Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Documenti umani

244430
Federico De Roberto 24 occorrenze
  • 1889
  • Fratelli Treves Editore
  • Milano
  • verismo
  • UNICT
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Alle cinque della sera, dopo una giornata di lavoro indefesso, cominciato a tavoìinoo con l'alba, proseguito nelle aule affollate di San Firenze, ripreso a casa fra il succedersi dei clienti, Carlo Landini si sentsolìievooo da quella specie di stanchezza morbosa particolare ai lavoratori del pensiero. L'esercizio prolungato dei muscoli, il consumo fisiologico, sono certo causa di sensazioni penose; ma basta che lo sforzo si arresti, che l'organismo sia abbandonato all'inerzia, perchè un profondo benessere, un sollievo quasi voluttuoso guadagni tutte le fibre. Il lavoro dello spirito non conosce queste tregue ristoratrici; l'attività cerebrale, una volta destata, non si può più arrestare; le idee succedono alle idee, le imagini alle imagini, secondo una legge di associazione incosciente; e la volontà, non solo impotente a frenare questo movimento, ma spesso ancora a dirigerlo. Un malessere fisico ordinariamente ne deriva, come effetto dell'afflusso del sangue al cervello, ed in questo stato irritante la stessa riparazione del sonno tarda a venire. Carlo Landini, con la fronte scottante, la vista intorbidata dalle lunghe letture dei voluminosi processi accatastati sul grande tavolo da lavoro, aveva dato ordine che nessuno fosse introdotto per quel giorno nel suo studio. Se negli anni della sua prima giovinezza si era parlato di lui come di uno cui l'avvenire arrideva, il fatto si era lasciato indietro le più liete promesse. A poco meno di quarant'anni, in una professione dove la concorrenza è grandissima, egli aveva conseguita la più chiara delle reputazioni, si era fatto un posto eminente non solo fra i suoi compagni, ma perfino fra i maestri, ed era talmente affollato di affari, da vedersi spesso costretto a rifiutarne ed a chiudere l'uscio di casa sua ai troppo numerosi clienti. Quel giorno, l'ordine era stato appena impartito, il Landini aveva appena chiusa l'ultima memoria, che il campanello elettrico risuonò. - Chi è ancora? - chiedeva egli infastidito, al servo che, aperto l'uscio, se ne stava lì in mezzo, come cercando le parole. - Una persona che vuol parlare al signore... che insiste.... - Ho già detto che non sono in casa per nessuno. - Dice, scusi, che deve consegnare a lei personalmente una lettera urgente.... L'avvocato Landini passò egli stesso in sala, non cercando di nascondere la sua contrarietà. Si trovò dinanzi ad uno sconosciuto, che dall'abito, dall'attitudine umile più che rispettosa, pareva dover essere un domestico. - Che cosa volete? - È lei il signor avvocato Carlo Landini? - Io in persona. - Debbo consegnarle questo. Cavò di tasca una lettera e la porse al Landini. Appena questi ebbe gettato uno sguardo sulla busta, il fastidio che s'era fino a quel momento letto sulla sua fisonomia, dette luogo ad una specie di attenzione concentrata, di preoccupazione mista ad una inquieta curiosità. - Sta bene.... grazie.... - disse alla persona che aspettava, congedandola; e passò rapidamente nella sua stanza da studio. Prese sul tavolo un piccolo tagliacarte a foggia di scimitarra, e come la luce si andava ritirando, si fece presso la finestra. Stava per aprire la lettera, quando si arrestò un momento, considerando il carattere dell'indirizzo, sulla busta moyen-âge, suggellata di ceralacca azzurra in un angolo. - Dieci anni! - mormorò, facendo mentalmente il conto del tempo trascorso dacchè quella persona non gli aveva più scritto. - Dieci anni!.... - e una tristezza gl'invadeva lentamente l'anima, come una nebbia, mentre sollevava uno sguardo al cielo occidentale, sul cui fondo rosato si ergeva gloriosamente la cupola di Santa Maria del Fiore. Dieci anni, dacchè aveva ricevuta l'ultima lettera di lei; e quei dieci anni non erano valsi ad abolirne il ricordo, se appena scorto quel carattere fine, minuto, ma inchiostrato nei pieni e dalla asteggiatura eguale, lo aveva immediatamente riconosciuto, senza esitare un istante! Dieci anni - e il sangue gli aveva dato un tuffo, ora come allora, come quando ogni lettera di lei lo colmava di un turbamento delizioso!... Le memorie irrompevano nella mente del Landini, ed egli se ne restava lì, dinanzi alla finestra con gli sguardi errabondi, tenendo la lettera in mano, ma senza decidersi ancora ad aprirla... Era stato tutto un romanzo, un romanzo di passione, di tormenti, di felicità, un romanzo in fondo al quale non era stata però scritta la parola piena di soave rammarico e di composta rassegnazione: Fine. Bruscamente, quella donna a cui lo legavano i vincoli più teneri e più saldi, le gioie insieme gustate, i pericoli sfidati insieme, lo aveva messo quasi alla porta, gli aveva ingiunto di non tentar di rivederla, mai più! Che cosa era avvenuto? Perchè quella risoluzione incredibile, contro la quale ogni sua insistenza si era spuntata?... Non aveva potuto saperlo. A tutte le lettere che egli le aveva scritte, alle umili lettere di preghiera, alle appassionate lettere d'amore, alle fiere lettere di minaccia, ella non aveva voluto rispondere. Un momento, era stato per ismarrire la ragione dinanzi a tanta ostinatezza di repulse. Il secreto che essi erano riusciti a serbare a costo di mille rischi e di mille sacrifizii , egli era stato sul punto di andarlo a rivelare a chi più interessava di conoscerlo; le aveva fatto sapere che se ella non si fosse piegata a rivederlo, ad ascoltarlo, a dargli una ragione di quel suo repentino mutamento, sarebbe andato a dir tutto al marito di lei!... Pazza minaccia, che non era stata seguita da effetto, grazie al sopravvenire del freddo ragionamento, non già perchè ella si fosse piegata!... Ed era stato per un caso, molto tempo dopo, quando ella era scomparsa nella solitudine di una campagna ignorata, che egli aveva intraveduto il possibile motivo di quella rottura. Poco prima che questa scoppiasse, un suo amico, quasi un fratello, gli aveva chiesto uno di quei servigi che solo un fratello può rendere: gli aveva affidata una donna compromessa per causa propria. Durante tutto il tempo da costei passato a Firenze, egli si era perciò messo a sua disposizione; le aveva reso tutti quei piccoli servigi che erano in suo potere, le aveva fatto meno insopportabile la sua posizione disgraziata. Ed ecco che una voce si era sparsa a sua insaputa, ed ecco che tardi, troppo tardi, veniva al suo orecchio quella voce, secondo la quale quella signora sarebbe stata la sua propria amante!... Allora, egli si era tutto spiegato: l'invenzione assurda, malvagia, aveva dovuto arrivare fino all'altra, fino a lei; ella l'aveva creduta; e la cieca prepotenza dell'amor suo non gli aveva data una prova preventiva di quel che avrebbe dovuto essere la sua gelosia?... Tutta questa storia, nei suoi più minuti particolari, si svolgeva ora nella memoria del Landini. Girando quella lettera da una mano all'altra, egli pensava che in quel pezzo di carta doveva essere la conferma o la smentita di quella sua spiegazione. Però non si decideva ad aprirla. Un tumulto di sentimenti gli si era scatenato nell'anima, e con quell'acutezza di indagine psicologica che metteva nello studio dei suoi processi, analizzava ora raffinatamente sè stesso. Perchè il suo cuore batteva dunque così forte? Ah! egli è che di un amore come quello, da lui ricordato, non se ne provano due nella vita!... Egli aveva amato ancora, aveva cercato attraverso le rinnovate esperienze qualche scintilla di quella gran fiamma: ma non l'aveva trovata. Come il duca d'Illiria della Dodicesima Notte di Shakespeare, egli avrebbe voluto esclamare:

Mentre Anastasio Natali dava gli ultimi tocchi al suo quadro della Ginestra - un orrido e deserto paesaggio vulcanico, tutto asperità, crepacci, lastroni, fra i quali, a mazzi, a ciuffi, a boschetti, i gialli fiorellini mettevano come una nevicata d'oro - la tenda che mascherava l'uscio d'entrata fu rimossa, e la figura del maestro Albani apparve a metà. - È permesso? - Avanti. L'Albani entrò, col cappello in mano; si avvicinò rapidamente al cavalletto, e dato uno sguardo alla pittura, disse: - Bellissimo, perfetto, meraviglioso, sublime. Nel pronunziare questa progressione di aggettivi ammirativi, la sua voce non era salita di un tono. Con maggiore espressione si sarebbe detto: Buon giorno, ti saluto; stai bene? Come restava lì, impalato, dietro le spalle del Natali, questi cominciò a soffiare, e abbassando pennelli e tavolozza: - Se non ti levi di lì - esclamò - non potrò fare più nulla. - Sarebbe un peccato. E, scostatosi, l'Albani si guardò attorno, in cerca di una sedia. L'impresa non era agevole. Un'artistica confusione regnava nello studio, e i drappi dai colori smaglianti, i costumi antichi, i libri dalle ricche legature, gli album di fotografie, le scatole dei colori si ammonticchiavano sopra le quattro o cinque sedie spaiate e di vecchio modello che parevano perdute nella vastità dello stanzone. Solo un teschio mancante delle mascelle troneggiava sopra uno sgabello di legno scolpito, accanto alla mensola rococo. L' Albani si diresse da quella parte, prese il teschio per le occhiaie e si mise a sedere. Allora, il silenzio si fece profondo. Nascosto in fondo a un aranceto, invisibile dalla stradicciuola per la quale i carri non potevano passare, lo studio del Natali era un vero romitaggio. - Ci siamo! - esclamò finalmente il pittore, dopo una mezz'ora di lavoro silenzioso, e buttati da canto tavolozza e pennelli, levatosi in piedi e indietreggiando di qualche passo con una mano sugli occhi a guisa di visiera, si mise ad esaminare l'opera propria. Luigi Albani lasciò anche lui di misurare in tutti i sensi iI cranio che teneva ancora sulle ginocchia, lo posò sulla mensola, vi adattò sopra il suo cappello e si fece incontro all'amico. - Dunque, ti piace davvero? - chiese il pittore. - È un imbratto. Il Natali lo guardò un istante. Poi, scrollando le spalle: Ah, sì; hai ragione! Dimenticavo di parlare col maestro Albani. - Cioè, col critico più acuto dell'ex-regno delle Due Sicilie, - rispose l'altro, senza scomporsi. E avvicinatosi al quadro, accompagnando le proprie parole con gesti sobrii e compassati, riprese: - Prima di tutto, questa lava è di cioccolata; come réclame nelle scatole del Suchard sarebbe impagabile. Poi, il cielo è oleogratico e le nuvole sono di bambagia. Toccale, e vedrai che sfilaccicano. Ora, bisognerebbe parlare del soggetto.... - Eh! parliamone pure! - esclamò il pittore sorridendo. E accesa una sigaretta, sedette incrociando una gamba sull'altra e guardando curiosamente l'Albani. - II soggetto, a tuo vedere, dovrebbe essere pieno di filosofia; il fiore nel deserto, l'antitesi eterna della natura che sorride mentre tende le sue insidie, o che insidia mentre sfoggia i suoi sorrisi - a piacere. Sta bene. Solamente, per maggiore intelligenza, ti consiglierei di imitare quel pittore polacco che, esponendo un quadro rappresentante L'ultima composizione di Mozart, faceva eseguire, da suonatori nascosti dietro la tela, la Marcia funebre del maestro. Se vuoi, potrei declamare io stesso i versi del Leopardi. E, passando dall'altro lato del cavalletto, il maestro Albani cominciò:

J'y songe: perchè non mi avete offerto di andare a fare i cantonieri, in fondo a una linea poco frequentata? Noi avremmo una piccola casetta gialla, con un grosso numero nero, e un giardinetto pas plus grand que ça, con molti geranii e qualche robinia. I passeri cinguetterebbero sopra le nostre tegole, e noi sotto.... Voi ispezionereste la linea ed io vi suonerei ogni tanto il corno!... En voilà une idée! Enfoncés, la "capanna e il tuo cuore!..." Decisamente, amico mio, voi non siete all'altezza del vostro secolo. Nel secolo dei trenilampi, voi mettete un mese a dirmi che siete innamorato di me! C'est on ne peut plus petite vitesse! Almeno, aveste evitato i deraillemens! Nossignore; pare che sia di vostro gusto arrischiare ad ogni momento l'osso del collo. "Vi è un'angoscia indicibile nell'idea che la divorante passione resterà, eternamente ignorata dalla persona che ha saputo destarla!" E voi partite di qui, per buttarvi a occhi chiusi sotto il tunnel dell'analisi psicologica: "L'anima ha bisogno di comunione; che cosa importa se un'altra anima non le risponderà? Confessare il proprio tormentoso secreto è renderlo più sopportabile; lo sanno i malfattori che un irrefrenabile istinto spinge a rivelare...." Lanterna rossa: ferma! assez! stop!... A chi dicono? Voi non vedete il pericolo, e finalmente: patatrac... eccovi andato a gambe per aria! "La misteriosa voce delle cose... l'universale rispondenza delle forme e degli esseri... la complice dolcezza di questa natura...." Quel baragouinage! Rimettetevi, mon cher; su via! Ripigliate fiato, così, animo! Sapete che siete un bell'originale? Vi faccio un po' timbré, my poor fellow! Est-ce que si scrive sul serio a quel modo, nel vostro paese? Io mi ero lasciata dire che l'Italia è il paese della rettorica; ma voi siete, ma foi, incredibile!... Ah, j'y suis! Voi mi volete dare un aperçu di ciò che sarà la vostra compagnia, se io "colmerò" i vostri "voti più fervidi". Tutto il giorno a roucouler intorno a questo "Sorriso del Cielo!..." Salvo quando vi accenderete d'ira tremenda e mi "soffocherete nelle vostre braccia". C'est ça; poichè voi non siete fatto come tutti gli altri, voi! "Non sapete di quale amore io amo? Io amo come il mare ama la riva: dolcemente e furiosamente!" Bravo, very vortrefflich! "Nei giorni della calma esso la bacia, lieve, sussurrante, carezzante, quasi pauroso di farle del male. Quando il soffio dell'aquilone lo gonfia, esso l'assale, terribile, e la morde, la flagella, la seppellisce!" Ah, que c'est drôle! Ah, que c'est drôle! Così, quando voi siete gonfiato, voi mordete la gente? Ma andate allora da M. Pasteur, o fatevi mettere la museruola! Ditemi un po' una cosa: v'imaginereste, per caso, di essere il primo a dirmi delle storie simili?... Connu, connu, povero amico!... Perchè non v'innamorate dunque di cotesti signori? Ciascuno di loro possiede il segreto dell'Amore (con un A maiuscolo), il segreto del Grande Amore!... "Associatevi" dunque, al loro "Destino!..." Probeblatt gratis!... Chi non respinge il primo numero si ritiene abbonato!... Io torno à mon idée: facciamo i cantonieri! Sul serio: voi avete preso ciò che qui si dice una cantonata. Sapete che cosa ho fatto? Ho contato quante volte nella vostra lettera avete scritta la parola amore. È come pei treni; che cosa volete! Quando l'on s'ennuie, tutto è buono. Dunque, voi avete scritto amore trentasette volte. Zur Güte, mi sapreste dire qu'est-ce-que c'est que ça? R. S. V. P... Sentite dunque: qualcuno si è tirato, per me, un colpo di pistola al cuore, o, più esattamente, sotto la clavicola. La palla è penetrata fra la terza e la quarta costola, ha intaccato il polmone, e non si è potuta cavar fuori. L'individuo è stato un mese tra la morte e la vita; finalmente il s'est tiré d'affaire. Je ne m'en porte, come voi vedete, nè meglio nè peggio. If you please, non partite di qui per tirarvi un colpo di revolver alla tempia, che è le bon endroit, come dice Dumas fils nella Boîte d'Argent (l'avete letta?). Ce serait grand dommage! Lo Stabia's Hall verrebbe privato di uno dei suoi frequentatori più charmants. Voi vedete che io sono equa, e che faccio onore ai vostri talents d'agrément. Torniamo dunque, come voi dite, in carreggiata. Cercando bene, ho trovato nella vostra lettera una definizione, ou presque, dell'amore; il quale sarebbe il "sacrifizio di tutto." Di tutto, e pas plus que ça? Ma è troppo poco!... Tenez, vi ricordate di quel signore polacco che mi presentarono domenica passata al Pozzano, e che mi strinse la mano con la sinistra? Era una conoscenza delle mie, vous en doutiez vous? Quel signore ha avuto tagliato il braccio destro in seguito a un colpo di pistola che gli ha spezzato il radio. Je m'y connais, in anatomia! Il colpo di pistola lo ha preso in duello, col signor principe Dimitri Borischoff, governatore di Kiew ed anche un po' mio marito. Quel signore non può più tornare in Russia, dopo essere stato sorpreso a tricher al Circolo Imperiale di Mosca, e dopo aver commessi due piccoli falsi, rien che per potermi seguire da un capo all'altro dell'Europa, dal Ladoga a Biarritz. Vi ricordate che era en grand deuil? Era per suo padre, buttatosi per la vergogna - dicono - e pel dolore, sotto un treno diretto. Si deve esser fatto un male orribile! Aussi, che modo selvaggio di spedirsi all'altro mondo! Ne peut-on s'y prendre con più garbo? Voi, per esempio, mio caro idealista, vi anneghereste in un lago azzurro, una notte azzurra, da una barca azzurra.... A Capri, per esempio; ça vous va-t-il? Già, voi avete un penchant per gli annegamenti. Non mi avete scritto che lasciate annegare la vostra anima "al suono della mia voce" ed "al profumo dei miei capelli?" Pardon, della mia "nebbia d'oro." Perchè i miei capelli sono della "nebbia" e questa "nebbia" è per giunta "d'oro!" Ciò mi ricorda un poetino, morto poitrinaire laggiù in Russia - per me, on prétend - il quale chiamò una volta i miei occhi dei "diamanti neri." Dire che il povero maestrino non ne aveva visti nè neri nè bianchi, in fondo a quel villaggio della Siberia dove mi confinarono le cure del principe Dimitri Borischoff, governatore di Kiew ed anche un po' mio marito! Voi non conoscete il Principe Dimitri? Avete torto. Per voi, che fate professione di scrittore, sarebbe un tipo interessantissimo. Qu'à cela ne tienne; posso darvi qualche renseignement; je me flatte di conoscerlo abbastanza. Dunque, il principe Dimitri è un russo; ma quel che si dice un russo puro sangue. Voi non conoscete la Russia? Avete torto ancora. È una terra vergine; non v'immaginate però di andarla a conoscere nelle Terres vierges di Turguenieff. Per tornare al principe Dimitri, rappresentatevi, al fisico, un cane bull-dog, un bull-dog in giubba e cravatta bianca, che si tenga raide sur ses pattes, e ne avrete un'idea sufficiente. Quando era nella diplomazia, feu M. de Gortschiakoff ne faceva un grandissimo conto, e il n'était pas dans son tort. Pieno di forme - per esempio! - corretto, digne, impeccabile! Avec ça, egli è molto attaccato alle patrie tradizioni, ragione per cui è ben visto a Corte, e tiene in grande onore lo knut. Ne avete sentito parlare? È uno strumento, my dear fellow, del quale a noi russe non bisogna parlar male. Catulle Mendès ha molto torto di chiamar mostro quella ragazza, che avendo vista una esecuzione di knut, si sostituì alla serva condannata a 25 colpi, per farseli dar lei. Voialtri latini avete la rettorica nel sangue. Perchè mostro? Non sapete dunque che tous les goûts sont dans la nature? Non nego che applicato sulle spalle d'un idealista come voi, lo knut farebbe guarire ipso facto (un po' di latino non guasta) le più strane fantasie. Ma io son grata al principe Dimitri di avermelo fatto conoscere. Egli ne era professore, et je ne regrette pas le sue lezioni. Bisogna tàter un po' di tutto. Però, siccome tutto si paga in questo basso mondo, dopo una lezione di knut non si può andare, per esempio, en grand décolleté al ricevimento dell'ambasciata, e si soffre qualche poco al circolo dell'imperatrice. Non importa!... La vita in Russia, col principe Dimitri, governatore di Kiew ed anche un po' mio marito, è piena di distrazioni. La villeggiatura in Siberia, per esempio, in inverno, è on ne peut plus divertita. D'inverno, in Siberia? domanderete voi. Sì, mio caro, quistione di temperatura e di... temperamento. Voi dovete sapere che il principe Dimitri ha sempre presso di sè il dottor Baribine, al quale è affidata la vostra salute. Quando il principe domanda: Pietro, come sta la principessa? Pietro risponde: la principessa ha bisogno di un clima freddo. E il principe Dimitri vi manda in Siberia. Regola generale: quando il principe Dimitri s'informa della vostra salute, il dottor Baribine ha pronta la sua ordonnance. Un'altra volta il principe domanda: Pietro, di che cosa soffre la principessa? Baribine risponde: la principessa ha bisogno di riposo. E il principe vi manda nel castello di Paliskaja, dove non entra e di dove non esce âme qui vive. Un bel giorno si sentono delle fucilate: sono gli uomini del principe che tirano contro un cacciatore curioso, sorpreso a guardare alle finestre, e lo stendono morto. In questo castello di Paliskaja, si sentono la notte - histoire di non dormir troppo - dei rumori strani, gemiti sordi come di persone a cui si applichi la question; è il vento - rien que ça - il vento che s'ingolfa sotto le arcate, per le coulisses, e che fa stridere le girouettes! Ah, un gran dottore, il dottor Pietro Baribine! Dopo eseguite le sue ordonnances, voi tornate completamente rifatto; voi potete andare ogni sera dans le monde; e gare a mancare un solo invito! Il principe Dimitri si avanza verso di voi, col suo sorriso di bull-dog che scopre le sue zanne... e voi vi alzate subito, andate a fare un petit bout de toilette, sedotto da tanta amabilità. Ah! ah! ah! Voilà che ricomincia! Ah! ah! ah! Sapete a che cosa penso? Alla vostra lettera, amico mio, alla vostra lettera famosa, colossale, gigantesca! "Voi non sapete che io vi porto nel cuore? Come è mai avvenuto, buon Dio, che io abbia messo tanto tempo a dirvelo?... Egli è che voi siete sola, che voi non avete nessuna forza presso di voi che possa difendervi; egli è che sarebbe stato offendervi il parlarvi d'amore, che le grandi parole avrebbero potuto nascondere il calcolo vigliacco di pervenire a voi per mezzo della vostra debolezza..." "Ah! ah! Parfait! Voi siete tutto ciò che v'ha di più moyen âge! Come un cavaliere errante, voi andate in cerca di avventure... oh, pardon! è venuto da solo; io non l'ho fatto exprès!... Eh,"buon Dio!" voi avete una grande inclinazione per le vie di traverso! Assolutamente, non sapete dove metter le mani!... Bisogna che io completi la vostra educazione mondaine, volete? Temo soltanto di dover spezzare "l'ideale" che vi siete formato di me. Incolpatene vous-même; voi sapete che cosa dice la saggezza delle nazioni: la plus belle fine du mondo ne peut donner... quel che non ha più! Quanti anni avete?... Sono sicura di non essere indiscreta; voi siete così giovane che per dieci anni ancora non sarà la pena che ne nascondiate qualcuno. Ventotto anni? Trenta? C'est la fleur même de l'age! Volete sapere l'età mia? Con tutta la buona volontà del mondo, l'affare non sarà così facile. Se il tempo ha le ali, io faccio del mio meglio per corrergli dietro. È un combattimento ad armi corte; ma vi assicuro che non ho aucune envie di fare la vieille garde!... Quando sarà venuto il momento psicologico (....per modo di dire) io mi arrenderò, con armi e bagagli. Toujours est-il che sono ancora presentabile, am I not? E voi avete il toupet di non "domandarmi nulla di voler soltanto "vivere nella mia ombra" contento soltanto se le mie mani saranno "pietose alle ferite del cuore!" Honny soit qui mal y.... pense!... O merveille! o stupore! Messieurs et mesdames; entrate! Ecco l'uomo che non domanda nulla; toccatelo: è di carne e d'ossa; on ne triche pas, quoi! L'uomo che non domanda nulla! On ne paie qu'en sortant!... Sapete dunque di chi mi avete l'aria? Di quei glovanotti e di quelle ragazze che se ne vanno a far delle copie al British Museum, e si attaccano un écriteau, dove dice: Visitors are requested not to stand round the student!... E borghesi della City, le loro mogli, la loro discendenza e le loro serve si dispongono intorno allo studente, che si studia d'essere stucliato! Qua la mano: vi facevo più spirito; parole d'honneur! Dopo tutto!... A guardarci de près, io m'accorgo di essere ingrata verso di voi. Sapete che cominciavo ad annoiarmi, con questo golfo sempre dinanzi, con questo verde sempre di dietro, con questi mannequins sempre d'intorno? Ah, la noia, la noia vasta, profonda, irresistibile; la noia che vi afferra le machoires e che ve le disloca, la noia che vi inchioda in fondo a una causeuse, e che non vi dà guère l'envie de causer, e che vi mette una cappa di piombo sulle spalle e sul petto, come ai dannati del vostro Dante! Ah, la noia che vi accompagna dovunque, come la vostra ombra; che si attacca a voi, che vi penetra tutto, che finisce per diventarvi quasi indispensabile! Qual è stato l'uomo di spirito che ha scritto questa confessione profonda: Mi annoio tanto, che se non mi annoiassi, mi annoierei? Tenez, lo abbraccerei, se fosse qui! J'ai vécu, caro mio. E ne ho viste, come voi dite, di crude e di cotte. Quasi quasi je regrette lo sport knutesque di cui è professore il principe Dimitri Borischoff, governatore di Kiew ed anche un po' mio marito. Quasi quasi vorrei ricorrere alle ordonnances del dottor Baribine.... Tenez, sbadiglio! Come ho fatto a scrivere tanto? Je n'en reviens pas encore! Domani, meno male; avrò la curiosità di vedere quelle mine voi farete; ma dopo domani, que vais-je devenir? Tutto sommato, me ne andrò a Loèche. Di lì passerò a Londra, per la season. A luglio sarò in Normandia, a Honfleur o al Tréport, c'est selon. In agosto verrò un'altra volta a casa vostra; passerò una quindicina di giorni sui laghi. Vous voyez; faccio di tutto per distrarmi; ma prevedo che incontrerò difficilmente una persona che mi diverta più di voi. Senza rancore? Toute à vous CATERINA P. BORISCHOFF. Post-scriptum. - La vostra amabilità merita bene un premio. Mi permetto di offrirvelo, sotto forma di un consiglio. Se volete riuscire con le donne, non le fate ridere. P. B.

E come il cameriere si era inchinato a quegli ordini pronunziati con voce breve e concitata, la duchessa di Neli si lasciò cadere sulla vénitienne. Una mezza luce filtrava delle stuoie abbassate ed il raccoglimento era tutt'intorno profondo. I soffici tappeti, le tendine pesanti isolavano ancora più completamente quel remoto boudoir che la duchessa preferiva per passare il suo tempo leggendo o lavorando, e dove ora restava, abbandonata, con le mani sul viso, mentre l'ultimo romanzo del Bourget mostrava il tagliacarte di tartaruga posto fra le pagine, e un filo di seta partente da un canestrino e perdentesi sotto uno sgabello tradiva ancora il gesto scomposto che aveva fatto ruzzolare il gomitolo del ricamo. A un tratto la duchessa si scosse, si levò in piedi e si diresse verso lo specchio. Giunta lì dinanzi, sporse il capo; poi lo ritirò. Pareva avesse una tentazione di guardarsi, ma ne fosse trattenuta dalla paura di vedere uno spettacolo raccapricciante.... Ora teneva il gomito appoggiato allo spigolo del caminetto, e l'indice fra le labbra, rodendosi lentamente l'unghia battendo con vivacità la punta del piede. Ancora una volta si strappò alla sua cogitazione; avanzossi verso la finestra, la schiuse e tirò su la stuoia. Alla chiara luce che inondò il boudoir azzurro ella si riaffacciò, questa volta risolutamente, allo specchio e vi restò a lungo, guardandosi. .... Nessun dubbio era più possibile. Aveva sperato un momento che fosse stata un'allucinazione, un giuoco di luce, un riflesso; ora il dubbio non era più possibile. I suoi capelli imbiancavano, sulle tempie, sulla fronte, dove si potevano meno nascondere! Da principio, qualche anno innanzi, erano stati dei fili d'argento per cui si erano destate in lei le prime vaghe malinconie del tramonto, ma che ella aveva presto dimenticati dopo aver dato loro la caccia, strappandoli dalla radice, con cura scrupolosa, senza dimenticarne uno solo. Per un pezzo non erano ricomparsi. Poi, timidamente, nascosti, perduti tra le selve folte e nerissime, i fili bianchi erano spuntati di nuovo; ma così pochi, così radi, che ella, veramente, non se n'era curata. A trentotto anni la marchesa Crollanza non ricorreva alle tinture? E la piccola Annina Fiorelli, a diciotto anni - una bambina! - non era quasi grigia? Che meraviglia dunque se, alla sua età, qualche filo d'argento s'intrecciava fra le chiome corvine?... Però, da quella volta, non si era più guardata attentamente, come di consueto; mentre la cameriera la pettinava, ella volgeva altrove gli sguardi; un movimento istintivo le faceva evitare di rivedere quelle macchie che le annunziavano la prossima fine della propria bellezza. Ed ecco che quel giorno, avvicinatasi inavvertitamente allo specchio accusatore, aveva scoperto le ciocche bianche miste al lucente ebano della sua chioma!... Il dubbio non era più possibile, l'illusione non era più permessa, eppure ella non sapeva rassegnarsi alla triste scoperta.... Con un gesto nervoso, portò le mani alla testa, buttò via il pettine a palo e le forcine, e cominciò a disfare rapidamente il sapiente edifizio della sua acconciatura. Dapprima le due grosse bande della nuca caddero, disciolte, sulle spalle; poi quelle delle tempie le velarono il viso. Visti così, un poco a distanza, in masse copiose, i. suoi capelli erano sempre meravigliosamente belli; bisognava avvicinarsi allo specchio, bisognava prenderne delle ciocche in mano, dividerle, allargarle, perchè i fili deturpatori apparissero. Quanti!... Quanti!... Come non se ne era accorta finora? E ad ogni nuovo ciuffo che ne scopriva, una vampa le saliva al viso. Avrebbe voluto chiudere gli occhi, sottrarsi a quella vista angosciosa; ma non glie ne restava la forza nella specie di fascinazione, di ipnotismo che le aveva spalancato gli occhi e inchiodato lo sguardo. Ella invecchiava! Fatalmente, inesorabilmente, il fiore della sua bellezza intristiva, appassiva, moriva! Oggi erano i capelli che imbiancavano, domani sarebbero state le rughe che si sarebbero scavate nel marmo della fronte, nel velluto delle guancie; poi gli smalti dei denti che si sarebbero scossi, che sarebbero caduti.... Era finita! Il suo regno di donna cessava. Cessava allo stesso modo con cui era cominciato: inutilmente.... - Inutilmente! La parola, pronunziata con accento di profonda amarezza, si perdette nel silenzio del boudoir. La duchessa di Neli si tolse dallo specchio, e riannodati alla meglio i capelli andò a rovesciarsi sulla sedia lunga. Ora tutta la sua vita, la sua vita monotona e vuota di donna onesta le sfilava dinanzi. Meglio così! - si diceva - meglio la vecchiaia! meglio la bruttezza! poichè bellezza e gioventù non erano valse a nulla. Meglio che i suoi capelli imbiancassero: qualcuno forse se ne sarebbe accorto, glie lo avrebbe detto! Che cosa avrebbe dunque fatto di quella carnagione soave come polpa di frutta mature, di quella bocca grande, vermiglia, odorosa, di quelle mani aristocraticamente scarne, dalle dita lunghe e sfilate, di quelle braccia forti e delicate ad un tempo, di quelle forme agili, eleganti, piene di grazia; che cosa ne avrebbe fatto, lei che nessuno aveva amato, che nessuno amerebbe? Avrebbe dovuto esser ancora bella per suo marito, per quell'egoismo fatto persona, per quell'uomo che le procurava tutti i fastidii della gelosia senza nessuno dei compensi dell'amore?... Erano dieci anni che durava la sua condanna, dieci anni durante i quali un coro di lodi e di ammirazioni le si era levato dintorno. Il gran pro che ella aveva ricavato dalla sua onestà! La gratitudine di cui l'aveva pagata suo marito, le avventure del quale formavano la favola della provincia e la colmavano di ridicolo!... Infine, le era diventata di peso quella inutile onestà! Una voce di ribellione le saliva alle labbra. Erano dieci anni che durava la sua condanna, ma ella ne aveva trentacinque, degli anni! Trentacinque, nè più nè meno; perchè nasconderlo ancora? perchè mentire ancora a sè stessa? con quale profitto? Non lo portava ora scritto nella persona, in quei capelli bianchi che fra poco avrebbero preso il sopravvento? E a trentacinque anni ella era ridotta ancora a fantasticare come a quindici! Nell'età in cui le altre cominciavano a vivere di ricordi, ella era condannata a nutrirsi di speranze, di speranze che si facevano ogni giorno più chimeriche, e di cui presto ella stessa avrebbe apprezzato tutto il ridicolo! Ancora una volta, la duchessa di Neli si scosse dalla sua meditazione e sollevò la testa. Una semioscurità regnava nella stanza. Ella si alzò e si fece alla finestra. La giornata si era coperta; dei nuvoloni grigiastri si rincorrevano, sospinti da un vento che scuoteva le foglie appassite dagli alberi del viale, e le spargeva turbinosamente dintorno. Non una carrozza, non un passante. Il grigio plumbeo di quel cielo autunnale pareva pesasse sulla terra, la opprimesse, togliesse il respiro ad ogni creatura vivente. - Meglio così.... - disse ancora a bassa voce la duchessa di Neli, guardando quel cielo schiacciato, la cerchia ristretta dell'orizzonte, gli alberi mezzo spogli, e trovando una secreta corrispondenza fra la malinconia delle cose in quella stagione e la disposizione del proprio spirito. Era l'autunno che oramai le conveniva, l'autunno in campagna, dove è ancor più visibile il mancare del verde, il ritirarsi del sole, tutti i sintomi dell'agonia della natura. E come ella si compiaceva di aver fatto portar via il mazzo recatole dal suo giardiniere, il domestico comparve di nuovo sull'uscio. - La signora duchessa è servita. Passata nella sala da pranzo, preso posto alla tavola dove il duca batteva la marcia con le posate, fiutando ogni cosa, allungando la testa da una parte e dall'altra come un ragazzo malavvezzo, la duchessa disse, con voce breve: - Domani andrò in villa. Il marito la guardò, sorpreso da quell'insolito accento di risoluzione. Ma un sentimento di soddisfazione gli si dipinse subito in volto. - Era quello.... - Poi, quasi pentito. - Non è una bella stagione. Del resto, fai come ti piace. Puoi dare gli ordini opportuni.

Poichè tutti gli esseri e tutte le cose in tanto esistono in quanto sono pensati da noi, è naturale che ciascuno di noi si creda il centro intorno a cui gravita l'universo, e che le ragioni dell'io siano considerate come le sole attendibili. È presumibile che se lo specchio avesse una coscienza, esso affermerebbe soltanto la esistenza di ciò che vi si riflette; ma, siccome facendo riflettere uno stesso oggetto in due o più specchi, ciascuno di questi lo vedrebbe sotto un angolo necessariamente diverso, i giudizii che essi darebbero sulla forma dell'oggetto non potrebbero mai essere identici. Così è dei giudizii nostri. Per la doppia influenza del temperamento iniziale e dell'educazione acquisita, il modo di vedere di ogni uomo è, a proposito di tutto, nel mondo fisico e nel morale, più o meno diverso da quello di ogni altro uomo; quando poi l'interesse personale è in giuoco, il dissidio diventa ancora più grande. Nella pratica della vita, per le necessità stesse del consorzio sociale, l'accordo sembra farsi sotto la vernice dell'ipocrisia, o si fa realmente, qualche rara volta, per lo spirito di sacrificio; accade però spesso, quando gli interessi impegnati sono troppo forti, che il contrasto scoppii violentemente, e nulla è più curioso, per l'osservatore spassionato, della ingenuità con la quale da ciascuna parte si crede di essere solamente ed interamente nel giusto. Ridotta ad una espressione rigorosa e si potrebbe quasi dire scientifica, questa era la tesi che la signora Auriti sviluppava, con le incertezze e le ripetizioni inevitabili della conversazione, dinanzi ad Eugenio Darsi, e che trovava invece in costui un avversario deciso. I due erano soli nel grazioso salottino giapponese dove la signora Auriti riceveva le sue visite; un silenzio assoluto regnava in quell'estremità dell'antico palazzo prospettante in una via erta e solitaria; e la conversazione, iniziata sopra un futile soggetto, l'approssimarsi della stagione dei bagni, era caduta sulle cose del sentimento. Caduta non è forse la parola conveniente; poichè il Darsi, attraversando, nei suoi rapporti con la signora Auriti, quel periodo pericoloso in cui il secreto e vago desiderio che ogni uomo prova in presenza della donna sia pure la più rispettata, comincia, date certe circostanze, ad ingigantire e quindi a manifestarsi, aveva egli stesso preparata la via a più intime espansioni. Se non che, una virtù severa, o meglio forse le scettiche persuasioni dell'esperienza, corazzavano la signora Auriti contro ogni seduzione anche più potente di quella che tentava di spiegarsi sopra di lei; e il freddo ragionamento, la logica inflessibile con cui ella aveva risposto alle professioni di fede, un po' troppo vivaci per esser tutte sincere, del Darsi, avevano ben presto fatto temere a quest'ultimo che il suo gioco non venisse scoperto. Perfino la chiara, la viva luce penetrante dalle finestre e temperata appena dalle tendine tenuissime, gli procurava un certo fastidio, abituato com'egli era alle propizie semi-oscurità dei salottini delle signore alla moda. - Io le domando scusa - tentava nondimeno di insistere - ma lei non mi persuaderà che due esseri non si possano comprendere, che l'accordo sia impossibile, che il disinteresse non esista; non mi potrà persuadere che sotto la spinta delle grandi passioni il nostro io non scomparisca, non si annulli, per farci vedere, per farci sentire, per farci vivere di un altro io.... - Sì, sì, - interruppe la signora Auriti, prendendo da un minuscolo tavolinetto uno svelto calice di cristallo e odorando le violette di Parma che vi suggevano nuova vita, - glielo concedo; ma fino a quando quest'altro io ci seconda. Aspetti però il giorno che sorgono le contrarietà!... E poi, crede lei che l'accordo sia vero, o non è più tosto apparente? Non è il nostro interesse che ci spinge a passar di sopra ai malintesi quotidiani nell'attesa di un vantaggio avvenire, fin quando questi malintesi non sono così grandi da nuocerci immediatamente?... - Si direbbe un professore di morale! - esclamò il Darsi, non senza una piccola punta di ironia. - La morale astratta, ha ragione, è spesso falsa e noiosa.... - Io non ho detto.... - Ma la moralità che scaturisce viva dai fatti non va disprezzata. Guardi, per esempio.... La signora Auriti sembrò esitare un istante; poi, risolutamente: - Ne vuole un esempio palpitante? - ripigliò. - Io non commetto una indiscrezione, poichè lei non conosce le persone di cui si tratta.... E alzatasi, aperto un armadietto e frugatovi un poco, ne cavò una lettera che venne a porgere al suo contradditore. - Che cos'è questo? - chiese curiosamente il Darsi. - Legga, legga; lo saprà subito. Il Darsi spiegò la carta e lesse: "Cara signora, "Ella non sa dunque rassegnarsi ancora a credere a quello che ho fatto? Senta, non ci credo neppur io!... Sono proprio io che scrivo da questa sala d'albergo, su questa carta intestata? Che cosa son venuto a far qui?... Giro intorno uno sguardo: non un viso conosciuto, non una persona con cui scambiare una parola. Fermo a questo tavolo, mi pare che tutte le cose oscillino in giro, che il suolo si muova sotto i miei piedi, che la mia testa vacilli; l'impressione precisa che si prova a bordo di una nave. Dopo lunghe e lunghe ore di viaggio, di immobilità ambulante, mi pare di essere ancora sospinto non so verso dove. Ho nella testa un caleidoscopio di paesi e di figure, i nomi di certe stazioni mi tornano stranamente alla memoria, come nel delirio: Oulx, Culoz, e tanto repentino e radicale è il mutamento della mia vita, che non posso credere che esso dati da qualche giorno soltanto. "Qualche giorno addietro, dunque, io ero ancora costà, avevo una sciabola al fianco, andavo a prendere gli ordini del mio colonnello, venivo a far visita a lei? Che cosa debbo mettere in dubbio, i miei ricordi del tempo trascorso o le impressioni del presente?... Non è solo al fianco che io sento la mancanza di qualche cosa; qualche cosa mi manca ancora qui, dentro il cervello! "Ho troncata la mia carriera, ho abbandonato il mio paese che potevo ancora servire, mi sono ridotto in questa terra d'esilio; e tutto ciò è nulla! È l'aria che mi manca, è la gola che mi si stringe, è il petto che mi si opprime.... Senta, dopo tutto è una provvidenza che lei mi abbia scritto, che mi abbia offerta l'occasione di sfogarmi, di buttar sulla carta una parte di ciò che mi tempesta nel cranio e che minaccia di farmi ammattire! "Allora, stia a sentire: bisogna che io le dica tutto, non è vero? Ebbene, la prima colpa è un po' sua. Perchè si ostinò a farmi conoscere quella donna? Perchè mise tanto zelo ad interessarmi a lei? Si diverte dunque a far degli esperimenti in anima vili? Lei lo sapeva bene quel che doveva accadere in me, il bisogno che io aveva di un poco di cuore, malgrado il cinismo della caserma, malgrado la facilità degli intrighi di guarnigione, che l'ordine di tramutamento rompe, come rompe il contratto d'affitto delle camere mobiliate!... Egli è che questo cinismo è una specie di obbligo; che a fare i sentimentali si corre il rischio di esser messi in berlina dagli ufficialetti freschi di spalline! Egli è che vi sono dei sentimenti che si esprimono come si indossa l'uniforme d'ordinanza, perchè così va fatto, per non essere consegnati e per non essere canzonati! "Ebbene, quello che doveva accadere accadde! Io l'amai, quella donna; l'amai subito che la vidi, l'amavo prima! Quando io ricordo i primi tempi di questo amore muto, inconfessato, forse per ciò stesso più intenso - no, dico male, più raro - quando io ricordo questi giorni che non potranno ritornare mai più, è come se tutte le mie vene si vuotassero.... Sarebbe stato molto meglio che si fossero vuotate allora davvero! "Perchè dunque colei mi fece capire che non le ero indifferente?Perchè, invece di rafforzare la mia paura di offenderla, le sue parole, i suoi sguardi, i suoi stessi silenzii mi spinsero alla confessione? E quando io non potei più frenarmi, quando le ebbi fatto leggere nell'anima mia come in un libro, sa Ella la risposta che mi diede? "Mio Dio!... esclamò, che cosa ha fatto!" Dunque ella aveva paura? Dunque mi amava!... Quale altra interpretazione potevano avere quelle parole?... No, ella non aveva ragione di temere; io non le domandavo nulla che non volesse accordarmi ella stessa. Che cosa mi rispose ancora? Che solo così poteva essere amata, come una sorella; che una fatalità pesava su di lei, che forse un giorno avrei tutto saputo.... "Perchè quella reticenza? Che cosa poteva essere quella fatalità? Era libera, era stato suo marito che l'aveva lasciata per la prima venuta: lo avevo sentito ripetere da tutti. E nessuno dava una colpa a lei, nè prima nè dopo quell'abbandono; neppure l'ombra d'un sospetto la sfiorava. Allora? Aveva un amante ad insaputa del mondo? Ma se lo aveva perchè accettare la confessione dell'amor mio?perchè non dirmi alle prime parole che non era libera?.... Chi l'obbligava a fingere quella paura: "Mio Dio, che cosa ha mai fatto?" Perchè non mi aveva fatto mettere alla porta, o non si era messa a ridermi in faccia? "Non v'ha di peggio che trovarsi dinanzi all'assurdo e sentire nello stesso tempo la necessità imperiosa di trovargli una spiegazione. Quando mancano le induzioni ragionevoli, le più pazze ipotesi si presentano allo spirito. Dire tutte quelle che io formulavo e che dopo un attimo respingevo, non è assolutamente possibile. Ma quell'ansioso farneticamento, quell'assiduo lavorìo dell'imaginazione, se non mi avanzava di un passo nella scoperta della verità, riusciva però ad offuscare la figura della persona amata, gettava il dubbio su di lei, menomava, contaminava l'idolo che io me ne ero formato! "Questo, da una parte. Dall'altra, vedendola spesso, restando solo con lei, respirando la sua stessa aria, stringendo la sua mano, il mio martirio si raffinava; e se aveva voluto mettermi alla prova, qual prova maggiore potei darle del rispetto timido di cui la circondai? "Vi è un limite a tutto. Quando io non potei più oltre resistere, che cosa feci? Le scrissi che non l'avrei più rivista; non avevo il coraggio di dirglielo a voce. Ella mi richiamò, mi suplicò di rivederla; era necessario!... Mi amava! Era lei che lo scriveva! era lei che me lo ripeteva, aggiungendo che un giorno mi avrebbe tutto rivelato.... Che importava tutto il resto? Io non chiesi più nulla; me le affidai; non sospettavo ancora gli abissi di doppiezza di cui un cuore di donna è capace! "Non chiesi più nulla. Avevo sete dei suoi baci, non volevo aver l'aria di rubarglieli. Vi erano dei momenti in cui la mia ragione minacciava di smarrirsi; allora ella gemeva: "È una colpa!..." Perchè colpa? Se mi amava? Se io non avevo altri doveri, e se lei non ne aveva più? Poteva esser l'idea del dovere astratto, della legge divina che l'arrestava? Se era così, perchè non lo diceva? "Un giorno, non so più come, io nominai suo marito. Si turbò tutta, scongiurandomi di non parlare di lui. Comprendevo bene come il ricordo di quell'uomo non dovesse riuscirle gradito; però le dissi: "Fortunatamente egli è lontano..." Ella stette un momento guardando dinanzi a sè; poi rispose: "È ancora troppo vicino!" E nascose la faccia tra le mani. La luce d'un lampo traversò il mio spirito. Mi sentii morire. Nondimeno tacqui. "Al ballo del generale, qualche sera dopo, come il fascino di lei era irresistibile, io le mormorai: "Ebbene.... a quando la rivelazione?..." - "Anche ora! rispose; bisognerà però avere molto coraggio." - "È dunque molto triste a sapere? - "Anche a dire; credevo che avesse indovinato..." Allora io sentii come una mano che mi afferrasse alla gola, che mi strozzasse, che mi facesse schizzar gli occhi dalle orbite. Potei dire ancora: "Suo marito?" Ella chinò la testa. Poi mi afferrò una mano: "Mi giuri che non farà nulla, mi giuri che prima mi ascolterà..." "Io non le rivelo delle cose nuove; sono tanto amiche! Quel marito che l'aveva oltraggiata ed abbandonata, tornava ora da lei, pentito, ma non abbastanza da riparare alla luce del giorno i propri torti! Veniva a trovarla, di quando in quando; non si faceva veder da nessuno in città, restava nascosto il giorno, passava le notti da lei.... Ah! ah! non avevo io l'anima sua! "Che importa il resto?" ella mi domandava "il resto non esiste!" rispondeva quest'uomo accomodante! E appena io andavo via, quell'altro veniva ad esercitare i suoi diritti; faceva, secondo ogni probabilità, le grasse risate alle mie spalle! E colei, da economa esperta, dava l'anima a me, il resto all'altro! Io le schiudevo le gioie del cuore, l'altro... Oh! in nome di Dio, io vorrei scendere in istrada e fermare i passanti, il primo galantuomo che passa; io vorrei domandare: Di qual nome è degna costei? Che perfidia deve annidarsi nel suo petto, di quali transazioni è capace, se avendo dei pretesi doveri da custodire, allettava me di lusinghe; se giurandomi di non amare che me, non sapeva rinunziare a quell'altro; se si ridava a chi l'aveva offesa, se vilipendeva il sentimento sacro di cui le avevo fatto l'omaggio?... Come aveva mentito, sapientemente, dal primo all'ultimo giorno! Come aveva dovuto prendersi beffe di me!... In nome di Dio, perchè non mi aveva detto, se non era libera: "Andatevene, io non sono per voi?" Perchè quando volli io andarmene, mi trattenne? Perchè non mi disse da principio, subito, la verità; e mi derise invece con quella fatalità assurda, inverosimile, da lei stessa creata? Come mi accecai così; come caddi in tanto ridicolo? Guardi, io piango di rabbia! Che cosa aspettava, dunque; che cosa sperava? Che una vampa di desiderio mi avesse un giorno fatto perdere la ragione e che io avessi preso i resti di quell'altro? Che mi fossi accomodato di questa divisione amichevole?... Guardi, piango di umiliazione.... "Andiamo, via; ho torto di prendermela così calda. "Perfida come l'onda" il giudizio è antico; ma sono soltanto gli ammaestramenti della propria esperienza quelli che ci s'inchiodano nella mente. Ella mi perdoni queste lunghe ed inutili geremiadi; ma gli ammalati non provano una soddisfazione lor propria nel parlare del loro male? "Io non so ancora quel che farò; il presente è incerto e l'avvenire più tenebroso che mai. Si ricordi di me." Come il Darsi ebbe decifrato la firma: Alessandro Morea, la signora Auriti domandò: - Ebbene, che cosa ne dice? - Ecco un uomo - esclamò vivacemente il Darsi, credendo di aver trovato un argomento in suo favore - a cui la passione strappa accenti di una grande eloquenza! Lei non mi sosterrà, credo, che quest'uomo non sia sincero, che egli faccia delle frasi, se ha abbandonato il suo paese, se ha distrutta la sua vita.... - Non è vero che egli ha ragione? Non pare anche a lei che sarebbe difficile giustificare la parte avversa, e più difficile ancora ritorcere le accuse contro di lui?... Stia dunque a sentire. E questa volta, presa un'altra lettera dalla stessa cassetta dell'armadio, la signora Auriti cominciò a leggere ella stessa: "Amica mia, "Partito? per sempre?... Egli è partito, dopo avermi giurato di attendere dei mesi, degli anni, un'eternità? Di attendere la confessione di tutta la mia vita, dello strazio dell'anima mia? Partito, lui, senza ascoltarmi, abbandonandomi vilmente dopo aver rubata la mia pace, la tranquillità del mio povero cuore che io custodivo gelosamente, come il supremo dei beni? "Ah, se potessi credere che non è vero, che sono vittima d'una dolorosa allucinazione! Vorrei poterlo credere per me, ed anche per lui, per non disistimare quell'uomo che avevo messo molto in alto, in cima ai miei pensieri!... Non è possibile è vero? La realtà è schiacciante! Non è possibile neppure il pianto: gli occhi sono aridi, lo sguardo è inebetito.... "Mio Dio, mio Dio! perchè ha egli fatto questo! Che cosa aveva da rimproverarmi? Dici tu, amica, quali sono i miei torti? Non fui forse sincera con lui fino all'eroismo? La confessione che gli avevo promesso non mi avrebbe fatta l'anima a brani? La triste storia non mi avrebbe bruciato le labbra?... Eppure, avevo deciso di farlo ad ogni costo, come una espiazione, come un primo sacrifizio a quest'uomo che mi aveva dischiuso degli arcani dolcissimi, che mi aveva richiamata alla vita del cuore, mentre mi reputavo morta per essa! "Quest'uomo che io stimavo tanto diverso dagli altri sulla fede delle sue nobili parole, dei giudizii che gli altri, tu stessa per la prima, ne davano, aveva destato in me una grande simpatia; ma se io non ero padrona del mio sentimento, ero padrona della mia ragione; e può egli dire di essere stato da me incoraggiato, sia pure con la più innocente civetteria di cui nessuna donna va esente, a tentar di mutare la natura dei nostri rapporti? Se egli mi avesse subito fatto comprendere quali speranze nutriva, io avrei potuto farmi forza, disilluderlo fin dal principio, non vederlo più; egli invece seppe abilmente aspettare fino a quando io caddi in una fitta rete, quando la mia simpatia era diventata amore, amore potente, del quale non potevo più fare a meno, come non si fa a meno dell'aria che si respira!... ciò malgrado, che cosa gli risposi io? Chiedilo a lui stesso; mi affido alla sua coscienza, se ne ha una; che cosa gli risposi? Gli diedi forse allora qualche speranza vaga, lontana? Io gli dissi che non doveva concepirne nessuna, che non potevo amarlo se non come un amico, come un fratello; che una fatalità pesava sulla mia vita! "Una fatalità, la più triste, la più terribile: essere legata, indissolubilmente, a chi non si ama e non si può amare; esser libera agli occhi di tutti e sentire tutto il peso del dovere nell'intimo della coscienza! Tu lo sai, tu che sei stata presente alle mie dolorose vicende dal momento che fui legata a quell'uomo fino ad oggi, tu lo sai quel che mi fece soffrire! Ebbene, per ragione di queste sofferenze medesime, potevo io cacciarlo da me quand'egli era tornato pentito, umile, supplice, quando a sua volta tradito, invocava il mio perdono, quando io stessa avevo apprezzate tutte le tristi conseguenze della mia falsa posizione, i sospetti che la malignità sempre desta andava gettando su di me? "Il mio cuore era libero, allora; io non conoscevo ancora lui; avevo creduto che tutto fosse finito per me; non ebbi la forza di respingere mio marito che veniva in nome del nostro passato, che prometteva di riparare pubblicamente, alla luce del giorno, tutti i suoi torti, di smentire per ciò stesso le voci malvagie di cui ero l'oggetto. Quand'anche l'avessi avuta, questa forza, come resistere a lungo? Non aveva egli il diritto dalla sua parte? Non era mio marito?... Fu allora che conobbi lui, e puoi tu imaginare un tormento più grande del mio, spinta com'ero a gettarmi ai piedi dell'uomo amato, e incatenata intanto a chi avevo giurata la fede? Non erano tanto più grandi i miei doveri verso costui, quanto più grande era la mia apparente libertà, quanto più ero sottratta alla sua sorveglianza?... E non lo ingannavo, intanto? non gli mentivo? non avevo dato l'anima mia a quell'altro? Avrebbe quell'altro forse voluto che io mi fossi divisa fra loro due?... "Io non so; la mia mente si turba, la mia ragione si smarrisce! Quando io gli dissi che un triste secreto mi pesava sul cuore, che un giorno lo avrebbe saputo (non volevo, non dovevo confessarmi a lui?) io gli chiesi se avrebbe avuta la forza di affrontare una posizione tristissima, di contentarsi di quel che solo gli potevo dare. Che cosa rispose? "Non sa che forza la sicurezza di essere amato può dare ad un uomo!" Egli m'ingannava; traeva profitto del mio accecamento, contava presto o tardi di vincere in un modo o in un altro! Un galantuomo avrebbe detto "Questa forza io non l'ho; mi si chiede l'impossibile!" "Ed ancora, non gli avevo io chiesto di aver fede in me? Non aspettavo l'occasione propizia da un istante all'altro di dire a mio marito: Mantenete la vostra promessa, riprendetemi con voi dinanzi a tutti, o rinunziate per sempre a me? Non ero io quasi sicura ch'egli avrebbe esitato, nuovamente sedotto com'era da quella donna che lo aveva ammaliato, non più bisognante di me; che egli mi avrebbe presto lasciata libera, questa volta davvero, e per sempre?... Giurava di aver fede in me, lui, e mentiva; e quand'era il tempo di provarla, questa fede, mi abbandonava vilmente; vilmente, lo ripeto ancora, non mi stancherei di ripeterlo!... Dunque, il martirio che io sopportavo, i rimorsi di ogni natura che mi laceravano il cuore in tutti i sensi, la posizione di una donna che è sull'orlo della colpa, i mille pericoli cui andavo incontro, tutto questo era dunque nulla? Per chi mi aveva presa egli dunque?... "Ah, io mi lamento a torto! È forse provvidenziale che sia finita così! Egli mi avrebbe forse abbandonata dopo avermi avuta, come una cosa inutile ormai!... Mi ha lasciata prima; anche questa è una specie di lealtà di cui bisogna tenergli conto! "Non è men vero per ciò, amica mia, che sono delle nature predilette dalla sventura. Ed io sono del numero. Amami tu, per tutti gli altri, lascia che io versi nel tuo seno la piena del dolore; vieni, vieni presto, vieni a soccorrermi." La signora Auriti ebbe un piccolo sorriso di trionfo dinanzi al Darsi che restava un poco interdetto. - Vede se io avevo ragione? Sente come suona diversa l'altra campana? Mi parli dell'intesa, della compenetrazione delle anime, adesso!... - Ebbene! - esclamò il Darsi, che non si voleva arrendere. - Ciò prova che vi sono nella vita delle situazioni complesse, che ammettono per ciò stesso diverse soluzioni, tutte fino ad un certo punto legittime. Ma se queste persone giudicavano così diversamente della loro condotta di fronte al sentimento che li dominava, ella converrà meco che, almeno in questo sentimento, essi si accordavano del tutto, gettati com'erano per esso in preda al più disperato dolore... - Oh, non lo creda! - interruppe la signora Auriti, con un nuovo sorriso. - Non lo creda completamente. Certo, la scossa dovette esser sensibile; ma io penso che la previsione, in ciascuno di essi, del dolore dell'altro, dovesse essere più forte che non la personale sensazione dolorosa. - Come può dirlo? - Sa che cosa fece la mia amica, il giorno stesso in cui apprese la rottura? Andò a pranzo in casa di lady Dalty, dalla quale aveva già ricevuto un invito, dopo aver fatto un'accurata toletta. Per confessione stessa di lei - badi, io non metto una parola di mio - fattasi allo specchio, la sua meraviglia fu grande nel rivedersi la stessa, anzi più bella; il sangue affluito alla testa aveva acceso il suo volto, fatto come di bragia, coi grandi occhi sfavillanti. Quei preparativi di festa, i profumi dell'Ixora e della veloutine, le infusero quasi un benessere; a poco a poco una strana reazione si operò in lei; ebbe l'agio di trovare che il suo abito mauve, guernito di trine écrues e di jais, le stava a pennello... - Oh! - Aspetti ad esclamare. Per le vie, ella scambiava graziosi saluti e sorrisi, si sentiva ammirata da tutta quella folla; le pareva quasi che con quell'ammirazione le si rendesse giustizia... Esclami, amico mio; esclami pure; in quel momento ella pensava certo - questa è l'induzione mia, non me l'ha detto lei - alla disperazione dell'uomo, allo sconforto mortale a cui doveva essere in preda; e trovava giusto che egli soffrisse per lei e che lei si distraesse così... Egoismo, e del più puro! L'uomo invece... - L'uomo?... - Telegrafava ad un amico, per avere del danaro; il soggiorno di Parigi, anche quando ci si va per raccogliere un'eredità (suo fratello maggiore era stato colpito da paralisi, egli non fece che affrettare le sue dimissioni) non è una misura di economia. Da Milano a Torino fece il viaggio coi Marnengo; la signora conserva un gradevole ricordo dell'amabilità del capitano. Intanto che egli sfoggiava la sua più squisita galanteria, pensava probabilmente all'ambascia della donna, al rimorso che doveva divorarla, come la più giusta delle punizioni. Se gli avessero detto che in quell'ora precisa ella era a pranzo da lady Dalty, si sarebbe pentito di aver avuta tanta fretta!... - È disperante! - disse il Darsi, che vedeva l'inutilità dei suoi tentativi e cercava di lanciare un gran colpo. - Ella dunque crede che tutto sia finzione? Se io le provassi... - Mio Dio, vuol dire che non ho saputo ancora spiegarmi. Io dico che tutto è relativo, che tutto può esser vero e falso al tempo stesso, secondo il punto di vista. Lei, per esempio, è qui, nel mio salotto, a sostenere il disinteresse, l'altruismo, il sacrifizio. Questo, non è vero? è un concetto... - Del quale io non domando che darle la prova! - Allora, consideri un poco: non potrebbe anche essere un calcolo?

. - Vi sono anche dei documenti umani che depongono per l'esaltazione, per il lirismo, per l'idealità, per tutto ciò che voi fate presto a negare quando avete esclamato: rettorica! - Permetta, - interruppe il Dinolfi, ripiegando con cura il manoscritto e posandolo sul tavolo. - Io non ho negata la rettorica; ho detto soltanto che la rettorica non è la verità! - Oh, bene! E se noi cominciassimo a intenderci sul significato dei vocaboli? La verità! Quale verità? Vi è una verità, reale, e ve n'è una ideale.... A vostra volta voi mi domanderete di spiegarvi queste altre grosse parole. È semplicissimo; io non uscirò dai limiti dell'etimologia. Reale è il mondo delle cose, ideale è il mondo delle idee. Ora una idea, un sentimento, un fatto psichico è nel vero allo stesso titolo di una cosa, di un avvenimento, di un fatto fisico. Una concezione spirituale esiste con lo stesso diritto di un oggetto materiale; si potrebbe anche dire: con un diritto più legittimo - poichè il mondo esteriore non ci si rivela che per via di imagini interne.... - Una lezione di psicologia? - Avete ragione; ma perchè avete torto! Torniamo all'argomento. Io ho letto, per esempio, tutti i vostri libri; essi lasciano un sapore molto amaro - vi hanno perfino fatto una colpa del vostro pessimismo! Ora, che cosa direste voi se io affermassi che questo vostro pessimismo deriva da una persuasione di dolore, non da un dolore veramente provato? Mi rispondereste che credere di soffrire val quanto soffrire realmente! Non è vero? E voi mi dareste causa vinta!... Perchè di tutte queste dolci e torturanti credenze, dell'amore, della poesia, dell'ideale, noi siamo tutti capaci; perchè vi sono dei momenti in cui tutta la nostra anima vibra come se fosse per spezzarsi, in cui soltanto l'inverisimile è vero; perchè, malgrado i nostri capelli bianchi, malgrado la severità dei nostri studii , noi piangiamo se una canzone echeggia da lontano, nell'ora del tramonto, e daremmo - che cosa? - per poter fare ancora della rettorica!... Paolo Dinolfi guardò un momento negli occhi l'ingegnere Ferrieri. - Lei può dunque garantirmi l'autenticità di questo documento? - Ne dubitate ancora? Ma io non posso darvi che la mia parola! È un'antica storia, ignorata da tutti. La donna è morta, sono molti anni.... - E l'uomo? - interruppe l'altro. - L'uomo, - rispose l' ingegnere, dopo un momento di esitazione - l'uomo che passava quella notte a scrivere la sua confessione, e che, all'alba, dopo aver baciato lievemente in fronte i suoi cari, usciva armato del suo revolver, ben deciso a farla finita appena avrebbe provveduto al recapito della sua lettera, l'uomo è qui, dinanzi a voi.... Oh, per carità, non sorridete; fate male!... Ascoltate; io vi dirò ancora qualcosa, da cui potrete argomentare a mia sincerità!... Non sapete dunque, caro romanziere, che noi proponiamo, ma che bisogna fare, in ogni circostanza, la parte del Caso? Nel ritardo di un minuto può esservi la perdita o la salvezza di un uomo. Ora, un minuto si può perdere in un modo volgarissimo; basta, per esempio, una saccoccia sdrucita, una lettera che vi caschi dalla saccoccia, una persona che vi corra dietro a riportarvi la vostra lettera.... E se questa lettera è stata da voi scritta col cuore sanguinante e con la mente smarrita, potrà nascere in voi la tentazione di rileggerla quando la freschezza pungente del mattino avrà sedato la vostra esaltazione.... Allora, in mezzo al ridestarsi delle attività umane dopo la salutare tregua della notte; allora, dinanzi allo spettacolo della più minuta e prosaica realtà - le vacche della lattaia, il carro delle immondizie - voi potrete sentire come una doccia ghiacciata sferzarvi la schiena, e giudicare precisamente rettorica le vostre lacrime della notte.... Voi non le avrete meno versate per questo! Voi non le sentirete meno gonfiarvi gli occhi quando, molti anni dopo, rimesterete tutte queste cose intime e dolorose dinanzi a un amico.... In quel momento, una voce argentina squillò nella grande stanza da studio. - È permesso'? - e una bambina di circa dieci anni, un mucchio di rose fra carnagione e vestito, si fermò sull'uscio tenendo un grosso rotolo di carte fra le braccia, interdetta alla vista di un estraneo. - Avanti, Vannina; su via! Hai paura dei miei amici? - Hanno portato questo per te - e la piccola miniatura di donna non levava gli occhi curiosi di dosso a Paolo Dinolfi. - E dice la mammina che lei è pronta per andar fuori.... - Prega la mammina di andar sola per oggi - rispose l'ingegnere, dopo aver dato un'occhiata alle carte. - Ho qui un bel da fare. Tu le terrai buona compagnia. E l'ingegnere Ferrieri, attirando a sè la figliuola, le stampò due grossi baci sulle guancie. - Non ha un altro bambino? - chiese premurosamente il Dinolfl che a quella piccola scena si era sentito intenerire. L'ingegnere si passò una mano sulla fronte. - È morto, compie ora un anno! Me l'ha portato via la malattia che infierisce in questo povero paese, la stessa che portò via la mia buona mamma. Non sapete che noi siamo qui ogni giorno in pericolo di vita? È urgente provvedere al rimedio, e questo è ora il mio gran da fare; un progetto di sistemazione del sottosuolo della città, in modo da evitare l'inquinamento delle acque. Bisognerà adottare un nuovo tipo di fogne.... Ecco la prosa che viene a interrompere la poesia della nostra comunione spirituale.... Vedete, mio caro romanziere? Esse sono nel vero entrambe!

Ella lo aveva amato di più per quella nebbia di malinconia che velava il suo viso, per quel gran dolore che lo aveva atterrato e che sarebbe toccato a lei di far dimenticare!... La scossa prodotta dal lamentevole dramma non aveva soltanto inaridita l'anima di Roberto Berni, aveva ancora offuscate le sue facoltà intellettuali. A trentacinque anni, nel pieno rigoglio dello spirito, pareva che egli avesse smarrita la via fino a quel tempo felicemente battuta, e mentre si apprestava a dare, in un'opera da molto tempo annunziata ed ansiosamente attesa, la piena misura del suo ingegno, quell'ingegno si isteriliva!... Che cosa avrebbe potuto guarirlo se non l'amore, un, amore così felice da cancellare gli effetti dell'amore disgraziato? Ella aveva accettata la partita; gli aveva fatto il sacrifizio di tutta sè stessa; aveva sperato che i suoi baci, le sue carezze, le sue cure, le sue premure, la sua devozione, la sua umiltà, l'atmosfera di affetto in cui lo avrebbe da ora innanzi fatto respirare, sarebbero riusciti a guarirlo. Ed aveva vista la vittoria sorriderle da vicino. Non pareva che egli avesse tutto dimenticato? Non le aveva dato certo prove di amore caldo e sincero? Non era tornato, con forze cresciute, al lavoro? Non aveva sorriso?... Quel giorno stesso, poche ore innanzi, quando ella gli aveva annunziato, in un abbraccio, la fausta notizia, il prossimo realizzarsi delle loro lunghe speranze, il nuovo e più potente e più dolce vincolo che li avrebbe uniti, non l'aveva egli stretta tenerissimamente, non gli aveva sussurrato fra i baci interrotte parole d'amore e di gratitudine? Chi avrebbe potuto dirle che più tardi, un momento dopo.... Abbandonata sopra una poltroncina, nella sua stanza da letto, con la testa fra le mani ella chiudeva gli occhi dinanzi al crollo repentino dell'edifizio pazientemente costrutto. Egli amava ancora la morta! Egli non l'aveva mai dimenticata! Egli rileggeva le sue lettere, baciava il suo ritratto, rievocava la sua memoria!... Egli non le aveva dato ascolto quando gli aveva parlato della loro creatura! Egli avea pianto - per lei, per la morta! - quando avrebbe dovuto sorridere alla nuova vita che si agitava nelle sue viscere!... Tutto era stato inutile! Tutti i suoi sforzi erano stati invano sprecati! L'amor suo non era bastato! Quando egli le aveva detto di amarla, non aveva detto a lei; aveva detto all'altra, alla morta!... Che forza aveva dunque costei, se dal fondo di un sepolcro lo attirava ancora, lo possedeva più interamente, più saldamente che non l'avesse posseduto viva?... Il suo spirito si confondeva: ella non sapeva darsi una spiegazione altrimenti che balbettando delle parole: l'amore!... la passione!.... con quella meraviglia che si prova dinanzi alle cose più strane. Che cosa sapeva ella dell'amore, delle passioni? Che cosa sapea della vita? Quel poco che egli le aveva rivelato. V'era stato qualcuno che avesse mai pensato a lei, che si fosse interessato a lei?... Riandando col pensiero la sua vita passata, ella si rivedeva fanciulla, nella solitudine che l'aveva circondata fin dalla nascita, a curare i suoi vecchi zii malaticci, a coltivare i suoi fiori, ad educare il suo spirito alla disciplina di studii severi. Egli era venuto, e il sole aveva sorriso!... Come pretendeva ella di giudicarlo? Si giudica l'aria che vi mantiene in vita? Non viveva ella per lui, non era ella la sua creatura, la sua cosa?... "L'amore!... le passioni!.." Ella non intendeva quelle grosse parole; ella sapeva soltanto che egli era il suo culto, che bisognava stargli innanzi in ginocchio, aspettando l'elemosina di un suo sguardo benigno. Egli era fatto per una vita di comando e di gloria; ella per l'abnegazione e per il sacrifizio. Egli si era abbassato fino a raccoglierla, bisognava adorare quelle mani che si erano tese verso lei. Che cosa aveva ella fatto per meritare questo premio insigne? Quante la guardavano con invidia gelosa? Non avrebbe egli avute tutte, tutte quelle che avrebbe desiderate? No, egli non ne desiderava nessuna! La morta lo aveva preso con sè.... Come aveva dovuto amarlo!... Più di lei! di un amore più cieco ed assoluto del suo, contro cui la gelosia nulla poteva, che si faceva invece più saldo ora che si vedeva meno apprezzato!... Che cosa voleva dire esser gelosi?... Ella avrebbe voluto amarlo come lei, avrebbe voluto essere lei, sollevarla dalla bara in cui era stata composta, spirarle la sua propria vita, per ridarla a lui, per farlo felice.... Ella se ne sarebbe andata lontano, in qualche parte; o piuttosto lo avrebbe scongiurato di tenerla ancora con lui, in un angolo, per servirlo, contenta dello spettacolo della sua felicità.... No, la morta non era da compiangere; la morta era degna d'invidia! Ella avrebbe voluto essere morta ed essere amata così, di un amore che l'eterna lontananza della persona amata rendeva ancor più potente!... No, la morta non era da compiangere; da compiangere era lui, ridotto a combattere contro tutto ciò che cospirava per portargli via la sua pietosa memoria. Infine, era una colpa se la povera morta aveva ancora un posto nel suo cuore? Come essere gelosa di chi non era più?... Se ella avesse osato!... Gli avrebbe parlato di lei, avrebbe ascoltato tutto ciò che egli le avrebbe detto di lei, avrebbe saputo trovargli un rimedio contro l'infinita amarezza del suo ricordo.... L'uscio si schiuse. Nella semi-oscurità che al sopravvenire del crepuscolo aveva invaso la stanza, ella scorse la figura di Roberto. Prima ancora che avesse avuto il tempo di ricomporsi, se lo vide inginocchiato dinanzi nasconderle la testa in grembo. - Emma! perdono.... Ella lo attirò a sè, lo baciò in fronte, lo accarezzò, passandogli e ripassandogli una mano fra i capelli. - Oh sì, Roberto... povero Roberto mio!... Vi fu un istante di silenzio. La donna riprese: - Senti, Roberto... io vorrei dirti una cosa.... - Ella parlava pianissimo. - Se sarà una bambina... nostra figlia si chiamerà... Bianca.... - O buona!... o Emma mia buona!... Le loro teste si confusero di nuovo. Come era già buio, egli non potè vedere gli occhi di lei, dove luccicavano due lacrime.

La prima messa, a San Giorgio, era poco frequentata: delle donne di umile condizione, in vesti dimesse, inginocchiate dinanzi alle seggiole; qualche vecchio seduto sulle panchette di legno; due o tre beghine appartate in un angolo, riconoscibili al pallore clorotico del viso, alla rigidità, quasi meccanica del gesto col quale sgranavano i loro rosarii: una trentina di persone, in tutto. La chiesa era piccola, moderna, dall'architettura semplicissima, senza nessuna di quelle rarità dell'arte che attirano nelle case della preghiera l'irriverente processione dei curiosi, dei touristes con la guida sotto il braccio e il binocolo a bandoliera. Le pareti, quasi nude, erano d'un candore abbagliante; il pavimento, di marmo, a grandi lastre bianche e nere, aveva una lucentezza di specchio; e nell'ordine rigido, nella severa nudità regnante tutt'intorno, si rivelava uno spirito rifuggente da ogni pompa, sollecito solo della concentrazione interiore e dell'adorazione. Era padre Ladislao il rettore di San Giorgio, l'officiante di quell'ora mattutina; e la figura del giovane ministro, austera nei semplici paramenti, dalla fronte alta e spaziosa, dagli occhi ceruli, dalla carnagione delicata, dalle mani bianchissime mirabilmente modellate che toccavano leggerissimamente i sacri arredi dell'altare, presentava un'intima, una completa corrispondenza con quell'ambiente severo e luminoso ad un tempo. San Giorgio era tutto un mondo per il padre Ladislao, l'oggetto delle sue cure più assidue; e per continuare a regger quella chiesa, egli ritardava volontariamente l'avanzamento che lo aspettava da molto tempo nella gerarchia ecclesiastica. L'anello piscatorio ed il pastorale sarebbero già toccati da tempo a padre Ladislao Mantaldi dei principi di Valdiriva, e qualcuno andava fino a predirgli il rosso cappello cardinalizio. Non erano soltanto le tradizioni della grande famiglia, la sua potenza, le sue relazioni, che gli spianavano così la via ai più alti gradi; era ancora, e più, la vasta intelligenza, la varia cultura, lo zelo illuminato, la modestia esemplare, la purità dei costumi, che facevano di questo gran signore una delle speranze della chiesa napoletana. E bisognava veramente stimare irresistibile quella vocazione che lo aveva fatto rinunziare, in età giovanissima, alle seduzioni del mondo, alla eccelsa posizione che egli vi era naturalmente chiamato a sostenere, per l'umile nera veste del seminarista. Più tardi, quando era giunta l'ora di pronunziare i voti irrevocabili, quando una sua sola parola avrebbe deciso dell'intera sua vita, si era creduto che egli si sarebbe arrestato dinanzi alla definitiva e irreparabile rinunzia. Ma quella parola, Ladislao Mantaldi l'aveva pronunziata con voce ferma e sicura; e tutto era stato detto, per sempre. Per iscoprire l' ignoto autore di un delitto, il magistrato possiede un criterio ordinariamente sicuro: cercare se il delitto può avere arrecato dei vantaggi, ed a chi. Coloro che si fossero rivolta una simile domanda, dinanzi alla rinunzia di Ladislao Mantaldi, sarebbero stati messi sulla via della verità. Dando un addio al secolo, egli primogenito, era suo fratello minore che ereditava, col titolo del nobilissimo casato, i beni terrestri; e la cieca passione che la principessa madre aveva per il suo secondo figlio spiegava il sacrifizio che Ladislao, col suo carattere mite, ossequente, rassegnato, era stato persuaso a compire. Pronunziando i suoi voti, egli non aveva inteso però di adempiere ad una semplice formalità, con una di quelle restrizioni interiori così frequenti che modificano e talvolta annullano gl'impegni che noi affermiamo di prendere dinanzi a noi stessi. Nella sua nuova vita, a cui l'educazione religiosa disposta dalla madre lo aveva preparato del resto fin dagli anni più giovani, quando le sue passeggiate, sotto la scorta d'un vecchio prete, avevano per meta un antico convento, e gli stessi suoi giuochi consistevano in rappresentazioni sacre; in quella sua vita Ladislao era entrato interamente, senza transazioni di sorta, col fervore solo capace di attutire la sorda voce che diceva la dolcezza delle gioie terrene. Per il giovane imbevuto di precetti rigidamente impartiti, fuori di ogni personale esperienza, era stato lungo tempo un argomento di sconforto il ritorno frequente di questa voce, la visione ostinata di quel che egli aveva già appreso a considerar come il Male. La purezza nelle azioni gli pareva una cosa molto mediocre, se ad essa non avesse corrisposto quella dei sentimenti, e con un terrore infinito egli si vedeva impotente non che a domare, ma perfino a guidare il proprio pensiero. In questa sua dolorosa incertezza, in quest'intima impotenza, egli aveva temuto di andare incontro ad una perdizione eterna, ingannando gli uomini e Dio con le aspirazioni ad una santità che si vedeva incapace di conseguire là dove appunto sarebbe stata più meritoria, nel dominio spirituale. Lo spirito d'analisi, grandezza e tormento dell'uomo moderno, non sarebbe che un effetto della legge cattolica dell' esame di coscienza? Qualunque ne sia l'origine, il certo è che esso prende, in certe nature superiori, uno sviluppo esorbitante, nel quale la sottigliezza dell'indagine è in ragione inversa della nettezza dei risultati. A un tale stato intimamente angoscioso la lunga pratica di scendere in fondo alla propria coscienza aveva ridotto padre Ladislao, quando egli era perfino arrivato a temere che quella sua ingenua persuasione di indegnità potesse essere una suggestione perversa, un comodo pretesto trovato per evitare la via della rinunzia e per conseguire il sodisfacimento delle sue brame secrete. Allora, la parola del vecchio maestro che aveva sorretto i suoi primi passi, dell'umile prete venerato come un padre, lo aveva tratto da quell'angoscia, con la dimostrazione della universalità di ciò che egli aveva creduto un caso particolare, una specie di morbosa impotenza di cui egli solo si trovava di essere vittima. Allora, egli aveva misurato l'abisso che separa sempre l'azione dall'intenzione; aveva compresa l'irriducibilità del pensiero, l'incoscienza con la quale si compiono le operazioni dello spirito, e rassegnatosi quindi alle inconfessate e spesso inconfessabili suggestioni della mente, la sua vocazione si era fatta più salda, più sicura, col dovere che gli si tracciava ora nettamente dinanzi, di illuminare le anime umane, di guidarle, di sorreggerle con tanta maggiore sollecitudine quanto più grande, più naturale era la probabilità della colpa. Una reputazione di santità era il frutto di quella abnegazione; una reputazione di cui egli avrebbe sorriso nel suo interno, con qualche sfumatura di amarezza, se non fosse stato più forte in lui lo spirito di compatimento per gli errori degli uomini.... Quel giorno, come sempre allorquando egli dominava dall'altare la folla dei fedeli sparsa qua e là per la chiesa, il pensiero del contrasto fra il rispetto, fra la devozione un poco meravigliata che si leggevano negli sguardi di quanti lo circondavano, e l'intima sfiducia di esserne veramente degno, occupava la sua mente intanto che egli si preparava al mistero dell'elevazione. Se gli uomini avessero potuto leggergli nell'anima in quell'ora; se avessero potuto sospettare il dubbio che vi tenzonava, intanto che egli teneva chini gli sguardi sul messale e le mani congiunte in segno di adorazione?.... In quei momenti, per l'attenzione stessa di cui lo faceva oggetto, il dubbio s'ingigantiva; egli si persuadeva della propria indegnità, dell'ipocrisia che vi era da parte sua nel presumere di farsi curatore di anime, lui che aveva pel primo bisogno di esser guidato! In una rapida evocazione, riprovava allora le inquietanti impressioni dell'adolescenza, quando veniva di tratto in tratto nel sontuoso palazzo degli avi, e come dietro un sipario intravedeva il magico spettacolo del mondo e delle sue attrattive; allora, l'acuto profumo dei fiori freschi, unica nota vivace profusa su quegli altari quasi nudi, gli procurava un turbamento profondo.... Un istante dopo, la crisi era superata; egli aveva degli slanci interiori di sommessione, di sacrifizio, che lo redimevano ai proprii occhi; mentre l'ostia si alzava, in un nembo d'incenso, egli si prostrava con lo spirito, si faceva umile, si annichiliva, e nel suo volto non si leggeva più che una pietosa serenità....

Anastasio Natali rideva a crepapelle, con le mani ai fianchi, rovesciando indietro la sua forte testa dagli arruffati capelli castagni. - Ah! ah! ah!... bellissimo!... ah ah! ah!... Non c'è che il maestro Albani per avere di queste idee!... L'altro lasciò il suo posto, e aspettato che l'amico si calmasse, riprese a parlare passeggiando lentamente per lo studio: - Tu ti credi moderno, ma sei più antico del tuo Leopardi, che si è sbagliato di venti secoli. Con questo sistema delle antitesi e delle allegorie, ti potrebbe finir male. Se vuoi fare della filosofia, scrivi un trattato, non dipingere un quadro.... - Eh! il discorso non è poi tanto da matto! E se ti sta tanto a cuore l'espressione, cercala dove va cercata.... - Cioè? - Nelle nobili fattezze del re del creato. L'abituale freddezza d'accento di Luigi Albani si era fatta ancora più grande, e nel tono strascicante con cui aveva pronunziate quelle parole quasi ripetendo una frase mandata a memoria, v'era un'ironia così sottile ed acuta, che il Natali si voltò a guardarlo. Ora, egli dirigeva in fondo allo stanzone, verso la mensola. Arrivato lì vicino, ricominciò: - Le nobili fattezze del re del creato sono ancora piene d'espressione dopo distrutte. Ecco, per esempio, un quadro molto espressivo: questa mensola Luigi XV, con questo cappello 1887 sopra un teschio che può essere di tutti i tempi di tutti i paesi. - Poi, preso il teschio e mettendosi a considerarlo attentamente. - Ed ecco un altro quadro: il problema d'Amleto, essere o non essere, cioè se è meglio.... Tu dovresti fare il mio ritratto così. Anastasio Natali scosse le spalle e si fregò fortemente le mani, segno che stava per rimettersi al lavoro. - A noi due, stravagante; ho un'ora perduta, e se mi prometti di star buono e di lasciare in pace il teschio, ti butto giù un pastello. - Vorrà essere una cosa molto originale. Il Natali mise a sedere l'amico, dispose il cartone sopra una tavoletta, prese la scatola dei pastelli, sedette anche lui, e cominciò a tracciare, con la sua febbrile impazienza di meridionale nervoso, le prime linee. Però, a misura che il suo lavoro avanzava, l'attività dell'artista andava rallentando. Ora egli si fermava ad ogni tratto, buttava il corpo indietro per giudicare dell'effetto, guardava lungamente il modello, e aveva un piccolo aggrinzamento delle guancie che dimostrava chiaramente il suo malcontento. - Scusa, tirati più indietro.... no, più avanti.... Alza un poco il capo.... così.... no, come prima. Tornato al lavoro, ricominciarono le sue esitazioni. La figura era già tutta abbozzata, la rassomiglianza in certo modo conseguita; mancava una cosa soltanto: l'espressione. - Apri un po' gli occhi.... non così, più chiusi.... insomma, non ti sforzare.... E chiudi la bocca, se no c'entreranno le mosche!... A poco a poco, il Natali cominciava a indispettirsi; gli pareva che Luigi Albani si prendesse giuoco di lui. - Insomma, vuoi star composto, o mando tutto per aria? - Ti prego di credere che sono compostissimo. Ed era quello, dunque, il suo atteggiamento naturale? Dacchè era tornato da Roma, il Natali non aveva ancora guardato l'amico così attentamente; non aveva ancora esaminati quegli occhi smorti, senza sguardo, quei muscoli flaccidi, quasi cascanti, quelle labbra leggermente dischiuse, quella carnagione scialba, quell'aria di stanchezza, d'indifferenza, di noia, di vacuità diffusa sopra una fisonomia impossibile a definire. Conosceva le sue bizzarrie, le sue eccentricità che gli avevano fatta una reputazione di mattoide nei cenacoli artistici; ma non lo sapeva ancora così strano, così inafferrabile, come ora gli si rivelava non solo alla conversazione, ma financo all'aspetto. Nondimeno, si rimise al lavoro, e dette ancora alcuni tocchi; poi, ad un tratto, strappò il cartone e lo buttò da canto. - Cominciamo daccapo. Era proprio impossibile ch'egli afferrasse quella fisonomia? Il Natali ci si arrabbiava. A corto di risorse, egli mise in opera un espediente disperato per uno come lui, avvezzo a non poter lavorare se non nel più assoluto silenzio. - Parla, - disse all'Albani, - racconta qualche cosa! - Di che cosa vuoi parlare? d'arte? L'Albani sviluppava le sue teorie, citava degli esempii, dava dei consigli: ma nulla, nei suoi lineamenti, tradiva una qualunque attività cerebrale; si sarebbe detto uno scolaro sonnacchioso in atto di ripetere la sua lezione. Il pittore si era messo a contraddire tutto quello ch'egli diceva, ad irritarlo, a provocarlo, nella speranza che l'ardore della discussione mettesse almeno una scintilla in quello sguardo. L'Albani non si dava per vinto, teneva testa alle opposizioni, agli scherzi, ai sarcasmi dell'amico, ma il suo sguardo restava freddo come la sua voce lenta, monotona, a momenti irritante. Anastasio Natali non seppe più contenersi. - Insomma, o sono imbecillito io, o sei tu che hai l'aria d'uno scemo. Come un velo d'ombra passò sul viso del maestro Albani. Il pittore alzò gli occhi al lucernario: era una nube che aveva oscurato il sole?... La giornata era sempre tersissima. - Che cos'hai? Ti senti male? L'Albani si era passata una mano tremante sulla fronte. - Non è niente, è che hai ragione.... Io sono stato un anno pazzo.... Il pittore stava per dire: "Un anno soltanto? vuoi dire un po' sempre...." ma era tanta la tristezza dipinta in volto all'Albani, che chiese invece premurosamente: - Tu? - Io stesso. - E come?... perchè?... Mentre io sono stato fuori?... Nessuno me ne ha detto niente.... E come?... perchè?... - Perchè?... Per aver voluto innalzarmi da terra, per aver voluto stringere delle nubi, per essermi dimenticato che ero la più miserabile delle creature: un uomo!... Dimenticando il suo pastello, Anastasio Natali esclamò: - Allora, sentiamo.

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Me l'hanno data a diciannove anni, perchè era mia cugina, perchè avevano stabilito che dovesse esser così.... Le ho voluto bene, in un certo modo. Che cosa sapevo della vita fino a venticinque anni? Che cosa sapevo in quel miserabile paese, dove un libro era un oggetto della più grande rarità? Eppure, qualcosa bolliva dentro il mio cervello!.... Si venne a Napoli.... Il mio scontento, l'irrequietezza, l'aspirazione a qualcosa d'aspettato, di quasi promesso, ma che non veniva ancora, diventava tormentosa. Intorno a me, non sentivo parlare che di una cosa, del solo grande affare della vita: l'amore.... E l'amore io non lo conoscevo se non di nome o nelle fanciullaggini dei quindici anni.... Preso dall'interesse della narrazione, Anastasio Natali aveva dimenticato il suo disegno, e coi gomiti sulle ginocchia e la testa fra le mani, pareva pendere dalle labbra dell'amico. - L'affetto di mia moglie - riprese l'Albani - mi irritava, come una delusione, come una catena; non era mai stata bella, la maternità l'aveva sciupata. Gli strilli dei bambini m'impedivano di studiare, le poche volte che ne avevo voglia. L'arte mi pareva una finzione suprema. Avevo già pronto il libretto di un gran melodramma, Isaura di Valenza; non sapevo intanto mettere una nota dopo l'altra. Quella poesia mi faceva l'effetto di una convenzione, di una menzogna, di una ipocrisia.... Quando, un giorno, mi capitarono fra le mani i versi dell'Attesa, ti ricordi?

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- e, preso posto dinanzi al cavalletto, si era messo di nuovo a studiare la figura dell'amico. - La romanza fu composta in un'ora - riprese l'Albani. - Dissero che era una rivelazione; credo che abbia fatto il giro d'Italia. A che?... a che?... - mi domandavo. Fu invece essa che mi dischiuse il paradiso promesso. Mia moglie aveva regalato una copia della composizione ad una sua amica, che io non conoscevo. Non volevo veder nessuno, fuggivo le distrazioni, avevo la fama di un orso, di uno stravagante, di un mattoide; non vero?... Quest'amica volle conoscermi; cercai di evitarla quanto più fu possibile; un giorno c'incontrammo. Credi tu che vi possano essere degli sguardi coi quali un uomo e una donna che non si conoscono, che si vedono per la prima volta, si dicano immediatamente: Noi saremo l'uno dell'altra?... Uno di questi sguardi brevi, profondi, fulminatori, fu quello che noi scambiammo.... Un mese dopo, il 20 maggio, la nostra muta promessa era compiuta.... - Come fu? - chiese il Natali che, lavorando attorno alla sua figura, non perdeva nè una parola nè un moto dell'amico. - Che cosa importa?... Si doveva andare in giro, tutti e tre, con mia moglie; all'ultima ora l'indisposizione d'un bambino la trattenne. Andammo soli, fuori Grotta, a Pozzuoli, a Baja.... Che cielo! che mare!... Conosci tu il boschetto che sta dietro il lago Lucrino, sulla via della grotta della Sibilla? Il terreno è in pendenza; si procede a caso, scostando i rami che vi sfiorano il viso. Attraverso il fogliame del castagneto filtra una luce verde, fantastica, da féerie; par di nuotare in mezzo allo smeraldo fluido.... Il 20 maggio!...

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Il maestro Albani si era alzato, di scatto, guardando fisso dinanzi a sè, con un tremito in tutta la persona. - Eccola lì, la simpatia, la leggiadria, la fantasia, la frenesia!... il sogno fatto persona!... l'ideale conseguito!... Come l'amavo? Come è impossibili dire!... L'arte? mia moglie? i miei flgli? l'avvenire? Dimenticato tutto, tutto! I pensieri di ogni istante, i sogni di tutte le notti, erano per lei, per lei salute e morte mia! Le parole d'amore che non avevo detto a nessuna, i baci d'amore che non avevo dato, i tesori d'amore che avevo accumulato cupidamente in fondo all'anima, io volevo spenderli per lei, tutti in una volta, con la pazza prodigalità, dell'avaro che guarisce del suo vizio! Io volevo darle tutto il mio sangue! confondere la mia vita nella sua! inabissare eternamente il mio essere nel suo!... O miseria! miseria!... Io dimenticavo di essere un uomo, una creatura materiale soggetta alle miserabili leggi della materia.... La mia fibra s'infiacchiva, la mia mente cominciava a smarrirsi, i miei ricordi a confondersi; io ero malato, malato di lei.... Mia moglie era messa a piangere in un cantuccio; io la lasciavo, per andarla a trovare.... Il mio bambino agonizzava; io lo lasciai per seguirla ancora.... A misura che il mio male cresceva, più imperioso si faceva il bisogno di lei... Che cosa avrei fatto della salute, io che volevo annientarmi stringendola al mio petto, bevendo il suo profumo, suggendo il miele delle sue labbra? O miseria! io non potevo annichilirmi fra le sue braccia, io non potevo darle dell'amor mio sconfinato quell'unica dimostrazione adeguata!... Il maestro Albani si era nuovamente lasciato cadere sulla seggiola, intanto che il Natali lavorava febbrilmente alla sua figura. - Invece, i miei amici mi ammonivano, mi scongiuravano di fuggirla, di tornare ai miei monti, per rifarmi, per combattere ancora le battaglie dell'arte.... L'arte? Quale arte?... Un giorno mi condussero per forza a S. Pietro a Majella; vi intesi dei frastuoni, delle cacofonie irritanti.... Fuggirla? io? io che le stavo attaccato come l'ombra? io che parlavo di lei a mia moglie, enumerandole le dolcezze dei suoi baci, le furie delle sue strette, i languori dei suoi sguardi? io, che al pensiero di lei mi mettevo a tremare da capo a piedi, come una foglia?... Intanto, la vitalità che a poco a poco io perdevo, pareva concentrarsi in lei; mai io l'avevo vista così floridamente bella, in una così magnifica fioritura di tutto il suo essere.... Io sentivo ora che sarei morto per lei; non come avevo sognato, ma d'una morte lenta, continua, di tutti i giorni.... Sì, era questo! Che cosa importava? Nessuna morte sarebbe stata più invidiabile!... Qualche volta, subitamente ispirato, mi proponevo di scrivere qualcosa di grande, di sublime, il canto del cigno, un'opera immortale che avrebbe attestato alla posterità la forza di quella passione, ed in cui io sarei sopravvissuto. Non era in quell'amore l'ispirazione attesa, affrettata coi voti più ardenti, senza la quale il mio ingegno non avrebbe potuto dare i frutti promessi?... E mi mettevo al pianoforte; ma le idee si confondevano, una nausea mi vinceva, non ero buono a nulla; e davo dei pugni sui tasti, delle pedate allo strumento, e stracciavo rabbiosamente stampe e manoscritti... La gente che mi attorniava raddoppiava d'insistenze, diceva delle menzogne: che ella era indegna dell'amor mio! che ella mi tradiva!... Non mi davano più pace: una persecuzione!... Come non capivano che facevano peggio? Che cosa volevano da me? Non mi importava di perdere l'ingegno, non m'importavano i suoi tradimenti, come dovevo dirlo?... E, infine, chi erano tutti costoro?... Fuori!... via!... io non li conoscevo, non sapevo che farmi di loro; ella mi aspettava, comprendevano o no?... Un giorno, arrivò mia madre. Appena mi ebbe visto, scoppiò in pianto. Anche lei?... perchè era venuta? Chi l'aveva chiamata? Chi aveva bisogno di lei?... Afferrata al mio braccio, ella cercava di trattenermi; io la urtai, violentemente.... Della gente mi afferrò; mi dibattei, detti dei morsi, caddi....

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Io sonnecchiavo in una incapacità spirituale che formava il mio tormento; passavo le mie giornate a lottare con la memoria recalcitrante, con l'intelligenza assonnata, con le visioni che venivano incessantemente a turbarmi.... Come l'Albani tacque ancora, Anastasio Natali che continuava nervosamente nel suo lavoro, ripetè: - E poi?... e poi?... - Poi, ho finito. - Ma la guarigione? - Ah, sì! È avvenuta da qualche mese soltanto, e non ancora, come vedi, completa. Ero andato a passare qualche tempo al mio paese, a respirare quell'aria balsamica, a riposare gli occhi nella contemplazione del verde. Del mio paese io avevo dimenticato tutto: la posizione, le strade, gli abitanti, la pronunzia. A poco a poco i miei ricordi si districavano, si facevano meno confusi; mi sentivo tornare alla coscienza di me stesso. Un giorno, incontrai un compagno d'infanzia che non stentai molto a riconoscere. Questa scoperta mi riempì di soddisfazione, e come l'amico mi aveva pregato di andarlo a trovare, mi avviai verso la sua casa. Aggirandomi per quelle viuzze strette, in salita, dove, ragazzo, avevo tanto trottato, provavo una tenerezza, una contentezza, che assaporavo deliziosamente, senza scoprirne la ragione. Come feci a rintracciare la strada? Non lo so; io andavo, andavo, senza pensare alla meta, ma sicuro di non mancarla.... Quando mi trovai nella via in cui abitava l'amico, quando finalmente alzai gli occhi alla sua casa, quello stato d'animo si fece più intenso. Che cosa mi dicevano quelle mura? Niente, non sapevo dirlo; ma mi pareva che la Serenità dimorasse lì. Salendo le scale, dovetti più volte fermarmi per dare ascolto a ciò che sentivo dentro di me. Sai certi preludii chiari, freschi, leggieri, che ti cullano, ti sollevano, ti trasportano lentamente su, su, per gli spazii dell'etere? Dentro di me sentivo un che di simile. Senza saper come nè perchè, ero nell'attesa di qualche cosa che mi avrebbe colmato di gioia, ma in un'attesa che non aveva nulla di tormentoso o di semplicemente irrequieto. Entrai.... passavo di meraviglia in meraviglia. Al preludio, era successo un canto sommesso, delicatissimo, ineffabile. Io mi muovevo in mezzo a quelle vibrazioni sonore.... Il mio amico si avanzava verso di me additandomi una donna il cui viso restava nell'ombra. Come ella si voltò a guardarmi, il canto cessò e una gran luce si fece in tutto il mio spirito.... Il mio primo amore! la fanciulla che io avevo amata nella purezza dell'adolescenza e che ora rivedevo, egualmente bella, egualmente serena, cullare il suo bambino! la via di dove io ero passato tante volte! la casa familiare! le scale che io avevo salito tremante, con un mazzolino di fiori dei campi in mano! le finestre che io avevo divorato cogli occhi, nell'attesa della diletta!... la casa che aveva conservato il suo aspetto raccolto, sereno, mentre il fanciullo fatto uomo ne derideva il ricordo e perdeva la ragione nel tumulto della grande città!... Ella mi accolse come una sorella maggiore; aveva saputo la mia storia, e mentre si girava per le stanze e si scendeva in giardino, io sorprendevo in lei uno sguardo pieno di pietoso interesse.... Io mi sentivo rivivere, sentivo la mente schiarirsi, gli avvenimenti scordati rinascere nella memoria, i più piccoli, i più insignificanti; mi pareva di essere tornato al tempo felice della mia fanciullezza. Da quel momento, la pace, si è cominciata a fare nel mio spirito; da quel momento io sono ridiventato un uomo, e l'arte.... Anastasio Natali si alzò, di scatto, aprendo le braccia in croce con un gran sospiro di sollievo. - Ora, basta. Il ritratto è impostato.... All'esposizione della Promotrice, il ritratto del maestro Albani, la cui Isaura di Valenza era stato il successo della stagione, ottenne il primo premio.

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A un tratto, s'intese un rumore di passi sull'acciottolato della viottola. Come l'Olderico si voltò, vide due dame avanzarsi per la spianata. - Signora marchesa! - Oh, voi, Olderico! Quale fortuna!... Ci accompagnerete fra gli orrori di questo speco, non è vero? Noi veniamo a farci monaci, come Eleonora nella Forza del Destino. Voi non vi conoscete? Il cavaliere Guido Olderico.... la duchessa di Neli Valformio.... O da che parte si va pel romitorio?... - Ecco, da questa parte.... L'Olderico dava la destra alla duchessa, che restava così in mezzo. Ella portava un abito grigio, di lana, semplicissimo; dei guanti grigi, e una cappottina grigia ancor essa. Non un gioiello, nè orecchini, nè braccialetti. Una broche a ferro di cavallo le fermava soltanto il colletto un poco alto, che le dava un'aria quasi maschile. - Se questi buoni frati - diceva la marchesa di Crollanza - mi dessero un terno, un terno piccino piccino, io mi dichiarerei soddisfatta della mia passeggiata. Non parlo del vostro incontro, Olderico, che è un altro terno. Lo giocherete anche voi, quello dei frati; non è vero? Io vorrei vincere un milioncino.... La duchessa guardava il paesaggio tutt'intorno, distratta, come un poco infastidita da quel chiacchierio. - Con Enrichetta si diceva che cosa si sarebbe fatto se trovassimo un milioncino, in tanti biglietti, per terra, in mezzo alla strada. Per me, dico la verità, mi farebbe molto comodo; lo intascherei!... Non farebbe anche comodo a voi? - Ohibò! Io lo consegnerei al signor questore e mi prenderei gli elogi dei cronisti!... Ma, ridendo con la marchesa, egli aveva gli occhi alla sua compagna, sempre seria e un po' triste. Come egli ebbe picchiato al portone, la figura di un fratello dall'ispida barba nerissima si affacciò al finestrino. - È permesso visitare il romitorio? La testa scomparve, e il portone si schiuse a mezzo. Per la prima, risolutamente, la duchessa di Neli entrò. La marchesa esitava, si guardava attorno, guardava l'Olderico, quasi a rassicurarsi. Finalmente raccolse la sua gonna di peluche mousse, a larghe bande di ricamo a rilievo; chinò un poco la testa su cui portava un cappello a larghe tese in feltro oliva, con una ricca guarnizione di piume mousse a sfumature cascanti da un lato, e si decise a seguire l'amica. Nella corte, le foglie secche dei castagni avevano formato un grosso tappeto su cui le vesti femminili sfrusciavano. Il fratello, con la schiena curva, il rosario ballante dalla cintura di cuoio, i piedi nudi negli zoccoli di legno, faceva strada in silenzio. Dinanzi alla scala, le paure della marchesa si rinnovarono. La sua amica era già scomparsa, che ella non aveva ancora salito un gradino. Il suo chiacchierio era completamente cessato. - Che idea, quell'Enrichetta, di venire a cacciarsi qui dentro! Olderico, statemi vicino. Salendo, ella si fermava ogni tanto, e si voltava indietro ad accertarsi ch'egli fosse lì. In quella sua paura, era seducentissima; però il rumore dei passi della duchessa distraeva l'Olderico. In cima alla scala, il corridoio lungo e stretto, dalle vòlte basse, fiocamente illuminato dalla finestra posta all'altra estremità, mostrava le due file di porticine vecchie, tarlate, controsegnate da un numero. La duchessa andava sempre avanti, accanto al fratello che narrava a bassa voce i miracoli di S. Francesco, cogli occhi per terra, fermandosi ogni tanto a mostrare con la mano ossuta e callosa un quadricino polveroso, dove si distingueva a stento un bastimento in mezzo ad una tempesta, o degli uomini piagati, con una piccola imagine del santo circondata di nubi in un angolo. La marchesa avanzava lentamente, gettando intorno degli sguardi ansiosi, e tenendosi vicino all'Olderico. Arrivati al crocicchio formato da un altro corridoio che tagliava il primo ad angolo retto, s'intese di scatto un rumor sordo, quasi un rantolo. - Olderico!... datemi il braccio?... - e vi si abbandonò tutta. Era un orologio invisibile, al quale scoccavano le ore. Come i suoni cessarono, una porta si aprì, lontano, e una fila di frati, con la testa china, passò biascicando incomprese preghiere. - Ho paura! - disse ancora la marchesa al suo compagno - portatemi via.... L'Olderico la sentì che gli si stringeva al fianco; ma egli era sorpreso della propria indifferenza innanzi a quella seduzione; i suoi occhi seguivano sempre la figura della duchessa che procedeva serenamente, chinando la testa e facendo con la mano il segno del bacio dinanzi alle imagini sacre. Erano già in capo al corridoio. Come il fratello aprì la finestra, l'Olderico esclamò: - Guardi che bella vista! La marchesa, che seguendo gli sguardi del suo cavaliere aveva scoperto l'oggetto di quella attenzione, lasciò bruscamente il suo braccio. - Proprio! Meravigliosa! - esclamò con una piccola intonazione di dispettoso sarcasmo. Il panorama era davvero bellissimo, assai più vasto che dalla spianata, da cui il versante dei monti coperti di boschi in basso e di nevi nell'alto non si scopriva. Dinanzi al grandioso paesaggio, la duchessa di Neli non diceva nulla. Un velo di malinconia pareva ricoprisse il suo volto, e un'espressione di stanchezza era in tutta la sua persona. Come Guido Olderico le si trovò di faccia, vicinissimo, scorse ad un tratto i suoi capelli della fronte tutti filettati di bianco.

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Egli aveva molto sentito parlare di lei, dell'austerità dei suoi costumi, del sacrificio di tutta la sua vita, e non si era potuto difendere, ogni volta che l'aveva intraveduta, o se ne era rammentato, da un movimento di istintiva curiosità dinanzi a quella che tutti, amici e nemici, chiamavano un'eccezione di donna. Però, il giorno della visita all'eremitaggio, uno spiraglio si era aperto pel suo spirito. Da che cosa poteva dunque dipendere la mestizia diffusa nella figura della duchessa di Neli, se non dal vuoto della sua vita e del suo cuore?... Egli la rivedeva, malinconica, nella semplicità quasi dimessa della sua toletta, aggirarsi pei corridoi del romitaggio, e una secreta corrispondenza gli pareva corresse tra quella figura di donna la cui vita era stata una rinunzia, e il soggiorno di coloro che avevano dato un addio al mondo, per sempre. Egli la rivedeva sotto il grigio di quel cielo autunnale, alla terrazza del romitaggio, e non poteva riuscire a difendersi da un sentimento di commiserazione pensando a quei poveri capelli bianchi, a quel tramonto d'una bellezza invano fiorita. Di quale amore tenero e forte ad un tempo doveva amare quella donna! Che tesori di affetto aveva dovuto accumulare nel suo cuore, così a lungo deserto! Come avrebbe egli voluto darle, nel breve tempo che ancora le rimaneva dinanzi, tutte le dolcezze che le erano state defraudate! Come avrebbe voluto che l'aurora dell'amore confortasse la malinconia di quel tramonto! Con quale tenerezza avrebbe egli baciato quei poveri capelli bianchi, con qual cura gelosa ne avrebbe composta e custodita una piccola ciocca!... Ad un tratto, il cavallo si arrestò. L'intelligente animale pareva avesse compresa la distrazione del padrone e indovinata la mèta, poichè s'era fermato da sè dinanzi il cancello della villa. L'Olderico discese, legò le redini all'inferriata e s'avanzò pel viale. Dei cani gli abbaiarono contro, un servo si avanzava. - La signora duchessa?... - Favorisca. L'Olderico salì la breve scala di marmo, ornata di grandi vasi. Sull'uscio, un cameriere gli fece strada. Traversarono una fila di stanze semi-buie, dove i passi si attutivano sui tappeti; la duchessa stava in un salottino ancora più scuro. Entrando, l'Olderico non l'aveva scorta; com'ella si scosse sulla poltrona, le si fece incontro. - Signora duchessa.... - Buondì, cavaliere; è stato molto buono di ricordarsi di me! Sono lieta di poterla ringraziare a voce dei bellissimi libri. Un vero regalo. È tanto lungo il tempo in campagna, in questa stagione uggiosa! Grazie a lei, ho passato delle ore piacevolissime.... - Mi permetta di credere che tocca a me ringraziarla.... Assuefatti gli occhi a quel dubbio chiarore, l'Olderico potè veder meglio la duchessa. Ella portava una ricca veste da camera loutre con largo tablier a pieghe di surah celeste pallidissimo; guernizioni di merletti e cascate di nastri loutre e celeste. Da tutta la persona esalava un profumo di corilopsis così acuto, che finiva per dare alla testa. Senza saper bene perchè, l' Olderico si sentiva vincere da una freddezza crescente; aveva creduto di trovare la donna incontrata al romitaggio; ne aveva invece dinanzi un'altra. Come la duchessa parlava della noia dell'autunno, delle promesse dell'inverno, egli finì per darle ragione, contro genio, per darsi un contegno. - Ecco il suo Mont-Oriol; sto per finirlo. La duchessa prese il volume dallo sgabello vicino e stese un poco il braccio. Le sue dita erano ricoperte di anelli, i brillanti gettavano bagliori tutt'intorno. Ora si parlava di letteratura; ella l'aveva contro i naturalisti, trovando mal fatto che non si descrivessero le cose ricche, la vita elegante, le passioni nobili e generose. L'Olderico, sempre più impacciato, parlava a pena. La duchessa si alzò. - Ama i dolci, cavaliere?... - Grazie, signora duchessa.... Com'ella prese la bomboniera sul caminetto, vicino la finestra, e l'Olderico le si fece vicino, scorse la fronte di lei in piena luce. I capelli bianchi? Scomparsi, spariti; invece, la pelle era impercettibilmente macchiata di nero.... - E resterà ancora un pezzo in campagna? - Oh, no, signora duchessa. Mi pare che ella abbia perfettamente ragione. Quest'autunno non ha nessuna poesia. Ritornerò in città domani l'altro.

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Come le sacramentali parole furono pronunziate, si levarono per la piccola chiesa dei rumori diversi: urti di sedie rimosse, stropiccii di passi; e padre Ladislao, passato nella sacrestia, si disponeva a spogliarsi dei suoi paramenti. Ad un tratto, il giovane seminarista che aveva servito l'ufflzio e che si era attardato in chiesa, venne a raggiungerlo con un'animazione nel bel volto bianco dagli occhi intelligenti. - Padre Ladislao, - diss'egli, mostrando col braccio disteso la porta di legno scolpito a bassorilievi, - vi è in chiesa una signora, una signora entrata a momenti, che domanda di lei, per confessarsi.... - Ebbene? - Che cosa debbo dirle? - Che vengo subito. Il seminarista scomparve, intanto che padre Ladislao finiva di rivestirsi, con una lentezza un poco in contraddizione con la sua risposta. In verità, egli non si sentiva molto disposto alla confessione quel giorno; il suo spirito non aveva la necessaria lucidità, delle nebbie erranti lo velavano. Nondimeno, come fu pronto, rientrò in chiesa. Si era avanzato di qualche passo appena, quando scorse la donna inginocchiata accanto ad un pilastro, col velo nero come la veste gettato sulle spalle. Egli stese a un tratto un braccio tremante, quasi in cerca di un appoggio, e si scolorì rapidamente in viso. Vistolo, ella gli s'era avvicinata, prendendogli una mano e portandola alle labbra, prima ancora che egli avesse potuto pensare di opporsi a quell'atto. - Padre, se non la disturbo.... Era lei, la sua figura, la sua voce!... Il suo lontano sogno di giovanetto improvvisamente riapparso, con l'intensità della vita stessa, col materiale contatto di quelle labbra che gli bruciavano la mano, malgrado egli tentasse di cancellarne con l'altra l'impronta.... Come mai la tentazione delle sue notti lontane gli veniva ancora dinanzi, quand'egli giudicava di averla domata per sempre? E che cosa voleva da lui, che aveva saputo custodire nel più profondo dell'anima il proprio secreto? Confiteor.... Ma egli non poteva confessarla! Non poteva confessare nessuno, e lei tanto meno! Egli era un uomo, debole, cieco, turbato, malfermo come tutti gli uomini, ed in quel momento d'affanno più di tutti gli altri! Perché metterlo dunque alla prova; e quale mostruoso sacrilegio doveva compirsi sotto quel confessionale, nella casa del Signore?... Nessuno di quei varii sentimenti tumultuanti in lui si poteva rivelare alla donna. Accasciata in ginocchio sulla predellina, dietro la piccola finestra tutta simmetricamente forata, ella cominciava a parlare con voce rotta dall'emozione, cercando stentatamente le parole, con frequenti reticenze piene di turbamento. Ella diceva i pericoli che la insidiavano, l'abisso della colpa che le si spalancava dinanzi, che le dava le vertigini, e che l'attirava.... Unita contro la propria volontà ad un uomo che non amava, ella non era libera di soffocare la voce del cuore; poi, ella sapeva tutta la gratitudine di cui quell'uomo che le aveva dato il suo nome ed il suo affetto - il padre di sua figlia- era degno; la gratitudine, sì, qualcosa di più del dovere.... ed ella si sentiva dilaniar l'anima, e la sua pace era perduta, ed invocava una parola che la reggesse in quella lotta di tutti gl'istanti, tanto più atroce quanto più intima. - Padre, o padre! voi che tutti venerano come un santo, voi che passate pel mondo sorretto da una forza divina, datemi voi un aiuto.... Io non ho nessuno accanto a me; non ho più mia madre; mia figlia è lontana, chiusa in un lontano convento.... Ditemi voi, padre, come vincere in questa guerra.... Dietro la sottile parete di legno traforato, rispose la voce del confessore, leggermente velata: - L'aiuto che altri può dare non è mai così efficace come quello prestato dalla propria coscienza. E ad essa che bisogna domandarlo; essa non lo nega mai fin quando è viva. E che sia viva, lo prova questa confessione, il contrasto provato, il pentimento prima della colpa.... Ella balbettò: - È orribile!... È orribile! La voce tacque un istante, un rapido istante; poi riprese: - Fin quando la colpa ispira quest'orrore, non bisogna disperare. Vi sono delle leggi che regolano tutto: il mondo materiale come il mondo spirituale, l'universo come la vita. Tutto ciò che offende la legge è condannato naturalmente a perire; la colpa porta con sè il gastigo immancabile. - O padre, basterà dunque astenersi dal peccare per paura della punizione? - Bisogna ancora alzar gli sguardi in alto.... ma non tutti ne sono capaci. Vi era una impercettibile intonazione di durezza nella voce che aveva pronunziate quelle parole e che, subito dopo, si era spenta. La donna aveva preso a respirare affannosamente, rovesciando un poco la testa, come in cerca d'aria. Poi, riavvicinandosi alla finestrella, nascondendosi la faccia tra le mani, mormorò rapidamente: - Misericordia.... misericordia di me! Perdono, Signore, pietà!... Un silenzio di qualche momento, durante il quale non si sentiva altro che il respiro affannoso della penitente. Dall'interno del confessionale, nessun segno di vita, come fosse deserto. Poi, una voce ne usci, più profonda, più velata, trasformata così che non pareva più quella di prima. - Nessuno domanda invano pietà, nessuno si rivolge invano alla eterna misericordia. Il pentimento è il lavacro di tutti gli errori; il ritorno dell'anima che minacciò di smarrirsi è ancor più festeggiato tra gli eletti.... La voce si faceva a poco a poco sempre più fievole, si spegneva, moriva. Ella si passava ora una mano sulla fronte ardente, ne scostava nervosamente i riccioli dei bruni capelli. - Sì, sì; io sono colpevole, più di quanto ho detto, balbettava ansiosamente. - Io non ho detto tutto, e questa è una nuova colpa.... Il peso del mio secreto mi soffoca, mi toglie il respiro... Ho giurato a due uomini.... ad uno dinanzi alla legge umana e divina; all'altro dinanzi alla mia coscienza.... E non debbo, mio Dio! ingannar l'uno, e non posso scordarmi dell'altro!... Come ho resistito, quante volte ho pregato il Signore di darmi quella forza che a poco per volta mi è venuta mancando, quante volte ho invocato la generosità di quell'uomo sempre più insistente.... La voce disse, duramente: - Non bisogna contare sulla generosità degli uomini. - Ah, sì! è stato forse questo il mio errore; è per questo che mi sono sentita trascinare sempre più vicino all'orlo della colpa, da rasentarlo.... da esser considerata come perduta.... Ah, che dolore e che vergogna, all'accusa menzognera! Perchè non è vero, padre! perchè se ho peccato col pensiero, non ho peccato con le opere!... E non esser creduta! E non aver nessuno al mio fianco, dinanzi a cui piangere le lacrime dell'innocenza o del rimorso; dover comporre una maschera di serenità dinanzi all'uomo che ho offeso; non trovarmi accanto mia figlia... Io piangerei dinanzi ad essa, ma non sarei costretta ad arrossire; lo giuro a Dio, sulla mia salute eterna.... Padre.... Padre, mi ascoltate voi? La voce rispose, dolce e lieve: - Ti ascolto, figlia mia, come ti ascolta tua madre di lassù.... Allora, ella ruppe pianamente in pianto. Gli occhi aridi, le guancie ardenti, erano tutti irrorati dalle lacrime, l'eccitazione dello spirito trambasciato si risolveva in quella crisi benefica. - Madre mia!... Madre mia!... Che buona parola!... Come fa bene poter piangere!... Sarò dunque perdonata?... - Sempre che ne avrai la speranza.... - Il pianto non è dunque una debolezza, se io mi sento ora più forte di prima, più disposta ad uscir vincitrice dalla lotta?... Che bene mi avete fatto, padre mio!... - Bisogna guardarsi dall'eccesso della fiducia dopo l'eccesso dello sconforto. A sostenerti, riprendi tua figlia presso di te; il posto delle figlie è accanto alle madri. Pensa che essa penserà a te, come tu oggi pensi a tua madre; pensa che l'amore, l'odio, l'ambizione, l'invidia, tutte le più forti passioni finiscono prima di noi, e che, quando tutto è finito, una cosa resta: la soddisfazione del dovere compiuto.... Parlava ancora, sotto voce, con una grande dolcezza, che ella lo interruppe: - Sì, è vero, è giusto!... Grazie, padre; grazie del bene che mi avete fatto.... E potrò ancora ricorrere a voi? - Ogni volta che ne avrai bisogno. Ella restò ancora un poco in orazione; poi si levò, traversò lentamente la chiesa, bagnò le dita nella pila dell'acqua santa, si curvò ancora voltandosi, ed uscì.

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I segni verbali, a cui s'è dato un convenzionale significato, potranno destare, per associazione, l'idea ad essi attribuita, ma non rappresentarla direttamente. Io non voglio dirle che l'amo! io vorrei farle vedere il mio sentimento, tutti i moti dell'anima innamorata: io vorrei farle leggere nella mia coscienza, farle assistere, come un altro io, a tutto quello che nel campo della mia coscienza si svolge....

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Quale movimento di superbia ti persuade a disdegnarlo? Perchè non tentare di esprimere, bene o male, il sentimento di cui tu vivi?

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In un' ora di raccoglimento interiore, a centinaia e a migliaia le aspirazioni, gl'impulsi, i propositi nobili od abbietti; le persuasioni, i giudizii, i concetti fondati o falsi; le imagini fantasmagoriche, i ricordi e le previsioni col loro corteggio di pentimenti, di rammarichi, di delusioni, di speranze, di compiacenze, sorgono nella mente, brillano più o meno a lungo e si spengono nelle tenebre dell'incosciente. Quanti di siffatti momenti psicologici, la cui serie costituisce il mio io, sono da me manifestati - ammesso che la manifestazione sia adeguata? Una parte infinitesimale. Di me non si conosce se non quello che io faccio - ed un'azione apparentemente generosa può essere determinata da ignobili moventi - e quello che io dico. Ora, le mie parole non rispondono mai al mio pensiero - perchè sono parole: vuol dire qualcosa di determinato, di concreto, di fisso, di immutabile; ed il pensiero possiede le qualità perfettamente opposte; esso non è, ma diviene, si fa, in una gestazione perenne.... Le parole non rappresentano se non un fuggevole istante di questa rapidissima successione - ed è come se uno, per dare l'imagine del movimento, rappresentasse il mobile fermo in diversi punti della sua traiettoria.

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E che cosa, dopo dieci anni, quando tanta cenere si era accumulata sul fuoco, poteva aver spinto quella donna a rivolgersi ancora a lui?... Si era ella pentita dei suoi sospetti? Un caso fortuito, come era accaduto a lui stesso, glie ne aveva rivelata tutta l'odiosa ingiustizia? O cercava ella, ora soltanto, di avere una spiegazione?... Il Landini si perdeva in ipotesi. Egli aveva un mezzo sicuro di decifrare l'enimma: aprire la lettera, e leggerla; ma, in quella sovraeccitazione cerebrale a cui era in preda, trovava una specie di strana voluttà a prolungare la tormentosa incertezza, a tentar di esaurire coll'imaginazione tutti i partiti possibili. Poi, un nuovo sentimento cominciava ora ad impedirgli sordamente di porre ad effetto la semplicissima risoluzione: una specie di secreta, di inconfessata paura... Era egli tanto sicuro di sè da poter sentire impunemente tutto ciò che ella gli avrebbe detto? Era ben sicuro che il fuoco di quell'amore fosse tutto ridotto in cenere? Non temeva egli che alle parole della donna, alla evocazione di un passato che formava l'orgoglio della sua vita, il fuoco divampasse nuovamente, come al soffio vivificatore dell'ossigeno?... Egli non era più giovane, gli anni erano passati anche per lei; ma, non avendola più incontrata, egli non sapeva imaginarla altrimenti che quale l'aveva lasciata. Rivedendo quella gentile figura, ricordandone tutta la seduzione, tutto il fortissimo incanto, la sua paura cresceva: sarebbe bastata una sola parola perchè egli avesse tutto dimenticato: la serietà della sua vita presente, i doveri della sua posizione, i mille pericoli di un tardo ricominciamento... Un piccolo rumore lo richiamò alla presente realtà: il servo, insospettito dal lungo silenzio, intanto che l'ora del desinare era trascorsa, gironzava nella stanza attigua. La sera era già discesa, soavissima. Ora sarebbe stato impossibile di leggere la lettera senza fare accendere un lume. E traendo profitto da questo nuovo pretesto di ritardo, il Landini si era tolto dalla finestra, e rovesciatosi sopra un divano, aveva ripreso a fantasticare. Quel fenomeno costante pel quale, se qualcosa ci sta a cuore, noi troviamo subito mille ragioni che ce ne dimostrano la convenienza, si ripeteva in lui. Tutto alla evocazione di quel passato, egli trovava ora dei motivi che lo spingevano sempre più per quella via. Dall'ammettere che la donna avesse potuto essere tratta in inganno, al giustificare la condotta di lei, non v'era che un passo. Dal giustificarla, ad accusare sè stesso, il passaggio era meno facile; nondimeno egli lo compì. Trovava di non avere insistito abbastanza, - a quel tempo - per ottenere una spiegazione; di aver commessa una vera colpa non avendo cercato di lei, quando il motivo di quella rottura gli era stato fatto intravedere. Allora sarebbe stato dover suo giustificarsi, smentire la voce bugiarda, far rifulgere la propria innocenza. Il dover suo era di non abbandonare quella donna, suo malgrado! Chi gli diceva, infatti, che il tradimento di cui ella si era creduta vittima, non l'avesse spinta a rappresaglie; che, per colpa di lui, ella non si fosse interamente perduta?... Una specie di rimorso sorgeva allora nell'animo del Landini, un rimorso che era, in fondo, una forma di egoismo: poichè il rimprovero di averla potuta far cadere in braccio ad altri si risolveva nel rammarico di non averla più per sè.... E una grande tenerezza lo vinceva, a poco a poco, pensando a tutto quello che era stato fra di loro, a quel romanzo bruscamente troncato e non finito, così, senza ragione, per quelle assurdità di cui la vita è tanto feconda... Però, in quella lettera improvvisamente pervenutagli, quando egli si era già rassegnato all'assurdo, era la parola che avrebbe tutto spiegato. Egli riconosceva a questo tratto l'indole fiera, appassionata, di quella donna di cui si era fatto un tipo ideale. Si era creduta offesa, e nulla era valso a piegarla; ora, dopo l'espiazione di tanti anni, ora soltanto, ella veniva ancora a lui!... Che cosa gli avrebbe detto? Come avrebbe ridestata la memoria di quel passato? Quali dolci, quali armoniose, quali poetiche parole avrebbe adoperate per ricordare tanta dolcezza, tanta armonia, tanta poesia?... Alla luce improvvisa della lampada che il servo reggeva affacciandosi all'uscio, il Landini si accorse che era già notte fatta. - Si sente male, signore?... - chiedeva timidamente la persona di servizio. - No, no; lasciate qui il lume. - Il signore non desina dunque quest'oggi? - Fate apparecchiare... mi avvertirete... E appena rimasto solo, avvicinatosi alla lampada, egli dischiuse accuratamente la busta, con mano un poco tremante. Ne cavò una carta ricoperta sulle quattro facciate da una fitta scrittura, e un foglietto dello stesso gusto della busta. Il Landini vi cercò l'intestazione; non ve n'era. La lettera diceva così: "Voi sarete molto sorpreso di ricevere la presente, e vi troverete certamente costretto di correre alla firma per conoscerne la provenienza!... Il tempo ha le ali, e col tempo la forma della nostra scrittura si modifica, da rendersi irriconoscibile! Il nostro modo stesso di pensare si trasforma; ed è per questo che io sono stata, e sono ancora in forse di scrivervi, supponendo che ciò possa non farvi il piacere di una volta! "Vorrete quindi perdonarmi se, facendo appello alla vostra amicizia, che suppongo inalterata, vengo ad importunarvi per chiedervi se posso firmare l'acclusa transazione, desiderando conoscere a quali conseguenze andrei incontro per tale atto. In una quistione d'interessi che si trattano fra parenti conviventi nella stessa casa, non potendo dimostrarmi diffidente a viso aperto, io che non m'intendo di affari, non ho voluto impegnarmi prima d'aver sentito il parere di una persona su cui si può contare. "Accettate, non è vero? Domani mi farete avere una risposta? Sarei venuta personalmente, se non avessi temuto di disturbarvi ancora di più che con la presente. Il passato non ci è sempre gradito; lo comprendo anch'io! La vita ha le sue esigenze; ed io non sono così ingenua o così presuntuosa, da supporre che in questi dieci anni voi abbiate potuto pensare a quello che fummo. So, del resto, che vi siete divertito; e chissà quante altre imagini si saranno sovrapposte a quella che io ho temuto di ripresentarvi dinanzi! Guardate: divento indiscreta!! Perdonatemi anche questo e vogliate credermi a ogni modo, con rinnovate scuse ed anticipati ringraziamenti, cordialmente vostra: Anna Solari. - Fiesole, lunedì." Il servo stava di nuovo sull'uscio, interdetto, chiedendosi se il suo padrone non fosse ammattito, perchè all'annunzio che la zuppa era in tavola, lo aveva guardato con occhi stralunati, come uno cascato dalle nuvole. - È in tavola?... Va bene, va bene.... Sul punto di passare di là, Carlo Landlni si stropicciava gli occhi. Credeva di aver sognato, tanto quella lettera era incredibile, tanto egli era rimasto male! Che grossolana illusione era stata la sua!... Gli anni erano davvero passati, se quella donna era così mutata, se scriveva di quelle lettere, se domandava una consultazione legale, - a lui! - se profanava il ricordo del loro amore con quella freddezza studiata, con quel tono di filosofica rassegnazione, con quelle allusioni indiscrete... E non un accenno alla enimmatica rottura che lo aveva mortalmente ferito; non una spiegazione - nè data, nè chiesta!... E diceva di temere che egli non avrebbe riconosciuto il carattere di lei, mentre, appena scorta la lettera, gli era mancato il respiro! E diceva di sapere che egli si era divertito, mentre quell'imagine gli era stata sempre inchiodata nel cuore, come un rimpianto, come un rimorso, come l'aspirazione di tutta la sua vita!... Ma, dunque, era realmente mutata quella donna, o era stata sempre ad un modo e soltanto la sua fantasia di innamorato ne aveva fatto un ideale?... Carlo Landini scrollò le spalle, sedendo a tavola. Il suo romanzo era finito, definitivamente; e quella lettera ne rappresentava l'epilogo prosaico e volgare. - Un romanziere non avrebbe nessun partito da trarne! - si diceva egli mentalmente, e non pensava che i romanzi veri, i romanzi fatti nella vita e non ideati per amore dell'arte, finiscono quasi sempre così.

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Egli aveva voluto tornare a Napoli, rivederla in quel quadro dove prima gli era apparsa, rifare a passo a passo - ora - il cammino percorso dal giorno che l'aveva conosciuta. Ella assecondava tutti i suoi capricci, non aveva più volontà propria; gli si era data tutta, anima e corpo, il giorno che aveva indovinato ciò che era passato nel cuore di quell'uomo, la religione che le aveva dedicata dal profondo dell'anima; il giorno che, dopo tanto accumularsi di tristezze, la passione di quell'uomo l'aveva fatta rinascere all'amore. A Napoli, ella aveva completamente mutato il suo sistema di vita; con abili pretesti si era sbarazzata della folla che prima le stava attorno; evitava le visite, i teatri, ogni luogo di riunione. Suo zio di Marciano e il duca di Majoli erano le sole persone che ancora vedesse. Vecchio, un po' sordo, vivente con lo spirito in un tempo che non era più il suo, il principe di Marciano non dava ai due amanti fastidio di sorta. Quanto al duca, non una parola, non un accenno aveva dimostrato che egli conoscesse quel che era accaduto; non una contrazione aveva rivelata l'angoscia che gli stringeva il cuore.... Era dunque vero? Egli amava la baronessa? L'amava d'amore? La sua esperienza non lo aveva dunque avvertito che quell'amicizia avrebbe dovuto dar luogo ad un sentimento diverso?... No; egli non se ne accorgeva ora soltanto; non se ne accorgeva soltanto al dolore di cui la felicità di Andrea Ludovisi gli era cagione; da molto, da lungo tempo, scendendo nell'intimità della propria coscienza, egli aveva scoperto quel sentimento più dolce, più forte, più grande, che vi germinava nascostamente. Però, il predominio che egli aveva imparato ad esercitare su di sè stesso, la nitidezza di percezione che aveva acquistata, nelle cose del cuore, a prezzo di sangue, lo avevano retto, impedendogli di spinger oltre l'avventura; di fare, con la propria, l'infelicità di quella donna. Al punto in cui i dolori provati lo avevano ridotto, non rimaneva in lui che una sola, ma grande capacita sentimentale; la commiserazione pietosa per tutte le miserie umane. Ora, nella calma relativa in cui sapeva la baronessa, gli sarebbe parso un tradimento, un delitto, tentar di turbarla; e perchè, se non per soffrire nuovamente egli stesso? V'erano troppe amarezze nella vita di quella donna che, presto o tardi, avrebbero avvelenata ogni possibile gioia; e la pena provata dal duca dinanzi alla trionfante passione di Andrea, in cui la baronessa aveva riposta l'ultima fede della sua vita, si risolveva più nella previsione dei nuovi tormenti che le si preparavano, che nella sua personale contrarietà. Già quando Andrea Ludovisi si era rivolto a lui, nell'occasione del duello col cavaliere di Sammartino, egli non aveva potuto nascondere il proprio rammarico, vedendo le cose avviarsi per una china fatale. Ed aveva rifiutato di assistere l'amico, quasi pauroso di farsene complice. Dinanzi alla felicità degli amanti, più tardi, egli si domandava qual dritto finalmente avesse a costituirsene giudice; e dimenticava la propria pena nello spettacolo dell'altrui esultanza. Ma la ripresa delle ostilità, nel mondo, contro la baronessa, aveva ben presto fatto rinascere in lui i più tristi presentimenti sul prossimo avvenire dei due amanti; ed una volta, discutendo con Andrea, in un modo generale e teorico, sulla sincerità umana, gli aveva dette delle parole che suonavano come un'ammonizione. - Sì, noi crediamo ogni giorno di esser sinceri; soltanto non vogliamo accorgerci che la credenza di oggi fa a pugni con quella di ieri.... Oggi, che tu credi di amare qualcuno, lo stimi; le sue stesse debolezze ti sembrano interessanti, te lo fanno più caro; lascia mutare per poco la tua disposizione di spirito, e ti parrà la cosa più naturale il rinfacciargliele come una colpa. - Sta bene, quando la disposizione di spirito è capace di mutare. Ma vi sono dei sentimenti che non si possono spegnere se non a costo della stessa vita.... - Allora si soffre, e si fa soffrire. La saggezza consisterebbe appunto nel soffocarli a tempo. Andrea Ludovisi guardò curiosamente il duca di Majoli. Aveva compresa l'allusione, e non supponendo che quel giudizio potesse essere disinteressato, sospettò un momento che glie ne volesse per la sua riuscita presso Costanza di Fastalia; che fosse, infine, un poco geloso.... Poi scacciò il suo sospetto, rimproverandosi di averlo concepito. La più grande dirittura si leggeva negli sguardi dell'amico; egli ne conosceva l'antica nobiltà dell'animo, ed aveva potuto apprezzare tutta la delicatezza, il rispetto, la stima, la protezione di cui aveva circondata la baronessa. Perchè, intanto, il duca non voleva credere - era evidente - alla sincerità dell'amor suo? Perchè la stessa Costanza aveva talvolta l'aria di dubitarne? - Come è possibile, - diceva ella, - che tu mi ami così?... Come sono indegna dell'amor tuo!... - Tu, indegna?... - ed aveva dato in uno scoppio di risa. - Ah! ah!.. Ma non vedi dunque che è incredibile per me quel che succede? Che non è vero, che non può esser vero che tu mi ami, poichè io non ho nulla per essere amato da te? Tu, indegna, tu?... - Ah, se sapessi.... Ma, come ogni volta che ella accennava al proprio passato, Andrea Ludovisi le chiudeva la bocca con un bacio. - Taci, taci!... Che cosa vorresti dirmi? di chi vorresti parlarmi?... Non esiste che una sola Costanza, la Costanza mia.... Nel salotto, sul tavolo di legno intarsiato e ornato di borchie metalliche, il ritratto della baronessa Costanza stava esposto, insieme con altri di famiglia, nel porta-ritratti di peluche rosso aperto a foggia di paravento. Egli le diceva: - Guarda dunque: questa non sei tu, è un'altra donna, completamente diversa. Dov'è il sorriso che ora ti luce negli occhi?... È un'altra donna!... Io vorrei il tuo ritratto; ma come sei ora, ora che sei mia, comprendi?... Avevano convenuto di incontrarsi da Montabone, come per caso; ma come Andrea Ludovisi andò a trovare la baronessa, dopo averle espresso quel desiderio, ella gli si fece incontro con un'aria festosa. - Una sorpresa! Costanza dischiuse il piccolo cofanetto di raso azzurro dalla chiave dorata, che stava sull'étagère. - Ecco l'imagine ridente.... di quella che fui una volta! Andrea guardava il ritratto, la figura quasi infantile di quella donna in veste bianca, circonfusa di veli; e alzando gli occhi verso di lei, chiese con un accento di incredulità: - Questa?... Sei tu?... - Ero.... quindici anni or sono! È il ritratto fatto durante il mio viaggio di nozze. Con un sospiro, era andata a gettarsi sul divano semicircolare disposto in un angolo del salotto. Stette a lungo, pensosa, con la testa appoggiata sulla palma della destra. Poi, scuotendosi, visto che egli non veniva a raggiungerla, chiamò: - Andrea! Non ottenne risposta. Immobile, tutto nero sullo sfondo luminoso della finestra, egli guardava ancora il ritratto. - Andrea! - e, levatasi, gli si avvicinò. Mute, grosse, luccicanti, le lacrime gli sgorgavano dagli occhi spalancati, gli rigavano le guancie, cadevano una dopo l'altra sulle mani leggermente tremanti. - Andrea!... Andrea mio!... Guardami, che cosa è stato?... Ma guardami! Più grosse, più spesse, le lacrime continuavano a sgorgargli dalle palpebre gonfie. Ora, dei singhiozzi gli salivano alla gola, lo scuotevano tutto, gli scomponevano il viso. - Lasciami.... lasciami.... - Ma perchè, Signore Iddio, perchè? Ella lo aveva trascinato verso il divano, dove era caduta di peso, quasi piangente anche lei. Allora egli le si era messo in ginocchio dinanzi, asciugandosi gli occhi con la sua veste, un lembo della quale portava di tratto in tratto alle labbra. - Perdonami!... Ti ho fatto male?... Ma il vedere quel ritratto.... l'imagine della Costanza di un altro.... Ora è finito, guarda; è proprio finito. - Allora, dammi quel ritratto. - Ah, no! Egli lo aveva portato con sè, lo aveva nascosto gelosamente, e un irresistibile impulso lo persuadeva a rivederlo. Dinanzi a quella figura, la crisi di pianto si rinnovava, ogni volta. Una tenerezza amara lo vinceva al pensiero di quella sposa, di quella vergine che entrava appena nella vita, lieta, confidente, e che un tenebroso avvenire insidiava. Quali sogni dorati avevano spiegato le loro seduzioni dietro quella fronte purissima? Quali gioconde visioni si erano svolte dinanzi a quegli occhi ridenti?... Ah! uno spettacolo di miserie, di tristezze, di dolori, si era presentato in cambio dei lieti sogni; e come lungamente, come amaramente quegli occhi fatti per rispecchiare il sorriso dei cieli avevano pianto!... E non poter nulla contro tutto ciò; non poter nulla lui che avrebbe dato la vita per vederla sorridere!... Se fosse stato possibile tornare indietro cogli anni, rivedere vivente quella figura che cominciava a sbiadirsi; amarla e farsene amare, dedicarle tutto sè stesso!... Ahimè, ciò che era stato, era stato fatalmente, irremediabilmente. Qualcuno, un altro, aveva colto il candido fiore di quell'anima, lo aveva profanato, lo aveva calpestato.... E poi?

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La baronessa tentava di leggergli negli occhi il segreto di quelle angoscie improvvise; egli si ostinava a tener giù il capo ripiegato sul petto. - Ma guardami, Andrea!... Egli rispondeva sordamente: - No! - Dimmi almeno, per pietà! che cosa ti passa per la fantasia!... - Non posso!... Non voglio!... - O cattivo, perchè? perchè offuscare la nostra felicità? Se sapessi come non oso muovermi per timore che essa mi sfugga! Come ho paura di ripiombare in quel mare d'infinite amarezze.... A quelle parole, egli si era sollevato subitamente, l'aveva stretta con impeto fra le braccia, esclamando: - Non lo dire!... Non lo dire un'altra volta!... Sono un pazzo, un miserabile; ma ti amo, ti amo, ti amo.... - Oh, sì; ti credo! - No, no!... Le parole sono vuote, sono un suono effimero, non dicono nulla. Che cosa bisogna fare, Costanza, per provarti l'amor mio? - Ma nulla, bambino! Amarmi ancora, amarmi sempre! Bambino, egli lo era ridiventato. Le più strane, le più rischiose fanciullaggini erano state da lui poste ad effetto. Fermo dinanzi alla sua carrozza, egli le strappava un lembo della guarnizione di merletto; sotto la piccola cupola dell'ornbrellino rosso, a Capodimonte, col rischio di esser veduto, le aveva rubato un bacio di una dolcezza infinita. Egli avrebbe fatte delle vere pazzie per sentirsi dire bambino da lei, per cogliere nel suo sguardo l'espressione di amoroso rimprovero e di segreta compiacenza che ella metteva nel pronunziare quella parola. Ma un'altra volta che, nel santuario di Villa Valdonica, egli era stato ripreso da una di quelle repentine tristezze, mentre la baronessa aveva già cominciato a rimproverarlo dolcemente, alzò ad un tratto la testa, prenclendo tutt'e due le mani di lei. - Costanza, io vorrei domandarti soltanto una cosa. Sei stata mai amata così? - Che domanda!... Perchè? - Non importa, rispondi: sei stata amata così?... Ella stette un istante silenziosa, cogli sguardi perduti in non so quale visione. Poi, abbassando lentamente le palpebre, con voce fievolissima, rispose: - Una volta.... fui molto amata.... - Ah! - Andrea! Perchè non mi guardi?... Che cosa ti ho detto?... Ti ho fatto male? Oh, non sei stato tu che l'hai voluto?... Andrea, io non ti conoscevo, allora!... Ne è passato del tempo!... Io sono vecchia; il torto è tuo, di esserti innamorato di una vecchia!... Ma ridi, parla, guardami una buona volta, in nome di Dio!... Egli restò a guardarla a lungo, muto, immobile. La baronessa non poteva sostenere la fissazione di quello sguardo. Due volte, tre volte, ella aveva fatto battere le palpebre sugli occhi stanchi, ma tutte le potenze dell'uomo parevano concentrate nella facoltà visiva. Poi, lentamente, egli avvicinò le labbra alla fronte di lei, vi depose un bacio lievissimo; e, chiudendole la bocca con la mano per impedire che ella nulla dicesse, uscì. Quella bocca era stata baciata! Quella fronte era stata baciata! Quelle mani erano state baciate! Quegli occhi avevano visto altri uomini in ginocchio dinanzi a quelle forme adorate! Dietro quella fronte, dei ricordi d'amore - di altri amori! - si svolgevano nell'istante preciso ch'egli metteva tutta l'anima nel parlarle dell'amore di lui! Quelle orecchie avevano sentite altre parole d'amore! Quelle labbra ne avevano pronunziate delle altre!... Ah! non era vero ch'ella fosse nata soltanto il giorno che era stata sua! Il passato esisteva, e fatale, irreparabile! Ah! ella aveva bene indovinato, prevedendo ch'egli sarebbe stato geloso del suo passato! Geloso egli lo era, e tanto più tormentosamente, quanto più inafferrabile era l'oggetto della sua gelosia. Disputarla ad un rivale presente, dare tutto il proprio sangue per conquistarla: che cosa sarebbe mai stato di fronte alla tortura del saperla stata già di altri, di non poterle cancellare dalla memoria il ricordo di altri? Egli non era più solo nel suo pensiero! Chi erano, quanti erano questi altri? Impossibile ancora saperlo; più presto egli si sarebbe fatta strappare la lingua, che chiederlo a qualcuno, che chiederlo a lei. Come infliggere alla donna idolatrata il tormento di rievocare una storia di pianto? Come sopportarne lui stesso il racconto? E perchè?... Noti od ignoti, i fantasmi inafferrabili di quegli uomini vagavano ancora intorno a lei; per le stanze, nel santuario suo, egli sentiva che la chiamavano: Costanza - come lui! che le parlavano di tu, come lui! Egli li vedeva, in attitudini familiari, avvicinarsi a lei! abbracciarla! baciarla!... Egli aveva paura di sedere dove quegli altri si erano seduti, di muoversi come gli altri si erano mossi, di parlare come avevano parlato. Con la sua sola presenza, egli contribuiva a ridestare più chiari, più netti, i ricordi di lei! E tra i ricordi del passato e le impressioni del presente un paragone doveva necessariamente determinarsi! L'amor suo infinito veniva dunque misurato, in ogni parola, in ogni gesto, in ogni bacio!... Dal posto dove se ne stava abbandonata, la baronessa lo attirava a sè; ma tutte le volte uno sforzo formidabile su sè stesso poteva soltanto deciderlo ad avvicinarsi a lei. Quando egli le si avvicinava, i fantasmi si frapponevano, glie la disputavano, lo afferravano con la loro gelida mano, facevano morire il suo bacio, scioglievano le sue braccia allacciate intorno alla vita di lei. E come più cresceva lo strazio dell'uomo dinanzi alla propria impotenza contro quella persecuzione, più lamentosa si faceva la voce della donna: - Andrea, tu non mi ami più!

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E rivedeva la disfatta figura di Andrea, quando, non più sorretto dall'eccitazione che lo aveva spinto a sfidare ad un tratto le sorde provocazioni del Sammartino, gli aveva confessato tutta la propria miseria, il contrasto dell'amore, della gelosia, della disistima; l'impossibilità di durare in quella tortura di tutti gl'istanti.... E risentiva le parole con le quali gli aveva dato ragione: "Sì, sì; non bisognava amarla, bisognava soffocare quel sentimento fino dal nascere; ma non aveva potuto! non poteva! ed era un miserabile, e voleva farsi ammazzare da un altro miserabile suo pari!..." Allora il duca imaginava i due uomini, armati, scagliarsi l'uno contro l'altro; vedeva il sangue scorrere, e un tremito nervoso gli passava per tutto il corpo. Il sangue ed il pianto!... L'eterna vicenda ricominciava ancora una volta; e quale fatalità condannava gli uomini a scontare in tal modo l'incerto, il fugace piacere? Perchè la fantasticata asportazione del cuore, l'abolimento di ogni sensibilità non doveva esser dunque possibile?... Ah! tutto quel che si poteva di più, era il soffrir da soli, in secreto! il soffrire come egli stesso, in quel momento, al pensiero della catastrofe che aspettava la disgraziata, soffriva.... Un'esclamazione del Giussi lo richiamò ad un tratto alla coscienza del presente. - Ecco quei signori. Erano il barone De Falco e il giornalista Andritti. Scambiati i saluti, i quattro rappresentanti presero posto intorno a un tavolo, su cui la lampada gettava una viva luce. Il duca di Majoli prese la parola, seccamente. - Sarebbe inutile ricordare il motivo che ci riunisce stasera. L'offesa fatta dal signor Sammartino.... Il barone De Falco interruppe: - Se il signor duca permette.... - Ella vuol dire che l'offeso è il suo primo? Reclama per lui la scelta delle armi?. - Perfettamente! - Noi abbiamo mandato di accettare qualunque condizione. Un nuovo silenzio. E, a un tratto, echeggiarono i primi accordi della marcia del Faust. - Alla spada e a discrezione del ferito, - disse il barone De Falco. - Sta bene. Ciascuno porterà le proprie armi; si tirerà a sorte. - Hanno in vista un locale? - A Villa Bisani, a Portici.... se loro accomoda. - A meraviglia. Allora, per domani? - Senza dubbio. - Alle sei del mattino? - Alle sei. Come ebbero preso congedo dai rappresentanti avversarii, il duca di Majoli e Vittorio Giussi scesero al caffè, in quell'ora popolatissimo. Si guardarono attorno, a lungo, attentamente; Andrea Ludovisi non c'era. - Cerchiamo dalla parte della musica, - disse il Giussi. Dopo pochi passi, sotto la viva riverberazione dei fanali elettrici, esclamò: - Eccolo lì. Fermo accanto alla victoria, col bastone dal manico d'argento sotto l'ascella, infilando lentamente un guanto, Andrea Ludovisi conversava con la baronessa di Fastalia, che si sporgeva verso di lui con dei movimenti d'una eleganza lenta e squisita. Vittorio Giussi si avanzò, col cappello in mano. - Se la signora baronessa permette, il duca avrebbe da dirti qualcosa di urgente. - Facciano pure, facciano.... E quella risposta, Ludovisi, quando me la date? - A momenti, signora baronessa, se ella non va via.... E come i due amici si avanzavano, il duca di Majoli li raggiunse. - È tutto fatto. Domani, alle 6, tienti pronto. - La spada? - La spada. Andrea Ludovisi trasse un sospiro di sollievo. - Grazie! Mi volete ora aspettare cinque minuti? E andò a raggiungere la carrozza della baronessa. - Che cosa è stato? - Una buona notizia. I miei debitori si mettono in regola, riavrò tutto il mio; nulla mi trattiene più a Napoli. Costanza, Costanza, sono libero! Andremo via, lontano, nei paesi più belli, od anche nei brutti; che cosa importerà per noi!... - Non è vero? In quel momento la musica incominciava il Wiener blut; i suoni giocondi volavano per l'aria, mettevano un tripudio tutt'intorno. Cogli occhi socchiusi, assorta in un sogno di felicità, la baronessa faceva oscillare lievemente la testa, in cadenza col ritmo della danza. Egli mormorò a bassa voce: - Costanza, ti amo! La baronessa portò le mani al cuore. - È possibile? Mi par di sognare! dopo la tempesta di ieri!... - Perchè ricordarla? - A proposito: e quella risposta? Che cosa bisogna fare delle lettere rimaste sotto il divano? - Bruciarle!... A. domani, dunque.... - E scostandosi d'un passo, col cappello abbassato, a voce più forte: - Signora baronessa, faccia una buona passeggiata! Lentamente, la carrozza si allontanò. Il duca di Majoli e il Giussi si avvicinarono. Andrea Ludovisi si mise in mezzo agli amici, e terminando di abbottonare il suo guanto: - Ora - disse - andiamo a vedere le armi.

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Benchè fossero appena le undici, la baronessa di Fastalia, passeggiando dalla stanza da letto al salottino, andava a guardare ogni momento l'orologio. Prima del tocco, Andrea Ludovisi non sarebbe certamente venuto, e come erano lunghe, come erano eterne quelle ore d'attesa! Ella presentiva che da quel colloquio sarebbe dipesa la sua felicità avvenire. La sera innanzi Andrea le si era mostrato così affettuoso, così confidente, così lieto, da far supporre che ogni traccia della passata tempesta fosse oramai cancellata. Pure la baronessa non si sentiva ancora perfettamente sicura. Ferma dinanzi all'uscio fin dove ella lo aveva accompagnato, quando, all'arrivo di suo zio, dopo aver nascosto precipitosamente le lettere e la valigia, egli si era congedato, Costanza di Fastalia sentiva ancora sulle mani le labbra di Andrea che baciavano e mormoravano insieme parole di perdono e di amore.... Ora, ella si pentiva della durezza di cui aveva dato prova. Non conosceva dunque abbastanza di quale natura impressionabile, di quale anima vibrante ad ogni alito più lieve, Andrea Ludovisi fosse dotato? Non sapeva ella ancora, che quei subitanei ed irrefrenabili trasporti erano la prova più evidente della passione che ella aveva acceso nel petto di quell'uomo? Non vi era, in quella gelosia del passato, in quel bisogno di possedere, di aver posseduto sempre e solo il cuore di lei, un sentimento di tenerezza triste e di amore prepotente che avrebbe dovuto colmarla di gioia orgogliosa?... Sì, sì; ella non era stata mai amata a quel modo; ella non aveva mai incontrata un'anima così amante; ella avrebbe dovuto accorgersene prima, molto prima, dirlo prima ancora che ne fosse stata richiesta!... Ma quello che non aveva fatto, non era forse ancora in suo potere?... Deludendo l'impazienza dell'attesa lunghissima, la baronessa pensava in qual modo avrebbe confessato ad Andrea il proprio inganno, con quali parole dolci come carezze gli avrebbe confessato che mai ella era stata amata come da lui, che nessuna donna avrebbe potuto mai sognare un amore più forte, più vivo, più caldo.... E quelle lettere rimaste in fondo al divano, non bisognava dunque bruciarle, dinanzi a lui, fino all'ultima, perchè se ne disperdesse anche la memoria? Che cosa ne avrebbe ella fatto? Non le ricordavano esse una storia di dolori? Un'amara voluttà aveva ben potuto essere da lei cercata, un tempo, nel rievocare quei tristi ricordi, nel contare tutte le menzogne che le erano state dette, nel misurare la malvagità, di quanti l'avevano perseguitata con l'espressione di speranze che erano altrettanti insulti; ma ora, ora che ella si sentiva rinascere, ora che un avvenire di insperata felicità le si schiudeva dinanzi, che cosa avrebbe fatto di quei documenti d'un passato aborrito?... Però, quel passato bisognava assolutamente che Andrea lo conoscesse. Ella aveva compreso e rispettato da principio i motivi di delicatezza che lo avevano fatto opporre a tutti i suoi tentativi di confessione; ma ora che ella aveva avuto una dimostrazione dolorosamente eloquente delle lotte che si combattevano nel cuore di Andrea, il tacere più a lungo sarebbe stata una colpa. Se egli si opponeva ancora?... Ella gli avrebbe scritto! Come un lampo, questa idea le aveva illuminato lo spirito. Perchè non le era venuta più presto? Così bisognava fare; se più tardi, se fra un'ora egli non le avrebbe permesso di parlare, bisognava scrivergli tutto. E, avvampando d'impazienza, insofferente di ogni indugio, ella andò a uno stipetto, tolse da una cassetta alcuni fogli della loro carta, e passando allo scrittoio, vi prese posto. Si era appena seduta che il campanello elettrico squillò. - Andrea! Come non aveva previsto che quel giorno egli sarebbe venuto più presto? Come era stata sciocca di non correre più presto in giardino, per aspettarlo sotto gli eucaliptus? Rapidamente, ella passò nell'anticamera. Il cameriere si avanzava in quel momento. - Il signor duca di Majoli.... - Avete detto?... - Il signor duca di Majoli insiste per essere ricevuto un istante dalla signora baronessa. - Fate dunque entrare.... Non era lui!... Che cosa avrebbe potuto volere, a quell'ora, il duca di Majoli?... Quantunque fosse una delle pochissime persone che ella vedeva meno malvolentieri dacchè amava Andrea Ludovisi, pure in quel momento quella visita la contrariava; Andrea poteva apparire da un momento all'altro.... - Signora baronessa... mi voglia perdonare.... Il duca era molto pallido in viso e la sua mano tremava un poco nel reggere il cappello. - Duca!... Che cos'ha? - Sono davvero imperdonabile... di presentarmi a quest'ora... ma io vengo da parte... di Andrea Ludovisi.... - Andrea? Avete detto?... Ma che cosa avete? Perchè evitate di guardarmi? - Oh nulla... assolutamente! Dovevo dirle soltanto che Andrea... desidera vederla... - Vedermi? Come vedermi? Se io l'aspetto qui... cioè.... O duca, per l'amor di Dio, che cosa è successo?... Suvvia, val meglio dirle la verità, che non ha nulla di allarmante. Andrea si è battuto.... La baronessa, scomposta in volto, aveva portato le mani ai capelli. - Signore Iddio!... Ed è ferito?... - Oh!... una cosa da nulla. - Duca, in nome di Dio! ve lo domando in ginocchio! ditemi la verità; non mi fate impazzire!... - Ma se le dico, nulla!...Una scalfittura alla spalla, senza nessuna importanza.... - Oh mio Dio!... E dove?... Con chi?... Avete almeno una carrozza?... - È qui abbasso. In un attimo, la baronessa corse a gettarsi uno scialle addosso; tornò rapidamente balbettando confuse parole dall'ansia, dal turbamento, ed uscì a braccio del duca, che la sentiva tremare da capo a piedi. La carrozza partì di corsa. - E con chi? Non me lo avete ancor detto.... - Con Sammartino. - Un'altra volta! Una crisi di dolore la abbattè. Ella lacerava il fazzoletto, si infiggeva, le unghie sulla testa, si torceva le mani, soffocando le grida che le salivano alle labbra. - E non prevederlo, iersera!... Non prevederlo!... Disgraziata, la colpa è mia!... Poi, repentinamente, afferrando il braccio al duca di Majoli, fissandolo cogli occhi atterriti: - Ma è moribondo... dite la verità! Non mi avreste chiamato se non fosse una ferita mortale!... E prima ancora d'aver ottenuto risposta, acquistata quella certezza, ruppe in un singhiozzo lacerante. Il duca le aveva presa una mano, tenendola stretta fra le sue. Una parola gli saliva alle labbra, convulsamente: "Povera!... povera!..." con un impetuoso bisogno di mescere le proprie lacrime a quelle di lei; ma uno sforzo violento, un irrigidimento di tutti i nervi ricacciava indietro la parola ed il pianto. - Fa presto!... Più presto!... - ordinava al cocchiere, sporgendo automaticamente il capo dallo sportello; ma avrebbe voluto piuttosto gridargli: "Torna indietro!... Torna a casa!... per evitare ai due disgraziati una crisi mortale.... Così dunque finiva l'illusione della gioia; era quello il terribile risveglio: quello spasimo, quell'agonia! La carrozza correva, correva per le vie popolose; delle grida echeggiavano, le cornette dei tram squillavano di tratto in tratto, e il sole splendeva nel cielo giocondo. " Sferza!... Più presto!..." Ma per fuggire lontano, per fuggire sempre, per mettere di mezzo lo spazio ed il tempo, per apprestare i grandi, i soli rimedii: la lontananza, la stanchezza, l'oblio.... Al cancello, Vittorio Giussi aspettava. La baronessa gli corse incontro, con le braccia tese, interrogando con lo sguardo. - Si faccia animo!... Non sarà nulla!... - Ah! E la donna si slanciò avanti, di corsa. I due amici la raggiunsero, cercando di trattenerla. Ella si svincolò e passò ancora innanzi. Ma nella sala, il dottore l'arrestò. - Signora, sia prudente; rinunzii a vederlo, per ora.... - È morto!... - Ma no, ma no; morirà se non gli si risparmia un'emozione. L'abbiamo chiamata per farlo contento; ma sta a lei ad esser prudente, a rinunziare.... Ad un tratto s'intese una voce debole, ma chiara, che chiamava: - Costanza! Ella si precipitò nella stanza. Pallidissimo, come di cera, col busto sorretto da un monte di origlieri, la camicia squarciata e sanguinosa che lasciava vedere una larga fasciatura, le braccia abbandonate da una parte e dall'altra, Andrea Luclovisi ripetè, più debolmente: - Costanza! Ella era caduta in ginocchio accanto al letto, aveva presa la sua mano fredda e sbiancata, stringendola fra le sue, coprendola di baci fra i singhiozzi che le spezzavano le parole. - Andrea!... Andrea mio!... Che hai fatto!... Andrea mio!... Oh, Signore!... pietà!... Cercando di liberare la sua mano, egli disse: - Calmati, Costanza... calmati... se mi vuoi bene! Alzati, fatti più vicina... così... che io ti veda tutta... che io ti baci... purchè tu non pianga, Costanza.... - Ma perchè, Signore! perchè... - e, parlando, ella gli passava una mano sui capelli, lievissimamente - perchè hai fatto questo?... Andrea Ludovisi chiuse un istante gli occhi. - Senti... io non potevo vivere con l'idea che quell'uomo... ti avesse... amata. Ella si rialzò con un tremore in tutta la persona. - Oh... ancora! Andrea, per quel Dio che ci vede, per quel Dio che deve ridarti all'amor mio, no! non è vero! non è stato mai!... - Allora... quella lettera? - Ma quale? Quale lettera?... - Una di quelle, la lettera che tu volesti mostrarmi.... Un sorriso sfiorò la bocca della baronessa, mentre, curva di nuovo sul ferito, ella tornava ad accarezzarlo. - Ma come quelle ve ne sono tante altre, povero amore!... Tu, amore, non l'hai letta!... Perchè non l'hai letta?... Sono delle dichiarazioni con le quali mi hanno perseguitata da per tutto!... Se sapessi quante me ne ha mandate colui!... Se sapessi da quante parti me ne sono piovute, da gente che non conoscevo neanche di nome!... Se sapessi come si tratta una donna nella mia posizione! Come tutto pare possibile, come tutto pare permesso!... Ma non era che questo, bambino?... Perchè non lo hai detto prima? E nella gioia di vedere dissipato il malinteso che era stato causa di quella tragedia, ella quasi ne dimenticava le conseguenze: - Povera Costanza! - esclamò Andrea, rivolgendole uno sguardo di compassione profonda. - Oh, sì, povera, povera tanto! Quante amarezze, quante umiliazioni! Quanta codardia in tutti questi uomini che ci circondano!... Tu solo, tu solo sei nobile e generoso, tu solo mi hai amata.... - È vero? Strettamente abbracciati, gli occhi negli occhi, pareva che essi volessero trasfondere Ie anime in quello sguardo supremo. - Sì, è vero: tu solo! Tu, che hai avuto paura di confessarmi l'amor tuo! Tu, che mi hai rispettata prima di amarmi! Tu, che hai esposto la tua vita per me! Tu, che sei stato geloso dei miei pensieri e dei miei ricordi! Tu, che non hai mai voluto conoscerli!... - Ancora!... ancora!... - Tu, Andrea, che mi hai fatto rinascere; tu, che mi hai fatto credere a tutte quelle cose di cui avevo disperato, alla bontà, alla sincerità, alla fede, all'amore.... No, io non sono mai stata amata, così! Non sono stata amata niente! Non lo sai? Mio marito mi ha lasciata otto giorni dopo il nostro matrimonio! Mi ha presa per la mia fortuna, che ha rovinata a metà! Mi hanno data a lui, perchè ero di peso in casa, e perchè aveva un nome! Ed ho subìto gl'insulti più atroci, le vergogne più innominabili. Allora, capisci, io non ero corazzata d'acciaio contro le seduzioni... Feci.... - Costanzal... te ne scongiuro!... - Zitto, bambino! Lascia fare a me. - E riprese, rapidamente: - Feci... come molte altre. Credetti d'avere incontrata la felicità; credetti - hai capito? - Fu una tregua soltanto. L'amore di... colui, finì presto... se pure cominciò mai... No, no; hai ragione, non cominciò mai!... Un sentimento di falso dovere non gli fece dir nulla; e, in cambio, mi oltraggiò... capisci come? preferendomi una... delle altre. Mi sentii sferzata a sangue. Vidi tutto abietto intorno a me; in quell'abiezione volli cadere anch'io, per vendetta, per rabbia impotente.... Fu una volta sola, e fu abbastanza... Andrea, te lo giuro, per l'amor nostro!... Andrea!... Andrea, che cos'hai?... Egli si era fatto ancora più pallido, spaventosamente, ed aveva portato una mano al petto. - Il sangue! il sangue! il sangue di Andrea! il sangue generoso versato per questa indegna! E accostate le mani alla fasciatura tutta madida, le portò al viso. - Che io mi lavi nel tuo sangue, ch'io lavi le mani, ch'io lavi la fronte, ch'io lavi la bocca, che io mi lavi tutta, ch'io mi purifichi - è questo? - sì, così... così.... - Tu sei redenta.... Al contatto di quelle labbra ghiacciate che si posavano sulle sue mani sanguinose, ella sentì un brivido passarle per tutto il corpo. - Lasciami... ch'io chiami.... - Non ancora, Costanza!... Un silenzio. A un tratto s'intese la pendola suonare le due. Egli rivolse alla donna uno sguardo pieno di passione, e disse, con voce che si sentiva appena: - A quest'ora.... sotto gli eucaliptus.... Ella non fece a tempo a contenere uno scoppio di pianto. Disperatamente, si lasciò cadere in ginocchio, mettendosi in bocca, per frenare i singhiozzi, un lembo del lenzuolo pendente. Ad un tratto, si senti chiamare: - Costanza... soffoco... l'aria.... Ella corse a schiudere la finestra. Come si voltò vide gli occhi di Andrea rovesciarsi e la bocca contorcersi un poco.... Al sordo rumore di un corpo che cadeva di peso, gli aspettanti si precipitarono nella stanza; e mentre il dottore, con un gesto disperato, accertava la morte, il duca di Majoli si curvava sulla irrigidita Costanza di Fastalia, sollevandola paternamente.

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L'indomani

246241
Neera 26 occorrenze
  • 1889
  • Libreria editrice Galli
  • Milano
  • Verismo
  • UNICT
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A. Brockhaus - BERLINO, A. Asher e C. PARIGI, Veuve Boyveau - NAPOLI, Ernesto Anfossi. 1889

Ho pensato che qualche persona potrebbe arricciare il naso davanti a questo indomani, vocabolo non accettato da tutti; e qualche critico, come succede a volte, concentrare tutto il suo acume sul frontispizio, defraudando l'opera di quell'esame intelligente che è il miglior premio cui aspiri lo scrittore. Cambiare l'indomani con il domani non era cosa difficile, se a quel primo vocabolo, sortomi spontaneamente nel cervello col concetto stesso dell'opera, io non ci avessi tenuto con una specie di simpatia superstiziosa; oltre che mi sembra più snello, più vivo, più efficace, più preciso. Decisi però di chiedere un consiglio, anzi ne chiesi parecchi, col risultato di allargare la cerchia dei dubbi; perchè i partigiani del domani e dell'indomani si moltiplicavano senza fondersi. Avevo, è vero, Manzoni dalla mia, per il fatto che nei Promessi sposi si trova l'indomani, e con tale alleato mi potevo mettere in guerra; ma volli ancora sentire il parere di un dotto giovane, valente e noto poeta, che da Roma manda in giro tratto tratto versi squisiti di pensieri e di forma; ed ecco la risposta: «L'indomani ha avuto molti accusatori tra i quali Fanfani, e molti difensori tra i quali Nannucci e Gherardini. Ne fece uso anche qualche scrittore autorevole. Io penso che, mentre il domani esprime meglio un giorno determinato, l'indomani esprime meglio un tempo continuato; non è più il preciso avverbio, ma un vero sostantivo. La preposizione in gli dà questo senso, nè so vedere, essendone l'etimologia puramente classica, perchè lo si dovrebbe bandire, costringendo la parola domani a significare un concetto che invece ha la sua propria espressione nella parola l'indomani.»

Marta si vestiva adagio, in piedi nel corsello; allacciando a malincuore il nastrino rosa della sua bella camicia da sposa, fermandosi a guardare il fogliame dei trafori che spiccava in rilievo sopra un fondo di piccole stelle. Una delle sue preoccupazioni, prima di maritarsi, era stata quella di dover mostrare le braccia ad Alberto, i suoi braccini esili di bimba cresciuta presto. Fortuna, pensò, che non li ha nemmeno visti! Strinse il busto, nuovo fiammante, punteggiato di seta bianca; allacciò sui fianchi un amore di gonnellino tutto a balze ricamate sopra un trasparente di flanella rosea - una gonnella pericolosa - aveva detto la mamma. Perchè? Infilò le calze, gli stivaletti, l'abito; era vestita. Tornò a guardare Alberto e la riprese la commozione; una strana commozione fatta di desiderio e di rimpianto, di tenerezza ardentissima e di un freddo pauroso. - Oh! Alberto - mormorò con le mani giunte - se io mi fossi sbagliata, se non dovessi comprenderti... La serietà della sua educazione e del suo temperamento sorgeva rigorosa in lei, inalberando il fantasma del dovere. Le pastoie dell'immaginazione dovevano scomparire davanti al compito austero della vita; assumeva ora una sacra missione, aveva in pugno la felicità e l'onore di quell'uomo, gli doveva tutto l'affetto, tutta l'ubbidienza, tutti i sacrifici. Si era sposata, era cosa sua. Come avrebbe voluto fare qualche cosa di grande, di eroico, per mostrare la sua forza di amore! Fuggire dal mondo, seppellirsi viva in un deserto, rinunciare a tutto; ma coll'amore di Alberto, di quel bel giovane che ella si struggeva d'amare, al quale chiedeva ancora con un pauroso sgomento il responso della sua felicità. Muta accanto al letto, sognava ebbrezze sconosciute, rapimenti lontani, indefiniti, pur temendo di risvegiare Alberto, guatandolo furtiva. Egli aveva un volto regolarissimo, il profilo nobile e puro; una fossetta nel mento, la barba morbida e fluente, divisa alla nazarena. I capelli vaporosi prendevano con la pressione del guanciale cento forme, improvvisando riccioli fanciulleschi, circondando capricciosamente l'orecchio di una delicatezza femminea. Ma egli a che cosa pensava? Quali visioni gli attraversavano il sonno? Aveva sempre dormito così su un fianco, con un braccio sotto la testa, l'altro allungato? Così roseo, così calmo? Che cosa chiudeva la sfinge di quel bel volto e quando mai ella potrebbe, penetrandogli nell'anima, chiamarlo veramente suo? Ella avrebbe tanto volontieri squarciata la sua mente e il suo cuore davanti a lui, per mostrargli che ne era compresa; per un bisogno irresistibile di fusione, che l'avvicinamento materiale aveva irritato senza soddisfare. No, non poteva essere sempre così e niente altro che così! Marta si sentiva ancora delle bende sugli occhi, dei lacci alle mani; andava ancora tentoni, non possedeva ancora l'amore, non aveva ancora afferrato il vero. Un movimento di Alberto la scosse, e con naturale senso di pudore non volle essere scoperta a rimirarlo. Mosse verso la finestra da cui penetrava il gaio sole di marzo; alzò le tendine che coprivano i vetri e dette uno sguardo alla via; l'ignota via di quella città. Era un vicolo che metteva direttamente al porto, affollato in quell'ora da carretti, da facchini e da pescivendoli, i quali tutti vociferavano in un dialetto che Marta non capiva. Dette uno sguardo alle finestre dirimpetto, basse, prive di persiane, tutte munite di funi, sulle quali svolazzavano, asciugando, le biancherie. Questo aspetto di città, così differente dalla sua città nativa, la interessò senza piacerle; sollevò gli occhi, e, attraverso una fuga grigia e malinconica di tetti d'ardesia, lontano, nello splendore del mattino, scorse la linea azzurra del mare, grandioso e fantastico nella sua calma, con qualche cosa di sognato, di immateriale, di al di là....

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Quantunque non vi fosse un dato positivo, ella sapeva già a chi era stata diretta, e i pochi o molti anni trascorsi, non modificavano l'impressione violenta ch'ella provava leggendo le parole d'amore scritte da un'altra a suo marito. Un'altra! La stessa calligrafia minuta, ineguale, la stessa carta sottile leggermente azzurra, traversata da lineette dalle quali le parole saltellavano or sotto or sopra, quasi nervose e indomite, riappariva man mano che Marta toglieva gli oggetti dalla cassa; foglietti spiegazzati, strappati, tra le cui pieghe si annidavano gli insetti minuscoli che vivono di carta, su cui erano cadute delle macchie ignote dilatando l'inchiostro, gonfiando le parole; foglietti che avevano l'apparenza di lebbrosi, esalanti un odore stantio di rose secche e di muffa. Quì - pensava Marta - quì è la giovinezza d'Alberto, i suoi entusiasmi, i suoi palpiti, i suoi ardori, i baci che io aspetto invano. Afferrava le lettere febbrilmente, volendo leggerle subito, stentando a mettere insieme le pagine, impazientandosi per le frequenti lacune. Non pensò neppure un istante a portarle a suo marito; al contrario, chiuse l'uscio per non essere disturbata, e sedendosi sopra un mucchio di panni incominciò a fare lo spoglio per ordine, un ordine relativo perchè mancavano quasi tutte le date. La firma invece c'era intera: Elvira. Non fu più possibile neppure il dubbio sulla persona a cui erano indirizzate: fin dalla seconda lettera il nome d'Alberto era scritto e ripetuto con una compiacenza raffinata, con una calligrafia migliore, quasi che su quel nome la mano inquieta si fosse arrestata per prolungare la dolcezza di scriverlo. Un'altra lettera, più fresca, chiusa ancora nella sua busta, col suggello rotto, ma intelligibile negli arabeschi di un piccolo stemma; la carta sostenuta, perlacea, sparsa di stelline; la calligrafia di una eguaglianza perfetta: «Se tutto quello che mi avete detto è vero, se io sono ancora per voi la più adorabile delle donne, venite oggi alle cinque. Sarò sola.» Nessuna firma. Dopo un movimento di dispetto, gettò questa lettera in un canto. Il suo interesse era per le prime, per quella Elvira appassionata che non nascondeva il suo nome, che lo ostentava invece nella franchezza prepotente del vero amore. Adagino, con pazienza, riusciva a metterle insieme, le mani frattanto le tremavano e la sua testa era in fiamme. Fu distratta un'altra volta da un bigliettaccio mal piegato, male scritto, con qualche errore di ortografia: «Ti ho aspettato in piazza e non sei venuto. Non vengo più.» Questo le fece male. Il fatto di una donnaccia che dava del tu al suo Alberto, e che da lui era stata guardata, preferita, amata forse - e senza forse amata nel modo che amano gli uomini - questo fatto, che pure in genere conosceva, la ripiombava nelle sue amare riflessioni, nei suoi eterni dubbi. Come potrebbe egli intenderla, se ella non riusciva a intender lui? Messe l'una sopra l'altra, le lettere d'Elvira formavano un piccolo pacco. La prima, l'unica che avesse una mezza data, era questa:

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So che siete in paese; vi ho visto ieri andando a messa; eravate lontano, vi ho riconosciuto egualmente, e voi non mi avete sentita? Ho passato questi otto giorni correndo dalla porta alla finestra, sempre nell'aspettiva di una vostra lettera, non vivendo d'altro! Forse siete in collera perchè non vi ho ancora dato l'appuntamento che mi chiedeste? Ma come fare? Se ci trovassimo per istrada lo saprebbero tutti e nei paesi sono così maldicenti! Perchè non venite a casa? Tuttavia ci penserò, ci penserò tanto che pure troverò il modo di poter stare insieme con voi almeno un istante.

Pagina 123

Pensate a me almeno? Scrivetemi subito una riga, una parola. ELVIRA. Ve ne scongiuro, subito, subito.

Pagina 123

In margine a questa lettera, scritto a matita, c'era un conticino da trattoria.

Pagina 128

Come avrebbe fatto Marta a deludere la smania che la divorava? Decisa prima a tacere, dovette poi venire ad una transazione col proprio orgoglio; parlerebbe, ma parlerebbe per sorpresa, volendo impadronirsi degli intimi pensieri di suo marito, giocando con abilità la carta che il destino le aveva posta tra le mani. Intanto si era ricordata di un certo panierino dove stavano ammucchiate fotografie d'ogni specie; andò a prenderlo e vuotate le fotografie sul tavolino, incominciò ad esaminarle minutamente, procedendo nella eliminazione di tutti gli uomini e di un can barbone riprodotto con solennità nel bel mezzo di una poltrona. Scartò poi frettolosa una caterva di vecchie zie, di avole, di bisavole, di bambini ritratti nelle braccia della nutrice, di bambinette raggruppate, finchè ridusse le fotografie ad una dozzina o poco più di donne passabili. E ancora occorreva molta immaginazione per raffigurarsi capaci di una seduzione qualsiasi quelle figure sbiadite su fondo rossiccio, vecchie come soltanto diventan vecchie le fotografie nel loro spietato realismo; capelli piatti, oppure rialzati nella forma precisa di polpette ripiene: occhi truci, terribili, o imbambolati nella preoccupazione della posa; in generale faccie musone. E gli abiti? Maniche larghe, a prosciutto, a zoccolo, a campana, alla contadina; vite angolose, falpalà arzigogolati, bottoni fuor del vero. Che mostri! pensava Marta - e probabilmente fra dieci o quindici anni si dirà lo stesso di me. Cercava minutamente, guardando in ogni piega delle vesti per scoprire il nome di Elvira. Credette di averla trovata in una giovane donna, appoggiata languidamente al tronco di una colonna, con l'indice della mano destra affondato nella guancia, la mano sinistra ricadente lungo l'abito; il nome di Elvira però non c'era in nessun posto. Allora fu assalita dal dubbio che Alberto conservasse quel ritratto in qualche luogo riposto, nel suo scrigno, in un santuario gelosamente nascosto, forse sul suo cuore. Divampò. Certo, quello non era un amore dei soliti; Elvira non si poteva confondere con Giuditta; egli ancorchè più freddamente; doveva però aver amata quella fanciulla e conservato di lei una memoria indelebile. Crucciandosi per questo sospetto, non ricordava più di essersi crucciata prima per l'impossibilità che Alberto avesse potuto corrispondere all'amore di Elvira. Maneggiava una lama a due tagli; da qualunque parte la girasse si tagliava. Appollonia, vedendo la sua signora passeggiare smaniosamente per le stanze, le domandò se si sentisse male. Aveva l'inferno nel cuore. Fino a qual punto si erano amati? Fino a quale? Era riuscita Elvira ad animare la statua? Si era data a lui con quello ardore che traspariva dalle sue lettere? E poi? E dov'era adesso? L'inazione dell'aspettativa le riesciva insopportabile. Prese l'ombrellino e s'avviò per i campi, incontro a suo marito. Anche Elvira doveva aver percorso qualche volta quei sentieri, pensando a lui, confidando all'aria e al cielo i suoi sospiri appassionati; e che ne era rimasto? Dove va a finire l'amore, e perchè finisce? La fine è la morte, ma la peggior morte è quella che si sente. Oh! l'orribile tristezza! Smaniava di vedere Alberto, di toccarlo, di persuadersi che era suo, che non le sarebbe sfuggito mai; e voleva dirgli che lo amava, che lo amava come Elvira, più di Elvira. Piangeva, facendo rotolare i sassi cacciati dalla punta dell'ombrellino, divorando la via. A un tratto le si parò davanti il dottorone, tenendo tutto il sentiero con la persona alta e grossa, con la tuba voluminosa, l'unica tuba che si vedesse in paese. Declamava versi, ma incontrando Marta si fermò. La giovine sposa lo interessava, non aveva mai tralasciato occasione di mostrarsele amico. - Dove va? - le chiese senza complimenti. - Vado incontro ad Alberto. - Da questa parte? - Non è di qui? - No davvero. Ci arriverebbe ugualmente poichè tutte le strade conducono a Roma, ma forse non incontrerebbe per quest'oggi suo marito. Se permette, la metto io sulla dritta via. Marta nell'imbarazzo aperse l'ombrellino per nascondere un po' la faccia, intanto che si ricomponeva. - Settembre è il più bel mese dell'anno - soggiunse il dottorone, seguendo il corso de' suoi pensieri - i poeti dicono l'aprile, ma non è vero. In aprile piove troppo, i campi non hanno spighe, nè gli alberi frutti, le viti sono sfrondate, il sole non scalda, nevica qualche volta! Maggio è un po' meglio; abbiamo le fragole se non altro. Giugno glielo raccomando; tutto fiorisce, tutto sorge da terra, i campi sono uno splendore, i piselli e i fagiuolini si vendono a buon mercato. Tiriamo un velo sul luglio e l'agosto, è la sola cosa che si possa fare in un tempo in cui ci si leverebbe perfino la camicia... - Lei conosce - interruppe Marta approfittando della pausa - la maestra del paese? - Quella gobbina? Sì. - Sta qui da molti anni? - Sette od otto, non saprei. - E la maestra precedente? - Conobbi anche quella. - Si chiamava Elvira? - Ma!... Elvira, come? - La parentela la ignoro. Era giovane? - Abbastanza. - Bella? - Una morettina, sa, di quelle morettine con gli occhi neri e coi denti bianchi, delle quali non si può mai dire che sieno assolutamente belle nè assolutamente brutte. - L'ha conosciuta molto? - Oh! dir molto sarebbe troppo. Le ho parlato una volta o due. Era simpatica. - Perchè è andata via? - Chi lo sa! Probabilmente le avranno cambiato destinazione. - Non si può dunque rammentare se si chiamava Elvira? - Proprio non lo rammento. Marca avendo chiuso l'ombrellino, tornò a far rotolare i sassi in silenzio. - Settembre - continuò il dottorone - ecco il trionfo dell'anno! È il mese in cui si riempiono le cantine e si provvede di selvaggina la tavola; le aie si spogliano del loro bel tappeto giallo per colmare i granai, la terra si riposa nella maestà tranquilla di una madre che contempla i suoi nati. E veda, veda che cielo limpido, senza nubi! Che splendore di vegetazione! Settembre - soggiunse dopo una pausa - è forse anche la migliore stagione della vita. Non lo crede? Marta, distratta, rispose con una esclamazione insignificante. - Io ne sono convinto. La giovinezza è troppo acerba, la virilità troppo burrascosa. Rialzò con una specie d'orgoglio la testa brizzolata, da un lato della quale la tuba stava in bilico per un miracolo d'equilibrio; i suoi occhi intelligenti scintillarono e le sue narici sensuali respirarono l'aria fortemente. - Le piante - disse Marta - sono più fortunate di noi. Egli non sapeva a che cosa alludesse Marta; rispose a caso: - Anche per esse c'è la grandine e l'accetta. Tacquero poi, obbedendo entrambi alla tirannia dei propri pensieri, subendo l'influenza di quel dolce pomeriggio d'autunno. Camminavano lesti, leggeri, aspirando il profumo dei prati, nella tranquilla ascoltazione delle cingallegre che volavano d'albero in albero; l'occhio vagante, il pensiero alato. Egli si fermò di botto. - Che cosa guarda? - domandò Marta dopo di aver aspettato qualche istante. - Coraggiosa bestiola! Questa esclamazione non essendo una risposta, Marta si pose anch'ella a guardare. Tra due rami d'acacia un ragno aveva gettato i suo fili dall'alto al basso, regolarmente, per accingersi poi a lavorare in tondo la tela; un bruco cadendo da un ramo superiore, gli aveva rotto uno dei fili, ed esso stava rimettendolo da capo. - Non è coraggio questo? Marta sorrise. - Ma non basta. Aspetti un momento, tanto che esso abbia attaccato il filo. Bellone! Or ecco un colpo della sorte. Diede un buffetto, coll'indice e il pollice, al nuovo filo. - Cattivo! - fece Marta. - Guardi, guardi - esclamò il dottorone entusiasmato - esso torna a zampettare, bravo! Bravo, ti dico. E così vita natural durante, sa? Questa bestiola non si avvilisce mai; rotto un filo ne getta un altro; il secondo si spezza, viene il terzo. Avanti, sempre avanti! È il suo motto gentilizio. Osservi come è già salito; è all'apice. Paf! - Oh! crudele - gridò Marta nel vedere che aveva strappato ancora il tenue filo - perfido uomo! Egli la scrutò in fondo agli occhi che ella chinò subito, turbata. - Le chiedo scusa; ho voluto mostrarle fino a qual punto si può essere coraggiosi. Il ragno rifaceva la tela, salendo, salendo, intanto che Marta lo guardava non senza sorvegliare il suo brutale compagno. Ma egli disse con semplicità: - Andiamo a trovare Alberto. - Ed ella subito si mosse in silenzio. Lo incontrarono non molto lontano. Se ne veniva lemme, lemme, con la sua bella fisionomia aperta, serena, il passo regolare d'uomo senza fastidi. Ritornarono insieme tutti e tre fino al paese, fino alla porta dei due coniugi, dove il dottorone si accommiatò. Marta pensava che Alberto era finalmente nelle sue mani, e se lo divorava con gli occhi, mentre egli appendeva tranquillamente il cappello. Visto così, di dietro, la sua nuca aveva una seduzione particolare, colle orecchie morbide bene attaccate, i muscoli solidi; la guancia offriva per tre quarti una linea pastosa, appena adombrata dalla lanuggine, che attirava i baci. - Ho appetito, e tu? - diss'egli sedendosi alla mensa apparecchiata. - Ma sì, discretamente. - Appollonia è riuscita a trovare queste benedette quaglie? - Oggi no, vi saranno per domani. Marta aveva le lettere in tasca; le levò e andò a riporle nel tavolino da lavoro; poi sedette accanto al marito, calma in apparenza, ma coll'occhio fisso, la mente inquieta. - La signora Merelli ha avuto una bambina stanotte. - Sì? - Potrai andare domani o dopo a farle una visita. - Ci anderò. - Pare che stia benissimo. Dopo una lunga pausa, intanto che Alberto versava da bere ella chiese: - Se io avessi una bambina come la chiameresti? - Come vorresti tu. - Ma però? - Il nome di mia madre, per esempio, o della tua. - Questo è meglio certamente; tuttavia vi sono persone che preferiscono nomi di fantasia: Ida, Olimpia, Elvira... Ti piace Elvira? - Nè più, nè meno degli altri; dò poca importanza al nome. Non mi sono mai informato come ti chiamavi tu, lo seppi da te stessa. Marta lo osservava attentamente, mentre un tremito l'agitava tutta, sperando che egli almeno si accorgesse della di lei inquietudine e glie ne chiedesse il motivo. Si era già preparata. Se le domandava: Ti senti male? la risposta doveva essere press'a poco così: Sì, di un male che tu solo puoi guarire, ecc., ecc. Ma nulla di tutto questo. Alberto mangiava, e, solamente, vedendo il piatto di Marta quasi sempre vuoto, la esortò a mangiare anche lei. Sulla fine del desinare domandò: - Tua madre non ha ancora scritto? - No. - Se tarderà molto a venire, sopravverrà il freddo. Ella avrebbe potuto svelare le ragioni del ritardo, entrare nei particolari di un contratempo abbastanza buffo, ma ciò l'avrebbe portata lontana dalle sue preoccupazioni e non si sentiva la forza di fingere, nè di frenarsi. Preferì restare muta, bucherellando con lo stuzzicadenti la tovaglia. Alberto disse ancora: - Quando viene le puoi allestire la camera in fondo al corridoio; vi starà meglio che altrove, è bene esposta e molto allegra. L'evocazione di sua madre commosse Marta nell'intimo dell'anima; il ricordo di tante tenerezze perdute le fece gruppo alla gola, per cui si alzò e fece due o tre giri nella stanza. Passando accanto al tavolino da lavoro aperse rapidamente il tiretto, ne tolse le lettere e buttandole davanti a suo marito: - Vedi che cosa ho trovato oggi nella cassa, la cassa vecchia su in soffitta! Alberto guardò le lettere, prima con indifferenza, poi con sorpresa, infine leggendone una esclamò: - Ma da qual parte sono venute fuori? - Te l'ho detto; erano nella cassa. - Sole? - Oh! con della frangia, delle cortine usate, dei chiodi... - To, to, to! - Non sapevi che erano là? - Neppur per sogno. - Ti dispiace che le abbia lette? - Figurati! Acqua passata non macina più. Respinse le lettere dolcemente, come dolcemente faceva tutto, disposto a parlar d'altro. Marta ebbe un'audacia insolita; andò a sedersi sopra i suoi ginocchi e cingendogli il collo gli mormorò con la bocca contro l'orecchio: - L'hai amata molto? Egli ebbe un momento di imbarazzo; la situazione richiedeva uno di quegli slanci ai quali il suo temperamento era refrattario; un solo bacio, ma ardente, sarebbe bastato. Alberto invece provò un movimento di stizza verso Marta che gli faceva subire questa seccatura. - Che c'entrano adesso tali cose? - Sono gelosa del tuo passato, lo sai - disse Marta senza staccarsi da lui, sprofondata nel tepore del suo collo, che succhiava con piccoli baci spessi. Alberto si sciolse adagino dalle braccia di sua moglie replicando: - E che ci posso fare io? Era una risposta ad uso Appollonia, una di quelle osservazioni fredde, piene di buon senso, che non lasciano nessun posto per le soavi bugie del sentimento. Eppure Marta, nel caso suo, avrebbe trovato, senza mentire, un'altra parola... Si tolse dai ginocchi di suo marito e si pose sulla sedia, mettendosi davanti le lettere. - È morta? - domandò a un tratto. - Non credo, ma da quando lasciò il paese non ne seppi più nulla. - Tu non le avevi promesso di sposarla? - Mai. Marta fu ripresa da uno dei suoi slanci: - Dimmi il vero, Alberto, dimmelo! Io ci capisco così poco in questi vostri amori d'uomo... - Che devo dirti? Ella si accorse che formulare con una frase il suo pensiero non era tanto facile; balbettò: - Se l'hai amata molto... molto... e che ella pure... - Non so se m'abbia amato molto molto. Marta interruppe: - Come dubitarne con queste lettere? - Oh! le lettere - esclamò Alberto ridendo - è l'amore di voi altre donne, frasi! Per parte mia mi piaceva. - Niente di più? - È quanto basta, credo, per fare all'amore con una ragazza. Ella poi si esaltava, immaginando una passione romanzesca, rapimenti, fughe, veleno. Sarei stato molto sfortunato sposandola. Marta tacque un po', e poi: - Era bella? - Simpatica. - Bionda o nera? - Nera. - Alta? - Così così. Altro silenzio. - Grassa - Oh!... non so, non ricordo, non mi pare. - Aveva le mani piccole? - Ma è un passaporto quello che mi chiedi. Parola d'onore, ci pensi più tu in cinque minuti di quello che ci abbia pensato io durante un anno intero. - Ciò vuoi dire che non l'amavi come ti amava lei! - Può darsi, e allora consolati, brucia questi scartafacci alla buon'ora. Tanto il passato non si cancella, nè si rinnuova. Era appunto ciò che pensava Marta, ma senza trovarvi nessuna consolazione. Che Alberto avesse amato Elvira molto, poco o niente affatto, restava per lei il fatto di quella corrispondenza infuocata che parlava pure di baci dati e ricevuti. Se dati per amore, perchè dimenticati? Se dati senza, perchè dati? Stracciava i foglietti lentamente sotto la tavola, ascoltando il piccolo rumore che facevano, divisa tra i rimorsi che le suscitava una eccessiva delicatezza e il piacere materiale, indegno di lei, di quel meschino trionfo; ma la vinceva il piacere. Quando i pezzettini delle lettere non furono più suddivisibili, ella riunì le pieghe della gonna, tenendoveli come dentro a un sacco e si levò in piedi. Diede uno sguardo ad Alberto, il quale aveva infilato la punta di un sigaro in uno stecchino, lo stecchino nel tappo di una bottiglia, mantenendo il sigaro trasversale, ed accostata una candela all'altra estremità del sigaro, assisteva alla combustione attentamente, con le mani in tasca. Pensò: gli farò dono di un accendisigari. E cedendo alla tenerezza egoistica del suo affetto di moglie, Marta appoggiò, passando, le labbra sul collo di Alberto. Poi corse leggera in cucina, dove, scostando Appollonia dal camino, rovesciò sul fuoco i frammenti di carta che teneva nella gonnella.

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La carrozzella, dopo di avere accolti i due viaggiatori, il baule, le ombrelle e la piccola borsa di cuoio che Marta collocò con precauzione accanto a sè, mosse per il viale verde. Finalmente! - pensava Marta - tocco il porto entro nel mio nido. Era pur stanca di città, di alberghi, di monumenti, di musei, di pinacoteche. Le Veneri che aveva viste, trionfanti nella loro nudità superba; le Lede voluttuose, le Diane innamorate, uno sciame di ninfe, un Olimpo di dee, tutte parlanti al senso della donna, proclamando per la via dell'arte l'impero della bellezza, le avevano lasciato uno sconforto e insieme un desiderio, una grande disillusione ed una curiosità più grande ancora. - Dimmi - disse, stringendosi ad Alberto, poichè in quella carrozza che le apparteneva, le sembrava già d'essere a casa loro - la prima volta che mi hai vista, quella sera, in teatro, ti piacqui subito? - Subito - rispose Alberto, levando un virginia dal suo elegante portasigari. - Ti piacque il mio volto? - Sì. - E la mia figura? - Sì. - E la voce? - Tutto. Io dissi fra me: Ecco una brava mogliettina. Marta rimase sopra pensiero. - Egli le chiese se stesse comoda, se volesse uno scialle sui ginocchi, ed avendo ella accennato negativamente col capo, accese il virginia sorridendo, preso dal benessere di quella trottata. - E dopo, tornando a casa, ci hai pensato? - mormorò Marta, col viso sulla spalla di lui. - A che cosa? - Nulla, nulla, una sciocchezza. Il paesaggio si allargava ad ogni svolto della strada, ampio, sereno, intersecato da viottoli bianchi che si perdevano indefinitamente da lungi, sotto l'ombrello delle robinie. Il terreno leggermente ondulato univa la pianura ai monti, i quali si ripiegavano su di essa, al confine, a guisa di una legatura che stringe la perla. In giro, fin dove l'occhio scorreva, una pace di campi ubertosi, di radi e lindi casolari, di mulini giranti sopra ruscelli dalle acque cristalline. Un asinello sul bianco dei sentieri, una mucca nel verde dei prati e al di sopra il cielo soleggiato. Quante cose voleva chiedere Marta, guardando l'interno della carrozza rimessa a nuovo in onor suo, con una bella stoffa di color turchino, i sedili imbottiti di fresco, il tappeto a rose! I suoi occhi, girando sul cocchiere campagnuolo che, a casa, doveva disimpegnare altre funzioni, si arrestarono sul cavallo. - Come si chiama? È bello nevvero? Io non ho mai posseduto cavalli e non me ne intendo affatto. - Anzitutto è una cavalla - rispose Alberto allegramente - si chiama Bigetta, non vanta grandi bellezze, ma mi appartiene da quattro anni e mi serve bene. Non è vero, Gerolamo? Gerolamo, dal suo posto, schioccò la frusta, assentendo. Marta pensò che lei, la moglie, era la straniera fra il padrone, il servitore e la cavalla. Suo marito e Gerolamo potevano intendersi con una occhiata sopra una quantità di avvenimenti a lei sconosciuti; e la cavalla stessa, quante carezze non aveva avute da Alberto prima, assai prima che ella lo conoscesse! Tutto un passato li divideva dunque, mentre ella avrebbe voluto fondersi con lui, immedesimarsi, formare una cosa sola. Che altro se non ciò doveva essere l'amore? - C'è molto prima di arrivare? - chiese mortificata quasi di non saperlo. - Tre chilometri circa li abbiamo fatti, ne restano cinque. Fra mezz'ora saremo a casa. L'Appollonia ci aspetterà. Almeno ella sapeva che Appollonia era la serva. Ne avevano già parlato; suo marito gliel'aveva dipinta come una buona campagnuola affezionata e fedele. Ma in quel momento volle sapere se l'Appollonia era bella e lo domandò a voce alta; al che Alberto rispose con uno scroscio di risa, a cui fece eco una specie di singhiozzo giulivo da parte di Gerolamo, così che Marta stessa si pose a ridere infantilmente, con molto piacere di suo marito, il quale amava le persone di buon umore. - Vedrai - soggiunse Alberto a sua moglie, toccandole la spalla da buon camerata - anderai subito d'accordo con tutti, brava gente, ottima gente. Il dottorone già, curioso, vorrà vederti per il primo. - C'è un dottore curioso? - Curioso proprio no, ma in questo caso sarà curioso, perchè mi conosce da bambino e mi ha già avvertito che vuol farti la corte. Te ne intendi tu di poesia? E di cucina? Se hai sulle dita questi due argomenti, il dottore è tuo. - E con gli ammalati parla di poesia? - Egli non fa visite a nessun ammalato; non s'intende nemmeno del polso. Deve aver studiato medicina trent'anni fa, e per questo lo chiamano dottore; ma poi ha fatto un po' di tutto, il signore, il poeta, il cospiratore, il gaudente, il soldato, tutto fuorchè il medico. È un originale, un essere squilibrato. A volte parla troppo, a volte tace dei giorni intieri. Ma se hai da insegnargli qualche piatto ghiotto, parlerà. Intanto che Alberto schizzava il profilo del suo amico, Marta, che in venti o venticinque giorni di matrimonio non si era ancora saziata di guardarlo, seguiva i movimenti della sua bocca, de' suoi occhi, la pozzetta graziosissima che il sorriso scavava nella sua guancia sinistra. Mirava ad uno ad uno i peli dei suoi baffi e l'arricciatura morbida della barba nella quale egli faceva spesso passare la mano, seguendo quella mano, attaccandosi a lui per tutti i sensi, sentendosi sempre troppo lontana. A poco a poco gli si era accostata, muta, ansando lievemente col petto. Alberto allora si ritirò nell'angolo della carrozza, gentilmente, per farle posto. - Passa il signor Merelli - disse Gerolamo senza voltarsi, con la sua voce da ventriloquo. Ma Alberto l'udì. Si sporse vivamente fuori della carrozza sbracciandosi verso due individui che costeggiavano la strada maestra. I due si levarono il cappello. - Salite? - No, grazie. Ben arrivato. Nuovo saluto alla signora. - Nessuna novità? - Nessuna. - A rivederci. Terzo saluto. - Ah! cari - esclamò Alberto abbandonandosi sui cuscini della vettura - quel capo ameno di Merelli, quel simpaticone di un farmacista! Tanto per dire qualche cosa, per interessarsi anche lei a quello che interessava suo marito, Marta chiese : - Sono tuoi amici? - Merelli sì, Merelli fin dal ginnasio; abbiamo fatto la quarta e la quinta insieme. Fu lui che il giorno onomastico del professore... Ah! ma tu non sai, non sai, che bel matto! - E l'altro? - L'altro è il farmacista, Toniolo: quello che mi diceva sempre: prendi moglie, alla nostra età è ancora il meglio che si possa fare. Il piacere di aver riveduto i suoi amici, di riprendere le antiche abitudini, coloriva il volto di Alberto e faceva luccicare i suoi occhi piccoli e buoni. Egli si fregava i ginocchi colle mani, guardando la coda della cavalla. Marta si rimproverava di non partecipare a quella gioia, di provare invece una impressione di tristezza, quasi d'invidia. Le venne in mente sua madre, sua madre ch'ella aveva un poco dimenticata durante il viaggio, e che da piccina le diceva e da grande le ripeteva: «Marta sei troppo impressionabile, troppo esclusiva, senti troppo, pensi troppo. Ciò non conduce alla felicita.» Parole che ella aveva ritenute come un'aria da organetto e che ora le tornavano alla mente, ma più chiare, della chiarezza improvvisa di un lume che s'accende. Volendo vincersi, volendo uscire da quell'esclusivismo che, a detta di sua madre, non l'avrebbe resa felice, guardò intorno la bella campagna, gli alberi, le siepi entro cui svolazzavano le farfalle. - Ti piacciono questi luoghi? domandò Alberto. - Sì, molto. - Io non posso vedermi altrove. In città sto bene otto giorni, poi sento la nostalgia de' miei campi. - A me pare che starei bene dovunque con te. - Cara! Egli disse: cara. Non era una dolce parola? Perchè Marta non esultò? Perchè rimase fredda in apparenza e muta? Ella ascoltava ancora, ripercosso nell' aria e nel suo orecchio, il suono uguale, identico a quello di un momento prima, quando aveva detto: cari! E le pareva una stonatura, una nota falsa che alterasse il valore della parola. Si chinò verso di lui, con la bocca contro il suo collo, mormorandogli nel folto dei capelli: Caro! caro! caro! Egli la respinse vivamente, indicando Gerolamo. Marta alzò le spalle. Sarebbe stato così bello baciarsi, lì, sotto il cielo fulgido, intanto che la carrozzella correva! Chi li avrebbe visti? E quand'anche! Tornò a guardare la strada che fuggiva, guardò gli alberi; dal cortile di un cascinale saliva acuto nell'aria il chiocciare di alcune galline. I mandorli fioriti allargavano le braccia, i boccioli dei peschi punteggiavano, nella freschezza rosea di labbra dischiuse, i loro ramoscelli privi ancora di foglie; e delle goccie sparse, rugiada, gomma, lacrime misteriose della natura, luccicavano sopra il verde tenero; frammiste ai fili d'argento che gli aracnidi sospendevano da ramo a ramo. Il cuore di Marta si gonfiava, pieno di tenerezza, con un bisogno di espandersi, di abbracciare, col segreto desiderio di quelle ferite per cui l'animo trabocca e dilaga in passione, deliri, abbandoni, singhiozzi, tutta la forza rinchiusa, l'intima essenza del sentimento femminile. Assetata d'amore ella disse a se stessa, stringendosi nel mantello per sentire la carezza del proprio calore. «Egli mi ama, ne sono sicura. Perchè mi avrebbe presa? Mi ama sopra tutte le donne; è mio, tutto mio!» E, sollevata, sorrise a suo marito. Alberto, che per parte sua non pensava a nulla, fu molto soddisfatto nel vedere che la sua sposina aveva un buon temperamento; questo lo persuase sempre più di aver avuto la mano felice nella scelta. La cavalla intanto, sentendo prossima la stalla, prese un trotterello giulivo. Già si vedevano da lungi i tetti del paese dominati dal campanile, e, man mano che la carrozza progrediva, qualche cascinale sparso, qualche cane che abbaiava, una fanciulla che conduceva le oche. - Sono le oche di Gavazzini - disse Gerolamo, indirizzando la sua osservazione alla signora. - Chi è Gavazzini? - È il più ricco proprietario del paese - rispose Alberto. - Tuo amico? - Non dei più intimi, ma qui si è tutti amici. Del resto egli fa vita ritirata, e sua moglie non si vede mai. Oh! un romanzo! Lei era una istitutrice, fuggirono insieme, andarono in cima di un monte a passare la luna di miele, scrissero i loro amori sulle corteccia degli alberi. Figurati, una volta si punsero apposta un dito per bere il sangue l'uno dell'altro.... quando ti dico romanzi! Marta si interessava, avrebbe voluto chiedere di più, ma la faccia di Gerolamo, che sembrava quella di un filosofo stoico in mezzo alle follie del mondo, le dava un po' di soggezione. Incominciarono le prime case allineate, coi portoni aperti, da cui si intravedevano cortili verdeggianti, gruppi di vasi, lunghi anditi freschi, riparati da tendoni a righe; una gonnella svolazzava tra due usci, un visetto curioso spuntava da una finestra, i gatti scodinzolavano sulle sedie di paglia, sbadigliando, socchiudendo gli occhi. Più innanzi, nel centro del paese, si aprivano le poche botteghe; il fornaio, il pizzicagnolo, il mercante, il tabaccaio, il calzolaio, il barbiere. - Ecco la farmacia - disse Alberto. Marta guardò. Non c'era nessuno sulla soglia; una cortina verde, strofinata e attorcigliata come una fune, lasciava scorgere nell'interno un pezzo di scansia coi barattoli di terraglia bianca e azzurra. - Ha moglie il farmacista? - È vedovo; ma la riprenderà. Che cosa deve fare? - Sicuro - disse Marta, ripetendo macchinalmente tra sè: che cosa deve fare! - Guarda la casa di Merelli; sul canto di piazza, dipinta in giallo; l'hai vista? - No, non l'ho vista. - C'era la serva davanti alla porta. - No, non l'ho vista. Ha moglie Merelli? - Sì, ha moglie. - E la casa di.... di quel signore.... quello che ha bevuto il sangue.... - Gavazzini? Ah! non è qui; è fuori di paese, isolata; più isolata ancora della nostra. - La nostra è l'ultima, nevvero? È forse questa? La cavalla rallentò, Gerolamo fece una voltata dà cocchiere esperto, e, passando da un cancello spalancato, fermò di botto nel bel mezzo di un cortile vellutato d'erba minuta, con alte muraglie imbrunite dal tempo, su cui si sbizzarriva a rabeschi una lussureggiante glicina, carica di fiori. L'aspetto generale del fabbricato e del cortile era quello di una vecchia casa borghese, comoda, dove un seguito di generazioni agiate e tranquille si erano succedute senza scosse, senza cambiamenti. Appollonia corse fuori, tutta traballante nella sua rotondità di pan buffetto, con la facciona lucida raggiante di semplicità, la bocca aperta, le mani sporche di farina. Marta, nel guardarla, non potè a meno di sorridere, e balzando lesta dalla carrozza gridò: - Buon giorno, Appollonia. Furono le prime parole che la nuova padrona pronunciò entrando ne' suoi domini. Gerolamo ammiccò segretamente Appollonia, con uno stringimento di palpebre che voleva dire: Va bene, va bene! E la grossa serva, sgangherando la bocca fino alle orecchie, mostrò di aver inteso il senso di questa affermazione. Marta non doveva dimenticare più quel momento del suo arrivo, in un ridente giorno di aprile; i grappoli lilla che fiorivano sui muri, l'erba del cortile, una pace, una serenità diffusa nell'aria, un benessere sicuro che sembrava uscire dalle muraglie della vecchia casa; perfino il volto bonario di Appollonia e il nitrito della cavalla che scuoteva il muso fine sotto le carezze di Gerolamo. Alberto, senza aspettare ch'ella si levasse il cappello, passò il braccio sotto il braccio di sua moglie e la condusse subito a visitare la casa. Niente di ricercato nè di pomposo. Una grande comodità in tutto, nella disposizione delle camere, nei mobili, negli ampi seggioloni, nei divani sparsi con abbondanza; una certa ricchezza tradizionale ma tranquilla; buoni quadri, stipi intarsiati, biancheria accuratissima, delle vecchie maioliche di famiglie. - Queste sedie le ha ricamate mia madre - disse Alberto. Erano otto sedie di legno chiaro con profili dorati, coperte da ricami a mezzo punto, bellissimi, tutti l'uno differente dall'altro. Marta le ammirò religiosamente, commossa. - Questo è il mio ritratto di quando ero bambino. Marta vi si precipitò sopra, coprendolo di baci e di esclamazioni, portandolo sotto alla finestra per esaminarlo meglio. - Come è bellino! Care queste spalluccie nude! E che occhietti! E le manine, Dio, che manine... ma avevi le mani così piccole allora? - Caspita, i bambini!... Risero entrambi, stringendosi il braccio, felici. Salirono così lo scalone che conduceva al piano superiore. - Ma è tutto bello qui, sai? - Sì, non c'è male. È comodo. Entrarono nella camera da letto. Tre finestroni la illuminavano, facendo penetrare i raggi del sole attraverso un ricco cortinaggio di stoffa a fiori sopra un fondo cilestrino. Della medesima stoffa era il parato del letto, altissimo, ampio, per metà ricoperto di un piumino di seta celeste, sull'orlo del quale ricadeva, accuratamente stirata, la trina del lenzuolo. Sulla pettiniera un'altra trina, nel festone della quale serpeggiava un nastro celeste, faceva da sopporto a un servizio di cristallo, lucentissimo. Sugli specchi, sulle cornici non si scorgeva un atomo di polvere. - È stata l'Appollonia a preparare queste belle cose? - Lei, certamente. Vi avrà impiegato tutto il tempo che ci volle a noi per percorrere l'Italia; ma infine, ognuno fa quello che può. Marta, levandosi il cappello e la spolverina, sedette sul divano che era ai piedi del letto, sentendosi finalmente in casa propria. - Oh come si sta bene qui! Tese le mani a suo marito, invitandolo a sedersi anche lui sul divano. Ora non dubitava più di essere la signora Oriani. La sua felicità doveva incominciare da quel momento; prima era stata una corsa vertiginosa, contraria all'amore. L'amore ha bisogno di un nido. Marta sollevò gli occhi, girandoli torno torno come per prendere possesso d'ogni cosa; e quando ebbe ben riguardata la camera, il letto, le cortine a fiori, fissò Alberto con un'estasi tale di riconoscenza, di tenerezza timida e ardente, che egli, un po' sorpreso, la baciò, non sapendo che dire. Ella trasalì tutta, colla speranza di una rivelazione. - O mio Alberto, mi amerai sempre, sempre? - Che domanda! - Dillo! - Ne dubiti dunque! - Dillo... - ripetè Marta, stringendosi, avviticchiandosi a lui tutta tremante, con la bocca socchiusa. Un'ondata di sangue colorì la fronte di Alberto, che rispose per la durata di un attimo alla stretta di sua moglie. Poi si sciolse, dolcemente, ravviandosi i capelli. - Andiamo - disse - non facciamo ragazzate.

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Il pranzo, cui aveva presieduto il dottorone in qualità di cuoco consulente, si annunciava squisito con una specie di cappelletti fatti in casa, mescendo pane grattugiato, cacio, salsiccia e uova; cotti poi rari nantes in gurgite vasto nel socculento brodo di due capponi maritati lì per lì a un pezzo di manzo vero lombardo. - Signori - disse il dottorone appendendosi il tovagliolo sotto il mento - vi invito al maggiore raccoglimento, ad una concentrazione religiosa davanti a questa tavola imbandita con ogni ben di Dio. Mangiate, o signori; la mensa è l'unico vero. Toniolo, a capo tavola, sorrise, volgendo begli occhi di velluto alla timida sposina che non osava contraccambiargli l'occhiata. Il vocione di Merelli tuonò, attraverso i cucchiai rumoreggianti: - Per un pranzo di nozze avresti potuto dire qualcos'altro. - Oh! - fece il dottorone col naso nella scodella - non incominciamo troppo presto. Le due sorelle incipriate abbozzarono un mezzo sorriso, indecise tra il fare la furba e il fare la ingenua. Avevano tutte e due un nastro celeste nei capelli e dei braccialetti di similoro; mangiavano smorfiosamente, avvicinando alla bocca la punta del coltello, lasciando sempre qualche cosa sul piatto, accomodandosi ad ogni istante il busto e la cintura. La maggiore, quella maritata, sedeva vicino ad Alberto, che conosceva fin dall'infanzia. Quantunque non si vedessero più da parecchi anni, gli parlava, con molta animazione, e non avendo nessun altro da conquistare, per il momento, sfoggiava con Alberto tutte le sue risorse, prendendosi una famigliarità di amica d'infanzia, con una certa irrequietezza nei ginocchi che faceva fremere Marta dall'altro capo dalla tavola. Marta oramai tenevasi sicura della fedeltà di suo marito, ma ne era gelosa sempre; sarebbe stata gelosa di una vecchia, di un bambino, così come era gelosa de' suoi amici e di tutto ciò che egli amava. Non aveva la sicurezza audace di colei che ha visto un uomo delirare a' suoi piedi, quella sicurezza che mette un raggio intorno alla fronte, per la gioia del dominio, per l'ebbrezza dei sensi soddisfatti, e quel corteggio di memorie che avvolge come in una nuvola, che solleva al di sopra dei mortali, per cui tutto in lei, incesso, parola, sguardo, rivela la donna amata, la trionfatrice. No. Marta si sentiva debole, mal sicura, diffidava di se stessa, provava I'avvilimento di un soldato che dopo essersi preparato ad una rude battaglia trova il campo libero e il nemico che dorme sotto la bandiera bianca spiegata. In questo stato d'animo, ogni piccola cosa la irritava, le dava ombra; trovandosi malcontenta non era più nemmeno gentile; non compativa e non tollerava più nulla. Una sorda antipatia le sorgeva in petto per la sorella di Toniolo, vedendo ch'ella osava servirsi del pane di Alberto, toccarlo sul braccio, parlargli così vicino col volto che i loro capelli quasi si confondevano; e chiamarlo ad ogni momento: «Oriani! Dica Oriani! Non è vero Oriani?» Aveva una vocetta stridula e volgare, voce da pettegola, a cui ella dava certe inflessioni pretenziose, false come l'oro de' suoi braccialetti e come il biondo della sua zazzera. Evocarono dei ricordi d'infanzia: «Rammenta quella sera della luminaria? E quando si improvvisò un ballo in farmacia? E quando ella gli aveva cucito l'abito, per ischerzo?» Alberto rideva, eccitato, di buon umore; nella pienezza della sua salute inalterabile, nella felicità del suo cervello tutto al momento presente, senza dubbi, senza curiosità nè per il passato, nè per l'avvenire. Invece la mente inquieta di Marta continuava a struggersi. Prima di uscir di casa ella aveva baciato Alberto al suo posto prediletto, dietro l'orecchio, facendogli promettere che a tavola, quando ella lo avrebbe guardato, ricorderebbe quel bacio e sarebbe come se ne ricevesse un altro. Ma Alberto la guardava smemorato, si capiva, attratto dalle ciarle della sua vicina, messo in vena allegra dall'ottimo vino, dal pranzo squisito. E di mano in mano che a suo marito cresceva il buon umore, cresceva a lei la tristezza. Si domandava se quelle erano le gioie della vita; mangiare, bere, discorrere con degli indifferenti, sorridere a delle sciocchezze, divertirsi a delle puerilità. Già le allusioni più o meno velate correvano or all'uno or all'altro dei due sposi, facendo arrossire la novizia e piombando Toniolo in una vanitosa beatitudine. Merelli sfondava una parete ad ogni parola che gli usciva di bocca. Il dottorone, intento ai piatti, andava dicendo inutilmente: «È troppo presto, è troppo presto.» Il diapason scottante continuava a salire con un crescendo meraviglioso. Una specie di nebbia avvolgeva la mensa, evaporazione delle vivande, dei doppieri accesi, fiato, sudore, odor di vino e di pasticcio caldo, con una sottile venatura di muschio che partiva dalle due sorelle di Toniolo. Le faccie dei commensali, rubiconde, si confondevano colle piramidi di mele, tagliate a mezzo dalle bottiglie, spostate dall'animazione crescente che faceva muovere i più giovani dalle loro sedie, ritornarvi, ripartirne ancora. La sorella nubile di Toniolo aveva sbucciata una melagrana e girava attorno, offrendola sulla mano, con attitudine civettuola e provocatrice. Marta vedeva tutto ciò nella impassibilità letargica di un sogno, trovandosi sempre più isolata e più triste. Le venivano in mente cose tragiche: la morte di suo padre, un fanciullo ch'ella aveva visto cadere da una finestra, le crociere degli ospedali, i manicomi; e poi un dolore al cuore ch'ella aveva provato, da giovinetta, e che avrebbe potuto essere vizio cardiaco incurabile. Guardava Alberto con una passione, con uno struggimento di tutto il suo essere che le affilava il volto, che le toglieva qualsiasi altra sensazione. Ad un tratto, in mezzo al vociare generale, colse a volo questa parola «Elvira» che la vicina di suo marito aveva pronunciata con malizia, nascondendosi dietro il ventaglio. Per cinque minuti buoni, l'incrociarsi dei piatti e dei bicchieri, gli evviva tumultuosi, le impedirono di vedere Alberto; ma quando il di lui viso apparve accanto a quello della bionda incipriata, l'argomento doveva essere cambiato, ed era evidente che si facevano dei complimenti reciproci sulla precedenza nell'assaggiare dell'uva di Corinto. Marta pensava che sul cavalletto di tortura si può almeno gridare. Al contrario ella doveva stare composta, con un certo qual sorriso di partecipazione alla gioia degli altri e rispondere, tratto tratto, alle parole che per cortesia le rivolgeva il suo cavaliere di destra, e mettere pure in bocca qualche cosa e fingere di bere. Dal suo cuore gonfio si sprigionavano delle lagrime che ella sentiva affacciarsi alle palpebre. Era così persuasa di essere brutta, sciocca, incapace di farsi amare, che avrebbe in quel momento desiderato di morire; senonchè un amaro rimpianto, il desiderio insoddisfatto delle ebbrezze terrene, la trascinava violentemente verso suo marito, il solo a cui poteva, a cui voleva chiederle; e in questa tenzone odiava tutto il mondo e se stessa. Pare impossibile - pensò il dottorone riposando le mascelle e le mani, coll'occhio lucido, il torace prominente - come quella donna cambia ad un tratto. Non si direbbe più lei. Un momento dopo mettendosele vicino, ancora col tovagliolo al mento ma con un raggio diverso nelle pupille, quasi il suo cervello staccandosi improvvisamente dal corpo volasse in regioni eteree, le disse: Che follia festeggiare le nozze con inviti e brindisi! È la stessa follia che fa dipingere l'amore rubicondo, paffuto, intento a ridere e a trastullarsi, mentre si dovrebbe cercare l'amore nello scheletro più distrutto della danza macabra; uno che non abbia più nemmeno le occhiaie per tenervi le lagrime, e il petto squarciato da cima a fondo. Così vorrei dipingere l'amore! - Sì, sì - fece Marta senza comprendere, solo perchè quelle parole tristi rispondevano alla sua tristezza. Al caffè si ruppero le file. Alberto, sempre gentile, venne a chiedere a sua moglie se avesse pranzato bene. - È fortunata - disse la signora Merelli mettendosi al fianco di Marta. - Io, nel suo stato, mi sentirei orribilmente; tolta quest'ultima gravidanza, che è andata un po' meglio, tutte male, tutte male! - Mia moglie non vuol sentir parlare del suo stato, - soggiunse Alberto sorridendo - non ci è ancora avvezza. Lei potrebbe darle qualche lezione, signora Merelli! - Buon Dio! - esclamò la prolifica signora giungendo le mani. - Sono uscita ieri di puerperio. Ma lei sta proprio bene, carina, nevvero che sta bene? Nausee, al mattino, non ne ha? - Un poco, quasi nulla, - rispose Marta, seguendo collo sguardo suo marito che si allontanava. - Sarà un maschio allora. E bruciori di stomaco? - No. - Segno che non avrà capelli. - Non avrà capelli? - Nascendo, s'intende. De' miei figli, solo la Pina e l'Adelina erano calve; gli altri vennero al mondo pelosi come Esaù. Ma che bruciori di stomaco, le dico!... Del resto è fortunata in tutto; non si accorge nemmeno... parola d'onore; sembra una bimba. Alberto si era appoggiato al caminetto insieme a' suoi amici. Avevano accesi gli sigari e nel benessere sensuale della digestione la loro affettività d'uomo esplodeva con gesti vivaci, con romorosi scoppi di voce e colpi di mano. Lucide le facce, gli occhi scintillanti, essi discorrevano fra loro in un gergo speciale, a sottintesi, urtandosi coi gomiti. Alberto, il più educato, si poneva davanti a Merelli quando parlava, per impedire che le di lui parole giungessero all'orecchio delle signore; Toniolo invece vi si crogiolava, nella voluttà egoistica di un gattino che fa le fusa. - Sibarita! - mormorò il dottorone - si prepara lo stomaco cogli stimolanti. La sposina intanto, circondata dalle donne, si lasciava ammirare ed invidiare, facendo girare gli anelli sulle dita, più stordita che contenta, rispondendo a monosillabi.

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- Senza dubbio; eppure egli ha preferito questa sposina, nè io so dargli torto - tornò a dire dolcissimamente la signora Merelli. - Già, le ragazze del paese non hanno i vezzi delle cittadine, - esclamò con enfasi la sorella di Toniolo. - A proposito, non si è saputo più nulla dell'Elvira, la maestra? A questa improvvisa e inopportuna domanda, la signora Merelli stette per perdere le staffe, osservando che Marta impallidiva. Tossì, tuttavia, si spianò le gale dell'abito, e disse col suo bel candore: - E chi ci pensa più? Manca da tanti anni! - Oh! questo non serve - rimbeccò l'altra malignamente, - quando si sono lasciati certi ricordi dietro a sè... Non dicevano che avesse avuto un figlio? - Quante calunnie! La signora Merelli, indignata, tese la mano quasi per attestare l'innocenza dell'assente, Marta afferrò quella mano, e alzandosi, e trascinando con sè l'ottima creatura, uscì dalla stanza, soffocata dai singhiozzi. Alberto che l'aveva vista uscire, le tenne dietro subito. - Non si spaventi - disse la signora Merelli - fa un po' caldo in sala, e poi tutti quegli sigari! Per quanto si stia bene, lo creda a me, qualche cosa si soffre sempre... - Ti senti male? - chiese Alberto con premura. Marta gli si appese al braccio, negando col capo; e quando la signora Merelli, vedendola al sicuro ritornò nella sala da pranzo, ella mosse verso il cortile, proprio come se provasse un senso di soffocazione. Il cortile della farmacia era messo a giardino, con delle scalinate di fiori e degli arrampicanti piantati dentro a botti vuote. La luna lo batteva in pieno, rischiarando ogni angolo colla sua luce fredda ed eguale di doccia. Marta si gettò nelle braccia di suo marito scoppiando in lagrime. - Ma Dio, Marta, che hai? - Dimmi che mi ami, dimmi che mi ami... Alberto pensava che se lo avessero sorpreso nel cortile, abbracciato con sua moglie, sarebbe diventato lo zimbello degli amici. - Via - disse con un leggero accento di rimprovero - sono scene da bambina, torna in te, sii ragionevole. Siamo qui per divertirci e non per piangere. Ella raddoppiava le lagrime, avviticchiata al suo collo, tremando, spasimando. Marta... insomma! Pensò poi che fossero fenomeni nervosi inerenti alla prima fase della gestazione, e per il rispetto che professano gli uomini a questo misterioso travaglio femminile, replicò con dolcezza annoiata: - Lo sai bene che ti amo. - Dimmelo ancora! - Ti amo. Ma ella non si staccava, sospirando sempre, aspettando che un guizzo, un fremito passasse dal corpo di lui al suo, dandole la sensazione di un'anima sola, rispondendo a ciò che ella stessa provava, la vita, la rivelazione attesa... ed egli se ne stava ritto, rassegnato, e la luna li illuminava entrambi freddamente serena. - Camminiamo, ti passerà. Marta non disse più nulla. Docilmente si lasciò infilare la mano nel braccio di suo marito e fecero due o tre giri intorno alle botti degli arrampicanti. Egli non sapeva che cosa dirle. L'umidità della sera, forse, le avrebbe dato noia? Ma doveva sentirla anche lei. Non era un gusto, davvero, aver lasciata una stanza calda, un crocchio di amici, un buon bicchiere e delle ciarle e degli scherzi, per passeggiare tondo tondo in un cortile. - Ti senti meglio? - domandò infine. Marta fece un movimento impercettibile colle spalle, schiuse le labbra senza poter parlare ed appoggiò il cuore, che le batteva violentemente, contro il braccio di lui. Egli stette ancora un momento incerto, guardò l'uscio della sala da cui usciva uno sprazzo di luce allegra, guardò sua moglie, le botti, il cortile deserto, e: - Se rientrassimo?...

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«....La prefazione è splendida, e credo fermamente sia quanto di più notevole si sia scritto da molti anni a questa parte intorno agli intenti del romanzo. «...Predomina nel romanzo la ricerca decisa, quasi febbrile, della verità. Il Valcarenghi ha avuto il coraggio di dominare coll'idea il sentimento, e di studiare a fondo l'anima propria non badando ai dolori, agli strazi di vedere mille illusioni andarsene, dinanzi alla necessita ineluttabile del vero scientifico. «....Il romanzo del Valcarenghi sintetizza in modo chiaro e semplice quello cui pochi hanno accennato appena, e che infine è nella coscienza di molti. Neera, Gerolamo Rovetta, Antonio Fogazzaro, Bruno Sperani, Filippo Turati, Memini non hanno potuto leggere le Confessioni di Andrea, senza provare una commozione profonda. «....Il romanzo italiano, per vivere, ha bisogno di giovani, che, come il Valcarenghi nutrano forti convinzioni e principii veramente positivi.» Rivista di Filosofia Scientifica (Agosto 1888).

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«Dopo Baci perduti: Sotto la Croce; vale a dire, dopo le scene della vita borghese, il romanzo. Questo prova che il Valcarenghi non si è fermato sul successo di quel primo lavoro, ma che ha voluto far qualche cosa di più seriamente pensato. «L'argomento è una storia triste, ma vera, uno dei romanzi umani che leggiamo nella vita d'ogni giorno. I fatti si succedono naturali ed i caratteri, per lo più, sono disegnati con cura e sempre conseguenti a lor stessi. Anche la forma è generalmente buona. «.....Sotto la Croce, non ostante difetti parziali, è sempre un romanzo di merito e di merito grande.» Gazzetta letteraria (20 Febbraio 1886).

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«....Già più d'una volta ebbi a lodare, ed anche in queste stesse colonne, dei libri sinceri; principalmente perchè sinceri. Eccone un altro da aggiungere al numeroso stuolo. «....Innamoratomi alla prefazione, bellissima, lo divorai tutto in un fiato....» FILIPPO TURATI, nell'Italia (1 Aprile 1888).

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A. FOGAZZARO, nella Provincia di Vicenza (18 Marzo 1886).

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«È un racconto semplice, alla mano, senza arruffate vicende, nè intrecci a sorprese, che si legge volontieri per la spontaneità dello svolgimento e la chiarezza dell'elocuzione corretta: due pregi di buon novelliere, che non si possono negare al Valcarenghi.» Giornale La Domenica del Fracassa di Roma (24 Maggio 1885).

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«Ma la migliore, a mio giudizio, è la terza, Amore e fame. In essa è tratteggiata splendidamente la lotta contro la miseria, contro l'esaurimento delle forze intellettuali, a cui sopravvive e grandeggia l'amore. «Non prenderò qui in esame le altre novelle: ognuno, leggendo il libro, potrà trovare da solo le bellezze in esso contenute, e gustare quei pregi di cui il rinomato Autore sa ornare i suoi scritti.» Giornale di Udine (26 Dicembre 1888).

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«Il racconto è dedicata ad una bambina, la figlia dell'autore, il quale con una prefazione che è una vera gemma, la affida a lei, rivolgendole fra le altre queste delicate parole: «O piccola fata, lascia che, come segue la fortuna, «preceda queste pagine, nel mio pensiero «l'immagine tua... Quando i tuoi labbrucci si schiu dono «verso di noi e il lieve sospiro del tuo cuo ricino «si confonde col nostro, non ti dice, Lina, «quella gara di baci qual vuoto crudele la tua presenza «ha colmato?» «L'azione del racconto è semplicissima e si svolge con la più serena naturalezza. «La falsa posizione di una giovino donna moglie a un uomo che non sa nè può amare, costituisce la tela nella quale è ricamato il racconto. Paolina, che potrebbe abbandonarsi nelle braccia di Massimo è trattenuta dal culto per la sua bimba morta sulla tomba della quale ella si reca con Massimo a piangere e pregare. «L'autore dell'Abbandono e delle Macchiette, possiede oltrechè una intuizione felicissima nel tratteggiare i caratteri, una stupenda tavolozza per dar risalto alle figure e all'ambiente nel quale le fa muovere e agire. E però reputo che la lettura di questo nuovo suo libro piacerà senza dubbio a tutti, perchè non soltanto è dilettevole, ma pure naturale.» Dall'Alabarda Triestina (Luglio 1888).

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A. G. CAGNA ALPINISTI CIABATTONI Elegante volume in-16 con copertina illustrata L. 2.

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Merelli apparve, alto, complesso, coi baffi rigogliosi, la pelle lucida e piena, lo sguardo lucente; una certa eleganza campagnuola negli abiti, che le sue membra riempivano fino a tenderne le cuciture; tutt'insieme, un aspetto di uomo sano e senza fastidi; una voce da toro. - Giulietta! Giulietta! - si pose a gridare, intanto che aiutava la serva a sgomberare il cammino, sorridendo in pari tempo ai visitatori. Una faccina da monello, leggermente imbrattata d'inchiostro, uscì curiosa da un paravento. - Va a chiamare tua madre - tornò a gridare Merelli - sporcaccione! La servetta era riuscita, in questo frattempo, ad aprire prima l'uscio e poi le finestre del salotto, passando accortamente una mano sulle sedie più in vista, e con atto cerimonioso invitò Marta a prender posto sul divano. - Ecco mia moglie - disse Merelli andando incontro a una donnina nè bella, nè brutta, col petto liscio, e il ventre sporgente, un profilo da madonna invecchiata troppo presto. La signora Merelli salutò, un po' impacciata, inesperta, tenendosi per mano una marmocchietta che rosicchiava una crosta di pane. - La famiglia è tutta qui? chiese Alberto girando gli occhi. - Questa è l'Adelina: smetti di mangiare, via! Battistino era là quando sei entrato, dietro il paravento, a farne delle sue; il piccino lo hai visto, nevvero? e tre. La Pina è a letto, un po' indisposta; il quinto è in viaggio... Dopo questa enumerazione il silenzio gravò, penoso, per cinque minuti. - Si annoierà in campagna - disse la signora Merelli, con una voce stanca - se è abituata alla città... - No, no, la vita di noi donne non è nella famiglia? La signora Merelli assentì, facendo un lieve tentativo per togliere di bocca il pezzo di pane alla piccola Adelina. - Questo paese poi è simpatico, la posizione è bello... Lei ci è nata? - Non qui, ma vicino. Mi trovo in questa casa da dieci anni. - Già dieci anni? - Molti nevvero? e - soggiunse la signora Merelli con un sorriso rassegnato - in dieci anni cinque figli e quattro aborti... Marta arrossì. Non era ancora avvezza a queste confidenze di donna maritata. Involontariamente guardò il signor Merelli, poi la piccina, poi si pose ad abbottonarsi un guanto. Si udivano i respiri delle quattro persone e della personcina: - Mi pare che non tieni allegri la signora sposa! - tuonò Merelli - e dov'è andata Ninetta? Ninetta! Con la prontezza di un baleno la serva apparve. - Prepara il caffè. Alberto volle protestare, Marta anche. - Che? disse Ninetta. È subito fatto. - Non prendo mai caffè - soggiunse Alberto - e mia moglie... Ninetta intervenne lestamente: - Un bicchiere di vin bianco allora? - Brava! - fece Merelli. - Ben pensato; va' a prendere il vin bianco. Durante la piccola discussione la signora Merelli non s'era mossa, con le mani incrociate sul grembo, dolcemente. La bambina, accanto a lei, rosicchiava il suo pane con un grazioso rumore di topolino sotto un uscio. Ninetta tornò, sorreggendo con una mano il vassoio carico di bicchieri, coll'altra tenendo la bottiglia. - Conduci via l'Adelina - le disse piano il signor Merelli - non vuole ubbidire. La serva rispose con un'occhiata d'intelligenza, ma prima stappò la bottiglia, versò il vin bianco e lo servì, e siccome Marta esitava, ella la incoraggiò, assicurandola che era vino schietto, fatto in casa. Indi prese per un braccio l'Adelina, scuotendola un poco, mormorandole all'orecchio che era una cattivaccia, e se la trascinò dietro in cucina. Marta, che pure aveva una certa pratica di società, non trovava una parola. Guardava quella famiglia singolare, cercando inutilmente lo sguardo di suo marito, che sembrava sotto il fascino di Merelli. - Ha la mamma, nevvero? - chiese ad un tratto la voce fioca della signora Merelli. - Si, ho la mamma. - Il padre no? - No, sgraziatamente. - È proprio una disgrazia quando muore il capo di casa! La signora Merelli, che era rimasta coll'occhio vagante, quasi seguendo nell'aria lo svanire delle proprie parole, riprese, rassegnata sotto il peso dei suoi doveri di padrona: - E fratelli? - Nessuno. Ero io sola con la mamma; ora sono sola con Alberto. - Ma non starà a lungo sola! - soggiunse con una grossa risata il signor Merelli. Marta tornò ad arrossire. - Vorrei andare un momento a vedere la Pina - mormorò la signora Merelli, che aveva esauriti tutti i suoi argomenti di conversazione. - Va e conduci la signora. - Oh!... non è un divertimento... Marta protestò che le avrebbe fatto piacere conoscere anche l'altra bambina. S'avviarono su per una scala modesta, cogli scalini di mattonelle, ed entrarono in uno stanzone che serviva di guardaroba, di dormitorio e di ripostiglio per gli stivali del capo di casa: stivali rossi di cuoio, stivaloni lunghi a gambiera, uose, tiranti, il tutto allineato lungo una parete, colla canna di un fucile che luccicava in un angolo e la casacca di fustagno dai bottoni di rame, gettata sullo schienale di una sedia, tesa ancora e quasi calda della plasticità vigorosa di chi la aveva rivestita. Davanti al letto della piccina, intanto che Marta ne lodava il volto intelligente, la madre sospirò: - Lei è adesso nella sua luna di miele... le auguro che duri a lungo. - Oh! sempre - esclamò Marta con vivacità. Un'espressione di meraviglia passò negli occhi della signora Merelli, che poco dopo soggiunse: - Almeno non avesse troppi figli... perchè qualcuno ci vuole, ma troppi! Io non ho aspettato neanche un giorno; nove mesi giusti dal dì del mio matrimonio nacque Battistino. - Davvero? - fece Marta - È egli possibile? - Come le dico. E ho sofferto tanto quella volta! Si allontanò dal letto voltando le spalle alla bimba: - Tre giorni interi coi dolori e poi un male, un male... Marta ascoltava, terrorizzata, sentendosi un brivido alla superficie della pelle. Dopo un po' di silenzio si arrischiò a domandare: - E gli altri? - Meno; tuttavia è una gran brutta parte che il Signore ha dato a noi donne. Gli uomini hanno tutto di buono, essi! Quante domande sulle labbra di Marta! Quella donna maritata da dieci anni avrebbe potuto scioglierle una quantità di problemi, ma non osò. Diede timidamente un'occhiata all'esercito degli stivali e a quella casacca baldanzosa, meditando le parole: hanno tutto di buono essi! E le parve di sentire l'eco di risate rumorose, di passi pesanti, di parole alte e brutali, tutto un egoismo scettico di padroni e di conquistatori. Di ritorno nel salotto provò un'impressione di sollievo vedendo Alberto. - Partiamo? - gli disse. Egli rispose gentilmente: - Come vuoi. Nell'andito sbucò fuori la Ninetta, complimentosa, aggiungendo i propri saluti a quelli che i suoi padroni andavano facendo agli sposi. Le due signore si abbracciarono, promettendo di vedersi spesso. Ninetta soggiunse: - Ma sì, venga! Quando la porta della casa gialla fu chiusa, Marta si strinse al braccio di suo marito. - Ti sei annoiata un pochino? - chiese egli ridendo. - No, ma desideravo trovarmi sola con te. Mi pare che tutti gli altri abbiano a portarmi via qualcosa del mio Alberto, perchè tu sei mio, non è vero? - Oramai, se anche non volessi, è cosa fatta. - E quel signor Merelli è lui pure tutto di sua moglie? - chiese Marta insidiosamente. - Oh! capirai, non posso saperlo... - Non mi piacerebbe per marito. - Ne sono ben lieto. - È grossolano. - Un pochino. - E troppo pingue. - Converrai che di questo non ne ha colpa. Sua moglie, che te ne pare? - Una buona donna, con poco spirito se vuoi, oh! ma ha sofferto tanto. - Ti ha raccontato?... - Si, il suo primo parto... - Ah! solamente ciò? - Sicuro - fece Marta, dandosi l'importanza di una matrona iniziata a segreti misteri. Tacquero fino a casa. Sulla soglia trovarono il dottorone, impettito. Egli, che era già stato presentato a Marta, la salutò chiedendole che cosa l'era parso dei coniugi Merelli. - Ma... gentili. - E la servetta? Il dottorone lanciò questa domanda con tale malizia negli occhi, che Marta stupì. - Andiamo - fece Alberto prendendo il, dottore sotto braccio - vieni a desinare con noi. - Non posso. Ho a casa una galantina di lepre con certi tartufi che sono una meraviglia. La mia serva non ha l'abilità della Ninetta... ma per la galantina! Si baciò la punta delle dita, sempre con gli occhi birichini, e fatta una scappellata alla signora, e detto che s'era fermato apposta per augurarle il buon pranzo, se ne andò, lento lento, col corpaccione male assettato nell'abito nero, coi calzoni color lumaca troppo corti, il cappello a tuba posto in bilico sopra l'orecchio. Marta si spogliò in fretta; doveva preparare una salsa di cui ella sola conosceva la ricetta e che, nel suo ardore di neofita, giudicava più accetta ad Alberto, se fatta da lei. Comparve a tavola tutta rossa, impaziente di conoscere l'esito. Quando Alberto ebbe dichiarato che la salsa era gustosa, allora si calmò; mangiò e bevve di buonissimo umore; fece l'enumerazione dei piatti che preferiva, combinandoli con quelli preferiti da Alberto, vedendo con soddisfazione che si incontravano nel gusto. - E, dimmi - esclamò improvvisamente - che cosa intendeva il dottore con le sue allusioni alla serva dei Merelli? Alberto era l'uomo meno adatto del mondo a nascondere checchessia; rispose, un po' imbarazzato, che il dottore scherzava volentieri. - Non è ciò - interruppe Marta a cui si schiarivano le idee meravigliosamente - se non ci fosse nulla di positivo, lo scherzo non avrebbe avuto ragione d'essere. - Ebbene, disse Alberto, pensando che, in fin dei conti, la cosa non lo riguardava affatto e che Marta l'avrebbe saputa egualmente - Merelli fa all'amore colla Ninetta. - Così? - esclamò Marta sgranando gli occhi. - Come, così? - In presenza della moglie... - Ma!... - Con tanti bambini? - I bambini non c'entrano, - Ma è un orrore! - Certo non lo approvo. - Tu non avresti questo coraggio, eh? - Non mi sono mai piaciute le serve. - Ah! - tornò a fare Marta con un sospiro di sollievo, mentre l'onesto faccione dell'Appollonia le attraversava il pensiero. E dopo un po' di tempo mormorava ancora: - È un'infamia, è un'infamia. Ma perchè sei amico di quell'uomo? - Oh! bella, dovrei levargli il saluto in causa del suo gusto per le serve? È una debolezza in lui, non può correggersi. Ninetta non è la prima. - Ma sua moglie? Poverina, voglio avvertirla... - Non ci mancherebbe altro! - Almeno consigliarla a tener serve vecchie.... - Non ci stanno in quella casa, con tutti quei bambini, rifletti. - Oh! povera donna, povera donna! - Senti - continuò Alberto prendendo le mani di sua moglie per calmarla - secondo ogni probabilità, la signora Merelli non sospetta niente; e se lo sospetta, forse non ci pensa; può anche darsi che lo sospetti, che ci pensi, ma che non gliene importi un cavolo. In tal caso tocca a noi farci cattivo sangue? Marta stette zitta un momento. - È impossibile - scattò poi - che ella resti indifferente! - E perchè impossibile? - dopo dieci anni di matrimonio... - Alberto, che cosa dici? L'amore fra marito e moglie non deve essere eterno? - Cara mia, se tutte le cose che dovrebbero essere, fossero! - Tu dunque fra dieci anni non mi amerai più? E amoreggerai?... L'Appollonia tornò a passare nella mente di Marta portandovi un raggio così giulivo che, nel bel mezzo della sua indignazione, dovette sorridere; di che accorgendosi Alberto, disse: - Ma sì, farò all'amore coll'Appollonia. Ella rideva, adesso; avendo posata la fronte sulla spalla di suo marito, eccitata da un ordine nuovo di idee che le si erano parate dinanzi. - Però, senti, non capisco come una persona educata, un uomo che ha studiato, infine che non è un villano del tutto, possa perdersi con le serve. - Anche un uomo educato non trova sempre delle duchesse, mia cara Marta, e poi, se ti dico che è il suo debole! Vuoi uscire a fare due passi in giardino? - No. Ella tornava al suo argomento, appassionandovisi con una voluttà rabbiosa e crudele. - Ma non pensa alle conseguenze, al disonore della ragazza, a... - Che cosa vuoi che pensi!... Finiamola, se non ti dispiace, coi Merelli. Alberto si era levato in piedi, non dissimulando una certa seccatura, e passeggiava innanzi e indietro fermandosi ogni tanto a guardar fuori dalla finestra. Marta sentì una stretta al cuore. Non cambiò positura, non si mosse. Aveva ancora davanti il piatto sul quale stavano alla rinfusa dei picciuoli di ciliegia; li prendeva a due a due, allacciandoli insieme per vedere quale si rompeva; a conti fatti, i picciuoli rotti erano in gran maggioranza. Li riunì con cura in un monticello. - Hai detto all'Appollonia che non faccia più tanto rumore, alla mattina, co' suoi zoccoli? - Sì, gliel'ho detto. - E tu sarai così buona da cucirmi, domani, quei bottoni alla mia casacca di velluto? - Sono già cuciti. - Oh! che tesoro di donnina. Ella sperava ancora che l'avrebbe guardata in faccia; ma Alberto si fermò dietro la sedia di sua moglie, accarezzandole il collo colla punta dell'indice. - Addio, vado fuori un po'. Chinossi, baciandola sulle guancie, sonoramente. Marta rispose: addio - e si strinse nelle spalle, sembrandole che la stanza diventasse fredda.

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Quello che non sapeva è che il suo destino veniva messo a partito da parecchi mesi fra cinque o sei candidati scelti e vagliati dalle amiche della mamma, per cui fu successivamente sul punto di diventare la signora De-Martini, con un vedovo, capitano, nobile, uomo d'ordine, discretamente provveduto; oppure la signora Valdranchi, sposando Valdrauchi, lo scultore di grido, che non aveva un soldo, ma guadagnava assai, simpatico giovinotto a cui fioccavano le avventure galanti. Si era contemporaneamente preso in considerazione Anselmo Bianchi, negoziante di grani, un po' alla buona, piacente tuttavia e ricco. Tre individualità assolutamente opposte, ma che, presentandosi in forma di marito, offrivano le stesse garanzie di felicità per la sposina, a detta delle amiche. De-Martini, alto, sottile, biondo, un po' calvo, pieno di distinzione, tranquillo, educatissimo, doveva piacere a Marta. Valdranchi, piccolo, vivo, abituato alle compagnie equivoche, ma col fuoco del genio negli occhi, irrequieto, simpatico, doveva pur piacere a Marta; e non vi era nessuna ragione perchè non potesse piacerle Anselmo Bianchi quantunque non più sul fiore degli anni, sano tuttavia, con una villa quasi principesca, provveduta di una serra immensa, dove Marta avrebbe potuto soddisfare la sua passione per i fiori. Di questo paragrafo fu preso nota con molto interesse nel crocchio delle amiche. Intanto che si discutevano le probabilità di tali matrimoni, che si era già invitato a pranzo De-Martini, e che si era fatto parlare al signor Bianchi della somma ventura per lui riposta in una brava moglie; quando si stava persuadendo Marta che i capi scarichi sul genere del Valdranchi diventano, alla lunga, i migliori mariti, capitò Alberto Oriani. Guarda - osservò una cugina - che bella combinazione, Oriani! E Marta è Oldofredi; non cambierebbe nemmeno le iniziali. Su questa felice scoperta si incominciarono le trattative. Alberto Oriani non era nuovo del tutto per la famiglia Oldofredi; la mamma lo aveva conosciuto dieci anni prima; e poi a scuola, una Oriani faceva lo stesso corso con lei, oh! si rammentava benissimo; una morettina dagli occhi fulminei. Alberto viveva in campagna, sorvegliando un suo podere; solo, agiato, galantuomo, trentasette anni, la stanchezza del celibato, il desiderio chiaramente espresso di prender moglie per finirla con la vitaccia di scapolo. La mamma, i parenti, le amiche si guardarono in faccia e gridarono: È lui! Come poi Marta lo vide, parve il caso. Dopo aver passato tutta una sera a teatro, avente al proprio fianco un giovanotto bruno, amabile, con una vaniglia all'occhiello che odorava deliziosamente; dopo essersi accordati sul merito della commedia e sugli abiti della prima attrice, creando così una specie di simpatica intesa, di accordo morale, Marta non ebbe nessuna ripugnanza a rivederlo, due giorni dopo, uscendo dalla messa; e altri due giorni ancora accolto in casa, da amico. Quando fu il momento di decidersi, ognuno le fece osservare, ed osservò ella stessa per quel po' d'esperienza che aveva, la singolare fortuna sua nella media generale delle fanciulle; molte fra le quali si maritano tardi, spoetizzate e già avvizzite; altre non si maritano affatto; chi deve accontentarsi di un vecchio, chi di un vedovo, chi di uno un po' corto a cervello, chi di uno spiantato o di un balbuziente o di un mezzo tisico perchè - dicono le persone assennate - tutto non si può avere. Alberto aveva tutto o quasi, Marta dovette pur convenirne; e si rallegrò seco stessa dalla buona ventura ed accettò con entusiasmo; entusiasmo che non era precisamente per Alberto, ma per l'avvenire che Alberto le avrebbe dato. Lo sapeva anche lei che così, subito, non potevano amarsi; l'oggi non era che una preparazione; il domani solo le avrebbe aperte le porte misteriose dell'amore. A questo bene futuro Marta tendeva avidamente il cuore e le braccia, in mezzo ai preparativi febbrili delle nozze; indifferente alla gioia dei doni, toccando con mano distratta i ricami e le trine del corredo, sorridendo lievemente agli auguri, non gustando, non afferrando quei lembi, quelle particelle di felicità che le roteavano intorno, con gli occhi fissi alla meta. Nè le gentilezze di Alberto, nè il bacio che, presente la mamma, le imprimeva sulla mano e gli ultimi giorni sulla guancia, la toccavano molto. Dopo - ella pensava - quando ci ameremo davvero, quando saremo soli! A quindici anni Marta aveva avuta la prima preoccupazione d'amore; null'altro che un fremito, una lunga stretta di mano, uno sguardo che la fece trasalire; e poi molte notti d'insonnia, molte ore di tristezza, molte lagrime sparse in segreto; nessuna ebbrezza amorosa, ma l'intuizione di tutte le ebbrezze. Ed era finito così. Più tardi, in società, le era occorso di fissare a preferenza gli occhi in certi dati occhi, di ballare volontieri con un giovane piuttosto che con un altro; ma siccome ella non poteva andare incontro a questi sprazzi d'amore, nè sollecitarli, nè abbandonarvisi, erano passati otto anni, vuoti in apparenza e freddi. Qualunque fossero stati i sogni, i desideri, le speranze, l'attesa degli otto anni trascorsi, tutt doveva ora avere compimento. Nella pienezza del suo sviluppo di donna, l'anima, i sensi, il pensiero chiedevano la loro parte a Marta, che ripeteva trepidando: dopo! dopo! L'altare, il municipio, la mamma che piangeva, la partenza dalla casa paterna, ella vide tutto ciò ravvolto in una nube; una delle tante nubi che avvicendandosi, sciogliendosi, riunendosi di nuovo sotto forme ed aspetti differenti, le toglievano la percezione del vero, di quell'unico punto essenziale dove ella figgeva gli occhi e che le veniva sempre conteso. Non era mai stata sola con Alberto; quando si trovavano insieme avevano una quantità di discorsi già preparati; il tappezziere, la sarta, l'orefice, gli inviti, l'orario del viaggio. Alberto correva avanti e indietro, affaccendato, con un fascio di carte da controllare, da firmare; sempre sereno ed ilare. È un angelo di bontà! esclamava la mamma. Marta Io guardava intensamente, fino in fondo agli occhi, sì ch'egli diceva ridendo: Eh! mi vuoi magnetizzare! Finiranno questi trambusti, pensava Marta; egli sarà mio, tutto mio; ancora due giorni, un giorno, un'ora....

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La signora Merelli, che nemmeno lei aveva mai visto la coppia singolare, propose a Marta di andare assieme a fare una questua per gli asili infantili. Si posero subito d'accordo, e sui primi di giugno, durante un caldo pomeriggio che metteva nell'aria una gaiezza festosa, bussarono alla porta dei signori Gavazzini. Una domestica dall'aspetto e dall'accento forestiero, dopo qualche minuto di esitazione introdusse le visitatrici in un salotto molto elegante. E aspettarono. Aspettarono un buon quarto d'ora, avendo così tutto il tempo di osservare l'arredamento nuovo e corretto, le poltrone che non sembravano tocche, le piramidi di album lucenti nei loro fregi e nei tagli dorati. Non un fiore, non un ricamo o un libro dimenticato, non uno sgabello fuori di posto; niente del benessere comodo e lieto che Marta aveva a casa sua; niente pure del disordine pieno di vita che, in casa Merelli, quattro bambini pieni di salute si incaricavano di mantenere costante. Un fanciulletto di quattro anni, biondo, esile, con una faccina anemica, fu il primo a mostrarsi. La signora Merelli volle accarezzarlo, ma egli si ritrasse in silenzio contro lo stipite dell'uscio. E passarono altri dieci minuti. Venne poi il signor Gavazzini, nascondendo, sotto un fare cerimonioso, l'alterazione dei lineamenti, eccitati come dopo un alterco. - Prego queste signore di scusarmi, e di scusare mia moglie; è un po' indisposta... Nello stesso momento una signora alta, molto esile, con la stessa faccia anemica del bimbo, irruppe nel salotto; aveva un abito celeste e i capelli sciolti per metà sulle spalle in una acconciatura melodrammatica. Senza nemmeno guardare le due visitatrici, si rivolse bruscamente a Gavazzini. - Sapete bene che ho proibito a mio figlio di entrare nel salotto. La confusione di Gavazzini divenne contagiosa; anche Marta e la signora Merelli ne furono sorprese. Egli, con accento breve ed imperioso, usando parimenti il pronome della seconda persona, rispose che il bimbo era venuto in salotto da sè; poi, volgendosi alle signore, balbettò: - Mia moglie... scusino... era... è indisposta. Ha voluto presentarsi egualmente. La signora Gavazzini, in piedi, gualciva nervosamente i nastri del suo abito, mentre il bambino guardava ora lei, ora il padre, con due occhi malinconici. Quando la signora Merelli espose timidamente lo scopo della visita, Gavazzini mise mano al portafogli e con perfetta cortesia le consegnò venti lire, guardando Marta con insistenza, tanto che ella sentì il suo facile rossore di sposina salirle subito alle guance. - Mia cara - disse poi volgendosi alla moglie con ricuperato sangue freddo - ecco due buone e cortesi signore a cui potreste rendere sì bella visita. Che ne dite? - Non si fanno visite, quando si vive in un chiostro come vivo io da cinque anni. La voce aspra della signora Gavazzini echeggiava ancora nel salotto, che già le visitatrici avevano preso commiato, seguite da Gavazzini, il quale le volle accompagnare fin sulla porta, giustificando il contegno della moglie con la scusa di crisi nervosa. Sì dicendo faceva gli occhi teneri a Marta, tastandole il palmo della mano. Marta uscì di là scandalizzata, incapace di parlare. La signora Merelli, calma, domandò come le era parso quel nido di tortorelle, e, nella sua rassegnata conoscenza degli uomini, aggiunse che non vi era punto da stupire, che succede così spesso, spesso, assai più di quanto si creda. - Che cosa le dissi una volta? Follie della luna di miele! Non durano. - E quando - chiese Marta con la voce che le tremava un po' - la luna di mele non ha follie? La signora Merelli riflettè un istante, crollò il capo e rispose con lentezza: - Chi sa! Forse è meglio.

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Stando così sulla soglia del negozio, assolutamente freddo, non pensando a nulla, mostrando solo la faccia pallida illuminata dallo sguardo, Toniolo aveva fatto fantasticare molte fanciulle del paese che, da quando egli rimase vedovo, avevano sentito più che mai il bisogno di prendere frequentemente della magnesia o del bicarbonato di soda; egli, enigmatico come un cofano vuoto chiuso a chiave, non aveva scoraggiata nessuna, vendendo a tutte la sua merce con la stessa fisionomia romantica ed incompresa, mostrando, nell'accartocciare gl'involti, le sue mani morbide, famigliari alle pomate, fini, lunghette, ornate al dito mignolo da un piccolo brillante, ed il sorriso vago di un uomo che insegue dei sogni. Quando si era saputo che prendeva in moglie una ragazza del paese vicino, la magnesia e il bicarbonato di soda divennero veramente necessari a molte gastriti ed a languori di stomaco prodotti da cruccio respresso; nè egli mostrò di accorgersene, manovrando con la stessa dolcezza i barattoli e le spatole, prendendo il fresco ogni sera sulla soglia della farmacia, guardando alternativamente le donne e le stelle. Alberto Oriani passò tenendosi a braccio sua moglie. - Che miracolo! - disse Toniolo. Si fermarono. Erano andati a vedere dei vasi di fiori che il dottorone voleva regalare a Marta. Si parlò un momento di fiori, tutti e tre in piedi sulla soglia; poi del tempo che voleva rannuvolarsi, infine: - Vuol entrare? - chiese Toniolo a Marta, con molta gentilezza, e soggiunse per incoraggiarla: - Le mostrerò la camera che sto allestendo per la sposa; mi darà dei consigli. Marta vide sulla faccia di suo marito la stessa gioia di quando, in carrozzella, aveva scorti i suoi amici. Decisamente, pensò, egli li ama molto. Un'altra idea stava per svolgersi nella sua mente, questa: e si trova in loro compagnia meglio che... ma non volle terminarla. Salì svelta il gradino della farmacia, seguita dai due uomini. - Manca molto a questo matrimonio? - domandò Alberto intanto che attraversavano il tinello. - Sarà verso la fine d'autunno. - Fa' vedere a Marta la fotografia della tua fidanzata. Toniolo pose la mano nella tasca interna dell'abito, poi in quella esterna, mormorando: - È singolare, dove diavolo l'avrò cacciata? - L'avrai lasciata sotto il guanciale, stanotte - disse Alberto ridendo. Marta guardò con interesse gli occhi di velluto di Toniolo, accogliendo la supposizione che egli dormisse coll'immagine della donna amata: ma Toniolo indicò subito con la mano la fotografia, appoggiata sul caminetto, contro la pendola. - Le assomiglia? - chiese Marta. - Mi pare di sì. Era una giovanotta rubizza, dalle forme pronunciate e dalla faccia ingenua. Marta voleva domandare ancora: L'ama molto? ma non osò. - E che dirà Giuditta? - esclamò Alberto, battendo sulla spalla dell'amico. - Oh quella si consolerà di me, come si è consolata di te... Marta fremette, intanto che i due uomini scambiavano un'occhiata di intelligenza. Toniolo soggiunse: - Il successore c'è già; fa il suo tirocinio in questi ultimi mesi, sai, io non sono geloso, e Giuditta trova che due valgon meglio che uno, ma io l'ho già avvertita che il mio abbonamento scade alla fine d'autunno e che non lo rinnoverò più. Non voglio impicci. - Fai bene - disse Alberto con convinzione. Entrarono nella camera dov'era già il letto di noce, i comodini e i cassettoni. - Sono quelli che avevo, li ho fatti rilustrare e mettere a nuovo; ma le sedie e le tappezzerie le voglio rifare di pianta. Che ne direbbe di un bel giallo? La domanda era rivolta a Marta. - È forse un po' fuori di moda e facile a macchiarsi... - Avevo pensato all'azzurro, ma scolorisce col sole, coll'aria, con la polvere, scolorisce anche al buio. - Se prendesse una stoffa mista, a righe od a fiori? Toniolo rifletteva, coi begli occhi abbassati, fissi sulla commessura di due mattoni. Marta intanto guardava il letto, dove aveva dormito la prima moglie, dove la seconda avrebbe raccolto i baci ancora tiepidi avanzati a Giuditta, e le danzavano davanti le parole «come si è consolata di te.» Anche Alberto dunque? Anche lui? I due amici si erano affacciati alla finestra; le loro teste, nella luce crepuscolare, apparivano giovani, quasi somiglianti. Alberto più colorito, più florido, ma egualmente dolce e simpatico all'aspetto. Ridevano. Su quelle bocche i baci di Giuditta erano volati, senza rivalità, stringendo anzi i loro vincoli, mettendo fra loro una cosa comune, imparentandoli. Potevano pensare entrambi, nello stesso tempo, allo stesso oggetto: le spalle o le braccia di Giuditta; intendersi senza parlare, a gesti. Il suo Alberto! Perchè suo? suo e di tutti. Quelle mani lì non avevano abbracciata, stretta, accarezzata Giuditta? e quante altre! Ora lo sapeva; e questa Giuditta era in paese. Quando lei passava al braccio di suo marito, Giuditta poteva vederla, scrutarne il volto e sorprendere i segreti della loro intimità. Avrebbe detto fra se stessa: Ecco Alberto, ha la faccia de' suoi giorni buoni: oppure: non ha la faccia de' suoi giorni buoni. - Me le danno, sai, le trentamila lire? - diceva Toniolo affacciato alla finestra. - Se non me le davano, lasciavo a loro anche la ragazza; non ch'io sia interessato, ma quello che ci vuole ci vuole, e poichè faccio questo sacrificio di mettermi la catena al collo per la seconda volta, qualche compenso è giusto. Si voltò, dando le spalle alla luce, così interessante nel suo pallore di giovanotto linfatico, che Marta non riuscì a mettere insieme quelle parole con quel volto, e stavolta la domanda, repressa prima, le sfuggì: - È molto innamorato della sua sposa? - Oh! innamorato... - fece Toniolo, sul cui volto passarono repentinamente la stanchezza e la vanità delle numerose conquiste - non è poi necessario. - Per lei, forse - interruppe Marta, meravigliandosi ella stessa del suo ardire. - Vedi - disse Alberto in tono conciliante - mia moglie si immagina che quando un uomo sta per ricevere il settimo sacramento debba prepararsi con mortificazioni, estasi, preghiere, ritiro dal mondo, astinenze... - Già, già - esclamò il farmacista ridendo - sono tutte eguali. Non per offenderla, sa? Le chiedo scusa, non per offenderla, ma anche la mia fidanzata mi domanda sempre se l'amo, se amo lei sola, se l'amerò sempre... E non è naturale? - disse Marta con fuoco. Rispose Alberto: - Tanto naturale che non occorre domandarlo. Marta conosceva oramai quell'accento reciso, quella specie di muraglia che suo marito innalzava quando il discorso non era di suo genio. Sentì pure la sua debolezza, la sua solitudine in mezzo a quei due alleati naturali, e allora più che mai vide la intimità di Alberto co' suoi amici, quella grande porzione di vita da cui era esclusa, lei, che aveva creduto, sposandolo, di fondere due vite. Un abisso la separava dall'uomo a cui s'era data, che le era straniero, che non aveva lo stesso sangue, nè gli stessi pensieri, nè la stessa anima, che aveva vissuto trent'anni senza di lei, ch'ella non aveva mai visto piangere, che trovava inutile dirle: ti amo... e un bisogno irresistibile l'assolse, il bisogno di gettarsi nelle braccia di sua madre. I due amici erano usciti dalla camera, avviandosi giù per la scaletta nel tinello. - Badi che c'è un chiodo accanto all'uscio - disse Toniolo gentilmente - l'avverto per l'abito. Sul tavolino, nel tinello, giaceva ancora il ritratto della sposa. Marta lo guardò a lungo, con una malinconica simpatia, e non riuscendo a vincere la tenerezza di cui il suo cuore traboccava, si accostò ad Alberto e gli strinse furtivamente la mano. - Sì, sì - fece egli col tono di chi vuole acchetare un bambino riottoso. In quella entrarono Merelli e il dottorone. - Che bell'incontro! Il volto di Alberto raggiò: - Nido di tortore! - esclamò il dottore. - Fortunato mortale cui è dato abbellire la propria casa con la presenza di una donna! oh la donna!

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. - Bel tempo - disse Merelli - il grano turco cresce a vista, l'uva è una meraviglia. Soggiunse il dottore: - Ho comperato oggi una razza di tacchini stiriani, i più belli che si possano vedere, di quelli che appaiono sulle tavole dei principi con la denominazione: dinde truffèe. Le femmine però io le preferisco lessate, con guarnizione di maccheroni al sugo. - Che sigari cattivi! - disse Alberto tentando di accendere un Sella - non si può più fumare. Toniolo si alzò, andò a prendere una cassettina, e, dopo averne chiesto il permesso alla signora, offerse dei virginia. - Non ti annoi troppo, nevvero? Così chiese sotto voce Alberto a sua moglie; ella che sapeva con quanto piacere Alberto stesse con gli amici, rispose: - Niente affatto. Ma fra sè pensava: Casa nostra è molto più comoda, più elegante, non ci manca nulla; io lo adorerei, vorrei spiegare per lui solo la mia bellezza, il mio ingegno; so parlare anch'io, non sono una sciocca, ma, a quanto pare, Toniolo, Merelli e gli altri valgono più di me. Io però ho lasciato per lui mia madre, le mie amiche, tutto; e mi basterebbe lui!... - La signora è pensierosa? - chiese il dottorone chinandosi sulla sedia di Marta, presentandole la sua faccia larga e sensuale, dove la parte psichica si era tutta rifugiata nelle pupille. Marta scosse il capo, e dopo una pausa chiese a sua volta: - Perchè non ha preso moglie lei? - Per umiltà, non credendomi degno. - La ragione è speciosa. - Dica vera. Come faccio ad essere sicuro che la donna che scelgo sarà felice con me? - Ma se è buona, se è virtuosa, se ha dei principii... - Ecco tante belle cose che non hanno nulla a vedere con la felicità. - Se si amano... - Altra incognita. Le ho già detto, mi pare, che per le donne oneste l'amore non può essere che un dovere o una colpa. Allevate nell'idea fissa del matrimonio, il quale, con la morale odierna è la sola porta d'uscita che esse hanno, non conoscendo l'amore nè l'uomo, ognuna accetta quel marito che il caso, gl'interessi, la mamma o gli amici le pongono davanti; è un lotto, una roulette, bazza a chi tocca, e chi le piglia se le tiene. - Oh! - fece Marta. La donna non è sempre vittima, - continuò il dottorone animandosi - ella si vendica, come può, quando può. Ella risponde alla mostruosa ingiustizia dell'amore civile coi suoi milioni di isteriche, coi suoi miliardi di adultere. Colpita, colpisce; ingannata, inganna; niente di più logico. Lei vede, cara signora, che rendo piena giustizia al suo sesso, ma siccome non mi riconosco la forza di legislatore, nè di apostolo... Alberto, dall'altro lato del tavolino, gridò a sua moglie: - Se dai ascolto a quel chiacchierone, ne esci intontita. - Permetti, Alberto, io difendevo la causa della donna. - Causa sballata - vociò Merelli facendo scricchiolare la sedia su cui stava seduto. - Le donne sono tutte furbone, che pelano la gallina senza farla gridare. - Ciò è tanto più meraviglioso - aggiunse Toniolo - che nel loro caso la gallina è un gallo. - La donna - riprese il dottorone, con lo stesso accento ispirato col quale aveva, un momento prima, recitato i versi di Prati - è la poesia della vita, è la bellezza... - Sì, parlatemi della bellezza delle donne! - interruppe Merelli. - Ci vogliono dei babbuini come noi per lasciarci gabellare nei teatri, nei balli, nella penombra delle alcove chiuse, tutta la quantità di ovatta, di gomma elastica, di bianco di bismuto e di kool, che forma la nostra beatitudine, citrulli che siamo! Piano, all'orecchio di Toniolo, Alberto mormorò: - È per garantirsi contro il kool e contro il bismuto che egli si attacca alle serve... - Che cosa dite voialtri? - Eh! nulla. Si approvava. - La donna - continuò il dottorone come se nulla fosse - creatura delicata, gentile, anima sensibile messa a contatto della nostra brutalità..... - Oh! per anima sensibile - rincrudì Merelli - non ho niente in contrario. Quando ero all'università conobbi la moglie di un professore, una deliziosa donnina, una sfumatura, un ideale, proprio di quelle che hanno le ali e le rose. Un mio amico le faceva la corte... infine la dolce creatura lo pregò di regalarle un divano, perchè sullo stesso divano dove essi filavano il perfetto ainore, il marito fumava tutti i giorni la sua pipa, e ciò non le pareva delicato... Tumultuarono tutti. Il dottorone rinunciò all'elogio della donna, sopraffatto dalla voce taurina del suo competitore; ma Alberto, approfittando della prima pausa, domandò: - Puoi essere così pessimista? Non esistono forse donne che non si dipingono e che si accontentano di un solo divano come di un solo marito? - Caro Oriani, una volta, in un Museo di Storia Naturale, ho visto un passero con quattro gambe. L'ho visto, ti dico! Ciò è la pura verità. Io persisto tuttavia a credere che i passeri sono bipedi. A momenti gli facevano un'ovazione. Merelli trionfava, come sempre, rizzandosi sull'alta persona, dominando il crocchio degli amici, rosso e lucente in viso, sentendosi ammirato. Alberto ebbe il delicato pensiero di avvicinarsi un momento a sua moglie per chiederle sottovoce: - Stai bene? - Sì, grazie. Era però buono Alberto! Ella lo seguì con gli occhi mentre tornava al suo posto, attratta da quel viso simpatico, intenerita per il suo atto gentile, e intanto che il discorso si metteva alla politica ella restò muta, alquanto illanguidita sulla sedia di cuoio della farmacia, col desiderio della sua poltroncina e dell'uncinetto che almeno le avrebbe fatto passare il tempo. Nella politica si riscaldarono, qual più qual meno, secondo i temperamenti. Il pletorico Merelli gridava come un ossesso gli veniva dietro il dottorone nervoso ed entusiasta; più calmo Alberto, quantunque allegrissimo, e Toniolo quasi indifferente, approvando col capo ciò che dicevano gli altri, i pollici nei taschini, l'occhio vagante. Ma tutti insieme riempivano la stanza, con le loro persone massicce, la voce alta, gli scarponi che si agitavano sotto il tavolino, il fumo dei sigari che s'innalzava, addensandosi sempre più. Il volto di Alberto, sul quale Marta teneva sempre gli sguardi, scompariva tra le spalle poderose di Merelli e il torace ampio, squilibrato del dottorone; ella lo scorgeva come un punto luminoso, velato leggermente dal fumo, e ne raccoglieva ogni parola, ne seguiva ogni gesto, pascendosi di un'occhiata che cadesse dalla sua parte, raccogliendo le briciole dello spirito e della cordialità che Alberto distribuiva agli amici. Erano suonate le undici da un pezzo ed ella, nella muta contemplazione, si sfibrava, presa dalla noia e da un principio di sonno, con la visione lontana del suo letto, della sua dolce casa. Ma si erano messi a discorrere delle colonie d'Africa e venne la mezzanotte. Merelli sbraitava nella esuberanza del suo temperamento sanguigno, per cui Toniolo mormorò piano, sorridendo: - Ce ne vorrebbero due al giorno delle Ninette per quello lì! Marta si senti sollevata quando Alberto, levandosi in piedi, annunciò che si partiva. Non volle il braccio di nessuno; appena uscita si avvinse a suo marito, carezzevole, amorosa, con certi scatti da bambino freddoloso, tenendo voltata la faccia per sfiorare con le labbra la manica di Alberto. Merelli e il dottore lasciarono che i due sposi andassero a casa soli. A mezzo d'una via, una donna, uscendo frettolosa da una porticina, attraversò loro la strada, passando così presso ad Alberto da urtarlo. Marta sentì il contraccolpo di quell'urto, vide la donna che si era fermata mezzo minuto, audacemente, accanto a loro, ed Alberto che aveva fatto un movimento indietro, ed ancora la donna che era scomparsa rapida, rompendo l'oscurità della notte con la striscia chiara del suo abito. Tutto il sangue di Marta le affluì al cuore. - È Giuditta! - esclamò stringendo con violenza il braccio di suo marito. Alberto non rispose subito. - Dimmi la verità, è lei? - Ma che! - Pure la conosci... - No, ti dico. Non l'ho nemmeno guardata. - Ma potrebbe esser lei? - Non so... A che insistere? Tacque. Ma ricalcando le orme della donna, sembrava a Marta che la sconosciuta avesse lasciato qualche cosa dietro a sè, nell'aria rotta dalla sua persona, sui sassi battuti dal suo piede; un miasma che saliva, nauseante, che l'avvolgeva tutta, la prendeva alla gola con un'ondata di impurità, soffocandola, strozzandola; e nella acutezza della sensazione le sembrava di udire laggiù, fra le tenebre della notte, il ghigno beffardo di colei che aveva posseduto suo marito, perchè era lei, lo sentiva!

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Le lettere che Marta inviava a sua madre, parlavano tutte di felicità. Si esaltava scrivendo dell'amore che Alberto aveva per lei, e si diceva il suo tesoro, la sua vita; parole che Alberto da sua parte non aveva mai pronunciate, ma di cui ella inebbriavasi al punto che quando aveva scritto, versando sulla carta l'amore di cui era compresa, rimaneva sollevata, immaginando che Alberto provasse tutto ciò che ella stessa sentiva. Scriveva: «i suoi baci appassionati, le sue tenere carezze,» e rileggeva poi quegli aggettivi che le davano una dolce commozione, una specie dei piaceri immaginari che gustano i bevitori d'oppio. E come l'oppio, questa eccitazione del cervello la prostrava veramente e indeboliva i suoi nervi. Molte volte dopo d'aver scritto a sua madre che «si adoravano,» a Alberto entrava e non si scambiavano neppure un bacio; lui serenamente freddo, lei distratta, paralizzata nella realtà dalle false sensazioni subìte prima. Tutto il fisico di Marta si risentiva di questo stato patologico. Era magra, coll'occhio spento; soffriva lunghe malinconie; già più volte, senza una ragione apparente, era corsa a nascondersi nella sua camera per piangere. Che cosa avrebbe detto Alberto vedendola piangere? La bontà inalterabile e gentile di suo marito, il lieto umore, la fiducia illimitata, il suo contegno riservato colle donne, la convincevano che egli era il modello dei mariti, e quel malcontento intimo, quella tristezza che l'assaliva, ella riversava su sè stessa, sul cattivo suo temperamento. Che poteva essere se non ciò? Per alcune settimane era stata divorata dalla gelosia e non aveva fatto altro che osservare ogni atto, ogni passo di Alberto; era ritornata parecchie volte nella via dove le era apparsa la donna sconosciuta, aveva interrogato, cercato, spiato; allargando i confini del suo sospetto geloso, si era messa a sorvegliare tutte le donne che Alberto vedeva, compresa la signora Merelli. Ma da queste ricerche l'innocenza d'Alberto era uscita così trionfante, che lo stesso giorno ella scrisse a sua madre: «Sono felice, felice, felice.» I giorni peraltro le sembravano più lunghi e più vuoti. Suo marito si alzava presto per andare a visitare le campagne; ella, pigra, con le ossa indolenzite, rimaneva ancora sotto le coltri finchè Appollonia non le portava il caffè. Lo sorbiva lentamente guardandosi le mani, le braccia, toccando i piccoli ricami della camicia, lavoro suo, de' suoi giorni di fanciulla. Una specialmente, una bella camicia fina con lo scollo tondo arricciato, le faceva ricordare una incisione che l'aveva colpita tanto quand'era ragazza, che ella guardava di nascosto della mamma, dentro una vecchia strenna, e rappresentava Diana di Poitiers, semivestita, con uno scollo così tondo, arricciato e irresistibile, allacciando le braccia intorno al capo del regale amante prostrato a' suoi piedi. Forse - pensava allora - bisogna essere molto molto bella per ispirare l'amore. Ma non è vero - soggiungeva un momento dopo - no, non dev'essere questa la ragione. Dalla recente esperienza, dall'osservazione degli uomini i quali non si mostravano più davanti a lei così ritenuti come fanno con le ragazze, dalle confidenze della signora Merelli, era venuta ad una conclusione, ancora confusa, ma che distruggeva completamente l'edifizio delle sue credenze in fatto d'amore. La conclusione era questa: Gli uomini si danno a qualunque donna, bella o brutta, con affetto o senza, con simpatia o con indifferenza. Una cosa mostruosa ma vera! Dalla bocca stessa di suo marito, dietro insistenti richieste, ella apprese che, a sedici anni, Alberto aveva avuta la rivelazione dell'amore per parte di una donna vecchia e brutta, che andava in casa a fare il bucato. Alberto le disse questa cosa naturalmente, soggiungendo che a quasi tutti gli uomini succede così, non sospettando neppure la profonda impressione che tali parole avrebbero fatto su Marta. Ella ne pianse di dolore e di vergogna. Ragionando poi nella sua mente, le parve di dover attribuire a quella remota causa la differenza di sentire che esisteva fra lei e suo marito. Misurando per la prima volta le esigenze di un uomo che aveva data la sua fiorente giovinezza ad una ignobile femmina, nella stessa età in cui ella credeva ancora agli angeli e cercava l'amore in cielo, fu assalita da una ben più tremenda gelosia, la gelosia impotente del passato, quella che non si può distruggere, che si urta contro la sentenza inappellabile del fatto compiuto. Con uno sforzo doloroso dell'immaginazione sognava il suo Alberto bello, puro; ne vedeva la persona elastica, l'occhio lucente, la bocca fresca come fiore che si schiude; e l'anima nobile, il cuore fidente, affettuoso, tutti gli impulsi generosi della giovinezza... Oh averlo conosciuto allora, essere stati entrambi così puri, l'uno dell'altro, per sempre, quello doveva essere l'amore! E non poteva più averlo così! La vecchia femmina, Giuditta, tutte le altre, chi sa quante, chi sa quali, gli avevano portato via la spontaneità dell'entusiasmo. Ella era giunta ultima, inesperta, non preparata alla lotta contro tutto un passato. Perchè quella veramente era la sua angoscia: il passato di Alberto, indistruttibile. Rifaceva a sè stessa, con una raffinatezza crudele, il ritratto di tutte quelle donne; le immaginava belle, provocanti, piene di seduzioni ignote, di occulti filtri amorosi. Brancolava fra supposizioni assurde, fra ipotesi strane, con l'ansia di chi ha smarrita la via e le tenta tutte per orizzontarsi. Metteva insieme le sue memorie più lontane, ricordandosi certe malizie della scuola, volendo spiegarsele. Non aveva dimenticata una ragazza, Collini, in terza; una faccia scialba, dagli occhi neri e dalle labbra rosse, con la carnagione picchiettata di lenti, la quale aveva sempre delle storie misteriose da raccontare in segretezza; storie che non si sentivano mai per intero, di cui le parole strane, svisate, spostate, volavano di bocca in bocca, eccitando la curiosità senza soddisfarla. Erano discorsi proibiti e per questo solo interessavano, chè del rimanente non ci si capiva nulla, almeno Marta che non era punto maliziosa. Una volta la Collini aveva recata una parola nuova, bizzarra, che nessuna delle bimbe aveva mai udito pronunciare. Cercata la parola nel dizionario, si trovò che rispondeva a «femmina di mal affare;» per cui tutte si guardarono in faccia meravigliate di comprendere anche meno; finchè un altro giorno la Collini spiegò loro che quella parola voleva dire: «donna che si vende:» onde nuova confusione, che le giovani menti sciolsero ognuna a suo modo, restando nel pensiero di Marta l'idea di una donna sucida e puzzolente. Nè da tale concetto potè liberarsi più tardi, quando incominciando a squarciare i veli della vita, seppe che vi sono nel mondo donne che si danno a tutti gli uomini; ed anche non sapendo precisamente ciò che implicava, in tal caso, il verbo darsi, queste donne rimasero per lei un mito, qualche cosa di fenomenale come le sirene, e se le immaginò sempre sucide e puzzolenti; tanto lontane da lei, così fuori dalla sua orbita, che non le destavano nemmeno la curiosità. Vivendo con la madre in un ambiente onesto, nessuna circostanza rimoveva intorno a lei il lezzo della società, per cui la sua anima nobilmente femminile si era alzata a poco a poco, senza urti, senza ostacoli, all'idea vaga dell'amore; idea che poggia fra l'ignoranza e il desiderio, descrivendo la curva iridescente dell'arco baleno, dove tutti i colori sono riuniti per l'occhio che li guarda da lontano, dove la mano non stringe nulla. La sua verginale ignoranza faceva sì ch'ella non ammettesse altri strati all'infuori delle nuvole o degli abissi, ed ecco che la terra le mancava sotto ai piedi, e alla nuova rivelazione della vita arrestavasi sbigottita, incerta. Quanti amori vi sono dunque? Quello che la Collini spiegava in segretezza, ignobile, vergognoso e che per una mostruosa catena si riallacciava al primo amore di Alberto? o l'amore etereo celebrato dai poeti, sognato nell'ebbrezza di una notte di luna, cantato sulle note del cembalo? o l'amore voluttuoso e ardente di Diana di Poitiers, stringentesi al seno la testa adorata? Ma perchè nessuno, nè la Collini, nè i poeti, i pittori, le amiche, e nemmeno la madre, le avevano parlato dell'amore come ella lo aveva trovato? Perchè non le avevano detto: Tu entrerai, ignota, nel letto di un ignoto; il vostro contatto sarà senza delirio e i vostri cuori si avvicineranno senza fondersi? L'inutilità de' suoi slanci amorosi di fronte alla freddezza di Alberto, le fecero germogliare un dubbio. Si era dunque ingannata in tutto! Per piacere agli uomini, per cattivarseli, non occorreva nè il sentimento, nè la devozione, nè la grazia; che cosa ci voleva dunque? Abbandonata a sè stessa la sua immaginazione si smarriva. Decisa a tutto per vedere suo marito innamorato, avrebbe voluto conoscere quelle che nei libri si chiamano: le arti delle cortigiane. Anche nella storia, anche ne' suoi libri di istruzione aveva trovato esempi di quelle donne maliarde che affascinano. La morte di Oloferne, la disfatta di Cesare, non erano forse l'opera d'una donna? Recentemente aveva letto di un sultano che si innamorò di una ignobile negra addetta ai più bassi servizi del palazzo, la sposò e la fece sultana Validè, preferendola a tutte le odalische dell'harem. Non era dunque la gracilità della sue membra e il suo profilo scorretto che vietavano ad Alberto i deliri dell'amore. No certo, perchè Alberto le aveva detto tante volte, col suo accento gentile, che gli piaceva così come era, gli piaceva tutta e la trovava immensamente simpatica, co' suoi capelli castagni ondulati, la sua fronte bianca, gli occhi ridenti e la bocca seria, ciò che formava un grazioso contrasto. Ma non era ancor tutto. Il punto per lei più oscuro, più incomprensibile era che ella stessa non trovava nelle braccia di suo marito, amandolo come lo amava, la più lieve ebbrezza. E questo la persuadeva di essere una creatura imperfetta, incapace a dare ed a ricevere l'amore. I suoi scoraggiamenti avrebbero fatto pietà se Alberto li avesse osservati, se avesse potuto comprenderli, se, nella sua bontà superficiale, non si fosse appagato del malinconico sorriso di Marta e de' suoi occhi dolci che lo guardavano amorosamente. Dimagrava, è vero, e su questo fatto visibile i commenti degli amici e degli indifferenti si sbizzarrivano con le supposizioni più disparate, spesso maligne. Egli sospettava che fosse incinta, e senza cercare più in là raddoppiava i modi cortesi, sorridendo al futuro. Insieme non stavano molto; a colazione e a desinare, raramente nelle ore intermedie. Alberto. tutte le volte che usciva per i suoi affari, baciava la moglie sull'una e sull'altra guancia. Ella lo seguiva, attraverso il cortile, fino alla porta di strada; quando egli era in fondo alla via, si voltava indietro. Marta rientrava in casa momentaneamente lieta, sentendo la sua dignità di moglie e di padrona, decisa a occuparsi dei suoi doveri di massaia. Si era provveduta di un cuciniere moderno e su questo spiegava all'Appollonia una quantità di manicaretti; occupandosi ella stessa di una faccenda che interessava moltissimo Alberto, riempì la credenza di conserve, di frutta nello spirito; discese in cantina, e, aiutata da Gerolamo, vi pose un ordine nuovo; salì in soffitta, arieggiando mobili accatastati da anni ed anni, rimettendo fuori stoviglie disusate. Nell'ampio guardaroba, che la madre di Alberto aveva arricchito di ogni ben di Dio, passò giornate intere, rovistando, spiegando, ripiegando, mettendo in fila dozzine di lenzuola. Il suo istinto di donna trovava un pascolo nella casa agiata, nella vecchia casa dove le stanze erano così liete, dove tutto sorrideva nel benessere, nella pace, dove perfino la voce da ventriloquo di Gerolamo aveva intonazioni festose, ed il faccione rubicondo dell'Appollonia spiccava sulla soglia della cucina, nella sua onestà ingenua, come lo stemma della casa patriarcale. A tavola, Marta narrava tutto quello che aveva fatto nella giornata, con vivacità, con una mobilità nervosa, domandando l'approvazione di suo marito, che le veniva sempre concessa per intero. Dopo, Alberto, che era ottimo mangiatore, faceva il chilo, discorrendo dei suoi interessi, fumando in una lunga pipa che aveva appartenuto a suo padre. Erano i momenti belli di Marta, la quale stava ascoltandolo e guardandolo, tutto per sè, con una adorazione muta, sentendo il principio di quella calda intimità che aveva sempre vagheggiata, sentendo che qualche cosa di insolito si svegliava in lei, un ardore nuovo desideroso di espandersi, una attrazione che partendo da tutta la persona di Alberto la avvolgeva in un'onda dolcemente sensuale. Ma Alberto si alzava reprimendo, per convenienza, un lieve stiramento delle braccia. - Ho bisogno di muovermi - diceva. Prendeva il cappello, la canna, la baciava e andava in farmacia a raggiungere gli amici. Con le braccia inerti, svogliata, Marta passava la sera sulla stessa sedia dove aveva pranzato, prendendo spesso una tazza di camomilla che Appollonia le portava a forza, vedendola pallida, assicurandola che le avrebbe fatto bene. Dava qualche punto, leggicchiava il giornale, sbadigliava. Le ore erano lunghe, eterne. Finalmente Appollonia, dopo d'averle chiesto se le occorreva nulla, veniva a darle la buona notte. Ella udiva il rumore che facevano sul mattonato gli zoccoli della brava donna che si allontanava, ultimo frastuono della giornata; e la casa ripiombava nel silenzio. Marta aveva sonno, ma aspettava Alberto. Quando credeva prossima l'ora del ritorno, si affacciava alla finestra, tendendo l'orecchio. La luna d'agosto, rossa, brillava sul cielo senza nubi, in un aere molle, grasso di vapori, e l'afa, che mitigata dalla frescura notturna, prendeva un sembiante di carezza, le passava sul volto con l'effluvio dei prati, delle vicine campagne dormenti. Che cosa faceva Alberto laggiù? Perchè tardava tanto? L'attesa, dapprima calma e rassegnata, volgeva, col volgere delle ore, ad una inquietudine generale. Non poteva più star ferma; la finestra, la sedia, il divano, l'uscio e poi da capo la finestra, e poi più nulla. Ritta nel mezzo della stanza pareva una statua; le sue sensazioni si concentravano in un immenso, in uno sfrenato desiderio di vedere Alberto. Il tempo passava, e dall'immobilità angosciosa Marta entrava in uno stato di allucinazione sensuale. Con mano inconscia slacciava i ganci dell'abito, allentava i nastri, cedendo a una sensazione misteriosa di abbandono, con dei brividi a fior di pelle, la bocca assetata, arida, le braccia aperte disperatamente. Incapace a reggersi, piegava il capo sopra un guanciale, su una spalliera di poltrona, su tutto ciò che poteva darle l'illusione di una carezza. Perduta nelle immagini d'amore scioglieva i capelli, e, attorcigliandoseli sul volto, ne aspirava l'aroma giovanile, gemendo il proprio nome «Marta, Marta!», che la notte raccoglieva e agli echi deserti della campagna ripeteva «Marta, Marta!» Il tempo passava ancora, finchè l'eccitazione passando, la lasciava sfinita, con le membra rotte, gli occhi pesti e vacillanti. Tuttavia non andava a letto. Aspettava. Alberto la trovava quasi sempre distesa sul divano, pallida come cera, inerte. E la rimproverava; le diceva: «Dovevi coricarti, dovevi dormire.» Ella non rispondeva nulla. Barcollante terminava di svestirsi, con dei brividi nelle ossa, e si cacciava sotto le lenzuola. Ma quando suo marito avvicinandosele mormorava: «Andiamo, via....» tutto il suo corpo si irrigidiva, si gettava indietro. - Le donne - concludeva Alberto, voltandosi dall'altra parte » non si arriva mai a comprenderle. E Marta, sotto le coltri, piangeva.

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Appollonia frugava dentro un mucchio di ferravecchi, con la larga schiena curvata a terra, e il faccione, per quella posizione scomoda, più rosso del solito. - Che cosa cerchi, Appollonia? - Cerco quella chiave, sa bene, la chiave della cassa vecchia lassù in soffitta; m'è venuto in mente che possa trovarsi qui. Marta, dalla soglia della cucina a cui s'era affacciata, entrò e sedette sovra una seggioletta bassa di paglia. Veniva sovente, ora, a trovare l'Appollonia; seduta su quella seggioletta, seguiva per ore intere i movimenti della buona donna, acchetando il suo spirito nella contemplazione di quella placidezza non alterata mai, domandandosi spesso come facesse l'Appollonia per conservarsi così grassa, così rossa, così fresca e serena. A lei invece chiedeva notizie sulla casa, sulla madre di Alberto, su Alberto stesso. Era venuta a servizio quando Alberto aveva già passati i vent'anni, ma sapeva tante cose. Sapeva che da piccino aveva corso il rischio di morire per aver ingoiato il nocciolo d'una susina; che faceva le bizze nell'andare a scuola, al punto che Gerolamo se lo doveva prendere nelle braccia a viva forza e trascinarlo davanti al maestro. Gerolamo, interrogato in proposito, confermava l'asserto, rifacendo il vocione che usava per incutere rispetto al signorino. Tutto ciò che aveva relazione con suo marito interessava Marta moltissimo; le sembrava di attaccarsi maggiormente a lui, di entrare nella sua vita non solo col presente e col futuro, ma ben anco coi ricordi del passato. Una volta che Alberto si era lagnato di un dolore al ginocchio, Marta gli aveva detto: Sarà la ferita che ti facesti cadendo dall'albero, sul quale eri salito per guardare nel giardino dei vicini. - Come sai ciò? - aveva chiesto Alberto meravigliato; e Marta si sentì tutta felice per questa presa di possesso nella esistenza anteriore di suo marito. Certi abitini di Alberto fanciullo, i suoi scartafacci, i libri di testo, sciupati, con scritto in alto Alberto Oriani, erano altrettante reliquie che Marta conservava, interrogandole, quasi avesse potuto assorbirne ciò che Alberto vi aveva lasciato di sè stesso, de' suoi giuochi infantili, della sua lieta adolescenza di figlio unico. Scoprì che a dodici anni egli aveva ricevuto la prima comunione; conto fatto sulle immagini conservate con la data gli quel giorno; e che era stato ghiotto, imprudente, disubbidiente; bugiardo mai. Aveva tentato di avere, per parte d'Appollonia, la descrizione esatta della lavandaia che veniva in casa quando Alberto aveva sedici anni; ma questo desiderio le andò fallito, perchè al tempo in cui Appollonia era entrata in servizio, la signora Oriani si era già decisa da un pezzo a far lavare fuori di casa. Seppe però che donne ne bazzicavano poche, essendo la signora Oriani severissima in fatto di costumi, e che se il signor Alberto aveva qualche pasticcetto doveva pensare a cucinarselo altrove. Appunto - riflettè Marta intanto che Appollonia cercava la chiave - come mai mia suocera, che era tanto accorta e previdente, si acconciò a prendere una serva giovane quale doveva essere costei allora? - Appollonia, quanti anni avevi il giorno che venisti in questa casa? - Ventiquattro, venticinque o ventisei, non lo so neppur io. - Eri però giovane. - Oh sì, signora, ero giovane. Marta non voleva esprimere tutto quanto il suo pensiero, scrutando la fisionomia della serva, sembrandole al disopra di ogni sospetto; e tuttavia dubbiosa, per quell'eccesso di zelo che in ogni cosa dimostrano i novellini. - E non hai mai pensato a prendere marito? Tale domanda fu lanciata così a bruciapelo, che Appollonia sollevò gli occhi e trasse le mani dal mucchio di ferravecchi, restando a bocca aperta; tra il vergognoso e il meravigliato: finchè calma, calma, scuotendo il capo e rimettendosi carponi, rispose: - Chi vuol mai che mi prendesse! Non v'era in queste parole neppur l'ombra del rammarico, dell'ira o dell'invidia; nessun lampo di desideri assopiti, nessuna puntura di vanità, niente altro che la semplice, serena accettazione del fatto compiuto. Marta l'ammirò questa volta, non da padrona a serva, ma da donna a donna. - Prima di tutto - disse, dolcemente, sentendo il bisogno di questa carezza spirituale - non sei nè gobba, nè zoppa, e nemmeno brutta; avresti potuto maritarti tu come qualunque altra... - Ah! è vero, zoppa no, gobba no; ma pure... - E quand'anche nessuno ti avesse cercata, potevi ben tu avere il desiderio di collocarti. Appollonia crollava la testa, sempre curva, ma dalle gote sporgenti sugli zigomi appariva chiaro ch'ella rideva in pelle in pelle. - Di', Appollonia? - Nossignora, nossignora, questo desiderio bisogna essere in due per averlo. - Si può tuttavia avere, da sola, il desiderio di trovare il secondo. Ma sarebbe un desiderio inutile. Marta rimase colpita da una manifestazione di criterio così solido in sì umile creatura. - Sei una testa forte - disse ridendo. - Forte, forte - confermò Appollonia dandosi un pugno sul capo, per avvalorare le parole. - Sicchè ti trovi felice? - Io sì. - Ma felice di che? Parve che Appollonia non comprendesse subito, perchè esitò qualche istante; disse poi risoluta: - Felice di essere sana e di poter lavorare. Marta la guardò con stupore. - Infine questa chiave non si trova - esclamò la serva levandosi in piedi. - Credo che se lei vuol guardare nel cassone, dovrà farlo aprire dal fabbro. Vado a chiamarlo? - Non preme. Siedi un momento, riposati. Che cosa facevi prima di venir qui? Hai servito in altre famiglie? Appollonia si passò la mano sulla fronte, quasi per raccogliere idee sparse e molto lontane. Fu ancora Marta che riprese: - Già, mia suocera doveva conoscerti molto bene, altrimenti non ti avrebbe presa. - Sicuro che mi conosceva ed aveva conosciuto anche mia madre. Io no. - Non hai conosciuto tua madre? - Nossignora. - E con chi vivevi? - Con mio padre. - Voi due soli? - Noi due soli. - Che mestiere faceva tuo padre? - Era contadino. - Anche tu hai lavorato la campagna? - E come! Quando ero proprio piccina andavo a scuola, ma ci andai solamente due inverni perchè una vicina mi mandava insieme alle sue figlie, e quando venivo a casa mi dava un po' della sua minestra ed io rifacevo il letto alla meglio. - Dov'era tuo padre? - Faceva il giornaliero, un po' qui, un po' là. Alle volte veniva a dormire a casa, ma non sempre; d'estate stava fuori le intere settimane, non lo vedevo che al sabato. - E alla domenica. - Alla domenica poco; si sa, egli preferiva andare all'osteria. - Tu dunque rimanevi sola? Non ti annoiavi? - Non ne avevo il tempo. L'anno che la mia vicina cambiò casa e che io dovetti rinunciare alla scuola, mi rimasero le faccende da disbrigare, il letto, la minestra; poi, tanto per guadagnare qualche cosa, andavo anch'io a giornata per servizi leggeri. Alla sera cucivo quel po' di roba nostra, rattoppavo i calzoni di mio padre; nei giorni festivi leggevo. - In complesso facevi una vita tranquilla. - Oh! sì, per un po' di tempo. Marta non avverti queste ultime parole, intenta ad immaginarsi l'Appollonia piccina, tonda, tonda, ruzzolare come una palla dal letto al focolare, dal focolare al lavatoio, pacifica, col suo bel faccione da luna piena. - E quando tuo padre stava fuori alla notte, dormivi sola? - Sola. - Senza aver paura? - Di che? Eravamo così poveri che la nostra casa non poteva tentare i ladri; andavo a letto già mezz'addormentata e qualche volta non mi ricordavo nemmeno di chiuder la porta. Una notte scoppiò un temporale fortissimo che mi spalancò tutto quanto l'uscio; l'acqua entrava a torrentelli ed alla luce dei lampi io la vedevo che saliva, saliva, portando in giro per la stanza le scarpe nuove di mio padre, tanto inzuppate alla fine che non si poterono più muovere e ci volle poi una settimana per farle asciugare. Fu la sola volta che ebbi paura. - Avesti paura allora? - Madonna santa, pareva il finimondo! Mi cacciavo sotto le lenzuola per non vedere e non sentire, ma vedevo e sentivo sempre e credevo che le anime dei morti venissero a portarmi via in mezzo alle saette. Mio padre, il giorno dopo, mi battè ben bene perchè non ero scesa a chiudere l'uscio. Aveva ragione. - Ragione di batterti? - Ma sì. - E di lasciare in casa una bimba sola? - Questa non era colpa sua. Doveva pur andare a lavorare. I signori sono i signori e i poveri sono i poveri. Marta si sentiva la voglia di abbracciarla, e lo avrebbe fatto se il movente di quella sensazione fosse stato solamente la bontà; ma si accorse che in una leggera sfumatura di bontà, il suo cuore tripudiava, sollevato dai propri mali, ed ebbe vergogna di mostrare una sensibilità che in fondo non era altro che egoismo. Ripromettendosi di compensare altrimenti le modeste virtù di Appollonia, si abbandonò per il momento al piacere che le dava quella specie di autobiografia, dove la sua anima sitibonda di ideale, trovava un pascolo inaspettato. - E hai continuato in tal modo fino... - Sempre, fin che visse mio padre. - Lo amavi molto tuo padre? - Sì; è dovere. - Ma non si ama solamente ciò che è dovere - insinuò Marta. - Si ama ciò che si deve amare - rispose Appollonia, candidamente. - Era buono almeno tuo padre? - Sì, come uomo. Queste parole sintetiche fecero ridere Marta. Appollonia soggiunse: - Nei primi anni le cose andavano discretamente. Mi padre, si sa, ogni uomo ha il suo vizio, beveva; ma beveva soltanto alla domenica. Tornava dall'osteria che sembrava un bambino, rideva, rideva e diceva delle parole senza senso. Io lo chiamavo: «babbino, caro babbino.» Egli mi abbracciava e poi cadeva sul letto. Non c'era niente di male, nevvero? Ma quando il lavoro divenne scarso e che egli non potè andare tutti i giorni a lavorare, me lo vedevo confitto in casa da mattina a sera brontolando, prendendosela con tutti, anche con me, che ero una bocca inutile e che se fossi stata un uomo avrei almeno potuto aiutarlo. Io, naturalmente, non rispondevo nulla, e, sul tardi, se egli usciva per «cacciare i dispiaceri,» come diceva lui, non potevo impedirglielo. Così incominciò a bere tutti i giorni, proprio allora che mancavano i denari! - Mi pare che non fosse un padre modello! esclamò Marta. - Bisogna compatirlo. Gli uomini, quando non hanno lavoro, fanno tutti così. Prima non era cattivo; andandogli male i suoi affari gli si guastò il sangue. Gli dicevo bene qualche volta: «Babbino non bere, che sprechi i denari e la salute.» Ma egli mi rispondeva che le donne devono tenere la lingua a casa. Anche questo è giusto. Dunque, più mio padre beveva e meno i padroni volevano prenderlo a giornata; meno egli andava a giornata e più beveva. Le lascio considerare! Dovetti allora lavorare per due; fortuna che la salute c'era. Andavo durante il giorno a falciare, a sarchiare, a battere il grano, a cardare il lino, e molte ore della notte le passavo cucendo abiti per le donne e per i ragazzi, che in questo ci riescivo benino, ed anche mi piaceva. In complesso non mi lagnavo; tolto di alcune feste in cui vedevo le mie compagne andare alla sagra tutte vestite in ghingheri, ed io non potevo accompagnarle; prima perchè non avevo abito, nè scarpe, nulla; poi chi avrebbe avuto cura della casa e di mio padre? Il mio destino era questo. - E non ti capitò allora di prendere marito? - Com'era mai possibile? Avevo due camicie in tutto! - Nessuno ti fece mai la corte? - Se non uscivo nemmeno! - Dovevano sapere che eri una brava ragazza e che saresti stata un'ottima moglie. - Ma non avevo nulla. E mio padre chi lo avrebbe preso? Si sposa una persona, non se ne sposano due. Del resto le giuro che non avevo affatto voglia di prendere marito; mi bastava mio padre. - Oh! - fece Marta - non è la stessa cosa. Appollonia si strinse nelle spalle; la differenza, secondo lei, non valeva la pena di essere discussa. - Per finire, a che punto arrivò tuo padre? - Mio padre arrivò al punto che non si moveva più dall'osteria. Standosene là tutto il giorno gli capitava a volte di fare una commissione, di scaricare roba, di tenere un cavallo, tanto per buscare qualche soldo. - E allora te li portava? - Oh! nossignora, li beveva per farsi passare il dispiacere di non poter guadagnare di più. Per parte mia ero contenta che trovasse modo di farsi passare i dispiaceri ma quando mi veniva a casa barcollante che non gli si poteva far intendere una ragione, e mi toccava prenderlo, svestirlo, metterlo a letto senza cavarne un costrutto al mondo, proprio come un bambino appena nato, le confesso che mi sentivo nel cuore uno stringimento e un desiderio di essere al suo posto; al suo posto per fare diversamente, capisce? - Si, sì, capisco. - Ma ognuno ha la sua parte e nessuno può cambiarla. Negli ultimi tempi non andavo più nemmeno a messa; egli veniva a casa a qualunque ora, in quello stato, e se non c'ero io rompeva ogni cosa, bestemmiando, che se ne andava tutto il frutto della messa. Il signor curato lo sapeva e diceva che facevo bene. Finalmente, quando fu la sua ora, si sentì male davvero. L'oste e i vicini dicevano: È ubbriaco! Io capivo che non era ubbriaco questa volta. Lo avevo chiamato «Babbino, babbino» e non rispondeva più. Allora corsi, era di notte, a chiamare il dottore. C'era la neve tanto alta! Il dottore brontolò che non era tempo da disturbare i cristiani. Poveretto! ma anche noi, come si doveva fare? Un po' per uno. E si tornò insieme, nella neve, con un freddo che non si sentiva nemmeno. Quando arrivammo a casa, mio padre rendeva l'ultimo respiro! Dopo una pausa, Marta disse: - Fu in quell'occasione che ti decidesti di andare al servizio? - Io veramente non ci pensavo. La signora Oriani venne a trovarmi il giorno del funerale e mi disse: «Che vuoi fare qui sola? Vieni da me.» Non avevo nessuna ragione per rifiutare. Poi mi sono trovata contenta. La signora Oriani è morta presto: anche questo era destino. E così va! - Quanti anni hai adesso? - chiese Marta. Appollonia rispose filosoficamente: - Trentotto, trentanove o quaranta, chi lo sa!

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