene e il male della vita: il male assai più del bene, perchè è più facile di trovar quello che questo; sì che fatta esperta dalle sue stesse sofferenze, ringraziò Dio di essere in buone mani. Lucietta, in cui ella riconobbe subito una certa padronanza, doveva essere una bimba modesta e buona. Si vedeva che Nannina era più saggia; ma gli era certo, anche, che tutte e due le sorelle erano affezionate l'una all'altra; e questo era una doppia garanzia per il benessere de' due poveri pupazzi, caduti tra nuova gente. Giunti che furono tutti a casa, Nannina depose Orlando in un angolo della rustica stanza da letto dove dormiva tutta la famiglia; ed egli parve rimaner lì impalato, aspettando. Quante volte, così messo da parte, non aveva invocate l'ore della lotta e della gloria nel triste silenzio d'un retroscena lurido e impolverato? Ma no; adesso le sue ambizioni, singolarmente modificate, gli presentavano sotto tutt'altro aspetto l'esistenza, sia essa degli uomini come degli eroi più leggendari. I giorni, anche senza somigliarsi tra loro, hanno da essere quanto più semplici gli è possibile. Si deve abbandonare ogni idealità pretensiosa, e sopratutto la fissazione di fare una parte principale nella vita. Ciascuno, si sa, è necessario: altrimenti Dio non lo avrebbe posto al mondo; ma egli è un sassolino, niente altro che un umile sassolino, nell'immenso, meraviglioso edifizio che si va costruendo da secoli e secoli con pietre tutte eguali, benchè qualcuna sembri grande e qualche altra piccina. A poco a poco, nel cervello di cartone del burattino le memorie del suo tumultuoso passato si confondevano come un sogno di cui le immagini si cancellano insensibilmente; e tutti i trionfali successi ottenuti su le scene di tanti paesi diversi, paesi non veduti da lui nè da' suoi compagni, viaggianti entro un bussolotto, erano ormai echi cosi deboli ch'egli non li udiva più nemmanco come un lontano mormorio. Bisogna dire che il vivere insieme alla Giulia, stanca, disgustata lei pure di fittizi piaceri e vuote soddisfazioni di vanità, avea contribuito non poco, fino da quando stavano nella soffitta del rigattiere, a correggere le tendenze vagabonde e battagliere d'Orlando; ora, poi, il soggiorno dei campi faceva il resto. - Vedi un po' come si sta benino, tra questa buona gente! - osservava la Giulia, con la sua vocina misteriosa, che solo Orlando, di quanti le stavano intorno, udiva. Una ottava piena di serenità e di quiete intima le rispondeva:

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molto spazio; ma la Marietta, indovinando che lì dentro doveva esserci una gran bella cosa per lei, aveva voluto mettersela su le ginocchia, e badava a guardarla e a sorridere al suo babbo. In un momento furono a casa. Costì la fanciulletta non ebbe pace fino che non fu aperta la scatola; e quando, svolta dal suo lenzuolo di carta velina, venne fuori la magnifica bambola, la piccina mandò un grido di maraviglia e di gioia, facendosi in viso rossa come una ciliegia. Rideva, batteva le mani, sembrava ammattita. - O non ringrazi il tuo babbo? - le domandò la madre. Allora, ella ebbe uno slancio di grande tenerezza, e si buttò fra le braccia del babbo, che se la strinse forte sul cuore. - Babbo, quanto costa? - chiese la bambina, che, vedendo la ricchezza del dono, voleva sfogar un po' la sua vanità dicendo alle amiche il gran valore della sua bambola. - Costa la promessa che tu sia buona - rispose semplicemente il babbo; e soggiunse, rivolto alla moglie: - È stata buona, dimmi, nel tempo ch'io ero lontano? La signora de' Rivani si strinse nelle spalle e, per non amareggiar il ritorno dello sposo, si contentò di dire: - Non c'è stato male, ma è troppo capricciosetta. Dà dei dispiaceri a chi le vuol bene. - Ah, birichina! Ti ripiglio la bambola, sai! - fece il babbo. La Marietta gli diede subito qualche altro bacio; e siccome egli le parlò anche del baule col corredo, non ci fu verso di farla pazientare un momento: volle aprire il còfano, tirar fuori ogni cosa capo per capo, veder tutto. C'era, come si è detto, l'abito di velluto color marrone ricamato d'oro; l'abito da corse, di seta scozzese; la veste da camera di crespo della China color limone; poi un'altra veste di raso viola guarnita di pizzi crema; un'altra tutta bianca, che pareva un bioccolo di neve; e ancóra de' vestiti di vari colori e di forme diverse, uno più elegante dell'altro. La biancheria pareva appartenere a una figliuola di re, fina com'era e circondata di merletto prezioso. A ogni oggettino ch'ella prendeva in mano, la Marietta aveva nuove esclamazioni, nuovi sorrisi di compiacenza. A poco a poco distese tutto sur un sofà e su le poltrone del salotto: e parve allora che in quella stanza fosse esposto un minuscolo corredino da sposa. - Voglio mettere nome Giulia alla mia bambola - disse la bambina. - Ti piace, mamma, questo nome? La signora de' Rivani rispose di sì; e la Marietta cominciò subito a chiamar la pupattola: - Giulia! Giulia! - come avrebbe chiamata una sorellina. Quando fu l'ora d'andare a letto, volle che la sua cara Giulia fosse coricata insieme a lei e posasse la testolina bionda sul suo guanciale. Perciò la spogliò con ogni cura; e scelta tra la biancheria una camicina da notte, accollata e con le maniche lunghe, gliela infilò addosso; le intrecciò i bei capelli, che chiuse in una reticella di seta rossa, e poi la mise sotto le lenzuola, dove andò subito a raggiungerla. Il signor de' Rivani, che gongolava a vedere la sua creatura così felice, venne ancòra a baciarla e a benedirla. - Non ti ho detto - le mormorò all'orecchio - che la tua bambola ha un'altra virtù: parla. - Parla? - esclamò la bambina con maraviglia. - Sì, ascolta. E, sotto le coltri, tirò lo spago che faceva dire alla pupattola: Mamma! La Marietta mise un grido, e rizzatasi a seder sul letto, si chinó tutta su la sua nuova amica. - T'amo! - soggiunse questa nella sua lingua meccanica e nasale, quando il signor de' Rivani ebbe tirato l'altro spago. La bambina non sapeva spiegarsi come succedesse quel miracolo; ma il cuore le batteva molto forte mentre, con la mano tremante dalla commozione, tirava anche lei Io spago che dava la favella alla Giulia. Quella notte sognò tante cose bizzarre; tra le altre, che parlava meglio d'un avvocato anche Fido, il cane da caccia del suo babbo, e che tutti e tre, lei, la Giulia e Fido, stavano a pranzo insieme, ridendo e chiacchierando come tre amiconi.

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Alzate prima del sole, dopo essersi bene sciacquato il viso su l'aia, accosto al pozzo d'onde tiravan su l'acqua fresca e limpida, esse accudivano a tutte le faccende di casa: spazzavano e spolveravano la camera da letto dei loro genitori, lo stanzino mezzo buio dove dormiva il fratello, che si può dire vivesse nel campo, tranne poche ore della notte, e rassettavano la cucina. In questa più che in ogni altra stanza, era per loro il da fare. La madre esigeva che le stoviglie e i pentoli, non ostante la rozzezza originaria e le sbocconcellature del lungo uso, fossero lucenti come specchi per la nettezza; ella non voleva cenere e avanzi di legna sparsi qua e là sul piano dell'ampio camino; nè foglie di cavolo, nè bucce di patate o baccelli per terra. L'impiantito, assai rustico e ineguale, è vero, era però tanto pulito da far sì che la Giulia, sorretta per un braccio dalla Lucietta, vi passeggiasse volentieri, scalza, ormai lei pure come le fanciulle di casa, senza mandar neanche un pensiero a' morbidi tappeti di spesso velluto del suo antico palazzo di Roma. Non era passato neanche un mese da quando ella e Orlando eran capitati là su, che tutti e due già s'erano abituati a quella esistenza tutta quiete, quasi fossero costì nati anche loro. Pianino, con ogni riguardo, Nannina aveva tolto tutta la polvere appiccicata come un lurido strato su l'armatura del famoso paladino e anche qualche piccolo ragnatelo penzoloni sotto la visiera; e fatta un po' di pasta con una manciatella di farina sciolta nell'acqua, aveva riattaccato la carta argentata di certe sbucciature ch'erano altrettanti sfregi alla corazza di quel valoroso. Orlando si sentiva un altro. Era grato alla buona bimba delle sue attenzioni, e non gli sarebbe parso vero di dichiararle la sua tenerezza in qualche enfatica ottava. Ma la contadinella non l'avrebbe capito; ci vuole il burattinaio per interpretar, bene o male, il sentimento dei fantocci verso gli uomini; e il burattinaio non c'era. Meglio così; e quando il passato è lontano, non giova ripensarci. Orlando se ne stava, dunque, pacificamente in piedi, accosto al camino, dove Nannina lo metteva nel mentre ch'ella sfaccendava insieme alla sorellina: per guardarlo ogni tanto, sorridente, ma non con troppa dimestichezza, a causa dell'arnese da guerra che lo copriva. Dall'altra parte sedeva la Giulia, proprio su la pietra del camino, basso, come tutti i camini delle case coloniche; e anche lei, poverina, era stata finalmente rimpulizzita. Come descrivere il senso di benessere che l'aveva lietificata tutta al contatto dell'acqua fresca passatale su quel povero viso solcato di fregacci quando la Lucietta, inzuppato nel secchio un lembo del suo grembiulino glie lo aveva passato come una carezza refrigerante su le guance, su la fronte, sul collo? Che sensazione di piacere dà la pulizia a chi c'è avvezzo! Sembra di risanare, perfino di ringiovanire. Un po' per giorno, anche i bei capelli biondi, così folti un tempo da conservarsi ancora in bastante quantità, furono pazientemente lisciati, a tre o quattro, non di più, per volta: come si suol fare con le ciocche d'una convalescente dal capo indolito; e se, non ostante tutto il riguardo che la fanciulla metteva a far questa lunga, materna operazione, il pettine portava via qualcuno di que' fili d'oro, la Lucietta provava una stretta al cuore, e sospendeva la faccenda, mentre un'onda di sangue le copriva improvvisamente la faccia. Anco una volta la bambola sentiva la benefica influenza dell'affetto. Certo, il sentimento della piccola contadina non corrispondeva a quello profondo e malinconico di Camilla, malata, circondata di dolore, e con la Giulia a solo conforto. La Lucietta, per sua fortuna, possedeva tutta una famiglia amorevole e schietta, che non avrebbe saputo far carezze, perchè nella sua semplicità e con le sue grevi, materiali cure quotidiane, non avea nè voglia nè tempo di perdersi con le moine; ma voleva bene anche alla sua pupattola, e avea piacere di tenerla ammodo, quasi come un piccolo essere superiore.

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- gridò Lucietta, battendo le mani e saltando dalla gioia, perchè quell'idea le era proprio andata a genio. Nannina osservava, spalancando gli occhi ingenui: - Ma come si fa?... La sorellina, che avea paura di veder subito svanire in nulla il bel progetto, la interruppe, dandole su la voce: Come si fa, si fa bene. È vero, mamma, è vero? La madre accennava di sì, col capo. - E io vi porto i suoni - promise il fratello, che era un giovanotto fatto, e che si divertiva a scherzar con quelle bimbe come se fossero state due figliuolette sue. Io vengo con la chitarra e invito Luigi, il gobbo, col mandolino. - E noi si balla, allora! - esclamò Nannina, cominciando a pigliar gusto all'idea della festicciuola. - Si balla! Si balla! - strillava Lucietta, che già ballava da sola come un'orsacchiotta in allegria. - Sì, chiamiamo i ragazzi del Brugia, quelli di Rosa, Antonia, le Bongianni...- E nominò una filza di parenti, d'amici, di vicini. Il babbo fumava quietamente la corta pipa di creta, ormai molto più nera della barba. Non rideva con la bocca, ma gli ridevano gli occhi, vispi e bonari. - Quanto a me - dichiarò egli - regalo a tutti un bel carrattello di vin Santo; vi garba? Figurarsi se la proposta fu approvata, e con rumorosa gioia. D'improvviso la Lucietta corse a prendere in braccio la pupattola. - E tu, che ne dici? - le chiese, senza affatto indovinare che la Giulia aveva capito tutto. - È contenta, è contenta! - disse la massaia. Sì, che la Giulia era contenta. Per dire il vero, l'idea del matrimonio non le era mai passata per la testolina vuota: neppure nel ricco negozio di Milano, dove erano fantocci Dio sa quanto più belli del povero paladino da teatrucolo. Là, anzi, disprezzava tutti. Non esisteva un principe degno della sua manina inguantata di bianco. Poi avea pensato a brillare, come una vanitosella spensierata; e quindi aveva sofferto, e aveva amata Camilla. Ma, certo, (se lo confessava senza che per questo un velo di rossore salisse a coprirle il visetto) da quando Orlando, in quella orribile soffitta senz'aria, si era messo a tenerle così buona compagnia, cercando, ora con una frase gentile, ora con un verso strampalato di distrarla e ricrearla, qualcosa di nuovo le era nato in cuore. L'amore forse? No, non doveva esser l'amore, perchè in fondo ella era contenta che si fosse rotto per sempre lo spago che un tempo la faceva ripetere T'amo. Al tempo in cui si sentiva giovane, bella, adorata da Camilla, la magica parola le pareva fatta per lei. Ora no. Non si può dire T'amo con lo stesso sentimento due volte nella vita; e quando quella corda... o quello spago si spezza, meglio è tacere. Diceva, però - oh questo sì - nella sua lingua di bambola, al bravo Orlando, ch'ella gli voleva del bene perch'egli era buono, di sensi generosi, piacevole di carattere; e che sempre glie lo avrebbe voluto, persuasa com'era che il capriccio è uno de' più brutti difetti che esistano. Orlando, poi, gongolava. Tutte le tenerezze che si possono trovar da dire in versi e in prosa, egli le schiccherava alla Giulia, non importandogli più affatto che il pubblico plaudente e urlante, come una volta, udisse le sue dichiarazioni, anzi, delicatamente soddisfatto che soltanto al piccolo orecchio di rosea porcellana dell'amata sua venissero le sue parole. Proprio com'era stata progettata, la festicciola campestre ebbe luogo. In una bella sera di luna piena, al tempo della mietitura, una trentina di giovani contadini e di fanciulletti s'erano riuniti su l'aia e ballavano allegramente, mentre la chitarra e il mandolino non rifinivano di sonare polke, mazurke e canzonette napoletane, senza preoccupazione di parecchie note sbagliate nell'accompagnamento. Che importa? C'era l'intenzione di disimpegnarsi alla meglio, e sopra tutto di divertirsi e far divertire gli altri. Quello non era un concerto d'etichetta; si faceva per far due salti all'aria aperta e due risate di cuore, con la scusa delle nozze. Ogni tanto, qualche ballerino correva dentro la cucina, e giù si versava un bicchierone colmo di vino tracannandolo d'un fiato, tanto aveva la gola arsa, a forza di vociare. In mezzo a una specie di galop finale, la Lucietta corse a pigliare Orlando e la Giulia, e premendoli a faccia a faccia l'uno all'altra fece un giro sfrenato per tutta l'aia. Scoppiò un applauso formidabile in tutta la rustica società, e in quel punto la massaia uscì di casa con in mano un grosso cartoccio a imbuto; e fattasi a spintoni in mezzo a tutti cominciò a buttar in aria manciate di confetti colorati. Gli urli e gli applausi raddoppiarono; e fu un pigia pigia per raccogliere i confetti, che ruzzolavano sotto i piedi. - Evviva gli sposi! - gridò con quanto fiato aveva nel corpo contorto il gobbetto dal mandolino. - Evviva!! - risposero tutti in coro, ridendo e mangiando i dolci nuziali. - Buona gente! - disse la Giulia al suo sposo, commossa da quell'allegria così schietta e alla buona. - Meglio, certo, di quant'altra ne abbiamo conosciuta tu ed io - le rispose l'antico attore. La Giulia riprese: - E pensare che c'è chi s'arrabbatta tanto per far figura nella così detta alta società, dov'è tanta finzione, tanto egoismo, tanto interesse! - Io, davvero, ti giuro che a quest'aria pura, co questa pace, e in mezzo a povera gente così buona e sincera, non rimpiango nulla nè nessuno - dichiarò Orlando. - E poi ho te! Che cosa potrei desiderare di più? La Giulia lo ringraziò con un tenero luccichio degli azzurri occhi di vetro, ma nell'interno, tra la segatura, passò un sospiro della sua fedele anima di bambola. Era un sospiro per Camilla... Ahimè, perchè non era ella lì con loro quella cara? Ahimè, perchè non tornano a noi i morti che si chiamano, i morti che ancora s'amano?...

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Al mattino seguente, la Marietta non ebbe bisogno, come al solito, d'essere svegliata; era appena giorno quando lei stessa chiamò la governante, pregandola d'aprirle subito la finestra per poter vedere lì accanto la sua bambola; e prima di vestirsi per sè volle vestir la Giulia con l'elegante accappattoio di crespo della China color limone; poi le tolse di capo la reticella, le disfece le trecce, ma per quanto si provasse e riprovasse, non seppe ripettinarla; e già cominciava a disperarsi, stizzendosi e strappando anche qualcuno di que' bei capelli biondi come il grano, quando la governante le venne in aiuto. Presa la Giulia su le ginocchia, la pettinò tale e quale una signorina grande. Tornata subito di buon umore, la fanciulla s'alzò anche lei. Aveva un gran d'affare quel giorno: rimettere a posto, dentro il bauletto, tutto il corredo della bambola, poi vestir questa daccapo per far visite; giacché la mamma avea promesso di condurre la Marietta a trovar delle famiglie di parenti cui augurare un buon Natale; e la Marietta voleva seco anche la pupattola. All'ora della colazione, la bambina si pose la Giulia accosto, sur una seggiola dove aveva messo due cuscini, uno sopra l'altro; e a mano a mano che le vivande venivano in tavola, le offriva molti bocconcini ghiotti sur un piattello dorato: tutte cose che l'altra gradiva molto ma delle quali, certo, non poteva profittare, perchè la sua natura non ne aveva bisogno; sì che a poco a poco gli ottimi bocconcini erano mangiati dalla stessa Marietta, che si divertiva chi sa quanto a quel gioco. Quando venne l'ora delle visite, si trovarono pronte tutte e due, bambina e pupattola: la prima, ben calda nel suo bel mantellino di velluto bianco, uno dei tanti regali che le avea portato il babbo da Milano; la seconda, col famoso abito di velluto marrone ricamato d'oro. Avevano un cappello di forma quasi simile, in proporzione, s'intende, alla grandezza delle loro teste; e quasi simile era il manicotto, di cigno. C'è da figurarsi l'entusiasmo che destò la Giulia nelle cuginette e le amiche della Marietta; non si stancavano di guardarla da tutte le parti, d'ammirare ogni cosa che portava addosso; e volevano toccar tutto; ma la padroncina non permetteva troppe confidenze. - Si sciupa! - badava a gridare, scostandosi, tanto che la Leopoldina, una bimba delle più invidiose, fece una scenata di singhiozzi per averla un momento in braccio; e quando la buona signora de' Rivani la tolse alla propria figliuola per affidarla alla fanciulla, essa la gettò dispettosamente per terra e scappò via in un'altra stanza. La povera Giulia sentì una forte scossa in tutta la sua personcina; non precisamente un dolore acuto come quello d'una bimba di carne che cade, ma una sofferenza impossibile a spiegare. Fortuna che il suo cappellone di velluto le aveva riparata la testa! Altrimenti, con quel colpo violento, se la sarebbe spezzata! Molto diversa dall'ammirazione pericolosa di Leopoldina, fu quella d'un'altra cugina: Camilla. Figlia d'una sorella della signora de' Rivani che aveva fatto un matrimonio assai disgraziato, quella bambina era cresciuta nella solitudine, con poche cure, quasi senza affetto. Parlava di rado, avvezza com'era a essere lasciata giornate intere chiusa in una stanza a farvi le sue lezioncine; ma aveva un gran buon cuore e i sentimenti più gentili che una bambina possa avere. Quando vide la bellissima pupattola della Marietta, Camilla rimase muta, ma arrossì, tanto era commossa, fino alla radice dei capelli e sorrise dolcemente. - Ti piace? È carina, è vero? - le domandò la cugina fortunata. L'altra accennava di sì, di sì, col capo. Altro che le piaceva! Le piaceva tanto da lasciarle quasi gli occhi addosso. La Marietta, che di Camilla si fidava perchè la sapeva buona e assennata, le disse, porgendole la bambola: - Guardala, guardala pure... prendila in braccio - e intanto che Camilla, tutta contenta, la pigliava con delicatezza, per paura di sgualcire quel vestito così signorile, la Marietta si mise a raccontarle per filo e per segno quanta magnifica roba aveva la sua bambola. Non finiva più d'enumerarne le ricchezze. Ma Camilla non le prestava una grande attenzione. S'era messa a guardar fisso gli occhi celesti della Giulia, quasi avesse, chi sa come, indovinato che la pupattola aveva un'anima dentro di sè, molto dentro, chi sa dove, e glie l'avesse voluta cercare a traverso quel vetro lucente, iridato. - Costa cinquecento lire, sai! - fece la Marietta inarcando le sopracciglia, perchè sapeva di dire una somma grossa. Camilla ripetè macchinalmente: - Cinquecento lire! - ignorando quante erano in realtà; ma persuasa che dovevano essere tante e poi tante da far sì che lei non avrebbe mai avuta una bambola simile. Sospirò leggermente e rese la troppo bella Giulia alla sua proprietaria. La sera di quel medesimo giorno, le piccole parenti e le numerose amiche della Marietta, tranne Camilla, che i genitori non conducevano mai in nessun luogo, erano tutte riunite in casa de' Rivani, a godervi la festa dell'albero di Natale: il bell'abete carico di lumicini di ogni colore, co' rami intrecciati di fili d'oro e d'argento, da cui pendono i regali per tutti gl'invitati grandi e piccini. Anche in codesta festa la Giulia ebbe i principali onori, un vero trionfo. Le avevano messo un vestito da ballo di seta color di rosa a lungo strascico, guarnito di ciocchette di fiori; al collo, un filo di perle; in testa, una stella di brillanti veri, perch'era una piccola spilla della signora de' Rivani, che la bambina aveva voluta a forza, per uno de' suoi soliti capricci. I fanciulli s'affollavano a udir da vicino il fenomeno della bambola parlante; nè si contentavano fintanto che ciascuno, per conto suo, non s'era fatto dire da quella vocetta di gobbina: T'amo! Allora erano risa, esclamazioni di piacere, gesti, salti, sopratutto una grande meraviglia, quasi incredula, in tutti quegli occhi spalancati e allegri. La Giulia godeva infinitamente. La sua innata vanità, che non era poca, si sentiva lusingare da tutti quei complimenti! Gli era dunque vero ch'era bella! Gli era vero ch'era una principessa! E le tornavano in memoria, chi sa perchè, le occhiate di canzonatura del vecchietto dall'orologio, là su a Milano quando erano insieme nel magazzino de' giocattoli. Ora si ch'ella le poteva disprezzare quelle occhiate, ora ch'era in una delle prime famiglie di Roma! Avrebbe pagato che la potesse vedere a quella festa il vecchietto burlatore! Ma lui, sa Dio dov'era a quell'ora; forse fracassato. Ben gli stava! Una orchestra di bravi sonatori intonò d'improvviso un'aria da ballo: una polka. In quel punto vi fu tra' bambini la più gioconda confusione; chi correva di qua, chi di là, i maschietti cercando le femmine, le femmine i maschietti. Un amico della Marietta disse a questa: - Io voglio ballare con la tua bambola. - Con la mia bambola? E perchè non balli con me? - Perchè lei è più bella di tutte voi altre! Una risata generale accolse la curiosa risposta, che nessuno s'aspettava; e la prima coppia che diede principio alle danze fu quella di codesto bambino impertinentemente spiritoso e della Giulia, che teneva le braccia aperte come nel desiderio di stringere l'ardito piccolo cavaliere che l'aveva scelta, preferendola a tante graziose creature di carne. - Sarà un poeta quando cresce - aveva sentenziato su quel ragazzo una giovane signora - perchè è troppo originale! Un poeta! Dunque, la Giulia ballava con un poeta in erba, e non poco se ne insuperbiva. Quando furono le dieci, s'aperse per i piccini la sala della cena, e accaldati, sudati, essi vi si precipitarono dentro, con molta sete e non poco appetito. La Giulia fu posta a sedere tra il suo ballerino e la Marietta, che si buttò sui dolci più che sul resto, non ostante le giuste osservazioni della sua governante, la quale stava in piedi dietro la sedia. Alla fine, vedendo che non c'era verso di farla ubbidire, la governante corse a chiamare la signora de' Rivani. Senza dire una sola parola, la mamma, conoscendo il debole della bimba, prese la bambola e se la portò via: era l'unico mezzo per far cedere la Marietta. Questa seguì sua madre; pregò, scongiurò, e, per l'intercessione del babbo, sempre indulgente, riebbe la sua pupattola. - Tu vuoi, cattiva, che questa bella festa finisca male! - sgridò la signora. Già la Marietta piangeva a cald'occhi. - Non la far piangere così! - disse con bontà il signor Giovanni alla moglie. - Purchè non tocchi più un dolce! - fece la madre. La Marietta promise, e mantenne. Ma il male era già fatto. Nella nottata, la bambina sofferse d'agitazione; poi di male allo stomaco; finalmente, le si sviluppò la febbre. Tutti di casa erano sossopra: il babbo, la mamma, le persone di servizio; chi le scaldava dei pannilani su Io stomaco; chi le preparava una tazza di camomilla. E lei si lagnava, sbattendosi qua e là per il letto, piagnucolando, chiamando tutti, senza lasciare un momento di pace. La Giulia, ch'era buttata da una parte del letto,

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Non lo voleva ingoiare a nessun costo. Il babbo, la mamma, il dottore, le erano tutti al capezzale per persuaderla. - Via, tesoro mio, sii buonina; se ubbidisci, guarirai! - le diceva la madre, facendole cento carezze su la testolina indolorita. - Dimmi che cosa vuoi, e il tuo babbo te la porta! - le susurrava il padre dal canto suo. Il dottore faceva meno complimenti, si sa: - Bisogna che prenda la medicina, non c'è rimedio! - esclamava in tono risoluto. Invece, la piccina respingeva la tazzetta, tenendo ostinatamente il capo sotto le coperte. Alla fine, un'idea le balenò: profittare di quella circostanza per farsi regalare un oggetto che desiderava da un pezzo. Si scoperse la testa, e attirando a sè la bambola, mostrò la spilla di brillanti che le scintillava su' capelli color del grano: poi venne a patti: - Se la mamma mi dà questa spilla, prendo l'olio. - Non è una cosa adattata a te, mia carina - osservò la signora de' Rivani. - Allora non lo piglio! - protestò la Marietta, ricacciando sotto la testa. - Dalle quello che vuole! - fece, come al solito, il signor Giovanni - purchè guarisca. Così la bambina inghiotti, con gran disgusto, la bevanda oleosa. La Giulia, che aveva assistito a tutta la scena senza potervi metter bocca, rifletteva da sè sola su molte cose non belle sul conto della Marietta. Dio mio, com'era stravagante quella creatura! C'era da mettersi in pensiero a aver da fare con lei. Adesso voleva una cosa: subito dopo un'altra. Benedetta bambina! E pure la bambola sentiva di volerle bene nel vederla soffrire, benchè quel male le fosse venuto a causa della gola: un gran brutto peccataccio. Quando la Marietta s'avvide che alla sua pupattola non avevan più tolto il vestito da ballo, s'inquietò: - Come? Poverina! Lasciarla a quel modo per tanto tempo? E volle che la governante la spogliasse con ogni cura, riponendo nel baulino il bell'abito, e rivestendo la Giulia da casa, come una piccola amica che le stesse a tener compagnia. La governante fece tosto quello che la signorina chiedeva. E allora cominciò tra la Marietta e la Giulia un periodo di grande intimità. Costretta a star in letto, la bambina non aveva le consuete distrazioni delle amiche, delle passeggiate in carrozza, degli spettacoli al teatro; sicchè l'unica sua compagna era la bambola, che la distraeva senza stancarla. Appena sveglia, ella stendeva la mano e se la pigliava per non lasciarla quasi più fino al momento d'addormentarsi. La Giulia stava lì con la più affettuosa pazienza. Mi direte che, per qualunque strapazzo ella soffrisse, non poteva di sicuro ribellarsi, non poteva reagire; lo so anch'io; ma ci sono certe ribellioni interne, che nessuno vede, assai più terribili di molti scoppi d'ira, accompagnati da gesti vivaci e da forti parole. No, la Giulia, per quanto tormentata dall'irrequietezza dell'amica di carne, capiva nella sua mite anima di cosa, apparentemente inanimata, certe nervosità strane, perfino certe piccole crudeltà della bimba. Se alla Marietta il male di capo aumentava, era capace di dare una spinta alla pupattola, gettandola giù, verso i piedi del letto, dove restava a faccia avanti, con le braccia aperte, come un uccello morto d'una ferita nella schiena. Se la minestra non le piaceva, o se le rifiutavano una frutta, che il medico aveva proibita, daccapo la medesima storia: spintoni, magari pedate... Poi di nuovo carezze, e bei vestiti addosso. Del resto, la Giulia non era sola a patire del carattere incostante della bambina; questo ella osservava, trovando nel fatto stesso una malinconica consolazione. Perfino Fido, il cane da caccia del signor de' Rivani, era accolto ora bene ora male da lei, a seconda del suo umore. Fido, subito che vedeva schiuso l'uscio della Marietta, si precipitava in camera, e appoggiando le zampe tarchiate sul letto, incominciava a leccare la mano della bimba, che ora gli fregava la grossa testa, quasi quadrata, con grande tenerezza, ora glie la percoteva rabbiosamente con tutto quel po' di forza che aveva. In quest'ultimo caso, la lingua molle e tiepida del buon cane passava lesta dalla mano della Marietta al viso della Giulia, e lo leccava, lo leccava con trasporto: forse perchè odorava della padroncina. - Non la voglio più pettinata così - dichiarò un giorno la Marietta alla governante, disfacendo con un gesto di bizza i ricci che la brava donna aveva proprio allora piegati col ferro. Col suo buon garbo, la governante ricominciò l'acconciatura, studiandosi di farla in modo da contentare la bimba; avvolse i bei capelli biondi in tanti nodi su l'alto del capo, passò tra questi nodi un nastro di raso rosso, e incipriò tutta la testa, leggermente. La Marietta fu molto soddisfatta, allora. - La mia Giulia è bella come la mamma quando va al ballo di Corte! - disse con un sorriso, girando e rigirando da tutte le parti la pupattola, che sorrideva anche lei, in cuor suo, di quelle espansioni della fanciulla; alla quale saltò subito in testa una nuova idea: - Adesso voglio - diss'ella - che la Giulia abbia un mantello di velluto bianco eguale al mio. - La governante interrogò la signora in proposito. Questa rispose: - Glie lo faremo, mia carina, quando tu sarai guarita. Anzi, sarà un motivo per esercitarti un po' nel cucito. Non sei contenta di cucir tu stessa questo mantello? Oh no! I pianti ricominciarono. Alla Marietta piaceva di vedere una bella cosa addosso alla sua bambola, purchè non avesse faticato lei a farla. La Giulia, ch'era stata tutta felice al pensiero d'indossare un così elegante mantello, ebbe una stretta al cuore quando intese che la fanciulla rifiutava di lavorare per amor suo; ma, vanitosella com'era, si consolò poi quando vide la signora de' Rivani e la governante mettersi loro all'opera come due sarte di professione, prendendole tutte le misure, provando e riprovando se il modello le stava bene. Il primo giorno in cui la Marietta uscì di casa a fare una trottata a Villa Borghese, tutte e due, bambina e bambola, indossavano ciascuna un mantello di velluto bianco. Da lontano si sarebbero dette due sorelline sedute accanto, tanto la Giulia era grande, tanto aveva naturale il visetto roseo, belli i capelli. La giornata era mite, benchè il mese di gennaio fosse appena a metà, e il sole inondava dolcemente tutto, dando un verde più vivo a' grandi alberi de' viali e all'erba dei prati, dando bagliori e scintillamenti alle vasche e alle fontane. Tra i rami alti, gli uccellini non disturbati dai cacciatori, cantavano, forse, chi sa? pensando alla primavera; e già delle piccole fioraie, in costume da ciociarette, offrivano a' passeggieri le prime pallide viole della stagione, in mazzi meschini, quasi senza profumo, ma bellini e graditi. La Marietta rise come una pazzerella perchè una di queste piccole fioraie, corsa dietro alla carrozza, dopo aver presentato un mazzo alla signora e un altro a lei, era passata, sempre a corsa, dalla parte della bambola, ch'ella aveva presa per un'altra bambina, aspettando di vedere anche quella stendere la sua manina inguantata per accogliere le viole... Cotesta fu un'avventura che la Marietta raccontò poi a tutti, divertendosi molto dell'equivoco di quella contadinella. Camilla, a cui pure fu riferito il fatto, sorrise con dolcezza, e osservò con uno sguardo d'amore rivolto alla pupattola: - È vero, è quasi come una di noi. Arrivata la carrozza verso il centro della villa, la Marietta espresse il desiderio di scendere a far quattro passi sur un prato che si stendeva ampio, come dorato dal sole, davanti a loro, mentre il legno piano piano le avrebbe seguite lungo il viale. La signora de' Rivani acconsentì, col patto, però, che la passeggiata a piedi fosse davvero corta e che la fanciulla non si lasciasse andare, per nessun motivo, a qualcuno de' suoi capriccetti. La Marietta baciava le mani della mamma, promettendo con mille moine tutto ciò che questa voleva. Camminò, di fatti, tranquilla, con una serietà che in lei era cosa nuova, per sette o otto minuti. A un tratto, però, si mise a gridare: - Jenny Bilson! Jenny Bilson! - additando il viale di fondo - e prese una corsa sfrenata verso quel punto. Jenny Bilson era una cavallerizza americana di circa otto anni, che tutta Roma, allora, andava ad applaudire al Circo Reale, dove una grande compagnia equestre di Nuova York dava i suoi spettacoli serali. La maggiore attrattiva di codesti spettacoli era Jenny Bilson, che faceva far miracoli d'intelligenza a un piccolissimo cavallo tutto bianco come la neve, con lunga la coda e la criniera come d'argento. Bastava ch'ella si presentasse al pubblico, vestita a uso amazzone, co' lunghi capelli sciolti, ondeggianti

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Una scenetta molto graziosa era quella in cui Jenny, in costume di selvaggia, quasi tutto fatto di penne a colori, s'abbandonava, sdraiata, senza tenersi da nessuna parte, sul cavallo a galoppo. Pareva una farfalla portata dal vento sur un bioccolo di neve. Il signor de' Rivani, che non tralasciava occasione di far divertire la sua figliuola, le aveva raccontato, mentre ella era malata, di questa straordinaria piccola cavallerizza forestiera, promettendole che l'avrebbe condotta a vederla, quando ella fosse guarita; e le aveva anche portato parecchi ritratti di Jenny, fotografata su quel gioiello di cavallino. La Marietta non istava alle mosse per la smania d'andare al Circo; anzi, aveva macchinato in testa sua, esaltata dalle descrizioni dell'intelligente bestiola, di persuadere suo padre a comprar anche a lei un cavallino ch'ella potesse, col tempo, ammaestrare come quello dell'americana. Figurarsi, dunque, se seppe resistere e starsene quieta quando vide spuntare il celebre cavallino bianco con sopra Jenny Bilson, ch'ella subito riconobbe. La mamma ebbe un bel chiamarla: non dava retta, e seguitava a correre, come ammattita. Nella sua corsa si trascinava dietro la bambola per un braccio, senza più badarci, quasi avesse portato uno straccio; e la povera Giulia, nell'andare così balzellon balzelloni, si sentiva tutta rintronare internamente; urtava, pativa; avrebbe voluto fermarsi, protestare; e non poteva, per sua disgrazia, far nulla, nè spiegare in nessun modo le sue sofferenze. Ah, che sorte crudele era, in fondo, la sua, non ostante che a tutti ella sembrasse così fortunata! A un certo momento, un pruno che si trovava sul prato s'attaccò alle sue gonnelline di sotto, impigliandosi, chi sa come, a uno degli spaghi che la facevano parlare. La Marietta tirò, non avvedendosi di nulla. - Mam...! - fece la vocetta nasale della Giulia, senza terminare la parola, che rimase a mezzo in un piccolo schianto, leggero, quasi un singhiozzo represso. In quel grido pietoso, di cui la Marietta non avea capito lo strazio, s'era spezzata una molla: la bambola non poteva ormai pronunziare il più dolce dei nomi: Mamma! e qualche cosa anche nell'anima di lei s'era franto, forse, senza rimedio. Il servitore, mandato dietro dalla madre, raggiunse la Marietta, e se la riportò in braccio fino alla carrozza: dove la signora de' Rivani le si mostrò molto corrucciata e scontenta, ordinando al cocchiere di tornar subito a casa. La bambina aveva abbassato la testa, con tanto di broncio. Voleva vedere Jenny Bilson; voleva un cavallino tutto bianco, simile a quello, voleva! E la Giulia stava lì, buttata di fianco sur un sedile, con gli occhietti mezzo chiusi, come svenuta. - Dov'è la spilla di brillanti? domandò vivamente la signora alla Marietta. Questa prese in braccio la bambola e cercò; cercò anche la madre; ma la spilla non c'era più; s'era perduta là giù nel prato, chi sa dove, in quale urto, in quale spasimo della povera bambola.

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NON fu un cavallino precisamente eguale a quello di Jenny Bilson, il cavallo che potè avere la Marietta, a forza di carezze e moine fatte al suo babbo; quello era arabo, un cavallo particolare, che non tutti, anche pagandolo a peso d'oro, avrebbero trovato. A forza di cercare, viaggiando per i propri affari, il signor de' Rivani scoperse, però, in una fattoria della Sardegna, un cavallino che corrispondeva perfettamente al suo desiderio, e che, appena conosciuto, avrebbe corrisposto anche a quello della sua figliuoletta. Era poco più grande d'un cane di Terra Nuova, col pelo nero, interamente nero, e una stella bianca in fronte. Negli occhi, vivaci, avea l'iride d'un turchino scuro, che rivelava una singolare intelligenza. Nitriva, a sentir parlare, come se avesse voluto rispondere, e raspava nervosamente con le zampe sottili, sbruffando. Il giorno che il Moro - era questo il nome del piccolo cavallo - fu condotto nella scuderia di casa de' Rivani, fu un giorno indimenticabile nella vita della Marietta. Ella non si aspettava un dono così bello e gradito: anche perchè, tanto per la buona condotta quanto per gli studi, non se lo sarebbe meritato: lo capiva ella stessa. Ma il suo babbo era tanto indulgente! Troppo, anzi; ed era criticato molto, poveretto, perchè a quel modo avvezzava la figliuola con tutti i difetti. Dunque, il Moro fu situato in mezzo alle due pariglie di cavalli da tiro: e siccome era tanto piccino, gli dovettero fare una mangiatoia bassa bassa, dove giungesse a mettere il musetto. Gli altri quattro cavalli, alti, in paragone a lui, come monumenti di carne, lo guardavano con bontà, forse, invidiandolo un poco, perchè a lui erano serbate più carezze, e prodigate maggiori premure. Quando la Marietta lo vide, dichiarò ch'esso era anche più bellino di quello della cavallerizza; e cominciò subito a baciarlo, specialmente in fronte, su quella stella bianca, che pareva fatta apposta per indicare dove posar di preferenza le labbra. Poi gli offrì parecchie palle di zucchero su la palma della mano ben tesa. Il Moro accettò ogni cosa, dimostrando d'essere assai ghiotto dello zucchero, ma anche le carezze gli dovevano piacere, perchè nel ricevere tutti quei baci scrollava la testa e agitava la criniera con un certo garbo che significava la sua soddisfazione. Se il signor de' Rivani non avesse detto: - Ora basta: non più zucchero, per oggi! - gli è certo che la Marietta avrebbe fatto ammalare d'indigestione anche il Moro, come s'era ammalata lei, la sera del Natale. - Babbo, quando potrò andare a Villa Borghese a cavallo? - chiese ella a suo padre. - Ci andrai quando sarò sicuro che tu non cada; per adesso, studierai in maneggio. La bambina, con gli occhi raggianti di gioia, batteva le mani; e subito, ecco la sarta in moto per farle il vestitino adattato a cavalcare: di panno turchino cupo, con la gonnella lunga. In testa, la sua mamma, piena di buon gusto, volle ch'ella portasse un largo cappello di feltro nero, dalla lunga piuma, in vece del brutto cappellaccio da uomo, con cui le bambine che montano a cavallo somigliano a tante scimmiette. Ne' giorni della lezione d'equitazione, ch'erano tre la settimana, la Marietta guardava cento volte l'orologio per veder s'era giunta l'ora felice, l'ora del divertimento. E scendeva ogni poco nella scuderia, scappando dalla mamma, dalla governante, da tutti, per andare a battere dolcemente su' fianchi del Moro, che nitriva, secondo il solito, scrollando il capo e agitando la criniera. La Marietta faceva le lezioni di musica, d'italiano, di francese, di storia e geografia abborracciate; non andava più a spasso volentieri con la mamma; anche il teatro, che prima era per lei un premio per quando era stata buona, non le interessava più affatto. Il Moro, il montare a cavallo era tutto il suo gusto. Quanto alla Giulia, povera bambola, che differenza dai primi tempi del suo arrivo a Roma! Allora, tutto l'affetto della bambina era dedicato a lei; per lei le ore migliori della giornata, quelle della ricreazione e dello svago, che son le più ricordevoli di tutta la vita, lunga e noiosa; per lei i trionfi in mezzo a una società di bambine che la desideravano; per lei tutte le glorie, tutte le consolazioni. Adesso, in vece, restava le giornate intere sur una sedia, buttata là, senza riguardo. Il sole, ch'entrava pallido pallido, a fare il suo giro obliquo - il giro invernale - per la stanza, si fermava un momento, passando sul corpo della pupattola, coricato come l'avevan lasciato lì con mano distratta; animava, d'un tratto, i capelli biondi, i vivi colori del vestito, poi abbandonava nell'ombra quel dolore a cui nessuno badava: un dolore, è vero, senza espressione, ma non per questo meno angoscioso e sincero. Dai discorsi uditi in casa, un po' qua un po' là, la bambola aveva capito molte cose e le andava rimescolando nel suo povero capo vuoto. Oh, se si potesse sapere tutti i pensieri contenuti in una testa che sembra insensibile, si commetterebbero, certo, meno leggerezze e meno crudeltà. Il Moro era il rivale temuto e odiato dalla Giulia. Ella aveva inteso decantare tutte le virtù del cavallino: sapeva di quale colore aveva il manto e quanto era acuta la sua intelligenza; sapeva perfino, oh dolore! di quella piccola stella bianca su la fronte, dove la Marietta lo baciava più spesso e più volentieri. E pensare che a lei non aveva mai dato un bacio, la Marietta! Che cosa erano i baci, in conclusione? Un'espressione dell'amore, se alla bambina i genitori ne davano tanti, da mattina a sera, e se lei, cattiva, ne dava tanti al Moro! La gelosia che rodeva la Giulia non la fece nè dimagrire nè impallidire, s'intende; ella sentiva, però, dentro di sè, qualcosa che le andava consumando il cuore, l'anima, chi sa? e la sensazione era delle più penose. Dov'erano i tempi in cui la Marietta le diceva, pigliandola in braccio: - Vieni, bella mia! Adesso usciamo insieme, sai! Ti porto in legno, e tutti credono che tu sia viva come me!

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A volte, un passo rapido e leggiero attraversava d'improvviso la stanza dove giaceva la Giulia. Era la Marietta; la bambola la riconosceva subito, perchè nessuno, in casa, aveva quel piccolo passo di corsa. Allora, ella provava una grande emozione, illudendosi che la bimba fosse venuta lì a cercarla per portarla con sè, come prima. Ma no; la Marietta passava senza nè anche voltarsi, spesso canticchiando; e quando la porta richiudevasi dietro di lei, la bambola si sentiva dentro una vibrazione che le lasciava una tristezza indicibile. Avesse almeno potuto alzarsi da quella posizione a cui l'avevano condannata, scuotere la sua immobilità, aprire gli occhi e andare, come un'amica dimenticata a torto, incontro alla Marietta! Non l'avrebbe mica rimproverata; ma le avrebbe detto: T'amo! con affezione così vera, che la bimba, pentita della sua condotta, se la sarebbe ripresa, per tornare a far vita insieme, dolcemente, allegramente. In quella solitudine le ore le sembravano giornate, le giornate mesi. Non passa mai il tempo quando uno soffre! Nello spolverare il salotto dov'ella si trovava, le persone di servizio le cambiavano posto ogni tanto; la sbalzavano da una poltrona sur un'altra, da un canapé a una tavola. Un giorno la governante, avvezza com'era alle stravaganze della Marietta, perch'ella l'aveva veduta nascere, s'accostò alla pupattola abbandonata, se la prese in braccio e la ripose in un armadio, dicendo a voce alta, con un sorriso malinconico: - Tanto, prima che ti ricerchino ci sarà un pezzo! Se un lungo spillo avesse trapassato il petto della Giulia, le avrebbe fatto meno male di quelle parole. Dunque, ella non era più un oggetto di desiderio! Era inutile, finita. La Marietta, fanatica del Moro, non pensava che alle sue passeggiate a cavallo. Già era stata tre volte fino a Bellavista, una tenuta de' Rivani, fuori di porta San Sebastiano; e raccontava, rossa dal piacere, come l'ammirassero quando passava sul suo puledro cosi piccolo, con dietro il servitore montato sur un cavallo grande. Gli occhi della gente erano tutti per lei. Le faceva fare una cosi bella figura, il Moro! La povera Giulia ripensava tutto ciò nel buio dell'armadio, più nero d'una prigione, e ripensava anche ai giorni di malattia della Marietta, quando ella le avea tenuto una compagnia buona e fedele distraendola e divertendola. Più dell'esser lasciata lì sola, senza che la bimba richiedesse di lei; più ancora dell'averle tolto la luce e l'aria, l'addolorava l'ingratitudine della sua piccola amica. Questo strazio poteva perdonarglielo, ma dimenticarlo giammai! Un dopo pranzo, intese aprire l'armadio in fretta. Erano le donne, venute a prendervi della tela per fasciare una gamba alla Marietta, che il cavallino aveva buttata a terra. Se la bambola fosse stata d' animo cattivo avrebbe detto: - Ben le sta, perchè ha lasciata me per il Moro! - invece ella sofferse del brutto accidente, sperando, in cuor suo, che mentre la bambina stava in letto, avrebbe richiamata lei vicino a sè, lei che non le aveva mai fatto il più piccolo male dacchè s'erano conosciute. Ma i giorni passarono; passarono forse dei mesi, che nella vita di una bambola rappresentano tanti anni de' nostri; e nessuno venne a tirarla fuori, a consolare la sua profonda afflizione. L'oscurità, la solitudine; la solitudine, l'oscurità, non altro, in quell'armadio, dov'ella era in mezzo ai vecchi vestitini della Marietta: certi spogli destinati a darsi per elemosina. E si era addormentata d'un sonno grave, senza sogni, un sonno da cosa, non da essere che sente e pensa e gode e soffre. Così avrebbe voluto, magari, finir la sua piccola vita, cominciata troppo bene per poter andar avanti sempre allo stesso modo: perchè a questo mondo non durano di continuo nè il bene nè il male, e bisogna contentarsi, pigliando con coraggio quello che Dio ci manda. Se ne stava, dunque, immobile e triste, le braccia aperte, il corpicino coperto di polvere, quando, una notte, le parve udire un rumor leggiero, insistente, eguale, come quello d'una piccola sega che lavori. Stette in ascolto un pezzo. Non era la chiave che girava nella serratura; la chiave non fa quel rumore. O allora, che cosa poteva essere? I ladri? Ma i ladri, se per disgrazia càpitano in casa, scassinano i mobili, presto e senza dare l'allarme. I topi, dunque? I topi, Dio mio! Uno spavento terribile la invase. Aveva inteso, una volta, la signora de' Rivani dire che i topi le avevano rovinato una dozzina di lenzuoli in tela di Fiandra, de' merletti antichi di grande valore e anche altra roba. Sicchè i topi erano terribili se, affamati come sogliono essere, arrivano a buttarsi su qualcosa. Il rumore della piccola sega durò tutta la notte: tacque il giorno, perchè qualcuno, entrando in guardaroba per cavarne una cosa o un'altra, impauriva il topo, che ricominciava però subito il suo lavoro monotono, non appena il silenzio tornava a regnare in casa. Ah, se la Giulia avesse potuto chiamare, avvertire che c'era il nemico lì accosto, lì dentro; chiedere aiuto, misericordia, pregando che la si levasse da quel luogo dove aveva paura come una povera bimba in pericolo!... Ma no, no, sempre no! Non poteva da sè sola metter fuori la voce, non poteva alzar le mani e bussare, bussar disperatamente come avrebbe voluto, co' piccoli pugni stretti... Bisognava aspettare, come un pezzo di stoffa qualunque, l'ora de' patimenti più atroci, forse chi sa? l'ora della morte, s'egli era destinato ch'ella dovesse morire così, senza più rivedere il sole. Il topo si avanzò nell'ombra, sicuro di non essere disturbato da alcuno nella sua opera di distruzione; corse qua e là per l'armadio, fiutò, tornando indietro, andando avanti... Se le bambole potessero sudar freddo, la povera Giulia avrebbe avuto i bei capelli biondi tutti intrisi alle tempie, tanto era il suo terrore. Si raccomandò al cielo; ma in cielo ci sono i santi che, a volte, proteggono le bestie, perchè le amarono in vita, come sant'Antonio, san Francesco, san Benedetto, san Rocco; nessuno protegge i giocattoli, abbandonati da tutti quando li abbandonano i bambini. Nelle sue corse rapide, il sorcio le si accostò parecchie volte; poi, da bravo, forse perchè glie n'era piaciuto l'odore, si mise a rosicchiarle una scarpina, una delle sue belle scarpine di cuoio bronzato. Dati i primi morsi, staccò un pezzetto della suola sottile di pelle di guanto; e per un poco, finchè non ebbe terminato il boccone, la Giulia non sentì più scosse. Ah, fosse finito lì il suo spavento! Ma che! L'animale, fatto un foro nella scarpa, attaccò la calza di seta, che i suoi denti lunghi e puntuti ragnarono tutta. Allora principiò per l'infelice pupattola il martirio di sentirsi divorar lentamente il povero piccolo piede, senza poterlo ritirare, anzi, dovendolo abbandonare inerte, come cosa morta. Le sembrava che, insieme al piede, la bestia le dilaniasse il cuore, la testa, ogni nervo del corpicino. Perchè, perchè non veniva ora la sua Marietta a strapparla di lì, a salvarla? Nessuno! Nessuno si ricordava piú di lei, rifiutata, buttata via senza pietà, come un impiccio, come un limone spremuto. Dal buco fatto nella pelle fina del roseo pieduccio, una ferita orrenda, la segatura scorreva, e ne' sussulti impressi dal topo nel roderla, si vuotava parte della gambina; che rimase poi lì con la sua pelle floscia, cadente, quando l'animale si fu ben impinzato e volle mutar cibo. Fuori, l'inverno era finito, e la primavera, con le sue magnifiche giornate, già tiepide e odorose di fiori, invitava a lasciar la città per i semplici divertimenti all'aria aperta della bella campagna. Anche per i signori de' Rivani era prossima la partenza; e già si facevano in casa tutti i preparativi. Il Moro era stato il primo a esser nominato dalla Marietta tra le cose da portare con sé. Con lui ella avrebbe fatto chi sa quante galoppate allegre per il bosco, sotto gli alberi, dove anche a mezzogiorno c'è ombra. Si trattava di condurlo perfino ai bagni di Viareggio; per le gite lungo la spiaggia e le colazioni nella pineta, dove tutte le sue amiche e più ancòra le bambine conosciute colà l'avrebbero invidiata. Innanzi di lasciare Roma per tutti i mesi della villeggiatura, la signora de' Rivani soleva fare una distribuzione degli oggetti usati di vestiario alle sue persone di servizio e a' suoi poveri; ma prima che agli altri alla famiglia della propria sorella, signora Amalia Cerchi, mamma di Camilla: una signora che, come abbiamo detto, s'era maritata male ed era poco felice. Alla signora Amalia e a Camilla, dunque, venivano, quasi di diritto, gli oggetti migliori fra quelli scartati; e si dava loro anche roba addirittura nuova perchè non si mortificassero. Quell'anno, poi, c'era un monte di vestiti, di sottane, di mantelletti, una sfilata di cappelli, e scatole di guanti, e cassette di scarpe; più regali del solito, perchè anche il signor Giovanni aveva inzeppato il guardaroba al suo ritorno da Milano. Nella stanza degli armadi, davanti agli sportelli spalancati, stavano la signora de' Rivani con la signora Amalia e le due cuginette: la Marietta e Camilla. Nessuna persona di servizio assisteva a quella scelta, per non offendere la miseria della signora Cerchi. - Questo non lo prendo, sai - diceva la signora Amalia alla sorella, tenendo in mano un abitino di velluto - perchè per Camilla è troppo bello. - No, anzi, prendilo; l'ho messo da parte proprio per lei - insisteva la madre della Marietta.

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Camilla stava là zitta a udir tutto. Era avvezza non soltanto a non chiedere mai nulla, ma neppur quasi a desiderare cosa al mondo; anzi, s'era persuasa, a forza di sentirlo ripetere, ch'ella non meritava niente e che qualunque cosa era troppo per lei. Macchinalmente seguiva con gli occhi la scelta, alla quale la zia avea piacere ch'ella assistesse perchè le voleva assai bene; e quando della roba ch'era stata destinata a lei vedeva impossessarsi sua madre, non se ne doleva, come avrebbe fatto più d'una bambina, ma n'era contenta. - Così, pensava, la mamma litigherà meno col babbo, a causa de' vestiti che le mancano. - Mamma, dài a Camilla il mio mantello di velluto bianco; - disse la Marietta - tanto è macchiato di sciroppo, davanti! - Un mantello di velluto bianco non è adattato a Camilla, e il velluto non si può tingere - osservò la signora Amalia. - Prendilo, qualcosa te ne farai - consigliò la signora de' Rivani. - Ne farò un bel guanciale per il salotto - disse la madre di Camilla; e si prese il mantello. - Oh, la Giulia, guarda la Giulia! - esclamò a un tratto Camilla, additando la bambola. - Ah! E io che me n'ero scordata! O chi l'ha messa qui? - disse la Marietta afferrando la pupattola per le vesti e tirandola a sè. Ma quando l'ebbe in braccio e la guardò si mise a ridere, a ridere come una scapata, levando in aria la gamba mutilata. - È storpia! Non ha più un piede! È diventata zoppa! - e cominciò a strappucchiare con I'unghie i lembi della pelle rosicchiata dal sorcio. - Peccato! Una così graziosa bambola! - fece la signora de' Rivani. - Che costava cinquecento lire - soggiunse con una smorfia la sorella. - Avessi io cinquecento lire da buttar via in gingilli!... - Poverina! - sospirò Camilla, e accostandosi alla cuginetta, carezzò leggermente la bambola sul capo, ravviandole i capelli scomposti, arruffati. La Giulia, che aveva riaperto gli occhi e li teneva sbarrati, non ostante la luce viva alla quale non era più abituata da tanto tempo, fissò lo sguardo negli occhi buoni e affettuosi di Camilla; e di dentro al vetro dovette parlare, implorando pietà, la piccola anima sua; perchè la buona bambina, tutta intenerita, ripetè con accento più commosso che mai: - Poverina! La Marietta avea posata la pupattola sur una sedia. - Non è più buona a nulla, così - diss'ella. - La puoi fare accomodare - suggerì la signora Amalia. Ma la signora de' Rivani, che avea visto la sua figliuola alzare le spalle e sapeva quanti giocattoli di prezzo la bambina aveva sciupati senza più curarsene, si voltò alla Marietta e le chiese: - Vuoi dare quella bambola alla Camilla ? Credo che a lei, per divertircisi non fa niente se anche le manca un piede. - Camilla, rimasta senza fiato per la commozione, guardò la Marietta, che, indifferente, disse, con un sorriso: - Sì, sì, dagliela, io non so che me ne fare! Due piccole braccia tremanti dalla gioia strinsero la pupattola a un petto dove il cuore batteva come se avesse voluto balzar fuori: le braccia di Camilla, nelle quali Ia Giulia si sentì subito al sicuro, come un uccellino nel nido materno. - Le daremo anche il baule col corredo - disse la signora de' Rivani. Ma per quanto il bauletto fosse cercato per tutta la casa, non ci fu modo di ritrovarlo. Chi sa dove era andata a finire la roba della povera Giulia, mentre la Marietta la lasciava cosi abbandonata rovinarsi in fondo a un armadio! - Non importa, non t'incomodare, zia - disse Camilla con gentilezza - io so un po' cucire, e nell'ore che non sono a scuola le farò io un vestitino con qualcosa di mio che non porto più. La Marietta, che rientrava allora in guardaroba, a corsa, dopo aver inutilmente cercato il famoso baulino, osservò che doveva esservi una bella differenza tra gli abiti che la sua pupattola aveva prima e quelli che avrebbe avuti ora: osservazione che sua madre troncò con un: - Taci! - ben meritato. Era vero; la Giulia era entrata in quella casa circondata da un lusso straordinario per una bambola; e ne usciva povera, con soltanto l'abito, ormai sgualcito, che teneva in dosso. Ma c'era entrata accolta dal capriccio, e ne usciva accompagnata dall'amore; e per un essere che ha sentimento, il cambio non era poi cattivo. Il cuore tiene luogo di molta ricchezza; Camilla non avea che il suo povero cuore di bimba diseredata da offrirle; ma la Giulia aveva sofferto abbastanza, trascinata da un mobile all'altro, rinchiusa dentro l'armadio come uno straccio in disuso, perchè non le importasse più nulla, nè di balli, nè di cene, nè di gite in carrozza, nè di case signorili. Capiva che il carattere di quella bambina era serio, che il suo cuore era buono, costante; e un benessere nuovo, un sentimento di sicurezza de' più dolci la riempivano di gioia, di serenità. Povera e felice! non si curava di tutto quanto lasciava dietro a sè di frivolo. Avrebbe fatto vita nuova... pelle nuova - almeno nel piedino straziato. Sicchè disse addio, malinconica ma senza rimpianti, alla elegante casa de' Rivani, dove aveva conosciuto la vita di chi si diverte, non quella di chi è amato davvero. La Marietta la vide andarsene senza farle una carezza, senza darle un addio, senza nè anche prenderla in braccio un'ultima volta: ormai, agli occhi suoi, la Giulia era un balocco guasto e null'altro. Nel cortile, dappiede alle scale, il Moro insellato per la passeggiata a Villa Borghese, aspettava, tenuto per la cavezza, la padroncina, sbuffando e raspando, co' segni della più viva impazienza. Girò la testa quando la signora Amalia e Camilla scesero le scale. La bambola avrebbe voluto stringersi ancòra più alla sua nuova amica; fissò gli occhi sul cavallo capriccioso come la Marietta... e se le lacrime del cuore potessero filtrare attraverso il vetro, due lacrime, forse, avrebbero rigato quel visetto di porcellana rosea, nell'ultimo distacco dalla prima persona amata.

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Giunta che fu a casa, Camilla s'affrettò a chiudersi nella sua cameretta con la Giulia. Era una stanza delle più modeste, mobiliata d'un lettino a tende di cotone bianco, d'una tavola, su cui la bambina faceva le sue lezioni per la scuola, d'un cassettone che aveva perduto il lustro, e di tre sedie. In un angolo si vedeva un lavamano col mesciacqua scompagnato. Su la tavola era un canestro da lavoro con tutto l'occorrente per cucire e un mucchio di quaderni con de' libri scolastici. Ma c'era in questa cameretta tant'ordine e tanta pulizia che la si guardava con piacere; non un atomo di polvere sopra i mobili; il letto piano come un dado: perchè Camilla stessa se lo rifaceva ogni mattina, appena alzata, non tralasciando di spazzare, stropicciare, lavare, un po' per tutto. Poi si lavava e pettinava per sè; e dopo ripassate le lezioni del giorno se ne andava a scuola. - Non importa se non c'è per terra il tappeto - disse la bambina alla pupattola - tanto io ti porto sempre in braccio. I piedini non te li freddi. - E ripetè con accento di dolore: - I piedini!... - mentre deposta la Giulia sul letto, esaminava attentamente la gamba storpia. Pensò un pezzo, un pezzo, toccando con cautela que' lembi pendenti di pelle rosicchiata, che la Marietta avea finito di lacerare. Sembrava una piccola suora della carità in atto di osservar una ferita, tanta era la delicatezza, la premura, l'amore con cui toccava il male. Finalmente le venne un'idea che le parve buona, perchè sorrise da sola: corse da sua madre e le disse con voce umile: - Senti, mamma, fra la roba che ci ha data la zia dev'esserci un paio di guanti color di rosa, chiari, chiari, lunghi... Se non te ne servi, mamma, io con quella pelle accomoderei il piede alla Giulia... - A chi? - fece con voce aspra la signora Amalia, sdraiata sur un canapè a leggere un giornaletto di mode. - Alla Giulia... la bambola... - Cominci fin d'ora a perder tempo co' balocchi, eh? - esclamò la madre, severa. - No, mamma, non perdo tempo; faccio le lezioni, pulisco la casa lo stesso. Soltanto... mi rincresce di quel piedino, e quando ho finito di far tutto, glielo potrei accomodare. La signora s'alzò seccata, e andò a frugare in un grande involto mandatole allora da casa de' Rivani. - Ecco! - diss'ella, buttando alla figliuola un paio di lunghi guanti ravvolti, d'un tenero color carnicino, un po' ombrati in cima alle dita, probabilmente da qualche dolce mangiato a un ballo; e ripetè su lo stesso tono: - Badiamo a perdere il tempo co' balocchi, eh? Camilla si contentò di rispondere: - Non dubitare, mamma, - e scomparve. La signora Amalia Cerchi non era una cattiva donna; ma la rendeva acre ed egoista la vita meschina a cui era condannata dal suo matrimonio, contratto con un uomo di carattere tanto bilioso da esser giunto al punto di farsi cacciare dall'impiego, una volta che avea risposto con arroganza a un superiore. Una gran pace, bisogna dire il vero, non regnava nè anche prima tra i coniugi Cerchi, sempre a causa di quel benedetto carattere del marito: pure tiravano avanti alla meglio. Ma l'inferno s'era scatenato dal giorno che il signor Carlo restò senza un'occupazione al mondo, a girare per casa con le braccia incrociate sul petto, e per le strade con le mani affondate nelle tasche. - Ebbene, l'hai trovato il posto? - gli domandava la signora Amalia quando lo vedeva tornare; e glielo domandava non col garbo d'una sposa affezionata che sì strugge di veder sollevata la famiglia, ma come una nemica che tenta d'attaccar lite. - Lévati di lì, non m'irritare di più! - gridava lui. Allora ella lo tormentava: - Non hai incontrato il fornaio per le scale? È venuto a far chiasso perchè vuol essere pagato; e tu, tu, in vece, il pane te lo giochi a quel modo... - Il fornaio! - ribatteva l'uomo. - Ho incontrata invece la tua sarta, venuta per farti degli altri fronzoli! - Ti costano molto, a te! - Guai se non ti cheti, pettegola!.. - Sudi, eh, per farmeli? Un sospiro non udito da alcuno usciva dal pettuccio esile di Camilla, che se ne stava sola in qualche stanza della casa; e un pallore di cera le si diffondeva sul viso. Queste scene continue tra' suoi genitori la scotevano tutta da capo ai piedi; ma più per dolore che per paura. Qualche volta ch'ella s'era arrischiata a mettere una parola di pace in quei tristi discorsi, era stato peggio: la questione s'era invelenita; l'avevano mandata via, il padre con un urlaccio da una parte, la madre con una spinta dall'altra. Aveva dunque finito a tacere quasi sempre; soltanto, quando si sentiva il cuore troppo gonfio andava ad appoggiar il capo al suo lettino e lì si sfogava a piangere, ma piano, più piano che poteva, premendo la bocca contro le coperte per soffocare i singhiozzi, che quando son tanto sconsolati s'odono anche a distanza. - Dio mio!.. Dio mio!.. - la povera bambina non riusciva a pronunziar che queste due parole. A poco a poco però si calmava, riflettendo che il babbo avrebbe trovato un giorno o l'altro qualcosa da fare, che allora la mamma sarebbe stata contenta; che in casa sarebbero stati tutti bene; e con questa speranza recitava una piccola orazione insegnatale a scuola; poi ricominciava a lavorare. I giorni più tranquilli per lei erano quelli in cui i suoi genitori stavamo fuori molte ore, la madre a far visite, perchè non poteva dimenticarsi d'essere nata signora, non ostante che avesse avuto pochi soldi di dote, e il padre in cerca del famoso collocamento che tutti gli promettevano e mai gli davano. In que' giorni Camilla, senza tema di rimbrotti, faceva meglio che mai le sue faccenduole di casa, poi si metteva a leggere qualche libro regalatole dalla zia, a cucire o a fare la calzetta. Nessuno la disturbava. Stava nella sua stanza come una monachina nella cella. Ma quando alle finestre del vicinato vedeva affacciarsi, tutte scalmanate, altre bambine di famiglie povere come la sua, ma buone e rassegnate al proprio stato, altre bambine che giocavano co' fratellini o col gatto o con un cane, il cuore le si stringeva in uno spasimo che non avrebbe saputo spiegare, avvezza com'era a rinserrarsi dentro tutti i sentimenti. La sua solitudine allora le doventava penosa al punto che non si poteva più vedere in quella camera deserta, e per illudersi d'essere in compagnia di qualcuno, s'affacciava anche lei alla finestra, seguendo con gli occhi i fanciulli de' vicini, a' quali la mamma le proibiva di parlare perchè - diceva lei - non erano suoi pari. Le rondini che, volando, passavano accosto al cornicione co' piccoli gridi acuti, tutti allegria; i piccioni che roteavano, apparendo e sparendo a stuoli su quel pezzo di cielo che si vedeva dal cortile, la facevano restar lì come inchiodata, col petto pigiato al davanzale a guardare, guardare, fin che non era quasi notte. Allora accendeva il lume, un lume piccolo, comprato per lei, apposta perchè consumasse poco petrolio: e si rimetteva a leggere o a lavorare. Del buio non avea paura, perchè Liberata, una buona vecchietta abruzzese ch'era a servizio in casa ai tempi migliori, le soleva dire che vicino ai bambini sta l'angiolo, massime di notte. Camilla, è vero, non avea mai veduto quest'angiolo; ma quando l'ombra di qualche mobile, proiettata dal lume fioco per terra o su le pareti, le sembrava troppo grande e nera e d'una forma strana, lei scacciava ogni brutta idea perchè sentiva che l'angiolo c'era, anche se non si faceva vedere. Figurarsi, dunque, come l'arrivo della Giulia le fu grato! Per la creatura solitaria, quella non era la distrazione di un giocattolo, ma il conforto d'una compagnia; avendo seco la Giulia, la vita era tutt'altra. Quando la madre e il padre la mandavano via, in uno de' soliti impeti di malumore, ella, in vece di affondare il viso fra le coperte e piangere disperata, andava a prendere la sua bambola e si metteva a parlarle sottovoce, vicino all'orecchio, cercando di non pensare alle triste scenate che succedevano di là. La notte, se la portava a dormire con sè; il giorno, nelle ore in cui stava a scuola o trafficava per casa, la teneva in un cassetto, dove le avea fatto come un lettino: una materassa morbida, imbottita a furia di stracci, e perfino un guanciale. Costì, la Giulia riposava, sicura di destarsi con mille carezze. Ah, la prima volta che Camilla l'avea baciata, quale impressione era mai stata per lei, che non conosceva la dolcezza d'un bacio! Quando sentì le labbra fresche della bambina a contatto del suo viso, un brivido di gioia l'agitò tutta internamente; e se non si fece pallida dal gran piacere fu proprio perch'era di porcellana. Codesto giorno indimenticabile fu appunto quello in cui, dopo essersi stillato Dio sa quanto il cervello, Camilla era giunta finalmente a fare, co' vecchi guanti della zia e un po' d'ovatta, un piedino da sostituire a quello mangiato dal topo. Non era, c'è da figurarselo, un capolavoro d'arte, quel piedino, di forma piuttosto chinese che greca; ma, intanto, la bambola vi si reggeva sopra abbastanza bene, senza zoppicare; e coperto, come doveva stare, dalla calzetta, nè pure si vedeva che fosse d'una pelle più chiara di tutto il resto del corpo. Terminato che l'ebbe d'attaccare, la fanciulla rizzò su la tavola la Giulia, che pareva un'altra volta sana. Fu proprio in quel punto, che, tutta commossa e felice per quel che le era riuscito di fare, l'aveva baciata in faccia, come una sorella che si vede uscire salva da un grande malore. La Giulia, un po' barcollante fra le mani di Camilla, avrebbe voluto rispondere anch'ella co' suoi baci a quell'atto d'amore; e le sarebbe parso d'essere la bambola più felice del mondo se avesse potuto, come un tempo, esclamare: - Mamma! - proprio quando Camilla le premeva la bocca su la guancia; perchè sentiva che la sua vera mamma, quella destinata da Dio, come tutte le buone mamme, era proprio Camilla; ma, ahimè, il congegno che la faceva pronunziare il benedetto nome era spezzato, spezzato per sempre; e per quanti sforzi facesse per far uscire dal suo petto un po' di suono e mettere insieme quelle due sillabe, a nulla riusciva, e rimaneva muta, sotto l'impressione violenta e soave di quel bacio, come incantata. Ah, scellerato congegno che, non avendo nulla che fare col suo sentimento, le avea fatto cento volte chiamar mamma la Marietta! Si fosse almeno rotto prima, nel viaggio da Milano a Roma, o glie lo avessero riadattato adesso, adesso che provava veramente l'affetto filiale in tutta l'intensità di cui era capace! Quante parole tenere si sprecano, a volte, per chi non se le merita, mentre si resta muti quando poi viene il momento dell'amor vero! Tutto questo la bambola lo sentiva confusamente, ma soffrendone. Quando il piedino fu accomodato, la bimba pensò a farle un po' di corredo, sempre con degli avanzi di roba che la signora Amalia le accordava perchè non servivano più in casa. Avrebbe potuto, forse, procurarsi qualcosa di meglio: non foss'altro de' pezzetti di nastro e di trina da qualche sua compagna di scuola; ma aveva troppo amor proprio per chiedere un'elemosina per la sua cara; meno poi che a chiunque altri alla Marietta, che, secondo lei, era stata tanto cattiva con la povera Giulia. Messa insieme un po' di robicciola, c'era poco tempo per cucirla; e quel poco Camilla se lo levava dal sonno. Bisognava vederla alzarsi senza far rumore, prima dell'alba, e mettersi lì avanti al suo canestro a tagliare e agucchiare, ingegnandosi di far meglio che poteva. Sur una seggiola a fianco si teneva la Giulia, che la fissava co' limpidi occhi turchini, grata di tutta quella fatica fatta per lei. Non le importava, no, più delle gonnelle guarnite di merletto vero, de' vestiti di velluto e damasco, de' cappelli con le penne di struzzo, de' manicotti di pelliccia rara. Un abitino di cotone, e dei baci; uno sciallino ch'era stato un fazzoletto di colore, e dei baci; nulla in testa, tranne i suoi bei capelli biondi, che Camilla pettinava più accuratamente de' capelli propri, e dei baci. Vita nuova per lei, come per la sua piccola amica. Avevano messo insieme le loro due solitudini; avevan fatto di due cuori, destinati al silenzio, un cuore solo; e così si consolavano l'una con l'altra. Una volta - questo era uno dei ricordi più gentili della bambola - la zia de' Rivani avea regalato uno scudo d'argento a Camilla, perchè potesse comprarsi dei dolci; ma la signora Amalia, appena uscita la sorella, s'era impossessata, manco a dirlo, del denaro, lasciando alla bambina soltanto un soldo, che, diceva lei, bastava per pigliare una pasta.

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camera di stoffa forata, come l'usavano i nostri bisnonni, il quale si cavava l'orologio dal taschino del panciotto, e abbassando il capo canuto per antica bambagia, Io guardava e gli faceva batter l'ore, come si fa con gli orioli a ripetizione. In pari tempo, sur un teatrino meccanico si eseguiva una pantomima, dove a Pulcinella, ladro, secondo il solito, toccava un fracco di legnate, ch'egli si meritava; e più in là dei Beduini a cavallo, co' visi neri come il carbone e i bianchi mantelli al vento, galoppavano sotto gli alberi d'una strada di campagna, infilavano una porta ad arco e sparivano, per tornar a comparire di nuovo in fondo alla strada, sempre di corsa: una corsa che non s'arrestava mai. La calca cresceva ogni momento. - Oh, mamma, guarda come è carina quella bambola che sona il piano - esclamò una fanciulletta accanto al signor de' Rivani. Guardò anche lui dalla parte che la piccola mano additava; e la bambola gli parve carina davvero. Era quasi alta un metro, vestita d'un costume celeste, da ballo. Su' capelli, pettinati all'ultima moda, le si alzava un gruppettino di penne bianche; allo scollo, e su la sottana a strascico, portava delle trine tutte pieghe leggiere. La pupattola guardava verso la Galleria fisso fisso. In una manina, inguantata di bianco, teneva con gesto civettuolo un occhialino d'oro a lungo manico; appoggiava l'altra manina su la tastiera del pianoforte - un pianoforte da bambole - come chi cerca ricordarsi un accordo musicale. Il signor de' Rivani entrò nel magazzino e chiese che gli si facesse vedere la bambola celeste. Quella sì che sarebbe stata una bella cosa agli occhi della sua Marietta. Subito un commesso ritirò il giocattolo dalla mostra; e chi era di fuori vide una mamma farsi largo tra la folla per condur via una bimba piagnucolante, alla quale ella badava a ripetere: - Te ne compro un'altra, se sei buona, te ne compro un'altra! - No, voglio quella, io, quella che prende quel signore!... È la più bella di tutte!... Di fatti, la bambola scelta dal babbo della Marietta era proprio fra le più belle che si possano vedere. Il mercante ne chiese cinquecento lire. - È un po' cara! - disse, con un sorriso bonario, il signor de' Rivani. - Creda, anzi, che non è affatto cara - rispose subito il commesso - perché, osservi bene, è tutta di pelle di guanto carnicina; muove le gambe, le braccia, la vita, come si vuole; gira la testa, alza e abbassa gli occhi; ha i capelli veri, non di seta, sa? Chiama Mamma! tirando questo spago, vede? E dice anche T'amo!, tirando quest'altro. Poi non ha soltanto questo vestito; ha un ricco guardaroba; adesso glie lo mostro. Vede? Un abito da corse, di seta scozzese, col cappello grande guarnito di penne di struzzo; una veste da casa di crespo della China color limone e frange...; un abito da visita di velluto marrone ricamato d'oro, col cappello pure di velluto e penne di struzzo... - Va bene, va bene - l'interruppe il compratore - questo lo vedrà e lo ammirerà la mia bambina. Ma il commesso riprese: - Quanto al corredo di biancheria, è tutto di tela batista finissima, guarnito di pizzo vero!...vero, creda... - Lo credo, lo credo. - Sta in un baulino coperto di velluto, ch'è anch'esso un mobilino elegante... Vede, dunque, signore, che non è caro, tutto insieme... Il signor de' Rivani sorrise di nuovo, e pagò. Quando si trattava di far piacere alla sua Marietta, nulla gli pareva un sacrifizio. - Eccomi venduta! - pensò tra sè la bambola, mentre la involgevano delicatamente nella carta velina e la mettevano dentro una grande scatola di cartone piena di ovatta, come in un letto morbido e sicuro. E durante il viaggio da Milano a Roma, ch'ella fece sempre accanto al signor de' Rivani, stette come in un dormiveglia curioso, in cui alle memorie del passato s'univan le fantasticherie dell'avvenire. A dir vero, le memorie di codesta bambola non erano molte nè fino allora interessanti. Non avrebbe saputo precisare da quanti giorni o da quante settimane era nata: ma doveva essere al mondo da poco tempo, perchè tutto in lei era d'una modernità estrema. Si ricordava vagamente un grande laboratorio con tante donne che tagliavano, cucivano; cucivano, tagliavano... Il corpicino di lei, coperto, come aveva detto il mercante, d'una sottile pelle rosata, con le sue molle per giunture e un meccanismo nella pancia che le faceva dire due parole, a uso pappagallo, s'era completato con una testolina d'una leggiadria rara, abbellita da due larghi occhi azzurri di vetro. E quando ella ebbe su le spalle quella testolina dalla folta capigliatura bionda come il grano, sentì di aver acquistata un'anima; un'anima piccola, sì, molto soffocata tra la segatura che le riempiva il corpo, e impotente a manifestarsi in un movimento spontaneo, nella più leggiera vibrazione de' muscoletti di acciaio, ma, in fine, un'anima che aveva sensazioni piacevoli e dolorose, sentimenti d'affetto e d'avversione; qualche cosa tra l'anima de' fanciulli e quella delle povere bestie, che nè anch'esse possono parlare. A mano a mano che l'avevano vestita e fatta bella, la pupattola avea capito di poter fare un giorno o l'altro buona figura nel mondo; intorno a lei, nell'accomodarle addosso stoffe di seta e trine, c'era chi aveva detto: - È una principessina! - Allora, se lo confessava, le era venuta un po' d'ambizione; e l'ambizione era cresciuta quando ella fu posta quasi al centro della vetrina sfolgorante di luce, dove era rimasta esposta quattro o cinque sere davanti al pubblico estasiato della sua personcina. Guardava gli altri fantocci con superiorità. Non erano, certo, le contadine brianzuole quelle che potevano rivaleggiare con lei! Una marchesa del settecento appariva gentile nel suo gonnellino drappeggiato a fiorami e nastri rosei; una suora della carità era un modello d'esattezza, quanto al costume; ma la monaca, povera, s' intende, come tutte le monache, non aveva corredo; la marchesa aveva un lettino, non altro; Io scimiotto... Oh, lo scimiotto era un giocattolo per un maschio: come il cane barbone, come la carovana dei Beduini e tanti, tanti altri giocattoli. Dunque, lei era lì in mezzo una principessina; questo era vero; e non si curava di certe occhiate un po' canzonatorie che le dava il vecchietto dall'oriolo, scrollando il capo bianco davanti alla superba creaturina. Erano venute, in que' giorni, parecchie signore con delle bambine vogliolose a domandar di lei, ma nessuna se l'era portata via; a causa del suo prezzo, enorme per una pupattola. Chi, dunque, poteva essere il signore che l'aveva comprata? Pareva buono, e doveva esser più ricco di molti altri; sopra tutto si vedeva ch'egli adorava la sua figliuoletta, se per lei non badava a far certe spese. E la bambina, come l'avrebbe trattata? Purché non le avesse fatto troppo male! Le tornava in mente, a questo proposito, che nel nativo laborotorio, mentre la stavano vestendo, era stata riportata una bambola comprata due giorni avanti, alla quale la piccola padrona aveva aperto la pancia con le forbici, per vedere che cosa la facesse parlare quando le si tirava lo spago. Aveva tutto il ventre squarciato, la poverina, e versava segatura come gli uomini feriti versano sangue. Non si poteva accomodarla che male, disse una lavorante tra le più brave; e la pupattola era stata messa in un angolo, con le braccia aperte, come una morta... Brr! Uno strano brivido senza scossa apparente raggricciava la bella bambola! Dio mio, se anche a lei fosse toccata una sorte cosi infelice, quali sofferenze non viste, non intese, non indovinate da nessuno avrebbe dovuto sopportare. Chi mai, al mondo, sa quanto patiscono tante cose che ci sembrano insensibili? Cosi ragionava, tra' suoi sogni, la bambola, nell'oscurità della scatola, dove giaceva supina, immobile, in un rumore assordante, mentre il treno correva traversando tanto paese. Ogni volta che si fermavano a una stazione, ella credeva d'esser giunta a Roma; ascoltava, attenta, delle voci confuse... Ma no, no, non era Roma. E il treno ripigliava, rapido, il cammino; e il rumore, simile al brontolio cupo del tuono, ricominciava. Come Dio volle venne la volta in cui udì gridare: - Roma! Romaa!! - e di lì a un momento: - Avanti l'uscitaa! Ah, finalmente, erano giunti! La scatola della bambola venne afferrata da una mano ruvida. Era, certo, d'un facchino. - Fate piano! - esclamò la voce del signore che l'aveva comprata. D'improvviso, sonarono dolci parole interrotte da baci, da domande che s'incrociavano: - Babbo mio! - Ben arrivato! - Ben trovate, care! - Come stai? Hai fatto buon viaggio? - E voi, come state? - Come sono contenta, babbo! - Anch'io, tesoretto mio! - È la bambina alla quale son destinata! - pensava la pupattola. - Dimmi, babbo, m'hai portata una cosa bella, bella? - chiese la Marietta quasi a mezza voce. - No, me ne sono dimenticato - le rispose il padre, per celiare. - No, non è vero! Tu non ti scordi di me! - gridò la piccina con accento di sicurezza. Il babbo rideva, ripetendo: - Birichina, Io sai, eh? - È lì dentro a quello scatolone, babbo? - ripigliava la Marietta, messa in curiosità. - Non ti voglio dir nulla. Ora, a casa, vedrai. La carrozza di casa de' Rivani aspettava davanti alla stazione. I signori e la bambina vi salirono in fretta, e vi salì anche la pupattola dentro la scatola, occupando

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Si tenne, perciò, un pezzo il soldo in tasca, girandolo e rigirandolo fra le dita quando si trovava davanti a una bella vetrina. Quella stoffa da vestiti costava tre lire il metro; quattro quel nastro da fare una fusciacca... Non c'era da pensarci, via! E il soldo le rimase in saccoccia fino che una mattina le passò accanto una ciociaretta che vendeva delle rose, precisamente a un soldo I'una. Camilla scelse la più bella: un bocciòlo appena schiuso, ch'esalava un profumo delizioso; poi salì a due a due i gradini di casa, col fiore sotto il grembiule, perchè nessuno glie lo vedesse. - Ecco, Giulia - diss'ella, con un sorriso felice, prendendo in braccio la sua bambola. - Questo è per te! - e le appuntò la rosa fra' capelli, in mezzo alle trecce calate dietro l'orecchio. - Se tu vedessi come sei bellina! - soggiunse giungendo le mani; e tornava a odorar il fiore, baciandole in tanto i capelli. La Giulia non si poteva guardare alla spera perchè in camera di Camilla non c'erano specchi; ma le piaceva d'aver in testa quell'umile ornamento più assai di quando ci aveva tenuto lo spillo di brillanti; le piaceva non più per vanità ma per il godimento che leggeva in viso alla sua buona amica. L'affetto di Camilla per la sua pupattola cresceva sempre. Nel pomeriggio, dopo le ore della scuola, quando la bambina rincasava, la fretta con cui ella apriva l'uscio di camera avvertiva la Giulia del suo arrivo. Allora il cassetto si schiudeva e la faccia rosea della pupattola ne facea capolino; ma per un solo momento, tanto per salutarsi; Camilla doveva andare in cucina ad aiutar la mamma, nervosa, irritata per le sue disgrazie che le facevano fare a quel modo la serva, e interromper le visite e le letture, ch'erano tutto il suo gusto. In cucina ricominciavano più acerbi che mai i rimbrotti. Se, per caso, Camilla non capiva lì per lì un ordine della signora Amalia, ecco questa subito pronta ad accusarla di poco cervello. - Ti sei fatta più scapata che mai dacchè non pensi che alla bambola! - si metteva a strillare. - Un giorno o l'altro te la butto dalla finestra, e così è finita la storia! La bimba abbassava il capo tutta tremante; e stava bene attenta a ogni minima parola materna, per il terrore che le metteva addosso quella crudele minaccia. Ormai, se le avessero levata la Giulia le avrebbero spezzato il cuore. Quando restavano sole in casa, Camilla e la bambola, ne' giorni che il babbo gironzava in cerca d'un impiego, e la mamma, vestita de' panni migliori, era uscita per la città a fare come poteva la parte della signora, le due solitarie se la godevano. - Vieni, vieni - diceva Camilla prendendo la pupattola. - Ora puoi uscire, poverina! E l'alzava dal suo lettino dentro il cassetto, dove aveva aspettato pazientemente, sicura di non essere dimenticata. - Che bella giornata, eh? - seguitava la bimba - ma noi non usciamo. Te ne importa? No? Neanche a me. Tanto, stiamo insieme. Ora ti lavo il visino, sai, perchè iersera t'ho baciata troppo: ti ci ho lasciato il segno... - E prendeva una punta dell'asciugamano, bagnata nell'acqua, per passarla delicatamente su le guance della pupattola, un po' ombrate dalle troppe carezze; perchè le pupattole son come le bimbe: si sciupano a baciarle troppo. Poi ripigliava: - Adesso ti metto il grembiulino che ho stirato stamane. Non ho altro da metterti di bello. Ma tu sei contenta lo stesso, è vero?... La Giulia avrebbe voluto gettarle al collo quelle piccole braccia che le pendevano stecchite lungo i fianchi; avrebbe voluto dire alla pietosa creatura tutta la gratitudine con cui ricambiava tanto amore. Ma no! sempre no! sempre no! Le braccia le restavano inerti; il suo visetto di porcellana era impassibile; non traspariva il più leggiero palpito del cuore sotto la sua vesticciola di cotone. Per altro, la bimba, indovinando d'essere compresa, non chiedeva di più; e anche la bambola doveva contentarsi del suo destino. Le ore della sera, quando tutto taceva intorno, erano le più gradite alle due amiche. Allora Camilla, finito il suo cómpito quotidiano e recitate le preghiere, era beata di stendersi accanto al corpo rigido ma caro della compagna sua; e lì tutta stretta ad esso, dandogli, sotto le coperte, il proprio calore, per modo da potersi figurare di tenere accosto una sorellina di carne e d'ossa, ella le raccontava le sue pene più intime. - Vedi, Giulia, fin da quando ero piccina piccina, ho sempre patito, io. La fame e il freddo no; ma peggio. Ho patito perchè la mamma e il babbo mi trascurano, e perchè non vanno d'accordo. Se loro stessero in pace io riderei e canterei tutto il giorno. Così non rido mai, non canto mai. Ma quando non avevo te stavo peggio, sai!... La pena mi restava nel cuore, e mi pareva di affogare. Come ti voglio bene! E tu, me ne vuoi? Ora tiro il filo! e tu rispondi - T'amo. - No, non lo tiro perchè se sentono la tua voce, guai! - Non diceva la minaccia che la madre le avea fatta di buttar la pupattola dalla finestra, per paura d'addolorare la povera Giulia. Sentiva però che se la sua bambola le fosse stata veramente strappata, qualcosa di tristo sarebbe accaduto anche a lei. Ormai le era impossibile di tornar a vivere come prima, sola sola, contentandosi di veder di lontano il visetto birichino de' fanciulli del vicinato, e i voli delle rondini e de' piccioni, su su in quel pezzetto di cielo guardato per iscorcio dalla finestra del cortile. Una sera che la signora Amalia erasi mostrata più dura con la figliuola, dopo un litigio grave col marito, sempre disoccupato, Camilla aveva pianto a lungo, appoggiata al tavolino, con la faccia nascosta in un fazzoletto tutto fradicio, senza curarsi della bambola, senza neanche guardarla. Davanti a quelle lacrime, la Giulia si sentiva struggere. Aveva veduto chi sa quante volte piangere la Marietta per i capricci che le passavano per la testa, come d'estate passano i nuvoli sul cielo sereno; e siccome, per sua fortuna, la Marietta non aveva alcuna ragione di piangere, alla Giulia quelle stravaganze d'ogni momento non facevano nè caldo nè freddo. Ma i singhiozzi profondi e disperati di Camilla, che viveva davvero in tante tribolazioni, mettevano uno spasimo nell'animo dell'amica condannata a star muta. Ella avrebbe dato tutta la segatura - non avea sangue la poverina! - del

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La Giulia, inerte sur una seggiola, la guardava meravigliata che la lasciassero lì a quel modo. A un tratto, Camilla si ricordò della pupattola, e scesa dal letto, corse a prenderla. La spogliò in silenzio, e quando l'ebbe accosto, le susurrò vicino all' orecchio: - Non sai, Giulia, non sai? La mamma non mi vuol bene! - E scoppiò di nuovo in singhiozzi, tirando il filo, senza curarsi di far rumore, perchè aveva bisogno d'udire una dolce parola. - T'amo! - disse la Giulia. E lo disse con tale accento d'amore da credere ch'ella fosse davvero una creatura umana. A quella piccola voce la bambina sorrise; e sorridendo e premendosi la bambola, s'addormentò; ma la tosse le seguitava nel sonno.

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Non di meno seguitava a far l'obbligo suo in casa e a scuola; anche se in casa, a quando a quando, o nello spazzare o nel rigovernare i piatti, era costretta a fermarsi un istante, per ripigliar fiato. A scuola, le maestre, notando il suo pallore e la stanchezza di tutto il piccolo corpo, le domandavano che cosa si sentisse. - Io?... Nulla - rispondeva invariabilmente la bimba, e abbassava il capo, mentre su la tinta cerea delle guance le si diffondeva un leggiero rossore. Un giorno che la fanciulla stava peggio, la direttrice mandò a chiamare la signora Amalia e la condusse nel proprio gabinetto. - L'ho fatta incomodare, signora Cerchi - disse ella - per avvertirla che Camilla non istà affatto bene. O non se n'è avveduta, lei? Quella si strinse nelle spalle e fece il viso di chi si stupisce; poi rispose: - Le dico la verità, a me, finora, non m'ha dato nell'occhio. La direttrice, ch'era un'ottima madre di famiglia e adorava i suoi quattro figliuoletti, rimase rattristata da quelle parole, e soggiunse: - Io, vede, se avessi una delle mie creature malata come la sua, non so che cosa farei! La Cerchi si morse le labbra, ma si contenne. - Io faccio quello che posso per Camilla - diss'ella - e non è certo colpa mia se non siamo più i signori d'una volta... Temendo d'averla offesa, la direttrice la interruppe con voce più mite: - Lei, signora, non ha seguito quello ch'io volevo dire. Volevo dire che... Camilla, col suo caratterino serio, meditativo, e con la sua gracile salute va tenuta, mi servo d'un termine volgare, in uno scatolino d'ovatta, e... - Che cosa manca a mia figlia? - chiese bruscamente la Cerchi; poi si rimise, e dichiarò: - Del poco che resta in casa è padrona lei; capirà, è figlia unica... Nessuno la sgrida, nessuno la maltratta... - Dio mi guardi dal pensare che si maltratti una bambina, e per di più, malata - interpose la maestra, - solamente, glie lo dico con tutta franchezza, Camilla è d'una sensibilità straordinaria; basta uno sguardo dolce a farla contenta, basta uno sguardo severo a straziarle il cuore... - E io, che cosa faccio per... - Ci pensi; la osservi; veda di farla guarire, poverina! Dietro queste parole, la direttrice salutò la signora Amalia, che se ne andò con le fiamme in viso, irritata della mortificazione ricevuta, benchè questa fosse in termini tanto cortesi. Quando Camilla tornò dalla scuola, fu accolta dalla madre con strilli e rimproveri. Che cosa andava a raccontare alle maestre per farsi compatire a quel modo? Che smorfie faceva con loro, mentre in casa era tutto il santo giorno a gingillarsi con la bambola? La bambina stava in piedi davanti a lei, dritta come una statua, con le braccia cadenti lungo i fianchi, il viso alto, gli occhi fissi. In un'espressione nuova di dolore, il volto le si era ancora di più affilato; le labbra, sbiancate, le tremavano convulsamente. Non batteva ciglio; non diceva una sillaba. In tanto, la Cerchi, alzatasi dalla sua solita poltrona, passeggiava su e giù per la stanza, indispettita. D'improvviso si fermò. La figura interita, ma presso a cadere, della piccina, l'aveva colpita. Per la prima volta vide quel pallore da giglio, quei lividi in torno alle occhiaie, tutte le membra rifinite. Raddolcì la voce, e chiese: - Che hai, si può sapere? Ti senti proprio male? - Io? no - rispose Camilla con accento risoluto. Poi soggiunse, dopo un poco: - Mamma, posso andare? La signora Amalia accennò di sì col capo, e la bambina s'affrettò a chiudersi in camera sua. Costì la Giulia l'aspettava: ella ch'era diventata la confidente di tutto quanto accadeva in quella povera vita monotona e piena di sofferenze. - Mi vuoi bene, tu? - chiese la fanciulla abbracciandosi la bambola. Stettero così un pezzo con gli occhi fissi una nell'altra, e in quello sguardo muto si dissero più cose del cuore, si raccontarono più dolori che se avessero parlato un'intera giornata. - Ora lascia la scopa; finisco io di spazzare - diceva ogni tanto la signora Amalia a sua figlia, nei giorni che seguirono il colloquio con la direttrice. Ma nel mettersi a ripulire la casa, brontolava e sbuffava, in tal modo, ribattendo sempre che il mestiere della serva non era fatto per lei, che, a Camilla, quelle maniere facevano più male di qualunque fatica. Per evitare tutto ciò, ella avea dunque pensato di sbrigare le faccende nell'ore del primo mattino, mentre la madre era ancora a letto: quelle ore in cui una volta s'occupava della sua pupattola cucendole una cosa o un'altra, tanto per vederla pulitina se non elegante. Adesso la Giulia rimaneva anche spesso co' capelli arruffati, perchè l'amica sua non aveva nè tempo nè forza da pettinarla. Però quando la signora Amalia s'alzava, quasi ogni cosa era lesta, perfino calda la tazza del caffè co' biscotti, alla quale ella non avea mai rinunziato. - Perchè non hai dormito un'ora di più? - domandava la madre, contenta non di meno, nel suo egoismo, di veder tutto in ordine senza averci contribuito lei: non tanto per la fatica materiale quanto per il disgusto dell'abbassamento a cui le pareva trovarsi costretta. - Stavo meglio stamane - rispondeva la bimba, asciugandosi la fronte sudata. Ma era una pietosa bugia, di quelle rare bugie che portano tanti anni di paradiso anzichè di purgatorio: perchè in vece di migliorare, quella debole salute s'andava sempre più consumando. Venne poi il tempo in cui la direttrice della scuola scrisse alla signora Cerchi che, per conto suo, per la quiete della sua coscienza, ella non poteva più permettere a Camilla di stancarsi a studiare, e pregava i genitori di tenere in casa la creatura e lì di curarla. - Anche la malattia! Questa mi ci mancava! - esclamò la signora Amalia con un rumoroso sospiro di disperazione rabbiosa. Ma non procurò nè medico, nè medicine; anzi, nemmanco ci pensò, a causa della scarsezza de' suoi mezzi, unica disgrazia che veramente le facesse impressione e le pesasse. Dapprima leggiera, poi un po' più forte, la febbre coglieva quasi tutte le sere la bambina. Verso il calare del sole erano piccoli brividi a intervalli che le davano una scossa fredda in tutto il corpo. Ella badava a stropicciarsi le manine magre, che poi si passava sul viso e su le braccia, tentando inutilmente di richiamarvi un po' di calore. Allora si doveva mettere a letto, e coprirsi bene, fin che il calore venisse e la facesse addormentare. Al mattino, dopo una notte dal sonno interrotto, sentiva una spossatezza generale; per cui le dava fastidio il muoversi; e per sollevare la testa dal guanciale doveva riflettere che c'era da fare, molto da fare in casa. - Mi sento male, Giulia! - diceva piano alla bambola. E la Giulia avrebbe voluto alzarsi in vece sua e ingegnarsi a far lei tutto. Ma pur troppo, queste belle cose succedono soltanto nelle novelle delle fate, e non nelle storie vere, piene di avvenimenti più malinconici che maravigliosi. Sicchè la pupattola vedeva la sua povera amica abbandonare il calduccio del letto e la sentiva tossire, con que' colpi di tosse secca che, in chi ascolta, entra per gli orecchi e si conficca nel cuore. Più in là i brividi si fecero più acuti. La bambina batteva i denti come uno che è nudo nel gennaio; e si doveva accatastare sul letto tutto quel che trovava capace a coprirla: persino il tappetuccio del tavolino, persino i suoi vestiti da estate. Ma dopo, il caldo era terribile; le faceva buttar via tutto da dosso; e allontanare la Giulia, come se la pupattola avesse avuto del sangue nelle vene. In quel calore eccessivo smaniava, senza riposo. Una notte, finita ch'ebbe la bottiglia che si era messa vicino al letto, s'alzò a piedi nudi, trovando un rifrigerio nel freddo de' mattoni, e andò a bere al mesciacqua, attaccandovisi come un'assetata. - T'amo! T'amo! - si faceva dire ogni poco dalla pupattola, quasi che la dolcezza di quella parola avesse potuto farla star meglio. La bambola ripeteva: T'amo; con tutta l'animuccia sua; ma a che pro? Non basta l'affetto a risanare, a salvare le persone amate. Ormai Camilla rimaneva parte della giornata in letto; s'alzava tardi e si coricava presto; non era più buona a sfaccendare in casa; e accorata guardava sua madre, che passava e ripassava, brontolando un poco ma meno di prima, coperta d'un largo grembiule la bella veste da camera, ch'era uno spoglio della signora de' Rivani. Quando il male s'aggravò e la bambina non potè levarsi quasi più affatto, la sua solitudine le sarebbe parsa insoffribile, se quella bambola, piccola immagine umana, non fosse stata con lei. La Giulia sentiva perfettamente la propria azione benefica, e si compiaceva d'esser lì a fianco della povera inferma. Com'era diversa la malattia di Camilla da quella che aveva avuta Marietta per la sua gola! Si ricordava d'aver patito anche quella volta, ma adesso era tutt'altro tormento; e le faceva l'effetto d'aver perfino un cuore diverso per sentirlo. Spesso, voltandosi e rivoltandosi nella smania dell'insonnia, Camilla sbatteva un braccio su la pupattola: e subito la paura d'averla sciupata, più ancora quella di averle fatto male, gliela faceva attirare a sè, e osservarla e carezzarla. Povera Giulia! I suoi bei capelli biondi s'erano aggrovigliati come serpentelli d'oro; di vestirla non se ne parlava più; non sembrava, certo, più lei. Una sera Camilla non istette alle mosse. Chiese con voce fioca: - Mamma, mi dai una camicina? La signora Amalia aprì un cassetto e prese una camicia della figlia. - No, non per me... - fece questa. - O per chi? - Per la Giulia... Sono lì, accanto alle mie, le sue camicine. La madre prese quel che le si chiedeva, ma ci fece la sua brava osservazione: - Sei malata e pensi sempre ai balocchi! Pensa piuttosto a guarire. Camilla avrebbe voluto dirle che per essa la Giulia non era soltanto un balocco; ma stette zitta; e raccogliendo le poche forze che le restavano, si sollevò a stento sul guanciale e lentamente mise la camicia linda, bene stirata, alla sua compagna di letto. Quando la zia de' Rivani seppe che la bambina era tanto malata, venne subito a trovarla, rimproverando la sorella di non averla avvertita prima. La signora Amalia si scusò assicurandola ch'ella avea ritenuto trattarsi di cosa passeggera. Allora cominciarono le visite regolari del dottore, mandato da casa de' Rivani; e Camilla dovette prendere molte medicine disgustose, che non le fecero alcun bene, perchè ormai il suo male era troppo avanti; anzi le stava a dirittura nel sangue fino dalla nascita. - Quando sarai guarita ti regalerò un giocattolo nuovo - le diceva la zia - basta che tu sia ubbidiente al dottore. Un giocattolo nuovo! Non lo desiderava affatto, lei, affezionata com'era alla Giulia. Soltanto, se guariva, avrebbe domandato qualche pezzo di roba da far dei vestiti alla pupattola, ormai in cattivo arnese. Questa miseria dell'amica sua e l'impossibilità in cui ella si trovava per allora di rimediarvi, era il suo principal dispiacere, quasi un pensiero fisso. Ma non ne disse mai nulla alla zia, contentandosi di baciarle piano piano una mano: la bella mano inguantata e odorosa. - Marietta come sta? - era una delle sue poche domande. La Marietta stava bene; ma non aveva voglia di far niente; disubbidiva a più non posso; e una signorina di Berlino che avevano preso in casa perchè la bambina imparasse il tedesco, se n'era andata su due piedi per le impertinenze ricevute.

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- Ah, vorrei una figlia che somigliasse a Camilla! - esclamò un giorno la signora de' Rivani, discorrendo con la sorella presso il capezzale della piccola malata. - Sì, Camilla non è cattiva, non dico; ma, io vorrei non aver figliuoli - disse la signora Amalia, che appunto poco prima aveva finito un racconto lungo e noioso su suoi guai domestici. Il cuoricino di Camilla ebbe una stretta, che le mozzò quasi il respiro... e cercò con la mano arsa di febbre la Giulia, ruzzolata verso la sponda. Una sera, mentre il sole, tramontando dalla parte opposta della casa, tingeva di rossastro i tetti davanti, ancora umidi d'un acquazzone caduto in giornata, la bambina inferma si destò da una specie di dormiveglia che l'aveva tenuta assopita parecchie ore. Dirimpetto alla luce della finestra stava una figura di donna un po' curva con una larga pezzuola bianca sul capo e scendente su la nuca. - Li... Liberata! - chiamò Camilla e fece l'atto di voler sedersi sul letto, senza però riuscirvi. La vecchia serva abruzzese, era lei, accorse e baciò più volte in fronte la creatura. - Camilla! Millina mia! - disse, rasciugandosi gli occhi. - Che cosa è stato? Come ti sei ammalata così? - Non lo so - rispose la bimba; e principiava a narrarle che cosa si sentiva, ma la tosse l'interruppe, scotendola tutta. - Zitta, zitta, bella mia, non t'affaticar a parlare - la pregò Liberata. Camilla, acquetatasi un poco, riprese: - Ti sei ricordata di me. L'antica serva ricominciò ad asciugarsi gli occhi: - Non me ne sono mai dimenticata, bella mia. Ma stavo tanto lontano, là su, sai, su in cima a Villa Ludovisi; e non avevo tempo di far un passo fuori di casa. Ora però che mi son messa a un mezzo servizio qui vicino, non dubitare che ci vengo spesso, non dubitare. Stai spesso sola, eh, bella mia? o non hai paura, dimmi? Camilla accennò di no col capo, poi disse gravemente: - C'è l'angiolo. Liberata confermò: - Sicuro che l'angiolo ti guarda, bella mia; ma... La bambina le fece segno d'accostarsi più ancora a lei, poi le disse, parlandole quasi all'orecchio: - L'ho visto, sai? L'altra sera. - Proprio, l'hai visto? - chiese con fede la buona vecchia. - Sì! - Com'era? - Come d'oro. Era qui, dove sei tu e ha fatto le carezze a me e alla... Non finì il racconto della visione luminosa, perchè la tosse le riprese, poi entrò in camera la signora Amalia, seccata della visita di Liberata, che, diceva lei, veniva a veder le loro miserie per poi andare a cicalarne col pizzicagnolo e col macellaro. - Se me lo permettete, ritorno dalla bambina - disse la serva alla signora: che s'affrettò a rispondere: - È inutile che tu t'incomodi, tanto ci son io. - Ma Camilla la teneva per la gonnella, come quando era piccina, e la pregava con voce di pianto: - Sì, torna, Liberata, torna! Ho da dirti tante cose... Poi si volse dalla parte del muro, e si assopì di nuovo. Le forze le andavano sempre scemando; v'erano momenti ne' quali parlava tanto a fatica e con voce così fioca ed esile che appena si udiva. Ogni giorno il padre s'affacciava sull'uscio di quella cameretta dai pochi mobili ora tutti ingombri di medicine in boccette, in cartine, in scatole, e domandava invariabilmente: - Be', come va? Il più delle volte Camilla faceva un garbo con la bocca come per dire: - Come vuoi che vada? - A volte, se aveva fiato, rispondeva: - Bene - tale quale avrebbe risposto: - Male - tanto per contentare il visitatore. E il signor Cerchi, persuaso d'aver fatto il suo dovere di padre, usciva per veder qualcuno a cui gli premeva parlare per un posto che aveva in vista. Quanto alla signora Amalia, ella era stata, così diceva, finita di rovinare dalla malattia della figliuola. Spese, veramente, non ne faceva, perchè pensava a tutto la sorella; ma il dover disbrigare ogni cosa in casa, senza più nessuno che le dèsse una mano, era un affar serio. Prima di sera cascava dalla stanchezza. Oltre di ciò l'obbligo in cui la metteva quel genere di vita d'abbandonare qualunque conoscenza e non far più una visita, era per lei un rammarico continuo. Qualcuna delle sue eleganti amiche, amiche comuni della sorella, eran venute, è vero, da lei. Ma che modo infelice di riceverle! Quando sonavano il campanello, andava in punta de' piedi a metter l'occhio in un foro fatto nella porta delle scale apposta per vedere chi bussava; e s'era una signora, eccola a buttar via in un lampo l'abito che teneva in cucina e indossarne uno migliore; e poi confondersi in scuse e complimenti con la visitatrice. Conduceva sempre tutti in camera della bambina, provando, senza avvedersene ella stessa, una singolare soddisfazione a mostrar quanto la piccola stava male; perchè tutti allora compativano lei come una vittima del destino e l'ammiravano per il suo gran coraggio. A misura che la malattia progrediva fatalmente, Camilla, ridotta uno scheletrino diafano, aveva un vago presentimento che presto la vita sarebbe finita per lei; ormai tutti i suoi piccoli e grandi dolori le restavano nel pensiero soltanto come ricordi già lontani d'un altro paese, d'un altro mondo; l'unica cosa che non avrebbe mai voluto lasciare era la sua bambola, alla quale voleva sempre più bene, a mano a mano che s'avvicinava il momento di dirle addio. Quanto alla Giulia, ella non capiva nulla della morte; ma si rattristava in modo impossibile a spiegare dei patimenti della fanciulla; e le sembrava che tutte e due avrebbero dovuto restar lì tutta la vita, in quel letto mezzo disfatto, tra l'odor malinconico delle medicine; più in là il suo pensiero non arrivava. Una mattina de' primi di novembre, una di quelle belle mattine dell'estate di San Martino, venne proprio la morte. Camilla, che sua madre aveva assistita l'intera notte in piedi, respirava penosamente, a intervalli sempre più lunghi e affannosi. La signora Amalia piangeva forte, rimproverando il marito, che ogni tanto appariva, pallido, al capezzale della figlia, di esser lui la causa della disgrazia. - Se tu non ti fossi giocato il posto, l'avrei portata in campagna, la mia creatura! E non sarebbe morta, morta così! - Destino! Destino infame! - esclamava il signor Carlo, stringendo i pugni, poi coprendosi il viso con le palme - Destino! Camilla, senza pronunziare una parola, sollevato il petto dai rantoli, pareva aspettare, dopo tante lotte superiori alle sue piccole forze, il gran riposo. Aspettavano tutti. Un momento, brancicando tra le coperte, tese la mano per attirare ancora a sè la Giulia; urtò nello spago, e dalla bambola uscì un gemito tronco, inarticolato: T'am... Il resto della dolce parola morì con Camilla, mentre le labbra ormai quasi fredde di lei sfioravano per I'ultima volta il visetto di porcellana sempre freddo, sempre freddo... La signora Amalia, co' suoi strilli, fece riunire il vicinato. La camera si riempì di gente; chi consolava la madre da una parte, chi da un'altra. In tanto sopraggiunse la Liberata, che fattosi un gran segno di croce, cominciò a mettere in ordine tutto. Pregati i parenti e gli amici di lasciarla sola, perch'essi non si fossero troppo addolorati, lavò e rivesti co' panni migliori la bambina; poi, più curva del solito, corse fuori, a prendere dei fiori, tanti per quanti soldi portava in tasca, e ne fece una ghirlanda in torno alla testolina marmorea di Camilla. Altri fiori, assai belli e di molto valore, intrecciati a ghirlande, li mandò la signora de' Rivani. Accostò alla bocca della morticina, Liberata avea trovata la Giulia, ch'ella raccolse dicendo: - Ah, povera Giulia! - senza sapere quanto veramente era da compiangere quella bambola orfana. Per tutto il tempo che Camilla rimase in casa, la Giulia, seduta vicino al letto e non osservata da alcuno, la guardò fisso. Ora la bambina era perfettamente simile a lei: quieta, immobile, muta, con le labbra un po' socchiuse a una specie di sorriso, le braccia inerti, stese lungo i fianchi e una rigidezza innaturale in tutte le membra. Ah, s'ella avesse potuto chiamarla, chi sa che Camilla non le avesse risposto! Dormiva, forse? No, non si dorme così altro che quando si dorme per sempre. O allora? Quando avrebbe potuto più stringere la sua pupattola sul cuore e parlarle di tutte le pene del suo cuoricino afflitto? De' lumi erano stati accesi intorno a Camilla, che riposava sempre; poi degli uomini ignoti alla Giulia entrarono e si portarono via la sua amica... Nessuno pensava alla bambola, che avrebbe voluto andare con Camilla in qualunque angolo di terra. Rientrò Liberata nella triste camera. - È colpa tua, tua! - s'udiva gridare in mezzo ai singhiozzi nella stanza attigua. E la vecchia serva, dopo essersi inginocchiata, piangendo, vicino al letto vuoto, spazzò, ripulì tutto, come si fa a Pasqua, quando ha da venire il prete a benedire. Poi chiuse le finestre quasi allo scuro e serrò la camera a chiave. La Giulia rimase lì sola, seduta al medesimo posto; e non si raccapezzò più. Ma davvero che la Camilla era stata portata via per sempre? Dunque era proprio morta? E l'idea della morte, quell'immobilità della bimba, così agile un tempo, quell'impotenza a esprimere gli affetti del cuore mentre il cuore c'è, le si confuse nel capo mescolandosi all'idea

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A quando a quando, un rumor di voci e di passi giungeva fino a lei, dal resto della casa. Ma subito le voci s'affievolivano; s'allontanavano i passi; non era, no, Camilla. Era qualche indifferente. Allora ella si ricordò del tempo in cui stava chiusa nell'armadio in casa della Marietta, quando il sorcio le rosicò il piede. Adesso il suo strazio era assai maggiore. Avrebbe voluto che una frotta di topi la mangiassero tutta da capo ai piedi anzichè sentirsi il cuore così divorato dal dolore. Ancora de' passi, ancora delle voci; e svanivano. Camilla non tornava: i morti non tornano. E rimase lì, in un completo abbandono di sè stessa, come morta anche lei, per giorni, settimane, mesi, anni, chi sa?

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Entrarono la signora Amalia, vestita a lutto, di semplice lana, e un ometto su' sessant'anni: uno sconosciuto. L'ometto vestiva male, abiti troppo larghi e lunghi per lui, salvo i calzoni, ch'erano miseri, stremenziti; un cappellaccio unto, bisunto alle falde, gli si affondava sul viso ossuto d'un giallastro terrognolo. Egli girò più volte rapidamente gli occhi piccoli e vivi per la stanza, e andò a stendere sul letto una mano che somigliava quella d'una scimmia, tanto era scura nodosa, callosa. - No, no, il letto no! - disse la Cerchi! - perchè delle materasse si può sempre aver bisogno. - O allora, che cosa? - chiese lo sconosciuto con voce nasale e accento strascicato. - Il cassettone, la tavola, magari le sedie... - Aprite bene la finestra, - fece l'uomo, sempre su lo stesso tono - perchè io non compro la roba senza vederla. La signora Amalia aprì i vetri e sollevò le persiane. - Spalancate! - insistè l'individuo - non la volete capire ch'io col capo nel sacco non faccio affari? Le persiane sbatacchiarono sul muro esterno, e il sole rientrò a schiarare la camera della morticina. Allora il rigattiere fece il breve inventario della merce usata; sbirciandola da tutte le parti, calcolò e ricalcolò il prezzo che, secondo lui, importava, e arrischiò un'offerta: dieci lire ogni cosa. - Dieci lire! - gridò la Cerchi, aprendo le braccia. - Dieci lire! Questo si chiama assassinare la gente, si chiama! - Tanto vale, non più - rispose freddamente l'ometto con la sua voce nasale. E cominciò a specificare: - Cinque lire il cassettone, tre il tavolino, mezzo franco l'una le seggiole; sono quattro, e formano due franchi. Dunque, dieci lire. - Ma non l'ho mica rubata, io, la roba! - seguitava a sbraitare la signora Amalia. - Neanche io rubo la moneta - rispose l'uomo. Poi soggiunse: - Quello che vi posso dire ancora gli è che non ho tempo da perdere. Se vi conviene è così, se non vi conviene, tutti pari. Lei si torceva le mani, scrollava la testa, facendo segni di dispiacere con la bocca. Il fatto sta che aveva assoluto bisogno di denaro, per poco che fosse, massime perchè il marito non le guadagnava ancora nulla. Disse: - Ho pure in cucina altri oggetti di cui vorrei disfarmi... Se li volete vedere... - - Eh, vediamoli! - rispose quello. Mentre stavano per uscire, lo sguardo della signora Amalia cadde su la bambola. - Ah, Dio mio! Chi se ne ricordava? - esclamò. Anche il rigattiere le posò gli occhi sopra. - Quella la vendete? - chiese senza sorridere. - Eh !..., che v'ho da rispondere? - sospirò la signora. - Certo, a tenermela qui mi fa male... Era della bambina... Non saprei... - Poi, deliberatamente, domandò, come se avesse voluto levarsi di torno un ricordo troppo penoso: - Quanto me la pagate? - Una lira - dichiarò l'uomo. - Una lira! Una lira! Questo mi tocca sentire! Una lira una pupattola ch'è stata pagata cinquecento! Il mercante ghignò: - Adesso non vale di più; è come una donna vecchia: sarà stata bella, ma è vecchia. - Come vecchia? S'è stata adoperata appena! - protestava la Cerchi. - Insomma, ne volete una lira e mezzo? Faccio tanto per portarla a mia figlia, che mi tormenta per aver la pupazza. Gira, volta e martella, la bambola fu ceduta al rigattiere per due lire e centesimi, dopo un monte di questioni; e andò a casa di lui, sur un carretto tirato a mano, insieme al cassettone, alla tavola, alle sedie di Camilla e una parte degli attrezzi di cucina dei Cerchi. Posta in cima al carretto, ella rivide le vie di Roma, che soleva percorrere insieme alla Marietta, in un magnifico legno tirato da focosi cavalli inglesi; e l'aria parve ridonarle un po' di vita, soffiandole in faccia un ventolino ancor fresco ma già odoroso di primavera. Il carretto avanzava tra la folla della gente e le file de' veicoli, traballando sul selciato, come un ubbriaco. E la Giulia, senza guardar nulla, nè rimpiangere il tempo quando anche lei pareva una signorina tra le signorine sorridenti al passeggio, pensava malinconicamente: - Dove l'avranno portata? - ricordandosi soltanto di Camilla. Lasciato il Corso e le strade centrali, il carretto si internò per vicoli tortuosi dalle mura nere, bucherellate di finestrelle irregolari, e camminò, camminò, camminò, ora svoltando a destra ora a manca, fino che giunse a un portoncino basso, di un legno tarlato, tutto polvere e sudicio. Lì si fermò. Era dunque quella la nuova abitazione della Giulia. Da una lurida botteguccia accanto al portoncino, nella mezz'ombra non mai dissipata da un raggio di luce sbucò un ragazzotto sui tredici anni, magro, angoloso, ma con due begli occhi d'un nero morato dall'espressione un po' selvaggia: sembravano quelli d'un falchetto pronto a beccare e graffiare. Accostatosi al barroccino, s'era messo a osservar la mobilia con occhiate già esperte, quando lo colpì la bambola, ch'egli afferrò subito, come una preda. - Lascia stare, Attilio - ordinò il rigattiere. - Quella non è roba per te. Il ragazzotto continuava a rigirarsi la bambola tra le mani. La Giulia tremava nel suo interno, colta da un gran ribrezzo, come uno di noi al contatto d'un serpente.

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Alla sua chiamata si aperse quasi subito una finestra al mezzanino della casa stessa, e vi s'affacciò, spenzolandosi fuori, una bambina dal tipo zingaresco, co' capelli neri, a riccioli fitti, tutti inciruffati. - Che c'è? - chiese con voce rauca. - Guarda! - e Attilio alzò verso di lei la bambola con tutte e due le braccia. - Ora vengo - gridò la bimba, precipitandosi per le strette scale, che sonarono dello scalpiccìo delle sue ciabatte. - Piano, piano! - esclamò il mercante, togliendo la pupattola di braccio alla figlia. - Questa l'avrai quando sarà rappezzato tutto quel mucchio di calze che t'ho portato da più di quindici giorni. Prima no; non do nulla per nulla, io. La Rachele dovette trovar giusto il patto, perchè non protestò, non pregò, ma rifece lesta le piccole scale e si mise subito a rimendar solette. Ne' due giorni che la fanciulla dovè fare il suo còmpito, la Giulia stette dentro un cassone, tra un tanfo di muffa che ammorbava la poca aria circolante nel retrobottega. Presa che fu poi dalla sua nuova padrona, questa le volle ravviare i capelli; ma per poterglieli spiccicare glie ne strappò tanti, che restavano a ciuffi sur un troncone del pettine sdentato. - Si pettinasse in vece per sè! - pensava la povera Giulia nel sentirsi tirare così barbaramente i suoi bei fili d'oro. Vedendo di mal riuscire all'impresa, Rachele andò in cucina, vi prese del grasso e, spalmatoselo nel cavo delle mani, unse il capo alla bambola. A quel modo il pettinaccio passava più facilmente nella capigliatura, ma il color biondo s'oscurò come se vi avessero steso sopra un velo nero, e la testolina signorile cominciò a puzzare di rancido: mentre il grasso, colando, le insudiciò tutto il collo. - Adesso bisogna che la vesta - disse la Rachele; e raccapezzò una specie di tunica, tagliando una gonnella di lana rossa, tutta macchie, appesa chi sa da quanto tempo a un arpione, dietro un uscio. Pochi punti, lunghi e storti, e la tunica fu messa su; quindi la bimba trovò in un sacco, giù in bottega, un pezzetto di gallone da tenda che una volta era stato dorato, e Io legò intorno alla cintura della Giulia. Dell'orlatura dappiede non si diede pensiero; e il dappiede sbrandellava a uso straccio; molto meno si trattò di metterle scarpe e calzette; sicchè il piedino storpio, tutto scoperto, mostrava l'accomodatura di pelle più chiara fatta alla meglio dalle povere manine di Camilla. Alla Giulia pareva non esser più lei, scalza, sciatta, unta. Nessuno, gli è certo, l'avrebbe mai riconosciuta per quella stupenda pupattola esposta al centro della vetrina nel grande negozio della Galleria, a Milano, con accanto il suo baule pieno d'un corredino principesco. Ma non era il ricordo del negozio nativo, nè del cofano co' vestiti come quelli di Cenerentola, che la faceva sospirare tacimente. Ella non si sentiva amata; e dopo i baci di Camilla

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. - Fortuna che non dovrò mai dire t'amo a questa bambina! - pensava ella con malinconica soddisfazione. Perchè bisogna sapere ch'era accaduto un fatto curioso. Rachele, nel vestir la bambola, visto uno spago ciondolarle dal ventre, lo aveva tagliato, non passandole, certo, per la mente che una pupattola potesse parlare, e che appunto per mezzo di quello spago dicesse le parole. Dalla parte di dietro della brutta casa in cui la Giulia era capitata, trovavasi una specie di cortile sterrato con un lavatoio pubblico dove le donne venivano a sciacquare certi panni neri come la pece e a dir male di tutti. Costì era uno schiamazzo quasi continuo di ragazzi che ora scherzavano e un minuto dopo litigavano, ruzzolando per terra l'uno su l'altro, come involti di cenci portati da un turbine. Fu quello il luogo - molto diverso dal salone di casa de' Rivani - dove la Giulia si ritrovò in società: una società delle più singolari. - Fammela vedere! - Dammela! - A me, a me! - strillava un gruppo di bambine, pigiandosi contro la Rachele, che difendeva la sua bambola con manate e insolenze. - Guardare e non toccare, si chiama, lo sapete? - ripeteva ella nel suo solito tono di voce rauca. - Riecco la scena del Pincio! - pensò la Giulia; ma in quel momento le avrebbe forse fatto piacere di cader a terra, fracassarsi la testa e finirla. In vece, no; la Rachele la teneva serrata con le braccia come in una morsa; e per quanto facessero il diavolo e peggio tutte quelle bimbe, non riescì loro d'impadronirsi del giocattolo. A un tratto, un'idea che le veniva dal sangue paterno balenò alla figliuola del rigattiere: - Chi vuole la bambola mi dia due soldi! - disse. - La vendi? - chiesero le amiche. - Oh, no, sarebbe troppo poco! La presto per una giornata. - La dài a nolo, vuoi dire. Ah, ah, Rachele dà a nolo la pupattola, come una sottana! Ma in quel circolo la cosa parve tutt'altro che stravagante. Soltanto, le piccole femmine si guardaron tra loro un po' confuse e nè anche si frugavano in tasca. - Io non ho soldi! - cominciò a confessare una di esse. - Io neppure! - aggiunse un'altra. - Mamma non mi dà mai nulla. Non ha soldi per sè! dichiarò una terza, con voce dolce e piagnucolosa. Ma una creatura assai piccola e un po' gobba si fece avanti fra tutte, a spintoni, e allungando la mano mostrò un soldo. - Non ho che questo; lo vuoi? - chiese alla Rachele. La proprietaria della pupattola scrollò la testa arruffata: due soldi dovevano essere; e ne fece il segno col pollice e con l'indice alzati insieme. - Non ho altro - ripetè la gobbetta, che doveva morir dalla voglia d'avere un po' seco la Giulia, se in vece di cercar a guadagnare denaro ne spendeva. Dopo un battibecco, sistemarono l'affare: Rachele si sarebbe contentata d'un soldo e l'altra avrebbe tenuta la bambola soltanto mezza giornata. Chi rimase male tra quelle bimbe con le saccocce vuote, fu Sarina, la quale avea detto che sua madre non le dava mai niente perch'era troppo povera. Si coprì la faccia col grembiule e andò a piangere vicino al muro, volgendo le spalle a tutti. - Che hai, Sarina! - le domandò, avvicinandosele, Attilio, ch'era stato attirato anch'egli nel cortile da quel vocìo di fanciulli più chiassoso del solito. La bambina seguitava a piangere senza rispondere: le spalle esili le sussultavano per i singhiozzi. Il ragazzo la tirò prima per un braccio poi per l'altro, per farla voltare, ma inutilmente; infine, la prese per il mento e la guardò a forza in viso. - Che hai? Voglio saperlo! - ripeteva con premurosa insistenza. Lei scrollava la testa; non poteva dir nulla; avea la gola chiusa. La gobbetta, in tanto, passava, portando trionfalmente in braccio la pupattola. - Te lo dico io che cos'ha - intervenne a dire ad Attilio una amica della Rachele. - Tua sorella ha affittata la bambola a Umberta, e Sarina è rimasta a denti asciutti. Il ragazzo non capiva, sicchè dovettero spiegargli la faccenda. - Da' subito la bambola a Sara! - ordinò egli alla sorella con piglio rabbioso. Seria, come chi vuole esser giusto nel suo commercio, la Rachele obbiettò: - Umberta ha pagato. - Per Sarina ti pago io, ma a pugni! - esclamò minaccioso Attilio. La Rachele, aspra e fredda, rispose: - Il babbo ha regalata la pupazza a me; io ne faccio quel che mi pare, e voglio affittarla per guadagnar dei soldi. Tu, che c'entri? - T'ho detto che per Sara ti pago io! La sorella gli piantò in faccia i suoi provocanti occhi zingareschi, e pronunziò come una sfida questa sola frase: - Staremo a vedere. Il dissenso non era nuovo tra' figliuoli del rigattiere, che vivevano come cane e gatto. Un'invidia sorda eccitava il maschio contro la femmina, la preferita del padre; e Rachele, alla sua volta, si vendicava di questa malevolenza, facendo la spia al vecchio quando Attilio, di nascosto a tutti, regalava qualcosa a Sarina. Codesta fanciulla, secondo lui, doveva essere considerata come la sua sposa; da quattro anni glie l'aveva promesso: tanto che la bambina lo chiamava ingenuamente suo marito. La sera della piccola baruffa qui innanzi raccontata, la Rachele non mancò di raccontare ogni cosa al proprio babbo. Da principio il vecchio sorrise. - Ah, era proprio figlia sua quella creatura che avrebbe fatto uscir denaro dalle pietre! - Ma quando udì delle prepotenze d'Attilio, in favore di Sarina, entrò in una collera da scimmia, che l'agitava tutto nervosamente, facendogli fare i garbi più buffi. - Scellerato! Aspetta! - strillava con voce nasale, battendo la mano nodosa su la tavola da pranzo, nuda e nera. - Aspetta che ti voglio proprio dare una lezione co' fiocchi! - In quello rientrò in casa Attilio, che volse subito uno sguardo selvaggiamente iroso alla sorella. Aveva capito di che si trattava. Il vecchio l'apostrofò: - Tu t'arrischi a minacciar la Rachele, eh? - - Rachele è un'avaraccia senza cuore - dichiarò a testa alta il ragazzo. - Lucra perfino su la bambola! - E fa bene! - sentenziò il padre. - Non ruba nulla; lucra con la roba sua. - Questo non mi piace - disse il fanciullo - non deve profittare d'un'amica, di... Sarina. - Non avesse mai pronunziato quel nome! Il rigattiere e la Rachele, che si sentiva sostenuta dal padre, gli scaricarono addosso un monte d'improperie, rimproverandogli di portar via chi sa quanta roba di casa per darla a quella sorniona smorfiosa. - Non dite cattive parole, veh! - urlò Attilio - o manco di rispetto al babbo; e a te, vedi, sfascio il muso! - L'ultima frase era rivolta alla sorella, alla quale egli avrebbe dato subito quanto prometteva, se il padre non lo avesse rincorso fino giù, quasi a mezzo le scale, dove una sola persona alla volta poteva passare. - Faccio io un dispetto alla Rachele, oh, se glie lo faccio! - avea gridato il ragazzo, aprendo l'uscio di strada e correndo fuori. La Rachele ammutolì, accigliata, pensosa. Per diversi giorni la pupattola andò ora nelle mani d'una bimba ora in quelle d'un'altra: tutte mani sconosciute, ombrate di nero, che avevan portato il loro soldo alla figliuola del rigattiere. Impossibile dire la tristezza della Giulia in quelle giornate varie e pur sempre eguali. Il sentirsi sballottar di qua e di là; l'essere spogliata, poi rivestita, messa a dormire, poi svegliata, era per lei un tormento dei più crudeli e faticosi. In tanto, i suoi capelli, un tempo così belli e biondi, adesso d'un castagno sporco, cadevano strappati dai diversi pettini che usavano quelle mani inesperte; ormai ella non conservava d'intatto altro che il viso, sempre roseo, leggiadro, come uscito allora dalla fabbrica, massime quando a qualche bimba saltava in testa di lavarglielo. La gobbetta, con gran corruccio d'Attilio, era la fanciulla che più si godeva la Giulia, fantoccio assolutamente insensibile in quelle ore. Invece, a Sarina non era mai riuscito d'averla, non ostante che «suo marito», per contentarla, avrebbe speso anche parecchi soldi. Non c'era verso che la Rachele glie la cedesse per un poco. - È affittata - dichiarava invariabilmente. Ed era vero: la zingarella speculatrice avea trovato modo di farsi uno o due soldi tutti i giorni col prestar la pupattola. Il rigattiere gongolava. - Che talento! - esclamava, parlando della sua figliuola. - Quella mi fa sperare che morirà ricca! - Una volta che la Giulia avea passato parte della giornata presso una bimba sordo-muta, figlia di un orefice abbastanza agiato che vendeva oro e gemme con pagamento a un tanto il mese, esercitando così una specie d'usura senza che i clienti troppo se n'avvedessero, ella fu riportata a casa prima che rincasasse la Rachele, andata a visitare certi parenti, su a Roma Nuova. Fu Attilio che ricevette la bambola dalle mani della piccola sordo-muta. - Questo è il momento! - pensò il ragazzo, aggranfiando la Giulia e portandola in fondo al retrobottega, all'ombra d'un armadio. Un istante, esitò. O non era meglio dare il giocattolo a Sarina perch'ella ci si divertisse a suo piacere? No; era troppo buona Sarina; non avrebbe, certo, tenuto una cosa a dispetto della persona cui apparteneva, tanto più non potendola pagare. Bisognava, dunque, dare un dispiacere alla Rachele, null'altro. Che fare? Tagliuzzar l'abito, magari il corpo della pupattola? Ma la Rachele l'avrebbe coperta d'un'altra veste, facendo, per di più, frustar lui, Attilio, dal padre. Qualcosa di peggio, allora. E andò a frugare in un cassetto di cianfrusaglie per cercarvi un vecchio temperino irrugginito, ridotto quasi una seghetta, tanto avea la lama intaccata. Poi, presa la Giulia, la distese lunga sur una panca dov'egli saltò a cavalcioni, e si curvò tutto sul viso di lei, che teneva fermo. La bambola, spaventata, avrebbe voluto far un balzo indietro e gridare aiuto, misericordia, perchè l'assassinavano. Ma dovette sopportar, come sempre, (così facciamo anche noi!) il proprio destino, e abbandonarglisi in silenzio, immobile. Attilio cominciò a passarle il temperino su le guance, facendo in lutto e in largo de' fregacci a uso croci. La lama rozza e guasta raschiava la fine porcellana, portandosene via il bel color di rosa e solcandola tutta di rughe. Per la Giulia, ognuno di quegli sfregi in faccia era peggio d'una coltellata in cuore; non che a lei, ormai, importasse più della sua bellezza, triste e finita come si sentiva; ma l'addolorava quella viltà commessa sur una povera cosa che non aveva alcuna colpa dei rancori sciocchi e perversi tra' due fratelli. Il temperino continuava a deturparla: l'aveva ferita in torno agli occhi, sul mento, su la fronte, da per tutto, stridendo sinistramente: come un malvagio che rida mentre fa una cattiva azione. Quando ella non fu più che un mostro, cessò il supplizio, e Attilio, con un riso diabolico, guardandosi bene attorno per paura di esser visto, andò a buttar il giocattolo rovinato sul letto della Rachele. Costì la Giulia ricordava e rifletteva: - Ah, Signore, è proprio vero che non bisogna mai lagnarsi d'un male, perchè può capitarne uno peggiore. Un giorno, bella, ricca, vanitosa, era diventata brutta, e povera, avvilita; amava una creatura al punto di sentire antipatia per tutte le altre, e quella era morta; le pareva d'essere l'ultima delle infelici in quella casaccia, e adesso... adesso, per di più metteva paura a chi la vedeva! Nella sua desolazione un pensiero la consolò: s'ella era ridotta a quel modo, nessuna bambina l'avrebbe più voluta pagare nè anche la miserabile moneta di un soldo; e non le sarebbe più stata inflitta l'umiliazione di esser ceduta a ore, cambiando ogni momento di padrone e d'abitazione. Quando la Rachele, tornata tutta allegra da casa de' parenti, trovò la sua pupattola ridotta in quello stato, il pallore giallognolo del viso le si fece addirittura terreo. Indovinò che il tradimento era stato di Attilio: da quell'invidioso tutto amore per Sarina si aspettava qualunque brutta cosa. Lo avesse almeno avuto fra le mani come aveva la bambola! Ma a punirlo ci avrebbe pensato di sicuro, il babbo; non dubitasse il signor Attilio! Della Giulia, non ebbe alcuna pietà; il suo solo rincrescimento era di non potersene più servire per darla a nolo. E di nuovo il pensiero le corse a suo padre, che le avrebbe in qualche modo procurato qualche altro giocattolo, ora ch'ella si era avvezzata a quella piccola speculazione. È impossibile descrivere la scena ch'ebbe luogo tra il rigattiere e il figlio, quando la Rachele mostrò al padre la pupazza sciupata. Attilio si buscò almeno una mezza dozzina di scapaccioni, che, del resto, s'era ben meritati; ma dietro le spalle del vecchio diede alla sorella un tale spintone da mandarla a sbattere contro il muro. Nel parapiglia ci andò di mezzo anche la povera Giulia, che cadde bocconi sotto la tavola, e lì rimase tutta la notte, sul pavimento umido, fino che il giorno di poi il vecchio la raccattò per portarla in una soffitta che gli serviva per la roba da sbratto; certa roba così impolverata e ammuffita da obbligare un cristiano, vedendola, a farsi il segno della croce. Ah, se Camilla, la sua Camilla fosse tornata al mondo, chi sa che pianto!

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Nel tempo stesso un corpo pesante rotolò da una catasta di cenci, le passò su la testa, e venne a caderle a' piedi. Ella si smosse all'urto, e guardò: un fagotto di legno, di carta inargentata e dorata, con uno spadone in mano, giaceva disteso per terra. Le cose, tra loro, s'intendono: perchè hanno un linguaggio comune, come gli uomini e come le bestie; ciò nondimeno la Giulia, già tanto avvilita dalle recenti disgrazie, non osava interrogare il nuovo venuto. Ma questi, senza punto scomporsi, incominciò:

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A quella voce, a quella figura, la povera Giulia si senti quasi venire le lagrime agli occhi. Chi era quest'Orlando che le parlava cosi minaccioso? E proprio, davvero, aveva fatto tutto quello di cui si vantava? Certo, il visino ferito della Giulia doveva esprimere l'animo suo, perchè Orlando soggiunse:

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- disse la Giulia fra sè, seguitando a fissare co' suoi larghi occhi azzurri l'individuo che le stava davanti. Costui era armato di corazza e di gambali, aveva l'elmo levato, onde veniva fuori un volto acceso con due gran baffi; in una mano teneva uno spadone e nell'altra lo scudo. Vedendo che la Giulia non rispondeva, egli riprese:

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Lei mi fuggiva; io dietro a lei, per selve, per monti, per piani; ma ogni cinque passi, tàffete! eccotene un altro che mi si parava davanti per impedirmi il cammino. Erano, si capisce, botte da orbi.

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Quanto a me, niente paura! persino la camicia avevo di ferro. È vero che il pubblico, davanti a cui si dava lo spettacolo, mi batteva le mani e mi tirava buccie di cocomero, in segno d'ammirazione; ma, in tanto, Angelica fuggiva, e non c'era più verso di rintracciarla. - Un profondo sospiro s'esalò dal petto del burattino disteso per terra: la Giulia ebbe come una scossa. Nel suo povero cuore di bambola cominciava a farsi strada una grande pietà per quel gran fantoccio così curioso, così spaccone, e che doveva egli pure aver tanto sofferto in questo mondo! - Bei tempi! - riprese l'altro. - Bisognava vedere la sera, verso l'avemaria, quando cominciava la rappresentazione, tutta la gente che si pigiava davanti al nostro teatro. Eran soldati, operai, serve, balie, bambini, che si contendevano i posti migliori, che leticavano, strillavano, ridevano: un baccano d'inferno. Ogni tanto Don Giovanni, il burattinaio, un omone con una gran barba, affacciava la testa di tra le quinte, e gridava al colto pubblico e all'inclita guarnigione: - Silenzio, canaglia! - Allora era una tempesta d'urli, di fischi, di contumelie e di patate che si rovesciavano sul palcoscenico; ma non voleva dire: la gente ci voleva bene, e ci dimostrava la sua affezione a quel modo. Ma quando la piccola orchestra intonava un motivo di marcia, e uno de' guerrieri usciva fuor delle quinte, tutti tacevano: si sarebbe sentita volare una mosca. Io poi, non faccio per dire, ero proprio il beniamino del pubblico. Mi ricordo quando venivo a scoprire che Angelica aveva sposato Medoro, ed eran passati insieme nell'India; e io, venuto a scoprire il tradimento, davo in ismanie.

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A quest'ultimo verso anche i cani, in tutto il teatro, abbaiavano; le donne piangevano; gli uomini gridavano: - Dàlli a quella sgrinfia! - Ammazzala, quella poco di buono! - Mandala al diavolo, quella birbona! Ti giuro che, delle volte, mi venivano i lucciconi anche a me. Acqua passata, dirai... Eh, lo so purtroppo: che ci si fa? Bisogna rassegnarsi a' decreti della Provvidenza. Di lì a qualche tempo il padrone fallì, e dovette vendere, è il caso di dirlo, baracca e burattini, tutti i paladini di Francia, tutte le belle donne d'Asia e d'Europa: totale, quattro lire e cinquanta centesimi: la sola corona di Carlo Magno valeva di più. Girammo ancor qualche mese per la Ciociaria, per i castelli romani: ma cosa vuoi? Il nostro padrone non c'era più a farci parlare con quella sua bella voce di basso profondo: quest'altro, il nuovo padrone, aveva una vocetta di ragno che faceva compassione. Non si poteva andare avanti, via! E una sera, per dispetto, m'hanno buttato qui, in mezzo agli stracci. Pazienza! - E fece un altro sospiro, più forte del primo. La Giulia, che da principio aveva avuto paura di trovarsi così sola con un facinoroso di quella fatta, a poco a poco, dopo averne udita la storia, cominciava a riconciliarsi con lui. Era, in fine, suo prossimo, un fantoccio come lei, e come lei aveva sofferto tanto! Ora i patimenti hanno almeno questo di buono: che ci fanno amare tutti coloro i quali sono caduti nella nostra stessa miseria. La Giulia, dunque, andava quasi dimenticando il suo proprio stato per commiserar quello del povero Orlando, e lo guardava con una gentilezza commossa, con una pietà quasi fraterna, che non si sarebbe immaginata davvero di dover mai provare per un burattino. Quand'egli tacque, e non accennò più a parlare, la bambola ebbe quasi rimorso di non avergli ancóra rivolta la parola: le pareva d'averlo ingiustamente mortificato. E, per rimediare in qualche modo alla mala fatta, gli disse con una vocina sottile, sottile, così sottile che uno di noi non avrebbe potuto udirla, vera vocina da bambola: - Io mi chiamo Giulia. Un'altra risata fu la risposta del burattino. La bambola Io guardò tristemente: perchè si faceva beffe di lei? - Giulia? - rispose Orlando - ma ti par egli un nome, cotesto? Ti chiamassi almeno Logistilla, come la sorella d'Alcina, o Marfisa, come la sorella del mio amico Ruggiero, quello che sposò la valorosa Bradamante, o Olimpia o Ginevra - ma Giulia!... Non ho mai sentito dire che un cavaliere errante avesse, in famiglia, nessuna donna che portasse un nome simile. Ma già, per fortuna, il nome non vuol dir nulla, come nè pure la nascita: l'uomo va giudicato dalle azioni. - Meno male! - pensò la Giulia, a cui quest'ultima osservazione avea ridato un po' di coraggio. - E tu che vita hai fatta? - le domandò Orlando.

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Il burattino non fece parola, ma rifletteva di certo alle parole della bambola: alla fine, quasi rispondendo piuttosto a' suoi stessi pensieri che a quelli della sua amica, mormorò: - Eh sì! qualcuno che ci voglia bene è necessario come il pane. Io non son troppo dolce di cuore, ma sento che per Angelica avrei fatto non so che cosa! Lei non si meritava nulla, questo è vero, ma in somma... - Era poi bella di molto, codesta Angelica? - domandò la Giulia, non riuscendo a dissimulare una certa amarezza. - Bella, non dico: intanto era meno bianca di te. E poi le piaceva troppo di girare, e per una ragazza ammodo, ciò non va bene. Aveva i capelli neri e crespi, come una mora: a me i capelli biondi piaccion di più; che so? c'è più grazia. E poi anche andava sempre a cavallo, tanto da far sospettare o che fosse zoppa o che avesse calli ai piedi. Insomma, sai che ti dico? aveva la bellezza dell'asino: era giovine; ecco tutto. Questa volta fu la Giulia quella che, non ostante la sua malinconia, diede in una grande risata. E rispose: - Come? e per una donna così tu hai potuto fare tanti spropositi? - Ma allora io non ti conoscevo! - esclamò ingenuamente il paladino di Francia. La bambola gradì il complimento; e solo per modestia finse di non intendere. Il burattino riprese, con grande tristezza. - Io ti devo far paura, tanto son brutto. Sfido io! con tutti questi ferravecchi addosso! Oggi piacciono i bellimbusti profumati e azzimati; un soldataccio come me, a chi può egli piacere? - Oh questo poi, no! - rispose la Giulia. - Io sono una bambola, è vero; ma t'assicuro che preferisco la conversazione d'un bravo soldato, d'un uomo di cuore e d'onore, anche se fa un po' di paura... - Con questa grinta! - interruppe Orlando. - ... a quella di que' frustini che non sanno far altro che ronzare attorno come i mosconi; e non hanno nè dignità, nè amor proprio, nè coraggio, nè nulla. I soldati, almeno, son sempre pronti a difendere il re, la bandiera e la patria, anche a costo del loro sangue; proteggono i deboli contro gli oppressi e non si lasciano soverchiare da certi facinorosi perversi... - E la poverina, facendo quell'allusione al cattivo ragazzo che l'aveva sfregiata a quel modo, si sentiva venir di nuovo i singhiozzi alla gola. - Ah, certo! - proruppe Orlando, un po' rincorato da quelle buone parole - se qualcuno ora volesse ingiuriarti, l'avrebbe da fare con me! Ho saputo mettere a segno ben altri musi, io! E poi, già, è inutile; anche se non ti volessi bene, io non posso veder maltrattare le donne. E chiunque ha una madre, una sorella, la deve pensar come me, se non è l'ultimo de' furfanti.

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. - Capisco - riprese Orlando - a te rincresce d'aver perduto gli agi, la bellezza, tutto ciò che a molti sembra invidiabile nella vita. Eppure, credi a me, i più felici son sempre quelli che han meno preoccupazioni di questo genere. Guarda i contadini: freschi, sani, allegri: eppure nessuno vanta la loro bellezza; nessuno desidera i loro vestiti di frustagno e il pan nero del loro desco. Grullerie, ti dico! La pace dell'anima, ecco quel che ci vuole - e, s'è possibile, qualcuno che ci voglia bene davvero!

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