Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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La tecnica della pittura

254413
Previati, Gaetano 47 occorrenze
  • 1905
  • Fratelli Bocca
  • Torino
  • trattato di pittura
  • UNIFI
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Tutti i guai dei dipinti che conducono al rapido annerimento dei colori ed alle screpolature, disquamazioni, vesciche e crolli di colore, dipendono generalmente dalle riprese del lavoro tanto spesso improvvisato sulla tela senza studi o cartoni per l’insieme delle linee e gli effetti di luce, per cui lo spostamento a tentoni degli scuri sui lumi e sulle parti chiare su quelle sottostanti oscure, senza preveggenza nel considerare se il disotto sia secco o bagnato, trascina a stratificazioni irregolari, qua urtanti per l’eccesso dei colori accatastati, là improvvidi per una sottigliezza che non basta a coprire la tela; e per tutto il dipinto le tracce di una contraddizione persistente nell’idea dell’artista, rivelata dall’andamento diverso del pennello negli strati più profondi del colore, che le pennellate superficiali non bastano a nascondere.

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La ripresa del lavoro riapre il problema dell’aderenza dei nuovi colori sull’abbozzo, il quale, comunque condotto, viene a presentare una condizione sfavorevolissima per una salda congiuntura cogli strati che verranno a coprirlo, se questi, anzichè contenersi nei limiti di sottili impasti e velature, quali bastano per risolvere un lavoro condotto a buon punto, non saranno invece che un rifacimento del dipinto e un soverchio ingrossamento portato sull’abbozzo, rapidamente e tumultuariamente eseguito.

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Il primo di questi pericoli può essere procacciato dall’abuso dell’essenza di petrolio, che, per alcune sue proprietà superiori a quelle dell’essenza di trementina, tende a sostituirla compiutamente negli usi per l’arte.

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Ma due circostanze d’indole affatto diversa e pure cospiranti allo stesso risultato, sono venute a minacciare la pittura ad olio di questo sgretolamento rovinoso, quasi che non fossero sufficienti i pericoli che incombono su questo processo di dipingere soggetto a tante cause di alterazioni fisiche e chimiche.

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Ma queste che sono parte delle considerazioni per cui si abbandonò totalmente il processo propriamente detto a tempera, non dovettero toccare molto artisti, come il Cennini, abituati a «triare de’ colori; e imparare a cocere delle colle e triare de’ gessi, e pigliare la pratica nell’ingessare le ancone, e rilevarle e raderle; metter d’oro; granare bene, per tempo di sei anni. E poi in praticare a colorire, ad ornare di mordenti, far drappi d’oro, usare di lavorare di muro per altri sei anni sempre disegnando, non abbandonando mai nè in dì di festa nè in dì di lavorare».

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Nè gli antichi pittori italiani mai rinunziarono a questa estrema densità del colore cagionata dalla presenza del torlo d’uovo nella misura necessaria perchè la tempera potesse essere verniciata senza alterazione dei toni: cosa che si accerta osservando come tutte le antiche tempere dalle bizantine alle ultime toscane, presentino inalterati i caratteri tipici del meccanismo del pennello a tratti. I quali, ben dice il Baldinucci, non si praticano nella tempera, come nell’affresco, per ostentazione ma per necessità, quantunque, a detta del Vasari, non fossero pochi i tentativi che si facevano dagli artefici dell’epoca, sino, come il Baldovinetti, a rimetterci i suoi dipinti, pure di togliersi quel tedio del tratteggio e dell’altre mende della tempera, che secondo il grande storico dell’arte, condussero alla scoperta del processo ad olio.

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Alla tempera all’uovo, sul finire del secolo XV, si sostituì il processo di dipingere ad olio, ma ciò non poteva accadere allo stesso tempo dappertutto, nemmeno è probabile che usandosi già promiscuamente il colore ad olio con quello a tempera, si abbandonasse d’un tratto così favorevole, sebbene faticosa, preparazione al dipinto. Nella scuola veneta l’uso dell’abbozzo a tempera si protrasse sino a Paolo Veronese ed al Tintoretto, senza però avere più nulla di comune, nè pel glutine nè per l’esecuzione, coll’antico metodo.

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La rapida alterazione dei toni di questi dipinti, le screpolature che si contano dapprincipio e finiscono in una rete minuta che offende l’occhio a distanza, i disgustosi raggrinzamenti dei colori insaccati in pellicole oleose, le colature dell’asfalto ad ogni aumento di temperatura producono di consueto la salutare reazione che conduce il giovane artista a ritornare sui suggerimenti dei maestri, a consultarsi coi colleghi, a ricercare gli autori che si sono occupati dell’insegnamento pratico del dipingere.

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Ridotti i colori nel massimo stato di divisibilità che si può ottenere da accurata macinazione, onde avvenga più facile e regolare il loro miscuglio coi solventi particolari di ogni processo di pittura, un ulteriore cambiamento d’aspetto viene loro portato dal passaggio dallo stato di polvere a quello di impasto o soluzione liquida nel conglutinante ad essi aggiunto che serve a tenere aggregato in sè il colore e farlo aderire alle superfici appropriate a ciascun processo di dipingere.

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Per iniziare un esperimento qualsiasi dapprima sarà necessario precisare a quale giallo, a quale rosso e a quale azzurro si dovrà dare la preferenza risultando effetti molto diversi dalla diversa materia di uno stesso tipo di colore.

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D’altronde fu questa impossibilità di provvedere personalmente a tutto, condizione comune a tutte le epoche dell’arte e ad ogni lavoro umano, nè si potrebbe ragionevolmente ricavare per uso dell’arte il principio che l’artista non potendo fare tutto da sè rinunzi anche a quello che è in facoltà di ottenere.

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Si può adoperare ad olio, a tempera, ed a fresco, ma bisogna evitare di mescolarlo con spatole di ferro o di acciaio che lo rendono verdognolo.

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. — Le ocrie rosse o terre sono pure un prodotto naturale o artificiale a seconda che si ricavano dai giacimenti naturali di alcune località o provengono dalla precipitazione degli ossidi di ferro su materie atte a fissarne il colore oppure portando ad elevata temperatura le terre gialle, così naturali che artefatte.

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Per estrarre il colore azzurro dal minerale occorrono due operazioni distinte che il Bouvier descrive in questo modo: Dapprima se la pietra è in pezzi troppo grossi bisogna ridurla a media grandezza rompendola alla meglio a gran colpi di martello. Si arroventa poi il lapislazzuli entro un crogiuolo posto su braciere ardente tuffandolo quindi nell’aceto. Questa operazione si ripete diverse volte perchè serve a rendere friabile il minerale; bruciare e far evaporare le piriti e le parti sulfuree che contiene.

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Dal residuo pastello si può ancora ricavare una cenere d’oltremare, aggiungendovi quattro volte d’olio di lino e facendolo liquefare a bagno maria, sino a che la cenere azzurra coli a fondo. Decantato il fluido, si rimette olio e si ripete l’operazione per esaurire completamente il pastello liquido da ogni residuo d’oltremare, che fatto bollire e lavato più volte in acqua, finalmente si lascia seccare e si ripone per l’uso.

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Giudicando dai caratteri esterni che le resine presentano in natura, la copjpale e l’ambra furono sempre reputate quelle che avrebbero meglio risposto alla difesa dei dipinti, onde la mira di ridurle a vernice fu incessante. Senonchè, non sciogliendosi queste resine che a fuoco nudo e non mescolandosi agli oli e alle essenze che a temperatura elevatissima, il prodotto della soluzione è così trasformato da ridursi inetto all’impiego sui dipinti.

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È quasi inutile avvertire che per piccole quantità di vernici basta un fornelletto a carbone e un matraccio di vetro o bottiglia a lungo collo da vernice, mentre per grandi masse occorrono apparecchi distillatori completi e località opportune e lontane dall’abitato pei pericoli inerenti al deposito e maneggio di materie tanto facilmente infiammabili.

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In generale non si deve riempire che a metà il matraccio o la bottiglia che si pone sul fuoco, affine di ovviare a che sollevandosi la materia in ebullizione abbia a traboccare.

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Di qui la timidezza e l'inefficacia, e anche gli errori di tante opere moderne testimoni irrefragabili delle aspirazioni a nuovi orizzonti d’arte, ma prove altresì evidenti del persistente pregiudizio di sopperire coll’intuito o i formulari empirici, o peggio colla imitazione d’altri artisti, a quelle cognizioni, a quegli esperimenti, che si compendiano nel sussidio nuovo portato dalla scienza a benefizio dell’arte, dai quali solo può scaturire la potenzialità di interpretare gli effetti della luce e dei colori del vero con personale e razionale carattere.

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Dal litargirio bollito nell’aceto distillato, fatto filtrare e ridotto col fuoco a certa consistenza, si ricavano nel raffreddamento dei cristalli agati che sono il sal saturno; essiccante che si trova pure in commercio in tubetti simili a quelli dei colori.

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. — Si ebbe già a notare trattando della pittura ad olio, che questo prodotto della distillazione del petrolio, tende a sostituire la trementina in tutti quegli usi della pittura, salvo le vernici, che da tanti secoli prestava, ma non sarà inutile un ritorno sullo stesso soggetto.

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Quando si devono ridurre in soluzione acquosa i pezzi secchi di colla, si mettono in molle per una notte con tanta quantità d’acqua che basti solo a coprirli. La colla secca si gonfia lentamente, e poi, a lento fuoco e meglio a bagnomaria, si allunga d’altra acqua sino alla scorrevolezza che si desidera.

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L’avvertimento del Cennini di fare le colle in gennaio e marzo viene dall’opportunità di operare in stagioni d’aria secca per il più rapido indurimento della gelatina, ed anche dipingendo a tempera di colla è da evitarsi il mantenere umide le tele o il preparato a gesso od a colla dei muri che verrebbero ad imputridire e guastare il dipinto.

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Il gesso o solfato di calce è una combinazione dell’acido solforico colla calce che si trova in natura sotto forma di pietre, dette pietre da gesso o scagliola secondo si presenta nelle cave a blocchi od a scaglie.

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Una circostanza estrinseca all’arte, come la possibile preventiva preparazione di questa varietà d’ingredienti, che un sano criterio d’applicazione, unito ad una vigilanza compatibile coll’attenzione richiesta dal lavoro pittorico, è bastevole a sottrarre, per quanto lo comporti l’indole dei materiali stessi, da quelle alterazioni che non scongiurate a tempo inducono a rovina le opere, contribuì a sollevare il lavoro dell’artista, dalla cura soverchia che avrebbe arrecato il provvedere minuziosamente tocco per tocco di pennello ad una proporzionalità prefissa di colori e solventi; seppure non si potesse dire che essendo mancato un materiale pieghevole a questa condizione sarebbe mancata l’arte stessa, come avviene nelle industrie che si valgono dell’arte condizionata tanto a ragioni di incompatibilità fra certe materie coloranti, che l’arte rimane sopraffatta dal procedimento tecnico.

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E pratiche d’arte vi si fanno credere il simulare le orditure delle tele calcando sullo stucco ancora molle del rappezzo tela simile a quella del dipinto, perchè secco lo stucco, il colore sovrappostovi col pennello si adagi come se applicato alla trama della tela originale. Minuziosi avvertimenti occorrono per cosiffatti maestri a ben spiegare come si ostentino vigorose pennellate di colore grasso innalzandole a furia di piccole sovrapposizioni di tinta e si istruisca perfino a tracciare i solchi lasciati nel colore dalle setole del pennello maestro che si contraffà, incidendoli invece con speciali strumenti perchè il pennello del contraffattore non è sicuro neanche per così misera bisogna.

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Tanto ripetersi di consimili abusi dei mezzi tecnici rivelati in tante guise e meno poi sfuggiti a chi ha famigliarità coi dipinti, o per semplice amore dell’arte o per incarico di custodia, si direbbe incredibile abbia potuto mantenere fede al restauro che intacca la superficie dei colori se il continuo pervenire a notizia del pubblico di danni arrecati ad opere insigni non dimostrasse le radici profonde di questa mala pratica deturpatrice del patrimonio pubblico e privato d’arte, antitesi di quella venerazione che le cose belle infondono alle intelligenze meno favorite dalla sorte e, pare, sconosciuta a chi pomposamente si professa cultore dell'arte e, doloroso a dirsi, agli artisti stessi, perchè non si può supporre che il restauratore vadi a togliere di mano i dipinti ai possessori e si arbitri sempre a fare e disfare a suo talento, nè è ammessibile che contro il concorde parere degli amatori d’arte e degli artisti perdurasse e si potesse compiere il ritocco del quadro antico.

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Sono proverbiali le fucilate a pallini che si dice usino certi imitatori di mobili antichi per simulare i buchi del tarlo, espressione popolare che sintetizza salacemente l’ingenuità dei consumatori di simile mercanzia, ma le arditezze di certi restauri sfidano l’immaginazione più viva. Il Nestore dei ristauratori italiani, il celebre Prof. Guizzardi bolognese (1) a togliere una vernice ribelle a tutti i solventi usava spalmare il dipinto con acqua ragia e appiccarvi il fuoco!

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Nè sulle pitture murali più antiche contribuì poco l’intervento dei rapezzi ad olio od a cera, a tempera ed a guazzo, ad impedire che se ne potessero indagare i procedimenti tecnici, ritrovandovisi sempre tale promiscuità di sostanze da rendere vane le più sottili induzioni e le più accurate indagini chimiche.

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La composizione diversa del colore, essendo inevitabile che il colore nuovo debba col tempo alterarsi per proprio conto, condurrà presto il ritocco a differenziare anche esteriormente ed in modo sensibilissimo dal dipinto antico cui per un momento e per occhio superficiale poteva confondersi. Affidarsi ai vantati processi per rendere inalterabili a mai sempre i colori di cui pare, a leggere i manuali dei restauratori, che vi sia abbondanza e siano solo i pittori che non abbiano mai potuto azzeccarne uno, è un voler ragionare sul serio di colori eterni; cioè aggiungere storpiature di criteri tecnici a vecchie storpiature del senso comune — potendosi bensì ammettere anche l’eternità dei colori — ma al solo patto che si sottraggano assolutamente a quelle condizioni normali cui vanno soggetti i dipinti.

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Non è fuori di luogo notare qui come in tutti i manuali del restauro quando si tratta della tempera, del pastello o dell’acquerello, si abbia il buon senso di riconoscere d’un tratto la vanità o, più esplicitamente, la stolidezza di ricorrere a tutta la farragine di intrugli che sino a ieri si riversarono per ogni nonnulla sui dipinti ad olio, pure sapendosi quanto pericolo per l’opere portassero seco e quali ne fossero le conseguenze immancabili, non facendosi mai alcuna pulitura che non costringesse in qualche punto a dar mano alla tavolozza per velare o armonizzare di nuovo o meglio, al solito impiastricciare sempre il dipinto così detto pulito. Questa rassegnazione a tenersi certi generi di pitture come il caso volle ridurle, è giocoforza si estenda a tutti i dipinti qualunque sia il loro processo d’esecuzione, ogniqualvolta, esperiti senza risultato i mezzi inoffensivi pei colori, si debba mettere a rischio quello che già si possiede d’integro dell’opera d’arte.

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In una tomba gallo-romana, scoperta a Saint-Mèdard des Près, in Vandea, si è trovato un bagaglio completo da pittore ad encausto, composto fra gli altri oggetti di una scatola di bronzo a guisa di tavolozza, e di una spatola, la cui forma ricorda quella del cestrum, istrumento caratteristico della pittura a cera.

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I primi tentativi di dipingere a cera si iniziarono a Parigi. «Poche parole di Vitruvio e di Plinio, e queste oscure a’ dì nostri e dai critici variamente lette ed intese, erano la carta e la bussola da scoprire questo nuovo metodo», scrive il Lanzi.

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Una quantità di opuscoli fece seguito a questa che si può dire l’opera capitale prodotta fra noi, come quella da cui derivano tutte le altre, essendochè la Cerografia del Tomaselli, le disquisizioni sulla cera del conte Torri e i lavori dell’Astorri e del Fabbroni, concordino in certo modo sul fine, pure essendo nei mezzi proposti per le varie applicazioni della cera fra i colori affatto diversi: e, singolare a notarsi fra tanti ricercatori, il criterio altresì per la soluzione dello stesso problema non è mai punto di partenza per un perfezionamento possibile delle modalità proposte, ma ciascheduno ha il proprio processo da contrapporre a quanti si conoscono, quasi a dimostrare che sostanzialmente non si era preoccupati dal pensiero dell’utile dell’arte, quanto dall’ambizione di essere chiamati scopritori dell’encausto.

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L’abate Requeno sciogliendo al fuoco cera e diverse resine coi colori in polvere, trovò una composizione che, macinata ad acqua, si presta obbediente al pennello come una tempera, e verniciata a cera, si fonde col calore, formando un corpo solo, a detta dell’autore, di una solidità considerevole. Allora contrappose arditamente il suo trovato ai processi presi in considerazione dall’Accademia francese, insieme scrivendo una critica poco lusinghiera per gli inventori premiati a Parigi.

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Ma questa ipotesi è troppo debole, essendo noto che Vitruvio non parla che di pitture architettoniche, semplici tinte di pareti e riquadrature, nulla ostando però che la sola vernice a cera si potesse applicare anche a dipinti d’ornato e di figure. Anzi quest’incerato esteriore fu quello che illuse, secondo Sir Eastlake, il Winckelmann sulle pitture murali di Pompei; nè ciò basterebbe ancora a spiegarne il processo vero, nè a conchiudere che i Greci ed i Romani dipingessero così comunemente a fresco, come furono propensi a crederlo gli scrittori d’arte; sui libri dei quali, come osserva l’Emeric David nel suo Discorso storico sulla pittura moderna, incorre la parola «affresco» ogni qualvolta non conoscono il processo di esecuzione di una pittura murale.

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In Grecia alcuni frammenti di pittura murale tratti dagli scavi dell’isola di Thèra, mostrarono colori di una intensità ragguardevole al momento della scoperta, ma che il contatto dell’aria fece subito scomparire; però in una casa si rilevò che la preparazione del muro fu iniziata con stucco di terra battuta, coperto di calce pura, sul quale si scorgevano le leggere linee tracciate a punta che servirono a limitare il campo dei colori e presumibilmente il lavoro possibile in una giornata (1). L’esame di frammenti di epoche posteriori affidati anche a scienziati illustri, come lo Chevreul, nulla aggiunse a questi dati, coi quali in genere si presentano le pitture murali più antiche, ond’è impossibile precisare il veicolo dei colori.

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Nella Pisa illustrata nelle arti di A. da Morrona l’A. così descrive e commenta l’antico processo:

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All’epoca del Cennini quella pratica del rinnovare il disegno dell’arricciato sull’ultimo smalto diminuiva il tempo utile della giornata pel lavoro dei colori, e la necessità del ritocco si dovette sentire assai più che non quando sostituitisi i cartoni si venne a semplificare molto i preliminari del colorire, onde si spiega come il Cennini non potesse riguardare il ritocco come una causalità talvolta evitabile del dipingere a fresco, ma esplicitamente scriva a proposito delle tempere per dipingere a secco sul muro: «Nota che ogni cosa che lavori in fresco vuol essere tratta a fine e ritoccata a secco con tempera». Gli affreschi del Pinturicchio fatti a Siena nel 1503 sono finiti a tempera come si vede dalla lacca e da certi altri colori (1) i quali colla calce non si potrebbero mescolare. Ed il Vasari racconta di alcune opere di Gerolamo da Cotignola in San Michele in Bosco lavorate in secco: e di certi dipinti di Ercole da Ferrara in una cappella a Bologna scrive: «Dicono che Ercole mise nel lavoro di quest’opera dodici anni, sette nel condurla a fresco e cinque in ritoccarla a secco».

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Si è notato come nell’acqua a 15 gradi la solubilità della calce sia di a 54 gradi di ed a 100 di e la lunga immersione nell’acqua abbia appunto per scopo di rendere idrata ogni minima parte della calce, tanto per toglierle il potere caustico che decolora le tinte quanto per assicurare l’intonaco da quei parziali distacchi che le parti di calce rimaste prima insolute e poscia gonfiatesi per il lento assorbimento dell’umidità atmosferica verrebbero a causare con danno del dipinto.

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Lo sbiadimento delle tinte mescolate alla calce per cui sino Teofilo fece seguire alla sua norma del fresco secco il ritocco con colori a tempera innalzò questa promiscuità di processo tecnico a complemento quasi inseparabile del buon fresco.

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Avverrà per tal modo che sul sopranuotante liquido si possano, senza tema, applicare altri e più leggeri strati di colore, vale a dire quelle velature che appunto si devono impiegare per condurre a fine il lavoro prefisso da compiere nella giornata.

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Questo attribuire a processi sconosciuti, a meccaniche indecifrabili proprie di tempi lontani, di uomini singolari appena noti per le opere e scomparsi insieme ai loro segreti; quel confessarsi bonariamente impotenti a raggiungere l’espressione, la bellezza e la verità che irradia dal tecnicismo delle creazioni dei maestri, scambiando così l’effetto per la cagione; quel potere quasi dire: voi pure Raffaello, voi pure Tiziano, se viveste nella nostra oscurità di trovati tecnici, ci sareste compagni di sventura, è uno dei fenomeni tipici del periodo attuale della nostra educazione artistica.

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Secondochè dunque il ritocco sia concesso all’artista o egli sia libero di farlo, il suo miglior esito sarà sempre dipendente dal rifuggire dalle tinte a corpo, sebbene la distanza le mascheri affatto. L’esperienza ha dimostrato che le velature sino a parecchi giorni dopo l’esecuzione del fresco, in condizioni favorevoli, dove cioè la mite temperatura contribuisca all’essiccare progressivo dell’intonaco e non a minacciare le muffe, conseguenza immancabile di una umidità troppo prolungata, le velature possono ancora fare corpo col dipinto apparentemente asciutto.

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Ma indipendentemente dal dipingere sulle tavole o sulle tele fu carattere perspicuo differenziale dell’arte italiana dalla fiamminga l’abbozzare con colori a corpo e su questi condurre poi l’opere alla ultima finitezza per mezzo delle velature. Il Gianbellino, Tiziano, Paolo Veronese, il Correggio, Garofolo, Dosso Dossi pervennero ad una trasparenza e vigoria di colore che nulla ha da invidiare a quelli che sino a Rubens, seguendo le tradizioni di Van-Eych, preparavano invece i loro dipinti, come si è già detto, con tinte sottili e liquide facendo a corpo i soli lumi.

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Cennino Cennini insegna che già si praticava la velatura ad olio sulle tempere, ma nella pittura ad olio, propriamente detta, diede luogo a metodi svariatissimi di applicarla sino a farsene quasi un’arte a sè, tanta fu la prevalenza che ebbe sull’impiego dei colori a corpo.

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Nè valicatosi dall’arte il recinto del chiostro, non abbandonava però totalmente l’artista quelle utili relazioni, lavorando quasi esclusivamente per le chiese ed i conventi, e trovandovi sempre l’aiuto di quelli che di scienze naturali erano dotti, onde il nome dei monaci è sempre frammisto, nei più antichi manoscritti, alle pratiche dell’arte, e l’amicizia dei medici cogli artisti passò nella tradizione, simbolizzata dall’affetto che legò Leonardo da Vinci a Marcantonio della Torre, il Correggio a Giambattista Lombardi e Rubens a Thèodore di Mayerne.

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POESIE

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MICHELSTAEDTER, Carlo 2 occorrenze

Le cose ch'io vidi nel fondo del mare, i baratri oscuri, le luci lontane e grovigli d'alghe e creature strane, Senia, a te sola lo voglio narrare. Ché a brevi fiate nel tempo passato nel fondo del mare mi sono tuffato. A dare or la patria all'esule sirena, la patria a me stesso e all'uomo abbattuto svelare la via del suo regno perduto, mi voglio tuffare con più forte lena, che ogni uom manifeste le tenebre arcane conosca e vicine le cose lontane. Ma quel che già vidi nel fondo del mare, i baratri oscuri, le luci lontane e grovigli d'alghe e creature strane, Senia, a te sola lo voglio narrare.

Se camminando vado solitario per campagne deserte e abbandonate se parlo con gli amici, di risate ebbri, e di vita, se studio, o sogno, se lavoro o rido o se uno slancio d'arte mi trasporta se miro la natura ora risorta a vita nuova, Te sola, del mio cor dominatrice te sola penso, a te freme ogni fibra a te il pensiero unicamente vibra a te adorata. A te mi spinge con crescente furia una forza che pria non m'era nota, senza di te la vita mi par vuota triste ed oscura. Ogni energia latente in me si sveglia all'appello possente dell'amore, vorrei che tu vedessi entro al mio cuore la fiamma ardente. Vorrei levarmi verso l'infinito etere e a lui gridar la mia passione, vorrei comunicar la ribellione all'universo. Vorrei che la natura palpitasse del palpito che l'animo mi scuote ... vorrei che nelle tue pupille immote splendesse amore. - Ma dimmi, perché sfuggi tu il mio sguardo fanciulla? O tu non lo comprendi ancora il fuoco che possente mi divora? ... e tu l'accendi ... Non trovo pace che se a te vicino: io ti vorrei seguir per ogni dove e bever l'aria che da te si muove né mai lasciarti. - 31 marzo 1905 * * * Poiché il dolore l'animo m'infranse per me non ebbe più la vita un fiore ... e pure inconscio iva cercando amore l'animo offeso. Ahi ti vidi e a te il pensier rivolsi a te che pura sei siccome un giglio ... ... Le lacrime mi sgorgano dal ciglio invirilmente. Oh mia fanciulla, oh tu non hai compreso di quanto amore io t'ami. Ed un dolore nuovo, più intenso mi attanaglia il cuore che tu feristi. Se m'ami Elsa a che mi fai soffrire? Tu della vita mia unico raggio tu che sola m'infondi quel coraggio che mi fa vivo! Lo sguardo mio non t'ha saputo dire non t'han saputo dir le mie parole quello che dice all'universo il sole, amore! amore!? 3 aprile 1905

CAINO E ABELE

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Perodi, Emma 1 occorrenze

Egli si stropicciò gli occhi, guardò intorno a sé per raccapezzarsi ove fosse e balsò dal letto spalancando le finestre. Il sole era già alto e un vento impetuoso di scirocco sollevava le onde frangiate di spuma, che andavano a frangersi sulla riva orlata da una duna scura di alghe. Sulle onde vi era una distesa di gabbiani, alcuni volanti irrequieti, altri posati sull'acqua e col collo nascosto sotto la superficie di quella, pescando. Un cutter tutto bianco filava rapidamente verso il piccolo porto, con il fiocco spiegato, simile a un uccello con un'ala sola, una grande ala gonfiata, dal vento. Due barche, cariche di botti di vino, guidate da due uomini, gli andavano incontro sballottate dai cavalloni, e giù, nel piazzale limitato da due lati dai magazzini, schiere di operai silenziosi, vestiti di panno turchino, col cappuccio del piccolo mantello abbassato fino alla fronte, rotolavano botti, segavano assi di rovere, entravano, e uscivano nei magazzini. Sul mare e in terra il lavoro continuo, serio, militarmente regolato, senza vocìo, senza grida; il lavoro della macchina che non si ferma mai, che da utile, che dà guadagno. Franco rimase a guardare quello spettacolo di dietro alle persiane, riflettendo. Anche lui aveva veduto nelle sue fabbriche in costruzione centinaia di lavoranti, ma quelle fabbriche erano state costruite alla lesta, tanto che alcune erano crollate prima di giungere al tetto, ma non aveva mai visto fra quegli operai ne disciplina, ne ordine. Ogni cantiere di costruzione era una specie di Babele, dove si parlavano tutti i dialetti delle diverse regioni d'Italia, dove si bestemmiava in tutte le favelle della penisola, dove tutti sfogavano la noia per la fatica alla quale erano condannati, per la fretta con cui dovevano lavorare e si lamentavano della ingordigia degli appaltatori. Qui tutti accudivano al proprio lavoro tranquillamente, sicuramente, senza aguzzini che li incitassero: erano tutti operai di quella regione e il prodotto del suolo ricchissimo li nutriva, quel prodotto reso fruttifero dalle intelligenti cure rivolte da Roberto nel perfezionarlo. E a questo risultato suo fratello era giunto con un piccolissimo patrimonio, e lui che aveva una sostanza così vistosa si era rovinato! Accanto all' ammirazione per Roberto, sorse subito nel cuore di Franco l'invidia; un'invidia sorda che non poteva sfogare. Si scostò dalla finestra e vestitesi appena, fece un giro nel suo quartiere, che si componeva di uno studio, di mi salotto, di una stanza da bagno e della camera. Tutte queste stanze erano al primo piano e guardavano il mare, e ovunque erano collocati mobili in legno chiaro, comodi e solida portiere di tessuti orientali a fiori. Era un quartiere costruito e ammobiliato con criterio per premunire chi lo abitava più dal caldo che dal freddo, benché in ogni stanza vi fosse un caminetto. Non era una reggia, ma i comodi non mancavano e i fiori collocati in antichi vasi di Caltagirone e di Palermo, mettevano una nota gaia ovunque. Saverio, che aveva udito che Franco era alzato, gli portò il caffè e gli preparò il bagno. Il giovane signore fu servito come nel suo palazzo di via Veneto e gli dispiacque di non trovare nulla da biasimare. Egli spese la mattinata a togliere dai bauli la roba portata seco, a collocare sulla scrivania e sugli altri mobili i ninnoli dai quali non aveva saputo separarsi. Verso le dieci il Varvaro gli fece domandare se poteva riceverlo e poco dopo scendevano insieme a visitar lo stabilimento. Prima di tutto entrarono nel cortile ove gli operai erano curvi sulle botti nuove, che rotolavano, stando uno accanto all'altro e spingendo dinanzi a sé il fusto che mandava un cigolìo di catene. Che cosa fanno? - domandò Franco. Queste botti, rispose il Varvaro, - escono ora dall'officina di costruzione, che le mostrerò più tardi. Prima si riempiono di catene d'acciaio e quelle rotolandovi dentro le puliscono da ogni scheggia di legno, che nell'attrito, staccano. Queste che vede qui accatastate; sono piene di acqua e soda; quelle altre di un vino basso affinchè il legname lo imbeva; ora glieno mostrerò altre ancora; già pulite e preparate come queste, nelle quali si pone qualche litro di spirito; vuotato l' alcool si riempiono di Selinunte. Ma venga meco e vedrà ben altro. Franco seguí la sua guida, alla quale gli operai rivolgevano un breve saluto, senza interrompere il lavoro, e lo condusse da un lato del cortile dov'erano tante assi segate. Questo è rovere della Florida, che ci reca un bastimento ogni tre mesi. Suo fratello ha esperimentato tante qualità di legname ed ha scelto il rovere come il più adatto alla conservazione del nostro vino. Con questo si fanno le doghe delle botti, ma venga venga. Entrarono allora sotto una vasta tettoia. Otto o dieci fucine erano accese e un cinquantina di uomini erano intenti a riunire le doghe, a battervi attorno i cerchi di ferro per farle combaciare, a immergere il legname nell'acqua, a seccare col fuoco le botti già fatte, od adattarvi i fondi. I martelli facevano un rumore stridulo battendo sul ferro, dai fuochi si sprigionavano fiamme alte, gli operai sudavano; pareva d'essere all'inferno. Vede, - disse il Varvaro traendo Franco in disparto - là in quell' angolo vi è la macchina che sega le assi per ridurle a doghe; più in là ve n'è un'altra che cerchia le botti. Con una macchina e pochi operai si potrebbe compiere sollecitamente questo lavoro; ma suo fratello è buono e gli dispiace di privare tanta gente del pane e costringerla ad emigrare; così preferisce rinunziare a una vistosa economia di tempo e a un guadagno non indifferente e continua a far costruire a mano i fusti per il suo vino. Il signor Roberto non è soltanto una intelligenza superiore, ma è anche un cuore d'oro, e per questo tutti lo rispettano e lo amano. Passarono poi nella distilleria. Qui molti operai versavano un vino basso in un pozzo in muratura, sotto la macchina. Un motore a gas metteva in moto la macchina, e dai sottili cannelli di vetro ritorti, l'alcool usciva limpido per riversarsi in un recipiente chiuso da sigilli. Questo alcool, che ci viene a costar poco, ci serve alla preparazione delle botti e ce ne rimane ancora per mettere in commercio. Qua poi, - e lo faceva entrare in una stanza vasta, con le pareti rivestite di legname, - si fabbrica il cognac da alcuni anni, ma non si venderà altro che quando ne avrà dieci. Suo fratello è stato a visitare le principali fabbriche della Charente, ha fatto venire un abile operaio da Cognac, le macchine necessario alla distillazione delle vinacce, i modelli dei fusti, tutto ciò insomma che poteva assicurar l' esito dell' impresa, e fra cinque o sei anni il nostro cognac cognacsostituirà in Italia quello francese, così gravato dai dazii. Franco era costretto ogni momento ad ammirare la larghezza delle vedute di suo fratello e sempre più provava per lui una invidia terribile. Quando entrarono nel primo magazzino, lungo più di cento metri, nel quale tre filari di botti erano collocate una sull'altra e una schiera di operai era intenta a vuotare i quattro immensi tini, che erano in cima e in fondo, in cui le pompe a vapore avevano scaricato tutta la ricchezza dei pozzi, Franco si fermò sbalordito e domandò a Varvaro: Dunque mio fratello è molto ricco? Relativamente - rispose il direttore. - Abbiamo altri undici magazzini come questo e in essi vi saranno un trecentomila ettolitri di vino, ma in quest' anno se ne esiterà appena un milione di litri e il resto deve essere invecchiato, perché acquisti pregio; ma anche ogni anno occorre allargare il campo dei nostri smerci e di questo si occupa specialmente suo fratello. Da che la Francia è chiusa per noi, il signor Roberto si è studiato di rendere più facili i trasporti con l'Oriente. Ormai il nostro vino va a Tunisi, in Egitto e nei possedimenti inglesi delle Indie. Abbiamo noleggiato vapori che fanno il servizio di quei porti, e altri che lo recano a Napoli, a Livorno, a Genova. Le spedizioni piccole si fanno per ferrovia e per risparmiare nel trasporto da qui a Castelvetrano, il signor Roberto ha già fatto fare gli studi per una ferrovia a trazione elettrica. La mattina servirebbe al trasporto degli operai fino allo stabilimento, nel giorno a quello della merce. Guardi come suo fratello pensa a tutto, - aggiunse mostrando a Franco la tappatura di una botte. - Molti negozianti che smerciano il nostro vino ne facevano venire pochi fusti di qua e poi riempivano i vuoti con altro vino di peggior qualità e lo gabellavano per nostro. Poteva nascere un discredito per noi e il Selinunte correva rischio di perdere una parte del mercato conquistato con tanta fatica. Ora sotto alla capsula che copre il tappo, si mette il bollettino di spedizione, che porta la firma del proprietario, e non è possibile togliere quello strato di piombo senza rompere il bollettino. Oh! suo fratello ha una gran testa. e degli uomini come lui ce ne vorrebbero molti in Italia. Franco sorrideva con quel sorriso che pareva una smorfia, ma dentro di se fremeva di rabbia. Perché, perché mai tutto doveva riuscire a Roberto e a lui nulla? In quel momento sentì suonare una campana e vide tutti gli operai abbandonare il lavoro e correre alle fontane del cortile a lavarsi le mani e la faccia e poi dirigersi in fila di quattro verso la porta d'uscita, di fronte al mare. Dove vanno? - domandò Franco. Vanno a desinare. Venga ad assistere al loro pasto. Franco uscì pure e seguì il Varvaro verso una tettoia addossata all'ultimo magazzino di sinistra, ma quando fu a poca distanza ristette colpito di meraviglia. Gli operai in numero di circa trecento, erano seduti davanti a tre lunghissime tavole di pietra. In fondo vi era la cucina di ferro e diverse donne erano intente a colmare di maccheroni un numero grandissimo di scodelle di maiolica, mentre altre tagliavano pezzi di carne lessa e ne mettevano due fette in ciascun piatto ove già era stato posto un contorno di sedani. Le scodelle, a mano a mano che erano ricolme, venivano collocate sopra enormi vassoi di legno bianco, che due donne giravano intorno alle tavole. Ogni operaio aveva dinanzi a se un mezzo litro di vino e due pagnottelle di pan bianco. Quando la pasta era già stata servita, giunse Velleda insieme con Maria. Gli operai si alzarono rispettosamente. Non credevo d'incontrarla qui, - disse Franco alla signora. Il signor Varvaro dunque non disimpegna bene il suo ufficio di cicerone, - rispose ella in tono scherzevole, - altrimenti le avrebbe detto che vengo qui ogni giorno ad assaggiar le pietanze e che ho assuefatto anche Maria a questa ispezione quotidiana, che si estende pure agli utensili di cucina. Voglio esser sicura che i nostri buoni lavoranti mangino roba fresca e sana, cucinata in recipienti puliti. Infatti Velleda e Maria si scostarono da Franco e andarono verso i fornelli, ove furono presentati loro due piatti con un poco di pasta, un pezzetto di carne col contorno. Franco andò incontro a Velleda domandandole: - - Mi dica, signora, è anche questa una creazione di Roberto? No, le cucine sono opera mia. Quando giunsi rimasi dolorosamente colpita vedendo che nell'ore del riposo gli operai mangiavano pane e ulive, pane e sedani, e spesso il loro companatico consisteva in un paio di arance. Allora pensai che la cucina economica sarebbe stata per loro una benedizione, e tanto dissi e tanto feci, che indussi il signor Roberto a costruire questa tettoia e a comprare la cucina economica che è là. Ma era fatto il meno; occorreva avere le derrate a un prezzo discreto. Al vino ci pensa il signor Roberto, per il pane creai un piccolo forno, gli erbaggi crescono in abbondanza negli orti dipendenti dallo stabilimento, il pesce si pesca ogni giorno qui all'amo sulla gettata o con le barche; per la carne e per il resto feci appalti con i fornitori di Castelvetrano. Da principio pochi erano gli operai che volevano pagare trenta centesimi il giorno per il desinare e i più preferivano mangiar poco e male. Ma con l'andar del tempo, tutti si sono convinti che il cibo è buono e non vi è un operaio che non venga qui a mangiare. Anzi, ora ci vengono pure quelli degli scavi, così abbiamo circa trecentoventi bocche da sfamare tutti i giorni con meno di cento lire. Ma si arriva in fondo all' anno facendo qualche economia, che servirà a dotare le figliole degli operai. Questa festa è fissata all' anniversario della fondazione dello stabilimento ed ella vedrà allora suo fratello sotto un aspetto nuovo; quello di educatore di questi uomini, educatore morale e civile. Franco si morse le labbra. Era un tormento continuo cui lo sottoponevano cantando sempre le lodi di quel fortunato. Velleda, almeno, avrebbe potuto risparmiargli quella continua umiliazione! La signora non badava al dispetto del duca; ella era andata a guardare i recipienti di cucina e poi, china sopra una piccola tavola, scriveva la lista del desinare per il giorno seguente e firmava i buoni per i fornitori. Quando ebbe terminata questa occupazione, prese Maria per la mano e la fece salire su una sedia, in testa alla tavola centrale. Gli operai, intanto, avevano terminato di mangiare e vedendo la bimba ritta, si alzarono pure. Ella, con la sua vocina chiara, disse: Fratelli nel Signore. Io v'invito a ringraziare Iddio del cibo che vi ha concesso. Uno degli operai, un vecchio con la barba bianca, intonò il "Paternostro" e tutti gli altri gli fecero coro; tenendo la testa china. Signore, riprese la bimba allorché l'ultima voce ebbe pronunziato: " Amen " - benedite questi lavoratori nel loro lavoro, confortateli nelle loro pene e infondete nei loro cuori la speranza in una vita migliore che li aiuti a sopportare le traversie. Maria tacque e lo stesso operaio con la barba bianca, che aveva recitato il " Paternostro ", il vecchio Federigo, disse: Signore, benedite questa terra, benedite il nostro Re e tutta la casa Reale, illuminate i ministri che ci governano, benedite il nostro padrone che ci da lavoro e tutta la sua famiglia, e proteggete dai mali pensieri tutti noi. " Amen " - risposero gli operai e lentamente uscirono dalla tettoia seri e composti. Franco era stato colpito dalla solennità di quella semplice cerimonia e non sapeva più in che mondo fosse. Le questioni sociali, gli odii di classe gli tornavano alla mente e domandava a se stesso con qual mezzo suo fratello era riuscito a mettere in tacere le une, a far sparire gli altri, a stabilire un legame d'affetto fra lavoratori e proprietario. Velleda leggeva in volto a Franco questi pensieri e invitandolo a seguirla alla villa per la colazione, gli disse: Suo fratello è giunto al risultato di cui è stato spettatore con la giustizia e l'affetto. Questi popolani, mal guidati, sono capaci di tutte le aberrazioni: oppressi, si ribellano atrocemente, ma, come tutti i popoli primitivi, hanno il sentimento della giustizia e della riconoscenza e a quello ubbidiscono. Non creda che siano tutti santi; undici di essi hanno scontato in galera delitti di sangue, trentadue sono ammoniti, quaranta sono ascritti a circoli socialisti: ma qui nessuno osa dire una parola. In passato accadevano ogni momento furti, eppure gli operai erano frugati all' uscire dallo stabilimento. fiancavano utensili, fusti di vino, ogni cosa. Un giorno il signor Roberto li riunì nel cortile e disse loro: " Non vi chiedo di rivelarmi il nome dei ladri, perché la delazione fra compagni è una viltà; vi chiedo soltanto di indurre i colpevoli a desistere dal furto. Se continuassere, saprei scoprirli, ma non voglio, perché mi ripugna fissar gli occhi in faccia a un ladro. Da oggi abolisco la visita alla porta, ma vi prometto che non userò più nessuna indulgenza verso i delinquenti. Vuoi credere, continuò Velleda, - che non è più mancato un chiodo, nulla? Il signor Roberto conosce la via del cuore di questi uomini e li commuove. Essi sanno del resto che nel momento del bisogno possono ricorrere a lui. Se un operaio si ammala, - e la malaria infierisce qui per più mesi, - ha il salario, medico, medicine, carne e vino; se muore, la famiglia non trema. È vero che il guadagno che da lo stabilimento è assorbito in parte da queste piccole elargizioni, ma suo fratello ha la soddisfazione di veder che trecento famiglie vivono bene, mercé la sua attività, ed è questa una gioia che non ha eguale nella vita. Ella ammira molto mio fratello? - domandò Franco a denti stretti. Lo ammiro come l'ideale fatto realtà, come si ammira l'uomo che ha un cuore capace di sentire tutti i dolori altrui e d'indovinare tutte le aspirazioni. Nessuna creatura ha mai mangiato il pane di un altro con maggior devota riconoscenza; se io credessi che la mia vita potesse essergli utile, gliela darei con la serenità di una martire, benedicendolo per il dono che si degnerebbe accettare da me. Com'è innamorata di Roberto! - pensò Franco, e come si vanta di quest'amore! Parlando erano giunti alla villa. Nel viale dei palmizi li attendeva il sotto direttore degli scavi, il Lo Carmine, che Velleda aveva invitato a colazione e che presentò subito a Franco. Era un ometto piccolo, brutto, col naso butterato e vestito semplicemente di tela; aveva in testa uno di quei caschi di paglia, coperti di tela, che usano gl'inglesi nelle Indie e i viaggiatori africani. Egli goffamente offrì il braccio a Velleda, con la quale pareva in grande dimestichezza e Franco rimasto a dietro con Maria non potè trattenersi dal dire: Come è buffo quel vostro amico! Ti pare, zio Franco? Io non me n'ero mai accorta, è tanto buono e vuol tanto bene al babbo. La signora Velleda non ti ha mai fatto osservare che era un uomo buffo, volgare, impresentabile? No, Leda mi dice che ha un carattere onesto, che è molto studioso e molto dotto, ma della sua apparenza non abbiamo mai parlato. Dunque è buffo, e in cosa consiste questa sua ridicolaggine, zio Franco? Nel modo di camminare, di salutare, di vestirsi; ti pare che somigli a tuo padre o a me? No, - rispose la bambina. - E ora che me lo fai osservare, par buffo anche a me; mi dispiace perché gli voglio bene. La colazione era preparata nella stessa sala ove avevano pranzato la sera prima. Le grandi finestre erano chiuse a motivo dello scirocco e in questa stanza protetta dalle piante e rivestita di maiolica, regnava un fresco delizioso, mentre fuori l'afa era opprimente. Franco respirò e prese il posto assegnatogli da Velleda, fra questa e Maria, che egli si divertiva a trattar da signora facendola ridere. La conversazione si aggirava sugli scavi intrapresi nell'antica cittadella di Selinunte e ai quali lavoravano in quel tempo appunto. Il Lo Carmine, che era leggermente balbuziente, nel parlare di una cosa che stavagli tanto a cuore, faceva sentir maggiormente quel difetto di pronunzia e non riuscendo a pronunziare le parole speditamente, s'inquietava e diventava rosso. A un certo momento, in cui il professore non riusciva a dire che in quella mattina appunto aveva scoperto il cardine della porta della cittadella che metteva al mare, Franco guardò Maria, e la bimba si mise a ridere. Velleda aveva capito tutto; con una occhiata la richiamò al dovere e poi continuò la conversazione, alla quale Franco restava indifferente. Però accorgendosi che Velleda se ne affliggeva per il buon professore, si rivolse a Lo Carmine, e gli disse bonariamente : Io, caro professore, sono un grande ignorante e le chiedo scusa di non averle prestato tutta quella attenzione che meritava. Giungo da una terra classica per eccellenza, ma noi, romani moderni, del classicismo ci occupiamo poco e non guardiamo neppure i ruderi che attestano il grande passato della nostra città. Qui è peggio ancora; vedo colonne abbattute, sento parlare di scavi, di acropoli e di cittadelle, ma non so neppure che cosa fosse Selinunte in antico; vuole farsi mio maestro e mia guida attraverso l'antica città? Quando mi avrà istruito un poco, le prometto che non sarò più distratto come dianzi. Il duca aveva posto tanta grazia signorile nel confessare la propria ignoranza, che il professore ne rimase soggiogato e si affrettò a mettersi a disposizione del giovane. La prima visita ai templi fu fissata per la mattina dopo alle sette, poiché il sole era troppo caldo nelle ore successive. Zio Franco, - disse Maria quando si furono alzati da tavola, - perché non insegni anche tu qualcosa al professore? Che cosa potrei insegnargli? Egli è tanto dotto e io non so nulla. Insegnargli a mangiar meglio. Ah! birichina, te ne sei accorta anche tu della sua goffaggine. Oggi per la prima volta, zio; prima no. Come mai ridevi a tavola? - domandò Velleda alla piccina quando furono sole. Non lo so, - rispose arrossendo Maria. Vedrai che se ci pensi, te ne rammenterai. Ah! si; ridevo perché lo zio mi aveva guardato. Ridevi di lui? No; sai il Lo Carmine balbettava, e io non potevo star seria. Ma ha sempre balbettato e tu non hai mai riso ; mi dispiace veder mettere in ridicolo una persona per bene; tuo padre sarebbe dispiacentissimo se lo sapesse. Leda, non glielo scrivere, non lo farò più. Lo zio Franco mi aveva fatto osservare che il Lo Carmine era tanto buffo e quando l'ho visto arrossire, ho riso. Quella influenza malsana, che Roberto temeva per Maria, ecco che già manifestavasi. Oh quel Franco! Bisognava tenerlo lontano, assolutamente lontano, se no avrebbe avvezzata falsa la piccina; avrebbe disseccato in lei ogni sentimento di generosità, sviluppando gl'istinti malvagi che sono allo stato latente nel cuore di ogni bimbo. Toccava a Velleda a difenderla, quella piccina; toccava a lei; ma come fare? In preda a questi pensieri ella rimase triste tutto il giorno e non ebbe la forza di scrivere a Roberto una lettera serena. Aveva il presentimento che la presenza di Franco sarebbe stata fatale a tutti e non voleva che la penna la tradisse. Per questo annunziò con un telegramma l'arrivo di Franco e spedì la lettera tedesca di Maria, senza farvi nessuna postilla, riserbandosi a scrivere il giorno seguente.

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