Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Il Plutarco femminile

217731
Pietro Fanfano 50 occorrenze
  • 1893
  • Paolo Carrara Editore
  • Milano
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
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La direttrice, donna di specchiati costumi o di animo gentilissimo, ottima madre di famiglia, ricca di singolare dottrina ed erudizione, aveva avuto sollecita cura di scegliere maestri e maestre, che, non solamente fossero d' intera o provata costumatezza, e padroni delle discipline che dovevano insegnare, ma fossero abili parimente a saperle insegnare; perchè, diceva, e diceva bene: Un maestro, il quale sappia così per appunto, ma sappia insegnar bene, vale assai più di un altro che sia un Salomone ed un Aristotele, e poi non sappia insegnare. Le più nobili e più agiate famiglie, così di Pistoja come di altre città, ponevano gli occhi sopra quell' istituto per mettervi a educare lo proprie fanciulle ma parecchie madri ne rimasero col desiderio, perci� la direttrice, tra di alunne esterne e di interne, non volle mai passare il numero di cinquanta. Il concetto che essa aveva dell'educazione femminile era questo: Come la natura ha formata la donna fisicamente diversa dall'uomo, deputandola a partorire e ad allattare, così è naturale che il mandate o l'ufficio I neologisti direbbero la missione. della donna nell' umano consorzio debba esser diverso da quello dell' uomo. Questi dee provvedere, non pure al mantenimento della famiglia; ma procacciare o colla mano o con l'ingegno al buono stato e al decoro della patria o colle armi in guerra, o con la penna nello studio, o con la ornata parola nelle assemblee, o esercitando arti, industrie, mestieri; quella invece dee attendere al governo della famiglia principalmente, ed alla prima educazione dei figliuoli, la quale, o volere o non volere, è quella che poi informa tutta la loro vita, ed è cagione principalissima che riescano buoni o tristi cittadini. Con tali pensieri in capo, e' ne vien da sè che ella, reputava, il voler ridurre le donne a far tutti gli ufficj degli uomini, essere quella medesima mostruosità che il voler ridurre gli uomini a far la calza, a stirare, a governare insomma tutte le faccende di casa: il che a poco per volta manderebbero sossopra tutto il viver civile. Sì fatti pensieri per altro non erano nè tanto stretti nè tanto assoluti, che volesse del tutto escluder le donne da ogni esercizio e disciplina più propria naturalmente degli uomini: anzi diceva sempre che, se una donna si sente avere che possa darle e fama e gloria, dee secondare con ogni studio questo fondamento che pone in lei la natura: e lodava con accese parole quelle donne, che si resero famose o nelle lettere, o nelle arti, o nelle scienze; ed anche nelle armi e nel governo dei popoli; pigliandone spesso argomento a provare che non è vero, essere le donne formate dalla natura inette alle più nobili discipline od arti civili; ma ricordando sempre alle sue alunne che, dove le cosi fatte sono degne di somma lode, sarebbe danno gravissimo alla umana compagnia, se tutte quante le donne volessero imitar quelle, perchè il mondo andrebbe a poco a poco sossopra; e sempre mostrando loro con precetti e con esempj quanto sia geloso, efficace e sublime il mandato della donna, la quale chi ben guardi, senza uscir dall'ufficio suo, ajuta e conferma in gran maniera il buono stato e la prosperità delle famiglie e delle nazioni, per via della buona educazione che dai figliuoli ancor teneri, e per il soave dominio che ha su cuor del marito. Affine per tanto di aver materia da toccare spesso questo tasto dell'ufficio della donna senza rompere il corso ordinario della scuola, la nostra brava direttrice si pens� di far fare alle sue signorine un esercizio, piacevole ed istruttivo nel tempo medesimo, in ciascuna domenica; e raccoltele, là verso la fin dell'anno, nella sua stanza, disse loro: "Mi è venuto in capo di fare insieme con voi, mie dilette fanciulle, un esercizio piacevole ed istruttivo ne' giorni di festa. Voi siete in tutto cinquanta: le venticinque maggiori di anni e di studj lavoreranno con me a tale esercizio; le altre minori saranno ascoltatrici ed osservatrici, finchè non diventeranno aneli' esse operatrici, entrando via via nei luoghi che si lasciassero vuoti per avventura da qualcuna delle altre. L'esercizio sarebbe questo; sentite: Incominciando. dalla maggiore, e andando giù giù, darò a studiare, a ciascuna delle prime venticinque, la vita di una donna illustre nella storia italiana, o per iscienze, o per arti o per lettere, o per altro titolo: quella ragazza, a cui toccherà la volta scriverà per la domenica seguente, in quello stile che più le par conveniente, un raccontino dove si compendino i fatti principali di essa vita, ovvero la tesserà sopra il fatto principalissimo, quando la donna sia rimasta famosa per quello solo. Compiuto il numero di venticinque, si ricomincerà da capo; e così ciascuna toccherà far dentro l' anno due racconti; perchè è vero che nell'anno ci sono cinquantadue domeniche, ma noi dobbiamo far vacanza l� domenica di Pasqua, e un' altra la lasceremo libera per fare tutte insieme una scampagnata. Quando una ha finito di leggere il suo racconto, le altre tutte, grandi e piccine, potranno fare quelle osservazioni che l'animo detter loro, o muover dubbj o chiedere dichiarazioni; e ciò darà materia a qualche discussione tra voi e me, e tra voi e voi, le quali serviranno a farci passare un' oretta piacevolmente, e ci daranno largo frutto d' insegnamento. Vi piace la mia proposta?" I barbareggianti avrebber detto il mio progetto. E tutte quelle ragazze con lieto volto e con atti di gioia esclamarono: "Sì, sì. "O brave bambine, continu� la direttrice: dunque all'opera. Ora siamo alla fine dell'anno; e cominceremo subito la prima domenica dell'anno prossimo. Le antiche romane le lasceremo stare, chè spesso le avete sentite nominare, e parecchie di voi le conoscono: poche ne ricorderemo di quelle del medio evo, cioè dei dieci secoli corsi tra il V e XV secolo; e più via via ne cercheremo nei secoli più vicini al nostro, nel quale troppo non ci avanzeremo, dovendo lasciarsi al tempo avvenire il giudizio e la fama delle viventi, o delle morte di fresco." E voltasi alla maggiore di tutte, una bella giovane di diciassette anni o così: "Animo, signora Elisina, il primo racconto tocca a lei. Ella è studiosa, ha ingegno vivissimo, e farà ottimamente. Or ora venga da me, chè le darò a leggere la vita di Amalasunta regina d' Italia; cerchi di scriversela bene nella mente; que' punti di essa vita che più le feriscono la fantasia, su quelli ordisca prima, e poi tessa il suo racconto, non dimenticando mai il fine del nostro esercizio, che è quello di istruire dilettando. Io non voglio vedere il componimento prima che sia letto in presenza di tutte, per avere occasione di far la critica a ciascuno insieme con voi, correggere errori, dar precetti di ben comporre, o altra simil cosa, secondo l' occorrenza; e così piglieremo, come dicevano i nostri antichi, due rigogoli a un fico, faremo, dico, il nostro esercizio, e vi ribadirete nel capo molte di quelle cose, che i maestri ed i libri vi hanno insegnate." Qui la direttrice si tacque; e la Elisina, che aveva fatto un poco il viso rosso alle prime lodi, tutta ridente rispose che avrebbe fatto quanto poteva per contentare così buona ed amorosa direttrice. E di fatto la prima domenica del 1840 tutte quelle ragazze erano raccolte, a mezzo giorno, nel luogo ordinato al loro esercizio, dove era stato pregato di venire anche il maestro di lingua e di lettere italiane; e lì, dopo le solite amorevoli chiacchiere, postesi tutte a sedere, e la Elisina, per comando della direttrice, sedutasi su una poltrona in capo alla stanza, con atto, voce e modi gentilissimi, incominci� cosi il suo ragionamento.

Il lunedì dopo la domenica della ricreazione, la direttrice, avute a sè le venticinque signorine che avevan letto fin qui, disse loro: "Signorine, domenica si ricominciano le nostre conversazioni; e si procederà con l'ordine medesimo: sì che ciascuna di loro viene a saper da sè quando le tocca a leggere. Questa è una nota delle venticinque donne illustri, delle quali ciascuna di loro dee far la Vita: di contro ai nomi ci sono i numeri progressivi: prendano la nota: guardino, secondo il numero, di qual donna illustre debba ciascuna di loro scrivere; e così vi si potranno preparare con tutto il loro comodo." E come disse la direttrice, cosi fecero. Anch'io per tanto risparmierò al lettore la seccaggine di ripetere ogni volta vita, morte e miracoli della signorina che fa la lettura, conoscendole egli già tutte quante, e potendosi facilmente ricordare, e facilmente potendo vedere chi fu nella prima venticinquina la prima lettrice, chi la seconda, chi la terza, e va discorrendo.

"Voi tutte, mie dilette compagne, avete spesso udito dire, come me, da' nostri bravi maestri, che quasi mille cinquecento anni addietro, vennero a distruggere l'impero romano, e contaminarono spaventosamente la più gran parte d'Italia, varie generazioni di barbari, tra' quali gli Ostrogoti, il cui dominio cominciò sul finire del quarto Quelle parole, che si vedranno scritte in corsivo nei racconti delle signorine, sono errori o impropriet�, e saranno corretto in fine di ciascun racconto. secolo, cioè l'anno 493. Il primo re di questi Ostrogoti, ed il più grande di tutti, fu Teodorico, che la nativa barbarie temper� molto, governando civilmente, perchè si teneva dattorno i più grandi uomini di quel tempo. Aveva costui solo una figliuola di nome Amalasunta, bellissima e gentile del corpo, ma anche più bella e più gentile dell'animo essendo dal padre stata fatta ammaestrare sa Boezio, da Cassiodoro e da Simmaco, i più celebri uomini di quel secolo, e tutti e tre grandi alla corte del re. Arrivata ai diciotto anni, la diede per moglie al più prode de' suoi cavalieri; il quale per altro lasciolla vedova poco dopo la nascita del primo figliuolo, che si chiamò Atalarico. Venuto a morte il re, senza altri figliuoli che Amalasunta, il regno rimase a lei ed al nipotino tuttora fanciullo, per modo che l'intero peso del governo era sopra di essa; e lo portò con gran senno e con gran giustizia, mostrandosi benigna verso i sudditi italiani, e severissima contro gli Ostrogoti che quelli ingiuriassero: dando insomma esempio meraviglioso di bontà, di senno e di amore a tutte le più nobili arti di civiltà. Anche al figliuolo faceva insegnare lettere e i costumi de' Latini, acciocchè fosse un re degno della nuova patria; ma que' barbari de' principali baroni, e specialmente Teodòto, cugino di Amalasunta, il quale risedeva qu�, in Toscana e da lei era stato forzato a restituire molti territorj usurpati tirannicamente ai vicini, mormoravano di tanta severità, e congiurarono contro la regina. Da principio presero pretesto dalla educazione troppo molle, dicevano essi, che dava al figliuolo vociferando continuamente: " Che giovano a un gran re questi studj di lettere? un re non dee maneggiar libri, ma armi e cavalli. La regina alla fine dovè cedere; e quei tristi seppero tanto fare che Atalarìco, non solo Si corruppe tra vizi d'ogni genere, ma prese odio contro sua madre medesima, che da tal vita voleva ritrarlo: n'ebbe per altro il castigo che meritava, essendo morto tisico a diciotto anni. Amalasunta allora, pensando che l'autorità reale, ridotta tutta in lei sola, avrebbe accresciuta l'invidia dei suoi nemici, prese per marito e per compagno nel regno Teodòto suo cugino, che forse era il più fiero e il più azzardoso tra' cospiratori, sperando così di spegnere il fuoco dell'ira. Povera Amalasunta! credè trovare generosità e gentilezza nel cuor di que'barbari, misurando gli altri da sè: ma quanto si ingannò! Andarono pochi mesi che il feroce Teodòto, ambizioso di esser signore egli solo, e per antipatia anche a quella civiltà che voleva propagar per l'Italia la sua sposa e regina, sotto vano pretesto la fece prendere e condurre a forza nell'Isola del lago di Bolsena, dove di lì a poco lasciò che fosse miseramente strangolata nel bagno dagli aderenti di que' baroni, cui ella aveva già acerbamente puniti delle lor violenze e soprusi. Questa pietosa tragedia fu nell'anno 537, cioè 1303 anni sono. Con la buona Amalasunta mori ogni speranza di civiltà; ma Teodòto fu ben presto pagato degnamente della sua perfidia, dacchè molti di que' barbari medesimi se ne sdegnarono, facendo tumulto; e Giustiniano, imperatore di Oriente, vedendo l' occasione propizia, mosse allor quella guerra, che, per opera principalmente di Belisario e di Narsete, liberò l'Italia dalla gotica schiavitù Qui la Elisina si tacque; e mentre faceva atto di alzarsi, da ogni parte della sala si battevano le mani, e si udivano i brava e i bene da tutte le bocche. Poi la direttrice, pregando la graziosa fanciulla che aspettasse un momento ad alzarsi "C'è nessuna che abbia nulla da dire? "Io, scapp� fuori una vispa fanciulletta, la più grande delle minori, che si chiamava Egle, ed era tenuta da tutte per un sennìno. "O sentiamo! esclam� la direttrice, facendo bocca da ridere. "Mi pare che non si sia incominciato troppo bene celebrando questa Amalasunta, la quale in fin de' conti era della razza di que' barbari, che vennero a disertare l'Italia. "Apparentemente la dice bene, riprese la direttrice; ma, se ella, e tutte le altre signorine vorranno ricordarsi a che vergognosa condizione si era ridotto l'impero romano e l'Italia; se penseranno che Amalasunta pose tutto l'ingegno e lo studio a ingentilire i barbari suoi Ostrogoti, e a ricondurre in vita la morta civiltà mi penso che tutte si troveranno d' accordo ad approvare che le nostre conversazioni abbiano avuto principio da questa buona e sventurata regina, la quale pu� bene noverarsi tra coloro che diedero la vita per la civiltà italiana." Tutte le ragazze assentirono; allora la direttrice volta al maestro: Mi pare, disse, che lei, signor maestro, avesse fatto cenno come chi vuol dire qualche cosa; e che la vispa Eglina col suo pronto Io, le abbia levato la parola di bocca. E vero? È vero, rispose il maestro. Volevo anch'io rallegrarmi colla signora Elisina, accertandola che anche un letterato già fatto non si vergognerebbe di avere scritto quella vita di Amalasunta: ma volevo anche aggiungere che in essa vita mi hanno un pochino dato nel naso, non dirò tre errori, ma tre inesattezze, le quali non avrei voluto sentir dette da lei, che è tanto diligente e tanto studiosa della proprietà." La signora Elisina, a cui la lode non era dispiaciuta (mala cosa! siam tutti fatti ad un modo), non le dispiacque per altro nemmeno la benigna censura del maestro; anzi con volto lietissimo gli domand� quali fossero i tre errori, a cui il maestro rispose: "Ella ha detto che il dominio degli Ostrogoti cominciò nel IV secolo, cioè nel 493; ma questo è il quinto secolo, non il quarto. Senza dubbio l'ha tratta in errore quella voce quattrocento: se per altro penserà che un secolo e di 100 anni e conter� gli anni ad uno ad uno, vedrà che quando arriva a cento il primo secolo è già compiuto; e quando la comincia a dire cento uno, cento due, e così di seguito, siamo gia nel secondo secolo, benchè la dica cento per prima voce: detto di uno è detto degli altri secoli. Mi ha inteso bene? Sì, signore: la cosa è semplicissima, e bastava pensarci un pochino a non farsi canzonare. "La creda che in questo cascano anche di coloro che la pretendono a maestri. Altra cosa che mi ha fatto mal suono è quell' azzardoso, detto di Teodòto. Le voci azzardare, azzardo, azzardoso, non c' è dubbio che sieno state scritte da qualche valente autore; ma questo non fa che non sieno tutte francesi, e non bisognevoli alla nostra lingua, che ne ha parecchie delle buone a significare l' idea medesima: nel caso di Teodòto poteva dirsi, per esempio, audace, avventato, arrischiato o simili. Un'altra cosa che non mi è piaciuta è quel Teodòto che aveva antipatia alla civiltà qui mi pare eh' ella abbia peccato d' improprietà l' antipatia è passione che nasce spontanea e per prima impressione, e sempre può sostituirsi con la voce aversione scritta con una sola v, perchè viene da averso verbo latino, il quale significa aver orrore o ripugnanza, come appunto fa chi ha antipatia, ecc. Ma Teodòto contrariava la civiltà per suoi fini e per animo perverso, dunque la sua era aversione, era contrarietà, era odiosità, se s' ha a dir così,e non antipatia. E dopo essere stato cheto un pochino, continuò "La vede che queste sono macchie ben leggiere; ma ho voluto notargliele, perchè si avezzi, e lei e queste signorine, a fuggire anche l'ombra dell' errore." La Elisina ringraziò aramente il maestro della lezioncina datale; e la direttrice fece alzare la seconda di età, e a lei assegnò la lezione per la seguente domenica; e poi si partirono tutte liete e festose.

Essendosi parlato a pag. 245-49 degli Enimmi ed Indovinelli, non mi sembra fuor di proposito il ristampar qui come appendice al libro, questo mio scritto fatto qualche anno addietro, e riportato su varj periodici. P. FANFANI.

Scrivendo le presenti Vite, io ho avuto il proposito, come tutti gli altri, di ammaestrar le fanciullo con l' esempio, e di infiammare gli animi loro a quelle virtù che leggono descritte; ma sopra ci ho voluto che quelle vite mi dessero materia a ragionare delle qualità di esse virtù: a trattare quistioni di istituzione femminile; a parlare di morale, di buona creanza, di educazione, dell' ufficio della donna nell' umano consorzio: a trattare argomenti di storia letteraria: a dar brevi e sicuri precetti dell' arte di scrivere, di buona composizione, di grammatica, di proprietà o di eleganza. E tutto ci al modo socratico, e sotto forma di familiare conversazione, lasciato da parte il sussiego o il tono magistrale; cercando altresì di rallegrar la materia con varietà di argomenti, con brevi racconti, con tutto ciò insomma che dilettando possa istruire, perchè tengo verissimo il precetto dell' Omne tulit punctum, qui miscuit utile dulci Lectorem delectando, pariterque monendo. Sopra tutto poi mi sono ingegnato di esser chiaro e semplice nello scrivere, non abusando, io Toscano, la toscanità ma cercando di mettere in carta quella lingua elle tutta fiorentina, ma che pur tutta italiana, come foci nella mia novella - La Paolina - e nel romanzetto per le bambine, intitolato: - Una Bambola. - Ho cercato, per raccorre il tutto in poche parole, di fare conie una Polimazia, adattata alle fanciulle, dove trovino i semi di tutte quelle discipline che loro si convengono, i quali semi non potrà fare che, o prima o poi, non dieno in esse buon frutto. Occorre ch'io noti un'altra cosa, per fuggir nome di plagiario. Come le Vite non sono la parte formale del libro; ma ci sono solamente per pigliarne materia ai varj insegnamenti; cos mi son giovato molto di quelle già scritte da altri, perchè ad ogni modo, inventare non le poteva nè doveva. Più che di altri libri poi mi sono giovato largamente del bel libriccino del signor avvocato Giovanni Franciosi di Modena, intitolato; - Il fiore delle donne italiane. Al libro ho aggiunto un indice assai abbondante di tutte le materie che in esso si trattano: e come qua e là, alle giovanette che volta per volta leggono le Vite, metton loro sulle labbra dei modi e delle voci, o errate, o barbaro o improprie, per dare occasione al maestro e alla direttrice di correggerle, e proporre in lor vece le buone e proprie, così acciocchè le fanciulle che leggeranno sieno di primo tratto avvertite dell'errore, quei modi e quelle voci lo troveranno scritte in corsivo. Non ispendo più parole intorno a questa mia opericciuola, alla quale non desidero altro, guiderdone che il saperla bene accetta alle buone madri ed a' buoni istitutori; o almeno il sapere che esse ed valutano tanto o quanto la buona intenzione che ho avuto nel comporla. Pietro Fanfani.

"Signorine, stieno attente: alla signora Sofìa che ha nome di una imperatrice, ho dato a raccontare la vita di una gran principessa; e son certa che l'avrà scritta da sua pari." - E volta alla giovane che doveva leggere, disse: "Signorina Sofìa, siam qui ad ascoltarla; il perchè la fanciulla mise mano al quaderno, e cominciò: "L' isola di Sardegna era divisa anticamente in tre provincie, che erano governate da uno che aveva titolo di Giudice, e però si chiamavano Giudicati; e questi giudici, che da principio erano dipendenti da questo o da quel principe del continente, ben presto ebbero signoria assoluta. Uno di tali giudicati era quello d'Arborea, dove signoreggiava il principe Ugo, ucciso dal popolo per cagione della sua ferocia: a lui successe nel 1383 la sua sorella Eleonora, moglie di Brancaleone Doria. Essa era donna di rare qualità e di nobili sentimenti, virilmente animosa; e seppe amicarsi tutti i più illustri e potenti uomini del suo Stato, per il che potè creare giudice il proprio figliuolo tuttor giovanetto. Nacquero parecchi dissidj e gravi sollevazioni; ma Eleonora mandò il marito alla corte di Napoli per ajuto, e tra per la forza e per la prudenza, ricondusse alla ubbidienza i ribelli. In quel frattempo Brancaleone, dubbioso dell'esito delle cose di Sardegna, fece atto di vassallaggio al re d' Aragona, e promise, se lo ajutava, che il suo figliuolo avrebbe retto il giudicato di Gallura come suo vicario; ma saputa la vittoria di sua moglie, si vergognò e si pentì; dall' altra parte il re Pietro, insospettito dell' audacia di Eleonora, pretese di usare il diritto di alta signoria: la giudicessa negò alteramente, e il re tenne prigione il suo marito; e mosse con la flotta per la Sardegna, dove sbarcato co' suoi, fa chiudere Brancaleone nel castello di Cagliari. Eleonora non si smarrì: raccolse tutte le sue forze, combattè animosamente, e dopo due anni conchiuse una pace onorata. In questo mezzo morto il re Pietro, e succedutogli Giovanni, Eleonora volle cancellare ogni vestigio di vassallaggio; e da ciò nacque nuova guerra, condotta valorosamente a buon fine da Brancaleone medesimo. Intanto Eleonora pensava a ordinare civilmente il suo Stato, e compilò la Carta de Logu, che fu reputato un miracolo di sapienza civile: nè contenta a ciò, riordinò sapientemente la procedura criminale; e così nell'uno come nell'altro codice, civile e criminale, si posero per fondamento quei retti principj che governano le odierne legislazioni dei popoli più civili: sicchè può dirsi che Eleonora di Arborea precorse di parecchi secoli la civiltà presente. Essa morì nel 1404; e morì contenta, vedendo il suo paese prospero e lieto; nè inferiore a verun altro rispetto al suo ordinamento e alla sua legislazione." Finita la lettura, che fu molto applaudita, la signora Sofia, dopo avere garbatamente ringraziato, stava per alzarsi, quando il maestro si volse a lei con queste parole. "Signorina, io mi era messo qui col proposito di farle qualche censura, specialmente rispetto alla lingua, per darle occasione, rispondendomi, di far prova del suo ingegno; ma non trovo da ridire se non sulla voce flotta che ella ha usata per armata o naviglio. Flotta è voce spagnuola, e si usò per compagnia di navi mercantili, che vanno di conserva, e si disse specialmente di quelle che andavano nelle Indie." "Credevo, rispose la signorina, che l' uso potesse scusarmi; e poi mi pare che il dire armata non sia al tutto proprio, perchè armata vuol dire anche esercito." "Circa all' uso, quello della flotta non è uso, ma abuso; nè l' abuso fa legge. Benchè adesso da pochi si oda usata la voce flotta, ma si dice o naviglio o amata per esercito, essa è un gallicismo bell' è buono, entrato da molto tempo in Italia, è vero; ma il cui uso parimenti si va abbandonando fra noi. La voce armata presso i Trecentisti significò solo numero di navi armate per far guerra." "Ma io l' ho letta in Dino Compagni. "La Cronica di Dino Compagni è oramai, appresso la gente di sano giudizio, reputata apocrifa, e questa voce armata è appunto uno dei segni di apocrifità; e i difensori della autenticità per iscusarne il loro Dino, dànno a questa voce un significato diverso che non può avere..." Qui la direttrice fece notare che l'ora era passata e proponendo che tal disputa si rimettesse a un'altra volta, la conversazione fu finita.

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Restavano due sole fanciulle a compiere il numero delle venticinque che dovevano leggere la Vita; e questa penultima, alla quale toccava oggi, si chiamava Jole, vispa ed arguta poco meno che la Eglina. Essa per tanto andò al suo luogo senza esitare, e ad alta voce lesse: La Isabella Andreini, che fu al suo tempo famosissima per la sua eccellenza nell'arte comica, nacque a Padova nel 1562; ma può chiamarsi mezza pistojese, perchè sposò Francesco Andreini, pistojese, famoso comico e letterato del secolo XVI, e fu madre di Giovanni Battista, celebre comico e scrittore pur esso. Esercitando la sua arte, benchè viaggiasse continuamente, e fosse lodata e visitata continuamente da infinito numero di signori e di artisti, era non meno celebrata per la sua onestà e per la purità de' suoi costumi. Non aveva altro pensiero che l'amore dell'arte, e il desiderio di acquistar fama: il perchè studi� fino da bambina le buone lettere, com'ella dice da sè nella dedica delle sue Lettere a Carlo Emanuele primo, con queste parole: "Appena io sapea leggere, per dir così che il meglio che seppi mi diedi a comporre la mia Mirtilla, favola boschereccia, che se ne uscì per la porta della stampa, ecc." Queste Lettere son piene di singolari notizie e di pensieri nobilissimi; nè si leggono senza istruzione o diletto. Furono pur lodatissimi a quel tempo i suoi Dialoghi; ma nominanza maggiore diedero alla Isabella le sue Rime volgari, nelle quali gli storici della letteratura affermano esserci dei grandi pregi. Andata anche in Francia a dar prova del suo valore nell'arte, vi ebbe lodi ed applausi senza fine; ed Enrico IV la onorò con lettera cortesissima, dandole titolo di dama. Poco tempo appresso morì di parto in Lione il dì 10 di giugno del 1604; e quel comune onorò solennemente la sepoltura di lei; come fu celebrata la sua memoria da molti letterdti in una raccolta di poesie intitolata: Il Pianto di Apollo." Finita la lettura, e cessati gli applausi, il maestro disse "Brava signorina, il suo lavoro è ben condotto e bene scritto: solo la voglio avvertire che la voce dedica da lei usata a proposito delle Lettere della Andreini, è poco elegante, e che meglio sarebbe stato se avesse detto Dedicatoria." La Jole, a cui non moriva la parola in bocca, rispose allor prontamente,: a Le lodi del signor maestro io le accetto come stimolo a far sempre meglio; della correzione lo ringrazio tanto e poi tanto. Se però il mio racconto merita quelle lodi, debb'essere stato il caso più che altro, perciò a dire il vero, io l' ho per genio ma per ubbidienza, non parendomi degna una commediante, anche brava, di essere chiamata Donna illustre." "Adagio, signorina, rispose la maestra: il suo ragionamento, oltre all' essere un poco presuntuoso, è falso. Lo so che, per il poco decoro di molti commedianti, e per le male usanze che ci sono state, e ci sono tuttora nei teatri, l'esercizio dell' arte comica è stato ed,è in parte riputato vile e spregievole; ma ciò sta bene solamente quando chi l' arte esercita lo fa viziatamente e senza altro fine che il guadagno. Ma l' arte è in sè stessa nobile e degna: efficacissima alla educazione del popolo, ed altamente civile: nè sono degni di dispregio, ma di somma lode coloro che nobilmente la esercitano, come quelli che la civiltà ajutano al pari d'ogni altro artista. Senza che, bisogna avere ingegno tanto pronto e tanto nobile: bisogna tanto studiare e tanto sudare per divenir grande artista drammatico; che i pochissimi a' quali tocca tal sorte, son bene da annoverarsi tra i personaggi che onorano una nazione, specialmente allora quando nell' esercitar l' arte si mantengono incorrotti, ed esempio di costumatezza e di onestà come appunto fu la Isabella Andreini. La quale però non fu registrata fra le donne illustri solamente come commediante; ma come donna di grande ingegno, e come una delle migliori letterate del tempo suo. E certo la signora Jole non pensò a questo, quando fece la sua, poco discreta osservazione." "Sono stata un po' troppo avventata, lo confesso, replicò la signorina: me ne rendo in colpa e ne chiedo perdono, specialmente per avere indirettamente censurato la scelta fatta dalla signora direttrice. E questa lezione ch'ella ora mi ha dato, sarà, medicina santa per l'avvenire." Altre parole di scusa dall'una parte, e di amorevolezza dall'altra, passarono tra la direttrice e la signorina: poi, dopo altri piacevoli ed istruttivi discorsi, ciascuna andò alla propria casa.

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Toccava la lettura a una brava giovanetta pistojese, chiamata Rachele; la quale un poco vergognosa per la presenza dei nobili sposi, incominciò con voce tremante: La donna illustre di cui debbo oggi parlarvi è chiaro ornamento di questa nostra città, e lume nobilissimo della patrizia famiglia Rossi. Essa nacque in Napoli, da Giovanni Rossi, dell'antica e nobil famiglia pistojese, e da Lucrezia Gambacorti, famiglia anch' essa nobilissima, la quale ebbe già la signoria di Pisa. L' anno appunto non si sa; ma certo ne'primi del secolo XVI, quando la famiglia de' Rossi, emigrata molto tempo dietro da Pistoja per cagioni delle parti, e riparatasi in Napoli, possedeva già nel Regno castella e baronie. Giovanni de' Rossi usava spesso nel palazzo di Ferrante Sanseverino, principe di Salerno, che aveva per segretario un erudito gentiluomo e poeta, Bernardo Tasso: questi, veduta per avventura nelle case del suo signore la nostra Porzia, che era bellissima e gentilissima, se ne invaghì e fece pensiero di chiederla per sposa: a che avendo volentieri acconsentito i genitori di lei, si fece lo sposalizio nel 1539. Bernardo, avuta licenza, con larga provvisione, dal principe di Salerno, si ritrasse in Sorrento, vivendo con la sua diletta Porzia una vita di paradiso; la quale fu rallegrata anche più, nel 1544, dalla nascita di quel figliuolo, che fu poi l' autore della Gerusalemme, dico il divino Torquato. Il padre però non vi fu presente, perchè richiamato dal suo signore, stato eletto capo della fanteria imperiale, dovè seguitarlo in Alemagna, e abbandonare le pure gioje di famiglia. Che cuore fosse quel della Porzia, non può significarsi a parole: tuttavia la sventura sopportò da sua pari; e solo dopo un anno potè rivedere il suo caro marito, e mostrargli tutta lieta il piccolo Torquato. Breve per altro fu la dimora di Bernardo; il quale per debito di suo ufficio, dovette poi sempre star lontano dalla famiglia; e la cara sua moglie si consolava solo con le affettuose e gravi lettere del suo sposo; e attendendo con ogni sollecitudine alla educazione del suo Torquato, il quale, se diventò quel che diventò, si deve in gran parte al senno e alla maravigliosa prudenza di sua madre. Ma essa doveva sopportare altri dolori! Essendo Bernardo a Parigi, seppe clic la sua Porzia e la Cornelia sua figliuola erano state colte da grave malattia, il perchè, presa assoluta licenza dal Sanseverino fece proposito di fermarsi a Roma, non tenendosi sicuro in Napoli: intanto procurò che la moglie con la figliuola riparassero in un monastero di Napoli, e Torquato col suo ajo venisse a Roma. La Porzia rimase dolentissima di doversi separare da Torquato, che per dieci anni era stato l' objetto di ogni sua cura, di ogni suo studio: si consumava dal desiderio di ricongiungersi a lui ed al marito; ma sempre più afflitta dal desiderio che si prolungava, fu presa da morbo repentino, che la rapì all' amore del suo Bernardo il dì 9 febbrajo 1556. I molti valentuomini che in Napoli, a Salerno, a Sorrento avevano ammirato le doti del suo animo e del suo ingegno, pietosamente la piansero; e il desolato suo marito non poteva trovar conforto a tanta perdita; e per lettere e in versi sfogava il suo dolore, che però non si disarcerbava. Torquato, benchè fanciullo, conobbe la sventura di tanta perdita, cui pianse amaramente, e amorosamente ricord� la madre nella più bella fra le sue canzoni." Finita la lettura e gli applausi, il cavalier Rossi e la sua signora ringraziarono la direttrice dell'avergli invitati, e la Rachelina di aver parlato con tanto garbo della loro illustre antenata. Sapendo poi che la domenica seguente era quella ordinata per la ricreazione delle alunne, vollero che la direttrice promettesse di andare a passar giornata alla loro magnifica villa di Felceti; e dopo che, non senza qualche cerimonia, la direttrice lo ebbe loro promesso, qua' signori salutarono garbatamente e partirono. Essendo per altro tuttora presto, il maestro propose che prima di andar via, una delle signorine leggesse parte di una bellissima e gravissima lettera di Bernardo alla sua Porzia, dove appunto parla della educazione de' figliuoli: e trovato libro e pagina, lo diè alla signora Zaira, accennandole il luogo, la quale lesse quanto segue: "Dico adunque che, eziandio che il Datore d' ogni grazia ce li abbia dati (se la paterna affezione non m' inganna per quanto in questa tenera età si può conoscere) belli di corpo e d' animo, nulladimeno per ridurgli a quella perfezione che si desidera, hanno bisogno di coltura Parla de' suoi figliuoli.; perchè, siccome non è terra sì aspra, sì dura e sì infeconda, la quale, còlta, non divenga subito molle, fertile e buona; nè alcun buono albero, che, non essendo, col trasportarlo o con l' innestarlo, coltivato, non ritorni sterile e selvaggio; così non è ingegno di natura rustico e rozzo, che con una lunga e buona instituzione e disciplina non si faccia gentile e docile; nè sì buono e felice, che senza buona e diligente creanza non si corrompa e a degeneri dal primo suo buono instituto. E perchè l' uso agevolmente si conserve in natura, a dobbiamo con ogni studio affaticarci, mentre che l' albero è tenero e pieghevole, di volgere e piegare il tronco de' loro pensieri, e i rami delle loro operazioni, alla parte più virtuosa e più bella: chè, siccome nella tenera scorza d' un giovine arboscello le piccole lettere stampate ed iscolpite crescono col tronco già fatto grande, e con lui vivono eternamente, così questi documenti ed esempi di virtù s'imprimono, e pigliano tanto vigore e spirito nell'animo del fanciullo, che non n'escono giammai: altrimenti, lasciandolo indurare e crescere in mal uso, non a si potr�, per alcuna diligenza nè studio che vi si ponga, volgere a miglior parte, non più che si possa la ruota del carro, già torta, raddrizzare. Però, poichè Cornelia nostra è ormai uscita a dall'infanzia, e si fa di giorno in giorno di corpo più grande, e di spirito più acuto e più vivace, nel quale, come in terreno fertile e atto, si può già incominciare a spargere alcun seme degno di noi: e perchè non è semenza più nobile, a nè donde nascano in abbondanza più preziosi frutti, nè più utili, o necessarj per iscacciare la fame e la sete delle mondane delizie, che quella del nome e dell'amore di Dio; è di mestieri che procuriate con tutte le forze vostre, e con ogni diligenza d'imprimere nella pargoletta anima il nome, l'amore e i pensieri di lui affine che impari ad amare e ad onorare colui, dal quale riceve, non solo la vita, ma tutti i beni e le grazie che possono fare l'uomo felice in questo mondo e beato nell'altro. Studiate medesimamente d'innestare nella tenera mente sua il timore di esso Dio: il timor, dico, non vile, non servile, il quale a non piace alla maestà sua; ma quel nobile e gentile, il quale stia ad ogni ora sì unito e sì a congiunto con l'amore, che non si possano in alcun modo dividere nè separare: perciò da questi due fratelli, così congiunti e così uniti, ne nasce la religione; la quale, a guisa d'ombra, che, ancorchè lasci l'erbe inutili e selvaggie germogliare, non le lascia però maturare nè far frutto, così non lascia alcun vizio vergognoso nè capitale fermar le radici negli animi loro, ne venir a tempo che possa produrre alcun frutto di scellerità Or perchè sappiate ciò che importi questa parola costumi, vi dico che, costume non è altro che, in tutte le cose che si dicono, servire una certa modestia e onestà; e in quelle che si fanno un certo ordine e un certo modo atto e conveniente, a ne' quali riluca e risplende quella dignità e quel decoro, che, non solamente gli occhi e gli animi de'prudenti, ma degli imprudenti ancora diletti e muova a maraviglia. "I costumi si dividono poi dalla ragione e dal tempo: perciocchè alcuni s'insegnano e s'imprimono ne' puerili animi dalla ragione e dalla diligenza d'altri: alcuni dalle loro considerazioni e dal proprio loro giudicio col tempo s' imparano. Piglierete adunque pensiero d' insegnar loro quella parte che a voi più si richiede. Due sono i modi dell' insegnare: l' uno con le ragioni e con gli ammaestramenti; l'altro con gli esempj: e perciò il senso dell'occhio è più veloce che quello dell' orecchio, e ha maggior forza della natura, "bisogna, signora Porzia mia, volendo creare Creare vale educale, come creanza, educazione: onde buona o mala creanza, bene o mal creato. i vostri figliuoli e rendergli tali, che coi loro costumi e virtù meritino d'esser andati, che vi mostriate tale a loro, quali desiderate che essi si mostrino ad altri. La tacita disciplina, e quella che più ragiona co' fatti che con le parole, è quella che più giova; chè, se vorrete a' vostri figliuoli que' documenti dare, de' quali voi non vi serviate, sarà il medesimo che se uno volesse insegnare ad un amico un cammino, ed egli s'inviasse per un' altra strada. "è di mestieri, dovendo instituir bene i suoi figliuoli, che il padre e la madre siano di natura moderati e gentili; e con tanta diligenza e studii affettino Affettino, cioè facciano mostra, diano a conoscere. la loro virtù, che a guisa d'un prezioso liquore s' affatichino d' infondersi per gli occhi, e per gli orecchi nell'animo e nell'ingegno del fanciullo, e di trasformarsi tutti in lui," perchè, subito che comincia con puerili pensieri a discorrere e a spaziarsi, se non nelle interne, almeno nell'esteriori e superficiali parti della ragione, rivolge e affissa gli occhi e gli orecchi nel padre e nella madre; e mira e osserva con grandissima attenzione tutto ciò che essi fanno o dicono. "E l' ammirazione della paterna virtù è pungentissimo sprone per far correre lo spirito del figliuolo per quel medesimo cammino che corre il padre." E sovra tutto abbiate pensiero alla disciplina domestica, della vostra famiglia e procurate che niuna brutta, empia nè lasciva parola pervenga agli orecchi dei figliuoli; nè alcuno atto disonesto, nè vergognoso, agli occhi loro si rappresenti; e questa dee essere propria cura e studio vostro: poichè il più del tempo gli tenete nel seno Nel seno, in collo, come dicesi oggi; e stando con voi affissano gli occhi nel vostro volto, e da voi imparano e a parlare e a camminare. Non gli menate in alcuna casa ove non sia una gentile e casta creanza; perchè, siccome dai luoghi che sono d'ogni intorno salutiferi non pu� venir aura che non sia benigna e vitale, così dalla consuetudine de' buoni e de' virtuosi costumi non può venire se non fiato di buona disciplina. Ed eziando che questi costumi, da alieno studio impressi nella mente dei fanciulli, non siano vera virtù ma similitudine, immagine e ombra sua; nulladimeno avviene in corso di tempo (tanta è la forza della consuetudine) come della femminile statua di Pigmalione, che, per grazia di Dio, in ispiraci e vita di vera virtù si trasformono. E avvertite di non cadere in quell'errore, nel quale caggiono la più parte delle altre madri, le quali con la troppa indulgenza, col compiacere di soverchio alla volontà e al desiderio de' figliuoli, non pur non facendo o dicendo, ma non consentendo che altri faccia o dica cosa contra la loro volontà corrompono i costumi loro; e a questo modo gli danno in preda alle delizie, facendo il piacere e 'l senso signore, anzi tiranno, dei loro giovani pensieri. Non dico per questo che dobbiate correre per quello estremo del timore nè delle battiture; anzi biasimo quelli che battono i figliuoli, non meno che se nella immagine di Dio avessero ardire di porre le mani. La virtù non si ha da conservare ne' pargoletti animi nè delle battutine; anzi biasimo quelli che battono i figliouli, non meno che se nella immagine di Dio avessero ardire di porre le mani. La virtù non si ha da conservare ne' pargoletti animi nè con sferza, nè con timore, perchè "il timore è "debile e infermo custode della virtù; ma è di mestieri di servare quella mediocrità tanto lodata in tutte le nostre operazioni. E siccome si dee guardare che la troppo durezza e severità non divella Divella, Divenga, strappi, diradichi. l'amore del padre talmente dall'animo del figliuolo, che tutto ciò che conosca essergli grato sia in odio a lui, così medesimamente si dee procurare che, per la troppa piacevolezza e indulgenza, non si spogli di quel timore e di quel rispetto, nè di quella reverenza, che egli è solito e debitore di portarli. E se pur alle volte (chè per la imperfezione della nostra natura è impossibile altrimenti) cadono i figliuoli in qualche errore, se è picciolo, mostrate di non vederlo, s'è mediocre, riprendeteli con amorevoli più che non severe riprensioni, a guisa di buon medico, il quale vuol piuttosto sanar l'infermo con la dieta e con la vigilia che con la scamonèa: se pur è grande, non usate più con loro della solita piacevolezza e liberalità; montatevi loro collerica, severa e difficile. Infiniti altri sono gli ammaestramenti che alla buona educazione s'appartengono; ma, perchè dubito col troppo cumulo di non confondervi l'animo; e perchè mi pare d'aver anco toccati tutti i capi principali e generali, sotto le cui leggi si restringono gli altri particolari, mi contenterò d'aver parlato sin qui; lasciando così come a me riservo la cura delli studj di Torquato, allor che l'età convenevole lo ricercherà a voi, che donna siete, il pensiero d'insegnare a Cornelia tutti quelli esercizj che a virtuosa vergine, quasi ornamento della sua bellezza e virtù, sono dicevoli e necessarj; il che so che saprete fare perfettamente. Vivete lieta; e col piacere che pigliate de' cari figliuoli, che ognor presenti vi rappresentano l'immagine mia, passate il fastidio della lontananza del marito. - La direttrice, fatta notare la bellezza di saggi ammaestramenti di questa gravissima lettera, e confortate le signorine a meditarle studiosamente, le licenziò, invitandole per la domenica appresso alla ricreazione.

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Il maschio andava a scuola, e non poteva guadagnare; studiava tuttavia di proposito, e dava fondata speranza che a suo tempo avrebbe ajutato la mamma e la sorella: intanto però ogni cosa doveva sperarsi delle loro mani. Ma erano lavori di donne! e poco più fruttavano che il puro pane: con tutto ci� e la madre e la figliuola sopportavano la miseria con rassegnazione e con dignità non facendo mai dir di sè, e mai facendo atti indegni di persone ben costumate e gentili. Accadde una volta che, per mancanza di lavoro, non potè mettere da parte i quattrini per la pigione; ed il padrone di casa, avaro e spietato, non volle aspettare; ma la minacci� di darle lo sfratto, e di metterla al tribunale, se tosto non pagava. Quanto la povera donna si travagliasse, pensatelo voi! Ma ad un tratto venutale una ispirazione, la seguitò. Era allora in Pistoja un signore ricchissimo, e un poco strano; ma che, trovandolo in buon punto, aveva fatto beneficenze segnalatissime. Se provassi a andar da lui? disse la Enrichetta: e fatto un animo risoluto, andò e raccontatogli il fatto, pregollo che l' ajutasse nel presente bisogno, e le restituirebbe il danaro co' suoi risparmi. "Che volete risparmiare, per l' amor di Dio, se guadagnate il pane a fatica? "E la povera donna stava a capo basso, facendo il viso rosso. "Il vostro padron di casa per� � un bel birbante; e voi so che siete una brava ed ottima donna. O quant'è la pigione? "Dieci scudi, disse con voce tremante la donna." Allora egli, fatto un ordine di cinquanta scudi: "Andate dal mio maestro di casa con questo foglio, e vi darò i quattrini per la pigione." E senza voler sentire parole di ringraziamento, la lasciò li e se n'andò. Presentato il foglio al maestro di casa, questi le contò i cinquanta scudi. Vedendo tutti quei denari la povera donna sbigottì; e timidamente disse: Ma il signore ha sbagliato; io non ho chiesto se non dieci scudi. Il perchè, saliti ambedue su da lui, ed essa dèttogli che doveva aver sbagliato: Sì, rispose ho sbagliato; e il procedere vostro me lo prova. Poi, invece di cinquanta scudi, pose un zero di più scrivendo cinquecento, e la licenziò. La buona Enrichetta rimase sbalordita da questa magnificenza, che le diè modo di risorgere, a lei ed alla sua famigliuola; e così vedete, mie buone compagne, che: Chi ben chiede, ben ottiene." La novella della Giulietta piacque a tutte senza fine; e sapendosi che anche la Nina, quella vispa siciliana, aveva preparato la sua, si fece posar l'uccellino sull'albero scelto da lei, la quale prontamente ricordò il proverbio: Tutti i ghiotti ci rimangono Rimanerci vuoi dire rimaner colto a un'insidia stataci tesa., e non diceva altro, facendo bocca da ridere. Le compagne allora cominciarono a gridare: La novella, la novella; e la Nina, quel giorno più allegra del solito, andò sul sedile, e festevolmente cominciò:

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Si chiamava questo bel cero Florindo: sempre tutto insaldato, muschiato, impomatato; con la sua spartizione a uso donna: abiti sempre dell'ultima moda, guanti canarini e scarpini lustri. Andava per le case a dar lezioni di musica, ed era un vero vanèsio; e con altre taccherelle che qui si tacciono, aveva il vizio di mangiare e mettersi in tasca le paste o i biscotti che gli capitassero sotto mano nelle case de' suoi scolari; ed alle volte, se si abbatteva a vedere in qualche credenza de' ghiottumi, l'apriva e faceva repulisti. Questa cosa era cominciata a sapersi; ed una signora si mise in capo di guarirlo da tal brutto vizio. Andava egli a dar lezione di musica ad un suo figliuolo: una mattina, arrivato all'ora solita al palazzo, fu pregato di aspettare un momento che il signorino fosse sbrigato di non so che faccenda, ed intanto fu fatto passare in un salottino, dove su una tavola era un bel piatto di biscotti, con altre paste. Come prima vide tanta grazia di Dio, la divorava con gli occhi: lasciato Poi solo, cominciò a dir davvero e tirato dalla gola, mandò il piatto quasi a mezzo senza pensare alla vistositàdi tanto consumo. Ma ecco gente... ingolla affogatamente l'ultimo boccone, ed entra in sala la signora tutta manierosa: Scusi sa, professore, Carlino era impiccialo... Dio mio! esclamò ad un tratto guardando il piatto de' biscotti, Dio misericordia! C'è stata forse la mia bambina? - Ora no, rispose il maestro, facendo il viso rosso. - Per l'amor di Dio mi chiami qualcheduno, disse la signora gettandosi tutta sgomenta su una poltrona, aveva fatto far que' biscotti con l'arsenico per avvelenare i topi che sono entrati in dispensa, e non vorrei che ne avesse mangiati la mia Sandrina... a queste parole il sor professore divent� bianco come un panno lavato; e potendo più la paura che la vergogna, confessò d'averli mangiati lui, raccomandandosi come un' anima persa che lo salvassero dalla morte. Venne gente: gli si cacciò nello stomaco mille intrugli uno più stomacoso dell'altro; nondimeno diceva di sentirsi morire, che voleva morire da cristiano... chiamassero un prete. All'ultimo tutti diedero in un grande scroscio di risa, palesando la burla: ma nondimeno stentava a crederlo, nè se ne persuase, se non quando vide mangiare agli altri il rimanente de' biscotti. Tanta paura per altro; e la vergogna del vedere questo suo vizio noto a tutti, fu una medicina santa, e mai più non assaggiò paste o biscotti per tutta, la vita." Fu riso di cuore al brioso racconto della vispa Nina; e prolungatisi i giuochi per un altro poco di tempo, già si avvicinava la sera, quando si vide arrivare un legno da campagna, dove erano due sonatori ed il cuoco di casa Rossi con due gran sorbettiere nel loro bigonciuolo armato Armato dicono i nostri caffettieri il bigonciuolo da sorbettiere quando è pieno del ghiaccio o neve col sale per mantener gelato il sorbetto.; e di lì a poco fu dato a tutte uno squisito sorbetto; e domandato alla direttrice per parte del cavaliere, se le piaceva che le signorine facessero un ballòzolo. La direttrice acconsenti che fino alle ventiquattro si ballasse; e tutte quelle ragazze ci dieder dentro allegrissimamente, finchè vennero i legni a riprenderle. Allora essa, convocatele tutte, ricordò loro che questa ricreazione doveva dar loro lena maggiore allo studio; che si sarebbe la domenica ventura ricominciato l'esercizio solito del leggere le Vite con l'ordine medesimo: e rimontate in carrozza, tornarono a Pistoja, dove erano aspettate da' loro genitori per ricondurle a casa, e ciascuna non cessò mai tutta la sera di parlare della bella giornata che avevano passato.

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"Fui la prima a parlare a voi qui in pubblico; e la prima sono adesso che ricomincia la serie delle Vite: l'altra volta vi parlai d'una infelice regina, ora vi parlo di una egregia poetessa, e virtuosa vedova. Questa fu la Torquinia Molza, nata a Modena nel 1542 da Camillo Molza, figliuolo di Francesco, eccellentissimo poeta italiano e latino, tanto noto agli studiosi delle buone lettere. Poche donne vennero in sì alto pregio come la Torquinia per la nobiltà dell'ingegno e per la copia della eletta dottrina. Amore e meraviglia de' più solenni letterati, il duca di Ferrara corse una giostra in suo onore; onde Torquato Tasso cantò di lei:

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Non tardò molto a divenir famosa per tutta Toscana, ed anche fuori, onde fu chiesta per isposa da Giovanni Broomans, di Anversa, a cui si unì nel 1616; nè andò molto tempo che fu chiamata alla corte Medicea dell'arciduchessa Maddalena moglie del granduca Cosimo II. Quivi l'Arcangela era l'amore dell'arciduchessa e l' ammirazione di tutta, Firenze, dacchè, o disegnasse, o cantasse, o scrivesse versi, in ogni cosa faceva bella prova, nè si poteva dire quale delle tre arti fosse di maggior perizia. Ma essa non si esaltava degli encomj, nè amava di far pompa delle proprie opere, onde non volle mai pubblicare niuno de' suoi versi; e circa alla pittura, anzi che trattare i pennelli, amava di tradurla, dirò così, in ricamo, dicendo scherzevolmente ch'ella era donna, e voleva far cose da donna. E non crediate che la non sapesse colorire, ve'; perchè desiderando la granduchessa qualche sua opera di pittura, le dovette dipingere il proprio ritratto; ma dietro al quale volle scrivere che era stato fatto per comando. Aveva allora ventidue anni; e quel lavoro fu molto lodato dagli intelligenti: anzi il cardinale Leopoldo lo riputò degno di esser collocato in quella sala di Galleria de' Pitti, nella quale sono i ritratti dei più gran maestri, dipinti da sè stessi. Dove per altro la Paladini si mostrava inimitabile era nel ricamo a colori; e ne ebbe alte lodi da valenti scrittori della Storia delle Belle Arti. Morte invidiosa le tolse per altro il giungere a quell'alta gloria, che le promettevano il suo ingegno e il suo studio; perchè nel settembre del 1622, avendo appena toccati i ventitrè anni, la rapì all'amore ed all'ammirazione di quanti la conobbero. Le furori fatti solenni funerali a spese della granduchessa, la quale ordinò pure che il suo corpo fosse sepolto in Santa Felicita, dove le fu fatto un assai nobile monumento, con una epigrafe in versi latini, che invita il visitatore " a spargere rose e lacrime, perchè quella tomba chiude una donna, che ebbe l'ingegno di Pallade, emul� nel disegno e nella poesia Apollo e le Muse: cantò vivente i Regi toscani, e salì, morendo, a cantare Dio." "La signora Giulietta, disse il maestro, finita che fu la lettura e gli applausi, si è mostrata anche questa volta quella giovane assennata e studiosa che è veramente. Me ne rallegro; e la conforto a continuare. "Io, seguitò la direttrice, vo' fare a tutte loro una domanda, per provare chi mi sa rispondere a tòno. "Che domanda, che domanda ce la faccia," risposero in coro tutte quelle ragazze. "Fra i tanti pregj della Paladini, quale dicono esser quello che più le fa onore? Quasi tutte le ragazze vollero rispondere, chi l'una cosa e chi l'altra; ma la direttrice a tutte replicava scotendo il capo e dicendo: Più su sta meno Luna. Solo quando la signora Zaìra disse che credeva esser pregio lodevolissimo della Paladini quello di aver voluto applicare a' lavori donneschi la sua perizia della pittura, la direttrice rispose: "Sì codesto è pregio nobilissimo ad una donna; ma nondimeno il più degno di lode non è codesto; e tuona Luna sta un pochin più in su." O dove sta dunque? "dissero cinquanta voci ad un tratto. "Lo sanno qual era il pregio degno di maggior lode che avesse la Paladini? "replicò allora la direttrice Era quello di non essersi lasciata vincere alla vanità di pubblicare e mandare attorno le cose sue, non curando lo lodi e lo strepito de' plausi, ma stando solo contenta a fare il bene per il bene. Questa virtù, rara anche negli uomini, nelle donne è arcirarissima nelle quali prevale il sentimento della vanagloria che offusca sempre anche il merito vero. E di fatto quante donne non si vedono, le quali come prima sono in grado di dar qualche frutto dei loro studj, le cercano di andar in istampa, di porre in mostra lavori; mettono sossopra il mondo, ed usano mille arzigogoli, o per esser lodate, o per far parlar di loro i giornali; e si studiano di entrare in corrispondenza con gli uomini di fama, facendosene belle puerilmente; e non parlano so non di sè; ed entrano a disputare di materie gravissime; e sfatano quelle donne che a nulla non son buone se non a far lavori domestici ed a badare a casa. Fra le donne letterate le così fatte sono le più e non. si accorgono, poverine! che procacciano a sè stesse il loro danno: perchè, dove, studiando sempre, ma ricordandosi sempre di esser donne, avrebbero potuto far onore alla patria ed esser lodate dai buoni, quella benedetta lor vanità intristisce o non lascia maturare i frutti del loro ingegno, per forma che salvo pochi adulatori, diventano lo scherno di tutti, e non son buone nè per sè nè per altri."

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"La Marianna Mancini, di cui oggi mi tocca a parlarvi, era nipote del famoso cardinal Mazzarino, ministro di Francia, e nacque a Roma nel 1649. Lei e le altre sorelle fece il cardinale venire a Parigi, col proposito di favorirle a tutto potere; e come la Marianna era bella, spiritosa e di ottima natura, le diè per isposa al duca di Bouillon con ricca dote; e ben presto divenne il più bello ornamento di quella corte, che era la più splendida e più vivace che sia mai stata al mondo. La giovane duchessa amava la lettura e lo studio: si teneva sempre d'attorno i più nobili ingegni del sue tempo, tra' quali La Fontaine, di cui fu pur la protettrice, avendone sempre apprezzato l'ingegno. Se però era tanto umana col sommo favoleggiatone, fu ingiusta verso il gran tragico Racine; dacchè, non per malignit�, ma sopraffatta dallo spirito di parte, preferì la Fedra del poetucolo Padron, alla Fedra di esso Rasine, che si reputa il capolavoro del teatro francese. Avvenne a que' giorni un fatto orribile di due avvelenatrici, che tolsero la vita a molte persone, e che furono condannate a morte. Il Parlamento di Parigi istituì allora un tribunale segreto, che si chiamò la Camera ardente, per investigare chi fossero i fabbricatori de' veleni: e come molte gentildonne si erano fatte dire dai chimici e dagli astrologi la composizione di certi veleni, così molte furono citate al cospetto del formidabile tribunale, tra le quali la nostra Mancini duchessa di Bouillon, che diede a que' giudici le più piacevoli, argute e scherzose risposte, e le più acconce nel tempo stesso a provare la sua innocenza: ma tuttavia fu esiliata a Nerac, per lo scherno che aveva fatto de' giudici. Suo marito, a cui stava a cuore l'onore della moglie, impetrò da Luigi XIV la licenza di stampare l'interrogatorio della duchessa, affine di mandarlo in Italia e per tutta Europa a sua discolpa: e La Fontaine scrivevale frequenti lettere di consolazione e conforto, dalle quali si raccoglie qual fosse l'ingegno, e quali le ricche cognizioni di questa donna. Nel 1687 andò in Inghilterra per visitare sua sorella Ortensia; ed in quel tempo il medesimo La Fontaine scrisse all' ambasciatore di Francia in Londra, parlando della Bouillon: "Ella, per tutto dove capita, vi porta il brio e la gioia... è una delizia il sentirla scherzare, e parlare anche gravemente di ogni materia, con tanto brio e con tanto senno, che di più non potrebbe immaginarsi. "Dall' Inghilterra tornò in Francia dopo un anno: due anni dopo andò a Roma per visitare il principe di Turenna suo figliuolo, anch'esso in disgrazia della corte; e poco andò che corte fu richiamata ella stessa; dove per`altro visse temperatamente, trovando un compenso coll'assiduo studio delle lettere alle illusioni che fuggono con la gioventù; e morì di lì a poco a Parigi il dì 20 di giugno 1714. Lasciò una ricchissima biblioteca, di cui era bibliotecario Belin, suo segretario, autore del dramma Mustafà e Zeangin, che si crede essere per la maggior parte opera della duchessa. Fu protettrice efficacissima dei letterati, tra' quali Campistron le significò la sua riconoscenza dedicandole la sua tragedia Arminio. Compose essa medesima poesie francesi ed italiane; ma non volle mai che fossero pubblicate." La signora Sofia ebbe molte lodi per questo suo racconto, non solo dalle compagne, ma anche dalla direttrice e dal maestro; il quale, parlando a tutte, disse: "La signora Sofia nel suo bel racconto ha nominato La Fontaine, Racine, Pradon e Campistron, autori francesi. Sono essi noti a tutte queste gentili signorine?" Molte di quelle signorine dissero di conoscere La Fontaine e Racine: ma niuna seppe dir chi fossero Pradon e Campistron. Allora il maestro: "Io dunque dirò loro qualche cosa di essi: non la vita, non il ragguaglio delle loro opere; ma qualche cosa delle loro qualità, o qualche bizzarro avvenimento, che serva un poco per istruzione, e un poco per diletto. La Fontaine è il famoso favoleggiatore, uno dei più singolari ingegni che mai abbia avuto la Francia: le sue favole sono un miracolo di naturalezza, di ganza di grazia: e pur a vederlo, ed a conversarci, era troppo diverso da quel che si giudicherebbe per i suoi scritti. un uomo indifferente a tutto ciò che più accende la cupidigia umana: dolce, affabile, senza fiele, libero da ogni rea passione. Chi lo vedeva senza conoscerlo, lo pigliava per l'uomo più sciatto e più nojoso del mondo. Nella conversazione si mostrava quasi rustico: parlava poco, e spesso rimaneva stupidamente silenzioso, come farebbe un vero imbecille. Se voleva raccontare qualche fatterello, lo faceva con malissimo garbo; e quell'autore che ha scritto racconti sì semplici, sì briosi, faceva cascare il pan di mano a sentirgli raccontar qualche cosa. Egli insomma è il più parlante esempio che l'uomo d'ingegno e di dottrina può ben essere un bell'uggioso in conversazione. Si raccontano varj esempi della sua rusticità e del suo poco tatto; io ne racconterò due soli. Fu invitato a desinare da un gran personaggio, il quale pensava che l'autore di favole e racconti così briosi dovesse rallegrare la conversazione. La Fontaine però si trovava imbrogliato come un pulcino nella stoppa; e non trovava materia da dir quattro parole: sicchè tirò a mangiare; e per uscir d'impiccio, si alzò da tavola con la scusa di dover andar all'Accademia. Ma per andar all'Accademia è presto, gli fu detto. Allora egli, più imbrogliato che mai, rispose: Lo so; ma prenderò la strada più lunga. �F"Fra tutti gli scrittori francesi Rabelais era l'idolo di La Fontaine; e quello solo ammirava senza niuna limitazione. Un giorno, essendo in casa di Despreaux con Racine e altri dotti, si cominciò a parlare di sant'Agostino. La Fontaine non partecipava a tali ragionamenti, e se ne stava silenzioso lenzioso e quasi sonnolento. A un tratto però sul più bello della disputa, scappò fuori domandando sul serio all'abate Boileau, se credesse che sant'Agostino avesse più ingegno di Rabelais, che è sì schietto e sì elegante scrittore. Allora l'abate, squadrandolo da capo a' piedi, si contentò di rispondergli: Badate, signor La Fontaine, vi siete messo una calza a rovescio, ed era vero davvero. E così quella sciaterìa della calza, diede giusta materia a pungere La Fontaine della sua strana domanda. "Di Racine dirò solo che è il primo tragico della Francia; e mi contenterò di raccontare questo suo bel tratto. Quando Luigi XIV partì per l'assedio di Mons, comandò a' due suoi storici che lo seguissero. Uno de' due era Racine, il quale cercò di sgabellarsene; e quando il re tornò gliene fece amaro rimprovero; a che il poeta rispose accortamente: - Sire, quando voi mi comandaste di venir con voi, non avevo se non abiti da città; ne ordinai subito di quelli da campagna: ma le piazze che vostra maestà assediava sono state prese prima che il sarto me gli finisse di cucire. "Pradon era un ignorante bell'e buono; ma pure col favore de' grandi si mise a competere con Racine: è vero per altro che non gli toccò mai a ridere per questa sciocca emulazione. Di lui si racconta che avendo composta un'opera drammatica, andò camuffato al teatro, per vedere, senza esser conosciuto, l'effetto che faceva il suo lavoro. Sino dal primo atto il teatro pareva che rovinasse dai fischi; e Pradon, che si aspettava, un trionfo, perdè la bussola, e cominciò a pestare i piedi dalla stizza. Un suo amico, vedendolo così turbato: "Mostrate il viso alla fortuna: date retta; anche voi tirate a fischiar come gli altri. "Pradon, tornato in sè, gli piacque il consiglio: cavò fuori il suo fischio, e lì fischia a più potere. Accanto a lui c'era un moschettiere, che datogli un urtone, gli disse tutto stizzito: - O che fischi tu? il dramma è bello; il suo autore non è un minchione, ed è un ben veduto alla corte. - Pradon rende l'urtone, e dice che vuol fischiar quanto gli pare; l'altro prende il cappello e la parrucca di Pradon, e la fa volare per il teatro: Pradon gli dà uno schiaffo; e il moschettiere sfodera la sciabola, gli fa due sberleffi sul volto, e minaccia di ammazzarlo. Insomma, Pradon fischiato e battuto per l'amor di sè stesso, piglia l'uscio e va a farsi medicare. L'ora è tarda, e non mi c'entra a dirvi nulla di Campistron, se non ch'egli fu poeta di qualche valore, amato assai da Racine, ma le cui opere sono quasi in tutto dimenticate."

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Fu data per moglie nella tenera età di quattordici anni a Marco Cittadella, gentiluomo compitissimo, se non quanto era così minuziosamente amante del risparmio che i più lo dicevano avaraccio, e de' suoi ingegnosi modi di risparmiare spesso era facetamente ripreso dalla sua buona Beatrice, la quale però visse sempre in pace con lui fino alla età di quarant'anni. Cominciò fin d'allora ad essere afflitta da varj incomodi, che sempre la tenevano fra il letto e il lettuccio; ma non lasciandosi vincere da essi, passava il suo tempo lavorando, o scrivendo leggiadre poesie ed eleganti prose, o talora maestrevolmente dipingendo. Fu poi donna animosissima, ed ebbe animo più che virile tanto che fino agli ultimi anni tenne a capo del letto le sue armi cariche e in una data occasione si mostrò abile ad adoperarle intrepidamente. Arrivata a' cento anni scrisse un sonetto che intitolò secolare; ed avendo sempre mantenuta freschissima la memoria, recitava centinaia di versi da lei composti ottanta anni prima. Èdegno che specialmente si ricordino gli ultimi momenti della sua vita. La morte vide avvicinarsela senza che se ne alterasse minimamente la tranquillità del suo animo; anzi ne pigliava materia a piacevoleggiare; per forma che, tra l'altre, nel riaversi una volta da un letargo, che a tutti pareva mortale, disse improvvisamente i seguenti versi:

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L'avere udito dalla nostra cara Isotta il soverchio amore del risparmio, o dirò meglio, la ingegnosa avarizia del marito della Papafava, mi ha ridotto a memoria una novella, che spesso mi raccontava il povero mio nonno, e che ora la vendo a voi come l'ho comprata. "In uno dei pubblici istituti di Palermo aveva ufficio assai alto un uomo di età ancor verde, il quale si chiamava il signor Carmelo, e per soprannome Mignatta. Era costui assai benestante ed anche di civil condizione; ma avaro quanto la stessa avarizia, la quale accecavalo per forma, che spesso non discerneva più ciò che era di suo decoro o di sua vergogna; e gli suggeriva i più strani e ridicoli modi di guadagnare e di avvantaggiarsi. Lasciamo stare che, sì come fanno tutti gli avari, e' si guardasse dallo spendere anche un minimo centesimo; ma sempre pensava la notte quel che avrebbe potuto fare il giorno per guadagnarne anche mezzo. Udite un pochino di che diavolo era capace. Egli benestante, egli un ufficio con assai larga provvisione; e non dimeno dava i suoi scrocchietti, e, capitandogli il tordo, lo pelava, vi so dir io! Ma questo non è nulla: raccattava i cenci, i pezzi di carta e le cicche; teneva una bottega di rigattiere e rivendeva masserizie usate, e sferro di ogni qualità: dai colleghi si faceva dare i cappelli vecchi, i quali faceva rimontare e gli rivendeva: faceva la caccia a chi potesse scroccare o il caffè, o il poncino, o la colazione; insomma, non almanaccava altro mai che guadagnare e non spendere. Una volta tra le altre si accollò per poche lire una cambiate di 200 lire, che l' accettante non aveva potuto pagare; questo debitore era un misero bottegajuccio, il quale faceva sua arte in una via la più fuor di mano di tutta la città. Comprata la cambiale, corre dal debitore: "O a compare, io ho comperata la tua cambiale così a e così: o tu paghi, o ti fo gli atti e ti rovino." Il povero mercantuccio, che era povero, ma onesto, si raccomandava come un' anima persa che per l' amor di Dio non lo rovinasse: se non pagava, era proprio per impossibilità: gli desse tempo, e non perderebbe un centesimo. Ma l' inesorabil Mignatta, duro e freddo come un marmo: O paga, o ti fo gli atti. All'ultimo conchiuse: "Scusa, o non hai questa bottega? qualche cosa ti renderà. Pagami con gli incassi giornalieri." La bottega era miserissima, e gli incassi erano a ragguaglio: tuttavia quel disgraziato acconsentì di dargli tutto ciò che incassava giorno per giorno, cavatone solo quel tanto che bastasse a comprare un poco di pane per la famiglia: "E chi m' assicura che me gli darai questi incassi?" soggiunse il nostro Mignatta. - La mia onestà... - La tua onestà è bella e buona; ma non mi basta: starò in bottega da me. - Era appunto il tempo che a Mignatta toccava un mese di vacanza dal suo ufficio: il perchè, andato dal direttore, e chiesta la facoltà di assentarsi, la mattina appresso andò alla botteguccia del merciajo, e piantatosi a banco, stette lì tutta la santa giornata a riscuotere que' po' di soldarelli che vi portavano i rari avventori; e come fece quel giorno, così fece molti altri di seguito, in capo de' quali la cosa venne agi i orecchi del direttore dell' ufficio, essendosi già cominciata a spargere, con ispasso grande di quanti conoscevano il bravo Mignatta. Se il direttore se ne sdegnò potete immaginarlo, agramente dispiacendogli che un pubblico ufficiale vituperasse a questo modo e sè e l' ufficio: laonde fece proposito di rimuoverlo, per poi assolutamente destituirlo; ma prima volle anche svergognarlo, acciocchè non avesse poi il coraggio di lamentarsi o di negare. Ed una sera presi con sè due suoi impiegati si avvi� verso dove era la botteguccia del merciajo; e veduto l' amico a banco, il direttore con i due s' infilarono dentro, e il direttore domandò tre matassini di seta, e gli pagò al padrone. Il povero Mignatta, vedendo entrare i tre, rimase di sasso, e diventò bianco come un panno lavato: nondimeno pensò che si sarebbe potuto scusare dicendo di esser capitato lì per caso, e trattenutosi a crocchio col padron di bottega suo conoscente. Quando per altro il padrone diede a lui i denari pagatigli dal direttore; qui fu l' imbroglio: i denari non pigliava, e il padrone pur glieli dava dicendo: "Guardi, signor Carmelo, questa è assai buona mancia." Allora il direttore, che appena aveva scambiato il saluto con Mignatta, domandò che cosa era questo dare e non voler ricevere i denari; e il merciajo gli spiattellò ogni cosa: laonde fattone a quello sciagurato il più amaro rabbuffo specialmente per il disonore che ne veniva all' ufficio e a tutto l' ordine degli impiegati partì; e pochi giorni di poi fu fatto il decreto di destituzione. Mignatta ne rimase atterrito; e tanta fu la pena e io sgomento, che di lì a poco lo prese una malattia fierissima, della quale morì in pochi giorni." Se le ragazze avevano riso alle spilorcerie di Mignatta, si contristarono per altro del suo doloroso fine; e lodata la Nina del facile modo di raccontar novelle, ciascuna andò alle sue case.

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"La valente donna di cui oggi mi tocca a parlarvi, valorose compagne mie, si appella Anna Maria Arduino, una delle più rare donne del suo tempo. Nacque in Messina l'anno 1682, e fino dai più teneri anni diede tal prova della sua abilità, che ne menavano meraviglia quanti bazzicavano per casa, ed il maestro medesimo; ed avendo appena sedici anni, recitò in pubblico de' versi, che furono universalmente lodati. Fece sempre vita studiosissima, ed attese con rara assiduità allo studio della lingua latina, per la grande smania di legger Virgilio nella sua lingua originale; ed esso e il Petrarca furono sempre gli autori suoi prediletti. Nata di famiglia distintissima, la prese per sua sposa il Principe di Piombino; onde, passata a dimorare in Roma, tenne conversazioni fioritisssime di letterati, pubblicando altresì alcune poesie, che la fecero ricordare con molto onore dal Crescimbeni nella sua Storia della volgar poesia, benchèattualmente non si conoscano più ma in quell' epoca piacquero assai. Il suo titolo fu Principessa di Palici, e fu di vaghissimo aspetto, di modi soavi e gentili, con angelica voce in sua favella: fu poi donna specchiatissima, più che per la illustre sua nascita, per le sue molte virtù civili e domestiche, e fu un raro esempio di fedeltà conjugale. Furatogli dalla morte il marito e unico figliuolo, mori di dolore in Napoli il 29 dicembre del 1700, di soli ventotto anni di età. Le sue poesie latine ed italiane furono stampate in Napoli mentre ella era tuttor fanciulla." Qui la signora Zita si tacque, e gli applausi furono grandissimi. Vi ricorderete che questa signora Zita dissi, nella prima parte di questo libro, essere una fanciulla leggera, vana ed ambiziosa. Vi ricorderete parimenti che la direttrice trovò modo di farle un' amorevole ammonizione circa a questi suoi difetti; la quale ammonizione fu da lei accettata gratamente. Ora vi dico che da quel tempo della prima sua lettura, pareva diventata un' altra, ed in quei sei mesi non aveva avuto altro pensiero che lo studio: per questa ragione, finito che ebbe di leggere, così la direttrice come il maestro le fecero solenne encomio; al quale encomio il maestro continuò con queste parole:"E tanto più mi compiaccio di questo cambiamento quanto esso è stato cagione di veder fiorire l' ingegno vivace della signorina, il quale son certo che darà ottimi frutti, se con pochi mesi di buona volontà essa è riuscita a scrivere con assai garbo, e con lievi difetti questa Vita della Arduino." La lezione che mi diede sei mesi fa circa alla mia leggerezza la nostra direttrice, non nego che mi parve molto acerba allora; ma ora che ne conosco il beneficio, non posso dirle quanto gliene sia grata: ed a lei, signor maestro, sarò gratissima, se i difetti del mio scritterello mi fa conoscere." "Volentieri, replicò il maestro. Prima di tutto nella lingua ci vedo una mescolanza di vecchio e di nuovo, che non istà bene, come il valorose compagne mie boccaccevole; appellarsi, menare meraviglia, modo antiquato; e lì presso abilità usato assolutamente per perizia, che è d' uso moderno; e il bazzicare per andare in una casa che è moderno, e per di più troppo volgare: è poi non adattato con troppo garbo il verso di Dante con angelica voce in sua favella; ed in ultimo il troppo poetico furatogli dalla morte il marito, dove è pur da notare il solecismo della particella gli usata per a lei, che già dicemmo disdirsi ad una grave scrittura. Oltre di ci� mi hanno un poco urtato certe voci e modi errati, come famiglia distintissima per famiglia cospicua, illustre o simile, che è un francesismo bell' e buono: attualmente per presentemente, che è ineleganza nata dall' essere stato franteso il vero uso di tale avverbio, che accenna non al tempo, ma all' essere la cosa in atto, come chi dicesse bisogna orare attualmente e non mentalmente. Parimente ella ha scritto epoca per tempo indeterminato, o periodo di tempo, che è grande improprietà, perchèepoca è solo quel punto fisso nella storni, d' onde si comincia, o si può cominciare a contare gli anni, e che è d'ordinario notevole per un fatto memorabile; e di fatto suol dirsi anche nell' uso che una cosa fa epoca quando ci pare grande e memorabile. Tolte queste lievi mende, il discorso della signora Zita è bello e ben condotto, e me ne rallegro da capo." "Signor maestro, disse la Eglina come prima ebbe il maestro finito di parlare, se me lo permette, vorrei domandarle una cosa." "Domandi pure." "Io non ho mai capito come mai si debba dir Ella e Lei ad un uomo, essendo quelle particelle femminili; nè perchè, mentre si dice Lei, si abbia poi a nominare la persona col nome mascolino, come dianzi ha fatto la Zita, dicendo: A lei, signor maestro, sarò gratissima." "Il suo non aver capito è ragionevolissimo: ed io le dirò come sta la cosa. Naturalmente la lingua non comporterebbe che si usasse altro che il Tu, parlando da persona a persona: poi, o l' adulazione o la servitù, consigliò ad immaginare nei signori e nella gente di qualità, un ente astratto, come la signoria, la maestà, la santità e parlando ad essi, o scrivendo, non parlò o scrisse alla persona propria; ma alla sua signoria, alla sua maestà, alla sua santità; onde poi si cominciò a dire vostra signoria, vostra maestà o vostra santità, ecc. Ora nel parlare comune, quando si dice Lei ad una persona, non è come se parlassimo ad. essa, ma a quella signoria che ci immaginiamo essere in lei; e per conseguenza quando la signora Zita ha detto a lei, signor maestro, è come se avesse detto alla sua signoria, signor maestro. Ha compreso bene?" "Sì, sì, ora trovo la ragione di questo e simili modi. La ringrazio tanto." E qui finì la conversazione, perchè l' ora era già passata.

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La signora Bettina, che l' altra volta vedemmo essere così peritosa di leggere in pubblico, aveva adesso vinta la sua peritanza e andò al suo luogo tutta lieta, incominciando così: "Fin qui abbiam veduto eroine filosofesse, letterate, pittrici, poetesse e artiste: oggi voglio raccontarvi dell' Anna Morandi, nata a Bologna su' primi anni del secolo passato, la quale insegnò anatomia nella Università di Bologna stessa. Aveva essa sposato Giovanni Manzolini, assai valente pittore, e valentissimo anatomico; e vedendo che il suo buon marito era perseguitato fieramente dagli invidiosi, e quasi trascurato nella formazione della famosa camera, o gabinetto anatomico, ch' egli stava preparando per quell' Istituto, l' affetto che essa gli portava la invogliò di ajutarlo in questa difficile arte: il perchè vinta non senza grande stento la ripugnanza e l' orrore a trattar cadaveri, si diede a studiare indefessamente, a far sezioni e preparazioni anatomiche, esperimenti ed osservazioni: talmente che col sussidio de' continui ammaestramenti dei suo Giovanni, e con lettura de' migliori trattaci, giunse alla piena cognizione della scienza, nella quale fece delle nuove ed eccellenti dimostrazioni: le quali cose ben presto la rendettero celebre per tutta Europa non solo; ma non ci fu Accademia scientifica che non la volesse per collega; non Università che non le offerisse una cattedra. Lo stesso imperatore Giuseppe II, passando per Bologna, andò a farle visita, e le disse parole amorevolissime e di grande encomio; la città di Milano le mand� un foglio in bianco, e ci scrivesse i patti ch' ella volesse, per andare a insegnar la scienza in quella scuola: la imperatrice delle Russie per due volte la invitò alla sua corte. Ma la valente donna a tutte queste magnifiche offerte preferì la quiete della vita privata, e solo nel 1758, avendo perduto il marito, accettò la cattedra di anatomia nella università di Bologna, senz' obbligo per altro di dar lezioni, perchè, vedova e tuttora avvenente, non voleva concorso di giovani appresso di sè. Dilettossi parimenti di far ritratti in cera, e ne fece de' somigliantissimi: visse onoratamente fino al 1774 lasciando di sì chiara fama, la quale non si spegnerà ne' secoli più lontani." Quando la signora Bettina raccontava come la Morandi trattasse cadaveri e facesse preparazioni anatomiche, chi avesse guardato in faccia tutte le ragazze avrebbe veduto fare a ciascuna atti di schifiltà e di ribrezzo; ed una di esse non potè tenersi che, finita la lettura, non dicesse: "Le donne guerriere, filosofesse, poetesse, artiste, letterate, eccetera, eccetera, le lodo e mi piacciono; ma, ecco, il vedere una donna maneggiare cadaveri e rinvoltarsi nel putridume, questo mi fa stomaco, nè io posso volerle bene, o averla in venerazione." "Sì interruppe la direttrice, la signorina ha ragione: sa troppo di strano che una donna si dia a trattar cadaveri, e faccia tutte le altre ripugnanti cose che dee fare chi professa l' anatomia. Ma, se si considera che la cagione che mosse a ciò la Morandi fu l'affetto al marito; e se parimente si considera quanto essa onorò la scienza e l' Italia, e giov� agli uomini, non ci può essere, io credo, nessuno, sia schifiltoso se sa, che non le dia alte lodi." "è vero, ma...." Il maestro ruppe qui la disputa, osservando piacevolmente, che circa all' aver la Morandi giovato agli uomini, non tutti lo crederanno, perchè, se è vero che gli studj di anatomia sono ajuto efficacissimo agli studj della medicina, è vero per altro, che io, e malti altri con me, hanno poca fiducia in essa medicina; e tra quelli che ce ne hanno meno sono parecchi medici. Mi ricordo di aver sentito raccontare che un tale, parlando col Catenacci, famoso professore di anatomia, gli dicesse: Ma voi, che siete tanto bravo anatomico, e conoscete così per l' appunto la struttura del corpo umano, vo' dovete saper guarire ogni malattia. A che il professore rispose: è vero, io so discretamente l' anatomia; ma disgraziatamente noi siamo come i facchini di Firenze, che sanno a menadito tutte le strade, ma poi non sanno quel che si fa per vivere". "Ho sentito nominare dal mio babbo, che studia sempre Dante, e si prova a farmelo studiare anche a me, disse la signora Zaira, gli ho sentito rammentare un professor Catellacci, che tradusse la Divina Commedia in versi latini. È forse codesto medesimo rammentato da lei, signor maestro?" "Sì, è il medesimo: non tradusse però tutta la Divina Commedia, ma il solo Inferno; e que' versi latini sono belli veramente; e circa alla intelligenza del Poema, si vede esser meravigliosamente vera, e dovere per conseguenza essere stato lo studio prediletto di quel valentuomo. Ma, ella, signora Zaìra, ha detto che il suo signor padre le fa studiar Dante. Mi faccia ora il favore di dirmi, se di quello studio ella se ne diletta: e se le riesca difficile la intelligenza della poesia dantesca. Ho fatto pensiero di cominciare a leggere in iscuola la Divina Commedia; e non ne sono ben risoluto, reputando che sia un po' troppo difficile per signorine. Ora, saputo coni' ella se ne diletta, e lo intende, piglier� partito o del sì o del no." "Io parrò forse presuntuosa; ma fuorchè quelle cose dell'allegoria, e quelle questioni scientifiche, e quei luoghi che vedo essere incerti ed oscuri per tutti, lo intendo assai chiaramente, e ne prendo meraviglioso diletto." Qui entrò a parlare la direttrice, dicendo che non dubitava punto che siccome dello studio di Dante se ne dilettava la signora Zaìra, così non se ne fossero per dilettare alcune altre delle signorine del suo Istituto; e confortò il maestro a seguire il suo buon proposito di leggerlo e farlo studiare a quelle che il desiderassero: e il maestro promise che nell' anno prossimo incomincierebbe sulla Divina Commedia un esercizio facile e piacevole quanto più potesse, del quale aveva già quasi disegnato l' ordine e il modo.

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"Sei mesi fa, mie care compagne, incominciò la signora Isabellina, ebbi a ragionarvi di una duchessa, illustre massimamente per la prudenza e per l' arte di governo, e lo feci con parole poco dicevoli al soggetto, sì che voi altre faceste spesso bocca da ridere, ed il signor maestro me ne censurò umanamente, ed onestamente riproverommi di aver franteso i suoi ammaestramenti circa allo scriver la lingua dell' uso. Ora che vi ho a parlare d' una poetessa ed autrice drammatica, la qual fu moglie di un conte, scrittore eccellente, mi sono studiata di seguitare a capello i precetti del signor maestro, adoprando sì la lingua dell' uso ma senza volgarità, per non dare a voi anche questa volta materia da ridere, ed al signor maestro di farmi la predica." La signorine il maestro e la direttrice lietamente sorrisero a questo preambolo, e detta qualche parola di lode e di conforto alla dicitrice, essa incominciò: "Questa poetessa ed autrice drammatica che vi dicevo è la Luisa Bergalli, che tutti chiamavano Luigia, al modo di quelli dell'alta Italia. Costei era figliuola di un mercante piemontese posatosi già a Venezia, nella qual città essa nacque il dì 15 di aprile del 1703; e fino da' primissimi anni diede segno di esser proprio nata per l' arte e per le lettere; dico per l' arte, perchè anche nel disegno e nella pittura si mostrò assai abile, avendo avuto per maestra la celebre Rosalba; però la vera disposizione l' aveva per la filosofia, e per lo studio delle lingue. Prese amore singolare alla lingua latina; e mentre la studiava tradusse le Commedie di Terenzio in versi italiani, che si stamparono a Venezia nel 1736, col suo proprio nome, e col nome che ella aveva preso nell' Accademia d'Arcadia, il quale fu Irminda Partenide. Questa traduzione, dicono gl' intelligenti, che sia fatta molto bene, ed in buona lingua toscana; ma io non posso ancor giudicarne: vi dico solo che una di esse è dedicata con lettera bellissima alla sua maestra Rosalba, per atto di gratitudine. Sentendosi volta alla poesia drammatica, ebbe consigli ed ammaestramenti da Apostolo Zeno, in quel tempo poeta cesareo alla corte di Vienna, e scrisse alcuni drammi, che furono rappresentati con plauso; nè penò molto che acquistò fama chiarissima, o le si offersero lucrosi ed onorevoli allogamenti a Roma, a Milano, in Ispagna e in Polonia. Essa per altro non volle a niun patto uscir da Venezia, non d' altro curandosi che di attendere a' suoi lavori letterarj, e di godere della sua libertà, finchè Gaspare Gozzi, lume fulgidissimo delle lettere italiane, se ne invaghì, non meno innamorato di lei che della sua fama; e la sposò essendo ella in età di 35 anni. Vissero felici e concordi parecchi anni, ed ebbero quattro figliuoli, che la Luisa si diè cura di educare amorosamente. Morì in età assai avanzata, e lasciò non pochi scritti, oltre la traduzione di Terenzio, come dire tragedie, drammi per musica, traduzioni dal francese, e la bella raccolta intitolata: Componimenti poetici delle più illustri ricamatrici di ogni secolo, raccolti da Luigia Bergalli." "Insomma, disse il maestro appena finiti gli applausi, queste signorine mi fanno miracoli. Una ne vedemmo corretta da un poco di vanità e di leggerezza, per una semplice ammonizione della signora direttrice: oggi ne veggiamo un' altra essersi bravamente corretta da certi difetti di stile per un lieve avvertimento fattole da me. Che segno è questo? È segno che la mente la qual governa il nostro Istituto, ha tutte le più rare doti che occorrono in sì fatti ufficj; che sa, alle sue alunne far prendere amore allo studio; sa destare in esse il desiderio di farsi onore; sa accendere in esse lo spirito di nobile emulazione; che in fine sa farsi riverire ed amare, il perchè niuna delle sue alunne vorrebbe darle un dispiacere, o mostrarsi ritrosa al suo desiderio per tutto l' oro del mondo. E se la signora Isabellina si è corretta così, ed ha scritto cosi bene questa vita, a ciò se ne vuol recar la cagione...." La direttrice interruppe il maestro, pregandolo di lasciar stare questi encomj; e domandò se ninna avesse da fare osservazioni. "Io, disse al solito la Eglina. La Isabellina ha chiamato Luisa la Bergalli, dove sui libri si trova Luigia. Perchè?" "Il perchè, riprese la direttrice, glielo ha già detto, notando che Luigia lo dicono que' dell' alta Italia. Ma il nome è lo stesso; salvo che Luigia è il femminino più naturale di Luigi, italiano; e Luisa più si avvicina al latino Aloysia; come i Veneziani, scambio di dire Luigi, dicono Alvise, più vicino al latino Aloysius. "A proposito della traduzione di Terenzio fatta dalla Bergalli, domandò una delle signorine maggiori, ho sentito dire che ci avesse mano il suo marito Gaspare Gozzi...." "No, disse il maestro, tagliando a mezzo le parole di lei, non è possibile. Le Commedie furono tradotte molti anni avanti il matrimonio, ed anche due anni avanti stampato. Questa ciarla fu levata fuori dalla invidia, e creduta solo da coloro che amano credere il male, senza vedere se è o no credibile." "Vorrei sapere un' altra cosa," domandò qui la Eglina." "Dica." "Di Apostolo Zeno ho sentito dire che era poeta cesareo. O che sono i poeti cesarei?" "Glielo dica lei, signora Bettina." "Poeta cesareo si chiamava quello, rispose allora la signora Bettina, che era salariato da una corte per iscriver drammi ad. uso del teatro di corte, e cantar via via i fatti illustri e prosperi di essa corte." "Ma perchè cesareo?" "Questo ufficio di poeta cesareo, ripreso il maestro, era specialmente alla corto dell' imperatore d' Austria; ed il poeta era un italiano, perchè nel secolo passato alla corto di Vienna si pare lava italiano, e si facevano opere italiane al suo teatro. I1 primo fu Apostolo Zeno, l' altro il Metastasio, a cui successe il famoso Casti. Il perchè si chiamasse cesareo, a lei e a tutto quell' altre che non lo sanno lo dico ora. Nello studiare la storia hanno, senza dubbio, imparato che Cesare fu il primo che pigliasse titolo d' imperatore, uccidendo cosa la repubblica romana, della qual si fe' principe; ed avranno imparato che quando l' impero romano fu distrutto dai barbari, fu, dopo quattrocento anni circa, ripristinato dal Papa nella persona di Carlo re de' Franchi, il qual poi si chiamò Carlo Magno; e da lui poi seguitò l' impero ne' Tedeschi, considerato sempre come continuazione dell' antico impero romano. E come Cesare fu il primo a Roma che si facesse imperatore, così, a contemplazione di lui gli imperatori presenti, quasi di lui successori, pigliano titolo di Cesare; e nella lingua tedesca Kaiser non è altro che Caeser latino, che in Italiano è Cesare. Hanno inteso bene?" "Sì, disse per tutte la signora Isotta; ma l'imperatore di Russia e Napoleone, non si tenevano anch' essi successori di Cesare?" "Si tenevano per questa cagione. L' imperatore di Russia, si chiama Czar, che non è se non la voce Ceasar adattata alla lingua russa, perchè si tiene il successore diretto dell' ultimo imperatore d' oriente; e Napoleone, perchè, copiando Cesare, ammazzò la repubblica francese, Tarquinia Molza Parte II - 1 e se ne fece imperatore, stimandosi quasi successore di Carlo Magno, che fu re de' Franchi, ora Francesi." Ringraziato da tutte il maestro, finì per quella mattina la conversazione.

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Così preluse la signora Giannina al suo discorso; e tosto mise mano in cotal forma: "La Rosalba Carriera nacque a Venezia nel 1765; ed i suoi genitori, che avevano tutte le buone qualità del mondo, erano poco agiati de' beni di fortuna, con tutto che fossero di assai civile condizione. Suo padre era amante dello studio del disegno; e come lavorava assai, e la Rosalba eragli sempre d'attorno, fino da piccina si mostrò vaga di fare le figurine, tra le quali' quel buon uomo vedendone alcune molto graziose, gli venne in pensiero di secondare tale inclinazione della sua bambina, la quale maravigliosamente corrispose alle speranze del padre, divenendo ben presto valente disegnatrice. Col crescer degli anni si invaghì, più che d'ogni altra parte delle arti del disegno, della miniatura, nè indugiò molto a divenire la più valente miniatrice del suo tempo, come si scorge ancora da' suoi lavori, i quali sono di tal finezza, che è impossibile andar più in là. Con grave cordoglio per altro dovè abbandonar presto la miniatura, per amore della vista, che le si indebolì di buon'ora: il perchè si diede a lavorare di pastelli, nel qual genere di pittura giunse ad eguagliare i migliori dipinti a olio; nè vi era al suo tempo celebre galleria che uon volesse avere lavori della Rosalba, i quali si mostravano con un certo vanto, non solo in Italia, ma anche in Inghilterra e in Germania. Dico si mostravano, perchè molti di essi, per la loro natura, con l' andar del tempo sono assai scaduti. La qual cosa è pure affermata dalla Bergalli, in quella lettera dedicatoria di una commedia di Terenzio, ricordata l' altra domenica dalla signora Isabellina, nella qual lettera si leggono queste, parole: "Io scrivo ora a voi, il cui nome, mercè le belle e artifiziose pitture, è penetrato in ogni luogo, sicchè foste desiderata, e magnificamente raccolta dai maggiori monarchi dell' Europa. Sembra oggimai che non sieno compiute del tutto, e bastevolmente ornate le loro gallerie, se non hanno i ritratti de' principi, colorati dalle vostre mani. Non ha persona che non vi conosca per fama, non vi onori e non vi commendi; ma, non solamente confermate che il vostro sesso vale quanto gli uomini ne' lavori dell' ingegno, che mostrate con infiniti modi quanta bontà e quanta cortesia può stare nell' animo di una donna." La fama sua cresceva un giorno più dell' altro, e da ogni parte ella era colmata di onori; nè vi era in Italia, o fuori, Accademia di belle arti, che non la volesse per collega. Ma questa valente donna divenne all' ultimo infelicissima: la occupava a certi intervalli una compassionevole tristezza, con acuti dolori al capo, le quali cose accennavano pur troppo ad un prossimo e doloroso fine. In uno di questi accessi dipinse sè stessa col capo circondato di foglie; e domandatole il perchè rispose che quella era una tragedia, e che essa doveva presto morire tragicamente. Di fatto quella sventurata morì di lì a poco cieca e furiosa, non avendo passati i cinquant' anni." Le signorine, che in sul principio del racconto avevano cominciato a pigliare affetto alla Rosalba, non poterono udire senza grave dolore la pietosa fine di lei; ed avrebbero pagato qualche cosa, che, o la Nina siciliana, o la Eglina, venissero fuori con qualche barzelletta per divagarle; ma a farlo apposta, esse erano forse le più triste di tutte. Allora una delle altre, per dir qualcosa, e rompere quel triste silenzio, osservò come tra le donne illustri ce ne fossero tante dello pittrici, mostrandosi desiderosa di investigarne la cagione. A che il maestro rispose: "Èverissimo: il più delle donne che han lasciato di sì chiara fama sono pittrici; e nei due secoli precedenti massimamente esse furono quasi infinite; o in una casa medesima se ne trovarono anche tre o quattro ad un tempo, come, per esempio, le quattro sorelle Ranieri, Anna, Clorinda, Lucrezia ed Angelica, lo quali furono famose tutte e quattro, e specialmente l'Anna, che sposatasi al celebre Wandick, potè vincere le altre alla scuola di lui. Nel secolo passato poi, a Bologna, nella famiglia Sirani, vi furono tre sorelle, Elisabetta, Anna e Barbera, che non solo nella pittura acquistarono gran riputazione, ma anche nell' intaglio tra le quali divenne eccellente nell' intaglio la Elisabetta, che sebbene morta di soli ventisei anni, come alcuni credono, avvelenata dagli invidiosi, a quell' età aveva già dipinti molti quadri e fatte parecchie opere di intaglio, tra le quali quattro stampe sono sì belle, che non hanno invidia a quelle de' migliori maestri; ed oggi ancora sono stimate e cercate con gran desiderio dagli amatori. Rispetto alla cagione, tornando alla quistione della signorina, rispetto alla cagione, perchè sieno così numerose le donne pittrici, o comechessia artiste, veramente io non la saprei indovinare; ma, volendo pur dir qualche cosa, io come io mi pare doversene attribuir la cagione a questo, che la pittura e le altre arti affini, lo quali sono imitative, vogliono, ordinariamente parlando, un ingegno pronto e vivace, e non un ingegno profondo ed atto alle speculazioni filosofiche, o alla fredda esattezza delle matematiche. Ora le donne per prontezza o per acutezza d' ingegno vincono spesso gli uomini, e per natura, e per educazione sono alieno dallo scienze speculative, salvo cari rarissimi, raccontati anche qui in questa, sala: e però, volendo esso ingegno manifestare in qualche maniera, si volge là dove più trova dell' attrattivo, o quivi si posa come in suo luogo, e fruttifica maravigliosamente. Che la pittura, la scultura e l'intaglio si possano coltivare con gran lode, senza bisogno di gravi studj speculativi o scientifici, Si mostra con l' esempio di molti eccellenti maestri, i quali furono idioti o poco meno. Io non voglio troppo distendermi in questo argomento per non urtar nessuno; ma, tornando alle donne, farò loro notare, che ninna di esse ne abbiamo veduta o ne vedremo eccellenti in architettura. Perchè? perchè l' architetto, per essere eccellente, bisogna che faccia molti e molti studj aridi e uggiosi, ai quali le donne malagevolmente danno; perchè insomma all'architettura non basta il solo ingegno.... Ma voglio aver detto abbastanza che il dir di più. in questa materia si disdirebbe al luogo e alla occasione presente." Quella signorina, che aveva mosso la questione, si appagò del modo col quale il maestro l' aveva sciolta. Allora venne fuori un' altra, e domandò: "Signor maestro, le dispiacerebbe di chiarirmi un dubbio? "Volentieri, dica pure. "Ho udito che ella, volendo significare il suo pensiero circa alla cagione, perchè ci sono state tante donne pittrici, ha detto io come io, mi pare. Non dubito punto che ella abbia detto uno sproposito; ma, insegnandoci la grammatica che si abbia a dire a me pare; ed avendo anche sentito mettere in canzonella uno che scrisse, come ella ha detto io mi pare; non so che pensarmi, ed a lei ne domando. "Veramente, rispose il maestro avrei parlato con maggiore proprietà se avessi detto a me come a me pare, oppure con pleonasmo dell' uso nostro, a me come a me mi pare. Tuttavia nel linguaggio familiare si pu� dir come ho detto io, perchè comporta l' uso, perchè si trova usato dai classici, e perchè non è assolutamente contro ragione. Vediamolo. Che è nell' uso non c' è bisogno di dimostrarlo; che è stato usato dagli antichi scrittori, bastino i seguenti esempi: primo quello famoso di Giovanni Villani, il quale comincia la sua Cronica appunto così: Io Giovanni Villani, cittadino fiorentino, mi pare di scrivere, ecc., l' altro quello del Sacchetti il quale nella novella 23, scrive: Io, sconcacato par d'essere a me, chè voi siete vestiti che parete d' oro. E tal costrutto non è, com' io diceva, contrario nemmeno alla ragione grammaticale; perchè si vede chiaro che si vuole, da chi parla o scrive così, mettere nel primo caso il soggetto della proposizione, supplendo poi alla costruzione del verbo parere col ripetere la particella pronominale nel caso che esso richiede e come facevano nel caso del verbo parere, così lo facevano nel caso di altri costrutti, per modo che lo stesso gentilissimo Petrarca, incominciò il Canzoniere con un Voi che pare stia in aria, non avendo egli ripetuto, come soleva farsi, o il pronome, o la particella, scrivendo: "Voi che ascoltate in rime sparse il suono, ecc., spero trovar piet�; che poteva dire più compiutamente spero da voi trovar pietà. Ed il medesimo Chiabrera scriveva con tutta gentilezza: "Ed io co' cigni del Sebeto e d' Arno, E del gran Po, ma da lontano, inchino, Grazia mi fia; sol che ne senta il canto." Ha inteso bene? "Sì, signore, rispose la signorina." "Anche tutte le altre hanno inteso?" E tutte in coro risposero di sì. Anzi un' altra mostrò desiderio di sentir parlare anche di quegli altri costrutti rammentati dal maestro; il quale promise che ne parlerebbe altra volta, essendo ormai troppo tardi.

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La Rosa Govona, della quale son per parlarvi disse la Nina siciliana, a cui toccava la lettura, si puù affermare che personificasse in sè stessa la vera carità cristiana, essendo vissuta e morta per essa. Ell'era una povera donna, che campava a stento co' lavori di cucito: era poverissima di sostanze; ma ricca più di chicchessia di fede serena, di speranza immutabile, e ardentissima dell' amor del prossimo, tanto che amò e carezzò qual diletta sorella ogni sventurata. Un giorno, mentre ella stava lavorando, secondo il solito, davanti all' uscio di casa sua, eccoti avvicinarsele una povera bambina che le chiese un po' di pane, dicendole di non avere nè babbo nè mamma, nè casa dove stare. "E tu, rispose la Rosa, abbracciandola amorosamente, e tu starai qui con me, dormirai nel mio letto, mangierai nella mia scodella, e lavorerai come faccio io." E la bambina disse di sì: cominciò a lavorare; e fece ottima riuscita. La buona Rosa, tutta contenta di avere così efficacemente consolato quella sventurata, si infiamm� sempre più nel proposito di far del bene ai suoi simili, quanto gliel concedevano le proprie forze; ed in poco tempo aveva già raccolto dattorno a sè una bella famigliuola di giovanette infelici, innamorate del lavoro, e tutte intente al servizio divino. "Molti sciagurati, chi con un fine, chi con un altro, avevano adocchiato quella casa, dove erano radunate tante ragazze; e le male lingue non mancarono di spargere calunnie; ma la Rosa seppe vincere accortamente e valentemente ogni tentazione e calunnia: il perchè, veduto in modo aperto come stavano le cose, il Comune di Mondovi sua patria, le diè in dono una casa nel piano di Corassone, essendo ormai troppo ristretta la casuccia dov' ella abitava con le sue ragazze. Questa larghezza del Comune accrebbe sempre più il maltalento degli invidiosi, i quali con ogni più iniqua arte volevano frastornare la santa opera; ma la Rosa, sempre più cresceva di coraggio, e superava virilmente ogni battaglia, per modo che, ottenuta un' altra casa anch più grande, a forza di risparmi, di sovvenzioni e di cure indefesse giunse a comprar de' telai, e un compiuto lanificio: del qual risultamento compiacendosi santamente, non aveva altro pensiero che di accrescerlo sempre più. Per la qual cosa, andata nel 1755 a Torino domandò un asilo, che le fu dato dai Padri dell' Oratorio; ed in quelle poche stanze messe su alla meglio de' rozzi letti concedutile dai comandanti militari, vi si posò con parte delle sue compagne; e pose mano a' lavori. Emanuele III allora re di Sardegna, saputa la benefica e veramente utile istituzione fondata dalla Rosa, la lodò altamente, e si propose di ajutarla; al qual fine le concesse il luogo che già appartenne ai frati di San Giovanni di Dio, dove la famiglia della Govona crebbe assai, e crebbe con sempre maggiore efficacia la opera della sua piet�, alla quale fu ben presto data forma di ordinata compagnia, con suo speciale statuto. Tal compagnia si intitolò delle Rosine, e sulla porta furono scritte le parole: Mangerai del lavoro delle tue mani. Ma la pietosa donna (terminerò con le formali parole del valente biografo della Govona) non si stette contenta a tanta grandezza di beneficio; e pur desiderosa di allargarlo quanto più potesse, cercò molte terre, e, sempre chiamando al suo grembo la povertà virtuosa e la bontà sventurata, diede ospizj bene ordinati a Novara, a Saluzzo, a Chieri, a Fossano e a San Damiano d' Asti. Poi, vinta, non dell' animo ma del corpo, per le lunghe fatiche, ammalò e venne a morte tra le sue compagne, come dolce madre tra le sue figliuole; lasciando nella sua memoria bellissimo testimonio della potenza del volere, se fortificato Ball' affetto del bene, e dalla grazia di Dio." Finita che fu la lettura e gli applausi, la direttrice, voltasi tutta ridente alla Nina, le disse: Questa volta non moverà dubbio se la donna di cui le è toccato di scriver la vita, meriti di esser messa fra le più illustri, come lo mosse l' altra volta, che dovè parlare delle donne di Messina. Che dice, la signora Mila, la Govona le par veramente che meriti di esser detta donna illustre?" "Sì signora, rispose la signorina, mi par che lo meriti al pari di qualunque altra." "Non dica al pari, ma molto più delle ricordate sin quì; perchè, se le donne poetesse, guerriere, pittrici e filosofo meritano ogni lode, per avere in ciò agguagliato parecchi valentuomini ed ajutate le arti, le scienze e le lettere; la nostra buona Rosa tanto è da chiamarsi più illustre di loro quanto la opera sua è più efficacemente utile alla civil compagnia, e benefica verso quella parte dell' uman genere, che più è abbandonata dalla fortuna: senza dire che tale opera è veramente la santificazione del lavoro, e promotrice di un' arte di prima necessità a tutti quanti. "La carità verso i poveri non si può negare che sia una delle più belle virtù. sociali; e non senza gran ragione fu posto il precetto evangelico che dice: Vendete quel che avete per far limosine. Ed a questo proposito mi ricordo di aver letto che un certo arcivescovo di Napoli, stando proprio alla lettera del Vangelo, vendè tutta l'argenteria del suo palazzo, e no fece tante limosine; la qual cosa venuta agli orecchi di un gran signore, ricomprò l' argenteria o la, rimandò all'arcivescovo; il quale la rivendè da capo, e da capo fece tanto limosine: o così fece anche per la terza volta. All' ultimo, non volendo l' arcivescovo esser vinto dall'amore di carità, scrisse a quel generoso signore che se non due ma cento volte gli rimandasse l'argenteria, cento volte la rivenderebbe per darla a'poveri; perchè non era di necessità che, in tempi scarsi com' erano allora, l' argento dovesse stare ozioso in casa sua." Questo racconto lo aveva fatto una delle signorine, alla quale la direttrice rivolse queste parole: "La carità del suo arcivescovo è cosa lodevole; ma non è certo per altro che fosse efficace ed operosa. Molti di questi che vivono di limosina sono gente oziosa e viziosa; nè si potrebbe chiamare benefattore della umanità chi a gente sì fatta desse anche tutto il suo: anzi gli accattoni sono una vera piaga della società, ed in paesi bene ordinati non si tollerano. Quante sieno le arti da loro usate per ingannare la dabbenaggine altrui, e per abusare l' altrui bontà, non istarò a dirlo; ma c'è un libretto che tutte le descrive, ed io ne leggerò a loro ogni tanto qualche pagina, acciocchè imparino a guardarsi da tali birbanti. I poveri veri non sono essi: sono quelli detti vergognosi, che non si attentano a chiedere, benchè siano nella miseria; sono i vecchi impotenti e malati: il fare a ',questi la limosina è opera veramente meritoria; il farla agli altri è un mantenere l' ozio ed il vizio; e spesso è un dare a chi ha più di noi, perchè si sono dati parecchi casi, di accattoni, che alla lor morte sono stati trovati ricchi e possessori di cose preziose. Chi per altro vuole acquistar titolo di benefattore dell' umanità, ed aver fama nel tempo avvenire, cerca, sì, di sollevare dalla miseria i bisognosi, ma ordinando la sua carità ad un fine santo e civile, o tal carità sposando al lavoro, che, non solo educa gli uomini al bene, ma è la cagione unica della prosperità delle nazioni, come appunto la buona Rosa Govona; e per lasciare stare altri molti, come ha fatto a' dì nostri Gaetano Magnolfi di Prato." "Anch' io, continuò la signora Nina, quando la direttrice si tacque, non mi sento muover punto a compassione per gli accattoni, specialmente da poi che lessi il fatto di un esercito di costoro, ai quali fece quella saporita celia Ezelino da Romano." "Che celia? disse la direttrice; io non l' ho a mente." E alcuna delle ragazze: "Raccontacela, Nina, raccontacela. "Che si contenta, signora direttrice? "Racconti pure, che la udrò volontieri anch'io. Allora la Nina cominciò: "Antichissimamente comandava a Padova, e in tutti quei paesi d' attorno, un gran signore chiamato Ezelino da Romano. Costui non sapeva rendersi ragione come mai ci fossero nel suo Stato un numero sbalorditojo di poveri; ed investigando venne a sapere com' essi erano gente oziosa ed avara, datasi a limosinar per mestiere, e che tutto ciò che raccoglievano il cambiavano in oro, e lo tenevano cucito dentro agli stracci che portavano addosso. Allora che ti fa il bravo Ezelino? Come se volesse ringraziare Dio per una vittoria avuta sopra i nemici, fece bandire che il tal giorno avrebbe fatto generosa limosina a tutti i poveri dello Stato: però chi fosse veramente bisognoso, venisse a mezzogiorno sulla piazza maggiore di Padova,e lì vi sarebbe stato egli stesso a farla distribuire. Venuto quel giorno, i poveri piovevano a Padova da ogni parte; e tutti erano avviati sulla piazza maggiore, che era cinta di armati; nè il numero di quei cialtroni era certo minore di duemila. Scoccato il mezzogiorno, comparve Ezelino a cavallo, seguito da un drappello di soldati a cavallo, e da una filata di carri che non finiva mai, dove erano un gran numero di vestiti di panno albagio: e postosi egli in mezzo alla piazza, e guardandosi attorno, dopo un poco di tempo parlò agli orecchi a uno dei suoi cavalieri, il quale fece bandire la carità con queste parole: "Il magnifico signore Ezelino, in rendimento di grazie a Dio per la vittoria ottenuta, vuol fare questa segnalata limosina; e sapendo come questa povera gente è mezza ignuda e tutta lacera, gli è parso che cosa più accetta a Dio non potesse fare, che rivestirla tutta quanta di nuovo in su questo avvicinarsi del verno; e però comanda a tutti che, spogliatisi i vecchi stracci, ciascuno si rivesta dei nuovi; e poi così vestiti avranno un buon pasto quì sulla piazza." Il comando fu eseguito: il pasto venne; e furono licenziati. Ma qui fu il busillis. Ciascuno aveva fatto il suo fagottino de' cenci vecchi, per portarselo dietro; ma Ezelino comandò che quegli stracci dovessero lasciarsi lì, e coloro che tentarono di infrangere il comando sentirono quanto pesavano e come ferivano le alabarde dei soldati; sicchè andarono via tutti sconsolati. Si raccolsero poi i loro stracci, che furono bruciati, e vi si trovò tanto oro e tanto argento che Ezelino se ne avvantaggiò molto bene." E la direttrice, e il maestro, e tutte le signorine, risero di cuore a questo racconto; il quale chiuse saporitamente la conversazione di quella mattina.

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La fanciulla, a cui era stato dato a fare il secondo racconto, si chiamava Giulietta: ho detto che era seconda di et�, ma il divario da lei alla Elisina era di pochi mesi, e come la Elisina così anche la Giulietta era bella e gentile, modesta ed amante dello studio; tanto che, essendole toccato a descrivere la vita di Cinzica, vaga com' era di farsi onore, non posò mai in tutta la settimana facendo, rifacendo, correggendo qui, mutando là, nè mai essendo al tutto contenta del suo lavoro: e venuta la domenica, andò all' istituto tutta peritosa, e quando fu dalla direttrice mandata a sedere sulla sua poltrona per leggere, il cuore le batteva forte forte; e tanta era la paura sua, che a stento e con voce sottilissima cominciò: "La nostra buona direttrice, mie care compagne, ha voluto ch' io vi narri oggi il valoroso atto di una fanciulla pisana chiamata Cinzica, il quale appena si crederebbe, se non lo si vedesse raccontato da più storici e confermato da monumenti. Questa Cinzica era una nobile fanciulla appartenente alla nobilissima famiglia de' Sismondi, e viveva nel secolo XI, cioè negli anni dal I000 al 1100. Educata secondo il suo grado, era di modi soavi e gentili; ma aliena però a ogni mollezza e da tutte le sciocche vanità molte sue pari, come sarebbe dal far tutte le mode, dallo star sempre alla toelelle, e dall'esser vaga di teatri e di balli: modesta, religiosa ed amantissima della sua città, pensava invece che anche ad una donna stessero bene quelle che si chiamano virtù cittadine, e che si dovesse, quando occorresse il bisogno, dare anche la vita per la religione e per la patria. Che direte voi, mie care compagne, che appunto nel suo più bel fiore degli anni e della bellezza gli occorse di mettere ad esecuzione questi suoi generosi pensieri? Musetto re de' Mori, aveva da parecchi anni conquistato la Sardegna, e di là infestava con quei ladroni tutto il mare circonvicino. Saputo una volta che i Pisani, allora potentissimi sul mare, erano partiti con la loro flotta per combattere i Saracini in Calabria, colto il destro. andò con le sue navi alla foce dell' Arno; e risalito il fiume, arrivò proprio sino ai borghi della citta, dove sceso coi suoi feroci seguaci, misero fuoco alle case, mandando tutti insieme orribili grida di esterminio e di morte. I cittadini, destatisi a tanto infernale fracasso, fuggivano spaventati senza saper dove; e tutti erano presi da' Mori. Ma la bella Cinzica, gli si destarono in cuore più vive le sue virtù; e tutta infiammata dalle amore di religione e di patria, corse al palazzo del pubblico, e mostrata ai consoli con ardenti parole la certa rovina di tutta la città, se i Pisani non ripigliasser coraggio, fece sonare a stormo la campana maggiore, alla quale risposero le altre. Allora, levatasi in armo tutta Pisa, e Cinzica postisi a capo dei suoi concittadini, corsero là dove il pericolo era maggiore; e que' barbari, sopraffatti da tanto impeto non aspettato, furono colti da spavento, e fuggirono precipitosamente, lasciando, non solo libera Pisa, ma anche molti de' loro, morti e prigionieri. Così a città fu salva per il mirabile coraggio di questi valente fanciulla; alla quale i Pisani per atto d riconoscenza posero una statua, e chiamarono del suo nome quella parte di città che riedificarono sulle rovine lasciate dai Mori. Il nome di Cinzica è tuttora popolare a Pisa." Il discorso della Giulietta fu applaudito, come fu la domenica passata quel della Elisina; ed anche qui volle mettere il becco in molle prima di tutte la vispa Egle, trovando da ridere sulla troppo audacia di Cinzica, disdicevole, secondo lei, a una giovine nobile e gentile; ma e la direttrice e il maestro le turarono presto la bocca, ricordandole altri esempj simili di storie antiche e recenti, ed assicurandola che, se non istà bene, così in generale, alle donne, il buttarsi là all'impazzata tra' pubblici tumulti, questo non vuol dire che non sieno da reputarsi vere eroìne quelle le quali con atti di vera prodezza onorarono il proprio paese, e lo salvarono da estremo pericolo. "Piuttosto, continuò il maestro, poteva la signora Eglina aver notato nel discorso della signora Giulietta qualche improprietà ed erroruzzo di lingua, se pure fosse stata sufficiente a conoscerlo. Ma... - Ma, continuò la direttrice, la signora Eglina, che per età non può essere in grado di conoscer gli errori di lingua, ha pur voluto dir qualche cosa, per la sua smania soverchia di mostrarsi accorta e spiritosa." La Egle si fece rossa ed ammutolì; la Giulietta però con bel garbo pregò il maestro che le notasse gli errori da lei fatti, per potersene correggere; ed il maestro, lodato prima il componimento di lei, e compiacendosi del vedere che queste sue correzioni portavano buon frutto, perchè essa aveva ben dichiarato che il secolo XI comincia coll'anno mille uno, e va fino al mille cento, cosa non bene compresa dalla Eglina nel racconto della domenica passata, incominciò così: "Ella ha detto che appena si crederebbe l'atto di Cinzica, se non lo si vedesse raccontato, ecc. Tal modo lo si fa, lo si dice, che è ora abusato dai Lombardi, benchè contrario alla ragione grammaticale, fuorchè nell'uso speciale di alcuni verbi, è contrario pure al buon uso toscano. Ha detto pure che Cinzica era appartenente alla famiglia Sismondi: questo non dico essere errore, ma è modo improprio, come quello che rappresenta Cinzica per una appartenenza qualunque, e poteva dirsi più spicciativamente e più brevemente, nobil fanciulla della famiglia Sismondi. Ha scritto che si dovesse quando occorresse il bisogno, senza badare a quel mal suono del dovesse e occorresse, e senza pensare al modo toscano, più efficace e più spicciativo, che si dovesse, al bisogno, o a un bisogno, o a un bel bisogno. Due volte ha usato la particella gli per a lei femminino, la qual cosa, se può comportarsi nello stil famigliare: va fuggito in istile sostenuto. Nemmeno la frase mettere ad esecuzione per mettere in atto non è troppo elegante. La voce flotta per armata o naviglio, è brutta e falsa. Invece di dire con troppa affettazione che Musetto: colto il destro and� a Pisa, poteva dire più toscanamente, e più schiettamente, veduto il bello. E così potrei notare altre piccole cose, che io lascio per non parere di voler rendere men bello queste bel raccontino. La direttrice però aggiunse: "Mi perdoni la cara Giulietta; ma anch'io voglio notarle due inesattezze, a cui il signor maestro non ha per avventura badato. Lasciamo andare quella frase stare alla toelette, brutto francesismo, che poteva sostituirsi con lo stare alla spera o allo specchio; ma il dire che Cinzica non faceva tutte le mode, e non era vaga di teatri, accenna ad assoluta ignoranza delle condizioni di que' tempi, quasi che allora ci fosse come ora la moda col suo figurino, e i teatri al modo presente. Non dico questo per biasimare la Giulietta, che non può certamente ancora sapere qual fosso il vivere di secoli tanto remoti; ma per fare accorta lei e lo altre a non ricadere In tali anacronismi; e quando hanno dei dubbi a farsegli chiarire, o da me o dal signor maestro." La Giulietta, invece di aversi a male di questa censura, rise suo B tuba della sua semplicità, e ringraziò la direttrice o il maestro dei loro o amorevoli ricordi.

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Quando la volta passata lesse la signora Zaìra vi ricorderete eh' io dissi della gran compostezza di tutte le alunne, e della grande aspettazione che v' era di sentirla leggere adesso che leggeva ella da capo, la medesima compostezza e la medesima aspettativa; tanto che la buona fanciulla, sapendo che da lei si aspettavano di gran cose, erasi messa in apprensione, e andava a leggere con qualche peritanza, come quella che era modestissima, nè si reputava a mille miglia quale la reputavano le compagne: tanto più poi che aveva alle mani un soggetto da non potersi trattare senza qualche studio e difficoltà. Ad ogni modo si fece animo ed andò, e lesse come ora udirete: " Il soggetto che m' ha dato a trattare per oggi la nostra amata direttrice è troppo grave peso alle mie povere spalle; e voi tutte, spero, mi compatirete, se io nol saprò trattar degnamente. Debbio raccontarvi, come sapete, la vita della Maria Gaetana Agnesi, di una donna che ebbe animo e mente virile nel contemplare il vero, e nelle più gravi discipline: a cui le più alte speculazioni non furono argomento di vanità, ma se ne fece scala a Dio, come acconciamente dice un suo dotto biografo; pur tenendo la mente nelle sovrane cose di eccellente dottrina, ebbe l' occhio alla terra: e che nel tempo medesimo sentì ardentemente tutti gli affetti di famiglia, ed esercitò ogni più bella virtù propria alle donne. Nacque essa in Milano nel 1718 di nobile stirpe, nè tardò molto a dar segni manifesti del suo acuto ingegno ed ottimo cuore; chè, andando per la curiosità naturale a' fanciulli, a sentire le lezioni di lingua latina che si facevano da un maestro privato al suo fratellino, s' invaghì maravigliosamente di quella lingua, ch' ella imparò con rara facilità. I genitori, veduta questa sua inclinazione alle lettere, la incamminarono per quella via; la quale fu corsa valorosamente dalla egregia fanciulla, portata dal proprio ingegno, e spronata dal desiderio di contentare il padre, che ella amò sempre tenerissimamente. Insomma, vi dirò, per abbreviare, che il francese lo parlava bene di cinque anni: di nove anni sapeva il latino, nella qual lingua stampò allora una sua orazione in lode delle donne: di undici sapeva la lingua greca, non così alla meglio tanto per intender gli scrittori, ma da poterla parlare andantemente ed anche della ebraica volle avere qualche conoscenza; senza parlare del tedesco e dello spagnuolo. Prova del suo studio e della sua prontezza nell' imparare è l' aver essa, nell' età di soli tredici anni, tradotti tutti i supplementi del Freinsenio a Quinto Curzio in quattro lingue, italiana francese, tedesca e greca: quanto però più sapeva, e più cresceva nella nostra Gaetana l'amor dell' imparare, per che si diede con ardore alla filosofia ed alle altre scienze speculative. Come per altro ell' era innamorata della verità, e voleva vedersela sfavillare dinanzi agli occhi in tutta la sua viva luce, così fra le altre discipline predilesse le matematiche, che sempre sono state lodate di meravigliosa evidenza; nelle quali fece tanto profitto che ancor giovanetta ne ragionava, fondatamente, e ben presto venne in tanta eccellenza che scrisse un dotto Commento sulle Sezioni coniche del marchese dell' Hopital, ed un bellissimo trattato sui Calcoli differenziale e integrale. Non abbandonò tuttavia gli studj di lettere, nè delle altre parti della filosofia meno severa: i poeti leggeva volentieri e gli gustava; ma non volle mai scriver versi, benchè fosse di vivacissima fantasia. Era per altro di piacevolissima conversazione, e vaga di ragionare di studj e di scienze con persone dotte, le quali accorrevano alla fama del suo sapere, ed erano da suo padre accolte nella propria casa; dove si tenevano formali accademie, discutendovisi le più alte speculazioni scientifiche, nelle quali la Gaetana era da tutti ammirata e reputata un oracolo. Ella nondimeno, nutrita com' era della vera filosofia, non si inorgoglì delle lodi; e conoscendo la vanità delle cose umane, non si lasciò vincere all' ambizione; quanto più cresceva la sua fama, tanto più ella diventava umile e modesta. Era poi religiosissima, e a diciott'anni fece proposito di farsi monaca: se non che vedendo che suo padre se ne sarebbe accorato troppo, abbandonò tal pensiero, contentandosi di non più tenere quelle conversazioni scientifiche, e di far vita ritirata, lontana da ogni distrazione; la quale dielle agio di crescere sempre più in dottrina ed in sapere. E di fatto tal conto si faceva del suo valore scientifico, che gli uomini più illustri del suo tempo si onoravano di aver corrispondenza con lei, e a lei ricorrevano per consultarla circa le più ardue quistioni delle scienze matematiche. Ma la prova più luminosa della sua eccellenza nelle matematiche è la sua opera delle Istituzioni analitiche, pubblicata nel 1748, che sarà sempre reputata classica dai cultori della scienza, e per la quale meritò che Benedetto papa XIV la chiamasse alla cattedra onoraria di Analisi nella Università di Bologna. Pregio singolare poi di essa opera è quello di essere scritta in buona lingua italiana, tanto che si vede ora citata fra i Testi di lingua dall' Accademia della Crusca, a rimprovero e vergogna de' famosi professoroni di matematica odierni, che sciattano orribilmente la nostra bella lingua. "Fin qui abbian parlato della Gaetana Agnesi come letterata e come scienziata: veggiamola adesso come donna, e non dubito che concluderete meco, essere le sue virtù. domestiche da pareggiarsi a' più nobil suoi pregj. Restò senza madre all' età di soli quattordici anni; e suo padre prese un' altra, e poi un' altra moglie, dalle quali replicate nozze ebbe ventitre figliuoli: eppure tra sì numerosa famiglia la Gaetana adempiè tutte le parti di ottima madre, attendendo amorosamente alla educazione dei fratelli e de' fratellastri; mostrando così che gli studj e il vero sapere non sono impedimento alle virtù domestiche. Quegli studj però e quel sapere le furono scudo efficace contro le più attraenti seduzioni, e la fecero più che donna. Essa fu della persona bellissima e ben disposta: maravigliosamente formosa.; gentile quanto può esser gentile una donna: occhi e capelli neri, il tipo insomma della bellezza, con parlar soavissimo. Con tante e sì rare doti dell' animo e della persona, vi lascio pensare se fu lusingata da' più illustri partiti di matrimonio; ma la savia fanciulla, fin dalla prima giovinezza, aveva proposto di dare tutto il, suo affetto al padre ed alla famiglia, nè però cedè mai a veruna lusinga, o si lasciò vincere all' ambizione; venuta poi l' età matura allargò il suo amore a tutta l' umanità sofferente, e tutta a quella si diede. Mortole allora il padre e parecchi fratelli, abbandonò ogni corrispondenza con letterati e scienziati, ed ogni altro pensiero di mondane vanità, visitando invece con ardente carità gl' infermi della sua parrocchia e quelli dello Spedal Maggiore. Poi, come la carità sempre più si accendeva, così in certe stanze appartate della casa raccolse delle povere inferme, alla cura delle quali affettuosamente attendeva; e non bastando a ciò le proprie rendite e le privazioni ch' essa faceva, si ridusse a vendere tutti i preziosi suoi arredi e le gioje; tra le quali un ricchissimo anello e una scatola di brillanti, magnifico dono fattole già dalla imperatrice Maria Teresa, allorchè le dedicò la sua grande opera delle Istituzioni analitiche: nè bastando più alla sua casa, ne prese una a prigione la sua vita, assistendo amorosamente alle inferme. Sull' esempio per avventura, della nostra Maria Gaetana, nel 1771 il principe Triulzio fondò in Milano uno spedale per i vecchi infermi e poveri di ambo i sessi; e l'arcivescovo offerse alla Agnesi l' ufficio di visitatrice delle inferme, e anche di direttrice dello spedale delle donne; santa donna, non solo accettò di gran cuore, ma andò a stare nello spedale medesimo, dando tutto sè stessa al soccorso degli infelici. In quel nobile esercizio di carità ella visse quindici anni; giunta allora all' ottantunesimo anno, morì santamente il dì 9 di gennajo del 1799 compianta universalmente. "Io vi ho raccontato in poche e disadorne parole, conchiuse la signora Zaira, la vita di questa rara donna, la quale mi pare di non dir troppo, se affermo che raccolse in sè sola le più belle virtù, delle illustri donne, di cui si sia mai parlato in questa sala, ed in tutte fu eccellente. Ella scienziata solennissima tanto che le sue opere non pure son giudicate classiche per la parte scientifica, ma sono scritte con ogni proprietà, e purità, e citate dalla Crusca per testo di lingua, come dianzi vi ho detto: ella può stare nel primo ordine tra le benefattrici della umanità, e può bene stare accanto alla buona Rosa Govona, della quale udiste le rare virtù domenica passata; ella rarissima e forse unica nella modestia, e nell'aver saputo vincere quel nemico formidabilissimo noi altre donne, dico la smania di comparire e belle e istruite, o in altre parole, e per chiamare pane il pane, la vanità." Il maestro, tornata che fu la Zaira al suo posto, le rivolse parole di gran lode; e poi le disse ridendo: "Ella ha toccato con molto accorgimento il fatto di certi professoroni che scrivono pessimamente, ed ha fatto bene. Pur troppo anche questa è una vergogna per Italia, che quasi tutti gli scienziati scrivano barbaramente: e più vergogna ancora, che la loro ignoranza vogliono ricoprire con certe loro chiacchiere, allegando che bisogna guardare alle cose e non alle parole; che lo studio delle parole è cosa da pedanti: ed in alcuni va tanto oltre la forsennatezza che, per iscusare la loro supina ignoranza, sfatano i buoni studj, dispregiano chi gli coltiva, e giungono persino a dire che la lingua italiana non si presta a scrivere di cose scientifiche!!... Di costoro non voglio parlar troppo qui, che direi cose poco convenienti a questo luogo. Dirò solamente che il loro procedere, non pure è vergognoso, ma è vile: che non fanno così gli scienziati delle altre nazioni; arrossirebbero di trascurare gli studi delle lettere, e di scrivere male la loro lingua. Circa poi al non essere la lingua italiana acconcia a scrivere di cose scientifiche, tal proposizione è così stolta, che il combatterla sarebbe vergogna per un italiano; per un cittadino, dico, di quella nazione, che in ogni parte di scienze ebbe scrittori solennissimi in ogni secolo, tra' quali vi sono Dante, Machiavelli, G. B. Gelli, Monsignor Piccolomini, il Muzzi, il Bocchi, il Galileo, il Redi, il Magalotti, il Viviani, il Del Papa, il Cocchi, gli Zanotti, con altri infiniti e per l' ultima la stessa Gaetana Agnesi. Ma i nostri professoroni il più degli eccellenti scrittori di scienze non gli conoscono nemmen per nome.... Basta, l' ora è passata, e fo punto. Altrove parlerò di proposito contro questi ciarlatani."

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Questa Diamante nacque a Savallo, in quel di Brescia, sul principio del secolo passato. Da piccina stette molto tempo appresso un suo zio parroco, il quale, conoscendo aver ella ingegno pronto e vivace, si mise a insegnarle la grammatica italiana, a farle fare qualche composizioncella, a darle a leggere de' buoni scrittori italiani, più che altro poeti; alla lettura de' quali ella si dilettava molto, provandosi anche a far de' versi. Uscita dall'infanzia, suo padre, medico a Castrezzate, l' andò a riprendere per ricondurla a casa; e vedutala così bene avviata, e così amante dello studio, le volle insegnare anche la lingua latina, nella quale profittò maravigliosamente, scrivendola in processo di tempo con molta lode. Di quindici anni aveva composto varj sonetti, che dagli intelligenti furono giudicati una gran bella cosa; e quando, poco di poi, andò a Brescia, dove già sonava la fama di lei, vi fu accolta come un miracolo di donna, da tutti coloro che si intitolavano poeti: e da quel punto ogni pensiero di lei non fu altro che per la poesia. I suoi versi, finchè ella fu giovane, non cantavano se non di amore, alla petrarchesca, o soggetti molli e soavi, o canzoni e poesie per nozze, per monacazioni, per lauree: ma preso che ebbe marito, e andata a Salò, le venne in uggia quel verseggiare cose da nulla, e si diede alle più gravi, tra le quali ce ne ha di quelle trattate proprio da maestra. La sua fama insomma era molto distesa; e non c' era forestiero che visitasse le deliziose sponde del lago di Garda, che non volesse farle riverenza. Fu la nostra Diamante aggregata alle accademie di Salò, di Roveredo, di Padova; e non si domanda se fu pastorella d' Arcadia. È vero per altro che non fu solo scrittrice di versi; anzi le sue prose si reputano anche più facili e più eleganti de' suoi versi; nè mancano di ottime cose e di pensieri gravi, con utilissimi ammaestramenti: sopratutto però sono di gran pregio le sue Lettere familiari, delle quali fu stampata una bella raccolta, aggiuntovi un bello e dotto ragionamento circa agli studj convenienti alle gentildonne. Volle darsi anche allo studio delle matematiche e della geometria, nelle quali discipline fece prova eccellente sotto la direzione del conte Soardi. Scriveva con eleganza il latino e il francese: sapeva di astronomia e di filosofia; nè era tanto digiuna delli studj teologici, che non potesse acconciamente favellarne coi teologi di professione. Morì nel 1770 a Salò, il 13 di giugno; ed i più valenti scrittori di quel tempo degnamente celebrarono in versi e in prosa la memoria di lei. Qui si tacque la Vittorina, a cui non mancarono i consueti applausi, cessati i quali, il maestro le domandò: "Ma dica un po', Vittorina, perchè le sono antipatiche le poetesse?" "Perchè, rispose secca secca la Vittorina, ne conosco io due o tre, che, a stare una mezz'ora insieme fanno venire il latte alle ginocchia con le loro svenevolezze; e benchè io sia così di poco studio, mi par di comprendere che, se è cosa veramente difficile lo scrivere vera poesia, ed il fare opere poetiche degne di eterna fama, a far de' versi come tanti e tanti gli fanno, non ci voglia poi la sapienza di Salomone. Circa alle donne poi io credo che di quelle capaci di scriver versi degni di eterna fama, ce ne sia pochine e pochine bene; ma quasi tutte sieno state e sieno buone a far versi misurati collo spago." "Nel suo ragionamento c'è qualche parte di vero; e le dico schietto che non parmi possibile essere tutta quanta erba del suo orto: quelle parole per altro che riguardano le donne, non solamente sono troppo acerbe, e false in gran parte, ma troppo mi meraviglia il sentirle dire da lei, che pure è donna come le altre. Non si abbia per male, se le dico di sospettare che ella parli un poco a passione, per animosità che ella abbia con qualche poetessa vivente". Il maestro non parlava a caso, come quegli che sapeva, essere una delle poetesse rammentate della Vittorina amica di sua madre, dalla quale spesso andava, ed a lei faceva delle prediche, per la qual cosa fieramente avevala presa a noja. Essa per altro rispose con qualche dispetto: "Io non ho animosità per nessuno; ad ogni modo pigli quel che c' è di buono nelle parole mie, il rimanente lo lasci stare." Di buono e di vero c' è, rispose il maestro, quel che la dice di non essere comportabili i poeti mediocri, ed essere i poeti eccellenti rarissimi. Il far dei versi non è cosa per niente difficile a chi tanto o quanto ha studiato le lettere, o gustato le opere dei grandi poeti; come se ne ha la prova nel numero stragrande dei verseggiatori che sempre ci sono stati, ci sono e ci saranno in ltalia; tutta gente, della quale non si parler� più nel tempo avvenire, ch anche di alcuni di quelli i quali hanno grave nomea al presente. La storia della letteratura no ammaestra, che non pochi poeti hanno avuto gran fama ai loro tempi e che di loro, o non si ricordono adesso nè anche i nomi, o che sono reputati degni di biasimo anzi che di niuna lodo. L' acquistar fama tra' presenti procedo da molte cose, lo quali col merito non hanno niente che fare; il favore dei grandi, le lodi su pei giornali, comprato a poso d' oro, e spesso scritte dall'autore proprio: il lusingare certe passioni delle moltitudini: l' atteggiarsi a poeta civile, e a' giorni nostri il gridar fuori i barbari, morte a' tiranni, viva l' Italia, stemperando queste nobili idee in un diluvio di versi vieni delle più strane immagini, delle più pazze metafore, e delle più bestiali parolaccie. Sopra tutto poi giova il farsi poeta di una setta, declamando in versi parte pedanteschi e parte spiritati, le più esagerate, pazze ed empie follie, mettendosi in capo un berretto frigio. Allora i caporioni della setta ti portano a' sette cieli: danno voce a' lor fattorini, i quali strombazzano il gran poeta per ogni cantuccio d' Italia: questo schiamazzo sopraffà molti poveri di spirito, i quali credono proprio vere e meritate le lodi; e quel che è più bello che il gran poeta le crede vere anch' egli, e se ne pavoneggia... Ma chi alle grida non si lascia intronare; chi le cose giudica secondo le regole certe della, critica, ride di queste commedie: stima que' poeti matt�gioli per quel che vagliono, e non dubita punto che la loro gran nomea debba morir con essi. Questo per altro non è luogo o tempo da tali discussioni; e torno alle donne. Qui la signora Vittorina è stata troppo severa. Non dirò che tutte le poetesse sìeno veramente degne di quel nome, che per dirlo con Dante, più dura e più onora; nè anche tutte quelle la cui vita è qui stata letta: ma circa alle donne militano in favor loro molte considerazioni. Prima di Vitto bisogna pensare che essendo la donna, e per natura, e per educazione, e per il buon procedere del viver civile, destinata al governo della famiglia, e non agli studj, molto più sono da valutarsi i pregi delle donne in questa materia, che quelli degli uomini. Poi bisogna pensare quanti meno ajuti ha una donna per progredire negli studj: non può andar liberamente a udir lezioni di valentuomini per gli atenei e per le università: nelle pubbliche biblioteche non va: non conversa così liberamente co' letterati di una città, nè va a' ritrovi loro privati. Con tutto questo per altro molte poetesse hanno scritto cose degne di gran fama; e si possono senza scrupolo paragonare co' migliori poeti. Delle donne che scrivono qualche versucciaccio per semplice vanità, per far le leziose nelle conversazioni, e per aver lodi ne' giornali volanti, non accade parlarne: esse hanno la derisione dei savj: il castigo che meritano per altro lo dànno loro le amiche e le compagne, e però le lasceremo noi ben avere senza dirne nè bene nè male." Come il maestro si tacque, venne fuori una delle fanciulle a domandare: "Dica, signor maestro, la Vittorina a detto che la Faìni fu pastorella d' Arcadia: che cosa son le pastorelle d' Arcadia?" "Glielo dirò un altro giorno, rispose il maestro, perchè la signora direttrice fa cenno di dovercene andare."

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Quando le signorine con la direttrice entrarono nella sala, trovarono la signora Laurina già seduta al suo posto, la quale tutta ridente disse loro: "Mi ricordo l' amorevol rimprovero che mi fece la direttrice per essermi fatta aspettare quando mi toccò a legger la vita della Vittoria Colonna; e non ho voluto rinnovare oggi: ecco perchè ho voluto piuttosto aspettar io tutte loro." E levato il suo quadernetto dalla borsa, lesse: "Oggi non ho alle mani argomento così abbondante come quando scrissi, per leggerla qui a voi altre, la vita della Vittoria Colonna; ma tuttavia anche la Camilla Fenaroli, di cui oggi debbo parlarvi, non è indegna di essere ricordata e proposta ad esempio. La Colonna era marchesa e nobilissima: contessa e nobilissima fu la Camilla, come quella che fu la della illustre e antica casa Solano di Asti, in Piemonte, benchè ella nascesse in Brescia. Da giovanetta non dava punto segni di dover riuscire quell' ingegno ricco e vivace che poi riuscì: aveva per altro molto brio, con una accesissima immaginazione; e però si buttò con ardore alla lettura dei romanzi. Non indugiò molto per altro ad accorgersi quanto simili letture fossero pestilente veleno al cuore ed allo spirito; e però, dato un calcio a' romanzieri, si volse a' poeti classici, la lettura assidua de' quali accese in lei il fuoco poetico, che diede lucida fiamma quando essa, andata sposa del conte Ottavio Fenaroli, potè comparire nel mondo, e fare apprezzare le rare sue doti. Nel comporre ella studiava alla perfezione: amava appassionatamente lo studio, e la lettura de' nostri grandi scrittori; ma non dimenticò mai di esser donna, moglie, madre; dacchè il marito amava e riveriva come ogni buona e geni il moglie dee fare: i figliuoli allevò ed educò da sè, usando con essi ogni più amorosa cura; da sè attese al governo della famiglia. Venuta in età, matura, si volse a studj più gravi, coltivando di preferenza la filosofia, massimamente la metafisica; e quanti allora tale scienza professavano, tanti la reputavano in quella eccellente, e con lei ne conferivano le più alte speculazioni. Pervenuta quasi alla estrema vecchiezza, morì istantaneamente verso la fine del secolo passato. "Ecco le notizie da me potute raccogliere sopra questa valente donna: se esse sono scarse, datene la colpa ai tempi procellosi che alla sua morte correvano, ne' quali a poco più si attendeva da ciascuno che alle cose di guerra e di politica; e molti libri, e molte carte andarono disperse: a me poi date tutta quanta la colpa, se questo mio discorso è così disadorno e mal composto." Tutte le compagne applaudirono, dicendo anche amorevoli parole alla Laurina: dopo di ciò la direttrice disse con solenne gravità: "La vita della Fenaroli, scritta e detta con molto garbo dalla signora Laurina, è un poco asciutta di notizie; ma però contiene un efficacissimo ammaestramento per tutte le gentili fanciulle. Nella prima sua gioventù quella valente donna si perdeva nel leggere i romanzi; ma come Dio le aveva dato buon senno, conobbe da sè medesima quanto era pericolosa lettura sì fatta: l' abbandonò in tempo da non sentirne verun effetto: e si volse animosamente ai buoni studj. Vorrei adunque che a tutte le fanciulle d' Italia fosse noto questo fatto della buona Camilla, e che tutte ne prendessero stimolo ad imitarla: dico tutte, e dovevo dire tutte quelle che impazzano dietro a' romanzi, le quali per altro sono un numero quasi infinito. Lo credano, signorine, non ci ha lettura più velenosa di certi romanzi che tanto allettano le giovani menti: il loro veleno poi è di tanto più pericoloso quanto nel primo gusto è dolcissimo ma uccide, o almeno altera e guasta così il cuore e la mente, che anche gli animi più ben disposti naturalmente, ne divengono una cosa compassionevole, e spesso ridicola. In quei libri sono generalmente ritratte le più ardenti, le più feroci passioni; e vi sono trattate anche esageratamente, con tutti i più strani e lusinghevoli casi di esse: amori scandalosi ed osceni: orribili vendette: fatti spaventosamente feroci: esempj di gravi delitti riusciti a buon fine: dispregio di ogni cosa Rosa Govona Parte II - X più santa e più reverenda: scherno di ogni principio morale: lusingata ogni più rea passione. Come dee fare, chi si nutrisce di questa roba, a non guastarsi e divenir pazzo o cattivo? Io parlo qui a signorine, e non è dicevole che a voi dica apertamente tutte le parti brutte delle lettrici di romanzi: vi leggerò nondimeno il ritratto che di una delle cosi fatte scrisse Giuseppe Manzoni nella sua operetta Ritratti critici. Ecco qui: "Matilde immagina gli eroi come possono essere, non come sono: vorrebbe che gli eventi, e le persone del mondo, succedessero, pensassero, operassero secondo la sua strana fantasia. Niuno è, secondo lei, fedele in amore, niuno è veramente valoroso. Non c'è donna bella, che a lei paja un' arpia; nè savia, che non la reputi sciocchissima. Niente cura, tutto disprezza: però tratta ciascuno con tale cortesia e gentilezza affettata, che stomaca. Ghigna, sorride, loda, ammira, fa carezze svenevolmente: è cascante di vezzi: pensa ed opera diversamente da chichessia; i suoi pensieri tendono al sublime; le sue parole sono scelte, e contengono sentenze da oracoli. I savj la dileggiano: vorrebbe acquistare naturalezza, e domandò a me il modo. "Io le risposi Bruciate tutti i Romanzi. "Questo scrittore ha toccato solo la parte ridicola; ma quanto ci resta da dire per l' altra parte dolorosa e dannosa? ... Basta, loro son savie e bene educate: sarà assai l' aver loro accennato il pericolo: e non dubito che lo sapranno fuggire." "Signora direttrice, disse qui la Bettina, ella ha parlato di alcuni romanzi: ma dunque vuol dire che non tutti sono pericolosi." "Ho detto alcuni a bello studio; e, se ella o qualcun' altra non mi avesse domandato nulla, io stessa avrei detto altre parole sulla materia dei romanzi. Dico loro per tanto che a' giorni nostri alcuni valentuomini, vedendo che la gente si volgeva alla lettura di tali libri pericolosi, e conoscendo che ogni argomento sarebbe stato vano a distogliernela; che fecero? " Scriviamo, dissero, de' romanzi anche noi; ma scriviamoli in modo che il buon costume non se ne vergogni: che non accendano a ree ed eccessive passioni, ma a nobili e temperate: che al diletto uniscano anche la istruzione; e così a poco per volta, se non tutti, molti almeno si volgeranno a leggere questi nostri, piuttosto che quegli altri." E così fecero: e così, primo Alessandro Manzoni scrisse quel suo mirabile racconto de' Promessi Sposi, e poi vennero il Grossi col Marco Visconti, il Canta con la Margherita Pusterla, il D' Azeglio con l' Ettore Fieramosca e col Nicolò de Lapi, lasciando stare altri minori, che pur seguitarono quel modo. I loro Romanzi dunque io intendo di non confondere con gli altri da me fieramente biasimati: e quelli credo che qualunque onesta e ben creata fanciulla gli possa leggere senza pericolo."

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La signora Rosina, a cui toccava il leggere la Vita, comparve nella sala tutta allegra in vista, e fatta riverenza alla direttrice ed al maestro, salì al suo posto, e cominciò: " Bisogna ch' io mi faccia dal ringraziare la nostra cara direttrice per lo scambio fattomi del tema del mio discorso. Quello assegnatomi dapprima, non posso negarlo, era contro al mio genio, e non sapevo indurmi a trattarlo questo datomi in sua vece, è veramente secondo il mio cuore e lo tratto proprio di gusto. Vi parlerò di una donna nobilissima, di alti spiriti, o operatrice di fatti magnanimi, dico della Clarice de' Medici. Nata essa a Firenze in quella casa de' Medici, che fin d' allora agognava alla signoria della sua patria, anzi aveva gi�, ordita la rea tela, fino da bambina potè osservare le arti che i suoi parenti usarono per colorire il perfido disegno, e fieramente le dispiacevano. Venuta in età da marito, fu data per isposa a Filippo Strozzi, che era il primo cittadino di Firenze, ed il più ricco di tutta l' Italia; il quale, benchè non avesse un proposito fermo in politica, ed anzi in più, occasioni avesse favoreggiata la casa Medici, tuttavia quando vide che il cardinale Ippolito voleva davvero farsi tiranno della sua patria, si dichiarò apertamente contrario; e da Roma, dove allora abitava, cominciò a tener pratiche coi congiurati. Quando poi fu il tempo, palesò ogni cosa a madonna Clarice sua moglie, la quale, non pure gliene diè lode, ma volle essa medesima aver parte efficace nel salvare la libertà della sua patria, al qual fine cominciati già in Firenze i tumulti contro la famiglia de' Medici, ella venne a posta da Roma, per abboccarsi con tutti gli amici e aderenti, e per confortargli nel proposito di salvare la libertà, promettendo loro ogni ajuto. Anzi non dubitò di presentarsi ella medesima ai suoi ambiziosi congiunti, e dir loro: Che i suoi antenati avevano tanto potuto in Firenze, quanto aveva lor conceduto il popolo; e alla volontà di quello avevano ceduto quando se ne andarono l' altra volta: così facessero adesso, che sarebbe il loro meglio. Intanto i tumulti si facevano maggiori in Firenze, dove già era tornato anco Filippo Strozzi: e radunatosi il Consiglio grande, si deliberò che i Medici dovessero andarsene; e lo stesso Filippo significò a quegli ambiziosi tal decreto, i quali presero tempo a rispondere. Ma la risposta facendosi troppo aspettare, madonna Clarice andò animosamente nelle loro stanze, e fatto ad essi acerbo rimprovero per il mal governo loro, e per la loro smoderata ambizione, tanto gli sbigottì, che gli indusse a partire, il che fu a dì 17 di maggio del 1527. Madonna Clarice sopravvisse poco; e morì nell' anno seguente, compianta da ogni buon cittadino. "Dal libro che mi ha dato e leggere la signora direttrice non ho potuto raccogliere altro che queste notizie di madonna Clarice; ma queste mi pajono più che sufficienti a provare la grande prudenza e l'animo virile di quella donna; r quanto può produrre di splendidi effetti la nascita illustre e la buona educazione. Donne volgari e senza buona educazione, fanno come abbiam veduto fare alle donne di Messina, delle quali ci parlò la Nina; e come le donne francesi della Rivoluzione, delle quali ci parlò la signora direttrice: la nostra, con la prudenza, con l' autorità, e con ardite e gravi parole agli oppressori della libertà, liberò la sua patria." "La signora Rosina, disse qui la direttrice, almanacca sempre con la nobiltà, con la nascita illustre e con altre simili cose; ma chi le ha detto che il generoso atto di madonna Clarice procedesse solo da ciò? Basta, non rientriamo in questa materia della nobiltà; e facciamo piuttosto notare a queste signorine come la città di Firenze, e la fiorentina Repubblica, quello che acquistò per la prudenza e per l' animo virile di una donna, lo perdè ben presto per il poco senno de' Fiorentini, e per la sventura sua propria. I Medici furon cacciati, è vero; ma partirono col pensiero al ritorno; e tra perchè i Fiorentini si perdevano in vane dispute, e perchè non pensarono di proposito ad assicurare la fresca liber si trovaron poi addosso quella spietata guerra di papa Clemente VII, ajutato dall' imperatore Carlo V, per la quale Firenze fu assediata, la Repubblica uccisa e ricondotti i Medici, non più come cittadini ma come principi assoluti. E quel Filippo Strozzi, marito della Clarice, dopo aver barcamenato in mille maniere, si unì all' ultimo co' fuorusciti fiorentini, i quali tentarono, parecchi anni dopo, di liberar Firenze con l' ajuto di Francia; ma fu preso insieme con gli altri a Montemurlo, dopo aspra battaglia; e chiuso in una fortezza, vi finì miseramente la vita, chi dice ammazzatosi da sè, e chi fattovi ammazzare dal duca Cosimo de' Medici allora regnante." Veduto che la direttrice si taceva, la signora Alisa disse: "Questo ragionamento tutto storico mi fa venire in mente un pensiero: come mai, tra tante donne illustri da noi ricordate, nè meno una ce n' è che abbia scritto istorie? "A questa domanda, disse la direttrice, potrà forse più acconciamente di me rispondere il signor maestro." Ed il maestro: " Che io il sappia fare più acconciamente di lei, ne dubito forte; nondimeno, se a lei piace che la risposta si faccia da me, io la farò. Le ragioni perchè non ci sono storie gravi scritte da donne sono su per giù quelle medesime assegnate qui altra volta per rendere ragione della rarità delle donne scienziate, rispetto alle letterate o alle artiste. Lo scrivere istorie non è opera di semplice fantasia nè a ciò basta il solo pronto ingegno; ma ci vogliono molte qualità che una donna non può avere oltre a quella che ha raramente, di una mente disposta agli studj più gravi e speculativi: ci vuole, diceva, lunga pratica di negozi pubblici; lungo ed assiduo studio degli storici di ogni tempo e di ogni nazione; andare a passare il più del tempo per le biblioteche ed archivi, frugando, interpretando vecchi documenti, facendo spoglj sopra codici di materie diverse: ci vuole una lunga contuetudine del trattare materie politiche; conoscenza perfetta del diritto pubblico, delle leggi che governano la diplomazia, e sottili investigazioni di ogni maniera. Tutte cose aliene troppo dalle consuetudini di una donna, ed alcune anche non possibili alle donne. Ecco perchè non ci sono donne che abbiano composte istorie da potersi veramente dir tali il che per altro non significa che non ce ne possa essere nel tempo avvenire; e che una di queste non possa essere anche la signora Elisina, sol che voglia barattare le cure gentili e benigne proprie delle donne, con le gravissime e laboriosissime degli uomini, anzi lasciando quasi di esser donna e facendosi uomo." Qui le altre alunne fecero una bella risata; e la signora Elisina, ridendo insieme con esse, protestò di voler rimaner donna coni' era: e così di un piacevole ragionamento in un altro venne l' ora del doversi partire, e partirono.

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"Mie care compagne, incominciò la signora Beppina, dopo aver fatto un riverente saluto alla direttrice ed al maestro, l' altra volta, perchè ero un po' malazzata, e perchè il babbo e la mamma non vollero che io uscissi di casa, non potei venire a fare la mia lettura: oggi eccomi qui, ma vi confesso che ho la tremarella, dubitando di mostrarmi troppo mal adatta al mettere in carta; e tanto più grave sarà il mio rossore quanto appunto mi tocca a parlarvi di una donna valentissima e perfino laureata in legge. Basta, Dio m' ajuterà, e voi sarete benigne agli spropositi che dirò. "La illustre donna che è soggetto del mio discorso si chiamò Maria Pellegrina Amoretti, nata ad Oneglia, nel Genovesato, il dì 7 di novembre del 1756. Bazzicando nella casa sua alcuni valentuomini, fino da bamberòttola stava attentissima a udirgli parlare di scienze e di lettere, per le quali mostrò tale e tanta disposizione, e si diede a studiarle potentemente così di buon' ora, che a quindici anni fu in grado di pubblica disputa di filosofia con tal prontezza e sapienza che fanatizzò tutti i suoi uditori e contradittori, i quali dissero apertamente che essa era da agguagliarsi alle più famose donne del tempo passato. Poco dopo volle andare alla Università di Pavia, dove messasi a studiar legge, e sgobbando a più potere, fece meraviglioso progresso, di modo che, compiuti appena i ventun anni, fu addottorata in giurisprudenza, in quella medesima Università, il dì 25 di giugno del 1777. La cerimonia del conferimento della laurea fu fatta nel modo il più solenne e più brillante: ella sostenne in quel giorno medesimo parecchie tesi con una sicurezza e con una aggiustatezza sorprendente; le quali tesi furono poi stampate, e dedicate a Beatrice d' Este, arciduchessa d'Austria, e governatrice di Milano, la quale fece sontuosi regali alla giovine dottoressa. I migliori ingegni di quel tempo la celebrarono con altissime lodi; e il giorno del suo dottorato, dopo essere stata insignita dell' anello dottorale, le fu donata, e posta ad armacollo, una bella ciarpa, ricamata ad oro ricchissimamente, sulla quale era scritto queste parole (che io copio tali e quali, ma non le intendo): Ob juris seientiam Aeademia Tieinensis dat libenter merito; e sopra ciò le fu presentata una corona d' alloro. Insomma, quella solennità fu rimarcabilissima e da registrare nei fasti della Università di Pavia. La Amoretti visse altri ventitrè anni, sempre immersa ne' suoi cari studj; e morì sul principio del secolo presente di anni, quarantasei, per malattia infiammatoria, essendo tuttora fresca e benportante, da fare sperare nobili frutti ciel suo ingegno." Appena la Beppina, ebbe finito di leggere, si alzò tutta rossa nel viso, e corse al suo posto col capo in seno, quasi volesse nascondersi dalle compagne, le quali, per farle coraggio, le furono larghissime di applausi e di brava. Vi ricorderete che questa Beppina ve la diedi l' altro semestre per la più svogliata di tutte, e la meno atta forse ad imparare; tuttavia, dopo avere scritto quella lettera, ed esser mancata al suo dovere di leggere la vita, vedendo che la direttrice la trattava sostenutamente, nè mostrava di curarsi se studiava o no; e sapendo anche le censure fatte alla sua letterina; cominciò ben presto a addolorarsi della indifferenza della direttrice, ed a vergognarsi di essere la sola così svogliata tra tante fanciulle di buona volontà: e datasi a studiar di proposito, racquistò ben presto la grazia della direttrice, la quale, non che non le volesse più bene; ma mostrava quella indifferenza e quella non curanza, conoscendo che sì fatto modo sarebbe stato il più efficace per richiamarla al dovere. Anche la direttrice per tanto la incoraggiò molto, e le disse brava, soggiungendo: "Mi ha dato una vera consolazione, tra le altre cose, il sentire che ella ha abbandonato il brutto vizio di dire pappà e mammà invece dei dolci nomi di babbo e mamma. "Seppi, rispose la Beppina, le giuste censure che mi furono fatte qui, or fa sei mesi, quando Gaetana Agnesi Parte II - XI. tali parole scrissi in quella sciagurata letterina; e d' allora in qua non mi sono più uscite di bocca. "Ciò mostra che ella è docile, buona, e facilissima a rimettersi nella retta via: della qual cosa fa prova anche la vita da lei ora letta, la quale, da poche parole non troppo eleganti in fuori, è scritta con assai garbo. "Ella è così buona che lo dice per incoraggiarmi, e la ringrazio: vorrei per altro che, o lei o il signor maestro, mi additassero quelle parole, per potermene guardare altre volte." "Questo è ufficio del signor maestro." "Ed io, soggiunse il maestro, farò il mio ufficio; e prima di tutto farò notare alla signorina che di una gentil donzella, il dire che sgobbava per studiava assiduamente, è un mancare al decoro. Sgobbare lo dicono gli scolari di Pisa parlando de' loro condiscepoli, che il pigro ingegno compensano collo studio continuo, fuggendo ogni lieto ritrovo; e que' loro condiscepoli gli chiamano sgobboni. Ella vede dunque, oltre all'esser tal voce trivialissima, che mal si addice alla Amoretti, fanciulla gentile e di pronto ingegno. Ella ha detto che Maria Pellegrina, sostenendo quella tesi, fanatizzò gli uditori. Queste voci Fanatizzare per Empiere di meraviglia, Rapire altrui coll' eccellenza dell' arte; e Fare fanatismo per essere ammirato ed applaudito, sono, è vero, comuni, massimamente nel linguaggio teatrale ma non resta per questo che non siero stranissimi modi, e da fuggirsi a tutto potere, chi considera il vero significato della voce Fanatico, dalla quale nascono. Parlando della cerimonia della laurea, ella ci ha detto che fu fatta nel modo il più brillante; e ci ha detto per conseguenza una piccia di improprietà: la prima è quella di aver messo l'articolo il dinanzi al più brillante, che è costrutto alla francese, nè la lingua italiana lo comporta, dovendosi dire nel modo più: la seconda è la voce brillante per ricco e splendido, che è pur essa tutta francese. Anche la solennità rimarcabilissima per segnalatissima o notevolissima, è un brutto barbarismo; come pure è barbarismo il dire che la Amoretti quando morì era tuttora benportante; non mancando nella lingua nostra voci acconcissime a significar tale idea, come gagliardo, robusto ed altre secondo la occasione: e nè anche quell' aggiustatezza sorprendente nel sostenere le tesi non è farina schietta italiana, potendosi, e dovendosi dire aggiustatezza o mirabile, o stupenda, o altrimenti secondo l' occasione. Io non ho altro da dire: solo aggiungo che questi sono nèi, i quali non deturpano troppo il bello scritto della signora Beppina. La Beppina ringraziò caramente il maestro e avendo la direttrice dato il segno, le signorine si alzarono per andarsene, quando la Eglina: "Signor maestro, disse, la Beppina ci ha recitate certe parole latine che erano scritte sulla ciarpa regalata alla Amoretti il giorno della sua laurea, le quali parole ci ha detto di non avere inteso neppur ella. Scusi, ve', siamo donne, e per conseguenza curiose: si potrebbe sapere che cosa voglion dire quelle parole?" "Perchè no? Le parole latino erano queste: Ob juris scientiam Acadernia Ticinensis dat libenter merito, che, spiegate, alla lettera, suonano: "Per la scienza del Diritto la Università di Pavia offre di buon grado al merito. La Eglina, a nome anche delle altre alunne ringraziò il maestro; e qui finì per quella mattina la conversazione.

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Toccava la lettura alla giovinetta Livia, a quella che vedemmo aver poca voglia di studiare, e che quando lesse la vita della Tornielli, dovè confessare alla direttrice di essersela fatta fare dal suo fratello. L' amorevole ma acerba riprensione che allora, come ricorderete, le fu fatta, fu la mano di Dio: si diede a studiar di proposito; e fu in grado di presentarsi nella presente domenica con un lavoro fatto proprio da lei, il quale, se non sarà un miracolo, sarà però comportabile. Ascoltate, chè la Livia comincia a leggere. "Stamane mi udirete parlare di una mia concittadina, che ebbe gran fama nel passato secolo e meritò di essere coronata in Campidoglio. Seguitemi col pensiero qua fuor di Porta al Borgo fino in cima a Capo di strada, passato la Filiera la vedete quella casa là interna, assai grande e decente? Alzate il capo sopra la porta, e leggete nella scritta su quel marmo: essa vi dice che lì nacque Corilla Olimpica, tale essendo stato il nome arcadico della Maddalena Morelli Fernandez, di cui oggi vi debbo parlare. La famiglia Morelli abita tuttora quella casa, dove la Maddalena venne alla luce del mondo anno 1728. Studiò con amore fino da primissimi anni; e tuttor giovanetta, improvvisava versi bellissimi, odi, ottave, sonetti, canzoni, e per fino scene di tragedie, anche al cospetto del pubblico; e incominciato a dare accademie anche fuori di Pistoja, diventò ben presto famosa, e fu accolta nell' Accademia di Arcadia, dove prese il nome di Corilla Olimpica, come già vi ho detto, col qual nome più che col suo di famiglia, si chiamò e si chiama ancora da tutti. La fama di lei cresceva un giorno più dell' altro; e venne a tal punto, che fu incoronata in Campidoglio con grandissima solennità, il dì 31 agosto 1766. Tutta Roma quel giorno era in festa: la poetessa era portata al cielo: per dove passava le piovevano addosso nuvoli di fiori, gettati da cardinali, da prelati, da principi, da gente di ogni grado e di ogni paese. Per altro non mancò di addentarla la invidia con satire ferocissime; e il solito Pasquino disse di lei cose villane ed invereconde; ma ella si consolò in quei prodigiosi onori, e nel sentirei molto da più de' suoi invidiosi nemici; perchè veramente era una donna di merito reale, e qualcuna, delle sue poesie non improvvisate mostrano il Suo bello e nobile ingegno, e la vivacissima sua fantasia. Questa però le venne meno all'età di sessant'anni, benchè improvvisasse fino all'ultimo della sua vita, che si spense nel 1800. Una raccolta di componimenti, fatti per la solennità della sua coronazione, la stampò il Bodoni elegantissimamente, ed alla sua morte furori fatti solenni funerali, del quali ci ha un'ampia descrizione; e tali onori le furono dati per impulso specialmente del generale Miollis, comandante delle forze francesi in Toscana, il quale pronunziò anche una enfatica allocuzione, detta nell' Accademia fiorentina, che incomincia da queste parole, le quali vi faranno testimonianza del tutto. Udite, e non ridete, se vi riesce: "Quì, e spesso, furono ascoltati gli armonici suoni della lira Corillina. Tace adesso. Il velo luttuoso che la cuopre ci dice che mai più si udiranno quelle note soavi, che tanto vi hanno incantato;" e così fino in fondo. Vi dirò per ultimo che alla casa dove morì, in Firenze, fu posta una iscrizione, e ci è tuttavia, la qual dice senz'altro "qui abitò Corilla" Non prima aveva finito di leggere la Lìvia, che la signora Giulietta domandò al maestro: "Dica, signor maestro, l' altra sera in casa nostra v' era il signor professore Cantelli, che diceva tutto il male possibile dei poeti, e specialmente delle poetesse estemporanee, affermando che il loro è un mestiere e non altro, e che sono da riputarsi ciarlatani belli e buoni. Aveva torto, o aveva ragione?" "Io non dir� se avesse ragione o torto: solo le dirò che questa è opinione di parecchi valentuomini. Per altro le darò a leggere quel che ne è stato scritto ora di corto da un mio amico, con ragioni calzantissime; ed io per parte mia le dirò solamente che il mondo par che non valuti gran fatto nè gli improvvisatori nè le improvvisatrici, perchè la loro fama dura poco; o questa stessa Corilla, che pure era valente donna anche per altri capi, nessuna più la ricorda, se non per dare un'idea dove può giungere la frenesia, anche de' savj, quando hanno cominciato a pigliare una dirizzone. Anche a' giorni nostri s'è portata alle stelle una vera ciarlatana d 'improvvisatrice... Basta, non tocchiamo questo tasto; e chiudasi la conversazione di stamattina, con la lettura di quello scritto, onde le ho parlato, sopra gl'improvvisatori. Aspetti un momentino, che son qui in un attimo." E di fatto il maestro tornò subito con un libro, dove, trovato il luogo da leggersi, lo porse alla signora Giulietta, la quale a voce alta lesse Questo scritto sugli improvvisatori fu dettato dall'autore: del presente libro nel 1857: Io non ve l'annaquo: Gl'improvvisatori giramondi non son punto nel mio calendario; e penso di loro nè più nè meno di ci� che ne pensava il Metastasio, stato improvvisatore, ed il Giordani che era chi era. - E che dicono il Metastasio e il Giordani? sentiamo un po'? - Oh, lettor mio, tu che mi tagli le parole in tono così tra il beffardo e lo stizzoso, avrei a aver bell' e capito di che panni ti vesti. Che dicono? Leggi la lettera del Metastasio all'Algarotti su questo argomento, leggi lo scritto del Giordani intitolato Dello Sgricci e degli improvvisatori, e lo sentirai quel che dicono. Ma se qui tu vuoi udire, a conto, qualcuna delle loro proposizioni; guarda, ti vo' contentare, mettendotele innanzi perchè tu a tuo talento ti cibi. Il Metastasio chiama a tanto di lettere l' improvvisare un mestiere; e poi senza tanti complimenti, detto che all' aver cessato ai conforti del Gravina, di dire improvviso all'età di sedici anni, crede di essere, debitore di quel poco di ragionevolezza, o di connessione di idee che si trova ne' suoi scritti, soggiunge: Poichè, riflettendo al meccanismo di quell'inutile e meraviglioso mestiere, io mi sono ad evidenza convinto che la mente, condannata a sì, temeraria operazione, dee per necessità contrarre un abito opposto per diametro alla ragione. Il Giordani poi, che era un po' più sciolto di lingua, piglia il sacco per i pellicini e la tira già in modo agl' improvvisatori (ma con ottime ragioni) che, se essi il leggessero, rientrerebbero in un pizzico, e vorrebbero esser cento braccia sotterra. Pigliane già un sa giuoco: Non amerà mai d'essere improvvisatore chiunque possa essere altra cosa. Non è consiglio buono, se non iscusato da necessità, offerirsi immaturo spettacolo, anzichè aspettare che grandi e saldi meriti ci facciano ricercare dai pochi ai molti, e da tutto il nostro secolo raccomandan dare alla posterità. E poi: La professione degli improvvisatori non è altro che LUDUS IMPUDENTIAE (un giuoco di sfrontatezza). Impudentissimi, perchè vi promettono un assoluto impossibile (parlare di ogni cosa improvviso e bene): e quello che non crederebbe mai chi nol vedesse ogni dì, tale promessa viene bonamente accettata dal pubblico, e anche da tali che in altre cose si mostrano assai prudenti. Che ti par egli, lettore stizzito? Ma non è nulla; senti qui: Ciò che il VOLGO ammira, di spander copia di versi non meditati, è nulla al savio; il quale intende come il comporre versi ottimi e duraturi è grandissima cosa.. gittar di bocca versi men che mediocri è abito che facilmente da ognuno si può acquistare. Il forte è dir cose vere belle, non vili, che almeno vagliano il tempo l'attenzione di udirle. E qui vi ripetiamo che una successione ordinata di buoni pensieri, che è proprietà d'ingegno non volgare e di molte fatiche non potrà mai (checchè ne dicano i CIURMATORI) ottenersi per un SUBITANEO FURORE, per una REPENTINA ISPIRAZIONE. Non v'è altro furore che l' ingegno: non altra ispirazione che dallo studio. Questa è forte, neh! lettore stizzito? Ma altro è da udir che tu non credi. Più là il Giordani propone qual paragone può farsi degl'improvvisatori con gl' istrioni, i ballerini e i cantanti. O senti come sentenzia, ve'! Solo in una cosa convengono: che di loro non rimane vestigio. Ma hanno poi differenze gravissime. Quelle tre arti producono molto e non indegno piacere: i versi improvvisi sono tanto nojosi quanto inutili; nè solamente inutili, poichè bruttissima onta fanno alla vera poesia. Ti fa, lettore, o ne vuoi un altro pochino? Sì? To: Non cercheremo, se altre nazioni abbiano improvsatori (divitias miseras!) (ricchezze meschine); il che udiamo da taluno affermarsi. Ma, quantunque certissimi che più d' uno, o due, o tre milioni di abitanti d' Italia ci griderà contro, noi siam fermi a tenere (come sappiamo tenersi dai prudenti Italiani) che niuno onore fa alla nostra nazione l'avere e l'ascoltare improvvisatori... Delirò tanto il secolo XVIII E nel XIX, l' anno di grazia 1858, siam per avventura rinsaviti? Se tu lo credi!, da credere poesia le ciance degli improvvisanti, e non Si vergognò a dar loro la corona del Petrarca e del Tasso... Non è poi stoltissima, e miseranda cosa incoronarsi una Corilla dove fu carcerato e torturato il Galileo? Si tronchi il parlare di questa indegnità, che pur la vergogna intollerabile e l'ira giustissima, suggerirebbero troppo gravi parole. Volete ancora il contentino? ed eccovelo. Mossa domanda che cosa dee far questa turba che, non arrischiandosi d' esser funambola, si fa improvvisatrice; e detto che forzarla a qualche più util mestiere sarebbe forse giusto ma duro, conchiude che potrebbe essa riuscir utile a qualcosa (volendo pur pane da' versi), se imparasse a mente del Tasso, dell' Ariosto, del Metastasio; studiasse di pronunziar bene, e andasse recitando per l' Italia: almeno così metterebbe negli orecchi al volgo povero e al volgo ricco, alquanto di suono italiano: e negli animi popolari entrerebbero sensi italiani, e nutrirebbevisi facoltà di concepire, e forse anche di esprimere, pensieri italiani. Così (e con queste parole finisce il Giordani quel suo bello scritto), così, con guadagno di miglior piacere e con qualche profitto, verrebbe Italia liberandosi da un gran, fastidio e LUDIBRIO degli improvvisatori." "Queste parole ad altri le scotteranno un pochino, e lor saranno, per dirlo con Dante sapor di forte agrume; ma si può egli, chi si metta la mano al petto, farci contradizione che che buona sia? Si intende per altro che valgano, finchè si parla degl' improvvisatori bighelloni e giramondo, i quali avendo ingegno e studio, voglion venderlo così a ritaglio e far il saltimbanco, piuttosto che educarlo a cose grandi e forti: chè una quantità d' improvvisatori apprezziamo noi, e ce ne tenghiamo; e questi sono ciechi da bettole, e tutti coloro che, idioti assolutamente e senz'ombra di lettere, cantano improvviso e compongono versi i quali, salvo la rozza scorza di fuori, fanno vergogna, per le vive immagini e per i pensieri o gaj o gentili, a quegli di certi poeti che vanno per la maggiore. Questi sì che sono da tenersi in pregio e da vantarsene una nazione, come coloro che sono improvvisatori per non poter essere altro, e danno chiaro argomento di che cosa sia capace, naturalmente e senza verun ajuto d' arte e di studio l' ingegno del popolo italiano. Nati dal popolo minuto, sono i poeti; del popolo minuto: spogli di ogni presunzione, di ogni ciarlataneria; cantano a gente pari loro, si scelgono teatro da pari loro, e senza saper di dir cos ebelle, tali le dicono che porgono diletto e maraviglia a chiunque gli ascolta. Dei così fatti abbonda la nostra Toscana, ecc." Tali parole sembrarono a tutte ragionevoli; si volle fare onorevole limitazione per la Corilla, la quale, anche nelle poesie non improvvisate, si era mostrata valente poetessa.

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Fatto sta per altro che quel maestro era assai bravo sì, ma pedante; e che anche la Sofia, avvezzata a legger solo scrittori antichi, la non scriveva spropositi, ma ritraeva della pedanteria di lui; e per queste ragioni le altre compagne non la vedevano di buon occhio, e cercavano ogni cagione di poter ridere alle sue spalle. Venuta pertanto la domenica, ella con fronte sicura andò a sedere sulla solita poltrona, ed a voce piuttosto alta cominciò "Onorandi precettori e valorose compagne, a me tocca di raccontare le virtù di una santa verginella senese: porgetemi benigno l'orecchio, e spero che ne resterete bene edificate. "Caterina, che poi fu recata per le sue virtùnel novero dei santi, nacque in Siena da Jacopo Benincasa e da madonna Lapa, gente di piccola nazione, ma di santi costumi: il perchè crebbe tra buoni esempi di ogni maniera, e fanciullina di sei anni, tutta grazia, con atti gentili e parole accorte, era l'amore di tutti. Venuta in età, i parenti suoi le vollero dar marito; ma ella se ne porse ritrosa molto; e vestiva a disegno sprezzatamente; e stava salda a tutte le esortazioni de' genitori; anzi da ultimo disse ai fratelli: Al tutto levatevi ogni pensiero ch'io stia nel mondo: non fate di me ragione di niuna spesa, altro che di pane ed acqua; ma lasciatemi vivere a mio senno. Allora la posero ai più vili servigi della casa, ed ella tutto faceva allegramente: alla fine i suoi cederono, ed ella vestì l' abito di San Domenico. Digiunare, orare, macerarsi le membra delicatissime erano il continuo della santa giovane ma ella pensava che virtù santissima è l' amore del prossimo e l'amor della patria: il perchè, essendo allora l' Italia lacerata dalle maledette parti, la Caterina non si peritò di mostrarsi in pubblico, esortando a pace ed a concordia Guelfi e Ghibellini, rampognando i cattivi rettori che guastavano la giustizia, studiandosi con ogni possa di correggere il mal costume, porgendosi a tutti caritatevolmente amorosa; ed ajutando efficacemente il prossimo. nel tempo di una terribile pestilenza. Anche la Chiesa era afflitta e travagliata: il Papa, abbandonata Roma, teneva la corte ad Avignone, e la religione ne pativa. Di tanta jattura la Caterina era afflitta; e come di già la fama della santità� sua era grande, non temè di volgersi arditamente al Papa, con riverente libertà rimproverandolo del pensare più alle cose terrene che alle celesti; ed esortandolo a riportare la sedia papale a Roma. Venuti in discordia i Fiorentini col Papa, la Signoria di Firenze la pregò che trattasse ella di rappacificargli con lui; ed ella non curando disagi e pericoli, andò fino ad Avignone, e riuscì a comporre le differenze; benchè i Fiorentini durassero poco nel buon proposito. La Santa non si partì d'Avignone; ma volle rimanervi, per vedere di recare il Pontefice a ricondurre la sedia a Roma; e tanto fu costante il suo proposito, e tanta accesa la sua carità, che alla fine Gregorio XI riportò la sedia papale a Roma. Santa Caterina allora tornò alla quiete della sua Siena; dove per altro stette poco, dacchè papa Urbano VI, succeduto a Gregorio, la chiamò presso di sè per giovarsi del suo consiglio, e perchè la sua infiammata parola fosse più autorevole. Quando poi fu fatto ad Avignone l'antipapa Clemente VII, virilmente combattè per il papa legittimo, contro avversarj di ogni maniera. Ma tanto ardore e tanta caritàconsunsero le forze del suo fragile corpo, e morì di soli trentatrè anni. "Le sue virtù,la sublimità del suo intelletto, la sue dottrina, l'ardente sua carità, sono fedelmente ritratte nelle sue Lettere, e in altri suoi Trattati, che anche per la lingua sono cosa d'oro in oro." Gli applausi ci furono anche per la signora Sofia; ma non furono così pieni nè così vivi come le altre domeniche; solo il maestro e la direttrice dissero una o due volte brava a quella fanciulla, la quale, se aveva fatto un poco viso di dispetto nel sentirsi così freddamente applaudire dalle compagne, ringraziò per altro con atto e voce umanissima ambedue, dicendo che più le valeva l'approvazione loro, che le lodi di chi giudica senza ragione. La direttrice e le ragazze tutte compresero il veleno di queste parole, ma dissimularono; e siccome niuna osservazione vollero fare lo compagne della Sofia, salvo che una voce partita di mezzo a loro disse che certe parolacce non lo avevano intese, così il maestro ne prese materia di fare a tutte una lezioncina del modo dello scrivere in italiano; e disse così: "La signora Sofia non ha posto nel suo racconto delle parolacce; ma solo alcune voci o frasi un poco fuori d' uso, le quali, se si leggono nei classici, non sono per altro intese così bene da tutti, e rendono un poco affettata una scrittura: come sarebbero recata nel novero de' santi - di piccola nazione - non fate di me ragione di niuna spesa - con ogni possa - porgersi caritatevolmente amorosa - tanta jattura - cosa d'oro in oro, per cosa eccellente; ed alcune poche altre: ma questo è, se può dirsi così, un bel difetto, perchè nasce da assiduo studio, e può agevolmente correggersi. Lo tengano bene a mente, signorine mie: bisogna servirsi delle parole come dei denari: dei denari non si spendono so non quelli che hanno corso; delle parole solo quello s' hanno a parlare ed a scrivere che sono intese da tutti. Bisogna studiare assiduamente gli antichi, perchè nelle loro scritture vi è la semplicità, la purità e la proprietà; ma chi crede che ogni voce da loro usata sia da, usarsi ora, erra assai, perchè le parole muojono anch' esse, come tutte le cose del mondo. Lo studio dei classici deve dunque avvezzarci a far l' orecchio al bello scrivere, ed a conoscere le doti principali della favella; ma quando scriviamo dobbiamo aver sempre l' occhio all' uso presente; il quale però, come spesso diventa abuso sulle labbra del popolo, così, anche a fuggir tale abuso ci sarà ajuto efficacissimo lo studio degli antichi. Ad ogni modo, lo ripeto, è sempre più comportabile il difetto del mescolare alle voci d' uso qualche voce un po' antiquata, ma bella e propria, che il seminare, o parlando o scrivendo, voci barbare e forestiere. Non si debb' esser pedanti; ma è però molto peggio esser barbari."

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E poi si dice che le donne non soli buone a nulla! Eccovi qui la Cristina Roccati, nata a Bovigo nel 1734, la quale non ha invidia per niente alle altre due dottoresse e professoresse raccontatevi a queste passate domeniche. Da piccina ebbe a maestro di lingua italiana e latina un buon prete del suo paese, ed anche lei, come le altre due dottoresse, a quindici anni faceva versi elegantissimi nelle due lingue, il che le valse d'essere ammessa nell' Accademia de' Concordi, dove si facevano continui esercizj di lettere, e dove la Cristina leggeva spesso delle sue composizioni, con maraviglia di tutti. c'è chi la rimprovera d'essersi dilettata di far sonetti enimmatici, perdere qualche po' di tempo attorno alle sciarade e ad altri di que' giocherelli letterarj; ma, se mai fu peccato, la se ne pentì ben presto, e di buon'ora si diede agli studj più gravi della filosofia, dove fece tal profitto, che suo padre volle tentare di farle prender la laurea nell'università di Bologna; e la mandò là accompagnata da una zia e dal precettore dove osservata e carezzata da tutti que' valentuomini, studiò indefessamente, ed oltre gli altri studj si diede con ardore anche a quel delle matematiche. Tornata in patria alla fine dell'anno scolastico, tenne una pubblica conclusione, che fu da lei sostenuta con mirabile gravità e dottrina alla presenza de' più nobili ingegni; e finalmente, fatti con lode e con gran plauso tutti gli studi universitarj, potè cogliere l' onorato frutto delle sue fatiche; dacchè, presentata dalla celebre Laura Bassi al Collegio filosofico, ivi ricevette la laurea dottorale il dì 5 di maggio del 1751. A Rovigo fu ricevuta come in trionfo; ma la buona fanciulla, conoscendo quanto le mancava tuttora a potersi chiamar tale qual era reputata, volle andare a Parigi per impararvi la lingua greca, l' ebraica e l' astronomia; ma poco era andata colà che improvvisamente le morì il padre, la quale sventura gravissima ella sopportò con cristiana e filosofica rassegnazione: e benchè questa perdita la lasciasse nelle più gravi strettezze, pure fece ogni maniera di privazioni e continuò quegli studj, a' quali aveva così ardente amore. Compiuti che gli ebbe, le fu offerta la cattedra di fisica nella città di Rovigo, dove insegnò quella scienza per ventisette anni; ed un giorno, scoppiatole un fulmine a' piedi, non che se ne turbasse, ma anzi ne prese occasione a scrivere una bella dissertazione sulle meteore. "Ebbe corrispondenza famigliare co' più illustri poeti e scienziati del suo tempo; e morì assai vecchia in sul principio del secolo presente, lasciando vivo desiderio di sè in quanti la conobbero, e fama onorata appresso i posteri." Alzatasi da sedere la signorina, da tutte le parti ebbe i mirallegri, a' quali rispondeva con le sue manierine sempre un po' leziose, ma non però svenevoli. Intanto aveva fatto cenno di voler parlare la signora Giannina: perchè la direttrice, domandatole se volesse parlare, e datagliene licenza, ella disse: "La cara riammetta, che ci ha descritto con tanto garbo la vita della Roccati, le ha quasi scritto a peccato che da giovane si dilettasse in sonetti enimmatici, in sciarade, e simili giuochi, com' essa gli ha chiamati; dove a me, dico la verità, peccato non mi pare: anzi mi pare un esercizio non solo dilettevole, ma anche utilissimo ad aguzzare l' ingegno. Vorrei che o la signora direttrice, o il signor maestro, mi dicessero se veramente sbaglio io a pensare cosìì." La direttrice accennò al maestro che dicesse egli, ed egli disse di fatto: "Peccato assolutamente nol direi; anzi mi pare che in gran parte abbia ragione la signora Giannina a chiamarlo esercizio utile: e credo anzi, che considerato come giuoco, il proporre sonetti enimmatici, o sciarade e logogrifi da indovinare, ed il fare anagrammi, possa farsi anche come esercizio di ricreazione negli istituti di giovinetti o di giovanette. Il peccato comincia quando a tali giuochi si vuol dare importanza di componimenti letterarj; quando ci si perde attorno quel tempo, che dovrebbe spendersi o nello studio, od in altri uffizj, e quando si pensa di acquistar lode vera nell'indovinamento, tenendosi di aver tirato il sole al monte coll' indovinare una sciarada o un enimma. Anticamente si dava, anche nelle scuole di lettere, maggiore importanza a queste bazzecole, specialmente nel seicento da' Gesuiti; ed in un trattato di Rettorica, scritto da un Padre Antonio Forti col titolo di Miles Rhetoricus (il soldato rettorico) questi anagrammi, enimmi emblemi e simili bubbole, sono registrati tra gli altri componimenti letterarj, e datone regole ed esempi: il che è un vero peccato mortale ed una frenesia. Come esercizio dilettevole per altro, tanto è lungi ch' io lo reputi peccato, che, se la signora direttrice il permette, io, a modo di ricreazione, vo' proporre qualche indovinello a queste signorine. Le signorine tutte in coro gridarono: O bene, o bene! e la direttrice ridendo disse al maestro che facesse pure: ed il maestro, andato di là, e tornato con due libri, parimente ridendo: "Eccomi da loro: scrivano questo sonetto, e poi lo indovinino: e cominciò a dettare: SONETTO ENIMMATICO.

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Copiato che fu il sonetto, le signorine cominciarono a meditarci su; ma, per quanto almanaccassero, non ce ne fu una che potesse azzeccarci: solo due o tre di loro si erano accorte che c' era qualche cosa come di scrittura; ma alcune parti non si addicevano a questa interpretazione. E già il maestro si disponeva a spiegarlo, quando la Nina siciliana gridò di laggiù in fondo: l' inchiostro. "Brava, sora Nina: è proprio l' inchiostro." "E sa, l' ho detto solamente per dir qualcosa, perchè molte cose non le ho intese; ma quell' oscuro, quel morto colore, e colei che dalli stracci ebbe il natale, che ho inteso subito per la carta, mi hanno fissato in quell' idea, e ho buttato là a caso." "E ci ha azzeccato." "Ma ecco: che vuol dire fermo gli elementi?" "O le lettere dell' alfabeto non sono gli elementi delle parole? "Gua', è vero: che pazzerella che sono! O 'quel dire che alla mano è conosciuto?" "Perchè il carattere si chiama anche mano di scritto." "E l' esser profano tra gli empi, e sacro tra' santi?" "Perchè i libri degli empi si chiamano anche profani inchiostri, e que' de' santi sacri inchiostri." "Oh! ora tutto mi torna a capello, e la ringrazio." "Gl'indovinelli propriamente detti vogliono anche maggior prontezza, come quelli che non si fermano molto a descrivere la cosa che celano in sè, per esempio: "Non si muove e sempre corre; Non sa matematiche, e sempre misura; Mentisce e non parla." Dopo un poco di silenzio disse la Eglina: "l'orologio, che giusto stamani l' ho sentito chiamar dal babbo il bugiardo." E tutte ridendo disser brava all' Eglina.

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Allora il maestro conchiuse: "Qui basti di tali gingilli; e non passi per esempio questo breve trattenimento di stamattina; chè non vorrei per tutto l' oro del mondo dar cagione a veruno di dire, che in questo Istituto ci si insegna i giochetti d' ingegno a uso Gesuiti."

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"Veniamocene adesso a quella famosa stanza che i Francesi, tanto arguti!, significano per mezzo di una toletta, e che, gl' Italiani, grullamente scimiottandogli, la significano con voce che nella nostra lingua non ha significato. C' è nella lingua italiana una parola propria? Che ci debba essere è certo, pecche le gran dame italiane si abbigliavano al pari, ed anche più sfoggiatamente delle francesi, e non dicevano toelette: ma come anticamente dicessero non l'ho a mente. Ne' teatri italiani però c'è la voce vera e propria, chiamandosi camerini le stanze dove la prima donna e via via le altre, si abbigliano (fanno la toelette) per la scena. Ma, se questo camerino paresse poco dicevole alle signore, per essere voce da donne di teatro; o non si potrebbe chiamarlo abbigliatojo, che è voce propria, gentile, e secondo ogni più scrupolosa analogia; nè contraria alla ragione, e per noi Italiani nemmeno alla dignità nazionale, come toelette? La direttrice interruppe quì il maestro con tali parole: "Abbigliatoio è voce che molto mi piacerebbe; ma a chi riesce metterla nell' uso? "A chi riesce? - rispose il maestro. - O a chi riuscì metterci la pazza voce toelette? una pazzerella di donna cominciò: un' altra; e poi due; e poi mille le andaron dietro; e fu fatto il becco all' oca. Incominci ora una savia donna a dire abbigliatojo: dieci sciocche le rideranno in faccia, ma un' altra savia la imiterà; a poco per volta scemeranno le sciocche, e cresceranno le savie; e così l' abuso se ne andrà, per cedere luogo all' uso legittimo." "Bene, comincierò io; ed esorterò queste signorine a fare il medesimo. Lo promettono?" E tutte ad una voce: Sì, - Sì, Signora, - lo promettiamo - "Ma ci sono dei casi, nei quali non si sa proprio come dire in italiano. Per esempio, se io ordino al falegname quel tavolino, dove noi stiamo ad abbigliarci, non posso dire: fammi uno specchio; se no mi fa una spera. Così disse la signora Bettina; alla quale il maestro: "Dunque vorrà ordinargli la teletta? Ma allora, se il legnajolo sarà accorto, le risponderà, che per la teletta bisogna andare al merciajo. Fuor di celia: la gli potrà ordinare un tavolino da pettinarsi, o se lo vuoi dire tutto in una voce si faccia insegnare dagli Aretini, che usavano, e forse usano ancora, la bella voce specchiera." "Codesta mi piace, - disse la signorina; e soggiunse: O se vorrò dire che una signora è a far la toelette, come dovrò dire?" "O che fanno le signore quando fanno la toelette?" "Si vestono, si pettinano..." "Lo vede che l'ha detto senza accorgermene? Dovrà dire è su, è di là che si veste, che si pettina, che si abbiglia. E la sa bene che vestirsi, anche nell'uso, si prende per abbigliarsi affine di andare o a teatri, o a conversazioni." "O quelli che si chiamano articoli di toelette come gli chiamerò?" "Volerne! Gli chiamerà, oggetti di abbigliamento, di adornamento: e semplicemente adornamenti, secondo i casi. "Ma l' ora si fa tarda; e serberò ad un'altra volta il parlar loro della moda, e del suo linguaggio."

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La signora Sofia, senz'altro preambolo, cominciò la sua lettura così: "Da una gran principessa sono discesa a parlare d'una scrittrice di commedie, e perfin giornalista: ma nel suo genere anch' essa ha molto del singolare, e l' argomento lo tratto assai volentieri. Dico adunque che questa Elisabetta fu figliuola di Carlo Domenico Caminer, storico e letterato veneziano, e nacque in Venezia il 29 di luglio del 1751. Da bambina non c' era versi di farle pigliare amore nè studio nè al lavoro; ma non avrebbe atteso ad altro che a spassi e balocchi; e il suo vivace ingegno si mostrava solo nelle sottili e argute bugiuòle, con le quali ricopriva le sue mancanze quando il babbo e la mamma la gridavano. Venuta per altro sui sette anni, non potendo sopportare il malcontento che mostravano della sua svogliatezza i genitori mutò quasi natura, si diede con vero ardore allo studio, dove tanto profitto fece in breve tempo, che fu in grado, a soli quindici anni, di ajutare il padre ne' suoi lavori letterarj; e manifestatosi poscia in lei uno squisito gusto per il teatro, si provò a scriver commedie, riuscendovi con mirabile buon successo; chè, le sue prime commedie, e massimamente il Disertore, furon applauditissime universalmente: nè le sue opere teatrali son poche, essendocene una Raccolta di ben venti volumi. Oltre ad essere scrittrice di commedie, la Caminer fu giornalista, come quella che pubblicò, in compagnia di suo padre, un periodico intitolato L' Europa letteraria, il quale fu poi continuato da lei sola col titolo di Giornale enciclopedico. Nè ciò basta; chè si diede pure al tradurre; e recò in italiano il Quadro della storia moderna del Mehegan, che ella pubblicò insieme con gli Idillj di Gessner, "la cui eleganza, dice un accurato biografo, e la cui dolcezza di sentimento, e il candore ingenuo, ella trasfuse nella sua versione." Si diede pienamente ad ajutare la istruzione della gioventù, ed in servigio di essa, tradusse l' Amico dei fanciulli di Berquin, e le Nuove Novelle di Marmontel. "Quando fu ad una certa età sposò il medico e botanico Turra di Vicenza: allora le rifiorì l' amore per l' arte drammatica, e rizzato nella propria casa un bel teatrino, raccoglieva appresso di sè alcune fanciulle ed alcuni giovani di buona nascita, ammaestrandogli alla scena. Ma questo fu appunto cagione della sua estrema sventura, "perocchè, conchiude il ricordato biografo, colpita nel petto da un soldato briaco, il colpo fu di tal violenza, che, venutale una contusione, la trasse alla tomba della fresca età di quarantacinque anni: il che da taluni è negato, i quali la dicono morta di malattia naturale. "Io, conchiuse la signora Sofia, non ho altro che dirvi: se ho detto degli spropositi compatitemi e correggetemi." "Compatimento non merita, prese a dire la direttrice, ma lode ed io la lodo di cuore, come odo che han fatto le sue compagne applaudendola. Dacchè per altro ella ha notato le ingegnose bugie della Caminer quand'era piccina; ed il vizio della bugia è per me uno de' peggiori; così mi piace che si legga ora qui un capitolo di un buon libretto, che tratta assai briosamente questo argomento." E preso un librettino, che era nel cassetto del tavolino, lesse ad alta voce: "DI UN OTTAVO PECCATO DA DOVERSI DIRE MORTALE, OSSIA DEL MENTIRE. "Nonchè proscriverla nel Decalogo, ai sette peccati mortali aggiungerei la menzogna, siccome quella, che, oltre dell' essere turpe per sè medesima, può aver conseguenze tristissime. Al quale proposito citerò un bel libretto inglese (del cui autore non ricordo) mi intitolato White lies, ossia bugie bianche, che sono di quelle che anche gli uomini onesti credono poter proferire senza colpa e senza pericolo, e le quali, comecchè sieno innocentissime, sono cagione talune volte d' inconvenienti non piccioli, anzi di gravi danni. Il quale assunto l' autore inglese fa di provare mercè una serie di aneddoti molto bene ideati. A me basti riferir qualche esempio, di cui mi avvenne d' essere testimone. "Tizio, gran dilettante di burle, ed il quale a una celia che paiagli spiritosa, ad un motto che faccia ridere, sacrificherebbe l'amico più caro, incontra un giorno Sempronio e, a farsi beffe dei fatti suoi, gli dice col viso più serio del mondo: "Oh! non sai tu, Caio ti taglia i panni addosso, affermando ier sera avergli tu fatto un assai mal tiro nel giocar seco a tarocchi." Ed ecco che poco stante Sempronio, che i detti di Tizio aveva creduti siccome "Vangelo, imbattesi in Caio, e senza pur chiedergli il come stia la faccenda, gli applica una ceffata a modo d' introduzione, ceffata alla quale tien dietro un duello ad ultimo sangue, duello che riesce fatale ad uno dei duellanti! Così la morte d' un uomo è frutto d' una menzogna scherzosa riputata innocente! "Una femmina sciocca, la quale morrebbe mille volte anzichè trattenere lo scilinguagnolo, massime quando si tratti di mal dire del prossimo, a proposito della tal donna savia ed onesta, che vide poc' anzi in istrada a confabulare con un suo cugino, afferma in un crocchio averla scorta con un bel giovinetto, e questi parlarle in modo infiammato, ed ella sorridergli col maggior gusto del mondo. I quali detti, riferiti al marito, uomo corrivo allo sdegno e alle risoluzioni eccessive, sono cagione d' una perpetua separazione fra' coniugi che fino allora eran vissuti in ottimo accordo. "Un benedett' uomo, esageratore per antonomasia, quantunque di natura non trista, essendo entrato in una scuola, in quella appunto, in cui il maestro si faceva a punire uno degli scolari, ingiungendogli di stare in ginocchio durante mezz' ora, va difilato dal padre del giovinetto e gli dice: "Or come puoi mai tollerare che il figliol tuo sia maltrattato al continuo da quello zotico di maestro, il quale la più lieve mancanza castiga collo scudiscio?..." Ed il padre a queste parole, corre, stizzito alla scuola, strapazza il maestro, e, senza volere ascoltare le sue ragioni, menasi via il figliuoletto, e fa così gran rumore del caso, che in breve gli altri parenti imitano l'esempio di lui, e l' infelice maestro, rimasto senza scolari, si vede ben presto ridotto alla più squallida povertà. "Mille altri casi di simil fatta citare potrei, originati tutti da bugie bianche, o da scherzi detti innocenti, anzi solo da un cotal poco di esagerazione. Or quali saranno gli effetti delle bugie belle e buone, delle bugie, che dirò capitali?" Letto che la direttrice ebbe il capitolo; e fatte altre osservazioni morali sulla bugia, licenziò la brigata, e tutte partirono.

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La signora Olimpia, alla quale sarebbe toccato a leggere questa domenica, non potè venire all' Istituto, perchè si era ammalata d' una assai grave febbre gastrica; il perchè la direttrice, non volendo che la lettura si lasciasse, pregò la signora Elisa, che leggesse ella la Vita della Clotilde Tambroni su quel libro, dal quale avrebbe dovuto prendere le notizie la signora Olimpia; e datole il libro, la signorina lesse quel che segue: VITA DI CLOTILDE TAMBRONI. "Nata in Bologna nel 1768, morta nel 1818, sin dalla più fresca età manifestò quel fervente amore per lo studio delle scienze e delle lingue, cui nessun ostacolo rende insuperabile. Addestrata ai femminili lavori, ed attissima a condurli all'apice della perfezione, di qualunque genere essi si fossero, volle mescervi dapprima lo studio delle ameno lettere, e in quello trovando pascolo abbondantissimo e grato poi facile intelletto, s'internò nella cognizione delle matematiche e filosofiche cose: ed allo studio della lingua latina quello accoppiando della greca, sviluppò maravigliosa attitudine a profondamente sentirla. Un religioso, chiamato il Padre Emanuele a Ponte, primo d'ogni altro avvedutosi di sì raro ingegno, le era diventato maestro di greco: e tali furono i progressi da lei fatti in questa madre lingua, che non solo giunse a parlarla con sceltezza, di frasi e speditamente, nè soltanto a verseggiare con terso e delicato stile, ma a trovarsi in istato d'insegnarla altrui e quindi fu innalzata all' onore di occupare la cattedra elementare di lingua greca in patria. Le politiche vicende, dalle quali a malincuore essa vedovasi circondata, la indussero ad intraprendere il viaggio della Spagna e del Portogallo; ma restituitasi in Italia, fu dal governo della repubblica Cisalpina collocata nella cattedra di greca letteratura, pure in Bologna. Si concentrò quindi nella propria casa, tutta dedicandosi alle scienze, e non è forse erroneo il credere che dal soverchio faticare della mente sua, e da incessante e penosa giacitura nello scrivere, venissero abbreviati i suoi giorni, cosi preziosi alla sua famiglia, agli amici, alla patria, alle lettere ed all' Italia. Compiendo essa l' anno cinquantesimo della età sua, cessò di vivere, seco recando l'ammirazione e l'amore di tutti. Ebbe amici quanti ebbe conoscenti, che l'aureo di lei carattere tutti si rendeva amorevoli. Fu modesta anche nel colmo della letteraria sua gloria; e voce, e gesto, e favellare, ed il vestire pur anche, tutto ne annunciava l'animo schietto e leale. Corrisposero con lei letterariamente il padre Pagnini, la contessa Diodata Saluzzo, il padre Affò, ed il celebre grecista Villoison. Dall'Italia tutta fu riverita ed ammirata vivente; sicchè, scesa nella tomba, le pagò largo tributo di pianto ogni italiano spirito elevato e gentile. Un discorso necrologico in sua lode fu scritto dal celebre latinista Filippo Schiassi; ed un epitaffio, da lui composto a tramandare ai posteri la memoria di questa tanto celebre ellenista, fu posto sulla porta dell'aula magna della università di Bologna." Finito che ebbe di leggere la Elisina, la direttrice disse: "Questa valente donna porge loro esempio nobilissimo del come si può accoppiare il vero sapere coi lavori muliebri; e come il vero sapere dispregia per altro ogni vanità femminile. Hanno udito? Fu modesta anche nel colmo della letteraria sua gloria; e voce, e gesto, e favellare, ed, il vestire pur anche, tutto ne annunziava l'animo schietto e leale: il che viene a dire come la Tambroni non folleggiasse dietro alla moda nè alle altre vanità donnesche." "A proposito di mode,- interruppe la signora, Bettina, - il signor maestro due domeniche fa ci promise che ci avrebbe parlato del linguaggio della moda; e parecchie di noi ne stiamo in curiosità..." "Ho capito, - riprese il maestro. - Contentiamole. Io la domenica antipassata mostrai loro, a proposito della voce toelette, quanto fossero sciocchi gl'Italiani a prender tante voci o modi dalla lingua francese, senza veruna necessità; e penseranno forse che anch' oggi, voglia propor loro di sostituire voci italiane a tutti gl' infiniti nomi de' varj oggetti di moda. Eppure, vedono, è tutto il contrario. La Moda, considerata come industria, è fonte di larghissimi guadagni ad una nazione; e la Francia, che per tempo conobbe quanto di sostanza e di polpa ci fosse sotto queste apparenti bazzecole, con senno accortissimo si coronò regina della moda, e detta leggi da molto tempo a quasi tutta l' Europa. Quanto le fogge variano, tanto il guadagno è maggiore, e più ne prospera la nazione: il perchè non passa settimana che non ci sia qualche nuova foggia, o di abiti, o di cappelli, o di scialli, o di qualsiasi altro capo di vestiario; e ad ogni nuova foggia si dà, un nuovo nome; e questo nome va per tutta Europa: nè sarebbe opportuno il cambiarlo, quando anche il fosse possibile, perchè niuno lo accetterebbe, nè lo userebbe; nè sarebbe utile per niente, essendo tutta roba che nasce e muore con vicenda continua: nè per questa ragione medesima, c'è da temere che se ne insozzi la lingua. E chi gli mette questi nomi? - Chi lo sa? Forse si chiamano col nome dell' inventore: forse sarà il capriccio d'una crestaina: e forse anche qualche cervello balzano immaginerà per celia il più strano vocabolaccio, per levarsi il gusto di farlo pronunciare da migliaja e migliaja di bocche per le varie nazioni amiche e nemiche. E questa servitù bisogna comportarla, come quella che è necessaria; nè fa vergogna come l'altra servitù volontaria dell'usar voci e modi francesi quando gli abbiamo più belli e più efficaci nella lingua nostra. Potrebbe l'Italia tornar quando chessia padrona di sè stessa; e liberandosi della servitù politica, potrebbe anche liberarsi da questa moda; ma chi sa,.."Le parole del maestro si vede facilmente dove andavano a parare. Ora l' Italia è libera: è studiosissima di promuovere ogni industria. O che sarebbe cosa impossibile il potere, se non tòrre di mano alla Francia lo scettro della moda, il farsene regina essa in casa sua, immaginando fogge e nomi a suo talento, ogni cosa italiano? Ci sia una, o due, o tre signore, che promuovano la impresa; chiamino in soccorso ed artisti e letterati: facciano il loro giornal delle mode italiane, col figurino italiano, con linguaggio italiano; e non, come già. si è cominciato a fare, copiando goffamente i Francesi. Si metta a profitto tutto ciò che ci offrono le belle tradizioni nostre, le nostre arti, le nostre industrie; e volendo per davvero, si potrà subito liberare la Italia dal gravissimo tributo che paga per questo capo alla Francia, e col tempo potrà per avventura riceverne da altre nazioni. In potenza ci è tutto qua da noi: resta che ci sia una tenace volontà da recarlo in atto. La direttrice, sapendo di che ardenti spiriti fosse il maestro, e dubitando che gli uscisse di bocca qualche cosa da poter avere de' dispiaceri per parte della polizia, o da esser poco opportuno il dirle alle signorine, gli tagliò le parole; e bel bello uscendo da quell' argomento, entrò in altre cose, finchè venne il tempo di andarsene.

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Essa è la Teresa Fabroni Pelli, nata in Grosseto ai 13 di febbraio 1703 e morta a Firenze nel 1811. "Suoi genitori furono il maggior Alberto Ciamagini, comandante di piazza, e Caterina Lazzaretti; prima assai agiati de' beni di fortuna, e poi ridotti quasi in miseria per gravi sventure; i quali, morti a breve intervallo l'uno dall' altro, la lasciarono orfana in tenerissima età. Ma Giuseppe Pelli, direttore delle gallerie di Firenze, avendo avuto occasione di conoscere le rare doti della bambina, l'adottò per propria figliuola; ed attese con ogni affetto a coltivare il vivace ingegno di lei, sotto la direzione del celebre proposto Marco Lastri. All'età, di sette anni, vedendo in essa tanta singolare disposizione ad ogni più gentile disciplina, le fu dedicato un libretto, col fine di invogliarla sempre più allo studio; come di fatto vi si diede con tutto l'ardore, ed in breve tempo divenne ricca di tanta dottrina e di tanto, sapere, quanto a fatica se no trova in parecchi di coloro che si chiamano letterati. Senza che, ella conosceva il disegno; ora valente nella storia patria; e quello che è corona di ogni sapere, fu donna virtuosissima, pia e religiosa: i quali pregi tutti erano rifioriti dalla umiltà, dall'amore alle cure domestiche, ed ai lavori donneschi. Venuta sui diciotto anni, era un miracolo di bellezza o di grazia; e ben presto divenne sposa del cavaliere Giovanni Fabroni, segnalatissimo scienziato, autore di molti scritti, che fanno testimonianza del suo sapere, il qual Fabroni, dopo aver viaggiato la Francia, l'Inghilterra e la Germania per commissione di Pietro Leopoldo, fu scelto da lui per direttore del Museo di fisica e di storia naturale. Anche da maritata non iscemò l'affetto grandissimo che ella aveva al suo padre adottivo, col quale fu sempre veduta ai passeggi, a' teatri, alle feste. Tanta era la gentilezza de'suoi modi, tanto eletta ad erudita la sua conversazione, tanta grazia aveva nelle parole e negli atti, che non c'era uomo di qualià� che non ambisse di conoscerla, e di essere ricevuto in sua casa, nella quale si raccoglieva il fiore dei migliori ingegni in ogni disciplina, come il Canova, il Bandini, il Lampredi, il Pozzetti, Antonio Cocchi, Rosini, la Benedetti, il Tavanti, e tutti coloro che in Italia avevano fama di valentuomini: nè solamente in Italia; dacchè, tutti i dotti stranieri che capitavano a Firenze, volevano onorarsi di farle riverenza, tra' quali basti nominare l'Humboldt, il Degerando ed il Graperg da Hemso; e molti artisti vollero ritrarla, chi in marmo, chi in tela. Nella sua casa recitò alcune sue tragedie l'Alfieri; Salomone Fiorentino dedicò a lei una delle sue Elegie: il Pignotti uno de' suoi più leggiadri componimenti, che incomincia:

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Doveva leggere la signora Jole, che l'altra volta scrisse la vita dell' Isabella Andreini, alla quale contrastò il titolo di donna illustre, per essere stata una commediante; ed ora che le toccava a parlare d' una cantante, andò al suo luogo con un risettino sardonico, e cominciò: "La signora direttrice vuol farmi star sempre attorno al teatro: sei mesi fa una commediante, adesso una cantante. Io sono ubbidiente, e l'ho scritta; ma sono anche franca, e dico senza riguardo, che il titolo di donna illustre, anche in questo caso mi pare darsi un po' troppo a buon mercato. Ascoltatemi. "L'Angelica Catalani nacque in Sinigallia nel 1780; e fu accettata ne' suoi primi anni tra le religiose di un convento di Gubbio, dove prendendo passione vivissima al canto corale, diede tosto a conoscere la potenza della sua voce maravigliosa; per modo che l'organista della chiesa ne cominciò a parlare, ed a celebrarla tanto altamente, che, venuto ciò agli orecchi del padre della fanciulla, andò a Gubbio, ne parl� col detto organista; e la levò di convento all'età di quattordici anni per farla studiare fondatamente; e nel 1800 comparve per la prima volta sulle scene del teatro Argentina di Roma. Tutti rimasero stupefatti; ed in brevissimo tempo venne in tanta fama, che fu istantemente richiesta per il gran teatro della Scala a Milano, dove fece tali prodigi dell' arte sua nella Clitennestra dello Zingarelli, e nei Baccanali del Nicolini, che fu ad una voce salutata regina del canto, il qual titolo le fu in processo di tempo confermato da tutta l'Europa. Ebbe poi per maestro il famoso Crescentini, ed arrivò a fare veri prodigj nell'arte del canto, per il che non c'era nazione che non la desiderasse, e udendola non ne andasse in visibilio. Insomma, ebbe gloria e denari quanti ne volle; e sposatasi poscia con un gentiluomo francese, soldato in riposo, comprì una villa presso Firenze in un luogo detto la Pietra, dove visse con tutti quegli agj, che mancano agli scienziati e a' dotti, e vi morì nel 1840. Finita la lettura, la signora Jole se ne tornò fra le compagne senza far motto. Allora la direttrice disse con una certa serietà: "Dovrei rimproverare la signorina per il modo un po' troppo libero col quale ha censurato la mia scelta; e per esser tornata a battere sullo stesso argomento del darsi troppo a buon mercato il titolo di donna illustre alle commedianti e alle cantanti, dopo essersi mostrata persuasa delle mie ragioni sei mesi fa, ed aver convenuto del suo errore in questo proposito. Ma non voglio ora darle dispiaceri. In quanto alla musica per altro faccio notare che essa è arte quasi divina che Dio stesso ama di esser lodato col canto col suono degli organi. Ricorderò quanto sia efficace tale arte sull'animo nostro con l'esempio del re Saul, le cui furie si calmavano al suono dell'arpa di David; e ricorderò che gli antichi simboleggiarono la potenza della, musica con la favola di Antione, il quale moveva le pietre cantando e sonando; e con la favola di Orfeo, che col suono della lira vinse l' animo degli dèi infernali. Io non andrò per altri esempi. Mi dicano solamente: i grandi maestri e compositori, come a' giorni nostri sono stati il Rossini, il Bellini, il Donizetti ed il Verdi, gli credono degni del nome di uomini illustri? - Sì? O bene. Ma, se non ci fosse chi suona o chi canta la musica scritta da loro, che sarebbero essi? Nulla. I sonatori dunque e i cantanti sono coloro che fanno viva la musica scritta, e pari debb'essere, o poco minore, il merito tra essi e i compositori: dacchè, se per il compositore ci giuoca l'ingegno nel trovare i motivi e le combinazioni armoniche o melodiche; ingegno, e non poco, ci vuole per il sonatore o per il cantante, a far valutare il pregio di tali combinazioni; e parecchie volte, come avviene nei sommi cantanti, a migliorarle. Non è dunque troppo a buon mercato il titolo di illustre dato ad una somma cantante; nè tal professione è per niente da reputarsi men che nobile: ed a' nostri giorni si sono vedute persone di gran nascita innamorate dell' arte andare a cantar su' teatri." "Dunque, anche qualcuna di noi, se riuscisse, farebbe bene ad andar sul teatro," domandò una delle signorine. "Io non dico questo, nè mai consiglierò veruna di loro a farlo: solo ho detto, e lo ripeto, che una tal professione non è vile per niente nè merita lo scherno che pretende di farne la signora Jole."

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E nel manoscritto il medesimo soggetto, che è l' ombra del nostro corpo, si vede così ridotto a sonetto, mantenendo sempre i concetti medesimi. Tale sonetto è l' ottava del codice, e canta così:

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Ma, importando poco il far qui simile questione, dirò seguitando, che, dopo il Malatesti, fu celebre per enimmi in stanze e sonetti il Padre Francesco Moneti, quello stesso della Cortona convertita, il quale gli soleva mettere in quella specie di lunarj che là sul principio del passato secolo durò a stampare per parecchi anni col titolo di Apocatastasi celeste. Molti sonetti enimmatici scrisse il Saccenti, che si vedono stampati in fine delle sue poesie a tutti notissime: un intero volume, e non al tutto spregevoli, ne scrisse colui che si nascose sotto il nome di Catone Uticense da Lucca; ed un altro volumetto se ne stampò a Firenze sul fine del passato secolo, tra i quali ce ne ha pure degli assai garbati e piacevoli. Ora il gusto degli enimmi è passato: non si vedono più tra le mani della gente, se non quelli che anno per anno si propongono in fine di alcuni lunarj, e che servono a esercitare l'ingegno, più che di altri, di donne e ragazzi, lì in quella serata dell'ottobre quando i lunarj si sogliono cominciare a vendere. Sono però succedute nel loro luogo le sciarande, trovato non molto antico; e sono rimasti nel saggio antico, e sono anche più che in antico vezzeggiati, i rebus e i logogrifi; chè parecchi giornali ed italiani e francesi se ne fanno belli, e vi si vedono esercitar studiosamente l'ingegno non pure: Giovani vaghi e donne innamorate, ma la gente altresì di senno maturo, ed ornata di buone lettere. Due raccolte di sciarande e logogrifi ho veduto io a stampa, nè so se altre ce ne abbia, l'una di Prato stampata dal Vespri nel 1835 l'altra stampata a Firenze nel 1857. Questa del 1857 è composta di sciarade e logogrifi tutti dell' autore medesimo; l' altra di Prato è una raccolta di vari autori, che però non si nominano: e ce ne ha parecchie che sono veramente belle, così per la ingegnosa orditura, come per il pregio della poesia: nè ci è da maravigliarsene, sapendo che ed il Perticari e il Giordani, e persino il Monti si sono dilettati a fare sciarade e logogrifi. E dacchè la nominata raccolta pratese, la qual finisce appunto con un logogrifo di Vincenzo Monti, con quello vo' chiudere anch' io il presente scritto.

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A costei volle la direttrice dar a descrivere la vita di una fanciulla lombarda chiamata Bona; e venuta la domenica, andò tutta festosa al suo luogo, e tutta festosa incominciò: "La cara nostra direttrice ha voluto ch'io vi racconti la vita d' un' antica mia patriotta, ed io che mi sento sempre una buona Milanesa, immaginatevi se l'ho fatto con gusto! La mia eroina si chiamava Bona: era nata in un paesello di giurisdizione milanese, era pecoraja, brutta quanto il peccato e rozza maledettamente. Passando per que'paesi col suo esercito Pietro Brunoro da Parma, capitano valorosissimo, e veduta per caso la Bona che nel ruzzare con le altre sue compagne, mostrava molta vivacità e fierezza, la fece pigliar per forza, e vestitala da uomo, la condusse sempre seco ne' più duri esercizj di guerra. La Bona, che era buona di nome e di fatto, prese a volere un bene dell'anima a Brunoro; e tutte le fatiche e disagj comportava allegramente con lui, e d'ogni sua disavventura amaramente si affliggeva. Avvenne una volta che Brunoro, volendo abbandonare il re Alfonso di Napoli, a' cui servigj militava, mentre si preparava a fuggire, fu preso e messo in prigione. Pensate come se ne addolorò la povera Bona! la quale per altro non si sgomentò, pronta ad ogni disagio e pericolo per il suo signore. Che ti fa? se ne va da tutti i principi e potentati d'Italia, non che dal re di Francia, a impetrar lettere di favore per Brunoro, tanto che il re Alfonso lo liberò; nè contenta a questo, operò tanto che fu preso al soldo da'Veneziani con provvisione di più di 20,000 ducati. Allora Brunoro, in merito di tanto affetto e di tanta fede, benchè sino allora l'avesse tenuta al suo servigio, e benchè fosse così brutta di aspetto, se la prese per moglie; ed attenendosi a' consigli di lei venne sempre in fama maggiore, per essergli tutte le imprese riuscite prospere; ed in tutte le imprese si vedeva questa valente donna condur genti a piede, ed esser sempre la prima ad ogni zuffa ed assalto. Diventò insomma peritissima dell'arte della guerra; e per la sua accortezza e valore si espugnarono forti castella. Si mantenne poi sempre casta, e pudica, e fedele al suo Brunoro. Ultimamente, avendo il Senato veneziano gran fede in Brunoro e nel valore di questa donna, gli mandò alla difesa di Negroponte contro a' Turchi, i quali mai non ardirono di dar loro noia; ma essendole morto in questo mezzo il suo caro Pietro nella città di Calcide, la Bona, tornando a Venezia per vedere di far confermare la provvisione del padre a' due suoi figliuoli, presa dal mal di flusso in Modone, città di Morea, e conosciuto che quella malattia era mortale, si fece fare una ricca sepoltura, la quale coi propri occhi volle vedere prima che morisse; ed ivi fu veramente sepolta nel 1468. Degna d'essere annoverata tra le donne più illustri, perchè nata di bassi e vili parenti, si acquistò con opere virtuose chiarissima ed eterna fama con vera nobiltà, dove molte, nate di sangue gentile, ed anche reale, spesso oscurano i loro natali con opere indegne." Se la Giannina fu applaudita non se ne domanda; e non erano ancora finiti gli applausi, che si alzò una di quelle ragazze dicendo: "Vorrei, se la signora direttrice si contenta, fare una osservazione. "Dica, rispose la direttrice.. In queste cinque domeniche abbiamo udito raccontar molti atti di valorose donne, che fanno vergogna a molti signori uomini: o perchè dunque ci ha essere chi s'ostina a dire che noi altre donne non siamo buone a nulla, e che si dee pensar solamente a far la calza, a cucire e a badar a casa? questa è una bella soverchieria... "Signorina, interruppe la direttrice, coloro che dicono, le donne non esser capaci di ogni atto virtuoso come gli uomini, sono stolti; ma anche più stolti sono coloro che vorrebbero le donne capaci di ogni pubblico ufficio, pareggiandole in tutto e per tutto agli uomini. Ci pensi un pochino e mentre quieta, e vedrà che, se la natura ha fatto la donna diversa dall' uomo, destinandola a far figliuoli e ad allattargli, è segno che anche l' ufficio loro debb' essere diverso nella umana compagnia; e come la cura del governo familiare, e tutte le arti donnesche sono essenziali al buon vivere civile, così, facendo uomini anche le donne, una delle due, o gli uomini dovrebbero essi attendere a quelle arti, operando contro l' ordine della natura; o il viver civile diventerebbe una confusione orribilissima. Non si nega che sieno degne di eterne lodi le donne, che si rendono eccellenti o nelle arti, o nelle scienze, o nelle lettere; ma guai se tutte le donne volessero essere o scienziate, o letterate, o politichesse! Il mandato della donna è sublime, chi sappia valutarlo: siamo noi donne quelle, che, attendendo alla prima educazione de' fanciulli, mettiamo loro in cuore i semi delle cittadine virtù, i quali poi fruttano a tempo e luogo gloria ed onori: siamo noi altre donne che temperiamo le troppo accese passioni, che facciamo parer più leggere le gravi cure de' nostri uomini... Io non posso stendermi ora di più su questa materia. Creda a me, signorina: pensi ad animo quieto, e ci pensino tutte le sue compagne, a queste mie parole; e se loderanno ed ammireranno sempre quelle donne delle quali ogni domenica qui si celebrano le virtù, potranno menar vanto che anche le donne sono capaci de' più nobili atti virili, e con l' esempio di esse tureranno la bocca agli stolti, che dicono il contrario; ma ne conchiuderanno per altro, che al bene ordinato viver civile, giovano molto più quelle che intendono il mandato loro proprio, e cercano di essere buone spose e buone madri.

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A costei aveva dato la direttrice da raccontare la vita della Violantina Giustiniani, per avere occasione appunto di farle un pochino di predica sulla sua leggierezza. Udiamola. "La Violantina genovese, vissuta nel secolo XVI, fu della casa Giustiniani, ed è rimasta famosa per la sua bellezza, la quale fu tale e tanta che, non solamente in Italia, ma per tutta Europa era celebrata: di sorte che non vi fu pittore così eccellente che potesse ritrarla a perfezione. Molte principesse e gran signore vennero di lontani paesi fino a Genova per accertarsi co' propri occhi, se tal fama era vera; e trovando la donna più meravigliosa ed eccellente che non se l' erano immaginate, restavan confuse, giudicando essere un esempio angelico e divino, piuttosto che cosa umana. E per� si pu� dire che avanzasse Elena e Faustina, le quali si trova scritto essere state le donne più meravigliose e più belle dell'antichità.La Violantina fa ancora raramente virtuosa; perchè maritata che fu, seguì con tanto amore il marito, che, intervenutegli alcune gravi sventure, ella se ne attristò in maniera, che il dolore lentamente la consumò e la condusse alla morte." Gli applausi vi furono ma non troppo abbondanti: e non essendovi chi facesse veruna osservazione, non fu tarda la direttrice a dire: "Brava signorina: della Violantina ella ha parlato con assai garbo, e la lodo di cuore per quel che riguarda la composizione. Tuttavia ella ne ha portato alle stelle la bellezza, che, nol niego, fu veramente meravigliosa ed unica; ed ha parlato brevemente, e quasi per incidenza, della sua virtù, la quale sola è degna di vera lode. La bellezza, signora Zita (e parlando a lei intendo di parlare a tutte le compagne), la bellezza è dono di natura; e non dico che sia da tenersi in pregio; ma quando si pensa che per sè stessa non opera nulla di bene: che anzi può esser cagione di molto male, come, per esempio, fu cagione dell'esterminio della sua patria la bellezza di quelll'Elena da lei ora, ricordata: quando si pensa che la bellezza è come un fiore, il quale necessariamente in poco tempo appassisce e muore; chi ha senno non crede che basti essa sola a rendere chi n'è dotato degno di onore e di fama. Può bene essa fruttare e disonore ed infamia; quando una donna vana e di cervello leggero se ne pavoneggia, perchè le può essere occasione a molti e gravi falli; ed invece di lodi e di ammirazioni, poi, si acquistano gli scherni e le beffe delle persone di senno, e degli stessi giovani galanti quelle fanciulle, la cui vanità è così grande che si manifesta in ogni loro atto, nelle foggie del vestire, dell'acconciarsi e del camminare. Ella dunque, gentil signorina, parlando della bella Genovese, doveva esaltarne la meravigliosa bellezza; ma doveva aggiungere che la fama di lei è così chiara, perchè questa beltà era congiunta alla semplicità di costumi, alla pudicizia ed all'amor conjugale, di cui essa dette raro esempio: e dopo aver detto quel che ho detto io sulla caducità della bellezza, doveva chiudere il suo discorso col dimostrare come la virtù non muore, è efficacissima operatrice del bene, è la sola insomma che meriti altissime lodi." La signorina intese benissimo dove andavano a battere le parole della direttrice, e fece il viso come di fuoco: lo intesero parimente alcune di quell'altre ragazze, e ne fecero bocca da ridere. Fatto sta per altro che la predica fruttò; perchè quella fanciulla, la quale in fin de' conti era buona, temperò assai quel poco di vanità che aveva per il capo; e fu anzi di buon esempio alle altre.

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Questo dialogo si faceva nella camera della direttrice la settima domenica dell'anno, pochi momenti avanti che dovesse cominciar la solita lettura, la qual toccava ad una vaga ragazzina, chiamata Elisabetta: la quale, come avete udito, si vergognava a leggere in pubblico; ma che poi, vinta dalle ragioni della direttrice, si fece animo e andò risolutamente al suo posto, incominciando con voce assai ferma. "Mi tocca a parlarvi della Cassandra Fedele, nata in Venezia nel 1465 da Angelo Fedele. Si può dire che ella fosse un chiaro lume tra coloro che nel secolo XV fecero rifiorire le buone lettere; e se non lo fu quale lo fu Poliziano, e tanti altri sommi uomini, fu però così dotta nella filosofia, nella teologia, e nelle lettere greche, latine e italiane, che dal Poliziano stesso era molto stimata, e la ricorda con molto onore nelle sue lettere: ebbe poi tanta fama che fu in relazione di Leone X e di altri monarchi; ed al tempo di Agostino Barbarigo, doge di Venezia, facendo egli un pranzo diplomatico a tutti gli ambasciatori ed al Senato, vi fece invitare anche lei; ed ella, dopo il pranzo, esortata da que' signori, disse con tanta grazia e fecondia una dottissima orazione latina, che fece restar tutti a bocca aperta: e poscia ne recitò una volgare, bellissima anche quella. C' è chi dice che fu Professora della università di Padova; ma; ma ciò non è veroero; a meno che non si voglia sostenere che lo fu, perchè vi sostenne pubblicamente delle dispute filosofiche. Fu pure eccellente nella musica; e riverita da tutti per la sua castità e per la puritè de' costumi. Scrisse molte epistole latine e greche: parecchie orazioni, ed un libro dell'ordine di tutte le scienze. Isabella di Castiglia la voleva alla sua corte; ma la Repubblica di Venezia non vi acconsentì, per non privarsi di sì bello ornamente. Fu maritata a Giovanni Mapelli, medico deputato ad esercitare la sua arte nell'isola di Candia, dov'ella il seguì; e ritornando di là una volta, gli prese una gran burrasca, che gli ingojò ogni loro avere. Rimasta poi vedova, senza veruna compagnia nè appoggio, trovò conforto nello studio. Giunse così fino all'estrema vecchiezza, ed essendo all' età di 90 anni, superiora delle ospitaliere di San Domenico, in quella carica morì santamente, dopo essere arrivata alla età di 102 anni." Non istarò a ripetere ogni volta gli applausi fatti, i brava, i bene, perchè questo si sa: dirò solamente che la direttrice, taciuto che ebbe la signorina, affabilmente le disse: "Vede, non glielo aveva detto che la sua paura era senza cagione? il suo racconto è stato assai bello, e le sue compagne hanno fatto manifesto segno che lor sia piaciuto." "Perchè lei è buona, e sono buone troppo con me le mie care compagne: ma però non credo mica che il mio lavoro sia bello davvero, nè che non ci sieno di grossi spropositi: so quanto è difficile il far bene; e conosco dall' altra parte la mia insufficienza." E voltasi graziosamente al maestro: "Signor maestro, la lode della signora direttrice m'è cara; ma cara anche più mi sarebbe la sua correzione." Ed il maestro, sapendo che la signora Bettina diceva ciò, non per leziosaggine, ma per vero sentimento, replicò: "La lode è meritata: nondimeno, come la perfezione è cosa quasi impossibile. così le dirò schiettamente che, almeno dal mezzo in giù, il suo discorso ha alquanto dello spezzato, nè una idea scende ordinatamente dall'altra; e però anche i periodi saltellano un poco. Discorso vuol dire lo scorrere ordinato e naturale dell'una idea dall'altra: e chi ha scelto argomento possibile alle sue forze, e chi ha ingegno, non gli manca nè la parola pronta nè un ordine limpidissimo. Questo dico qui brevemente; e poi in iscuola ne faò soggetto di alcune lezioni. Anche nella lingua ella ha peccato un poco: due volte ha usato lo per tale, così:e se non lo fu al pari del Poliziano; e poi a meno che non si voglia sostenere che lo fu. Questa particella è propria della lingua francese, e la nostra non la comporta; la vedrà difesa da alcuni, e ne vedrà anche recati degli esempj; ma non ascolti que' difensori, non valuti nulla quegli esempi: tutti i buoni maestri la condannano per barbara, o nell' uso de' buoni scrittori non c'è. Questo le basti. Anche la congiunzione A meno che, da lei usata, è francese; e noi possiamo dire o salvo che, o eccetto che, o altrimenti. Ha detto che la Cassandra fu in relazione con Leone X, tal frase è migliore dell'altra comunissima ebbe rapporti, come sogliono dire molti barbareggianti; ma non è però troppo bella: meglio sarebbe stato il dire fu accettata, fu cara. Quel doge Barbarigo, il quale dà un pranzo diplomatico, mi ha fatto far bocca da ridere, prima perchè il pranzo diplomatico per pranzo di parata o solenne, è sempre da fuggirsi come inutile neologismo; e poi perchè, riferito a casa del secolo XV, riesce anche più strano: ed ho parimente riso un pochino al sentire che Cassandra fece restar que'signori tutti a bocca aperta, perchè se la frase è famigliare, è per altro disdicevole al luogo e all'occasione da lei ricordata. Che la Cassandra fu professora nol direi, perchè generalamente quando una donna fa ufficio proprio dell' uomo, si nomina per uomo; se però a lei pareva strano il dire Cassandra professore, potea dire che lesse, che insegnò nella università. Ella ha pure usato la particella gli per a loro: si ricordi che è poco scusabile errore; e badi ancora che il chiamar carica l' ufficio della Cassandra nel monastero di San Domenico, è un barbarismo bell' e buono. Eccola censurata senza pietà: e contenta? "Contentissima, e mille grazie, rispose la signorina; e mentre tutti stavano per alzarsi, una delle minori domandò alla direttrice: "Scusi, signora direttrice, ella ci insegna che gli per a lei non si deve dire; ed ora, parlando alla Bettina, ha detto: Vede, non glielo avevo detto. O in quel glielo non c'è un gli che vale a lei? "Brava, rispose la maestra: lodo il suo zelo di imparare. Sappia dunque che quando la particella gli è congiunta ad altra particella pronominale, come lo e la, tramezzo alle quali, per dolcezza di suono, si frappone una e, allora si usa senza errore così nel mascolino come nel femminino. Gli, antichi della unione di queste due particelle ne facevano voce indeclinabile, dicendo sempre gliele; ora per altro si dicegliele, glielo, gliela secondo i casi." La fanciulla ringraziò; e finì così per quel giorno la lieta conversazione.

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Matteo Palizzi però, uomo perfido, che governava, di fatto il regno, e anche il Re menava per il naso vedendo di mal occhio la pace, fece un'imboscata per ammazzare lo Spadafuora; e di fatto, mentre passava di lì, dato il segno, i congiurati gli saltarono addosso: ma Corrado chiamò soccorso quanto ne aveva in gola, pregando che salvasse un innocente, che portava al Re la nuova della pace; ed il popolo corse a furore, e lo levò dalle mani dei congiurati; nè contento di ciò, cominciò a gridare: Muora Matteo Palizzi traditore, correndo alle case di lui. A queste voci le donne si unirono col popolo, che, presa la bandiera, corsero alla porta Sant' Antonio; e trovatala serrata, la buttarono giù con le scuri: e fecero entrare in città chi volle entrarvi. Matteo impaurito, fuggi nel palazzo reale, ed il tumulto fu un poco acquietato; ma il giorno appresso levossi nuovo tumulto di sole donne, le quali andarono tutte armate al palazzo chiedendo che fosse loro dato nelle mani il traditore. Il Re stesso le pregò d' acquietarsi, e fu inutile: finalmente venne alle minaccie di severo castigo; alle quali minaccie esse, divenute più feroci, risposero al Re, che, se non dava loro il Palizzi, arderebbero il palagio; e avevano bell'e pronto il fuoco, e l' accostavano alla porta. A questo il Re, sbigottito, scappò per la porta di dietro; e le donne mescolatamente ad altra plebe, entrarono nel palazzo, dandosi a cercar di Matteo; ma, non lo trovando, e scontratesi in un suo riscotitore, lo presero per ucciderlo: il quale, per salvar sè, additò il luogo dov' era Matteo; e le donne, trovatolo, misero spietatamente a morte lui e tutti i suoi. "Ecco fatto, disse la Nina, finito che ebbe il suo discorso. Ho obbedito alla signora direttrice; ma però voglio che mi si permetta di dire che queste donne mi pajono mal collocate tra le donne illustri, perchè l' azione loro non ha nulla di generoso." "Potrebb' essere, rispose la direttrice, che in parte la signora Nina dicesse bene; e lo vedremo. Intanto, se c' è qualcuna di loro che voglia fare qualche osservazione dica pure." "Anche a me pare - disse la Eglina, che non aveva più fiatato da un pezzo - anche a me pare che queste donne avrebber fatto meglio a stare a badar a casa, e lasciar fare agli uomini, i quali sarebbero stati più che sufficienti ad ottenere il fine loro." "Ed io invece, continò lla signora Giulietta, dico che non mi dispiace per niente il vedere lavata per mano delle donne tanta vergogna della Sicilia e della dignità reale." Alla signora Giulietta seguitò un' altra fanciulla con altra osservazione; e quasi tutte, ciascun volle dir la sua, chi biasimando, chi celebrando le donne messinesi. All' ultimo la direttrice chiuse la conversazione con queste parole: "Il fatto di queste donne messinesi non bisogna giudicarlo secondo le idee de' tempi presenti, nè assolutamente; ma avendo l' occhio al grado di civiltà de' tempi ne' quali il fatto avvenne e delle condizioni speciali al luogo e alle circostanze. Molti fatti si leggono celebrati nelle storie, e si celebrano continuamente nelle scuole per degni di eterna lode, i quali, a guardargli ben bene, ed a giudicargli secondo i dettami della presente civiltà, meriterebbero acerbo biasimo. Basta però che i maestri accorti facciano notar questa cosa agli scolari, come faccio io adesso a proposito di queste donne messinesi. Ha detto bene la signora Nina, che queste donne avrebbero fatto meglio a star in casa, lasciando fare agli uomini; perchè il vedere un branco di donne infuriate, in armi e micidiali, è cosa tanto contraria alla natural tepidità femminile, ed all' ufficio naturale della donna, che dispiace e rivolta lo stomaco: e tanto più lo rivolta a'nostri tempi, perchè ci recano a mente gli orrori infernali delle donne francesi della Rivoluzione. Ma, considerata la peculiare condizione della Sicilia sotto il fanciullo re Lodovico; la ingordigia, la ferocia, la svergognata tirannide, e il vile tradimento di Matteo Palizzi: considerato che in quel secolo non era al tutto spenta la barbarie del medio evo; bisogna pur dire che il fatto di quelle donne purgò la Sicilia da un grande scellerato e da una gran vergogna; e che però non senza qualche ragione si noverano dagli scrittori tra le donne illustri.

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La domenica undecima nella sala delle letture si scorgeva qualche cosa di singolare: tutte le ragazze più composte e più attente dell' usato: oltre il maestro di lingua italiana, erano iti a udir leggere gli altri maestri; e ciascuno aspettava con desiderio che la lettura incominciasse. La lettrice era quella mattina la signora Zaira, amabile giovanetta pistojese, di modi e di costumi angelici: buona, affettuosa, studiosissima; quella a cui tutte le compagne cedevano volentieri e senza invidia; e che dalla stessa direttrice e da tutti maestri era portata a cielo per il suo mirabile ingegno, e per la prontezza dell'apprendere. Nella lingua italiana specialmente era, si poteva dire, valentissima; e le sue lettere, e le sue composizioni erano così schiette e così assennate, che si citavano lì nell' Istituto come esempio di bello scrivere. Ella pertanto, andata al luogo suo e fatto un affettuoso cenno del capo alla direttrice e a' maestri, disse con voce dolcissima: "La valorosa donna della quale mi tocca parlarvi, fu nobile donna di Mugello, nel contado fiorentino; e perchè costei, nè in amore verso la patria e l'marito, nè in costanza e fermezza d'animo nè iin prudenza e giudizio, nè in fortezza virile, nè in qualsivoglia virtù fu inferiore a verun'altra delle più illustri, voi, mie buone compagne, sopporterete che di lei vi parli un poco più distesamente che le altre non hanno fatto sin qui. Ella fu dunque della nobil casata degli Ubaldini, e fu moglie di Francesco degli Ordelafli, il quale, sotto nome di Capitano, governava Forlì, Cesena, Forlimpopoli ed altre terre di Romagna. Avvenne che il Legato del Papa, avendo gran potenza di danaro e di uomini d'arme, disegnò, nel 1357, di muover guerra a questo capitano; il quale, risoluto di mantenere le sue terre, e difenderle sino alla morte, mandò la moglie madonna Cia e i figliuoli con duecento cavalieri e gran numero di soldati a Cesena, raccomandando alla Cia specialmente la guardia della città, e comandando a tutti che la obbedissero come se fosse lui proprio e le diè per consigliere Sparaglìno, suo intimo amico, molto esperto delle cose di guerra. Ordinate il Legato le sue genti, e fatta pubblicare la guerra contro al Capitano di Forlì ed. ai cittadini di Cesena, benchè madonna Cia facesse ottima guardia della città, essi nondimeno, sapendo la gran forza che aveva il Legato, e che contro a loro si apparecchiavano le percosse, nè vedendosi potenti alla difesa, tumultuariamente ordinarono di ricevere nella terra la gente di lui, il quale vi mandò tosto mille cinquecento cavalieri, che furono messi dentro senza contrasto. La donna non potè riparare a questo impeto improvviso; ma, non perdutasi d' animo, si ridusse nella più alta parte della città, che si chiamava la Murata, e nella ròcca con tutta la sua gente; e presi tre cittadini di quelli che avevano maneggiato il trattato, gli fece decapitare, e gittar di sotto tra'nemici, prendendo con animo più che virile la difesa del minor cerchio e della ròcca, con sollecita guardia di dì e di notte, senza ombra di paura per cosa che le potesse accadere. Il Legato allora mandò tutto suo sforzo ad assediare la Cia nella Murata e nella ròcca, prima che potesse aver soccorsi di fuori: e dava giorno e notte gravi assalti, fracassandole con macchine da ogni parte; ed oltre a ciò tteneva trattati di aver la Murata per prezzo: onde madonna Cia, avuto qualche sentore che Sparaglino, l'antico amico del Capitano, trattava col Legato, lo fece prendere e tagliargli la testa. Ella rimase allora sola guidatrice della guerra, e continuamente era con l'arme in dosso alla difesa della Murata, respingendo gli assalti nemici sì virtuosamente e con animo così fiero ed ardito, che tutti la temevano e la obbedivano come se fosse stata il Capitano medesimo. Nè il Legato era dal canto suo meno operoso e meno ostinato; sì che, rinforzando gli assalti fierissimi, e rovinato già gran parte di muro; e dove il muro era caduto facendovisi più aspra battaglia; quelli che erano alla difesa venivano sempre meno per i gran morti e per l'inestimabile affanno: laonde, ridotti all'estremo, madonna Cia, dopo aver fatto prove meravigliose di sua persona, con quattrocento uomini disposti a morir per lei, si ridusse nella ròcca col proposito fermo di non cederla se non per morte. Ma le forze del Legato eran sì grandi, e le macchine da guerra tempestavano sì la ròcca, che la difesa era oggimai inutile. Nulla per altro piegava l' animo della nostra eroina, la quale combatteva sempre più animosamente, sperando forse qualche soccorso da suo marito, a cui aveva potuto far pervenir un polizzino scrittovi queste due parole: Va male. Stando le cose a questi estremi, Vanni degli Ubaldini, suo padre impetrò dal Legato di parlar con la figliola per farla arrendere con salvezza di lei e della sua gente; e venuto ad essa, mostrolle come al loro estremo pericolo non c'era rimedio: rendesse oggimai la ròcca, ed avrebbe onorate condizioni. La donna rispose: a Padre, quando voi mi deste per isposa al mio signore, mi comandaste che sopra tutte le cose io gli fossi obbediente: così ho fatto e farò fino alla morte: egli mi affidò questa terra, dicendomi che per niuna cagione l'abbandonassi: la morte ed ogni peggior cosa non curo, ov'io obbedisca ai comandamenti di lui;" e preso commiato dal padre, si diede tutta a provvedere la più disperata difesa; ed era veramente mirabile il vedere la costanza e la operosità di sì rara donna. Quando però la più parte delle mura furono abbattute, e già si metteva in puntelli la ròcca, principali capi dei difensori, le dissero, che, volesse ella o no, avrebbero reso la ròcca per salvare senza le loro persone: ed allora la valente donna senza smarrirsi disse che lasciassero fare a lei; la quale trattò col Legato che tutti i capitani con la loro gente fossero liberi, e potessero portare addosso ciò che volevano; ed ella rimarrebbe prigione con Sinibaldo suo figliuolo, con la figliuola e due nipoti. Così fu fatto; o il Legato stesso ammirando il forte animo di lei, la trattò cortesemente, sicchè, fatta poi la pace col Capitano, mediante anche la cessione di Forlì, liberamente gli restituì la moglie e i figliuoli; ed essa lo seguì nell'esigilo a Venezia, dove rimase vedova dopo molti anni nel 1379, continuando sempre a dare esempio di costanza e di affetto alla memoria del marito, intenta solo a dare a' figliuoli un'educazione degna del padre loro e di sè." A questa lettura della brava Zaira seguitarono applausi sinceri da ogni parte; nè vi fu niuna delle sue compagne che facesse la minima osservazione: parimenti il maestro e la direttrice non dissero se non parole di lode: e per quella mattina la conversazione passò in chiacchiere piacevoli; e si chiuse con queste parole del maestro: "La signora Zaira ci ha detto che la Cia potè far pervenire al marito una carta dov'era scritto va male, per fargli comprendere l'estremità nella quale si trovava. Questo diede origine al proverbio: La va come diceva la Cia, nel quale si vuol significare che una faccenda va male; e tal proverbio, che si legge in parecchi scrittori fiorentini, è vivo tuttora in qualche luogo del contado di Firenze."

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A tempo della coronazione di Carlo V, andò a stare per qualche tempo a Roma, e nella sua casa formò una specie di accademia, dove erano scritti i più insigni letterati d'allora. Il detto Carlo V, passando per Correggio, due volte volle alloggiare presso questo illustre donna, la quale gli rese altissimi onori. Veronica non era bella; ma era così gentile e la sua conversazione così dotta e graziosa, che tutti ne stupivano. Morì in Correggio nel 1550; e fu sepolta accanto al suo sposo nei sepolcri della famiglia dei Signori di quella terra. "Di lei si ha stampato un bel volume di rime e lettere, che si danno per esempio di buona poesia, e di bella scrittura. Alcune rime da' più gran poeti del suo tempo furono a lei indirizzate; e le lettere si vedono parimente scritte a' più gran personaggi, ed agli uomini più insigni nelle lettere." Agli applausi ed ai brava la Vittorìna rispose con lievi cenni di capo; e poi, volta alla direttrice, le disse con lieve cipiglio: "Ecco, signora direttrice, ma fa il piacere di dirmi, perchè mi raccomandò tanto di notare che la Gambara era aliena dalle mode? Ma che lo star su le mode è cosa da far molto torto a una donna?" "Io, signora Vittorina, non volli che ella toccasse delle mode, ma anche delle altre vanità femminili; e lo feci appunto per pigliarne occasione di dire due parole su questo argomento, perchè qualche tempo fa, in una disputa che ella ebbe con alcune di queste signorine, la si mostrò forse troppo accesa nel difendere e la moda, e certe usanze e modi poco dicevoli a donna ben costumata. No, non è cosa da far torto a una donna il seguitare la moda: anzi, dico di più, è cosa buona il seguitarla, perchè in fine de' conti per essa mantengonsi molte manifattura, e il commercio ne fiorisce. Ma in questo seguitar la moda bisogna aver rispetto a più cose; al modo come si seguita, alla condizione di chi la seguita; e così all'età ed alla corporatura. Quelle donne che stanno sulle mode senza passare i termini del decoro e dell'onesto, quelle niuno si sogna nemmeno di biasimarle: ma, quelle sciocche, le quali esagerano anche le esagerazioni della moda, che cosa ci guadagnano? Lo sanno quel che ci guadagnano? che mentre si pensano che tutti debbano aver gli occhi addosso a loro per ammirarle; tutti, vedono signorine, tutti, anche i giovani più scapati, ridono alle loro spalle; e le tengono forse in cattivo concetto. E poi un fiore vale un quattrino, ma non istà bene in petto a tutti. Noi vediamo continuamente che donne di mezzana, ed anche di bassa condizione, stanno su tutte le mode, anzi sulla esagerazione delle mode; e sono a tutte le feste, e a tutti i ritrovi, pensandosi forse di esser da ciascuno ammirate. Ma lo sanno, bambine mie, che cosa guadagnano queste cervelline? Che tutte le canzonano senza misericordia per quella matta loro smania di comparire da più di quel elle sono: che si cominciano poi a far loro i conti addosso: Ma come fa la tale a sfarzare a quel modo? senza dote... col marito che guadagna a fatica l'acqua per lavarsi le mani.... E lì mormorazioni; e lì giudizi temerarj; e lì scherni d'ogni sorta. Eccolo il bel guadagno che fanno... Basta, io non posso distendermi troppo sulla materia di queste scempiate, perchè dovrei dir cose non opportune a dirsi qui. Facciamo dunque fine per oggi; e un'altra volta torneremo sopra altre vanità femminili; che tutte vanno a finire, generalmente parlando, con la derisione delle persone di senno, e con la rovina dei poveri mariti e delle famiglie.

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E la direttrice aveva già cominciato a inquietarsi, e mandava a sentir che cosa era stato, quando si fermò una carrozza all'uscio di strada, e poco di poi entrò nella sala la signora Laurina, che, fatti i convenevoli d'uso, e domandata indulgenza così un po' seccamente dell'indugio, andò al suo posto e disse così: "Vittoria Colonna nacque nel 1490, da famiglia antica o nobilissima di Roma.' e suo' padre Fabrizio Colonna, Gran Contestabile del regno di Napoli, la promise, quando aveva quattro anni, a Francesco d'Avalos marchese di Pescara, detto il Gran Capitano, che la sposò veramente all'età di 14 anni. Essa fu a' suoi tempi un miracolo di bellezza, di virtù e di ingegno; fu sposa affettuosa e virtuosa; ben presto il suo marito dovè, per cagioni delle guerre, allontanarsi da lei: essa allora rimasta così sola, non ebbe altro conforto che un tenero commercio di lettere con lui, consacrandosi con assiduità con gran cura agli studj delle due letterature, nelle quali era già valentissima. Lo sposo accoglieva con lieta affezione i suoi consigli; e quando i principi italiani gli proposero di farlo re di Napoli, se abbracciava il loro partito egli rifiutò per cagione di queste savio parole che Vittoria gliene scrisse: "Mi basta d'esser la moglie di un prode e onorato capitano, nè cerco di esserla di un re traditore." Il d'Avalos però morì di ferite a Milano, quando essa aveva 35 anni: lo pianse amaramente e lo fece pietoso soggetto di tante sue poesie. Era bella, tuttora giovane; aveva fama di cortese e di saggia, e molti signori e grandi personaggi si sarebber tenuti felici della sua mano; tuttavia ella, chiusa nel suo dolore, non aprì ll'animo ad altro affetto, se non a quello di Dio e della vita beata. Passati di poco i 50 anni, and� a Roma, patria do'suoi antenati; e qui morì nel 1547. Le poesie di questa gran donna dicono i letterati che sono le più belle tra quelle degli imitatori del Petrarca, e che tra le poetesse di quel secolo essa è la prima: le sue lettere parimente si danno per modello di eleganza e di senno. I più gran personaggi di quel tempo la onorano e la celebrarono: basti qui ricordare i due più sommi ingegni, l' Ariosto, che ne cantò lodi altissime, e il divino Michelangelo, che l'amò e la riverì come cosa sovrumana" Qui tacquesi la signora Laurìna; ed allora la direttrice, con quel modo più umano che seppe le fece dolce rimprovero dell'essersi fatta aspettare, ammonendola come verso tutti si debbono usare gli uffici di civiltà; ma specialmente verso più persone insieme radunate: e che questa mancanza di riguardo era più grave in lei, nobile e ricca, perchè poteva esser presa per alterigia e per dispregio a persone da meno di sè; quando invece i nobili e i ricchi dovrebbero essere i primi a usare tali ufficj, mostrandosi con tutti affabili ed umani. La Laurìna si scusò meglio che potè, accertando che non lo aveva fatto per male, ma per esser dovuta tornare indietro a riprendere i fogli, dei quali si era scordata; ma che sperava di non cadere un'altra volta in simile mancanza. Poi, voltatasi garbatamente al maestro, gli domandò: "Signor maestro, ha ella veruno avvertimento da darmi?" Dacchè lo desidera, rispose il maestro, le noterò quattro o cinque cose non belle nel suo bel discorso. Quel commercio di lettere della Vittoria col suo marito, non dico che sia errore; ma a me è parsa sempre frase sgarbata, e metafora mal acconcia, nè saprei partirmi dalla bella e schietta voce corrispondenza: e frase parimenti sgarbata e metafora anche peggio acconcia, mi pare il consacrarsi allo studio, ed abbracciare il partito d'uno per darsi tutto allo studio, attendervi assiduamente; e seguitare le sue parti o simile. I nomi proprj delle donne si sogliono usare sempre con l'articolo, la Giulia, la Caterina; e quel sentirle dire che Vittoria gliene scrisse, mi ha dato un po' nell'orecchio. Lei però la scuso, perchè questa leziosaggine è usata spesso da coloro che pretendono di parlare in punta di forchetta; e non sanno. Lo tenga a mente: benchè, parlandosi di donne celebri, pare che si possa comportare. Errore assoluto poi è l'usare qui per quivi, come ha fatto lei, dove scrive che la Vittoria and� a Roma e qui morì. Il qui rappresenta sempre il luogo dove è chi parla; e quando si vuole accennare luogo lontano da chi parla, si dice quivi. C' è chi porta esempi di buoni scrittori, che hanno usato l'una di queste due particelle per l'altra; ma, se gli esempj sono antichi, sono alterati da' copiatori o dagli editori; se sono moderni, non hanno autorità Finito che ebbe il maestro, si fecero altre discussioni in cose di lingua, finchè venne il tempo di andarsene.

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La lettura decimaquarta fu fatta la domenica quindicesima dell'anno, perchè ci era stata la Pasqua di Resurrezione; e toccava a farla ad una giovanetta chiamata Fulvia, che disse così: "Vi ho da ragionare, per comandamento della signora direttrice, di una valente donna del secolo XIV, che fu modello delle buone spose e delle buoni madri; questa è la Fulvia Fico, figliuola di Galeazzo principe della Mirandola; e forse perchè mi chiamo come lei, e non perch'i' sia atta a poterne parlare come merita, è stata data per tema al discorso che dovevo fare oggi. Sino da fanciulla mostrò di essere inclinata ad ogni più bella virtù, e fu amantissima dei buoni studj; e però quando la Caterina de' Medici fu regina di Francia, la chiamò alla sua corte, della quale era ornamento principalissimo, di sorte che invaghitosene un principe della casa di Rochefoucault, la volle per isposa, e gli fu concessa. I genitori dello sposo vedevano di mal occhio questa straniera per loro nuora; ma come prima ella fu entrata nella casa nuova, si mostrò così buona, così soggetta al marito ed alla suocera, così benigna con tutti, e ben presto fu amata e carezzata da chi meno volentieri ce l'aveva ricevuta Era poi tanto istruita delle buone letture, e della letteratura francese ancora che ciascuno la onorava e la riveriva; ed era portata proprio in palma di mano. Fu però breve questa sua felicità; perchè rimase vedova nella fresca età di 22 anni, e cessò così per lei ogni gioja: se non che trovò conforto soavissimo negli esercizi di pietà e nella educazione de'figliuoli; e visse onorata ed amata fino al 1559. I più nobili ingegni di Francia la celebrarono con lodi altissime e la sua memoria rimase viva e fresca per molto e molto tempo in Parigi. Compagne mie, conchiuse la Fulvia, non avete udito fatti egregi, nè miracoli di lettere e d'armi: tuttavia credo che il racconto delle miti virtù di questa illustre donna, della quale vi ho parlato, possa essere a tutte voi efficacissimo ed ottimo esempio." Suocera e nuora Tempesta e gragnuola. "Codesto racconto, riprese gravemente la maestra, è il proverbio delle persone malcreate; ma le fanciulle ben create e di animo gentile, andando a marito, tengano come per propria madre la madre dello sposo, e per tale l'amano e la riveriscono. Anzi, dacchè la signora Eglina me ne ha, data occasione; e tutte loro possono da qui a pochi anni aver la loro suocera, così io voglio legger loro i ricordi che una buona madre fiorentina diede alla figliuola il giorno avanti che andasse nella casa dello sposo. E aperto un cassetto del tavolino, prese un elegante libriccino, e trovato il luogo che voleva, incominciò a leggere: "Luisina, il Signore ti ha mandato una gran fortuna: bada di mostrartene grata col mantenertene sempre degna. Tu vai sposa ad uno dei più ricchi giovani di tutta Firenze: tu vai in una casa di specchiatissima nobiltà, che mai non ha smentito la sua chiara origine, nè offuscato la gloria de' suoi antenati. Invece di insuperbire, pensa che hai il gravissimo obbligo di mostrarti degna di abitar quella casa; e di portarti in modo che il suocero e la suocera non abbiano mai a pentirsi di avertici accolta. Con la servitù, e con tutti i sottoposti, porgiti sempre benigna ed affabile; chè se la superbia o l'arroganza sono brutti vizj in ciascuno, nelle persone che salgono di grado sono anche peggiori, e fanno dire alla gente che non c'è razza peggiore di chi si rinobilisce, o per usare la frase popolare un po' sconcia, ma efficace, de' pidocchi riuniti. Fuggi a più potere la conversazione delle donne vane e mormoratrici; e pensa sempre che, siccome le male lingue sono infinite, e mai non istanno in ozio, pensa che un atto o una parola poco misurata, benchè innocente, pu� dar materia ai maligni di comporre favole sul conto tuo, per intaccare il tuo buon nome. Delle conversazioni, delle mode e degli spassi di ogni genere, cerca solamente quel tanto che piacerà a tuo marito. Si dice che la moglie è soggetta al marito, ed è vero e dev'essere; ma questa non è vera e propria soggezione, è un amorevole scambio di concessioni: perchè quando il marito vede la moglie seguitare con allegro animo ogni suo onesto desiderio, studiarsi di non dargli dispiaceri, ed essere amante del suo onore; credi, Luisina mia, che allora il marito diventa più soggetto alla moglie che ella non è a lui; e non ch'egli secondi i suoi desiderii onesti, si studia anche d' indovinare quelli che tace. Il tuo sposo è buono, ed è fiore di gentilezza; ma un solo Dio senza difetti; e potrebbe benissimo averne anch' egli: in questo caso, bambina mia, mi raccomando che tu gli sappia compatire, nè tu pretenda di correggerli, o te ne mostri meno amorosa verso di lui; la tua bontà, credilo, gli correggerà da sè a poco a poco: ed egli sarà più indulgente verso i tuoi. Non mostrare vani sospetti della fede di tuo marito: non pretendere d' ingerirti troppo delle facende sue, mostrandoti o troppo curiosa, o sospettosa: ed allora credilo, sarà il primo egli stesso a dirti ogni minima cosa, ed ogni più intimo suo pensiero. Il padre e la madre del tuo marito ama e rispetta come il babbo e la mamma tua. Il proverbio che dice: Suocera e nuora Tempesta e gragnuola non vuol significare altro che il mal costume della gente di animo guasto e corrotto, priva di ogni buon principio d' educazione. La donna che ama il marito, e che desidera di essere amata da lui, come può malvolere la madre di esso senza dargli il più amaro dispiacere? E se la moglie dà continui dispiaceri al marito, come potrà egli volerle bene? E cessata la lettura, continuò: "Che dicono queste signorine dei consigli dati alla Luisina dalla. sua mamma?"Fanfani, Una bambola, cap. 20. Le signorine dissero tutte d'accordo: Bene, ottimamente! e, dopo alquanti ragionamenti sopra questa materia, andarono ciascuna alle loro case; continuandogli parecchie di esse con la persona che soleva accompagnarle e ricondurle da scuola.

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Questa si chiamava Rosìna, di età pari alla precedente, vivacissima, oltre ogni credere; la quale tutta lieta postasi al luogo suo, senza ombra di peritanza cominciò a leggere. Io v'ho a raccontare la vita di una nobile signora del Friuli, di bellezza maravigliosa, chiamata Irene da Spilimbergo, nata nei Primi dei cinquecento, e morta giovanissima nei 1537. Fino da bambina imparò eccellentemente le belle lettere e la musica, tanto che era reputata quasi un miracolo anche dai più eletti ingegni del suo tempo. Nei lavori d'ago e di ricamo niuna donna era giunta mai a far le belle cose che essa faceva; e molti de' suoi lavori, anche i più sommi artisti volevano vedere, e gli portavano a cielo. Anzi, vedutone alcuno di essi Tiziano, e conosciuto l'ingegno veramente artistico della fanciulla, pregò i genitori di lei che gli permettessero di insegnarle la pittura, nella quale divenne poi valentissima, e nel colorire specialmente eguagliò il maestro, come si vede in alcuni quadri che ci rimangono tuttora di lei. La morte per altro, come vi dissi da principio, ruppe il corso a' suoi trionfi, portandola via passati di poco i venti anni; e le sue lodi furono cantate in versi e in prosa, così in italiano come in latino, da molti insigni letterati." Come prima la Rosìna si tacque, tutte le fanciulle si volsero verso quella che aveva detto di voler dire la sua, per sentire che cosa mai volesse dire, essendo tenuta dalle compagne per un capetto armonico e di natura un po' strana. Essa era di famiglia assai nobile, ma non ricca: della nobiltà per altro menava assai vanto, e la osservazione ch'ella voleva fare, moveva appunto dall'alta idea della nobiltà. Ella dunque, domandata a fatica licenza di parlare, uscì di punto in bianco in queste parole: "Donna illustre questa Irene? Donna illustre una che, nata di famiglia nobilissima e veramente illustre, non si vergogna di abbassarsi a far lavori d'ago ed a ricamare? Mi perdoni la signora direttrice; ma, io come io, a metterla per questo tra le donne illustri ci avrei i miei riveriti dubbj." Molte delle ragazze a queste parole cominciarono a chiacchierare sotto voce tra loro, ed a sghignazzare; e la direttrice, con aria piuttosto grave, alla nobil fanciulla rispose così: "Signorina, ella ha uno strano concetto della nobiltà. La nobiltà è cosa buona in sè ,e da tenersene; ma quella sola e vera nobiltà che si acquista con opere e fatti egregj della propria persona. Coloro che si vantano della nobiltà ereditaria sono stolti, perchè si vantano di meriti non propri, ma de' loro antenati; e sono poi vituperosi quei nobili di origine, che la nobiltà acquistata da' loro vecchi deturpano, o con l' ozio, o con opere men che degne e men che onorate. Nelle donne poi il vantarsi della nobiltà originaria è cosa anche più sciocca, perchè più raramente che gli uomini possono acquistar la nobiltà vera con atti ed opere egregie della propria persona, come fanno gli uomini, o con la toga, o con la penna, o con le armi. Lo sanno per altro, signorine, qual è la nobiltà vera nelle donne? l'essere ottima madre di famiglia, l'educare i figliuoli ad ogni civile virtù, ed attendere al buon governo della famiglia, come dicemmo qualche giorno addietro; e non l'attendere a vanità. La madre dei Gracchi l'avranno sentita ricordare da' loro maestri per esempio delle buone madri. Essa era delle più grandi matrone di Roma; e pure lo sanno qual era il suo maggior vanto? Ascoltino. Una ricca matrona venne una volta dalla Campania a Roma, e andò a visitare questa madre de'Gracchi, la quale si chiamava Cornelia, ed era figliuola del grande Scipione. Quella matrona di Campania era altera della sua nobiltà, della sua ricchezza; e come sogliono tutte le donne vane cominciò a parlare e far pompa de' suoi ricchi gioielli, mostrando desiderio che Cornelia le mostrasse i suoi; al qual desiderio Cornelia umanamente rispose che tra poco glieli farebbe vedere: nè passò molto tempo che i due suoi figlioletti tornarono tutti festosi da scuola. Allora Cornelia, abbracciatili e baciatili amorosamente, gli presentò alla sua orgogliosa visitatrice dicendole: "I miei gioielli ed i miei ornamenti son questi; ed ogni mia cura ed ogni mio pensiero lo spendo attorno a loro." Le quali parole fecero ben vergognare quella donna vana, che andò via tutta confusa. Venendo ora al particolare dei lavori d'ago e di ricamo della Irene da Spilimbergo, non credo che la censura della signorina meriti neppure risposta: le dir� solo, per non uscire da Roma antica, che quei Romani, i quali furono il primo popolo del mondo, tanto più pregiavano le loro donne quanto più attendevano a casa; e si reputò il più grande elogio che possa, farsi ad una donna quella iscrizione posta sopra il sepolcro di una matrona laqual diceva: Domi mansit, lanam fecit che vuoi dire: Bado a casa, filo la lana; ...scarmigliata e scalza, seguitò il marito, conducendo seco il fratello... Parte I - XXII e il nostro Dante celebra con lodi altissime le antiche donne nobili Fiorentine che tornavano dallo specchio senza il viso dipinto, e stavano contente al fuso e al pennecchio..." Qui si udì come qualche suono di riso tra le fanciulle; e la direttrice non fu tarda a continuare: "Non vo' mica dire con questo che anche loro abbiano a filare la lana; ma vo' dire che a niuna donna, anche nobilissima, si disdicono i lavori muliebri, e che anzi meritano lodi altissime quelle che non se ne vergognano, e volentieri gli esercitano."

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Aspetta aspetta, alla fine eccoti un servitore con una lettera per la direttrice, la quale, apertala e lettala tacitamente, disse: "La signorina che doveva leggere: sentano che cosa scrive: "Signora direttrice stimatissima, "Non posso venire a leggere la vita, perchè son malata, e papà e mammà vogliono che io stia a letto onde curarmi. Creda, mi rincresce; ma proprio non ho potuto. "Ho l'onore di segnarmi con tutto il rispetto "Sua devotissima alunna "BEPPINA FERONI." "Poteva farcelo sapere prima, continuò la direttrice; ma le risponderò, e le farò notare questa sua mancanza di riguardo. Intanto dacchè siamo qui raccolte, acciocchè non manchi oggi la usata lettura, leggeremo scritta da un contemporaneo la vita di donna Caterina Cibo, duchessa di Camerino, principessa di Bisignano. "E andata di là, tornò con un antico libro del cinquecento e trovata la pagina, lo diede alla signora Zaira che leggesse, ed ella ubbidì. "Quanto sia lo splendore, e la nobiltà della casa Cibo è tanto noto, che non occorre affaticarsi in mostrarlo ed è pur noto quanti gran personaggi sieno da essa in diversi tempi, in ogni sorte di nobili arti eccellenti, usciti, tanto uomini, quanto donne, tra le quali risplende come il sole, la virtù e 'l valore di Caterina Cibo, la quale fu di tante doti ornata, che la bellezza del corpo, che fu in lei grandissima, non pare che si metta in conto: chè fu ripiena di maravigliosa pietà e bontà, e d'ingegno molto acuto, sì che apprese quattro linguaggi, l'ebreo, il greco, e 'l latino, e 'l nostro toscano, e gl' intendeva tutti ottimamente: e non solo fece progresso nelle umane lettere, ma anche nella sacra teologia; chè a questo fine imparò la lingua ebrea, ed era usata studiare la sacra Bibbia in ebreo, e servirsi de' commenti de'dottori greci in greco: oltre a che attese anche la filosofia, sì che fu uno specchio di dottrina e di religione. Costei fu da papa Lione suo zio materno maritata, come fra gli altri racconta fr� Leandro Alberti, a Giovammarìa Varano duca di Camerino, col quale ebbe una sola figliuola nomata Giulia, la quale, perchè il padre si morì assai per tempo rimase erede di quello Stato; e la duchessa Caterina elesse vita vedovile, e prese il governo dello Stato e dello figliuola, la quale allevò ed, ammaestò nelle medesime discipline, che aveva apprese lei; e governò più anni quello Stato con maravigliosa prudenza e giustizia. Nel qual tempo occorse un caso, che fece a tutti palese quanta gran costanza e fortezza d'animo fosse in lei; per ciò che entrò una notte in Camerino Matthias Varano con alcuni banditi, e prese la duchessa e la condusse alla Rocca, ove era la figliuola sotto la custodia d'Aranino Cibo; e sfoderata la spada si sforzò con minaccie indurla a ordinare che le fosse dato la figliuola, ed ella sempre rifiutò con animo forte, ed egli la condusse fuori della città per menarla seco. Ma alcuni di Camerino, ch'erano col detto Matthias, per la riverenza che portavano a questa signora, l'aiutarono uscir dalle mani sue sì che scampò: e ritornata nella città e ricevuta nella fortezza, fece scalare e scender giù dalle mura quattro soldati pratici del paese, e chetamente fece prendere tutti i passi all' intorno, sì che non si salvò e non il signor Matthias con un sol servidore, e un capitato fuoruscito di Camerino, che menava il trattato, sopranomato Ventrone, che era pratico del paese; e fu causa che Matthias non diede nelle reti; e gli altri furono tutti presi e furono circa quaranta, i quali la duchessa non fece impiccare alle mura di Camerino come altri hanno scritto, perchè come donna prudente, non volle che alcuno potesse credere, che quello che si faceva per giustizia si facesse per vendetta; e però gli mandò al Legato di Perugia, ch' era il cardinale Grimani, ove furono processati e fatti morire come meritavano. Fu questa duchessa molto intendente de' governi di Stati, e discorreva con gran prudenza sopra gli affari del mondo; e mostrò gran costanza e fortezza d'animo in diversi tempi di buona e di ria fortuna, mostrando sempre una medesima faccia; perciò che maritò detta sua figliuola a Guidobaldo duca d'Urbino, al quale fu poi tolto lo Stato di Camerino da papa Paolo III, e poco appresso morì la figliuola: e tutte queste percosse soffrì pazientemente, rimettendo ogni sua cosa in Dio. Dopo la perdita dello stato ella si ritirò in Fiorenza, ove visse molti anni in vita molto esemplare, e sopportò con gran fortezza la morte di Lorenzo e di Innocenzio Cibo cardinali suoi fratelli, e lasciando gran memoria della bontà sua, rese l'anima a Dio l'anno 1557 alli 10 di febbrajo." "Che dicono le signorine, ripigliò la direttrice al fin della lettura, che dicono le signorine del modo di scrivere di questo antico narratore? "Bene, risposero tutte in coro. "Vorrei domandare una cosa al signor maestro, disse quella che lesse prima di tutte. "Dica pure... "Ho udito che la lingua nostra è da quello scrittore chiamata toscana, e non italiana, come la odo chiamar sempre da lei, signor maestro. "Si agitava allora caldamente la questione, se la lingua s' avesse a chiamare o fiorentina o toscana o italiana; e al solito, chi la voleva lesso e chi arrosto. Tutti per altro avevano, sotto a qualche rispetto, ragione. La parlata toscana non c'è dubbio che non sia quella, la quale si vede scritta su'libri, ed accettata da tutti gli italiani per lingua comune In Firenze si pretendeva di parlar meglio che in altre città toscane; Fiorentini furono i più grandi scrittori; e però si pretendeva che sola Firenze desse legge in questa materia, e fiorentina s'avesse da chiamar la lingua. Come per altro per tutta Italia si intende, si scrive, e dai più si parla questa lingua; e gli stessi dialetti:non sono se non questa lingua tanto o quanto alterata nella forma esteriore; così è più sano consiglio il chiamarla italiana, ed italiana si chiama ora da tutti." Finito che ebbe il maestro, domand� la direttrice: Udendomi legger la lettera della signora Beppina, c'è nessuna tra loro che le sia dispiaciuto qualcosa? "Me ed altre mie compagne hanno mosso a riso le parole papà e mammà per babbo e mamma, rispose la signora Bettina. "Non a riso dovrebber muovere, ma a sdegno ogni cuore italiano. Le parole babbo e mamma son le più dolci e più amorose di tutta la lingua nostra; e stringe proprio il cuore a sentirle su bocche italiane così straziate alla francese. Ma gl'Italiani amano, pur troppo, la servitù... Altre cose avranno notato in quella lettura, cioèonde curarmi invece di affine di curarmi, o per curarmi; e quell'onde per affinchè è errore. Anche il chiuder la lettera con le parole Ho l' onore di essere, di segnarmi, ecc., è francese; ed italianamente si dice: Mi onoro di essere, di segnarmi. Ma la lettura è stata un po' lunga; e son già sonate le undici. A rivederle a domenica."

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Fin da bambina mostrò grande amore alla pittura; e da sè da sè imparò a ritrarre in modo singolare e persone ed animali: per la qual cosa, presa a ben volere dal famoso Bernardino Campi, alla sua scuola prima, e poi alla scuola di Bernardino detto il Sojaro, diventò nell'arte valentissima, e venne in tanta fama che Annibal Caro andò a posta a Cremona di lei patria per visitarla. Fu ben presto chiamata alla corte di Spagna, dove fece i ritratti di tutta la famiglia del re Filippo II, il quale volle darla perchè la desiderò che il suo sposo fusse italiano, la diede a Don Fabio Moncada siciliano, assegnandole una dote di 12,000 scudi, con un'annua pensione di 1000 scudi, trasferibili ad uno de'suoi figliuoli, ed altri preziosi doni le fece. Dopo pochi anni per altro morì il suo marito; ed ella desiderosa di rivedere la patria, s'imbarcò sopra una nave genovese, portando seco infiniti regalai preziosissimi. Il capitano del bastimento era il cavaliere Orazio Lomellino; che le usò per viaggio ogni maniera di cortesìe servendola con gli atti della più squisita gentilezza ed onestà, dai quali vinta Sofonisba, gli pose affetto; e poco appresso, con la facoltà datagliene dal re di Spagna, lo sposò, e prese domicilio in Genova, dove continuò a dipingere con somma lode, finchè, invecchiata, perdè la vista. Allora, non potendo più esercitar l'arte sua, passava il tempo conversando coi più celebri pittori che capitavano a Genova; ed il Wandik non dubitava di dire, che i maggiori lumi circa all'arte della pittura gli ebbe da una donna cieca, volendo parlare appunto della nostra Sofonisba, che mori sul principio del secolo XVII." Dopo i soliti applausi, il maestro disse alla lettrice, che era stata quella domenica una signorina di nome Clelia: "Brava signora Clelia, ella ha fatto un discorsino che per la parte dello stile ha sin qui avuto pochi pari tra quelle delle sue compagne. Il difetto comune a tutti coloro che si pongono a scrivere senza avere l'arte vera, è quello di fare periodi a brevi e quasi rotti; perchè mancando ad essi la congiunzione della lingua, non possono acconciamente usare certi modi di congiunzione, e le varie forme dei pronomi relativi, per via delle quali congiunzioni si possono i periodi fare larghi e distesi per modo che un pensiero vi stia a suo agio, e si manifesti al lettore chiaro e limpido come un bel diamante. Vero è che in questa faccenda dello stile e del periodare c'entra per una gran parte la natura; perchè giustamente si dice che lo stile è l'uomo, nè potrè mai essere eccellente in questa faccenda chi non abbia per natura la mente bene disposta, e ben chiaro il lume del discorso: il qual dono della natura ha avuto lei, signorina, che potrebbe diventare scrittrice eccellente, dove queste doti naturali continuasse a coltivare con assiduo studio, quanto le consentiranno la sua condizione e la sua qualità. Studj dunque di proposito; e così porrassi anche in grado di fuggire certi modi poco eleganti, o idiotismi come fusse per fosse, che è plebeo; e bastimento per nave, legno e simili. La signora Clelia ringraziò caramente il maestro degli avvertimenti che le aveva dato, e promise di studiare con ogni diligenza; e poi, mescolatasi alle compagne, si misero tutte a' loro consueti ragionamenti, finchè venne l'ora di andarsene.

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La direttrice dell'Istituto pistojese, assegnando queste vite da scrivere alle sue alunne, cercava se tra esse vi fosse chi si chiamava come la donna illustre, la cui vita s' aveva a descrivere, ed a quella la dava a fare, perchè pensava che, se il buon esempio sarebbe stato efficace sull' animo di tutte, su quella dovesse essere anche più. E pur questa volta toccò ad una signorina chiamata Livia, la quale, senza preamboli, cominciò: "La donna illustre, della quale oggi mi tocca a parlarvi, era bella, era buona, era nobile e poetessa. Nata di famiglia assai cospicua, le fu data un'educazione squisita; e di buon'ora diede segni manifesti del suo fiorito ingegno, che fu da lei coltivato con lo studio diligente ed assiduo: andata poi a marito in una famiglia di gran nome e di grandi ricchezze, diventò ben tosto l'esempio della vera dama cristiana. Essa era fiore di ogni gentilezza, ne' modi cortese ed affabile: vestiva e si adornava in modo conveniente al suo grado, ma senza lusso soverchio, e senza ombra di vanità; nè la sua nobiltà le faceva sdegnare di attendere alla cura della famiglia; che anzi i figliuoli volle allattare da sè: da sè voleva attendere alla masserizia di casa; e da sè ammaestrava nel loro ufficio cameriere e fantesche ed oltre a ciò, fu amatissima, ed anche per questo rispetto ammirata e celebrata da' suoi contemporanei. Dicemmo che la nostra Livia aveva fiorito ingegno e lo coltivava con assiduo studio; nè questo studio andava perduto; anzi diede ottimi frutti di parecchie poesìe, che furono allora molto lodate, e si stamparono la prima volta in Lucca nel 1559. E circa a questo tempo appunto la valente donna si ammalò di fiera malattia che la condusse in pochi giorni al sepolcro tra le più pietose lacrime de' suoi, e tra 'l compianto universale di quanti la conobbero. Questa signora Livia, che aveva letto la vita della Tornielli, era quella tra tutte le alunne che meno aveva voglia di studiare, e che, specialmente nello scrivere italiano, riuscisse peggio dell' altre; ed il maestro e la direttrice, udendo questa sua scrittura, così ordinata e scritta con assai garbo, ogni tanto si guardavano, facendo cenni ed atti di meraviglia; e quando ebbe finita la sua lettura ne la lodarono assai. Mentre però le altre signorine se ne andavano, la direttrice pregò la signora Livia che si trattenesse un pochino, dovendole dire non so che, e restasse che furono sole: "Signorina, le disse, ella sa quante riprensioni e quante mortificazioni ha avuto per la sua poca voglia di studiare; e sa parimente che, se una cosa le riesce poco bene, è appunto lo scrivere in italiano. Questa vita per altro letta da lei, è tessuta ed è scritta assai bene. Che miracolo è questo? "Che vuole? mi ci son messa con tutto l'impegno... ho studiato..." E così dicendo, faceva il viso rosso, e le parole le si appallattolavano in bocca. " Le vedo, continuò la direttrice sorridendo, le vedo correr la bugia, su per il naso; nè a me ella può dare ad intendere che chi non ha nè studio nè arte possa far cosa buona. La bugia è vizio che fa vergogna a tutti; ma specialmente ad una signorina ben creata e gentile: dunque si confessi giusta: chi le ha fatto quella vita? Il suo fratello che è tornato quest' anno dalla università, so che è un bravo giovane. E stato lui?" Qui la Livia, vinta dalla veritè, e avvampando di vergogna, diede in uno scoppio di pianto; ed a fatica potè rispondere sì. Allora la direttrice, presala amorosamente per mano, e tiratala a sè, le disse con atti e voce umanissima: "Ella è molto giovane, e non può valutar quanto sia vergognosa e vil cosa il farsi bello delle fatiche altrui; ma non ostante io son certa che, mentre sentiva dirsi brava dalle sue compagne e da noi, la sua coscienza doveva rimorderla, e quegli applausi, piuttosto che di dolce, doveano saperle di amaro. Questo peccato che ha fatto lei stamani, è la cosa più vituperosa che si possa fare tra' letterati; e non può caderci che un animo vile ed abjetto. Io poteva farla vergognare in presenza di tutte le sue compagne; se non sapessi che ella è buona, e che questa amorevole correzione le basterà. Ella ha una grande smania di comparire: cerchi dunque di arrivarci con le proprie forze: studj di proposito; ed allora, non solo uguaglierà, ma vincerà le sue compagne; e così gusterà il vero sapore degli applausi e avrà la buona testimonianza della coscienza. Mi promette di farlo?" La signorina prese stretta stretta la mano della direttrice; e baciandogliela e bagnandogliela di lacrime, disse con atto di ferma volontà:"Sì signora, lo prometto." E di fatto promise e mantenne; chè ben presto diventò una delle migliori alunne dell' Istituto.

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