Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNICT

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Numero di risultati: 1246 in 25 pagine

  • Pagina 1 di 25

Giovanna la nonna del corsaro nero

204924
Metz, Vittorio 1 occorrenze
  • 1962
  • Rizzoli
  • Milano
  • paraletteratura-ragazzi
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concluse il Viceré che era riuscito a far scorrere il pannello dietro di lui mentre Giovanna si spaccava in un irresistibile "a fondo"; e con un salto all'indietro infilò il passaggio segreto mentre il pannello scorreva a ritroso e si chiudeva spezzando in due la lama di Giovanna. "Traditore!" gridò Giovanna correndo verso il pannello e cercando affannosamente di farlo scorrere. "Mi è sfuggito? Ma lo raggiungerò! Aiutatemi a trovare il meccanismo che fa funzionare questa maledetta porta segreta!"

Pagina 156

Una famiglia di topi

205201
Contessa Lara 7 occorrenze
  • 1903
  • R. Bemporad &Figlio
  • Firenze
  • paraletteratura-ragazzi
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La mamma di Rita e di Nello, ch' era una bella signora ancor giovane, e si chiamava la contessa Sernici, stava per lo più, mentre i suoi bimbi cicalavano, seduta a un elegante tavolinetto da lavoro, tutto ingombro di sete e di fili d' oro e d'argento, per eseguire a ricamo i più bei disegni a rabeschi, per guarnire a volte dei mobili, a volte dei vestiti o suoi o di Rita. La contessa amava di farsi raccontar dai fanciulli le loro letture, prima di tutto per veder se avevano esattamente capito le cose lette, e poi per giudicar sempre meglio i loro caratteri e i loro cuori dal modo in cui esprimevano l'impressione provata. - Ho piacere - disse la signora a Nello - che tu non abbia paura dei pericoli, e anzi, desideri affrontarli per mare e per terra. Un uomo che mostra d'aver coraggio non solo si fa rispettare da tutti, ma anche prova, quasi sempre, d'aver animo buono e carattere fermo. Il bambino gongolava dalla gioia; anche la sua cara mamma, dunque, approvava quella carriera di marinaro, che a lui sorrideva tanto. Meglio così. Oramai non rimaneva da persuadere altri che il babbo; ma il babbo, quando la mamma, ch' era tutta tenerezza e giudizio per la famiglia, mostrava di desiderare una cosa, non era solito a dirle di no. Dunque?... Dunque Nello si vedeva già con l' immaginazione di fronte al mare immenso nelle notti di burrasca, a uomini selvaggi dal corpo nudo e tatuato di figure mostruose e deformi. A un tratto s'udì giù nella via un organetto intonar le prime battute d'una vecchia mazurka. Rita e Nello non si mossero: ne passare tanti di questi organetti stonati, per le vie! Ma a un tratto udiron gridare: - Svelto, Ragù, venite a far l' esercizio militare! Da bravo; su il fucile! Qui, Caciotta, tirate su tre numeri sicuri per questo signore; svelta! Ah, oggi non ne avete voglia, eh, buona a nulla? Vieni allora tu, Pipetta; prendi il biglietto. Da brava; svelta!... Bene! - I bambini non resistettero alla curiosità, e deposto sopra una sedia il grosso libro illustrato, corsero al balcone. Un individuo mal vestito, con un cappellaccio di paglia a larghe tese tutt'unte, con un organetto appeso al collo per una cinghia, aveva davanti a sè una gabbia di topi indiani, quasi tutti bianchi; che dallo sportellino aperto uscivan sur una tavoletta, a mano a mano ch' eran chiamati per nome dal padrone, e venivano a far ciascuno un piccolo esercizio. - Pupa, su! Su, Nerino! - seguitava a gridar l' uomo; e i poveri animalucci accorrevano, ubbidienti, a tirar fuori da una scatola un cartellino ve de o color di rosa con la sorte stampata,. o un temo da giocarsi al lotto. Qualcuno stava ritto su le zampe di dietro, reggendosi a una stanghetta di legno rozzamente tagliata a mo' di fucile; qualche altro tirava su un secchietto d' acqua appeso a uno spago; e tutti, dopo aver lavorato, si fermavano, mezzo acquattati, a guardar il padrone, come se avessero chiesto scusa di non saper fare meglio il loro dovere. - Oh, mamma! - disse Rita - ci son qui sotto dei topini.... dei topini tanto carini! Se tu ci permettessi di farli venir su, che piacere di vederli da vicino! - Sì, mamma, sì mammina, sì! - pregò anche Nello, con voce carezzevole. La contessa s' affacciò: al balcone in mezzo ai suoi ragazzi; guardò un istante lo spettacolo; poi rispose: - Ebbene, dite a Letizia che scenda un momento a chiamar quell'uomo. - I due fanciulli si precipitarono come due saette fuori del salotto, e, sempre a corsa, diedero alla cameriera l' ordine ricevuto; poi si misero, ridenti e saltellanti, nella sala d'ingresso ad aspettare l' arrivo dei topi. La mamma li aveva raggiunti. Qualche istante dopo, guidato da Letizia, spuntò dalle scale l' individuo col cappellaccio a larghe tese, con l' organetto al collo e la gabbia dei piccoli saltimbanchi in mano. - Entrate, entrate pure, - disse la signora con accento benevolo. Di nuovo ebbe principio la rappresentazione. Con la solita voce strascicata e nasale, l' individuo gridava, alle bestiole attente e spaurite: - Svelto, Ragù; venite a far l'esercizio militare! Da bravo; su il fucile! - Ma Ragù, un topo con la testa nera, che pareva un cappuccio di raso, stava rincantucciato in un angolo della gabbia, appuntando il musino irrequieto e gli occhietti sbigottiti verso il suo padrone. - Svelto, Ragù, - vociò più acremente l' uomo. - Sai cosa t' aspetta, eh, se disubbidisci! - Così dicendo, toccò la bestiola con una bacchetta dalla punta aguzza come uno spillo. S'udì un grido del topino, cui era stato inflitto il castigo, e l' animaluccio si rizzò su le zampine di dietro come per protestare. Poverino! - esclamarono quasi in coro la contessa e i suoi bimbi; e Rita pregò: - Non gli fate male, per carità! - È ostinato sempre, - disse l'uomo per iscusarsi; oggi poi non c' è il modo di farlo lavorare.... Chi non lavora, non mangia - soggiunse con un riso stupido e crudele, dando un' altra puntura al povero Ragù. In quel mentre una topolina di pelame bianco, ma ingiallito dal sudicio, corse a mettersi dinanzi al maltrattato, come per difenderlo o per dividere la punizione con lui. - A te, Caciotta! - le comandò l'uomo - prendi un foglietto con la fortuna per ciascuno di questi signori: svelta! - Caciotta si trascinò vicino alla scatoletta e ne trasse fuori co' denti dei qua- dratini di carta che porse a uno a uno al padrone; poi corse di nuovo a impostarsi dinanzi al suo compagno. - Si vogliono bene, eh? - chiese Nello al girovago dall' organetto, additandogli Caciotta e il topino dal cappuccio nero. - Son marito e moglie, - spiegò costui. Dopo parecchi esercizi di Pipetta e d' altri sorci, che portavan tutti de' nomi bizzarri e volgari, ricominciò il martirio di Ragù. - Ah, vuoi mangiare a ufo, dunque? - diceva l' uomo punzecchiandogli i fianchi e la pancia con la bacchetta - ma te la faccio veder io, bestiaccia! - La contessa, i bimbi, la Letizia, erano tutti dolorosamente sorpresi da quella scena, che certo non s' aspettavano. Nello ebbe un' ispirazione. Allungandosi in punta dei piedi per parlare al- l' orecchio di sua madre, la supplicò di comprare quel topolino così disgraziato. - Mamma, ti prego! Sai come sarò buono! Sai come studierò la geografia! Via, mamma, ti prego! - La Rita udì; e subito anche lei cominciò a strofinarsi alla gonnella materna, a fissar i suoi dolci occhi tutti pieni di lacrime negli occhi indulgenti della contessa. E mentre il piccolo Ragù strillava di dolore, la signora interruppe le sevizie di quel cattivo arnese, dicendogli: - Volete vendere quella bestiola? - Chi, Ragù? - rispose l' uomo maravigliato della domanda. Ma capì a volo che con un po' d' astuzia poteva fare un buon affare. - Vede, signora, - cominciò - queste povere bestie sono il mio pane. Oggi Ragù è malato, dico la verità; ma quando è sano è il più bravo di tutti. Io poi gli voglio bene; lo castigo.... Si sa...; ma gli voglio bene. -

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Di fuori, l' uragano continuava a imperversare; la forza del vento schiantava i rami degli alberi; contro le vetrate della scuderia l' acqua batteva come una grandinata. A un tratto, Moschino sentì accanto a sè qualcosa che lo solleticava leggermente. Si volse. Era un topo comune, d' un bigio cupo, secco allampanato e col muso aguzzo, che annusandolo l' aveva toccato co' baffi ispidi. Si guardarono tutti

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giù per la veste, e via di corsa a traverso le stanze, andò a nascondersi in un cantuccio della cucina, perchè nessuno potesse notare la sua vergogna. Un topino come lui, il più bello di tutt' i topini, ridotto in quello stato! Che cosa avrebbero detto i suoi fratelli, vedendolo? Quel sapientone di Dodò che gli avrebbe ricordati i suoi ammonimenti; quell' acqua cheta di Ninì, che l' avrebbe guardato di sotto in su, facendo le viste di non badare a lui; quello zuccone di Bellino.... tutti, tutti in un modo o nell' altro gli avrebbero data la baia! Ah! Moschino non ci poteva pensare. E il peggio era che il pelo non gli sarebbe cresciuto prima d' un par di mesi!... Rimase lì fino a sera, quando la Letizia lo sorprese e lo portò a tavola. - Oh povero Moschino! - disse il conte; e gli carezzò la pelle ardente come quella di un uccellino. Moschino s' arrischiò d' andare co' suoi, sperando che non s' avvedessero del mutamento; ma sì! Gli furono tutti intorno a fiutarlo, a mordicchiarlo; così che Moschino, dopo essersi liberato con due buone zampate da' suoi persecutori, si lasciò sdrucciolare giù dalla tavola sul grembo della Rita. - Sì, sì, sta' lì, Moschino mio, povero Moschino, - disse la buona bimba - ti darò io da mangiare, senza che nessuno ti veda. - E così fece. Adagiò Moschino sul tovagliolo, nell' ombra; e ogni tanto gli porgeva un biscotto, una fetta di pera, un po' di latte nel piattino, un po' d' erba: tutta roba fresca, che faceva bene al topino malato di calore. Per tutto il tempo ch' ei restò senza il pelo, Moschino non volle mai nè mangiare nè dormire co' suoi fratelli. Bisognò preparargli un lettuccio a parte, in una paniera ch' era servita a' bambini per la merenda; e a tavola o la Rita o Nello se lo tenevano su le ginocchia e gli porgevano il cibo. Così gli era risparmiata qualunque umiliazione. A poco a poco Moschino guarì: le bolle gli si disseccarono, la pelle gli diventò liscia come il raso, e gli ricrebbe il pelo. Egli potè allora tornare a frequentar la società de' topi; ma guardava sempre i suoi fratelli con un certo sospetto, non tollerando che gli si mettessero a torno per canzonarlo. E quel citrullo di Bellino, che, ci si provò, n' ebbe a uscire malconcio. Una sera, Moschino se ne stava a dormicchiare su la spalla della Rita, la quale, seduta vicino al lume, ricamava la cifra d' una dozzina di fazzoletti per la festa del babbo, che cadeva di lì a qualche giorno. A un tratto, si sentì tirare per il lembo della veste, si chinò e raccolse Bellino. - Come mai, Bellino, a quest' ora? Che vuoi? Hai sete, forse? - E presa la scodellina col latte, ch' era su la tavola, gli diede da bere. In quel mentre Moschino aprì un occhio, e, vedendo bere Bellino, se ne sentì venir voglia anche lui. Scese dalla spalla della padroncina e, percorrendo tutta la lunghezza del braccio, arrivò su la tavola. Bellino beveva da una parte, egli si mise dall' altra. Ma quello strullo di Bellino, che non avea più potuto vedere il fratello daccosto, dopo che l' avevano raso, e che s' aspettava chi sa quale spettacolo, non seppe tenersi dall' andargli vicino e dall' annusarlo curiosamente, specie tra que' solchettini dove il pelo non era ancora spuntato. Moschino, imbizzarrito, lo cacciò via con una zampata, ma Bellino che aveva la testa dura come un macigno, tornò daccapo: e non si contentò di fiutare, ma cominciò anche a mordere, sebbene per chiasso, il fratello. La disgrazia volle che un di que' morsi andasse proprio a cadere sopra una bolla ancora aperta: Moschino diè un grido, s' avventò come una furia su Bellino, se lo cacciò sotto, e a morsi e a zampate l' avrebbe finito, se la Rita non gliel' avesse levato di mano. Bellino, ancora tutto tremante, andò di corsa a cacciarsi nel letto, per paura di peggio; quanto a Moschino, dopo aver cercato a torno per un altro po', risalì su le ginocchia e su la spalla di Rita, s' addormentò, e sognò che il conte, per punirlo d' aver Maltrattato il fratello, lo metteva a pane e acqua. Ma il giorno seguente, in casa Sernici, si dovè pensare a altro; che alle monellerie di Moschino! La contessa s' era svegliata con un febbrone da, cavalli; e fin dal mattino tutti erano in moto. Il conte era corso a chiamare il medico; la Letizia faceva bollire del brodo ristretto; i bambini se ne stavano a lato del letto, caso mai la mamma avesse avuto bisogno di qualcosa. Ai topini non guardò più nessuno. - O che novità è questa! - pensò Dodò quando, venuta l' ora della colazione, vide la tavola sparecchiata. E, balzellon balzelloni, attraversò i salotti, attraversò lo studio della contessa, ed entrò nella camera. Gli scuri della finestra erano chiusi, e la camera rimaneva nella mezz' ombra. Dodò spiccò un salto su la poltrona a' piedi del letto; balzò con un altro salto sul letto, e guardò. In quel momento la contessa, eretta sul gomito, stava bevendo una tazza di brodo che le reggevano i suoi figliuoli. Nello fu il primo a scorgere Dodò, che, zitto a sedere su le zampine di dietro, guardava la padrona, facendo un atto col muso come per dire: - O che si sente? - Mamma! mamma! guarda Dodò che è venuto a farti una visita - esclamò piano il bambino. La contessa voltò la testa, vide Dodò e sorrise languidamente. - Vieni, Dodò, vieni, - diss' ella, facendo cenno al topo; che s' avvicinò, si lasciò carezzare e diede a dietro pianino, per lasciar riposare la padrona. Ma di lì a poco, ecco un altro topo sul letto: è Moschino. Corre, s' arrampica sul guanciale dove la contessa posava la testa, pone le manine sul mento della malata, e comincia a baciarla e ribaciarla su la bocca ardente di febbre. - Grazie, grazie, Moschino bello, - diceva la signora che, quantunque si sentisse molto male, godeva assai di vedersi far tanti attucci da quelle care bestiole. A uno a uno vennero tutti, Ragù e la Caciotta, che ormai si trascinavano a stento, poveri vecchi!, la Lilia, la Ninì e persino quel bietolone di Bellino, che, appena arrivato sul letto, si cacciò sotto il piumino, e s' addormentò. Ma gli altri topini si misero tutti intorno a Dodò; il quale, per farli star buoni, promise di raccontare qualche bella storia di topi. - Sì, sì.... - mormorarono tutti. - Allora state a sentire - disse Dodò. - Questa che vi racconto l' ho letta in un libro scritto tanti e tanti anni a dietro: è anzi la prima storia di topi che si conosca; e l' ha raccontata un grande poeta, il più grande poeta della razza degli uomini, un greco che si chiamava Omero.

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- esclamò la Ninì, quando Dodò, a questo punto; si fermò per pigliar fiato. E gli altri topi che fecero? - saltò su a domandare Moschino. - Ve lo dirò domani, se state quieti: ora bisogna tornare a casa - rispose Dodò - perchè la padrona ha ordinato alla Letizia che le rifaccia il letto. - In fatti la contessa, che si sentiva un poco meglio, s' alzava, sorretta dalla Letizia e dal conte: i topini scesero giù dal letto, e andarono a mangiar la minestra che la Letizia avea preparata nel loro piatto. Il giorno seguente, i topi s' affollarono un' altra volta intorno a Dodò, e lo pregarono di seguitare La guerra dei topi e delle rane. E il buon topo, come que' cantambanchi che raccontano l'avventure d'Orlando e di Rinaldo in mezzo alle piazze, riprese a dire:

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- esclamò la donna, e buttatasi in ginocchio, s' affrettò a trarli fuori prima che la Caciotta avesse tempo di rosicchiarli e sciuparli. - O perchè ha fatto questo - domandò la signora. - Pareva tanto buona, la Caciotta! - In quel frattempo la Letizia aveva preso la topina in mano, e l' andava palpando da tutte le parti. - Ora capisco! - gridò alla fine. - Sa che c' è, signora contessa? La famiglia cresce. - Come? la Caciotta?... Già, la Caciotta fra qualche giorno sarà mamma d' una mezza dozzina di musini bianchi e neri, bellini tanto, che parranno, sa bene, gli ambasciatori scioani che vennero a Roma.... E per questo rubava: voleva preparare le fasce a' suoi piccini.... - A tale notizia la Rita e Nello si misero a saltare e a strillare battendo le mani; parevano ammattiti dalla contentezza. La madre badava a dire: - Fermi! fermi! State boni! Chetatevi! - Ma sì: era come dire al muro. Alla fine, vedendo che con le buone non c'era verso di farli smettere, la contessa disse alla Letizia: - Letizia, va' a dire al cuoco che oggi il dolce dev' esser fatto per me e per il conte soltanto: i bambini non hanno voglia d' assaggiarne. - Bastò questo, perchè improvvisamente si ristabilisse la calma. Mogi, mogi, con la coda fra le gambe, come cani frustati, Nello e la Rita s' avviarono nella sala da studio a fare i cómpiti per la scuola. La Letizia, sapendo che la padrona non disdiceva mai gli ordini, andò a far l' imbasciata al cuoco, e la signora s' avviò verso il suo salotto da lavoro.

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Ma non era certo il valore morale di quei volumi che potesse importare a Dodò. A lui piaceva innanzi tutto la mezz' ombra di quella libreria, che gli dava modo di dormire in pace; poi lì stava tra un profumo vago di pelli e in mezzo al molle contatto de' velluti, che gli andava a genio di molto. Era un topo d' un carattere quieto; tendeva a ingrassare come un padre priore; lasciava scherzare chi voleva: quanto a lui, gli bastava d' esser molto carezzato, di dormire come un ghiro e di mangiare. Questi erano gl' ideali della sua vita. - Fortuna ch' è nato negli agi, quando la nostra infelice esistenza s' è cangiata in un paradiso! - diceva a volte la Caciotta a suo marito, vedendo Dodò placidamente accoccolato dentro la libreria o mangiare a tavola con un appetito formidabile. Della loro origine in casa del girovago e dei viaggi zingareschi compiuti con lui, la vecchia topa doveva, a volte, intrattenere i propri figliuoli; perchè Nello e Rita li trovavano certi giorni tutti riuniti su qualche sofà, in atto di conversare, e avevano come un fremito ne' musetti, e gli occhi ancor più lustri del solito. Dodò, da filosofo, dopo che i suoi genitori avean richiamate tante dolorose memorie, finiva col ripetere: - Si vede che il buon Dio pensa per tutti. - E con questa saggia sentenza, spiccava un saltino, e su, tornava a rincantucciarsi fra' suoi libri per dormirvi qualche ora prima di ricominciare a mangiare. La Lilia, una topina che, se avesse preso marito, sarebbe diventata un' ottima madre di famiglia, girava qua e là spesso e volentieri in traccia di tutto quel che poteva portare nella sua paniera nativa; nè più nè meno delle formiche, che s' ingegnano tanto per accumulare le loro provviste. E non soltanto s' impadroniva delle briciole di biscotto inglese rimaste a caso

Pagina 59

A quattro mesi Dodò pareva già un vecchio topo di tre anni, tanto era serio e ordinato in tutte le sue faccende. In uno scaffale della libreria s' era fatta una cuccia di giornali vecchi, dove andava a sonnecchiare dopo la colazione fino all' ora del pranzo. Fin da' primi giorni aveva dimostrato più intelligenza degli altri topi, e a poco a poco, sapendo che il suo linguaggio non poteva essere inteso da' bambini, se n'era fatto uno di gesti, per manifestare ogni suo desiderio o bisogno. Quando Dodò aveva fame, scendeva bel bello dalla biblioteca, andava fiutando dove si trovava qualcuno di casa, gli s' arrampicava addosso, e gli mordicchiava una mano, ma senza far male, alzando la testa e accennando come per dire: - Guarda, che mi sento cascar lo stomaco! - Quando aveva sete, cominciava a leccar le labbra a qualcuno de' suoi padroni, per far sentire la lingua arida; o, se vedeva un bicchiere o una tazza, si levava su le zampine e tendeva le braccia con tanta insistenza, che bisognava per forza voltarsi da quella parte, e dargli quel che desiderava. Ma non per questo dimostrava minore affetto o minore riconoscenza ai suoi padroni, specie al conte, che aveva preso a volergli bene, perchè lo vedeva così giudizioso, un vero sennino d' oro. - Dodò - diceva il conte alle volte - Dodò non è un topo, è un amico. In fatti, tutte le mattine, dopo aver preso il caffè con gli altri, Dodò, a furia di cenni, si faceva metter per terra, e correva nello studio del conte. Lì s' arrampicava su la spalliera di una poltrona, e annusando l' aria, guardando attorno, preso dall'inquietudine aspettava che il padrone entrasse a carezzarlo e a dargli il buon giorno. Allora scivolava, grave e soddisfatto, e se n' andava tranquillamente a schiacciare un pisolino nella biblioteca della contessa. Spesso il conte non entrava in casa fino alla sera; e allora Dodò non si moveva per nessuna ragione al mondo. Ma se per caso il conte tornava, Dodò era il primo a sentirne la voce, e giù di corsa da quella parte; gli andava incontro, s'arrampicava su la sedia più vicina, e di lì, spiccando un salto, pan! si trovava su le spalle del signore; con le zampine gli tirava la barba per farsi baciare, e gli faceva ogni sorta di feste, meglio d' un cane. Il conte si commoveva fino alle lagrime per l'affetto di quel topino, e ne lo ricompensava con qualche chicca o con qualche biscotto, che aveva sempre in tasca per lui Un' altra buona qualità di Dodò era l' amore dell' ordine e della pulizia. La sera, quando tutta la famiglia Sernici si trovava a pranzo, anche ai topi era permesso di venir su la tavola, a patto che non imbrattassero la tovaglia, trascinando i cibi fuori del vassoio. Dodò aveva imparato; e non c' era caso che si facesse dar sulla voce: appoggiava le sue brave zampine su l'orlo del piatto, e mangiava piano, gustando bene ogni cosa, proprio col fare d' una persona a modo: a segno che persino Ragù e la Caciotta guardavano il loro figliuolo con grande ammirazione, come s' ei fosse il figliuolo d' un principe. Ma gli altri topini, particolarmente quello zuccone di Bellino, qualche volta per ingordigia trascuravano le regole della buona educazione; e, non ostante i rabbuffi e le tirate d' orecchi, si buttavano come affamati su gli spaghetti al sugo o su la carne in umido; ne pigliavano quanto più potevano, e correndo via per la tavola come saette, insudiciavano ogni cosa. Allora il conte ordinava che i colpevoli fossero mandati in cucina: restava Dodò, il quale pazientemente raccattava gli avanzi dispersi di quella strage, li rimetteva a uno a uno nel piattello destinato ai sorci e poi, quando aveva finito, sedeva sul di dietro e abbadava a ripulirsi, a strofinarsi, a ravviarsi, a leccarsi, che non la finiva più.

Pagina 74

Lo stralisco

208606
Piumini, Roberto 3 occorrenze
  • 1995
  • Einaudi
  • Torino
  • paraletteratura-ragazzi
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Nell'anno 1456, oltre a innumerevoli eventi che, seppure poco contassero, non lasciarono il mondo tale e quale (giacché non solo non cade foglia che Dio non voglia, ma non s'alza ciglio senza scompiglio, e non salta rana senza far frana), accadde a Prato il fatto che vogliamo raccontare. In quell'anno Filippo Lippi, frate ormai di non bianchissima fama, avendo sfogliato piú sottogonne e colletti di donne che torni di scolastica, però pittore apprezzato e voluto, fu chiamato al monastero di Santa Margherita in quella città, a dipingere sopra l'altare maggiore una Madonna e Angeli, e in altre case e chiese per altri lavori. Nato nel 1406, come si calcola facilmente, aveva Filippo allora la tonda età di cinquant'anni, creduta meno adatta a cose forti e nuove di quella di quaranta, di trenta: e dei venti non parliamo. Ma pare poi che ciò sia vero per coloro appunto che stanno a contarsi gli anni addosso, a calcolare passi, passaggi, cedimenti: mentre chi, giorno dopo giorno, anno per anno, allunga con semplice lena la mano ai frutti, può arrivare senza ceder gioia ed appetito a cinquanta, a sessanta e chissà quanti ancora: fino a che la pietà di Dio, annoiata del suo lieto peccare, lo toglie dal mondo alla buon'ora... A cinquant'anni, dunque, si muoveva Filippo in avere e levar voglie come un danzatore provetto: e non si pensi che fosse vocazione tardiva, o desiderio e gioco avessero premuto a lungo sotto la tonaca prima di far pollone, ché da sempre Filippo fu galante: e si ricorda che, lui frate fresco ma già buonissimo pittore, avendogli ordinato Cosimo de' Medici un'opera a casa sua e vedendolo con l'occhio e la mente e il corpo persi dietro una donna, trascorrere piú ore alla cantonata a veder se passava, guardarla passare, fare che ripassasse, dirle parole, piú che a condurre il pennello secondo buona ragione, e credendo quel fiero signore gli si dovesse piú che ad altri rispetto e servizio, fece chiudere il pittore in casa, perché non perdesse il tempo di fuori. Il primo giorno di quella prigionia, si dice, Filippo chiamò aiuto: ma le orecchie nei dintorni erano, per volere di chi poteva, piú sorde e fasciate che a quei fuggenti da Gavinana su per Appennino, con dietro a canaio la caccia maramalda. Il secondo giorno Filippo fece silenzio, ma non per far pittura. Seguendo il modo, non celebre allora, degli evasi, tagliò a strisce un paio di lenzuoli, ne fece corda torta e si calò dalla finestra, e divenne uccel di bosco in città: e Cosimo, si racconta, dapprima lo fece cercare con cattive intenzioni, poi, volendo finita la pittura da quella mano, gli mandò voci a dire che liberamente tornasse, e per la porta aperta entrasse e uscisse a piacere, giacché lui aveva capito che gli ingegni sono forme celesti, e non ciuchi alla macina.

Provò a dimenticare il ritratto che nasceva. Le riapparve l'immagine di sé vista a Firenze: i capelli già raccolti a cestino... Un'immagine non chiara, simile a quella di un fantasma, o di un morto. Tentò di pregare. Chiese a Dio e alla Madre di Gesú di proteggerla da ogni tentazione.

Pagina 184

Notizie partirono, arrivarono a Firenze. Un furibondo Francesco Buti cavalcò verso Prato, a buona ragione saltando ostacoli e minacciando frati pellegrini: ma nulla di certo e di chiaro poté sapere dalla stupefatta badessa se non che, senza segno o ragione, anzi al mezzo di una pietosa obbedienza, suor Marta era scomparsa. Violento, greve, il signore fece domande su giovani del borgo che avessero mostrato interesse o attenzione verso la fuggita, e la badessa a dire con sdegno rispettoso che forti e precise eran le regole e la disciplina, stretta la sorveglianza, e lui a rispondere con lingua sciolta che di ciò bene si vedevano i risultati... A tutte queste conversazioni, a quel rumore bisbetico, da lontano e silenzioso, riservatissimamente assisteva frate Filippo, intento a dipingere, finché durava la luce diurna, il volto di Madonna sull'altare: con l'intesa che non fosse piú della fuggita. Davvero assorto nel suo lavoro, nulla sembrava importargli del tumulto, di nulla sembrava inquieto: sazio delle sue gioie, di abbracci: intento a fare quello che quasi come l'amore amava: la pittura.

Pagina 193

L'idioma gentile

209796
De Amicis, Edmondo 3 occorrenze
  • 1905
  • Fratelli Treves Editori
  • Milano
  • paraletteratura-ragazzi
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Qui apro una parentesi, che già volevo aprire alla parola Paleografia, poi a Paleolitico, a Paleontologia, a Palingenesi, a Palinsesto, a Paralipomeni, e che dovrei poi aprire a Pirronismo o a Prammatica e ad altri vocaboli, se non lo facessi in questo punto. Zitto! Non li domando se di tutti quei vocaboli sai il significato: ti tratto da uomo. Quelle ed altre molte appartengono a una famiglia di parole che si potrebbero chiamare: della scienza sottintesa: parole che si sentore dire sovente nelle conversazioni della gente colta o mezzo colta, e che spessissimo si leggono nei giornali; le quali molti non sanno o sanno soltanto per nebbia che cosa significano e sarebbero impacciatissimi a dirlo; ma, fingono di capirle, perché hanno coscienza che è alquanto vergognoso il non conoscerne il significato. Fra quanti bravi signori, se fossero sinceri, seguirebbe la scena di quei due giurati del Fucini, i quali, di parola in parola, finiscono col dichiararsi a vicenda di non sapere che cosa voglia dir recidiva, che credevano un delitto snaturato! Ebbene, questo è uno dei tanti vantaggi della lettura del Vocabolario: che tutti, scorrendo le sue pagine, possiamo colmare una quantità di piccole lacune della nostra cultura, le quali non confesseremmo neppure a un amico, aggiustare i conti della nostra coscienza letteraria, di nascosto, senza dover arrossire, come con un maestro fidato, che s' interroga a quattr'occhi, e che dà le risposte nell'orecchio, e non risponde soltanto alle nostre domande, ma ci svela pure molte nostre ignoranze inconsapevoli, e vi ripara ad un tempo. Cito fra le tante che ci passeranno sott'occhio una sola parola: preconizzare, che qttasi tutti sanno, ma che moltissimi non intendono nel suo significato vero, poiché cento volte io l'intesi usare nel senso di presagire, dove significa propriamente: proclamare l'elezione d'un vescovo, e quindi, per traslato, proclamare che che sia. Il Giordani preconizzò all'Italia l' ingegno del Leopardi. E si sente dire: - Io preconizzai la pioggia fin da ieri! - E a proposito di pioggia: una PASSATA D'ACQUA, una PASSATINA, per piccola pioggia, e che passa presto, come dice bene la cosa!

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Di corsa, perchè è ancora lunga la strada, e tu la rifarai da te a più bell'agio. PIAGGELLARE, lodare, dar dell'unto, più discreto di piaggiare, e anche nel senso di ninnolare, divertir con ninnoli. - PIANGERE. Di un vestito che non si confà a una persona si dice con traslato felicissimo che le PIANGE addosso, perchè fa le grinze d'un viso piangente, e di scarpe tutte rotte: scarpe che PIANGONO a cent'occhi. Dire che ho cercato tante volte il contrapposto di valligiano, colligiano, senza trovarlo, ed eccolo qua: PIANIGIANO: me lo appiccico sulla fronte. PIANTACAROTE.... Ma questa è una parola comunissima, come l'azione che esprime. Ora, ecco una manciata di modi comuni a vari dialetti, di grande efficacia. - PIANTAR spropositi. - PIANTAR uno a un dato posto (in senso canzonatorio). - L' hanno PIANTATO agli arresti. - PIANTARE una ragazza. - PIANTARE un amico lì su due piedi. (Un poeta usò argutamente, in questo senso, la parola Piantagione). - PIANTAR gli occhi in faccia a uno. - PIANTARE il discorso, e andarsene. - PIANTAR casa. - PÌARE, degli uccelli che cantano in amore, e Pio Pio; e si dice anche PIARE delle castagne e delle patate che metton : - Non lo vedete che queste castagne PÌANO? - PIENO, una delle tante parole che nel vocabolario hanno il sacco: - PIENO zeppo, pinzo, colmo, gremito - bicchiere (PIENO RASO - piatto PIENO a CUPOLA - nel PIENO INVERNO - nel PIENO DELLA NOTTE. - E così PÌGLIARE: PIGLIARE a cambio, a chiodo, a calo, e nel senso d'accendersi: - questo lume non PIGLIA - e in altri significati: - vino che PIGLIA d'aceto - pianta che non PIGLIA - mastice che PIGLIA appena.... Ah che miseria! Pensare che io pure, vecchio al mondo, dico quasi sempre queste cose in altri modi tanto meno spicci e meno propri! - PINZO, PINZARE è proprio del morso degl'insetti. - Nota i modi: - Starà poco a piovere. - Piove a paesi (in qua e in là). - PÍPPOLO, che è una piccola escrescenza delle piante in forma di bacca, si dice pure d' un' escrescenza della carne: ho un amico al quale una gallina portò via un píppolo dal naso con una beccata. PITTIMA, per persona noiosa, è anche del nostro dialetto. A POCHINI A POCHINI se ne spende tanti, molto più espressivo e garbato che a poco a poco. - POPONE fatto, strafatto. - POPONE per gobba. Mi ricorda il sonetto del Fucini, dove al prete gobbo che dice che l'uomo è fatto a somiglianza di Dio, Neri risponde: - Con quel popone non me l'ha a dir lei. - O sciocco, va' a dare il colore ai poponi.

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Sì, se nel culto della letteratura tu dovessi fare allo studio della lingua una troppo gran parte, riporre in essa il meglio dei tuoi sforzi e dei tuoi godimenti intellettuali, ridurti a considerarla, in somma, non come un mezzo, ma come un fine, e diventare uno di quei perdigiorni delle lettere che badano soltanto a baloccarsi con le parole e con le frasi, come se queste non fossero forme e suoni vanissimi quando non servono a dir qualche cosa che piaccia o che giovi, io ti direi che e meglio per te rinunziare a questo studio, e continuare a scrivere e a parlar male per tutta la vita. E sappi che il malanno c'entra dentro lentamente, senza che ce n'avvediamo. La nostra innata pigrizia intellettuale c'induce a poco a poco a tenere in conto d'un nobile esercizio dell'ingegno il facile lavoro di accumular vocaboli e locuzioni, e a credere che sia arte e scienza ciò che con l'arte ha che fare come la preparazione dei colori con la pittura, e con l'alta matematica lo studio della tavola. pitagorica. Non occupandoci più d'altro che di lingua, finiamo con non cercare e non raccoglier più Altro nelle opere dell'ingegno altrui; ci avvezziamo a non veder più bellezza che nella bellezza della parola, a non badar più che alla forma anche nelle pagine più splendide di pensiero e più calde d'affetto, a non più pensare noi medesimi, scrivendo, se non quanto e necessario ad aver qualche cosa da dorare e da infronzolare con gli orpelli e coi nastrini del nostro guardaroba linguistico. Ed ecco lo, studioso della lingua che, naturalmente, a grado a grado, diventa pedante e intollerante, come il bigotto diventa superstizioso e misantropo; che non ha più altro nel cranio che una grammatica e nel petto che un vocabolario, e nelle cui mani la lingua perde lume, calore e vita, per ridursi una materia inerte e fredda, da mettere in mostra a diletto di chi ha gli occhi confitti in una fronte vuota; ecco il linguaio degenerato, uggioso e ridicolo, che sempre e da per tutto dove imperò, isterilì la letteratura, uccise l'arte e prostituì I' idolo che stupidamente adorava. Ma tu non ti lascerai andare per quella china: tu terrai sempre per fermo che ogni studio diretto a parlare e a scriver bene sarà fatica, peggio che sprecata, rivolta a tuo danno, se ti distoglierà dall'esercitar l'ingegno a un più alto fine; tu studierai la lingua per diventarne padrone, non per fartene servo, per servirtene, non per adorarla; tu ne farai forza e bellezza, ma non la sostanza stessa del tuo pensiero, che si dissolverebbe nel vuoto, non l'alimento unico del tuo intelletto, per cui si muterebbe in veleno. No, tu non seguirai la via del professor Pataracchi.

Pagina 151

Il libro della terza classe elementare

210999
Deledda, Grazia 10 occorrenze
  • 1930
  • La Libreria dello Stato
  • Roma
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
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Il signor Goffredo non fece in tempo a rispondere alla sciocchezza del ragazzo che si udì un comando secco, emesso con il megafono. Di nuovo silenzio e una trepida attesa. Allora, come per incanto, accompagnata prima dal ronzare dei martinetti poi da un rumore sordo, la nave cominciò a muoversi, a calare verso l'acqua: a poco a poco accelerò la discesa, con la poppa alzò grandi schiume e infine, arrivata stabile e trionfante nel mare, parve essere soddisfatta ed esprimere: - Oh! finalmente sono a casa mia!

Il libro della terza classe elementare LA LIBRERIA DELLO STATO ROM A. IX Il libro della terza Classe elementare Letture - Religione Storia - Geografia - Aritmetica LA LIBRERIA DELLO STATO ROMA A. IX

Il frastuono delle macchine dapprima stordì un poco i nostri ragazzi, e quel vorticoso muoversi di bracci di ferro, quel girare di cinghie, quel saliscendi e batter sordo di magli idraulici li aveva un poco intimoriti come se si trovassero di fronte a una scena infernale. Poi presero dimestichezza e nello scorgere la buona impressione di quegli operai dai dorsi nudi, neri, sudati, quelli che prima sembravano diavoli e adesso nella gioia e nella serietà del loro lavoro si rivelavano per creature degne del Paradiso, i ragazzi furono davvero lieti della visita e a un di presso ne compresero l'utilità. Compresero quanto fosse faticoso per l'uomo costruire un ago, una spilla che uno sventato scolaro getta via. Compresero che la meravigliosa e divina macchina dell'uomo ha bisogno nel vivere civile di altre macchine, che le obbediscano ciecamente. Così tutto s'intreccia, tutto è utile, tutto si avvicina alla perfezione. - In tempo di guerra, con queste enormi macchine che ora sono silenziose, perchè non vi è bisogno di una superproduzione, si costruivano cannoni, - disse il piccolo ingegnere bianco - grandi cannoni. Quelle dieci piccole macchine a destra rumoreggiano e pigolano intorno a queste come pulcini intorno alla chioccia; invece che a cannoni servono a spille. Sono stato io a volerle e a costruirle vincendo le difficoltà degli azionisti, quando ero sconosciuto e povero. Ora producono immensamente.

A Scuola.

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In furibonde mischie a corpo a corpo i soldati italiani contesero al nemico il sacro suolo della Patria risoluti a vincere o a morire. «Tutti eroi! O il Piave o tutti accoppati!» scrisse un fante, a grandi lettere, sul muro a mezzo rovinato di una casa abbattuta dal cannone. Gli Austriaci furono ricacciati al di là del

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Due assordanti detonazioni, due enormi colonne d'acqua, ed una delle corazzate austriache, la Santo Stefano, ferita a morte, affonda. I due M. A. S. sfuggono al tiro furioso delle altre navi nemiche, e rientrano intatti e trionfanti ad Ancona, mentre la squadra nemica, sgomenta, s' affretta a tutta velocità verso il rifugio di Pola.

Pagina 304

chiese illuminate dal sole che tramonta si dicono esposte a ponente o a sera (fig. 2). Mettetevi ora con la faccia rivolta verso ponente. La parte del cielo che avrete alla vostra sinistra dicesi Mezzodì, quella che avrete alla vostra destra dicesi Mezzanotte o Settentrione. Le facciate delle case esposte a mezzodì sono illuminate dal sole tutto il giorno: quelle esposte a mezzanotte sono sempre in ombra.

Pagina 332

Anche i muri delle case esposti a mezzanotte, a nord, hanno, per la stessa ragione, una tinta più scura dei muri esposti a mezzodì, a sud.

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barconi, a remi o a motore, come le automobili. Il fiume è come una strada che nei paesi piani trasporta uomini e merci anche a grande distanza. Ce n'è di piccoli, di grandi, di immensi dove da una sponda non si vede l'altra; ma questo in paesi molto lontani.

Pagina 355

Trascorreva il suo tempo a pescare alla lenza, andava a' caccia o viaggiava: non dava noia a nessuno, non faceva amicizia con nessuno. Sopraggiunta la guerra, sebbene la flotta nemica bombardasse spesso la costa, e quelli che abitavano vicino alla spiaggia si fossero ritirati nell'interno del paesetto, egli continuò a starsene nella villa: anzi, alcuni ragazzi, figli di pescatori, che senza paura continuavano a scorrazzare sulla spiaggia, lo vedevano sulla terrazza alta della sua casa solitaria, guardare col binocolo o il cannocchiale verso il mare.

Pagina 80

La freccia d'argento

212017
Reding, Josef 2 occorrenze
  • 1956
  • Fabbri Editori
  • Milano
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Sotto questi titoli a caratteri di scatola viene narrata nel disinvolto stile giornalistico americano la storia della rinuncia di Stucchino e dell'ultimatum che il comitato del derby è stato costretto a dargli. * * *

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Il fotogramma di Billy Scott ha dato il via a migliaia di casse da sapone. Venti monelli e un fotoreporter hanno offerto, senza volerlo, un nuovo affascinante sport ai ragazzi di tutto il mondo. E a quei venti monelli e a quel fotoreporter si deve anche se, circa vent'anni più tardi, esattamente a cinquemilasettecentotrentaquattro chilometri di distanza in linea d'aria da New York, una cittadina della Germania occidentale è stata messa a soqquadro. Ma in realtà i responsabili non erano loro...

Pagina 6

Il giovinetto campagnuolo I - Morale e igiene

215138
Garelli, Felice 3 occorrenze
  • 1880
  • F. Casanova
  • Torino
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Dio disse a tutti gli uomini: Amatevi l'un l'altro come buoni fratelli, come foste una sola famiglia. Ognuno faccia agli altri quello che vorrebbe fosse fatto a lui, e non faccia agli altri ciò che non vorrebbe a lui venisse fatto. Il Signore vuole da noi anche più: Gesù Cristo disse a tutti gli uomini: Amate i vostri nemici, fate bene a coloro che vi odiano, pregate per coloro che vi perseguitano. Io terrò come fatto a me stesso quello che farete a pro degli altri, e ve ne compenserò chiamandovi a possedere il regno de' cieli. Perchè noi potessimo eseguire il suo comando, Iddio ci ha fatto il cuore capace di un amore infinito: Egli infuse nell'anima nostra la virtù della carità. È questa la più bella, la più santa, la più divina delle virtù. Essa ci insegna ad amare, a compatire, a perdonare, a beneficare. Felice chi ascolta i consigli della carità! Egli cammina dritto nella via del bene, e si rende caro agli uomini e a Dio. Giovinetto, accogli nel tuo cuore la carità: ama il prossimo come te stesso. Questo amore ti darà le più dolci consolazioni nella vita presente, e ti prepara il premio nella vita futura.

Pagina 14

Ma nel punto che stava per spiccarle dall'albero, gli vennero giù due legnate sulle spalle, che lo gettarono tramortito a terra. La lezione fu un po' dura; ma Nicola a menar le unghie sulla roba altrui se l'ha meritata. Capitò anche peggio lo scorso autunno a Maurizio, che entrò di notte in una vigna a rubarvi dell'uva. Il guardiano, già arrabbiato per altre simili ruberie, gli scaricò tanto di piombo nella schiena, da lasciarlo malconcio fin che vive. Il castigo, in verità, fu crudele; ma Maurizio se l'è andato a cercare. Va rispettata la roba altrui, come vogliamo rispettata la nostra. Si suda tanto per avere un magro raccolto, e vederselo portar via da malviventi è pur doloroso! Ed è anche una dura vita quella di star su tante notti a vegliare, perchè i birboni non facciano man bassa sull'uva e sui frutti maturi. Non vieni a dirmi: «infine poi due pesche, due grappoli d'uva valgon sì poco!» Bada, ragazzo, che ogni vizio ha principio dal poco; e anche a diventar ladri consumati si comincia dal poco. Come ha fatto Pasquale? Cominciò dal rubacchiare qualche soldo in casa per darsi bel tempo, e finì con assassinare sulle strade: ora sconta le sue colpe con dieci anni di galera. Bada, giovinotto: o poco o molto, chi si appropria ciò che non è suo, è un ladro. È ladro chi ruba le ciliegie e le mele nell'orto, la legna nei boschi, i pali nelle vigne, ecc. È ladro il vaccaro che lascia andar le bestie a pascolare sulle terre altrui. È ladro il mezzaiuolo che non dà al padrone la giusta parte di uva, di grano, di bozzoli, di frutta che gli spetta nella divisione dei prodotti del podere. È ladro il bracciante pagato a giornata che, lontano dagli occhi del padrone, si ristà dal lavoro. E anche ladro chi, trovato un oggetto, non cerca chi l'ha perduto, e lo ritiene come suo. E il ladro è un uomo infame, disonorato, che fa vergogna alla propria famiglia, e finisce male i suoi giorni. Impara dunque da giovane a rispettare la roba altrui, ad essere giusto con tutti, a dare a ciascuno il fatto suo, ad essere onesto e leale nei contratti. Pensa che la roba di mal acquisto non fa mai buon pro; e ricordati che la riputazione perduta è come uno specchio rotto.

Pagina 23

Tu invece l'hai speso, dicendo a te stesso: «Un soldo risparmiato a che serve? Che cosa si può fare con un povero soldo?». Io ti rispondo che molte volte la fortuna d'un giovane comincia da un soldo risparmiato; e ti ricordo il giustissimo proverbio: Chi non sa tener conto d'un soldo non vale un soldo. Uno spillo val meno d'un centesimo, non è vero? Ebbene, uno spillo raccolto da terra fece la fortuna di un povero giovane, di nome Lafitte. Questo giovane, disagiato di fortuna, ma ricco di buon volere, lasciò il natìo paese, e si recò a Parigi a cercarvi una occupazione. Dopo aver picchiato inutilmente a molti usci, si presentò ad un ricco banchiere. Era l'ultimo tentativo, dopo il quale, se non gli riusciva, avrebbe rifatto la via del paese. Ed anche questo fallì, come gli altri. Neppur là c'era lavoro d'avanzo per occupare altri giovani. Lafitte uscì di là sconfortato; camminava a testa bassa, e rifletteva alla disperata sua condizione. Traversando il cortile della casa del banchiere, scorse a terra uno spillo; lo prese, e l'appuntò nell'abito. Il banchiere, che dai vetri del suo studiolo vide quell'atto, giudicando che non avrebbe mancato di riuscire un uomo savio ed operoso chi in giovane età addimostrava di saper curare le piccole cose, richiamò a sè Lafitte, dicendogli che l'avrebbe in qualche maniera occupato. Applicatolo dapprima ai più umili uffizi, per metterne a prova la buona volontà, poi grado grado a lavori più importanti, per valutarne la capacità e la diligenza, il banchiere ebbe tanto a lodarsi dell'opera di Lafitte che, dopo averlo associato ai proprii affari, finì per lasciarlo erede di tutte le sue grandi ricchezze. Uguale fortuna toccò a molti altri giovani, i quali seppero, come Lafitte, mettere in pratica il proverbio: Chi vuole il molto curi il poco.

Pagina 39

le straordinarie avventure di Caterina

215672
Elsa Morante 3 occorrenze
  • 2007
  • Einaudi
  • Torino
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E la povera Caterina si mise a piangere, perché era piccola e sola e la nera e brutta notte cominciava a scendere. E quella stupida di Bellissima non sapeva far altro che rimanersene sulla spazzatura, buona a niente, guardando tristemente il buio coi suoi occhietti di filo rosso. D'improvviso si sentí: Toc, toc. Ecco: forse è Rosetta. Andiamo tutti ad aprire.

Pagina 16

Tanto non servi a niente e non sei buona a niente. Se valessi almeno un centesimo ti venderei e mi comprerei una mollica di pane. Ecco.

Pagina 16

Poi si mise a passeggiare guardando il soffitto, e si ricordò di Caterí: — Puoi cominciare a farti vedere, Signora, — disse. — È tutto fatto.

Pagina 44

Gambalesta

216211
Luigi Capuana 3 occorrenze
  • 1947
  • Società Editrice Tirrena
  • Livorno
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interminabile, senza che egli riuscisse a capire dove arrivava. E poi, dai discorsi di quei della Squadra, che parlavano di soldati, di fucilate, di morti, di feriti, egli aveva cominciato a intendere che quelli andavano alla guerra e che gli toccava di andarci anche lui... A fare che cosa? Oh, lui sarebbe rimasto lontano, si sarebbe nascosto, si sarebbe buttato per terra turandosi gli orecchi per non sentire il botto delle schioppettate; Intanto, così tornava a dimenticare sua madre, con viva curiosità di vedere come avrebbero fatto la guerra. Oggi stesso? Domani? Dove? Per la strada o più in là? A Catania? E dov'era Catania che non si scorgeva neppure? La Squadra si era fermata a un'osteria. Avevano dato da mangiare e da bere anche a lui... E la sua mamma che attendeva il pane? Il denaro egli lo aveva in tasca: due tarì d'argento. Doveva scambiare quella moneta e portarle resto. La sua mamma non aveva altro denaro!... Cuddu si sentiva stringere il cuore. Nell'osteria aveva trovato altri ragazzi, figli dell'oste, che lo condussero a vedere la nòria, dove l'asino faceva girare la grande ruota con tutti quei secchi attaccati in fila che attingevano l'acqua e la versavano nella vasca. Cuddu osservava meravigliato. Guardava pure due grossi uccelli che pareva stentassero a trascinare la lunga coda. Uno di essi cominciò a rizzarla a poco a poco, ad aprirla come un ventaglio cosparso di occhi, straluccicante di mille colori e di oro. E tutte le penne fremevano, scosse da un tremito lieve, mentre l'animale si aggirava attorno ad un altro uccello simile ad esso pel colore delle penne, ma senza quella gran coda, che becchettava là nascosto, assieme con le galline e con quattro tacchini. Era la prima volta che Cuddu li vedeva; non sapeva neppure che si chiamavano pavoni. E non si sarebbe saziato di ammirarli, se non avesse avuto timore che quelli della Squadra potessero andar via senza badare a lui. Tornò all'osteria. Il sole era vicino al tramonto. Don Carlo il capitano fumava, seduto davanti a la porta. Gli altri, parte, impancati dentro, bevevano ancora; parte, fuori, sdraiati bocconi, coi gomiti appoggiati sul terreno, col mento tra le mani e la pipa in bocca, zitti; qualcuno, in un canto, già dormiva. Cuddu, accostatosi a colui che gli dava a portare il fucile, gli domandò: - Si resta qui? - Se sei stanco, bùttati a dormire su l'erba - quegli rispose. - Partiremo a mezzanotte. - Al buio? - C'è la luna piena. Sei contento di venire a Catania? Farai il soldato anche tu. Quanti anni hai? - Undici anni. Ma io voglio tornare a Ràbbato; mia madre mi aspetta. Dovevo comprarle il pane. - A quest'ora se lo è già comprato. Stava per dirgli: - Ho io in tasca il denaro - ma si trattenne. Se glielo levavano? E lo tastava per assicurarsi che non lo aveva smarrito.

Pagina 102

Se dal sarto c'erano le seggiole con la spalliera, bisognava però starvi a sedere tutta la santa giornata, come su gli sgabelli di mastro Antonio; e questa idea dava i brividi a Cuddu, quasi mettendosi a fare il calzolaio o il sarto dovessero tagliargli le gambe. Intanto, per contentare momentaneamente la mamma, a don Pietro disse di sì. - Verrai domattina, di buon'ora. - Quando vorrà la mamma. - Per ora farai dei servizietti. S' intende, don Pietro - avea risposto comare Concetta. E la mattina dopo ella aveva fatto indossare a Cuddu il vestituccio rimediato alla meglio da un vecchio vestito del padre, e gli aveva fatto calzare le scarpe buone, che a lui, non abituato molto a portarle, sembravano un impiccio. Poi, segnatolo in fronte per benedirlo, gli disse: - Vuoi che ti accompagni? - So la strada. Aveva risposto cupo, accigliato, da insospettire la mamma. - Non farne una delle tue! Più tardi verrò a vedere se sei andato a bottega. Quasi le parlasse il cuore, povera donna! Prima di mezzogiorno infatti era andata a vedere. - Perché non è venuto? - le domandò don Pietro vedendola fermare su la soglia. - Oh, Dio! Dove sarà andato E guardava attorno per la bottega, mezza incredula. - Sarà andato a giocare - soggiunse don Pietro. - Verrà forse più tardi. Ma ella lo attese inutilmente fino a sera, davanti alla porta, con gli occhi alla via, chiedendone notizia ai vicini, ai passanti, mal frenando le lagrime e gli strilli che le facevano groppo alla gola.

Pagina 14

A ogni quattro passi, gente armata che accorreva, gruppi di donne che piangevano, con le masserizie ammonticchiate in un canto della via. Un formicolìo di persone atterrite che gesticolavano, gridavano, si sbandavano... E scoppi di fucilate e di bombe, lontano, come la sera della festa di S. Isidoro a Ràbbato, quando sparavano i fuochi d'artifizio nel piazzale della chiesa. Poi egli si era trovato in una via larga e lunga che gli sembrava non finisse più. Gran desolazione anche colà. Case mezze distrutte, facciate crollanti, tetti sfondati, e un via vai di persone, parecchie delle quali con le camicie rosse, armate fino ai denti. Non osava di accostarsi a nessuno di coloro; non sapeva se doveva andare avanti o fermarsi e domandare: - Dove sta il Generale? Era sbalordito di quel che vedeva. Fattosi un po' di coraggio, proseguì per quella via. Si trovò da lì a poco in una gran piazza con una fontana circondata da tanti santi di pietra, e a lato un vasto edifizio che pareva si reggesse a stento in piedi, con la facciata mezza demolita e le finestre senza imposte. Grate da monastero pendevano dagli stipiti, trattenute da sbarre di ferro contorte e miracolosamente ancora infisse al muro. La piazza brulicava di soldati con camicie rosse, di gente armata che metteva paura, parte sdraiata per terra, parte a sedere sul muricciolo che circondava la fontana coi santi di pietra, ad alcuni dei quali mancava un braccio, o la testa, o il busto. Qua e là, fucili a fascio, carri rovesciati, tavole, arnesi di ogni sorta e macerie affumicate. A Cuddu pareva di fare un brutto sogno, tanto stentava a credere ai propri occhi. Chi lo avrebbe mai immaginato? Se avesse saputo prima, non si sarebbe avventurato fin là. La rivoluzione a Palermo era ben diversa che non a Ràbbato, dove non avevano torto un capello a nessuno, neppure ai birri, mentre qui si vedevano tante persone con la testa fasciata, con un braccio appeso al collo,

Pagina 90

Quartiere Corridoni

216874
Ballario Pina 8 occorrenze
  • 1941
  • La libreria dello Stato
  • Roma
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Anche Nino e Ninetta hanno voluto provare ed eccoli all'opera, ma sul più bello viene Milena a levarli di lì. Se li conduce a casa e li tuffa nei bagno. - Domenica, domenica! - canta Nino mentre Milena lo striglia con spazzola e sapone. Domenica i Balilla e le Piccole Italiane del suo Gruppo andranno in collina a vendemmia. Tutta una giornata all'aperto, nelle vigne, a cogliere i bei grappoli. E a mangiarli.

Pagina 17

Nino corre a sciacquarsi il volto e le mani e siede a tavola. La mamma gli dà un'occhiata e gli domanda perchè non ha spolverato le scarpe. - Fatica inutile, mamma! - risponde l'ometto - tra poco esco di nuovo e mi impolvero un'altra volta. La mamma tace e scodella la minestra. Serve tutti e lascia Nino con il tondo vuoto. Ninetto protesta ed alza il piatto verso la zuppiera: - E a me, mammina? a me? - Fatica inutile - risponde la mamma - tra poco avresti appetito un'altra volta e saremmo da capo. Nino capisce a volo l'osservazione della mamma. Corre a spolverarsi le scarpe e quando torna, trova il suo tondo colmo e fumante.

Pagina 173

I SOLDATINI DI ANNA Ieri Anna ha fatto gli onori di casa a quattro invitati: un fante, un artigliere, un marinaio e un aviatore, e si è prodigata. Li ha voluti a pranzo per festeggiare la giornata del soldato. Ha mostrato loro i suoi balocchi, i suoi libri, li ha accompagnati al cinematografo, li ha serviti a tavola, ha suonato per essi due o tre pezzettini al pianoforte. All'ora di andare a letto era stanca morta: non reggeva più. - Ma - conclude sodisfatta - i miei soldatini sono stati così contenti dell'accoglienza che l'anno prossimo, il nove maggio, ne inviterò otto.

Pagina 190

Nacque a Betlemme, in una stalla, umile e povero. Gli angeli del Cielo lo annunziarono ai pastori che lì vicino custodivano il loro gregge, I pastori. obbedienti, vennero subito a Gesù, lo trovarono nella stalla. posto a giacere in una mangiatoia, e lo adorarono.

Pagina 231

IMPRESSO NELLE OFFICINE GRAFICHE A. MONDADORI - VERONA CON I TIPI DELL' ISTITUTO POLIGRAFICO DELLO STATO SU CARTA FABBRICATA NELLO STABILIMENTO DI FOGGIA DELL' ISTITUTO MEDESIMO CON MATERIE PRIME NAZIONALI A. 1941 - XIX

Pagina 268

La pendola a cucù

Pagina 40

IL BABBO DI ANNA A scuola, la vicina di banco di Ninetta è Anna Guidi, una bambina tanto graziosa. Il suo babbo è ufficiale dell'esercito e decorato. Ha due medaglie d'argento. A quindici anni si arruolò volontario. Dice spesso: - La guerra è il mio mestiere. Fin da ragazzo non vedevo che fucili e cannoni; ma al contrario di questi balillini, che marciano con un vero moschetto a spall'arm, io dovevo contentarmi dello schioppetto di latta e di legno. Di botte ne ricevevo lo stesso, però ho imparato a darne.

Pagina 54

Fino a ieri parevano verdi. Tra poco ingialliranno e incominceranno a cadere. Le mattine sono nebbiose, l'aria al tramonto rabbrusca. La sera scende in fretta. I bambini, sorpresi dal buio mentre giocano in cortile, a uno a uno rientrano in casa. Si rifugiano in cucina dalla mamma intenta alle pentole, apparecchiano la tavola pensando alla buona cena, alle belle dormite nel lettuccio caldo. I venditori di bruciate hanno messo già i loro fornelli agli angoli delle strade. Che buon profumo di castagne!

Pagina 7

C'era una volta...

218753
Luigi Capuana 1 occorrenze
  • 1910
  • R. Bemporad e figli
  • Firenze
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
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Ogni giorno, all'alba, la gallina si metteva a schiamazzare; aveva fatto l' uovo. La vecchia lo vendeva un soldo, e si comprava un soldo di pane. La crosta la sminuzzava a quella, la midolla se la mangiava lei : poi andava attorno per l' elemosina. Ma venne una mal'annata. Un giorno la vecchina tornò a casa senza nulla. — Ah, gallettina mia! Oggi resteremo a gozzo vuoto. — Pazienza ci vuole: Mangeremo domani. - Il giorno appresso, sul far dell' alba, la gallina si mise a schiamazzare. Invece d'un uovo, ne avea fatti due, uno bianco e l' altro nero. La vecchia andò fuori per venderli. Quello bianco lo vendè subito; quello nero, nessuno voleva credere che fosse uovo di gallina. La vecchina comprò il solito soldo di pane, e tornò a casa:

Pagina Titolo

Al tempo dei tempi

219427
Emma Perodi 1 occorrenze
  • 1988
  • Salani
  • Firenze
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
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e giungere presto a casa, ma allora sì che andava piano e che le gambe le facevano cicche ciacche. Basta, tutte le cose vengono a termine e venne a termine anche quella passeggiata notturna per le vie di Palermo. Appena a casa la vecchia dovette mettersi a letto perchè non ne poteva più, e in letto lesse il biglietto di donna Tura, che diceva:

C'era due volte il barone Lamberto

219508
Gianni Rodari 1 occorrenze
  • 1996
  • Edizioni EL - Einaudi Ragazzi
  • Trieste
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
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L A COLLANA F A N T A ST IC A Edizione speciale pubblicata su licenza di Edizioni EL, San Dorligo della Valle (Trieste) 1992, 1996 Edizioni EL, San Dorligo della Valle (Trieste) 1996 Altan/Quipos S.r.l. per le illustrazioni Progetto grafico della copertina: Gaia Stock Stampa e legatura Grafica Editoriale Printing Il presente libro deve essere venduto esclusivamente in abbinamento alla testata di riferimento. Tutti i diritti di copyright sono riservati. Ogni violazione sarà perseguita a termini di legge. Gianni Rodari C'era due volte il barone Lamberto ovvero I misteri dell'isola di San Giulio Illustrazioni di Francesco Altan C'era due volte il barone Lamberto

Pagina Copertina illustrata

Pane arabo a merenda

219735
Antonio Ferrara 4 occorrenze
  • 2007
  • Falzea Editore
  • Reggio Calabria
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
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Tornando a casa Maristella è caduta. La ruota anteriore della sua bici ha incontrato un sasso e si è impennata. C'è di buono che Maristella non piange mai. L'aiuto a rialzarsi e torniamo verso casa sua a piedi, tenendo le bici per il manubrio. La signora Nasochiuso ci vede arrivare da lontano, perché è affacciata al balcone. Quando arriviamo è già davanti al portone, le mani sui fianchi e gli occhi che sprizzano scintille. - Di nuovo col marocchino! — urla — Cosa ti avevo detto? - Ma, mamma, siamo solo andati a fare un giro. - Basta! Non rispondere! — e parte lo schiaffo. Non piange neanche adesso, Maristella. Ascolta in silenzio la sfuriata di sua madre, a mento sul petto. - Guarda come sei conciata! Sembri una stracciona! E qui, cos'hai? — urla aprendo con forza la mano della figlia. L'accendino di Aziz cade sull'asfalto del cortile. - Subito a casa! E tu fila via, marocchino! Raccolgo l'accendino in silenzio, monto sulla bici e torno a casa. Per strada mi vengono in mente tutte le parole che non ho usato. Sento tutti í pensieri che mi escono dalla testa, come bolle che scoppiano. Un bambino può diventare cattivo, a furia d'esser buono.

Vendo accendini, però aspetto pure che i clienti carichino la spesa in macchina e poi riporto a posto il carrello, così recupero la moneta da due euro. Le prime volte mi vergognavo un po, adesso sono il più veloce di tutti. Alcuni sono contenti di lasciarmi il carrello, così possono subito salire in macchina, senza prima tornare indietro a metterlo a posto. Questo succede per esempio quando piove. Quando piove posso guadagnare anche dieci euro, se non ci sono altri marocchini a prendere i carrelli. - Vai a lavorare! — mi dice un signore coi baffi. - Sono qui apposta — penso io e sto per dirlo, ma poi sto zitto, sorrido e vado a cercare qualche altro signore col carrello. Una commessa all'entrata regala un'arancia a un bambino. Sua madre lo riprende: - Come si dice alla signora? Il bambino guarda la commessa e dice: - Sbucciala. Dieci minuti prima che il supermercato chiuda prendo anch'io un carrello e faccio la spesa come un italiano. Mi piace andare in giro a scegliere. Le cose che compero di solito sono banane, pane, pepe, latte. I carrelli dei signori italiani sono sempre strapieni di pizze, biscotti, cioccolato, merendine. - Chissà quanti figli hanno! — pensavo le prime volte. Poi ho capito. Quasi tutti hanno un solo figlio o una sola figlia, però consumano tanto perché in casa hanno la tele, che trasmette un sacco di pubblicità. Per fortuna noi a casa non abbiamo la tele.

Antonio Ferrara è nato a Portici, in provincia di Napoli. A Napoli ci è rimasto fino all'età di ventuno anni. Adesso vive a Novara con la moglie Marianna, che fa la fotografa, con la figlia Martina, che fa la studentessa e la violinista, e con i gatti Simba e Minou, che fanno i gatti. È sempre fuori di casa, sempre fuori dagli schemi. È sempre fuori.

A Livio, che ci ha creduto. Ad Arianna, che ci ha creduto e mi ha aiutato a non perdere il filo.

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