Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Scritti giovanili 1912-1922

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Longhi, Roberto 50 occorrenze

Come risulta naturale la divergenza di opinioni che ha fatto attribuire gli affreschi di Antonio Solario a Napoli, ora a Scuola Veneziana, ora a Scuola Ferrarese, Umbra o Centrale!

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Come avviene finalmente che con tanto gioviale fastosità gli uomini pensino a tempo a ricoverare la lineatura dei loro gesti al riparo del colore, sollevando come in tacito accordo le cocche dei loro - quanto vasti! - mantelli strascicati, mentre sul cielo si sdraiano le stuoie di nubi orlate a giorno, e fra le colonne dolcemente macchiate si svolgono a distesa drappi, e bandiere?

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Mi riferisco infatti a Compenetrazione di testa e di finestra e a Testa+casa+luce [figura 67].

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Cos'è dunque che spinge quest'organismo dopo aver rigidito vibrando la costruzione corporea a unificare i propri volumi attorti con masse più lontane in un conglomerato onusto, a combaciare fulmineo la scarpata della spalla cadente con la lontana inclinazione simpatica del cortile, ad infiggersi a raggera alcune direzioni ambientali, a turbantarsi netto di un edificio lontano che s'insinua esatto nello spigolo del volto, a impigliare la guancia sinistra in una cascata diaccia di luce, a sbalzare di gradini orizzontali il torso il cui sentiero genuino era quello stagliato e saliente all'intorno?

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La trama ossea più necessaria affiora, ho detto a fatica, nel tumulto carnoso: femore e stinco pungendo, senza attacco, si commentano a vicenda col gusto curvato del boomerang che ritorna a segno.

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Poiché, se in quella vedevamo l'artista limitarsi prima a uno sviluppo astratto del dinamismo di pose e di atteggiamenti poi, passando al moto relativo conchiudere completamente il corpo in senso scultorio senza riguardi compositivi, qui nell'accelerazione del moto relativo egli tende a valersi abilmente della superficie squadrata del disegno. Questo ci condurrà fra breve a qualche conclusione, tuttavia notiamo fin d'ora che lo staglio pittorico tende a sopprimere a tempo gli sfrangiamenti inevitabili di un nuovo eccezionalmente intensificato impressionismo organico.

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A Catania, nel Museo Civico, non sfugge a chi abbia pratica di caravaggeschi un Cristo flagellato, di mezze figure (n. 58) *.

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Ma talora, a libito dell'artista, suonare rintocchi di plasticità a vita, sbocciare sanità indistruttibile di forme, allacciarsi e intercalarsi ritmi compositi di ineffabile semplicità; volta a volta la grandezza rigidirsi in ischema, e lo schema ribattere a nuovo il polso della grandezza.

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Quando per esempio tutti si convincessero che la grande Adorazione dei Pastori attribuita prima a Velazquez poi a Zurbaràn nella Galleria Nazionale di Londra 4 non fu mai dipinta a Siviglia o a Valenza ma quasi sicuramente a Napoli dalle mani del Velazquez partenopeo, il carneade Francesco Fracanzano * - e per convincersene basta uno sguardo ai capolavori che l'artista italiano lasciò a San Gregorio Armeno a Napoli, e a Pozzuoli nella cattedrale - si potrebbe esser certi che dalla rivelazione di un parallelismo così schietto e tuttavia indipendente fra la scuola napolitana e la scuola spagnola sorgerebbe un senso d'accettazione molto più intima delle fondazioni italiane del '600 di Spagna.

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Il nostro compito deve perciò forzatamente limitarsi ad un esame più accurato del periodo romano - circa 1588-1620 - e a raffigurarci poi, più in iscorcio, i risultati delle sue ricerche ed attuazioni pittoriche a Genova, a Torino, a Parigi, a Londra.

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È noto a tutti il grande telone de L'Amor Sacro col Profano *, attribuito a Guido Reni nel Museo di Pisa; meno noto è che tempo fa Hermann Voss pensò di restituirlo a Orazio Gentileschi. Penso ch'egli abbia avuto ragione ed aggiungo che l'opera deve cadere nel periodo genovese, perché un quadro affatto simile attribuito a Guido è descritto dal Ratti a Palazzo Spinola, donde forse passò a Pisa 35.

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Fortunato chi rintraccerà il «Loth con le due figlie vicini a un sasso, figure intere, del Gentilesco, de' migliori» 40, l'altra grande opera che Orazio dipinse per il duca di Savoja dopo averla già dipinta a Genova e che replicò probabilmente a Parigi41 e a Londra, come pièce d’impegno, specialmente cara al suo temperamento. L'esemplare di Torino pare esser rimasto a lungo nel Palazzo Reale e probabilmente si trova anche ora in qualche villa reale piemontese; a me spiace di non poterne parlare neppure di sulla stampa del Vosterman che non ho avuto ancora agio di esaminare.

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Ora, se in qualche caso si può affermare che l'origine della trasformazione di costoro sia rubensiana - così per es. nel San Sebastiano di Rombouts a Cassel - o vandyckiana, in altri casi pare impossibile sostenere una tesi siffatta. Mi mancano ancora troppi elementi per stabilire che parte spetti ad Orazio nell'origine di questo mutamento. Ma intanto non dimentichiamo il fatto che Honthorst, dopo aver lasciato l'Italia pretto Manfrediano, passò a Londra verso il 1626 quando Gentileschi era l'artista più alla moda della Corte d'Inghilterra, e che è appunto dopo questo tempo che la rivoluzione della scuola olandese deve avvenire. Non dimentichiamo neppure che Terborch è a Londra nel 1637 quando Orazio vive ancora. Io vorrei suggerire che ad Orazio debba rifarsi tutto ciò che, senza intervento di chic formale di stampo «barocco», cioè rubensiano o vandyckiano si manifesti come raffinamento nella resa dei «valori », soprattutto in stoffe, come raffinamento nella resa delle trasparenze d'interno, come tendenza verso una concretazione a parte - come serie di soggetti quasi inesauribile - della scena signorile, d'alta borghesia intenta a giochi placidi, a musiche, a cene e a conversari, a tutto ciò insomma che può sostituire a poco a poco, decorosamente, gl'interni equivoci e rissosi della prima maniera manfrediana della scuola di Utrecht, e della prima maniera di Frans Hals.

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Riconosciamo la Gentilesca anche nelle due opere appese l'una sull'altra nella Pinacoteca di Napoli, la Lucrezia attribuita a Stanzioni, e la Susanna coi vecchi*** attribuita prima anch'essa a Stanzioni e più recentemente a Francesco Guarino.

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Ma sorge a questo proposito un capitolo di storia provinciale che non posso scrivere così a punta di penna senza dati sicuri, ma che giura per mille piccoli fatti di importanza: viaggi forse frequenti dei Gentileschi a Firenze; e soprattutto dei giovani fiorentini a Roma; formazione di soggetti toscani a serie.

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Mantegna si vede a Belluno, a Cesena, a Perugia e nel Museo Campana.

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Il San Sebastiano (n. 23) non potrebbe mai essere attribuito a Giulio Cesare Procaccini, trattandosi di opera almeno mezzo secolo anteriore a lui, apparentemente di uno dei cremonesi operanti a Milano nella cerchia dei fratelli Campi.

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Si potrebbe abituarci prima a percepire i lievi capricci che s'insinuano nella forma placida di Tiziano giovine, o del Palma, magari in un semplice frisé di capelli, o nel trinciare più sventato degli sbuffi, eppoi si potrebbe passare a «fenomeni » più evidenti come sono a Ferrara il passaggio dal Grandi al Mazzolino; a Cremona dal Boccaccino ad Altobello; a Brescia, quello che abbiam visto, del Romanino, dai due Santi di Lovere agli affreschi cremonesi: a Milano quello dal Bramantino dell'Isola Bella al Bramantino di Locarno, o, ciò che vale lo stesso, a Gaudenzio Ferrari.

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Così anche quel bluetto di prugnolo, quel rosso guance di mela, quel turbante turbato di nastri a screzio e di lumi a sghembo; e il giallo del legnaiolo vestito dunque di scorza di peperone; e quel verdetto metallizzato delle fronde; tutto a suo modo, consona.

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E nella congerie dei disegni attribuiti a Leonardo è impossibile essere in due a trovarsi sempre d'accordo: così, sebbene la scelta del Sirèn sia ottima, non ci sentiremmo di ritenere con lui di mano del maestro il disegno a matita rossa creduto uno studio per l'Ultima Cena, e quello per la Sant'Anna Metterza all'Accademia di Venezia; il foglio con gli studi per la testa della Leda a Windsor e qualche altro; siamo ancora incerti, mentre il Sirèn pare certo, che si debbano attribuire a Leonardo gli studi per la Leda a ginocchi, a Chatsworth e a Weimar, che Morelli è vero attribuì male a Sodoma, ma che tuttavia parrebbero importare una sbalzo troppo grande nelle tendenze figurative del maestro, da un ideale cioè di plastica insottilita, di linea resa estremamente duttile, viste entrambe attraverso un tramato di tratteggi pittoreschi, a un senso di plastica ed isolata pienezza, affatto michelangiolesco.

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Il Ritratto d'uomo a Berlino, già esposto alla Mostra del Ritratto a Firenze, e prima attribuito al Velazquez, non ha a che fare col Crespi, né con altri milanesi.

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Carstens nacque nel 1754, morì nel 1798, e fu avversato a Roma dalla cerchia pseudoclassica che faceva capo a Tischbein e a Goethe.

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Il Weiterkampf si limita a rilevare che certe incisioni tedesche ne' disegni a chiaroscuro trasferirono il metodo della linea nera per le ombre, alle luci rese per mezzo di linee bianche. Ma l'essenziale qui è concludere fino a che punto ciò potesse risolversi in atto creativo, e fino a qual altro invece non fosse che presunzione tecnica, ossessione di trovate calligrafiche, tendenza all'automatismo grafico. Fatti, questi, ripeto, più facili a verificarsi e ad intendersi nella storia dell'incisione che ha gran pena a separare chi trattò l'incisione come arte, da chi.per i suoi propositi di divulgazione fu corrivo a degenerare in metodi «par coeur», e in schematismi manuali senz' ombra d'intelletto.

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Il Cattaneo, nello zelo di stabilire la sua fondamentale distinzione tra l'ornamento «lombardo» (dopo il 1000) e il carolingio (prima), diede a quest'ultimo una determinazione un po' frettolosa, e, fondandosi essenzialmente sull'esame dell'archivolto di San Giorgio di Valpolicella (Liutprando), concluse che l'ornamento carolingio dall'estrema rozzezza di quel monumento s'era a poco a poco raffinato fino a raggiungere una specie di rinascenza nell'XI secolo; nell'ornamento lombardo.

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A queste opere l'Oldenbourg aggiunge altre parecchie, e occorre dire che, mentre alcune di quelle attribuzioni sono accettabili, altre sono assolutamente prive di fondamento. Accettiamo, per esempio, la Maddalena di Dresda con l'angelo, e la Giuditta a Monaco presso il professor Nager, opere ch'erano attribuite a Feti e che l'O. restituisce bene a Jan Lys. Accettiamo anche la restituzione al Lys dell’Apollo e Marsia nella raccolta Ostrouhoff a Mosca.

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Ecco due disegni per gli affreschi della scuola del Santo a Padova, uno a Francoforte, uno all'Ecole des Beaux Arts a Parigi. Ma a dir vero, ci pare che specialmente per il primo il dubbio debba esser grande. Il secondo rispecchia meglio il metodo tizianesco di disegno a larghi campi di tratteggio incrociato per rendere al possibile la larghezza delle zone cromatiche e tonali.

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Così è più importante o più indicativo citar Brea a Taggia - e non è citato - che a Torino, Macrino in Alba - e non è citato - che a Roma, Scacco a Fondi che a Napoli, Molineri a Savigliano che a Torino; Tanzio a Novara che a Milano, Moncalvo a Casale che a Milano.

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A Voltri, a Loano, a Recco non c'è nulla? Chi sa! A Finalborgo non c'è forse un Piero di Cosimo, fra l'altro? A Bussana non c'è un Preti? E vi par seria l'illustrazione di Savona? La quadreria ricordata così alla rinfusa, un Perugino e un Caravaggio nel Duomo e a San Pietro, che non ci sono. Al Santuario della Misericordia, un grande asterisco per l'altare che non è del Bernini, e il quadro più bello, quello del Borgianni, che pure le vecchie guide amavano, non citato.

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Non son forse di questa risma notizie come quelle che assegnano al Bernini la collegiata di San Giovanni Battista a Finalmarina, o a Caravaggio certi quadri a Chieri, ad Avigliana, a Savona, e che ci rifriggono la storiella dell'Andrea del Castagno di Levanto, del Van Dyck di Caramagna e dello Spanzotti buon allievo di Gaudenzio Ferrari?

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Se a questo punto taluno volesse suppormi un ammiratore incondizionato del modo con cui questi giornali francesi che ho nominato chiamano a raccolta gli illustratori nazionali, non sarebbe nel vero. Io ho parlato del buono e ho taciuto del molto cattivo. Il gusto è a brandelli tanto in Francia che da noi e non vi si ha alcuna difficoltà a mescolare con molta noncuranza ciò che noi ci siamo affannati a separare per conto nostro.

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Poland si affanna per cercare un autore a un bel frammento di pittura seicentesca nella Collezione del signor Douglas John Connah a Boston rappresentante un Nobile giovinetto che fa l'elemosina a un vecchio mendicante [figura 173]. Finisce per fermarsi sul nome di Velazquez, che, a detta sua, l'avrebbe potuto dipingere nel periodo dei «bodegones», verso il 1624.

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Ora io mi domando come avvenga che la Direzione delle Arti intenti processo a chi, poniamo, riesca a venderle un quadro falso, eppoi ordini essa stessa a' suoi dipendenti di costruire delle false finestre, dei falsi marmi, dei candelieri falsi, e di mescolarli a confusione e maleducazione del popolo, fra le cose vere. Un monopolio della falsificazione?

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A propos d'un livre récent («Gaz. des B. A.»,gennaio-marzo 1918) (in: 'L'Arte', 1919, p. 78).

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Interessante studio, ben corredato d'illustrazioni, su questo quasi ignoto ma fertilissimo cremasco, nato nel 1590, morto nel 1656, e attivo soprattutto come decoratore a Crema, a Brescia e a Bergamo in chiese e palazzi, dopo il 1631.

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Chiare influenze sono nel portale di San Celso, circa del 1125; altri imitatori lavorarono a Nonantola poco dopo il 1121; Nicolò, il grande allievo di Guglielmo, lavorò alla Sagra di San Michele nel 1120 e nel 1122 a Piacenza. Nel 1135 lavorò a Ferrara, nel 1139 a Verona. La cattedrale di Parma fu cominciata circa il 1117 e nei primi capitelli l'influenza di Guglielmo è evidente. Guardarono a Guglielmo verso il 1120 anche gli scultori di Isola San Giulio, quelli di Aosta (1133), di Sasso (1125), di Cavana (c. 1130). L'imitazione di Nicolò è evidente fin dal 1140 circa a Sant'Ilario di Baganza, anzi fin dal 1135 circa nei portali nord e sud di Borgo San Donnino.

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Influenza anche maggiore che in Linguadoca ebbero Guglielmo e Nicolò sulla scultura del Poitou e soprattutto in Nôtre Dame-La-Grande a Poitiers, a Parthenay-le-Vieux, a Loches, a Ile-Bouchard ed Angoulême. La facciata di Sto Jouin·de·Marne è una derivazione del San Michele a Pavia.

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Il Kehrer non ha fatto a tempo neppure a servirsi della «Vita del Greco» a Roma data dal Mancini e da me pubblicata nell' «Arte» del 1914.

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O, per toccare de' nazionali di Baviera videsi mai tedesco che sì per tempo nel secolo sestodecimo, sbandita la seccaggine del Duro, sia più conforme dello Ampergher a' nostri pittori di Bergamo o di Brescia: a' Lotti, a' Bonvicini, a' Previtali?

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Vien Guido e dice non esser a suo vantaggio in pezzi per lo più affidati a' discepoli; il saria nella Sant'Agata col San Pietro, bellissima; se non convenisse prima trasportare il quadro a un nobile soggetto Siciliano; e ne discorreremo a quella scuola.

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Venuti ad epoche recenziori Voi sapete, ornatissimo Signor Abate, ch'io non fui giammai svisceratissimo de' Bolognesi che pure occupano gli stalli primari nell'epoca quarta; a' Cignani, a' Franceschini, a' Quaini altrettanto che a' Maratti, a' Massucci, a' Costanzi dovendosi deferire il primo stabilimento di quella eleganza scelta, se si voglia ma fredda, che a dì nostri quasi è provetta a' rigori dell'inanimazione, e della morte. Dicasi nondimeno che il Cignani è al suo solito in Pommersfelden dotto, leccato e soverchiamente rotondo, se ne togliete, ove sia de' suoi primi anni, quel Rinaldo già nominato e qui creduto dell'Albani, e un Isacco che benedice Giacobbe dove l'impasto più ricco e spirante rammenta il Franceschini. Questi poi saria spiritosissimo ove gli convenisse il quadretto del San Domenico che fa limosine*; riferitogli nondimeno, io credo, per esser più scarse in Germania le novelle del Franceschini di Firenze al cui stile è più addetto vedendovisi non so ché di Cortonesco nell'accordo, e nel tingere. Non più oltre de' bolognesi a Pommersfelden.

Pagina 481

Ora, come imprimere moto a questo raggelarsi, a questa precipitazione della materia propria del cubismo?

Pagina 49

Ma rammento anche che ad ogni mia proposta di correzione, e cioè ben s'intende per un nuovo e diverso nome d'artista, l'Ojetti, nella sua saggezza pirronica, si limitava a concedere l'apposizione di un «attribuito» al nome precedente o, tutt'al più, la rivogatura a una generica «Scuola»; d'artista o regionale che fosse. Forse. ebbi torto a non puntare i piedi, o a non ritirarmi sull' Aventino, per condurre a mio modo, e in separata sede, il lavoro che pure abbozzai sotto il nome di «Farragine del '6 e '700 a Palazzo Pitti» ma che non tradussi in saggio. Le cose qualche volta vanno a modo loro.

Pagina 494

Le due Marine di Bologna nella seconda edizione vennero rettificate a «Scuola» (si veda anche a: RICCI, MARCO); nelle Scene di genere (649, 650) di Casa Lechi a Brescia venne indicata la collaborazione, forse dello Spera, per la parte architettonica; :ma non si distinse la collaborazione figuristica, che mi sembrava chiara nel Mercato (642) del Castello Sforzesco; né si retrocedettero a imitatore, come si doveva, i numeri 646, 647; la collaborazione era pure evidente, ma non venne indicata, nel n. 653 dalla Coll, Contini [figura 247] dove il paesaggio, il gregge e il pastorello col cane a destra sono di qualche pittore romano simile a Rosa da Tivoli, il resto invece di Magnasco.

Pagina 505

Romanelli a Parigi con Due cechi (920 A, seconda edizione) attribuito a «Scuola Veneziana del '700»] (si veda anche a: GUARDI, FRANCESCO).

Pagina 506

Nella stessa seconda edizione fu posto a «Scuola bolognese», non so perché, il San Sebastiano (890 A; lª ed. 903) del Castello Sforzesco a Milano, nella prima dato a «Scuola lombarda» (903), mentre a me pareva di uno dei Francesi nella scia del Valentin a Roma.

Pagina 510

Per i numeri assegnati nella prima e seconda edizione si veda a: CARAVAGGIO (202, poi 904-905, poi 207 A).

Pagina 510

È a traverso queste ricerche delle direzioni essenziali della materia che si giunge a quella Elasticità (cavallo, cavaliere e paesaggio), ch'è, sia detto a gran voce, un capolavoro, e dove si afferma quello ch'era inevitabile: il predominio delle curve vive [figura 35; tavola V].

Pagina 53

Un ottimo capitolo è dedicato a Michelangelo architetto. A parte, come finale, è trattata l'attività di Michelangelo nella fabbrica di San Pietro, sovratutto nella cupola che, dice il T., a guardarla dal Pincio, al tramonto, appare (anch'essa) come un simbolo della cultura del Rinascimento.

Pagina 58

È appunto secondo questa falsa concezione che Michelangelo compie una ben triste giustificazione della pittura a grottesche. Poiché, io credo, la pittura a grottesche del Rinascimento è uno svisamento illustrativo dell'ornatistica pura che non si distingue affatto dall'arte: poiché è lirica lineare con una leggera fissazione metrica: un'intensificazione un'astrazione fantastica del senso della composizione. La decorazione a grottesche la svisa a pro della rilassatezza curiosa dello spirito pratico. E bene: è a punto questa, per Michelangelo, la legittimità artistica delle grottesche: «per la variazione dei sentimenti e pensieri degli occhi mortali che alle volte desideran di vedere quello che non mai vedranno né pare ad essi che possa accadere». Ammette, adunque, un'arte a soddisfare la praticità suntuaria degli uomini.

Pagina 9

Da quella di San Giobbe a quella di San Giovanni Grisostomo, Bellini si mantiene fedele a una vasta costruzione centrale prospettica di forma-colore, che Mantegna solo apparentemente aveva raggiunto a San Zeno ove non mirava, come al solito, che a darei un'illusorietà spaziale e figure, qua e là, sovranamente disegnate.

Pagina 99

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