Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Il drago. Novelle, raccontini ed altri scritti per fanciulli

246717
Luigi Capuana 50 occorrenze
  • 1895
  • Enrico Voghera editore
  • Roma
  • Verismo
  • UNICT
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Mi accade, qualche volta di dimenticare a casa il portamonete, specialmente quando muto abiti e faccio in fretta. E ogni volta, quasi un maligno genio voglia divertirsi a mie spese, appunto allora sento il bisogno d'entrare in un negozio per comprare qualcosa. Tastarsi le tasche e non trovare il portamonete è ridicolo, e il primo a riderne sono io; ieri l'altro però questa storditaggine mi ha fatto rabbia. Andavo piano piano per via Quattro Fontane. In una delle porte a destra ha stabilito la sua rivendituccia di giornali e di fiammiferi un poveretto, che nei momenti della colazione e del desinare abbandona il negozio all'onestà dei passanti e della fida clientela che si serve da lui. Quel giorno, alla rivendita dei pochi giornali e dei fiammiferi, egli aveva aggiunta una primizia; improvvisandosi fruttaiuolo, teso un filo raccomandato a due chiodi, vi aveva messo a cavalcioni un gruzzoletto di ciliege immature, gialliccie, minutine. La via era quasi deserta. Sul marciapiede, davanti a me camminava una povera donna, che guidava il figliuolo cechino, di dodici o quattordici anni, e miseramente vestito. Arrivati a quella porta, la donna si fermò esclamando : — Oh!... Le ciliege! — Di già, mamma? Di già? Chi sa come sono belle! — Guarda. E preso il braccio del ragazzo, gli avvicinò la mano alle ciliege pendenti dal filo. Il ciechino cominciò a palparle, delicatamente, a una a una; e gli occhi senza pupille gli si dilatavano dal piacere, e la faccia gli sorrideva tutta in estasi, quasi per la via del tatto gli arrivasse al palato il sapore di quelle meschine frutte, che egli non poteva distinguere se buone o cattive. E ricominciò da capo, delicatamente, come se palpasse qualcosa di sacro, sorridendo sempre agitando le labbra e la lingua per meglio gustare il sapore ideale. Mi ero fermato dietro a loro, curioso di vedere la fine di quella scenetta; la povera donna sorrideva anche lei al sorriso del figliuolo, e non s'era accorta di me. A un tratto, tirò indietro il braccio del ciechino, e a bassa voce gli disse: — Se avessi un soldo, te le comprerei. Il ciechino, lieto e contento di aver almeno potuto toccarle, si strinse nelle spalle, rassegnato. Passarono oltre. Corsi con la mano al taschino del panciotto... Avevo dimenticato a casa il portamonete! Ma questa volta non risi; e tutta la giornata fui invasato dalla tristezza di non aver potuto fare, così a buon mercato, una buona azione. Povero ciechino, come sarebbe stato felice con due soldi di ciliege ! Ed io ero più mortificato, perchè — bisogna che lo confessi — all'atto della donna, avevo subito sospettato che, approfittando dell'assenza del rivenditore, volesse rubare quelle ciliege, con la scusa di farle palpare al figliuolo. Oneste creature, non vi dimenticherò mai! Quanto vi ho ammirate in questi giorni, ripensando a voi! Mi avete richiamato alla mente il precetto di non essere troppo corrivi nel giudicare le azioni altrui; e forse sarà merito vostro se, da ora in poi, non dimenticherò più il portamonete.

Le due bambine, che s'erano messe a giocare presso il muricciolo del ponticello dove la zia le aveva appostate per chiedere l'elemosina ai passanti, alla vista del vecchio che arrivava a cavallo all'asino, s'erano subito rimesse a sedere, la maggiore sul muricciolo, la minore per terra ; e ripetevano insieme sottovoce: — Uh! Il Drago! Il Drago! Don Paolo Drago — drago di nome e di fatto, diceva la gente — arrivato davanti a loro, si era fermato, trattenendo l'asino con una leggera tirata della cavezza. — Che fate qui? — le sgridò; — tornate a casa, e dite a quella strega di vostra zia: Don Paolo non vuole che domandiamo l'elemosina! Tornate a casa. E vedendo che le bambine non si movevano, fece una specie di grugnito minaccioso, che le impaurì. Infatti quella mattina finsero d'andare via zitte zitte, e allo svolto dello stradone si fermarono, aspettando che don Paolo si fosse allontanato; poi, saltellanti, tornarono al loro posto, la maggiore sul muricciolo, la minore per terra: questa spettinata, scalza, con la camicia a brandelli; l'altra, scalza anche lei, ma un po' più ravviata, col fazzoletto azzurro di cotone, a palline bianche, avvolto attorno alla testa. Il Drago, come ordinariamente lo chiamavano, abitava di faccia a loro; e la sera, al ritorno dalla campagna, trovatele davanti all'uscio di casa, domandò alla maggiore, col 'tono burbero che gli era abituale: — Dov'è quella strega di tua zia ? — l fuori di casa. — Glie l'hai detto: Don Paolo non vuole che domandiamo l'elemosina? — No. — Glielo dirò io. E aspettò, alla finestra, che la vecchia ritornasse. Brutta e sudicia, ella arrivava con un canestro vuoto al braccio, borbottando e trascinando la gamba storta. Don Paolo l'apostrofo di lassù: — Come? Mandate quest'orfanelle a domandar l'elemosina? Non vi vergognate, stregaccia? — Dategli da mangiare voi, — rispostò la vecchia, — voi che non date neppure una buccia di fava a un cristiano! — Io non sono suo parente e non ne ho l'obbligo! Fossero almeno ragazzi! — Andate all'inferno, voi e i vostri quattrini! E la strega, fatto un cenno alle bambine perchè entrassero in casa, gli voltò le spalle e infilò l'uscio. ***

E intanto che la zia saliva su in camera, le monache si divertivano a gara a interrogare la piccina. — Vuoi venire a star qui con noi? — E la mamma? Resterebbe sola sola. — Verrebbe anche la mamma. — E la maestra? — Anche lei, se tu vuoi. — E il maestro d' inglese? Le monache soffocarono una risata; non poterono rispondere: Verrebbe anche lui. Vedendo che la bambina guardava ansiosamente dalla parte per dove la zia era sparita, una monaca disse: — Tu guardi se la zia arriva. Eh, ti piacciono i dolci? — Piacciono anche a te; te li fai tu stessa. — Ma io non ne mangio. — Perchè? Sei in gastigo? Quando sono cattiva, la mamma mi dice: — Niente dolce a tavola! — Oppure: — Niente frutte! La bambina parlava con tanta grazia, con tanta ingenuità, che le monache se la sarebbero divorata dai baci, se non ci fosse stata di mezzo la doppia grata. Enrichetta si mise subito a sgretolare allegramente uno dei dolci portatile dalla zia; e mangiando, guardava il Bambino, caso mai si svegliasse. Il Bambino Gesù continuava a dormire, con la guancia su la manina. — Zia, quando si sveglia ? — Domattina. — Dorme troppo ! — Bada però ; non fare la cattiva a casa, altrimenti il Bambino Gesù se ne ritorna qui. Enrichetta ritirò il collo, alzò le spalle, mise graziosamente l'indice su la bocca, e riprese a sgretolare il dolce. ***

Invano il babbo diceva a Masino: — Non bisogna aver paura di niente! Masino aveva paura di tutto, specialmente quando trovavisi solo in qualche stanza dov'era entrato credendo che vi fosse qualcuno. Vedendosi là solo solo, senza nessuna ragione cominciava a urlare pestando i piedi, coi pugni su gli occhi, tremante come una foglia : — Sciocco, perchè urli ? Che è stato ? — Niente, — egli piagnucolava. — Ero solo! — E avevi paura, al solito! Ma di che? Chi ti poteva far male qui? Le seggiole, la poltrona, i tavolini? Chi? Parla! — Mi era parso... — Che cosa? Non gli era parso niente; ma oramai aveva preso quell'aire, quell'abitudine di montarsi la testa con la fantasia d'un pericolo ignoto, appena vedeva che non c'era lì pronto nessuno che potesse difenderlo; e si metteva a tremare e a urlare. Zina, sua sorella e minore di anni di lui, invece era coraggiosa, quasi audace per la sua età e si faceva beffa di Masino e gli dava del poltrone, come aveva inteso chiamarlo al babbo. Quando Masino era cattivo con lei, ella lo minacciava: — Bada! Ti faccio una paura! E gliela faceva quasi subito; e Masino ci cascava sempre, quantunque anticipatamente avvertito. Da qualche tempo in qua, egli sentiva vergogna di questa sua debolezza, di questa sua inferiorità fin a una fanciulla minore di anni di lui; ma non riusciva a reagire contro la prima impressione. Ed era inutile che il babbo si sforzasse a fargli capire quanto male poteva produrgli quella viltà indegna di un ragazzo, d'un uomo, come lo adulava il babbo per correggerlo. — Non bisogna aver paura di niente; anche quando uno si trova di fronte a un pericolo certo. La paura turba la mente, impedisce di ragionare. Se un cane ti corre incontro per morderti e tu hai paura, che fai? Chiudi gli occhi, rimani li impalato, e il cane ti piomba addosso e ti morde fortemente. Se la paura non ti avesse turbato, avresti pensato al modo di evitarlo, di difenderti, e non saresti stato morso. Capisci ? Quella stanza è al buio, bisogna traversarla. Tu sei certo che lì non c'è nessuno, che i mobili e l'aria non possono farti male: di che cosa hai paura dunque ? — Di nulla... Ma... ho paura! — confessava Masino ingenuamente. Allora il babbo pensò, di guarirlo procurandogli a posta delle paure, e facendogli, dopo, osservar da vicino gli oggetti che lo avevano impaurito. Erano in campagna per la villeggiatura. Verso sera lo prendeva per una mano e lo conduceva a traverso i campi. Di tratto in tratto, come si faceva più buio, il babbo sentiva che Masino gli stringeva la mano più forte e gli si teneva attaccato ai panni, o faceva un movimento quasi per accostarsi. Al lume di luna, i tronchi degli alberi, i massi prendevano aspetti strani. — Guarda lì; quel tronco non pare un animale? Avviciniamoci. Dov'è più l'animale, il mostro? E tu hai avuto paura, quantunque io sia con te. I tronchi, che male possono farti? Masino taceva. Aveva avuto davvero paura di quel sembiante di animale, di mostro che pareva li attendesse al passaggio; e quasi non sapeva persuadersi che la figura vista da lontano fosse proprio quella stessa che ora vedeva da vicino. E il babbo lo trascinava avanti pel silenzio della campagna. — Guarda lì. Dal tremito della mano del ragazzo, egli aveva indovinato. A pochi passi da loro, sembrava vi fosse una persona accoccolata in atteggiamento minaccioso. Si vedeva la faccia, gli occhi, il naso, i vestiti, il bianco della camicia......ed era un sasso che al lume di luna, per uno scherzo di luce e d'ombra, assumeva sembianze umane, atteggiamento umano. Masino spalancava gli occhi e seguiva, un po' riluttante, il babbo che lo costringeva ad avvicinarsi colà. — Capisci? È un sasso. Vedi che cosa è il naso? Questa piccola sporgenza; questi, son gli occhi, due buchi pieni d'ombra. Se tu fossi stato solo, avresti gridato, saresti forse scappato via; davanti a chi? Davanti a un sasso inerte! Bella figura avresti fatto! Masino taceva, meravigliato che quel sasso, visto a distanza, potesse prendere così preciso aspetto d'uomo accoccolato, che vuol nascondersi. Il babbo gli faceva ripetere la prova. — Capisci ? Ora tu sai che quello è il sasso che hai visto da vicino; eppure, da qui, torna a sembrare un uomo col naso, con gli occhi e ogni cosa. Ma è sempre quel sasso. Capisci? E gli raccontava che una volta, da giovane, era stato illuso anche lui da uno di quegli scherzi di luce e d'ombra. Aspettava, davanti una chiesuola, un amico che era salito a fare un'imbasciata nella casa vicina. C'era un plenilunio meraviglioso; l'ombra della chiesetta si proiettava fino a metà del largo; e lì di faccia, le casupole erano inondate di luce quasi come in pieno giorno. Una di quelle casupole aveva una scala esterna. Aspettando l'amico, egli vedeva su per la scala una donna fermatasi a guardare, con un piede poggiato per salire, e con in testa un fagotto di panni sorretto da un bracccio. L'amico tardava, e la donna non si muoveva; pareva incantata dalla curiosità. All'ultimo, seccato di quell'insistenza, egli aveva rivolto la parola a colei: — Che sta a guardare ? — La donna non si mosse e non rispose. — Che sta a guardare, dico? Vada pei fatti suoi. — La donna non si mosse e non rispose. Indispettito, si accostò, minacciandola con la mazza.... Era il muro! Una strana combinazione di sassi, di mattoni, di gesso screpolato producevano, a poca distanza, la completa illusione di quella figura femminile. C'era da strabiliare. E non era stata un'illusione dei suoi occhi soltanto. Quando l'amico ritornò, egli, additandogli il muro, gli disse : Guarda! E anche colui vedeva la donna, sul muro inondato dal lume di luna. E stettero lì più di mezz'ora, avvicinandosi, scostandosi, meravigliati che un miscuglio di sassi d'ogni colore, di mattoni e di gesso screpolato potesse produrre quel meraviglioso effetto pittorico. Se non si fossero accostati, sarebbero rimasti nell'illusione di avere visto proprio una donna fermatasi a mezza scala, per curiosità, a guardare. Dopo un mese di passeggiate di questa natura, Masino si sentiva scosso, convinto della propria sciocchezza, ma... C'era un gran ma. Alla prova, quando il babbo non era con lui, la paura tornava ad afferrarlo. Ora però ci ragionava un po' sopra, ma aveva paura egualmente. Occorse un caso straordinario e che gli effetti della irragionevole paura fossero gravi, perchè egli vincesse completamente quella sua debolezza. E il caso fu questo. Una sera di ottobre, la famiglia era radunata in salotto. La mamma lavorava con l'uncinetto, il babbo leggeva il giornale. Masino e Zina si divertivano a guardare le incisioni del Don Chisciotte, del Dorè, comprato dal babbo la mattina. Tutt'a un tratto, il babbo disse a Masino : — Apri l'imposta del balcone, fa troppo caldo qui. E Masino corse ad aprire e si affacciò per guardare nella via. Un urlo di spavento! E il ragazzo si precipitava nella stanza, pallido come un cadavere, convulso. Per un pezzetto non ci fu verso di cavargli di bocca una parola. Poi cominciò a balbettare: — Un mostro!... Un gigante!... È apparso ed è sparito! — Ma che mostro? Che gigante? Sciocco, vieni a vedere! Questa volta Masino resisteva e urlava tanto, che il babbo volle prima affacciarsi per capire di che cosa si trattasse. E per poco non ebbe paura anche lui. A pochi passi, un' ombra grigia, grande, gigantesca gli si era rizzata davanti. Ma il babbo capì subito. C'era una nebbia fitta; affacciandosi al balcone, il lume dal tavolino proiettava l'ombra della persona su la nebbia, ingrandendone smisuratamente le proporzioni. Pareva proprio di avere dinanzi un gigante. Il babbo rise e chiamò Zina e la moglie perchè osservassero anche loro il bizzarro fenomeno. Zina si divertiva, batteva le mani, faceva delle mosse con la testa e con le braccia per vederle ripetute dall'ombra, e chiamava Masino. — Vieni a vedere ! Com'è bello! Masino allora si lasciò trascinare dal babbo al balcone, dopo che ebbe ben spiegata l'apparizione gigantesca, e si divertì anche lui a far mosse con la testa e con le braccia. Ma il colpo della paura aveva già prodotto il suo cattivo effetto. Masino si ammalò gravemente. Quando fu guarito dalla malattia, era però anche guarito dal vigliacco sentimento della paura. E quando gli capitava, ripeteva alla sua volta ai compagni: — Non bisogna aver paura di niente.

Non c'era desiderio del figliuolo ch'egli non s'affrettasse subito a soddisfare; ma sapeva pure mostrarsi severo, appena il bambino accennava di diventare troppo capriccioso. Bastava un' occhiata, un motto di rimprovero del babbo per ridurre Lulù tranquillo ed obbediente. E quando il babbo non era in casa, bastava che la mamma dicesse semplicemente: — Va bene !... — con tono di reticenza minaccioso, perchè Lulù smettesse di fare il cattivo. Ormai egli sapeva che quel: — Va bene! - significava : — Lo dirò al babbo ! — E la sola idea di non ricevere le solite carezze e i soliti regalini — giacchè il babbo non tornava mai a casa senza portar qualcosina per lui — lo infrenava, lo arrestava anche a mezzo della più focosa capestreria. Un giorno intanto Lulù non solamente aveva resistito alla reticente minaccia del: — Va bene! — della mamma, e a tutti gli ammonimenti, e a tutte le preghiere delle sorelline; ma, eccitato, intestato a voler trascinare per casa, a mo' di cavallino, una bella poltroncina del salotto, si era messo a piangere, a pestare i piedi; e s' era rivoltato fin contro il babbo, quando questi aveva voluto persuaderlo con le buone che la poltroncina si sarebbe sciupata trascinandola per terra. Il babbo, pazientato un po', vedendo che il bambino aveva preso un dirizzone di testardaggine, ricorse ai grandi mezzi. — Ah ! Tu fai il cattivo ? Ebbene, io me ne vado via, e non torno più ! Lulù rispose con una spallucciata. Allora il signor Cesare andò in camera, si mise in testa il berretto da viaggio, si buttò sul braccio un plaid, prese in mano la valigetta sempre pronta pei suoi frequenti viaggi di affari, e finse d' abbracciare la moglie e le figliuole, dicendo loro: — Addio! addio ! Non tornerò più. Lulù, a tutto quell' apparato, aveva alzato la testa, fra incredulo e ansioso, cessando di piangere e di pestare i piedi. Il babbo indugiava troppo negli addii, e Lulù non voleva lasciarsi vincere da una finta partenza. Ma appena egli lo vide avviarsi per uscire e gli vide aprire l'uscio, mentre le figliuole e la moglie recitavano la commedia di pregarlo, di tentare di trattenerlo, togliendogli più volte di mano ora la valigia, ora il plaid, ora l'ombrello che quegli tornava riprendere mostrandosi inesorabile, fermissimo nella sua risoluzione, Lulù non stette più alle mosse. Si precipitò, spaventato, dietro il babbo, lo raggiunse sul pianerottolo, gridando : — No, babbo, non andar via! Non lo farò più ! Aggrappato alla valigia, con gli occhi inondati di lagrime e spalancati dal terrore di quella partenza di cui ora non poteva più dubitare, egli pestava i piedi e strillava per un altro verso ; sdegnato che la mamma e le sorelle non lo aiutassero a trattenere il babbo, come avevano cercato di fare poco prima. — No, babbo, non andar via! Non lo farò più ! Il signor Cesare non si lasciò commuovere , si svincolò e scese la prima rampa della scala, dove lo raggiunsero due delle figliuole fingendo di scongiurarlo, mentre le altre due sorelle e la mamma trattenevano Lulù che si rotolava per terra sul pianerottolo, continuando a gridare : — Non lo farò più ! Finalmente il babbo si era arrestato, era tornato indietro, quasi trascinato per forza, e Lulù gli s' era aggrappato alle gambe, singhiozzando da non poter dire una parola; tanto che il signor Cesare, per impedire che avesse una convulsione, aveva dovuto prenderlo in braccio, pur seguitando a rimproverarlo tra una carezza e l'altra, pur seguitando a minacciar di partire alla prima cattiveria, rassicurandolo intanto che quella volta sarebbe rimasto. E il ricordo di questa scena era diventato un vero spauracchio per Lulù. ***

Quest'altro è un povero vecchio, una donnicciuola, un bambino, una bambina a cui per indolenza, per strana repulsione, pel sospetto che chiedano l'elemosina più per mestiere che per bisogno, ho risposto poco prima: Non ho nulla. Allora, fatti pochi passi, mi prende il rimorso di quella carità così stupidamente negata; e quando non ho il coraggio di tornare addietro e riparare la cattiveria, mi propongo l'espiazione: — Darò due soldi a un altro. Una di queste mattine dunque ero a Villa Corsini. Passeggiavo lungo quei viali che non rivedevo da un pezzo. Quanti dolcissimi ricordi riprendevano vita all'ombra fresca dei rami densi, al mormorio delle fronde, tra il verde cupo degli alberi e il verde smeraldo delle erbe! Avevo colto molti fiori, ne avevo piene le mani e li recavo attorno in fascio, seminandone i viali involontariamente; erano tanti che non mi chinavo per raccattare quelli che mi sfuggivano. Poi m'ero messo a sedere sotto un'antico busto di donna o di Dea — non ricordo bene — e tenevo i fiori ammucchiati su le ginocchia, e interrompevo spesso la lettura per ammirare le forme, i colori di quei fiori di campo, quasi li vedessi allora per la prima volta, o fossero fiori rari e preziosi. D'attorno, silenzio solenne, interrotto soltanto da acuti pigolii di uccellini saltellanti fra i rami; di tratto in tratto, qualche prete, o qualche coppia di sposini recenti, che venivano a passeggiare lassù a quell'ora mattutina; e poi silenzio e solitudine di nuovo. Ed ecco in fondo al viale un bambino mal vestito, che s'inoltra lentamente, raccogliendo foglie, stecca, pietruzze. A poca distanza da me, si ferma e mi guarda. Poco prima, al cancello della Villa, m'era accaduto il caso d'essere passato, senza neppure voltarmi, davanti a un poveretto che mi aveva chiesto l'elemosina. Mi ero subito pentito, ma non avevo avuto il coraggio di tornare addietro. Perché? Non lo so neppur io; forse perchè in quel caso fare un po' di bene costava troppo poco. Vedendomi guardare incertamente da quel bambino, dissi al solito tra me : — Gli darò due soldi, uno per lui, l'altro per quel vecchio. E attendevo che egli mi accennasse di voler l'elemosina. Invece continuava a guardarmi, accostandosi con passi indecisi. Quel ritegno mi disponeva maggiormente in favore dello straccioncello, che era anche bellino, bruno, con capelli neri arruffati, senza niente in testa. Ripresi a leggere, fingendo di non essermi accorto di lui, divertendomi a quella modesta manovra, deciso di raddoppiare il mio meschino contributo; e intanto incoraggiavo con l'indifferenza l'animo esitante del bambino. Infatti egli s'era già accostato e mi si era fermato davanti senza dir nulla, quasi temesse di far male interrompendomi. Alzai le testa. — Mi dai una rosa? — egli disse, stendendo la mano. Arrossii, e mi sentii così intenerito che per qualche istante non seppi nè rispondere nè porgergli un ramo dei fiori d'oleandro da lui scambiati per rose. — Prendili tutti, — risposi. Sorrideva, dubbioso; non osava. — Prendili tutti, — replicai. E ficcata la mano in tasca e raccolti i soldi che avevo, glieli misi nel pugno mentr'egli — risolutosi finalmente — abbrancava quanti più fiori poteva. — Perchè? — domandò, dopo aver guardato i soldi. — Te ne comprerai tante chicche. Era così meravigliato, che non mi ringraziò; si allontanò tuttavia stupito della giunta al regalo, si voltò due tre volte, poi si mise a correre stringendo al petto i molti fiori, e sparì tra gli alberi. Ma già io non mi sentivo contento di quel che avevo fatto; mi rimproveravo: — Hai negato poco fa un soldo a un poveretto che forse aveva fame, e ora ne hai dati parecchi a un bambino che non te li aveva chiesti, che certamente non ne aveva bisogno, e che può adoprarli anche male! E quel povero vecchio affamato e quel bambino che voleva soltanto una rosa e aveva ricevuto anche parecchi soldi per le chicche, mi diedero a riflettere che pur troppo sovente nel mondo avviene così, e nessuno sa dire perchè!

GINO (Entrando con diversi oggetti tra le braccia, a Elena). Io il krause e la tuba vecchia del babbo ; tu la veste della zia, che è piccina quasi quanto te... ELENA. Questa veste di percalle, tutta stinta? Non la voglio, non la voglio! CARLO. E a me ? La tuba tocca a me che vengo a fare la visita. LIA (Quasi piagnucolando). Per me ci vuole il cappellino, il ventaglio e l'ombrellino. ELENA. Se lo sa la mamma, ci sgrida. GINO. La mamma tornerà a casa fra tre ore. Figurati! È andata dalla signora Cappelli. (Imitando la voce della sdentata signora Cappelli). Oh, che fortuna! Qual colpo di vento?... Segga... Come sta? Io sono viva per miracolo. Quanti guai, Madonna mia ! Pare impossibile ! CARLO. Lascia stare la vecchia ciarlona... Dobbiamo giuocare alla visita, si o no ? La tuba tocca a me; tu sei in casa. GINO. Prima però il cavaliere torna dall'ufficio. Egli va sempre in tuba al suo ufficio. ELENA (Con accento conciliativo). Gino la ripone, e allora la prendi tu. LIA (c. s.). Per me ci vuole il cappellino, il ventaglio e l'ombrellino. GINO. Te li cerco, sta' zitta, in camera della mamma. Ora combiniamo il giuoco. CARLO. Se è bell'e combinato! Tu e tua sorella, siete il cavalier Valenti e la signora Zaira; io e Lina, il commendatore Gorani e la signora Nunziata. Su, vestiamoci ; per me occorre la rendingotte ; si va in rendingotte a far visita. Quando il commendatore vuole andare in giacchetta e cappello basso, la moglie lo sgrida; e si bisticciano. GINO. E tu bisticciati con Lia. Dobbiamo rifare proprio loro, intendi ? Bisticciati ; io leticherò con mia moglie. ELENA. Se mi picchi però... GINO. Ti darò qualche pugno, come il cavaliere alla signora Zaira. ELENA. E io un ceffone, come ella rispostò l'altra volta. GINO. Facevano per chiasso. ELENA. Sì, per chiasso! Dopo, lei piangeva anche per chiasso ? CARLO. Insomma, ci vestiamo ? La rendingotte dov'è? GINO. Vado a prenderla, e penso anche per Lia. (Esce). LIA. La mia mamma non dà ceffoni al babbo, gli dà baci... ELENA. La mia pure, qualche volta. CARLO. Il commendatore però dice spesso : — Per voialtre donne ci vuole il bastone! — E prende broncio, e non parla con la moglie per mezza giornata. Quando loro sono in collera, i loro figliuoli fanno quel che vogliono; marito e moglie non ci badano. ELENA. Invece, dal cavaliere se la prendono coi poveri bambini. Non bisogna rifiatare nei momenti che egli da pugni alla gobbina, o gli scapaccioni grandinano. A proposito, io debbo avere la gobba; Gino non me l'ha fatta. CARLO. Te la faccio io con questo asciugamani. (Le calca l'asciugamani sotto il vestito, dietro le spalle). GINO. (Entrando di corsa). Ecco : redingotte, cappellino, ventaglio ! LIA. E l'ombrellino ? GINO. C'è soltanto quello vecchio col manico rotto; non l'ho preso. (Vedendo Elena con la gobba). Brava! Ce n' eravamo dimenticati. Ora sei proprio la signora Zaira. TUTTI. Vestiamoci! (Si vestono, aiutandosi a vicenda, facendo gran chiasso). GINO. Come sei buffo ! CARLO. E tu, se ti vedessi! GINO. Dunque, la nostra casa è qui. Questa è la porta. Voialtri poi suonate. ELENA. E la cameriera? GINO. La farai tu; annunzierai e dopo ti metterai a sedere da signora. Ecco. Io torno dall'ufficio. Voialtri, aspettate un pochino a venire. Tu fingi di cucire. ELENA. No, la signora Zaira legge romanzi quando non c'è suo marito. GINO. E leggi pure! Io suono : Trin ! trilin ! trin Non venire subito ad aprire. Trin ! trilin ! trin! Ora vieni. (Imitando le grida e i gesti del cav. Valenti:) (1) «Per mio ! Mi fate aspettare un' ora ! Siete tutti sordi in questa casa?» (A Elena). Fa da serva. ELENA (Imitando la voce della serva). «Ha suonato appena una volta.» GINO. «Dieci volte ! Sempre così! Dove eri ficcata? Che facevi?» ELENA. «Ero in cucina.» GINO. «Si, pel gran pranzo di gala!» Ora mettiti a sedere; io entro in salotto. (1) Le parole dei personaggi imitati sono messe tra due virgolette. CARLO. E noi? Dobbiamo aspettare ancora? Così giuocate voi soli! GINO. Un momento. Vi farò il segnale. Intanto prendetevi a braccetto. (A Elena). Entro; tu domandami con chi l'ho? ELENA. «Con Chi l'hai ? » GINO. «Al solito, con quella grulla della Nina che mi fa aspettare un' ora dietro la porta di casa. Potevi scomodarti tu ! » ELENA. «O perchè teniamo la serva? » GINO. «La serva non si può fare in cento pezzi! » (A Carlo e a Lia). Ora venite voialtri. CARLO. Trin ! Trilin ! GINO. « Chi sarà? Qualche rottorio di scatole. » ELENA. « È la giornata dei Gorani. Vengono sempre il mercoledì, alle cinque e mezzo. » GINO. « Potrebbero starsene a casa loro e non seccare la gente! » ELENA. « Bisogna aver pazienza. » CARLO. E non viene nessuno ad aprirci?... GINO (a Elena). Va! ELENA. « Oh, signora Gorani! Passi, passi; la signora è in salotto. » GINO. (Andato incontro ai venuti, stringe loro le mani, fa inchini, ecc.). « Guarda chi si vede ! Bravo, commendatore ! Ci fate un regalo ! Sempre assieme, come i pappagalli. » ELENA. Che diamine dici? Come gl'inseparabili. GINO. E non sono pappagalli ? ELENA. « Cara Zaira, giusto dicevo : Che è accaduto ai Gorani, che non arrivano ? E l'ora loro. » CARLO. « Come va, caro cavaliere? Metti troppa pancia, ingrassi troppo! (Gli dà dei colpetti con la mno). Bella trippina ! » GINO. Questo non lo dice il commendatore Valenti, ma il tuo babbo al mio, che non vuoi sentirselo dire e ci s' arrabbia. CARLO. Il mio babbo glielo ripete sempre a posta, per divertirsi. GINO. E per ciò poi, quanto i tuoi vanno via, il babbo dice: Che cretino, quell'Alberto! Che asino! Parla perchè ha la bocca. CARLO. Ah, sì? Glielo riferirò al mio babbo... ELENA. La mia mamma non vuole che certe cose si ridicano. LIA. Anche la mia. GINO. Basta! Non mi piace più giuocare alla visita. Smettiamo. Facciamo un altro giuoco. (Si sveste). ELENA. Ma io ho detto appena due parole! Dovete giuocare voi soli ? LIA. Allora mi levo il cappellino... C'è qualcosa che mi punge in testa. ELENA. Perchè lo getti con tanta mala grazia ? LIA. È vecchio! ELENA. (Stizzita). È meglio di quello nuovo che porta la tua mamma! La tua mamma si fa i cappellini da sè; paiono cestini da spesa... LIA. (Impermalita e rabbiosa). E quelli della tua? I cavalli dei fiaccherai stendono la testa per mangiarvi l'erba... C'è tanto fieno sui cappellini della tua mamma! ELENA. Fiori e belli, rossi, grandi così ! Papaveri, rose vi sono ! LIA. In quello nuovo della mia mamma c'è anche un uccellino vivo ! GINO. Vivo ? Questa è nuova! CARLO. Imbalsamato, che pare vivo. GINO. Chi sa che puzzo ! CARLO. Tu puzzi ! Come siete cattivi in questa casa! GINO. E non ci venite più! Ci farete piacere. LIA (piange). ELENA (a Lia). Via, non piangere. Parla per scherzo. (A Gino). Se la mamma sa quel che hai detto ora, ti picchia ! GINO. Santo Dio, con costoro finisce sempre così ! CARLO. Sei stato tu il primo. GINO. Anzi tu! Tu hai proposto di giuocare alla visita. CARLO. Giuochiamo in altro modo dunque. LIA. Ai cavallini ? GINO E CARLO. Ai cavallini. GINO. Vado a riporre questi oggetti, se no la mamma mi sgrida. E porto i bastoni da cavalcare. ELENA. Io non so giuocare ai cavallini; m'impappino. GINO. T' insegnerò io. (Suonano alla porta di casa). CARLO. Ecco la mamma! Giuocheremo un'altra volta. La mamma non vuole troppo chiasso. ELENA. Facciamo la pace? CARLO, LIA. Facciamo la pace ! GINO. (Che è stato in ascolto su l'uscio). Ah !... Non è la mamma. Dunque possiamo. giuocare ai cavallini. CARLO. No, giuochiamo al nonno, quando è il suo onomastico. Il nonno lo faccio io, e voi i bambini. Dovete baciarmi la mano. Sto sdraiato sul seggiolone; ho la podagra. LIA. Mancano i mazzi di fiori. GINO. Non importa; fingeremo di tenerli in mano. LIA. E io dovrò recitare anche la poesietta ? CARLO. Sicuro. LIA. Non me ne rammento più. CARLO (suggerendole). Caro nonno, in questo giorno... LIA. Avanti !... CARLO. Caro nonno, in questo giorno... Devi rammentartela tu, che l' hai detta l'altra volta... LIA. E allora non è più giuoco. Sei forse il nonno davvero ? CARLO. Se faccio da nonno, sono proprio il nonno ! GINO. Via, ho bell'e capito; non si conchiude nulla! Giuochiamo meglio alle assise. Tu fai il presidente; io l'avvocato, e darò pugni sul tavolino, Lia, l'accusato nella gabbia; Elena, il carabiniere... Su, su! CARLO. L'avvocato sarò io, come il mio babbo; il tuo è ingegnere. GINO. Il mio babbo è stato testimone l'altra volta! CARLO. Testimone può essere chiunque. GINO. Tuo padre però fa soltanto l'avvocato ; non fa altro. LIA. Si perde il tempo a chiacchierare! ELENA. O sentite: giuocate voialtri due. Lia e io, giuocheremo per conto nostro. CARLO. Accidempoli alle bambine! Guastano ogni cosa. Non voglio giuocare più! (Siede imbroncito). GINO. (Sedendo imbroncito anche lui). Se l'ho detto che con voialtri finisce sempre così ! ELENA. (Prendendo per nano Lia, a Carlo). Non v'arrabbiate! Eccoci qui. (Suonano alla porta di casa). GINO. (Balza da sedere e va a origliare all'uscio). Questa volta è proprio la mamma!

Divorava; era sempre affamato e con tanto di becco aperto, strillante; il piacere però di possedere un uccellino non raro in Sicilia, ma difficile a prendersi adulto, e che non avevo mai visto allevato in gabbia, mi faceva sopportare le noie del continuo imbeccamento, gli strilli monotoni e l'odore poco piacevole che spandeva la sua gabbia, quantunque ripulita parecchie volte al giorno. Nella stessa stanza c'era una gabbia molto grande con un bel passero solitario che già cominciava a cantare. La coppia di passeri solitari, che nidificava in cima alla cupola d'una chiesa vicina, quell'anno aveva disertato il suo antico posto ed era venuta a covare sotto le tegole alla cantonata di casa mia. Non me n'ero accorto, perchè ogni giorno vedevo uno di quei passeri o tutt'e due sul comignoletto della cupola dove solevano da anni sfogarsi a cantare deliziosamente. Quello che allevavo era cascato dal nido sul tetto della casa sottoposta, e io l'avevo fatto prendere e l'avevo tirato su con molta cura. Bello, vispo, malizioso e affezionato, faceva un particolar grido per chiedere da mangiare. Udendolo dal mio studio, quattro stanze più in là, accorrevo, ma fingevo di non aver capito; allora egli raddoppiava il suo grido, si arrampicava alle gretole, si sforzava in tutti i modi di farmi intendere che voleva qualche nuovo pezzettino di carne. E come batteva le ali quando s'accorgeva che finalmente era stato compreso! Pareva quasi mi rimproverasse la mia corta intelligenza. Chi può sapere che giudizio si formino di noi le nostre bestioline? Più volte mi era accaduto di dare anche al l'altro uccellino un pezzetto di carne in quelle occasioni. La verlia per ciò aveva potuto osservare che il particolar grido del passero solitario significava richiesta di pasto. E allora — ammirate queste creaturine che noi crediamo incapaci di raziocinio! — allora cominciò a poco a poco a imitare quel grido, e in breve tempo riuscì perfettamente; a distanza, io non potevo più distinguere se fosse lei o il passero solitario che chiedesse da mangiare. Quest'atto mi fece concepire una grandissima stima per quell'uccellino che la sua provvisoria bruttezza m'impediva di voler bene. Ed era spettacolo curioso l'atteggiamento del passero solitario ogni volta che si sentiva imitato; voltava la testa da quella parte dove si trovava la gabbia della verlia e guardava un po' intricato, quasi stizzito; qualche volta interrompeva il suo grido, sentendosi fatto il verso a quel modo. Con tanta carne che divorava, la verlia avrebbe dovuto essere ben grassa; invece di lì a poco mi accorsi che dimagriva sensibilmente, che perdeva la vivacità dei primi mesi. Un giorno ebbi a notare la differenza del suo richiamo da quello del passero solitario; era più debole, con inflessione di tristezza. Si poteva dire che chiedesse da mangiare per abitudine, per ghiottoneria; infatti non si nutriva più. Stava appollaiata su la stecca, con le piume arruffate, con gli occhi intorbidati e le cartilagini del becco squallide, da gialle che erano prima. Ricorsi alla scienza di un pratico allevatore di canarini, ma inutilmente. La tisi fece di giorno in giorno rapidi progressi; e una mattina, povera verlia ! la trovai stecchita sul fondo della gabbia. Era piume e ossa; non pesava due grammi ! Pensai quanto siamo crudeli noi uomini privando di libertà queste graziose creaturine per procurarci il piacere di averle presso di noi; ma quelle riflessioni non mi hanno impedito di tenerne molte altre imprigionate in una gabbia; e forse, se mi capitasse di nuovo in mano un'altra verlia piccina, ritenterei la prova di allevarla per cavarmi il gusto di vederla mudare in gabbia e di sentirla cantare in camera, come cantano in cima ai mandorli e agli ulivi i suoi liberi fratelli. L'uomo è così.

Mesi fa, un maestro elementare che unisce alla elevata cultura la passione e l'entusiasmo per la sua missione educatrice — lo nomino con gran piacere: il signor Gustavo Guazzaloca di Bologna — parlandomi della difficoltà di trovare pei fanciulli un libro di lettura che non fosse noioso, m'incoraggiava benevolmente a tentare di scriverlo. Questo volume vorrebbe rispondere al desiderio di quel bravo maestro, quantunque non scritto a posta per le scuole. Ho cercato di rispecchiare sinceramente e semplicemente la vita fanciullesca, e fare insieme opera d'arte e di diletto educativo. Quasi tutti gli scrittori di libri per fanciulli si son creduti in dovere d'idealizzare talmente la vita di queste creature umane iniziali, che esse non riescono afflitto a riconoscersi nei personaggi troppo diversi da loro, e nelle azioni e nel linguaggio di quei personaggi. Io credo che la viva ed efficace rappresentazione del mondo dei fanciulli, con tutte le passioncine, con tutti i vizietti e i dolori e gli slanci di bontà e di affetto che lo muovono ed agitano, possa raggiungere assai meglio lo scopo che quegli scrittori si erano proposto. La rappresentazione artistica della vita è, per sua natura, più potente dell'osservazione personale diretta. L'artista riflette per conto del lettore, e lo forza a riflettere com'egli forse non avrebbe mai fatto davanti allo spettacolo della realtà; e questo vale maggiormente allorchè si tratta di creature capaci più di sentire che di pensare. Se il presente volume corrisponda, oltre che alle necessità dell'arte, a quelle didattiche, lo dicano i maestri elementari; se sia divertente, lo dicano i fanciulli che sono, in questo caso, i soli giudici spassionati e competenti. LUIGI CAPUANA. Roma, 25 dicembre 1894.

Che cosa fosse la Commissione non erano mai riusciti a saperlo. In certi giorni della settimana, vedevano arri- vare a uno, a due, una diecina di signori in tuba, quasi tutti di età matura, che si salutano gravemente tra loro dandosi del cavaliere, del commendatore ed anche dell'onorevole, e che — ragionato un pochino in salotto con la signora Scalandri e con la signora Margherita, sua sorella maggiore — andavano poi a rinchiudersi col babbo in una sala preparata apposta per bisticciarvisi, dicevano i bambini che udivano fin da laggiù il rumore confuso delle lunghe e vivaci discussioni. Più volte, ora uno ora l'altro, aveva domandato al babbo, alla mamma, alla zia, perchè quei signori della Commissione si riunivano là dentro e che cosa voleva dire Commissione; ma babbo, mamma e zia avevano sempre risposto: — Quando sarete grandi lo saprete. Perciò la parola Commissione aveva preso nella mente di quei bambini un significato misterioso, che stuzzicava la loro curiosità ed eccitava la loro fantasia. E siccome parecchie volte erano stati sorpresi a origliare dietro l'uscio della sala; e una volta, spingendosi e urtandosi per udir meglio, avevano fatto spalancare l'uscio mal chiuso, e uno o due di loro erano ruzzolati sul pavimento, disturbando quei signori nel meglio d' una discussione; così ora, per prevenire qualunque monelleria, a ogni seduta della Commissione, la mamma li menava nello stanzone in fondo al corridoio, e raccomandato di non far troppo chiasso, ve li chiudeva a chiave, insieme coi bambini loro amici, quando ve n'era qualcuno. Un giorno, dagli Scalandri erano venuti i bambini Colocci, tre demonietti scatenati. Essendo appunto giorno di Commissione, a una cert'ora la signora Scalandri disse loro : — Su, bambini, venite con me. E li condusse nel solito stanzone. — Giuocate qui, ma senza troppo chiasso. Fatta questa raccomandazione, la signora li chiuse a chiave. — Perchè ci chiude a chiave la tua mamma? — domandò il maggiore dei Colocci a Lello che era il maggiore degli Scalandri. — Perchè c'è la Commissione. — Chi è costei? — Certi signori che non vogliono far sentire di che stanno a discorrere e si bisticciano sempre. Che c'importa di loro? Giuochiamo. — No, noti voglio star chiuso a chiave; voglio andarmene! Aldo Colocci, subitamente imbroncito, si era addossato all'uscio, e puntando i piedi, tentava di spingerlo e farlo aprire. Gli altri bambini lo guardavano costernati. — Hai paura? — gli domandò Lello. — Ma che paura! Non mi garba stare in carcere. — E noi ci divertiamo tanto! Possiamo fare quel che ci piace. Non picchiare; finchè c'è la Commissione, dobbiamo star qui. Aldo cominciò ad aggirarsi per la stanza, mordendosi le labbra, irrequieto, fermandosi davanti agli altri usci, domandando: — Da qui dove si entra? - Nel salotto della zia Margherita. — Da quest'altr'uscio? — In camera di Cristina, la serva. -- E dalla camera di Cristina ? — In camera nostra, dove dormiamo io e Carlo; non lo sai? — Sfondiamo quest' uscio! — disse Aldo con gesto risoluto. Ai bambini Scalandri tale proposta parve una enormità. - Oh, no! Che dirà la mamma? — esclamarono in coro. — A me non dirà nulla; non sono suo figliuolo. Dalla stizza, aveva le lagrime nella voce. Parve raccogliersi per meditare un espediente, poi tutto a un tratto si rovesciò contro l'uscio, che si aperse a metà, stridendo; un altro urto, e fu spalancato. — Dove vai? — Me ne vado. Venite via anche voi ! — soggiunse imperiosamente rivolto ai suoi fratellini. E vedendo che nessuno si moveva, fece una alzata di spalla, e s'avviò solo. — Aldo ci vuol procurare una buona sgridata! — disse Carlo. — Aldo! Aldo! — chiamò sottovoce uno dei fratellini, vedendo la mossa afflitta di Carlo. S'erano radunati tutti insieme su la soglia dell'uscio spalancato, e guardavano, tra timidi e curiosi, sperando anche di vedere Aldo acquattato in un angolo per far loro una burla. Ma l'altro uscio, lasciato socchiuso, rivelava che egli era già passato oltre. Lello pestava i piedi, quasi stesse commettendo lui quella disobbedienza agli ordini della mamma; quando ecco un lieve urto d'uno dei bambini rimasto più indietro, che lo spinge dentro la camera; ed ecco tutti gli altri appresso a lui. Lello, tentato, fece due o tre passi, e andò a spiare dall'uscio socchiuso. Alcuni minuti dopo nessuno di loro avrebbe saputo dire in che modo si fossero trovati nell'altra stanza. L'audacia dell'esempio di Aldo li aveva tentati, esaltati, e in tutti era già vivissima la curiosità di sapere in che modo egli se l'era cavata, giacchè per andar via doveva passare proprio dalla stanza dove stava radunata la Commissione. Altri pochi minuti dopo, neppure i quattro bambini Scalandri pensavano più agli ordini della mamma; s'erano consultati con un'occhiata, con un cenno, con un sorriso d'invito, e zitti zitti, in punta di piedi, tenendosi per mano, quasi tentassero proprio un' evasione, avevano seguito i passi d'Aldo di stanza in stanza. Di mano in mano che essi s'accostavano, il rumore della discussione di quei signori di là diventava più forte; nella confusione si distinguevano le diverse voci, quale roca, quale stridula, quale irosa, quale ironica; ma spesso tutte insieme formavano un vocio, accompagnato da pugni sul tavolino, da scampanellii prolungati e dal grido: Signori! Ma, signori! — Questo è il babbo! — esclamò Lello fermandosi, quasi il babbo avessse gridato per loro. Tra la stanza della Commissione e quella dove i bambini si trovavano in quel punto, c' era di mezzo soltanto un salotto; e il battente rimasto aperto lasciava vedere Aldo che, appoggiate le mani all'uscio, rizzato su la punta dei piedi, guardava dal buco della serratura. Irruppero, attratti da forza irresistibile; e nello stesso istante, come se la loro entrata fosse servita di segnale, irruppe nella sala della Commissione un tumulto straordinario di voci, di scampanellate, di strepito di seggiole smosse, di passi confusi, di usci sbatacchiati, insomma di persone che scappavano via e che pareva s'inseguissero, quantunque la voce del commendator Scalandri, tentasse trattenerle, gridando a squarciagola: Signori! Ma, signori! Poi non s'intese più niente. I bambini erano rimasti lì atterriti, specie gli Scalandri; avevano dipinta in viso la paura che non fosse accaduto qualcosa di male al loro babbo. Aldo, che non s'era accorto della loro presenza, si voltò tutt'a un tratto e appena li vide esclamò: — Buffi quei signori! Sono andati via leticando; c'è mancato poco non facessero a pugni. Nessuno fiatò. Il silenzio succeduto al tumulto li aveva sbalorditi. Ma Aldo, che s'era messo di buon umore, s' avvide di un tavolino apparecchiato in un angolo, e l'additò spalancando gli occhi. Il tavolino era ingombro di piatti ricolmi di paste, di vassoi con biscottini e dolci d'ogni sorta, di vassoi con bicchieri e bicchierini, di bottiglie di marsala, di bottiglie di rosolio belle e stappate, di vassoi con sigari e sigarette. Tutti si accostarono meravigliati; neppure i bambini Scalandri sapevano niente di quell' apparato di tante belle cose mangiabili e bevibili, e guardavano, ammiravano, con l'acquolina in bocca, senza che nessuno osasse stendere la mano. Ma quel demonietto d'Aldo non faceva mai le cose a mezzo. — Tutto questo è per noi, ora che quei signori se ne sono andati! E presa con due dita una pasta di cioccolatte, l'addentò, esclamando subito: — Buona! Gli altri esitarono un momentino; poi, come travolti a un tratto dall' esempio di lui, si precipitarono sui diversi piatti, soffocando gli scoppi di risa provocati dallo strano caso, mangiando, anzi divorando a gara paste e dolci, saltando dall'allegria, reprimendo in gola, con paste su paste, i gridi di gioia che avrebbero voluto sprigionarsi dai loro cuoricini riboccanti di felicità in taccia a tanta abbondanza di cose ghiotte. Si spingevano, si urtavano, si contendevano la presa di questo o quel dolce, di questa o quella pasta, quasi tutta quella grazia di Dio fosse stata raccolta lì unicamente per loro. Poi Aldo, che brillava dalla contentezza per la riuscita della sua impresa, afferrò pel collo una bottiglia di marsala, riempì solennemente sette bicchieri, quanti erano loro; e levato in alto il suo, disse : — Alla salute della Commissione! E lo bevve d'un fiato, strizzando gli occhi con una smorfia. Trincarono tutti, senza badare a quel che facevano, inebriati anticipatamente dell'avventura, immemori del babbo, della mamma, della zia, incoraggiati dal gran silenzio attorno che faceva parere disabitata la casa, quasi, babbo, mamma, zia e persone di servizio fossero corsi dietro quei della Commissione per attrapparli. E bevvero e ribevvero, e tornarono all' assalto delle paste e dei dolci. Ormai non si sapevano più frenare; e dopo il marsala, venne la volta del rosolio. Tutti erano accesi in viso, con gli occhi luccicanti; e già parlavano ad alta voce, già ridevano chiassosamente, quando Aldo, preso il vassoio con le sigarette, si mise ad offrirle attorno dicendo: — Vogliono fumare ? Per sè prese un sigaro e l'accese, e porse il fuoco agli altri, che cominciarono a tossire dopo poche boccate di fumo. Poi fece un gesto per imporre silenzio, s'accostò all'uscio, girò il pomo, e spinto indietro il battente gridò: — Signori della Commissione, passino, passino! Si precipitarono attorno al tavolino, insediandosi tumultuosamente, contendendosi il campanello, brancicando i fogli, brandendo le penne, urlando, schiamazzando, come avevano udito urlare e schiamazzare, mentre Aldo gridava: — Ma, signori! signori ! — scampanellando da ossesso. E proprio ossessi parvero alla signora Scalandri, alla zia e al commendatore accorsi subito alle grida: — Bambini bambini! Che è mai? Zitti ! Cheti ! Si, zitti! cheti ! Le carte volavano per aria, il calamaio veniva rovesciato sul tappeto, il campanello, staccatosi dal manico, andava a cascare sul pavimento. Alle macchie di crema e di rosolio che si scorgevano sui vestiti di tutti, la signora Scalandri, capì quel che era avvenuto e corse ad accertarsene. Tornò subito ridendo, e anche un po' spaventata del male che l'orgia di paste, di marsala e di rosolio e di sigarette poteva produrre ai bambini. — Hanno bevuto il marsala! Sono ubriachi ! Hanno mangiato dolci e paste! Dio che indigestione! Hanno anche fumato! E il commendatore, che era ancora furibondo per la scena di quei signori della Commissione, e voleva scapaccionare i monelli, scoppiò in una gran risata esclamando: — Tutte a modo le Commissioni ! Maledetto chi l'ha inventate! I bambini però pagarono cara la loro disobbedienza; dovettero stare otto giorni a letto, e invece di dolci e marsala, ingoiare disgustose medicine.

E s'era messa a battere le mani e a tempestarlo di domande: — Dove vanno, babbo, le stelle quando c'è il sole ? Il babbo sorrise : — Vanno a dormire. — E dove vanno quelle colombe ? — A cercare il cibo pei loro figlioletti. — Chi ha fatto tutte queste cose ? — Le ha create Dio. — E Dio, chi lo ha fatto ? — Nessuno. — Si è fatto da sè ? — Lo saprai quando sarai grande. — Perchè la nonna, guardando i seminati, ha detto ieri : Se il Signore li benedice ? — Perchè Dio deve benedire tutte le cose, se vuole che vengano bene. — E se non le benedice? — Vanno a male. — E non potresti benedirle tu? E non potrei benedirle io ? — Tu si, perchè sei piccina. — Fammele benedire dunque; farò venir bene ogni cosa. Allora il babbo la sollevò in alto, come un ostensorio, quasi convinto in quell' istante che l' atto della bambina dovesse essere davvero, su tutte le cose attorno, un influsso benefico eguale alla stessa benedizione di Dio. E la bambina, che aveva sollevato la manina per benedire, disse seria seria : — Vedrai, babbo, come verranno bene ! Il babbo se la strinse al petto; e dalla commozione aveva gli occhi pieni di lagrime.

Aveva da qualche tempo in qua la fissazione d'apparire giovanotto, quantunque non oltrepassasse i quattordici anni, e s'arrabbiava dell'ostinazione del suo babbo e della sua mamma che non volevano fargli smettere la camiciola col cinto e i calzoni a mezza gamba. Sì, vestito a quel modo, faceva bella figura; lo sapeva anche dalle parole d'ammirazione che gli erano giunte talvolta all'orecchio, andando attorno col babbo nei giorni di vacanza; ma non gliene importava. Il peggio era che, ogni volta ch'egli pregava il babbo o la mamma di vestirlo con la giacchetta e i pantaloni lunghi, come tant' altri suoi compagni minori di anni di lui, babbo e mamma sorridevano e scuotevano la testa, quasi lo canzonassero. Doveva, insomma, portare quell'odiosa foggia fino a vecchio? Non se ne dava pace. Un giorno, finalmente, il babbo gli rispose: — Se passi col maximum dei punti, sarai contentato. — Parola di babbo? — Parola di babbo. Giorgio era studioso; ma in quegli ultimi quattro mesi di scuola fece proprio miracoli, sempre con la giacchetta ed i pantaloni lunghi davanti agli occhi, come meta da raggiungere a ogni costo; giacchetta e pantaloni valevano bene quattro mesi di studio accanito. Aveva per ciò adottato come suo il motto d' Enrico IV, appreso nel manuale di storia moderna: Parigi vale una messa. E per lui, giacchetta e pantaloni lunghi rappresentavano una gioia sospirata da quasi due anni, la conquista del regno della giovinezza. Non sarebbe stato più un bel ragazzo, ma un bel giovinotto, e smaniava di sentirselo dire dalla gente nelle passeggiate col babbo o con la mamma, e anche andando a scuola o tornando a casa coi libri sotto braccio. Mai non s' era tanto impensierito degli esami quanto quell' anno. Più il terribile giorno s' avvicinava e più egli perdeva la fiducia nel buon successo, e più vedeva allontanarsi e perdersi in una nebbia fitta l'agognata giacchetta, gli agognati pantaloni lunghi, che gli erano stati così evidentemente davanti agli occhi nell'ultimo mese, da sembrargli che avrebbe potuto prenderli, se avesse steso la mano. Il giorno che il babbo lo vide arrivare a casa rosso, scalmanato, facendo salti e buttando libri e berretto per aria, per poco non lo credette ammattito. — Il sarto! La giacchetta e i pantaloni lunghi! Giorgio non sapeva dir altro. E siccome il babbo, sorridendo, gli accennava di chetarsi, così egli soggiunse : — Parola di babbo, hai detto ! E aveva le lagrime agli occhi, dalla paura che il babbo non volesse più adempire la solenne promessa. ***

A Messina trovavo una novità: la ferrovia. Partendo, cinque anni avanti, avevo dovuto percorrere in diligenza lo stradone provinciale da Catania a Messina, facendo sosta la notte a Giarre, a metà di strada; e il ricordo delle noie di quel viaggio, che era stato quasi un disastro, mi avrebbe fatto apprezzare grandemente il beneficio del nuovo mezzo di trasporto, anche senza il meraviglioso incanto del paesaggio che rende quella linea una delle più belle del mondo. La gioia del ritorno m'impediva di riflettere che erano passati cinque anni; quella ferrovia, con lo splendore del Jonio da un lato e la interminabile siepe di aranceti, di vigneti e di uliveti dall' altro, mi pareva sorta lì improvvisamente per opera della bacchetta d'una Fata, e non rinvenivo dalla sorpresa. Ma di mano in mano che il treno procedeva e che alle fitte stazioni dei tanti paesetti sparsi su la linea scendevano e salivano i passeggieri, la strana impressione già si modificava; ed ero sul punto di persuadermi che doveva essere stato sempre così, quando ad Acireale montarono nel mio scompartimento due vecchietti. Entrarono timidi, anzi paurosi, guardandosi attorno, quasi stessero per commettere una grave imprudenza affidandosi a quel mostro sbuffante e fumante che, quantunque fermo, comunicava un lieve fremito a tutte le vertebre della sua gran coda di carri. I due vecchietti parevano meravigliati di non scorgere in viso agli altri la stessa loro paura; si consultavano con lo sguardo, s'incoraggiavano. — Fra un quarto d'ora saremo a Catania! — Se non accadrà niente di male! — Vedrai come si va di corsa! Più del vento. — Madonna santissima! Parlavano con voce bassa e tremante, tenendosi con le mani bene afferrati al sedile. Alla prima scossa del treno che si metteva in movimento, trasalirono, pallidi, sgranando gli occhi. Vedendomi sorridere, il meno pauroso mi domandò : — Non c'è pericolo, è vero ? — Ma !... — risposi ridendo. E l'altro subito lo rimproverò : — Te lo dicevo ? Sarebbe stato meglio venire in carrozza. Poveretti! Quello era il primo e forse l'ultimo loro viaggio in ferrovia. Tornarono ad Acireale certamente in diligenza, all'antica. E mi son rimasti nella memoria quasi li avessi visti ieri, con l'attitudine di paura e di stupore che mi faceva sorridere. E tutte le volte che leggo la notizia dell'inaugurazione d'una nuova linea ferroviaria, penso che ci saranno ancora altri vecchietti al mondo che entreranno per la prima volta in un vagone paurosi e sbalorditi come i due vecchietti di Acireale.

L' aria veniva rinnovata attentamente a ogni quarto d'ora; ma per aprire le finestre d' una stanza, i piccini erano condotti via nella stanza appresso. Se la cameriera e il servitore lasciavano socchiuso un uscio che poteva produrre un riscontro, padrone e signora diventavano furibondi, li maltrattavano quasi avessero voluto attentare alla vita dei loro figliolini; e marito e moglie erano ordinariamente d'una bontà estrema con le persone di servizio. Il dottor Carlani doveva venire a far visite due, tre volte la settimana e osservare quelle povere creaturine, se mai non avessero qualche male latente, se mai non vi fosse qualcosa da arrestare subito ai primi passi, o qualcosa da prevenire. — Ma così loro fanno peggio! Aria, aria, moto! Il dottore predicava invano. — Ah, lei non ha bambini! — gli rispondevano insieme marito e moglie. Per poco non sospettavano che il dottore dèsse quei consigli a fine d'avere una grave malattia da curare, e di rendere più preziosa la sua assistenza. Una passeggiata coi bambini — in carrozza, s'intende — veniva discussa per ore. Il marito consultava il termometro, tenuto a posta fuori la finestra, per esser ben certo della temperatura: la signora spiava il cielo, le nuvole, l'atteggiamento dei passanti, con pochissima fiducia nei responsi del termometro. E quando la decisione era affermativa, bisognava vedere come quei bambini venivano infagottati, perchè non sentissero nessun cattivo effetto dell' impressione dell'aria aperta! — Ma così loro fanno peggio! Il dottore predicava invano. — Ah, lei non ha bambini! — rispondevano invariabilmente marito e moglie. Il signor Borsino s'era formato una bibliotechina di opere mediche intorno alle malattie della prima età, e le studiava da mattina a sera. Studiava meglio anche tutte le quarte pagine dei giornali; e di nascosto del dottore faceva ingollare ai figliuolini intrugli ricostituenti, proclamati miracolosi dagli inventori e anche dalla compiacente ciarlataneria di medici di grido; i quali, forse, si prestavano al giuoco convinti che quei ricostituenti, se non ricostituivano niente, non nuocevano neppure. Verso i sette e gli otto anni, i bambini però si risentirono tutt'a un tratto di questo strano regime. Cominciarono a deperire a vista d'occhio; pareva invecchiassero, invece di crescere. Padre e madre addebitavano quel deperimento allo studio; le lezioni che due maestre venivano a dare in casa, tre sole volte la settimana, furono diradate anche di più, e alla fine soppresse a dirittura. Appunto in quei mesi si parlava di difterite, di rosalia, di morbillo, che menavano strage in città; e padre e madre temevano che le maestre non importassero, da qualche casa da loro frequentata per altre lezioni, il germe fatale di qualcuna di quelle malattie. Le precauzioni vennero raddoppiate; l'aria rinnovata meno frequentemente; i soliti portentosi intrugli somministrati in più larghe dosi; ma senza nessun giovamento. Un giorno il dottore per isgravio di coscienza, parlò quasi brutalmente: — O mutano questo genere di vita, o i bambini sono spacciati! Padre e madre atterriti, si rimisero nelle mani del dottore, lo implorarono con le lagrime agli occhi: — Ordini, per carità; sarà obbedito! E l'ordine fu questo: — Li mandino dalla nonna in campagna! — Dalla nonna? E parve dicessero: — Da quella vecchia pazza? Giacchè, appunto per via dei bambini, una rottura era avvenuta tra madre e figlio; e la nonna aveva giurato che non sarebbe più venuta in casa di lui, finchè egli avesse persistito a tenerli all'ospedale; la casa del figliuolo, a lei abituata all'aria libera della campagna, non pareva casa, ma ospedale. - E ne ha il tanfo! — avea soggiunto l' ul- tima volta che ne uscì per non rimetterci più piede. Marito e moglie si guardarono negli occhi quando il dottore rispose insistentemente e calcando le parole: — Dalla nonna ! Dalla nonna! E chiedendo mille scuse, facendo interminabili proteste di stima e di rispetto senza accorgersi della contraddizione, proposero un consulto; e non con uno, ma con altri tre dottori. — Anche con cento! — acconsentì, ridendo, il dottor Carlani. Quasi fosse stato fatto a posta, in quei giorni s'ammalò gravemente la signora. E i bambini dovettero essere condotti in campagna dallo stesso dottor Carlani che si offerse gentilmente.

Con le mani in tasca e il bastone sotto braccio, il pecoraio si era fermato ad aspettare al varco i quattro monelli che laggiù, in fondo alla strada, tiravano sassi a un albero di albicocco per farne cascare a terra le albicocchine immature. Le macchie di rovi, che formavano siepe da quel lato, e la fronda d'un grosso ulivo che sormontava il ciglione gl'impedivano di riconoscerli. I quattro monelli poi non stavano fermi; si abbassavano per prendere i sassi da lanciare, si accapigliavano per raccorre le albicocchine cascate, giravano di qua e di là attorno all'albero per colpire — si capiva bene dai gesti — i rami più carichi; insomma pareva sguizzassero a posta per non farsi riconoscere. Il pecoraio aveva assistito cinque buoni minuti allo strazio del povero albicocco dai cui rami veniva giù un nugolo di foglie e di fronde per la grandinata di sassi che lo colpiva; poi non ne aveva potuto più e aveva gridato: — Oohh! Oohh! — in tono di minaccia. I monelli si erano fermati, avevano guardato in direzione della voce e, riconosciutolo, avevano risposto con un urlo di gioia: — Pecoraio! Pecoraio ! E gli si erano slanciati incontro di corsa. Allora li aveva riconosciuti anche lui, e subito gli era sfuggita quell'esclamazione: — Madonna mia !... I padroncini ! — che non significava certamente un bell'elogio a quei monelli. Infatti, ogni volta che i quattro figliuoli minori del padrone arrivavano alla fattoria, si poteva dire che arrivavano quattro diavoli scatenati. E ogni anno, nel mese di maggio, il caso si dava tutti i sabati dopo pranzo. Venivano a piedi dal paesetto vicino, affidati alla custodia di un contadino che, non avendo voglia di correre come loro, spesso li perdeva di vista a metà di strada; e per quella mezza giornata e l'intera giornata della domenica, la fattoria era proprio messa sossopra, senza un minuto di tregua. Galline e tacchini sbandati, inseguiti pei campi di frumento; asini fatti imbestialire da mazzi di spine introdotti sotto la coda; vitellini perseguitati a colpi di canna o di bastone, e che il ragazzo del bovaro stentava a rimenare in istalla; aratri trascinati attorno; carrettelle rovesciate pei burroncelli; zappe, tridenti seminati da per tutto, secondo il capriccio del momento. E non dico niente del saccheggio all'uva agresta, alle mele, alle susine immature, agli alberi di albicocco e di ciliegio; niente delle scalate ai tetti del casamento in cerca di nidi di passerotti. Come mai quei diavoletti non si facessero male, non ricevessero qualche calcio dalle bestie, anzi non si rompessero l'osso del collo, pareva proprio un miracolo. Ma i contadini avevano ordine di lasciarli fare; e li lasciavano fare, brontolando però sotto voce, perchè poi toccava a loro rimenare al posto gli oggetti dispersi, rassettare e far sparire ogni traccia di quella specie di saccheggio. Per ciò, al riconoscerli, il pecoraio aveva esclamato : — Madonna mia!... I padroncini ! Egli era arrivato soltanto da una settimana alla fattoria, con le pecore che dovevano pascolare su per le colline e per la vallata dello Sgombo, e ricordava con spavento quel che gli era toccato di tollerare il maggio dell'anno passato. Dopo pochi minuti, li vide scoppiare in mezzo alle pecore che pascolavano tranquille e che si sbandarono, impaurite anche dagli urli di gioia dei quattro ragazzi datisi ad afferrarle pei velli, per le corna, per le code, a rincorrerle chi di qua, chi di là. — Ecco la ricotta! — gridò il pecoraio, per impedire che continuassero. E alzando il braccio, mostrò il cestino che la conteneva. — Bravo, pecoraio! La ricotta! la ricotta! Gli saltarono addosso; ognuno voleva essere il primo a levargli di mano il cestino, e dava spinte e urtoni all'altro, urlando, ridendo; tanto che il pecoraio si senti intenerito di quella allegra gazzarra fanciullesca, sorrise, abbassò il braccio e consegnò il cestino con la ricotta al maggiore, dicendo : — Portatela alla fattoria; qui non c'é piatti. E sospirò, come sollevato da un peso, quando li vide andar via di corsa, il maggiore avanti, col cestino in alto quasi fosse stato una spoglia di vittoria, e gli altri dietro, acclamanti, facendo sollevare un nugolo di polvere, peggio che se passasse per la via una mandra di capre. ***

Si chiamano, si rincorrono, volano di qua e di là, dai nidi vuoti al campanile, dal campanile alle grondaie, stanno ferme un momento, posate lungo il cornicione, quasi a consultarsi, poi scappano. Volteggiano, stridono; è il gran giorno della partenza. ***

Il Re è seduto sul trono; la Regina e il Reuccio stanno seduti l'una a destra, l'altro a sinistra di lui. IL RE. S'introducano gli ambasciatori. ( Una guardia esce per chiamarli). LA REGINA. Recheranno buone notizie? IL RE. (stizzito:) Regina! Non siate, al solito vostro, uccello di malaugurio. LA REGINA. (più stizzita:) Sono uccello di malaugurio io? E voi, Maestà, siete uno sciocco; non sapete quel che vi dite. IL Re. (severo:) Sono il re ! LA REGINA. (con lo stesso tono:) Ed io la regina! IL RE. (da prudente:) Basta; ricordatevi che qui c'è tutta la Corte. LA REGINA. (piccosa:) L'avete dimenticato voi il primo! IL Re. (sotto voce:) Ci bisticceremo in camera ; là ci sono avvezzo. LA REGINA. (più piccosa:) Ho la lingua per parlare dappertutto. Non voglio lasciarmi sopraffare. (Piagnucolando:) Quanto sono infelice! IL RE. (come sopra:) Un po' di contegno, Regina! LA REGINA. (al Reuccio che si è alzato:) Sedete, Reuccio; e quando prenderete moglie, siate diverso di vostro padre ! IL RE. (severo:) Che intendete dire? LA REGINA. (rabbiosa:) Quel che ho detto! IL RE. (sbuffando:) Governo milioni di sudditi, ma essi non mi hanno mai dato tanto da fare quanto voi ! Se il Reuccio non dovesse prender moglie per ragione di Stato, gli direi: Guarda tuo padre, e non sposare una donna! IL REUCCIO. (strillando:) Chi dovrei sposare dunque, Maestà? LA REGINA. (accenna al Reuccio di star zitto; poi al Re:) Non dite sciocchezze. Ecco gli ambasciatori. SCENA II. Arlecchino, Tartaglia e detti. (Arlecchino e Tartaglia s'inchinano davanti al re). ARLECCHINO. (sotto voce a Tartaglia:) Parlate voi. TARTAGLIA. (sotto voce:) Vo...voi! ARLECCHINO.(corme sopra:) Siete più anziano di me. TARTAGLIA. (come sopra:) Sie...siete il più gio.. giovane; to...tocca a voi. ARLECCHINO. (insistendo:) Siete il più eloquente. IL RE. Ebbene, ambasciatori, che buone notizie ci recate ? ARLECCHINO. Maestà! e TARTAGLIA. Ma...maestà !... IL Re. Uno alla volta. Cominciate voi, eccellenza Tartaglia. TARTAGLIA. (tartagliando più del solito:) Ma.... ma....maestà. Ce...ce...cèleri, co...co...me... ARLECCHINO. (imitando il grido dei venditori:) Ceci! Cocomeri !... Ceci !... O che siamo al mercato? IL Re. Parlate voi, eccellenza Arlecchino. Si vede che l'eccellenza Tartaglia è troppo commosso per le buone notizie da comunicarci. ARLECCHINO. (buttandosi ai piedi del re:) Ah, Maestà! Se dovete farci impiccare, date gli ordini subito; ma non è colpa nostra se non siamo riusciti! IL RE. (attristato:) Comincio a capire. Oh, sciagura ! ARLECCHINO. (alzandosi:) Meno male! TARTAGLIA. (ad Arlecchino:) Che co....cosa ha de....detto? ARLECCHINO. Comincia a capire. TARTAGLIA. Me....meno male! LA REGINA. (facendo grandi gesti di desolazione:) Io già lo prevedevo ! Reuccio disgraziato ! IL REUCCIO. (strillando e agitandosi su la seggiola:) Non c'è più reginotte per me? (Piange:) Ah! Ah! Ah! IL RE. (severo:) Silenzio, Reuccio! Eccellenza Arlecchino continuate. ARLECCHINO. Maestà! Giusta gli ordini di vostra Maestà, l'accellenza Tartaglia e io siamo andati alla corte di Germania per chiedere la mano della reginotta. TARTAGLIA. (approvando e confermando:) La ma.... ma.... la ma.. ma...no della reginotta. ARLECCHINO. La mammà? No, la figlia. TARTAGLIA. La fi...figlia... LA REGINA. (impaziente, a Tartaglia:) Lasciatelo dire. ARLECCHINO. La trovammo in cucina. II REUCCIO. In cucina? Oh! Oh! (si cheta a un'occhiaccia del Re). ARLECCHINO. Da buona tedesca, friggeva ciambelle che riuscivano tutte col buco; e sorvegliando la frittura, faceva intanto la calza. Che massaia! Quella che ci voleva pel nostro Reuccio....... Ma!... RE, REGINA (uno appresso all'altro:) Ma?... e REUCCIO. ARLECCHINO. (aprendole braccia con aria afflitta:) S'era fidanzata il giorno avanti col re della Moscovia! II RE. Che disgrazia! LA REGINA. (al re, inviperita:) La colpa è vostra. Avete mandato due ambasciatori uno peggiore dell'altro; si saranno fermati per via a tutte le osterie che incontravano. ARLECCHINO. Maestà, in Germania non ci sono osterie; cattivo paese, Maestà, dove non si beve un dito di vino, ma una brutta miscela che chiamano birra. Partimmo subito per la Spagna, anche per questa ragione. Ah, la Spagna! Gran paese!... La Reginotta era in giardino e sbucciava un'arancia. Ce n'offerse gentilmente uno spicchio, uno per ciascuno, è vero eccellenza? TARTAGLIA. Ve....ve...rissimo ! ARLECCHINO. Io le dissi con galanteria: Reginotta, il più dolce spicchio siete voi. Sorrise... Ma... RE, REGINA, (uno appresso all'altro:) REUCCIO. Ma?... ARLECCHINO. (riaprendo le braccia con aria afflitta:) S'era fidanzata il giorno avanti col reuccio di Portogallo! IL REUCCIO. (strillando e agitandosi sa la seggiola:) Non c'è più reginotte per me ?(Piange:) Ah! Ah! Ah! II RE. (severo:) Silenzio, Reuccio! (a Arlecchino:) Continuate. LA REGINA. (furibonda:) A che continuare ? Fiasco da per tutto, eh, eccellenza Tartaglia ? TARTAGLIA. (con aria mortificata:) Fia....sco co....cone, Maestà! E par....ti...timmo per Co... Co.... IL RE. Non v'affaticate, eccellenza;, parlerà il vostro collega per voi. ARLECCHINO. Partimmo per Costantinopali. IL RE. (correggendolo:) Costantinopoli. ARLECCHINO. Sarebbe meglio chiamarla a quel modo. C'erano pali dappertutto. Il Gran Turco diceva alle persone: Sedete; e le persone vi si sedevano su con molta grazia. La Reginotta, forse per umiltà, sedeva per terra, con le gambe incrociate. — Sedete, — ci disse. E siccome non c'erano pali in quella camera, ci sedemmo per terra. È vero, eccellenza ? TARTAGLIA. (confermando:) Per te....terra. ARLECCHINO. Bella, grassa come una palla di sugna, la Reginotta fumava, fumava, e di tratto in tratto si faceva vento con un gran ventaglio di piume..Ma !.... RE, REGINA,(uno appresso all'altro:) REUCCIO.Ma?.... ARLECCHINO. S' era fidanzata con lo Scià di Persia il giorno avanti! IL Reuccio. (agitandosi su la sedia e strillando:) Non c' è più reginotte per me? (Piange:) Ah! Ah! Ah! IL RE. (severo:) Silenzio, Reuccio ! (Ad Arlecchino:) E così.... ARLECCHINO. Tutte fidanzate ! Tutte! LA REGINA. (furibonda:) Non voglio sentir altro. (Al Re:) Se ci aveste pensato quando ve lo dicevo io!... Chi daremo ora in moglie al Reuccio? Gli daremo Tizzoncino, la figlia della fornaia! Spera di sole, spera di sole, sarai regina, se Dio vuole ! IL RE.(accigliato e cupo:) Per costei ho già provveduto. Olà, guardie ! UNA GUARDIA. Comandi, Maestà. IL RE. Avete arrestato le fornaie? 208 LA GUARDIA. Sono in sala, Maestà. IL RE. Conducetele qui. (La guardia esce.) E voi, ambasciatori, che ci avete recato così brutte notizie, ringraziate il cielo se le teste vi rimangono su le spalle; ma, in avvenire, servite il vostro sovrano con maggiore premura c con miglior fortuna. ARLECCHINO e (inchinandosi:) TARTAGLIA Grazie, maestà. ARLECCHINO. (sotto voce a Tartaglia:) Andiamo a bere un gocciolo; non ho più sangue ne le vene. (Arlecchino e Tartaglia si avviano per uscire.) IL RE. (a Tartaglia:) Dove vai, vecchia cornacchia ? (Ad Arlecchino:) E tu, buffone, dove vai? Restate qui; siete ministri, e c'è Consiglio per giudicare le fornaie. ARLECCHINO. (a Tartaglia sotto voce:) Per ministri, il re ci tratta bene ! TARTAGLIA. (ridendo:) Vi ha de...detto: Buffone! ARLECCHINO. (ridendo e facendogli il verso:) E a vo... voi: Vecchia cornacchia! LA REGINA. (rabbiosa:) Vedremo ora, Maestà, se siete buono a far qualcosa! Queste fornaie hanno insultato voi, me, e il reuccio. SCENA III. Tizzoncino, col viso annerito dalla fuligine, i capelli arruffati e i piedi scalzi, vestita cenciosamente, e sua madre la FORNAIA IL RE. Avanzatevi. ARLECCHINO. (alle fornaie:) Fate tre inchini. TIZZONCINO. A chi? ARLECCHINO. Al re, alla regina e al reuccio. TIZZONCINO. Chi è il re? (A Tartaglia:) Siete voi? TARTAGLIA. (contorcendosi dalle risa:) Ah! Ah! Ah! Mi ha sca... mi ha scambià... mi ha scambiato pel re!!! IL RE Il re sono io. LA FORNAIA. Maestà, eccoci ai vostri piedi. IL RE. (facendo la voce grossa:) È vero, strega, che tu ogni sera ti chiudi in casa con la tua figliuola, e poi dici: Spera di sole, spera di sole, sarai regina, se Dio vuole ? TIZZONCINO. (arditamente:) Maestà, si. IL RE. (ingrossando maggiormente la voce:) E spera di sole sei tu, con quel viso fuliginoso? TIZZONCINO. (come sopra:) Mi chiamano Tizzoncino, ma sarò regina, se Dio vuole. (La Regina freme, il Reuccio si dimena su la seggiola). IL RE. Olà, guardie! Gettate madre e figlia in fondo a un carcere. LA FORNAIA. Maestà, l'ho detto per chiasso. Noi siamo due povere fornaie; viviamo cocendo il pane della gente; non facciamo male a nessuno. IL RE. (con voce terribile:) In carcere! Col re non si scherza. TIZZONCINO. (ride forte:) Ah! Ah! Ah! Ah! IL RE. (alzandosi furiosamente dal trono:) Tu ridi, sfacciatella? TrzzoNCINO. Maestà, in carcere staremo bene. Voi darete da mangiare a mia madre e a me, e mia madre non dovrà più ardere il forno, nè io più andrò su e giù con la tavola su la testa per prendere dagli aventori il pane crudo, nè con la cesta in collo per riportarlo cotto. (Ride:) Ah! Ah! A! LA REGINA. (dando un urtone al re:) Voi siete re da burla! Vi ridono sul muso ! IL RE. (Urlando:) In carcere! E voi, eccellenza Tartaglia, e voi eccellenza Arlecchino, farete guardia alla prigione, giorno e notte. ARLECCHINO, (a Tartaglia a bassa voce:) Da ministri, carcerieri! Siamo avanzati di grado! TARTAGLIA. (Gli accenna di star zitto.) IL REUCCIO. (furibondo a Tizzoncino:) Tu devi essere regina, tu ? Prendi intanto! (Le dà due schiaffi.) LA REGINA. (furibonda, a Tizzoncino:) Tu sei Spera di sole, tu ? Prendi questi intanto ! (Le dà due schiaffi.) TIZZONCINO. (nasconde la faccia tra le mani e scoppia in pianto.) LA FORNAIA. (confortando Tizzoncino:) Zitta, zitta, figliuola mia! Il reuccio è padrone di schiaffeggiarti; la regina è padrona egualmente; possono fare quel che vogliono. TIZZONCINO (singhiozzando:) Hanno le mani pesanti! Ah! Ah! ARLECCHINO. (prendendo la fornaia per le spalle:) In carcere! TARTAGLIA. (prendendo Tizzoncino per le spalle:) In ca... carcere! TIZZONCINO. (lo guarda, dà in una gran risata e canzonandolo esclama:) E andiamo pure in ca...carcere! SCENA IV. Spianata davanti la prigione. A lato della porta chiusa, si vede il finestrino della stanza dove sono carcerate le fornaie. Tartaglia e Arlecchino, con le sciabole sguainate, fanno la guardia andando su e giù; cascano dal sonno. È notte. ARLECCHINO. Aprite bene gli occhi; non ve le lasciate scappare. Io vado e torno subito ; vado alla taverna qui vicina. TARTAGLIA. Fa....fate pre....presto, eccellenza. Non mi reggo dal sonno. Arlecchino sta per svoltare la cantonata. Tartaglia, vedendo illuminare tutt'a un tratto il finestrino della prigione, si spaventa e richiama Arlecchino. TARTAGLIA. PSi ! Psi! Psi! ARLECCHINO. Che è stato ? TARTAGLIA. (facendo gesti di meraviglia:) Quella luce! Non vedete ? ARLECCHINO. (accostandosi sotto il finestrino, chiama:) Ehi, fornaie! TIZZONCINO. (dall'interno:) Lasciateci dormire. ARLECCHINO. (burbero:) Che lume è quello TIZZONCINO. (facendogli il verso:) Quale lume? LA FORNAIA. (dall'interno, con cantilena monotona:) Spera di sole, spera di sole, sarai regina, se Dio vuole ! (Il finestrino s'illumina maggiormente). ARLECCHINO. (spaventato:) C'è il sole là dentro!.. Opera diabolica! Corro ad avvisare il Re! TARTAGLIA. (afferrandosi ad Arlecchino) Co.... corro io ! ARLECCHINO. (dandogli una spinta che lo fa ca- dere per terra:) Sono più svelto di voi. TARTAGLIA. (si rizza e lo afferra di nuovo). LA FORNAIA. (come sopra:) Spera di sole, spera di sole, sarai regina, se Dio vuole. ARLECCHINO e TARTAGLIA. (tremanti, si mettono a gridare:) Aiuto, aiuto ! Guardie ! Carcerieri ! Soldati!.... SCENA V. Il Re in berretto da notte, avvolto in una coperta da letto, guardie con fiaccole e detti. IL RE. Perché gridate così ? Mi avete rotto il sonno. (Il lume interno si spegne a un tratto.) ARLECCHINO. (tremante ancora:) C'è il sole là dentro, e la vecchia che dice.... TARTAGLIA. (tremante anche lui:) Spe....spera di sole... IL RE. Non vedo niente; la prigione è al buio. ARLECCHINO. (confuso:) Opera diabolica, Maestà! IL RE. Avete bevuto troppo, capisco. Guai alle vostre teste, eccellenze, se quelle fornaie vi scappano! (Il Re rientra.) ARLECCHINO. Come ? Non si vede più niente! Avevate le traveggole. TARTAGLIA. E vo... voi ? ARLECCHINO. La fame e la sete ci turbano il cervello. Guardie, portateci qualcosa da mangiare e da bere. TARTAGLIA. Be....ben pensata! Entra una Guardia e porta una cesta con una bottiglia di vino e pane, cacio, salame, che consegna a Arlecchino; poi esce. ARLECCHINO. (a Tartaglia:) Voi state a fare la guardia. Io mangerò un boccone, e poi prenderò il vostro posto. Dicano quel che vogliono, ma il vino è la delizia dell'uomo, e il salame anche. TARTAGLIA. Pe...pensate per me. ARLECCHINO. Ci penso. (Messosi a sedere per terra, stende un tovagliolo fra le gambe aperte, cava fuori ogni cosa dalla cesta, che butta via, e comincia a mangiare, dopo aver prima bevuto. Posando la bottiglia, dice:) Chi inventò le bottiglie fu uno sciocco. C'erano già le botti; che importava inventare le bottiglie ?... TARTAGLIA. (vedendolo mangiare affrettatamente:) Pe...pensate per me! ARLECCHINO. (col boccone in bocca:) Non penso ad altro. Se mi parlate mentre mangio, me ne fate dimenticare. (Il finestrino s'illumina splendidamente di nuovo.) TARTAGLIA. (fermandosi davanti alla porta della prigione:) Psi! Psi!... Arlecchino.... Psi! Psi! ARLECCHINO. (che beveva, rimane un pezzetto con la bottiglia alle labbra, poi dice:) Che paura mi avete fatto! Mi si è incollata la bottiglia alle labbra, e ho bevuto per forza tutto il vino, col pericolo di soffocare! TARTAGLIA. (che trema dalla paura, additando il finestrino:) Gua...guardate! ARLECCHINO. (saltando in piedi) Il sole! Il sole! Opera diabolica !... Aiuto! Aiuto! Carcerieri! Guardie! Soldati! SCENA VI. Il Re in berretto da notte e con la coperta addosso conte poco prima, e la Regina, in cuffia e veste bianca, avvolta in uno scialletto. Guardie con fiaccole e detti. IL RE. Perchè gridate così? ARLECCHINO. (tremante dalla paura, e additando, senza guardare il finestrino:) Là!... Il sole, là! LA REGINA. Questo è un portento! LA FORNAIA. (di dentro, conte sopra:) Spera di sole, spera di sole, sarai regina, se Dio vuole. TIZZONCINO. (di dentro, ride:) Ah! Ah! Ah! Ah! IL RE. È cosa da stupire! LA REGINA. È Tizzoncino che fa l'uovo, come dicono le sue vicine! TARTAGLIA. (al Re:) Maestà, la...lasciate pa... parlare un vecchio. IL RE. Parlate. TARTAGLIA. Que....queste fornaie di....dicono : Se Dio vuole. E se Di....Dio vuole, nessuno può faa...rci niente. LA REGINA. L'eccellenza Tartaglia ha ragione. IL RE. Avete detto che ha ragione; ricordatevene! LA REGINA. (piccata:) Si, quando uno ha ragione, io gli dò ragione; non sono, testarda io. IL RE. (da sè:) Non voglio leticare (alla regina:) E allora?... LA REGINA. Lasciamo in libertà madre e figlia. IL RE. L'avete detto voi, ricordatevene ! Olà, guardie! Fate venir fuori le fornaie. SCENA VII. Tizzoncino, la Fornaia e detti. LA REGINA. (alle fornaie:) Il re vi perdona. Io vi prendo per fornaie di palazzo. TlZZONCINO e Grazie, Maestà! LA FORNAIA. LA REGINA. Tizzoncino, perchè non ti lavi la faccia? TIZZONCINO. Maestà, ho la pelle fina ; l'acqua me la sciuperebbe. LA REGINA. Tizzoncino, perchè non ti pettini? TIZZONCINO. Maestà, ho i capelli sottili; il pettine me li sciuperebbe. LA REGINA. Tizzoncino, perchè non ti compri un paio di scarpe ? TIZZONCINO. Maestà ho i piedini delicati; le scarpe mi farebbero i calli. LA REGINA. Tizzoncino, perché la tua mamma ti chiama Spera di sole ? TIZZONCINO. Sarò regina, se Dio vuole. LA REGINA. Com'è allegra! Mi diverte. IL RE. (alla Regina:) E ieri l'altro ne volevate la testa! LA REGINA. Non mi seccate ! ARLECCHINO. (al Re:) Maestà, possiamo ora andarcene a mangiare e a dormire? IL RE. Andiamo a letto tutti. TARTAGLIA. (sgambettando dalla contentezza:) Sia lo....lo.... sia lo....lo....looodato Dio ! (Tutti escono ridendo, saltellando, gridando: A letto ! A letto!) ATTO SECONDO SCENA I. Bosco. In fondo, quasi nascosta fra gli alberi, la casa del Mago, Il Reuccio entra con un fascio di legna su le spalle; lo regge a stento, e fatti pochi passi, lo depone evi si inette a sedere sopra. Piange. IL REUCCIO. Povero me ! Andato a caccia per distrarmi, mi sono smarrito in questo bosco; son caduto nelle mani del Mago, e sono diventato suo schiavo ! Io, il Reuccio, debbo attingergli l'acqua alla fontana, spaccargli la legna, preparargli il desinare, fargli i più umili servizi. E non ho più notizia del re, della regina, di nessuno ! Essi forse mi credono morto. Infelice Reuccio!...Sono stanco ; non ne posso più dal gran lavorare. Mentre il Mago è lontano, voglio dormire un pochino. (Si stende per terra e appoggia la testa al fascio della legna. Si addormenta). SCENA II. Arlecchino e Tartaglia entrano facendosi largo fra i rami degli alberi. ARLECCHINO. Il re ci ha messi in un grave impiccio. Dove diamine sarà la casa del mago che tiene schiavo il Reuccio? Abbiamo percorso mezzo bosco, ci siamo smarriti, e ora non troviamo l'uscita. TARTAGLIA. To...torniamo addi...dietro ! ARLECCHINO. Se non portiamo notizie del Reuccio, il re ci farà tagliare le teste. TARTAGLIA. To...torniamo addi...dietro ! ARLECCHINO Che vedo? Non è il Reuccio colui che dorme per terra ? TARTAGLIA. È lu...lui ! ARLECCHINO. (chiamando:) Reuccio! Reuccio! TARTAGLIA. Accostiamoci... Ahi! (Porta la mano alla fronte quasi avesse urtato in un ostacolo invisibile). ARLECCHINO. Che è stato ? TARTAGLIA. Ahi ! Ahi ! Ho sba...sbattuto la te...sta ! ARLECCHINO. Dove ? Non c' è rami qui. Accostiamoci con cautela per non fargli paura (Fa qualche passo, e grida, come Tartaglia, portando la mano alla fronte:) Ahi ! Ahi ! TARTAGLIA. Che è stato ? ARLECCHINO. Ho sbattuto la testa anch'io. Qui c'è un ostacolo invisibile, qualche incanto del Mago. (Chiama:) Reuccio! Reuccio ! IL REUCCIO (destandosi:) Chi mi chiama ? ARLECCHINO. Siamo noi; ci manda il re. IL REUCCIO. (alzandosi, con gioia:) Ah, eccellenza Tartaglia! Ah, eccellenza Arlecchino! ARLECCHINO. Venite, fuggiamo mentre il mago non c'è.. IL REUCCIO. Non posso fuggire; sono circondato da un muro incantato. ARLECCHINO. Pur troppo ! Lo sanno le nostre fronti; ci siamo fatti un bernoccolo per uno. IL REUCCIO. Il mago tornerà fra poco. Intanto datemi notizia del re e della regina. ARLECCHINO. Piangono giorno e notte ; il regno tutto piange. Noi siamo stati mandati per trattare col Mago il vostro riscatto. Il re darebbe qualunque cosa, anche il sangue delle sue vene, pur di vedere liberato il suo caro figliuolo. IL REUCCIO. Ecco il mago ! Sento il rumore del suo alito. (Si sente un rumore strano, quasi di vento che scola le fronde degli alberi). ARLECCHINO (atterrito:) Mamma mia! TARTAGLIA (più atterrito di lui:) Ma...mamma mia! SCENA III. Il Mago e detti. Il Mago parla con vocione cupo cupo. IL MAGO. (fermandosi a guardarli:) Chi siete? Che fate qui ? ARLECCHINO (facendo un profondissimo inchino:) Eccellentissimo signor Mago ! TARTAGLIA. (inchinandosi:) Ecce...ecc...! IL MAGO, Sciagurati! Vi pentirete presto del vostro ardire. Chi siete? ARLECCHINO. Eccellentissimo signor Mago, siamo mandati dal re. Dice il re: Chiedete; tutto vi sarà concesso, pur che rilasciate libero il reuccio. Volete oro ? Volete gemme? Volete metà del suo regno ? IL MAGO. Non so che farmi di tutto questo. Voglio una focaccia, stacciata, impastata e infor- nata di mano della regina; non voglio altro. Appena l'avrò avuta, il reuccio sarà libero. Andate, e recatemi la risposta. Dite al re che se non l'avrò fra tre giorni, suo figlio rimarrà mio schiavo per sempre. ARLECCHINO. Prima di tre giorni saremo qui. IL MAGO. Per prova della mia potenza, portategli questo segno (Tocca con la sua verga prima Tartaglia poi Arlecchino). TARTAGLIA (parlando spedito:) Che segno? ARLECCHINO. (tartagliando:) Che se...segno?... Oh, Di...Dio, fu...fuggiamo.... se no di...divento mu...muto a dirittura!... TARTAGLIA. Ed io parlo sciolto! Grazie signor mago! (Escono). SCENA. IV. Il Mago e il Reuccio. IL MAGO. Hai spaccato la legna ? IL REUCCIO. L'ho spaccata. IL MAGO. Hai attinto l'acqua alla fontana ? IL REUCCIO. L'ho attinta. IL MAGO. Hai preparato il desinare? IL REUCCIO. L'ho preparato. IL. MAGO. Hai spazzato la casa? IL REUCCIO. Mi è mancato il tempo ; siete tornato troppo presto. IL MAGO. Ah! Sono tornato troppo presto ? Fannullone! T'insegnerò io a fare il tuo dovere. (Lo bastona). IL REUCCIO. Ah, povero a me ! (Corre ed entra in casa inseguito dal Mago che continua a bastonarlo). SCENA V. Sala del palazzo reale. Il Re, la Regina e tutta la Corte. IL RE Non tornano ancora! LA REGINA. (con stizza:) Dovevate andare voi stesso in persona! IL RE. E se il mago prendeva anche me ? LA REGINA. (sprezzante:) Che ne farebbe di voi ? Non siete buono a niente. Intanto il nostro caro figliuolo rimane schiavo... Non avete viscere di padre. IL RE (ironico:) Non siete andata neppure voi ! LA REGINA (rabbiosamente:) Io sono donna... Vorreste insomma sbarazzarvi di me? IL RE. Ecco: il torto è sempre mio ! (Si rassegna:) Nè tornano ancora! SCENA VI. Entrano precipitosamente Arlecchino e Tartaglia. ARLECCHINO. E...eccoci, Ma...maestà ! TARTAGLIA. Eccoci. IL RE. Respiro. Parlate, eccellenza Arlecchino. ARLECCHINO. Non po...posso. Ma...maestà! IL RE (severo:) Non è momento da scherzi. E poi, io non permetto che in mia presenza si canzoni un altro ministro. ARLECCHINO. Non sche...scherzo, Ma...maestà. IL RE (severo:) Finetela eccellenza Arlecchino. TARTAGLIA (parlando precipitosamente:) Maestà, permettete che parli io. La mia lingua, che il mago ha sciolta da ogni impiccio, vi sia testimone della nostra ambasciata compiuta. LA REGINA. Oh, portento ! IL RE. Stupisco! TARTAGLIA. (come sopra:) Dice il mago: Non voglio nè gemme, nè oro, nè metà di regno. Voglio una focaccia stacciata, impastata e infornata di mano della regina. LA REGINA (sdegnosamente:) Per chi mi ha presa costui ? Non sono una serva o una fornaia. IL RE. Rifiutate? LA REGINA. Rifiuto. IL RE. (accalorandosi:) Anche a costo di lasciar schiavo il reuccio? LA REGINA (accalorandosi:) Anche a costo di lasciar schiavo il reuccio ! IL RE (scoppiando:) E siete madre? LA REGINA. Sono Regina! E certi vili mestieri non li faccio. TARTAGLIA (supplicando:) Lasciatevi commuovere, Maestà! ARLECCHINO. (tartagliando:) lo ci ho... ci... ci... ho un rimedio. Ma ho ver...gogna di par...parlare così. Datemi ca...ca...ca... TARTAGLIA. (venendogli in aiuto:) Carta? ARLECCHINO. (accenna di sì:) E pe... pe... pe... pe... TARTAGLIA (Come sopra :) Penna? ARLECCHINO (accenna di sì:) E ca...ca... ca... ca... TARTAGLIA. E calamaio! Ho capito. IL RE. Si porti carta, penna e calamaio. (Una guardia eseguisce. Ad Arlecchino:) Scrivete. (Arlecchino scrive e porge lo scritto al Re che lo legge). IL Re (dopo aver letto:) Che idea luminosa! Arlecchino, vi faccio barone ! LA REGINA (sprezzante:) Che consiglia? Qualche bestialità. IL RE. Vedrete. Olà, guardie! Chiamate subito Tizzoncino. UNA GUARDIA. È qui; ha riportato il pane infornato. IL RE. Fatela entrare. SCENA VII. Tizzoncino col cesto vuoto, e detti. IL RE. Vieni, Tizzoncino. Abbiamo bisogno dell'opra tua. TIZZONCINO. Ai vostri comandi, Maestà. IL RE. Devi stacciare, impastare e infornare una focaccia con le tue proprie mani. TiZZONCINO. Sarete servito, Maestà. IL RE. Per domani. TIZZONCINO. Per domani. LA REGINA. Sempre allegra, Tizzoncino? TIZZONCINO. Sempre allegra, Maestà. LA REGINA. Ma perchè non ti lavi la faccia? TIZZONCINO. Ve l'ho già detto, Maestà: l'acqua mi sciuperebbe la pelle. IL RE. Perchè non ti pettini? TIZZONCINO. Ho i capelli fini, Maestà; il pettine me li strapperebbe. TARTAGLIA. Perchè non ti compri un paio di scarpe ? TIZZONCINO (ridendo). Co...come? Non tarta... ta...glia...te più? TARTAGLIA. No. TIZZONCINO. Allora tartaglierò io; perchè mi fa...fa... mi farebbero i ca...calli. ARLECCHINO. E pe...perchè la tu...tua ma... mamma... TIZZONCINO (ridendo forte:) O bella! Ora tartaglia questo qui! ARLECCHINO. (continuando:) Ti chia...chiama... TIZZONCINO. Spera di sole? Perchè sarò regina, se Dio Vuole! IL RE. Brava, Tizzoncino! LA REGINA. Quanto sei sciocca, Tizzoncino, se ti lusinghi così ! TIZZONCINO. Maestà si vedrà all'ultimo chi è la sciocca. Ora lasciatemi andare; ho da riportare altro pane dal forno. (Esce). LA REGINA (sprezzante, al re:) Che avete conchiuso? Credete di darla a bere al mago ? IL RE (infuriato:) Non mi fate scappare la pazienza, regina! LA REGINA. Bastonatemi; non vi resta altro da fare ! IL RE (frenandosi:) Andiamo, altrimenti mi scordo che sono re! Prepariamoci tutti pel viaggio di domani alla casa del mago. (Escono). SCENA VIII. Bosco: la casa del Mago in fondo. Il Reuccio porta un tronco d'albero su le spalle; il Mago, con la verga lo siegue. IL REUCCIO. Non posso più portare questo tronco; lasciatemi riprender fiato. IL MAGO (minacciando:) Avanti ! IL REUCCIO. Ho sete; lasciatemi bere un sorso d'acqua. IL MAGO (come sopra:) Avanti ! Berrai dopo. IL REUCCIO. Se mi vedesse in questo stato il re mio padre! IL MAGO. Il re tuo padre si è scordato di te. Oggi è il terzo giorno, e non ha ancora mandato la focaccia, stacciata, impastata e infornata di mano della regina. Se passa questa giornata, sarai mio schiavo per sempre. IL REUCCIO. Ah, padre e madre crudeli, vi siete scordati di me! (Entra in casa). IL MAGO. Io so che sono per via, Re, Regina, Tizzoncino e tutta la Corte. Essi credono d'in- gannarmi; hanno fatto stacciare, impastare e infornare la focaccia da Tizzoncino, e vogliono darmi a intendere che sia opra della regina. Ma gl'ingannati e i canzonati saranno loro. Con un mago come me, non si fa la burletta ! IL REUCCIO. (tornando fuori:) Ho portato il tronco nella legnaia. IL MAGO. Va ad attinger l'acqua alla fontana. IL REUCCIO. Ah, padre e madre crudeli, vi siete scordati di me!... (Guarda in fondo al bosco, e con giubilo esclama:) No, non è vero! Eccoli! Eccoli ! IL MAGO. Non dire una parola e sta lì, fermo, o ti faccio rimanere di sasso. (Il Reuccio resta immobile). SCENA IX. Il Re, la Regina, Tizzoncino, Tartaglia. Arlecchino, la Corte, Guardie e soldati e detti. IL RE. Potentissimo Mago, siamo venuti a presentarti la focaccia da te richiesta. IL MAGO. Chi ha stacciato la farina ? LA REGINA. L'ho stacciata io. IL MAGO. Chi l'ha impastata? LA REGINA. L'ho impastata io. IL MAGO. Chi ha infornato la focaccia? LA REGINA. L'ho infornata io. IL MAGO. Lasciatemela vedere. TIZZONCINO. (presentando la focaccia :) Eccola qui. IL MAGO. E tu chi sei? TIZZONCINO. Sono Tizzoncino. IL MAGO (facendo la voce grossa a Tizzzoncino:) Chi ha stacciato la farina? TIZZONCINO. La regina vi ha risposto : L' ho stacciata io. IL MAGO. (come sopra:) Chi l'ha impastata ? TIZZONCINO. La regina vi ha risposto: l'ho impastata io. IL MAGO. (come sopra:) Chi ha infornata la focaccia ? TIZZONCINO. La regina vi ha risposto : L' ho infornata io. IL MAGO. (accarezzandola:) Sei maliziosa; hai risposto bene ed hai detto la verità. IL RE (da sé:) Oh, Dio! Siamo scoperti. ARLECCHINo(a parte:) Sia... siamo fri...fritti! 'TARTAGLIA (a parte:) Siamo perduti! LA REGINA (a parte:) Ci siamo gettati da noi stessi in gola al lupo! IL MAGO (con voce cupa:) Tizzoncino, entra in quella casa, chiudi l'uscio e non venir fuori finchè non sarai chiamata. (Tizzoncino eseguisce). E voi altri, che volevate ingannarmi, ora capirete che vuol dire farsi beffe d'un mago. TUTTI. Ahimè! IL RE. Illustre Mago, potentissimo Mago, la colpa non è mia. (Additando Arlecchino:) È stato lui che mi ha consigliato. ARLECCHINO (tremante:) Lo sa...sa...sapevo che do...do...doveva fi...finire così! (piange:) Ah ! Ah ! Ah ! IL MAGO. Non piangere, animale! ARLECCHINO. Animalissimo, signor Ma...mago! Ma pe...perdono! Perdono. IL MAGO. E voi, regina superbiosa, madre snaturata... LA REGINA. Perdono, potentissimo Mago. Non sapevo ne stacciare, nè impastare, nè infornare! IL MAGO. Voglio essere generoso. C'è un solo rimedio per scampare dalla mia giusta vendetta. IL RE. Ditelo, ditelo potentissimo Mago. IL MAGO. Che ho chiesto ? Una focaccia stacdata, impastata e infornata di mano della regina; ebbene, fate che questa focaccia diventi tale, e il Reuccio sarà libero e sarete liberi tutti. IL RE. Subito? IL MAGO. Ora stesso, senza muoverci di qui. Il come dovete trovarlo voi. Rifletteteci bene. IL RE. Riflettiamo. TUTTI Riflettiamo! (Si mettono con una mano alla fronte in atto di riflettere). IL RE. (dopo un pezZetto, alla regina:) Avete trovato? LA REGINA. No. (A Tartaglia:) E voi ? TARTAGLIA. No. (Ad Arlecchino:) E voi? ARLECCHINO (saltando dalla gioia :) L'ho...tro... tro...vata! (Il Re, la Regina, Tartaglia, tutti gli altri si mettono a saltare dalla gioia, gridando:) L'ha trovata! IL MAGO. Sentiamo. Per far più presto, ti sciolgo la lingua. ARLECCHINO. Benissimo ! Grazie. Ecco : perchè questa focaccia diventi lì per lì stacciata, impastata e infornata di mano della regina, vi è un solo mezzo. IL RE, REGINA, TARTAGLIA (ansiosi:) Quale? ARLECCHINO. (al re:) Debbo o non debbo dirlo? IL RE. Ditelo pure. ARLECCHINO. Far diventare reginotta Tizzoncino, dandola in moglie al reuccio. TUTTI (meno il mago:) Oh ! Oh! Oh ! IL RE. Parola di re: sin da questo momento il Reuccio e Tizzoncino siano marito e moglie. IL MAGO. Datemi la focaccia. Il reuccio è libero. Io mi ritiro. Abbracciatevi. (Entra in casa). IL RE. (abbracciando il Reuccio:) Ah, figliuolo mio caro ! LA REGINA. Povero figlio mio, sposato a una fornaia! IL REUCCIO. Ma io non ho dato il consenso. Sposare quella bruttona? Quella cenciosa? Quella fuligginosa ? IL RE. Parola di re non va indietro; siete marito e moglie. IL REUCCIO. Prima morire, che sposare costei. TIZZONCINO. (di dentro, canzonandolo:) La vedremo, reuccio ! IL REUCCIO. Vieni fuori, bruttona, e ti risponderò meglio! TIZZONCINO (come sopra :) Non vi scaldate! IL REUCCIO. Vieni fuori, cenciosa, fuliginosa, piedi scalzi ! (Il Reuccio si avventa contro l'uscio per aprire). IL RE (alle guardie:) Fermatelo ! TIZZONCINO. (di dentro:) Guardami dal buco della serratura. IL REUCCIO (guarda dal buco della serratura, ed esclama :) Oh, Dio, che mai vedo ! (Resta estatico a guardare.) IL RE. Che vede? TUTTI. Che vede ? È rimasto incantato ! IL REUCCIO (guardando ancora:) Oh, che bellezza ! Oh, che cosa celeste! ARLECCHINO. È impazzito. TARTAGLIA. Pa...pare. IL REUCCIO (picchiando all'uscio :) Aprite e perdonatemi, reginotta mia ! TIZZONCINO (di dentro, facendogli il verso:) Fornaia ! Cenciosa ! IL REUCCIO (come sopra :) Aprite regina del cuor mio ! TIZZONCINO (di dentro, ridendo e facendogli il verso:) Ah ! Ah ! Bruttona ! Fuliginosa ! IL REUCCIO (picchiando più forte:) Apri, apri, Tizzoncino dell'anima mia ! (L'uscio si spalanca e comparisce Tizzoncino bella come il sole, vestita di abiti reali). TUTTI. (con gran meraviglia:) Ah ! IL RE (prendendo per le mani Tizzoncino e il Reuccio :) Figli miei, siate felici ! LA REGINA. Ora non sei più Tizzoncino ! TARTAGLIA. Spe...spera di so...le... ARLECCHINO. Lo direte domani, per ora lo dico io:. Spera di sole, spera di sole, Sarai regina, se Dio vuole E si è avverato ! Viva gli sposi ! TUTTI. Viva gli sposi ! (Cala il sipario).

Andavo dietro a coloro, camminando lentamente, da visitatore, ma senza perderli di vista. Quando si fermarono davanti a un monumentino, appena li vidi deporre su di esso la corona e inginocchiarsi, mi accostai; non senza un po' di rimorso, quasi la mia curiosità profanasse il loro dolore. Il babbo e la mamma, che pregavano raccolti, non si accorsero della mia presenza. La bambina mi guardò con aria diffidente; poi, piano piano, di nascosto del babbo e della mamma, trasse dalla tasca del vestito un involtino e andò a deporlo dietro il monumento. La mamma si volse e le domandò: — Lina, che fai ? La bambina arrossì, ma rispose : — Niente. Babbo e mamma alzatisi pallidi e commossi, giravano attorno al monumentino del loro figlioletto, morto l'anno avanti, per ispezionarlo; così si accorsero dell'involtino deposto lì dalla bambina. Il babbo si chinò e lo prese. — No, babbo, lascialo stare, balbettò la bambina. — Gli ho portato un dolce, di quelli che gli piacciono tanto ! Senza dir niente, con le lagrime agli occhi, il babbo depose l'involtino dove la bambina l'aveva messo. La mamma singhiozzava. Io mi ero allontanato subito, per non piangere con loro.

Il babbo aveva detto a Checchino: — Non si chiede mai due volte quel che già si ha; bisogna contentarsi. E intendeva ammonirlo del difetto di volere sempre il doppio di quel che gli si dava. Checchino era buono, e di rado si faceva ripetere la stessa cosa; ma era anche riflessivo e ragionatore più che un bambino non soglia. Quella sera, a letto, dopo che la mamma gli aveva fatto recitare il paternostro, egli domandò: — Mamma, pane quotidiano non vuol dire pane d'ogni giorno? — Si, te l'ho spiegato tempo fa. — Ma io ce l'ho il pane ogni giorno; perchè chiederlo al Signore? Il babbo ha detto che non si deve mai chiedere due volte quel che già si ha; e tu intanto mi fai ripetere tutte le sere al Signore: Dacci il pane quotidiano! — Potrebbe mancarti. — Perchè non me lo daresti ? — Perchè potrei non averne da dartene. — Lo chiederei allora, e starebbe bene : Dacci il pane quotidiano. — Il paternostro è così, ce l'ha insegnato Gesù. Addormentati. E la mamma, sorridendo, lo baciò e lo benedisse. Ma quella sera Checchino non poteva addormentarsi. Pensava che il pane ogni giorno egli lo aveva a sufficienza, e che sarebbe stato meglio chiedere al Signore qualcos'altro. Appunto il babbo non aveva voluto comprargli un bel giocattolo con la scusa che costava troppo caro: un vecchietto con gli occhiali e che muoveva la testa e le braccia e pareva suonasse il violino, se si girava un manubrietto. E la sera appresso, quando la mamma gli disse: — Via, recita il paternostro, — Checchino rispose, blandendola: — Mammina, lo reciterò da me, sottovoce. — Perchè questa novità? — Perchè al Signore piacerà più, se glielo recito da solo. La ragione parve buona alla mamma: — Rècitalo attentamente! — soggiunse, dopo averlo baciato e benedetto. - Oh, non dubitare! E Checchino, appena la mamma fu andata via a mani giunte comincio: — Padre nostro, che stai nei cieli, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra. Dammi quel giocattolo quotidiano che muove testa e braccia, rimettici i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori, non c' indurre in tentazione. E così sia. La sera dopo, Checchino ripetè la stessa scena di voler dire il paternostro da sè. E siccome la mamma insisteva, egli si ostinò tanto che la buona signora si mise in sospetto di qualcosa. Finse di andar via, rientrò piano piano, e trattenendo il respiro, si chinò sul bambino che voltato verso il muro recitava la preghiera con voce a bastanza alta da essere facilmente udita. Dovette fare un grande sforzo per non ridere della ingenuità del figliuolino; e raccontò tutto al marito. Poche mattine appresso, Checchino allo svegliarsi trovò sul capezzale un giocattolo che somigliava un po' a quello da lui chiesto, ma non muoveva nè testa nè braccia. Convinto che glielo avesse mandato il Signore, egli disse alla mamma mentre ella lo vestiva : — Vedi, mamma, il Signore ha sbagliato; gli avevo chiesto l'altro che muove testa e braccia e pare che suoni il violino. — No, — rispose la mamma, — il Signore non ha sbagliato. Egli vuole che i bambini credano alla parola del loro babbo. Il babbo ti ha detto che quel giocattolo costa troppo caro, e per ciò il Signore ti ha mandato, questo che costa poco. Ora tu, per ringraziarlo bene, devi recitare il paternostro come va detto, altrimenti il Signore si riprende il giocattolo. — Quand'è così! — esclamò Checchino rassegnandosi. E da quella volta in poi recitò il paternostro com'è.

Molte volte la mamma aveva detto a Ernesto : — Non molestare le bestie; sono anch'esse creature del Signore ! — ma era stato sempre come dire al muro. Appena poteva avere tra le mani un cane, un uccellino, un gattino, una bestiolina qualunque, Ernesto sembrava preso dalla perversa smania di farli soffrire in tutti i modi, con raffinatezza crudele. Cominciava dall'accarezzarli, quasi per addormentarne la naturale diffidenza; poi, con aghi, forbici, cerini, cordicelle ed altri strumenti di tortura ingegnosamente trovati, godeva farli strillare, abbaiare, miagolare, urlare, infuriare, dibattere; e mentre le povere bestie si contorcevano dal dolore e facevano accorrere con le grida la mamma, il babbo, o qualch'altro di casa, egli rideva, batteva le mani, saltava, contento della bella prodezza fatta, e non ascoltava nè ammonimenti, nè gastighi; giacchè la mamma e il babbo, indignati, spesso lo gastigavano forte, e non solamente per correggerlo, ma per evitare che un giorno o l'altro non gli accadesse qualche malanno. — E se ti mordono? Sc ti cavano gli occhi con le granfie o col becco le bestioline infuriate? Era come dire al muro. Per ciò mamma e babbo, da qualche tempo in qua, non tenevano più in casa animali di sorta, sperando che con gli anni il tristo istinto si spegnesse nel bambino, e la buona natura e la ragione prendessero il sopravvento. Oramai Ernesto non era più un bambino, e da due anni non aveva mai avuto occasione di mostrare se la sua cattiveria fosse tuttavia viva e persistente. Un giorno la sua mamma ricevette in regalo un canarino con una bella gabbia dorata su un treppiede di legno bronzato. Lo collocò nel salottino dov'ella soleva leggere, lavorare e ricevere confidenzialmente le amiche più intime ; gabbia e uccellino erano così sotto la sua sorveglianza d' ogni istante; per precauzione però l'uscio del salottino veniva anche chiuso a chiave, ogni volta che la signora andava fuori ed Ernesto doveva rimanere in casa pei còmpiti di scuola. Ernesto pareva pieno di ammirazione e di affetto verso il canarino che cantava meravigliosamente; voleva, col permesso della mamma, governarlo lui ; gli porgeva lo zucchero, l' erba, il biscottino; gli faceva moine con la mano; e la buona signora godeva osservando che l' istinto malefico si era mutato nel fanciullo in tenerezza per gli animali. Soltanto gli raccomandava : —Bada di non farlo scappare. Poco dopo, al canarino fu aggiunto un canino danese, grosso quanto un pugno; e finalmente un bel gatto d'Angora dal pelo lungo e vellutato che fece presto amicizia col canino. Ernesto pareva di essersi costituito il protettore delle tre bestiole, tante cure e tante carezze prodigava a tutti e tre; babbo e mamma ne godevano più che mai. Ma il ragazzo era cattivo e malizioso, e quel suo mutamento fina ipocrisia. Egli attendeva l'occasione apportuna per farne una delle solite; ci pensava su, ordiva piani, architettava mezzi, e attendeva zitto e sornione; ma fu pel suo male, e n'ebbe un ricordo per tutta la vita. Una volta dunque, egli venne lasciato in casa, sotto la sorveglianza della cameriera. Costei, fidandosi troppo, lo abbandonò solo in salotto. Che fece egli allora? Chiuso l'uscio del salotto col paletto interno, legò ben bene gatto e canino per la coda, e raccomandò il capo della cordicina, con cui li aveva legati, al piè del tavolino. Poi accese una candela, e preso un bastoncino di ceralacca dallo scrittoio del babbo, prima d'ogni cosa appiccicò con esso sui mattoni del pavimento il canarino pei piedini, perchè non scappasse. Figuratevi come strillasse il povero uccellino sentendo bruciarsi i piedini, e come sbattesse le ali ! A quella vista, gatto e canino non stettero più fermi; avrebbero voluto precipitarsi addosso all'uccellino, ma legati stretti per la coda, non gli si potevano accostare. Il gatto, spazientitosi il primo, cominciò a prendersela contro il canino che gli pareva lo tenesse afferrato per la coda, e lo sgraffiò, lo morse; il canino rispostò con altri morsi e sgraffi. Ernesto, munitosi d' un suo frustino, li flagellava intanto di colpi, tenendo con l'altra mano il capo della cordicella slegato dal piè del tavolino, e li trascinava presso il canarino che continuava a sbattere le ali e a strillare; non tanto accosto però da poterlo offendere, ma a bastanza perchè canino e gatto così s' irritassero di più. La cameriera, accorsa al rumore, picchiava all'uscio, atterrita, pensando alla sua responsabilità : e non riceveva neppure risposta. A un tratto, i guaiti del cane, gli strilli del canarino, i miagolii del gatto furono coperti dagli urli di Ernesto che gridava : Mamma ! Mamma ! L'uscio cedette al violento spintone d'un uomo chiamato in soccorso dalla cameriera, e a tempo da risparmiare peggiori guai al ragazzaccio insanguinato, morso e sgraffiato, e con mezzo naso già portato via dai denti del gatto. Cane, gatto e bambino erano un viluppo per terra; e senza il coraggio e la destrezza di quell'uomo, la imprudente cameriera non sarebbe riuscita a distrigarli. Ernesto è rimasto un po' deformato; quel pezzetto di naso mancante lo rende ridicolo. Quando i compagni di scuola lo canzonano: — E il naso ? e il naso? — s'arrabbia, piange, pesta i piedi, vuol picchiarli, li accusa al babbo. Ma il babbo, severo, gli risponde sempre : — È colpa tua!

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In una stanza vedevansi gi l rizzati due lettini, uno accanto all'altro; e li aveva messi su il Drago, aiutato dalle bambine, che si erano divertite a darle una mano come avevano potuto. Don Paolo, portate le materasse al sole su la terrazza, le aveva sprimacciate, e poi aveva rifatto i letti, cavando dal cassettone la biancheria un po' ingiallita dal tempo. La prima sera però le bambine avevano dovuto adattarsi a dormire, vestite, su una materassa distesa sopra le seggiole; letto improvvisato, ma meglio del covile dove le faceva giacere la strega. Don Paolo non pareva più lui, con quegli occhi sorridenti, con quel viso schiarito dalla inattesa felicità; andava, veniva, rassettava, ripuliva, spazzava, dicendo: — Lisa, fa questo: Giovanna, fa quello, — come anni addietro, quando le sue figliuole erano vive, e lui voleva vederle attive, affaccendate, mai con le mani in mano, perchè riuscissero buone massaie. Alla moglie pensava poco. Se la ricordava malaticcia, ridotta a non potersi muovere dal seggiolone dove passava intere giornate tossendo e lamentandosi dei cento malanni che aveva addosso; gli pareva che stesse meglio nell'altro mondo, dove non c'è tossi nè altre malattie. Gli bastava d'illudersi che fossero risuscitate le figliuole; e per ciò chiamava a ogni momento: — Lisa, Giovanna. Avete farne? Il pane è lì; e c'è anche del cacio. Le bambine non sapevano decidersi a prenderseli da loro; e lui tirava il cassetto, cavava fuori la pagnotta, e ne tagliava due belle fette; tagliava anche due fettine di cacio e gliele porgeva, maternamente, sorridendo a vederle mangiare con tanto appetito. — Ne mangio un boccone anch'io. E mangiava insieme con loro. Si sentiva quasi ringiovanito. ***

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Non era passato un solo giorno che non ne avessero parlato insieme, di nascosto; ed ora che ci voleva soltanto un mese per l'onomastico della mamma, i loro ragionamenti a bassa voce erano divenuti più frequenti. Si trovavano in un bel imbarazzo: — Come manipolare il croccante senza che la mamma se ne accorgesse? — Se se n'accorgeva, il meglio della sorpresa era bell'e ito, e il loro piacere dimezzato. Pensa e ripensa, Neo si ricordò che appunto in quei giorni la mamma andava fuori più frequentemente e stava parecchie ore a ritornare. Mettendo a parte del loro segreto la vecchia serva Maddalena, il croccante poteva esser fatto senza che la mamma se ne avvedesse. E perchè ella fosse incoraggiata a star fuori di casa più a lungo, Neo, che era un demonio e ne faceva di tutti i colori e aveva sgridate ogni momento — e anche busse, quando capitava — si era ridotto a star cheto come l'olio. La mamma non lo riconosceva più, e benediceva il Signore che aveva mutato l'animo di quel cattivo bambino, sua disperazione, povera donna! Lo strattagemma era riuscito. Vedendo che per conto dei bambini poteva star fuori tranquilla, la signora Elvira indugiava più del solito e faceva con comodo certe spese che soleva far lei personalmente pel giorno in cui invitava a pranzo pochi amici ed amiche di antica data. Due giorni avanti la festa, Neo era irrequieto. Appena uscita la mamma, egli correva al nascondiglio dove teneva riposto lo zucchero, e insieme con Bice ne contava e ricontava i pezzetti. Erano una bella cartata, più di mezzo chilo. — Basteranno? — domandava Bice. — Altro! — rispondeva Neo trionfante. E andavano a riporre l' involto. La vecchia Maddalena era già stata messa parte della congiura. Quella mattina bisognava pensare alle mandorle, caparle, come dicono a Roma, cioè romperne il guscio, mondarle dalle spoglia e farle in minuzzoli. Appena la mamma uscì dal portone in istrada, Bice e Neo non stettero alla finestra come gli altri giorni per vederla svoltare la cantonata, ma si misero all'opera febbrilmente; e poi fecero sparire ogni traccia di scorze e di bucce. Gongolavano, non stavano nei panni, vedendo che la cosa procedeva benissimo e che niente del loro segreto era trapelato. — Maddalena non ci tradire! — Silenzio, Maddalena! La vecchia serva, magra e impresciuttita, aggrinzava la faccia sorridendo, facendosi bambina con quei bambini. ***

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Aveva teso delle cordicelle da un angolo all'altro ella terrazza; e le bambine andavano e venivano per aiutarlo a sciorinare ogni cosa, meravigliate di tante stoffe, di tante camicie e sottane che ora dovevano servire per loro, come il Drago ripeteva a ogni momento; liete di maneggiarle, di palparle, di prenderne possesso a quel modo, o provandosele addosso, e talvolta — quando il Drago non era presente — disputandosi anche la esclusiva proprietà di questo o di quel capo di roba, secondo i gusti e la preferenza per un colore o per un altro. Intanto dovevano restar chiuse in casa con lui. Non voleva che si affaccessero alla finestra per non vedere la zia strega e non essere viste da colei. Si affacciava lui soltanto, per la solita pipata, ma senza guardare in istrada, senza rispondere alle vicine che gli domandavano: — Che fanno le bambine? — senza scomporsi se la strega rispondeva in sua vece: — Se l'è mangiate il Drago; non lo sapete? Neppure quando la stregaccia soggiungeva ringhiando: — Se voglio, però, gliele faccio rivomitare intere intere! Due volte egli aveva avuto la forza di trattenersi; alla terza, era scattato su, lasciandosi cascare la pipa di bocca: — Dovreste vergognarvi di parlarne, stregaccia ! — Ah! Va bene. Fra strega e drago, ora vedremo chi la vince. E buttatasi su le spalle la mantellina di panno scuro, la vecchia aveva chiuso a chiave l'uscio di casa, ed era andata via ciampicando, minacciando con le testa e con le mani. Dove poteva andare? Che poteva fargli? Lo Seppe la mattina dopo, mentre dava gli ordini alla sarta perchè acconciasse per le bambine certe veste e certe camicie. Era venuto un usciere a nome del pretore. — Che vuole da me il signor pretore? — Credo debba parlarvi delle orfanelle; la tutrice le reclama. — La tutrice? — Sì, sua zia. Gli pareva un'enormità che colei fosse tutrice. - È la sola parente, — aveva soggiunto l'usciere. — Ma io le ho raccolte per carità. Costei le mandava a chiedere l'elemosina! — Lo so; venite a dirlo domani, alle nove di mattina, al signor pretore: io, povero usciere, eseguisco gli ordini. Dalla rabbia, don Paolo poco dopo leticò con la sarta che non trovava modo di cavar due vestiti, quantunque per bambine, da una veste sola. La stoffa non bastava per le gonne e pei busti; e poi ci voleva la fodera nuova e il resto: dodici tarì (i) per lo meno. — Tornate domani, — le disse bruscamente per finirla; — se non siete buona voi, chiamo un'altra. E vedendo le bambine rannicchiate in un angolo, impaurite di quel che avevano udito dall'usciere, si mise ad accarezzarle: — Dove volete stare, qui o dalla strega? Le bambine non sapevano che rispondere. — Dove volete stare, qui o dalla strega ? Glielo domandava con tono di voce così alterato dalla rabbia, dalla commozione e dal sospetto che il pretore potesse dar ragione alla (i) Un tarì siciliano valeva quarantun centesimo. strega e levargliele di mano, che le povere orfanelle stettero un po' a guardarlo fiso fiso con tanto d'occhi, e subito si misero a piangere. Allora don Paolo diventò proprio furibondo; e dalla finestra cominciò a sbraitare contro la strega, lasciandosi scappar di bocca parolacce di ogni genere, inviperendosi di più in più, come la vecchia — che non era persona da intimidirsi — rispostava, sbraitando anche lei parolacce d'ogni sorta, minacciandolo: — Vi faccio una querela! Vi faccio una querela! Siatemi testimoni! E si rivolgeva alla gente radunatasi a godersi lo spettacolo: don Paolo, che sembrava un predicatore sul pulpito; la vecchia, spettinata, rossa in viso, con quelle braccia agitate per aria e quella boccaccia spalancata, che era una strega a dirittura. — Vi faccio una querela, dragaccio! E la cosa sarebbe andata a finir male, se due vicine non avessero preso la vecchia per le spalle, rimproverandola: — Volete levar la sorte a quelle due creature? — e non l'avessero spinta dentro casa; e se mastro Rocco il falegname non avesse detto a don Paolo: — Vi confondete con costei? C'è la giustizia che protegge le orfanelle. Don Paolo, ritiratosi dalla finestra, trovate le orfanelle rannicchiate accanto all'armadio e col viso bagnato di lagrime, si era improvvisamente raddolcito: — Perchè piangete, sciocchine? Domani verrà la sarta, e verrà pure il calzolaio. Intanto infilatevi queste calze e queste ciabatte. E si era messo a calzarle lui, come una mamma; e le bambine giíi ridevano, e andavano attorno sbattendo le ciabatte, che le impacciavano. Quando mai avevano avuto scarpe ai piedi? — Ora cuciniamo la minestra, — disse don Paolo. — Vieni qua, Lisa; tu che sei la maggiore accendi il fuoco. Sai accendere il fuoco? Si? Brava. Vediamo. E tu, Giovanna, aiutami a pulire la cicoria. Si fa così. ***

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Or accadde che un giorno le sorelle, per divertirsi con lui, si misero a fargli dei dispettucci. Una gli buttava giù i soldatini schierati sul tavolino; un'altra gli faceva abbaiare il canino di cartapesta, che Lulù non voleva toccato da nessuno; un'altra gli strappava di mano il pulcinella, nascondendolo sotto l'ascella, e mostrando aperte le mani per sviare le ricerche di lui che non indovinava chi delle quattro avesse fatto il colpo ; un' altra infine gli dava dei colpetti su la testa e su le guance quand'egli era voltato di là e non poteva accorgersi a chi appartenesse la mano lestamente ritirata. Per alcuni istanti, Lulù aveva tenuto testa a tutte, difendendosi alla meglio; poi aveva ricorso dalla mamma, che si era messa a ridere e non gli aveva dato retta; allora gli era balenata un' idea, che gli parve stupenda. Zitto, zitto, era corso in camera del babbo, s'era messo in testa il berretto da viaggio, s'era buttato sul braccio il plaid, aveva preso la valigia sempre pronta per ogni occasione, ed era comparso con aria che voleva essere terribile, impacciato dal peso, strascicando più che reggendo in mano la valigia. — Me ne vado ! Non tornerò più ! Si aspettava la stessa scena dell' altra volta, quando il babbo aveva finto di partire; si aspettava che mamma e sorelle si fossero precipitate attorno a lui per trattenerlo, per pregarlo di non abbandonarle... E invece le sorelle, chi si era rimessa a leggere, chi a lavorare di ricamo, chi stava a guardarlo indifferente, e la mamma sorrideva, quasi lui non dicesse davvero, o non le importasse niente che egli andasse via. Rimase un po' sconcertato; ma riprese animo e ripetè il terribile : — Me ne vado ! Non tornerò più! Nessuno si mosse. Pure egli fece tre o quattro passi; e siccome plaid e valigia lo impacciavano, chiamò : — Beppe ! Beppe ! Il servitore accorse. Ed egli, imperturbato, ordinò : — Portami giù la valigia; parto ! Il servitore, a un cenno impercettibile della signora, finse di ubbidirlo. Sul pianerottolo Lulù si voltò addietro. Gli pareva impossibile che nessuno lo seguisse per pregarlo di restare; e scese le scale, voltandosi quasi a ogni passo, meravigliato, stupito che lo lasciassero andar via. Gli era parso anzi che gli ridessero dietro. — La carrozza è pronta ? — domandò al servitore. — No, signorino. — Allora... partirò un'altra volta. E rientrò, con aspetto annuvolato e le mani dietro la schiena. Alla risata che lo accolse, Lulù si fermò: — Quando sarò grande, quando il babbo sarò io, — minacciò levando la mano, — vi farò vedere se me n'andrò davvero! E buttò sdegnosamente il berretto per terra.

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Il direttore aveva spinto un po' bruscamente Dino in una stanza accanto alla sua, e lo aveva chiuso lì dentro a chiave. Da prima il ragazzo era rimasto un po' sbalordito dell'insolito gastigo, paventando qualcosa di peggio. Ma quando tre quarti d'ora passarono senza che nessuno arrivasse, egli aveva ripreso animo e faccia tosta, e s'era messo a guardare i quadri appesi alle pareti, a rovistare alcuni volumi, a sbirciare le carte sparse su pei tre tavolini disposti in giro per la stanza. Erano tutti fogli intestati, lettere che in calce portavano la scritta: Il Direttore; mancava la firma. Erano avvisi, programmi, anch'essi con quella scritta sotto: Il Direttore, e che evidentemente il direttore doveva sottoscrivere. E i quarti d'ora passavano, con gran noia di Dino che avrebbe preferito un altro genere di gastigo, anche più grave, a quella solitudine e a quell' abbandono. Volevano lasciarlo lì tutta la giornata? Che fare? Come occuparsi? Un'idea gli sorse a un tratto, lusinghiera, tentatrice, che lo fece sorridere di compiacenza. — Perchè no? Si sedette a uno dei tavolini, prese la penna, la intinse e cominciò a fare gravemente tutte le firme che mancavano; se non che, invece del nome del direttore, metteva il suo, scarabocchiato alla peggio. Si fermava per osservare l'effetto che faceva quel: Il Direttore Dino Marsà e rideva con risolino malizioso, e riprendeva a firmare. Esauriti tutti i fogli di quel tavolino, passò all' altro, poi al terzo; e quando più non ebbe fogli da firmare, guardò attorno, rammentandosi che alle pareti erano affisse alcune stampe con le parole: Il Direttore, anch'esse senza la firma necessaria, e appose un DINO MARSÀ pure in calce a quelle stampe. Quando si fu accertato che non c'era altro da firmare, si stese su la poltrona, socchiudendo gli occhi, assaporando il piacere di quella nuova discoleria che gli aveva mutato in godimento inaspettato la segregazione dai compagni e la prigionia. ***

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Dino, a testa bassa, pensava: — Se mi ha visto dal buco della serratura!. E a testa bassa stette a sentire la benevola paternale con cui il buon vecchio intendeva persuaderlo che certe bizzarie possono farsi, qualche volta, fuori di scuola, per ridere, ma in iscuola no. Come non lo capiva? Così passava per discolo, si faceva mal volere dal Maestro e dai compagni... Da ora in poi non avrebbe osato più niente, è vero? Non lo avrebbe costretto a ricorrere a mezzi più energici per punirlo, è vero? Dino, stupito di quell'incredibile benevolenza, rispondeva di sì col capo a ogni domanda, e sentiva rimorso di tutte quelle firme fatte poc'anzi, e non sapeva come confessarle. Intanto il bidello aveva portato un vassoio con due tazze, una cuccuma e dei biscotti; e il direttore, versato il cioccolatte, diceva a Dino : — Non hai fatto colazione; prendi, intingivi questi biscotti. Il bambino questo poi non se l'aspettava davvero. Scombussolato, vinto dai rimorsi, si levò da sedere e con voce piagnucolosa biascicò : — Ma... ho fatto le firme ! Il direttore, distratto, non capì, e soggiunse : — Intingi i biscotti. Poteva insistere il povero Dino? E intinse i biscotti, e prese la tazza di cioccolatte, dimenticando rimorsi, discolerie e ogni cosa. Il direttore lo aveva licenziato, ma Dino non si muoveva. — Puoi andare, torna in iscuola; ti farò accompagnare dal bidello... anzi verrò io stesso. — Ma... ho fatto le firme! — egli replicò, più rassicurato ora e forse più fortificato dalla cioccolatte e dai biscotti. Neppure questa volta il direttore badò alla confessione e andò a ripresentarlo al maestro. ***

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Quando il direttore si accorse della nuova diavolerla, per cui dovevano rifarsi tante lettere ed erano state sciupate tante stampe, rimpianse la tazza di cioccolatte e i biscotti, ma a torto. Dino era un ragazzo allegro, non cattivo; e da quel giorno diventava proprio il modello degli scolari. Aveva fatto questo ragionamento : — Se commetto una discoleria, il direttore potrà pensare che voglio un'altra tazza di cioccolatte e altri biscotti ! Oh, questo no !

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In quei giorni bastava dire a Enrichetta: — Il bambino non mangerà i dolci. Non vedrai gli angioli! — perché subito ella smettesse di fare una bizza. I dolci intanto rimanevano lì, sotto il fazzoletto, e facevano gola alla bambina ogni volta che andava a ricontarli. Cominciavano a parerle troppi per un Bambino così piccino e che mangiava tanto poco. — Se ne prendessi uno? — domandò alla mamma. La mamma, sorridendo, rispose: — Uno, non importa, puoi prenderlo. E la bambina corse a tirarlo fuori cautamente di sotto il fazzoletto. Per sorprendere gli angioli che dovevano recar da mangiare al Bambino Gesù, Enrichetta andava tutti i momenti a guardare dal buco della serratura; la consolle stava proprio di faccia all'uscio, ed ella avrebbe potuto vederli comodamente. Le pareva che gli angioli lo facessero apposta: venivano per l'appunto quando lei non stava li a guardare zitta zitta! E se si fossero scordati di venire? L'idea che il povero Bambino potesse patire la fame le empiva il cuore di gran pietà. E poi, voleva vederlo mangiare almeno una volta, una volta sola! E si raccomandava alla mamma: — Diglielo tu che voglio vederlo mangiare! — Si, proprio oggi che hai fatto tanto la bizzosa! Enrichetta rimase a testa china, imbroncita. E una volta che la mamma l'aveva lasciata in casa con la serva, Enrichetta disse a costei: — Dovresti farmi una pappa, pochina pochina! — Perchè? Esitò un istante a rispondere, poi soggiunse : — Per la bambola. La serva, che voleva vederla star tranquilla a giocare, mise sul fuoco un paiolino, e poco dopo le scodellava in un piatto la pappa fumante. Enrichetta andò di là, sorridendo della propria malizietta, accostò una seggiola alla consolle e tirò giù il Bambino Gesù che dormiva con la guancia appoggiata su la manina. Doveva dargli da mangiare mentre dormiva? Convinta che al sentirsi il cucchiaino alle labbra il Bambino si sarebbe svegliato, tentò. Per un istante le parve che il Bambino avesse aperto davvero la bocca; ma quando s'avvide che la buca, fatta nella cera dal cucchiaino caldo, si dilatava e che mezza faccina andava liquefacendosi, Enrichetta, atterrita, si mise a strillare: — Oh, Dio! Oh, Dio! — Che hai fatto? — gridò la mamma che rientrava in quel punto. — Volevo dargli la pappa! — singhiozzava la bambina. E non sapeva persuadersi perchè mai la mamma, invece di sgridarla, ridesse, ridesse!

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E poi, a primavera, vi siano nuovamente propizii il mare, i venti, il cielo pel ritorno! Vorrei rivedervi tutte, gentili ospiti della mia grondaia... Volteggiano, stridono; è il gran giorno della partenza. ***

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Dare l'imbeccata a dodici uccellini, che avrebbero voluto mangiare per lo meno dieci volte al giorno, sarebbe stata una gran perdita di tempo; perciò mi venne l' idea di affidarne l' allevamento a persona di fiducia che abitava lontano da casa mia; avrei ripreso gli uccellini quando sarebbero stati capaci di mangiare da sè. Collocai le due nidiate in un panierino, lo copersi con un tovagliolo, e feci la spedizione, raccomandando di allevarle con ogni cura. Alcune settimane dopo, nello stesso paniere coperto dallo stesso tovagliolo, le dodici capinere già vestite di piume, con le testine nere, il corpo grigio, il petto bianco e le punte delle ali nere sopra e bianche sotto, ritornavano a casa mia, vispe, allegre, chiassose ; e prendevano abitazione in una gran gabbia di canna che era proprio un palazzo per loro. Vi potevano svolazzare comodamente, divertirsi, posarsi su le due stecche di fronte, nidificare anche se avessero voluto. Ordinariamente esse stavano su le stecche e parevano tante monachine al coro. Le due famigliole si riunivano una sur una stecca, e l' altra su l'altra ? Non saprei dirlo; chi poteva riconoscerle? Ma spesso sedevo sei capinere di qua e sei di la. Erano già addomesticate; mi riconoscevano, mi facevano festa affollatamente, se sporgevo fra le gretole qualcosa da beccare; si lasciavano prendere e accarezzare; mi volavano addosso quando aprivo lo sportello della gabbia; mi beccavano il lobo degli orecchi delicatamente, per chiasso, e venivano a prendere lo zucchero dalle mie labbra, una più golosa dell'altra. Lo sprigionamento accadeva sempre dopo desinare, verso le quattro e mezzo. Chiudevo i vetri della stanza, aprivo lo sportello e continuavo a fumare e a passeggiare su e giù fra le volatine delle care bestioline che si bisticciavano per prender posto su le mie spalle, che mi si posavano su le braccia tese, e andavano e venivano con lieve fruscio di ali, cinguettando, inseguendosi, tornando a posarmisi addosso. Io accendevo una sigaretta dietro l'altra, riempivo la stanza di fumo; poi facevo rientrare in gabbia le capinere, prendendole a una o a due la volta e presentandole davanti alla porticina aperta. Qualcuna rientrava da sè, per tener dietro alle compagne; qualcuna faceva la cattiva, svolazzava di qua e di là, forse pel gusto di farsi inseguire prima di lasciarsi prendere e rimettere in prigione. Appena erano tutte dentro, davo aria alla stanza, e le capinere come tante monachine al coro, posate su le stecche, cominciavano a canticchiare, si addestravano ai gorgheggi difficili, provando e riprovando. Una mattina, mentre mutavo l'acqua dei beverini, due scapparono di gabbia, volarono un momentino per la stanza e, prima che io giungessi a chiudere l' imposta del balcone, fuggivano all'aria aperta, lontano, lasciandomi un po' confuso per la mia storditaggine e addolorato per la perdita di così graziose bestioline. Per qualche ora mi lusingai che sarebbero tornate, e perciò misi la gabbia fuori, al balcone, sperando che il canto delle compagne le avrebbe richiamate. Niente. Mi ero già rassegnato alla disgrazia, quando ricevei un cestino involtato in un fazzoletto di cotone, di quelli a colore che usano le contadine per coprirsi la testa; dentro c'erano le mie due fuggitive. Non rinvenivo dalla meraviglia. Avevano saputo ritrovare la strada della casa dove erano state allevate, erano andate a posarsi su la ringhiera di ferro del balcone dove la persona che le aveva imbeccate soleva tenerle al sole in una gabbietta, e si erano lasciate facilmente riprendere. Fu una festa per me. E dovevo, da lì a un mese, far la riprova del fatto. Un'altra capinera riuscì a scappare allo stesso modo; ma questa volta non me n'afflissi. Ero così sicuro che avrebbe agito come le compagne, che mandai ad avvertire della fuga l'alleva trice perchè stèsse alle vedette. Infatti , poche ore dopo, la fuggitiva mi veniva rimandata; non mi ero ingannato. Quelle capinere avevano l'istinto dei colombi viaggiatori. Non so se il fatto sia stato osservato dai naturalisti; io, come avete inteso, ho potuto verificarlo due volte. Un giorno — triste giorno pei miei poveri uccellini! — dovendo andare in un paesetto vicino, li avevo raccomandati a uno dei miei fratelli che qualche volta mi teneva compagnia dopo desinare, quando mi divertivo a lasciarli liberi per la stanza. Lo conoscevano, si erano famigliarizzati anche con lui, gli volavano addosso, lo beccavano, si lasciavano accarezzare. Mio fratello, fatte uscire le capinere dalla gabbia, era andato via, non so per quale affare. Tornò un'ora dopo, e trovò una scena di desolazione : cinque o sei erano già morte, altre morenti; tre soltanto liete e vispe come le aveva lasciate. Che era accaduto ? Povere capinere ! Vistesi sole , s' erano sparse per la stanza, avevano mangiato i mozziconi di sigarette buttati qua e là e non spazzati durante la mia assenza, e si erano avvelenate più o meno violentemente. Le moribonde infatti cessarono di vivere prima di sera. Al mio ritorno, la vista di quei nove cadaverini stesi in fila sul tavolino mi commosse e mi attristò. Per le rimaste, giunse l'epoca della muda. Pare che sia un periodo difficile a superare dagli uccellini non domestici. Due non riuscirono. Dimagrate straordinariamente, quasi colpite da tisi, morirono una dopo l'altra con un giorno d' intervallo. Tutta la mia affezione si concentrò su la superstite, che ora cantava stupendamente, vispa, prosperosa, bella di piumaggio, docile e domestica più che mai. Ma era destino che io non dovessi conservare nessuna delle dodici bestioline! Una mattina ero intento a governarla, quando mi fu annunziata l' inaspettatissima visita di un amico che non vedevo da anni. Corsi di là e mi intrattenni più d'un'ora con lui, dimenticando affatto l'uccellino: Quando l'amico andò via ed io mi ricordai dell'operazione interrotta, la capinera aveva già approffittato della mia fretta; la gabbia era vuota. La porticina spalancata — non era di quelle a molla che si richiudono da sé — mi fece subito capire come la disgrazia fosse accaduta. Mi lusingai anche questa volta che l' istinto avrebbe ricondotto la capinera al solito posto e che essa si sarebbe fatta riprendere. Ma quel giorno, per sfortuna, l'allevatrice delle nidiate non era in casa. Parecchi ragazzi avevano dato la caccia alla fuggitiva; spaurita, la capinera era volata via nei campi. Non tornò più. Una fredda giornata di decembre — tirava vento, cadeva fitto nevischio — io lavoravo in piedi, nel mio studio, appoggiato alla scrivania ingombra di libri, quand' ecco un noto pigolio. Trasalisco, mi volto... Fuori, su la ringhiera del balcone , una capinera pigolava lamentosamente. Il vento le arruffava le piume, il nevischio l'accecava. Era la mia ultima fuggitiva? Una dolce tenerezza m'inondò il cuore. Tentai di aprire cautamente la imposta, per invitare la creduta profuga a ricoverarsi in casa; al lieve rumore, aperse l'ali e s' involò fra il nevischio. No, non era certamente la mia capinera. Son convinto che, se fosse stata lei, mi avrebbe riconosciuto, non si sarebbe spaurita. E quella povera bestiolina, dalle piume arruffate dal vento e mezza accecata dal nevischio, mi rimase per molti giorni davanti agli occhi dubbiosi, che credevano averla riconosciuta. — Povera bestiolina! — pensavo tristamente. — Con questo freddo e con questo tempaccio ! E anche oggi , ricordando dopo tanti anni, ripeto con quasi eguale tristezza : — Povera bestiolina !

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Le aveva messe a letto ed era andato a letto anche lui, dopo aver governato l'asino e rigovernato da sè piatti e pajuolo per non affaticare le piccine; ma non poteva dormire. Aveva la testa al pretore; rimuginava quel che avrebbe dovuto dirgli; e parlava ad alta voce, quasi fosse davanti a quel funzionario e discutesse con lui. E si fermava su la possibilità che la legge gli dèsse torto; infatti la tutrice era colei, la sola parente. — Bella legge! Dà la pecora in bocca al lupo! — brontolava. E s'arrabbiava con sè. Perchè s'era messo in questo impiccio? Che doveva importargliene delle bambine? Erano forse sue figlie? La legge vuol darle alla strega? E glie le dia! Ma pensando e brontolando così, si sentiva una stretta al cuore. Da che le aveva in casa, non le stimava più sangue altrui. Lui, la sua casa, tutto era tornato a rivivere con quelle due creature, che ora gli sembravano più che mai il ritratto delle figliuole morte. Se la legge gliele avesse tolte di casa, egli non avrebbe potuto più vivere. — Volete ammazzarmi dunque, signor pretore? Volete buttare in mezzo alla strada queste povere creature? No; avrebbe ricorso, avrebbe messo sossopra mezza Sicilia, se il pretore commetteva quell'ingiustizia. Non c'era stato uomo al mondo che gli avesse mai fatto, a lui, don Paolo, una soverchieria; e questa sarebbe stata proprio una soverchieria della strega. No! No! — Domani, prima che dal pretore, andrò dall'avvocato. Ora le orfanelle sono mie; sono le mie figlie, Lisa e Giovanna! Ah, vorreste dunque tarmi morire di crepacuore, signor pretore ? E si levò dal letto per andar a baciare le bambine che già dormivano. ***

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— Perchè volete prendervi questa gatta a pelare? — gli aveva domandato il pretore. — Perchè? E don Paolo era rimasto un po' scombussolato, non sapendo che dire. In quel punto non pensava nè alle bambine, nè alle sue figlie morte, una a vent'anni e l'altra a diciotto, nè alla carità, nè a se stesso: pensava soltanto alla strega che gli aveva lanciato la sfida: — Fra strega e drago vedremo chi la vince! — Ma questa non gli pareva ragione da dire al pretore, quantunque gli sembrasse la sola ragione in quel punto. — Perchè? — ripetè don Paolo. — Non lo sapete neppure voi. Don Paolo scoppiò: — Ah! dunque la legge vuole che quelle due povere creature vadano in perdizione? Io le raccolgo per carità, le strappo di mano alla stregaccia della zia che le manda a chieder l'elemosina per vivere alle loro spalle, e che farà peggio quando le poverine saranno cresciute; e la legge viene a dirmi: Restituitele alla tutrice! Chi l'ha fatta questa legge da turchi? E voi, signor pretore, potete ora avere il coraggio di essere più turco della legge?... Si arrestò, alla risata del funzionario messo di buon umore da quest'apostrofe; ma subito riprese e più accalorato di prima: — Si, sareste più turco della legge, se vi prestaste a favorire la stregaccia! — Sono vecchio, posso essere vostro padre, e ho il dritto di par- lare cosi. — Eh!... Fate pure come vi pare e piace, giacchè viviamo sotto una legge peggiore di quella dei turchi! C' è Domineddio lassù; provvederà lui. Fate, fate pure! Ora vado a prendere le orfanelle, e le conduco qui. Le consegno alla legge; a questa bella legge da turchi !... E levatosi da sedere, cercava il cappello, non rammentando che lo aveva lasciato nell'anticamera; e si asciugava gli occhi, di nascosto del pretore, brontolando quasi con singhiozzi: Legge da turchi! Legge da turchi! — Sedetevi, e ragioniamo tranquillamente, — gli disse il pretore , che frenava a stento le risa, additandogli la seggiola li accanto. — Convocherò in settimana il consiglio di famiglia... Vedremo... E così don Paolo Drago ebbe una settimana d'inferno, come diceva alle persone che lo interrogavano vedendolo andare attorno insolitamente. — Una settimana d'inferno, e per fare del bene ! Ma l'aveva spuntata. E il giorno che il pretore gli disse: — Ora il tutore siete voi! — Don Paolo piangeva di contentezza, e volle per forza baciargli la mano. Tornato a casa, alla vista delle orfanelle che mondavano il frumento su la tavola, come egli aveva lasciato ordine, s'era sentito così intenerire, da non poter pronunziare una sola parola; e per non farsi scorgere, era andato di là, aveva caricato la pipa con le mani che gli tremavano dalla commozione, e si era affacciato alla finestra, soddisfatto come un papa, mandando fuori boccate di fumo che parevano nuvoloni, sputacchiando su la via; e intendeva sputare addosso alla strega, a cui il pretore aveva detto: — Badate di tener chiusa cotesta vostra boccaccia, o mando il brigadiere per chiudervela! Il pretore aveva raccomandato di star zitto anche a lui, per non provocarla e non irritarla. E perciò egli stava zitto; sputare non signi- ficava provocarla. La finestra era cosa sua; vi aveva fumato sempre, e voleva continuare a fumarvi finchè campava. E se la strega crepava di rabbia, peggio per lei! Quella volta, contro il suo solito, don Paolo fece doppia pipata. ***

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Le bambine non si riconoscevano, vestite a nuovo e ben calzate; vestite a nuovo, cioè, con la stoffa di due vesti delle sue povere figliuole, adattate alla meglio dalla sarta, che aveva trovato modo di cavare le gonne da una e i busti dall'altra. Così l'illusione per don Paolo era completa; Lisa e Giovanna gli parevano proprio risuscitate, ora che vedeva quelle creaturine con quei panni, e lavate e pettinate e ravviate sotto la sua direzione ogni mattina. — Tu, Lisa, spazza le stanze. Tu, Giovanna, spolvera i Mobili e ogni cosa. Le bambine eseguivano, zittte zitte, ancora intimidite dalla presenza del vecchio, ancora sbalordite di quel cambiamento di condizione. — Nonno, ho finito di spazzare. — Nonno, ho finito di spolverare. Lo chiamavano nonno, con la parola rispettosa e piena di affetto che si usa in Sicilia verso le persone di età. — Brave ! La domenica le conduceva a messa, vestite a festa con due altri vestiti di stoffa migliore, riadattati anch'essi, e due scialletti di lana, nuovi, perchè quelli delle sue figliuole se li erano mezzo mangiati le tignuole e non si potevano usare. — Pregate per la salute del povero nonno, figliuole mie! E si indignò contro la strega, una domenica che Lisa gli domandò: — Che dobbiamo dire? — Il paternostro, l'avemmaria. — Non li sappiamo. Ah, stregaccia! Non gli aveva neppure insegnato l'avemmaria e il paternostro! Le faceva crescere come due animaletti, purchè sapessero chiedere l'elemosina, stregaccia! E tornato a casa, si sedette, se le mise fra le gambe, e con le mani su le spalle delle bambine, incominciò a insegnargli quelle preghiere — Dite come dico io. ***

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Ma spesso, la notte, appena entrato in letto, gli venivano in mente, insistenti, le parole del pretore: — Perchè volete prendervi questa gatta a pelare? Sentiva tutto il peso della responsabilità assunta, e tornava ad arrabbiarsi con se stesso, come l'altra volta. Prima non aveva pensieri, era tranquillo; casa e campagna, casa e chiesa, ecco la sua vita. Ora, quando metteva il basto all'asino, quasi aveva rimorso di allontanarsi di casa per mezza giornata; e in campagna, invece di aver la testa ai lavori e badare ai contadini, pensava alle bambine rimaste sole sole e non vedeva l'ora di tornare in città. Insomma aveva perduto la sua bella pace; non era più libero. Il pretore aveva ragione: perchè aveva egli voluto prendersi quella gatta a pelare? E se si sentiva stanco dalle fatiche della giornata, e se gli doleva un po' il capo, o la tosse lo tormentava, s'arrabbiava di più. L'idea di dover morire e dover lasciare abbandonate di nuovo alla loro mala sorte quelle poverine, lo faceva smaniare. Prima sarebbe stato felice di andarsene all'altro mondo, a dormire accanto alla moglie e alle figliuole nella sepoltura dei Cappuccini. Ogni sera, recitato il rosario alle sue care morte, si raccomandava: — Venite a prendermi; che ci faccio più qui, senza di voi? — Ora invece....ora non poteva più morire tranquillamente. Come sarebbero rimaste quelle li? Quand'anche gli avesse lasciato tutti i suoi beni.... Che ne avrebbero fatto? Chi le avrebbe garantite, chi le avrebbe difese dalle male persone?.... Ed ecco il bel risultato della sua carità!...Il pretore aveva ragione: perché aveva egli voluto prendersi quella gatta a pelare? Vecchio rimbambito, che non era altro! E si voltava e rivoltava nel letto, brontolando. Già questa insonnia era un cattivo segno. Quando mai gli era accaduto di entrare in letto e non addormentarsi subito ? Ah, ah, credeva di dover campare quanto Matusalemme!... Quasi ci fosse qualcuno che potesse levargli i settantadue anni d'addosso!... E per ciò s'era presa quella gatta a pelare! Oramai le parole dal pretore erano diventate un ritornello per don Paolo. Infine, se si rammaricava di dover morire — il Signore lo vedeva! — se ne rammaricava soltanto per le povere orfanelle... Oh, si, il Signore e la Madonna Santissima dovevano farlo campare almeno un'altra diecina d'anni. Che ne avrebbero fatto lassù, in paradiso, che avrebbero fatto di un vecchio catarroso come lui? Non gli bastavano le tre anime giuste che s'erano prese tutte a una volta? Campando, egli avrebbe assestato le bambine, le avrebbe maritate, con la dote, ora che si potevano dire proprio sue figliuole; e allora.... allora avrebbe chiuso gli occhi in santa pace. Non chiedeva altro. Ci voleva forse un miracolo per farlo arrivare a ottant'anni ? Ripeteva ogni notte le stesse cose; e le rimuginava nella giornata, quando si vedeva attorno le orfanelle che spazzavano, raviavano, ripulivano, come due donnine, vispe, allegre, attente a eseguire gli ordini, e che già facevano parecchie cosette anche da se, senza bisogno che il nonno le suggerisse. ***

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. — Lisa, vieni qua; t'insegno a stacciare. Aveva preparato la madia su le panchette di legno, e vi avea riversato dentro un bel mucchio di farina. — Questo qui è lo staccio per la crusca. Guarda: si prende così, e si scote, girandolo torno torno fra le mani; la crusca che rimane nello staccio si versa nel moggio; serve per l'asino. Questa estate poi, avremo in istalla un porcellino; la crusca allora servirà per lui. A Natale, lo ammazzeremo, e faremo le salsicce e i salami. Rideva, pensando al porcellino; e intanto stacciava, stacciava, ripetendo: - Hai capito? Si prende così, e si scote girandolo torno torno fra le mani. Vediamo se riesci; ma prima avvolgiti un fazzoletto alla testa. Le panchette della madia erano troppo alte e Lisa non ci arrivava. — Aspetta; ti metterò qualcosa sotto i piedi. Don Paolo la sorvegliava, la incoraggiava, — Brava! bene! — e aveva le lagrime agli occhi. — Tu intanto, Giovanna, fa fuoco sotto il paiolo; per scaldare l'acqua; impasteremo il pane; impasterai anche tu. Devi essere massaia quanto la sorella. Quando sarai cresciuta di qualche anno, staccerai la farina come lei. Nell'acqua si mette il sale, perchè il pane sia saporito. Per le bambine tutto quel tramenìo era un divertimento, ma don Paolo ci godeva più di loro; e dava un' occhiata ora a Lisa, già tutta sparsa di farina sui vestiti e sul viso, ora a Giovanna che stentava a spezzare i ramoscelli secchi di ulivo per alimentare il fuoco sotto il paiuolo. — L'acqua bolle. Bisogna far la massa. Sbracciatevi fino al gomito. Radunò con le mani tutta la farina nel centro della madia e vi fece in vuoto in mezzo; poi intinse il boccale nel paiuolo e versò l'acqua in quel vuoto. — Bada! Ti scotti. Lisa aveva steso le mani, ma egli la trattenne. Poi, cavatasi la giacca, si era sbracciato anche lui; voleva insegnarle con l'esempio. — S' intride in questo modo, a poco a poco ; poi si aggiunge altr'acqua, e si torna a intridere. Ora che la massa e fatta, si lavora coi pugni, per renderla soda. Su, mettetevi qui tutte e due : ne faccio due pastoni, uno grande e uno piccolo. Su! Io intanto preparo la gramola. E le bambine affondavano allegramente le pugna nei pastoni, pigiavano, avvolgevano la pasta, ripigiavano, e si davano spinte e gomitate per ridere, scommettendo a chi facesse più presto, rubandosi a vicenda un po' di pasta da aggiungere al proprio pastone. — Come Lisa e Giovanna, Dio le abbia in gloria ! — pensava don Paolo, intenerito dal grazioso spettacolo e dai ricordi. — Basta; lasciate fare un po' a me! — disse all'ultimo. E ridotti i due pastoni in uno, lo arrotondò, lo allungò, lo ripiegò, ne fece un bel pastone corto corto, spargendo di tanto in tanto poche stille d'olio nel fondo della madia, perchè la pasta non s'appiccicasse. E quando fu pronto, lo levò di peso e lo depose in mezzo alla gramola. Egli sedette a cavalcioni, da cima, dove la stanga s'impernia nelle assicelle ritte, e disse : - Voi, una di qua e una di là, alzate e abbassate la stanga; al pastone bado io. E per cinque minuti s' intese soltanto il rumore del pernio della stanga, menata su e giù dalle bambine che ridevano, quasi facessero il chiasso, mentre don Paolo girava di qua e di là il pastone, ne ricacciava in dentro lestamente con le mani le coste, rimettendolo sempre in centro sotto la stanga che lo induriva , finchè non gli parve il momento di gridare : — Fermate ! Allora cominciò un altro chiasso, con le pagnotte da arrotondare e schiacciare. — Questa è per me. — Questa è pel nonno. - Pel nonno, figliuole mie, ci vogliono le focacce. Le faremo dopo. E questa volta il pane lo manderemo a cuocere dalla fornaia. Le bambine erano accese in viso, sparse di farina con le mani e le braccia impiastricciate di pasta. Don Paolo le avrebbe baciate, se i baci non gli fossero parsi segno di tenerezza eccessiva. E un po' burbero, per frenare la loro vivacità, brontolò: — Via, via; lavatevi mani e braccia, e spolveratevi bene! Ogni giorno, una lezione pratica. Don Paolo sapeva fare tutto, fin la calza, e voleva insegnargli ogni cosa da sè; non gli piaceva vedersi gente estranea fra' piedi. E se qualcuno, interrogandolo, intorno alle pupille, gli diceva: — Perchè non le mandate a scuola ? — A scuola? — rispondeva, quasi arrabbiato. — Le mie figliuole non sapevano leggere, ed erano donne di casa. Ora, riducono le bambine tante dottoresse... Ma che vale? Non sanno imbastire una calza, nè fare un rammendo, nè cucinare una minestra! La scuola è per le principesse. Su questo punto don Paolo non intendeva ragione. — Io sono della pasta antica, — aggiungeva. — Allora si sapeva leggere meno, ma si era più galantuomini. Non è vero forse? Inutile tentare di convincerlo. Voleva agire all'antica. ***

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Le bambine s'erano rannicchiate una accosto all'altra, ma questa volta la maggiore tese timidamente la mano anche a lui, quasi per burla. Il vecchio, fermato l' asino, disse alla bambina: — Vieni qua, tieni; e tornate subito a casa. Oggi avete da mangiare. Le porgeva mezza pagnotta, di quelle grosse e fatte in casa, che in Sicilia chiamano guasteddi. La bambina spalancò gli occhi dalla meraviglia, e non lo ringraziò. — Se domani vi trovo di nuovo qui ! — minacciò il Drago. Che potevano farci le bambine? La zia voleva tosi. Si guardarono negli occhi, consultandosi. — Andate, subito, andate! — brontolò il vecchio. E questa volta andarono via davvero, portando intatta la mezza pagnotta alla zia. Pareva incredibile. — Il Drago che faceva elemosina! Era dunque vicino a morire? — La vec- chia zia si spiegò il caso a questo modo; ma la mattina dopo costrinse le bambine a ritornare al solito posto, per chiedere la carità. Finchè non potevano lavorare, dovevano guadagnarsi da vivere così. Appena le vide, don Paolo diventò un drago a dirittura. — Di nuovo qui? Su, su a casa! E siccome le bambine esitavano, così egli soggiunse: — A casa! Vi accompagno io dalla strega! E se le cacciò davanti; le bambine a piedi, lui a cavallo dell'asino, con le sopracciglia aggrottate, masticando parolacce all'indirizzo della strega. La strega, che in quel momento si trovava seduta sullo scalino dell'uscio a far la calza, appena li vide in fondo alla via, si rizzò inviperita, e non — Fatevi i fatti vostri, dragaccio! Che ve n'importa? Sono figlie vostre, forse? Ma don Paolo, che era una linguaccia anche lui, non si lasciò sopraffare; e senza scendere da cavallo, c ominciò a vomitare vituperi contro la vecchia che non aveva coscienza, e spingeva alla perdizione quelle due creature innocenti mandandole fuori il paese a chiedere l'elemosina, quasi non avessero nessuno. Si era fatto un crocchio di donne e di operai attorno, che ridevano ma gli davano ragione. All'ultimo la strega, che non era stata zitta e ne aveva dette a don Paolo di tutti i colori, avvicinandosegli con le braccia in alto e le mani aperte, spalancando tanto di bocca, gli urlò in faccia: — Vi cuoce che chiedano l'elemosina? Mantenetele voi! Prendetevele! Campo a stento io e non so come fare. E assai che le tenga in casa a dormire! E allora si vide un miracolo — come dissero poi tutti. Don Paolo saltava giù di sella, quasi volesse cavar gli occhi alla vecchia; e invece, afferrate per un braccio tutte e due le bambine, cavava di tasca la chiave della porta, le spingeva dentro senza dire una parola, e poi rivolgendosi alla vecchia, che era rimasta lì come incantata, balbettava strozzato dallo sdegno: — Strega! Strega! Si, le prendo io! Proprio un miracolo. ***

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Di tanto in tanto, per far svagare le bambine, le conduceva in campagna, a Doguara, nel fondicello tutto piantato a olivi e mandorli, con un po' di vigna su la costa; o a Pietra-che-suona, dove seminava grano, fave, ceci, cd era la dote della moglie. Doguara sarebbe stato di Lisa, Pietra-che-suona, di Giovanna, se se lo meritavano, se crescevano buone, virtuose e massaie come voleva lui. Le notti che non poteva dormire, pensava spesso al testamento che occorreva fare perchè le orfanelle, alla sua morte, non si ritrovassero in mezzo d'una via, e la roba non se la prendesse il fisco, poichè egli non aveva parenti vicini nè lontani. Ma non sapeva risolversi; andare dal notaio e mettere in carta le sue ultime volontà gli pareva mal augurio. Che fretta aveva? S' era consultato pero col canonico suo compare che aveva battezzato Lisa, e quel servo di Dio gli aveva risposto ridendo : — Volete dunque comprarvi un bel pezzo di paradiso? Fate bene, compare. Ma non occorreva aver fretta; il paradiso era grande, ne avrebbe trovato sempre un pezzetto per sè e per la moglie e le figliuole, caso che esse stessero ancora in purgatorio. Per suffragio di quelle anime benedette non faceva dire tre messe ogni anno, il giorno dei morti? No, non occorreva aver fretta; intanto stava sempre con l' animo sospeso. La morte arriva quando meno ce l'attendiamo; non manda l'avviso avanti. Chi ha tempo , non aspetti tempo... Ne conveniva : ma l' idea del mal'augurio gli si metteva per traverso, e gl' impediva di prendere una risoluzione. Per questo rimase proprio atterrito la mattina che gli dissero : — È morta la sciancata. Siete contento? Lui la chiamava la strega, ma tutti gli altri la sciancata. Piena di salute, grassa e ben pasciuta, era morta d'accidente, in un minuto. — Dio le perdoni! — esclamò: — Dio le perdoni il male che voleva fare alle orfanelle! Quella morte però gli era parsa un ammonimento. Se l'accidente fosse venuto a lui? Per scacciar via quel tristo pensiero, si faceva il segno della santa croce. E la sera, disse alle bambine rimaste mute all'annuncio: — Recitiamo il santo Rosario per l' anima della.... Stava per dire: — della strega — ma subito si corresse. E fu la prima e l'ultima volta che gli accadde di chiamare zia colei. ***

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. — Il gelsomino è di Lisa, — diceva don Paolo a Giovanna. — Perchè? — domandava la bambina, un po' ingelosita di quella particolarità. — Perchè si chiama Lisa. Sono tuoi i garofani, il basilico, la menta. — Ma lo innaffio anch'io. — No, deve innaffiarlo lei, soltanto lei. Voleva procurarsi tutte le illusioni, povero vecchio. Tanto più che l'autunno gli metteva in cuore una gran malinconia, come l'anno passato, quando s'era immaginato che quell'autunno dovesse essere l'ultimo di sua vita. S'era ingannato; invece gli era anzi capitata la buona fortuna di quelle due bambine. - Vuol dire che il Signore mi darà tempo di tirarle su queste due creature; è giusto che sia così. Tentava di confortarsi a questo modo ; e si stizziva ogni volta che suo compare il canonico, a cui aveva parlato del testamento, glielo rammentasse, e lo esortasse a farlo subito, per non pensarci più. — O che sono coi piedi nella fossa? — rispondeva. Si sentiva bene, con le gambe solide. Aveva badato alla vendemmia e al raccolto degli ulivi, come un giovane di vent'anni; ora preparava la seminagione del grano e delle fave, e non poteva occuparsi del testamento; ci pensava e ripensava però, voleva maturarlo. Se ne sarebbe riparlato insieme, nel prossimo inverno, dopo Natale. — O che sono coi piedi nella fossa? E a proposito di Natale, si rammentò che l'anno scorso i suonatori della Ninnaredda (1), nelle notti della Novena, non erano venuti a suonare sotto le sue finestre; disabituati, dopo tanti anni, non si rammentavano più ch'egli esistesse al mondo. Ma ora che aveva in casa le bambine, egli voleva suonata la Ninnaredda sotto le finestre, come tutti gli altri; poteva regalare i (1) Ninna-nanna. 37 suonatori meglio degli altri, la vigilia di Natale, quando sarebbero venuti a casa sua, di giorno, com'era costume. Dolci, càlia, vino... e il vino quest'anno era proprio di quello! Il primo giorno della Novena appunto, aveva incontrato i suonatori che accompagnavano un Bambino Gesù di cera, toccato in sorte a una vicina nella chiesetta delle Orfanelle. Che festa mettevano per la via quei tre violini e il con trabasso, fra una trentina di ragazzi che li precedevano e li seguivano, allegri, saltellanti, quasi che il Bambino Gesù fosse toccato a loro! E mentre i suonatori passavano davanti la porta di casa, don Paolo, che faceva ferrare l'asino, accennato a mastro Gaetano e a mastro Neli, sorridendo, e aveva gridato per farsi sentire bene: — Non vi scordate di me! I suonatori tirarono innanzi senza rispondere, borbottando qualcosa tra loro, continuando a grattare i violini. Ma egli si era persuaso che avessero capito. E per ciò la sera, dopo cena, mentre le bambine si disponevano ad andare a letto, le aveva avvertite: — Questa sera, quando sarà il momento, vi sveglierò io. Domani poi, con vino cotto e miele e farina, impasteremo i mostaccioli pei suonatori, e faremo la càlia. Spogliandosi, Lisa disse a Giovanna: — Io non m'addormenterò. — E neppure io. Ma don Paolo, che le aveva udite dall'altra stanza, soggiunse: — Addormentatevi. Vi sveglierà il nonno. — Fingiamo di dormire, — sussurrò Lisa all'orecchio di Giovanna. — Si, sì! E finsero così bene, che si addormentarono profondamente. ***

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Si sentiva, a volte si, a volte no, secondo il vento, il grugnito del contrabasso, ma lontano assai. Don Paolo s'impazientiva delle troppe fermate, e rifletteva che nella sua via essi non avevano molte case sotto cui arrestarsi : dal dottor Cipolla, dai Carcò, dal notaio Miani, e poi da lui. — Oh! Ora si udiva benissimo, oltre il suono del contrabbasso, anche quello dei violini ; don Paolo si sentiva intenerire. E appena si persuase che i suonatori erano già sotto la casa del notaio Miano, posò per terra la cavezza, si levò da sedere, aperse l'uscio della camera delle bambine e aspettò per svegliarle. Come saranno contente! Gli pareva che i suonatori lo facessero apposta indugiando colà. Non era bastata la Ninnaredda! Attaccavano anche una suonatina allegra! — Faranno lo stesso qui sotto, — pensava. Nel silenzio della notte si sentiva sul selciato il rumore delle scarpe grosse, e le voci dei suonatori che parlavano fra loro e ridevano... — Ora si fermano.... Invece, con gran rabbia di don Paolo, i suonatori erano passati oltre. Egli tremava dall'indignazione per quel, dispetto, sperando d'ingannarsi finchè il rumore dei passi, ancora vicino, poté illuderlo un istante; poi, con le lagrime agli occhi, guardò le bambine che dormivano, e tese i pugni, minacciando quei pezzi di ubbriaconi! — E la ninnaredda? — domandarono le bambine la mattina appresso. — Come? Non ve ne rammentate, dal gran sonno? — rispose don Paolo, sforzandosi a ridere. — Eppure io vi ho svegliate. E andò a fare una lavata di capo a mastro Gaetano: — Vi pagherò meglio degli altri! Capite? Ora ci ho le bambine. ***

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La notte di Natale aveva voluto condurle a vedere il presepe e a sentire la messa di mezzanotte. Piovigginava, tirava vento; ma la chiesa era li a quattro passi, e don Paolo non aveva creduto di commettere un'imprudenza, all'età sua, con quel tempaccio. Per tenere deste le bambine fino alla mezzanotte, s'era messo o giocare all' oca con loro, usando la gentile malizia di contar male i propri punti perchè il perditore fosse sempre lui, e fingendo, ogni volta, di arrabbiarsi contro la disdetta: — Santo Dio! voi mi spogliate. La posta era di venti nocciuole, ma egli invece pagava un soldo; e le bambine ridevano, vedendosi accumolare davanti tante belle palanche, mentre i loro mucchi di nocciuole rimanevano intatti. — Santo Dio, voi mi spogliate! Questo è l'ultimo soldo. E don Paolo faceva atto d' arrovesciare una tasca. — No, ce n'e ancora un altro. Ce n'era sempre qualcuno in questa o in quella tasca. Lisa contava i suoi; quindici! Giovanna contava dall'altra parte: dodici ! — Oh ! ecco le campane. È il primo segno per la messa cantata. Nel silenzio della notte le campane squillavano allegre, annunziando gloria in cielo e pace in terra; e già cominciava per la via il via vai della gente. — Al secondo segno, andremo in chiesa. Intanto aveva continuato a lasciarsi spogliare, come diceva. Aveva anzi finto di dover giuocare sulla parola, perchè non possedeva più un soldo spicciolo. Poi tirate fuori due mezze lirette di argento, aveva detto serio serio: — Se mi vincete pure queste qui, domani non potrò fare la spesa. — La faremo noi, — aveva risposto Lisa, ridendo. — Brava ! E don Paolo si era lasciato spogliare anche delle due mezze lirette d'argento, prima che le campane suonassero il secondo segno. In chiesa c' era folla, e gran confusione ; la gente arrivava a frotte; un pecoraio strillava la ninnaredda con la cornamusa, intanto che i sagrestani accendevano i lumi dell'altare. Il vento e la pioggia scotevano i vetri delle grandi invetriate; dalla porta, continuamente aperta, penetravano sbuffi d'aria umida e fredda, ma dentro si scoppiava dal caldo. — C'è da prendere un malanno all'uscita ! — rifletteva don Paolo. E infatti egli lo prese: tosse e febbri, febbri e tosse. Da prima non aveva voluto mettersi a letto, nè far chiamare il medico; ma poi aveva dovuto persuadersi che lo stare in piedi era peggio. Pure aveva aspettato fino a tardi e si era coricato l'ultimo, per illudersi che non si metteva a letto come malato. La mattina dopo però non aveva avuto la forza di levarsi; e svegliate le bambine, aveva detto: — Andate del dottor Cipolla, qui vicino; ditegli che venga a farmi una visita; prendete la chiave della porta di casa. E quando aveva inteso il rumore della porta chiusa dalle bambine, s'era sentito solo solo, abbandonato; e tutti i terrori della notte precedente gli erano piombati addosso. — Questa volta è finita! — ripeteva. — Questa volta non c'è più rimedio ! Invece del medico, perchè non mando a chiamare il notaio ? No, no : gli pareva quasi impossibile che Gesù Bambino volesse ripagarlo in quel modo della messa andata a sentire a mezzanotte, ripagarlo facendolo morire. No, Gesù Bambino misericordioso si sarebbe ricordato delle orfanelle che rimanevano senza aiuto e senza guida, se il loro tutore era portato via dalla febbre e dalla tosse che gli toglieva il respiro. Il dottor Cipolla, lungo, lungo, lungo, magro e stecchito, col bastone sotto braccio, aggiustandosi o ogni po' le punte del colletto della camicia, era entrato sorridendo, senza togliersi il cappello a staio perchè aveva paura d'infreddarsi, e s'era fermato in piedi davanti al letto. Lo chiamavano San Pantaleone, chi sa perchè? forse per la statura, quasi quel San Pantaleone indicasse qualcosa di spropositatamente alto col semplice suono delle sillabe. — Sedete, dottore ! sedete ! — disse don Paolo, con voce lamentosa, interrotta da colpi di tosse. Non poteva vederselo davanti, ritto in piedi, con quella tuba in testa che toccava la volta della camera, e il collo incastrato nell'alto colletto che non gli permetteva di abbassare il capo. — Sedete, dottore ! Temeva che la sua voce di malato non riuscisse ad arrivare fino a lassù, sotto la tuba, e penetrargli dentro gli orecchi sempre turati con la bambagia. — Voialtre, andate di là, — soggiunse per allontanare le bambine. E appena esse furono uscite di camera, si mise a singhiozzare. — Dottore, ditemi la verità! Per quelle creature, che non voglio lasciare in mezzo a una via, ditemi la verità ! — Certe cose, caro don Paolo, — rispose il dottore, tirandosi le punte del colletto, — non bisogna mai rimandarle proprio agli estremi momenti, quando la testa non ci regge più! Così anche per le cose della santa Chiesa. — Dunque sono spacciato ? — Non esageriamo caro don Paolo !... Ecco qui un calmante per la tosse; una cucchiaiata all'ora; poi penseremo alla febbre... Niente di grave. — La mia sentenza di morte! — pensava don Paolo, seguendo con gli occhi la mano che scriveva la ricetta sul ginocchio della gamba accavalcata all'altra. E prima che il dottore andasse via, egli lo pregò di mandargli il notaio Miani, pel testamento; erano a uscio e bottega, non sarebbe stato troppo incomodo per lui. Il dottor Cipolla, che s'interessava molto anche della salute dell'anima dei suoi clienti, dopo il notaio, s'affrettò a mandargli pure suo compare, il canonico. Ma don Paolo, che aveva dovuto fare un bello sforzo per vincere l'idea di malaugurio del testamento, quando vide entrare il canonico, non potè frenarsi : — Venite a portarmi la jettatura anche voi ? Lasciatemi in pace! — Sono venuto per una visita, si scusava il canonico. Don Paolo però seguitava a strillare: — No, compare; se mi confesso muoio ! — Siete cristiano, si o no ? — Cristianissimo; ma se mi confesso e prendo il viatico, muoio! — Le cose sante sono la miglior medicina, compare. — Ma se non debbo morire... E non voleva morire, almeno questa volta. E ragionava, a modo suo, parlando a stento, fra un colpo di tosse e l'altro, per convincere il canonico, che si frenava a stento per non ridere. Come? Sono andato alla messa di Natale per devozione, ci ho condotto anche le bambine, e il Signore, in ricompensa, mi farebbe morire? Non è possibile. Dio è giusto. Non può mandarmi all'inferno; non ho rubato, non ha ammazzato, non ho calunniato; ho fatto anzi un' opera di carità da meritarmi il paradiso... — Questo non dovreste dirlo voi, — lo interruppe il canonico. — Se il Signore si avvede che mi son confessato e comunicato, dice: — Quel povero don Paolo portiamolo in paradiso, è meglio, giacchè ora si trova in grazia nostra !... — No, Signore benedetto ! lasciatemi star qui... Non vedete che queste orfanelle hanno soltanto me, e che se muoio io, le spogliano, le riducono alla miseria con tutto il bel testamento che ho fatto? Lasciatemi quaggiù un altro pochino! — Il signore sa bene quel che deve fare, non ha bisogno dei vostri consigli !... — Non lo consiglio, lo prego! E dovreste pregarlo anche voi nella santa messa ! Io dico : Il Signore, non vuol farmi dannare. Ebbene, se muoio non confessato, mi danno... Dunque mi dia la salute del corpo, non per me, per le orfanelle... E per ciò non mi confesso, no, no, no ! Potete andarvene, compare canonico ! Il canonico, dalle risa, era passato alla commozione per tanta ingenuità, che infine significava profondissima fede in Dio ; e non insistette, anche per non turbare il malato, che non gli sembrava così grave come il dottor Cipolla gli aveva detto. — Riposatevi; avete chiacchierato troppo ! Infatti, calmatasi l'eccitazione, Don Paolo era ricaduto, ansimante, con la testa sui guanciali, la bocca aperta e gli occhi chiusi. Le orfanelle lo guardavano atterrite, senza osare di accostarsi al letto, interrogandosi con cenni: — Che dobbiamo fare? Non dovettero far altro che preparare qualche scottatura di tiglio, di cammomilla, e poi ottimi brodi di pollo durante la convalescenza. La quale, contro ogni previsione del dottore, fu così rapida, che una mattina in cui egli credeva di trovare il malato ancora a letto in attesa del permesso di alzarsi per qualche ora, lo trovò invece in cucina davanti a un fornello, mentre Giovanna grattava il cado, e Lisa sbatteva in un piatto le uova per una magnifica frittata, e lui minuzzava un po' di prezzemolo e di cipolla da servire pel condimento. Il dottore, che appunto tornava dalla casa di un cliente morto pochi minuti prima senza permesso di lui, ed era rimasto male davanti ai parenti in lagrime e che quasi l'accusavano di aver ammazzato il malato, visto don Paolo in atto di fare il cuoco, s'era messo a ridere e s'era sentito venire l'acquolina in bocca all'odore. — Ah, voi fate venir in casa il medico per invitarlo a colazione ! — Se volete favorire, — aveva risposto don Paolo, sorridendo. Ma per levarselo di torno subito, gli aveva messo in mano una carta da dieci lire, pagamento delle visite. Non voleva conti in sospeso con nessuno, col medico soprattutti : certa gente è meglio tenerla lontana quanto più si può. — Staremo un bel pezzo prima di rivederci, caro dottore ! — gli disse su l'uscio, allegro, quasi avesse in tasca il contratto con Domineddio, di dover campare un secolo o poco meno. E fu proprio così. ***

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Le prime volte, accorgendosene, ne aveva riso egli stesso : — Comincio a istupidire, figlie mie ! Da lì a qualche mese però le cose cambiarono. Non usciva più di casa; andava da una stanza all'altra come sperduto, con le sopracciglia aggrottate, le mani dietro la schiena, guardando attorno con aria diffidente, quasi andasse notando novità che gli dispiacevano. Brontolava, si stizziva per cose da nulla, ripeteva certi atti giorno per giorno, a ora fissa, quantunque ogni volta si lasciasse subito convincere che aveva torto. A ora fissa, da una settimana, si metteva a preparare la tavola. — Che fate, nonno? — Lo vedi. Non si desina oggi forse? — Ma se abbiamo già desinato due ore fa! — Abbiamo già desinato?... È vero, hai ragione. Stava un momentino esitante, e zitto zitto sparecchiava. Poi, da lì a un mese, non si lasciò convincere più. Era inutile ripetergli: — Abbiamo già desinato! — egli scoteva il capo, con aria maliziosa, e continuava ad apparecchiare. Quando aveva finito, si sedeva a tavola, aspettando, battendo sull'orlo del piatto con la forchetta e col coltello, impazientendosi del ritardo: — Volete farmi morire di fame, povero vecchio? Ingrate, ingrate! Vi ho dato tutta la mia roba; mi sono spogliato per voi... ed ecco la ricompensa ! Dannate ! L' inferno vi aspetta. Urlava , piangeva. Lisa e Giovanna un po' ridevano , un po' rimanevano stupite, afflitte di vederlo piangere; poi, a furie di carezze e di buone maniere, riuscivano a farlo levare da tavola, a deviarlo da quella fissazione; suggerendogli: — È mezzanotte; andate a letto. Il sole vicino al tramonto inondava la camera dove lo conducevano, ma egli non se n'avvedeva; e mentre Lisa chiudeva gli scuretti della finestra, egli dava mano a spogliarsi, e intanto domandava: — E il santo rosario? — L'abbiamo recitato or ora. — Si, si, è vero; non bisogna scordarsene mai, altrimenti la Madonna non ci aiuta. Andate a letto anche voi. È mezzanotte. Ma questo stratagemma giovò per poco. Una notte Lisa e Giovanna furono svegliate da forti picchi all'uscio. — Dormiglione, su, levatevi! È mezzogiorno. E d'allora in poi, a ogni mezzanotte era mezzogiorno per lui. Lisa si alzava, apriva la finestra : — Non vedete che è buio? — È annuvolato. C'è l'ecclissi... Si rammentava dell'ecclissi di anni addietro, e affermava che il sole sarebbe ricomparso subito. Insomma ci voleva una pazienza da santi; e Lisa e Giovanna erano proprio due sante, che gli volevano bene, e lo adoravano, e lo compativano, povero vecchio. Lisa qualche volta leticava col marito che non aveva carità, com' ella gli rimproverava: — Forse sa quel che fa, poverino ? Ora, di tanto in tanto, egli perdeva anche la conoscenza delle persone. — Chi siete? Che fate qui? Chi cercate? — Sono Lisa; non mi conoscete ? — Lo so, lo so; ma costei, chi è costei? — Giovanna. A quei nomi rimaneva turbato. I ricordi delle figliuole morte e la figura delle due donne che si vedeva davanti lo imbrogliavano, lo rendevano dubbioso ; e voltava le spalle, crollando la testa, ricominciando da capo dopo un momento : — Chi siete? Che fate qui? Il padrone sono io. La roba è mia. E si metteva a discorrere, divagando : — Avevo due figliuole.... Quella strega le mandava a chiedere l'elemosina.... E sono morte, povere creature, morte di tifo!.. Ve ne ricordate? Io ho fatto testamento; ho lasciato ogni cosa a loro... Erano orfanelle, abbandonate da tutti..... Il Signore se l'è prese.... Sia fatta la volontà di Dio! Come vi chiamate? Lisa? Giovanna? Si chiamavano così anche le mie creature. Se volete stare con me e servirmi ora che sono vecchio, faccio testamento e lascio ogni cosa a voi... Il padrone sono io. Ma qui non ci voglio più stare; voglio andarmene a casa mia. Prendete le chiavi; andiamo, andiamo ! E bisognava secondarlo, perchè non s'arrabbiasse e non urlasse. Lisa fingeva di mettersi lo scialle — e spesso bastava buttarsi addosso una salvietta, un asciugamani — e gli dava braccio per le scale. Scendevano giù, in istalla o in cantina, e risalivano : — Eccoci in casa nostra! — Ah, come si sta bene qui ! Colà non mi ci potevo vedere !...In casa altrui uno non può fare a modo proprio. Si erano abituate a queste stranezze; spesso le prevenivano, le secondavano sempre, visto che era il miglior mezzo per non farle prolungare; e anche ci si divertivano, quando il povero vecchio si sfogava a parlare del passato lontano, molto lontano, che gli veniva alla mente con lucidità e precisione meravigliosa. Si divertivano quasi, anche quando se la prendeva con loro, con quelle ingrate che lo facevano morire di fame, che non potevano più vederselo dinanzi, perché il padrone era lui e loro volevano tutta la roba per sè... — Ma le gastigherò io! So io come gastigarle! — Come? — Straccerò il testamento, le lascierò nude in mezzo a una via! — Fate bene, — gli diceva Lisa ridendo. — Dovreste lasciare la roba a noialtre. — A voialtre? Che c'entrate voialtre? La roba mia è delle mie figlie, delle orfanelle che ho cresciute, nutrendole con la carne del mio cuore, col sangue delle mie vene! Che c'entrate voialtre? Esse soltanto mi vogliono bene ; e pregheranno per l'anima mia quando sarò morto; che c'entrate voialtre? ***

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Ma un giorno avevano visto il povero vecchio alzarsi dalla seggiola dov'era stato tutta la mattinata a sedere, e stropicciarsi gli occhi e la fronte, quasi si destasse da profondissimo sonno. — Lisa !... Giovanna ! Le chiamava sorridendo, con voce tremula dalla commozione, maravigliato, quasi le rivedesse dopo lunga assenza. E pareva ricordarsi di tutto, e pareva si vergognasse di quel che ricordava... — Sono stato pazzo? Oh, povere figlie mie, quanto vi ho fatto soffrire !... Ma ora me ne vado; non vi tormenterò più.... Me ne vado a trovare quelle altre che mi aspettano da un pezzo... Dio vi benedica, povere orfanelle! E fece atto di alzar le mani per benedirle... Le lasciò ricadere... S'era spento tutt'a un tratto, dolcemente, tra le braccia di Lisa e di Giovanna. Roma, novembre 1983.

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. — Il sarto cominciava a spazientirsi, vedendolo così incerto e così variabile da un istante all'altro. Intervenne il babbo per farla finita. Ma il sarto dovette spazientirsi peggio quando giunse il momento della prova degli abiti. Le maniche della giacchetta oggi parevano a Giorgio troppo lunghe, domani troppo corte; i petti non si reggevano bene... E i pantaloni, oh Dio, come cascavano male su la scarpa!... Sbattevano goffamente nel camminare... — Lei sarà un avventore indiavolato, — esclamò il sarto. — Chi le ha insegnato queste cose? Finalmente, con gran sollievo di tutti, il vestito fu all' ordine. Giorgio volle provarlo un' ultima volta; gli stava a pennello. Egli bruciava di uscire di casa subito, la mattina stessa, per farsi ammirare; ma il babbo, volendo correggerlo di quella smania eccessiva, gli disse — Verrai con noi questa sera in casa Ronzano. È il compleanno della signora. Intanto termina il còmpito di tedesco; questa sera torneremo a casa tardi, e domani non avrai tempo; la maestra viene di buon'ora. Giorgio domandò per grazia che il vestito fosse deposto sul letto in camera sua: voleva vederlo lì, mentre egli avrebbe lavorato sfogliando grammatica e dizionario. Era possibile fare le traduzioni dal tedesco in italiano e dall'italiano in tedesco con quel vestito nuovo fiammante sciorinato sul letto? Giorgio si voltava a ogni po', si levava da tavolino per rallegrarsi gli occhi guardandolo, e per tastare la bella e morbida stoffa inglese. Infatti era passata un'ora, e la traduzione dal tedesco rimaneva arrestata alle prime righe. — Ho tempo fino all'ora di pranzo ! — egli pensava. Si sentiva allettato dalla tentazione d'indossare nuovamente il vestito per persuadersi, osservandolo con attenzione davanti allo specchio , se stava proprio bene. Appunto ora rammentava certe pieghette della giacca sotto la manica, alle quali gli pareva non aver badato quanto avrebbe dovuto ; voleva vedere se s'ingannava o no. Il babbo era fuori ; la mamma aveva visite in salotto; nessuno lo avrebbe disturbato... Esitò un istante, poi si lasciò vincere dalla tentazione; e cominciò, in fretta in fretta, a togliersi di dosso il vestito di casa. No, tutto stava benissimo; nè pieghe sotto l'ascelle, nè niente ! Egli andava su e giù per la camera, pavoneggiandosi, prendendo aria da giovanotto, col cappello in testa e la mazzettina in mano. Doveva camminare un po' chinato, con le braccia penzoloni , come il cavaliere Sganzetti che era, dicevano, un vero scicche? O piuttosto con la testa alta, e il petto sporgente, con un che di spavaldo, come il cugino Rubini? Si provava, e subito s' arrabbiava di sentirsi molto impacciato nelle mosse. I pantaloni lunghi gli impedivano di buttare le gambe scioltamente. Che vuol dire non essere abituati! E provava, e tornava a provare, finché non gli parve d' avere già acquistato un po' della necessaria franchezza. Allora... Andò a origliare dietro l'uscio del salotto. Dalla mamma c'era tuttavia gente. Tornò in camera in punta di piedi e mise il paletto; se qualcuno fosse venuto, avrebbe risposto che non voleva essere disturbato per terminare il còmpito in tempo. Il giorno avanti, rovistando la cassetta d'un armadietto del babbo, Giorgio aveva trovato una sigaretta dimenticata lì chi sa da quanto tempo; il babbo non fumava sigarette da un pezzo, ma sigari lunghi così. Per far compiute le prove del suo atteggiamento a giovanotto, Giorgio aveva pensato di fumare quella sigaretta, con la finestra aperta, s'intende, perché nessuno poi s'accorgesse dell'odor del tabacco. Detto, fatto; la trae fuori dal nascondiglio dove l'aveva deposta, l'accende, e comincia a gettare grossi sbuffi di fumo da questa parte e da quella, socchiudendo gli occhi, spasseggiando per la camera come avrebbe voluto fare pel Corso, se gli fosse stato permesso. Una sigaretta così piccina non poteva fargli male. E boccate di fumo, una dietro all'altra; e talvolta un po' di tosse, quando il fumo, per malaccortezza del fumatore, gli entrava in gola. Deliziosa quella sigaretta! Ah, non vedeva l'ora di esser grande, per comprarsi un bel portasigarette giapponese, come quello di Sganzetti, con le gru che volavano. Venti lire, a quel bel negozio di via Condotti; l'aveva adocchiato nella vetrina tante volte, passando. A metà di sigaretta, già sentiva un po' di disturbo; qualcosa gli saliva dallo stomaco alla testa e gli dava una specie di dolce stordimento... Eh via! Era proprio un ragazzo. Avanti! E boccate di fumo, una dietro all'altra, come da gola di fumaiolo. ***

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Quadri anneriti dal tempo, stampe di diverse dimensioni, nere e a colori, di santi che il fumo aveva resi irriconoscibili, tappezzavano i muri, fra mensole gremite di bocce, boccette, boccettine, tazze, caffettiere, grattugie, insomma di arnesi disparati, ridotti inservibili dalla ruggine e conservati lì, allo stesso posto, sin dal tempo in cui gli erano morte, in meno di tre mesi, la moglie e le due figlie. In fondo alle stanze, soltanto la camera da letto e la cucina erano un po' ravviate. Egli viveva relegato colà, quasi le altre stanze non fossero sue, non permettendo mai che anima viva vi penetrasse, e uscendone di rado, quando non doveva andare in campagna, o alla messa la domenica mattina. Le uniche creature viventi che abitassero con lui quella tana, erano l'asino e un gatto; l'asino, vecchio, spelato, con le orecchie basse e gli occhi cisposi; il gatto, magro, egualmente spelato per vecchiezza, e che, quando non si aggirava lentamente per le stanze miagolando con voce flebile, faceva la fusa su una seggiola, o su la catasta delle materasse o dei coltroni. Don Paolo durava quella vitaccia da più di trent'anni, divenendo sempre più aspro, più burbero, più drago, come andavano notando i vicini. Oramai era ridotto un mucchio di grinze, bianco di barba e di capelli, un po' curvo, ma rubizzo e agile più che non sembrasse a vederlo. E se qualcuno della sua età, incontrandolo, lo fermava per domandargli: - Che fate, don Paolo? - Aspetto la morte, — rispondeva. — Che altro posso fare? Ed era vero. Si era visto vuotare la casa in tre mesi; il tifo gli aveva portato via moglie e figliuole, ed egli non aveva saputo più consolarsi di quella disgrazia. Diventato misantropo, drago, non aveva voluto più vedere nessuno, quasi moglie e figliuole gli fossero state ammazzate dalla gente. Abballinate le materasse, ripiegati i coltroni, disfatti i letti delle sue care creature, aveva buttato ogni cosa lì, alla rinfusa; e non aveva più toccato niente da anni e anni, senza occuparsi se i topi, le tignuele, la polvere, i ragnateli avessero rovinato coltroni e materassi. Per chi dovevano servire? Non aveva parenti lontani, neppure dal lato della moglie. Così egli aspettava la morte, fra tutte quelle cose morte. E la sera, prima di andare a letto, recitando la corona, pregava per coloro che lo avevano lasciato solo solo, e invocava che venissero a prenderselo. Ma non arrivavano mai; s'erano scordate di lui! Quell'anno però, a poco a poco, gli era entrata in mente la convinzione che la sua vitaccia sarebbe finita in autunno. I segni erano evidenti, secondo lui. Non si sentiva insolitamente impietosire dalle miserie altrui? Quasi ne aveva rabbia e vergogna. Forse gli altri mostravano pietà e compassione per lui? Lo chiamavano drago; e drago avrebbe voluto essere fino all'ultimo respiro! Affacciandosi alla finestra, per fumare la sua vecchia pipa di terra cotta, aveva notato le due orfanelle della strega, venute ad abitare da poco tempo lì di faccia, e il cuore gli si inteneriva per ricordi che egli credeva scancellati da un pezzo. Era illusione della sua fantasia o realtà? Gli pareva che le due orfanelle raccolte dalla zia strega — non la chiamava altrimenti — somigliassero davvero alle di lui figliuole quand'erano state bambine. Ebbene, che doveva importargliene? Non erano perciò le sue figliuole. Quelle erano morte, e oramai se le erano mangiate i vermi della sepoltura nella chiesa dei Cappuccini. Che doveva importargli di queste qui? Eppure, dalla finestra e fumando la pipa senza barattare una sillaba coi vicini che non gli rivolgevano la parola perchè sapevano che non rispondeva a nessuno, eppure le osservava mentre giocavano davanti la porta di casa loro, le covava con lo sguardo, mugolando sotto voce ogni volta che la stregaccia le prendeva a maltrattare: — Ma che deve importarmene di costoro? Se lo ripeteva, per vincere così quel senso di pietà e di commiserazione da cui si sentiva invadere con suo gran dispetto. Poi, per parecchi giorni non le vide più. Dove erano andate? Che ne aveva fatto quella stregaccia? Era stato inquieto, irrequieto tutta la giornata, affacciandosi più volte alla finestra, stizzito di tale assenza. Gli mancava qualche cosa. Almeno prima si distraeva, mentre stava a fumare la pipa alla finestra! E la mattina che, andando in campagna, le aveva trovate fuori della città, sul muricciolo del ponte, a domandare l'elemosina, aveva sentito uno strano rimescolio in quel suo cuore indurito dalle disgrazie e dalla solitudine; ma la prima volta s'era limitato soltanto a guardarle con una occhiataccia, ed era passato oltre. Due giorni appresso però non aveva potuto frenarsi; gli era costato un grande sforzo il trattenersi dall'apostrofare la stregaccia della loro zia, quando la sera, al ritorno dalla campagna, l'aveva trovata seduta su lo scalino della porta, con le bambine sdraiate per terra ai due lati, come due bestiole. Quella notte aveva dormito male, pensando sempre alle poverine, brontolando parole contro la strega che le mandava a chiedere l'elemosina e voleva vivere alle loro spalle, senza fatica, stregaccia! La mattina, mettendo il bardo all'asino, aveva continuato a pensare alle due sventurate prive di babbo e di mamma, che avrebbe trovate certamente sul muricciolo, anche dopo che aveva leticato per loro con la strega; e aveva preparato la mezza pagnotta per dargliela e rimandarle a casa, pur ripetendosi di tanto in tanto: — Che deve importarmene? Non sono mie figlie ! Le mie figliuole, laggiù, ai Cappuccini, se le sono mangiate i vermi della sepoltura! E tutt'a un tratto, quasi qualcosa d'indurito gli si fosse liquefatto nel cuore, quel giorno non aveva più resistito, e se le era cacciate avanti dentro casa, e aveva chiuso la porta in faccia alla strega e ai vicini. **

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Le gambe gli si piegarono sotto, e gli parve prudente mettersi a sedere... — Oh, Dio! Si vedeva diventato lungo lungo, grosso grosso... omaccione, gigante... Se si fosse seduto su quella seggiolina, l'avrebbe sconquassata col peso... Come mai era cresciuto tutt'a un tratto?... Già toccava il soffitto con la testa... Ah! Ah! Ah!... Se la mamma o il babbo fossero entrati in quel punto, non lo avrebbero riconosciuto... Ah! Ah! Rideva, barcollando, aggrappandosi ai mobili; e intanto si sentiva allungare, allungare, allungare, quasi qualcuno lo tirasse pei capelli... Ora non solo toccava con la testa la volta, ma doveva anche chinarsi... Nella camera non ci stava più... Soffocava! E guardandosi, si vedeva certi piedoni, e certe manacce... Diventava mostruoso ? Si spaventò e cominciò a gridare: — Aiuto! Soccorso!... Fin rannicchiato per terra toccava col capo la volta. — Aiuto! Soccorso! Sentiva picchiare forte a uscio, sentiva gridare: — Apri! Apri! Che hai? Che è stato? — ma non poteva muoversi, non aveva coscienza di quel che accadeva. Vedeva attorno a sè persone che non riconosceva, udiva parole che non intendeva... E non capì più niente. ***

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Mentre un servitore correva in cerca del padrone, un altro volava a chiamare il medico nella vicina farmacia. — Che è stato? — gli domandavano tutti. Giorgio non rispondeva, o rideva scioccamente, o rispondeva stramberie inintelligibili : — Allungo !... Mi allungano !... Fatemi posto !... Il mozzicone della sigaretta, trovato per terra in camera di Giorgio, die' finalmente al babbo la spiegazione del mistero. — Ha fumato una sigaretta con l' ascich, - egli esclamò, riconoscendola; e la mostrò al dottore. Quella sigaretta, preparata con l'estratto della canabis indica, — estratto che dà visioni fantastiche e il cui abuso istupidisce coloro che hanno il vizio di fumarlo, in Oriente, — gli era stata regalata, perchè la provasse, da un amico tornato dal Cairo. Egli non aveva voluto avventurarsi alla prova, temendo che gliene venisse male; e aveva buttato la sigaretta in un cassetto. Quel frugone doveva averla scovata chi sa come. Allora il dottore lo rassicurò; si trattava d'un disturbo passeggero; e ordinò di far prendere al ragazzo molto caffè, e lasciarlo riposare. Intanto quella sera fu impossibile andare in casa Ronzano, con dispiacere del babbo e della mamma, che non avrebbero voluto mancare alla festa d'una amica carissima. Mamma e babbo erano sconvolti dallo spavento avuto, quando nessuno sapeva che male avesse il figliuolo; e Giorgio, fino al giorno appresso, si sentiva ancora mezzo stordito dagli effetti dell'ascich, e con nausee straordinarie. Il babbo, lasciato che fosse completamente svanita quella specie d'ubbriacatura, fece a Giorgio una lavata di capo numero uno. — E il vestito dai pantaloni lunghi... a quest'altro! — egli conchiuse severamente. Giorgio, a testa bassa, non osò rifiatare, pur maledicendo in cuor suo le sigarette coll'ascich e chi l'aveva inventate. Così guarì della smania della giacchetta e dei pantaloni lunghi, e del vizio di frugare nelle cassette del babbo.

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La mattina, mentre egli si disponeva a mungere il latte, gli abbai del cane gliene preannunciavano l'arrivo; e tosto giungevano, ognuno munito di piatto, di cucchiaio e di una fetta di pane fresco, per mangiare la giuncata o la ricotta calda, o semplicemente una zuppa di pane e latte. Fossero rimasti tranquilli, non sarebbe stato niente. Ma volevano metter le mani dappertutto; mungere loro, e loro rimescolare il latte posto a scaldare, e loro far fuoco, e aiutare il pecoraio, cioè, e imbarazzarlo nelle delicate operazioni del frutto, come egli diceva. Il poveretto doveva avere cent'occhi, cento mani per impedire che quei benedetti figliuoli non rovesciassero la caldaia o i secchi col latte. Fin il cane di guardia si mostrava seccato del chiasso importuno, e ringhiava accoccolato davanti al pagliaio per impedire che coloro vi entrassero; pareva capisse che quei ragazzi avevano paura della bestia sciatta, pelosa e brutta che egli era. Quella volta intanto, invece d'un giorno e mezzo, i ragazzi dovevano rimanere alla fattoria l'intera settimana. C'erano non so quali vacanze, e il babbo, forse per stare più tranquillo in casa, gli aveva mandati in campagna. Indurli a tornare alla fattoria, dopo mangiata la giuncata o la ricotta o la zuppa di latte, ogni mattina era una fatica. — Vogliamo stare con voi; venire dietro le pecore! Il pecoraio, alla fine, era riuscito a persuaderli; prometteva che, al ritorno dal pascolo, avrebbe loro portato fiori di campo, o nidiate di uccelli, o bacchette lunghissime, o avrebbe raccontato una bella fiaba; così i padroncini lo lasciavano in pace. Un giorno però essi volevano aspettarlo dentro il pagliaio, per non rifare due volte la strada dalla fattoria alla mandra. — Dentro il pagliaio no ! — Perchè? — Perchè no. Li non ci può entrare nessuno. I ragazzi parvero convinti di questa perentoria ragione. Ma appena stimarono che il pecoraio doveva essere con le pecore nella vallata dello Sgombo, tornarono addietro, da sotto il carrubbo dove s'erano fermati a mezza strada, e in due salti si trovarono davanti al pagliaio. Avevano ordito una congiura. Sapevano che il pecoraio riponeva li dentro la ricotta che poi la sera egli soleva portare alla fattoria; dovevano mangiarsi quella ricotta, per farlo disperare. E la mangiarono. ***

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E i ragazziche erano presenti alla sfuriata, stettero zitti e seri, un po' impauriti della minaccia; ma appena il pecoraio andò via, di nascosto dei contadini, per non farsi scoprire, si diedero a saltare, a ridere, a battere le mani, applaudendosi per la prodezza fatta. Non risero il terzo giorno. Tornavano quatti quatti alla fattoria rimpinzati della ricotta fresca rubata, quando proprio sotto il carrubbo dovettero fermarsi. Si erano guardati in viso, e si era visti pallidi, bianchi come cenci lavati ; e non avevano potuto dirsi neppure una parola, tanto si sentivano sconcertati di stomaco. Il minore diè l'esempio il primo; poi lo imitarono gli altri tre, uno appresso all'altro, quasi invece di ricotta avessero ingoiato un violento vomitivo. Il minore piangeva, chiamando: — Mamma! Mamma! — Il maggiore voleva fare il coraggioso, ma non si reggeva in piedi. Si misero a piangere tutti e quattro, a gridare, a chiamare il fattore. Un uomo accorse dal fondo vicino, e si spaventò vedendoli ridotti a quel modo. Ne prese in collo due, li portò alla fattoria, e torno a prendere in collo gli altri sotto il carrubbo. Le donne del fattore non sapevano che rimedio apprestare; volevano spedire un messo al paese per avvertire il padrone — Che avete mangiato, Signore Iddio ? Uva agresta? Frutta immature? — Abbiamo mangiato la ricotta! Lo confessarono tutti e quattro insieme. Ma nessuno gli credeva, vedendoli contorcere anche dai dolori di pancia; pensavano che il pecoraio non poteva poi avergliene data tanta, da produrre quello sconquasso. Il pecoraio passava tra quei contadini un po' per medico, un po' per fattucchiere; perciò gli diedero la voce dall'alto: — Venite su, presto; venite! Lasciate le pecore. — Lui solo poteva consigliare, lì per lì, qualche rimedio per quei poveri bambini. Arrivò trafelato; e appena li vide, si dié un colpo alla fronte: — Madonna ! Erano loro che mi rubavano la ricotta ! Per accertarsi che il ladro fosse stato uno dei contadini della fattoria, come gli era venuto il sospetto, quella mattina egli aveva messo nel latte certi succhi di erbe a lui note, che non facevano molto male, ma davano dolori di pancia e producevano vomiti. — Non è niente, — disse. — Un po' d'acqua bollita, con due stille di limone. E il poveretto, angustiandosi che il vomitivo fosse proprio toccato ai ragazzi, non finiva di ripetere, meravigliato, e mezzo incredulo : — Erano loro che mi rubavano la ricotta ! ***

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D'allora in poi, a ogni loro ritorno alla fattoria, se essi accennavano a riprendere un po' di solito aire, bastava che il fattore dicesse: — Eh, padroncini, ci vorrebbe un po' di ricotta ! — perché tutti e quattro si frenassero e anche stessero un po' cheti.

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*** Angiolina e Alfredo erano ormai ridotti peggio dei loro genitori, cioè assai più paurosi dell'aria, della luce, del caldo e del freddo; e per qualche settimana furono la disperazione della nonna, che aveva accettato di averli presso di sè a patto di farli vivere come avrebbe voluto lei. Bisognava proprio che li cacciasse fuori di casa per farli andare pei campi, o a giuocare sotto gli alberi. Rispondevano sempre: — Il babbo non vuole, la mamma non vuole. — Babbo e mamma sono dei grulli ! — rispondeva irritata la vecchia. — Fuori, fuori! E attrapparono un forte raffreddore, con tosse, febbre e il resto. — Benissimo! — disse la nonna. I bambini si credettero capitati in mano d'una tiranna. Il signor Borsino non era potuto andare a vederli, ma aveva scritto una lettera al giorno. Appena sua moglie entrò in convalescenza, senza preavviso, una mattina capitò alla villa, e pareva uno stralunato. Sua madre credette che fosse accaduta una disgrazia. — Tua moglie ? — Sta meglio. E i bambini? — Sono fuori. — A quest'ora? — Sono fuori da due ore. — Dove? — Pei campi. — E la rugiada? — Gli bagnerà le scarpe; non vuol dire! Il signor Borsino fece un gesto di desolazione, e scappò alla ricerca dei figliuoli. Chi sa in che stato li avrebbe trovati ! Non credette ai propri occhi; — ed era passato appena un mese! — Abbronzati dal sole, ingrassati, cresciuti di statura mezza spanna, ma conciati nei vestiti in modo da far paura, con mani sporche di mota, con scarpe infangate e bagnate, a quell'ora, quasi alle otto di mattina! Non credeva ai propri occhi! S'era accostato piano piano, dopo averli scoperti in mezzo all'erba, laggiù. E che aveva veduto ? Angiolina con un cappellaccio di grossa paglia in testa e Alfredo in berretto, chinati e intenti a riempire di mota un barattolo di latta ; la bambina con un cucchiaio di legno, il bambino a dirittura con le mani. E dove, proprio dove ? In un posto acquitrinoso, coi piedi' in mezzo all'acqua che faceva gora tra i giunchi nascenti ! Rimase. Potè a stento dar loro la voce, e li spaventò mostrandosi a quel modo con le braccia aperte e gli occhi spalancati. I bambini non osavano accostarglisi, temendo peggio di un rabbuffo. Ma quando videro spuntare dietro le spalle del babbo il fazzoletto rosso che la nonna portava in testa, si rassicurarono e si slanciarono verso di lui; ma la nonna li trattenne pei braccini : — Non gli sporcate il vestito! Il signor Borsino si sentiva mortificato da quella incredibile realtà che gli dava così apertamente torto; e arrossì quando Angiolina, che aveva preso una cert'aria impertinente, gli domandò : — Babbo, sei venuto per portarci via ? Il babbo li baciava e li tastava. Come erano sodi quei polpaccini, quelle braccine ! E che bel rosso sotto la pelle abbronzata! — Maria non li riconoscerà! — balbettava. Eppure, poco dopo, voleva dare dei consigli di moderazione e di riguardi alla nonna che si teneva i nipotini stretti tra le braccia con gran tenerezza; ma la vecchia gli turò la bocca, rispondendo : — La mia casa non è il tuo ospedale ! E qui costoro sono figli miei, e ne faccio quel che voglio io! Nè per ora te li rendo; neppure se mandi i carabinieri! Il signor Borsino, commosso, non seppe rispondere altrimenti che ripetendo : — Maria non li riconoscerà !

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