Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Il giovinetto campagnuolo I - Morale e igiene

215138
Garelli, Felice 50 occorrenze
  • 1880
  • F. Casanova
  • Torino
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
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Essa ti insegna a diventare uomo, a farti cioè onesto, utile a te stesso, alla famiglia ed al prossimo. Interroga sempre la tua coscienza, esegui i suoi consigli, se vuoi essere buono, virtuoso e felice.

L'Italia, appena costituita a nazione, volse le prime cure a dirozzare le plebi, moltiplicando le scuole. Oggi, soddisfatta quell'urgente necessità, l'Italia invoca per l'istruzione agraria i provvedimenti, che le altre nazioni adottarono. I congressi, i comizi agrari, e la pubblica opinione espressero ripetutamente il voto che l'insegnamento delle prime nozioni d'agricoltura nelle scuole rurali si renda obbligatorio. E già lo sarebbe, se il Parlamento avesse discusso il progetto di riordinamento dell'istruzione presentato dal ministro Coppino. Tuttavia, se non ancora per legge (e speriamo lo sia presto), l'insegnamento agrario entrò di fatto nei programmi scolastici: lo si impartisce da qualche anno in varie scuole normali governative, in conferenze magistrali appositamente istituite in ogni parte del regno, in moltissime scuole primarie, incoraggiate con sussidi dal Governo, e dalle Provincie. Ma perchè questa istruzione viemmeglio si diffonda nelle scuole rurali, e vi riesca profittevole, si lamenta ancora la mancanza di un libro di lettura fatto apposta, il quale con semplicità di linguaggio, con evidenza di proverbi e di aforismi, svolga le nozioni generali più importanti che nessun coltivatore dovrebbe ignorare, e combatta gli errori e i pregiudizi, che sono tuttora radicati e diffusi nel ceto campagnuolo. Di libri d'agricoltura per le scuole, e veramente popolari, nel giusto senso della parola, è penuria da per tutto, e specialmente tra noi. Di qui si spiega, almeno in parte, la lentezza con cui si propagano le cognizioni agrarie. Animato dal desiderio di giovare all'educazione delle classi rurali, tentai di sminuire quel vuoto scrivendo, nel 1870, per le scuole degli adulti «IL BUON COLTIVATORE». Quel libro fece qualche po' di bene; se mi è lecito dedurre tale giudizio dal numero delle sue edizioni. Ritento oggi la stessa prova col «GIOVINETTO CAMPAGNUOLO» scritto per le scuole dei fanciulli: e presento a voi, signori Maestri, questo libro, perchè fo assegnamento sul vostro zelo, e sul vostro ingegno, sia per chiarire le nozioni in esso contenute, adattandole ai bisogni particolari dei singoli luoghi, sia per renderne maggiormente proficua la lettura con opportune interrogazioni, dirette ad eccitare nei fanciulli la facoltà della riflessione, e lo spirito di osservazione. E qui debbo dichiarare i criteri, che m'han guidato nello scegliere le materie. Perchè il libro non tratta di sola agricoltura? A consociare le nozioni agrarie a quelle di morale, e d'igiene, fui indotto da due considerazioni, la cui importanza non sfugge a voi, signori Maestri, che, vivendo fra i coltivatori, ne conoscete le virtù, i difetti, le tendenze, i bisogni. Prima di tutto la osservazione quotidiana afferma la profonda verità dei proverbi: Tanto vale l'uomo, tanto vale la terra. - L'uomo fa la terra; la terra fa l'uomo. - Donde logicamente si deve argomentare che, crescendo il valore morale e fisico d'un uomo, s'accresce d'altrettanto il valore della terra che esso coltiva. Un altro fatto egualmente vero, sebbene a tutti dolga il doverlo ammettere, è questo: che per la più parte dei giovanetti campagnuoli la istruzione, e l'educazione, comincia e finisce sui banchi della scuola. Il mirare quindi, come io feci, ad educare nel fanciullo simultaneamente il coltivatore e l'uomo, è un idea buona, volta ad un nobile fine, ed anche giovevole al progresso agrario. Aggiungo un'ultima dichiarazione. Non ignaro delle difficoltà che avrei incontrato nel comporre un libro, il quale di popolare avesse più che il nome, prima di accingermi all'opera attinsi lumi dai libri adottati nelle scuole primarie, nazionali ed estere, non che dai migliori trattati d'agraria: ad essi quindi appartiene quel po' di merito, che per fortuna si trovasse nel mio. Se poi, malgrado ogni mio studio nella scelta degli argomenti, e nella trattazione loro, non sono riuscito a fare cosa utile, e buona, quale l'ho vivamente desiderata, Voi, signori Maestri, che per prova sapete quanto sia difficile il rifarsi fanciulli per essere compresi dai fanciulli, mi assolverete, pensando che a far libri piccini, proprio buoni in tutto, non sempre arrivano neppur quelli che il mondo scientifico e letterario giudica i meglio capaci a scrivere libri grossi. Roma, marzo 1880. FELICE GARELLI.

Fin da ragazzo Giorgino mostrava talento e buon cuore; quanto poi a sodezza sembrava un ometto. Non era caso di dirgli: «fa questo, fa quello»; egli sapeva prevenire il comando. Era anzi premuroso di alleviare ai genitori le fatiche, quanto meglio poteva; si alzava presto al mattino, aiutava la mamma nelle faccende di casa, accudiva la stalla, seguiva il babbo nei campi, cercando di impratichirsi nei lavori di campagna. Nella scuola poi era la delizia del maestro. Rispettoso, amorevole coi compagni, diligentissimo, sempre attento, non dimenticava una parola di quanto gli veniva insegnato, e profittava assai. Perciò il maestro consigliò ai genitori che gli facessero continuare gli studi, nei quali prometteva sì buona riuscita. I genitori non desideravano di meglio pel loro unico figliolo, e lo mandarono in un collegio, pronti a qualunque sacrifizio per farne un prete, un medico, o un maestro. Ma Dio volle altrimenti: e qui si mostrò quanto fosse l'amore di Giorgino per i suoi genitori. Era il 23 settembre 1878. In quel giorno malaugurato Andrea (tale era il nome del padre di Giorgino) bacchiando le noci cadde dall'albero, e ne restò quasi morto. Per tre lunghi mesi stette il povero Andrea tra la morte e la vita. Finalmente la sua robustezza, le assidue cure del medico, e l'amorosa assistenza della famiglia lo salvarono. Ma il poveretto ne uscì sì malconcio, che d'allora in poi a stento si regge, e cammina colle grucce. Chi può dire le angoscie della buona famiglia durante la malattia! Chi può immaginarsi lo sconforto del brav'uomo nel vedersi in così misero stato, lui sì robusto ed infaticabile lavoratore! Una mattina, travagliato dal pensiero della miseria che minacciava i suoi cari, Andrea chiamò a sè la moglie, e così le parlò: «Caterina, Dio ci mette a ben dura prova! Fin qui, lavorando, si tirò innanzi, risparmiando anche qualcosa nelle buone annate. Ma ora i risparmi son consumati; io non valgo più a nulla: come si camperà? Chi lavorerà in mia vece per guadagnarci il pane? Tu sei vecchia oramai e logora dalle fatiche... e il nostro Giorgino è ancora troppo giovine... Vedi, Caterina, la miseria mi fa paura... non per me che, come io sono, vi lascierò presto, ma per voi due: e stanotte m'è venuto un pensiero. Io pregherò il signor Curato che vada alla città, e mi ottenga un posto all'ospedale dei cronici; tu darai in affitto le poche terre che abbiamo e, se occorre, ne venderai una parte; così camperai alla meglio fino a che Giorgino ti possa aiutare...» A queste parole, Giorgino piangendo si gettò al collo del babbo, e con voce rotta dai singhiozzi gli disse: «No, padre mio, voi non andrete all'ospedale: là vi morreste di dolore... voi resterete sempre sempre con noi... Nulla mancherà mai nè a voi, nè alla buona mamma: Dio, che vede la nostra sciagura, ci aiuterà. Io sono già forte abbastanza per applicarmi ai lavori della campagna, e prenderò il vostro posto... Per le grosse fatiche del maneggiare l'aratro, del falciare e del mietere, fino a che non potrò da me, ci daranno una mano i vicini che sono buona gente, e ci vogliono bene: il resto lo sbrigherò io, e mi basteranno i vostri consigli, e l'aiuto della mamma...» Questo disse, e più altre cose, tutte degne del suo bel cuore, tanto che il babbo si acquietò. Il bravo Giorgino tenne la promessa: tutto quel che disse, l'ha fatto, e lo fa. Egli non aveva allora che quattordici anni: ma l'amor filiale gli dette una forza, un senno, e una costanza da uomo; ed ora che ne ha sedici, già lavora il campo, falcia l'erba, miete il frumento, pota le viti come un vecchio del mestiere. E bisogna vederlo con che animo sta sul lavoro dal mattino alla sera: non c'è caso che si fermi a guardar le mosche in aria. Egli pensa che le sue fatiche fanno vivere senza privazioni il povero babbo, e lavora con coraggio, con gioia. Infatti nulla manca al benessere di quella famiglia: il babbo ha quasi dimenticata la sua disgrazia e i suoi dolori; la mamma non teme più per l'avvenire. E Giorgino? Giorgino si sente felice: e lo è davvero, perchè la sua pietà filiale è benedetta da Dio.

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Se vuoi ottenere vitelli sani e vigorosi, fa quel che ti dico: Nella prima settimana della loro vita làsciali colla madre; ma bada che non poppino fino a sazietà. Ingordi come sono, e ancora deboli di stomaco, possono farne indigestione da morire. Quando li avrai separati dalla madre, a questa li condurrai solamente al mattino, al mezzodì, e alla sera. Dopo cinque o sei settimane li spoppi, se li hai destinati al macello. Se vuoi allevarli, cominci a sostituire, al latte del mezzodì, un pasto di buon fieno, e il beverone bianco, ossia la farina di frumento, o di segala, spappolata nell'acqua. Poi raddoppi il pasto del fieno, e li lasci poppare una volta al giorno; poi soltanto ogni due giorni, fin che li spoppi del tutto. Per i vitelli che si allevano, lo spoppamento non deve farsi prima dei quattro mesi. Allora si allontanano dalla madre, mettendoli, se possibile, in altra stalla. Poveretti! la separazione dalla madre li addolora. Essi la cercano con frequenti muggiti, e ricusano il cibo. Ma, trattati con dolcezza, a poco a poco s'acquetano. Anche la madre si addolora, si agita, e chiama il figlio con lunghi muggiti. Sarebbe un crudele, un pazzo, chi maltrattasse la vacca, perchè dà sfogo alla materna tenerezza. I vitelli slattati li nutrirai, nel primo anno, con buon fieno, qualche presa di sale, e possibilmente un po' di crusca ogni giorno. Ai vitelli slattati di fresco, e a quelli che si vogliono ingrassare, giova molto l'infusione, o thè di fieno, che è semplicemente acqua versata bollente sopra fieno di buona qualità. Governati in questa maniera i vitelli, li vedrai crescere a vista d'occhio, e valere molto più che non abbia costato il loro mantenimento.

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La razione, perchè sia buona e sufficiente, deve comprendere quanto serve a mantenere, ossia a conservare la vita, e quanto serve a produrre, ossia a dare quel prodotto di latte, o di carne, o di lavoro, ecc., che si vuole dagli animali domestici. La quantità, e la qualità della razione, dipende dunque dai bisogni degli animali, e dai prodotti che ne vuoi ottenere. Un bue non resisterà al lavoro, una vacca non produrrà latte, se loro dài solamente quanto fieno basta a tenerli vivi. Non conosce il mestiere chi ha foraggi per tre bestie, e ne tien cinque. Su tre sole ci guadagnerebbe: al contrario, a farne digiunare cinque, perde su tutte cinque. Neppure conosce il mestiere chi, invece di belle e robuste bovine, compra vacche magre e sciancate. Per costoro il bestiame non sarà mai un guadagno, ma una perdita. Essi ignorano che «il primo guadagno sulle bestie si fa il dì della compra, con lo spendere bene; e il secondo si fa nella stalla, col nutrirle anche bene». L'alimentazione del bestiame varia con la stagione. D'inverno si fa in gran parte con foraggi secchi. In primavera si passa ai foraggi verdi, i quali si continuano poi nell'estate. Ma bada che il passaggio dal regime secco al verde si faccia per gradi, mescolando l'erba al fieno in proporzioni, di giorno in giorno crescenti: troppa erba mangiata sola, specialmente il trifoglio o la medica, potrebbe cagionare al bestiame il gonfiamento del ventre, o meteorismo, e quindi la morte quasi immediata, se non si fa in tempo a combatterlo e dissiparlo con opportuni rimedi.

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Chi non lo sa, spreca: oggi, perchè ha il fienile ben provvisto, getta il foraggio nella greppia a larghe braccia: più tardi fa mangiare paglia asciutta. Vuoi fare economia del foraggio, e nutrir bene le tue bestie? Taglia e sminuzza il foraggio, come si fa nei paesi, che la sanno più lunga di noi nel buon governo del bestiame. Per tagliare i foraggi, si adopera uno strumento, fatto apposta, che si chiama trincia-paglia, o trincia-foraggi. Ve n'ha di grossi, a ruota, che valgono cento e più lire, e servono per le grandi stalle. Ve n'ha di piccoli, a basso prezzo, specie di coltelli, uniti ad un tagliere, che bastano a preparare la razione a poche bestie. Col trincia-foraggi si taglia il fieno a pezzetti di uno o due centimetri, e il bestiame lo divora tutto, senza che ne perda bricciola. Quando lo dài intero, te ne spreca la metà, gettandolo nel letto. Col trinciarli, rendi più facile a digerirsi le paglie, e i fieni di qualità scadente, i foraggi legnosi e grossolani. Prova, tieni conto di tutto, e vedrai l'economia che ti risulta. Col risparmio che fai nel foraggio, in poco tempo tu paghi la spesa del taglia-fieno, e te ne avanza.

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Per gli animali adulti rilevasti, che una parte della razione alimentare serve a mantenere la vita, e l'altra serve a formare i prodotti che si ricercano dal bestiame. Quindi lo scarso nutrimento finisce per essere un'economia malintesa, che torna a danno della borsa. Rilevasti in seguito che gli animali potrebbero nutrirsi meglio, utilizzando, più che non si faccia finora, le foglie di molte piante, le vinacce, le polpe di barbabietole, patate, olive, noci, ecc., che servirono alla fabbricazione di diversi prodotti industriali. Ti persuadesti inoltre che si può ottenere una migliore, e più economica nutrizione degli animali, sia tagliando, e sminuzzando i foraggi, sia con opportune mescolanze, con la fermentazione e la cottura. Vedesti come giovino alla salute degli animali il sale, e l'acqua limpida, e buona. Da ultimo notasti le cure giornaliere che si debbono usare al bestiame.

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Tu che vivi all'aria libera, in mezzo ai campi, puoi a tuo bell'agio fare esercizi ginnastici senza aiuto di maestro. Avvezzandoti a lunghe camminate, a correre, a saltare, a rampicare sugli alberi, ti fai forte, agile, e destro. Ma quando sei sudato, non sedere sull'erba; non restare fra due arie; non bere acqua fredda. Se, riposando ti coglie il freddo, corri di nuovo, per richiamare il sudore. Impara anche il nuoto. È un esercizio ottimo, che rende il tuo corpo più agile, e robusto, e l'animo più coraggioso. Ma abbi a compagni nuotatori abili, e fidi, e ricorda quel che ti dissi dei bagni. In questi esercizi non far lo spaccone, e il bravaccio. Nel saltar siepi, o fossi, scavalcar muri, nuotare, e rampicar sulle piante, non devi affrontare pericoli senza bisogno: ciò sarebbe temerità, e non coraggio. Infine lavora. Il lavoro, già te l'ho detto, è necessità, è dovere; ma è pur anche una ginnastica che ti dà appetito, salute, robustezza, ed allegria.

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Il lavoro lascia dietro sè la stanchezza; il riposo restituisce l'attività, ci fa pronti a ripigliare le interrotte fatiche. Il riposo è dunque necessario; e lo è non meno che il nutrimento, ed il moto. L'uomo non può vegliare lungamente. Tenuto sveglio per più giorni, muore di stanchezza, come, a star digiuno, muore di fame. Potrebbe anche meno resistere ad un continuo lavoro, non alternato col riposo. L'arco sempre teso finisce per rompersi. Ma il lungo riposo è del pari funesto. Il sonno è padre del sonno. Più si dorme più si diventa sonnacchiosi, pigri, e il corpo si infiacchisce. L'inerzia snerva, e rende impotenti al lavoro. Sàppiti dunque regolare, così nel lavoro, come nel riposo, e nel sonno: abbi moderazione in tutto. Dormi di notte, e veglia di giorno. Coricarsi presto, e levarsi per tempo è buona regola. Le ore del mattino han l'oro in bocca. Riposa la domenica. Dopo una settimana di continue fatiche, il riposo della domenica è necessario. Il corpo ritempra le forze, e si prepara a nuovi lavori. Anche l'anima gode di raccogliersi in Dio, e si conforta di oneste distrazioni. L'uomo non vive di solo pane.

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A trattarli bene si fanno docili, obbedienti, affezionati, pieghevoli a qualunque abitudine si voglia loro imporre. È il cattivo trattamento che li rende maligni, caparbi, pericolosi. I colpi di pungolo, di frusta, e di bastone finiscono per irritarli, e spingerli alla rivolta. Aggiungi ancora che i cattivi trattamenti li fan dimagrare, e deperire. Il bue da lavoro, così paziente, non pare più quello; diventa indocile, e vendicativo. Peggio ancora il cavallo, il mulo, e l'asino. Fin le vacche mettono odio a chi le maltratta, e trovano il momento a vendicarsi. I tori son docili con le buone maniere; malmenati diventano furiosi, e terribili. Il buon coltivatore non affatica troppo gli animali, non li maltratta mai, e tuttavia li fa obbedienti alla sua voce, senza bisogno di pùngolo. Il nutrire gli animali più di frusta che di fieno, il caricarli di un peso soverchio, il volerli costringere, a furia di bastonate, a fare più che non possono, è un'azione brutale, che rivela un'anima cattiva in chi la compie. Non di rado s'incontrano di questi villani, e carrettieri, ferocemente brutali. Talvolta si vede un cavallo vecchio, macilento, sfinito dalle fatiche, e dal digiuno, trascinare un carico pesantissimo. Gronda sudore da ogni parte, non si regge quasi più sulle gambe; e il carrettiere lo tempesta di botte; lo studia qua e là, nelle parti più sensibili, e lì raddoppia i colpi. La povera bestia tira innanzi per poco; poi accasciata, mezzo morta, stramazza a terra, e il suo aguzzino, con rabbia feroce, la martella di botte, di pugni, e di calci. Ma non è senso di compassione nel cuore di quest'uomo? Le bestie son bestie: ma quest'uomo è più bestia di loro! Non può dirsi civile un paese, dove queste brutalità si commettono, e la gente vede e lascia fare, e niuna legge le punisce. Nei paesi veramente civili s'è fatta una legge apposta per punire chi maltratta gli animali.

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Ma a trattar male le bestie, si fa danno anche alla borsa. Gli animali malmenati dimagriscono, e quindi scemano di prezzo; oltre a ciò contraggono vizi, e difetti, che, nei contratti di compra o vendita, sono causa frequente di litigi e di spese. Vedi dunque che il tornaconto, non meno che la carità, comanda di trattar gli animali con dolcezza, di nutrirli bene, tenerli puliti, e non strapazzarli con lavori eccessivi. Il bestiame è una necessità pei lavori e pel concime; ma è ancora un mezzo di guadagno per chi sa governarlo; mentre è causa di grosse perdite a chi lo trascura. Dalla stalla un buon guardiano trae la fortuna, e un cattivo la miseria. Ma qual è il buon guardiano? Il buon custode del bestiame (vaccaro, stalliere, o mandriano) è attento, fedele, abile, paziente. Ama gli animali; si affeziona ad essi, e li tratta con dolcezza. S'accorge subito quando un animale è triste, o non mangia volentieri, od è ferito, e gli presta le cure necessarie. Al pascolo sta in continua vigilanza. Impedisce che le bestie si battano fra loro; che si sbandino; che entrino nei seminati, o sulle terre altrui. Tien d'occhio che non cadano nei fossi; non si accostino a precipizi; non si arrampichino in luoghi pericolosi. Ha cura di non lasciarle troppo tempo al sole. Sceglie i luoghi dove l'erba è migliore. A quando a quando loro parla, le accarezza, e mai le maltratta. Nella stalla distribuisce, ad ora fissa, le razioni; fa la pulizia giornaliera degli animali; rinnova la lettiera; spazza le corsìe, dà aria, e pulisce tutto. Pensa prima agli animali che a sè. Non si lascia vincere dal sonno: se fa bisogno, è in piedi a qualunque ora di notte; si alza per tempo al mattino; e alla sera si mette al riposo solamente dopo assestata ogni cosa.

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Dacchè ti consiglio a trattar bene gli animali, quest'altra raccomandazione calorosa ti voglio fare: «smetti la caccia ai nidi; lascia vivere gli uccelli». Facendo guerra ai piccoli uccelli, senza saperlo fai guerra a te stesso, alle raccolte che speri in compenso delle tue fatiche. E vedi come. Le piante che tu coltivi hanno un'infinità di nemici negli insetti, i quali ne rodono le gemme, le foglie, i frutti, le radici, il legno. Questi parassiti si moltiplicano a milioni; escono dalle uova in primavera, e sotto forma di bruchi, e poi di insetti, fanno guasti incredibili. Essi in pochi giorni distruggerebbero affatto le raccolte, se la Provvidenza, accanto al male, non avesse posto il rimedio. E sai in che consiste il rimedio? Nei tanti piccoli uccelli che loro dànno la caccia, e se ne cibano. Le rondini, le cingallegre, i rondoni, le lodole, i pettirossi sono i più abili cacciatori di insetti. Fanno anche bene la loro parte i passeri, i fringuelli, i rampichini, gli usignuoli, i reattini, ecc. A mantenere la propria nidiata, ciascuno di questi uccelli distrugge, in pochi giorni, migliaia e migliaia di bruchi, larve, e insetti. Figùrati che la sola rondine, per vivere, caccia più di mille insetti al giorno! Senza questi uccelli, chi salverebbe le messi, i frutteti, le vigne, gli orti dagli insetti distruggitori? Giova più la loro caccia, incessante e attivissima, alla conservazione delle raccolte, che non la sorveglianza dei coltivatori, e tutte le polveri insetticide, inventate e da inventare. È un fatto certo che, più vi sono uccelli in un paese, più le raccolte riescono abbondanti, e meglio si conservano le piante dai guasti dei bruchi e degli insetti. Un giorno l'Inghilterra concepì la funesta idea di sterminare tutti i piccoli uccelli, credendoli causa delle scarse raccolte, perchè essi bèccano qualche grano per le vie, sull'aia, e nelle terre seminate; ma l'Inghilterra non tardò guari a pentirsene. Gli insetti si moltiplicarono spaventosamente, distrussero le raccolte, e avrebbero ridotto il paese alla fame, se non si fosse tosto cessata la guerra agli uccelli. Malgrado ciò, da per tutto si continua a cacciarli spietatamente con schioppo, reti, lacciuoli, e trappole d'ogni maniera. Tu stesso, figlio di coltivatore, tratti da nemici questi piccoli uccelli che sono i veri amici, i guardiani delle raccolte; tu distruggi le loro covate; alla primavera giri lungo le siepi e nei boschi, frughi nei cespugli e nel cavo degli alberi per cercarvi i nidi, e rapisci alla madre i pulcini appena nati, e fin le uova. Tu rendi male per bene. Invece di proteggerli, per l'aiuto che ti porgono nel distruggere gli insetti, tu li uccidi. La tua è una cattiva azione. Ora che t'ho avvisato, spero che ricorderai sempre questo precetto: lascia vivere gli uccelli: il buon Dio li ha posti a guardia delle tue raccolte. Oggi i paesi civili tutelano, con leggi speciali, la conservazione degli uccelli utili, e puniscono con multe chi dà la caccia ai loro nidi. Tu, figlio di coltivatore, quind'innanzi ne rispetterai il nido, ancorchè non ti venisse minacciata una multa.

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Vedesti che a dare agilità, destrezza, e vigore a ogni parte del corpo occorrono svariati esercizi delle membra. Questa ginnastica torna facile ed opportuna a chi vive la vita libera dei campi. Il bisogno di riposo è naturale conseguenza del moto, e del lavoro. L'uno e l'altro, per giovare alla salute, debbono essere moderati, ed alterni. La fatica soverchia logora le forze, e il riposo prolungato le infiacchisce. Conseguenza d'entrambi è l'impotenza al lavoro. Ciò è vero per le bestie, come per l'uomo. Quindi il dovere, e la convenienza di trattar bene gli animali, di non esigere da essi un lavoro eccessivo, di concedere loro il necessario riposo. Queste considerazioni sul trattamento degli animali condussero a parlare degli uccelli, e dei servizi che prestano all'agricoltura. Donde si venne alla conclusione, che il proteggerne la conservazione, è una necessità e un dovere.

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Dio disse a tutti gli uomini: Amatevi l'un l'altro come buoni fratelli, come foste una sola famiglia. Ognuno faccia agli altri quello che vorrebbe fosse fatto a lui, e non faccia agli altri ciò che non vorrebbe a lui venisse fatto. Il Signore vuole da noi anche più: Gesù Cristo disse a tutti gli uomini: Amate i vostri nemici, fate bene a coloro che vi odiano, pregate per coloro che vi perseguitano. Io terrò come fatto a me stesso quello che farete a pro degli altri, e ve ne compenserò chiamandovi a possedere il regno de' cieli. Perchè noi potessimo eseguire il suo comando, Iddio ci ha fatto il cuore capace di un amore infinito: Egli infuse nell'anima nostra la virtù della carità. È questa la più bella, la più santa, la più divina delle virtù. Essa ci insegna ad amare, a compatire, a perdonare, a beneficare. Felice chi ascolta i consigli della carità! Egli cammina dritto nella via del bene, e si rende caro agli uomini e a Dio. Giovinetto, accogli nel tuo cuore la carità: ama il prossimo come te stesso. Questo amore ti darà le più dolci consolazioni nella vita presente, e ti prepara il premio nella vita futura.

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Paolino, che lo vide cadere, corse subito, l'aiutò a rialzarsi, gli dette il braccio, e l'accompagnò fino a casa. Caterina giace in letto da più anni; è paralitica; le sue gambe son come morte. È sola al mondo, e non possiede nulla. Tuttavia non è mai sola, e non le manca proprio nulla. La sua stanza è la casa di tutti, e nel pasto d'ogni famiglia agiata c'è sempre la parte riservata a Caterina. Giannetto, balloccandosi coi fiammiferi, dette fuoco al pagliaio, e l'incendio s'appiccò tosto al fienile e alla casa. Al primo tocco di campana accorse tutto il paese. Non ci fu verso a domare il fuoco del pagliaio e del fienile; ma tra tutti si potè salvare la casa. E il mulino del Riobianco? Te ne ricordi? Il torrente, ingrossato a dismisura per le lunghe pioggie, minacciava di portarselo via. Si lavorò tutta una notte per respingere l'impeto delle acque, con pericolo della vita anche qui, come nell'incendio della casa di Giannetto. Finalmente la pioggia cessò, e il mulino fu salvo. È morto Carlandrea, coltivatore laborioso, onesto, ma povero; restò la moglie sola con tre figliuoletti. I capi-famiglia del paese andarono dalla Lena, e le dissero: «Sia fatta la volontà del Signore, povera Lena! Noi non possiamo ridonarvi quel brav'uomo che Dio v'ha tolto; ma vi promettiamo di lavorare le vostre terre e seminarle, fino a che i vostri figlioli possano fare da sè». Tutte queste opere sono inspirate dalla virtù della carità: nel farle, chi può non provare una vera contentezza? Bisognerebbe non aver cuore per non sentire compassione delle altrui disgrazie. Non merita il nome d'uomo colui che nega il suo aiuto a chi è minacciato da grave pericolo. Ma la virtù della carità si manifesta puranche in tante altre opere minori. È ancora carità il dir bene del prossimo, il compatirne i difetti, il perdonare le offese. È egoista chi non ama che sè e la sua famiglia. Volendo bene a tutti gli uomini, come comanda la carità, si ama ancora più vivamente la famiglia, i parenti, gli amici. È mancanza di carità lo sparlare dei fatti altrui, il rifare il verso al balbuziente, al gobbo, allo sciancato. Anche il farlo per celia, sta male quel che dà dispiacere ad altri. È d'animo cattivo chi sente invidia del benessere altrui, chi si rallegra del male. Chi non ha carità, non ha cuore. E chi non ha cuore è un disgraziato, fosse anche carico d'oro.

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Un bugiardo si conosce più presto che uno zoppo; la verità, come l'olio, viene a galla. Ma poi, anche non si venisse a scoprire la bugia, forse che Dio non vede nel cuore? Non lo sa la coscienza? La bugia è un vizio brutto e schifoso, che fa nell'anima una macchia più nera dell'inchiostro. La bugia è il primo passo al mal fare. Per ciò i bugiardi e gli impostori sono disprezzati da tutti. A chi è conosciuto bugiardo non si crede più nulla, neanche se dice la verità. Pierino ha commesso un piccolo fallo; lo confessò subito, e gli fu perdonato. Pierino è un ragazzo sincero; non dice mai quel che non è, e tutti gli vogliono bene. Quando si manca, bisogna confessare la propria mancanza, come ha fatto Pierino. Bisogna dir sempre la verità, anche se a dirla ce ne vien danno. È brutta cosa aver due lingue. Non si deve mai dire il falso, anche quando dicendo il falso può venirne vantaggio. Prima di parlare, pensa a quel che devi dire. A tempo e luogo sappi anche tacere per non recar danno ad altri. Non devi far la spia dei falli altrui. Ognuno ha da guardare a sè. Ma quando mai tu fossi interrogato in tribunale su qualche fatto che conosci, allora sei obbligato in coscienza a dire tutta intiera la verità, come fossi innanzi a Dio.

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Nella nostra coscienza è scritto a grandi caratteri il santo nome di Dio. E perchè? Perchè a Dio siamo debitori della vita e di tutto; perchè ogni cosa parla di Dio ai nostri occhi, al nostro spirito, al nostro cuore. Alza gli occhi al cielo: vedi il sole, la luna, le stelle. Qual magnificenza! Volgi gli occhi intorno a te: ecco montagne, vallate, acque, pianure; ecco alberi, erbe, fiori; ecco animali d'ogni specie sulla terra, nell'acqua, nell'aria. Quanta varietà! quanta bellezza! Tutte queste cose sì belle, sì grandi, sì buone, le ha create Iddio che è onnipotente, che può tutto quello che vuole. Dio è il creatore e il padrone del mondo: e noi siamo le sue predilette creature. Il Signore Iddio, infinitamente buono, ci ama e ci fa del bene ogni giorno, ogni ora, ogni istante della nostra vita. Giovanetto, adora il Creatore; ringrazialo dei suoi continui benefizi; ama Dio con tutto il cuore e sopra ogni cosa; prega il Signore che ti faccia buono, e degno dell'amor suo.

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Gaetano è un fanciullo stizzoso e superbo; vuol sempre aver ragione, perfino quando manca; non sa adattarsi mai al genio degli altri, pretende che tutti facciano a modo suo; è prepotente coi fratelli, con le sorelle, coi compagni; è un attaccabrighe e un brontolone. Tutti vedono in lui questi difetti; egli solo non li vede; anzi, a sentir lui, tutti gli fanno dispetti, tutti gli vogliono male. Ma come si fa a volergli bene? I ragazzi ostinati, seccanti, permalosi somigliano alle mosche. Chi può amare le mosche? Chi le vuole intorno? Tutti le cacciano, perchè sono noiose, perchè molestano sempre. I ragazzi puntigliosi e maligni sono anche peggio delle mosche; somigliano alle vespe; e tutti cacciano via le vespe, perchè la puntura di esse fa male. Se Gaetano non si corregge di questi suoi difetti, nessuno lo vorrà più per compagno, perchè dove c'è lui non si sta bene. Giovinotto, non fare come Gaetano, se vuoi vivere in pace con la gente.

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Guai a lui se non si corregge di queste piccole rabbiette, fin che è giovine: guai a lui! Finirà male, molto male di certo. Guàrdati, giovinetto, dall'ira; essa è un vizio orribile. Chi è pronto all'ira è facile al male. L'ira è cieca, toglie il lume della ragione. L'uomo dominato dall'ira è come una bestia, e bestia feroce; perde la testa, diventa furioso come un pazzo, e può commettere qualunque delitto. Guàrdati dall'ira; soffoca dentro di te i cattivi pensieri d'odio e di vendetta. A chi ti ha offeso perdona, se vuoi essere perdonato. Il perdono è la vendetta che ci ha insegnato Gesù Cristo: perdonando guadagni la stima e l'affetto anche di quelli che ti hanno offeso.

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Basta un ragazzo cattivo a guastarne cento buoni: al contrario cento buoni difficilmente riescono a correggerne uno cattivo. In un paniere di mele sane mèttine una marcia. Credi tu che, tra tutte, le mele buone risanino la mela marcia? Se guardi il paniere dopo alcuni giorni, vedrai che è accaduto il contrario: la mela guasta avrà fatto marcire tutte le altre che erano buone. La cattiva compagnia è come il fumo della pipa: tu non puoi restare gran tempo in luogo ove si fuma, senza portarne con te l'odore. Il cane, se va col lupo, impara ad urlare; chi pratica lo zoppo impara a zoppicare. Dimmi con chi vai, ti dirò chi sei. Fuggi dunque la compagnia dei giovanetti cattivi; scegliti a compagni dei fanciulli buoni, giudiziosi; e come tu avrai sempre a lodarti di loro, fa che essi abbiano sempre a lodarsi di te.

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Ma nel punto che stava per spiccarle dall'albero, gli vennero giù due legnate sulle spalle, che lo gettarono tramortito a terra. La lezione fu un po' dura; ma Nicola a menar le unghie sulla roba altrui se l'ha meritata. Capitò anche peggio lo scorso autunno a Maurizio, che entrò di notte in una vigna a rubarvi dell'uva. Il guardiano, già arrabbiato per altre simili ruberie, gli scaricò tanto di piombo nella schiena, da lasciarlo malconcio fin che vive. Il castigo, in verità, fu crudele; ma Maurizio se l'è andato a cercare. Va rispettata la roba altrui, come vogliamo rispettata la nostra. Si suda tanto per avere un magro raccolto, e vederselo portar via da malviventi è pur doloroso! Ed è anche una dura vita quella di star su tante notti a vegliare, perchè i birboni non facciano man bassa sull'uva e sui frutti maturi. Non vieni a dirmi: «infine poi due pesche, due grappoli d'uva valgon sì poco!» Bada, ragazzo, che ogni vizio ha principio dal poco; e anche a diventar ladri consumati si comincia dal poco. Come ha fatto Pasquale? Cominciò dal rubacchiare qualche soldo in casa per darsi bel tempo, e finì con assassinare sulle strade: ora sconta le sue colpe con dieci anni di galera. Bada, giovinotto: o poco o molto, chi si appropria ciò che non è suo, è un ladro. È ladro chi ruba le ciliegie e le mele nell'orto, la legna nei boschi, i pali nelle vigne, ecc. È ladro il vaccaro che lascia andar le bestie a pascolare sulle terre altrui. È ladro il mezzaiuolo che non dà al padrone la giusta parte di uva, di grano, di bozzoli, di frutta che gli spetta nella divisione dei prodotti del podere. È ladro il bracciante pagato a giornata che, lontano dagli occhi del padrone, si ristà dal lavoro. E anche ladro chi, trovato un oggetto, non cerca chi l'ha perduto, e lo ritiene come suo. E il ladro è un uomo infame, disonorato, che fa vergogna alla propria famiglia, e finisce male i suoi giorni. Impara dunque da giovane a rispettare la roba altrui, ad essere giusto con tutti, a dare a ciascuno il fatto suo, ad essere onesto e leale nei contratti. Pensa che la roba di mal acquisto non fa mai buon pro; e ricordati che la riputazione perduta è come uno specchio rotto.

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Giovani e vecchi, uomini e donne, fanciulle e ragazzi, ognuno è obbligato a lavorare secondo la propria forza. Il tuo dovere, o giovinetto, è ora quello di attendere alla scuola, di aiutare in casa, e di compiere i più semplici lavori di campagna che convengono alla tua età. L'arte del coltivatore dà lavoro a tutti, anche ai ragazzi. L'opera tua, per quanto piccola, è sempre utile. Qualche volta poi è necessaria, per esempio, quando si allevano i bachi da seta, o si falciano i prati, o si miete il frumento, o si vendemmiano le uve. Allora niuno risparmia la pelle; occorre far presto; c'è lavoro per tutti, anche per te; e tu lavori di buona voglia, e godi di poter giovare a qualcosa. Giovinetto, continua bene, come hai cominciato, e diventerai un buon lavoratore.

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Questa gioia del lavoro cresce ogni giorno, ci fa contenti del nostro stato, e ci anima a continuare nella stessa vita attiva e laboriosa. Napoleone I, mentre passava a cavallo per una foresta, vide un boscaiuolo che lavorava, e cantava allegramente, ed esclamò: «Vedi quell'uomo; si guadagna il pane con tanta fatica, eppure sembra felice!» E accostatosi a lui, senza essere conosciuto, gli domandò. «Che cosa ti rende sì allegro? E quegli rispose: «Ho una salute di ferro e lavoro volentieri: non ho forse ragione di essere contento? «Quanto guadagni al giorno? «Tre lire. «E bastano per te e per la tua famiglia? «Altro che bastano: mantengo la moglie e tre figlioli, e me ne avanza ancora da mettere a interesse e a pagare vecchi debiti. «Come è possibile ciò? «Metto danaro a interesse, mandando a scuola i miei figlioli; pago vecchi debiti col mantenere i miei genitori». Vedi, giovinetto, come il lavoro fa l'uomo virtuoso, e contento del proprio stato.

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Anche Tonio era un proprietario agiato e benestante; ma, per sua disgrazia, quanto a lavorare fu il rovescio della medaglia di Carlambrogio. Egli correva a tutte le fiere e ai mercati, senza bisogno di comprare o di vendere; frequentava la compagnia di gente scioperata come lui; stava più volentieri all'osteria, che non a casa; faceva insomma il buontempone. Era naturale che così non la potesse durare; e molti avvisarono Tonio della cattiva via in cui s'era messo. Ma i buoni consigli non giovarono. Trascurando i propri affari, e spendendo da signore, Tonio cominciò a far debiti; per pagarli vendette un campo: nè si fermò lì. Continuò a far debiti, e si mangiò via via i prati, le vigne, fino all'ultimo palmo di terra. Ora la famiglia di Tonio è ridotta alla miseria. Carlambrogio col lavoro ha migliorato la propria condizione: Tonio ha rovinato la sua con l'ozio. Carlambrogio ha trovato la fortuna in fondo alle braccia: ogni contadino può trovarla come lui, purchè ci si metta di buon proposito. Chi vuole stare con le mani in mano e con la pancia al sole, mangia quel che ha, e finisce come Tonio.

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Prega dunque il buon Dio che ti assista, e ti aiuti a far bene. A lui rivolgi il primo pensiero del mattino, e l'ultimo della sera; comincia i tuoi lavori col nome di Dio, e finiscili ancora col suo nome. La preghiera sia pur breve, ma divota, fervorosa, fatta proprio col cuore. Pregando pensa che parli con Dio che legge dentro l'anima tua. Molti ragazzi pregano solamente con la bocca: con la mente pensano a tutt'altro; con le mani si trastullano; con gli occhi guardano di qua e di là. Le preghiere fatte in tal modo, senza unirvi la mente ed il cuore, sono peggio che inutili: Dio non le ascolta. Meglio pregar poco, ma bene: meglio il cuore senza le parole, che le parole senza il cuore.

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Il tempo è un tesoro che non costa un soldo; ma se lo perdi, non lo puoi comprare, neppure a pagarlo un milione. Il tempo viene, passa e non ritorna più: impara dunque a spenderlo bene fin che lo hai. L'arte di impiegar bene il tempo si impara da ragazzi; si perfeziona con l'età e l'abitudine; e poi non si perde, nè si dimentica più. Bada anzitutto che ogni cosa ha il suo tempo, e vuol essere fatta in quel tempo. Gli alberi mettono prima le foglie, poi i fiori, poi maturano i frutti. Così il campo prima si ara, poi si semina, più tardi si miete. Se un contadino volesse mietere quando è tempo di seminare, o seminare quando è tempo di mietere, farebbe ridere fin le galline. Così c'è il tempo di lavorare, quello di mangiare e quello di riposarsi. Or bene, fa ogni cosa secondo il suo tempo. Quando è tempo di fare una cosa, non pensare a farne un'altra; e quando fai una cosa, sii tutto intento e attento a quella, se vuoi riuscirla bene. A far le cose sbadatamente, o fuor di tempo, si diventa vecchi senza aver fatto mai nulla di bene.

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Non rimettere a domani ciò che puoi fare oggi. Un buon oggi, dice il proverbio, vale due domani. Il più delle volte il domani non è più a tempo, come capitò a Matteo. «Domani seminerò il mio campo; la stagione è opportuna» disse Matteo. E l'indomani era in piedi all'alba. Mentre stava per recarsi al campo venne un compare, che l'invitò ad andare con lui al mercato. Matteo esitò alquanto, poi pensò: «un giorno prima o dopo non è poi gran male: seminerò domani». E andò al mercato, dove si fermò fino a tarda ora mangiando e bevendo assai. Al mattino appresso, pel troppo vino bevuto, gli dolevano la testa e lo stomaco. «Pazienza, disse Matteo, oggi mi riposo, seminerò domani». Ma il domani cominciò a piovere, e la durò per più giorni di seguito. Matteo seminò troppo tardi, e ne cavò un meschino raccolto. Egli riconobbe a sue spese la verità dei proverbi: Chi ha tempo, non aspetti tempo. - Del presente si è padroni, dell'avvenire no.

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Non è vero che nell'inverno la terra riposi; essa lavora a preparare la nutrizione delle piante che il coltivatore le affida. Anche tu nell'inverno lavori, frequenti la scuola, e studi per farti poi un buon agricoltore, come il babbo. E lo diventerai, se impieghi bene il tuo tempo. Ora dimmi: che fai tu nelle lunghe sere d'inverno? Nulla: tu le passi nella stalla a udire vecchie storie del mago, del folletto, e degli spiriti. Quelle storiacce ti empiono la testa di superstizioni, ti mettono in corpo la paura dei morti e delle streghe; tu non osi più uscire al buio da solo; l'ombra d'una pianta, la tua stessa ombra ti pare un fantasma, il più lieve rumore ti fa venire la pelle d'oca . Questa bruttissima usanza delle vecchie comari Carlambrogio l'ha bandita dalle sue veglie. Manda i ragazzi e i giovanetti alla scuola serale, quando c'è; se non c'è, si trattiene a discorrere con essi di cose riguardanti la coltivazione della terra, mentre li addestra a diversi lavori, a far funicelle di cuoio, panieri di giunchi, canestri di vimini, gabbie, reti da paretaio e da pesca, sedie di paglia o cannucce. Non puoi anche tu fare lo stesso? Imparando un mestieruccio qualsiasi, nelle lunghe sere invernali guadagni qualcosa, e non resti con le mani in mano. Se frequenti la scuola degli adulti, impari sempre meglio a leggere, scrivere, e far di conto. Leggi almeno qualche po' nelle lunghe sere invernali: ci sono dei libri fatti apposta pei giovanetti campagnuoli; prega il tuo bravo Maestro che te ne suggerisca alcuno; tu vi troverai, fra altre buone cose, anche il secreto per ricavare un maggior prodotto dalle terre.

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La costanza riesce a tutto. Sì, giovinetto: con la pazienza e la volontà si viene a capo di tutto; senza costanza tutto va male, e non s'arriva a far nulla. Cecco per pochi quattrini comperò cinque ettari di terra così brulla, che non avrebbe bastato a levargli la fame per un giorno. Figùrati che cosa ha comperato! un campo tutto pieno di ciottoli, un bosco senza piante, un burrone orrido e nudo, e una brughiera paludosa, popolata di ranocchi. Ma Cecco, comperando quella terra, s'era proposto di trarne buon partito; e vi riuscì. Nettò il campo dalle pietre, e ne fece un fruttetto; ripopolò il bosco di piante; convertì il burrone in una folta macchia di robinie; prosciugò lo stagno, e lo ridusse a prato sanissimo. Quando Cecco pose mano ai lavori, la gente rideva di lui, come d'un pazzo, che tentava cose impossibili, che spendeva inutilmente la fatica. Ma Cecco non si diè per inteso delle ciarle e dei motteggi altrui; continuò con più ardore l'opera sua, finchè gli riuscì, come l'aveva divisata. Ora Cecco raccoglie il premio della sua perseveranza. Dal frutteto cava bei danari di pesche e di mele; il bosco gli fornisce una buona provvista di legna; il burrone gli dà i pali per le viti; e col prato mantiene due vacche e un vitello. Vedi, giovinetto, che nulla è difficile a chi vuole di buon proposito: e tu pure lo sai per prova. Ricòrdati come ti imbizzivi di non poter imparare l'aritmetica! ma poi ti mettesti proprio di buona voglia, ed ora i conti li fai bene. Così avviene d'ogni cosa: quasi sempre volere è potere. Sii dunque fermo e perseverante nei buoni propositi, se vuoi che ti riesca bene quanto imprendi a fare.

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Se non ti vien fatto subito a modo, non devi perderti d'animo, e dire: «È inutile, tanto non mi riesce»; continua, e riuscirai. Chi maneggia la prima volta l'aratro, non tira i solchi dritti come un I. Si sa che nessuno nasce maestro. Anche qui ricorda i proverbi: Chi fa falla; - provando e riprovando si impara; - col vedere quel che non va, si capisce quel che va. Tutte le cose sono difficili, prima di diventar facili. Quando si guarda una montagna dal piede, sembra impossibile di salirne la cima: è così alta! così erta! Pròvati a salire, e trovi ombre, fontane che t'invitano a proseguire il cammino; più vai, più prendi coraggio; ed eccoti sulla cima, ove la bella vista di altri monti, di valli e di pianure ti compensa della fatica fatta per giungere lassù. In conclusione: a camminare per la via piana tutti son buoni; gli è come andare in barca col mare placido e tranquillo. Il merito consiste nel superare le difficoltà, e queste si vincono con la pazienza, ed il fermo volere. Le difficoltà formano l'uomo, come le tempeste formano il marinaio.

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La formica sa che, venuto l'inverno, fuori non troverà più nulla, e lavora nell'estate, dal mattino alla sera, a far provvista di cibo. Anche le api sono bestioline giudiziose, e previdenti, come le formiche. Vedi con quanta arte si fabbricano la loro casetta! Con quanta diligenza lavorano durante la buona stagione! È un via vai continuo dall'alveare alla campagna, a far provvista di miele per l'inverno; leste volano da un fiore all'altro per raccoglierlo; si allontanano anche più miglia a farne ricerca; e quando n'han le zampette cariche, volano a deporlo; poi ripartono subito a cercarne dell'altro. Impara anche tu a mettere in serbo quanto ti sopravanza al bisogno. Nei giorni buoni provvedi pei giorni cattivi, che vengono sempre; perchè dice bene il proverbio: il sole del mattino non dura sempre fino a sera; e chi spende in gioventù, digiuna nella vecchiaia.

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Al contrario è uno spensierato, che si dà bel tempo nell'estate, ma è naturale che poi si trovi a denti asciutti nell'inverno. Senti che lezione fu data a questo fannullone. Un giorno, al cominciar dell'inverno, un grillo, sfinito dalla fame e dal freddo, si presentò ad un alveare, e chiese alle api qualche goccia di miele per sfamarsi. Una delle api, che stava a guardia della casa, gli domandò: «Che cosa hai fatto nell'estate? Perchè non hai provvisto un po' di cibo per l'inverno?» «Io spesi (disse il grillo) allegramente il mio tempo bevendo, saltando, cantando, senza darmi pensiero dell'inverno». «Ben diversamente facciamo noi, rispose l'ape. Noi lavoriamo molto nella state a far provvista di cibo per la stagione in cui prevediamo che sarà per mancarci. Ma chi non sa far altro che bere, saltare e cantare, come fai tu, nell'estate, ben deve aspettarsi di morir di fame nell'inverno». Ciò detto, l'ape chiuse l'uscio in faccia al grillo. Giovinetto, tieni a mente la lezione. A chi da giovane fa come il grillo, capita come a lui da vecchio: morrà di miseria. Giovane ozioso, vecchio bisognoso.

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Tu invece l'hai speso, dicendo a te stesso: «Un soldo risparmiato a che serve? Che cosa si può fare con un povero soldo?». Io ti rispondo che molte volte la fortuna d'un giovane comincia da un soldo risparmiato; e ti ricordo il giustissimo proverbio: Chi non sa tener conto d'un soldo non vale un soldo. Uno spillo val meno d'un centesimo, non è vero? Ebbene, uno spillo raccolto da terra fece la fortuna di un povero giovane, di nome Lafitte. Questo giovane, disagiato di fortuna, ma ricco di buon volere, lasciò il natìo paese, e si recò a Parigi a cercarvi una occupazione. Dopo aver picchiato inutilmente a molti usci, si presentò ad un ricco banchiere. Era l'ultimo tentativo, dopo il quale, se non gli riusciva, avrebbe rifatto la via del paese. Ed anche questo fallì, come gli altri. Neppur là c'era lavoro d'avanzo per occupare altri giovani. Lafitte uscì di là sconfortato; camminava a testa bassa, e rifletteva alla disperata sua condizione. Traversando il cortile della casa del banchiere, scorse a terra uno spillo; lo prese, e l'appuntò nell'abito. Il banchiere, che dai vetri del suo studiolo vide quell'atto, giudicando che non avrebbe mancato di riuscire un uomo savio ed operoso chi in giovane età addimostrava di saper curare le piccole cose, richiamò a sè Lafitte, dicendogli che l'avrebbe in qualche maniera occupato. Applicatolo dapprima ai più umili uffizi, per metterne a prova la buona volontà, poi grado grado a lavori più importanti, per valutarne la capacità e la diligenza, il banchiere ebbe tanto a lodarsi dell'opera di Lafitte che, dopo averlo associato ai proprii affari, finì per lasciarlo erede di tutte le sue grandi ricchezze. Uguale fortuna toccò a molti altri giovani, i quali seppero, come Lafitte, mettere in pratica il proverbio: Chi vuole il molto curi il poco.

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Tutto sta a mettere da parte il primo soldo: la difficoltà più grossa è nel cominciare. Il primo soldo, che entra nel salvadanaio, fa come la semente; si moltiplica, ne tira dietro molti altri. Così la virtù del risparmio diventa un'abitudine, che poi non costa nè privazioni, nè sacrifizi. Ma quest'abitudine va presa fin da giovane. È alla tua età che si deve imparare a spendere con giudizio, e a risparmiare quel che è superfluo. Sai che cosa è la Cassa di risparmio? È un ufficio pubblico, il quale riceve in deposito piccole somme, a cominciare da una lira; corrisponde per esse un modico interesse, e le restituisce, tutte o in parte, a volontà di chi le ha depositate; è una vera provvidenza per la povera gente, cui giova ben altrimenti che il Monte di pietà. E dov'è questa Cassa? L'hai sull'uscio di casa, al vicino uffizio postale. Ora che sai dov'è, e che cosa fa la Cassa di risparmio, prendi un mio consiglio: pòrtavi i pochi soldi che puoi mettere da parte ogni settimana, od ogni mese; così ti liberi dalla tentazione di spenderli malamente, ti fruttano qualcosa, li ritiri quando che sia, in caso di necessità; e, senza quasi avvedertene, in capo all'anno avrai raggranellata una bella somma.

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Anche senza creanza puoi essere un galantuomo; ma ti è necessaria a farti voler bene dalle persone con cui tratti. Se sei ruvido come una grattugia, se pungi come un'istrice, nessuno vorrà fregarsi con te. Chi ha maniere incivili, grossolane, sgarbate, dà molestia, e disgusto alla gente. Andrea è una buona pasta di ragazzo, ma a trattare con lui si direbbe il contrario. Se gli chiedi un servizio, te lo fa con mal garbo; se lo riceve da altri, non dice un «grazie». A chi gli parla, risponde asciutto ed aspro. Se t'incontra per via, passa duro e non ti dà il «buondì»; si tocca appena il cappello passando innanzi al Parroco, al Sindaco, al Maestro. Andrea ama i suoi fratellini, ma non sa fare loro una carezza; a divertirsi con loro non ci ha gusto. Obbedisce borbottando, s'imbroncia per nulla. La gente quando parla di Andrea, dice sempre «Peccato che non conosca il galateo!». Giovinetto, fa in modo che la gente non dica altrettanto di te. Se vuoi essere benvoluto, conserva negli atti, nelle parole, in casa e fuori, il contegno di un ragazzo bene educato. Ricòrdati che il bel tratto trova tutte le porte aperte - La creanza costa niente, e compra tutto.

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Il mestiere del campagnuolo non gli va a versi; c'è da sgobbar troppo; ed egli, per guadagnarsi la vita, non vorrebbe rompersi l'osso della schiena. Un tale gli aveva raccontato cose mai più viste dell'America. «Là, gli aveva detto, è una vera cuccagna; l'oro si cava a piene mani; i salami pendono dagli alberi sul naso alla gente che passa per via; le galline volano bell'e arrostite per l'aria, gridando: venitemi a mangiare». E Tommaso voleva andare in America; sì, ci voleva proprio andare. Per sua fortuna, pochi giorni prima del tempo fissato alla partenza, tornarono di là alcuni suoi compaesani, che l'anno prima v'erano andati con un grùzzolo di danaro. Dio mio, com'erano laceri, affamati, macilenti! Facevano pietà ai sassi. Il racconto dei patimenti sofferti da quella povera gente faceva drizzare i capelli! Colà non trovarono punto lavoro, benchè disposti a far di tutto per vivere. Consumato il poco denaro, soli in terra straniera, privi di ogni cosa, stesero la mano a domandare l'elemosina; patirono la fame; e taluni morirono di stento, e di miseria. Tommaso non ne volle sapere di più. Ma d'allora in poi rinunziò all'America, e alla sua cuccagna.

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Si diceva allora che gli agricoltori non hanno a saper di lettera; che essi son nati per lavorare, mangiare, dormire, e poi di nuovo lavorare; che quando fossero un po' istruiti, prenderebbero in uggia il mestiere. Oggi ancora taluno mette in ridicolo i campagnuoli che san di lettera, chiamandoli dottori della zappa, letterati da villaggio. Siamo d'accordo che il coltivatore non ha da essere un laureato, nè saperla lunga, quanto un dottore. Siamo ancora d'accordo che, per avere imparato l'alfabeto, non ha da mettere bocca in tutto, e far lo sputasentenze per diritto e per rovescio. Ma poi che il contadino debba restare sempre ignorante, e che ciò sia pel suo meglio, la è troppo grossa. Ai tempi d'una volta l'istruzione era privilegio di pochi; gli artigiani, i coltivatori, la poveraglia non sapeva far l'O con un bicchiere. Allora così andava il mondo. Ma oggi si nasce con gli occhi aperti. Oggi tutti si va a scuola, poveri e ricchi. E più si è poveri, più si ha bisogno della scuola: e ai contadini fa mestieri, quanto a ogni altro. Alla scuola s'impara a scrivere, se occorre, quattro parole ad un lontano; a fare una ricevuta; a tenere i conti; ad esercitare con maggior criterio la propria arte. E s'imparano altresì la pulitezza, l'ordine, l'abitudine al lavoro, i doveri del proprio stato. Forse che tutto ciò è inutile? L'ignoranza a che giova? Lascia la gente nell'impotenza; la fa caparbia, diffidente, testereccia, presuntuosa, e piena di pregiudizi, il che è anche peggio. Perciò fu detto, con ragione, che l'ignoranza è la peggiore delle miserie. L'uomo che sa, fa bene i fatti suoi. Chi si affatica per sapere, lavora per avere, e si fa strada alla fortuna. Un tempo le scuole erano pochissime, e ad istruirsi c'erano grandi difficoltà per la povera gente. Ma ora l'istruzione è a tutti obbligatoria per legge; in ogni villaggio vi hanno scuole per maschi, per femmine, per fanciulli e per adulti, con buoni maestri, e bene ordinate. Non si ha che la fatica di andarvi. Epperò oggidì chi rimane ignorante, colpa sua.

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Ma per conoscere se dalle sue operazioni ricavi un profitto, e quale, o n'abbia una perdita, e quanta, deve fare quel che fanno gl'industriali, e i commercianti; deve cioè tenere, come essi, un conto esatto di quel che entra ed esce, e d'ogni cosa che fa; tutto ciò, non a memoria, che facilmente dimentica le cifre piccole, ma scrivendo sopra quaderni, o registri. Così fanno i buoni coltivatori che amano veder chiaro nei proprii affari, e che, lavorando, vogliono guadagnare, e non perdere. Se tu domandi a Carlambrogio, quale fu nell'anno passato il prodotto netto d'un suo campo, egli consulta il registro delle coltivazioni, nel quale notò la spesa della semente, del concime, dei lavori del terreno, della mietitura e trebbiatura del grano, il fitto della terra, o l'interesse del suo valore, ed il valore del raccolto; e mettendo a confronto questo ultimo valore con la somma di tutte le cifre precedenti che rappresentano la spesa, ti sa dare la risposta precisa, fino ai centesimi. Parimenti se gli chiedi dei guadagni della stalla, egli te li trova nel registro del bestiame; come trova nel registro delle spese di casa il costo di mantenimento della sua famiglia. Carlambrogio nota prima in un registro-giornale ogni operazione giornaliera: cioè i lavori fatti, i carri di letame condotto sulle terre, il fieno consumato nella stalla, le compre, le vendite, tutto ciò insomma che si passa, dì per dì, nel suo podere, dal mattino alla sera. Questa scrittura ei la fa ogni sera, in dieci minuti, ed alla domenica riporta questi conti sui diversi registri ai quali si riferiscono. Impara anche tu, giovinetto, a tenere i conti in questa maniera, e proverai quanto giovi. Senza conti chiari e precisi, il coltivatore fa la figura di un cieco che va in giro senza bastone. Crede di guadagnare dove perde, e non sa mai come stiano i fatti suoi. Eccoti un buon consiglio. A giudicare ciò che fa bene o male all'anima, consulta la coscienza; e per ciò che fa bene, o male alla borsa, consulta l'aritmetica.

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Gli stranieri che vengono a visitarla, maravigliati del suo limpido cielo, del dolce clima, dell'ubertoso terreno, la dicono il giardino d'Europa. Ma questa sua bellezza fece gola ai ladri da un pezzo, e fu a lei cagione d'infiniti guai. Circa mille e quattrocento anni fa scesero in Italia dei popoli barbari, e vi comandarono da padroni. Cacciati quei là, ne vennero molti altri più tardi; ed alcuni, con nostra vergogna, chiamati dagli Italiani stessi, in guerra fra loro. Prima i Francesi, poi gli Spagnuoli, poi i Tedeschi, poi a volta gli uni, a volta gli altri, son venuti a piantarsi in casa nostra; e noi si fece da servi per un bel pezzo di tempo. Cacciati, bene o male, gli stranieri, sul principio di questo secolo, l'Italia restò divisa a brandelli, come la veste di Arlecchino, e l'Austria continuò a farla da padrona quasi da per tutto. Finalmente nel 1848, nel 59, nel 60, nel 66 e nel 70 gli Italiani scossero il giogo della servitù. Combatterono le battaglie dell'indipendenza sotto la gloriosa bandiera della Croce di Savoia, e sotto questa medesima bandiera si raccolsero in una sola famiglia, acclamando Vittorio Emanuele re d'Italia, e Roma capitale del nuovo regno.

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Guardando la sua faccia sempre tranquilla e serena, non puoi a meno di esclamare: «Che aria di galantuomo!» E Carlambrogio lo è davvero: tutto il paese lo dice un modello di bontà, e di onestà. Egli non recò mai dolore ad anima viva: fece anzi del bene al suo prossimo, quante volte ne ebbe occasione. E queste occasioni furono tante, si può dire, quanti i giorni della sua vita. Lavoratore instancabile, si procacciò una bella fortuna, e sa farne buon uso. Egli è largo del suo ai poverelli, ma la carità sa farla a tempo e luogo; la rifiuta al vizioso, che non la merita, e la fa quanto più può, e senza vanto, a chi è veramente povero. Uomo di gran cuore, compatisce i difetti altrui, perdona le offese; ma la sua coscienza, retta ed onesta, si ribella ad ogni violenza ed ingiustizia, e lo fa pronto sempre a difendere il debole contro il prepotente. Animo schietto e leale, ama in tutto la verità; e la dice a fin di bene, e senza paura, anche a quelli che non vorrebbero sentirla, per esempio, agli oziosi, ai frequentatori di osterie. Così trasse molti dalla mala via del vizio, della bettola, del giuoco. Tutti ricorrono a lui per consiglio nelle cose importanti: niuno si pentì mai d'avere seguìto il suo avviso, sempre conforme a giustizia; molte discordie e liti si composero in pace per opera sua. In Carlambrogio si verifica il proverbio: «chi fa bene, trova bene». Egli sparge i benefizi intorno a sè, e raccoglie consolazioni senza fine: tutti lo stimano, e gli vogliono bene. Giovinetto, spècchiati in Carlambrogio: egli, per diventare il galantuomo che è, cominciò ad essere un bravo ragazzo.

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Se ci manca questo dono di Dio, a che giovano tutte le altre ricchezze? La vita stessa a che cosa serve a chi non è robusto e sano? Quale tesoro sia la salute, si aspetta a conoscerlo, dopo che si è perduta: quando una malattia ci fa impotenti al lavoro, inutili a noi, e di peso agli altri, allora si comprende quanto vale. La sanità è come un salvadanaio: non si sa quanto valore ha in sè, che quando si rompe. La salute è già di per sè esposta a mille pericoli: il caldo, il freddo, l'umido, e tante altre cause possono rapircela; e noi per giunta la strapazziamo in mille modi. La più parte delle malattie ce le tiriamo addosso con la nostra ignoranza, con le nostre imprudenze. Non si bada a quanto giova, o fa danno alla salute: si trascurano le precauzioni più necessarie per evitare i malanni. Molti poi si rovinano con gli stravizi, coi disordini del mangiare, del bere, del fumare, ecc. Ora dimmi, giovinetto: non è forse meglio prevenire le malattie, che doverle poi curare? Ebbene, metti in pratica le regole contenute in questo libro, e in tutta la tua vita non darai gran disturbo al medico, e allo speziale. Ricòrdati che la salute è un bene prezioso per tutti, ma specialmente per te, che devi lavorare per guadagnarti la vita. Cura altresì il buon mantenimento degli animali, che ti rendono così utili servizi. Pensa infine che la igiene, ossia lo studio della conservazione della salute, è una virtù, e insieme un dovere impostoci da Dio.

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E a farle più malsane, quasi non lo fossero già abbastanza, si aggiunge il letamaio. Questo lo si mette proprio sull'uscio di casa; e non si bada a raccoglierne il sugo, che in neri rigagnoli solca l'aia, e qua e là si spande in laghetti. Bisogna proprio essere senza naso, per non sentire la puzza ammorbante che ne esala! Per quanto si abbia una tempra robusta, come si può vivere sani in luoghi sì fatti? A dormire in camere umide, scure, c'è, pei ragazzi specialmente, da perdere la salute per sempre. Quasi tutte le malattie dei contadini, le febbri, le infiammazioni, i dolori nelle articolazioni, sono cagionate dalle abitazioni malsane. Nella casa di Gian Pietro si ammalarono tutti, un dopo l'altro, dello stesso male; e due ragazzi ne morirono. Il medico dichiarò la malattia essere un tifo, e ne diede la causa all'acqua del pozzo, guasta dalle infiltrazioni del vicino letamaio: e infatti l'acqua di quel pozzo, lasciata per un giorno in un bicchiere, puzzava di marcio. Oh che! Ci vuol tanto a fare il letamaio lontano dal pozzo, e dietro casa?

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Il Signore fece a tutti questo comandamento: «Onora il padre e la madre, se vuoi vivere lungamente sopra la terra». Guai a chi trasgredisce il comando di Dio! Guai al figliolo che dà dispiacere ai genitori, e non li rispetta come deve! Guai a chi fa piangere la sua madre! Dio conta quelle lacrime, e il cattivo figliolo piangerà poi per tutta la vita. Il buon figliolo rispetta sempre i genitori, e li ama quali sono, quali Dio glieli ha dati. Sono poveri? Li ama anche più, perchè hanno patito maggiori privazioni per lui, e la sua affezione è un grande conforto alla loro povertà. Sono infermi? Usa loro ogni attenzione possibile, e prega il buon Dio che li faccia presto guarire. Sono vecchi? Ricambia loro con gioia le cure affettuose che essi ebbero per lui nell'infanzia. Sono burberi? Li ama egualmente, e non se ne lagna mai. Hanno difetti? Li nasconde, li scusa, e loda le qualità buone che riconosce in essi. Hanno bisogni? Li soccorre quanto può, più che può. Insomma il bravo figliolo in tutta la sua vita non dimentica mai che, per quanto egli faccia, non arriverà a pagare tutto il suo debito di gratitudine, di amore e di ossequio verso i genitori.

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Carlambrogio sa quanto giovi un'abitazione sana, e l'ha procurata a sè e agli animali. La sua casetta guarda al bel mezzodì; da varie finestre riceve abbondanza di luce; ha dinanzi l'aia col pozzo; l'orto di fianco, e il letamaio di dietro, a mezzanotte. La stalla è a vôlta; alta, ampia, in modo che le bestie vi stanno comode; i muri intonacati e imbiancati; le finestre munite di imposte e invetriate. Negli angoli della vôlta vi sono sfiatatoi che, nell'inverno, si aprono per rinnovare l'aria, senza dover aprire porte, o finestre. Il pavimento è fatto con mattoni di costa, e un po' inclinato, per dare scolo alle urine, le quali, raccolte da un canaletto, inclinato anch'esso, vanno a versarsi in un pozzetto, fuori della stalla. Uguali attenzioni usò Carlambrogio perchè il porcile e l'ovile fossero sani, ariosi, e bene esposti. Queste spese gli tornarono a benefizio grandissimo. Tutta la famiglia di Carlambrogio ha fior di salute; e gli animali, che dalla sua stalla si presentano al mercato, vi fanno la prima figura, e ne ottengono i prezzi più alti.

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Vesti semplicemente, come si conviene alla tua condizione: gli abiti grossolani, rattoppati, non fan torto a nessuno. Ciò che fa vergogna, sono gli abiti pieni di lordure, scuciti, cadenti a brandelli. Un po' di sapone per pulirli dalle macchie, un po' di refe, e un ago, per rimendarli, non costano un occhio: più s'indugia, più il guasto si allarga, e non si potrà più riparare. In certi paesi il campagnuolo veste un paio di grossi calzoni, e un ruvido giubbetto di lana, che gli serve di camicia, e muta questi abiti una volta all'anno, o tutto al più due. Ma costoro mandano un puzzo, che si sente a più metri di distanza. Tanto sudiciume è proprio vergognoso! La camicia è un abito di prima ed assoluta necessità. Preferisci le camicie di cotone a quelle di lana, di canapa, e di lino: esse costano meno, e sono anche le più sane, per qualunque stagione; conservano il calore del corpo, e riparano meglio dal freddo, dal caldo, e dall'umido. Cambia la camicia il più spesso che puoi; e muta anche spesso la biancheria del letto. Usata da qualche tempo, la biancheria diventa malsana. Il mutarla spesso non è lusso, è pulizia, necessaria a tutti, ricchi e poveri, perchè è condizione di salute. Deponi subito le calzature e gli abiti bagnati dalla pioggia. Tenendoli in dosso, te ne potrebbe venire un'infreddatura, ed anche una malattia più grave. Smetti il mal vezzo di andare a piedi scalzi. I piedi incalliscono, si ammaccano, e loro tocca anche di peggio. Ricòrdati quanto patì Giannetto, per una spina che gli entrò nelle carni, e quale pericolo della vita corse Pietrino, per la morsicatura di una vipera!

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Il mestiere del coltivatore è faticoso; dà continuo lavoro a chi sente voglia di farlo. Il contadino ha dunque bisogno di un nutrimento abbondante e sostanzioso. Più lavora, più ha bisogno di mangiare. Perchè lavori bene, bisogna che mangi anche bene. Chi mangia bene è più forte, e fa maggior lavoro. Ma il mangiar bene non vuol dire mangiare a crepapelle. Tutt'altro. Gli eccessi, e le indigestioni, non fan bene a nessuno. Il mangione si scava la fossa coi denti. Mangiar bene vuol dire mangiare cibi sani e quanto basta, non di più, e non di meno. In ciò consiste la virtù della sobrietà, o temperanza. Chi pratica questa virtù, unita a quella del lavoro, vive bene, e lungamente.

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Il pane, specialmente quel di frumento puro, o misto a segala, nutrisce molto. La polenta, il riso, le patate gonfiano lo stomaco, e nutriscono poco. Un cibo sostanzioso si ha nel latte, nelle uova, e più ancora nella carne. Il miglior nutrimento è dato dalla carne di bue, di vitello, di vacca, e di maiale. A molti fa schifo la carne di cavallo, e di asino; e hanno torto. Questa carne è buonissima, più che quella di pecora, di capra, di coniglio. Il contadino, che di rado può regalarsi un pasto di carne, ricorre ai legumi. I fagiuoli, i ceci, i piselli, ecc. son la carne del povero; e infatti nutriscono più del pane; ma vogliono esser cotti bene, perchè si digeriscano facilmente. Pel montanaro, che non ha pane, son pane le castagne; e anch'esse, specialmente col latte, nutriscono bene. Alla varietà dei cibi corrisponde la varietà delle bevande: acqua, vino, birra, sidro, caffè, liquori, ecc. L'acqua si beve a pasto, e fuor di pasto, per spegnere la sete. Vi mesce vino chi ne ha; e magari beve questo anche puro. Il vino nutrisce e fortifica. Anche il caffè, l'acquavite, il rhum, ecc., aiutano la digestione, e fortificano. Ma dei liquori, e del vino, guai ad abusarne! La migliore delle bevande è poi sempre l'acqua fresca. Ma non tutte le acque sono potabili, ossia buone a bersi. Sono insalubri le acque di neve; malsane le stagnanti. L'acqua veramente buona e salubre si distingue a questi caratteri: è limpida, non ha odore, cuoce bene i legumi, scioglie bene il sapone.

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A molti contadini non riesce di passare innanzi all'oste, senza fargli una visita. Altri non sanno andare al mercato, senza cadere all'osteria; non fanno un contratto, senza bagnarlo col vino dell'oste. Quando si è là dentro, un bicchiere tira l'altro, e si vien fuori ubriachi, in uno stato che muove a schifo. Giovinetto, hai visto mai qualche cosa di più brutale, di più sconcio e ributtante, che un uomo ubriaco? Disgraziato chi prende la passione del vino, e, peggio, quella dei liquori! Vino, acquavite, rhum, ecc., sono i nemici più terribili dell'uomo: essi gli levano la ragione, la memoria, la forza, la salute; lo conducono anzi tempo al cimitero. Il bevitore trascura terre, e famiglia, dimentica tutto; sente un solo bisogno: bere, sempre bere. Questa passione lo incatena; ne rode le viscere; gli consuma la vita; lo imbecillisce; lo rende violento, malvagio; lo fa impazzire; lo porta all'ospedale, e non di rado alla galera. Resisti, giovinetto, alla tentazione di chi ti volesse incamminare all'oste, o al liquorista. Ricòrdati che il vizio dell'ubriachezza viene a poco a poco, e comincia da un bicchiere.

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Perchè sono indigesti, e quindi non giovano alla nutrizione; e poi a mangiarli, si corre pericolo di esserne avvelenati. E quante volte ciò accade! Cercando funghi, o per mangiarli, o per venderli, impara almeno a distinguere con sicurezza i buoni o mangerecci, che sono pochi, dai cattivi o velenosi, i quali sono moltissimi, e dai sospetti, ossia da quelli che or sì, or no fan male, secondo che hanno o poco, o tanto di veleno. La tua ignoranza nel distinguerli farebbe pagare crudelmente a te stesso, o ad altri, il peccato di gola. Se nella scuola, sovra una carta murale, fossero disegnate, e colorate al vero, tutte le specie e varietà di funghi, tu impareresti subito a scernere i buoni dai cattivi. In ogni caso rammenta questi consigli (Questi cenni sui funghi sono ricavati dall'ottimo Manuale d'Igiene Popolare, del dott. DE PETRI, libro che merita una larga diffusione tra i contadini, pei quali fu scritto.): «Rigetta, come sospetti, i funghi che hanno un odore d'erba, lattiginoso, fetido, ributtante: una superficie umida, vischiosa, macchiata; un sapore nauseoso, astringente, amaro, talvolta dolcigno da principio, poi prestamente acre, pungente, bruciante che produce un senso di stringimento alla gola; la polpa fibrosa, o molliccia, acquosa, che si scompone facilmente; che spezzata cambia colore, e diviene azzurra. «Rigetta i funghi che crescono in luoghi ombrosi ed umidi, nelle caverne, nei tronchi d'alberi infraciditi. «Rigetta i funghi troppo pesanti, duri, o spugnosi, che nascono sopra l'olivo, l'olmo, il fico, e in genere quelli che hanno un forte rigonfiamento alla base del gambo. «Diffida altresì dei funghi a colori troppo vivi. «Al contrario tieni senz'altro per buoni, e mangerecci, quei funghi che, cresciuti in luoghi scoperti e esposti al sole, sui margini delle selve, nelle siepi, fra i cespugli, e nei prati, tramandano un odore quasi di mandorle amare, di farina recente, e talvolta di rose; assaggiati hanno sapor di nocciole, non acerbo, nè astringente o acidissimo; presentano una polpa di mediocre consistenza che, tagliata, non muta colore; infine non hanno la superficie untuosa, vischiosa, nè colori troppo sbiaditi o troppo vivi».

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Guai a mangiare cibi, specialmente acidi o grassi, che siansi lasciati raffreddare in vasi di rame! Guai se a cuocerli si adoperano recipienti non bene stagnati! Guai se questi non sono nettati ogni volta con grande attenzione! Si avverta dunque a farli stagnare sovente, e si badi che la stagnatura sia buona, fatta cioè con stagno puro. Talvolta il calderaio, ignorante e birbo, adopera stagno contenente del piombo, meno costoso dello stagno puro. Sappi che il piombo è ancora più velenoso che il rame. Vedi dunque quant'è pericolosa l'ambizione dei vasi di rame, luccicanti, e schierati in giro alle pareti della cucina! Sono quindi a preferirsi le stoviglie in terra cotta, o in ferro, o ghisa; ma bada che lo smalto, onde son rivestite, sia duro, liscio, e non si stacchi facilmente. Lo smalto che si mostra poco resistente contiene molto piombo, e, mescolandosi alle vivande, ti può avvelenare. Smetti anche l'uso delle forchette e dei cucchiai di ottone, metallo pericoloso quanto il rame; e, se adoperi mortai di ottone, guàrdati bene di lasciarvi entro il sale.

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