Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNICT

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Voci della notte

250819
Neera 9 occorrenze
  • 1893
  • Luigi Pierro Editore
  • Napoli
  • Verismo
  • UNICT
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Sulla poltrona di sinistra un mucchio di trine biancheggiava, frammezzato da piccoli nastri, da arricciature di batista; una calza di seta era buttata attraverso alla spalliera; un busto bianco, dalla vita sottile, dalle sporgenze ancora tese e tiepide per il corpo che avevano racchiuso, era caduto per terra accanto a due piccole pantofole di velluto. Sulla pettiniera lì accanto, delle forcine di tartaruga, dei braccialetti e un mazzolino di gaggie — razzolino pesto, appassito rapidamente nella pressione del busto contro il seno, serbante ancora il profumo dei fiori freschi misto al profumo di una vitalità più calorosa ed intensa. Sul tavolino da notte un libro di versi. Nessun rumore. Le coperte del letto, rialzate a sinistra sopra una forma indecisa, non si agitavano al benchè minimo soffio. L'orologio a pendolo, stato fermato qualche minuto prima, segnava mezzanotte e mezzo. L'uscio si aperse e un uomo entrò. Di media età, bello, abbastanza elegante; entrò salutando, ma, non udendo risposta, fermò l'uscio che cigolava, e mosse con precauzione verso il letto, chinandosi, chiamando a bassa voce. — Dorme — disse poi, fra i denti. Nel rialzarsi vide il busto per terra; lo raccolse e lo posò delicatamente sulla poltrona, poi girò dall'altra parte del letto. Un gran numero di oggetti uscì dalle sue tasche; chiavi, temperino, matita, moneta spicciola, occhialetto, portasigari; tutto ciò cadde con un certo rumore sul piano levigato del comodino. Egli fece un movimento di dispetto per la propria sbadataggine, e si pose a levarsi il vestito con tutte le precauzioni; vestito e panciotto, che andarono a finire sulla poltrona, facendo riscontro alle trine, ai nastri e alle calze di seta dell'altra poltrona. Ebbe un momento di sosta, in camicia, stirando le braccia, provando l'ineffabile sollievo dell'uomo libero. Pensò: quel maledetto picche, stasera, mi ha rovinato tutto il giuoco. Sedette e si levò gli stivali. A piedi scalzi, molto più piccolo e più brutto di quando era entrato, stese le braccia ad accomodare il guanciale. Sul guanciale gemello, quello di sinistra, una lunga ciocca di capelli serpeggiava a mo' di bisciolina, nascondendo un pezzetto di guancia femminile, di cui l'altra parte scompariva sotto la rimboccatura del lenzuolo. — Dorme, decisamente — ripetè, e saltò lesto sotto le coltri. Dopo pochi momenti russava. Allora, nel silenzio della camera, un sospiro si alzò prolungato, doloroso; di sotto le coperte, a sinistra, il corpo indistinto si mosse; un braccio nudo, sollevatosi prima al di sopra della testa, ricadde inerte sul letto. Secondo sospiro, più lungo, più doloroso, e queste parole mormorate a guisa di un gemito: Mio Dio! Mio Dio! S'ella avesse potuto dormire, almeno un'ora! tanto da riposare quella povera testa che le scoppiava, tanto da dimenticare! Ma il sonno era lontano. Invece del sonno, incombevano su di lei le memorie dolci, ardenti, voluttuose, o poi tristi, agitate, piene di dubbi, e finalmente l'ultimo convincimento disperato: egli non l'amava più! Perchè non l'amava più? Aveva pure giurato di amarla eternamente. Quando cessa l'amore tra marito e moglie, rimane, se non altro, la casa, gli interessi comuni, il legame del mondo, la consuetudine; ma quando la morte colpisce queste relazioni occulte, è come fosse scoppiato il fuoco celeste che tutto distrugge. Oh! lo vedeva bene, lo sentiva, nulla sarebbe rimasto di quei due anni d'amore. Egli l'avrebbe dimenticata in braccio di altre donne, confusa nella folla dei ricordi. Chi sa se volgendosi più tardi al suo passato, e scorgendo l'immagine di due manine sulle quali egli aveva stampati tanti e tanti baci, le avrebbe riconosciute per le sue!... Strana e ironica burla, se la memoria delle di lei carezze dovesse unirsi, nella ingombra mente di lui, col nome di un'altra donna! Terribile cosa un amore che muore! Meglio la materia che ci dà il cadavere, poi la terra, poi i germi della vita rinnovantesi sotto altre forme. Ma questo soffio che è stato in noi, per il quale le nostre carni furono solcate, e l'anima nostra avvizzita, questo mostro, questo dio, quando fugge ci rapisce tutto! Avrebbe voluto gridare, piangere forte, chiamare aiuto, e invece doveva frena i singulti, fingere la calma, dormire a fianco del marito inconsciente. Riposava, il marito, col volto sereno, nella beatitudine di un sonno profondo. Ella girò gli occhi paurosamente e lo guardò. Dormiva il sonno del giusto — difatti egli era il giusto — lei la sposa colpevole, condannata alla menzogna. Egli poteva schiudere le palpebre, interrogarla, chiederle conto di quelle lacrime, farle confessare la sua vergogna, e cacciarla via come una ladra o ucciderla come una traditrice. Invece dormiva, sicuro. Le venne in mente, con una malinconia acuta, il giorno del suo matrimonio. Era ingenua allora, piena di illusioni, di buoni propositi, di intendimenti alti e severi. Anche ella aveva detto di amare, aveva giurato di amare eternamente, e non aveva amato più! In qual modo era venuto il tracollo? Ma! Si ricordava di aver letto molte pagine, qui, là, tutte piene di analisi finissime su questi tramutamenti della natura umana; pagine che le avevano fatto esclamare: Sì, davvero, succede proprio in questo modo! Ma le ragioni erano svanite, la logica sfumata; non restava che il fatto nudo e desolante: Ella non amava più suo marito. Amava l'altro, Perchò? Nuovo mistero. E l'altro la tradiva a sua volta, l'abbandonava, non l'amava più. Stette un poco sospesa, scacciando i pensieri, chiudendo forte gli occhi nella speranza che il sonno avrebbe vinto. Suonarono frattanto le due ad un'orologio lontano. Ma come soffriva! Si voltò una, due volte, smaniando. Improvvisamente le si gelò il sangue nelle vene; suo marito aveva parlato. Si rizzò sul gomito, spaurita, ascoltando. Egli sognava; un sorriso dolce gli errava sulle labbra, dalle quali uscivano sillabe indistinte; tutte le linee del suo volto si stendevano nell'espressione massima del benessere del riposo, ed ella si sentì invasa da una tenerezza materna per quell'uomo che dormiva come un bambino, senza sospetti. Il rimorso la assalse di averlo ingannato, lui così buono, che fidava in lei; e le venne un desiderio cocente di togliersi di dosso quei due anni di colpa, di tornare la sposa immacolata, di poter dormire anche lei, così, serenamente, la mano nella mano, le teste avvicinate, nella affettuosità fredda del talamo. Una commozione fatta di pentimento e di tristezza l'attirava verso il marito; oh! come avrebbe voluto amarlo! Tese le braccia, tese le labbra, ma al tiepido avvicinarsi dell'epidermide, quando stava per urtare il corpo di lui, una forza ignota la respinse. Altri, altri baci le bruciavano la bocca, l'avviluppavano qual veste di fuoco; baci, carezze ed amplessi di cui il solo ricordo la faceva fremere, la faceva singhiozzare colle membra rattratte, la faccia nascosta in mezzo ai guanciali, annientata. Non dormiva ancora, forse fu nel torpore della spossatezza ch'ella rivide un chiaro mattino di maggio. Era uscita per visitare i poveri, lesta, in abito succinto, con un velo sui capelli; e lo aveva incontrato, il dolce amore. Si incontravano sempre in quella viuzza che pareva di campagna, dove, al di sopra dei muri, spuntava il verde tenero delle acacie, e lungo i crepacci rameggiavano le pallide glicinie dai grappoli odorosi. Che incantevole mattino!... Soli, dimentichi dall'universo, tenendosi per mano, zitti, guardendosi negli occhi, tanto felici da sentirsi perfino innocenti, avevano benedetto Iddio nella soavità del creato; e con inconscia empietà vollero entrare in una chiesuola solitaria, come sposi novelli. Tali li ritenne senza dubbio il buono e vecchio prete che attraversava allora la chiesa tenendo in mano due roselline, poichè li guardò, sorrise, e con atto gentile porse i fiori a lei. La luce, l'aria, la mitezza del cielo, la navata bianca della chiesuola, il sorriso indulgente del prete, tutto, tutto rivedeva con lucidità meravigliosa — e il lieve imbarazzo, e l'onda di felicità che li riprese, e la fine, oh! la fine di quelle due rose!........ Una vibrazione la scosse. Era il cane di una pistola? Erano le risa schernitrici del mondo? Era il pianto del suo bambino? — o la morte, la morte liberatrice? No, erano le ore; solite, impassibili: una, due, tre. Appena le tre. E perchè non morrebbe? Lo scoppio di una vena è cosa che succede tutti i giorni. Dio che permette l'amore colpevole quando non si cerca, quando non si vuole, dovrebbe almeno mandare la morte nell'istante che si invoca. Ma non veniva la morte, non veniva neppure il sonno. Immagini paurose la dominavano adesso. Se, un qualche momento, le sue lettere cadessero nelle mani del marito? Se uno scandalo clamoroso dovesse disonorarla per sempre? e cacciata dalla sua casa, raminga, lontana dalla famiglia, il suo nome trascinato per i tribunali, insultato, deriso, la sua memoria vituperata nell'avvenire del figlio... maledetta forse! Gettò indietro le coperte, con un movimento brusco che fece traballare il letto. Il marito, destato in sussulto, mormorò: Che hai? ma si riaddormentò prima di udire la risposta. Ella ricadde, pesantemente, cogli occhi sbarrati. Quando credette di aver passato una eternità su quel letto di torture, suonarono le quattro. Intanto aveva preso una decisione: distruggere tutte le lettere, condurre una vita ritirata, dedicarsi interamente al suo bambino, essere per il marito una buona compagna, se non aveva potuto conservarsi sposa fedele. Un po' di pace scendeva su di lei, pensando che nessuno sospettava ancor nulla e che ella avrebbe dimenticato... Voleva dimenticare ad ogni costo: ebbrezze, ansie, delirii, lotte, ore d'inferno, ore di paradiso, tutta quella febbre d'amore doveva cessare da che egli non l'amava più. Sarebbe stato il suo castigo, giusto, meritato. Grosse lacrime le scendevano silenziose lungo le guancie. Brancicando incontrò una mano del marito, e tenendovi sopra la sua balbettò, col cuore gonfio: Perdono! Perdono! Sentiva un benessere infinito, come una carezza invisibile, l'egoismo dolce e sereno di trovarsi ancor viva, nella sua camera, nel suo letto, nella dignità inattaccabile di moglie e di madre. Albeggiava finalmente. Piccoli rumori, usci sbattuti, strofinamenti, voci, canto d'uccelli, annunciavano il giorno; la lampada notturna, chiusa nel suo globo di cristallo, impallidiva davanti ai primi raggi del sole. Tutta la camera si rischiarava. Ella pensò che proprio in quell'ora partiva il treno, e parve le si staccasse qualche cosa dal petto. Muta, trattenendo il respiro, ascoltava il passo della cameriera nel corridoio. Forse era giunto un messaggio per lei, una lettera, l'annuncio che egli non partiva più... Era scivolata giù dal letto. A passi d'ombra giunse all'uscio che metteva nel corridoio; lo aperse tanto appena da passarvi il capo, chiamò, ed alla cameriera che accorreva premurosa, chiese a bassa voce se non fosse giunto nulla. Nulla — Non una lettera? — Nulla — Nemmeno... nessuno? — Nulla e nesssuno. La voce della cameriera risuonò con un'eco di campana funebre nel corridoio deserto. Ella aveva richiuso l'uscio e giaceva accasciata contro lo stipite, seminuda, piangendo.

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Poichè erano le sue ossa proprie che avevano dovuto piegarsi fin da piccino ai più duri lavori, il suo stomaco che aveva patita la fame, la sua schiena che era stata coperta più di busse che di camicie e infine, se altri e altri avevano fatto come lui il soldato nelle provincie meridionali, giusto quando infieriva il brigantaggio, i reumi cronici che vi aveva buscato e che lo obbligavano a camminare di traverso erano suoi, niente altro che suoi — e nessuno se ne curava — dunque anch'egli non si curava di nessuno. Poco doveva mancare ai cinquant'anni, ma come si fa a saperlo precisamente quando non s'è conosciuto nè babbo nè mamma, e non si ebbe mai nè casa nè tetto e gli anni passarono a guisa di gragnuola sul capo? Infine, se si fosse deciso al gran passo, era un'occasione per venire in chiaro anche di ciò. Certo il difficile stava nella scelta della sposa. Egli non aveva molta pratica di donne, anzi era questo il punto debole per cui aveva subite tante canzonature dalle ragazze del paese, prima, dai compagni di caserma poi. Anche adesso che, incapace di qualsiasi altro mestiere in causa di quegli sciagurati reumi, girava di villa in villa colla scatola delle mercanzie, le donne non lo accoglievano volentieri. Con lui non avevano mai bisogno di nulla, s'erano già provviste altrove. Invano egli recava fazzoletti stampati a ghirlande che parevano vere; pettini d'osso, di legno, d'ottone; specchietti con cornice di latta che simulava l'argento tal quale; elastici e giarettiere di cotone verde, forti, resistenti a qualsiasi tenzone; spilli colla capocchia dai cento colori; ferri da calza; ditali; agorai dalle forme strane e svariate dall'ombrello allo stivale, fino al cilindro con un forellino nel mezzo, in cui si vedeva la madonna dei sette dolori. Da ultimo aveva ricorso ai pianeti colla sorte che doveva toccare ad ognuna, maritata, vedova o zitella; ed alle noci dorate, coi numeri del lotto per quelle che non si aspettavano più altro. Invano. Le donne gli restavano nemiche, il suo commercio languiva, la sua mercanzia prendeva la muffa, per niente altro se non perchè egli era antipatico alle donne. Perchè poi? Ma! Tutto sta a nascere fortunati — pensava egli ancora. Una donna però gli ci voleva a qualunque costo. I suoi poveri stracci non stavano più insieme ed era stanco alla fine di dormire sempre sui fienili o nelle stalle, mentre ogni cristiano ha il suo letto, per male che gli avvenga. Una buona donna — tornava a pensare — non bella e non giovane.... ci mancherebbe altro! Così, una compagna per la vecchiaia, qualcuno a cui dire, quando l'istante fosse giunto : Sto per morire. E sentirsi chiudere gli occhi in pace. Continuando a pensare, colle tasche in mano, attraverso i buchi delle quali le dita giocavano a rimpiatterello, egli si ricordò della vedova di un suo camerata, onesta femmina per l'appunto, che stentava la vita con cinque figliuoli, lavorando allegramente da mattina a sera, forte come un uomo. Questo era stato il preludio, come sarebbe a dire la sinfonia preparatoria dei quindici giorni che erano trascorsi prima di decidersi a parlare colla vedova. Finalmente il gran passo era fatto; aveva parlato. La vedova, senza dire nè sì nè no, s'era presa il tempo di consultare i suoi figli. Ed ora, intanto che egli si recava alla fiera di buon mattino colla sua mercanzia, passerebbe a sentire la risposta. Forse si era alzato anche troppo presto; l'oscuritè era fitta. Appena appena la strada maestra biancheggiava tra i due filari di salici che egli intuiva più che non vedesse: così come camminava, a fiuto, per la grande abitudine dei luoghi, sicuro di non cadere nel fosso di destra e neppure in quello di sinistra, stringendo la cicca in bocca a guisa di compagnia. Qualche carro veniva avanti lentamente, coperto dal cappuccio di tela bianca, coll'uomo che dormiva e di cui non si scorgevano che le gambe penzoloni, intanto che il cavallo camminava lemme lemme, cogli occhi socchiusi, il garretto floscio, nella completa apatia dell'abitudine. Nessun movimento ancora della prossima fiera; non bestie per il mercato, non sensali, non donne coi polli e colle uova. Decisamente era troppo presto. Chi sa mai se la vedova lo aspettava a quell'ora! Rallentò il passo, accomodandosi meglio sulle spalle la cinghia che sorreggeva la sua cassetta. Introdusse poi le quattro dita sotto il coperchio per assicurarsi che fosse a suo posto un certo involtino; trattavasi di una pezzuola a fondo blù cogli orli arancione, di cui intendeva far dono alla vedova come promessa di nozze. Confetti bacati! senza dubbio. Tuttavia meglio così che niente; meglio tutto che l'andare girelloni a mo' di cane randagio, d'estate sotto il sole, d'inverno sotto la neve, senza contare la pioggia, la nebbia e il vento. E un bel vento si apparecchiava anche per quella giornata; proprio un vento di marzo freddo e pungente che gli penetrava fin sotto il gabbano. L'alba non ispuntava ancora, ma già nel cielo e nell'aria si sentiva che la notte stava per finire. Era l'ora dolce per i felici che hanno un letto e che vi si rannicchiano assaporando la voluttà delle ultime ore di sonno, tirandosi sul collo la trapunta, allungando le gambe fin dove arrivano, nel tepore eguale e continuato che fa distendere la pelle. Passava giusto davanti a un cascinale, e alzando gli occhi alle finestre tutte chiuse, gli parve di vedere il marito e la moglie fianco a fianco nel talamo, calmi, sicuri. Che cosa manca a quelli li? — pensò. Guardando per aria si soffiava sulle dita che gli volevano gelar via, tutte tagliuzzate com'erano dalle ragadi, senza un cencio di paia di guanti, chè non se li poteva mantenere perchè appena messi lasciavano scappare i punti che era una disperazione. Finirà! finirà! — disse poi a voca alta, dandosi una fregatina di palme e facendo passare la cicca da destra a sinistra — con un ordine di pensieri fatti improvvisamente lieti; tanto lieti che si trovò avanti alla casa della vedova quasi senza accorgersene. Ohè! — esclamò, tentando una piroetta che gli riuscì a mezzo in causa dei reumi — la colomba mi aspetta. Egli lo argomentava da un fioco lumicino, trasparente per le imposte della finestrucola a pian terreno, dove la vedova teneva la cucina. Difatti, al risonare dei passi sulla via, si dischiuse pian piano la porta e una testa di donna, passando per la fessura, accennò di entrare. — Chi sa che cosa penserebbe la gente nel vedervi a qui quest'ora! Ma non ho cuore di lasciarvi fuori al freddo, venite.... — Tanto, un po' prima un po' dopo.... balbettò egli confuso, varcando la soglia. — No, no, non è questo. Che volete? I progetti non riescono sempre. Egli ebbe da tali parole un cattivo pronostico; ma per ritardare almeno la spiegazione, se questa doveva essere sfavorevole, osservò che la donna aveva una mano fasciata. — È un patereccio. Accostatevi al fuoco povero cristiano, non vi aspettavo così presto; ma tanto non potevo dormire in causa delle fitte ed ho acceso il fuoco per far riscaldare la pappina. — Che ci mettete la pappina? Non val nulla, Io direi meglio delle lumache schiacciate che levano l'infiammazione. — Se sapeste quante ne ho provate di già! È uno spasimo. Egli si arrestò a guardarla con compassione, perchè di paterecci ne aveva avuti qualcuno anche lui e sapeva che inferno mettono addosso. — Tre notti che non dormo! Sembra lo faccia apposta. Quando credo di potermi riposare un momento, eccolo che incomincia : tac, tac, tac. E dentro un fuoco, un rimescolio.... — E bisogna cacciarsi fuori dalle coltri, oli! lo so, lo so. Io una volta, disperato, lo tagliai col falcetto, che m'è rimasto il segno e rimarrà vita natural durante. Guardate. — Oh! santa Vergine! — mormorò la donna accostandosi al petto la mano ammalata, con un istinto di protezione. E tacquero per un po'; ella accarezzando e raggiustandosi le bende; egli, intimidito, cogli occhi sulla fiammolina misera misera del focolare. — Ne ho parlato, sapete, co' miei figli? — disse finalmente la vedova. Il pretendente non osò fiatare, aspettando. — Essi non sono di parere — aggiunse con semplicità. — Il motivo? — chiese lui colla voce rôca, gli occhi bassi, tutto umile nella sua continua disdetta colle donne. —Il motivo — spiegò la vedova esitando, cercando le parole meno dure — è che voi non potete lavorare; e il mio maggiore, che è stato esonerato dalla leva perchè unico sostegno di madre vedova, dice che di bocche inutili non ce ne occorre; che se voi guadagnaste tanto da poter aiutare la famiglia pazienza, così... E poichè il merciaiuolo restava immobile e muto proprio come una statua, la donna ne ebbe pietà. — Sentite, non dovete prendere la cosa in mala parte. Io, per me, vi sarei favorevole.... Non per il ghiribizzo dell'uomo, ve lo giuro.... ma un compagno fa sempre piacere. La consolazione parve al rifiutato mezzo dolce e mezzo amara; tuttavia, appoggiandosi al dolce, si senti il coraggio di insistere. — Se l'idea l'aveste davvero con me, che cosa c'entra vostro figlio? Avendo avvalorate le sue parole con un gesto vivace, la vedova si ritrasse spaurita, mettendo al sicuro il suo patereccio. - Ah!... vi ho fatto male? — No, ma mi duole tanto! batte come un martello. Dalle sue reminiscenze di gioventù egli pescò fuori questa frase che gli parve felice : — Molti mali dolgono e martellano, voi docreste pur saperne qualche cosa poichè avete confessato che un compagno fa sempre piacere. Dite piuttosto che non sono io il prescelto.... dite. Ma la vedova non intendeva di lasciar sdrucciolare il discorso per quella china. — Mio figlio è il capo di casa — interruppe - le sue ragioni sono per il bene di tutti. Buon cristiano come voi troverete di meglio. Sii.... ma intanto lo rifiutava : Il focherello che la vedova aveva attizzato per far riscaldare la pappina, si andava spegnendo. La stanzetta diventava buia. — Oh! come batte, come batte! — andava ella ripetendo, premendosi il patereccio. — Dunque non si conchiude niente? — Che volete? Non siamo destinati. Un'altra frase, rimembranza anch'essa di gioventù, passò sulle labbra del merciaiolo; ma dopo il cattivo esito della prima non ebbe fiato di pronunciarla. - Sicchè, addio. — Addio. E che il Signore vi guidi! Ella alzò per salutarlo, oltre che la mano sana anche quella bendata. — A buon conto - diss'egli - provate le lumache schiacciate. — Proverò. Il merciaiolo era già sulla soglia dell'uscio. Si rivolse tutto d'un pezzo : — E dite a vostro figlio che forse si sbaglia! La vedova, per tutta risposta, sollevò gli occhi al cielo con una attitudine rassegnata. L'orizzonte biancheggiava appena nella freddezza pura dell'alba di marzo. Il vento andava crescendo, acuto, tagliente. La via liscia e asciutta, fra i salici denudati, sembrava non avesse confini. I rami, i radi ciuffi d'erba, la superficie dei sassi, l'orlo dei fossi, tutto era coperto dalla brina che cadeva in quel punto, crescendo il freddo dell'aria e dell'ora, con un triste richiamo di lenzuolo funebre. La porta della vedova si rinchiuse su di lui. — Sempre la disdetta! — bestemmiò, sputando la cicca in mezzo alla via, piegandosi dietro a quella per un improvviso assalto de' suoi reumi. — Maledetta vita! E sulla terra indurita dal vento, ghiacciata, va, freddo, il merciaiolo colla sua cassetta va... va....

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A quindici anni Angelica parlava come parla un bambino di quattr'anni e rideva, rideva sempre, mettendo in mostra due file di denti bianchi e aguzzi come quelli di un canino giovane. Era belloccia, con tutti quei capelli scomposti sul collo e sulle spalle, le guancie paffute e gli occhi chiari, trasparenti, nei quali la pazzia benigna da cui era presa accendeva un raggio non privo di grazia. La sua vita vegetale, spoglia di qualsiasi pensiero, le dava una freschezza di fiore, qualche cosa di ingenuo e di selvaggio. A vederla correre per i prati colle vesti sparse di fieno, coi piedi nudi, con quel sorriso inconscio d'ogni malizia, felice nella sua completa ignoranza, non si poteva commiserarla troppo. Chi sa! Ella aveva delle gioie che gli altri non arrivavano a capire. Parlava cogli alberi, coi sassi, colle belle giovenche grasse che pascolavano l'erba ed alle quali accarezzava il pelo con una tenerezza materna, piangendo se vedeva mungerle perchè era persuasa le facessero male. Stava delle giornate intere seduta per terra trastullandosi coi rami verdi, colle pannocchie di grano turco; guardando i ruscelli che correvano sotti i filari di salici o gli alti pioppi di cui il vento faceva tremolare le foglie. Ascoltava, attenta, il canto delle cicale e dei grilli, il gracidare delle rane in mezzo alle risaie, il ronzio delle libellule; più ancora ascoltava il silenzio, il grave, solenne silenzio della pianura. Fin dove l'occhio poteva spaziare, alberi verdi e prati verdi si fondevano in una dolce monotonia, e Angelica l'amava questa monotonia serena che armonizzava così bene col silenzio del suo cervello. Essendole morta la mamma improvvisamente, per una caduta, non aveva più nessuno che si occupasse di lei, il padre poverissimo fra i più poveri di quei contadini, la lasciava in balla della provvidenza ragionando in questo senso: che se Qualcuno aveva messo al mondo la sua figliuola senza cervello, doveva pure Costui sorvegliarla. Quanto a'suoi doveri di padre, che poteva egli fare di più se non ammanirle ogni sera sul desco un pezzo di pane giallo o di polenta? Ogni sera veramente è una frase troppo precisa, che non lascia il debito campo alle eccezioni; il fatto è che quando ne aveva, ne serbava anche per la ragazza - e allora, vedendola sbocconcellare allegramente senza un pensiero il sudore della sua fronte, rifletteva: Ecco, non poteva Domeneddio mandare questa creatura a un grande della terra, a un signore che l'avrebbe mantenuta con tutti i suoi agi, con tutti i comodi di servitù e di medici? — e a me dare un robusto ragazzo che mi aiutasse a sarchiare e a battere il grano? Meschino me che mi trovo vecchio e gramo con questo peso sulle spalle! — e cresce sempre! e mangia tutti i giorni più del giorno prima. A questo punto malinconico delle sue riflessioni il vecchio si arrestava a contemplare la fiorente giovinezza di sua figlia, e poi per naturale confronto volgeva gli occhi sulle proprie rughe, profonde tanto da parere solchi d'aratro — si sentiva stanco, sfinito da quella lotta giornaliera per il pane, lotta brutale senza gloria e senza compensi, che aveva spento in lui qualunque concetto d'umanità per sostituirvi l'idea del bisogno — e concludeva, accasciandosi nella sua impotenza: Fin che la dura!... La moglie di un affittaiolo, impietosita al caso della povera ragazza, la fece venire da lei tutto un inverno, incaricandola di sorvegliare i polli e di portare l'acqua e la legna. Parve che Angelica si sottomettesse docilmente; qualche volta mostrava anche un barlume di intelligenza, che però svaniva subito in uno scoppio di risa infantili e in quel suo modo di guardare fisso, insistente, pieno di una inconsapevole sfrontatezza. Si faceva sempre più bella, bianca, di forme piene se non eleganti; quando rideva, co'suoi dentini aguzzi, era piacevole oltre ogni credere; aveva due pozzette nelle guancie fresche e rosee come pesche duracine. — Badate — aveva detto una volta al padre la moglie dell'affittaiolo — la vostra ragazza è in pericolo. C'è Gaetano lo zoppo, quel cattivo arnese, che la pedina alla sera quando torna a casa. — Guà! — rispose il contadino divenuto stoico in mezzo alle sofferenze — se è destino, lui o un altro! In quel torno la buona massaia si occupò per far ritirare Angelica in un ospizio di carità. Ne parlò al curato, ne parlò al sindaco, ma trattandosi di un'infermità secondaria ed essendovi tanti e tanti altri in peggiori condizioni, conveniva pagare. Ora, il curato pensava ai ristauri della chiesa, il sindaco all'epizoozia che gli aveva decimato i bovini e la moglie dell'affittaiolo giusto quell'anno aveva mandato agli studi un figliolo che le costava un occhio. Conveniva pazientare. Quando venne la primavera, non fu più possibile tenerla. Angelica tornò a'suoi prati verdi, al mormorio dei ruscelli, sotto i salici, dove la pianura era più larga, più silenziosa e deserta. Là ritrovò tutti i suoi vecchi amici; i grilli, le rane, le cicale. C'era un pioppo alto alto pieno di uccelli, e Angelica sedeva all'ombra di quel pioppo, coi ginocchi tirati su stretti fra le mani, dondolando il capo da destra, a sinistra, in una beata estasi di felicità. Una volta ebbe paura perchè udì uno sparo di fucile a pochi passi da lei, ma subito dopo sbucò dagli alberi un giovanotto, e pienamente rassicurata da quella vista, lo guardò e gli sorrise. Il giovane era forestiero — un bracciante capitato in paese da pochi giorni. Guardò e sorrise anche lui alla giovinetta, anzi, per abbondare in generosità, le si fece accanto e l'accarezzò sotto il mento. Angelica rise più forte, allettata da quell'incontro, fissando il giovane con una curiosità che metteva delle scintille fosforescenti in fondo ai suoi occhi; nè ci volle gran tempo perchè nel silenzio dei prati, all'ombra dell'alto pioppo, risuonasse un bacio. Troppo tardi il giovane si accorse dell'infermità della fanciulla, quando a un segreto senso di rimorso, ella rispose col suo eterno sorriso — e però si allontanò in preda a un turbamento nuovo e bizzarro. Era un povero contadino anche lui, ignorante, niente affatto esente dalle debolezze dei figli d'Adamo; aveva vent'anni e nessuna attitudine a fare l'eroe. Il giorno dopo e gli altri ancora tornò ai prati; si era avvezzato alla dolce follia di Angelica, la sua fresca bellezza lo attirava; forse ragionando anche lui col metodo corrente pensava: quello che è fatto è fatto. I loro amori coutinuarono sereni tutto il tempo della mietitura; e poi dopo ancora quando gli alberi incominciavano a ingiallire e sui prati si stendeva un fitto e risonante tappeto di foglie secche. Angelica aveva imparato il nome del suo amante; lo ripeteva alle rane ed ai grilli, aspettando pazientemente ch'egli venisse a trovarla, ridendo e battendo le mani quando lo vedeva spuntare da lontano. Soltanto verso i morti la moglie dell'affittaiolo tirando in disparte il padre d'Angelica (che si era appena riavuto della pellagra ed era più rifinito che mai) gli disse: — Le mie predizioni si sono avverate, eh? — Cioè? — Guardate un po' la vostra ragazza e ditemi se non vi pare mutata. Il vecchio si strinse nelle spalle, sollevò gli occhi al cielo, e per tutta risposta esclamò: — Se Dio lo ha permesso, saprà lui il perchè. — Stupidi contadini — pensò l'affittaiola — sono come le bestie! Intanto il nuovo stato di Angelica si faceva palese; ella non capiva nulla ed era sempre felice. Fu interrogata invano dalle donne e dal padre, finchè non potendo saper nulla di positivo, i sospetti caddero su Gaetano, lo zoppo. Naturalmente quello negò, ma siccome avrebbe negato anche se fosse stato lui, non gli si volle prestar fede. Una o due volte Angelica pronunziò il nome del suo amante, che era Piero; e siccome dei Pieri in paese ne avevano almeno venti, ciò non fece caso; a nessuno poi venne in mente che si chiamava Piero anche un giovane bracciante venuto a lavorare come soprannumerario e che era già partito da qualche settimana. La moglie dell'affittaiolo si attaccò questa volta seriamente ai panni del sindaco, e non ebbe pace finchè non le promise di far ritirare la ragazza. Nel frattempo Angelica andava ancora quasi tutti i giorni nei prati ad aspettare il suo amante; ma il suo amante non veniva più. Ciò peraltro la lasciava calma. Sedeva sul ciglione della strada, in mezzo alla neve, guardando tutto quel bianco che era venuto dopo tutto quel verde; raccattava delle manciate di neve e le trangugiava, passandosi la mano sul petto, deliziata dalla frescura che scendeva dentro di lei. Una sera non la videro tornare. Il padre, dopo averla attesa due ore accanto al suo pezzo di polenta, dolente nel pensare ch'egli se ne privava, forse inutilmente, per una disutilaccia oziosa e vagabonda, interrogò l'affittaiola che era il suo oracolo. La buona donna volle spedire subito un famiglio sulle traccia della smarrita, ma il famiglio doveva mungere le vacche fra mezz'ora e non c'era tempo sufficiente. Il padre sarebbe andato lui se non fosse stato così vecchio e macilento. C'era un bifolco lì vicino, ma essendo ammogliato di fresco, la sua sposa aveva paura a starsene a letto sola e non permise a niun patto che si allontanasse. — Oh! foss'io un uomo! — esclamò l'affittaiola sdegnata. Ma anche questo non avendo concluso nulla, e trovandosi inoltrata la notte, fu deciso di aspettare l'alba. Alla mattina — una fredda e limpida mattina di gennaio — due uomini spediti dall'affittaiola trovarono Angelica morta nei prati, e al suo fianco una creaturina appena nata, bella come un amore e fredda anch'essa come la madre. Quando portarono i due cadaveri al vecchio contadino, egli disse una fila di Jesus, Jesus, Jesus, levando al cielo le scarne braccia, e poi rassegnandosi, mormorò : — Almeno lei non soffre più. L'affittatola fece fare a sue spese una bella cassa grande dove misero la madre e la figlia, colle mani intrecciate legate da un nastro bianco. Al modesto funerale concorse poca gente perchè gli uomini quel giorno erano occupati a concimare i prati, e fra le donne correva la superstizione che i funerali dei pazzi fanno diventar loschi dell'occhio sinistro. Fece per ciò molta meraviglia il vedere ritto accanto al cancello del cimitero il giovane bracciante, che era venuto nell'estate a falciare; e certamente la meraviglia sarebbe cresciuta se, al momento di calare la bara sotterra, qualcuno avesse osservato la grossa lagrima che cadeva dagli occhi di quel forestiero.

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Aveva un solo pensiero : tornare a casa più che in fretta per riattaccare il sonno perduto. — Tornerò domattina per la fede di decesso. — Può dire stamattina, è già il tocco,— disse il fratello del morto, zoppicando sui passi del medico per aprirgli la porta. — Addio, addio, coraggio! Attraverso l'uscio socchiuso, una folata di vento spense la candela, mentre il dottore si allontanava in mezzo al nevischio. — Madonna! — fecero insieme le due donne. E nella semi oscurità di un lampadine ad olio si udì un brancicare confuso intorno alle sedie. — Presto, presto, riaccendi il lume, Marco. Alla fiamma del lume riacceso si guardarono in faccia tutti e tre; le donne un po' pallide; lo zoppo con una ciera torva ed inquieta. Giaceva il morto lungo disteso, col lenzuolo tirato sopra la testa, molto grosso sotto le coperte invernali nelle quali lo si era cacciato senza nemmeno spogliarlo : tanto il male lo aveva preso con violenza ed all'improvviso, là in mezzo al paese, alla presenza di tutti; così che il fratello, la sorella e la figlioccia, lo avevano saputo subito ed erano accorsi contemporaneamente. — Che cosa c'entra costei che non è del sangue? — aveva mormorato la sorella contrariata. Al che lo zoppo, filosofo, rispose con calma: — Che ne sappiama noi se non è del sangue? Egli l'ha sempre considerata come tale. — Sta a vedere.... sta a vedere.... ci mancherebbe altro! E la languida figlioccia, sedendosi subito perchè era fresca di parto, ripeteva fra sè: Questi villani mi vogliono contendere fin gli ultimi momenti del mio padrino! Contesa inutile perchè il padrino era diventato freddo senza riconoscere nessuno. Il fatto è che si detestavano, ognuno dal canto loro, cordialmente e si guardavano di traverso come belve attirate intorno alla stessa preda. Il morto non doveva lasciare molti denari, ma della roba ne aveva e fina, deposito di una intera generazione di gente economa e massaia, antichi contadini arricchiti. La sorella meglio che tutti conosceva il numero e la qualità delle lenzuola, le coperte di filugello tessute in casa, gli asciugamani lunghi un metro e mezzo, le tovaglie di puro lino col disegno a dama. E le maioliche vecchie? i piattini col campanile, cogli alberi, colle mele che parevano vere? le chicchere dipinte a uccelletti? la zuppiera enorme coi manichi arabescati, col piatto di sopporto frastagliato come una trina? Posate d'argento ce ne dovevano essere almeno sei o quattro o tre; ma esserci insomma. E chi le avrebbe avute? Forse suo fratello Marco, celibe, dissipatore, beone? Forse quella gatta morta della figlioccia, colle sue arie di falsa signora, e che alla fin dei conti non c'entrava per nulla, legittimamente? I pensieri di Marco, il fratello, non erano tanto complicati. Egli trascinava in giro per la camera del morto la sua gamba zoppa appoggiata al bastoncino — te tec, te tec — e fiutava la roba complessivamente, con una vaga speranza che egli potrebbe essere, per il fatto del sesso, l'unico erede. La figlioccia sì che si desolava! — Se il padrino non ha fatto testamento non mi danno nulla... e dovrò vedere tanta bella roba artistica (aveva studiato per maestra e conosceva i vocaboli) cadere nelle mani di codesti villani cornuti, cui muove solo il vile interesse. Tanto lo zoppo quanto la sorella avrebbero voluto che la figlioccia fosse lontana; ma come metterla su di una strada a notte fatta? Quanto all'accompagnarla nessuno di loro voleva esser quello, per non lasciare l'altro solo in mezzo alla roba. Intanto si gettavano occhiate furibonde, finchè la vecchia non potendo più contenersi disse : — Dovresti tu, Marco, ricondurla a casa sua. — Colla mia gamba, sai... al buio, nella neve. Una disgrazia è subito successa. Tu piuttosto. — Io? Una donna, di notte? — Alla tua età non vi sono più pericoli. La figlioccia interruppe la discussione, dichiarando che voleva rimanere a far la veglia. Allora ciascuno tentò di mandare a letto i compagni. — Coricatevi voi altre donne, che per far la veglia ci penso io. — Tu piuttosto — rimbeccò la sorella malignamente - che ti duole la gamba. — Tocca a me, tocca a me che sono la più giovane. — E puerpera. Grazie! Non voglio rimorsi. Il mio parere quanto a voi è che avreste fatto meglio a non venire nemmeno. — Oh, se si fosse senza cuore! — piagnucolò la figlioccia gettandosi ai piedi del letto, abbracciando d'un colpo le gambe del morto e il coltroncino di seta. Lo zoppo girava, te tec, te tec, con una preoccupazione fissa che alla fine traboccò : — Se si potesse trovare il testamento.... — Che testamento! — gridò la vecchia — Occorrono — testamenti tra fratelli? — Non si sa mai.... la regola.... E poi si vedrebbe se ha lasciato disposizioni per il funerale. — Questo sì. È vero. D'accordo, silenziosi, si posero a guardare, a frugare: Ma il sospetto li dominava. Appena che uno avesse aperto un tiretto, gli altri due gli erano sopra, trattenendo il fiato, col cuore che batteva. E si sorvegliavano, non abbandonandosi mai cogli occhi. In questa lotta coperta, i volti indurivano, prendendo una tinta terrea sotto il lume vacillante della candela; le pupille scintillavano di cupidigia repressa; le mani tremavano — specie le mani della figlioccia, bianche ed affilate in mezzo ai cenci capovolti, ai batuffoli scoperchiati, essendosi già ferita ad un chiodo dell'armadio, ma non prendendo neppure il tempo di asciugare la gocciolina di sangue che lasciava qua e là una striscia sulle biancherie. Improvvisamente lo zoppo lasciò cadere il suo bastone e prima di raccoglierlo brancicò a lungo fra le gambe del tavolino, rialzandosi poi rosso rosso, col pugno stretto. — Ebbene? — Che cosa? — Mi sembrava.... Egli aveva frattanto cacciata la mano in tasca e levatala, colle cinque dita tese, si passò il fazzoletto sulla fronte. — Non troveremo nulla — disse la figlioccia con accento secco, già stanca di quella inutile fatica. — Voi, ve l'ho già detto, dovreste andare a riposarvi! — garrì la vecchia. — No, no. Sto qui piuttosto accanto al mio povero padrino a recitargli il rosario, così anche dal mondo di là potrà vedere e giudicare chi gli vuol bene. Fratello e sorella, dopo di aver girellato ancora un poco sempre l'uno sulla pista dell'altro, vennero a sedersi anch'essi vicino al morto biascicando avemarie, presi da una repentina tenerezza per quel loro fratello di cui non avrebbero più udita la voce. Senonchè, rammentando la voce, tornavano loro a memoria i litigi avuti in parecchie occasioni, sempre che l'interesse fosse della partita; e come egli, primogenito, li avesse trattati male al momento della divisione, tenendosi il bene ed il meglio. Questa riflessione li consolò. - Se potessi trovare solamente l'anello della mia povera madre! — tale pensiero attraversava la mente della vecchia, intanto che le labbra mormoravano preghiere. — Esso mi viene di diritto sacrosanto. Mi viene, mi viene : continuava a borbottare tra un requiem e l'altro, mentre il capo le ciondolava, vinto dai primi attacchi del sonno. Ma sobbalzò, udendo il te tec, te tec, ripercosso sull'ammattonato della stanza vicina. — Che fai li? - Nulla. Si alzò essa pure, non volendo ad ogni costo cedere al sonno; e ripresero a vagolare misteriosamente, muti, nel duplice silenzio della notte e della morte. Il bastoncino dello zoppo, co' suoi colpi cadenzati, destava un'eco sinistra che sembrava anticipare le palate di terra sulla fossa. Che gente! — pensava la figlioccia, stringendosi tutta e rabbrividendo per il luogo, per l'ora, per la situazione — mossa anch'ella da brame cupide, ma persuasa che fossero più gentili perchè più gentile ne era la forma. Anche nella sua mente passava la visione delle lenzuola fine, delle posate, delle maioliche, del vecchio anello a castone con una miniatura sopra smalto azzurro; e li desiderava; ma il suo era un desiderio fine, intelligente, una intuizione che tutta quella roba in mano di villani era, come dire, perle gettate ai porci. Per nient'altro la desiderava. E poi, che ne avrebbe fatto Marco, senza famiglia, un beone grossolano? e quale costrutto ricavar ne poteva la vecchia già prossima alla tomba? Ma a lei giovane, lei educata, lei elegante, lei di buon gusto... — Oh! mio povero padrino --- irruppe con uno scoppio di lagrime — povero, caro e amato! Oh! mio padrino che non puoi vedere, che non puoi parlare più! — Commedie — borbottò lo zoppo, col naso ficcato dentro un armadietto dove stavano riposti liquori e vini scelti, preda che la sorella gli aveva abbandonata. Abbandonata tanto più volentieri perchè intanto ella continuava a girare per suo conto, ingrossandosi i fianchi di protuberanze misteriose, cacciandosi ad ogni poco la mano in seno e nelle tasche. La figlioccia, in quella lunga veglia, aveva presunto troppo dalle sue forze. Si sentiva sfinita, rotte le ossa, con un brivido per tutto il corpo; appoggiava ad ogni poco la testa contro il letto, ma il raccapriccio e la tristezza del cadavere ne la facevano allontanare. E tutta questa debolezza fisica accresceva il sentimentalismo del suo dolore che si sfogava in gemiti, in sospiri, in lagrime; in mezzo alle quali sorvolava tuttavia il rimpianto acuto del bene che stava per perdere. Se il padrino non aveva fatto testamento, addio roba! L'aculeo di tale pensiero le accresceva ancora i sospiri, per modo che la camera era tutta piena di lei e del suo dolore. Ma sollevando spesso gli occhi lagrimosi ad un altarino dove il defunto venerava, tra due palme di fiori di carta, una statuetta della Madonna, era attratta suo malgrado dal disegno di una trina antica che circondava i piedi della Madonna - una cosa da nulla, mezzo metro, tanto da cavarne un paio di manichini.... Non era forse vero che, se ella avesse chiesto quel pezzetto di trina all'adorato padrino, egli l'avrebbe concessa? E se invece la prendeva adesso, di moto proprio, non potendo più chiederla a lui, che gran male! Le restava almeno un cencio di ricordo, il solo, se quella gentaccia le negava il resto.... quasi un diritto. Oh! ed essi che cosa facevano girellando per la casa?... la derubavano com'è vero Dio! La derubavano, lì sulla faccia, spudoratamente, da quei villanacci esosi che erano, che si sarebbero proprio meritati un testamento contro! Si alzò, barcollando, e andò a smoccolare la candela. La notte stava per finire. Un chiarore biancastro rompeva le tenebre della finestra, battendo sul rigonfio del letto formato dal cadavere. La vecchia, che si era appisolata sopra una cassa, si alzò pur essa. Di fronte, nel primo raggio dell'alba, le due donne si guardarono. — Se Dio vuole è finita! — disse la vecchia, cercando, sotto il livido della faccia che aveva davanti, i segreti pensieri. L'altra, muta, osservava le dimensioni prese dalla gonna e dal busto della vecchia. Si squadravano, si pesavano a occhiate, si insultavano reciprocamente in un silenzio cupo, concentrato, dove le narici sole fremevano a guisa di segugi in caccia. Te tec, te tec... La testa da satiro dello zoppo apparve in mezzo a loro, trasfigurata dall'emozione. — Ho trovato il testamento! — gridò sollevando in alto un rettangolo bianco. Fu un momento di angoscia indescrivibile. Tre cuori sospesero per un'istante le loro pulsazioni, tre vite si concentrarono in uno sguardo acuto, assorbente, quasi feroce... Un raggio di sole entrava, obliquo, ad illuminare il letto dove il morto riposava, completamente staccato dalle miserie terrene.

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Le maschere uscivano a crocchi ed a coppie dal teatro; il veglione, quella notte, era animatissimo. Attraversando la piazza, sotto i fanali di luce elettrica, le donne sembravano visioni. Gonne di raso bianco e di raso roseo, onduleggianti, trapunte d'argento, sfumavano in una illusione ottica di mondi siderei; un cerchio di brillanti, sopra un bel braccio nudo, appariva un istante fuori dalle pelliccie, scintillava e spariva; risate allegre scomponevano fuggitivamente il mistero delle blonde ravvolte intorno a una testina provocante, mentre un domino silenzioso e prudente misurava i passi sul marciapiede. I due o tre caffè della piazza furono presi d'assalto; dietro i cristalli appannati dal freddo, le mense biancheggiavano, invitavano. Quando tutti i gaudenti furono a posto, davanti al ponce bollente od all'arrosto, una donna vagolava ancora per la piazza, vestita di nero, con una giacca rossa e un cappellino rotondo ammaccato, cui pendeva dietro una piuma a brandelli; vagolava senza meta, col passo incerto, arrestandosi spesso sugli angoli e nell'incavo delle porte; cercando, aspettando. Faceva un freddo di dieci gradi sotto zero, secco, pungente, un vero freddo da notte d'inverno. Alla giacca rossa mancavano parecchi bottoni ed ella se la teneva incrociata sul petto coi pugni chiusi, curva nelle spalle, battendo i denti. Ogni tratto tossiva; le doleva tutto il petto dalla gola fino alla cintura; nella scapola sensitiva una fitta acuta, come una lancia. Aveva fame, aveva freddo, aveva sonno. Strisciando lungo il muro s'appostò contro l'invetriata di un caffè, figgendovi gli occhi. Alla prima tavola due o tre giovanotti si contendevano i sorrisi di una follia, la quale per il momento si occupava sul serio a divorare un pezzo di selvaggina. Nella sua gola palpitante scendevano l'un dopo l'altro i bocconcini, accompagnati da sospiri di soddisfazione, da fremiti voluttuosi che le faceano gonfiare il seno. Aveva tanto caldo nell'esplosione del suo benessere, che uno dei giovanotti s'era assunto l'impegno di farle fresco, col ventaglio alzato, vicino vicino alla faccia, osservando con interesse i capelli della nuca che svolazzavano. La donna della giacca rossa continuò a strisciare lungo il muro. A un altro caffè una comitiva di grassi borghesi tumultuava brindando. Le loro mogli fresche, serene, ornate dei gioielli nuziali, ridevano godendo lo spettacolo delle maschere, nella sicurezza del marito vicino e dei bimbi che dormivano, a casa, nei loro lettucci caldi.... Zuppe fumanti, piatti di carne giravano intorno alla tavola, e le bottiglie sturate lasciavano udire il colpo secco del tappo che saltava per aria. La donna dalla giacca rossa continuò a strisciare lungo il muro. Qualcuno, udendola bisbigliare a bassa voce parole intelligibili si era voltato a guardarla, torcendo subito gli occhi; qualche altro le aveva lanciato una parolaccia. Uno ch'ella aveva preso per il braccio, la minacciò colla sua canna. Allora lasciò la piazza, scantonando per una viuzza buia, tossendo, e ad ogni colpo di tosse soffocando un gemito. Poichè mancava la luce dei fanali sembrava che il freddo fosse più intenso. Ella andava come un cane randagio, muta, nell'incertezza delle tenebre. Un'ombra veniva alla sua volta, un uomo. Con un movimento istintivo si ravviò il cappellino, drizzando le spalle; l'uomo si fermò. Era un po' brillo, masticò una bestemmia e le disse di seguirlo. Ella ansimava salendo le scale, facendo sforzi incredibili per non tossire. Giunti in camera mentre l'uomo accendeva i fiammiferi, ella cadde sul primo mobile che si trovò accanto. — Scommetto che hai fame! disse l'uomo. — È tutto il giorno che non mangio. Egli si voltò di botto a guardarla, col lume in mano; e siccome la donna teneva il capo chino, la prese ruvidamente per l'omero, facendo saltare l'unico bottone della casacca; così apparve un misero petto incavato, sul quale recenti traccie di vescicanti formavano piaga. — Maledizione! Non udì nè le sue lagrime nè le sue preghiere. Irritò la cacciò fuori. Eccola di nuovo nella via. Tremava tutta; il suo corpo avvezzo alle intemperie, alle fatiche, agli insulti, alle percosse provava una sensazione raccapricciante, come un gran desiderio di finirla e di morire. Le gambe le si piegavano sotto; doveva appoggiarsi, a tratti, per non cadere. Capiva che se fosse caduta non si rialzava più. In fondo alla via c'era una casaccia dalle cui finestre intelaiate uscivano grida e risate, miste a bestemmie. Riconobbe la casa; ricordò. Un cattivo istinto, una lunga abitudine le fecero muovere alcuni passi sotto l'andito sbilenco, ma si fermò subito; quelle grida inneggiavano alla bellezza, alla gioventù, al piacere! Ella si strinse colle mani il magro petto, dolorando, e riprese il suo cammino di lupa errante nella notte. Dove sarebbe andata a finire? Non lo sapeva. Passò innanzi ad altre case note, a caffè, a teatri dove aveva brillato essa pure. Una trattoria le ramentò una cena durante la quale aveva gettato dalla finestra, ai monelli, una quantità enorme di cibo — questa l'aveva in mente sopratutto. Passò innanzi all Ospedale; lì l'avrebbero forse accolta, aveva la febbre! Ma da otto giorni appena ne era uscita; ne era uscita coll'uggia dei dormitori, delle medicine e della schiavitù. Meglio morire. Due spazzini sbarravano la strada, armeggiando colle scope, le mani coperte da grossi guanti di lana, un sacco sulla testa. Ella si offerse loro per un pezzo di pane. Le risero in faccia, e uno d'essi sollevato sulla scopa un mucchio di immondizie fece atto di gettargliele addosso. Non fermò più nessuno. Andava, andava, andava, sperando vagamente che un precipizio le si aprisse sotto i piedi, istantaneo. Non vide nè riconobbe più nulla; si trovò senza cappello, ignorando come; non pensava nemmeno a chiudere la giacca, lasciando scoperte le piaghe rosseggianti del suo povero petto; e tossiva. Cadde finalmente, provando un senso di sollievo, sentendosi vicina alla liberazione. Colle membra rattrappite, riposava, la schiena appoggiata al muro, le braccia intorno ai ginocchi. Non aveva più fame; soltanto il freddo la molestava ancora. Le sembrò di essere tornata bambina, quando veniva in città a vendere viole, accoccolata così sui canti delle vie.... Era passato tanto tempo! adesso era vecchia e malata, una carcassa da buttare sul letamaio. Qualche cosa di umido le spuntò sulle palpebre — non una vera lagrima, ma come il desiderio di piangere. Passò a questo modo le ultime ore della notte, in un crescendo di pace, di annientamento, priva di qualsiasi desiderio. Soltanto verso il mattino fu presa da una voglia ardente di acquavite. Per un istante questo pensiero la dominò violentemente, facendole schioccare la lingua in bocca; poi anch'esso si calmò. Un gelo benefico le saliva dalle gambe, su, su lungo il corpo, addormentandola. Neanche il freddo sentiva più, il freddo molesto della vitalità che lotta; quello era il gelo liberatore, l'invocato! Un'ubbriaco, passando, la urtò col piede. Fu l'ultima sensazione.

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La zia Severina entrò nella sua camera, spingendo l'uscio col piede perchè tutte e due le mani erano occupate a reggere il candeliere e i doni avuti. Il fratello le aveva regalato un abito di lana color caffè e latte, facendolo seguire dal commento «tinta solida e seria, adattata alla tua età». La cognata un lumino da notte, e le bimbe, a scuola, le avevano lavorato un copripiedi. Tutto in occasione del suo compleanno. Ma posando gli oggetti sul tavolino della sua camera, il volto della zia Severina non sembrava atteggiato a letizia, al contrario vi stava sopra un velo così denso di impenetrabilità, che giustificava in parte le parole pronunziate aspramente dalla cognata, quando ella era uscita dal salottino: «Per quanto si faccia, quella Severina non è mai contenta!» Un biglietto le era scivolato dalle mani, ricevuto anche quello in occasione del suo compleanno. Veniva da un'amica d'infanzia, carissima, e recava su fondo di carta verdina una farfalla che volava in alto, col motto: Adhuc spero. A tergo, mille auguri di felicità. Severina raccolse il biglietto e lo stette a guardare pensosa, al lume della candela. Quante cose le passarono per la mente! Venticinque anni prima, nella stessa circostanza, la stessa amica le aveva appuntato fra i capelli un mazzo di garofani rossi.... oh! non era adesso che le avrebbero messo dei fiori nei capelli; gli abiti caffè e latte erano buoni adesso e i lumini da notte; e poi anche i copripiedi, poichè soffriva di reumi nelle gambe; infine degli auguri — questi vanno sempre. Severina non era affatto ingrata. Riconosceva i benefizi del fratello, amava la cognata e i nipotini; era affettuosa, era dolce pia che poteva, non come voleva, perchè sentiva dentro di sè un torrente di tenerezza che non sarebbe uscito mai. Questo era appunto il suo male, il nemico chiuso in casa, il tarlo che le rodeva le ossa, il vulcano compresso che le mandava sul volto vampate terree e dense. Le sembrava qualche volta di essere idropica, di trascinare un pose nelle vene, come se ci avesse dell'acqua o del piombo, una cosa morta insomma. Da bambina era stata molto vivace, da fanciulla molto fantastica; bella mai, nè corteggiata, ma quasi felice in un certo suo mondo ideale popolato di sogni. Figlia di un pittore, aveva conosciuto per tempo le seduzioni del colore e della linea. Pagana per istinto, si sentiva trascinata verso la bellezza, mentre i pensieri mistici e la poesia nebulosa la lasciavano fredda. Amava drappeggiarsi nei pepli e nei veli che le modelle dimenticavano nello studio di suo padre. Scarmigliava i capelli, si metteva in testa una ghirlanda di foglie e faceva la baccante. Sdraiata sopra un mucchio di cuscini, con uno scialle attraverso i fianchi, le braccia nude, una collana di vetro al collo, un gran ventaglio in mano, imitava le odalische. In camicia, ventre a terra, con un grosso librone sotto i gomiti voleva riprodurre la Maddalena pentita del Correggio ma proprio allora si accorgeva che le mancavano i principali attributi del personaggio. Da quel punto un cruccio sottile come una lima sorda, incominciò a farle guerra. Confrontandosi colle figure che i maggiori pitttori avevano ideate e che i minori si ingegnavano di copiare, venne a conoscere perfettamente la imperfezione delle sue forme e per lei che sentiva così ardente desiderio del bello, il disinganno fu crudele. Per vedere di combinar meglio la propria magrezza con un tipo artistico, rinunciò alle larghe creazioni Tizianesche e si pose a vagheggiare le donne esili di Canova, le Grazie, la Psiche. Quest'ultima la rapiva in una intima voluttà. Il sentimento dell'arte e quello dell'amore, la purezza virginale e l'ardore dei sensi, l'armonica, divina fusione di tutto ciò nel gruppo immortale, la trascinava irresistibilmente. Era così semplice la posa di Psiche, erano così parche le forme! Nella sua cameretta, non vista da alcuno, assente Amore ella volle tentare anche questa prova. Non era poi orribile, era giovane, capiva la grazia, intuiva la passione, adorava l'arte, perchè non riusciva? Perchè Severina, viva, davanti allo specchio, pareva un aborto in confronto alla marmorea dea? Se solamente potessi ingrassare! — pensava Severina. Non è forre quistione che di qualche linea. Uno che avesse urtato nel braccio a Canova mentre scolpiva il busto di Psiche, non avrebbe fatto altro che spostare la linea, e non sarebbe stata più Psiche. Quanto al volto, due occhi, un naso, una bocca, i denti li aveva, i capelli pure e un'anima sensibilissima vibrava in lei. Forse — tornava a pensare—ci vuole del tempo. Non tutte le donne sono belle, come Psiche, a quindici anni. Psiche è la giovinezza verde, il bocciolo, la promessa; un frutto acerbo, dopotutto. La guantaia, quella donna pericolosa che turbava la quiete in tutte le famiglie del quartiere, non aveva avuto un figliolo a quindici anni? E non confessava ella stessa che, a quell'età, non era stata che una bighellona allampanata? Chi sa se madama di Maintenon, sposando Scarron a vent'anni era bella come quando, a quaranta suonati, tirò nella rete la maestà del re di Francia? Sentì dire anche e lesse sui libri, che la bellezza alla donna viene dall'amore; ma siccome sentì dire e lesse parimente che la donna trova amore in virtù della propria bellezza, le due cose principiarono a confondersi nella sua mente. Certo ella non era di quelle femminuccie che coltivano l'avvenenza a scopo di vanità e di civetteria; non somigliava per nulla alle sue compagne; passava tra loro colla fama di un'originale. Sempre invasa dagli ideali artistici, vestiva in modo bizzarro con strisce in testa, alla greca; con scialli rossi drappeggiati secondo le norme statuarie; e la sua bruttezza in questa cornice bizzarra, appariva doppia. Era poi curioso a vedere come, trasportata dalla fantasia dietro una immagine di bellezza sovrumana, trascurasse i minuti particolari, le cure della persona; dimenticava di tagliarsi le unghie, portava scarpe scalcagnate, guanti senza bottoni, nastri gualciti; calze rinfrinzellate. Non tutti i giorni si lavava la faccia. Così, aspettando la bellezza e l'amore, era passata accanto alle realtà della vita senza avvertirle, sognando sempre. Sognava quando, al mattino, gettando indietro la coperta di filugello e balzando leggera sopra un rettangolino formato con pezzetti di panno cuciti insieme, ella pensava all'Aurora di Guido Reni, volante sopra le nubi nell'irradiamento del sol nascente; e cingeva sui magri fianchi la gonnella, con una visione di ninfe discinte davanti agli occhi. In chiesa, perduta nella contemplazione di un bel torso di fanciulla ebrea, Ruth o Noemi, non si accorgeva di restare appesa colle scapole sulla spalliera della sedia, finchè un burlone gliele urtava, facendo lo gnorri, col pomo della mazza; ed ella allora arrossiva tutta per la vergogna e il dispetto. Gli anni intanto passavano, la bellezza non veniva e l'amore nemmeno — quell'amore che aveva creato tanti capolavori; le madonne di Raffaello, alcuni ritratti di Van Dyck, il Bacio di Hayez— bellezza e amore, i sommi dei dell'Olimpo pagano, del suo proprio Olimpo. In casa del fratello, che faceva l'agrimensore ed aveva venduto tutti gli attrezzi artistici del babbo, Severina non trovava più i pepli, nè si arrischiava colla cognata in casacca di flanella e grembiule impermeabile, a intrecciare ne'suoi capelli le corone delle baccanti. Presto poi i bimbi, attaccandosi alle sottane di zia Severina, si fecero imboccare la pappa, ritagliare gli omini di carta, pulire il naso, e in mezzo a queste faccenduole, domestiche sì, ma punto artistiche, la zitellona si inacerbiva, perdendo di vista i suoi ideali e inalberando quella faccia lunga, terrea, impenetrabile che provocava l'irosa esclamazione della cognata : Per quanto si faccia, Severina non è mai contenta! Eppure fino a quel giorno Severina sperava ancora; finchè mancavano dodici ore, sei ore, un'ora, poteva succedere una rivoluzione, un cataclisma, un miracolo, chi lo sa cosa poteva succedere! Levandosi dal letto, alla mattina, aveva detto: « Quando tornerò a coricarmi avrò quarant'anni » — ma un folle barlume, una lusinga non ragionata, la tenevano sospesa come alla vigilia di misteriosi eventi. Aveva anche pensato: « Queste ultime ore di giovinezza le voglio godere ». Ma come! Che fare? Il sangue le ribolliva, il cervello fantasticava, una smania atroce di trattenere il tempo la rendeva quasi febbricitante. Le ore passavano ed ella le contava scorata. Non succedeva nulla. La posta le recò due o tre lettere ch'ella aperse con mano tremante : Complimenti, voti, luoghi comuni. Finalmente le avevano regalato l'abito caffè e latte, il lumino, il copripiedi... A mano a mano che il giorno finiva la faccia di zia Severina diventava sempre più impenetrabile. A tavola, dove c'erano stati i brindisi e una poesiuccia recitata dalle nipotine con tanti auguri di lunga vita, la zia era ammutolita affatto; due dita di marsala la resero funebre addirittura. Finalmente potè ritirarsi nella sua camera, deporre i doni sul tavolino e sè stessa sulla sponda del lettuccio. La fiamma oscillante della candela le danzava davanti agli occhi, dando noia ad una congiuntive incipiente; alzò la mano, e così riparata si pose a riflettere, ma non erano, a rigor di termine, riflessioni le sue. Erano visioni, erano quei fuochi fatui della fantasia che si sprigionano dai corpi intorbiditi, guizzi fuggevoli, lampi del pensiero che si ostina a vivere e che scuote i nervi loro malgrado, come veltro sguinzagliato. Era una grande e profonda mestizia, lo sconforto di tutte le cose, che la pigliava sempre in quell'ora ultima della sera, terminando una giornata vuota, mettendo la parola fine sotto una pagina bianca. E quella sera non trattavasi più di un giorno nè di una pagina; era tutta la sua giovinezza che finiva, che moriva, che bisognava sottoscrivere; cambiale rappresentante un valore ch'ella non aveva posseduto. Proprio lì, nella solitudine dell'alcova, dove i felici contano le loro gioie e gli amanti le loro ebbrezze, quando nella sicurezza pudica della notte cadono tutti i veli e le maschere si strappano e i cuori posti a nudo non temono più l'oltraggio dell'ironia, zia Severina contava anch'essa le sue magre illusioni; ogni sera le aveva viste assottigliarsi, perdere forma e colore, vanire nel buio. Un gran sospiro le sollevò il petto. Colle dita lunghe cercò i ganci dell'abito, senza guardarli, e li sbottonò lentamente, sentendo salire dal fondo delle viscere l'odio di sè stessa; perchè ella odiava quella brutta faccia che da quarant'anni la faceva soffrire, che era la sua sventura, il suo incubo. Quale soddisfazione, la più naturale, la più vera, la più squisitamente femminile deve provare la donna che guardandosi, ammira in se stessa la più bella opera di Dio! Essere Venere un giorno solo, — sfolgorare, amare, morire - basta. Ma nascere e morire appena, nascere e morire e nient'altro fra questi due estremi, nulla, se non la vecchiaia, è atroce destino. Come dorme placido il mondo! Sarebbe la buffa idea, s'io aprissi la finestra e mi ponessi a gridare: Accorrete, accorrete, muore la più amata cosa ch'io m'abbia, la giovinezza mia! Ma fuori faceva freddo, la notte era nera; la finestra ben chiusa, cogli scuri sui vetri. Severina, spogliato il vestito, lo appese all'attaccapanni e mosse verso il cassettone, in gonnella corta, col ventre lievemente sporgente, il petto depresso, la vita larga e piatta; dal dorso in giù, tagliata a picco. Frugò per qualche istante nel cassettone, rimovendo pezzuole, aprendo scatolini. Prese un mazzo di spigo mezzo sciupato e lo fiutò — lo aveva comperato a una sagra di campagna, in un bel giorno d'autunno; era vestita di celeste allora, con un cappello che le stava bene, glielo avevano detto.... Toccò un ventaglio, una boccina vuota, un braccialetto che non metteva da gran tempo; questo lo volle provare, vi infilò dentro il braccio, ma lo tolse subito, scuotendo il capo. Tutta la sua vita stava chiusa là, nel cassettone, sciupata come il mazzo di spigo, vuota come la boccina che aveva contenuto degli odori e che ora non serbava nemmeno più il profumo. Sopra un vecchio taccuino, scritto a lapis lesse:

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e tosto le passò per la mente il gaio volto ridanciano di chi aveva scritti quei versi sul taccuino, dopo una cena di capodanno, a occhi lustri e cuor tenero; una serata allegra, dove si era divertita anche lei nel tripudio ingenuamente sensuale della gioventù. Ma che ironia, adesso, quell'invito al piacere, e che inutile avvertimento sull'età che non si rinnovella! quasi fosse stata padrona lei del suo destino. Un muratore, un falegname prendono i loro arnesi e vanno per il mondo a crearsi la fortuna; un povero tende la mano; un ammalato cerca il medico; un cane abbandonato sulla via trova qualcuno che lo porta con sè. L'amore solo non si crea dal nulla, non lo si dà per elemosina, non ha medicina, non ha ricovero — chi non ha amore è il vero mendico, è il vero ammalato... Oh gente che amate ecco la gran miseria! Si era fermata nel mezzo della camera, colle braccia penzoloni, l'occhio fisso e vitreo. Dalla camera attigua veniva il cinguettare delle bambine che si erano svegliate nel primo sonno : parlavano confusamente di bambole e di dolci. La voce della madre, umida e molle di sotto le coperte, mormorava: Zitte, dormite. Si sentivano i lettini scricchiolare sotto i piccoli corpi, e sotto il corpo placido della madre, che si voltava dall'altra parte, cedere docilmente il talamo. Severina si voltò verso il suo letto sconsolato; trasse di sotto al guanciale, una reticella di cotone bianco e se la strinse intorno ai capelli: È finita! In questo letto entrerà ora una vecchia. Ripetè vecchia, guardandosi attorno, meravigliata che nessuno protestasse. Che squilibrio però, che ingiustizia! Ella non si sentiva vecchia. Se sapessero i giovani come è difficile uccidere i desideri.... Balzac diceva trent'anni — evidentemente per non scoraggiare troppo quelle di venti. Tornò a guardare in giro per la camera, così fredda, così nuda, dove i mobili non avevano una voce, dove la tristezza delle cose rifletteva la continua tristezza della sua vita; il letto rigido, lo specchio trascurato, sul canterano un pettine inforcato nella spazzola; due ciabatte di pelle color cioccolata; un cencino di velo nero a cavalcioni di una sedia; nessun nastro, nessun flore; una regolarità monastica, quell'ambiente grigio delle celle dove non si è mai in due. Sciolse le sottane, fece saltare le molle del busto, restò in camicia. Ancora una volta girò lo sguardo sulle pareti, più in là delle pareti, fuori, nel mondo che dormiva, nel mondo che tripudiava, nel mondo che soffriva — vedeva una catena che allacciava tutti, lieti e dolenti — vedeva la pietà china sui giacigli, e invidiò gli ammalati, invidiò quelli che possono piangere, quelli che possono gridare — quelli che hanno una gamba cancrenosa e se la fanno portar via — tutti i dolori che si vedono, che si toccano, i soli a cui il mondo crede! Alzò le braccia, stirandole con una contorsione penosa di tutto il suo essere, lasciando cadere un'occhiata obbliqua; poi, rapidamente come per fuggire a un estremo supplizio, si chinò a strappare le calze, buttandole in un canto, spense il lume, brancicò il letto e vi si gettò, anima persa, nel grande oblio delle tenebre.

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così debolmente che la madre appena appisolata sulla sedia, affranta da dieci notti passate a quel modo non udì neppure. Un altro udì, l'Alto, l'Invisibile, che rispose al bambino : — Saluta tua madre, salutala lieve lieve intanto che dorme e vieni con me. — Come posso io venire se le gambine non mi reggono? — Vieni, ti porterò io. — Non voglio lasciare la mamma. — La mamma ti seguirà poi. — Non voglio lasciare la mia bella culla bianca. — La tua bella culla bianca diventerà fra poco un letto duro pieno di triboli. — Non voglio lasciare i miei balocchi. — I tuoi balocchi, fra alcuni anni, si chiameranno no crucci, pensieri, contrarietà, fatiche. — Mi piace la mia casa dove tutti mi amano, mi accarezzano, mi vogliono bene. — La tua casa rimarrà deserta; nessuno più ti vorrà bene come tuo padre, nessuno più ti bacerà come la mamma tua. — Ma vi sono altre case gaie, ridenti. — Vi sono altresì menzogne, ipocrisie, tradimenti. — Amo i giardini verdi dove fioriscono le rose. — C'è il turbine che passa devastando i giardini, ingiallisce le erbe verdi e avvizzisce le rose. Il bambino ristette un poco, ansimando coi piccoli polmoni ammalati. — C'è una fiamma prodigiosa, ardente, che solleva le anime a vette inesplorate, che ispira i poeti, che conforta i martiri, che detta le opere più sante — la chiamano Amore. Vorrei vederla. - Bimbo, quando le tue ossa riposeranno sotto le viole del camposanto, inaffiate dalle lagrime di tua madre, una fiammolina sorgerà dalle zolle, fiamma che inseguita fugge... quello è l'Amore. — C'è — disse il bimbo, sempre più pallido - una stella lucente, alta, pura, che rende immortale la fronte su cui si posa — la chiamano Gloria. Vorrei toccarla. Sempre più grave la voce dell'Alto rispose: — Anche vedrai dalle zolle paludose sorgere, a sera, con parvenza di corpo un'ombra ed oscurare i piccoli corpi vicini; ma il primo raggio di sole venuto dall'alto scioglierà, sperdendo nell'aria, ciò che non era altro che nebbia. Così è la Gloria. — Dicono che una rugiada celeste scenda su tutti gli afflitti, bagni e ristori ogni tristezza umana — è il Bene. Vorrei esercitarlo. — La goccia che cade dal cielo trasparente e pura ma che appena toccata la terra si converte in fango, ecco il Bene. — Oh! Signore — disse il bimbo giungendo le manine — se vi sono nel mondo ardue imprese, lotte, guerre, conquiste, ferite, io le voglio. Voglio vivere! — Guarda — mormorò la voce, così dolce e profonda che parve subito al bimbo l'annuncio di una superna pace — guarda tua madre. Ella ha amato, ha sofferto, ha lottato, ha vinto, ha perduto. E tutto svanisce, tutto scompare davanti a questa culla dove svegliandosi troverà un cadavere. Tutto conduce al nulla, la vita è un sogno. Chiudi il tuo, o bimbo, fra le bianche coltri della tua culla, finchè non hai ancora sofferto, finchè non hai fatto ancora soffrire.... Dolce è morire così, innocenti e puri, in braccio all'unico amore. Tacque la voce; un gran silenzio si fece nella camera. Ombre leggiere passarono davanti alla culla, bianche, rosee, brune, ridendo e piangendo, portando fiori e croci; passarono, lasciandosi dietro un ampio velo grigio, freddo, attraverso il quale il bimbo vide ancora per una volta la fronte mesta della madre appesantita nel sonno. Un guizzo di vita nel corpicino — l'ultimo rimpianto, l'ultimo strappo — e l'anima, la piccoletta anima sospirò: Prendimi!

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Nel chiarore argenteo delle stelle che illuminavano da sole il paesaggio, il campanile si ergeva sul mucchio delle piccole case, a guisa di sentinella sempre vigile, mentre tutto in giro i prati e i campi avevano l'aria di riposare all'ombra delle montagne, che in quella luce incerta somigliavano a brune cortine distese. Il sentiero che conduce al Belvedere saliva, girava, come un nastro bianco intorno alla massa nera dei castagni. Era affatto solitario, non un passo, non una voce, nemmeno il più lieve rumore; appena le lucciole, piccole anime silenziose, alitavano tra i cespugli. La notte era caduta sui grandi alberi, sui rami fatti immobili a guisa di membra raccolte per il sonno. Qua e là, dei vani tra pianta e pianta, aprivano una specie di finestra su quella fitta volta di foglie; ed erano allora sprazzi di luce, come una pioggia di raggi siderei che rompevano l'oscurità, disegnando le linee bizzarre dei tronchi, mettendo delle gemme sulle foglie, strisciando sulla costa dei fili d'erba che brillavano di un luccicore di frangia perlata. Sotto gli abeti il buio era impenetrabile; un buio fresco, vivente, misterioso, come di corpi invisibili respiranti nella notte, di ali urtantisi senza rumore, di lunghe carezze di felci, di baci lievi e tenaci d'edere salenti all'amplesso della quercia... Altrove, profumi sottili di timo in fiore, corolle che si chiudevano quasi esauste, ubbidienti al destino. Dovunque la vita occulta della natura, il fermento delle piante, l'amore degli insetti, la fecondazione della terra : e tutto ciò, nella notte altissima, quieta, sacra ai misteri. Dov'era la lucertolina che più non sgusciava di sotto ai sassi? Dov'erano le farfalle, le grandi farfalle bianche, azzurre, nere? Dormivano i fiori? e dormendo, sognavano? Di chi sognava la margherita, fior delle fanciulle? Di chi la rosa fiore dei talami? Di chi la viola fiore delle tombe? Tutto passa! susurrava l'antico castano le cui fronde albergavano tanti ricordi. Tutto rinasce! diceva il fusto eretto della giovane betulla, guardando il cielo. Lungo i viottoli, nei radi della selva, i fantasmi si inseguivano molli, vaporosi, simili a fasci di veli vaganti, a grandi ali invisibili agitate nelle tenebre; e s'abbattevano sui prati, terribili, minacciosi, disegnando immani ombre nere, finchè un raggio, toccandoli, li faceva sparire in nebbia evanescente. Nella assenza degli uomini, parlava l'anima delle cose; mentre taceva la vita diurna, correva intorno la dea della notte, suscitando odii, guerre, vendette, rapine, tradimenti e amori e delizie e idilli nascosti in un ciuffo d'erba, e duelli a morte nel calice di un gelsomino. Rideva la fantasia, cozzandosi al tronco dei forti alberi, pensando le fiammate dell'inverno, sotto il caminetto, quando la lamina vi avrebbe accostato il piede nudo prima di coricarsi. Spargeva la voluttà le sue arcane essenze nel profumo del muschio impuro, e tremava nel fusto fragile del mughetto la verecondia di cui esso è fatto emblema. Ma nella maestà bronzea delle sue foglie, aspettava l'alloro una vera gloria da incoronare? E una vera innocenza il giglio? E già prima che l'ingenua mano di donna innamorata lo interrogasse, non mormorava forse il ramo della acacia l'eterna alternativa della vita : Sì? No? - Sì? No? Voci umane non erano, ma quale onda confusa veniva dall'orizzonte, su dalla valle, dai lontani abituri? Erano i cuori spezzati che gemono in silenzio, le piccole anime volanti nella purezza, le grandi anime passionali incatenate alla colpa? Erano gli amori uccisi sul nascere, gli amori incompresi, sdegnati, gli amori oscuri e profondi, orgogliosamente chiusi? O gli spiriti sciolti, i pensieri agitati, i dubbi, i sarcasmi? Le idee che sorgono, le idee che muoiono? Ah! tutte le miserie e tutte le grandezze della terra esalano nella notte i loro sospiri. L'aria umida, palpitante, era pregna di lagrime. E il sentiero saliva, saliva dolcemente, nell'ombra. FINE

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