Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Enrichetto. Ossia il galateo del fanciullo

179091
Costantino Rodella 1 occorrenze
  • 1871
  • G.B. PARAVIA E COMP.
  • Roma, Firenze, Torino, Milano
  • paraletteratura-galateo
  • UNICT
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Enrichetto, come quegli che a queste esercitazioni doveva la salute, e la sveltezza e gagliardia del suo corpo, vi dava opera con tutta l’anima; non però da diportarvisi senz’ordine e moderazione. Non era impetuoso nè sbadato; non scorazzava senza consiglio quà e là, dando spintoni a dritta e a sinistra, calpestando i piedi, o rovesciando chi si trovava sul suo passaggio. Né si compiaceva in burle inurbane, e che potessero recar danno, come dare il gambetto al compagno, per vederlo inciampare, barellare, e stramazzare a terra; o torre di dietro la sedia a chi si fosse alzato, per farlo andar a gambe in aria, quando avesse fatto per sedersi di nuovo; cose tutte villane e da cagionare chi sa che malanno, le quali non poteva patire, quando le vedeva da altri praticare. Non alzava mai le mani, neppur per celia, addosso chicchessia; avendo ognora presente il detto:giuoco di mano,giuoco da villano. Pensava che v’era modo a scherzare e a divertirsi senza ricorre a questi mezzi sconvenienti e contadineschi. è brutto vezzo di alcuni, che per saluto e per dar segno di amicizia e intimità, picchiano maledettamente sulle spalle, o pizzicano le braccia, o premono il naso, o chiudono fra due dita le guancie o le labbra a segno da cagionar acuto dolore; oppure strappano le orecchie o tirano dolorosamente i capelli; senza dire di colore che per far pompa della loro forza muscola stringono affannosamente per mezzo il corpo, o afferrano le braccia o le mani o le dita de’ più deboli, e le premono, godendosi di farli guaire; quasi con ciò dimostrino una grande virtù. Bella valentia davvero da far onore a un facchino! L’Istitutore di ballo, era un ometto magro e stecchito, una specie di caricatura; portava un giubbino a falde lunghe della moda che fu; parlava un italiano grottesco -che stagano bravi- era suo motto d’ordine. Figuratevi se gli alunni non facevano un carnevale di costui! Uno lo stiracchiava per una falda, l’altro gli tirava fuori un pizzo della pezzuola di tasca, chi di dietro sotto il bavato dell giubba gli appiccava una lunga coda di carta; ed egli gridava - ma che stagano bravi – e si arrovellava. Enrichetto per un po’ rideva pur egli, ma quando vedeva che la celia trasmodava, allora se ne sentiva dolere il cuore, e avrebbe dato sulla voce a’compagni; ma se ne rimaneva per non darsi aria di maggioranza. Però a quando a quando con bei modi si intrometteva facendo conoscere che la facezia non deve diventare sfregio; che quando la burla eccede o fa danno, non è più pulitezza mantenerla, e che si doveva aver riguardo all’età. Ebbene tanto seppe insinuarsi nell’animo de’suoi compagni, che a poco a poco si disciplinarono pel ballo; e il povero maestro fu lasciato in pace, con grande sua meraviglia e contento; segnalando questa squadra a tutte le altre come modello.

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Galateo morale

196664
Giacinto Gallenga 49 occorrenze
  • 1871
  • Unione Tipografico-Editrice
  • Torino-Napoli
  • paraletteratura-galateo
  • UNICT
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«A Torino, scriveva testé un brioso alpinista nelle pagine di uno spiritosissimo almanacco, un galantuomo non può alla sera recarsi in un caffè a bere una tazza di moka tempestata di cicoria senza esser sforzato a bersi in pari tempo una cavatina di Bellini». Eppure, non se ne offenda il musicofobo scrittore, questa non mi par un'innovazione tanto cattiva come la si vorrebbe da alcuni; giacché, se non avesse altro effetto, poniamo, che di distogliere qualcheduno dal recarsi nelle sale da gioco, sarebbe tuttavia un bel guadagno per la civiltà e per la morale. A parecchi non garba la colletta che si fa dai suonatori, e che essi paragonano ad un'imposta forzata sui consumatori. Ma in grazia, chi impedisce a costoro che non vogliono la musica, che odiano la colletta, di recarsi in quei caffè ove non si suona e non si canta? e in quei medesimi ove si fa concerto non vi sono forse dei salotti appartati dove si è al riparo del quartetto e del piattellino? Che se poi volete rimanere nella sala destinata a quel trattenimento, la civiltà vi prescrive: 1° Di non gridare, di non parlar tanto forte da recar noia a chi si compiace di udire la musica, e mancar contemporaneamente di riguardo agli artisti a cui non è vietato di aver la lor parte di suscettibilità e d'amor proprio. 2° Di non istarvene tutta quanta la sera al tavolino quando c'è grande concorso di avventori (e questo anche nei casi in cui non havvi musica di sorta); giacché quella prolungata occupazione è una indiscrezione verso il proprietario del caffè, a cui pesano già di troppo generalmente le imposte, i garzoni ed il fitto, e che ha in conseguenza il diritto di risentirsene con moti civili, come di una usurpazione vietata dalle leggi dell'equità, del galateo.

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Vuolsi camminare a modo e non all'impazzata, a curve, a saltelloni: non si debbono strisciare affettatamente i piedi, né scivolare, giuocando di pugna e di gomiti, in mezzo alla folla: e nemmeno ballonzolarsi con quel fare slombato per cui sembra che tu voglia cadere ad ogni passo; come non deve chi si rispetta e vuol rispettare gli altri mettersi alle calcagna di chi sta discorrendo per sorprenderne le confidenze, pestando per soprammercato le vesti alle signore e urtandosi sgarbatamente ai passeggieri. Il camminare impettito ti darà, l'apparenza di vanitoso; e nemmeno sarai detto gentile quando tu adottassi un portamento cascante, un'aria di languore, di sfinitezza; che anzi né acquisterai nome di effeminato e di leggero. Dovendo per angustia di spazio, passare frammezzo a persone ferme a conversare, la civiltà ti obbliga a chiedere scusa. Il vestir sucido e non conveniente al proprio stato è segno di disordine, di avarizia, di spensieratezza, di pazzia: gli abiti, le acconciature di strane forme, di strani colori con cui uno cerca di farsi reputare per originale, non riescono che a farlo considerare come una stupida e ridicola creatura, o come uomo che ha dato il cervello a pigione. Gli sciocchi inventano le mode, i savi le seguitano. Abbi poi ognora presente che uno squarcio in un abito può esser dovuto a disgrazia, ma le macchie portano sempre disonore.

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Se un poverino vien colto per istrada da una sincope, o gli si sloga un piede o un'inesperto automedonte lo manda a ruzzolare sul selciato; se uno di quei mille accidenti in somma che possono capitare a un galantuomo lo getta in terra e lo rende inetto a camminare, voi vedete in un'istante quel disgraziato circuito da una folla di curiosi che lo osservano, lo compiangono, lo interrogano e infine lo annoiano: da quei gruppi voi siate sicuri di udire a sorgere un torrente di invettive all'indirizzo dei cocchieri che ammazzano la povera gente, delle guardie che non li arrestano, del municipio che lascia deteriorare il selciato, del Governo che non s'incarica del tutto. Qualche volta per altro i primi sono da compatire perché han da fare con degli storditi che neanche una cannonata varrebbe a smuoverli dalla carreggiata e par lo facciano a cacciarsi nelle gambe dei cavalli. Le guardie anch'esse non hanno il dono dell'ubiquità, ne possono in conseguenza trovarsi appuntino dovunque succede una disgrazia. Il municipio per soddisfarli, questi piagnoni, dovrebbe stipendiare un esercito permanente di operai a riparare, a ripulire, a correggere ogni più lieve sconcerto del suolo pubblico; e il Governo, lui, può a gran pena provvedere a ciò che è più importante, vale a dire a premunirci dai malandrini d'ogni maniera: figuratevi se ha il tempo di provvedere ai disordini dell'acciottolato e all'imprudenza dei cocchieri.

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La mia urbanità, il mio fare alla buona mi procurarono più d'una volta il compenso di vedermi ridere in faccia il negoziante, e di farmi pagare più cara che non a colui la stessa mercanzia. Io domando, compro e pago; e per soprammercato ringrazio, e dò, prima di uscire, il buon giorno a tutti; un riverisco asciutto è tutta la risposta che mi dànno quando hanno la bontà di accorgersi della mia partenza. L'altra fa scrivere il suo dare a libro, e dà bravamente il suo indirizzo perché la roba gli venga portata a domicilio; e appena accenna ad andarsene, eccoti lì pronto il fattorino, il commesso, qualche volta lo stesso padrone ad aprirgli i battenti della bottega, dopo di averlo con umili inchini ed ossequiosi complimenti pregato a voler onorare un'altra volta della sua presenza il negozio.

Pagina 155

Ma non crediate perciò che questi industriali sieno quelli che fanno solidi e brillanti affari; giacché tendono piuttosto per una loro naturale sciocchezza a soddisfare la propria, l'altrui vanità, che il vero loro interesse: chi si pasce di nuvole non ingrassa. Ingrasserà, tutt'al più, la lista dei creditori insolvibili. E infatti l'onest'uomo che si vede bistrattato in un fondaco, difficilmente si decide a ritornarvi, e racconterà inoltre a più d'uno de' modi scortesi con lui adoperati; ed ecco di tal modo alienati gli avventori solidi, quelli che formano il vero avviamento dell'esercizio, quelli in una parola che pagano a danari: essendo questi, e non le ciancie, le vere ruote del commercio, checché ne dicano i ciarlatani ed i guastamestieri. Raccomando queste considerazioni a quei negozianti che tengono presso di sé dei commessi, dei fattorini ineducati, soltanto perché talvolta vestono elegante ed hanno sciolto lo scilinguagnolo. Eglino si tireranno a bottega qualche signorina leggiera, qualche attillato zerbinotto attratti da quella impertinente disinvoltura che si affà, moltissimo coi loro caratteri, ma allontaneranno l'onesto proprietario, la buona massaia, l'operaio modesto a cui piace il sodo, e che avran forse meno sfazose le vesti, ma meglio provvisto, per avventura, il borsellino; e quel che più monta avranno a fare sovente con persone che sono avversarie dichiarate dei pronti contanti e delle vicine scadenze.

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Vanno a tutte ore nei fondachi non già per comprare, ma per soddisfare la curiosità, per ammazzare il tempo. Obbligano commessi ed inservienti a vuotar le vetrine, gli scaffali, i magazzeni, a spostare insomma e a sciupare ben anco la mercanzia, chiacchierano un'ora sul gusto, sulla convenienza, sulla moda, espongono il proprio caso al negoziante come farebbero all'avvocato, al medico, per riceverne le istruzioni, i suggerimenti; osservano, toccano, assaggiano... e finiscono per non ispendere un quattrino; e così fan perdere al commerciante un tempo prezioso senza procurargli un soldo di guadagno. Eppure quegli è costretto a non lasciarsi sfuggir moccoli all'indirizzo dell'importuno anzi deve contrarre il viso in modo che sembri sorridente, poiché chi tiene stretti i cordoni della borsa ha slacciata per ordinario la lingua, e il povero negoziante che ci tiene al suo buon nome e ad esser detto cortese, convien che si guardi di dare altrui, a diritto o a torto, occasione di lagnarsi di lui, di menar le forbici addosso a questi accorrenti della mala ventura.

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Il negoziante non deve adottare nel fondaco i modi che sarebbero soltanto acconci in una conversazione fra persone che non si visitano per affari di commercio: sarebbe ridicolo che egli mettesse il discorso sulle faccende di famiglia o della politica; se offrisse la mano al compratore od usasse altrettali atti di confidente famigliarità, a meno che si tratti di congiunti, di amici o di altri che non siano entrati nel suo negozio unicamente allo scopo di commerciare. Bensì, trattandosi di persone del gentil sesso, o vecchie od infermiccie, dovrà offrire loro di sedersi: alle signore dee parlare con garbo ma guardarsi assolutamente dal corteggiarle in qualunque modo; non permetterà sicuramente che elleno si portino i cesti, i pacchi da loro stesse, ma non si offrirà nemmeno di accompagnarle, come si farebbe con una prossima parente ed amica. Ciò non sarebbe conveniente e avrebbe certamente per effetto di offendere le persone civili e costumate a cui venisse offerto quel ridicolo omaggio di servitù e di confidenza. Il fondaco non è luogo da commettervi sguaiataggini ed indecenze; e ciò serva d'avviso a certi impertinenti di fattorini che si vedono capitare al banco o a bottega qualche giovinetta appariscente o non troppo riservata, le si accostano, le sorridono, le parlano e van seco lei barzellettando, senza curarsi più che tanto dell'avventore che vien piantato in asso a far da testimonio a quei scipiti trattenimenti. I negozianti a cui sta a cuore la riputazione del proprio negozio non devono nemmeno tollerare che i loro subalterni stieno sulla porta della bottega o dietro le invetriate ad ammiccare a colui o a colei che è alla finestra in prospetto, a sorridere, a conversare con chi passa davanti alla bottega, a pavoneggiarsi, a lisciarsi i peli, per cui tu saresti tentato di paragonarli a quelle figure di cera che ti sorridono, soddisfatte, dalle bacheche dei parrucchieri.

Pagina 161

Quanta alle passioni, esse vi vengono dinanzi con quel loro volto seducente a tentarvi, quando uscite dall'officina, avviati verso casa vostra. «To', sei stanco, a quel che pare, Tonio! per bacco, al modo con cui lavori! vieni, andiamo a prendere un pochin di ristoro con una mezza bottiglia». E voi entrate a malincuore nella bettola, entrate causa quel maledetto rispetto umano che vi fa schiavi dell'altrui volontà, dell'altrui capriccio». «Non voglio, direte tra voi, si possa dire che io ho paura dei rimbrotti della moglie; non voglio che possano affibbiare dell'avaro, del pitocco!». La mezza bottiglia diventa con la sua compagna una bottiglia intiera, poi arrivano le sorelle a tener compagnia, e in capo a qualche ora, eccovi briachi fradici, incapace di trascinarvi a casa, giacché l'ubriaco ha questo di buono che si rende peggiore di un bruto, il quale anche abbandonato a se stesso trova la via del covile e della stalla, e l'ebbro non è più capace di trovare la strada che mena al suo abituro. E quel che ho detto del vino, applicatelo, operai, al giuoco e alle altre passioni, le quali sono simili a quegli ingranaggi che osservate nelle officine in cui andate a lavorare. Guai a chi si lascia cogliere per una falda dell'abito, per una punta delle dita. La macchina lo abbranca, lo trascina, lo schiaccia e lo rigetta a brani dalle sue viscere micidiali. La passione, quando riuscita a penetrare in un cantuccio dell'anima, tutta la invade, la avviluppa e la soffoca nelle sue spire, né più la respinge finché non l'abbia priva di ogni palpito generoso, di ogni nobil sentire, finché non l'abbia, come quella macchina di cui v'ho parlato, ridotta a brandelli. Un francese ha detto argutamente: Rien n'est bête comme un homme en ribote. Ma oltre al mostrarsi imbecille, un operaio dedito alle orgie si mostra anche crudele, poiché fa strazio d'ogni soave affetto di famiglia di patria. Esso dà una smentita a quel proverbio che dice «che il pensiero della casa, della moglie, dei figli trattiene l'uomo dal commettere il peccato».

Pagina 184

I medici, signori miei, son coloro appunto, diciamolo a lode loro, che più s'interessano coll'opera e col consiglio alle condizioni, ai bisogni dell'operaio. Testimoni più che ogni altro dei suoi dolori, delle sue privazioni, non potrebbero i medici, operai essi stessi di un lavoro sovente ingrato e penoso, rimanersi indifferenti ai desolanti spettacoli che assalgono la pietà nelle case dei poveri operai. Essi ne curano i mali fisici, ma pur troppo la loro scienza, il loro eroismo son costretti a starsi inerti davanti alle sciagure morali che ne rattristano la vita. Ed ecco perché ogni idea, ogni scoperta che tenda a migliorarne le sorti, a correggerne i difetti, a vincerne la ignoranza, a preservarli dalla corruzione è sicura mai sempre di trovare un medico che l'appoggi e la difenda.

Pagina 195

E questo sarebbe a parer mio un savio ragionare da parte di quel popolo a cui tocca pagare il conto di questi innumerevoli ed intricati meccanismi che si chiamano amministrazioni. Ma quando poi esso pensa che queste ruote, tuttoché cattive, tuttoché male combinate, sono uomini in carne ed ossa e cito sopprimendo quest'olio non solo verrebbe a cessare in loro l'azione ma anche l'esistenza, allora subentra nel suo cuore alla considerazione positiva, economica, spietata della meccanica la teoria longamine e pietosa dell'umanità; e interrogato se siano a parer suo da mandarsi inesorabilmente a spasso questi elementi che costano a lui fabbricante, operaio, agricoltore, a lui medico, avvocato od artista il sudore della giornata, le privazioni, le veglie, le economie, i debiti, i dissesti, risponde commosso per bocca de' suoi rappresentanti che non si deve andare agli eccessi, e si trova condotto a modificare con una transazione che fa più l'elogio del suo cuore che del suo raziocinio una conclusione logica, si ma che costerebbe, quando venisse li d'un botto strettamente applicata, la quiete e la vita a tante migliaia di disgraziati. Questi tolleranti partono anche, nelle loro conclusioni, da un altro punto di vista: quando si vuol sentenziare, dicono essi, a carico di una creatura, e' convien anzi tutto alla misura di responsabilità e di libero arbitrio che regna nelle sue azioni, altrimenti si rischia di colpire, invece dei colpevoli, le prime e le più disgraziate vittime dei medesimi. Se precipita, per la inettezza dell'architetto, se si screpola per la mala fede dell'impresario una casa, cosa ne può il muratore che non ha avuto mano nel progetto e nelle provviste, dei disastri della caduta, dei danni dei cedimenti e delle sgretolature? L'operaio, lui, mette a sito i mattoni, le pietre, la calce, dove gli dicono di metterli; fa il suo bravo muro a perpendicolo, orizzonta perfettamente i suoi corsi, sta scrupolosamente alle misure prescritte e non può andare più in là: e se l'ingegnere ha sbagliata la monta o ha mal calcolata la spinta dei volti, se il cottimista gli consegna cemento avariato, sabbia di terriccio, e mattoni di scarto, egli non può, l'operaio, con tutta la sua abiltà, con tutto il suo buon volere cangiar le disposizioni del disegno e aggiungere solidità ai materiali. Potrà fare osservazioni, potrà protestare, ma le sue critiche, i suoi richiami gli serviranno ordinariamente, invece che ad ottenere un aumento di paga, a farlo mettere bellamente sul lastrico. E la costruzione starà com'e. Dunque adagio, conchiudono costoro, nel criticare, anche allorchè si tratta d'impiegati; e non si deroghi almeno, parlando con loro e di loro, innocenti il più delle volte, e sdegnati fors'anco dei mali che voi deplorate, da quei sentimenti di equità, da quei riguardi di cortesie a cui essi hanno diritto per la loro onestà, per il loro zelo, per la loro abnegazione.

Pagina 199

Se invece di corrispondere con eguale gentilezza al vostro cortese trattare, abusasse villanamente della sua posizione per usarvi dei soprusi, per instancarvi dal far capo a lui per le vostre bisogna? - Allora io vi direi di prendere a due mani il vostro coraggio e di non iscostarvi nemmen per questo dai precetti d'una squisita educazione. Oh che? vorreste voi lottare di scortesia con lui? Peggio per lui se la sua irta natura, se una deficienza di rispettabilità lo rese per sua, per nostra disgrazia intrattabile: ad ogni modo non converrebbe, per usare di rappresaglia, rischiar di farsi un nemico e dare a lui ragione con parole o con atti di lagnarsi a vostro riguardo di un difetto che egli non è capace di riconoscere in sé medesimo. Manca alla civiltà e all'onestà chiunque osa offrire mancie o regali a un funzionario o cerca in altro modo di aggraziarselo onde stimolarlo a fare il proprio dovere o peggio a tradirlo. Nel primo caso l'offerta è una critica inurbana, una satira mordace a quell'inerzia che in lui si suppose esistere; nel secondo è un tentativo di corruzione.

Pagina 203

Ho dovuto qualche volta far conoscenza con impiegati provocatori: son coloro che vi ridono in faccia quando insistete sull'urgenza di un vostro affare, come a dirvi che la vostra fretta, la vostra agitazione non gli fanno né caldo né freddo. Non è tutto: ho avuta la felicità di aver a fare con uno di questi in una certa circostanza in cui si trattava di una vertenza importantissima, e dovetti convincermi che le carte da me trasmesse dormivano da un pezzo nel suo scaffale: io lo sollecitava a dar loro corso ed egli rideva! e intanto gli interessati strepitavano, e mi accusavano d'inerzia, di trascuratezza: io, per mia parte, prima di conoscere intus et in cute l'amico, mi sforzava a dar la colpa di tutto a' suoi colleghi, a' suoi superiori! Dopo d'allora sono andato sempre assai a rilento nel portar giudizi sulle persone. L'impiegato l'avrebbe pure un modo facile, infallibile di mantenere la propria autorità - quella che gli compete di diritto — in faccia al pubblico, di guadagnarsene la confidenza e la stima; e sarebbe di spiegare col medesimo la massima cortesia, di mostrare, coi fatti veh! la propria attività ed intelligenza nel disbrigo degli affari. Questo sistema non consiste, come ognuno vedere nello studio che pongono taluni di eliminare dal loro scrittoio tutto ciò che riescirebbe loro faticoso e fastidioso, rimandandosi dagli uni agli altri gli incartamenti, e balestrando da un ufficio all'altro i poveri diavoli costretti a maneggiare e rimaneggiare coll'intermezzo di quei fannulloni incivili qualche loro interesse colle amministrazioni.

Pagina 208

Narrano di Catone il maggiore, di cui l'ingegno fu grande in ogni cosa in modo da saper condurre con mirabile successo così le civili come le guerresche imprese, che egli per ciò appunto si rese ai Sardi gradito nel governo della loro isola, perché rigido ed imparziale nel far osservare le leggi era poi discreto e modestissimo, tantoché viveva con esemplare parsimonia, e, punto vanaglorioso della sue altissima carica visitava le città a piedi seguìto da un brillante stato maggiore composto di un sergente che gli portava il pastrano. Vincitore in Ispagna, non menava alcun vanto de' suoi trionfi e il suo ristretto alloggio di poche e disadorne camere gli sembrava ancora troppo vasto a' suoi scarsi bisogni: nemico del fasto e dello spreco, nessuna cosa ei voleva più di quanto avessero gli ufficiali del suo esercito, all'infuori dell'onore del supremo comando. L'eloquenza che era in lui grandissima non adoperava a redigere boriosi proclami o a recitare discorsi in Senato, ma unicamente nella difesa delle cause dei poveri che a lui ricorrevano; onde non è a meravigliarsi se a lui i Romani avendo innalzato una statua entro a un tempio, non vi mettessero punto un'iscrizione che rammentasse le sue vittorie e i suoi talenti militari, ma bensì questo: che egli avesse saputo con le sue buone maniere, coi modesti costumi e coi saggi ordinamenti risollevare a prosperità la pericolante repubblica. Altro esempio di affabilità in mezzo alla dignità degli uffici lo troviamo nella stessa Roma antica in un Fabio Massimo di cui diceva Catone: che in esso era una gravità condita di cortesia, né la vecchiezza gli aveva punto mutati i costumi: altri ancora in un Marco Marcello onorato dallo stesso suo illustre nemico Annibale per la sua umanità accoppiata a grande animo, ad eletto ingegno; in Valerio Corvo il quale, eletto console a 23 anni per unanime consentimento di popolo, era così famigliare alle sue genti che disimpegnava al par di qualunque altro i più dimessi uffici, e colla sua dolcezza e cortesia si conciliava l'universale benevolenza.

Pagina 209

Questa vita di sacrifizi, di tribolazioni a cui è soggetta la professione dell'insegnante non bisogna già considerarla, per farsene un adeguato concetto, nella maggioranza di coloro che occupano cattedre nelle università e ne'licei del Governo. A costoro, oltre lo stipendio (talvolta oltre gli stipendi) non disprezzabile che ricevono per le poche lezioni date in iscuola, soccorrono le ripetizioni date privatamente; soccorrono ai primi le propine degli esami, le pensioni delle accademie scientifiche, e per alcune facoltà, come la medicina, la giurisprudenza, anche i lucri della professione che possono esercitare indipendentemente dalle funzioni dell'insegnamento; a parecchi dei secondi i prodotti del commercio dei libri scolastici di loro fattura adottati nelle scuole. Il duro officio dell'insegnare bisogna osservarlo, come ho detto, in quei poveri maestri delle scuole elementari, in quelli specialmente dei piccoli paesi e dei villaggi, costretti a starsene non due, non tre, ma sette, otto ore del giorno in locali angusti e talora fetenti; costretti a passare il loro tempo in compagnia di giovavetti privi sovente di ogni educazione, e a lottare non solo colla crassa ignoranza di cotestoro, ma colle loro rozze e sucide abitudini, coi loro modi brutali: costretti a sottostare alle codarde opposizioni, alle aperte o celate guerricciuole che loro muovono ora nel sindaco o un consigliere ignorante, ora un parroco avverso a ogni istruzione che non venga impartita dai preti; soggetti a subire le ingiustizie derivanti da qualche maligno o falso rapporto di coloro che cercano sbalzarlo per far luogo a qualche loro protetto; o se il maestro e uomo virtuoso e nemico di piaggierie, per torsi d'innanzi un importuno testimonio del loro disonesto parteggiare politico o dei loro poco semplari costumi. No, non saranno giammai proficue le scuole finché la bassa forza degli insegnanti non verrà sottratta con qualche opportuno provvedimento alla loro umiliante posizione; finché non verrà tolto il sopravvento sui maestri effettivi a quella turba di faccendieri politici che percepiscono onori e stipendi di professori e maestri senza fare scuola, e col solo incarico di scriverne giornali ufficiosi o di far propaganda governativa alle epoche delle elezioni.

Pagina 229

I natali, la fortuna, l'ingegno non bastano, no, per sé soli a ingentilire, a nobilitare una persona: a ciò è mestieri concorrano altri fattori indipendenti dalle corone, dal talento o dal danaro. Ho udito più volte esprimere questa cosa da persone del volgo, che ragionando della sciocca superbia d'uomini rapidamente arricchiti, sogliono dire: il tale é ricco, ma non è signore, ovvero: con tutti i suoi danari, con tutte le sue pazze spese, colui non sa fare il signore ecc. (signore vale qui quanto gentiluomo). E perché vanno dicendo ciò? perchè vedono in questi tali la mancanza di quei segni caratteristici che denotano la vera signoria. E così d'un uomo a pochi danari, ma onesto, che tratta bene con tutti, che parla pulito, che ragiona a modo, che non si abbassa a fare nè a ricevere sgarbatezze, sapete cosa dice l'uomo del volgo col suo buon criterio? «Vedi la! non ti par egli un signore? - Se lo è! - risponderà benevolo il camerata - quanto meriterebbe d'essere ricco!».

Pagina 26

Vi sono dei medici, e particolarmente di quelli delle campagne che non possono rassegnarsi a passare la loro esistenza nell'oscurità dei villaggi e delle piccole città, ed aspirano sempre a trasportare la loro abilità nei grandi centri dove avvi maggior occasione di lucro e di gloria. Io non ricorderò a questi medici la favola dei due topi di città e di campagna. Mi limiterò, supponendo per altro di parlar solamente a quei medici ai quali l'interesse e l'ambizione (per altro legittime fra certi limiti) non fanno dimenticare altre considerazioni più elevate, ad osservare la condotta del già citato Jenner giunto a veder la sua scoperta adottata in tutto il mondo civile. «Egli seppe conservarsi, prosegue lo Smiles, modesto nella prosperità come era stato perdurante nella avversità. Invitato a trasferirsi a Londra ove poteva avere in breve una magnifica clientela e guadagnarsi le sue diecimila sterline all'anno, rispose: no, nel mattino della mia vita ho scelte le vie umili ed appartate, la valle e non la montagna: ora, sulla sera de'miei giorni, non mi conviene darmi a spettacolo e fare il cortigiano della fama e della fortuna».

Pagina 282

Ma in tal caso non si tratta della pelle; e tutte queste robe che fanno a pugni l'una coll'altra non hanno l'importanza delle medicine obbligate a giuocare a gatta cieca nel corpo di un malato. È ben vero che queste concomitanze di medici diversi avvengono ordinariamente a loro insaputa, il che aggiunge l'inconvenienza alla stranezza, poiché serve a dimostrare che non si ha fiducia né negli uni né negli altri, e che si tengono in conto di altrettanti articoli di lusso. «Ognuno, scrive il Giordano, è padrone della propria vita e delle proprie convinzioni; ma quando si è fatto domandare un medico, gli si deve fiducia e rispetto; e quei malati che mandano presso lo speziale a cercar un medico purchessia, mancano di rispetto prima a sé stessi e poi alla medicina».

Pagina 285

Non isparlate col medico de' suoi colleghi; potreste con ciò dargli a sospettare di essere da voi reputato un vile, un invidioso che si compiacesse delle critiche, delle censure che si fanno a'suoi confratelli. Il vostro amor proprio, il suo non potrebbero trovarsi menomamente lusingati da quelle vostre incivili mormorazioni. Se due o più medici si trovano a consulto, non piaggiate l'uno perché fornito di titoli o ammesso a Corte o dottore di collegio o cinto dell'aureola di numerosa e splendida clientela, mettendo al bando dei vostri riguardi il modesto esercente perché non avrà ciondoli all'occhiello o praticherà di preferenza nei piani terreni o sulle soffite. Punto primo: né il merito né la scienza non si misurano a metri di nastro o a peso di zecchini; e poi persuadetevi che la fama onde altri gode non è sempre di buon conio, ma è dovuta, qualche volta a quell'arte sopraffina che è detta del sapersi arrampicare; «postulato indispensabile, scrive il mio amico Pescinio, d'ogni uomo che voglia rapidamente innalzarsi a una elevata posizione nel mondo».

Pagina 289

Vi sono degli avvocatini di fresco pelo che si fermano disputando a ogni osso di formica e affollano un torrente di parole da affogare tutta quanta l'udienza; ma allo strizzar che farai di quelle interminabili parlantine non sarai buono da farne uscire un'oncia di salde ragioni. Causa pur troppo è questo di perditempo ai presidenti ed avversari, costretti a tapparsi un orecchio per non uscire balordi dall'aula; poiché nulla stanca più il cervello che il vociferare a vuoto di chi non ha nulla d'importante da dire. A codesti armeggioni che s'affannano a gonfiare delle bolle di sapone, ed il prossimo per giunta, è inutile raccomandar la discrezione: togliete loro la lingua; cosa ne rimane della loro avvocatura? Vox, vox, proetereaque nihil!

Pagina 301

L'avvocato non è tenuto a guarentirvi una favorevole sentenza più di quanto sia tenuto un medico a guarirvi da una malattia; nessuno, nella propria professione, per quanto bravo egli sia, è autorizzato a fare dei miracoli. Quindi il giureconsulto, né più né meno del vostro curante, non è obbligato da coscienza a farvi una deduzione da' suoi onerari, quando la vostra causa, non per difetto di zelo, non per sua colpa ebbe la disgrazia di volgere a male.

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La musica ci crea desiderii infiniti da cui l'anima sorge esaltata a virtù, a coraggio, a sacrifizio, ad amore; quante belle azioni non si videro in pace e in guerra a cui venne l'uomo eccitato a compiere dalla influenza esercitata sulle sue fibre, sul suo cuore dal suono e dal canto? Sofocle, Tirteo, Dante, Camoens, Koerner, Mameli furono prodi guerrieri e cantori; la loro poesia era uno sfogo generoso, spontaneo del più puro amor patrio, un appello a difenderla, cui facean seguire essi stessi l'esempio scendendo in campo a combattere, a morire per lei; e non già un impotente corruccio, una stupida imprecazione contro nemici con cui non osassero misurarsi. Il sacrifizio? il poeta, il vero poeta vi è rassegnato, pensando che:

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Ora come potrebbe, a cagion d'esempio, raccomandare dal pergamo la soavità del perdono chi la trasformasse in bigoncia da trivio, col suo concitato accento, col suo gesticolare furibondo, con allusioni maligne, con ingiurie, fino a costringere talvolta, pel debito che essi hanno di tutelar la sicurezza pubblica, minacciata da quell'eloquenza energumena, gli ufficiali del Governo ad ammonirli e ad intervenire perchè non abbiano luogo e scandali e tumulti? «Io ho stimato sempre, scrive Tommaseo, pericolosa ed inutile quella rabbia, quella malinconia imitativa con cui da certi predicatori s'intuonano le verità generose; giacché serve questo piuttosto ad intristire, ad uggire che ad ammaestrare ed a commuovere. Credete voi d'ispirare grande reverenza ed affetto recitando periodi e versi canori con voce sepolcrale, coi capelli irti, con le mani aggranchiate a mo' d'artigli? Le più innocue verità pronunziate a questa modo diventano sospette». Ah si lascino agli oratori profani, si lascino agli artisti da scena questi artifizi; il prete, per quanto riesca a perfezionarsi in simili esercizi, non arriverà mai a distogliere dalla mente degli uditori il pensiero degli sforzi che ei deve aver fatto per giungere ad imitare con esattezza le pose, l'accento, lo slancio di un tragico consumato nell'arte sua; e questo pensiero basta a neutralizzare quell'effetto religioso che dev'esser il fine del sacro oratore, sostituendo allo spiro della divina parola una semplice sensazione di piacere più o men viva, e simile a quella che si prova a udir declamare le tragedie di Shakspeare o di Alfieri, quando non serva a destare nel sacro tempio una ilarità o ad eccitare furibonde passioni che mal si confanno alla grandezza e santità del luogo, non che alla dignità di colui che da modesto banditore del Vangelo si è trasformato in una parodia di attore da scena.

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L'opera del prete non tornerà nemmeno inutile presso le più incredule e le più fiere nature, quando l'esempio delle sue miti parole, dei suoi affabili modi, dei suoi virtuosi costumi varrà a dimostrar loro che quella religione che impose ai suoi fidi i più sublimi sagrifizi non esclude per nulla il culto alla civiltà, alla cortesia, ai più soavi affetti dell'anima umana; poiché, come osserva il protestante Guizot: «è un tratto ammirabile dell'organizzazione cristiana, quello che i suoi ministri siano sparsi per tutta la società, a fianco delle capanne più umili, come de'più sontuosi palagi, in contatto intimo e permanente tante colle più modeste, come con le più elevate posizioni; consiglieri e consolatori di tutte le miserie e di tutte le grandezze». Le conversioni operate dal cardinal Borromeo nelle sue pastorali peregrinazioni erano essenzialmente dovute a quella soavità, a quella dolcezza che gli avvincevano i cuori e soggiogavano le più ostinate nature. Se io parlassi a sacerdoti torinesi, non istarei a ricorrere ad altri paesi, ad altri tempi, ma direi loro unicamente: specchiatevi pel vostro stile, poi vostri costumi nell'esempio di colui che testé piangemmo perduto; di colui che primo in dignità a tutti, era anche primo nell'esercizio delle più sante e soavi virtù del prete cristiano a tutti coloro cui era stato eletto a presiedere; direi loro: ricordatevi dell'amatissimo arcivescovo di Torino, Alessandro Riccardi di Netro.

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Intanto io, vi farò un quadro della vita domestica della maggior parte dei contadini; quadro di cui più volte fui testimonio nella mia giovinezza, in gran parte trascorsa in mezzo a loro. In molti paesi le mogli, le sorelle, soventi le madri istesse dei contadini non seggono a mensa coi mariti, coi fratelli, coi figli, ma in disparte su un trespolino o accoccolate in terra. Esse vengono riguardate in casa come creature di molto inferiori agli uomini; non è mai che le vengano ringraziate degli umili e faticosi lavori a cui si avrebbe scrupolo di assoggettare gli stessi animali da soma. Trottano da un pease all'altro senza giammai fermarsi a prendere il menomo ristoro; si arrampicano sulle più erte cime a tagliar legne o a falciar delle erbe che poi trascinano a stento su per le aspre roccie o portano in fasci enormi sul capo, onde quello schiacciamento cerebrale che è poi cagione di istupidimento in parecchie di quelle povere creature. Alcune muoiono precocemente, affrante da quel bestiale lavoro; qualcheduna precipita dalla vetta di un monte e giù per le falde rotolando arriva sciancata, sanguinolente fin nel letto del torrente, o rimane appiccata a qualche ramo sporgente sull'abisso, dove il marito ha poi l'incomodo di doverla andar a prendere e trasportare a casa. Vedrete la maggior parte de' nostri contadini desolarsi assai più delle malattie, delle morti del loro bue, del loro ciuco, del loro maiale che non di quella delle loro mogli, delle loro figlie, della loro sorelle. Nel primo caso, cioè se cade inferma la bestia, corronno issofatto, di giorno e di notte, dal miglior maniscalco cui vanno a cercare anche lungi dal paese e non guardano a spese ed a fatiche per farla tornare in salute; ma se non è che una donna quella che si ammala, si strascinano lemme lemme da un medico purchessia, più sovente anche da un empirico perché si rechi a visitarla — oggi o domani; — spendono, maninconiosi, il men che possono in visite e medicine, e non rifiniscono di brontolare e di piagnucolare se l'ammalata sta un pezzo a rimettersi... o a partire. Se vedrete un villano aver buon cuore per la moglie e pei bimbi, prendetene nota e fategli di cappello come a un'onorevole eccezione; ma state pur certi che egli sarà per di più, per quanto lo richiede la sua condizione, per quanto lo permette l'ambiente in cui vive, costumato e pulito.

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Siate puntuali a pagar loro il salario; prima per coscienza, poiché a ognuno si ha a dare a tempo dovuto il fatto suo; poi per interesse; una lira sottratta all'avere dei servi vi porterà in cassa l'ammanco di uno scudo. È naturale! voi date loro l'esempio dell'immoralità, del furto; essi crederanno la loro coscienza al coperto, contraccambiando le vostre azioni con azioni somiglianti. È difficile che vediate prosperare un negozio, una casa in cui si nega o si fa tardar la mercede agli operai, ai servitori. E poi? non avete voi l'ambizione di esser tenuto per gentiluomo? e come lo sareste se non vi deste premura di pagare i vostri debiti? E non è il salario a chi lavora un debito d'onore uguale almeno a quelli che voi incontrate, sulla parola, giuocando? Non mettete i servi a parte dei segreti e degli interessi vostri; date loco bensì quella confidenza limitata ed amorevole, mostrate loro quell'interessamento che non possono dar luogo a infedeltà, a indiscrezioni, a mancanze di rispetto. Abbiate in presenza dei servi i massimi riguardi alla moglie, ai figlioli; evitate in loro presenza i diverbi, le rivelazioni di fatti che richiedono la massima segretezza; onde non venga meno in loro la reverenza a voi, alle donne vostre, ai vostri figli, amici, congiunti; e non diasi occasione a dispiaceri e a danni di cui possono rendersi autori quei servi che non fossero modelli di discrezione. Marito, non prender parte coi servitori contro la moglie; moglie, non contro il marito; figli, non contro il padre e la madre vostra, contro le sorelle, contro un vostro superiore o compagno, qual ch'esso sia. Non permettete, genitori, in soverchia famigliarità dei servi verso di voi o verso i vostri; ciò non conferisce al rispetto che avete diritto e dovere di esigere per voi e per gli altri da loro.

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Cangiate il men che potete le persone di servizio, se vi sta a cuore l'economia della casa; la pratica che sono costretti a fare i nuovi arrivati, prima di abilitarsi a servirvi a dovere, vi costerà più che non costino le mancanze dei vecchi. E poi, con che amino si acconcieranno a fare il dover loro in una famiglia dove essi sanno già che i servitori non mettono le radici? e si mutano, per così dire, a ogni quarto di luna? Voi avete anche il debito, se tenete più persone al vostro servizio, di invigilare sulla reciproca condotta degli uni verso gli altri, procurando di conoscere bene i meriti e le mancanze di ciascuno, onde i più furbi non approfittino della vostra cecità volontaria per tiranneggiare sui timidi e consumare a vostro e a loro danno delle infedeltà e delle ingiustizie. Non fidatevi dei delatori. Consigliateli e dirigeteli in tutto ciò che riguarda la salute, non dei loro corpi soltanto, ma anche delle anime loro. Le colpe dei servitori ricadono in parte sui padroni, come quelle dei figli ricadono sui genitori. Voi dovete cercare il modo, in una parola, di rendere i vostri servi fedeli non a voi soltanto, ma anche, e specialmente alla virtù. E cosi, anche per loro, voi renderete omaggio non alla civiltà soltanto, ma eziandio alla carità che è madre di quella.

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Ma se giova alla morale e alla civiltà che si venga dai ricchi in aiuto alla povertà leale, involontaria, pudibonda; vuolsi ad ogni modo schivare la carità inconsiderata che vale soltanto a promuovere l'infingardaggine, il vizio mascherato di una finta o colpevole miseria. «Un uomo, dice Montesquieu, non è sempre povero perché manca di tutto, ma perché gli manca, il più delle volte, la volontà di lavorare». Narrava testé un giornale che a Parigi, appena proclamata la pace, col risuscitare dell'attività soffocata per tanto tempo dal doloroso assedio sofferto, alcuni industriali si affrettarono a riaprire i loro opifizi, e invitarono perciò gli operai disoccupati a riprendere i lavori. Ebbene, ben pochi di essi risposero all'appello. Gli altri, avvezzi a percepire un assegnamento giornaliero di trenta soldi, fornito dal Governo mentre si trovavano sospesi i lavori, non seppero adattarsi a ritornare subito alle vecchie fatiche, mostrando così di preferire il pane della carità pubblica alla mercede dell'operaio. Il vero povero è dignitoso, e se a voi ricorre nei suoi assoluti bisogni, esso

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vi sono dei mendicanti che arricchiscono elemosinando, mentre il povero operaio stenta col suo indefesso lavoro a provvedere ai più urgenti bisogni e non giunge talora a togliersi la fame ed è costretto a veder soffrire la moglie e i figliuoli. In un giorno del gennaio dell'anno scorso veniva arrestato a Milano un mendicante così male in arnese da destar proprio la commiserazione. Tradotto all'ufficio di P. S. si stava per accompagnarlo al ricovero dei mendici, allorché egli si mise ad urlare che là dentro non s'avevano a rinchiudere che i pitocchi, e non coloro che possedevano buoni danari. — Ma dove li avete questi danari? chiesegli il delegato. — Dove li ho? in tanti fondi e in tante cartelle del Debito Pubblico. — Ma! e perché mendicate allora? — Per far del bene a' miei simili; quello che raccolgo lo impiego a soccorrere gli infermi. - Si fecero indagini su quel mendicante filantropo e si venne a scoprire che esso possedeva più di centomila lire e che da oltre trent'anni esercitava l'accatonaggio. Vi furono dei mendicanti che lasciarono alle loro figliuole delle doti di 30, di 40 mila franchi! Un operaio lavorando cinquant'anni e risparmiando, a furia di economia e di privazioni, non arriva ad accumulare 40 mila soldi. «La società, esclama a tale proposito uno scrittore coscienzioso, non ha mai pensato a mettere le mani su quelle successioni, e dire — questo danaro prodotto dal lavoro fu fraudolentemente sottratto da un uomo che non lavorava; io lo piglio e lo mando in soccorso di coloro che lavorano. — La mendicità non deve trasformarsi in industria appo i popoli inciviliti».

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Ben può darsi tuttavia che le visite si abbiano in certi casi a prolungare, quando la persona visitata sia nella nostra massima intimità, o un infermo a cui sia grata la tua compagnia, o un uomo colpito da sventura che si mostri bisognevole del tuo conforto; la durata di queste visite speciali è suggerita dalla natura delle circostanze e non ha altro limite fuorché quello che può essere segnato dalla carità e dall'affetto. Nei casi ordinarii i migliori consiglieri sono l'usanza... e l'oriuolo. Vuolsi ognora avere riguardo al grado e alle occupazioni della persona visitata; e scegliere le ore in modo da recarle il massimo piacere e il minor disturbo possibile. Evitare sopratutto l'ora del pranzo onde non costringere il visitato ad invitarvi ad assistervi, ovvero ad interrompere in refezione e passare in altre camere a ricevervi. In un modo o nell'altro sareste causa d'incomodi; ad un umile desco sopratutto non può giungere caro un visitatore improvviso. E quando siete ad accorgervi di essere capitati inopportuni, affrettatevi a prendere congedo, prima che qualche segno d'impazienza, prima che alcuno di quei moti involontari che indicano irritazione in colui che è costretto (forse anco assediato da affare premuroso) a subirsi la vostra compagnia, non ve ne renda più chiaramente avvisati. Né, congedandovi, vi sarebbe lecito mostrare dispetto; anzi vi converrà meglio dar a vedere di esser costretti a partire, onde non obbligare l'altrui cortesia a farvi delle istanze per rimanere; a chiedervi scuse di dovervi dopo alcun tempo lasciare; lo stesso dicasi se il visitato era in procinto di uscire, quand'anche ei vi sollecitasse a fermarvi.

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Lascierete nell'anticamera il pastrano, il bastone, il parapioggia, le galoscie, i pacchi voluminosi o contenenti materie che possano muovere a schifo. Consiglio a tutti coloro che ricevono visite di tener vicino all'entrata quei comodissimi arnesi che servono a raccogliere l'acqua onde sono inzuppati gli ombrelli. I cani ed altre bestie lasciateli a casa, o pregateli di aspettarvi in istrada.

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Vuolsi parlare in tuono usato e non alto, non declamatorio, come se tu volessi dar saggio della tua eloquenza o de' tuoi polmoni; ma nemmeno con voce languente quasi a ostentar delicatezza. Non ispaventare la gente urlandole nell'orecchio; non parlar muso a muso colle persone come se tu volessi giuocare con loro del naso, e a rischio d'infettarle col fiato o di spruzzar loro in viso la saliva; non mettere parlando ad alcuno, le mani sul suo petto, né afferragli le braccia, né battigli sulle spalle, né prendilo pei bottoni dell'abito, né pestagli le punte de' piedi. Vi han certuni che affettano di non saper pronunziar la r e simulano altri difettuzzi di scilinguagnolo con cui credono farsi parere di nobile razza od originali; altri ficcano a sproposito un ritornello a ogni frase del discorso; altri lo condiscono a ogni tratto di scipitezze, di scerpelloni per farsi tornar lepidi; altri pigliano le parole dalla lingua francese o britanna (adesso verrà di moda anco prenderle in prestanza dalla tedesca) e le adoprano quai fiorellini in cambio di quelle che corrispondono nel patrio linguaggio; finalmente alcuni punzecchiano, parlando, le persone e a ogni quattro parole lo investiscono e che ne dice lei? non dico io vero? e altrettali frasi per crescere in altri la fidanza a quanto essi vanno sciorinando. Tutti questi ed altri simili atti sono inciviltà e difetti di cui è d'uopo, a chi vuol ben parere in società, il correggersi. A colui che ascolta vuolsi raccomandare di mostrar coi segni del volto e coll'attitudine della persona che si prende parte all'altrui discorso.

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Bisogna salutare chi entra, cortesemente, cioè non si deve invece di saluto scuotere lievemente il capo o torcere il collo senza muovere il corpo o guardar l'arrivato, come si dice, a mezz'occhio. Non avvicinarti a person che parlino sommessamente. Il curioso è stretto parente del delatore. Non immischiarti a un colloquio di persone a te superiori od anco uguali, senza esserne invitato. Deggionsi guardare in faccia le persone a cui si parla. Non si deve susurrare all'orecchio del vicino, né accennare colle dita e cogli occhi a persone lontane, né ridere scioccamente e sghangheratamente, né ammiccare maliziosamente onde non dar luogo a sospetti e a mormorazioni. Non portare la mano davanti a una persona per porgere o ricevere cose da un'altra. Non isputare sul fuoco né stuzzicarlo con mollette, ramicelli od altro. Non iscaldarsi i piedi col dorso al camino, né coprirne la bocca colla tua persona. Non leggere carte, lettere od altro in presenza altrui prima di esserne stato pregato.

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Non si deve indirizzare esclusivamente e a lungo il discorso ad una sola persona, come se le altre non esistessero. Se qualcuno entra in sala a racconto incominciato, convien riepilogare onde possa afferrarne il senso e seguitarne il filo. Non bisogna servirsi in una conversazione di una lingua ignorata dalla maggior parte delle persone che la compongono, quando se ne conosce mediocremente un'altra che può essere da tutti o quasi tutti intesa. E per questo innanzi a uno straniero convien procurare che ei possa prender parte alla conversazione e in tal caso potrai, chiedendo scusa ai tuoi connazionali, parlargli in un dialetto che gli riesca intelliggibile. Quando tu sia costretto a partire durante la conversazione, non dovrai scegliere precisamente per allontanarti l'istante in cui i ragionari sono più generali ed animati; nel partire farai il minor strepito possibile e saluterai in modo da non distogliere sovorchiamente l'attenzione degli astanti rivolta a colui che discorre e disturbare i discorsi che si fanno mentre tu lasci la sala.

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Non lagnarti continuamente delle tue disavventure, non piagnucolare né gemere sulle tue indisposizioni onde aver pretesto a prenderti certe licenze che non tornano a comodo degli altri. Discorrendo di debolezze, d'imperfezioni corporali, non far paragoni delle persone difettose con altre che si trovino nella conversazione. Per esempio: il tale ci vede poco; più poco, direi che la S. V.; ovvero: Vossignoria ha pochi capelli; ma conosco persona che ne ha meno di lei, ecc. ecc. Non interrompete l'altrui narrazione per mettervi a raccontare in sua vece le stesse cose. Non troncate l'altrui discorso come per aiutare chi parla a trovar le parole, a compiere la frase. Sarebbe come accusarlo di lentezza di spirito o di memoria. — Che cattivo colore m'ha lei! — Che aria di star poco bene! ecco le parole, accompagnate da uno stringimento rientrante di labbra, di cui alcuni si servono per compatire, per far coraggio, dicono essi, a chi si sente incomodato. È una specie di attentato alla quiete individuale commesso in buona coscienza da gente che vuol farsi credere sensibile e pietosa. Ad una signora brutta non istarete a far troppi elogi dell'altrui bellezza; e se proprio non potete, senza cascar nel ridicolo, far complimenti al suo volto, alla sua persona, via, fattele l'elegio della sua grazia, della sua bontà, del suo spirito, ecc. Il mondo va innanzi in grazia delle compensazioni. E così a un'attempata non vanterete la sua lunga esperienza, né la interrogherete su avvenimenti che risalgono a cinquant'anni addietro né le mostrerete il vostro interessamento dicendole benignamente: alla sua età conviene aversi dei riguardi!

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E qui cadono in acconcio alcuni saggi detti del nostro giovane di anni e oramai vecchio di gloria, Leopoldo Marenco: «L'essere, o per lo meno il parer scettici e corrotti a vent'anni è oggigiorno una moda che si vergognerebbe di non seguire ogni più innocuo a cui quattro peli sul mento abbiano dato il diritto di fuggir di mano al pedagogo o dalla provvida affettuosa vigilanza dell'occhio materno. Giovani che non fecero mai esperimento di uno di quegli infortunii che radono talvolta dal cuore e dalla mente dell'uomo sentimenti e credenze quasi uragano che abbatte, sterpa, inaridisce ai campi le verdi speranze, tu li vedi a vent'anni fiaccati dall'ozio, abbrutiti dal vizio parlar della vita disperatamente, non credere né a virtu, né a felicità, quindi a libidine di sensualità e di guadagno ridurre tutto quanto lo scopo della umana esistenza. «In fondo in fondo sono della pasta di cui è formato ogni citrullo..... e in realtà né scettici né disperati. Oh guarda, guarda dove va a cacciarsi l'ambizione!..... Nel voler passare a qualunque costo per fina schiuma di roués, essi appena giunti alle soglie della vita; onde fa d'uopo per tutto ciò che ha profumo d'onesto forzar le labbra a sbadiglio o armarle d'un sogghigno derisore e satanico.— Povere labbra! e appena le premi, stillano ancora il latte della balia».

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Sorprende piuttosto che tutta quella gente non sia obbligata a rimanere a letto in conseguenza del brutto trattamento fatto ai poveri polmoni. MACE' — Storia di un boccone di pane. Se l'autore della Storia di un boccone di pane e dei Servitori dello stomaco ha voluto inveire così severamente contro i balli, egli senza dubbio avrà inteso parlare soltanto di quelli in cui è sbandita la decenza e la moderazione; ma per ciò che è dei balli modesti ed allegri di famiglia, e meglio ancora dei balli campagnuoli ho lusinga che egli non avrà voluto metterli all'indice tutti in un fascio come roba immorale e pregiudizievole alla salute. Del resto ciascuno la pensi come vuole; in quanto a me son di men difficile contentatura; quando io vedo le vispe contadine, le gentili giovanette lanciarsi nei vortici della danza cogli occhi scintillanti di gioia, coll'impazienza che traspira da ogni loro membro, io non posso a men di prender parte al piacere di quelle giovani anime nello abbandonarsi a quello sfogo così naturale, a quell'agitazione propria dell'età in cui la vita è così riboccante di forze, il cuore così avido di sensazioni; e..... e mi pare di tornar addietro di molti lustri e quasi arrossisco a dirlo! il desiderio mi assale di frammischiarmi a quelle volubili ridde, di intrecciare il mio braccio a quello di qualche allegra fanciulla. E la musica non la contate per nulla? E non contate per nulla quel fremito che v'innalza all'udire quelle soavi cadenze? Io, per esempio, non ho potuto giammai ascoltare un waltzer dello Strauss o del nostro bravo Capitani, senza sentirmi profondamente commosso. Essi mi fanno, per così dire, rêver quasi al pari delle meste armonie del Trovatore, della Favorita. Non fa d'uopo, per capire il senso d'una musica, accompagnarla col libretto; essa te lo spiega da sé; o si sposi al canto o regoli le movenze, essa ti parla un suo linguaggio che non può esprimersi a parole; il cuore lo sente, l'anima lo intende,le fibbre sussultano al fremere delle corde, all'urto dei tasti; tutte quelle armonie ti sembrano discendere da misteriose regioni a portarti il saluto o il gemito di creature lontane a cui ti lega la memoria e l'affetto.....

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Chi non ha grazia si tenga dal danzare per non esporsi a subire gli altrui motteggi; dobbiamo poi assolutamente rinunziare a questo divertimento, allorché le membra han cominciato a perdere la loro elasticità, e qualche pizzico di neve sul crine ci deve rendere avvertiti che è passata per noi l'età delle dolci illusioni, dei piaceri giovanili. Nulla di più ridicolo di un uomo maturo, di un vecchio che la pretendono a fare il galante, di colui che è obbligato a tenersi avvinghiato ai fianchi d'una ballerina per sostenersi e non fare un capitombolo; poverini tutti quanti Che gravi d'anni in fanciullesche fole Spendono i brevi di che avanzan loro, E sulla fossa intrecciano carole Col crin che aspetta, il funebre cipresso Di rose inghirlandato e di viole. Non voglion capire costoro che la ritirata di Senofonte fu più gloriosa, perché fatta a tempo, di molte battaglie imprudentemente combattute da vecchi e inabili condottieri. Non si deve obbliar d'invitare, prima d'ogni altra persona, la padrona di casa e le figliuole sue a danzare; non si deve mancar nemmeno d'invitare, fra le giovani intervenute, le men belle e le men graziose. Non è civile il ronzar sempre attorno alla stessa ballerina; l'impegnar più e più volte la stessa persona non può non dare nell'occhio, e può essere causa di erronei apprezzamenti. In un ballo non si devono usar preferenze troppo marcate; e tanto meno poi lasciarsi andare a commettere villanie, quale sarebbe quella, per esempio, dello stringere una congiura fra' più giovani di lasciar in un canto, per tutta la serata, una giovane con cui si ha avuto qualche differenza. Si deve dar termine al ballo appena i padroni di casa ne esprimano il desiderio; il volerlo ulteriormente prolungare a loro dispetto sarebbe somma scortesia e indiscrezione. Chi va a un ballo e mostra d'annoiarsi, pecca contro il galateo; chi va, a un ballo e ne dice c...a, pecca contro l'onestà. Nessuno vi obbliga a perdere il vostro tempo in cosa di cui non vi dilettiate; ma accettando, incontrate l'obbligo di rispettare chi v'ha usato gentilezza nell'invitarvi. Non è d'obbligo, nei balli famigliari, il vestire elegante; ma nessuno può dispensarsi dal vestire pulito; la confidenza coi padroni non vi autorizza a rilassare sconfinatamente la toeletta. È proibito dalle leggi civili il dare il saccheggio ai vini, ai confetti ed altri articoli del servizio. «Tiene dell'animalesco (così il Tommaseo nella sua ultima opera Doveri e diritti) il furioso empito con cui, nelle feste da ballo, certi maiali su due piedi e certi micchi in guanti bianchi si avventano sui pasticci e sulle altre cose ghiotte del così detto buffet».

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«È costume frequente, scrive una gentile autrice,la Ellis, dei critici e degli umoristi il mettere in ridicolo le donne per la loro tendenza a far entrare il cuore in tutte le loro azioni. In quanto a me ringrazio Iddio di questa particolare conformazione della metà del genere umano: giacché fino a tanto che vi esisterà in terra un dolore da confortare, una sofferenza da alleviare, si troverà sempre un cuor di donna pronto a prestarsi a tale opera: esse sono provviste di quella inesauribile sorgente di affetto che le rende idonee a qualunque opera in cui prenda parte il cuore». L'arabo Abd-el-Kader, guerriero tutt'altro che effeminato, ragionando nelle sue memorie sulla più graziosa metà del genere umano, dice che «la donna affabile è una corona d'oro pel marito e bandisce dalla sua casa l'indifferenza e i litigi». Vorreste, o donne, dare una smentita a tanti cortesi ammiratori della vostra gentilezza con alcuni di quei modi strani, con alcuni di quegli atti sgarbati, con alcuni di que'sconci discorsi che vi precipiterebbero da quel piedistallo di gloria sul quale eglino vi hanno innalzate?

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PRATI — Canzone a Giuditta Pasta. Le più belle sere ch'io passai in famiglia furono quelle in cui parecchi amici convenivano in casa mia a fare, come si suol dire, della musica. Eran piccoli concerti di modesti dilettanti, nei quali era sbandita qualunque cerimonia, e in cui si alternavano ai suoni e ai canti gli allegri ragionari fra parenti ed amici. Ed anche ora mi piaccio assai di questo divertimento e penso con desiderio a quei tempi in cui essi erano molto più frequenti. Io credo infatti che non si possa passare meglio la serata, che in questo modo; e a tutti i teatri, a tutti i balli (colpa forse l'età) io preferisco mille volte i concerti in famiglia. E tu pure, o lettore, assisterai qualche volta a taluno di questi concerti. Di'il vero; non ti è avvenuto mai di sentirti trasportare in alcuno di questi, dal suonare o dal cantare di qualche modesta giovinetta, per cui tu abbia detto a te stesso dolcemente commosso «questa, se non è musica perfetta, è musica che va all'anima?». E non avrai preferita questa a quell'altra?

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Da ciò io verrei a dare un consiglio a quei genitori che vogliono assolutamente inoculare la vocazione musicale a qualche loro fanciulla affatto destituita di attitudine all'arte. Essi torturano quella povera creatura, obbligandola a cinque o sei ore di esercizio al giorno, a costo di vederla emaciarsi e languire in quello immane sforzo pur di riuscire a farle apprendere meccanicamente qualche waltzer o qualche cavatina da renderne poi vittime, di quando in quando, i poveri orecchi dei parenti o degli amici; facendole inoltre sprecare un tempo preziosissimo che impiegherebbero ottimamente ad imparare cose più utili e a cui meglio sarebbe acconcia; a cominciare dallo studio delle lingue vive, dell'aritmetica e di un po' di storia del paese in cui essa è nata fino a quello di far bene le cuciture e le maglie, il che è pur dote non disprezzabile di una buona massaia e di una buona madre, che ella sarà poi, di famiglia.

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Per tornare un momento ai concerti, voglio raccontar un fatterello a cui ebbi ad assistere in uno di questi giorni in cui mi trovavo a villeggiare a S. B..... Un gentil nucleo di signori del paese e di parecchi villeggianti si radunavano abitualmente nelle sere delle domeniche in un grazioso casino; ed ivi con musiche e balli si passavano liete le ore. Si erano appunto con un concerto inaugurate le raunanze autunnali. Pochi ma veramente eletti artisti avevano cortesemente aderito alle istanze di alcuni soci, perché volessero rendere più bella la festa colle dolci armonie dei loro istromenti. Si eseguirono dai medesimi divinamente alcune sonate con quello slancio, con quella ispirazione che è propriamente il privilegio di quei pochi che hanno, come altrove ho detto, la musica nell'anima. Che volete? vi sono quaggiù degli esseri cosifatti a cui tutto ciò che si rivolge al sentimento, e specialmente la musica, non serve che a stuzzicare sgradevolmente i nervi; questa affezione morbosa si manifesta in quegli individui coll'agitazione, col batter dei piedi, collo sbadigliare, col chiacchierare e via dicendo. Uno di questi esseri disgraziati finì, impazientato, per rivolgersi ad uno degli artisti, quello che ci aveva maggiormente imparadisati colla magica potenza del suo arco. «Signore! gli disse, favorisca dirmi se questi pezzi non sono ancora terminati; e' si vorrebbe danzare!». L'artista a quella strana domanda, scambiò davvero l'individuo per un pezzo duro; e voltosi ai compagni loro lo accennò, dicendo: «poveretto! ha tutte le ragioni di annoiarsi! non sente nulla!». Vogliam dire con questo che chi è avverso la musica debba dirsi perduto pella societa? Mai più! anzi il contrasto con coloro che l'amano è ciò che serve a caratterizzar meglio le qualità rispettive degli organismi e può dar luogo a sottili e vantaggiose elucubrazioni che vanno a tutto corredo della scienza musicale e fisiologica. Dico soltanto che chi si sente raggrinchiare e sta troppo a disagio in mezzo alle note deve starne quanto più può lontano e non esporsi col suo viso rannuvolato, colle sue stupide interruzioni, e tanto peggio con dimande di quel genere a fare quella stessa figura che fece quel tale, che giunto con grandi sforzi di volontà ad aver letto cinque o sei canti della Divina Commedia, finì per chiudere disperatamente il volume, borbottando che Dante non l'avrebbe più colto; e che nulla non gli era mai sembrato più duro e fastidioso ad ingollarsi dell'Inferno. Io credo che quell'individuo avrebbe provato lo stesso effetto nell'udir la musica di Rossini interpretata dalla Patti; e che avrebbe a metà di una cavatina interrotta la celebre artista per domandarle quanti pezzi le rimanevano ancora a cantare.

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Se la religione di Cristo che differisce un po'da quella del mondo avesse ancor d'uopo d'essere sostenuta da grandi e sublimi esempi, essa dovrebbe andar a cercare i suoi martiri e i suoi santi fra le Suore di carità. ROUX — La suora di carità. Parlando d'infermità, si hanno a prender le mosse dal dolore; parlando di assistenza a chi soffre, siamo obbligati, prima di innoltrarci nell'argomento a rendere omaggio a colei che personifica in se stessa quest'assistenza, che sacrifica nel disimpegno di questo atto sublime di religione, d'amore, tutta la sua vita, la sua gioventù, le sue gioie, e di cui il compenso, il solo che essa desideri, il solo che attenda è la malattia, la vecchiaia precoce, la morte. Noi dobbiamo rendere omaggio alla suora di carità. Ma non è necessario, per poter dire di aver recato sollievo a un infermo, il sottoporsi a questa missione penosa d'una continua assistenza. Anche colui che vive nella società può, senza detrarre troppo dalle sue ordinarie occupazioni, dedicare qualche ora, qualche minuto a quest'atto caritatevole di visitare coloro che sono oppressi dal morbo, e pei quali non avvi maggior conforto di quello del vedersi oggetto delle nostre cure e di sapersi non dimenticati da quelle che loro si dicono affezionati ed amici. Ed è appunto di questo che noi vogliamo occuparci, procurando di dar qualche norma sul modo di fare le visite agli infermi in modo da non metterci in urto col fine che noi ci proponiamo adempiendo a questa pratica caritatevole che ci è suggerita dalla religione, dal Galateo e dal cuore. La carità infatti è una delle manifestazioni più sublimi della civiltà; e adempie un atto altamente civile colui che consola della sua presenza, delle sue parole, del suo affetto il congiunto, l'amico costretto a lottare col male fisico, e coll'afflizione morale che ne è ordinaria conseguenza e inasprimento.

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Quando l'infermo sensibilmente migliorato ma incapace nulla meno di serie occupazioni troverebbe ristoro dall'altrui compagnia, egli se ne rimane dimenticato, in preda a dolorosi pensieri, senza veruna diversione al tedio che lo incalza per la forzata inerzia a cui è costretto. Quello sciame di visitatori che gli riempiva la casa, che s'interessavano a lui nei giorni in cui egli trovavasi aggravato è affatto scomparso; egli può a sua posta meditare nel suo isolamento sulla natura sensibile degli uomini che vanno a visitare un malato non già, come dicono, per offrirsi ad aiutarlo, a confortarlo, ma bensì per procurare a se stessi, colla vista di uno che si trova alle prese colla morte, un grato spettacolo, una piacevole emozione. Giacché in qual altro modo spiegare un simile contrasto? Come mai tanto interessamento, tanta affezione vengono, a così breve distanza, seguiti da tanta indifferenza, e, diciamolo pure, da tanta scortesia? La cosa, signori miei, è naturalissima. La malattia finchè si mantiene in uno stadio pericoloso ha in sé un non so che d'interessante; vi ha sensazione nell'udirsi a rispondere, allorché si chiedon notizie dell'ammalato: «poverino! è aggravatissimo! — è peggiorato! va male — è fuor di sé! — è in fin di vita». Qualche volta, pur troppo — se n'è andato! — oh allora, in quell'istante, l'emozione è al culmine: uno se ne va a casa contento; contento, dico, non già della partenza del congiunto, dell'amico — non si è mica affezionati per nulla! — ma del colpo, di quel gran colpo che si è provato a quella trista novella, che darà argomento a conversazione, a tavola, di molti e sinceri compianti sul pover uomo che se n'è ito, di molte e gravi riflessioni sulla quantità straordinaria delle morti, sui generi di malattia dominanti, sulla pecoraggine dei signori medici e via dicendo; ed ecco ottenuto l'intento! quello di una distrazione alla monotonia che altrimenti avrebbe invaso il discorso costretto a mantenersi sopra dei soggetti di nessuna novità, di niun interesse. Un'altra emozione è quella di udire i gemiti della consorte, dei figli, di veder la desolazione della madre, dello sposo, del fratello, di osservare lo affaccendarsi dei congiunti, dei servi, allo sciogliersi di un dramma che ha pur troppo sovente per quadro finale il lutto, la disperazione, qualche volta la rovina d'una famiglia. Ma quando il pericolo è svanito! quando l'ammalato si va rimettendo! quando è entrato in convalescenza! peuh! che vale l'occuparsene? ognuno ha i suoi affari; non si ha mica il tempo da perdere in visite inutili, fastidiose per bacco! — Guarisce? — me ne rallegro! - oh ma l'ho sempre detto che era cosa da nulla! - e volevano dar a credere che fosse affar grave! — ma già i medici esagerano sempre! tanto per farsi credere necessari, per dire poi, di aver salvato uno! - E costoro non son già tutti maligni e spietati, sapete? Soltanto è a dirsi, pur troppo, che la civiltà

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Siete invitati a pranzo? Sarebbe cosa incivile da parte vostra il farvi aspettare, ma non sarebbe guari più civile l'anticipare sull'ora fissata il vostro arrivo, obbligando nel primo caso i commensali ad aspettare i vostri comodi, costringendo nell'altro i padroni di casa a trascurar le proprie faccende per occuparsi della vostra persona. Se invitati, tu e la donna tua, ad un pranzo non condur teco anco la figliuolanza; tanto meno gli amici, i conoscenti tuoi senza esserne decisamente autorizzato da una larghissima confidenza. Sarebbe peggior cosa lo abusare del parente, quando ei si trovasse a villeggiare in campagna isolata, lontana dal paese, mettendolo nell'impiccio mortificante di dovere a te, a'tuoi fare magra accoglienza e sottostare a spese, a disturbi gravi, obbligandolo a lanciare le persone di servizio, i figliuoli in ogni direzione per apprestarti un decente convito. La libertà della campagna non autorizza l'indiscrezione di queste grate soprese. Peggio poi se la tua comitiva intendesse di prendere alloggio presso l'ospite tuo, costringendolo a metter sossopra la guardaroba, il mobilio onde improvvisare i letti da potervi accogliere tutti.

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Un padre a cui stia a cuore il progresso, l'istruzione dei figli, deve cercar ogni mezzo di incoraggiarli: e questi mezzi non consistono per certo nell'abbassarli all'altrui cospetto, nel renderli oggetto di scherno e di avversione a coloro che non avran sempre la magnanimità di scusarli e di compatirli. È orribile cosa che i genitori si prendano l'incarico di deprimere il proprio sangue,e non provino ribrezzo di togliere la riputazione a coloro che sono destinati a perpetuare la loro memoria,il nome loro.

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Alcuni padri sanno a gran pena acconciarsi all'agitazione, al movimento tanto naturale alla tenera età: ogni grido li turba, ogni rumore li indispettisce: non si ricordano d'essere stati essi pure fanciulli; non san farsi piccoli coi piccoli, non hanno a mente le parole di colui che disse: lasciate i pargoli venire a me - e che oggi come allora

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Non abbiate paura d'un filo d'aria che vada a colpire i vostri bambini: non vi spaventi un piccolo mal di capo, una leggera infreddatura: insomma non opprimeteli di cure soverchie che avranno per effetto di renderli timidi, cagionevoli, inetti. Avvezzateli dai loro teneri anni alle privazioni, ai sacrifizi; avvezzateli a soffrire, avvezzateli insomma alla vita quale si presenta poi nel corso degli anni. «Ma non basta — è sempre il D'Azeglio che vi parla — avvezzateli a soffrire il caldo e il freddo, le intemperie, perchè sapete che inevitabilmente dovranno esporsi in appresso a soli ardenti, a nevi, a pioggie, ecc.: e, poi non potendo ignorare che i figli saranno esposti ugualmente a delusioni, a sventure, pensate anche da questo lato ad avvezzarli a soffrire. Insomma i bambini hanno diritto di non essere sacrificati ad inopportune e dannose tenerezze. Bisogna avvezzarli a patire, ed ubbidire quando il dovere e la necessità lo impongono». Non s'hanno quindi a soddisfare tutte le voglie, tutti i capricci dei fanciulli, e conviene anzi qualche volta lasciarli alle prose coi disinganni e coi dispiaceri. Né ciò vuol mica dire contrariarli sistematicamente, poiché ciò servirebbe unicamente ad irritarli, e predisporli alla ribellione. Guai se essi s'accorgono che voi siate dalla parte del torto, che le vostre opposizioni sono guidate, piuttosto che dalla ragione e dall'affetto, dal capriccio e dall'ostinazione. Non seguite la moda ridicola e dannosa di mandare in volta, i ragazzi colle gambe nude per far pompa delle loro carni morbide, bianche, rigogliose, come fareste di una poppatola, a costo di far guadagnare a quei poverini delle costipazioni; non fate dei figli vostri, dei soggetti da esposizione; avvezzateli anche da fanciulli alla dignità e al riserbo. A qualunque condizione essi appartengano, sia il vestir loro decente e modesto, onde non abbiano ad inorgoglirsi osservando la differenza tra i loro abiti costosi e brillanti con quelli dei fanciulli delle classi inferiori; poichè ciò farebbe nascere in loro un sentimento di disprezzo per la mediocrità e povertà, mentre voi sapete che il disprezzo voi non dovete in quei teneri cuori ispirarlo fuorché per il vizio.

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Accompagnate, per quanto lo potete, a scuola, a passeggio i figliuoli. Se voi vi fermerete qualche volta sulle pubbliche passeggiate, sui giardini nelle ore in cui i bambini vi si sollazzano, e farete di quà e di là qualche ispezione al modo di condursi delle persone di servizio, sui riguardi, sulle attenzioni che le medesime in genere dimostrano verso i ragazzi affidati alla loro custodia, resterete di leggieri persuasi della opportunità della mia raccomandazione. D'altronde i ragazzi abbandonati alle cure dei servitori prendono a non lungo andare i gusti, le tendenze, le usanze di coloro con cui essi convivono: per cui, dal vestito all'infuori, essi finiranno per rassomigliare perfettamente ai servitori. Ed oltre agli esempi d'inciviltà e d'indecenza a cui i vostri figliuoli saran costretti ad assistere, essi correranno anche il rischio di scavezzarsi il collo. Se il poverino dopo essersi slogato un braccio o fiaccato il naso si getta a gridare ed a piangere, arriva dopo un certo tempo la bonne (vedete che sarcasmo di nome!) la quale indispettita di quell'accidente che disturba i suoi interessanti colloquii coll'amica o col conoscente, strapazza di santa ragione il poveretto, e qualche volta per soprammercato lo batte: e per compierne l'educazione e per risparimiare a sé, quando sarà giunta a casa, i rimbrotti dei padroni, gl'insegnerà a schiccherare una bugia. Se non avete tempo o volontà d'accompagnarli, fissate almeno la località, dove hanno a recarsi coi figli vostri la persona di servizio che vi suppliscono in questa bisogna, e recatevi sovente a sorprenderle. La salute, in civiltà, la moralità delle vostre creature ve ne fanno uno stretto dovere. E così non permettete nemmeno che i servi si arroghino il diritto d'ingiuriare con epiteti indecenti e villani i ragazzi di qualunque età essi siano, o di prodigar loro carezze che possano suscitare in essi delle ignobili sensazioni. Inversamente non tollerate che i vostri ragazzi si avvezzino a comandare a bacchetta ai servi, giacché verrebbero così a prendere quelle abitudini di prepotenza che stentano poi, divenuti grandi, a smettere con uguali ad inferiori ed anche talvolta cogli stessi superiori e per cui diventano poi le person più uggiose del mondo; che si rivoltano ad ogni lieve contraddizione, e tengono con tutti quel fare tranchant che non è il più adatto a procacciar loro benevolenza dei loro simili.

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«Taluni - così il Francklin nella sua Vita - usann far disputare tra loro i figliuoli; non è savio un tale costume, poiché questi cavillatori, pronti sempre a contraddire, a confutare, non sogliono poi valere gran che nella condotta dei loro affari. Trionfano si a volte ma non guadagnano mai l'altrui simpatia che sarebbe molto più utile vittoria». È meglio, molte volte meglio che i ragazzi imparino a cedere che a sopraffare. Le liti onde sono rovinate tante famiglie sono generalmente sostenute da uomini che erano avvezzi, fin da giovanetti, a prepotere sui loro compagni.

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